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Leopardi
Zibaldone di pensieri
L’Autore
Giacomo Leopardi nacque a Recanati il 29 giugno 1798, primogenito
della più illustre casata del piccolo centro marchigiano. Il padre, austero
e politicamente reazionario, fu, insieme con i precettori ecclesiastici, il
suo primo insegnante.
Ma l’ingegno precocissimo del giovane Giacomo e la sua estrema
sensibilità, frustrati dalla freddezza parentale, lo indussero ben presto a
riversare tutta la sua passione sui libri della biblioteca paterna (sette anni
di studio "matto e disperatissimo") e ne fecero un fenomenale
autodidatta, esperto in lingue classiche, ebraico, lingue moderne, storia,
filosofia e filologia (nonché scienze naturali e astronomia).
Divenne saggista e traduttore, specialmente di classici. Del 1816 fu il
suo passaggio ’dall’erudizione al bello’, ossia dallo studio alla
produzione poetica, e nello stesso anno è da datare la sua missiva alla
’Biblioteca Italiana’, con la quale il Leopardi difendeva le posizioni dei
classicisti in risposta alla de Stäel. L’anno dopo avviò una fitta
corrispondenza con Pietro Giordani ed iniziò la stesura dello Zibaldone;
sempre in questo periodo si innamorò di Geltrude Cassi, alla quale
dedicò la poesia Il primo amore.
Il suo corpo, ormai minato dai molti anni di studio e di semi-
volontaria reclusione, aveva già cominciato a mostrare i segni di quella
deformazione alla colonna vertebrale che farà così soffrire il poeta, anche
se la malattia, per il Leopardi, non rimase mai un motivo di lamento
individuale ma si trasformò in uno straordinario mezzo di conoscenza.
Del ’18 sono le canzoni All’Italia e Sopra il monumento di Dante, nonché lo
scritto Discorso di un italiano intorno alla poesia romantica.
L’anno seguente, il 1819, segnò un periodo di profonda crisi per il
poeta: esasperato dall’ambiente familiare e dalla chiusura, soprattutto
culturale, delle Marche, governate dal retrivo Stato Pontificio, il Leopardi
tentò di fuggire da casa, ma il progetto venne sventato dal padre. A
questo stesso periodo appartengono la composizione degli idilli
L’infinito, Alla luna ed altri e la sua conversione ’dal bello al vero’, con il
conseguente intensificarsi delle sue elaborazioni filosofiche, tra cui la
teoria del piacere.
Nel 1822 il padre gli concesse un soggiorno al di fuori di Recanati e fu
così che il poeta poté andare a Roma, ospite di uno zio. La città si rivelò
estremamente deludente e, dopo aver invano tentato di trovarvi una
sistemazione, il Leopardi nel 1823 fece ritorno nelle Marche, dove iniziò a
comporre le Operette morali. Proprio le Operette segnarono la piena
formulazione del ’pessimismo storico’, che vedeva nell’uomo e nella
ragione le vere cause dell’infelicità, e del ’pessimismo cosmico’, che al
contrario accusava la Natura di essere la fonte delle sventure umane, in
quanto instilla nelle persone un continuo desiderio di felicità destinato
ad essere sistematicamente frustrato.
Nel 1825 riuscì a lasciare Recanati grazie all’avvio di una
collaborazione con l’editore Stella, che gli garantì una certa indipendenza
economica: fu a Milano, Bologna (dove conobbe il conte Carlo Pepoli e
pubblicò un’edizione di Versi), Firenze (dove incontrò il Manzoni e
scrisse altre due operette morali) e Pisa (dove compose Il Risorgimento e A
Silvia). Costretto a tornare a Recanati nel 1828, proseguì nella produzione
lirica che aveva iniziata a Pisa con l’approfondimento delle tematiche
della ’natura matrigna’ e della caduta delle illusioni.
Nel ’30 uno stipendio mensile messogli a disposizione da alcuni amici
gli permise di lasciare nuovamente Recanati e di stabilirsi a Firenze. Qui
s’innamorò di Fanny Targioni Tozzetti (la delusione scaturita dall’amore
per lei gli ispirerà il ciclo di Aspasia) e strinse amicizia col Ranieri. In
risposta a chi attribuiva alla deformità la sua concezione pessimistica
della storia e della natura, il Leopardi compose il Dialogo di Tristano e di
un amico. Del ’36 sono La Ginestra, Il tramonto della luna e probabilmente I
nuovi credenti.
Morì a Napoli il 14 giugno del 1837
Nota sullo Zibaldone
“Lo Zibaldone" è un diario personale che raccoglie una grande
quantità di appunti scritti tra il 1817 e il 1832 da Giacomo Leopardi, per
un totale di 4526 pagine. Il titolo deriva dalla caratteristica della
composizione letteraria, in quanto mistura di pensieri, come per
l’omonima vivanda emiliana che è costituita da un amalgama vario di
molti ingredienti diversi. Dopo la composizione di Leopardi il termine è
usato per annotazioni su quaderni o diari di pensieri sparsi. Dopo la
morte del poeta (nel 1837) il fascio di carte era rimasto presso l’amico
Antonio Ranieri, il quale lo tenne per oltre cinquant’anni con altri
manoscritti, lasciandolo in un baule a sua volta finito in eredità a due
donne di servizio. Dopo la morte di Ranieri e un processo per stabilirne
la proprietà, gli studiosi poterono finalmente avere accesso all’autografo
che è oggi conservato presso la Biblioteca Nazionale di Napoli.
In quest’opera c’è un continuo dialogo del poeta con se stesso: sono
pagine piene di ricordi e di poesie, in cui si parla in forma libera di
letteratura, di filosofia, di politica e di religione: i frammenti hanno la
data, quasi a tracciare lo sviluppo di quel pensiero travagliato: «In quelle
pagine la vita vissuta si spoglia delle sue apparenze materiali, si depura
in esperienza, diventa riflessione, dibattito, tentativo di filosofia»
(Momigliano). Lo "Zibaldone" contiene dunque - col disordine inevitabile
in un diario e con le incoerenze naturali in riflessioni che si svolgono in
un lungo ordinario di anni - la poetica del Leopardi e la filosofia della
sua vita; si ordina e si chiarisce come il diario contemplativo d’una
sofferenza, che tende a purificarsi e a risolversi nel canto.
Si tratta di annotazioni di varia misura e ispirazione, spesso scritte in
presa diretta e pertanto caratterizzate da un tono di provvisorietà, da uno
stile per lo più asciutto; a volte brevissime, a volte ampie e articolate per
punti. Eppure la loro importanza è fondamentale, in quanto contengono
un notevole insieme di temi e spunti che spesso costituirono ispirazione
prima per i "Canti", le "Operette morali", e, soprattutto i "Pensieri". In
qualche caso, invece, queste pagine vedono riflettersi quanto già detto
altrove, o riportano commenti su libri letti, osservazioni su incontri o
esperienze, ecc. Sono di particolare interesse le numerosissime pagine
che elaborano gli elementi essenziali della poetica e del pensiero di
Leopardi, di cui il lettore può cogliere l’intimo dinamismo e il procedere
per successivi momenti problematici. La prima pagina è infatti datata
"luglio o agosto 1817" (data ricostruita dal Leopardi successivamente alla
sua decisione di datare gli appunti da p. 100, ovvero in data 8 gennaio
1820), l’ultima "Firenze, 4 dicembre 1832". Il maggior numero di pagine
venne scritto tuttavia fra il 1817 e il 1823 per un totale di più di 4.000
pensieri elaborati. Lo studioso Claudio Colaiacomo lega il dislivello di
frequenza della scrittura ai vari viaggi e alla sedentarietà del poeta la cui
«scrittura dello Zibaldone appare legata essenzialmente ad un’immagine
dell’esistenza come claustrazione o reclusione, quale fu quella nella quale
spesso l’autore si presentò nelle sue lettere, e che al di là del suo
fondamento biografico immediato, costituisce il segno di una volontà di
integrale letterarizzazione dell’esistenza».
I temi trattati sono la religione cristiana, la natura delle cose, il
piacere, il dolore, l’orgoglio, l’immaginazione, la disperazione e il
suicidio, le illusioni della ragione, lo stato di natura del creato, la nascita
e il funzionamento del linguaggio (con anche diverse annotazioni
etimologiche), la lingua adamica e primitiva, la caduta dal paradiso, il
bene e il male, il mito, la società, la civiltà, la memoria, il caso, la poesia
ingenua e sentimentale, il rapporto tra antico e moderno, l’oralità della
cultura poetica antica, il talento, e, insomma, tutta la filosofia che sostiene
e nutre la propria poesia.
Introduzione di Giosuè Carducci
DI
GIACOMO LEOPARDI
FIRENZE
SUCCESSORI LE MONNIER
1898
Luglio o Agosto 1817
[1] Palazzo bello. Cane di notte dal casolare, al passar del viandante.
Vari rami del bello. Bello delicato - grazioso - ameno - elegante. Vedi
Martignoni ec. Annali di scienze e lettere n.8. p. 252-54. Ci può essere il
bello delicato e il non delicato. Ercole, Apollo. Bello sublime. Giove.
NATURA
Occhi azzurri belli tra’ greci: neri tra noi. Capelli biondi belli in Italia
nel 500. neri al presente. Diversissime opinioni de’ barbari intorno alla
bellezza che pur mostrano che in natura non ce n’è idea fissa. Vedi
Camper Diss. sur le beau physique. Cavalli scodati. Cani colle orecchie
tagliate. Opinione e senso de’ nostri contadini circa la bellezza, e vedi
quelle descritte nella Beca e nella Nencia non già da scherzo, ma perché
di quella sorta piacciono ai villani. Bello ideale ch’esprimerebbe per
esempio un pittore moro di qualunque genio ed entusiasmo si fosse. Il
bello ideale non è [9] altro che l’idea della convenienza che un artista si
forma secondo le opinioni e gli usi del suo tempo, e della sua nazione.
Barba, e capelli tagliati o no.
BELLE ARTI
Pittura ec. de’ cinesi. Musica de’ turchi. Vedi Martignoni Annal. di
Scienze e lett. n.8. p.245. nota ove anche della musica francese e italiana.
Presso noi non disdicono le fabbriche a mattoni nudi, anzi son ridicole
imbiancate e colorite. Il contrario de’ Cinesi ai quali le nostre facciate
parrebbero cosa affatto greggia e rozza.
I francesi hanno certe esagerazioni familiari così usitate che sono vere
frasi proprie della lingua e non di questo o di quello scrittore o parlatore;
le quali danno un’idea della sempiterna affettazione e del tuono esaltato
quando in uno quando in altro modo, con cui sono scritti si può dir tutti i
loro libri. Giammai persona non fu più fedele al suo re. Nessun altro fu sì
ricordevole del benefizio. (Aucun ne fut ec.) Non si vide mai tanto amore
nè tanta costanza. E nota che questo medesimo lo diranno a un bisogno
di due o tre persone o più in uno stesso libro. Troverai spessissimo che
parlando di qualche scrittore dozzinale ti diranno per esempio: egli ha
tutta la tenerezza di Racine e tutto lo spirito di Voltaire, egli è sublime
come Corneille e semplice come la Fontaine, egli stringe come
Bourdaloue, commuove come Massillon, trasporta come Bossuet: e ti
maraviglierai come uno scrittore in cui si trovano unite le qualità
principali di più altri (secondo loro) grandi, che ne hanno ciascheduno,
una sola, non sia più grande di questi, nè celebre presso tutta la nazione,
e forse tu ne legga il nome per la prima volta.
In molte opere di mano dove c’è qualche pericolo (o di fallare o di
rompere ec.) una delle cose più necessarie perché riescano bene è non
pensare al pericolo e portarsi con franchezza. Così i poeti antichi non
solamente non pensavano al pericolo in cui erano di [10] errare, ma
(specialmente Omero) appena sapevano che ci fosse, e però
franchissimamente si diportavano, con quella bellissima negligenza che
accusa l’opera della natura e non della fatica. Ma noi timidissimi, non
solamente sapendo che si può errare, ma avendo sempre avanti gli occhi
l’esempio di chi ha errato e di chi erra, e però pensando sempre al
pericolo (e con ragione perché vediamo il gusto corrotto del secolo che
facilissimamente ci trasporterebbe in sommi errori, osserviamo le cadute
di molti che per certa libertà di pensare e di comporre partoriscono
mostri, come sono al presente per esempio i romantici) non ci
arrischiamo di scostarci non dirò dall’esempio degli antichi e dei Classici,
che molti pur sapranno abbandonare, ma da quelle regole (ottime e
Classiche ma sempre regole) che ci siamo formate in mente, e diamo in
voli bassi, nè mai osiamo di alzarci con quella negligente e sicura e non
curante e dirò pure ignorante franchezza, che è necessaria nelle somme
opere dell’arte, onde pel timore di non fare cose pessime, non ci
attentiamo di farne delle ottime, e ne facciamo delle mediocri, non dico
già mediocri di quella mediocrità che riprende Orazio, e che in poesia è
insopportabile, ma mediocri nel genere delle buone cioè lavorate,
studiate, pulitissime, armonia espressiva, bel verso, bella lingua, Classici
ottimamente imitati, belle imagini, belle similitudini, somma proprietà di
parole, (la quale soprattutto tradisce l’arte) insomma tutto, ma che non
son quelle, non sono quelle cose secolari e mondiali, insomma non c’è più
Omero Dante l’Ariosto, insomma il Parini il Monti sono bellissimi ma
non hanno nessun difetto. Vedi p. 461.
In Plauto il sommo pregio è quello della forza comica che non è altro
se non quella certa vivacità dei personaggi ottenuta col mezzo del
ridicolo, che nel mentre che vivifica l’azione (a differenza delle
Commedie di Terenzio dove c’è gran serietà e però dice Cesare ch’egli
manca di forza Comica, a ragione, perché l’azione importando poco per
se e non avendo la importanza della tragedia, se non è continuamente
rallegrata e rinforzata dal ridicolo, resta debole, e come morta) ottiene il
fine della Commedia che è di distogliere [11] dal vizio il che
principalmente è operato dal ridicolo. Ma i costumi ἤϑη presso Plauto
sono poco insigni. Ciascuno opera è vero come dee (almeno per
l’ordinario) ma 1. tutte le fisonomie si rassomigliano: sempre appresso a
poco è lo stesso parassito, lo stesso padre, lo stesso servo traditore, lo
stesso figlio scapestrato, la stessa meretrice, ec. 2. i tratti che qualche volta
distinguono un volto dall’altro sono grossolani: per esempio questa
innamorata sarà leale, quest’altra perfida; questo padre pieghevole,
questo duro; questo figlio temperante quest’altro lussurioso, ed ecco
tutto; ec. 3. c’è qualche volta molta naturalezza ora in qualche scena
bellissima che innamora, ora in qualche Commedia intera, ma quivi le
persone dicono quello che ogni uomo in quella situazione direbbe, e
benché le parlate siano naturalissime, cavate dal vero, e ritratte con
grandissima finezza dalla natura, pure non sono modificate secondo il
carattere e il costume particolare della persona: insomma non si vede in
Plauto una figura tutta perfettamente delineata e ombreggiata, e i
costumi che egli dipinge sono del genere, per esempio del padre, o della
specie, per esempio del padre buono o del padre iracondo, e non
dell’individuo, la qual cosa osservo anche in Terenzio, il quale per altro è
molto superiore a Plauto per li costumi e la naturalezza, essendo
penetrato più addentro nel cuore umano ec. Qualche volta anche non è
conservata in Plauto la naturalezza e la verisimiglianza specialmente nel
fine delle Commedie dove talvolta i personaggi si risolvono troppo
d’improvviso e a grado del poeta, essendo stati fin allora di animo
diversissimo e anche contrarissimo a quella tale risoluzione. Ma egli pare
che Plauto talora non volendo altro che far ridere e satireggiare, della
verisimiglianza non si curasse, anzi a bello studio cercasse l’inaspettato,
non già l’inaspettato verisimile che si raccomanda in poesia, ma
l’inaspettato inverisimile e grossolano che però appunto è più ridicolo,
come nel fine delle Bacchidi dove fa innamorare all’improvviso per
istrazio quei due vecchi venuti all’opposto per bravare quelle meretrici, e
in quella scena del Canapo dove mette una tenzone di licet licet e di altre
tali risposte sempre ripetute, in un momento caldo e importante, dov’è
impossibile che i personaggi badassero a questi giuochi.
[12] L’arte di Ovidio di metter le cose sotto gli occhi, non si chiama
efficacia, ma pertinacia. ec.
I francesi colla loro pronunzia tolgono a infinite parole che han prese
dai latini italiani ec. quel suono espressivo che aveano in origine, e che è
uno dei più grandi pregi nelle lingue ec. ec. Per esempio nausea in latino
e in italiano con quell’au e con quel’ea imita a maraviglia quel gesto che
l’uomo fa e quella voce che manda scontorcendo la bocca e il naso
quando è stomacato. Ma nosé non imita niente, ed è come quelle cose che
spogliate degli spiriti e dei sali, umori, grasso ec. restano tanti capomorti.
(capogatti ec. non capigatti) Vedi questi pensieri p. 95.
Un’osservazione importantissima intorno alle traduzioni, e che non
so se altri abbia fatta, e di cui non ho in mente alcuno che abbia
profittato, è questa. Molte volte noi troviamo nell’autore che traduciamo
per esempio greco, un composto una parola che ci pare ardita, e nel
renderla ci studiamo di trovargliene una che equivalga, e fatto questo
siamo contenti. Ma spessissimo quel tal composto o parola comeché sia,
non solamente era ardita, ma l’autore la formava allora a bella posta, e
però nei lettori greci faceva quell’impressione e risaltava nello scritto
come fanno le parole nuove di zecca, e come in noi italiani fanno quelle
tante parole dell’Alfieri per esempio spiemontizzare ec. ec. Onde tu che
traduci, posto ancora che abbi trovato una parola corrispondentissima
proprissima equivalentissima, tuttavia non hai fatto niente se questa
parola non è nuova e non fa in noi quell’impressione che facea ne’ greci.
E qui è così comune l’inavvertenza che nulla più. Perché se traducendo
trovi quella parola e non l’intendi, tu cerchi ne’ Dizionari, e per esser
quella, parola di un classico, tu ce la trovi colla spiegazione in parole
ordinarie, e con parole ordinarie la rendi e non guardi, prima se
quell’autore che traduci è il solo che l’abbia usata; secondo se è il primo;
perché potrebbe anche dopo lui esser passata in uso e nondimeno non
essere stato meno ardito nè nuovo nè esprimente il suo primo usarla.
Ecco un esempio. Luciano ne’ Dialoghi de’ morti; Ercole e Diogene; usa la
parola ἄντανδρον. Cerca ne’ Lessici: spiegano: succedaneus ec. ma se tu
volti: sostituto, o che so io, non arrivi per niente all’efficacia burlesca e
satirica di quella nuova parola di Luciano che vuol dire: contrappersona, e
colla sua novità ha una vaghezza e una forza particolare specialmente di
deridere. (N.B. io non so se questa voce di Luciano sia di lui solo: la trovo
ne’ Dizionari senza esempio, onde potrebbe anche esser propria della
lingua: e bisogna cercare migliori dizionari che io per ora non ho; perché
cadrebbe a terra quest’esempio, per altro sufficiente a dare ad intendere,
vero o no che sia, la mia proposizione e osservazione.) Quello che io ho
detto delle parole va inteso anche dei modi frasi, ec. ec. ec.
[13] Non credo che siano molto da ascoltare quelli che credono che
certi passi sublimi della Bibbia avanzino ogni altro passo sublime di
qualsivoglia autore; e lo provano colla grandezza materiale dell’imagine;
per esempio dicono, il misurare le acque colla mano e pesare i cieli colla
palma, (Is. 40. 12.) è ben più che scagliar la folgore dall’alto di Ato e di
Rodope e riempier di spavento i cuori de’ mortali, crollar l’Olimpo
coll’accennar del Capo, ec. ec. Senza dubbio non si può dir niente di Dio
che non sia infinitamente al di sotto del vero, e però la Bibbia (e la Bibbia
molto meno che qualunque altro) non dice mai cosa che appetto al vero
non sia strapiccolissima, e pure io ardirò di affermare che quelle tali
espressioni della Bibbia, nella poesia umana sono esagerazioni, e che in
essa poesia vale assolutamente più in rigore di pregio poetico, quel Giove
accennante col capo e scuotente l’Olimpo; quel Nettuno che in quattro
passi traversa provincie; quel grido di Marte ferito che pareggia il grido
di diecimila combattenti e d’improvviso atterrisce ambedue gli eserciti,
Greco e troiano; (Il. 5) quella caduta dello stesso Dio che disteso occupa
sette iugeri di terreno; (Il. 21. 407.) di quelle tante imagini sublimissime
della Bibbia, perché nella poesia umana ci vuole il mezzo dappertutto, il
mezzo, che è il gran luogo di verità e di natura, e che nè anche col vero si
dee oltrepassare: e il sublime dee scuotere fortemente il lettore, ma non
subbissarlo con cose che oltrepassino la capacità nostra. E questo della
poesia umana. Ma la poesia divina come la Scrittura, dee veramente
subbissare e oltrepassare la capacità umana, e però quelle imagini
(essendo poi per se stesse lontanissime dall’essere esagerate) convengono
ottimamente a questa sorta di poesia tutta essenzialissimamente diversa
dalla nostra; e però da noi non imitanda senza colpa poetica. Del resto, io
dico bene che quelle imagini convengono a quella poesia, ma non già
credo come dicono alcuni, che esse più tosto che al gusto orientale, si
debbano al più vivamente sentire la maestà divina che faceano i lirici
Ebrei: (Borgno Diss. sopra i Sepolcri del Foscolo Milano 1813. p. 86. nota 1.)
che per esser subito persuasi del contrario basta osservare i luoghi della
Bibbia dove non si parla di Dio nè di cose affatto sublimi, come per
esempio tutta la Cantica dove anzi si parla di amore e cose delicate, e
pure vi si vedono le stesse metaforone e traslatoni e cose eccessive: però
veramente e assolutamente derivate dal gusto orientale, a cui tuttavia
non negherò che l’ispirazione così poetica come divina non accrescesse
forza quanto alle imagini e frasi dette di sopra ec.
L’efficacia dell’espressioni bene spesso è il medesimo che la novità.
Accadrà molte volte che l’espressione usitata sia più robusta più vera più
energica, e nondimeno l’esser ella usitata le tolga la forza e la snervi; e il
poeta sostituendo in suo luogo un’altra espressione men robusta, forse
anche men propria ma nuova, otterrà un buon effetto sulla fantasia del
lettore, ci sveglierà quell’immagine che l’altra espressione non avrebbe
potuto eccitare; e la sua frase sarà veramente più efficace, non per se
stessa, ma per la circostanza dell’esser nuova.
Nelle poesie del Monti (specialmente nelle Cantiche) sono osservabili
la [14] bellezza novità efficacia delle imagini, particolarmente sublimi,
ma anche di ogni altro genere, la mollezza e dirò così sveltezza, agilità,
disinvoltura dell’espressione; la gran felicità nell’esprimere cose e
imagini difficilissime, la disinvolta e spedita nobiltà dello stile, e quella
data colla scelta e collocamento delle parole (o coll’uno o l’altra
separatamente) a cose e imagini per se stesse ignobili o quasi; la
sublimità e grandezza delle imaginazioni fantastiche, la grazia e forza del
dipingere, la facilità e felicità di certe rime disparatissime, come di
qualche nome proprio, lontanissimo dell’argomento, condottovi con
mirabile franchezza e disinvoltura, (nella qual facilità ebbe il Monti gran
precursore, oltre a Dante il Menzini nelle Satire) l’efficacia di molte
espressioni acquistata colla novità ec. ec. le quali cose tutte fanno uno
stile suo proprio, elegante, (la quale eleganza, la qual nobiltà ec. è anche
molto spesso acquistata con acconce parole latine destrissimamente,
disinvoltamente, e morbidamente insinuate nella composizione) efficace,
nobile, proprio, e un genere di poesia che si può dire originale, avendo
molte tinte che non si vedono in quello di Dante sempre più feroce, e
quanto allo stile, di raro così molle e pieghevole e armonioso e disinvolto
e grazioso e anche delicato ec. ec. la sicurezza e franchezza del tocco sia
quanto all’espressione sia quanto al concetto alle immagini ec.
Gran verità, ma bisogna ponderarle bene. La ragione è nemica d’ogni
grandezza: la ragione è nemica della natura: la natura è grande, la
ragione è piccola. Voglio dire che un uomo tanto meno o tanto più
difficilmente sarà grande quanto più sarà dominato dalla ragione: che
pochi possono esser grandi (e nelle arti e nella poesia forse nessuno) se
non sono dominati dalle illusioni. Queste viene che quelle cose che noi
chiamiamo grandi per es. un’impresa, d’ordinario sono fuori dell’ordine,
e consistono in un certo disordine: ora questo disordine è condannato
dalla ragione. Esempio: l’impresa d’Alessandro: tutta illusione. Lo
straordinario ci par grande: se sia poi più grande dell’ordinario
astrattamente parlando, non lo so: forse anche qualche volta sarà più
piccolo assai in riga astratta, e quest’uomo strano e celebre messo a tutto
rigore a confronto con un altro ordinario ed oscuro si troverà minore:
nondimeno perché è straordinario si chiama grande: anche la piccolezza
quando è straordinaria si crede e si chiama grandezza. Tutto questo la
ragione non lo comporta: e noi siamo nel secolo della ragione: (non per
altro se non perché il mondo più vecchio ha più sperienza e freddezza) e
pochi ora possono essere e sono gli uomini grandi, segnatamente nelle
arti. Anche chi è veramente grande, sa pesare adesso e conoscere la sua
grandezza, sa sviscerare a sangue freddo il suo carattere, esaminare il
merito delle sue azioni, pronosticare sopra di se, scrivere minutamente
colle più argute e profonde riflessioni la sua vita: nemici grandissimi,
ostacoli terribili alla grandezza: che anche l’illusioni ora si conoscono
chiarissimamente esser tali, e si fomentano con una certa [15]
compiacenza di se stesse, sapendo però benissimo quello che sono. Ora
come è possibile che sieno durevoli e forti quanto basta, essendo così
scoperte? e che muovano a grandi cose? e senza le illusioni qual
grandezza ci può essere o sperarsi? (Un esempio di quando la ragione è
in contrasto colla natura. Questo malato è assolutamente sfidato e morrà
di certo fra pochi giorni. I suoi parenti per alimentarlo come richiede la
malattia in questi giorni, si scomoderanno realmente nelle sostanze: essi
ne soffriranno danno vero anche dopo morto il malato: e il malato non ne
avrà nessun vantaggio e forse anche danno perché soffrirà più tempo.
Che cosa dice la nuda e secca ragione? Sei un pazzo se l’alimenti. Che
cosa dice la natura? Sei un barbaro e uno scellerato se per alimentarlo
non fai e non soffri il possibile. È da notare che la religione si mette dalla
parte della natura.) La natura dunque è quella che spinge i grandi uomini
alle grandi azioni. Ma la ragione li ritira: e però la ragione è nemica della
natura; e la natura è grande, e la ragione è piccola. Altra prova che la
ragione è spesso nemica della natura, si cava dall’utilità (così per la salute
come per tutto il resto) della fatica a cui la natura ripugna e così dalla
ripugnanza della natura a cento altre cose o necessarie o utilissime e però
consigliate dalla ragione, e per lo contrario dall’inclinazione della natura
a moltissime altre o dannose o inutili o proibite, illecite, e condannate
dalla ragione: e la natura spesso tende con questi appetiti a danneggiare
e a distrugger se stessa.
Finisco in questo punto di leggere nello Spettatore n.91. le Osservaz. di
Lod. di Breme sopra la poesia moderna o romantica che la vogliamo
chiamare, e perché ci ho veduto una serie di ragionamenti che può
imbrogliare e inquietare, e io per mia natura non sono lontano dal
dubbio anche sopra le cose credute indubitabili, però avendo nella mente
le risposte che a quei ragionamenti si possono e debbono fare, per mia
quiete le scrivo. Vuole lo scrittore (come tutti i romantici) che la poesia
moderna sia fondata sull’ideale che egli chiama patetico e più
comunemente si dice sentimentale, e distingue con ragione il patetico dal
malinconico, essendo il patetico, com’egli dice, quella profondità di
sentimento che si prova dai cuori sensitivi, col mezzo dell’impressione
che fa sui sensi qualche cosa della natura, per esempio la campana del
luogo natio, (così dic’egli) e io aggiungo la vista di una campagna, di una
torre diroccata ec. ec. Questa è insomma la differenza che egli vuol che
sia tra la poesia moderna e l’antica, ché gli antichi non provavano questi
sentimenti, o molto meno di noi; onde noi secondo lui siamo in questo
superiori agli antichi, e siccome in questo, secondo lui consiste veramente
la poesia, però noi siamo più poeti infinitamente che gli antichi. (E questa
è la poesia dello Chateaubriand del Delille del Saint-Pierre ec. ec. per non
parlare dei romantici, che forse anche in qualche cosa differiscono ec. E
questo patetico è quello che i francesi chiamano sensibilité e noi
potremmo chiamare sensitività.) Or dunque bisogna eccitare questo
patetico, questa profondità di sentimento nei cuori: e qui, com’è naturale,
consisterà la somma arte del poeta. E qui è dove il Breme e tutti quanti i
romantici e i Chateaubriandisti ec. ec. scappano di strada. Che cosa è che
eccita questi sentimenti negli uomini? La natura, purissima, tal qual’è, tal
quale la vedevano gli antichi: le circostanze, naturali, non proccurate
mica a bella posta, ma venute spontaneamente: quell’albero,
quell’uccello, quel canto, quell’edifizio, quella selva, quel monte, [16]
tutto da per se, senz’artifizio, e senza che questo monte sappia in
nessunissimo modo di dover eccitare questi sentimenti, nè ch’altri ci
aggiunga perché li possa eccitare, nessun’arte ec. ec. In somma questi
oggetti, insomma la natura da per se e per propria forza insita in lei, e
non tolta in prestito da nessuna cosa, sveglia questi sentimenti. Ora che
faceano gli antichi? dipingevano così semplicissimamente la natura, e
quegli oggetti e quelle circostanze che svegliano per propria forza questi
sentimenti, e li sapevano dipingere e imitare in maniera che noi li
vediamo questi stessi oggetti nei versi loro, cioè ci pare di vederli, per
quanto è possibile, quali sono in natura, e perché in natura ci destano
quei sentimenti, anche dipinti e imitati con tanta perfezione ce li destano
egualmente, tanto più che il poeta ha scelti gli oggetti, gli ha posti nel
loro vero lume, e coll’arte sua ci ha preparati a riceverne
quell’impressione, doveché in natura, e gli oggetti di qualunque specie
sono confusi insieme, e in vederli spessissimo non ci si bada, (qui cade la
gran facoltà delle arti imitative di fare per lo straordinario modo in cui
presentano gli oggetti comuni, vale a dire così imitati, che si considerino
nella poesia, doveché nella realtà non si consideravano, e se ne traggano
quelle riflessioni ec. ec. che nella realtà per esser comuni non
somministravano ec. ec. come il Gravina nella Ragion Poetica) e bisogna
poi perché producano quei tali sentimenti andarli a prendere pel loro
verso: ed ecco ottenuto dagli antichi il grand’effetto, che domandano i
romantici, ed ottenuto in modo che ci rapiscono e ci sublimano e
c’immergono in un mare di dolcezza, e tutte le età e tutti i secoli, e tutti i
grandi uomini e poeti che son venuti dopo di loro, ne sono testimoni. Ma
che? quando questi poeti, imitavano così la natura, e preparavano questa
piena di sentimenti ai lettori, essi stessi o non la provavano, o non
dicevano di provarla; semplicissimamente, come pastorelli, descrivevano
quel che vedevano, e non ci aggiugnevano niente del loro; ecco il gran
peccato della poesia antica, per cui, non è più poesia, e i moderni vincono
a cento doppi gli antichi ec. ec. E non si avvedono i romantici, che se
questi sentimenti son prodotti dalla nuda natura, per destarli bisogna
imitare la nuda natura, e quei semplici e innocenti oggetti, che per loro
propria forza, inconsapevoli producono nel nostro animo quegli effetti,
bisogna trasportarli come sono nè più nè meno nella poesia, e che così
bene e divinamente imitati, aggiuntaci la maraviglia e l’attenzione alle
minute parti loro che nella realtà non si notavano, e nella imitazione si
notano, è forza che destino in noi questi stessissimi sentimenti che
costoro vanno cercando, questi sentimenti che costoro non ci sanno di
grandissima lunga destare; e che il poeta quanto più parla in persona
propria e quanto più aggiunge di suo, tanto meno imita, (cosa già notata
da Aristotele, al quale volendo o non volendo senz’avvedersene si
ritorna) e che il sentimentale non è prodotto dal sentimentale, ma dalla
natura, qual ella è, e la natura qual ella è bisogna imitare, ed hanno
imitata gli antichi, onde una similitudine d’Omero semplicissima senza
spasimi e senza svenimenti, e un’ode d’Anacreonte, vi destano una folla
di fantasie, e vi riempiono la mente e il cuore senza paragone più che
cento mila versi sentimentali; perché quivi parla la natura, e qui parla il
poeta: e non si [17] avvedono che appunto questo grand’ideale dei tempi
nostri, questo conoscere così intimamente il cuor nostro, questo
analizzarne, prevederne, distinguerne ad uno ad uno tutti i più minuti
affetti, quest’arte insomma psicologica, distrugge l’illusione senza cui
non ci sarà poesia in sempiterno, distrugge la grandezza dell’animo e
delle azioni; (vedi quel che ho detto in altro pensiero) e che mentre
l’uomo (preso in grande) si allontana da quella puerizia, in cui tutto è
singolare e maraviglioso, in cui l’immaginazione par che non abbia
confini, da quella puerizia che così era propria del mondo a tempo degli
antichi, come è propria di ciascun uomo al suo tempo, perde la capacità
di esser sedotto, diventa artificioso e malizioso, non sa più palpitare per
una cosa che conosce vana, cade tra le branche della ragione, e se anche
palpita (perché il cuor nostro non è cangiato ma la mente sola), questa
benedetta mente gli va a ricercare tutti i secreti di questo palpito, e
svanisce ogn’ispirazione, svanisce ogni poesia; e non si avvedono che s’è
perduto il linguaggio della natura, e che questo sentimentale non è altro
che l’invecchiamento dell’animo nostro, e non ci permette più di parlare
se non con arte, e che quella santa semplicità, che dalla natura non può
sparire perché la natura coll’uomo non invecchia, e la qual sola ci può
destare quei veri e dolci sentimenti che andiamo cercando, non è più
propria di noi come era propria degli antichi, e che però per parlare come
questa semplicità parla, e come insegna la natura, e destare quei
sentimenti che la sola natura può destare, è forza in questo tristissimo
secolo di ragione e di lume, che fuggiamo da noi stessi, e vediamo come
parlavano gli antichi che erano ancora fanciulli, e con occhi non maliziosi
nè curiosacci ma ingenui e purissimi vedevano la santa natura e la
dipingevano: e insomma non si avvedono che essi amici della natura
sola, vengono in effetto a predicar l’arte, e noi amici dell’arte veniamo
verissimamente a predicar la natura. Qui cadrebbe in acconcio il
discorrere dell’affettazione che è il vizio generale nelle arti belle e
abbraccia quasi tutti i vizi, e come il sentimentale sia facilissimamente
pura affettazione, e come spessissimo invece di destare quei sentimenti
che vorrebbe, gli spenga, quando forse quel tale oggetto naturale o
veduto o descritto li veniva destando, e come questi sentimenti sieno
d’infinita verecondia ec. ec. Ma quel ridurre che fa il Breme la poesia
moderna al solo patetico (distinguetelo pur quanto volete dal
malinconico come di sopra ho detto), quasi che il sublime, l’impetuoso,
l’esultante, il giubilante (so bene che anche la gioja può esser patetica, ma
non nei casi ch’io dico) il grazioso disinvolto e insomma quasi tutta la
poesia degli antichi, l’epopea, la lirica quando non è sentimentale, i
cantici di trionfo, le descrizioni delle battaglie, i salmi di Davidde le odi
di Anacreonte ec. ec. ec. non fosse poesia, o almeno ai moderni non
paresse più tale, o almeno (non si sa poi perché, quando non si
ammettano le due cose precedenti) dai moderni non dovesse più esser
coltivata; come non deve parere una pazzia difficile a credere che sia
caduta in testa d’un uomo savio? Dunque Virgilio non è poeta altro che
nel quarto dell’Eneide, e nell’episodio di Niso ed Eurialo, e che so io?
dunque [18] non ci sarà più altro che un solo genere di poesia? e in uno
stesso componimento non si dovrà più tenere altro che un tuono solo? (E
dopo tutto questo ci rinfacciano la monotonia delle favole antiche.) Ma
che? abbiamo mutato natura affatto? non c’è più gioia se non mezzo
malinconica, non c’è più ira, non c’è più grandezza e altezza di pensieri,
senza quel condimento di patetico ec. ec.? (E se la poesia è arte imitativa
e il suo fine è il dilettare, nè deve imitare una cosa sola, nè una sola cosa
diletta ec. E in genere non pare che il Breme faccia gran caso della natura
e del fine della poesia che consiste in dilettare col mezzo della maraviglia
prodotta dall’imitazione ec.) Ma queste son follie, di cui è soverchio
parlare. A tener dietro con diligenza ai ragionamenti del Breme ci si
scopre una contraddizione nascosta, ma realissima e fondamentale così
del suo sistema come del romantico. Da principio dice che gli antichi
credevano tutto e si persuadevano di mille pazzie, che l’ignoranza il
timore i pregiudizi e somministravano allora gran materia alla loro
poesia, e non possono più somministrarne ai tempi nostri; insomma
evidentemente par che venga a conchiudere, che la poesia nostra bisogna
che sia ragionevole, e in proporzione coi lumi dell’età nostra, e in fatti
dice che ce la debbono somministrare la religione, la filosofia, le leggi di
società ec. ec. E così dicono i romantici. Ma se così è, ecco l’illusione
sparita, e se il poeta non può illudere non è più poeta, e una poesia
ragionevole, è lo stesso che dire una bestia ragionevole ec. ec. E i
romantici, non che facciano la poesia ragionevole, vanno in cerca di mille
superstizioni e delle più pazze cose che si possano mai pensare: il Breme
poi dice che l’immaginazione anche al presente ha la sua piena forza, e
desidera di essere invasa rapita ec. e ANCHE sedotta (qui vi voleva) purché
non da cose AL TUTTO arbitrarie nè lontane da quel Vero ec. In queste parole
e specialmente in quell’anche e in quell’al tutto, mi par di scorgere
chiarissimamente l’angustia del metafisico, che vedendo la linea del suo
ragionamento torcersi e piegare, cerca di rimediarci colle parole. Ma
poiché finalmente affermate che la nostra immaginazione ha bisogno
d’esser sedotta, (e in seguito poi lo conferma il Breme senza nessuna
dubitazione in parecchi altri luoghi) il vostro ragionamento va tutto a
terra: ché quando uno di noi si mette a leggere una poesia sapendo di
dover esser sedotto e desiderando di esserlo, tanto crede al più falso
quanto al meno falso, tanto crede al Milton quanto a Omero, tanto agli
spettri del Bürger quanto all’inferno dell’Odissea e dell’Eneide; e quel dire
che le finzioni non debbono essere al tutto arbitrarie è una miseria, quasi
che la immaginativa dei moderni potesse essere ingannata di tanto solo, e
non più, e l’intelletto nostro nel mezzo della lettura e dell’inganno della
fantasia non comprendesse egualmente la falsità delle invenzioni del
Klopstock e di quelle di Omero e di Virgilio. Il tutto sta se
l’immaginazione nostra possa e debba esser sedotta dalla poesia o no, se
sì tutti i vostri ragionamenti seguenti sono attaccati collo sputo, e il poeta
deve pensare a sedurre come crede meglio, e s’egli non sa sedurre, la
colpa è sua, e non del genere che ha scelto. Un’altra svista del Breme (e
probabilmente di tutti i suoi settari) è dove parlando della mitologia
greca, dice che la natura è vita, che la fantasia umana e la poesia si
compiace in immaginare che tutto viva, cioè conosca di essere, e qui si
diffonde in magnificare [19] questa sorgente della poesia moderna che
consiste in non guardare nessuna cosa con noncuranza, in attribuir senso a
ogni cosa e riconoscer vita sotto tutte le possibili forme, in avvivare insomma
la natura col mezzo d’idee poeticamente analoghe ecc. ecc. Dunque non solo
concede che la natura si avvivi, ma essenzialmente lo vuole, e dice di
contrapporre questo sistema vitale al mitologico ec. e per esempio di
questo avvivamento diverso da quello che faceano i mitologi, si serve di
un passo di lord Byron dove attribuisce sospiri fragranti alla rosa
innamorata. Ma che? non vuole che si avvivi la natura così
individualmente, diremo, e mediatamente, come i mitologi faceano,
personificando affetti e numi e piante ec. ma la natura immediatamente,
senza convertirla in individui, e riconoscendo vita sotto tutte le forme e non
esclusivamente sotto l’umana, in somma che tutto sia animato e sensitivo,
non che siano uomini dappertutto. Ma non si avvede il Breme, non si
avvedono i romantici che questi che debbono avvivare la natura, questi
poeti, son e uomini, e non possono naturalmente e per intimo impulso
concepir vita nelle cose, se non umana, e che questo dare agli oggetti
inanimati, agli Dei, e fino ai propri affetti, pensieri e forme e affetti
umani, è così naturale all’uomo che per levargli questo vizio
bisognerebbe rifarlo; non si avvede che il suppor vita nelle cose per
esempio inanimate diversa dalla nostra, ripugna di maniera al nostro
istinto e alla nostra natura, che appartiene appuntino a quello che si
chiama cattivo gusto, al gusto che si chiama gotico, che si chiama cinese;
che il poeta non deve seguir nè la ragione nè la metafisica (posto pur che
la ragione ami meglio nelle cose che non vivono, una vita diversa dalla
nostra che uguale, e così discorrete degli Dei ec.), ma la natura e l’istinto,
e che per quanto si può argomentare da questo istinto, il cavallo per
esempio se avesse ragione e immaginativa, attribuirebbe a Dio, (il cavallo
sarebbe allora ragionevole, onde nessuno si scandalizzi di quel che dirò)
e alle cose inanimate ec. ec. la figura e gli affetti e i pensieri del cavallo, e
così gli altri animali; (e questo pensiero non è mio ma dell’antico
Senofane, perché molte cose son vecchie che si credono nuove, e molta
sapienza è antica alla quale si crede che quei cervelli non arrivassero) non
si avvede che se la rosa sospira ed è innamorata, la rosa nella mente del
poeta non è mica altro che una donna; e che voler supporre che questa
rosa viva, e non viva come noi, se è possibile al metafisico, è
impossibilissimo al poeta e agli uditori del poeta, che non sono mica i
metafisici ma il volgo; e non si avvede che lo stesso lord Byron non ha
saputo alla sua rosa e tutti i romantici non sapranno in eterno a
nessunissima cosa dare altri affetti o sensi che umani, perché diversi
affetti o sensi appena ci sappiamo persuadere che ci possano essere, non
che possiamo immaginarci quali siano. ec. ec. Quanto all’arte di poetare e
di scrivere che il Breme pare che disprezzi per la maggior parte, mi
sbrigo in due parole. Questo imitar la natura questo destare i sentimenti
che voi altri volete, è facile o difficile? ognuno che li sente è sicuro purché
si metta a scrivere di comunicarli subito agli altri, o no? Se sì, me ne
rallegro, e avrò piacere di vederne l’esperimento; se no, se questa cosa è
tra le difficili difficilissima, [20] se quand’uno ha concepito, non ha fatto
appena metà del cammino, se mille e centomila che provando affetti e
sentendo vivamente, hanno scritto, non sono riusciti a muovere negli
altri gli stessi affetti, e non si leggono da nessuno, se infiniti esempi e
ragioni provano quanta sia la forza dello stile, e come una stessa
immagine esposta da un poeta di vaglia faccia grand’effetto, e da un
inferiore nessuno, se Virgilio senz’arte non sarebbe stato Virgilio, se in
poesia un bel corpo con vesti di cencio, dico, bei sensi senza bello stile
ordine scelta ec. non si soffrono e non si leggono e sono condannati non
mica dai pregiudizi ma dal tempo giudice incorrotto e inappellabile, se
colla proprietà eleganza nobiltà ec. ec. ec. delle parole e della lingua e
delle idee, colla scelta coll’ordine colla collocazione ec. ec. infinite
necessarissime doti si procacciano alla poesia; c’è bisogno dell’arte, e di
grandissimo studio dell’arte, in questo nostro tempo massimamente, per
le ragioni che più volte in questi pensieri ho scritto. E noi vediamo che i
grandi scrittori quelli che tutto il mondo venera, quelli così infinitamente
superiori ai pregiudizi, quelli finalmente i quali se non sono veramente
ed eternamente grandi, non c’è più cosa grande nè speranza di diventar
grande, noi vediamo che Cicerone (e l’eloquenza è cosa molto simile alla
poesia) studiò profondissimamente l’arte sua e la sua lingua e la
gramatica e gli esemplari greci quanto mai si può pensare, ec. e con tutto
questo studio non diventò già un uomo da nulla nè un pedante nè un
imitatore e che so io, ma diventò un Cicerone: e se Cicerone come
scrittore e oratore, o signor Breme, non vi quadra, come nè anche Pindaro
nè Orazio, vi do subito la buona notte, e mi dispiace di non averlo saputo
prima. (E già di sopra s’è osservato che il primitivo bisogna impararlo
dagli antichi.) Non si ricorda il Breme di quella osservazione filosofica
che è pur vecchia, dico, che i mezzi più semplici e veri e sicuri sono gli
ultimi che gli uomini trovano, così nelle arti e nei mestieri come nelle
cose usuali della vita, e così in tutto. E così chi sente e vuol esprimere i
moti del suo cuore ec. l’ultima cosa a cui arriva è la semplicità, e la
naturalezza, e la prima cosa è l’artifizio e l’affettazione, e chi non ha
studiato e non ha letto, e insomma come costoro dicono è immune dai
pregiudizi dell’arte, è innocente ec. non iscrive mica con semplicità, ma
tutto all’opposto: e lo vediamo nei fanciulli che per le prime volte si
mettono a comporre: non iscrivono mica con semplicità e naturalezza,
che se questo fosse, i migliori scritti sarebbero quelli dei fanciulli: ma per
contrario non ci si vede altro che esagerazioni e affettazioni e ricercatezze
benché grossolane, e quella semplicità che v’è, non è semplicità ma
fanciullaggine: così dite di certe canzoni volgari ec. ec. che per un certo
verso son semplici, ma mettete un poco quella semplicità con quella di
Anacreonte che pare il non plus ultra, e vedete se vi pare che si possa pur
chiamare semplicità. Onde il fine dell’arte che costoro riprovano, non è
mica l’arte, ma la natura, e il sommo dell’arte è la naturalezza e il
nasconder l’arte, che i principianti, o gl’ignoranti non sanno nascondere,
benché n’hanno pochissima, ma quella pochissima trasparisce, e tanto fa
più stomaco quanto è più rozza: e i nove anni d’Orazio dei quali il Breme
si fa beffe, non sono mica per accrescer gli artifizi del componimento, ma
per diminuirli, o meglio, per celarli accrescendoli, e insomma per
avvicinarsi sempre più alla natura, che è il fine di tutti quegli studi e di
quelle emendazioni ec. di cui il Breme si burla, di cui si burlano i
romantici, contraddicendo a se stessi; che mentre [21] bestemmiano l’arte
e predicano la natura, non s’accorgono che la minor arte è minor natura.
Non solamente bisogna che il poeta imiti e dipinga a perfezione la
natura, ma anche che la imiti e dipinga con naturalezza, anzi non imita la
natura chi non la imita con naturalezza. Però Ovidio che senza
naturalezza la dipinge, cioè va tanto dietro a quegli oggetti, che
finalmente ce li presenta, e ce li fa anche vedere e toccare e sentire, ma
dopo infinito stento suo, (così che a lui bisogna una pagina per farci
veder quello che Dante ci fa vedere in una terzina) e con una più tosto
pertinacia ch’efficacia; presto sazia, e inoltre non è molto piacevole,
perché non sa nasconder l’arte, e con quel tanto aggirarsi intorno agli
oggetti (non solo per una pericolosa intemperanza e incontentabilità, ma
anche perché egli senza molti tratti non ci sa subito disegnar la figura, e
se non fosse lungo non sarebbe evidente) fa manifesta la diligenza, e la
diligenza nei poeti è contraria alla naturalezza. Quello che nei poeti dee
parer di vedere, oltre gli oggetti imitati, è una bella negligenza, e questa è
quella che vediamo negli antichi, maestri di questa necessarissima e
sostanziale arte, questa è quella che vediamo nell’Ariosto, Petrarca ec.
questa è quella che pur troppo manca anche ai migliori e classici tra i
moderni, questa è quella che col sentimentale e col sistema del Breme, e
nelle poesie moderne de’ francesi, non si ottiene, e poi non si ottiene; ché
questo stesso sentimentale scopre una certa diligenza ec. scopre insomma
il poeta che parla ec. In Ovidio si vede in somma che vuol dipingere, e
far quello che colle parole è così difficile, mostrar la figura ec. e si vede
che ci si mette; in Dante nò: pare che voglia raccontare e far quello che
colle parole è facile ed è l’uso ordinario delle parole, e dipinge
squisitamente, e tuttavia non si vede che ci si metta, non indica questa
circostanziola e quell’altra, e alzava la mano e la stringeva e si voltava un
tantino e che so io, (come fanno i romantici descrittori, e in genere questi
poeti descrittivi francesi o inglesi, così anche prose ec. tanto in voga
ultimamente) insomma in lui c’è la negligenza, in Ovidio no.
Fàcciate alla finestra, Luciola, Decco che passa lo ragazzo tua, E porta
un canestrello pieno d’ova Mantato colle pampane dell’uva.
I contadì fatica e mai non lenta E ’l miglior pasto sua è la polenta.
È già venuta l’ora di partire
In santa pace vi voglio lasciare.
Nina, una goccia d’acqua se ce l’hai: Se non me la vôi dà padrona sei.
(Aprile 1819.)
Maggio 1819
Non ci sarebbe tanto bisogno della viva voce del maestro nelle
scienze se i trattatisti avessero la mente più poetica. Pare ridicolo il
desiderare il poetico per esempio in un matematico; ma tant’è: senza una
viva e forte immaginazione non è possibile di mettersi nei piedi dello
studente e preveder tutte le difficoltà ch’egli avrà e i dubbi e le ignoranze
ec. che pure è necessarissimo e da nessuno si fa nè anche da’ più chiari,
che però non s’impara mai pienamente una scienza difficile per esempio
le matematiche dai soli libri.
[105] E una delle gran cagioni del cangiamento nella natura del dolore
antico messo col moderno, è il Cristianesimo, che ha solennemente
dichiarata e stabilita e per così dire attivata la massima della certa
infelicità e nullità della vita umana, laddove gli antichi come non
doveano considerarla come cosa degna delle loro cure, se gli stessi Dei
secondo la loro mitologia s’interessavano sì grandemente alle cose
umane per se stesse (e non in relazione a un avvenire), erano animati
dalle stesse passioni nostre, esercitavano particolarmente le nostre stesse
arti (la musica, la poesia ec.), e in somma si occupavano intieramente
delle stesse cose di cui noi ci occupiamo? Non è però ch’io consideri
intieramente il cristianesimo come cagion prima di questo cangiamento,
potendo anzi esserne stato in parte prodotto esso stesso (come opina
Beniamino Constant in un articolo sui PP. della Chiesa riferito nello
Spettatore) ma solamente come propagatore principale di tale rivoluzione
del cuore.
Non per questo che il piacere del dolore è conforto all’infelicità
moderna, l’ignoranza di esso piacere era difetto alla felicità antica.
Come nella speranza o in qualunque altra disposizione dell’animo
nostro, il bene lontano è sempre maggiore del presente, così per
l’ordinario nel timore è più terribile il male.
Per le grandi azioni che la maggior parte non possono provenire se
non da illusione, non basta ordinariamente l’inganno della fantasia come
sarebbe quello di un filosofo, e come sono le illusioni de’ nostri giorni
tanto scarsi di grandi fatti, ma si richiede l’inganno della ragione, come
presso gli antichi. E un grande esempio di questo è ciò che accade ora in
Germania dove se qualcuno si sacrifica per la libertà (come quel Sand
uccisore di Cotzebue) non accade come potrebbe parere, per effetto della
semplice antica illusione di libertà, e d’amor patrio e grandezza di azioni,
ma per le fanfaluche mistiche di cui quegli [106] studenti tedeschi hanno
piena la testa, e ingombra la ragione come apparisce dalle gazzette di
questi giorni dove anche si recano le loro lettere piene di opinioni
stravaganti e ridicole, che fanno dell’amor della libertà una nuova
religione, tutta nuovi misteri. (26. Marzo 1820. e vedi le Gazzette di
Milano del principio di questo mese.)
Le genti per la città dai loro letti nelle lor case in mezzo al silenzio
della notte si risvegliavano e udivano con ispavento per le strade il suo
orribil pianto ec.
Come potrà essere che la materia senta e si dolga e si disperi della sua
propria nullità? E questo certo e profondo sentimento (massime nelle
anime grandi) della vanità e insufficienza di tutte le cose che si misurano
coi sensi, sentimento non di solo raziocinio, ma vero e per modo di dire
sensibilissimo sentimento e dolorosissimo, come non dovrà [107] essere
una prova materiale, che quella sostanza che lo concepisce e lo
sperimenta, è di un’altra natura? Perché il sentire la nullità di tutte le cose
sensibili e materiali suppone essenzialmente una facoltà di sentire e
comprendere oggetti di natura diversa e contraria, ora questa facoltà
come potrà essere nella materia? E si noti ch’io qui non parlo di cosa che
si concepisca colla ragione, perché infatti la ragione è la facoltà più materiale
che sussista in noi, e le sue operazioni materialissime e matematiche si
potrebbero attribuire in qualche modo anche alla materia, ma parlo di un
sentimento ingenito e proprio dell’animo nostro che ci fa sentire la nullità
delle cose indipendentemente dalla ragione, e perciò presumo che questa
prova faccia più forza, manifestando in parte la natura di esso animo. La
natura non è materiale come la ragione.
Il riso dell’uomo sensitivo e oppresso da fiera calamità è segno di
disperazione già matura. Vedi p. 188.
Mi diedi tutto alla gioia barbara e fremebonda della disperazione.
Se noi diciamo tomba e i greci dicevano τύµβος nello stesso significato
chi non vorrà credere che gli antichi latini abbian detto tumbus o tumba
dal greco, onde noi tomba mutato l’u in o secondo il solito? Perché dal
greco immediatamente non è possibile che il volgare l’abbia preso, (e
notate che in greco moderno si pronunzia timbos, sicché se questa
derivazione non fosse antichissima noi non diremmo tomba, ma timba) e
d’altronde le due parole sono troppo somiglianti, e nello stesso valore,
perché l’una non derivi evidentemente dall’altra. Vedi il Du Fresne e il
Forcellini sì per questa come per tutte le altre parole ch’io credo antiche e
latine in questi pensieri. (15. Apr. 1820.)
[112] Quanto i greci facessero caso della bellezza, oltre alla parola
χαλοχἀγαϑός notata già in questi pensieri, vedi un luogo singolare di un
antico in Clem. Aless. Cohort. ad gentes c. 4 dopo il mezzo ediz. di Venez.
t. 1 p. 49. lin. ult. p. 17. nel margine latino e p. 37. nel margine greco Qual
è ora quel genitore che domandi a Dio quella grazia come un bene
principale e suo proprio e dei figli? Intorno ai quali domanderanno
piuttosto tutt’altro, sanità, ingegno, docilità, virtù, abilità nei negozi,
favore dei grandi, ricchezza ec. ec. ma bellezza quando mai? Vedo che
m’ha ingannato quella bestia del traduttore, il quale dice formosos liberos,
e il greco τὴν εὐτεχνίαν. Vi so dir io che la differenza è piccola da vero.
Gesù Cristo fu il primo che personificasse e col nome di mondo
circoscrivesse e definisse e stabilisse l’idea del perpetuo nemico della
virtù dell’innocenza dell’eroismo della sensibilità vera, d’ogni singolarità
dell’animo della vita e delle azioni, della natura in somma, che è quanto
dire la società, e così mettesse la moltitudine degli uomini fra i principali
nemici dell’uomo, essendo pur troppo vero che come l’individuo per
natura è buono e felice, così la moltitudine (e l’individuo in essa) è
malvagia e infelice. (Vedi p. 611 capoverso 1.)
La pazienza è la più eroica delle virtù giusto perché non ha nessuna
apparenza d’eroico.
Impertinente è una parola tutta latina, derivata da un verbo latino ec.
però è naturale che gli antichi o volgari latini dicessero impertinens. (31
Maggio 1820)
Giugno 1820
Gli esercizi con cui gli antichi si procacciavano il vigore del corpo non
erano solamente utili alla guerra, o ad eccitare l’amor della gloria ec. ma
contribuivano, anzi erano necessari a mantenere il vigor dell’animo, il
coraggio, le illusioni, l’entusiasmo che non saranno mai in un corpo
debole (vedete gli altri miei pensieri) in somma quelle cose che
cagionano la grandezza e l’eroismo delle nazioni. Ed è cosa già osservata
che il vigor del corpo nuoce alle facoltà intellettuali, e favorisce le
immaginative, e per lo contrario l’imbecillità del corpo è favorevolissima
al riflettere, (7. Giugno 1820.) e chi riflette non opera, e poco immagina, e
le grandi illusioni non son fatte per lui.
Gli antichi supponevano che i morti non avessero altri pensieri che
de’ negozi di questa vita, e la rimembranza de’ loro fatti gli occupasse
continuamente, e s’attristassero o rallegrassero secondo che aveano
goduto o patito quassù, in maniera che secondo essi, questo mondo era
la patria degli uomini, e l’altra vita un esilio, al contrario de’ cristiani. (8.
Giugno 1820.) Vedi p. 253.
Una gran differenza tra la legge di natura e le leggi civili, è questa che
la legge civile o umana si può dimenticare o per distrazione o per [119]
altro, e infrangerla senza leder la coscienza, (come s’io mangio carne non
ricordandomi che sia giorno di magro, o anche ricordandomene, ma per
distrazione) laddove la legge naturale non ammette distrazione, e non
può accadere che uno la infranga non credendo, perch’ella ci sta sempre
nel cuore come un istinto che ci avverte continuamente, e il quale non è
soggetto a dimenticanze.
La naturalezza dello scrivere è così comandata che posto il caso che
per conservarla bisognasse mancare alla chiarezza, io considero che
questa è come di legge civile, e quella come di legge naturale, la qual
legge non esclude caso nessuno, e va osservata quando anche ne debba
soffrire la società o l’individuo, come non è straordinario che accada.
È osservabile come i francesi mentre sono la nazione più moderna del
mondo per costumi ec. abbiano tuttavia quella disposizione antica che
ora tutte le nazioni civili hanno abbandonata, voglio dire il disprezzo e
quasi odio degli stranieri. Il quale non può tornar loro a nessuna lode,
perché contrasta assurdamente coll’eccessivo moderno di tutte le altre
loro opinioni costumi ec. Ed è tanto più ridicola, quanto nei greci
finalmente era ragionevole, perché non avendo conosciuto i romani se
non tardissimo, (vedi MONTESQUIEU Grandeur ec. ch. 5. p. 48 e la nota) non
c’era effettivamente altra nazione che gli uguagliasse di grandissima
lunga. E quanto ai Romani è noto che non ostante il loro sommo amor
patrio, furono sempre imparzialissimi [120] nel giudicare degli stranieri,
anzi ebbero per istituto di adottar sempre tutte quelle novità forestiere
che giudicavano utili, quando anche per adottar queste bisognasse
lasciare o correggere le loro proprie usanze.
Nelle repubbliche le cagioni degli avvenimenti appresso a poco erano
manifeste, si pubblicavano le orazioni che aveano indotto il popolo o il
consiglio a venire in quella tal deliberazione, le ambascerie si eseguivano
in pubblico, ec. e poi dovendosi tutto fare colla moltitudine le parole e le
azioni erano palesi, ed essendoci molti di egual potere, ciascuno era
intento a scoprire i motivi e i fini dell’altro e tutto si divulgava. Vedete
per esempio le lettere di Cicerone che contengono quasi tutta la storia di
quei tempi. Ma ora che il potere è ridotto in pochissimi, si vedono gli
avvenimenti e non si sanno i motivi, e il mondo è come quelle macchine
che si muovono per molle occulte, o quelle statue fatte camminare da
persone nascostevi dentro. E il mondo umano è divenuto come il
naturale, bisogna studiare gli avvenimenti come si studiano i fenomeni, e
immaginare le forze motrici andando tastoni come i fisici. Dal che si può
vedere quanto sia scemata l’utilità della storia. Vedi MONTESQUIEU l. c. ch.
13. fine. Vedi p. 709. capoverso 1.
La cagione principale di ciò che dice Montesquieu ch. 14. p. 155, è che
il popolo quantunque sia composto d’individui tutti animati da passioni
basse, contuttociò queste essendo particolari e infinite, non si può
cattivare se non per le passioni generali, cioè con quelle cose che la [121]
natura ha fatte piacevoli generalmente, amabilità, virtù, coraggio, servigi
prestati, abilità negli affari, integrità, onestà, onoratezza ec. Sicché le
elezioni del popolo non possono costringere il candidato ad abbassarsi se
non in piccole cose, anzi per lo contrario, ad ingrandirsi. Ma le passioni
dell’individuo sono piccole e basse, e quando l’elezione dipende da lui,
per cattivarselo è necessario coll’abbiezione dell’animo farsi indegno di
qualunque onore o vantaggio, e così le dignità è naturale che tocchino
per lo più agl’indegni. Oltre la grande spinta che dà all’ingegno
all’eloquenza e a tutte le nobili facoltà il desiderio di cattivarsi la
moltitudine, che ordinariamente non può giudicare se non colle regole
vere, perché queste sole sono comuni. (10. Giugno 1820.). Perciò i giudizi
ec. del tempo, e del pubblico sono sempre giusti riguardo a qualunque
oggetto.
La cagion vera secondo me di quello che dice Montesquieu loc. cit. ch.
14, p. 157, di uno fatto accusare da Tiberio per aver venduta colla sua
casa la statua dell’imperatore, e di un altro che ec. è che il materiale e il
sensibile, avea molto più forza sugli antichi, ed era molto più considerato
in quei tempi d’immaginazione, che in questi nostri tutti intellettuali.
Le cagioni di quello che nota Montesquieu ch. 14. fine, e se ne
maraviglia, sono 1. che ciascuno è tanto infelice quanto esso crede, e i
poveri e ignoranti si credono assai meno infelici di quello che fanno i
ricchi e istruiti, non già che quelli non si credano molto più sventurati di
questi, ma misurando e ragguagliando l’opinione [122]della propria
infelicità quale ambedue la concepiscono si trova molto maggiore in
questi che in quelli. 2. che di un popolo mezzo barbaro è tutto proprio il
timore. 3. che per disprezzar la vita e le sventure non basta essere infelici,
ma si richiede magnanimità e profondità di sentimenti, e forza d’animo,
cose ignote alla plebe, altrimenti prevale il desiderio naturale e cieco
della propria conservazione. 4. che la prosperità dà confidenza, ma le
continue sventure primieramente in luogo di far l’uomo generoso,
l’avviliscono col sentimento della propria debolezza, e gli levano il
coraggio, massime se egli non è magnanimo per natura o per coltura; poi
la trista esperienza rende l’uomo tremebondo a causa del nessuno
sperare, e dell’aspettar sempre male. 5. finalmente che chi ha pochissimo,
teme più per quel poco, perché non è avvezzo a confidare, nè a
immaginar nessuna risorsa, avendone sempre mancato, quando sia un
popolo vissuto sempre nella inazione come i moderni, e non avvezzo a
continue imprese e vicissitudini di fortuna, come gli antichi romani
ancorché poveri.
La cagione che adduce Montesquieu dell’esser sovente il principio de’
cattivi regni, come il fine dei buoni, (ch. 15. p. 160) non è buona, perché
va a terra quando un cattivo principe succede a un buono. Io credo che la
vera sia, prima, che il suo fine essendo di regnar male, egli fa bene nel
principio per inesperienza, e male nell’ultimo, al contrario dei buoni, poi,
che una certa generosità naturale [123] nei primi momenti della
prosperità e del potere è verisimile anche nei cattivi, anzi sarebbe
inverisimile il contrario. Poi coll’assuefazione a quello stato si torna a
riprendere il proprio carattere, interrotto da quella novità straordinaria,
come avviene spessissimo nella vita. (11 Giugno 1820).
Dei nostri poeti d’oggidì altri non sentono e non pensano, e così
scrivono, altri sentono e pensano ma non sanno dire quello che
vorrebbero, e mettendosi a scrivere, per mancanza di arte, si trovano
subito voti, e di tutto quello che avevano in mente, non trovano più
nulla, e volendo pure scrivere si danno al fraseggiare, e all’epitetare e se
la passano in luoghi comuni e così chiudono la poesia, perché una cosa
nuova da dire gli spaventa, non sapendo trovare l’espressione che le
corrisponda; altri finalmente sentendo e pensando e non sapendo dir
quello che vogliono, tuttavia lo vogliono dire, e questi sono ridicoli per lo
stento l’affettazione la durezza l’oscurità, e la fanciullaggine della
maniera, quando anche [130] i sentimenti non fossero dispregevoli. (21.
Giugno 1820.).
Dice Luciano nelle Lodi della patria (t. 2, p. 479.): Καὶ τοὺς χατὰ τὸν
τῆς ἀποδηµίας χρόνον λαµπροὺς γενοµένους ἢ διὰ χρηµάτων χτῆσιν,
ἢ διὰ τιµῆς δόξαν (vel ob honoris gloriam), ἢ διὰ παιδείας µαρτυρία, ἢ δι᾽
ἀνδρείας ἔπαινον, ἔστιν ἰδεῖν ἐς τὴν πατρίδα πάντας ἐπειγοµένους
(properantes) ὡς οὐχ ἂν ἐν ἄλλοις βελτίοσιν ἐπιδειξοµένους τὰ αὐῶν
χαλὰ χαὶ τοσούτῳ γε µᾶλλον ἕχαστος σπεύδει λαβέσται τῆς πατρίδος
ὅ σῳπερ ἂν ϕαίνηται µειζόνων παρ᾽ ἄλλοις ἠξιωµένος. Questo è vero,
e quando anche tu viva in una città molto maggiore della tua patria, non
ostante il gran cambiamento delle opinioni antiche a questo riguardo,
desidererai anche adesso, se non altro che la gloria o qualunque altro
bene che tu hai acquistato sia ben noto, e faccia romore particolare nella
tua patria. Ma la cagione non è mica l’amor della patria, come stima
Luciano, e come pare a prima vista. E infatti stando nella tua stessa
patria, tu provi lo stesso effetto [134] riguardo alla tua famiglia, e a’ tuoi
più intimi conoscenti. La ragione è che noi desideriamo che i nostri onori
o pregi siano massimamente noti a coloro che ci conoscono più
intieramente, e che ne sieno testimoni quelli che sanno più per minuto le
nostre qualità, i nostri mezzi, la nostra natura, i nostri costumi ec. E come
non ti contenteresti di una fama anonima, cioè di esser celebrato senza
che si sapesse il tuo nome, perché quella fama, ti parrebbe piuttosto
generica che tua propria, così proporzionatamente desideri ch’ella sia
sulle bocche di quelli presso i quali, conoscendoti più intimamente e
particolarmente, la tua stima viene ad essere più individuale e propria
tua, perché si applica a tutto te, che sei loro noto minutamente. E viene
anche ciò dalla inclinazione che tutti abbiamo per li nostri simili, onde
non saremmo soddisfatti di una fama acquistata appresso una specie di
animali diversa dall’umana, e così venendo per gradi, poco ci cureremmo
di esser famosi fra i Lapponi o gl’irocchesi, essendo ignoti ai popoli colti,
e non saremmo contenti di una celebrità francese o inglese, essendo
sconosciuti ai nostri italiani, e così finalmente arriveremo ai nostri propri
cittadini, e anche alla nostra famiglia. Aggiungete le tante relazioni che si
hanno o si sono avute colle persone più attenenti alla nostra, le
emulazioni, le gare, le invidie, le contrarietà avute, le amicizie fatte ec. ec.
alle quali cose tutte applichiamo il sentimento che ci cagiona la nostra
gloria, o qualunque vantaggio acquistato. In somma [135] la cagione è
l’amore immediato di noi stessi, e non della nostra patria. Vedi p. 536,
capoverso 2.
Io non credo molto a quello che dice Montesquieu Dialogue de Sylla et
d’Eucrate, particolarmente p. 293-295, per ispiegare il carattere e le azioni
di Silla. Questo è il solito errore di creder che gli uomini si formino da
principio un piano seguito di condotta, e seguano sempre un filo di
azioni, quando la nostra natura composta di cento passioni, è sempre
piena d’incongruenze, secondo che questa passione o quell’altra piglia il
di sopra. E anche i ragionamenti dell’uomo sono pieni di variazioni, per
cui ora ci par conveniente uno scopo, ed ora un altro, o volendo arrivare
allo stesso scopo, cambiamo strada del continuo. Solamente serve a
mostrar l’ingegno dello scrittore il condurre tutte le azioni disparatissime
di un personaggio famoso, come tante linee a uno stesso punto, e per
questo capo è stimabile e ingegnoso il celebre Manuscrit venu de Sainte-
Helène, attribuito alla Staël. Io credo che Silla avesse veramente una
grandissima ambizione, e questa di comandare, come tutti gli altri, poi,
siccome il fantasma della gloria era ancor grande e potente nelle menti
romane, stimò più ambizioso il rinunziare al comando che il ritenerlo, e
così volle andare allo stesso fine per un’altra strada. Forse ancora il
pensiero di farsi tiranno della patria, non era per anche maturo negli
animi romani, nutriti in così smisurato amore e pregio della libertà: ma la
passione di Silla, fu l’odio civile, e la ferocia [136] verso i suoi
competitori, e per isfogarla, volle il supremo comando, non ostante che
per se stesso non lo bramasse, e che dopo sfogata lo deponesse. Perché il
piacere della vendetta, e del calpestare i suoi nemici, e vederli
intieramente oppressi domati e annientati, è un piacere anzi
un’ambizione che in molti può più che quella del comando in genere. E
così Silla contraddisse ai suoi principii romani e liberali, e diede un
esempio fatale alla libertà, per soddisfare a una passione particolare. (24.
Giugno 1820.).
Curae leves loquuntur, ingentes stupent sta per epigrafe del n. 95 dello
Spectator inglese, senza nome d’autore.
[143] Che vuol dire che fra tanti imitatori che si sono trovati di opere e
di scrittori classici, nessuno è pervenuto ad occupare un grado di fama
non dico uguale, ma neppur vicino a quello dell’imitato? Non è già
verisimile che essendo più facile l’inventis addere, e il perfezionare una
cosa inventata, che l’inventarla già perfetta, ed essendoci stati molti
imitatori di sommo ingegno, massimamente in Italia in un tempo dove
l’imitare era cosa di moda, e perciò diveniva occupazione anche dei
migliori (come Sanazzaro imitator di Virgilio, il Tasso del Petrarca ec.),
non si sia mai data nessun’imitazione che almeno agguagli l’opera
imitata, e per conseguenza meritasse un posto compagno a quello
dell’originale. Ma il fatto sta che in materia di letteratura o di arti, basta
accorgersi dell’imitazione, per metter quell’opera infinitamente al di
sotto del modello, e che in questo caso, come in molti altri, la fama non
ha tanto riguardo al merito assoluto ed intrinseco dell’opera, quanto alla
circostanza dello scrittore o dell’artefice. Laonde, o imitatori qualunque
vi siate, disperate affatto di arrivare all’immortalità, quando bene le
vostre copie valessero effettivamente molto più dell’originale.
Nella carriera poetica il mio spirito ha percorso lo stesso stadio che lo
spirito umano in generale. Da principio il mio forte era la fantasia, e i
miei versi erano pieni d’immagini, e delle mie letture poetiche io cercava
sempre di profittare riguardo alla immaginazione. Io era bensì
sensibilissimo anche agli affetti, ma esprimerli in poesia non sapeva. Non
aveva ancora meditato intorno alle cose, e della filosofia non avea che un
barlume, e questo in grande, e con quella solita illusione che noi ci
facciamo, cioè che nel mondo e nella vita ci debba esser sempre
un’eccezione a favor nostro. Sono stato sempre sventurato, ma le mie
sventure d’allora erano piene di vita, e mi disperavano perché mi pareva
(non veramente alla ragione, ma ad una saldissima immaginazione) che
m’impedissero la felicità, della quale gli altri credea che godessero. In
somma il mio stato era allora in tutto e per tutto come quello degli
antichi. [144] Ben è vero che anche allora, quando le sventure mi
stringevano e mi travagliavano assai, io diveniva capace anche di certi
affetti in poesia, come nell’ultimo canto della Cantica. La mutazione
totale in me, e il passaggio dallo stato antico al moderno, seguì si può
dire dentro un anno, cioè nel 1819., dove privato dell’uso della vista, e
della continua distrazione della lettura, cominciai a sentire la mia
infelicità in un modo assai più tenebroso, cominciai ad abbandonar la
speranza, a riflettere profondamente sopra le cose (in questi pensieri ho
scritto in un anno il doppio quasi di quello che avea scritto in un anno e
mezzo, e sopra materie appartenenti sopra tutto alla nostra natura, a
differenza dei pensieri passati, quasi tutti di letteratura), a divenir
filosofo di professione (di poeta ch’io era), a sentire l’infelicità certa del
mondo, in luogo di conoscerla, e questo anche per uno stato di languore
corporale, che tanto più mi allontanava dagli antichi e mi avvicinava ai
moderni. Allora l’immaginazione in me fu sommamente infiacchita, e
quantunque la facoltà dell’invenzione allora appunto crescesse in me
grandemente, anzi quasi cominciasse, verteva però principalmente, o
sopra affari di prosa, o sopra poesie sentimentali. E s’io mi metteva a far
versi, le immagini mi venivano a sommo stento, anzi la fantasia era quasi
disseccata (anche astraendo dalla poesia, cioè nella contemplazione delle
belle scene naturali ec. come ora ch’io ci resto duro come una pietra);
bensì quei versi traboccavano di sentimento. (1° Luglio 1820.). Così si
può ben dire che in rigor di termini, poeti non erano se non gli antichi, e
non sono ora se non i fanciulli o giovanetti, e i moderni che hanno questo
nome, non sono altro che filosofi. Ed io infatti non divenni sentimentale,
se non quando perduta la fantasia divenni insensibile alla natura, e tutto
dedito alla ragione e al vero, in somma filosofo.
È cosa già molte volte osservata che come le Accademie scientifiche
forse hanno giovato alle scienze, promosse e facilitate le [145] scoperte ec.
così le letterarie hanno piuttosto pregiudicato alla letteratura. Infatti le
Accademie scientifiche non hanno quasi mai seguito un sistema di
filosofia, ma lasciato il campo libero al ritrovamento della verità,
qualunque sistema ne dovesse esser favorito, e massimamente nelle cose
naturali era difficile seguire un sistema, dovendo promuovere le scoperte
che non possono derivare se non dal vero, e non si può prevedere che
cosa riveleranno, e a che sistema si adatteranno. Se avessero seguito un
sistema, avrebbero pregiudicato alle scienze, come le Accademie
letterarie alla letteratura. Il fatto sta che questa benché abbia le sue
regole, tuttavia il porre in chiaro queste regole, e il decretarle e il farne un
codice, non le ha mai giovato. Tutti i grandi poeti greci sono stati prima
di Aristotele, e tutti i latini prima o contemporaneamente ad Orazio. Ma
dunque non giova che il buon gusto sia promosso e promulgato, e
costituito per norma delle opere letterarie? Certamente ci vuole il buon
gusto in una nazione ma questo dev’essere negl’individui e nella nazione
intiera, e non in un’adunanza cattedratica, e legislatrice, e in una
dittatura. Primieramente non è facile il promuovere le opere di genio. Gli
onori la gloria gli applausi i vantaggi sono mezzi efficacissimi per
promuoverle, ma non quegli onori e quella gloria che derivano dagli
applausi di un’Accademia. Gli antichi greci e anche i romani avevano le
loro gare pubbliche letterarie, ed Erodoto scrisse la sua storia per leggerla
al popolo. Questo era ben altro stimolo che quello di una piccola società
tutta di persone coltissime e istruitissime dove l’effetto non può esser
mai quello che si fa nel popolo, e per piacere ai critici si scrive 1. con
timore, cosa mortifera, 2. si cercano cose straordinarie, finezze, spirito,
mille bagattelle. Il solo popolo ascoltatore può far nascere l’originalità la
grandezza e la [146] naturalezza della composizione. In secondo luogo se
il promuovere il genio non giova, se gli sproni non l’aiutano, il freno
l’ammazza, intendo un freno messogli dagli altri e non dal proprio
giudizio. Se questo manca, non ci è rimedio, ma la magistratura letteraria
non fa nascere le virtù letterarie, se non ci sono i buoni costumi, intendo
il retto giudizio e il buon gusto. Ma se il gusto è corrotto non gioverà il
promulgarlo, il ristabilirlo ec.? Gioverà, voglio dire che le Accademie
riusciranno a fare che non si scriva più male, ma non che si scriva bene.
L’Arcadia fu stabilita per isbandire il seicentismo. Fu sbandito, ma lo
stile Arcadico è un nome derisorio che si dà in Italia a quelle poesie che
non sanno di carne nè pesce. Ora che rimedio trovereste al cattivo gusto?
Ripeto quello che ho detto nel principio dei miei pensieri. Quasi tutte le
nazioni colte dopo il loro secol d’oro, hanno avuto quello della
corruzione, e ne sono risorte. Ma dopo questo, un numero di scrittori
veramente grandi e paragonabili ai primi (dico in letteratura, non in fatto
di pensieri, filosofia ec.), insomma un altro secol d’oro è un esempio che
ancora mi resta da vedere. Negli ottimi secoli i grandi scrittori avevano
modelli del buono da seguire, ma non del cattivo da fuggire. Quelli
possono giovare, questi nocciono. Dico che i cattivi scrittori che si
avevano, sì come non formavano classe, perché il gusto universale era
buono, si dimenticavano affatto, e si sapeva a un di presso in generale
che non piacevano, piuttosto che perché non piacevano. Certamente
l’idea de’ loro vizi non era specificata, nè i difetti notati per minuto, e si
vede infatti che anche sommi scrittori cadevano in difetti puerili. In
somma la scienza del buono e del cattivo non era organizzata, nè
sminuzzata. Il gusto naturale tenea luogo di tutto. Dopo la corruzione i
letterati si rialzano tutti sbigottiti. Entrano gli scrupoli, le paure, le
sottigliezze. Si pesa [147] ogni cosa, si aguzzano gli occhi, si va col piede
di piombo, ogni legge ogni regola ogni idea è ben definita e circoscritta,
si prevedono tutti i casi, il gusto non è più naturale ma artefatto, o lo
diviene, perché nessuno crede di potersi contentare del gusto naturale,
l’arte e la critica vanno al sommo, la natura si perde (forse ella può più
nel secolo guasto che nel seguente), nascono opere perfette ma non belle.
(2. Luglio 1820.).
Quel che ho detto qui sopra non è l’ultima delle cagioni per cui il
fervore del Cristianesimo s’indebolì colla dilatazione di essa religione, di
quella religione istessa, che (senza però condannare l’amor della patria,
dimostrato dallo stesso Cristo piangente sopra Gerusalemme) tuttavia ha
per uno de’ fondamenti l’amore universale verso tutti gli uomini. E
contuttociò fintanto ch’ella fu come una setta, il zelo e l’ardore per
sostenerla fu infinito ne’ suoi seguaci. Quando divenne cosa comune, non
fu più riguardato come proprio quello ch’era di tutti, e lo spirito di corpo
essendosi dileguato per la sua grandezza, l’individuo non ci trovò più la
soddisfazione sua particolare, e il Cristianesimo illanguidì.
Aggiungete che lo spirito di corpo ci porta a proccurare i vantaggi di
esso corpo, e a compiacerci di quelli che ha, perché l’individuo che gli
appartiene resta con ciò distinto e superiore agli altri che non gli
appartengono. L’amor di patria, l’amor di setta, di fazione ec. vedete che
è tutto fondato sopra l’ambizione, più o meno nascosta. Per gli spiriti
piccoli non [151] è fatto l’amore della nazione, perché non arrivano a
desiderare nè a compiacersi di sovrastare a persone così lontane e fuori
della loro portata come sono i forestieri. L’amor poi universale, manca
affatto di questo fondamento dell’ambizione, che è la gran molla che
renda operoso l’amor di corpo, e perciò resta naturalmente inefficace in
quasi tutti, non essendoci speranza di distinguersi dagli altri col mezzo
dei vantaggi del suo corpo. E così spento quell’amore ch’è utile per le
ragioni sopraddette, quest’altro non gli subentra, e se anche gli subentra
resta inutile, non movendo efficacemente l’uomo a nessuna intrapresa.
(4. Luglio 1820.).
Anche nell’interiore quasi tutti gli uomini oggidì sono uguali nei
principii nei costumi nel vizio nell’egoismo ec. Sono tutti uguali e tutti
separati, laddove anticamente erano tutti diversi e tutti uniti, e perciò atti
alle grandi cose, alle quali noi siamo inettissimi trovandoci tutti soli. E la
stessa nostra uguaglianza è (cosa curiosa) il motivo della nostra
disunione, che nasce dall’universale egoismo. (4. Luglio 1820.).
Al levarsi da letto, parte pel vigore riacquistato col riposo, parte per la
dimenticanza dei mali avuta nel sonno, parte per una certa
rinnuovazione della vita, cagionata da quella specie d’interrompimento
datole, tu ti senti ordinariamente o più lieto o meno tristo, di quando ti
coricasti. Nella mia vita infelicissima l’ora meno trista è quella [152] del
levarmi. Le speranze e le illusioni ripigliano per pochi momenti un certo
corpo, ed io chiamo quell’ora la gioventù della giornata per questa
similitudine che ha colla gioventù della vita. E anche riguardo alla stessa
giornata, si suol sempre sperare di passarla meglio della precedente. E la
sera che ti trovi fallito di questa speranza e disingannato, si può
chiamare la vecchiezza della giornata. (4. Luglio 1820.). Vedi p. 193
capoverso 1.
Da quello che dice MONTESQUIEU Essai sur le Goût. Des plaisirs de l’ame,
p. 369-370, deducete che le regole della letteratura e belle arti non
possono affatto essere universali, e adattate a ciascheduno. Bensì è vero
che la maniera di essere di un uomo nelle cose principali e sostanziali è
comune a tutti, e perciò le regole capitali delle lettere e arti belle, sono
universali. Ma alcune piccole o mediocri differenze sussistono tra popolo
e popolo tra individuo e individuo, e massimamente fra secolo e secolo.
Se tutti gli uomini fossero di vista corta, come sono molti l’architettura in
molte sue parti sarebbe difettosa, e converrebbe riformarla. Così al
contrario. Intanto ella è difettosa veramente rispetto a quei tali. Gli
orientali aveano ed hanno più rapidità, vivacità, fecondia ec. di spirito
che gli europei. Perciò quella soprabbondanza che notiamo nelle loro
poesie ec. se sarebbe difetto tra noi, poteva non esserlo, o esser minore
appresso un popolo più capace per sua natura di seguire e di
comprendere coll’animo suo quella maniera del poeta. Lo stesso dite
dell’oscurità, del metaforico eccessivo per noi, delle sottigliezze, delle
troppe minuzie, dell’ampolloso ec. ec. E questa distinzione fatela anche
tra i popoli europei, e non condannate una letteratura perché è diversa da
un’altra stimata classica. Il tipo o la forma del bello non esiste, e non è
altro che l’idea della convenienza. Era un sogno di Platone che le idee
delle cose esistessero innanzi a queste, in maniera che queste non
potessero esistere altrimenti (vedi MONTESQUIEU ivi. capo 1. p. 366.)
quando la loro maniera di esistere è affatto arbitraria e dipendente dal
creatore, come dice Montesquieu e non ha nessuna ragione per esser
piuttosto così che in un altro modo, se non la volontà di chi le ha fatte. E
chi sa che non esista un altro, o più, o infiniti altri sistemi di cose così
diversi dal nostro che noi non li possiamo neppur concepire? [155] Ma
noi che abbiamo rigettato il sogno di Platone conserviamo quello di un
tipo immaginario del bello. (Vedi il discorso di G. Bossi nella Biblioteca
Italiana). Ora l’idea della convenienza essendo universale, ma
dipendendo dalle opinioni caratteri costumi ec. il giudizio e il
discernimento di quali cose convengano insieme, ne deriva che la
letteratura e le arti, quantunque pel motivo sopraddetto siano soggette a
regole universali nella sostanza principale, tuttavia in molti particolari
debbano cangiare infinitamente secondo non solamente le diverse
nature, ma anche le diverse qualità mutabili, vale a dire opinioni, gusti,
costumi ec. degli uomini, che danno loro diverse idee della convenienza
relativa.
E similmente osservate quanto sia vano il pensare così assolutamente
che la musica perché diletta sommamente l’uomo debba fare effetto sulle
bestie.
Distinguete suono (sotto questo nome intendo ora anche il canto) e
armonia. Il suono è la materia della musica, come i colori della pittura, i
marmi della scoltura ec. L’effetto naturale e generico della musica in noi,
non deriva dall’armonia ma dal suono, il quale ci elettrizza e scuote al
primo tocco quando anche sia monotono. Questo è quello che la musica
ha di speciale sopra le altre arti, sebbene anche un color bello e vivo ci fa
effetto, ma molto minore. Questi sono effetti e influssi naturali, e non
bellezza. L’armonia modifica l’effetto del suono, e in questo (che solo
appartiene all’arte) la musica non si distingue dalle altre arti, giacché i
pregi dell’armonia consistono nella imitazione della natura quando
esprimono qualche cosa, e in seguire quell’idea della convenienza dei
suoni ch’è arbitraria e diversa in diverse nazioni. Ora il suono non è
difficile che faccia effetto anche nelle bestie, ma non è necessario, e
massimamente quegli stessi suoni che fanno effetto nell’uomo (quando
vediamo anche tra gli uomini che certe nazioni si dilettano di suoni tutti
diversi da’ nostri, e per noi insopportabili). [156] I loro organi, e
indipendentemente da questi, la loro maniera d’essere è differente dalla
nostra, e non possiamo sapere qual sia l’effetto di questa differenza.
Tuttavia se questa non sarà molto grande, o almeno avrà qualche
rapporto con noi in questo punto, il suono farà colpo in quei tali animali,
come leggiamo dei delfini e dei serpenti (Vedi Chateaubriand). Ma
l’armonia è bellezza. La bellezza non è assoluta, dipendendo dalle idee
che ciascuno si forma della convenienza di una cosa con un’altra, laonde
se l’astratto dell’armonia può esser concepito dalle bestie, non perciò per
loro sarà armonia e bellezza quello ch’è per noi. E così non è la musica
come arte ma la sua materia cioè il suono che farà effetto in certe bestie. E
infatti come vogliamo prentendere che le bestie gustino la nostra
armonia, se tanti uomini si trovano che non la gustano? Parlo di molti
individui che sono tra noi, e parlo di nazioni, come dei turchi che hanno
una musica che a noi par dissonantissima e disarmonica. Eccetto il caso
che qualche animale si trovasse in disposizione così somigliante alla
nostra, che nella musica potesse sentire se non tutta almeno in parte
l’armonia che noi ci sentiamo, vale a dire giudicare armonico quello che
noi giudichiamo. Il quale effetto è più difficile assai dell’altro
sopraddetto del suono, tuttavia non è affatto inverisimile. (6. Luglio
1820.).
Se nella giornata tu hai veduto o fatto qualche cosa non ordinaria per
te, la sera nell’addormentarti o per qualunque altra cagione, e in
qualunque stato, chiudendo gli occhi, ti vedi subito innanzi, non dico al
pensiero, ma alla vista, le immagini sensibili di quello che hai veduto. E
ciò quando anche tu pensi a tutt’altro, e neanche ti ricordi più di quello
che avevi veduto forse molte ore addietro, nel quale intervallo ti sarai
dato a tutte altre occupazioni. In maniera [184] che questa vista,
quantunque appartenga intieramente alle facoltà dell’anima, e in nessun
modo ai sensi, tuttavia non dipende affatto dalla volontà, e se pure
appartiene alla memoria, le appartiene, possiamo dire esternamente,
perché tu in quel punto neanche ti ricordavi delle cose vedute, ed è
piuttosto quella vista che te le richiama alla memoria, di quello che la
stessa memoria te le richiami al pensiero. Effettivamente molte volte
neanche pensandoci apposta, ci ricorderemmo di alcune cose, che
all’improvviso ci vengono in immagine viva e vera dinanzi agli occhi. E
notate che ciò accade senza nessun motivo e nessuna occasione presente,
che tocchi nella memoria quel tasto, perché del rimanente molte volte
accade che una leggerissima circostanza, quasi movendo una molla della
nostra memoria, ci richiami idee e ricordanze anche lontanissime, senza
nessuno intervento della volontà, e senza che i nostri pensieri d’allora ci
abbiano alcuna parte.
Più volte m’è accaduto di addormentarmi con alcuni versi o parole in
bocca, ch’io avrò ripetute spesso dentro la giornata, o dentro qualche ora
prima del sonno, o vero coll’aria di qualche cantilena in mente; dormire
pensando o sognando tutt’altro, e risvegliarmi ripetendo fra me gli stessi
versi o parole, o colla stess’aria nella fantasia. Pare che l’anima
nell’addormentarsi deponga i suoi pensieri e immagini d’allora, come
deponiamo i vestimenti, in un luogo alla mano e vicinissimo, affine di
ripigliarli, subito svegliata. E questo pure senza operazione della volontà.
Parimente s’io dentro la giornata aveva letto per un certo tempo del
greco o latino o francese o italiano elegante ec. quando la mia memoria
era più pronta, (perché ora [185] che nello svegliarmi la trovo
ottusissima, non mi accade così facilmente) mi risvegliava con varie frasi
di quelle lingue in mente, e quasi parlando quelle lingue fra me, non
ostante che nel sonno, nessuna idea me le avesse richiamate. Questo pure
involontariamente. E così si può dire di cento altre idee d’ogni sorta, che
al risvegliarti si presentano spontaneamente affatto. (24. Luglio 1820.).
[186] La ragione che reca Montesquieu (Essai sur le goût. Des plaisirs
de la symétrie) perché l’anima amando la varietà, tuttavia dans la plupart
des choses elle aime à voir une espèce de symétrie, il che sembra che renferme
quelque contradiction, non mi capacita. Une des principales causes des plaisirs
de notre ame, lorsqu’elle voit des objets, c’est la facilité qu’elle a à les
appercevoir; et la raison qui fait que la symétrie plaît à l’ame, c’est qu’elle lui
épargne de la peine, qu’elle la soulage, et qu’elle coupe, pour ainsi dire, l’ouvrage
par la moitié. De-là suit une règle générale: par-tout où la symétrie est utile à
l’ame et peut aider ses fonctions, elle lui est agréable; mais, par-tout où elle est
inutile, elle est fade, parce qu’elle ôte la variété. Or les choses que nous voyons
successivement doivent avoir de la variété; car notre ame n’a aucune difficulté à
les voir: celles, au contraire, que nous appercevons d’un coup d’oeil doivent avoir
de la symétrie. Ainsi, comme nous appercevons d’un coup d’oeil la façade d’un
bâtiment, un parterre, un temple, on y met de la symétrie, qui plaît à l’ame par
la facilité qu’elle lui donne d’embrasser d’abord tout l’objet. Ora io domando
perché noi vedendo una campagna, un paesaggio dipinto o reale ec. d’un
colpo d’occhio come un parterre, e gli oggetti di quella e di questa vista,
essendo i medesimi, noi vogliamo in quella la varietà, e in questa la
simmetria. E perché ne’ giardini inglesi parimente la varietà ci piaccia
[187] in luogo della simmetria. La ragion vera è questa. I detti piaceri, e
gran parte di quelli che derivano dalla vista, e tutti quelli che derivano
dalla simmetria, appartengono al bello. Il bello dipende dalla
convenienza. La simmetria non è tutt’uno colla convenienza ma
solamente una parte o specie di essa, dipendente essa pure dalle opinioni
gusti ec. che determinano l’idea delle proporzioni, corrispondenze, ec. La
convenienza relativa dipende dalle stesse opinioni gusti, ec. Così che
dove il nostro gusto indipendentemente da nessuna cagione innata e
generale, giudica conveniente la simmetria, quivi la richiede, dove no
non la richiede, e se giudica conveniente la varietà, richiede la varietà. E
questo è tanto vero, che quantunque si dica comunemente che la varietà è
il primo pregio di una prospettiva campestre, contuttociò essendo
relativo anche questo gusto, si troveranno di quelli che anche nella
prospettiva campestre amino una certa simmetria, come i toscani che
sono avvezzi a veder nella campagna tanti giardini. E così noi per
l’assuefazione amiamo la regolarità dei vigneti, filari d’alberi, piantagioni
solchi ec. ec. e ci dorremmo della regolarità di una catena di montagne
ec. Che ha che far qui l’utile o l’inutile? perché quando sì, quando no
negli oggetti della stessa natura? perché in queste persone sì, in quelle
no? Di più quegli stessi alberi che ci piacciono collocati regolarmente in
una piantagione, ci piaceranno ancora collocati senz’ordine in una selva,
boschetto ec. La simmetria e la varietà, gli effetti dell’arte e quelli della
natura, sono due generi di bellezze. Tutti [188] due ci piacciono, ma
purché non sieno fuor di luogo. Perciò l’irregolarità in un’opera dell’arte
ci choque ordinariamente (eccetto quando sia pura imitazione della
natura, come ne’ giardini inglesi) perché quivi si aspetta il contrario; e la
regolarità ci dispiace in quelle cose che si vorrebbero naturali, non
parendo ch’ella convenga alla natura, quando però non ci siamo
assuefatti come i toscani.
Notate che ne’ pazzi i più malinconici e disperati, è naturalissimo e
frequente un riso stupido e vuoto, che non viene da più lontano che dalle
labbra. Vi prenderanno per la mano con guardatura profondissima, e nel
lasciarvi vi diranno addio con un sorriso che parrà più disperato e più
pazzo della stessa disperazione e pazzia. Cosa però notabilissima anche
nei savi ridotti alla intiera disperazione della vita, e massimamente dopo
concepita una risoluzione estrema, che li fa riposare appunto in questa
estremità d’orrore, e li placa, come già sicuri della vendetta sopra la
fortuna e se stessi. (26. Luglio 1820.).
Gli uomini sono come i cavalli. Per tenergli in dovere e farsi stimare
bisogna sparlare bravare minacciare e far chiasso. Bisogna adoperar
l’espediente di quelle monache del Tristram Shandy. (1 Agosto 1820.).
La grazia appena io credo che possa esser concepita dai francesi con
idea vera. Certo i loro scrittori non la conoscono. Lo confessa pienamente
Thomas Essai sur les Éloges ch.9. Infatti manca loro cette sensibilité tendre et
pure, cioè inaffettata e naturale (l’avrebbero per natura, ma la società non
vuole che la conservino: l’avevano i loro antichi scrittori) e cet instrument
facile et souple vale a dire una lingua come la greca e l’italiana. Vedi senza
fallo quel passo di Thomas. (13. Agosto 1820.).
In somma dal detto qui sopra e da mille altre [209] cose che si
potrebbero dire, si deduce quanto giustamente i moderni ideologisti
abbiano abolite le idee innate. Archelao diceva secondo Diogene Laerzio
che τὸ δίχαιον χαὶ τὸ αἰσχρόν non è determinato dalla natura ma dalla
legge. E così la legge naturale ancora potrà esser considerata come un
sogno. Abbiamo si può dire innata l’idea astratta della convenienza, ma
quali cose si convengano in morale, appartiene alle idee relative.
Considerate la morale dei diversi popoli, massimamente barbari. E
mettetevi nello stato primitivo dell’uomo. Vedrete che il far male agli
altri per vostro bene non vi ripugna. Il vostro simile in natura non è una
cosa così inviolabile, come credete. L’uomo solitario e selvaggio fa
mondo da se, e il suo simile è come un’altra fiera del bosco. Bensì l’uomo
è naturalmente più inclinato al suo simile, come rispettivamente le altre
bestie. Ma anche il leone combatte col leone, e il toro col toro per li suoi
diletti e vantaggi. Ho detto p. 178. che la natura ha poste negli esseri
diverse qualità che si sviluppano o no, secondo le circostanze. Per
esempio la facoltà di compatire. In natura è molto meno operosa. Ma non
è già propria del solo uomo. In casa mia v’era un cane che da un balcone
gittava del pane a un altro cane sulla strada. Vedi quello che racconta il
Magalotti di una cagna nelle Lettere sull’Ateismo. In natura si ristringe a
quegli esseri che ci toccano più da vicino. Così gli uccelli coi loro
figliuolini, vedendoseli rapire ec. Se vedranno un [210] altro uccello della
specie loro, travagliato o moribondo, non se ne daranno pensiero.
Secondo lo sviluppo delle diverse qualità per le diverse circostanze, è
nata la legge detta naturale. Il rubare l’altrui non ripugna assolutamente
alla natura. Costume degli Spartani. Differenze dalle leggi antiche alle
moderne. La società non è già propria del solo uomo. Le formiche la
fanno per trasportar pesi. Le api hanno anche un governo. In somma
considerando la natura dell’uomo e delle cose, si vedrà che tolte alcune
idee astratte e indeterminate, ossia non applicate, ma da applicarsi, tutto
il resto è relativo, e dipende dalle circostanze, e che negli altri esseri come
nell’uomo ci sono diverse qualità ingenite che sviluppandosi o no, ci
fanno poi giudicare vanamente della somiglianza assoluta della nostra
razza colle altre. (14. Agosto 1820.).
[222] Ses héros aiment mieux être écrasés par la foudre que de faire une
bassesse, ET LEUR COURAGE EST PLUS INFLEXIBLE QUE LA LOI
FATALE DE LA NÉCESSITÉ. BARTHÉLEMY dove discorre di Eschilo. (22.
Agosto 1820.).
La sola cosa che deve mostrare il poeta è di non capire l’effetto che
dovranno produrre in chi legge, le sue immagini, descrizioni, affetti ec.
Così l’oratore, e ogni scrittore di bella letteratura, e si può dir quasi in
genere, ogni scrittore. Il ne paraît point chercher à vous attendrir:, dice di
Demostene il Card. Maury Discours sur l’Éloquence, écoutez-le cependant,
et il vous fera pleurer par réflexion. E quantunque anche la disinvoltura
possa essere affettata, e da ciò guasta, tuttavia possiamo dire
iperbolicamente, che se veruna affettazione è permessa allo scrittore, non
è altra che questa di non accorgersi nè prevedere i begli effetti che le sue
parole faranno in chi leggerà, o ascolterà, e di non aver volontà nè scopo
nessuno, eccetto quello ch’è manifesto e naturale, di narrare, di celebrare,
compiangere ec. Laonde è veramente miserabile e barbaro quell’uso
moderno di tramezzare tutta la scrittura o poesia di segnetti e [226]
lineette, e punti ammirativi doppi, tripli, ec. Tutto il Corsaro di Lord
Byron (parlo della traduzione non so del testo nè delle altre sue opere) è
tramezzato di lineette, non solo tra periodo e periodo, ma tra frase e
frase, anzi spessissimo la stessa frase è spezzata, e il sostantivo è diviso
dall’aggettivo con queste lineette (poco manca che le stesse parole non
siano così divise), le quali ci dicono a ogni tratto come il ciarlatano che fa
veder qualche bella cosa; fate attenzione, avvertite che questo che viene è un
bel pezzo, osservate questo epiteto ch’è notabile, fermatevi sopra questa
espressione, ponete mente a questa immagine ec. ec. cosa che fa dispetto al
lettore, il quale quanto più si vede obbligato a fare avvertenza, tanto più
vorrebbe trascurare, e quanto più quella cosa gli si dà per bella, tanto più
desidera di trovarla brutta, e finalmente non fa nessun caso di quella
segnatura, e legge alla distesa, come non ci fosse. Lascio l’incredibile,
continuo e manifestissimo stento con cui il povero Lord suda e si affatica
perché ogni minima frase, ogni minimo aggiunto sia originale e nuovo, e
non ci sia cosa tanti milioni di volte detta, ch’egli non la ridica in un altro
modo, affettazione più chiara del sole, che disgusta eccessivamente, e
oltracciò stanca per l’uniformità, e per la continua fatica dell’intelletto
necessaria a capire quella studiatissima oscurissima e perenne
originalità. (25. Agosto 1820.).
Torno, tornio, tornire, torno torno, intorno, attorno derivano dal greco
τορνόω, τορνεύω τόρνος, ec. da τορεω; onde anche in latino, tornus,
tornare ec. (26. Agosto 1820.).
[230] Dice il Casa (Galateo c.3.) che non è dicevol costume, quando ad
alcuno vien veduto per via, come occorse alle volte, cosa stomachevole, il
rivolgersi a’ compagni, e mostrarla loro. E molto meno il porgere altrui a fiutare
alcuna cosa puzzolente, come alcuni soglion fare, con grandissima istanza pure
accostandocela al naso, e dicendo: Deh sentite di grazia come questo pute. Non
solo dunque il piacere che si prova, ma anche alcuni incomodi (oltre i
dolori delle sventure ec.) si vogliono quasi per naturale inclinazione
partecipare agli altri, e questa partecipazione ci diletta, e ci dà pena il non
conseguirla. Ne inferirai che dunque l’uomo è fatto per vivere in società.
Ma io dico anzi che questa inclinazione o desiderio, benché paia naturale,
è un effetto della società, bensì effetto prontissimo e facile, perché si
dimostra anche ne’ fanciulli, e forse più spesso che negli adulti. Vedi p.
208. e 85. fine. (4. Settembre 1820.).
Sono state sempre derise quelle poesie che aveano bisogno di note per
farsi intendere. E tuttavia queste note riguardavano cose accessorie o
secondarie, nomi, allusioni, fatti poco noti e male espressi ec. Che si dirà
di quei poemi che hanno bisogno di note dichiarative delle cose
sostanziali e principali, vale a dire dei caratteri, e delle proprietà ed
operazioni del cuore umano che descrivono, come sono i poemi di Lord
Byron? Questi sono i riformatori della poesia? Questi sono i grandi
psicologi? Ma senza psicologia sapevamo già da gran tempo che in
questo modo non si fa effetto in chi legge. Vedi le p. 223-225.
La negligenza e l’irriflessione spessissimo ha l’apparenza e produce
gli effetti della malvagità e brutalità. E merita di esser considerata come
una delle principali e più frequenti cagioni della tristizia degli uomini e
delle azioni. Passeggiando con un amico assai filosofo e sensibile,
vedemmo un giovanastro che con un grosso bastone, passando
sbadatamente e come per giuoco, menò un buon colpo a un povero cane
che se ne stava pe’ fatti suoi senza infastidir nessuno. E parve segno
all’amico di pessimo carattere in quel giovane. A me parve segno di
brutale irriflessione. [239] Questa molte volte c’induce a far cose
dannosissime o penosissime altrui, senza che ce ne accorgiamo (parlo
anche della vita più ordinaria e giornaliera, come di un padrone che per
trascuraggine lasci penare il suo servitore alla pioggia ec.) e avvedutici,
ce ne duole; molte altre volte, come nel caso detto di sopra, sappiamo
bene quello che facciamo, ma non ci curiamo di considerarlo, e lo
facciamo così alla buona, e considerandolo bene non lo faremmo. Così la
trascuranza prende tutto l’aspetto, e produce lo stessissimo effetto della
malvagità e crudeltà, non ostante che ogni volta che tu riflettessi, fossi
molto alieno dalla volontà di produrre quel tale effetto, e che la
malvagità e crudeltà non abbia che fare col tuo carattere. (11. settembre
1820.).
Non per altro che per odio della noia vediamo oggidì concorrere
avidamente il popolo agli spettacoli sanguinosi delle esecuzioni
pubbliche, e a tali altri, che non hanno niente di piacevole in se (come
potevano averne quelli de’ gladiatori e delle bestie nel circo, per la gara,
l’apparato ec.) ma solamente in quanto fanno un vivo contrasto colla
monotonia della vita. Così tutte le altre cose straordinarie, e perciò
gradite, benché non solo non piacevoli, ma dispiacevolissime in sè.
Dall’orazione di M. Tullio pro Archia si vede che la lingua greca era
considerata allora come [240] universale, nello stesso modo che la
francese oggidì, e l’uso e intelligenza della lingua latina era ristretta a
pochi, Latina suis finibus, exiguis sane, continentur. Perciocché le scritture
greche si leggono in quasi tutte le genti, le latine restano dentro a’ loro confini
così stretti come sono. CICERONE l. c. E nondimeno l’impero romano fu
forse il maggiore di quanti mai si viddero, e i romani al tempo di
Cicerone, erano già padroni del mare, ed esercitavano gran commercio.
Così ora si vede che gl’inglesi sono padroni del mare e del commercio, e
sebbene la loro lingua, è perciò più diffusa di molte altre, nondimeno
non è nè conosciuta nè usata universalmente, ma da pochi in ciascun
paese, e cede di gran lunga alla francese, che non s’è mai trovata favorita
da un commercio così vasto. Onde si può ben dedurre, che la diffusione
di una lingua, se ha bisogno di una certa grandezza e influenza della
nazione che la parla (perché la lingua francese, per quanto adattata alla
universalità, non sarebbe divenuta universale, se avesse appartenuto a
una piccola, e impotente nazione per esempio alla Svizzera), contuttociò
dipende principalmente dalla natura di essa lingua. Non vale il dire che i
greci erano diffusissimi per le colonie. Molto più lo erano i romani in
quel tempo, e non solo per le colonie, ma per le armate, governi, tribunali
ec. ec. Ma quando una lingua si diffonde per mezzo delle colonie, si può
dire che si diffonda piuttosto la nazione che la lingua, essendo [241] ben
naturale che una città di romani in qualunque luogo del mondo, parli la
lingua romana, e così un’armata ec. Ma questo non ha che fare
coll’adottarsi generalmente una lingua dagli stranieri, coll’essere tutti gli
uomini colti di qualunque nazione, quasi δίγλωττοι, (vedi p. 684.) e col
potere un viaggiatore farsi intendere con quella lingua in qualunque
luogo. Ora in questo consiste l’universalità di una lingua, e non 1.
nell’esser parlata da’ nazionali suoi, in molte parti del mondo, 2.
nell’essere anche introdotta presso molte nazioni col mezzo di quelli che
la parlano naturalmente, sia coll’abolire la lingua dei vari paesi (quando
anzi la δίγλωττία suppone che questa si conservi), sia coll’alterarla o
corromperla più o meno per mezzo della mescolanza. Cosa che vediamo
accaduta nel latino, del quale si trovano vestigi notabilissimi in molte
parti d’Europa (forse anche di fuori) (come se non erro in Transilvania, in
Polonia, in Russia ec.) e si vede ch’ella si era stabilita nella Spagna e la
Francia dove poi ne derivarono, corrompendosi la latina, le lingue
spagnuola e francese; e nell’Affrica Cartaginese e Numidica ec.; quando
della greca forse non si troveranno, o meno; e contuttociò la lingua latina
non è stata mai universale nel senso spiegato di sopra, come non è
universale oggi la lingua inglese perciò ch’ella è stabilita e si parla come
lingua materna in tutte quattro le parti del mondo. (in ciascuna delle
quattro parti). È noto poi come i greci l’ignorassero sempre, il che forse
contribuì a conservar più a lungo la purità della loro lingua, la sola che
conoscessero. E quanto [242] alle colonie la Francia ha sempre o quasi
sempre ceduto all’Inghilterra, alla Spagna, e fino al Portogallo, come nel
commercio. Neanche la letteratura è cagione principale della universalità
di una lingua. La letteratura italiana primeggiò lungo tempo in Europa,
ed era conosciuta e studiata per tutto, anche dalle dame, come in Francia
da Mad. di Sévigné ec. senza che perciò la lingua italiana fosse mai
universale. E se gl’italianismi guastavano la lingua francese al tempo
delle Medici, come ora i francesismi guastano l’italiano, questo va messo
nella stessa categoria della corruzione che producono le colonie, le
armate ec. (corruzione facilissima e sensibilissima. Pochi soldati
napoletani stanziati nella mia patria al mio tempo per uno o due anni,
aveano introdotto nel volgo parecchie parole ed espressioni del loro
dialetto. Perché il volgo 1. era colpito da quella novità. 2 si faceva un
pregio o un capriccio d’imitare quei forestieri ec.). La letteratura, lingua e
costumi spagnuoli si divulgarono molto, quando la Spagna acquistò una
certa preponderanza in Europa, e massime in Italia (dove restano ancora
alcune parole derivate credo allora dallo spagnuolo), ma l’influenza loro
finì con quella della nazione. Laonde sebbene la letteratura greca,
massime al tempo di Cicerone cioè [243] prima del secolo di Augusto, era
infinitamente superiore alla latina, e più divulgata e famosa, questa
ragione non basta. L’universalità di una lingua deriva principalmente,
dalla regolarità geometrica e facilità della sua struttura, dall’esattezza,
chiarezza materiale, precisione, certezza de’ suoi significati ec. cose che si
fanno apprezzare da tutti, essendo fondate nella secca ragione, e nel puro
senso comune, ma non hanno che far niente colla bellezza, ricchezza
(anzi la ricchezza confonde, difficulta, e pregiudica), dignità, varietà,
armonia, grazia, forza, evidenza, le quali tanto meno conferiscono o
importano alla universalità di una lingua, quanto 1. non possono esser
sentite intimamente, e pregiate se non dai nazionali, 2. ricercano
abbondanza d’idiotismi, figure, insomma irregolarità, che quanto sono
necessarie alla bellezza e al piacere, il quale non può mai stare colla
monotonia, e collo scheletro dell’ordine matematico, tanto nocciono alla
mera utilità, alla facilità ec. La lingua greca sebbene ricchissima ec. ec. ec.
tuttavia era semplicissima nella sua nativa costruzione (dico nativa,
perché poi fu alterata dagli scrittori più bassi che pretendevano
all’eleganza), laddove la latina era estremamente figurata, e la proprietà
de’ suoi composti le dava una facilità e precisione materialissima di
significati, sebbene nuocesse non poco alla varietà la quale non può
risultare [244] dalla copia de’ composti ma delle radici, come nel latino e
italiano. E di queste pure la lingua greca abbonda sommamente, ma può
anche fare a meno della massima parte, e con poche radici, e infiniti
composti formare tutto il discorso. Tale infatti era il costume degli antichi
scrittori greci (Luciano e gli altri più bassi, sono molto più vari e ricchi di
radici). Perché il vocabolario di ciascheduno, osservandolo bene, si
compone di molto poche parole, che ritornano a ogni tratto, essendo raro
che quegli antichi varino la parola o la frase per esprimere una stessa
cosa. Onde segue che siccome la lingua greca per se stessa è immensa,
così passando da uno scrittore all’altro, ritrovate un altro piccolo
vocabolario suo proprio, del quale parimente si contenta, e le espressioni
familiari di ciascuno autor greco sono moltissime e continue, ma diverse
quelle dell’uno da quelle dell’altro, quasi fossero più lingue. Dal che si
può dedurre che la lingua greca benché ricchissima nondimeno con un
piccolo vocabolario può comporre tutto il discorso, e questi vocabolari
possono esser molti e diversi, cosa dimostrata dal fatto, e dal vedersi
negli scrittori greci più che in quelli d’altra lingua, che la facilità
acquistata nel leggere e intendere uno scrittore, non vi giova interamente
nel passare a un altro, dovendovi quasi familiarizzare con un altro
linguaggio. Questo appartiene esclusivamente alla lingua, ma anche
bisogna [245] notare che la lingua greca come l’italiana, si presta a ogni
sorta di stili, e non ha carattere determinato, ma lo riceve dal soggetto e
dallo scrittore, laonde il suo carattere varia, anche in questo senso, e per
questo motivo, secondo le diverse opere, come la lingua di Dante o
dell’Alfieri paragonata con quella del Petrarca ec. (12-13-14. settembre
1820.). Vedi p.1029. fine.
[253] Dal 2. pensiero della p. 116. inferite come, anche secondo questa
sola considerazione, il Cristianesimo debba aver reso l’uomo inattivo e
ridottolo invece ad esser contemplativo, e per conseguenza com’egli sia
favorevole al dispotismo, non per principio (perché il cristianesimo nè
loda la tirannia, nè vieta di combatterla, o di fuggirla, o d’impedirla), ma
per conseguenza materiale, perché se l’uomo considera questa terra
come un esilio, e non ha cura se non di una patria situata nell’altro
mondo, che gl’importa della tirannia? Ed i popoli abituati (massime il
volgo) alla speranza di beni d’un’altra vita, divengono inetti per questa,
o se non altro, incapaci di quei grandi stimoli che producono le grandi
azioni. Laonde si può dire generalmente anche astraendo dal dispotismo,
che il cristianesimo ha contribuito non poco a distruggere il bello il
grande il vivo il vario di questo mondo, riducendo gli uomini
dall’operare al pensare e al pregare, o vero all’operar solamente cose
dirette alla propria santificazione ec. sopra la quale specie di uomini è
impossibile che non sorga immediatamente un padrone. Non è
veramente che la religion cristiana condanni o non lodi l’attività.
Esempio un San Carlo Borromeo, un San Vincenzo de Paolis. Ma in
primo luogo l’attività di questi santi [254] se bene li portava ad azioni
eroiche (e per questa parte grandi) ed utili, non dava gran vita al mondo,
perché la grandezza delle loro azioni era piuttosto relativa ad essi stessi
che assoluta, e piuttosto intima e metafisica, che materiale. In secondo
luogo, parendo che il cristianesimo faccia consistere la perfezione
piuttosto nell’oscurità nel silenzio, e in somma nella totale dimenticanza
di quanto appartiene a questo esilio, egli ha prodotto e dovuto produrre
cento Pacomi e Macari per un San Carlo Borromeo, ed è certo che lo
spirito del Cristianesimo in genere portando gli uomini, come ho detto,
alla noncuranza di questa terra, se essi sono conseguenti, debbono
tendere necessariamente ad essere inattivi in tutto ciò che spetta a questa
vita, e così il mondo divenir monotono e morto. Paragonate ora queste
conseguenze, a quelle della religione antica, secondo cui questa era la
patria, e l’altro mondo l’esilio. (29. settembre 1820.).
Si mise un paio di occhiali fatti della metà del meridiano co’ due
cerchi polari.
Una casa pensile in aria sospesa con funi a una stella. (1 Ottobre
1820.).
[257] Alle volte la vivacità (sia del viso, o dei movimenti, o delle
azioni ec.), alle volte la languidezza e flemma è madre di grazia. E chi è
preso più da quella, chi più da questa.
Bisogna distinguere in fatto di belle arti, entusiasmo, immaginazione,
calore ec. da invenzione massimamente di soggetti. La vista della bella
natura desta entusiasmo. Se questo entusiasmo sopraggiunge ad uno che
abbia già per le mani un soggetto, gli gioverà per la forza della
esecuzione, ed anche per la invenzione ed originalità secondaria, cioè
delle parti, dello stile, delle immagini, insomma di tutto ciò che spetta
all’esecuzione. Ma difficilmente, o non mai, giova all’invenzione del
soggetto. Perché l’entusiasmo giovi a questo, bisogna che si aggiri
appunto e sia cagionato dallo stesso soggetto, come l’entusiasmo di una
passione. Ma l’entusiasmo astratto, vago, indefinito, che provano spesse
volte gli uomini di genio, all’udire una musica, allo spettacolo della
natura ec. non è favorevole in nessun modo all’invenzione del soggetto,
anzi appena delle parti, perché in quei momenti l’uomo è quasi fuor di
se, si abbandona come ad una forza estranea che lo trasporta, non è
capace di raccogliere nè di fissare le sue idee, tutto quello che vede, è
infinito, indeterminato, sfuggevole, e così vario e copioso, che non
ammette nè ordine, nè regola, nè [258] facoltà di annoverare, o disporre,
o scegliere, o solamente di concepire in modo chiaro e completo, e molto
meno di saisir un punto (vale a dire un soggetto) intorno al quale possa
ridurre tutte le sensazioni e immaginazioni che prova, le quali non hanno
nessun centro. Anzi provando pure, come ho detto, l’entusiasmo di una
passione, e volendo scegliere per soggetto la stessa passione, se
l’entusiasmo è veramente vivo e vero, non saprete determinarvi a veruna
forma trattabile di questo soggetto. In sostanza per l’invenzione dei
soggetti formali e circoscritti, ed anche primitivi (voglio dire per la prima
loro concezione) ed originali, non ci vuole, anzi nuoce, il tempo
dell’entusiasmo, del calore e dell’immaginazione agitata. Ci vuole un
tempo di forza, ma tranquilla; un tempo di genio attuale piuttosto che di
entusiasmo attuale (o sia, piuttosto un atto di genio che di entusiasmo);
un influsso dell’entusiasmo passato o futuro o abituale, piuttosto che la
sua presenza, e possiamo dire il suo crepuscolo, piuttosto che il
mezzogiorno. Spesso è adattatissimo un momento in cui dopo un
entusiasmo, o un sentimento provato, l’anima sebbene in calma, pure
ritorna come a mareggiare dopo la tempesta, e richiama con piacere la
sensazione passata. Quello forse è il tempo più atto, e il più frequente
della concezione di un soggetto originale, o delle parti originali di esso. E
generalmente [259] si può dire che nelle belle arti e poesia, le
dimostrazioni di entusiasmo d’immaginazione e di sensibilità, sono il
frutto immediato piuttosto della memoria dell’entusiasmo, che dello
stesso entusiasmo, riguardo all’autore. (2. Ottobre 1820.). Laddove
insomma l’opinione comune che par vera a prima vista, considera
l’entusiasmo come padre dell’invenzione e concezione, e la calma come
necessaria alla buona esecuzione; io dico che l’entusiasmo nuoce o
piuttosto impedisce affatto l’invenzione (la quale dev’essere determinata,
e l’entusiasmo è lontanissimo da qualunque sorta di determinazione), e
piuttosto giova all’esecuzione, riscaldando il poeta o l’artefice, avvivando
il suo stile, e aiutandolo sommamente nella formazione, disposizione, ec.
delle parti, le quali cose tutte facilmente riescon fredde e monotone
quando l’autore ha perduto i primi sproni dell’originalità. (3. ottobre
1820.).
La semplice bellezza rispetto alla grazia ec. è nella categoria del bello,
quello ch’è la ragione rispetto alla natura nel sistema delle cose umane.
Questa considerazione può applicarsi a spiegare l’arcana natura e gli
effetti della grazia.
La ragione è debolissima e inattiva al contrario della natura. Laonde
quei popoli e quei tempi nei quali prevale più o meno la ragione saranno
stati e saranno sempre inattivi in proporzione della influenza di essa
ragione. Al contrario dico della natura. Ed un popolo tutto ragionevole o
filosofo non potrebbe sussistere per mancanza di movimento e di chi si
prestasse agli uffizi scambievoli e necessari alla vita. ec. ec. E infatti
osservate quegli uomini (che non sono rari oggidì) stanchi del mondo e
disingannati per lunga esperienza, e possiamo dire, renduti
perfettamente ragionevoli. Non sono capaci d’impegnarsi in
nessun’azione, e neanche desiderio. Simili al march. D’Argens, di cui
dice Federico nelle Lettere, che per pigrizia, non avrebbe voluto pur
respirare, se avesse potuto. La conseguenza della loro stanchezza,
esperienza, e cognizione delle cose è una perfetta indifferenza che li fa
seguire il moto altrui senza muoversi da se stessi, anche nelle cose che li
riguardano. Laonde se questa indifferenza potesse divenire universale
[271] in un popolo, non esistendovi moto altrui, non vi sarebbe
movimento di nessuna sorta.
La gloria per lo più, massimamente la letteraria, allora è dolce quando
l’uomo se ne pasce nel silenzio del suo gabinetto, e se ne serve di sprone
a nuove imprese gloriose, e di fondamento a nuove speranze. Perché
allora ella conserva la forza dell’illusione, sola forza ch’essa abbia. Ma
goduta nel mondo e nella società, ordinariamente si trova esser cosa o
nulla, o piccolissima, o insomma incapace di riempier l’animo e
soddisfarlo. Come tutti i piaceri da lontano sono grandi, e da vicino
minimi, aridi, voti, e nulli.
Coloro che dicono per consolare una persona priva di qualche
considerabile vantaggio della vita: non ti affliggere; assicurati che sono
pure illusioni: parlano scioccamente. Perché quegli potrà e dovrà
rispondere: ma tutti i piaceri sono illusioni o consistono nell’illusione, e
di queste illusioni si forma e si compone la nostra vita. Ora se io non
posso averne, che piacere mi resta? e perché vivo? Nella stessa maniera
dico io delle antiche istituzioni ec. tendenti a fomentare l’entusiasmo, le
illusioni, il coraggio, l’attività, il movimento, la vita. Erano illusioni, ma
toglietele, [272] come son tolte. Che piacere rimane? e la vita che cosa
diventa? Nella stessa maniera dico: la virtù, la generosità, la sensibilità, la
corrispondenza vera in amore, la fedeltà, la costanza, la giustizia, la
magnanimità ec. umanamente parlando sono enti immaginari. E tuttavia
l’uomo sensibile se ne trovasse frequentemente nel mondo, sarebbe
meno infelice, e se il mondo andasse più dietro a questi enti immaginari
(astraendo ancora da una vita futura), sarebbe molto meno infelice.
Seguirebbe delle illusioni, perché nessuna cosa è capace di riempier
l’animo umano, ma non è meglio una vita con molti piaceri illusorii, che
senza nessun piacere? non si vivrebbe meglio se nel mondo si trovassero
queste illusioni più realizzate, e se l’uomo di cuore non si dovesse
persuadere non solo che sono enti immaginari, ma che nel mondo non si
trovano più neanche così immaginari come sono? in maniera che manchi
affatto il pascolo e il sostegno all’illusione. E dall’altro lato, non c’è
maggiore illusione ovvero apparenza di piacere che quello che deriva dal
bello dal tenero dal grande dal sublime dall’onesto. Laonde quanto più
queste cose abbondassero, sebbene illusorie, tanto meno l’uomo sarebbe
infelice. (11. ottobre 1820.). Vedi p. 338. capoverso 2.
Si può applicare alla poesia (come anche alle cose che hanno relazione
o affinità con lei) quello che ho detto altrove: che alle grandi azioni è
necessario un misto di persuasione e di passione o illusione. Così la
poesia tanto riguardo al maraviglioso, quanto alla commozione o
impulso di qualunque genere, ha bisogno di un falso che pur possa
persuadere, non solo secondo le regole ordinarie della verisimiglianza,
ma anche rispetto ad un certo tal quale convincimento che la cosa stia o
possa stare effettivamente così. Perciò l’antica mitologia, o [286]
qualunque altra invenzione poetica che la somigli, ha tutto il necessario
dalla parte dell’illusione, passione ec. ma mancando affatto dalla parte
della persuasione, non può più produrre gli effetti di una volta, e
massime negli argomenti moderni, perché negli antichi, l’abitudine ci
proccura una tal quale persuasione, principalmente quando anche il
poeta sia antico, perché immedesimatasi in noi l’idea di quei fatti, di quei
tempi, di quelle poesie ec. con quelle finzioni, queste ci paiono naturali e
quasi ci persuadono, perché l’assuefazione c’impedisce quasi di
distinguerle da quei poeti, tempi, avvenimenti ec. e così machinalmente
ci lasciamo persuadere quanto basta all’effetto, che la cosa potesse star
così. Ma applicate nuovamente le stesse o altre tali finzioni, sia ad altri
argomenti antichi, sia massimamente a soggetti moderni o de’ bassi
tempi ec. ci troviamo sempre un non so che di arido e di falso, perché
manca la tal quale persuasione, quando anche la parte del bello
immaginario, maraviglioso ec. sia perfetta. Ed anche per questa parte il
Tasso non produrrà mai l’effetto dei poeti antichi, [287] ebbene il suo
favoloso e maraviglioso è tratto idalla religion Cristiana. Ma oggidì in
tanta propagazione e incremento di lumi, nessuna finzione o nuova [o]
nuovamente applicata, trova il menomo luogo nell’intelletto, mancando
la detta assuefazione, la quale supplisce al resto ne’ poeti antichi. E
questa è una gran ragione per cui la poesia oggidì non può più produrre
quei grandi effetti nè riguardo alla maraviglia e al diletto, nè riguardo
all’eccitamento degli animi, delle passioni ec. all’impulso a grandi azioni
ec. Tanto più che la religion cristiana non si presta alla finzione
persuadibile, come la pagana. A ogni modo è certo appunto per le
sopraddette osservazioni, che la pagana oggidì non potendo aver più
effetto, il poeta deve appigliarsi alla cristiana; e che questa maneggiata
con vero giudizio, scelta, e abilità, può tanto per la maraviglia che per gli
affetti ec. produrre impressioni sufficienti e notabili. (19. ottobre 1820.).
Anche gli animali si associano in molti casi, e sempre per lo vantaggio
comune. Oltre le formiche e le api che ho notate altrove, si può osservare
[288] la così detta ruota che fanno i cavalli e altri animali per difendersi da
comuni aggressori. Dalla quale s’inferisce ancora che gli animali hanno
idee sufficienti di ordinanza o tattica, cioè del modo di accrescere e
rendere più profittevoli le forze individuali 1. coll’unione di molti
individui, 2. colla disposizione e figura di tutta la torma, 3. colla
conveniente collocazione degl’individui. Di tali società guerriere
offensive e difensive, credo che la storia naturale fornisca moltissimi
esempi. Come anche in altri casi; per es. se è vero quello che si racconta
dell’ordinanza delle grù nei viaggi che fanno, della sentinella o
svegliatrice che tengono. Così la catena delle scimmie per passare i fiumi,
così cento altri esempi dell’aiuto scambievole che le bestie si prestano per
vantaggio comune, e forse anche talvolta per vantaggio del solo
bisognoso e aiutato.
Tutte le cose si desiderano perfette relativamente al loro genere.
Tuttavia perché il perfetto è rarissimo in tutte le specie di cose, coloro che
imitano o contraffanno, sogliono mescolare alla imitazione qualche
difetto, cioè imitare piuttosto [289] e figurare e scegliere l’individuo
difettoso che il perfetto, per render la imitazione più verisimile e
credibile, e fare inganno, e persuadere che il finto sia vero. E laddove il
difetto scema pregio all’imitato e vi si biasima, accresce pregio
all’imitazione e vi si loda. Così se tu vuoi contraffare un filo di perle, non
le fai tutte tonde perfettamente, sebbene in un filo vero le vorresti tutte
così. Ed imiti piuttosto una gemma di un prezzo mediocre, di quello che
contraffarne una inestimabile. Così dunque loderemo sempre più
l’Achille difettoso di Omero, che l’Enea, il perfetto eroe di Virgilio, a
cagione della credibilità, del vantaggio che ne cava l’illusione e la
persuasione. Ed estenderemo questa osservazione a regolamento di tutti
i poeti, quando scelgono qualche oggetto da imitare, acciocché rifiutino
gli eccessi tanto di perfezione quanto d’imperfezione, intorno alla quale
siamo pure nello stesso caso. Applicate quest’ultima riflessione ai
protagonisti di Lord Byron. (20. ottobre 1820.).
[290] Alla p. 283. aggiungi. L’uomo non si avvede mai precisamente
del punto in cui egli si addormenta, per quanto voglia proccurarlo. Ora il
sonno non è il fine della vita, ma certo un interrompimento, e quasi
un’immagine di esso fine; e se l’uomo non può sentire il punto in cui le
sue facoltà vitali restano come sospese, molto meno quando sono
distrutte. Forse anche si potrà dire che l’addormentarsi non è un punto,
ma uno spazio progressivo più o meno breve, un appoco appoco più o
meno rapido; e lo stesso si dovrà dir della morte. Di più è certo che i
momenti i quali precedono immediatamente il sonno, e il punto o lo
spazio dell’addormentarsi definitivamente (sebbene impercettibile), è
dilettevole. Questo quando anche la cagione del sonno, come il languore,
il travaglio, la malattia, la semplice debolezza, non siano dilettevoli, anzi
l’opposto; e però i momenti più lontani dal sonno siano penosi. Anzi
anche il letargo proveniente da infermità, anche mortale, è dilettevole.
Che il torpore sia dilettevole l’ho notato già in questi pensieri nella teoria
del piacere, e assegnatane la ragione. Credo che su questo fondamento il
Napoletano [291] Cirillo abbia opinato che la morte abbia un non so che
di dilettevole. Nel che sono interamente con lui, e non dubito che l’uomo
(e qualunque animale) non provi un certo conforto, e un tal qual piacere
nella morte. Non già che le cagioni di lei, e perciò i momenti più lontani
da lei, siano dilettevoli; ma sibbene i momenti che la precedono
immediatamente, e quello stesso punto o spazio impercettibile, e
insensibile, in cui ella consiste. E ciò in qualunque malattia, anche nelle
acutissime, nelle quali il Buffon pare che convenga che la morte possa
esser dolorosa. Anzi il torpore della morte dev’esser tanto più dilettevole,
quanto maggiori sono le pene che lo precedono, e da cui esso per
conseguenza ci libera. E però generalmente e sempre, il torpore della
morte dev’essere più grato di quello del sonno, perché succede a molto
maggior travaglio. Il qual sonno come ho detto non è mai penoso,
quando anche sia cagionato da pene, anche da angoscie vive, come da
febbre ardente ec. Quanto alle malattie dove l’uomo si estingue appoco
appoco, e con piena conoscenza fino all’ultimo, è certo che non v’è
momento così immediatamente vicino alla morte, dove l’uomo anche il
meno illuso non si prometta un’ora almeno di vita, come si dice de’
vecchi ec. E così la morte non è mai troppo vicina al pensiero del
moribondo, per la solita misericordia della natura. Vedi p. 599. capoverso
2. Io bene spesso trovandomi in gravi travagli o corporali o morali, ho
desiderato non solamente il riposo, ma la mia anima senza sforzo, e
senza eroismo, si compiaceva [292] naturalmente nell’idea di
un’insensibilità illimitata e perpetua, di un riposo, di una continua
inazione dell’anima e del corpo, la qual cosa desiderata in quei momenti
dalla mia natura, mi era nominata dalla ragione col nome espresso di
morte, nè mi spaventava punto. E moltissimi malati non eroi, nè
coraggiosi anzi timidissimi, hanno desiderato e desiderano la morte in
mezzo ai grandi dolori, e sentono un riposo in quell’idea, il quale sarebbe
molto maggiore, se l’idea della morte non fosse accompagnata dai timori
del futuro, e da cento altre cose estranee, e d’altro genere. Del resto il
riposo ch’io desiderava allora mi piaceva più che dovesse esser perpetuo,
acciò non avessi dovuto ripigliare svegliandomi gli stessi travagli de’
quali era così stanco.
Se la morte e il sonno siano un punto o uno spazio, non si ricerca
riguardo a quei momenti nei quali l’uomo conserva ancora una
cognizione di se, che va scemando a poco a poco, giacché questo non si
dubita che non sia uno spazio progressivo, ma riguardo al tempo non
sensibile, nè conoscibile, nè ricordabile. Il quale pare che debba essere
istantaneo, giacché il passaggio dal conoscere al non conoscere, [293]
dall’essere al non essere, dalla cosa quantunque menoma al nulla, non
ammette gradazione, ma si fa necessariamente per salto, e
istantaneamente. (21. ottobre 1820.).
Le cagioni dell’amore dei vecchi alla vita e del timor della morte, i
quali par che crescano in proporzione che la vita è meno amabile, e che la
morte può [295] privarci di minore spazio di tempo, e di minori
godimenti, anzi di maggiori mali (fenomeno discusso ultimamente dai
filosofi tedeschi che ne hanno recato mille ragioni fuorché le vere: vedi lo
Spettatore di Milano), sono, oltre quella che ho recata, mi pare, negli
abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno, queste altre. 1. Che coll’ardore e la
forza della vitalità e dell’esistenza, si estingue o scema il coraggio, e
quindi a proporzione che l’esistenza è meno gagliarda, l’uomo è meno
forte per poterla disprezzare, e incontrarne o considerarne la perdita.
Anche i giovani più facili a disprezzar la vita, coraggiosissimi nelle
battaglie e in ogni rischio, sono bene spesso paurosissimi nelle malattie,
tanto per la detta cagione della minor forza del corpo, e quindi
dell’animo, quanto perché non possono opporre alla morte
quell’irriflessione, quel movimento, quell’energia, che gl’impedisce di
fissarla nel viso, in mezzo ai rischi attivi. 2. Che molte cose vedute da
lungi paiono facilissime ad incontrare, e niente spaventose, e in vicinanza
riescono terribili, e poi ci si trovano mille difficoltà, mille crepacuori;
affezioni, progetti ec. che da lontano pareano facili ad abbandonare [296]
per forza di ardore di entusiasmo, o di passione, disperazione ec. e da
vicino rincrescono infinitamente quando la passione è sparita, e le cose si
considerano quietamente. 3. Che la natura ha posto negli esseri viventi
sommo amor della vita, e quindi odio della morte, e queste passioni ha
voluto e fatto che fossero cieche, e non dipendessero dal calcolo delle
utilità, della maggiore o minor perdita ec. Quindi è naturale che gli effetti
di questo amore e di quest’odio crescano in proporzione che la cosa
amata è più in pericolo, e più bisognosa di cure per conservarla, e la cosa
odiata più vicina. 4. Che i beni si disprezzano quando si possiedono
sicuramente, e si apprezzano quando sono perduti, o si corre pericolo o
si è in procinto di perderli. E come quel disprezzo era maggiore del
giusto, così anche questa stima suol eccedere i limiti in qualsivoglia cosa.
Ora il giovane, per quanto è concesso all’uomo, è il vero possessor della
vita; il vecchio la possiede come precariamente. 5. Che la felicità o
infelicità non si misura dall’esterno ma dall’interno. Il vecchio per
l’assuefazione è meno suscettibile [297] di mali, e meno sensibile a quelli
che gli avvengono; per l’estinzione dell’impeto e dell’inquietudine
giovanile, meno bisognoso dei beni che gli mancano, meno vivo nei
desideri, più facile a soffrir la privazione di ciò che desidera, e a
desiderar cose dove possa agevolmente esser soddisfatto. Laonde la vita
del vecchio non è più infelice di quella del giovane, anzi forse più felice
secondo la sesta considerazione. 6. Che la vita metodica, tranquilla e
inattiva non è penosa ma piacevole, quando s’accordi col metodo, calma,
e inattività dell’individuo. Certo il giovane muore in una tal condizione,
ma la condizione ch’egli desidera, specialmente nello stato presente del
mondo, è difficilissima o impossibile a conseguire. Egli non trova altro
che il nulla da cui fugge; il vecchio lo desidera, lo cerca, lo trova come
tutti gli altri di qualunque età, e a differenza delle altre età, se ne
compiace, o almeno non se ne duole, o certo lo soffre con pazienza, e
quando l’uomo è perfettamente paziente, allora non può non amar la
vita, perché questa è amabile per natura. Aggiungete la tempesta delle
passioni, dalla [298] quale il vecchio è libero, la tempesta del mondo,
della società, degli affari, delle azioni, degli stessi diletti, quella tempesta
nella quale il giovane, anche dopo averla sospirata in mezzo alla noia,
sospira il riposo e la calma. Anzi è certo che lo stato naturale è il riposo e la
quiete, e che l’uomo anche più ardente, più bisognoso di energia, tende alla calma
e all’INAZIONE continuamente in quasi tutte le sue operazioni. Osservate
ancora che la vita metodica era quella dell’uomo primitivo, e la più felice
vita, non sociale, ma naturale. Osservate anche oggidì l’impressione che
fa l’aspetto di essa vita rurale o domestica, nelle persone più dissipate, o
più occupate, e com’ella par loro la più felice che si possa menare. È vero
che ella ordinariamente è tale quando consiste in un metodo di
occupazioni, e tale era nei primitivi, e nei selvaggi sempre occupati ai
loro bisogni, o ad un riposo figlio e padre della fatica e dell’azione. Ma in
ogni modo l’uomo avvezzandosi anche alla pura inazione, ci si affeziona
talmente che l’attività gli riuscirebbe [299] penosissima. Si vedono bene
spesso de’ carcerati ingrassare e prosperare, ed esser pieni di allegria,
nella stessa aspettazione di una sentenza che decida della loro vita. Dove
anzi l’imminenza del male, accresce il piacere del presente, cosa già
osservata dagli antichi (come da Orazio), anzi famosa tra loro, e provata
da me, che non ho mai sperimentato tal piacere della vita, e tali furori di
gioia maniaca ma schiettissima, come in alcuni tempi ch’io aspettava un
male imminente, e diceva a me stesso; Ti resta tanto a godere e non più, e
mi rannicchiava in me stesso, cacciando tutti gli altri pensieri, e
soprattutto di quel male, per pensare solamente a godere, non ostante la
mia indole malinconica in tutti gli altri tempi, e riflessivissima. Anzi
forse questa accresceva allora l’intensità del godimento, o della
risoluzione di godere. Applicate anche questa settima considerazione ai
vecchi. Vedi p. 121. pensiero 3. e confrontalo, rettificalo, ed accrescilo con
questo, e questo con quello. (23. ottobre 1820.).
I principi non possono essere amati per altra passione che per quella
che consiste nell’amor di parte. [300] L’ambizione, l’avarizia ec. cadono
sotto la categoria dell’interesse, consistono nel freddo calcolo
dell’egoismo, e perciò spettano alla ragione, tutto l’opposto del fervido,
irriflessivo e cieco impeto della passione. E chi sacrifica se stesso al
principe per ambizione, avarizia, o altre mire di propria utilità, non si
sacrifica veramente al principe ma a se stesso, e tanto quanto lo crede
utile a se stesso, e in caso diverso, abbandona la sua causa. Ma l’amor di
parte conduce a sacrificarsi furiosamente, e senza riserva nè condizione
nè ritegno nè calcolo veruno, all’oggetto di questo amore, e così la
passione primieramente è più forte della ragione e dell’interesse, e
conduce ad affrontare molto maggiori ostacoli e pericoli; in secondo
luogo non è soggetta a cambiar di strada secondo le circostanze, come
l’interesse che da una causa porta a difenderne un’altra, secondo che
meglio torna. I principi dunque non potendo esser favoriti dai sudditi
per altra passione che per la sopraddetta, e l’interesse non essendo nè
così forte, nè molto meno così costante, la ragione poi essendo
inoperosissima (giacché vediamo tutto giorno che quella parte [301] dei
sudditi la quale ama o favorisce il suo governo per mera persuasione,
come anche quella che lo odia nello stesso modo, è la parte più immobile
e più passiva del popolo), debbono fomentare l’amor di parte. E siccome
questo non è attivo anzi non esiste, se non v’è parte contraria, perciò,
quantunque sembri un paradosso, si può affermare che giova al principe
il dar luogo a una fazione contraria alla sua, quando esista la favorevole,
e sia più forte com’è il più naturale e ordinario. Questa fu la pratica dei
romani la quale riuscì loro così bene come nessuno ignora. E i realisti di
Francia, e le provincie o città realiste non sarebbero così ardenti
sostenitori del re, se non avessero lo spirito di parte, e se non esistesse un
partito contrario considerabile, il quale non è più forte, ma se fosse,
l’affare sarebbe fuor del caso. E cento altri esempi e prove simili può
fornire la storia antica e moderna e presente. Quello dunque che ho detto
p.113. de’ conquistatori, si può estendere a tutti i principi e governi (27.
ottobre 1820.). massime monarchici, oligarchici, aristocratici ec. perché
nelle repubbliche [302] il caso è alquanto diverso, e le fazioni sono utili
per altre ragioni, ma non però che anche questa non si possa applicare ad
esse pure. Vedi p. 1242.
Novembre 1820
Osservano i giuristi che nel Cod. Giustin. non si trova legge contro i
duelli (perloché moltissimi si sforzano di tirarci scioccamente quella di
Costantino M. [304] contro i Gladiatori). Così accade a chi fa il ritratto o
la copia avanti che abbia veduto l’originale, o ad un fanciullo che si faccia
le vesti per quando sarà cresciuto.
Il faut s’arrêter et séjourner sur les goûts et sur les plaisirs, pour en
jouir: il faut de repos pour le bonheur. Il n’y a point de présent pour une
ame agitée: la soif des richesses ne laisse jamais assez de calme pour
sentir ce que l’on possède (lo stesso dite di qualunque altro desiderio
difficile a conseguire, e vivissimo tuttavia)… Ils passent leur vie en désirs
et en espérances: ainsi, ils ne vivent pas, mais ils espérent de vivre.
MADAME DE LAMBERT, Réflexions sur les richesses. Paris 1808. à la suite des
Avis d’une mère à son fils. p. 153, 154.
Quel detto scherzevole di un francese Glissez, mortels, n’appuyez pas a
me pare che contenga tutta la sapienza umana, tutta la sostanza e il frutto
e il risultato della più sublime e profonda e sottile e matura filosofia. Ma
questo insegnamento ci era già stato dato dalla natura, e non al nostro
intelletto nè alla ragione, ma all’istinto ingenito ed intimo, e tutti noi
l’avevamo messo in pratica da [305] fanciulli. Che cosa adunque abbiamo
imparato con tanti studi, tante fatiche, esperienza, sudori, dolori? e la
filosofia che cosa ci ha insegnato? Quello che da fanciulli ci era
connaturale, e che poi avevamo dimenticato e perduto a forza di
sapienza; quello che i nostri incolti e selvaggi bisavoli, sapevano ed
eseguivano senza sognarsi d’esser filosofi, e senza stenti nè fatiche nè
ricerche nè osservazioni nè profondità ec. Sicché la natura ci aveva già
fatto saggi quanto qualunque massimo saggio del nostro o di
qualsivoglia tempo; anzi tanto più, quanto il saggio opera per massima,
che è cosa quasi fuori di se; noi operavamo per istinto e disposizione
ch’era dentro di noi, ed immedesimata colla nostra natura, e però più
certamente e immancabilmente e continuamente efficace. Così l’apice del
sapere umano e della filosofia consiste a conoscere la di lei propria
inutilità se l’uomo fosse ancora qual era da principio, consiste a
correggere i danni ch’essa medesima ha fatti, a rimetter l’uomo in quella
condizione in cui sarebbe sempre stato, s’ella non fosse mai nata. E
perciò solo è utile la sommità della filosofia, perché ci libera e disinganna
dalla filosofia. (7. Novembre 1820.).
Il Parnaso latino creato dopo che gli studi aveano preso forma
regolare, se non intieramente presso i latini (quantunque la vera
creazione del Parnaso latino si possa porre nel secolo di Augusto, perché
i poeti antecedenti erano di pochissimo conto), certo però presso i greci,
dai quali tutta la letteratura latina derivò immediatamente; non fu
soggetto a questa difficoltà. (8 Novembre 1820.). Ma la poesia greca ebbe
la disgrazia di trovarsi tutta bella e formata prima della nascita delle
regole. Dal che non solo intorno alla prosodia, ma a tutto il rimanente, si
possono [309] osservare quelle conseguenze che sono naturali, e quelle
differenze che ne dovevano nascere, rispetto alla poesia latina.
Il faut être bien grand pour avoir la force de ne l’être qu’à ses propres
yeux. MADAME DE LAMBERT, Portrait de M. de S. Paris 1808. à la suite des
Avis d’une mère à son fils. p.226.
Il est dans l’âge où les sentimens deviennent plus délicats, parce
qu’on échappe à l’empire des sens: dans cet âge où l’on vit encore pour
ce qui plaît, et où l’on se retire pour ce qui incommode, il jouit des
plaisirs purs. Ib. p. 227.
Di uno sciocco che sempre vien fuori colla logica, dove ha gran
presunzione, e la caccia in tutti i discorsi. Egli è propriamente l’uomo
definito alla greca; un ANIMALE logico.
Il gusto decisamente di preferenza che ha questo secolo per le materie
politiche, è una conseguenza immediata e naturale, della semplice
diffusione dei lumi, ed estinzione dei pregiudizi. Perché quando per una
parte non si pensa più colla mente altrui, e le opinioni non dipendono
più dalla tradizione, [310] per l’altra il sapere non è più proprio
solamente di pochi, i quali non potrebbero formare il gusto comune;
allora le considerazioni cadono necessariamente sopra le cose che
c’interessano più da vicino, più fortemente, più universalmente. L’uomo
pregiudicato o irriflessivo, segue l’abitudine, lascia andar le cose come
vanno, e perché vanno e sono andate così, non pensa che possano andar
meglio. Ma l’uomo spregiudicato e avvezzo a riflettere, com’è possibile
che essendo la politica in relazione continua colla sua vita, non la renda
l’oggetto principale delle sue riflessioni, e per conseguenza del suo
gusto? Nei secoli passati, come in quello di Luigi 14. anche gli uomini
abili, non essendo nè spregiudicati, nè principalmente riflessivi, della
politica conservavano l’antica idea, cioè che stesse bene come stava, e
toccasse a pensarvi solamente a chi aveva in mano gli affari. Più tardi, gli
uomini spregiudicati non mancavano, ma eran pochi: pensavano e
parlavano di politica, ma il gusto non poteva essere universale.
Aggiungete che i letterati e i sapienti per lo più vivono in una certa
lontananza dal mondo; perciò la politica non toccava il sapiente così
dappresso, non gli stava tanto avanti gli occhi, non era in tanta relazione
[311] colla sua vita, come ora che tutto il mondo è sapiente, e le
cognizioni son proprie di tutte le classi. Del resto, sebbene la morale per
se stessa è più importante, e più strettamente in relazione con tutti, di
quello che sia la politica, contuttociò a considerarla bene, la morale è una
scienza puramente speculativa, in quanto è separata dalla politica: la vita,
l’azione, la pratica della morale, dipende dalla natura delle istituzioni
sociali, e del reggimento della nazione: ella è una scienza morta, se la
politica non cospira con lei, e non la fa regnare nella nazione. Parlate di
morale quanto volete a un popolo mal governato; la morale è un detto, e
la politica un fatto: la vita domestica, la società privata, qualunque cosa
umana prende la sua forma dalla natura generale dello stato pubblico di
un popolo. Osservatelo nella differenza tra la morale pratica degli antichi
e de’ moderni sì differentemente governati. (9 Novembre 1820.).
Oltracciò il comune è bensì illuminato e riflessivo al dì d’oggi, ma non
profondo, e sebbene la politica domanda forse maggior profondità di
lumi e di riflessioni che la morale, contuttociò il suo aspetto e superficie
offre un campo più facile agl’intelletti volgari, e generalmente la politica
si presta [312] davantaggio ai sogni alle chimere alle fanciullaggini.
Finalmente il volgo preferisce il brillante e il vasto al solido ed utile, ma
in certo modo più ristretto e meno nobile, perché la morale spetta
all’individuo, e la politica alla nazione e al mondo. E la superbia degli
uomini è lusingata dal parlare e discutere i pubblici interessi,
dall’esaminare e criticare quelli che gli amministrano ec. e il volgare si
crede capace e degno del comando, allorché parla della maniera di
comandare.
Alla p. 62. pensiero 1. Osservate però che c’è una differenza in questo
fra la letteratura latina e l’italiana, in quanto non le sole cognizioni
filosofiche o filologiche, le quali esigevano l’uso delle parole greche, ma
tutta la letteratura latina era derivata dalla greca. Non così l’italiana dalla
francese, eccetto nella filosofia ec. anzi per lo contrario. Sicché l’introdur
parole greche in latino doveva essere un poco più facile e naturale. Del
resto la stessa cognazione e fratellanza ch’era tra la greca e la latina esiste
tra la lingua italiana e la francese, e se la greca si vuol considerare per
anteriore, se non altro nella formazione e sistemazione, anche la lingua
provenzale ci ha preceduto quasi nello stesso modo.
Alla p. 58. pensiero penultimo. Aggiungete che [313] il tempo di
Giuliano era tutto sofistico, e tale egli è in tutte le altre sue opere, tali
sono Libanio, Temistio ec. suoi più famosi scrittori contemporanei. Ma
nessuno è sofista quando parla di se stesso e per se stesso, e in
un’occasione che mette in vero movimento l’animo suo.
Come la forza della natura giovanile, forza che non può esser vinta in
fatto da nessuna ragionevolezza, studio, filosofia, precoce maturità di
pensare ec. fa che il giovane s’inebbri facilmente della felicità, così anche
dell’infelicità, quando questa è tanto grave che superi la naturale
inclinazione del giovane all’allegrezza, al divagarsi, a sperare, a
noncurare il male. E perciò il giovane è incapace d’altra consolazione che
della morte, come ho detto p. 302. Nè religione, nè ragione, nè altro che
sia, non è sufficiente a consolare il giovane sommamente sventurato,
s’egli ha una certa forza d’animo, la quale tutta s’impiega in consolidare,
e fargli sentire profondamente e ostinatamente il suo male.
La letteratura francese si può chiamare originale per la sua somma e
singolare inoriginalità.
[314] Alla p. 252. La Spagna è una prova e un esempio vivo e presente
di quello ch’io dico. Nella Spagna barbara di barbarie non primitiva ma
corrotta per la superstizione, la decadenza da uno stato molto più
florido, civile, colto e potente, gli avanzi de’ costumi moreschi ec. nella
Spagna, dico, l’ignoranza sosteneva la tirannia. Questa dunque doveva
cadere ai primi lampi di una certa filosofia, derivati dall’invasione e
dimora de’ francesi, e dalla rivoluzione del mondo. L’ignoranza è come il
gelo che assopisce i semi e gl’impedisce di germogliare, ma non gli
uccide, come l’incivilimento, e passato l’inverno, quei semi germogliano
alla primavera. Così è accaduto nella Spagna, dove quel popolo, tornato
quasi vergine ha sentito le scosse dell’entusiasmo, e l’avea già dimostrato
nell’ultima guerra. E perciò s’è veduto quivi il contrario delle altre
nazioni, come osserva l’autore del Manuscrit venu de S.te Hèlene, cioè che
lo spirito rivoluzionario esisteva solamente in quelli che pel loro stato
erano più colti, preti, frati, nobili, tutti quelli che nella rivoluzione non
aveano che a perdere: [315] perché il torpore della nazione non derivava
da eccesso d’incivilimento, ma da difetto; e i pochi colti, probabilmente
non lo erano all’eccesso, come altrove, ma quanto basta e conviene, e non
più. Quando la Spagna sarà bene incivilita ricadrà sotto la tirannia,
sostenuta non più dall’ignoranza, ma per lo contrario dall’eccesso del
sapere, dalla freddezza della ragione, dall’egoismo filosofico, dalla
mollezza, dal genio per le arti e gli studi pacifici. E questa tirannia sarà
tanto più durevole quanto più moderata della precedente. E se il re di
Spagna avrà vera politica dovrà promuovere a tutto potere
l’incivilimento del suo popolo (e in questi tempi vi potrà riuscire più
facilmente e più presto). E con ciò non consoliderà la loro indipendenza,
come si crede comunemente, ma gli assoggetterà di nuovo, e ricupererà
quello che ha perduto. Non c’è altro stato intollerante di tirannia, o
capace di esserne esente, fuorché lo stato naturale e primitivo, o una
civilizzazione media, com’è ora quella della Spagna, com’era quella de’
Romani ec. Atene e la Grecia quando furono sommamente civili, non
furono mai libere veramente. (10 Novembre 1820.).
[331] Quello ch’io dico della filosofia de’ romani, e in genere di ogni
filosofia, si conferma dall’esser cosa già osservata che la religione si ritrova
presso la culla di tutti i popoli, in quella guisa che la filosofia si è trovata sempre
vicina alla lor tomba. (Essai sur l’indifférence en matière de Religion, nelle
prime linee del capo 2.). E poco dopo il principio del capo 1. dopo aver
detto che la filosofia greca, tanto temuta da Catone, e nondimeno
insinuatasi fra i romani, fu la cagione della rovina di Roma vincitrice del
mondo, soggiunge ch’è un fatto degno della più seria considerazione che tutti
gl’imperi, la cui storia è da noi conosciuta, e che erano stati consolidati dal
tempo e dalla prudenza, si videro rovesciati dai sofisti. Nel capo secondo si
estende maggiormente in provare che la filosofia fu la distruttrice di
Roma, e conviene con Montesquieu il quale non teme di attribuire la caduta
di quest’impero alla filosofia di Epicuro, aggiungendo in nota che
Bolinghbroke pensa in questo punto assolutamente come Montesquieu: «L’obblio
ed il disprezzo della Religione furono la cagione principale dei mali che [332]
provò Roma in seguito: la Religione e lo Stato decaddero nella medesima
proporzione.». T. 4 p. 428.). Colla differenza che laddove gli apologisti
della religione ne deducono che gli stati sono stabiliti e conservati dalla
verità, e distrutti dall’errore, io dico che sono stabiliti e conservati
dall’errore, e distrutti dalla verità. La verità non si è mai trovata nel
principio, ma nel fine di tutte le cose umane; e il tempo e l’esperienza
non sono mai stati distruttori del vero, e introduttori del falso, ma
distruttori del falso e insegnatori del vero. E chi considera le cose al
rovescio, va contro la conosciuta natura delle cose umane. Questo è il
controsenso fondamentale in cui è caduto l’autore sopracitato. Egli
avrebbe difesa molto meglio la Religione se l’avesse difesa non come
dettame dell’intelligenza, ma come dettame del cuore. E quando egli dice
che dunque l’esistenza e la felicità, la perfezione e la vita dell’uomo
sarebbero contro natura, perché la natura è il complesso delle perpetue
verità, s’inganna, perché la natura è il complesso delle verità in tal modo
che tutto quello ch’esiste sia vero, ma non tutto quello ch’è vero sia
conosciuto da ciascuna delle di lei parti. Ed una di queste verità che son
[333] comprese nel sistema della natura, è che l’errore e l’ignoranza è
necessaria alla felicità delle cose, perché l’ignoranza e l’errore è voluto,
dettato, e stabilito fortemente da lei, e perch’ella in somma ha voluto che
l’uomo vivesse in quel tal modo in cui ella l’ha fatto. E non perché
l’uomo ha voluto speculare il fondo delle cose, contro quello che doveva
anzi poteva fare naturalmente, perciò è meno vero ch’egli doveva
ignorare quello che ha scoperto, e che la sua felicità sarebbe stata vera, se
egli avesse errato, e ignorato quelle verità che così considerate riescono
indifferenti all’uomo, e che la natura ha seguite (ma segretamente) nel
suo sistema, perché gli erano necessarie, (16. Novembre 1820.) o perché
così gli è piaciuto.
Ripetono spesso gli apologisti della Religione che il mondo era in uno
stato di morte all’epoca della prima comparsa del Cristianesimo; che
questo lo ravvivò, cosa, dicon essi che pareva impossibile. Quindi [335]
conchiudono che questo non poteva essere effetto se non
dell’onnipotenza divina, che prova chiaramente la sua verità, che l’errore
perdeva il mondo, la verità lo salvò. Solito controsenso. Quello che
uccideva il mondo, era la mancanza delle illusioni; il Cristianesimo lo
salvò non come verità, ma come una nuova illusione. E gli effetti ch’egli
produsse, entusiasmo, fanatismo, sagrifizi magnanimi, eroismo, sono i
soliti effetti di una grande illusione. Non consideriamo adesso s’egli sia
vero o falso, ma solamente che questo non prova nulla in suo favore. Ma
come si stabilì con tanti ostacoli, ripugnando a tutte le passioni,
contraddicendo ai governi ec.? Quasi che quella fosse la prima volta che
il fanatismo di una grande illusione trionfa di tutto. Non ha considerato
menomamente il cuore umano, chi non sa di quante illusioni egli sia
capace, quando anche contrastino ai suoi interessi, e come egli ami
spessissimo quello stesso che gli pregiudica visibilmente. Quante pene
corporali non soffrono per false opinioni i sacerdoti dell’India ec. ec.! E la
setta dei flagellanti nata sui principii del Cristianesimo, che illusione era?
E i sacrifizi infiniti che facevano gli antichi filosofi per esempio i Cinici
alla professione della loro setta, spogliandosi di tutto il loro nella
ricchezza ec.? E il sacrifizio de’ 300. alle Termopili? Ma come [336] trionfò
il Cristianesimo della filosofia, dell’apatia che aveva spento tutti gli errori
passati? I lumi di quel tempo non erano 1. nè stabili, definiti e fissi, 2. nè
estesi e divulgati, 3. nè profondi come ora; conseguenza naturale della
maggiore esperienza, della stampa, del commercio universale, delle
scoperte geografiche, che non lasciano più luogo a nessun errore
d’immaginazione, dei progressi delle scienze i quali si danno la mano in
modo, che si può dire che ogni nuova verità scoperta in qualunque
genere influisca sopra lo spirito umano. Quei lumi erano bastati a
spegnere l’error grossolano delle antiche religioni, ma non solamente
permettevano, anzi si prestavano ad un error sottile. E quel tempo
appunto per li suoi lumi inclinava al metafisico, all’astratto, al mistico, e
quindi Platone trionfava in quei tempi. Vedi Plotino, Porfirio, Giamblico,
e i seguaci di Pitagora, anch’esso astratto e metafisico. L’Oriente poi, non
solo allora, ma antichissimamente, aveva inclinato alla sottigliezza, ed
anche alla profondità e verità, nella morale e nel resto. Egiziani, Cinesi,
Vecchio Testamento ec. ec. A distrugger l’error più [337] sottile vi
volevano lumi molto più profondi, sottili e universali di quelli d’allora.
Tali sono quelli d’oggidì, così perfetti che sono interamente sterili
d’errore, e da essi non può derivare error più sottile, come dai lumi
antichi, il quale pur dia qualche vita al mondo. Ai mali della filosofia
presente, non c’è altro rimedio che la dimenticanza, e un pascolo
materiale alle illusioni.
Del resto è vero che il Cristianesimo ravvivò il mondo illanguidito dal
sapere, ma siccome, anche considerandolo com’errore, era appunto un
errore nato dai lumi, e non dall’ignoranza e dalla natura, perciò la vita e
la forza ch’ei diede al mondo, fu come la forza che un corpo debole e
malato riceve da’ liquori spiritosi, forza non solamente effimera, ma
nociva, e produttrice di maggior debolezza. Applicate
quest’osservazione: 1. alla poca durata della vera e primitiva forza del
Cristianesmo sotto ogni rapporto, in paragone dell’infinita durata della
forza degl’istituti e religioni antiche, per esempio presso i romani;. 2. alla
qualità di questa forza, tutta tetra, malinconica ec. in paragone della
freschezza, della bellezza, allegria, varietà ec. della vita antica:
conseguenza naturale della [338] differenza dei dogmi; 3. all’aspetto
lugubre che presero tanto i vizi quanto le virtù dopo la propagazione
intera del Cristianesimo, cioè dopo estinto quel primo fuoco febbrile
della nuova dottrina (cosa da me osservata altrove): in maniera che si
può dire che il mondo (quanto alla vita, e al bello) deteriorasse
infinitamente se non a cagione del Cristianesimo, almeno a cagione della
tendenza che lo produsse e doveva produrlo, e dopo la sua introduzione:
giacché prima restavano ancora molti errori più naturali, e quindi più
vitali e nutritivi, non ostante la filosofia. (17. Novembre 1820.).
Alla p. 271. pensiero ultimo. Tale era l’idea che gli antichi si
formavano della felicità ed infelicità. Cioè l’uomo privo di quei tali
vantaggi della vita [339] benché illusorii, lo consideravano come infelice
realmente, e così viceversa. E non si consolavano mai col pensiero che
queste fossero illusioni, conoscendo che in esse consiste la vita, o
considerandole come tali, o come realtà. E non tenevano la felicità e
l’infelicità, per cose immaginare e chimeriche, ma solide, e solidamente
opposte fra loro. (18. Novembre 1820.).
Tutte le cose vengono a noia colla durata, anche i diletti più grandi: lo
dice Omero, lo vediamo tuttogiorno. La monotonia è insoffribile. Ma un
grande e forse sommo rimedio di questo male, è lo scopo. Quando
l’uomo si [346] propone uno scopo o dell’azione, o anche dell’inazione,
trova diletto anche nelle cose non dilettevoli, anche nelle spiacevoli,
quasi anche nella stessa monotonia; e quanto alle cose dilettevoli,
l’uniformità e durata loro non nuoce al piacere di chi le dirigge a un fine.
Io non credo che per altra più capitale, universale ed intima ragione, gli
studi sieno agli studiosi come un’eccezione dalla regola generale, cioè la
continuazione di essi non pregiudichi quasi mai al piacere. Vedete tutto
giorno delle persone che non leggono per altro fine che di passare il
tempo, trovar gran diletto nelle prime pagine di un libro, e non poterne
arrivare al fine senza noia, quando anche quel libro abbia per se stesso
tutti i mezzi per dilettare in seguito come nel principio. Ma l’uniformità
del diletto, senza uno scopo, produce inevitabilmente la noia, e perciò
queste tali persone che leggono per solo divertimento, si stancano così
presto, che non sanno concepire come nella lettura si trovi tanto
divertimento, e cercano del continuo di variare e passare nauseosamente
da un libro a un altro, senza trovar mai diletto in veruno, se non lieve e
passeggero. Al contrario lo studioso che della lettura si prefigge sempre
uno scopo, quando anche leggesse per ozio e passatempo. E così tutte le
altre occupazioni [347] a cui l’uomo si affeziona, applicandoci un
interesse, e uno scopo più o meno determinato, e più o meno grave e
importante; dove la continuazione, la lunghezza e la monotonia non
arrivano mai ad annoiare. (22. Novembre 1820.). Vedi p. 359. capoverso
1.
Alla p. 343. Vedilo ancora sulla fine del Capo 5. da quel passo
abbastanza lungo di Rousseau, Tutto ciò che sento esser bene, [357] è bene, in
poi. Dove l’autore insomma viene a concludere che non esiste legge
naturale, o secondo i Deisti che combatte, o anche, come pare, secondo la
propria persuasione, giacch’egli ne vuol dedurre che non esiste regola di
condotta, esclusa la religione, solo canone dei doveri morali. E nel
principio propriamente del capo 6. dice, l’uomo ha riconosciuto dovunque ed
in qualunque tempo la distinzione essenziale del bene e del male, del giusto e
dell’ingiusto; e malgrado i vari errori nella estimazione degli atti liberi
considerati come virtuosi o viziosi, non v’ebbe mai alcun popolo che confondesse
le nozioni opposte del delitto e della virtù. Siamo d’accordo. Così nel bello,
tutti hanno la nozione della convenienza, e nessuno ne ha il tipo. Ma
stando così la cosa, le diverse opinioni non si possono chiamare errori,
come voi fate; perché non esiste il tipo del buono morale; e perché non
erra quell’etiope che crede la figura della sua nazione, la più perfetta e la
sola bella nel genere umano.
Alla p. 161. I fasti della rivoluzione abbondano di altre prove di
quello ch’io dico, e dimostrano qual fosse l’assunto dei riformatori. Si
eressero altari alla Dea ragione: Condorcet nel piano di educazione
presentato all’Assemblea legislativa ai 21 e 22 Aprile 1792 proponeva
l’abolizione e proscrizione anche della religion naturale, come
irragionevole e contraria alla filosofia, e così di tutte le altre religioni.
(Essai sur l’indifférence en matière de religion, ch. 5. presso alla fine, nota)
Non parlo del [358] nuovo Calendario, della festa all’Essere Supremo di
Robespierre ec. In somma lo scopo non solo dei fanatici, ma dei sommi
filosofi francesi o precursori, o attori, o in qualunque modo complici
della rivoluzione, era precisamente di fare un popolo esattamente
filosofo e ragionevole. Dove io non mi maraviglio e non li compiango
principalmente per aver creduto alla chimera del potersi realizzare un
sogno e un utopia, ma per non aver veduto che ragione e vita sono due
cose incompatibili, anzi avere stimato che l’uso intiero, esatto, e
universale della ragione e della filosofia, dovesse essere il fondamento e
la cagione e la fonte della vita e della forza e della felicità di un popolo.
(27. Novembre 1820.).
Non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis
iudicari. Cornelio Nepote, praef.
Alla p. 329. fine. Nulla Lacedaemoni tam est nobilis vidua quae non ad
scenam eat mercede conducta. Magnis in laudibus totâ fuit Graeciâ, victorem
Olympiae citari. In scenam vero prodire, et populo esse spectaculo, nemini in
eisdem gentibus fuit turpitudini. Quae omnia apud nos partim infamia, partim
humilia, atque ab honestate remota ponuntur. Cornelio Nepote, praef. (27
Novembre 1820).
Alla p.384. Così il desiderio che ha l’uomo di amare, è infinito non per
altro se non perché l’uomo si ama di un amore senza limiti. E
conseguentemente desidera di trovare [389] oggetti che gli piacciano, di
trovare il buono (intendendo per buono anche il bello, e tutto ciò che
affetta gradevolmente qualunque delle nostre facoltà); desidera dunque
di amare, ossia di determinarsi piacevolmente verso gli oggetti. E lo
desidera senza confini, tanto rispetto al numero di questi oggetti, quanto
rispetto alla misura della loro bontà, amabilità, piacevolezza. Questo è
desiderio innato, inerente, indivisibile dalla natura non solo dell’uomo,
ma di ogni altro vivente, perché è necessaria conseguenza dell’amor
proprio, il quale è necessaria conseguenza della vita. Ma non prova che la
facoltà di amare sia infinita nell’uomo: e così il desiderio infinito di
conoscere non prova che la sua facoltà di conoscere sia infinita: prova
solamente che il suo amor proprio è illimitato o infinito. E infatti come si
potrà dire che la facoltà nostra di conoscere o di amare sia infinita? - Ma
noi possiamo conoscere un Bene infinito ed amarlo. Bisognerebbe che lo
potessimo conoscere infinitamente ed amare infinitamente. Allora la
conseguenza sarebbe in regola. Ma non lo possiamo nè conoscere nè
amare, se non imperfettissimamente. Dunque la nostra cognizione e il
nostro amore, benché cadano sopra un Essere infinito, non sono infinite,
nè possono mai [390] essere. Dunque le nostre facoltà di conoscere e di
amare sono essenzialmente ed effettivamente limitate come la facoltà di
agire fisicamente, perché non sono capaci nè di cognizione nè di amore
infinito, nè in numero nè in misura, come non siamo capaci di azione
infinita fisica. (E se noi avessimo delle facoltà precisamente infinite, la
nostra essenza si confonderebbe con quella di Dio). Dunque il nostro
desiderio infinito di conoscere (cioè concepire), e di amare, non può esser
mai soddisfatto dalla realtà, ossia da questo, che la nostra facoltà di
conoscere e di amare possieda realmente un oggetto infinito in quanto è
infinito, e in quanto si possa mai possedere (altrimenti la possessione non
sarebbe infinita): ma solamente può esser soddisfatto dalle illusioni (o
false concezioni, o false persuasioni di conoscenza e di amore, e di
possesso e godimento) e dalle distrazioni ovvero occupazioni (vedi p.168.
172-173. 175. ivi, fine - 176. principio): due grandi istrumenti adoperati
dalla natura per la nostra felicità. (8.. Dicembre. 1820.).
L’immaginarsi di essere il primo ente della natura e che il mondo sia
fatto per noi, è una conseguenza naturale dell’amor proprio
necessariamente coesistente con noi, e necessariamente illimitato. Onde è
naturale che ciascuna specie d’animali s’immagini, se non chiaramente,
certo confusamente e fondamentalmente la stessa cosa. Questo accade
nelle specie o generi rispetto agli altri generi o specie. Ma
proporzionatamente lo vediamo accadere anche negl’individui, riguardo,
non solo alle altre specie o generi, ma agli altri individui della medesima
specie.
[391] Il bene non è assoluto ma relativo. Non è assoluto nè
primariamente o assolutamente nè secondariamente o relativamente.
Non assolutamente perché la natura delle cose poteva esser tutt’altra da
quella che è; non relativamente, perché in questa medesima natura tal
qual esiste, quello ch’è bene per questa cosa non è bene per quella, quello
che è male per questa è bene per quell’altra, cioè gli conviene. La
convenienza è quella che costituisce il bene. L’idea astratta della
convenienza si può credere la sola idea assoluta, e la sola base delle cose
in qualunque ordine e natura. Ma l’idea concreta di essa convenienza è
relativa. Non si può dunque dire che un essere sia più buono di un altro,
cioè abbia o contenga maggior quantità o somma di bene, perché il bene
non è bene se non in quanto conviene alla natura degli esseri rispettivi.
Solamente, questo si può dire degl’individui rispetto agli altri individui
della stessa specie. Ogni specie dunque, ed ogni individuo in quanto è
conforme alla natura della sua specie, è perfetto, e possiede la perfezione:
(perfezione relativa, ma non essendoci perfezione assoluta, cioè tipo di
perfezione, nessun essere o specie è più perfetta di un’altra) possiede
tutto il bene che è bene per [392] lui, perché il resto non sarebbe bene: è
tanto buono quanto può essere, perché per lui non c’è buono fuori della
sua natura; anzi fuori di questa, tutto è per lui cattivo, perché non c’è
bene assoluto. Tutto ciò tanto nel fisico che nel morale. (8. Dicembre.
1820.). Questo io credo che sia il sistema (Leibniziano se non erro)
dell’Ottimismo.
A quello che ho detto p. 175. fine - 176. principio, riferisci quello che
ho detto p.153. capoverso primo. I fanciulli parlano ad alta voce da se
delle cose che faranno, delle speranze che hanno, si raccontano le cose
che hanno fatte, vedute ec. o che loro sono accadute, si lodano, si
compiacciono, predicano ed ammirano ad alta voce le cose che fanno, e
non v’è per loro tanta solitudine ed inazione materiale, che non sia piena
società conversazione, ed azione spirituale; società ed azione non
languida nè passeggera, ma energica, presente, simile al vero,
accompagnata anche da gesti e movimenti fisici d’ogni sorta, durevole ed
inesauribile. (9. Dicembre 1820.).
Alla p. 398. Di più, soggiunse Iddio: nunc ergo ne forte mittat manum
suam, et sumat etiam de ligno vitae, et comedat, et vivat in aeternum. (Genesi,
III. 22.) Dunque il ragionamento è chiaro. S’egli mangerà del frutto
dell’albero di vita, vivrà realmente in eterno: dunque avendo colto e
mangiato dell’albero della scienza, aveva realmente acquistato essa
scienza. E Dio non gliel’aveva tolta, perché nello stesso modo gli poteva
togliere l’immortalità, se avesse mangiato dell’albero della vita. Ora egli
tanto non giudicava di togliergli quest’immortalità, nel caso che ne
avesse mangiato, che anzi perché non ne mangiasse (non per il peccato,
ma per questo espresso motivo, secondo la chiarissima narrazione della
Genesi) lo cacciò dal paradiso, dov’era quell’albero di vita. Et emisit eum
(segue immediatamente [434] la Genesi) Dominus Deus de paradiso
voluptatis… et collocavit ante paradisum voluptatis Cherubim, et flammeum
gladium atque versatilem, AD CUSTODIENDAM VIAM LIGNI VITAE. (23. 24.)
Vengano adesso i teologi, e mi dicano che la corruzione dell’uomo
consistè nella ribellione della carne allo spirito, e nella superiorità
acquistata da quella, ossia nell’assoggettamento della parte ragionevole e
intellettiva. Ovvero che questo fu il proprio effetto della corruzione e del
peccato. È vero, e dico anch’io, che allora incominciò quella nemicizia
della ragione e della natura ch’io sempre predico, nemicizia che non ha
luogo negli altri viventi, provveduti per altro di raziocinio, e del
principio di cognizione. Ma questa nemicizia, questo squilibrio, questo
contrasto di due qualità divenute allora incompatibili, provenne e
consistè nell’incremento e preponderanza acquistata dalla ragione; e la
degradazione dell’uomo non fu quella della ragione nè della cognizione,
nè l’offuscazione dell’intelletto. Anzi dopo il peccato, e mediante il
peccato l’uomo ebbe l’intelletto rischiaratissimo, acquistò la scienza del
bene e del male, e divenne effettivamente per questa, quasi unus ex nobis,
disse Iddio. [435] Tutto ciò lo dice la Scrittura a lettere cubitali. Allora
insomma la ragione dell’uomo cominciò a contraddire alle sue 1.
inclinazioni, 2. credenze primitive, cosa che per l’avanti non aveva fatto;
e questa fu una ribellione della ragione alla natura, o dello spirito al
corpo, non della natura alla ragione nè del corpo allo spirito.
Osservate che il mio sistema è l’unico che possa dare alla narrazion
della Genesi, una spiegazione quanto nuova, tanto letterale, facile,
spontanea, anzi tale che non può esser diversa, senza o far forza al testo,
o considerarlo come assurdo. E infatti secondo i teologi i quali
considerano l’incremento della ragione e sapere come un bene assoluto
per l’uomo, e la parte ragionevole come primaria in lui assolutamente ed
essenzialmente (non accidentalmente, cioè posta la corruzione); secondo
i teologi dico, il senso chiarissimo della Genesi, resta assurdissimo,
giacché pone l’incremento della ragione e l’acquisto della scienza come
effetto preciso e diretto del peccato. Laddove il mio sistema che pone la
perfezion vera ed essenziale dell’uomo, nel suo stato primitivo, cioè in
[436] quello stato in cui fu creato, ed uscì immediatamente dalle mani di
Dio, e la sua corruzione nella preponderanza della ragione e del sapere,
trova il senso letterale e incontrovertibile della Genesi, profondissimo, e
conforme alla più sublime ed ultima filosofia. (19 Dicembre 1820).
Nella Genesi non si trova nulla in favore della pretesa scienza infusa
in Adamo, eccetto quello che appartiene ad un certo linguaggio, come ho
detto p.394. fine. Dio, dice la Genesi, adduxit ea (gli animali) ad Adam, ut
videret quid vocaret ea: omne enim quod vocavit Adam animae viventis, (che
forse è quanto dire: omnis enim anima vivens, quam vocavit Adam, cioè omne
animal vivens) ipsum est nomen eius. Appellavitque Adam nominibus suis
cuncta animantia, et universa volatilia caeli, et omnes bestias terrae. (Genesi II.
19. et 20.) Questo non suppone mica una storia naturale infusa in Adamo,
nè la scienza di quelle qualità degli animali che non si conoscono senza
studio, ma solamente di quelle che appariscono a prima giunta agli occhi,
all’orecchio ec.: qualità dalle quali ordinariamente son derivati i nomi di
tutti gli oggetti sensibili [437] nei primordi di qualunque lingua; quei
nomi dico e quelle parole che formano le radici degl’idiomi.
Del resto sostengo anch’io, anzi fa parte essenziale del mio sistema la
proposizione che Adamo ebbe una scienza infusa: ma in questo modo.
Ogni essere capace di scelta, anzi tale che non si può determinare
all’azione (neppure a quella necessaria per conservarsi, eccetto le azioni
che chiamano hominis, se ce ne ha veramente) e per conseguenza non può
vivere, senza un atto elettivo e definito della sua volontà, ha bisogno di
credenze, cioè deve credere che le cose siano buone o cattive, e che quella
tal cosa sia buona o cattiva, altrimenti la sua volontà non avrà motivo per
determinarsi ad abbracciarla o fuggirla, per decidersi a fare o non fare,
all’affermativo o al negativo. E l’uomo e l’animale in questa indifferenza
diverrebbe necessariamente come quell’asino delle scuole, di cui vedi p.
381. Le piante e i sassi che non si muovono da se, nè dipendono da se
nell’azione e nella vita, non hanno bisogno di credenze, ma l’animale che
dipende da se nell’azione e nella vita, ha bisogno di credere, giacché non
c’è altro motivo [438] nè mobile, nè altra forza, (eccetto l’estrinseche) che
lo possa determinare, e definirne la scelta. Qualunque essere non è
macchina, ha bisogno di credenze per vivere. Dunque anche gli animali,
se non sono purissime macchine: dunque hanno anch’essi il principio di
ragionamento, senza cui non v’è credenza, perché il credere non è altro
che tirare una conseguenza.
Ma io dico credenze, non cognizioni. L’oggetto della cognizione è la
verità; l’oggetto della credenza è una proposizione credibile, e dico
credibile relativamente in tutto e per tutto alle qualità generali o
individuali, essenziali o accidentali dell’essere che crede, perché una cosa
può esser credibile a una specie o genere, e non ad un’altra; a un
individuo di quella specie o genere, e non ad un altro; a questo
medesimo individuo oggi, e non domani.
La verità dunque non entra in questo discorso, ma solo bisogna
sapere quali determinazioni a credere siano atte a produrre una
determinazione ad operare, vantaggiosa (e questo veramente) all’essere
pensante e vivente; e perciò quali determinazioni a credere, o sia quali
credenze, sieno atte a produrre la sua felicità.
Io dunque dico che queste credenze determinanti l’uomo bene (cioè
non altro che convenientemente alla sua propria e particolare essenza), e
perciò conducenti [439] alla felicità, sono (come negli altri animali) le
credenze ingenite, primitive, e naturali.
In questo modo io sostengo che Adamo ebbe non una scienza
propriamente, ma delle credenze infuse: non la cognizione del vero,
indifferente per lui, ma delle opinioni credute veramente vere da lui,
opinioni di credere il vero (senza di che non v’è credenza), e opinioni
veramente convenienti alla sua natura, e alla sua felicità, e quindi
conducenti alla perfezione. E Adamo ne dovette avere necessariamente,
come gli altri animali, perché senza credenze non c’è vita per quegli
esseri che dipendono nell’operare dalla determinazione della propria
volontà, come ho dimostrato.
Queste credenze ingenite, primitive e naturali, non sono altro se non
quello che si chiama istinto, idee innate ec. Gli animali ne hanno: non si
contrasta: ma non perciò non son liberi: se non fossero liberi sarebbono
macchine pure: l’istinto non è altro che quello che ho detto, cioè credenze
ingenite. Queste non tolgono la libertà, perché non fanno altro che
determinare la volontà, e non già forzare macchinalmente gli organi: nello
stesso modo [440]che una credenza qualunque, o ingenita o acquistata,
non toglie la libertà o la scelta all’uomo. Che il ragionamento necessario
per iscegliere sia determinato da principii naturali ed innati, o da
principii acquistati colla cognizione, da principii veri, o da principii falsi
ma creduti naturalmente veri; questo è indifferente alla libertà, com’è
indifferente alla felicità relativa che ne dipende, il vero o il falso assoluto.
E il ragionamento della scelta, è ragionamento nello stessissimo modo, da
qualunque principio parta. Sicché i bruti hanno istinto e insieme libertà
piena. L’uomo dunque che aveva libertà piena, aveva ancora ed ha
tuttavia istinto. Considerate l’uomo naturale, il fanciullo ec. e vedrete
quante sieno le sue azioni determinate da principii ingeniti, sieno
principii di sola credenza, sieno anche di vera cognizione delle cose come
sono. Per esempio il bambino, applicategli le labbra alla mammella, ne
succhia il latte senza maestro. Ma è cosa già osservata, e quanto naturale
ad accadere, tanto perciò appunto difficile ad esser notata dai più, e
tuttavia degnissima d’esser sempre meglio osservata, che la forza
dell’istinto, scema in proporzione che crescono le altre forze
determinatrici dell’uomo, cioè la ragione e la cognizione; e così [441] in
proporzione che l’uomo si allontana dalla natura, per la società,
l’alterazione o sostituzione di altri mezzi a quelli che la natura ci aveva
dato per gli stessi fini ec. ec. E come l’uomo perde la felicità naturale, così
pure, anzi precedentemente, perde la forza attuale dell’istinto, e dei mezzi
ingeniti di ottener questa felicità. Perciò è un vero acciecamento il dire
che il bruto ha dalla natura tutta quella istruzione che gli bisogna per
esistere: l’uomo no: e dedurne ch’egli dunque ha bisogno di
ammaestramento, di società ec. insomma ch’egli esce imperfetto dalle
mani della natura, e conviene che si perfezioni da se. Anche l’uomo
aveva naturalmente tutto il necessario; se ora non sente più d’averlo,
viene che l’ha perduto; ha perduto la perfezione volendosi perfezionare,
e quindi alterandosi e guastandosi. Osserviamo l’uomo primitivo, il
bambino, e proporzionatamente l’ignorante, e vedremo quanto essi o
sappiano di quello che noi abbiamo scoperto; o credano di quello che noi
non crediamo più, ma dovevamo credere, e avrebbe servito ai nostri
bisogni veramente, ed era l’istrumento che ci conveniva, e che [442] la
natura ci avea posto in mano; e sebben falso in assoluto, era vero in
relativo, e pienamente sufficiente al suo fine, cioè insomma, alla nostra
esistenza perfetta secondo la nostra particolare essenza, e quindi alla
nostra felicità.
Ma bisogna ben intendere che cosa siano queste credenze ingenite, o
vero istinto, e idee innate. Idee precisamente innate non esistono in alcun
vivente, e sono un sogno delle antiche scuole. La natura influisce sulle
idee o credenze di qualunque animale, non ponendoci identicamente e
immediatamente quelle tali idee e credenze, ma mediatamente, cioè
disponendo l’animale, e l’ordine delle cose relativo a lui, in tal maniera,
che l’animale si determini naturalmente a credere questo e non quello.
Così che la credenza non è neppur essa determinata primitivamente, non
più della volontà, ma deve anch’essa determinarsi prima di determinare
la volontà. Ma come le azioni o determinazioni della volontà sono
naturali quando vengono da credenze naturali, così le credenze o
determinazioni dell’intelletto sono naturali, quando sono conformi al
modo in cui la natura avea disposto e provveduto che l’intelletto si
determinasse; cioè ai mezzi di credenza che [443] la natura ci ha dati,
come nelle credenze ci ha dato i mezzi di azione.
Tutti i moderni ideologi hanno stabilito che le idee o credenze, le più
primitive, le più necessarie all’azione la più vitale, e quindi tutte le idee o
credenze moventi del bambino appena nato, (e così d’ogni altro animale):
tutte le idee o credenze determinanti o non determinanti, cioè relative o
no all’azione, non vengono altro che dall’esperienza, e quindi non sono
se non tante conseguenze tirate col mezzo di un raziocinio e di
un’operazione sillogistica, da una maggiore ec. (E qui osservate la
necessità del raziocinio ne’ bruti.)
Questa esperienza che deve necessariamente formare la base o come
chiamano, le antecedenti del sillogismo, senza il qual sillogismo non v’è
idea nè credenza, può esser di due sorte. L’una è quella che deriva dalle
inclinazioni naturali, passioni affetti ec. tutte cose veramente ingenite, e
assolutamente primitive, sebbene molte di esse possano svilupparsi più o
meno, o nulla; possono alterarsi, corrompersi ec. L’uomo che sente fame
(quest’è un’esperienza) e si sente portato dalla natura al cibo (questa non
è idea, ma inclinazione), ne deduce che bisogna cibarsi, che il cibo è cosa
buona. Ecco la conseguenza, cioè la [444] credenza. Dunque si determina
e risolve a cibarsi. Ecco la determinazione della volontà prodotta dalla
previa determinazione dell’intelletto, ossia dalla credenza. Segue il
cibarsi, cioè l’azione, che deriva dalla volontà determinata in quel modo.
L’altro genere di esperienza, è quello che appartiene ai sensi esterni. E
l’uno e l’altro genere di esperienza sono i soli fonti della cognizione in
atto (non in potenza); i soli fonti o del credere o del sapere. Qual
conseguenza poi si debba tirare da una data esperienza, questo è ciò ch’è
relativo, perché l’uomo naturale, ne tira una; l’uomo sociale, istruito ec.
un’altra; quell’animale di diversa specie, un’altra: e via discorrendo. E
così son relative e si diversificano le credenze.
Sicché la credenza è naturale, quando l’animale tira da quella
esperienza, quella conseguenza che la natura ha provveduto che ne
tirasse, e viceversa. E quindi l’azione che ne deriva è naturale, quando
proviene da una credenza naturale, ossia da una conseguenza tirata
naturalmente, e viceversa. E quindi la vita è naturale quando le azioni
derivano da credenze naturali, e viceversa. E quindi finalmente l’uomo è
perfetto e felice come ogni altro vivente, quando la sua vita si compone
di azioni naturali, e viceversa.
[445] Non sono dunque precisamente innate nè le idee nè le credenze,
ma è innata nell’uomo la disposizione a determinarsi dietro quella tale
esperienza, inclinazione ec. a quella tal credenza o giudizio. E in questo
senso io nomino le idee innate e l’istinto. E così appunto avviene nei
bruti, i quali non hanno altre idee innate che in questo senso, e tuttavia
generalmente parlando, tutti gli animali della stessa specie, hanno le
stesse credenze cioè si determinano a credere nello stesso modo; e
operando giusta tali credenze, sono tutti perfetti e felici relativamente
alla loro essenza. Tali credenze pertanto sono effettivamente naturali, e
figlie legittime della natura, sebbene non partono immediatamente dalla
sua mano. Ma quod est caussa caussae, est etiam caussa caussati. Nello stesso
modo che le azioni conformi a dette credenze, sono naturali, sebbene
eseguite immediatamente dall’individuo, e non dalla natura: sebben
libere, e non forzate; come non sono forzate le azioni che derivano da
credenze religiose, filosofiche ec. le quali tuttavia, senza esser forzate, si
chiamano e sono azioni religiose, filosofiche ec.
[446] L’uomo si allontana dalla natura, e quindi dalla felicità, quando
a forza di esperienze di ogni genere, ch’egli non doveva fare, e che la
natura aveva provveduto che non facesse (perché s’è mille volte
osservato ch’ella si nasconde al possibile, e oppone milioni di ostacoli alla
cognizione della realtà); a forza di combinazioni, di tradizioni, di
conversazione scambievole ec. la sua ragione comincia ad acquistare altri
dati, comincia a confrontare, e finalmente a dedurre altre conseguenze sia
dai dati naturali, sia da quelli che non doveva avere. E così alterandosi le
credenze, o ch’elle arrivino al vero, o che diano in errori non più naturali,
si altera lo stato naturale dell’uomo; le sue azioni non venendo più da
credenze naturali non sono più naturali; egli non ubbidisce più alle sue
primitive inclinazioni, perché non giudica più di doverlo fare, nè più ne
cava la conseguenza naturale ec. E per tal modo l’uomo alterato, cioè
divenuto imperfetto relativamente alla sua propria natura, diviene
infelice. (L’uomo può essere anche infelice accidentalmente per forze
esterne, che gl’impediscano di conformar le azioni alle credenze, cioè di
far quello ch’egli giudica buono per lui, o non far quello ch’egli giudica e
crede [447] cattivo. Tali forze sono le malattie, le violenze fattegli da altri
individui, o da altre specie, o dagli elementi ec. ec. ec. Quest’infelicità
non entra nel nostro discorso. Essa è appresso a poco l’infelicità antica.)
Da queste osservazioni deducete che propriamente la nemica della
natura non è la ragione, ma la scienza e cognizione, ossia l’esperienza che
n’è la madre. Perché anche le operazioni e tutta la vita dell’uomo
naturale, e degli altri viventi, è perfettamente ragionevole, giacché deriva
da credenze tirate in forma di conseguenza, per via di sillogismo, da quei
tali dati. L’esperienza, crescendo oltre il dovere, cambia, altera, moltiplica
soverchiamente le basi di questi sillogismi produttori delle credenze, e
quindi alterando dette conseguenze o credenze, fa che non sia più
ragionevole il determinarsi a credere quelle tali cose naturalmente
credibili, e quindi a fare o fuggire quelle tali cose naturalmente da farsi o
da fuggirsi. Ma la ragione assolutamente in se stessa, è innocente; ed ha
la sua intera azione anche [448] nello stato naturale; vale a dire, anche
nello stato naturale l’uomo (e così nè più nè meno il bruto) è
conseguente, e si determina a credere quello che gli par vero, per via di
perfetto raziocinio; e si determina ad abbracciare o fuggire quello che
crede veramente buono o cattivo per lui, rispetto alla sua natura generale
e individuale, e alle sue circostanze di quel tal momento in cui si
determina.
Del resto, come l’indifferenza assoluta, ossia la mancanza di ogni
determinazione dell’intelletto, cioè di ogni credenza, sarebbe mortifera
per l’animale libero, e dipendente dalla sua propria determinazione; così
anche appresso a poco il dubbio, ch’è quasi tutt’uno col detto stato. Così
anche sarà cattiva e dannosa la difficoltà o lentezza al determinarsi
(riferite a questo capo l’angoscia e il tormento dell’irresoluzione): e
quindi lo stato dell’uomo sarà tanto più felice, quanto egli avrà maggior
facilità e prontezza a determinarsi a credere (dal che poi segue l’operare);
cioè a tirare una conseguenza da un tal dato; e con quanto maggior forza,
ossia certezza, egli si determinerà al credere. (s’intende già che la
credenza sia buona per lui, perché la supposizione contraria [449] è fuor
del caso). Ora è cosa dimostrata dalla continua esperienza, che l’uomo si
determina al credere, tanto più facilmente, prontamente, e certamente,
quanto più è vicino allo stato naturale, come appunto accade negli
animali, che non hanno nè difficoltà nè lentezza nè dubbio intorno alle
loro idee o credenze, innate nel senso detto di sopra. E così il fanciullo,
l’ignorante, ec. E per lo contrario, quanto più si è lontani dallo stato
naturale, cioè quanto più si sa, tanto maggior difficoltà e lentezza si
prova alla determinazione dell’intelletto, e tanto minor forza, ossia
certezza, ha questa determinazione o credenza. Così che la certezza degli
uomini nel credere (e quindi la determinazione e forza nell’operare, ch’è
in ragion diretta colla certezza del credere) è in ragione inversa del loro
sapere. Hoc unum scio, me nihil scire: famoso detto di quell’antico sapiente.
E questa è la conclusione, la sostanza, il ristretto, la sommità, la meta, la
perfezione della sapienza. Laddove il fanciullo e l’ignorante, si può dire
che crede di non ignorar nulla: e se non altro, crede di saper di certo tutto
quello che crede. E questa è la sommità dell’ignoranza. (Onde credendo
quello ch’è conforme alla natura, e credendolo in questo modo, ne viene
a esser felice e [450] perfetto.) In maniera che, dove alla determinazione
dell’uomo, non è necessario, anzi non può servir altro che la credenza; la
cognizione la quale si vuol che sola sia capace a determinarlo, viene a
esser nemica della credenza, e però della determinazione. E in vece che
l’ignoranza, tal qual è in natura, (non l’assoluta, cioè la negazione di ogni
credenza, o determinazione dell’intelletto, che in natura non si dà)
conduca l’uomo o l’animale all’indifferenza, come pretendono; ve lo
conduce anzi il sapere (e l’eterna esperienza lo prova). E l’uomo tanto
meno, tanto più difficilmente, lentamente, e dubbiamente si determina,
quanto più sa. Tanto minore è la determinazione, quanto maggiore è il
sapere. E tanto è lungi che la credenza sia incompatibile coll’ignoranza,
che per lo contrario è molto più compatibile coll’ignoranza che col
sapere.
Se poi ancora dubitaste di quello ch’io dico, cioè che in Adamo fu
primitivamente infusa la credenza come negli altri animali, e non la
scienza propria; basta che osserviate quello che dice la Scrittura, che dopo
il peccato egli acquistò la scienza del bene e del male. La scienza del bene
e del male, non è altro che la cognizione assoluta, [451] la credenza vera
non più relativamente ma assolutamente, la cognizione delle cose come
sono, cioè buone o cattive, non relativamente all’uomo, ma
indipendentemente e assolutamente; la cognizione della realtà, della
verità assoluta che per se stessa è indifferente all’uomo, e nociva quando
il conoscerla è contrario alla natura del conoscente. Se dunque Adamo
l’acquistò dopo il peccato, non l’aveva per l’avanti. In fatti la Scrittura
dice espressamente che non l’aveva, e il serpente persuase alla donna di
peccare per acquistarla. Questo è un argomento vittorioso, ultimo, e
decisivo. Come poteva essere infusa primitivamente la scienza in Adamo,
se dopo e mediante il peccato egli acquistò la scienza del bene e del
male? E qual fosse l’effetto di questa precisa scienza, vedilo p. 446-447.
(22. Dicembre 1820.).
È cosa notata e famosa presso gli antichi (non credo però gli
antichissimi, ma più secoli dopo Senofonte) che Senofonte non premise
nessun preambolo alla Κύρον ἀναβάσει, sebbene dal secondo libro in
poi, premetta libro per libro, il Laerzio dice un proemio, ma veramente
un epilogo o riassunto brevissimo delle cose dette prima. Vedi il LAERZIO
in Xenophonte; Luciano, de scribenda historia. ec. E Luciano dice che molti
per imitarlo non ponevano alcun proemio alle loro istorie. Ed aggiunge:
οὐκ ειδότες ώς δυνάµει (potentia) τινὰ προοίµιά ἐστι λεληϑότα τοὺς
πολλοὺς. Io qui non vedo maraviglia nessuna. Esaminate bene
quell’opera: non è una storia, ma un Diario o Giornale (si può dire, e per
la massima parte militare) di quella Spedizione. Infatti procede giorno
per giorno, segnando le marce, contando le parasanghe ec. ec. infatti
l’opera si chiude con una lista effettiva o somma dei giorni, spazi
percorsi, nazioni ec. lista indipendente dal resto, per la sintassi. E di
queste enumerazioni ne [467] sono sparse per tutta l’opera. Non doveva
dunque avere un proemio, non essendo propriamente in forma d’opera,
ma di Commentario o Memoriale, ossiano ricordi, e materiali. Chi si vuol
far maraviglia di Senofonte, perché non se la fa di Cesare? Il quale
comincia i suoi Commentari de bello Gallico e Civili ex abrupto, appunto
come Senofonte. E questo perché non erano Storia ma commentari. Nè
pone alcun preambolo a nessuno de’ libri in cui sono divisi. Così Irzio.
Eccetto una specie di avvertimento indirizzato a Balbo e premesso al
lib.8. de b. G. (il quale era necessario non per l’opera in se, ma per la
circostanza, ch’egli n’era il continuatore) nè quel libro, nè quello de b.
Alexandrino, nè quello de b. Africano, nè quello d’autore incerto de b.
Hispaniensi non hanno alcun preambolo, ed entrano subito in materia.
Da queste osservazioni deducete 1. un’altra prova che Senofonte è il
vero autore della K. A. non Temistogene ec. trattandosi di un giornale,
che non poteva essere scritto o almeno abbozzato se non in praesentia, e
dallo stesso Generale (come i commentarii di Cesare), o almeno da
qualche suo intimo confidente. Questa proprietà, di essere cioè scritta da
un testimonio di [468] vista, anzi dal principale attore e centro degli
avvenimenti non è comune a nessun’altra opera storica greca, che ci
rimanga, anzi a nessun’antica, fuorché ai commentarii di Cesare. Perciò
ella è singolarmente preziosa anche per questo capo, e propria più delle
altre a darci la vera idea de’ costumi, pensieri, natura degli antichi, e de’
loro fatti; come le lettere di Cicerone in altro genere di scrittura, sono la
più recondita e intima sorgente della storia di quei tempi. Vedi p. 519.
capoverso 2.
2. Che poco saggiamente Arriano volle scrivere l’ ᾽Αλεξάνδρου
ἀνάβασιν (in 7. libri perché 7. son quelli di Senofonte) a imitazione della
detta opera. Perch’egli non poteva scrivere, nè scrisse, nè intese o pensò
di scrivere un giornale. Quindi le due opere sono essenzialmente di
diverso genere, cioè l’una un diario, l’altra una storia. Meno male
Onesicrito, in quello che scrisse d’Alessandro a imitazione pure di
Senofonte. Perch’egli fu compagno di Alessandro nella sua spedizione,
come Senofonte di Ciro. Vedi il Laerz. l.6. in Onesicrito.
Del resto, se la storia ῾Ελληνιχῶν di Senofonte non ha proemio, ciò
viene perch’era destinata a continuare e far tutto un corpo con quella di
Tucidide. Infatti gli antichi notando la mancanza del proemio nella K. A.
non parlano di quest’altra. [469] E vedi le ultime parole τῶν ῾Ελληνιχῶν
e Dionigi Alicarnasseo nelle testimonianze de Xenophonte.
È osservabile che Senofonte in quest’altra opera riesce minor di se
stesso, perché si sforza d’imitar Tucidide, e ciò servilmente, volendo che
il suo stile non si distinguesse da quello di Tucidide, e le due opere
sembrassero tutt’una. E tanto peggio, quanto lo stile di Tucidide è quasi
l’opposto di quello ch’era proprio di Senofonte. Infatti chi ha un poco di
criterio, può facilmente notare nei libri τῶν ῾Ελληνιχῶν una brevità
forzata, una differenza sensibile dallo stile delle altre opere Senofontee,
uno studio impotente di esser efficace, rapido, forte ec. Cosa contraria
all’indole di Senofonte: e vedi Cicerone nei testimoni de Xenophonte ec. e
Dionigi Alicarnasseo parimente nelle testimonianze de Xenophonte. Anzi
nelle stesse frasi, parole, modi, insomma nell’esterno e materiale dello
stile, Senofonte abbandona spesso il suo costume per seguir quello di
Tucidide, così che anche l’esteriore dello stile riesce alquanto nuovo a chi
ha l’orecchio assuefatto alle altre opere di Senofonte. Fino nell’ortografia,
Senofonte volendo assomigliarsi a Tucidide, scrive (contro quello che
suole nelle altre [470] opere) ξύν per σύν, e così nei composti dov’entra
questa preposizione: consuetudine ch’io credo familiare a Tucidide. (2.
Gennaio 1821.).
Velleio II. 98. sect. 2. Quippe legatus Caesaris triennio cum his bellavit;
gentesque ferocissimas, plurimo cum earum excidio, nunc acie, nunc
expugnationibus, in pristinum pacis redegit modum; ejusque patratione, Asiae
securitatem, Macedoniae pacem reddidit. Eiusque patratione a che si riporta?
Spiegano eiusque pacis Patratione (così l’indice Velleiano). Ottimamente:
fatta la pace, o con quella PACE, rendè LA PACE alla Macedonia. Leggo: eiusque
belli patratione, (4. Gennaio 1821.), ovvero eiusque patratione belli. Vedi p.
477. capoverso 2.
Velleio II. 90. sect.4. ut quae maximis bellis numquam vacaverant, eae sub
C. Antistio, ac deinde P. Silio legato, ceterisque, postea etiam latrociniis
vacarent. Leggo, ceterisque postea, etiam etc. Parla delle Spagne.
Velleio II. 102. sect. 2. Mox in conloquium (cui se temere crediderat) circa
Artageram graviter a quodam, nomine Adduo vulneratus. Come non si ha da
correggere: in conloquio?
Del vigore del corpo, quanto influisca sopra l’animo, e in genere come
lo stato dell’animo corrisponda a quello del corpo, vedi alcune sentenze
degli antichi nella nota del Grutero a Velleio II. 102. sect. 2.
[474] Di un francese di nazione o di costume, ch’a ogni tratto si
buttava in ginocchio avanti alle donne. Se raccontava loro, poniamo caso,
una storietta galante, o una nuova di gazzetta, e quelle non ci credevano,
per dimostrazione, per supplicarle a credere, come per impetrar fede o
credenza, si buttava in ginocchio. (5. Gennaio 1821.).
Dai tempi di Giulio Cesare in poi, Velleio nel tracciare, come suole, i
caratteri delle persone illustri che descrive, trovate spessissimo che dopo
aver detto come quel tale era pazientissimo de’ travagli e de’ pericoli,
attivo nei negozi, vigilante al bisogno, atto alla guerra, o ai maneggi
politici, soggiunge poi, che nell’ozio era molle ed effeminato, o almeno si
compiaceva anche dell’ozio, e dei diletti pacifici, e insomma delle
frivolezze, e che tanto era pigro e voluttuoso nell’ozio, quanto laborioso
diligente e tollerante nel negozio. Vedi il libro II. c. 88. sect. 2. c. 98. sect.
3. c. 102. sect. 3. c. 105. sect. 3. Dappertutto fa menzione dell’ozio, e
sempre li trova inclinati anche a questo e non poco, sebbene sieno gli
uomini più attivi di quel secolo. Cosa ignota agli antichi Eroi romani, i
quali nell’ozio non trovavano nè potevano trovare nessun piacere. E
infatti questo lineamento [475] nei ritratti sbozzati da Velleio non si trova
prima del detto tempo che fu l’epoca della decisa e sviluppata corruzione
de’ Romani. Di Lucullo e di Antonio è cosa ben nota in questo proposito.
(Di Scipione Emiliano parla bensì Velleio riguardo all’ozio, 1. 13. sect. 3.
ma molto diversamente.) Notate dunque gli effetti dell’incivilimento e
della corruzione. Notate quanto ella porti per sua natura all’inazione,
all’ozio, e alla pigrizia: che anche gli uomini più splendidi e attivi, in
questa condizione della società, inclinano naturalmente all’inazione. La
causa è il piacere che nell’antico stato di Roma non si poteva trovar
nell’ozio, e perciò l’uomo desiderando il piacere e la vita si dava
necessariamente all’azione: e così accade in tutte le nazioni non ancora o
mediocremente incivilite. La causa è pure l’egoismo, per cui l’uomo non
si vuole scomodare a profitto altrui, se non quanto è necessario, o quanto
giova a se stesso. La causa è la mancanza delle illusioni, delle idee di
gloria, di grandezza di virtù di eroismo, ec. tolte le quali idee, deve
sottentrar quella di non far nulla, lasciar correre le cose, e godere del
presente. La causa [476] per ultimo nelle monarchie (come sotto
Augusto) è la mancanza non solo delle illusioni, ma del principio di esse,
non solo della vita dell’animo, ma della vita delle cose, cioè la mancanza
di cose che realizzino e fomentino queste illusioni; la difficoltà o
impossibilità di far cose grandi o importanti, e di essere o considerarsi
come importante; la nullità, o piccolezza, e ristretta esistenza del suddito
ancorché innalzato a posti sublimi. Del resto paragonate questo tratto del
carattere Romano a quei tempi, col carattere francese oggidì, nazione
snervata dall’eccessiva civiltà, col carattere de’ loro uomini più insigni
per l’azione; e ci troverete un’evidente conformità. (5. Gennaio 1821.).
Vedi p.620. fine. e 629. capoverso 1.
Non punir mai l’ingiuria che non hai meritata, nè lasciare impunita
quella che hai meritata. [477] Perdona al tuo calunniatore, punisci il tuo
detrattore. Non far caso di chi ti schernisce a torto, ma piglia vendetta di
chi ti motteggia a ragione. (7. Gennaio 1821.).
Alla p. 472. Tanto più che quella guerra, come consistente in domar
popoli affatto barbari, non pare che fosse finita con trattato, nè con altri
mezzi artifiziali, ma solamente con quel semplice fine che deriva dalla
forza. Vedi FLORO IV, 12. sect. 17. e DIONE LIV, 34. p. 764-765, dove nella
nota 316. citandosi questo passo di Velleio, pare che si sia letto appunto
nel modo ch’io suggerisco. (8. Gennaio 1821.).
Che il nostro pensare non sia altro che il pensare latino, perduto il
significato proprio, e conservato il metaforico di ponderare col pensiero,
come appunto il ponderare latino e italiano oggidì non ritiene se non la
significazione traslata di considerare o meditare; e come gli antichi latini
adoperassero veramente il loro pensare in maniera similissima alla
presente italiana, vedilo in una nota dell’Heinsio a Velleio II. 129. sect. 2.
Consulta ancora il Forcellini, e l’Appendice.
Naturale nella maniera che noi ed i francesi lo sogliamo adoperare
frequentemente: è naturale che questo succeda; il est bien naturel ec. si
adoperava anche in latino, sebbene i Lessicografi non l’abbiano osservato
(nè il Forcellini, nè l’Appendice). Asconio in Orat. contra L. Pison.
Argumento: Sed ut ego ab eo dissentiam, facit primum, quod Piso etc. deinde,
quod magis NATURALE est, ut in ipso recenti reditu invectus sit in Ciceronem
(Piso), responderitque insectationi eius, qua revocatus erat ex provincia, quam
[481] (in altra edizione trovo prius quam, e vorrebbe dire potius quam, o
magis quam, nel qual significato prius quam si trova in ottimi esempi
appresso il Forcellini: e notate anche qui la somiglianza coll’italiano
prima che, avanti innanzi anzi che, per piuttosto che; e similmente più presto
che ec.) post anni intervallum. Questo esempio è veramente notabile e forse
unico ne’ buoni scrittori. Vedi però la nota del Burmanno alle prime
parole della sezione 4. del capo 128. lib. II. di Velleio, dove peraltro τὰ
πολλὰ ἀπροσδιόνυσα (9. Gennaio 1821.).
Quanta sia la forza d’immaginazione nei fanciulli, e com’ella sia tale
che le concezioni derivatene nella prima età, influiscono grandemente
anche nel resto della vita, si può vedere ancora in questa osservazione
minuziosa. Noi da fanciulli per lo più concepiamo una certa idea, un
certo tipo di ciascun nome di uomo: e la natura di questo tipo deriva
dalle qualità delle prime o a noi più cognite e familiari persone che
hanno portato quei tali nomi. Formatoci nella fantasia questo tipo (il
quale ancora corrisponde alle circostanze particolari di quelle persone
relativamente [482] a noi, alle nostre simpatie, antipatie ec.) sentendo
dare lo stesso nome ad un’altra persona diversa da quella su cui ci siamo
formati il detto tipo, noi concepiamo subito di quella persona un’idea
conforme al detto tipo. E il nome può essere elegantissimo, e quella tal
persona bellissima: se quel tipo è stato da noi immaginato e formato
sopra una persona odiosa o brutta; anche quell’altra bellissima, ci pare
che di necessità debba esser tale: almeno troviamo una contraddizione
tra il nome e il soggetto; o proviamo una ripugnanza a credere quel
soggetto diverso da quel tipo e da quell’idea ec. Così viceversa e
relativamente alle varie qualità dei nomi e delle persone. Ed anche da
grandi, e dopo che l’immaginazione ha perduto il suo dominio, dura per
lungo tempo e forse sempre questo tale effetto, almeno riguardo ai primi
momenti, e proporzionatamente alla forza dell’impressione ricevuta da
fanciulli, e dell’immagine concepita. Io da fanciullo ho conosciuto
familiarmente una Teresa vecchia, e secondo che mi pareva, odiosa. Ed
allora e oggi che son grande provo una certa ripugnanza a persuadermi
che il nome di Teresa possa appartenere [483] ad una giovane, o bella, o
amabile: o che quella che porta questo nome, possa aver questa qualità: e
insomma sentendo questo nome, provo sempre un impressione e
prevenzione sfavorevole alla persona che lo porta. E ordinariamente
l’idea che noi abbiamo dell’eleganza, grazia, dolcezza, amabilità di un
nome, non deriva dal suono materiale di esso nome, nè dalle sue qualità
proprie e assolute, ma da quelle delle prime persone chiamate con quel
nome, conosciute o trattate da noi nella prima età. Anche però viceversa
potrà accadere che noi da fanciulli concepiamo idea della persona, dal
nome che porta, massime se si tratta di persone lontane, o da noi
conosciute solamente per nome: e giudichiamo della persona, secondo
l’effetto che ci produce il nome, col suono materiale, o col significato che
può avere, o con certe relazioni con altre idee. E questo ci avviene ancora
da grandi, sia per conseguenza dell’idea concepita nella fanciullezza, sia
anche assolutamente: perché è certo che noi non ascoltiamo il nome,
ovvero il cognome di persona a noi tanto ignota, che sopra quella
denominazione non ci [484] formiamo una tal quale idea sì dell’esterno
che dell’interno di quella persona. Idea più o meno confusa, più o meno
viva, secondo le circostanze; ma ordinariamente chiarissima e vivissima
ne’ fanciulli, sebbene per lo più falsissima. E massimamente i fanciulli
(sempre lontani dall’indifferenza), secondo questa idea, si determinano
all’odio o all’amore, a un certo genio o contraggenio verso quelle tali
persone, non conosciute se non per nome. (10. Gennaio 1821.).
Non si è mai letto di nessun antico che si sia ucciso per noia della vita,
laddove si legge di molti moderni, e vedi il Suicidio ragionato di
Buonafede. Nè perché questo accade oggidì massimamente in
Inghilterra, si creda che questo fosse comune in quel paese anche
anticamente, senza che ne rimanga memoria. Dai poemi di Ossian si
vede quanto gli antichi abitatori di quel paese fossero lontani dal
concepire la nullità e noia necessaria della vita assolutamente; e molto
più dal disperarsi e uccidersi per questo. Gli antichi Celti e gli altri
antichi si uccidevano per disperazioni [485] nate da passioni e sventure,
non mai considerate come inevitabili e necessarie assolutamente
all’uomo, ma come proprie dell’individuo, perciò disgraziato e infelice, e
disperantesi. La disperazione e scoraggimento della vita in genere, l’odio
della vita come vita umana (non come individualmente e
accidentalmente infelice), la miseria destinata e inevitabile alla nostra
specie, la nullità e noia inerente ed essenziale alla nostra vita, in somma
l’idea che la vita nostra per se stessa non sia un bene, ma un peso e un
male, non è mai entrata in intelletto antico, nè in intelletto umano avanti
questi ultimi secoli. Anzi gli antichi si uccidevano o disperavano
appunto per l’opinione e la persuasione di non potere, a causa di
sventure individuali, conseguire e godere quei beni ch’essi stimavano
ch’esistessero. (10. Gennaio 1821.).
[489] FLORO I. 8. Haec est prima aetas populi Romani et quasi infantia,
quam habuit sub regibus septem, quadam fatorum industria. Tam variis
ingenio, ut Reipublicae ratio et utilitas postulabat. Quel quadam fatorum
industria a che ha relazione? All’avere avuto il popolo Romano una
prima età ovvero un’infanzia? Cosa veramente straordinaria e bisognosa
di molto ingegno dei destini. Leggi continuamente, quadam fatorum
industria tam variis ingenio ec. perché le dette parole non si possono
riportare se non a queste che seguono; e queste dipendono intieramente
da quelle. Vedi però le ultime ediz. di Floro. (11. Gennaio 1821.).
FLORO I. 12. Veientium quanta res fuerit, indicat decennis obsidio. Tunc
primum hiematum sub pellibus: taxata stipendio hiberna: adactus miles sua
sponte iureiurando, «nisi capta urbe remeare». Spolia de Larte Tolumnio rege ad
Feretrium reportata. Denique non scalis, nec irruptione, sed cuniculo, et
subterraneis dolis peractum urbis excidium. [490] Tutto questo fa un periodo
solo, e non va distinto se non colle minori interpunzioni. L’hiematum sub
pellibus, il taxata hiberna, l’adactus miles, lo spolia reportata, il peractum
excidium, non istanno da se, ma dipendono dal Veientium quanta res fuerit,
indicat; come apparisce sì dalle cose stesse, come quello che Floro
soggiunge immediatamente: Ea denique visa est praedae magnitudo, cuius
decimae Apollini Pythio mitterentur: universusque populus Romanus ad
direptionem urbis vocaretur. HOC TUNC VEII FUERE. Le quali parole chiudono
la dimostrazione dell’antica grandezza e forza di Veio. Vedi però le ult.
edizioni di Floro. (11. Gennaio 1821.).
Σὺ γάρ ὠ Θαλῆ, τὰ ἐν ποσὶν οὐ δυνάµενος ἰδεῖν, τὰ ἐπὶ τοῦ
οὐρανοῦ οἴει γνώσεσϑαι; disse quella vecchia fantesca a Talete caduto in
una fossa mentre andava contemplando le stelle. (LAERZIO. 1. 34. in
Thalete.) [491] ῞Ωσπερ χαὶ Θαλῆν ἀστρονοµοῦτα, ὠ Θεόδωρε (dum
coelum suspiceret. Ficin.), χαὶ ἄνω βλέποντα, πεσόντα εἰς ϕρέαρ (in
foveam. id.) Θρᾷττά τις ἐµµελὴς χαὶ χαρίεσσα ϑεραπαινὶς (Thracia
quaedam eius ancilla concinna et lepida. id.) ἀποσχῶψαι λέγεται, ὡς τὰ µὲν
ἐν οὐρανῷ προϑυµοῖτο εἰδέναι, (pervidere contenderet. id.) τά δ᾽
ἔµποσϑεν αὐτοῦ χαὶ παρὰ πόδας, λανϑάνοι αὐτον. Ταὐτὸν δὲ ἀρχεῖ,
(obiici potest. id. aptius, cadit, convenit) σχῶµµα ἐπὶ πάντας ὅσοι ἐν
ϕιλοσοϕίᾳ διάγουσι (in philosophia versantur. id.) Platone nel Teeteto, ἢ
περὶ ἐπιστήµης, alquanto prima della metà. (p. 127. f. Lugduni 1590.) E
vedi il Menag. ad Laert. I. 34. E Diogene Cinico si maravigliava
ἐϑαύµαζε… τοὺς µαϑηµατιχοὺς (cioè gli astronomi) ἀποβλέπειν µὲν
πρὸς τὸν ἤλιον χαὶ τὴν σεληνην, τὰ δ᾽ἐν ποσὶ πράγµατα παρορᾶν
(LAERZIO VI. 28. in Diogene Cynico.).
Tutto questo si può dire non solo dei sapienti ma degli uomini in
generale, e compiangere non solo l’impotenza del sapere umano, non
solo il cattivo giudizio nello scegliere, cioè il [492] curarsi delle cose poste
fuori della nostra sfera, e a noi straniere, e lasciar le vicine, e importanti
per noi; ma anche la cecità, la miseria, l’inutilità, la dannosità del sapere
umano: quando tutte le cose che noi dovevamo sapere, ed ancora che
possiamo sapere, sono veramente ἔµπροσϑεν ἡµῶν χαὶ παρὰ πόδας, e
finalmente la sommità, l’ultimo grado del sapere, consiste in conoscere
che tutto quello che noi cercavamo era davanti a noi, ci stava tra’ piedi,
l’avressimo saputo, e lo sapevamo già, senza studio: anzi lo studio solo e
il voler sapere, ci ha impedito di saperlo e di vederlo; il cercarlo ci ha
impedito di trovarlo. E guardando in alto per informarci delle cose
nostre, che ci stavano tra’ piedi visibilissime, chiarissime, e
ordinatissime, non le abbiamo vedute, e non le vediamo; e siamo per
conseguenza caduti e cadiamo in tante fosse, primieramente di errori,
secondariamente, che peggio è, di mali e infelicità. Quanto non si è
studiato, che cosa non si è consultata, quali confronti non si son fatti,
quali rapporti non osservati, quali secreti, quali misteri [493] scoperti o
cercati di scoprire, quante scienze, quante arti, quante discipline
inventate, quante istituzioni fatte, o politiche o morali o religiose ec. per
iscoprire la nostra origine, i nostri destini, la natura delle cose, l’ordine
universale, la nostra felicità! Ma noi eravamo felici naturalmente, e tali
quali eravamo nati, l’ordine delle cose era quello nè più nè meno che ci
stava innanzi agli occhi, quello ch’esisteva prima dei nostri studi i quali
non hanno fatto altro che turbarlo; la natura era quella che noi sentivamo
senza studiarla, trovavamo senza cercarla, seguivamo senza osservarla,
ci parlava senza interrogarla: il bene e il male era veramente quello che
noi credevamo naturalmente tale: i nostri destini erano quelli ai quali
correvamo naturalmente, come il fiume al mare: la verità reale era quella
che sapevamo senz’avvedercene, e senza pensare o credere di sapere.
Tutto era relativo, e noi abbiamo creduto tutto assoluto: noi stavamo
bene come stavamo, e perciò appunto ch’eravamo fatti così; ma noi
abbiamo cercato il bene, come diviso dalla nostra essenza, [494] separato
dalla nostra facoltà intellettiva naturale e primigenia, riposto nelle
astrazioni, e nelle forme universali. Si è ricorso al cielo e alla terra, ai
sistemi i più difficili (siano chimerici o sodi), in milioni di guise, per
trovare quella felicità, quella condizione conveniente a noi, nella quale
eravamo già stati posti nascendo: e non s’è trovata, se non quanto si è
potuto conoscere ch’ella era appunto quella che avevamo prima di
pensare a cercarla. (12. Gennaio 1821.).
Hic sive invidia deum, sive fato, rapidissimus procurrentis imperii cursus
parumper Gallorum Senonum incursione subprimitur. FLORO, I. 13. principio,
entrando a raccontare la prima guerra gallica.
FLORO 1. 13. ed. Manhem. Adeo tum quoque in ultimis religio publica
privatis adfectibus antecellebat. Perché tum quoque? Forse ne’ tempi
seguenti, e massime in quelli di Floro, cioè di Traiano, la religione
pubblica fu più a cuor de’ Romani, che ne’ primi tempi di Roma? O non
più tosto ella venne indebolendo a proporzione del tempo, e all’età di
Floro, era, si può dire, estinta nel fatto? [495] E non solo ai Romani, ma a
tutti i popoli è sempre avvenuto e avviene lo stesso. Questa era cosa
confessata da tutti anche allora, e la somma religiosità dell’antica Roma
era notissima e famosissima. Leggi: Adeo tum in ultimis quoque: allora anche
nell’infima plebe la religione pubblica prevaleva alle affezioni private, laddove
in seguito fu tutto l’opposto. Io credo però che in ultimis l’abbiano inteso
per in ultimis rebus o casibus, negli estremi frangenti, e così abbiano
spiegato: Tanto anche in quel tempo, cioè nell’ultima calamità. Male. In ultimis
vuol dire negl’infimi, come apparisce dalle parole di Floro che precedono.
Vedi il Forcellini, e le ult. ediz. di Floro. Vedi p. 510. capoverso 2.
FLORO 1. 13. avendo detto che i Romani distrussero la gente dei Galli
Senoni in maniera che hodie nulla Senonum vestigia supersint, soggiunge
con breve intervallo: ne quis exstaret in ea gente, quae incensam a se Romam
urbem gloriaretur. Che vada letto qui per quae non par da dubitare, e sarà
già osservato. Ma e così, [496] e in ogni modo, come avea da restare
alcuno in quella gente, se questa era tutta distrutta? Leggo: ex ea gente:
acciò non restasse nessuno DI quella gente. Chiunque ha senso o di latinità o
solamente di ragione, conoscerà che la preposizione in qui non ha luogo.
(12. Gennaio 1821.).
Come dice Dante Quinci si va, CHI vuole andar per pace, idiotismo assai
comune e usitato nella nostra lingua, così anche i latini. Floro II. 15. sul
principio: Atque SI QUIS trium temporum momenta consideret, primo
commissum bellum, profligatum secundo, tertio vero confectum est. Parla delle
3. guerre Puniche. (14. Gennaio 1821). Più manifesto, e conforme all’uso
italiano è questo idiotismo (vero idiotismo, perché non è locuzione
regolare, anzi falsa secondo la dialettica e la costruzione) in Orazio Od.
16. l. 2, v. 13. VIVITUR parvo bene, CUI paternum ec. cioè si cui (che neppur
essa sarebbe locuzione regolarissima) ma è omesso il si, come appunto in
italiano.
FLORO II. 15. Sed huius caussa belli (tertii Punici) (scil. fuit), quod contra
foederis legem (Carthago) adversus Numidas quidem semel parasset classem et
exercitum, frequens autem Masinissae fines territabat. Sed huic bono socioque
regi favebatur. Questa enallage o transizione da parasset a territabat qui
non conviene. Trovo però in altre edizioni territaret. Ma di più quel
quidem e quell’autem sono particelle avversative, o disgiuntive. Ma come
ora si legge, queste particelle non possono servire, ed effettivamente non
servono ad altro, che a distinguere i Numidi da Massinissa. [503]
Laddove erano la stessa cosa, e contro Massinissa era stato quel
preparativo di Cartagine che Floro dice contro i Numidi. Vedi gli storici.
Leggo: Masinissa (vedi però gli Storici, se ciò è vero di lui) e volentieri
ancora trasferirei il quidem dopo semel. La cagione di questa guerra fu che
contro i patti Cartagine aveva una volta preparato esercito e flotta contro i
Numidi. Massinissa però frequentemente (vedete il frequens autem opposto al
semel quidem, e così mi pare che debba essere in qualunque modo si
voglia intendere questo luogo, perché l’adversus Numidas quidem che
opposizione o forza disgiuntiva ha con frequens autem?) infestava i di lei
confini. Ma (notate quel ma, che intendendo il luogo in altro senso, non
istà convenientemente) i Romani favorivano questo buono e alleato principe.
(14. Gennaio 1821.).
In luogo che un’anima grande ceda alla necessità, non è forse cosa che
tanto la conduca all’odio atroce, dichiarato, e selvaggio contro se stessa, e
la vita, quanto la considerazione della necessità e irreparabilità de’ suoi
mali, infelicità, disgrazie [504] ec. Soltanto l’uomo vile, o debole, o non
costante, o senza forza di passioni, sia per natura, sia per abito, sia per
lungo uso ed esercizio di sventure e patimenti, ed esperienza delle cose e
della natura del mondo, che l’abbia domato e mansuefatto; soltanto
costoro cedono alla necessità, e se ne fanno anzi un conforto nelle
sventure, dicendo che sarebbe da pazzo il ripugnare e combatterla ec. Ma
gli antichi, sempre più grandi, magnanimi, e forti di noi, nell’eccesso
delle sventure, e nella considerazione della necessità di esse, e della forza
invincibile che li rendeva infelici e gli stringeva e legava alla loro miseria
senza che potessero rimediarvi e sottrarsene, concepivano odio e furore
contro il fato, e bestemmiavano gli Dei, dichiarandosi in certo modo
nemici del cielo, impotenti bensì, e incapaci di vittoria o di vendetta, ma
non perciò domati, nè ammansati, nè meno, anzi tanto più desiderosi di
vendicarsi, quanto la miseria e la necessità era maggiore. Di ciò si hanno
molti esempi nelle storie. Il fatto di Giuliano moribondo, non so se sia
storia o favola. Di Niobe, dopo la sua sventura, [505] si racconta, se non
fallo, come bestemmiava gli Dei, e si professava vinta, ma non cedente.
Noi che non riconosciamo nè fortuna nè destino, nè forza alcuna di
necessità personificata che ci costringa, non abbiamo altra persona da
rivolger l’odio e il furore (se siamo magnanimi, e costanti, e incapaci di
cedere) fuori di noi stessi; e quindi concepiamo contro la nostra persona
un odio veramente micidiale, come del più feroce e capitale nemico, e ci
compiaciamo nell’idea della morte volontaria, dello strazio di noi stessi,
della medesima infelicità che ci opprime, e che arriviamo a desiderarci
anche maggiore, come nell’idea della vendetta, contro un oggetto di odio
e di rabbia somma. Io ogni volta che mi persuadeva della necessità e
perpetuità del mio stato infelice, e che volgendomi disperatamente e
freneticamente per ogni dove, non trovava rimedio possibile, nè
speranza nessuna; in luogo di cedere, o di consolarmi colla
considerazione dell’impossibile, e della necessità indipendente da me,
[506] concepiva un odio furioso di me stesso, giacché l’infelicità ch’io
odiava non risiedeva se non in me stesso; io dunque era il solo soggetto
possibile dell’odio, non avendo nè riconoscendo esternamente altra
persona colla quale potessi irritarmi de’ miei mali, e quindi altro soggetto
capace di essere odiato per questo motivo. Concepiva un desiderio
ardente di vendicarmi sopra me stesso e colla mia vita della mia
necessaria infelicità inseparabile dall’esistenza mia, e provava una gioia
feroce ma somma nell’idea del suicidio. L’immobilità delle cose
contrastando colla immobilità mia; nell’urto, non essendo io capace di
cedere, ammollirmi e piegare; molto meno le cose; la vittima di questa
battaglia non poteva essere se non io. Oggidì (eccetto nei mali derivati
dagli uomini) non si riconosce persona colpevole delle nostre miserie, o
tale che la Religione c’impedisce in tutti i modi di creder colpevole, e
quindi degna di odio. Tuttavia anche nella Religione di oggidì, l’eccesso
dell’infelicità indipendente [507] dagli uomini e dalle persone visibili,
spinge talvolta all’odio e alle bestemmie degli enti invisibili e superiori: e
questo, tanto più quanto più l’uomo (per altra parte costante e
magnanimo) è credente e religioso. Giobbe si rivolse a lagnarsi e quasi
bestemmiare tanto Dio, quanto se stesso, la sua vita, la sua nascita ec. (15.
Gennaio 1821.).
Gli adulatori e gli amici dei tiranni non guadagnano altro se non di
essere esclusi dalla misericordia che le generazioni future porteranno
all’età e generazioni loro. E di partecipare all’odio senza essere stati
esenti dai pericoli e dai mali, anzi tutto l’opposto, e spesso più degli altri.
(15. Gennaio 1821.).
Qual è la più grata compagnia? Quella che rileva l’idea che abbiamo
di noi medesimi; quella che ci fa compiacere di noi stessi, che ci persuade
di valer più che non credevamo, che ci mostra come lodevoli alcune
qualità, dove non credevamo di meritar lode, o non tanta; [508] quella da
cui partiamo con maggiore stima di noi, che ci lascia più soddisfatti di
noi stessi. Tutto è amor proprio nell’uomo e in qualunque vivente.
Amabile non pare e non è, se non quegli che lusinga, giova ec. l’amor
proprio degli altri. Questa è una delle principali osservazioni ed artifizi
per farsi stimare di buona compagnia, rendersi piacevole e amabile, farsi
desiderare e far fortuna: nominatamente nella galanteria. Cosa ben
conosciuta dai professori di quest’ultima arte. Vedi quello che Lord
Nelvil [dice] di Mad. d’Arbigny presso la Staël nella Corinna. Si desidera
bene spesso la compagnia di qualcuno, ci si trova un pascolo un piacere
nuovo e straordinario: nè si vede bene perché, ma si attribuisce
all’amabilità delle sue maniere e del suo carattere. La ragion vera [è]
ch’egli sa fare che noi ci stimiamo da più di quello che facessimo, o
confermarci nella buona opinione che avevamo di noi. (15. Gennaio
1821.).
[510] Floro III. 3. Iam diem pugnae a nostro Imperatore petierunt, et sic
proximum dedit. In patentissimo, quem Raudium vocant, campo concurrere.
Leggerei: et hic proximum dedit. (15. Gennaio 1821).
Alla p. 495. Così II. 14. vir ULTIMAE sortis Andriscus. Così VELLEIO I. II.
sect.1 qui se Philippum, regiaeque stirpis ferebat, cum esset ULTIMAE. Del resto
o sia sbaglio dei Codici o proprietà di Floro, e figura grammaticale a lui
familiare, io trovo anche altre volte il quoque messo da lui piuttosto
prima che dopo quello a cui pare che si dovrebbe effettivamente riferire,
considerando il sentimento. Così II. 14. fine. Sebbene quivi si potrà forse
spiegare e tollerare. Ma III. 6. dove dice di Pompeo destinato alla guerra
Piratica, Sic ille quoque ante felix, dignus nunc victoria Pompeius visus est. Il
quoque non par che si possa riportare se non all’ante e non all’ille
(quantunque i pirati fossero stati già combattuti e vinti da P. Servilio
l’Isaurico) perché la forza di questo luogo par che consista nella
contrapposizione dell’ante felix, col dignus nunc victoria. Onde pare che il
luogo vada corretto. Vedi il Forcellini dove parla del quoque congiunto
coll’et [511] o etiam. Vedi pure le ultime edizioni di Floro.
Alla p. 96. Dalla bianchezza di quella porca si crede che derivasse il
nome di Alba dato alla città fondata da Ascanio, e questo pure può
confermare il mio sospetto, avendola fondata Ascanio quasi nuova troia.
(15. Gennaio 1821.).
Nisi quod magnae indolis signum est, sperare [523]semper. FLORO IV,
8.
Sed quanto efficacior est fortuna quam virtus! et quam verum est
quod moriens (Brutus) efflavit, «non in re, sed in verbo tantum esse
virtutem». FLORO IV, 7.
FLORO IV, 6. Quid contra duos exercitus necesse fuit venire in cruentissimi
foederis societatem? Trasponete l’interrogativo dopo exercitus. Così vuole il
contesto, e anche la semplice osservazione di questo passo, perch’io non
so come il venire in foederis societatem con due eserciti (di Antonio e di
Lepido), s’abbia da poter dire contra duos exercitus. Vedi le ult. ediz. di
Floro. (18. Gennaio 1821.).
Alla p. 477. Floro è noto per il molto che ha di poetico, non solo
nell’invenzione, nell’immaginazione, evidenza, fecondità, come Livio,
ma nella sentenza e nella frase, anzi non tanto nella facoltà, quanto nella
maniera, nello stile, e nella volontà. E in ogni modo Floro ha tanto di
gravità, nobiltà, posatezza, ed ancora castigatezza, in somma tanto sapor
di prosa, quanto non si troverà facilmente in nessun moderno, se non
forse, ma dico forse, in qualcuno de’ nostri cinquecentisti. E quella stessa
dose di pregi (senza [527] i quali però non ci può esser buona nè vera
prosa) basterebbe per fare ammirare uno scrittore de’ nostri tempi, e
farlo giudicare sommo ed unico. (Aggiungete tutto quello che spetta alla
lingua: eleganza, purità sufficientissima, armonia, varietà ec. forma de’
periodi, e loro disposizione e connessione ec.) Ora i migliori e sommi
prosatori francesi, in ordine a questi pregi, non sono degni di venir
nemmeno in confronto con uno de’ peggiori ed infimi classici latini. (19.
Gennaio 1821).
I fanciulli trovano il tutto nel nulla, gli uomini il nulla nel tutto.
Τέταρτος (Ξενοχράτης) ϕιλόσοϕος, ᾽Ελεγείαν γεραϕὼς οὐχ
ἐπιτυχῶς. (Elegiae scriptor non satis probatus). ῎Ιδιον 3. (Ita enim se
habet res) Ποιταὶ µὲν γὰρ ἐπιβαλλόµενοι πεζογραϕεῖν,
ἐπιτυχγάνουσι: (si quid prosa oratione scribere velint, praestant)
πεσογράϕοι δὲ ἐπιτιϑέµενοι ποιητιχῇ, πταίουσι. (si poeticae sibi partes
vindicare velint, non assequuntur) Δῆλον τὸ µὲν ϕύσεωσ εἶναι (scil. τὸ
τῆς ποιητιχῆς) τὸ δὲ τέχνης ἔργον. LAERZIO in Xenocrate, l. 4. segm. [528]
15. E vedi se ha nulla in questo proposito il Menagio. (19. Gennaio 1821.).
Come i piaceri così anche i dolori sono molto più grandi nello stato
primitivo e nella fanciullezza, che nella nostra età e condizione. E ciò per
le stesse ragioni per le quali è maggiore il diletto. Primieramente
(massime ne’ fanciulli) manca l’assuefazione al bene e al male. Il bene
dunque e il male dev’essere molto più sensibile ed energico
relativamente all’animo loro, che al nostro. Poi (e questo è il punto
principale, e comune a tutti gli uomini naturali) il dolore, la disgrazia ec.
nel fanciullo, e nel primitivo, sopravviene all’opinione della felicità
possibile, o anche presente; contrasta vivissimamente coll’aspetto del
bene, creduto e reale e grande, del bene o già provato, o sperato con
ferma speranza, o veduto attualmente negli altri; è l’opposto e la
privazione di quella felicità che si crede vera, importante, possibilissima,
anzi destinata all’uomo, posseduta dagli altri, [529] e che sarebbe
posseduta da noi, se quell’ostacolo non ce l’impedisse, o per ora, o per
sempre. Ed anche l’idea del male assoluto, cioè indipendentemente dalla
comparazione del bene, è forse maggiore in natura, che nello stato di
civiltà e di sapere.
Osservate ancora che dolor cupo e vivo sperimentavamo noi da
fanciulli, terminato un divertimento, passata una giornata di festa ec. Ed
è ben naturale che il dolore seguente dovesse corrispondere
all’aspettativa, al giubilo precedente. E che il dolore della speranza
delusa sia proporzionato alla misura di detta speranza. Non dico alla
misura del piacere provato, realmente, perché infatti neanche i fanciulli
provano mai soddisfazione nell’atto del piacere, non potendo nessun
vivente esser soddisfatto se non da un piacere infinito, come ho detto
altrove. Anzi il nostro dolore, dopo tali circostanze, era inconsolabile,
non tanto perché il piacere fosse passato, quanto perché non avea
corrisposto alla speranza. Dal che seguiva talvolta una specie di rimorso
o pentimento, come se non avessimo goduto [530] per nostra colpa.
Giacché l’esperienza non ci aveva ancora istruiti a sperar poco, preparati
a veder la speranza delusa, assuefatti a consolarci facilmente di tali e
maggiori perdite ec. Insomma considerando in quella età le cose come
importanti, o più importanti di quello che le consideriamo in altra età,
(così relativamente e in particolare, come in generale e assolutamente) è
naturale che come i piaceri, così i dolori di quell’età sieno maggiori in
proporzione dell’importanza che gli oggetti del dolore o del piacere
hanno nella nostra opinione. Così nella speranza di qualche bene, quale
non era la nostra inquietudine, i nostri timori, i nostri palpiti, le nostre
angosce ad ogni piccolo ostacolo, o apparenza di difficoltà, che si
opponesse al conseguimento della detta speranza! E se poi l’oggetto
stesso della speranza (ancorché minimo, rispetto alle nostre opinioni
presenti) non si conseguiva, quale non era la nostra disperazione! In
maniera che forse in seguito, nelle più grandi sventure della vita, non
abbiamo provato, nè proveremo mai tanto dolore e accoramento, come
per quelle minime sventure fanciullesche.
[531] Lascio stare il timore e lo spavento proprio di quell’età (per
mancanza di esperienza e sapere, e per forza d’immaginazione ancor
vergine e fresca): timor di pericoli di ogni sorta, timore di vanità e
chimere proprio solamente di quell’età, e di nessun’altra; timor delle
larve, sogni, cadaveri, strepiti notturni, immagini reali, spaventose per
quell’età e indifferenti poi, come maschere ec. ec. (Vedi il Saggio sugli
Errori popolari degli antichi.) Quest’ultimo timore era così terribile in
quell’età, che nessuna sventura, nessuno spavento, nessun pericolo per
formidabile che sia, ha forza in altra età, di produrre in noi angosce,
smanie, orrori, spasimi, travaglio insomma paragonabile a quello dei
detti timori fanciulleschi. L’idea degli spettri, quel timore spirituale,
soprannaturale, sacro, e di un altro mondo, che ci agitava
frequentemente in quell’età, aveva un non so che di sì formidabile e
smanioso, che non può esser paragonato con verun altro sentimento
dispiacevole dell’uomo. Nemmeno il timor dell’inferno in un moribondo,
credo che possa essere così intimamente terribile. Perché la ragione e
l’esperienza rendono inaccessibili a qualunque sorta di sentimento,
quell’ultima e profondissima [532] parte e radice dell’animo e del cuor
nostro, alla quale penetrano e arrivano, e la quale scuotono e invadono le
sensazioni fanciullesche o primitive, e in ispecie il detto timore. (20.
Gennaio 1821). Vedi p. 535 capoverso 1.
Alla p. 532. Questo si può osservare [536] anche negli effetti fisici o
esterni delle dette sensazioni interne, sieno relativi alla salute, sieno ai
moti, ai gesti, sieno alle risoluzioni e azioni alle quali strascinano i
fanciulli e i primitivi, e ciò con tale irresistibilità, e violenza infallibile,
quale non ha verun’altra sensazione interna nelle altre età e condizioni,
ma solamente alcune delle esterne e fisiche. Tant’è, l’immaginazione, o le
sensazioni interne, hanno, si può dire nella fanciullezza, e nello stato
naturale, la stessa o simile forza e certezza, delle sensazioni e forze
esterne e meccaniche in quella e nelle altre età o condizioni. (20. Gennaio
1821.).
Nihil est enim appetentius similium sui, nihil rapacius, quam natura.
CICERONE, Laelius sive de Amicitia, c.14. (21 Gennaio 1821.).
Sic enim mihi perspicere videor, ita natos esse nos, [541] ut inter omnes
esset societas quaedam; (ecco l’amore universale, notato anche da Cicerone,
e naturale, perché la natura, e tutti gli animali tendono più che ad altro al
loro simile; preferiscono nella inclinazione, nell’amore, nella società, il
loro simile, allo straniero e diverso. Questo è il vero confine dell’amore
universale secondo natura, non quelli che gli assegnano i nostri filosofi.
Ma seguitiamo) maior autem, ut quisque proxime accederet. Itaque cives,
potiores, quam peregrini; et propinqui quam alieni. (Così che nel conflitto
degl’interessi di coloro che nobis proxime accedunt, cogl’interessi degli
stranieri, alieni, lontani, quelli vincono nell’animo, nella inclinazione, e
nella natura nostra: e non già nella sola parità di circostanze, ma quando
anche o il bene, o la salute e incolumità de’ vicini, porti agli strani un
danno sproporzionato; quando anche si tratti di un solo o pochi vicini, e
di molti lontani; quando si tratti della sola sua patria in comparazione di
tutto il mondo. E tali sono realmente gli effetti e la misura dell’amore dei
bruti verso i loro [542] figli ec. rispetto agli altri loro simili: delle api di un
alveare, rispetto alle altre ec. E vedi il pensiero seguente.) Cum his enim
amicitiam NATURA IPSA peperit. CICERONE, Laelius sive de Amicitia c. 5. sulla
fine. (22. Gennaio 1821.).
Quapropter a natura mihi videtur potius, quam ab indigentia, orta
amicitia, et applicatione magis animi cum quodam sensu amandi, quam
cogitatione, quantum illa res utilitatis esset habitura. Quod quidem quale
sit, etiam in bestiis quibusdam animadverti potest; quae ex se natos ita
amant ad quoddam tempus, et ab eis ita amantur, ut facile earum sensus
appareat. Quod in homine multo est evidentius. CICERONE, Laelius sive de
Amicitia c. 8. (22. Gennaio 1821.).
Del resto quanto sia facile, ovvia, e primitiva l’idea che a qualunque
società, per poco ch’ella sia formata, e che declini dalla primissima forma
di società, comune si può dire a tutte le specie di viventi, è necessaria
l’unità, cioè un capo, e questo veramente uno, cioè assoluto, si può
vedere e nelle storie d’ogni nazione, e in ogni genere di società, pubblica,
privata ec. nelle milizie, nelle compagnie di cacciatori, o in qualunque
compagnia, che abbia uno scopo comune, e sia destinata tutta insieme a
un oggetto qualunque. Io mi sono abbattuto a sentire un uomo di
nessuna o coltura, o acutezza naturale d’ingegno, il quale a una
compagnia di negoziatori, che si mettevano a girare il mondo, per far
guadagno [591] mediante un capitale comune e indivisibile (cioè un
panorama), dava questo consiglio: Sceglietevi e riconoscete un capo, e
ubbiditelo in tutto. (che altro è questo se non l’idea precisa della necessità
della monarchia assoluta?) Altrimenti ciascuno cercando il suo interesse
più dell’altrui, cosa contrarissima all’interesse e allo scopo comune, l’uno
farà pregiudizio all’altro, e al tutto; e così ciascuno sarà pregiudicato, e la
discordia (cioè il contrario dell’unità) v’impedirà di conseguire quello
che cercate. (31. Gennaio 1821.). Vedi p. 598. capoversi 1.2.3.
[598] Alla p. 591 Igitur initio reges (nam in terris nomen imperii id
primum fuit) (cioè, il primo governo, le premier pouvoir, come traduce
Dureau-Delamalle, la più antica signoria, come traduce Alfieri, fu regia,
vale a dire assoluta) diversi, pars ingenium, alii corpus exercebant: etiam tum
vita hominum sine cupiditate agitabatur, sua cuique satis placebant. (Cioè,
l’egoismo non turbava l’ordine pubblico). Sallustio, Bell. Catilinar. c. 2.
Ius bonumque apud eos, (i romani de’ primi tempi della repubblica)
non legibus magis quam naturâ valebat. SALLUSTIO, Bellum Catilinarium,
c. 9.
Regium imperium, quod initio conservandae libertatis atque
augendae reipublicae fuerat. SALLUSTIO, Bellum Catilinarium, c. 6. fine.
At populo romano nunquam ea copia fuit, (praeclari ingenii scriptorum)
quia prudentissimus quisque (cioè, ceux qui avaient le plus de lumières,
Dureau-Delamalle, qual più saggio vi era, Alfieri) negotiosus maxume erat:
ingenium nemo sine corpore exercebat: (luogo degno di essere riportato
qualunque volta io discorrerò di questa materia) optimus quisque facere
quam dicere, [599] sua ab aliis benefacta laudari, quam ipse aliorum narrare,
malebat. SALLUSTIO, Bellum Catilinarium, c. 8. fine.
In hoc sumus sapientes, quod naturam optimam ducem, tanquam deum,
sequimur, eique paremus… Quid enim est aliud, gigantum modo bellare cum
diis, nisi naturae repugnare? CICERONE, Cato maior seu de Senectute, c. 2.
Sentenze attissime o congiunte o separate, a servire di epigrafe o motto a
qualche mio libro. Vedi p. 601 capoverso 1.
Alla p. 291. margine. Nemo enim est tam senex, qui se annum non putet
posse vivere. CICERONE, Cato maior seu de Senectute, c.7. fine. E lo dice in
proposito dei contadini che seminano ancorché vecchissimi per l’anno
futuro.
Qual cosa è più lontana dal noto e comune significato del verbo latino
defendere, quanto il significato di proibire nel francese défendre, nello
spagnuolo defender e nel difendere italiano presso gli antichi? E pure il
significato proprio e primitivo del latino defendere (admodum propria et
Latina huius verbi significatio, [600] ut ait GELL. l.9. c.1. dice il Forcellini) è
molto simile, e si accosta moltissimo alla detta significazione francese, e
antica italiana: ed è questa, arceo, prohibeo, depello, propulso, come dice il
Forcellini, il quale ne porta molti esempi di diverse età di scrittori. Ora,
come il verbo prohibeo, che ha questa medesima significazione, aveva
ancora presso i latini espressamente quella di proibire o défendre (vedi il
Forcellini) così è ben verisimile che il verbo defendere unisse (se non
presso i noti scrittori, presso gli antichissimi, e presso il volgo) questo
significato al sopraddetto. In ogni modo è chiaro [che] l’uso del defendere
in francese e nel vecchio italiano, per proibire, deriva dall’antichissimo,
primo, e proprio significato di quel verbo latino; il quale, se anche è stato
ridotto al significato di proibire, solamente nelle origini della nostra
lingua, lo è stato però certo in forza della conservazione costante di
quell’antichissimo significato, non più noto agli scrittori di quei tempi, e
quindi necessariamente al solo volgo, e che si crederebbe perduto da
lunghissimo tempo, se non [601] avessimo questa prova della sua
costante conservazione fino all’ultima età della lingua latina. (2 Febbraio
1821).
Alla p. 599 Omnia vero, quae secundum naturam fiunt, sunt habenda in
bonis. CICERONE, Cato maior seu de Senectute, c. 19. in proposito della morte
dei vecchi. (3. Febbraio 1821).
Cum proelium inibitis, (moneo vos ut) memineritis vos divitias, decus,
gloriam, praeterea libertatem atque patriam in dextris vestris portare. Parole
che Sallustio (Bellum Catilinarium c. 58 al. 61) mette in bocca a Catilina
nell’esortazione ai soldati prima della battaglia. Osservate la differenza
dei tempi. Questa è quella figura rettorica che chiamano Gradazione.
Volendo andar sempre crescendo, Sallustio mette prima le ricchezze, poi
l’onore, poi la gloria, poi la libertà, [607] e finalmente la patria, come la
somma e la più cara di tutte le cose. Oggidì, volendo esortare un’armata
in simili circostanze, ed usare quella figura si disporrebbero le parole al
rovescio: prima la patria, che nessuno ha, ed è un puro nome; poi la
libertà che il più delle persone amerebbe, anzi ama per natura, ma non è
avvezzo neanche a sognarla, molto meno a darsene cura; poi la gloria,
che piace all’amor proprio, ma finalmente è un vano bene; poi l’onore,
del quale si suole aver molta cura, ma si sacrifica volentieri per qualche
altro bene; finalmente le ricchezze, per le quali onore, gloria, libertà,
patria e Dio, tutto si sacrifica e s’ha per nulla: le ricchezze, il solo bene
veramente solido secondo i nostri valorosi contemporanei: il più capace
anzi di tutti questi beni il solo capace di stuzzicar l’appetito, e di spinger
davvero a qualche impresa anche i vili. (4. Febbraio 1821.).
Alla p. 465. Bisogna combattere ad armi uguali, chi non vuol restare
sicuramente inferiore. Dunque [608] tutto il mondo oggidì essendo
armato di egoismo, bisogna che ciascuno si provveda della medesima
arma, anche i più virtuosi e magnanimi, se voglion far qualche cosa.
Alla p. 570. principio. Perché come gli oligarchi e gli ottimati a forza
di fazioni, di clientele, di largizioni, di artifizi di ogni sorta, hanno vinto
la plebe in cui risiedeva il potere, e l’hanno vinta colle forze comuni: così
questi pochi nei quali risiede ora il potere; mediante l’egoismo e la
πλεονεξία, inevitabile quando la virtù e la natura è sparita dal mondo,
non si accordano neppure intorno agl’interessi comuni di questa piccola
società, il cui solo bene era divenuto loro scopo: e ciascuno cercando il
ben proprio, si dividono di nuovo in partiti; il partito vincitore, si
suddivide di nuovo per gli stessi motivi; finattanto che più presto o più
tardi, la vittoria e il potere resta in mano di un solo, il quale essendo
indivisibile, finalmente il governo divenuto monarchia, piglia [609] una
forma stabile. Così accadde in Roma. Gli uomini chiari per gloria militare
o domestica, per ricchezze, potere, eloquenza ec. esercitavano già una
specie di oligarchia, quando questa, abbassati tutti gli altri, si venne a
ristringere nei primi Triumviri, finattanto che Cesare tolti di mezzo gli
altri triumviri, ristrinse tutto in lui solo. Così nel secondo triumvirato. (4.
Febbraio 1821.).
Alla p.590. 6°. Anche durando in quel tale che si suppone monarca
per diritto di natura, tutte le qualità che gli davano questo diritto; posto il
caso che un altro membro di quella medesima società, arrivasse o
coll’età, o coll’esercizio del corpo o dello spirito ec. ec. a possedere quelle
stesse qualità in maggior grado, o anche maggiori, o più numerose
qualità; il primo monarca perderebbe il suo diritto che si suppone
naturale, alla monarchia, e non solo ancora vivendo, ma essendo ancor
tale, quale incominciò a regnare, e per se medesimo in tutto e per tutto lo
stesso, a ogni modo non dovrebbe più [610] regnare. (4. Febbraio 1821.).
Alla p. 112. Prima di Gesù Cristo, o fino a quel tempo, e ancor dopo,
da’ pagani, non si era mai considerata la società come espressamente, e
per sua natura, nemica della virtù, e tale che qualunque individuo il più
buono ed onesto, trovi in lei senza fallo e inevitabilmente, o la
corruzione, o il sommo pericolo di corrompersi. E infatti sino a quell’ora,
la natura della società, non era stata espressamente e perfettamente tale.
Osservate gli scrittori antichi, e non ci troverete mai quest’idea del mondo
nemico del bene, che si trova a ogni passo nel Vangelo, e negli scrittori
moderni ancorché profani. Anzi (ed avevano [612] ragione in quei tempi)
consideravano la società e l’esempio come naturalmente capace di
stimolare alla virtù, e di rendere virtuoso anche chi non lo fosse: e in
somma il buono e la società, non solo non parevano incompatibili, ma
cose naturalmente amiche e compagne. (4. Febbraio 1821.).
Alla p. 535, fine. Così anche il piacere della speranza, non è mai
piacere presente, nemmeno in quanto speranza; cioè l’atto del piacere
della speranza, cammina in quel medesimo modo che ho notato nell’atto
del piacere presente, o della rimembranza o considerazione del piacere
passato. (5. Febbraio 1821.).
FLORO IV, 12. verso la fine: Hic finis [621] Augusto bellicorum
certaminum fuit: idem rebellandi finis Hispaniae. Certa mox fides et aeterna pax;
CUM IPSORUM INGENIO IN PACIS PARTES PROMTIORE: tum consilio Caesaris.
Dopo aver letto tutto ciò che Floro dice delle virtù guerriere degli
Spagnuoli II. 17. 18. III. 22. e in quel medesimo capo che ho citato, nelle
cose che precedono immediatamente il riferito passo; (notate che Floro, si
crede per congettura dai critici, oriundo Spagnuolo) considerando
l’assedio famosissimo di Sagunto; ricordandosi di quel luogo di Velleio
dove fra le altre molte cose del valore Spagnuolo, arriva a dire che la
Spagna in tantum Sertorium armis extulit, ut per quinquennium dijudicari non
potuerit, Hispanis Romanisne in armis plus esset roboris, et uter populus alteri
pariturus foret; (II. 90 sect. 3.) dopo, dico, tutto questo e le altre infinite
prove che si hanno del singolar valore Spagnuolo antico e moderno, fa
maraviglia che Floro chiami l’indole [622] e l’ingegno degli Spagnuoli,
promtius in pacis partes. Ma questa è appunto la proprietà dei popoli
meridionali, famosa presso gli scrittori filosofici moderni, massime
stranieri. Somma disposizione all’attività, ed al riposo: egualmente atti a
guerreggiare valorosamente e disperatamente, ed a trovar piacevole e
cara la pace, ed anche abusarne, ed esserne ridotti alla mollezza, e
all’inerzia. Tante risorse trovano questi popoli nella loro immaginazione,
nel loro clima, nella loro natura, che la loro vita è occupata internamente,
ancorché neghittosa e nulla all’esterno. Leur vie n’est qu’un rêve, dice la
Staël. Tanta è l’attività della loro anima, che questa come è capacissima di
condurli ad una somma attività nel corpo (anzi alla sola vera attività
esterna, perché la sola che abbia il suo principio nell’attività interiore,
come si vede nel paragone fra i soldati meridionali, e i settentrionali, che
sono operosi piuttosto come macchine ubbidienti ad ogni impulso, che
come viventi) così anche li dispensa dall’attività del corpo, e ne li
compensa, ogni volta che questa manca: trovando essi bastante vita nel
[623] loro interno, nel loro individuo. Anzi questa proprietà, pregiudica
bene spesso all’attività esterna, e per una soprabbondanza di vita
interiore rende il mezzogiorno rêveur, indolente, insouciant (quantunque,
offerta l’occasione, l’attività del corpo, ch’è l’effetto dell’entusiasmo e
dell’immaginazione, o che allora è forte e viva, quando proviene da
questi principii, prorompe vivamente; eccetto se l’assuefazione non ha di
troppo intorpiditi certi popoli, come l’italiano). Ailleurs, c’est la vie qui,
telle quelle est, ne suffit pas aux facultés de l’ame; ici, (parla dei contorni di
Napoli) ce sont les facultés de l’ame qui ne suffisent pas à la vie, et la
surabondance des sensations inspire une rêveuse indolence dont on se rend à
peine compte en l’éprouvant. (Staël, Corinne l. II. ch. 1. Paris 1812. 5.me édit.
t. 2. p. 176.) Così infatti vediamo accaduto negl’italiani terribili
anticamente, ed anche modernamente nella guerra, e oziosissimi e
negligentissimi, e nulla curanti di novità e di movimento nella pace. Così
negli [624] Spagnuoli, popolo intieramente pacifico nell’ultimo secolo, e
fortissimo guerriero e belligero nei due precedenti; e così anticamente
bellicosissimo, o certo valorosissimo in difendersi fino ad Augusto; e da
indi in poi, eternamente pacifico e fedele, come dice Floro: e similmente
nel principio di questo secolo, passato in un attimo da un lunghissimo e
profondissimo riposo, a una guerra possiamo dire spontanea, certo
nazionale, e vivissima, e generale, ed atrocissima. Così nei francesi
valorosi in guerra, ed effeminati e molli nella pace.
Come appunto i fanciulli, giacché anche questo effetto deriva dalle
stesse cagioni, i quali sebbene attivissimi naturalmente, con tutto ciò
obbligati dalle circostanze, all’inazione esterna, la suppliscono e
compensano ed occupano intieramente, con una vivissima azione
interna. E per azione interna, intendo sì nei fanciulli, come nei detti
popoli, anche quella che si dimostra al di fuori, ma che si occupa di
bagattelle, e di nullità, ed in queste ritrova bastante pascolo e vita
all’anima: e per conseguenza non deriva, [625] non si fonda, non è
sufficiente all’uomo, se non in forza dell’energia, dell’immaginazione,
delle facoltà insomma e della vita interna.
Tutto l’opposto accade nei Settentrionali, bisognosi di attività e di
movimento e di novità e varietà esterna, se vogliono vivere, giacché non
hanno altra vita, mancando dell’interna. E perciò in apparenza molto più
attivi degli altri popoli, ma in realtà, e se vince la naturale tendenza ed
indole, torpidissimi.
Gli orientali si possono, cred’io, mettere insieme coi meridionali in
questo punto. (7. Febbraio 1821.).
Quand on est jeune, on ne songe qu’à vivre dans l’idée d’autrui: il faut
établir sa réputation, et se donner une place honorable dans l’imagination des
autres, et être heureux même dans leur idée: notre bonheur n’est point réel; ce
n’est pas nous que nous consultons, ce sont les autres. Dans un autre âge, nous
revenons a nous; et ce retour a ses douceurs, nous commençons à nous consulter
et à nous croire. M.me la Marquise de Lambert, Traité de la Vieillesse, verso
la fine: dans ses Oeuvres complètes, Paris 1808. 1.re édit. complète. p. 150. Il
vient un temps dans la vie qui est consacré à la vérite, qui est destiné à connoître
les choses selon leur juste valeur. La jeunesse et les passions fardent tout. Alors
nous revenons aux plaisirs simples; nous commençons à nous consulter [634] et
à nous croire sur notre bonheur. Ib. p.153. Queste riflessioni sono
osservabili. Non solo nella vecchiezza, ma nelle sventure, ogni volta che
l’uomo si trova senza speranza, o almeno disgraziato nelle cose che
dipendono dagli uomini, comincia a contentarsi di se stesso, e la sua
felicità, e soddisfazione, o almeno consolazione a dipender da lui. Questo
ci accade anche in mezzo alla società, o agli affari del mondo. Quando
l’uomo vi si trova male accolto, o annoiato, o disgraziato, o in somma
trova quello che non vorrebbe, ricorre a se stesso, e cerca il bene e il
piacere nell’anima sua. L’uomo sociale, finch’egli può, cerca la sua
felicità e la ripone nelle cose al di fuori e appartenenti alla società, e però
dipendenti dagli altri. Questo è inevitabile. Solamente o principalmente
l’uomo sventurato, e massime quegli che lo è senza speranza, si
compiace della sua compagnia, e di riporre la sua felicità nelle cose sue
proprie, e indipendenti dagli altri; e insomma segregare la sua felicità,
dall’opinione e dai vantaggi che ci risultano dalla società, e ch’egli non
può conseguire, o sperare. Forse per questo, o anche [635] per questo, si è
detto che l’uomo che non è stato mai sventurato non sa nulla. L’anima, i
desideri, i pensieri, i trattenimenti dell’uomo felice, sono tutti al di fuori,
e la solitudine non è fatta per lui: dico la solitudine o fisica, o morale e
del pensiero. Vale a dire che se anche egli si compiace nella solitudine,
questo piacere, e i suoi pensieri e trattenimenti in quello stato, sono tutti
in relazioni colle cose esteriori, e dipendenti dagli altri, non mai con
quelle riposte in lui solo. Non è però che la felicità o consolazione
dell’uomo sventurato o vecchio, sieno riposte nella verità, e nella
meditazione e cognizione di lei. Che piacere o felicità o conforto ci può
somministrare il vero, cioè il nulla? (se escludiamo la sola Religione). Ma
altre illusioni, forse più savie perché meno dipendenti, e perciò anche più
durevoli, sottentrano a quelle relative alla società. E questo è in somma
quello che si chiama contentarsi di se stesso, e omnia tua in te posita ducere,
con che Cicerone (Laelius sive de Amicitia, c.2.) definisce la sapienza. Un
sistema, [636] un complesso, un ordine, una vita d’illusioni indipendenti,
e perciò stabili: non altro. (9. Febbraio 1821).
«La solitude» dit un grand homme, «est l’infirmerie des ames.» M.me
Lambert, lieu cité ci-dessus, p.153. fine.
Nous ne vivons que pour perdre et pour nous détacher. M.me Lambert, lieu
cité ci-dessus, p. 145. alla metà del Traité de la Vieillesse. Così è. Ciascun
giorno perdiamo qualche cosa, cioè perisce, o scema qualche illusione,
che sono l’unico nostro avere. L’esperienza e la verità ci spogliano alla
giornata di qualche parte dei nostri possedimenti. Non si vive se non
perdendo. L’uomo nasce ricco di tutto, crescendo impoverisce, e giunto
alla vecchiezza si trova quasi senza nulla. Il fanciullo è più ricco del
giovane, anzi ha tutto; ancorché poverissimo e nudo e sventuratissimo,
ha più del giovane più fortunato; il giovane è più ricco dell’uomo
maturo, la maturità più ricca della vecchiezza. Ma Mad. Lambert dice
questo in altro senso, cioè rispetto alle perdite così dette reali, che si
fanno coll’avanzar dell’età. (9. Febbraio 1821) Ma siccome nessuna cosa si
possiede realmente, così nulla si può perdere. Bensì quel detto è vero per
quest’altra parte, relativamente alla condizione presente degli uomini, e
[637] dello spirito umano, e della società. (10 Febbraio 1821).
Nessun secolo de’ più barbari si è creduto mai barbaro, anzi nessun
secolo è stato mai, che non credesse di essere il fiore dei secoli, e l’epoca
più perfetta dello spirito umano e della società. Non ci fidiamo dunque
di noi stessi nel giudicare del tempo nostro, e non consideriamo
l’opinione presente, ma le cose, e quindi congetturiamo il giudizio della
posterità, se questa sarà tale da poter giudicarci rettamente. (12. Febbraio
1821.).
La somma della teoria del piacere, e si può dir anche, della natura
dell’animo nostro e di qualunque vivente, è questa. Il vivente si ama
senza limite nessuno, e non cessa mai di amarsi. Dunque non cessa mai
di desiderarsi il bene, e si desidera il bene senza limiti. Questo bene in
sostanza non è altro che il piacere. Qualunque piacere ancorché grande,
ancorché reale, ha limiti. Dunque nessun piacere possibile è
proporzionato ed uguale alla [647] misura dell’amore che il vivente porta
a se stesso. Quindi nessun piacere può soddisfare il vivente. Se non lo
può soddisfare, nessun piacere, ancorché reale astrattamente e
assolutamente, è reale relativamente a chi lo prova. Perché questi
desidera sempre di più, giacché per essenza si ama, e quindi senza limiti.
Ottenuto anche di più, quel di più similmente non gli basta. Dunque
nell’atto del piacere, o nella felicità, non sentendosi soddisfatto, non
sentendo pago il desiderio, il vivente non può provar pieno piacere;
dunque non vero piacere, perché inferiore al desiderio, e perché il
desiderio soprabbonda. Ed eccoti la tendenza naturale e necessaria
dell’animale all’indefinito, a un piacere senza limiti. Quindi il piacere che
deriva dall’indefinito, piacere sommo possibile, ma non pieno, perché
l’indefinito non si possiede, anzi non è. E bisognerebbe possederlo
pienamente, e al tempo stesso indefinitamente, perché l’animale fosse pago,
cioè felice, cioè l’amor proprio suo che non ha limiti, fosse definitamente
soddisfatto: cosa [648] contraddittoria e impossibile. Dunque la felicità è
impossibile a chi la desidera, perché il desiderio, sì come è desiderio
assoluto di felicità, e non di una tal felicità, è senza limiti
necessariamente, perché la felicità assoluta è indefinita, e non ha limiti.
Dunque questo desiderio stesso è cagione a se medesimo di non poter
essere soddisfatto. Ora questo desiderio è conseguenza necessaria, anzi si
può dir tutt’uno coll’amor proprio. E questo amore è conseguenza
necessaria della vita, in quell’ordine di cose che esiste, e che noi
concepiamo, e altro non possiamo concepire, ancorché possa essere,
ancorché fosse realmente. Dunque ogni vivente, per ciò stesso che vive (e
quindi si ama, e quindi desidera assolutamente la felicità, vale a dire una
felicità senza limiti, e questa è impossibile, e quindi il desiderio suo non
può esser soddisfatto) perciò stesso, dico, che vive, non può essere
attualmente felice. E la felicità ed il piacere è sempre futuro, cioè non
esistendo, nè potendo esistere realmente, esiste solo nel desiderio del
vivente, e nella speranza, o aspettativa che ne segue. Le [649] présent n’est
jamais notre but; le passé et le présent sont nos moyens; le seul avenir est notre
objet: ainsi nous ne vivons pas, mais nous espérons de vivre, dice Pascal.
Quindi segue che il più felice possibile, è il più distratto dalla intenzione
della mente alla felicità assoluta. Tali sono gli animali, tale era l’uomo in
natura. Nei quali il desiderio della felicità cangiato nei desiderii di questa
o di quella felicità, o fine, e soprattutto mortificato e dissipato dall’azione
continua, da’ presenti bisogni ec. non aveva e non ha tanta forza di
rendere il vivente infelice. Quindi l’attività massimamente, è il maggior
mezzo di felicità possibile. Oltre l’attività, altri mezzi meno universali o
durevoli o valevoli, ma pur mezzi, sono gli altri da me notati nella teoria
del piacere, per esempio (ed è uno de’ principali) lo stupore 1. di
carattere e d’indole: gli uomini così fatti sono i più felici: gli uomini
incapaci di questa qualità, sono i più infelici: sii grande e infelice, detto di
D’Alembert, Éloges de l’Académie Françoise (così, Françoise) dice la natura
agli uomini grandi, agli uomini sensibili, passionati ec.: il senso vivo del
desiderio di felicità li tormenta: questo desiderio [650] bisogna sentirlo il
meno possibile, quantunque innato, e continuo necessariamente. 2.
derivato da languore o torpore ec. artefatto, come per via dell’oppio, o
proveniente da lassezza ec. ec. 3. derivato da impressioni straordinarie,
dalla maraviglia di qualunque sorta, da avvenimenti, da cose vedute,
udite ec. insomma da sensazioni straordinarie di qualsivoglia genere: 4.
dalla immaginazione, dall’estasi che deriva dalla fantasia, da un
sentimento indefinito, dalla bella natura ec. e vedi la teoria del piacere.
Notate che l’immaginazione la vivacità, la sensibilità, le quali nocciono
alla felicità per la parte dello stupore, giovano per la parte dell’attività. E
perciò sono piuttosto un dono della natura (ancorché spesso doloroso),
di quello che un danno; perché effettivamente l’attività è il mezzo di
distrazione il più facile, più sicuro e forte, più durevole, più frequente e
generale e realizzabile nella vita. (12. Febbraio 1828.).
Les passions même les plus vives ont besoin de la pudeur pour se montrer
dans une forme séduisante: elle doit se répandre sur toutes vos actions; elle doit
parer et embellir[651] toute votre personne. On dit que Jupiter, en formant les
passions, leur donna à chacune sa demeure; la pudeur fut oubliée, et quand elle
se présenta, on ne savoit plus où la placer; on lui permit de se mêler avec toutes
les autres. Depuis ce temps-là, elle en est inséparable. M.me de Lambert, Avis
d’une mère à sa fille, dans ses Oeuvres complètes citées ci-dessus, (p. 633.), p.
60-61. Che vuol dir questo, se non che niente è buono senza la
naturalezza? Applicate questi detti della Marchesa anche alla letteratura,
inseparabile parimente dal pudore, e a quello ch’io dico del sentimento, e
del genere sentimentale nel Discorso sui romantici. (13. Febbraio 1821.).
La curiosité est une connoissance commencée, qui vous fait aller plus loin et
plus vite dans le chemin de la vérité. M.me de Lambert, lieu cité ci-dessus,
p.72. Non intendo pienamente il sentimento della marchesa, ma il fatto è
questo. La curiosità o il desiderio di conoscere, non è per la massima
parte, se non l’effetto della conoscenza. Esaminate la natura, e [652]
vedrete quanto la curiosità sia piccola, leggera e debole nell’uomo
primitivo; come non gli cada mai nella testa il desiderio di saper quelle
cose che non gli appartengono, o che sono state nascoste dalla natura
(per esempio le cose fisiche, astronomiche ec. le origini i destini
dell’uomo, degli animali, delle piante, del mondo); com’egli sia incapace
d’intraprendere qualche seria operazione per informarsi di cosa veruna,
e molto meno di cosa difficile a conoscersi (e queste sono appunto quelle
che non si dovevano conoscere, e l’ignoranza delle quali, basta alla
felicità dell’uomo, ancorché informato di altre cose facili ed ovvie).
Piuttosto l’immaginazione sua supplisce, e gli fa credere di sapere una
causa, che realmente non è quella ec. In somma non è niente vero, che
l’uomo sia portato irresistibilmente verso la verità e la cognizione. La
curiosità, qual è oggidì, e da gran tempo, è una di quelle qualità corrotte,
con uno sviluppo e un andamento non dovuto, come tante altre qualità,
passioni ec. buone ed utili, anzi necessarie in quel grado che la natura
aveva dato loro, ma pessime e mortifere, quando sono passate ad altri
gradi, e sviluppatesi più del dovere, e modificatesi diversamente. Così
che sebbene queste qualità e passioni sieno naturali in radice, ed umane,
non perciò sono naturali, quali si trovano oggidì, nè dal loro stato
presente si deve giudicare della natura e costituzione dell’uomo, nè
dedurne intorno ai nostri destini quelle conseguenze che se ne deducono.
(13. Febbraio 1821.). Vedi p. 657. capoverso 1.
Examinez votre caractère, et mettez à profit vos défauts; il n’y en a point qui
ne tienne à quelques vertus, et qui ne les favorise. La Morale n’a pas pour objet
de détruire la nature, mais de la perfectionner. M.me Lambert, Avis d’une Mère
a sa fille, lieu cité ci-dessus, p. 84. E segue mostrando con parecchi
esempi, come ciascuna [656] imperfezione conduca, serva, e quasi
racchiuda qualche virtù, conchiudendo: Il n’y a pas une foiblesse, dont, si
vous voulez, la vertu ne puisse faire quelque usage. ib. p. citée. Da queste
osservazioni fatte anche da molti altri, si può dedurre una verità molto
generale ed importante, cioè con quanto leggere modificazioni quelle
qualità umane che si chiamano viziose, e si presumono vizi naturali e
inerenti, si riducano e si trovino, non esser altro che buone e giovevoli
qualità, e come in origine e nella prima costituzione dell’uomo fosse
buono ancor quello che ora pare essenzialmente e primitivamente
cattivo, perciocché essendosi facilmente corrotte quelle prime qualità
naturali, e distoltesi dal loro fine, e non conoscendosi più a qual buon
fine potessero esser destinate; la depravazione nostra ch’è opera
dell’uomo, si prende per vizio naturale ed innato; e si confonde il mal
uso delle qualità che si chiamano naturali, col buon uso a cui la natura le
aveva destinate, e che ora non si scuopre più facilmente. [657] In somma
da tutto ciò si conferma la dottrina della perfezione naturale, e primitiva
dell’uomo, considerando come sieno originalmente buone anche quelle
qualità, che per una parte si hanno per naturali ed innate, e sono; per
l’altra, si hanno per naturalmente cattive, e non sono: ma questo errore fa
che la natura si creda viziosa, e bisognosa della ragione. La qual ragione,
anch’essa, abbiamo spessissimo dimostrato ch’è un sommo vizio, e
contuttociò ell’è innata. Ma tal quale era innata, non era vizio; bensì è
vizio tal quale ella si trova, ed è adoperata oggidì. (14. Febbraio 1821.).
On aime à savoir les foiblesses des personnes estimables, non già solamente
di quelle che si odiano o invidiano, ma di quelle che si amano, si
ammirano, si trattano, ci obbligano e ci giovano coi loro benefizi, consigli
ec. e in questo senso lo dice Mad. LAMBERT, La Femme Hermite. Nouvelle
Nouvelle, [662] dans ses Oeuvres complètes citées ci-dessus (p. 633), p. 229.
Tu puoi però applicarti questo pensiero, e rendertelo proprio, giacché
Madama lo stende, lo spiega, e l’applica in maniera ordinaria, così che il
pensiero sembra comune, non fa gran colpo e non se ne osserva
l’originalità. Essa lo applica principalmente alla confidenza che ne deriva
verso quelle tali persone: et j’étois trop heureuse de trouver en elle, non-
seulement des conseils, mais de ces foiblesses aimables qui nous rendent plus
indulgens pour celles d’autrui. Ma si può considerare questa verità molto
più in grande, dilatarla, osservarne i rapporti, applicarla anche al teatro,
alla poesia, a’ romanzi ec. ed alle arti imitatrici, e confermarne quella
regola di Aristotele, che il protagonista non sia perfetto. (15. Febbraio
1821.).
Je crois que son estime (si parla di una persona amata, ma da cui non si
spera nulla, e alla quale non si è mai dichiarato il proprio amore) doit être
le prix de tout ce que je fais de bien; et je fais encore plus [663] grand cas d’elle
(de son estime) que de tous les sentimens les plus tendres que je pourrois lui
supposer. (Quella che parla è una donna, e l’amato è un uomo). M.me
LAMBERT, Lieu cité ci-dessus, p. 234.
Messer tale sentendo dire che la vita è una commedia, disse che
oggidì è piuttosto una prova di commedia, ovvero una di quelle
rappresentazioni, che talvolta i collegiali, o simili fanno per loro soli.
Perché non ci sono più spettatori, tutti recitano, e la virtù e le buone
qualità che si fingono, nessuno le ha, e nessuno le crede negli altri. Anzi
proponeva questo mezzo di fare che il mondo cessasse finalmente di
essere un teatro, e la vita diventasse per la prima volta, almeno dopo
lunghissimo tempo, un azion vera. S’ella fu mai tale, fu perché gli
uomini, se non altro la maggior parte, erano veramente buoni, o
tendevano alla virtù. Questo ora è impossibile, e non è [664] più da
sperare. Dunque si cercasse il detto fine per un altro verso, quasi
opposto. Si riformassero il Galateo, le leggi, gl’insegnamenti pubblici e
privati, l’educazione de’ fanciulli, i libri di Morale, i vocabolari ec. In
maniera che quello che non è più necessario, anzi è disutile e dannoso in
sostanza, non fosse più necessario neanche in apparenza. Così si
toglierebbe agli uomini la necessità di mentir sempre, e inutilmente,
perché non ingannano più nessuno; l’imbarazzo in cui questa li pone
tante volte; la contraddizione fra l’esteriore, e l’interiore; la falsità ec. si
ricondurrebbe la verità nel mondo; la vita resterebbe nè più nè meno la
stessa qual è oggidì, ma solamente tolto questo linguaggio e queste
maniere di convenzione, e questo genere aereo ed inutile di bienséances, e
di onore, e di riguardi a un pubblico che pensa ed opera come te, si
toglierebbero agli uomini molti incomodi, e fatiche, e attenzioni, e
sollecitudini [665] vane; e la vita sarebbe un fatto e non una
rappresentazione: finalmente si concorderebbero una volta insieme
quelle due cose discordi ab eterno, i detti e i fatti degli uomini.
Sperava e prognosticava che il mondo si sarebbe stancato di tante
apparenze divenute inutili da che non servono più ad ingannare, e da
che la commedia non è più spettacolo, e tutti sono attori. Che avrebbe
messo d’accordo la sostanza coll’apparenza, non già cambiando la
sostanza, che Dio ce ne scampi, ma lasciandola intatta, e cambiando
l’apparenza, les bienséances, il linguaggio ec. cioè facendo che apparisca e
si dica quello ch’è vero. E notava che il mondo sembra che già inclini a
questo, e non i fatti coi detti, ma i detti si comincino ad accomodare, ad
accordare, a pacificare coi fatti; ed oramai vengano a trattato con questi
loro nemici, e domandino essi le condizioni di pace. E che forse [666]
anche oggidì l’esteriore coll’interiore, i detti coi fatti sono più d’accordo
che non furono da grantempo. (16. Febbraio 1821.).
Je sentis que c’étoit quelque chose de bien douloureux, que de savoir ce que
l’on aime attaché à quelque chose de parfait: (cioè la persona amata, a qualche
altra persona perfetta, e degna dell’amor suo: e in questo senso lo dice
Mad. Lambert) mais loin que mon intérêt ait pris sur la justice que je devois à
mon amie, (amata da colui ch’era amato dalla persona che parla, ed è una
donna) ma délicatesse et la crainte de lui manquer ont augmenté son mérite à
mes yeux. M.me de LAMBERT, lieu cité ci-dessus, (p. 661. fine), p. 265. fine.
Elle (l’imagination) nous donne de ces joies sérieuses qui ne font rire que
l’esprit (cioè, il bello spirito, il bell’umore). M.me de LAMBERT, Réflexions
nouvelles sur les [667] femmes, dans ses Oeuvres complètes citées ci-dessus,
(p. 633.), p. 166. (16. Febbraio 1821.).
Non siamo dunque nati fuorché per sentire, qual felicità sarebbe stata
se non fossimo nati? (18. Febbraio 1821).
Enfin elles aiment l’amour, et non pas l’amant. Ces personnes se livrent à
toutes les passions les plus ardentes. Vous les voyez occupées du jeu, de la table:
tout ce qui porte la livrée du plaisir est bien reçu. Parla di quelle donne
galanti qui ne cherchent et ne veulent que les plaisirs de l’amour, di quelle che
ne cherchent dans l’amour que les plaisirs des sens, (o della galanteria
dell’ambizione ec.) que celui d’être fortement occupées et entraînées, et que
celui d’être aimées; di quelle che [677] possono associer d’autres passions à
l’amour, e lasciare du vide dans (leur) son coeur, e che après avoir tout donné,
possono non essere uniquement (occupées) occupé de ce qu’on aime; di
quelle che se font une habitude de galanterie, et NE SAVENT POINT JOINDRE LA
QUALITÉ D’AMIE A CELLE D’AMANT; di quelle che NE CHERCHENT QUE LES
PLAISIRS, ET NON PAS L’UNION DES COEURS, e conseguentemente ÉCHAPPENT A
TOUS LES DEVOIRS DE L’AMITIÉ: in somma delle donne d’oggidì tutte quante,
e in fatti ancor ella sebbene distingue le donne amanti in tre specie,
conchiude il discorso di questa specie, così: Voilà l’amour d’usage et d’à-
présent, et où les conduit une vie frivole et dissipée. M.me de LAMBERT,
Réflexions nouvelles sur les femmes, dans ses Oeuvres complètes, citées ci-
dessus (p. 633.) p. 179. (18. Febbraio 1821).
[678] Il faut convenir que les femmes sont plus délicates que les hommes en
fait d’attachement. Il n’appartient qu’à elles de faire sentir par un seul mot,
par un seul regard, tout un sentiment. M.me de Lambert, lieu cité ci-
dessus, p. 187.
Gli esercizi della persona che egli faceva in compagnia di cotali gentili
uomini, non solamente per allora li furon cagione della fermezza e
gagliardìa del corpo, ma eziandio dell’animo. - Lo dice di Antonio
Giacomini Tebalducci Malespini, famoso militare fiorentino, ancor
giovane, Jacopo NARDI, Vita d’Antonio Giacomini Tebalducci Malespini,
ediz. di Lucca, Francesco Bertini, 1818. [in] 8. p. 19. (18. Febbraio 1821).
Nous n’avons qu’une portion d’attention et de sentiment; dès que nous nous
livrons aux objets extérieurs, le sentiment dominant s’affoiblit: nos desirs ne
sont-ils pas plus vifs et plus forts dans la retraite? M.me de LAMBERT, lieu cité
ci-derrière (p. 677. fine) p.188. [679] La solitudine è lo stato naturale di
gran parte, o piuttosto del più degli animali, e probabilmente dell’uomo
ancora. Quindi non è maraviglia se nello stato naturale, egli ritrovava la
sua maggior felicità nella solitudine, e neanche se ora ci trova un
conforto, giacché il maggior bene degli uomini deriva dall’ubbidire alla
natura, e secondare quanto oggi si possa, il nostro primo destino. Ma
anche per altra cagione la solitudine è oggi un conforto all’uomo nello
stato sociale al quale è ridotto. Non mai per la cognizione del vero in
quanto vero. Questa non sarà mai sorgente di felicità, nè oggi; nè era
allora quando l’uomo primitivo se la passava in solitudine, ben lontano
certamente dalle meditazioni filosofiche; nè agli animali la felicità della
solitudine deriva dalla cognizione del vero. Ma anzi per lo contrario
questa consolazione della solitudine deriva all’uomo oggidì, e derivava
primitivamente dalle illusioni. Come ciò fosse primitivamente, in quella
vita occupata o da continua [680] sebben solitaria azione, o da continua
attività interna e successione d’immagini disegni ec. ec. e come questo
accada parimente ne’ fanciulli, l’ho già spiegato più volte. Come poi
accada negli uomini oggidì, eccolo. La società manca affatto di cose che
realizzino le illusioni per quanto sono realizzabili. Non così anticamente,
e anticamente la vita solitaria fra le nazioni civili, o non esisteva, o era
ben rara. Ed osservate che quanto si racconta de’ famosi solitari cristiani,
cade appunto in quell’epoca, dove la vita, l’energia, la forza, la varietà
originata dalle antiche forme di reggimento e di stato pubblico, e in
somma di società, erano svanite o sommamente illanguidite, col cadere
del mondo sotto il despotismo. Così dunque torna per altra cagione ad
esser proprio degli stati e popoli corrotti, quello ch’era proprio dell’uomo
primitivo, dico la tendenza dell’uomo alla solitudine: tendenza stata
interrotta dalla prima energia della vita sociale. Perché oggidì è così la
cosa. La presenza e l’atto della società spegne le illusioni, [681] laddove
anticamente le fomentava e accendeva, e la solitudine le fomenta o le
risveglia, laddove non primitivamente, ma anticamente le sopiva. Il
giovanetto ancora chiuso fra le mura domestiche, o in casa di educazione,
o soggetto all’altrui comando, è felice nella solitudine per le illusioni, i
disegni, le speranze di quelle cose che poi troverà vane o acerbe: e questo
ancorché egli sia d’ingegno penetrante, e istruito, ed anche, quanto alla
ragione, persuaso della nullità del mondo. L’uomo disingannato, stanco,
esperto, esaurito di tutti i desideri, nella solitudine appoco appoco si rifà,
ricupera se stesso, ripiglia quasi carne e lena, e più o meno vivamente, a
ogni modo risorge, ancorché penetrantissimo d’ingegno, e
sventuratissimo. Come questo? forse per la cognizione del vero? Anzi per
la dimenticanza del vero, pel diverso e più vago aspetto che prendono
per lui, quelle cose già sperimentate e vedute, ma che ora essendo
lontane dai sensi e dall’intelletto, tornano a passare per la immaginazione
sua, e quindi abbellirsi. Ed egli torna a sperare [682] e desiderare, e
vivere, per poi tutto riperdere, e morire di nuovo, ma più presto assai di
prima, se rientra nel mondo.
Dalle dette considerazioni segue che oggi l’uomo quanto è più savio e
sapiente, cioè quanto più conosce, e sente l’infelicità del vero, tanto più
ama la solitudine che glielo fa dimenticare, o glielo toglie dagli occhi,
laddove nello stato primitivo l’uomo amava tanto più la solitudine,
quanto maggiormente era ignorante ed incolto. E così l’ama oggidì,
quanto più è sventurato, laddove anticamente, e primitivamente la
sventura spingeva a cercare la conversazione degli uomini, per fuggire se
stesso. La qual fuga di se stesso oggi è impossibile nella società all’uomo
profondamente sventurato, e profondamente sensibile, e conoscente;
perché la presenza della società, non è altro che la presenza della miseria,
e del vuoto. Perché il vuoto non potendo essere riempiuto mai se non
dalle illusioni, e queste non trovandosi nella società quale è oggi, resta
che sia meglio riempiuto dalla solitudine, dove le illusioni [683] sono
oggi più facili per la lontananza delle cose, divenute loro contrarie e
mortifere, all’opposto di quello ch’erano anticamente. (20. Febbraio
1821).
Nardi ec. l. cit. qui sopra p. 83. Di quelle doti e di quelle virtù che o per
natura o per instituto e lezione tutte furono sue. Che ha da far qui la lezione?
oltre che lo stesso Nardi p.102. dice ch’egli non aveva dato opera alle
scienze. Leggi ed elezione, opposto a natura. Ma vedi l’altra ediz. del 1597.
Firenze, Sermartelli, in 4.o. (23. Febbraio 1821).
[684] LORENZO DE’ MEDICI, Apologia ec. nel fine: Non mi sarebbe TANTA
fatica. Leggi STATA. L’errore è nell’ediz. di Lucca per Francesco Bertini
dietro il NARDI, Vita del Giacomini, p. ult. 136. Non so delle altre stampe.
Alla p. 241 … che il mondo, o qualche buona parte del mondo sia
quello che in greco si dice diglottos, e noi possiamo dire bilingue. Come
veramente oggidì quasi tutto il mondo civile è bilingue, cioè parla tanto
le sue lingue particolari, quanto, al bisogno, la francese. Eccettuato la
stessa Francia, la quale non è bilingue, non solamente rispetto al grosso
della nazione, ma anche de’ letterati e dotti, pochi sono [685] quelli che
intendono bene, o sanno veramente parlare altra lingua fuori della
propria loro. Il che se derivi da superbia nazionale, o da questo che
usandosi la loro favella per tutto il mondo, non hanno bisogno d’altra
per ispiegarsi con chicchessia, o vero, quanto alla intelligenza ed uso de’
libri forestieri, dalla facilità e copia delle traduzioni che hanno, questo
non è luogo da ricercarlo. (23. Febbraio 1821).
La lingua italiana porta pericolo, non solo quanto alle voci o locuzioni
o modi forestieri, e a tutto quello ch’è barbaro, ma anche, (e questo è il
principale) di cadere in quella timidità povertà, impotenza, secchezza,
geometricità, regolarità eccessiva che abbiamo considerata più volte nella
lingua francese. In fatti da un secolo e più, ella ha perduto, non
solamente l’uso, ma quasi anche la memoria di quei tanti e tanti
idiotismi, e irregolarità felicissime della lingua nostra, nelle quali
principalmente consisteva la facilità, l’onnipotenza, la varietà, la
volubilità, [686] la forza, la naturalezza, la bellezza, il genio, il gusto la
proprietà (ἰδιώτης), la pieghevolezza sua. Non parlo mica di quelle
inversioni e trasposizioni di parole, e intralciamenti di periodi alla latina,
sconvenientissimi alla lingua nostra, e che dal Boccaccio e dal Bembo in
fuori, e più moderatamente dal Casa, non trovo che sieno stati adoperati
e riconosciuti da nessun buono scrittore italiano. Ma parlo di quella
libertà, di quelle tanto e diversissime figure della dizione, per le quali la
lingua nostra si diversificava dalla francese dell’Accademia, era
suscettibile di tutti gli stili, era così lontana dal pericolo di cadere
nell’arido, nel monotono, nel matematico, e in somma di quelle che la
rendevano similissima nel genio, nell’indole, nella facoltà, nel pregio alle
lingue antiche, e specificatamente alla greca, alla quale si accostava da
vicino anche nelle forme particolari e speciali, cioè non solamente nel
genere, ma anche nella specie: siccome alla latina si accosta sommamente
per la qualità individuale de’ vocaboli e delle frasi. Ma oggidì ella va a
perdere, anzi ha già perduto presso [687] il più degli scrittori, le dette
qualità che sono sue vere, proprie, intime, e native; e dico anche presso
quegli scrittori che a gran fatica arrivano pure a preservarsi dai
barbarismi. (e qui riferite quello che ho detto altrove, come in detti
scrittori facciano pessima comparsa le parole e modi italiani, in una
tessitura di lingua che per quanto non sia barbara, non è l’italiana: e gli
antichi accidenti in una sostanza tutta moderna e diversa.) E così anche la
lingua nostra si riduceva ad essere una processione di collegiali, come
diceva, se non erro, il Fénélon, della francese. Del che mi pare che bisogni
stare in somma guardia, tanto più, quanto la inclinazione, lo spirito,
l’andamento dei tempi, essendo tutto geometrico, la lingua nostra corre
presentissimo rischio di geometrizzarsi stabilmente e per sempre, di
inaridirsi, di perdere ogni grazia nativa (ancorché conservi le parole e i
modi, e scacci i barbarismi), di diventare unica come la francese, laddove
ora ella si può chiamare un aggregato di più lingue, ciascuna adattata al
suo soggetto, o anche a questo [688] e a quello scrittore; e così divenuta
impotente, in luogo di contenere virtualmente tutti gli stili (secondo la
sua natura, e quella di tutte le belle e naturali lingue, come le antiche,
non puramente ragionevoli), ne contenga uno solo, cioè il linguaggio
magrissimo ed asciuttissimo della ragione, e delle scienze che si
chiamano esatte, e non sia veramente adattata se non a queste, che tale
infatti ella va ad essere, e lo possiamo vedere in ogni sorta di soggetti, e
fino nella poesia italiana moderna de’ volgari poeti. Come appunto è
accaduto alla lingua francese, perché ancor ella da principio, ed innanzi
all’Accademia, e massime al secolo di Luigi XIV non era punto unica, ma
l’indole sua primitiva e propria somigliava moltissimo all’indole della
vera lingua italiana, e delle antiche; era piena d’idiotismi, e di belle e
naturalissime irregolarità; piena di varietà; subordinatissima allo scrittore
(notate questo, che forma la difficoltà dello scrivere, come pure
dell’intendere la nostra lingua a differenza della francese) e suscettibile
di prendere quella forma e quell’abito che il soggetto richiedesse, o il
carattere dello scrittore, o che questi volesse darle; adattata [689] a
diversissimi stili; piena di nerbo, o di grazia, di verità, di proprietà, di
evidenza, di espressione; coraggiosa; niente schiva degli ardiri com’è poi
divenuta; parlante ai sensi ed alla immaginativa, e non solamente, come
oggi, all’intelletto; (sebbene anche al solo intelletto può parlare la lingua
italiana, se vuole) pieghevole, robusta, o delicata secondo l’occorrenza;
piena di sève, di sangue e di colorito ec. ec. Delle quali proprietà qualche
avanzo se ne può notare nella Sévigné, e nel Bossuet e in altri scrittori di
quel tempo. Talmente che s’ella fosse rimasta quale ho detto, non sarebbe
mai stata universale, con che vengo a dir tutto. E s’ella prima della sua
mortifera riforma, avesse avuto tanto numero di cultori quanto n’ebbe
l’italiana, che l’avessero condotta secondo il suo carattere primitivo, e
d’allora, alla perfezione, come fu condotta la nostra, sarebbe anche più
evidente questo ch’io dico [690] della prima e originale natura della
lingua francese, la quale ben si congettura efficacemente dalla
considerazione de’ loro antichi scrittori, ma non si può pienamente
sentire perch’ella non ebbe scrittore perfetto in quel primo genere, o non
ne ebbe quanto basta. Nè quel primo genere prese mai stabilità, ma
quando le fu data forma stabile e universale nella nazione, fu ridotta,
quale oggi si trova, ad essere in ogni possibile genere di scrittura,
piuttosto una serie di sentenze e di pensieri esattissimamente esposti e
ordinati, che un discorso. Dove l’intelletto e l’utilità non desidera nulla,
ma l’immaginazione il bello, il dilettevole la natura, i sensi ec. desiderano
tutto. (24. Febbraio 1821).
Alla p. 703. Che se rimesso in questo senso (di traditum che in latino
viene e metaforicamente, e quasi anche propriamente a dire la stessa
cosa) paresse strano, questo non avverrà se non a coloro che non
conosceranno l’usanza [709] e lo stile di questo scrittore. (2. Marzo 1821).
Non vale il dire che i piaceri, i beni, le felicità di questo mondo, sono
tutti inganni. Che resta levati via questi inganni? E chi per le sue
sventure manca di questi benché ingannosi piaceri e beni, che altro gode
o spera quaggiù? In somma l’infelice è veramente e positivamente
infelice; quando anche il suo male non consista che in assenza di beni;
laddove è pur troppo vero che non si dà vera nè soda felicità, e che
l’uomo felice, non è veramente tale. (3. Marzo 1821).
PORZIO l. cit. (p.702.) p.126. E se egli ec. a cui fa dubbio che ec. non l’abbia
ad osservare? Leggi a cui fia.
Ivi, p. 134. ed i Principi allora affermano di aver perdonato i falli quando
han potere di castigargli; ma se sopraffatti da’ pericoli maggiori differiscono la
vendetta, non perciò la cancellano. Non c’è senso. Leggi quando non han
potere. (4. Marzo 1821).
L’uomo è così inclinato alla lode, che anche in quelle cose dov’egli
non ha mai nè cercato nè curato di esser lodevole, e ch’egli stima di
nessun pregio, ancora in queste l’esser lodato lo compiace. Anzi spesso lo
indurrà a cercar di rialzare presso se stesso il pregio e l’opinione di
quella tal cosa minima nella quale è stato lodato; e a persuadersi che essa,
o l’essere lodevole in essa, non sia del tutto minimo nell’opinione altrui.
(7. Marzo 1821).
La lingua greca da’ suoi principii fino alla fine, non lasciò mai di
arricchirsi, e acquistar sempre, massimamente nuovi vocaboli. Non è
quasi scrittor greco di qualsivoglia secolo, che venga nuovamente in luce,
il quale non possa servire ad impinguare il vocabolario greco di qualche
novità. [736] Non è secolo della buona lingua greca (la quale si stende
molto innanzi, cioè almeno a Costantino, giacché credo che S. Basilio e S.
Crisostomo si citino nel Glossario sebbene anche nel Vocabolario) ne’ cui
scrittori la lingua non si trovi arricchita di nuove voci e anche modi, che
non si osservano ne’ più antichi. E questi incrementi erano tutti della
propria sostanza e del proprio fondo, giacché la lingua greca fu
oltremodo schiva d’ogni cosa forestiera, ma trovava nelle sue radici e
nella immensa facilità e copia de’ suoi composti, la facoltà di dir tutto
quello che bisognava, e di conformare la novità delle parole alla novità
delle cose, senza ricorrere ad aiuti stranieri. Insomma il tesoro e la
natura, e non solamente ricchezza, ma fertilità naturale e propria della
lingua greca, era tale da bastare da per se sola, a tutte le novità che
occorresse di esprimere, come un paese così fertile che fosse sufficiente
ad alimentare [737] qualunque numero di nuovi abitatori o di forestieri. E
questo si può vedere manifestamente anche per quello che interviene
oggidì. Giacché in tanta diversità di tempi e di costumi e di opinioni, in
tanta novità di conoscenze e di ritrovati, e fino d’intere scienze e dottrine,
qualunque novità massimamente scientifica occorra di significare e
denominare, si ha ricorso alla lingua greca. Nessuna lingua viva,
ancorché pure le lingue vive sieno contemporanee alle nostre cognizioni
e scoperte, si stima in grado di bastare a questo effetto, e s’invoca una
lingua morta e antichissima per servire alla significazione ed
enunziazione di quelle cose a cui le lingue viventi e fiorenti non arrivano.
La rivoluzione francese, richiedendosi alla novità delle cose, la novità
delle parole, ha popolato il vocabolario francese ed anche europeo di
nuove voci greche. La fisica, la Chimica, la storia naturale, le
matematiche, [738] l’arte militare, la nautica, la medicina, la metafisica, la
politica, ogni sorta di scienze o discipline, ancorché rinnovellate e
diversissime da quelle che si usavano o conoscevano dagli antichi greci,
ancorché nuove di pianta, hanno trovato in quella lingua il capitale
sufficiente ai bisogni delle loro nomenclature. Ogni scienza o disciplina
nuova, comincia subito dal trarre il suo nome dal greco. E questa lingua
ancorché da tanti secoli spenta, resta sempre inesauribile, e provvede a
tutto, e si può dire che prima mancherà all’uomo la facoltà di sapere di
conoscere e di scoprire, prima saranno esaurite tutte le fonti dello scibile,
di quello che manchi alla lingua greca la facoltà di esprimerlo, e sia
inaridita la fonte delle sue denominazioni e parole. Il qual uso, ancorché
io lo biasimi e condanni per le ragioni che ho dette altrove, non è però
che non renda evidente e palpabile l’onnipotenza immortale di quella
lingua.
[739] Così la lingua greca che non avea nè Accademie nè Vocabolari,
senza perder mai la facoltà di arricchirsi, e di far fruttare il suo terreno
ubertosissimo, costantemente però e tenacemente nemica delle merci
straniere (o per carattere nazionale, o per la stessa ricchezza sua che
bastava a tutto) si mantenne sempre come fertile e prolifica e viva e
vegeta e copiosa, così pura e sincera, fino ai tempi che Costantino
trasportando quasi l’Italia nella Grecia, e l’occidente in oriente, con quella
infinita e subitanea novità di costumi, di abitatori, di corte, ec.
introducendo e stabilendo, ed erigendo per così dire la lingua latina nel
bel mezzo delle provincie greche e della lingua greca, forzò quell’idioma
per sì lungo spazio indomito e vittorioso di tutti gli assalti forestieri, e
illeso fra tutti i pericoli di barbarie che aveva incontrati, a ricevere voci
straniere, e mescolarle colle proprie (non per bisogno, ma per uso e [740]
commercio quotidiano, e presenza di gente straniera, e questa numerosa,
e padrona) e finalmente imbarbarire suo malgrado e a viva forza. Vedi p.
981, capoverso 1. La qual mescolanza e quasi fusione di usi costumi
opinioni linguaggi occidentali e orientali, sebbene il mondo inclinava già
fortemente alla barbarie, anzi vi aveva già messo il piede, tuttavia credo
che contribuisse ancor ella ad imbarbarire scambievolmente, le une colle
altre nazioni, inducendole e forzandole a guastare, o dismettere i loro
primitivi istituti e costumi, assai più di quello che avessero fatto per
l’addietro, il quale allontanamento e declinazione dal primitivo, è
l’ordinaria e certa sorgente di barbarie e di corruzione fra gli uomini.
Della lingua latina non si può dire la stessa cosa che ho detto della
greca. E tuttavia mi par di vedere che la primitiva proprietà, natura,
essenza ed organizzazione della lingua latina, fosse ottimamente
ordinata e disposta a produrre lo stesso effetto. Ma questo [741] non
seguì per le ragioni che son per dire. Non andrò ora cercando se le radici
latine (dico primitive e pure latine) sieno così copiose come le greche. Il
commercio e la diffusione dei greci, il molto maggior tempo ch’essi
durarono e con essi i loro studi, e la loro lingua, li pose in grado di
accrescer le loro cognizioni, e quindi le loro radici, molto più che i latini,
popolo ristretto in brevi limiti finattanto che col resto del mondo non
conquistò anche la Grecia: ma allora i progressi delle sue cognizioni, del
suo dominio, del suo commercio, non giovarono a quello delle sue radici;
certamente questo non corrispose a quell’altro, per la ragione che dirò
poi. Vedi in questo proposito Senofonte. ᾽Αϑηναίων πολιτεία κεϕ. β´. §
η´.
Lasciando le radici, osserverò che la stessa immensa facoltà dei
composti che si ammira, e rende più che altra cosa inesauribile la lingua
greca, l’aveva ancora ne’ suoi principii la lingua latina, e l’ebbe per lungo
tempo, cioè per lo meno sino a Cicerone il quale principalmente [742]
fissò, ordinò, stabilì, compose, formò e determinò la lingua latina. Ponete
mente a ciascuna delle antiche e primitive radici latine, e vedrete in
quante maniere, con quanto piccole giunte e variazioni, sieno ridotte a
significare diversissime cose per mezzo di composti, sopraccomposti,
ossia decomposti, e derivati, o di metafore, nello stesso modo appunto
che la lingua greca per gli stessi mezzi si rende atta a dir tutto e
chiaramente e propriamente e puramente e facilissimamente. Osservate
per esempio il verbo duco o facio e consideratelo in tutti i suoi derivati o
composti, e sopraccomposti, e in tutti i loro e suoi significati ed usi o
propri o metaforici, ma però sempre così usitati, che benché metaforici,
son come propri. Con ogni esame mi sono accertato che il verbo duco e il
verbo facio per la copia de’ composti, sopraccomposti, con preposizione e
senza, derivati e loro composti, significati ed usi propri e traslati, tanto di
questi che suoi, è adattattissimo a servire di esempio. (Ludifico, carnifex,
sacrificium, labefacto ed altri infiniti sono i composti del verbo facere senza
preposizione nè particelle ec. ma con altri nomi, alla greca.) E con queste
considerazioni vedrete quanto la primitiva natura della lingua latina
fosse disposta, a somiglianza della greca, alla onnipotenza di esprimer
tutto facilmente, e tutto del suo ed a sue spese; alla pieghevolezza,
trattabilità, duttilità ec. Come questa facoltà di servirsi così bene delle sue
radici, di estendersi, dilatarsi guadagnare conquistare con sì [743] poca
fatica, metter così bene e a sì gran frutto il suo proprio capitale, coltivare
con sì gran profitto il proprio terreno; questa facoltà dico, che nella
lingua greca durò sino alla fine, come venisse così presto a mancare nella
lingua latina, alla quale abbiamo veduto ch’era non meno naturale e
caratteristica che alla greca, a cui poi si attribuì e si attribuisce come
esclusivamente sua, verrò esponendolo e assegnandone le ragioni che mi
parranno verisimili.
La lingua greca nel tempo in cui ella pigliava forma, consistenza,
ordine, e stabilità (giacché prima o dopo questo tempo la cosa non
avrebbe avuto lo stesso effetto) non ebbe uno scrittore nel quale per la
copia, varietà, importanza, pregio e fama singolarissima degli scritti, si
riputasse che la lingua tutta fosse contenuta. L’ebbe la lingua latina,
l’ebbe appunto nel tempo che ho detto, e l’ebbe in Cicerone. Questi per
tutte le dette condizioni, per l’eminenza del suo ingegno, e lo splendore
[744] delle sue gesta, del suo grado, della sua vita, e di tutta la sua fama,
per aver non solo introdotta ma formata e perfezionata non solo la
lingua, ma la letteratura, l’eloquenza, la filosofia latina, trasportando il
tutto dalla Grecia, per essere in somma senza contrasto il primo il sommo
letterato e scrittore latino in quasi tutti i generi, soprastava tanto agli altri,
che la lingua latina scritta, si riputò tutta chiusa nelle sue opere, queste
tennero luogo di Accademia e di Vocabolario, l’autorità e l’esempio suo
presso i successori, non si limitò ad insegnare, e servir di norma e di
modello, ma, come accade, a circoscrivere; la lingua si riputò giunta al
suo termine; gl’incrementi di essa si stimarono già finiti; si credè giunto il
colmo del suo accrescimento; si temè la novità; si ebbe dubbio e scrupolo
di guastare e far degenerare in luogo di arricchire; le fonti della ricchezza
della lingua si stimarono chiuse. ec. E così Cicerone fra gl’infiniti benefizi
fatti alla sua [745] lingua, gli fece anche indirettamente per la troppa
superiorità e misura della sua fama e merito, troppo soverchiante e
primeggiante, questo danno di arrestarla, come arrivata già alla
perfezione, e come in pericolo di degenerare se fosse passata oltre: e
quindi togliergli l’ardire, la forza generativa, e produttrice, la fertilità, e
inaridirla. Nello stesso modo che avvenne alla eloquenza e letteratura
latina, per lo stesso motivo, e per la stessa persona (vedi Velleio nel fine
del 1mo libro). Che siccome per la letteratura si stimò quasi giunta l’ora
del riposo, tanto egli l’aveva perfezionata (vedi p. 801. fine) (cosa che non
accadde mai nella Grecia, giacché a nessuno scrittore in particolare
competeva questa qualità, e la perfezione di un secolo il quale s’intreccia
e addentella col seguente, non ispaventa tanto quanto quella di un solo,
che in se stesso racchiude e definisce e circoscrive la perfezione) così
appunto intervenne anche alla lingua, la quale similmente, [746] come
già matura e perfetta, cessò di crescere e isterilì. Questa può essere una
ragione. Quest’altra mi sembra la principale.
Da qualunque origine derivasse la lingua e la letteratura e filosofia e
sapienza greca, certo è che la Grecia, se non fu l’inventrice delle sue
lettere, scienze, ed arti, le ricevè informi, ed instabili, e imperfette, e
indeterminate, e così ricevute, le formò, stabilì, perfezionò, determinò
essa medesima, e nel suo proprio seno, e di sua propria mano ed
ingegno, così che vennero la sua letteratura ed il suo sapere ad essere sue
proprie, ed opera si può dir sua: quindi non ebbe bisogno di ricorrere ad
altre lingue per esprimere le sue cognizioni (se non se, come tutte le
lingue, nei primordi, e nelle primissime derivazioni delle sue radici,
giacché nessuna lingua è nata coll’uomo, ma derivata l’una dall’altra più
o meno anticamente, finché si arriva ad una lingua assolutamente madre
e primitiva, che nessuno conosce): non ebbe dico bisogno di queste, ma
formando le sue cognizioni, formò insieme la lingua; e [747] quindi pose
sempre a frutto, e coltivò il suo proprio fondo, e trasse da se stessa tutto il
tesoro della favella. Ma ai latini non accadde lo stesso. La loro letteratura,
le loro arti, le loro scienze vennero dalla Grecia, e tutto in un tratto, e
belle e formate. Essi le ricevettero già ordinate, composte, determinate,
provvedute intieramente del loro linguaggio, trattate da scrittori
famosissimi: in somma i latini non ebbero e non fecero altra opera che
traspiantare di netto le scienze, arti, lettere greche nel loro terreno.
Quindi era ben naturale che quelle discipline ch’essi non avevano
formate, portassero seco anche un linguaggio non latino, perché
dovunque le discipline si formano, e ricevono ordine e corpo stabile e
determinato, quivi se ne forma il linguaggio, e questo passa naturalmente
alle altre nazioni insieme con esse discipline. Non avendole dunque i
latini nè create nè formate, ma ricevute quasi per manus belle e fatte,
neanche ne crearono nè formarono, [748] ma riceverono parimente il
linguaggio. Lucrezio volendo trattar materie filosofiche s’era lagnato
della novità delle cose e della povertà della lingua, come potremmo far
noi oggidì, volendo trattare la moderna filosofia. Cicerone, da grande e
avveduto uomo, il quale benché gelosissimo della purità della favella,
conosceva che alla novità delle cose era necessaria la novità delle parole,
e che queste non sarebbero 1. intese e chiare, 2. inaffettate e naturali, se non
fossero appresso a poco quelle medesime che erano in comune e confermato uso in
quelle tali discipline; fu ardito, e trattando materie si può dir greche popolò
il latino di parole greche, certo di essere inteso, e di non riuscire affettato,
perché la lingua greca era divulgatissima e familiare fra’ suoi, come
appunto oggi la francese, e quelle parole notissime, e usitatissime anzi
proprie di quelle discipline, come oggi le francesi nelle moderne materie
filosofiche e simili. E di più erano necessarie. Così dunque la lingua
latina si pose in grado di discorrer delle [749] cose, e di essere scritta, ma
vi si pose per mezzi alieni e non propri. Bisogna anche osservare che non
questa o quella disciplina, ma si può dir tutte le discipline, e cognizioni
umane, tutto quello che scrivendo si può trattare, anzi anche
conversando urbanamente, cioè tutta la coltura tutti i soggetti regolati e
ordinati, erano venuti dalla Grecia in Roma, immediatamente e
interamente. Quindi successe quel che doveva, che la lingua latina,
affogata ed oppressa tutto in un tratto dalla copia delle cose nuove,
disperata di poterla subito (come sarebbe bisognato) pareggiare colla
novità delle parole tirate dal proprio fondo, abbandonò il suo terreno,
abbracciò la suppellettile straniera di linguaggio, che trovava già pronta,
e da tutti intesa ed usata: e così la facoltà generativa della lingua latina,
rimase o estinta o indebolita, e si trasformò nella facoltà adottiva.
Cicerone ne aveva usato [750] da suo pari con discrezione e finissimo
giudizio e gusto, non lasciando in nessun modo di coltivare il fondo della
sua lingua, di accrescerla, e di cavarne quanto era possibile in quella
strettezza, in quella tanta copia di nuove cose, accompagnate da parole
straniere già divulgate ed usitate. Ma dopo Cicerone si passarono i limiti:
parte perch’essendo (com’è oggi relativamente al francese) molto più
facile il tirar dalla lingua greca già ben provveduta di tutto, e a tutti nota,
le parole e modi occorrenti, di quello che dalla latina che non le dava
senza studio, e profonda cognizione di tutte le sue risorse; quelli che non
erano così periti della loro lingua (perizia ben rara e difficile trattandosi
di una tal lingua, come della nostra oggidì: e pochi o nessuno la possedè
così a fondo come Cicerone) senza troppo curare di accertarsi s’ella
avesse o non avesse come esprimere convenientemente e pianamente il
bisognevole, [751] davan sacco alla lingua greca che l’aveva tutto alla
mano. Parte perché non la sola necessità, o la difficoltà dell’uso del latino
in quei casi, o finalmente l’ignoranza della propria lingua, ma anche il
vezzo spingeva i romani (come oggi ec.) ad usare le parole e modi greci
in iscambio delle parole e modi latini, e mescolarli insieme, come che
quelli dessero grazia e spirito alla favella gentile, e in somma ci entrò di
mezzo oltre la letteratura e la filosofia, anche la moda. Orazio già avea
dato poco buon esempio. Uomo in ogni cosa libertino e damerino e
cortigiano, in somma tutto l’opposto del carattere Romano, e nelle opere
tanto seguace della sapienza fra’ cortigiani, quanto Federigo II tra i re.
Non è maraviglia se la lingua romana gli parve inferiore alla sua propria
eleganza e galanteria. Sono noti e famosi quei versi della poetica, dov’egli
difende e ragiona su questo suo costume. Egli però come uomo di basso
ma sottile ingegno, se nocque coll’esempio, non pregiudicò grandemente
colla pratica; anzi io non voglio contendere s’egli, quanto a se, giovasse
piuttosto o pregiudicasse alla sua lingua, perché i suoi ardimenti paiono
a tutti, e li credo anch’io, se non altro, in massima parte, felicissimi; ma
poco [752] tempo dopo la sua morte, cioè al tempo di Seneca ec. per
ambedue le dette ragioni la cosa era ita tant’oltre che la lingua latina
impoveriva dall’un canto e dall’altro imbarbariva effettivamente per
grecismo come oggi l’italiana per francesismo. Ed è curioso come tristo
l’osservare che siccome la lingua latina rendè poi con usura il
contraccambio di questo danno e di questa barbarie alla greca, quando
già mezzo barbara le si riversò tutta, per così dire, nel seno, sotto
Costantino e successori, così oggidì la lingua francese rende con eccessiva
usura alla nostra quella corruttela che ne ricevè al tempo dei Medici in
Francia ec. La lingua latina fu (per poco spazio) restituita, se non
all’antica indole, certo a uno splendore somigliante all’antico (insieme
colla letteratura parimente corrotta) da parecchi scrittori del secolo tra
Nerva e Marcaurelio, fra’ quali Tacito ec. del che non è ora luogo a
parlare. Solamente noterò per incidenza, e perché fa a questo discorso
delle lingue, un parallelo curiosissimo che si può fare tra Frontone e i
presenti ristoratori della lingua italiana. [753] Il qual Frontone, come
apparisce ora dalle reliquie de’ suoi scritti ultimamente scoperte, merita
un posto distinto, fra i ristauratori e zelatori della purità come della
letteratura così della lingua latina. Nel qual pregio egli forse e senza
forse, cred’io, è l’ultimo di tempo, che si conosca, o abbia almeno qualche
distinta rinomanza. Ma egli (colpa della nostra natura) volendo riformare
il troppo libertinaggio, e castigare la viziosa novità della lingua, cadde,
come appunto gran parte de’ nostri, nell’eccesso contrario. Giacché una
riforma di questa natura, deve consistere nel mondar la lingua dalle
brutture, distoglierla dal cattivo cammino, e rimetterla sul buono. Non
già ricondurla a’ suoi principii, e molto meno voler che di quivi non si
muova. Perché la lingua e naturalmente e ragionevolmente cammina
sempre finch’è viva, e come è assurdissimo il voler ch’ella stia ferma,
contra la natura delle cose, così è pregiudizievole e porta discapito il
volerla riporre più indietro che non bisogna, e obbligarla a rifare quel
cammino [754] che avea già fatto dirittamente e debitamente. Laddove
bisogna riporla nè più nè meno in quel luogo che conviene al tempo e
alle circostanze, osservando solamente che questo luogo sia proprio suo e
conveniente alla sua natura. Ma Frontone in luogo di purificare la lingua,
la volle antiquare, richiamando in uso parole e modi, per necessaria
vicenda delle cose umane, dimenticati, ignorati e stantii, e fino come
pare, l’antica ortografia, volendo quasi immedesimare, in dispetto della
natura e del vero, il suo tempo coll’antico. Come che quei secoli che son
passati, e quelle mutazioni che sono accadute e nella lingua, e in tutto
quello che la modifica, dipendesse dalla volontà dell’uomo il fare che
non fossero passati e non fossero accadute, e il cancellare tutto
l’intervallo di tempo ed altro che sta fra il presente e l’antico. Nè osservò
che siccome la lingua cammina sempre, perch’ella segue le cose le quali
sono istabilissime e variabilissime, così ogni secolo anche il più buono e
casto ha la sua lingua modificata in una maniera propria, la quale allora
solo è cattiva, [755] quando è contraria all’indole della lingua, scema o
distrugge 1. la sua potenza e facoltà, 2. la sua bellezza e bontà naturale e
propria, altera perde guasta la sua proprietà, la sua natura, il suo
carattere, la sua essenziale struttura e forma ec. Fuori di questo, com’è
altrettanto vano, che dannoso e micidiale l’assunto d’impedire ch’ella si
arricchisca, così è impossibile e dannoso l’impedire che si modifichi
secondo i tempi e gli uomini e le cose, dalle quali la lingua dipende e per
le quali è fatta, non per qualche ente immaginario, come la virtù o la
giustizia ch’è immutabile o si suppone. E perché Cicerone non iscrisse
come il vecchio Catone ec. non perciò resta ch’egli non sia, come in
ordine a tutto il rimanente, così pure alla lingua, il sommo scrittor latino:
nè che Virgilio non sia il primo poeta latino, e limpidissimo specchio di
latinità (riconosciuto dallo stesso Frontone negli Exempla elocutionum),
perciò che la sua lingua è ben diversa [756] da quella di Ennio, di Livio
Andronico, ec. e anche di Lucrezio. Bisogna però ch’io renda giustizia a
Frontone, perché se egli cadde in quel difetto che ho notato, vi cadde con
molto più discrezione giudizio e discernimento sì nelle massime o nella
ragione, che nella pratica, di quello che facciano molti degli odierni
italiani, avendo anche molto riguardo a fuggir l’affettazione, per la quale
massimamente e per la oscurità si rende assurdo e barbaro l’uso di molte
parole antiquate; e possedendo la sua lingua veramente, e quindi, sebben
peccasse nella troppa imitazione degli antichi, non però cercando, come
fanno i nostri, di dar colore di antichità a’ suoi scritti, col solo materiale e
parziale uso delle parole e modi vecchi, senza osservare se la scrittura
sapesse poi veramente di antico, e se quelle parole e modi vi cadessero
acconciamente e naturalmente, o forzatamente, e dissonando dal corpo
della composizione. Frontone non sognò neppure la massima di vietare
la conveniente e giudiziosa novità e formazione delle parole o modi, anzi
egli stesso ne dà esempio di tratto in tratto. Il che [757] fanno i nostri per
impotenza, ignoranza, povertà, e niun possesso di lingua; credendo di
esser buoni scrittori italiani quando hanno imparato e usato a sproposito
e come capita, un certo numero di parole e modi antichi, non curandosi
poi, o non sapendo vedere se corrispondano al resto e all’insieme del
colorito e dell’andamento, e testura del discorso, ovvero sieno come un
ritaglio di porpora cucito sopra un panno vile, o certo d’altro colore ed
opera. Ma conviene ch’io dica quello ch’è vero, che non mi è riuscito mai
di trovare negli antichi scrittori latini o greci, per difettosi che sieno, tanta
goffaggine, e incapacità, e piccolezza di giudizio, e debolezza e scarsezza
di mezzi, e decisa insufficienza alle imprese, agli assunti ec. quanto negli
odierni italiani: e Frontone del resto non fu niente povero d’ingegno. Il
suo peccato si può ridurre all’aver considerato come modelli di buona
lingua, piuttosto Ennio che Virgilio e che lo stesso Lucrezio (che tanto
l’arricchì nella parte filosofica) piuttosto Catone che Tullio; all’aver
creduto che in quelli e non in questi fosse la perfezione della lingua
latina, all’avere attinto più da quelli che da questi, e consideratili come
fonti più ricchi o più sicuri ec.; o certo aver loro attribuita senza veruna
ragione (conforme però all’ordinario rispetto per l’antico) maggiore
autorità in fatto di lingua. ec. ec. Questo sia detto in trascorso e per
digressione.
Tornando al proposito, cioè all’arricchire [758] la lingua del prodotto
delle sue proprie sostanze, e dalla greca e latina, passando alle vive,
questa è sempre stata e sarà sempre facoltà inseparabile dalla vita delle
lingue, e da non finire se non colla loro morte. Tutte le lingue vive la
conservano, eccetto quelli che vorrebbero che la italiana la deponesse. La
francese, la quale a differenza dell’italiana, si è spogliata della facoltà di
usare quelle delle sue parole e modi antichi e primitivi, che le potessero
tornare in acconcio (come ho detto altrove); parimente a differenza di ciò
che si esigerebbe dalla italiana, ha conservato sempre ed usato la facoltà
di mettere a frutto e moltiplico il suo presente tesoro. E la stessa lingua
latina, la quale per le ragioni che ho detto, perdè in parte questa facoltà
dopo Cicerone, non la perdè, se non in quanto a quella felicissima ed
immensa facoltà di composti e sopraccomposti o con preposizione o
particella, ovvero di più parole insieme; facoltà che la metteva quasi [759]
(cioè in proporzione della quantità delle radici e de’ semplici) al paro
della greca; facoltà che si può vedere e nelle primitive parole latine
composte nei detti modi, o con avverbi (come propemodum e mille altre),
in somma come le greche, e che sono durate nell’uso della latinità sino
alla fine, ma non però imitate nè accresciute; e in quelle che poi caddero
dall’uso, e si possono veder ne’ più antichi latini (come in Plauto
lectisterniator, legirupus, lucrifugae e mille altre, e prendo le primissime che
ho incontrate subito), e servono a far conoscere la primitiva costituzione,
forma, usanza, e potenza di quella lingua: facoltà in fine, ch’è la massima
e più ricca sorgente della copia delle parole, e della onnipotenza di tutto
esprimere, ancorché nuovissimo; il che si ammira nel greco, e si potè una
volta notare anche nel latino.
I primi scrittori latini, il loro linguaggio sacro o governativo ec. antico
(come lectisternium antica festa romana) abbondano siffattamente di
parole composte alla greca di due o più voci, che non si può forse leggere
un passo di detti autori ec. senza trovarne, ma la più parte andate in
disuso. Spesso eran proprie di quel solo che le inventava. Talvolta anche
di eccessiva lunghezza, come clamydeclupetrabracchium parola di antico
poeta riferita da Varrone (De Lingua Latina lib. 4.) (p. 3. della mia ediz. del
400.) Quest’uso ottimo e felicissimo, e questa facoltà, fu o trascurata, o
comunque [760] lasciata trasandare, abbandonare, dismettere,
dimenticare alla lingua latina, che era per forza d’essa facoltà così bene
istradata alla onnipotenza, ne’ suoi principii. Ma la facoltà di arricchire la
propria lingua col prodotto delle sue proprie radici in ogni altro genere,
coi derivati ec. non fu mai abbandonata finch’ella visse, e non poteva
esserlo, stante ch’ella vivesse. Non solamente i cattivi o mediocri, ma
anche i buoni ed ottimi scrittori dopo Cicerone, se ne prevalsero tutti, e
tutti scrivendo aumentarono il tesoro della lingua, e questa non lasciò
mai di far buoni e dovuti progressi, finché fu adoperata da buoni e degni
scrittori.
Così deve tenersi per fermissimo, ch’è indispensabile di fare a tutte le
lingue finch’elle vivono. La facoltà de’ composti pur troppo non è
propria delle nostre lingue. Colpa non già di esse lingue, ma
principalmente dell’uso che non li sopporta, non riconosce nelle nostre
lingue meridionali [761] (delle settentrionali non so) questa facoltà, delle
orecchie o non mai assuefatteci, o dissuefattene da lungo tempo. Perché
del resto 1. le nostre preposizioni, massimamente nella lingua italiana,
sarebbero per la più parte, appresso a poco non meno atte alla
composizione di quello che fossero le greche e latine, e noi non
manchiamo di particelle attissime allo stesso uso, anzi molte ritrovate
espressamente per esso (come ri, o re, tra o stra, arci, dis, o s, in negativo o
privativo, e affermativo, mis, di, de ec. E di queste abbondiamo anzi più
de’ latini, e forse anche dei greci stessi, e credo certo anche de’ francesi e
degli spagnuoli.) Vedi il Monti, Proposta alla voce Nonuso, e se vuoi p.
2078. 2. anche ai composti di più parole la lingua massimamente italiana,
sarebbe dispostissima, come già si può vedere in alcuni ch’ella usa
comunemente (valentuomo, passatempo, tuttavolta, capomorto, capogatto,
tagliaborse, beccafico, falegname, granciporro, e molti e molti altri); vedi p.
1076 e Monti, Proposta ec. vedi guardamacchie ed anche la lingua francese
(emportepièce, gobemouche, fainéant coi derivati ec.) 3. non manchiamo
neppure di avverbi atti a servire alla composizione. 4. la nostra lingua
benché non si pieghi e non ami in questo genere la novità, ha però non
poco in questo genere, come i composti colla preposizione in, tra, fra,
oltra, [762] sopra, su, sotto, contra, anzi ec. ec. e Dante fra gli altri antichi
aveva introdotto subito nel quasi creare la nostra lingua, la facoltà, il
coraggio, ed anche l’ardire de’ composti, de’ quali egli abbonda (come
indiare, intuare, immiare, disguardare ec. ec.) massime con preposizioni
avverbi, e particelle. E così gli altri antichi nostri. Ma a noi pure è
avvenuto, come ai latini, che questa onnipotente facoltà, propria della
primitiva natura della nostra lingua, (sebbene allora pure in minor grado
che, non solo della greca, ma anche della latina) s’è lasciata malamente e
sfortunatamente perdere quasi del tutto, ancorché si conservino buona
parte di quelli che si sono trovati in uso, e si adoprino come recentissimi,
attestando continuamente la primiera facoltà e natura della nostra lingua;
ma de’ veramente nuovi e recenti non si gradiscono. E tutto questo
appresso a poco è avvenuto anche alla lingua francese. Vedi p. 805. Dei
composti dunque, gli scrittori di oggidì non hanno gran facoltà, ma non
però nessuna (tanto in italiano che in francese): anzi ce ne resta ancor
tanta da potere, senza [763] la menoma affettazione formare e introdurre
molti nuovi composti chiarissimi, facilissimi, naturalissimi, mollissimi
per l’una parte; e per l’altra utilissimi; specialmente con preposizioni e
particelle ec. Quanto poi ai derivati d’ogni specie (purché sieno secondo
l’indole e le regole della lingua, e non riescano nè oscuri nè affettati) e a
qualunque parola nuova che si possa cavare dalle esistenti nella nostra
lingua, che stoltezza è questa di presumere che una parola di origine e
d’indole italianissima, di significazione chiarissima, di uso non affettata
nè strana ma naturalissima, di suono finalmente non disgrata
all’orecchio, non sia italiana ma barbara, e non si possa nè pronunziare
ne scrivere, per questo solo, che non è registrata nel Vocabolario? (E
quello che dico delle parole dico anche delle locuzioni e modi, e dei
nuovi usi qualunque delle parole o frasi ec. già correnti, purché questi
abbiano le dette condizioni.) Quasi che la lingua italiana sola, a
differenza di tutte le altre esistenti, e di qualunque ha mai esistito, si
debba, mentre ancor vive nell’uso quotidiano della nazione, considerar
come morta e morire vivendo, ed essere a un tempo viva e morta.
Converrebbe che anche questa nazione vivesse come morta, cioè che
nella sua esistenza non [764] accadesse mai novità, divario, mutazione
veruna, nè di opinioni, nè di usi, nè di cognizioni (come, e più di quello
che si dice della China, la cui lingua in tal caso potrà essere immobile): e
di più che sia in tutto e per tutto conforme alla vita e alle condizioni de’
nostri antichi, e di que’ secoli dopo i quali non vogliono che sia più lecita
la novità delle parole.
E infatti che differenza troveremo fra la lingua italiana viva, e le
morte, ammesso questo pazzo principio? Che libertà che facoltà avremo
noi nello scrivere la lingua nostra presente, più di quello che
nell’adoprare la greca e latina che sono antiche ed altrui? e le cui fonti
sono disseccate e chiuse da gran tempo, restando solo quel tanto ch’elle
versarono mentre furono aperte, e quelle lingue vissero. Anzi io tengo
per fermo che quegli scrittori italiani i quali nel cinquecento
maneggiarono la lingua latina in maniera da far quasi dubbio se ella
fosse loro artifiziale o naturale, furono assai meno superstiziosi di quello
che molti vorrebbero che fossimo noi trattando la lingua nostra. E noi
medesimi oggidì (parlo degli scienziati o letterati di tutta Europa)
derivando, come facciamo spessissimo, [765] dal greco le parole che ci
occorrono per li nostri usi presenti, e per novità di cose ignotissime ai
parlatori di quella lingua, non formiamo voci parimente ignote all’antica
lingua greca? Ci facciamo scrupolo se non sono registrate nel Lessico, o
se non hanno per se l’autorità degli antichi scrittori? Non innuoviamo noi
in una lingua morta, stranierissima, e al tutto fuori d’ogni nostro diritto?
Il che, sebbene si facesse con buon giudizio, e coi dovuti rispetti all’indole
di quella lingua (al che per verità pochi hanno l’occhio nella formazione
di tali voci), a ogni modo vi si potrebbe sofisticar sopra, e dire che la
eredità che ci è pervenuta delle antiche lingue, è come di beni infruttiferi,
dai quali non si può nè ricavare nè pretendere altro servigio che
dell’usarli identicamente. Ma la nostra lingua propria è un’eredità, un
capitale fruttifero, che abbiamo ricevuto da’ nostri maggiori, i quali come
l’hanno fatto fruttare, così ce l’hanno [766] trasmesso perché facessimo
altrettanto, e non mica perché lo seppellissimo come il talento del
Vangelo, ne abbandonassimo affatto la coltivazione, credessimo di
custodirlo, e difenderlo, quando gli avessimo impedito ogni prodotto, la
vegetazione, il prolificare; lo considerassimo e ce ne servissimo come di
un capitale morto ec.
Osservo anche questo. Noi ci vantiamo con ragione della somma
ricchezza, copia, varietà, potenza della nostra lingua, della sua
pieghevolezza, trattabilità, attitudine a rivestirsi di tutte le forme,
prender abito diversissimo secondo qualunque soggetto che in essa si
voglia trattare, adattarsi a tutti gli stili; insomma della quasi moltiplicità
di lingue contenute o possibili a contenersi nella nostra favella. Ma da
che cosa stimiamo noi che sieno derivate in lei queste qualità? Forse dalla
sua primitiva ed ingenita natura ed essenza? Così ordinariamente si dice,
ma c’inganniamo di gran lunga. Le dette qualità, le lingue non [767] le
hanno mai per origine nè per natura. Tutte a presso a poco sono disposte
ad acquistarle, e possono non acquistarle mai, e restarsene poverissime e
debolissime, e impotentissime, e uniformi, cioè senza nè ricchezza, nè
copia, nè varietà. Tale sarebbe restata la lingua nostra, senza quello ch’io
dirò. Tutte lo sono nei loro principii, e non intendo mica nei loro
primissimi nascimenti, ma finattanto che non sono coltivate, e con molto
studio ed impegno, e da molti, e assiduamente, e per molto tempo.
Quello che proccura alle lingue le dette facoltà e buone qualità, è
principalmente (lasciando l’estensione, il commercio, la mobilità,
l’energia, la vivacità, gli avvenimenti, le vicende, la civiltà, le cognizioni,
le circostanze politiche, morali, fisiche delle nazioni che le parlano) è,
dico, principalmente e più stabilmente e durevolmente che qualunque
altra cosa, la copia e la varietà degli scrittori che l’adoprano e coltivano.
(Vedi p. 1202.) Questa siccome, per ragione della maggior durata, e di
altre molte circostanze, fu maggiore nella Grecia che nel Lazio, perciò la
lingua greca possedè le dette [768] qualità, in maggior grado che la latina;
ma non prima le possedè che fosse coltivata e adoperata da buon numero
di scrittori, e sempre (come accade universalmente) in proporzione che il
detto numero e la varietà o de’ soggetti o degli stili o degl’ingegni degli
scrittori, fu maggiore, e s’accrebbe. La lingua latina similmente non le
possedè (sebben meno della greca, pure in alto grado) se non quando
ebbe copia e varietà di scrittori. Tutte le lingue antiche e moderne che
hanno mancato di questo mezzo, hanno anche mancato di queste qualità.
Per portare un esempio (oltre le lingue Europee meno colte) la lingua
Spagnuola, nobilissima, e di genio al tutto classico, e somigliantissima
poi alla nostra particolarmente, sì per lo genio, come per molti altri capi,
e sorella nostra non meno di ragione che di fatto, e di nascita che di
sembianza, costume, indole, non è inferiore alla nostra nelle dette qualità,
se non perché l’è inferiore principalmente nella copia e varietà degli
scrittori. Se la lingua francese, non ostante la gran quantità degli scrittori,
e degli [769] ottimi scrittori, si giudica ed è tuttavolta inferiore alla nostra
ed alle antiche per questo verso, ciò è avvenuto per le ragioni particolari
che ho più volte accennate. La riforma di essa lingua, la regolarità
prescrittale, la figura datale, avendo uniformato tutti gli stili, la poesia
alla prosa; impedita la varietà e moltiplicità della lingua, secondo i vari
soggetti e i vari ingegni; tolta la libertà, e la facoltà inventiva agli scrittori,
in questo particolare; tolto loro l’ardire, anzi rendutinegli affatto schivi e
timidi ec. ec. la Francia è venuta a mancare della varietà degli scrittori,
non ostante che n’abbia la copia, ed abbia la varietà de’ soggetti, perché
tutti i soggetti da tutti gl’ingegni si trattano, possiamo dire, in un solo
modo. E ciò deriva anche dalla natura e forza della eccessiva civiltà di
quella nazione, e della influenza della società: così stretta e legata, che
tutti gl’individui francesi fanno quasi un solo individuo. E laddove [770]
nelle altre nazioni, si cerca ed è pregio il distinguersi, in quello è pregio e
necessità il rassomigliarsi anzi l’uguagliarsi agli altri, e ciascuno a tutti e
tutti a ciascuno. Queste ragioni rendendogli timidi dell’opinione del
ridicolo ec. e scrupolosi osservatori delle norme prescritte e comuni nella
vita, li rende anche superstiziosi, timidi, schivi affatto di novità nella
lingua. Ma tutto ciò quanto alle sole forme e modi, perché questi soli,
sono stati fra loro determinati, e prescritti i termini (assai ristretti) dentro
i quali convenga contenersi, e fuor de’ quali sia interdetto ogni menomo
passo. E così quanto allo stile uniforme si può dire in tutti, e in tutti i
generi di scrittura, anche nelle traduzioni ec. tirate per forza allo stile
comune francese, ancorché dallo stile il più renitente e disperato; e
quanto in somma all’unità del loro stile, e del loro linguaggio che ho
notata altrove. Ma non quanto alle parole, nelle quali, restata libera in
Francia la facoltà inventiva, e il derivare novellamente dalle proprie
fonti, sempre aperte sinché la lingua vive; la lingua francese cresce di
parole ogni giorno e crescerà. Che se le cavassero sempre dalle proprie
fonti, o con quei rispetti che si dovrebbe, non avrei luogo a riprenderli,
come ho fatto altrove, e della corruzione e dell’aridità a cui vanno
portando la loro lingua. [771] La quale inoltre, da principio, era, come la
nostra, attissima alla novità ed al bell’ardire, anche nei modi, secondo che
ho detto altrove. La lingua tedesca, rimasa per tanti secoli impotente ed
umile, ancorché parlata da tanta e sì estesa moltitudine di popoli, non per
altro che per avere avuto nell’ultimo secolo e ne’ pochi anni di questo,
immensa copia e varietà di scrittori, è sorta a sì alto grado di facoltà e di
ricchezza e potenza.
La lingua italiana dunque, scritta per sei secoli fino al 18vo.
inclusivamente, e scritta da una infinità di autori d’ogni soggetto, d’ogni
stile, d’ogni carattere, d’ogni ingegno, oltracciò abbondantissima, quanto
e più, certo prima di qualunque altra lingua viva, non solo di scrittori
comunque, ma scrittori peritissimi nel linguaggio, coltivatori assidui, ed
espressamente dedicati allo studio della lingua, maestri e modelli del bel
parlare, studiosissimi delle lingue antiche per derivarne nella nostra tutto
il buono e l’adattato, liberi, coraggiosi, e felicemente arditi nell’uso della
lingua; questa lingua [772] dico, da piccoli anzi vili e rozzi e informi
principii, come tutte le altre, e da barbare origini; di più, cresciuta e fatta
se non matura certo adulta e vigorosissima fra le tenebre dell’ignoranza,
della superstizione, degli errori della barbarie; non per altro che per li
detti motivi, e prima e sola fra le viventi, è venuta in tal fiore di bellezza,
di forza, di copia, di varietà, ec. che giunge quasi a pareggiare le due
grandi antiche (chi bene ed intimamente e in tutta la sua estensione la
conosce), non avendo rivale fra le moderne. Se dunque abbiamo veduto
come le doti delle lingue, e in ispecie la copia e la varietà, non derivano
principalmente se non dalla copia e varietà degli scrittori, e non da
natura di essa; ne segue che quando gli scrittori lasceranno per
trascuraggine o ignoranza, di arricchirla, e peggio se saranno impediti di
farlo, la lingua non arricchirà, non crescerà, non monterà più, e siccome
le cose umane, non si fermano mai in un punto, ma vanno sempre
innanzi o retrocedono, così la lingua non avanzando più, retrocederà,
[773] e dopo essere isterilita, impoverirà ancora, perderà quello che avea
guadagnato, e finalmente si ridurrà a tal grado di miseria e d’impotenza,
che non sarà più sufficiente all’uso e al bisogno, e allora sì che le converrà
domandare soccorso alle lingue straniere e imbarbarire del tutto, per quel
motivo appunto il quale si credeva doverla preservare dalla corruzione, e
mantenerla pura e sana. Forse che non vediamo già accadere tutto
questo? Quante ricchezze delle già guadagnate, e per così dire,
incamerate, ha ella perduto quasi e senza quasi del tutto! Ma di questo
dirò poi.
Vogliamo noi dunque ridurre la lingua italiana e nelle parole e nei
modi, a quella stessa paura, scrupolosità, superstizione, schiavitù,
grettezza, uniformità della lingua francese nei soli modi? Almeno i
francesi hanno una scusa nella natura della loro nazione, a cui la società è
vita, alimento, diletto, e spavento, sanguisuga, tormento, morte. [774] A
noi manca questa scusa, se già non vogliamo infrancesire interamente
anche nei costumi, usi, vita, gusti, idee, inclinazioni ec. e perdere fino alla
sembianza, aspetto, forma d’italiani, come abbiamo più che incominciato.
Diranno che la lingua, benché per lo mezzo, e l’ardire e libertà degli
scrittori, è giunta però a quella perfezione, la quale non possa
oltrepassare senza guastarsi. Vi giunse, cred’io, nè più nè meno in quel
punto in cui finì di pubblicarsi l’ultimo Vocabolario della Crusca, giacché
in questo o certo nei precedenti, sono riportate moltissime parole
coll’autorità di scrittori ancora viventi e scriventi. Anzi il Buonarroti
scrisse la Fiera appostatamente per somministrar parole al Vocabolario.
L’ultimo tomo dunque di questo, e quell’anno, quel mese, quel giorno in
cui fu pubblicato chiuse per sempre le fonti della lingua italiana, state
aperte da cinque secoli. Ma lasciando le burle, do e non concedo che la
lingua italiana, sia stata già [775] portata dagli scrittori a quella somma
perfezione a cui possa pervenire in ordine a tutte le altre qualità, (errore
manifestissimo, ma lasciamolo passare). Nella ricchezza, copia, e varietà
nego che veruna lingua del mondo, o attuale o possibile, possa mai
essere perfetta finché non muore. E ciò nasce che le cose ancora vivono
sempre, e si modificano sempre novellamente, e si moltiplicano le
conosciute: ora una lingua non è mai perfettamente ricca, anzi
perfettamente fornita del necessario, finch’ella non può esprimere
perfettamente, e convenientemente tutte le cose, e tutte le possibili
modificazioni delle cose di questo mondo. Sicché una lingua non avrà
più mestieri di accrescimento, allora solo quando o essa o il mondo sarà
finito.
Quali effetti produca poi, e quanto sia pericoloso il volere arrestare
una lingua, come già perfetta, e lo scoraggirsi di accrescerla, per la
persuasione [776] che ciò non sia più necessario, nè lecito e giovevole, nè
possibile, si può vedere in quello che ho detto della lingua latina.
E prima di partire da questo soggetto della ricchezza e copia e bontà
generale e potenza delle lingue proccurata principalmente dalla copia e
varietà ed ingegno degli scrittori, osserverò che quella medesima
superiorità di circostanza ch’ebbe la lingua greca sulla latina, e che fu
seguita dall’effetto di restarle realmente e sempre superiore nella
sostanza, l’abbiamo noi pure sopra tutte le altre lingue viventi, e colte.
Perché siccome la coltura della lingua greca, e gli scrittori suoi,
incominciati assai per tempo, abbracciarono lunghissimo spazio, e il loro
numero fu grande in ciascun tempo; e siccome in proporzione di questo
spazio e di questo numero, la ricchezza e varietà e potenza della lingua
greca, crebbe in modo che non potè mai essere agguagliata dalla latina:
così la lingua italiana, [777] scritta già come ho detto da sei secoli in qua,
e, si può dire, in ciascun secolo, abbondantissima di diversissimi scrittori
e cultori, ha su tutte le altre lingue moderne e colte quello stesso
vantaggio di circostanza ch’ebbe la greca sulla latina. Vantaggio che per
nessuno ingegno e nessuno sforzo e studio di nessuna nazione ci potrà
mai esser levato, se noi non vorremo. Ma ecco che noi siamo fermati, e la
lingua nostra non fa più progressi. La lingua francese infaticabilmente si
accresce di tutte le parole che le occorrono. La lingua tedesca avanza e
precipita come un torrente, e guadagna tuttogiorno vastissimi spazi, in
ogni genere di accrescimento. Noi da qualche tempo arrestati, neghittosi,
ed immobili, manchiamo del bisognevole per esprimere e per trattare la
massima parte delle cognizioni e delle discipline e dottrine moderne, ed
usi e opinioni ec. ec. oggi più rapide nel crescere e propagarsi, e variare
ec. di quello che mai [777] fossero, e in proporzione che la nostra
indolenza e infingardaggine presente, è opposta alla energia ed attività
passata. Così la lingua italiana perde il vantaggio dello spazio che avea
guadagnato per valore de’ suoi antichi e primi padri, sopra le altre
lingue, e queste correndo più velocemente che mai, fra tanto che la nostra
siede e dorme, riguadagneranno tutto lo spazio perduto per la inerzia de’
loro antichi, arriveranno ben presto la nostra e la passeranno. E la nostra
non solo non sarà più nè superiore nè uguale alle altre colte moderne, ma
tanto inferiore, che divenuta impotente, e buona solo a parlare o scrivere
ai bisavoli; o non saprà esprimer niente del bisognevole, nè parlare e
scrivere in nessun modo ai contemporanei; o lo farà (come già lo fa per
quel poco che parla e scrive delle cose e cognizioni moderne, o per quello
che ne dice non del suo, ma copiando o seguendo gli stranieri) invocando
l’altrui soccorso, servendosi degl’istrumenti e mezzi altrui, e quasi
trasformandosi [779] in un’altra, o vogliamo dire, facendosi provincia e
suddita di un regno straniero (come i piccoli e deboli confederati de’
grandi e potenti) essa ch’era capo di tutte le lingue viventi. Laddove
siccome le altre lingue (come anche le altre letterature, e repubbliche
scientifiche) raddoppiano l’energia e la veemenza e gagliardia del loro
corso, così che in breve riguadagneranno lo spazio perduto da’ loro
maggiori in confronto nostro, e, se noi non ci moviamo, ci pareggeranno
finalmente ben presto, e poi ci passeranno (che in quanto a moltissimi
rami del sapere è già accaduto): così conviene che ancor noi pareggiamo i
nostri ai loro sforzi, e così non perdendo il vantaggio acquistato, restiamo
perpetuamente superiori a tutti, se non nel presente valore, certo pel
detto vantaggio acquistato dagli avi, e mantenuto da noi.
Conchiuderò con una osservazione che benché fatta, io credo, da altri,
tuttavia merita di essere ripetuta, perché sia sempre più [780] considerata
e sempre meglio svolta. Non solamente i bisogni della lingua aumentano
e si rinnuovano tuttogiorno, ma i mezzi della lingua, senza la novità delle
parole, tuttogiorno diminuiscono. Quante voci e modi e frasi che una
volta erano e usitatissime, e naturalissime, e chiarissime, e comunissime,
ed utilissime efficacissime espressivissime frequentissime nel discorso,
ora per essere antiquate, o non son chiare, o anche potendosi intendere,
anche essendo chiarissime, non si debbono nè possono usare perché non
riescono e non cadono naturalmente, e manifestano e sentono quello che
sopra ogni cosa si deve occultare, lo studio e la fatica dello scrittore.
Questo accade in ogni lingua; tutte si vanno rinnovando, cioè
dismettendo delle vecchie, e adottando delle nuove voci e locuzioni. Se
questa seconda parte viene a mancare, la lingua non solamente col tempo
non crescerà nè acquisterà, come hanno sempre fatto tutte le lingue colte
o non colte, e come si è sempre inculcato a tutte le lingue [781] colte, ma
per lo contrario perderà continuamente, e scemerà, e finalmente si
ridurrà così piccola e povera e debole, che o non saprà più parlare nè
bastare ai bisogni, o ricorrerà alle straniere; ed eccoti per un altro verso
che quello stesso preteso preservativo contro la barbarie, cioè la
intolleranza della giudiziosa novità, la condurrebbe alla barbarie a
dirittura. E per parlare particolarmente della lingua italiana non vediamo
noi negli effetti 1. quanto le lingue sieno soggette a perdere delle
ricchezze loro: 2. come perdendo da una parte e non guadagnando
dall’altra, la lingua non più per vezzo (che oramai il vezzo del
francesismo è fuggito, anzi temutone da tutti gli scrittori italiani il
biasimo e il ridicolo) ma per decisa povertà e necessità imbarbarisca?
Prendiamoci il piacere di leggere a caso un foglio qualunque del
Vocabolario e notiamo tutte quelle parole e frasi ec. che sono uscite fuor
d’uso, e che non si potrebbero usare, o non senza difficoltà. Io credo che
nè meno due terzi del vocabolario [782] sieno più adoperabili
effettivamente nè servibili in nessuna occasione, nè merce mai più
realizzabile. Queste perdute, infinite altre che sebbene dimenticate e fuor
d’uso, sono però ricchezza viva e realissima (come spesso
necessarissima) perché chiare a chiunque, e ricevute facilmente e
naturalmente dal discorso e dagli orecchi di chi si voglia, ma tuttavia
sono abbandonate e dismesse per ignoranza della lingua (la quale in chi
maggiore in chi minore, in quasi tutti si trova, perché il pieno possesso
dell’immenso tesoro della lingua non appartiene oggi a nessuno neanche
de’ più stimati per questo); finalmente la mancanza delle voci nuove
adatte e necessarie alla novità delle cose, costringono gli scrittori d’oggidì
a ricorrere alla barbarie, trovando la lingua loro del tutto insufficiente ai
loro concetti, benché sempre poverissimi, triti, ordinari, triviali,
ristrettissimi, scarsissimi; e benché spesso anzi per lo più vecchissimi e
canuti.
Conchiudo che la giudiziosa novità, (e massime tutta quella che si
può derivare dalle nostre stesse fonti) l’arruolare al nostro esercito [783]
nuove truppe, l’accrescere la nostra città di nuove cittadinanze, in luogo
che pregiudichi per natura sua, e quando si faccia nei debiti modi, alla
purità della lingua, è anzi l’unico mezzo sufficiente di difesa, di far testa,
di resistere alla irruzione della barbarie, la quale sovrasta inevitabilmente
a tutte le lingue che mentre il mondo, e le cose, e gli uomini, e i suoi
stessi parlatori camminano, e avanzano, o certo si muovono; non
vogliono più, o sono impedite di più camminare nè progredire, nè
muoversi in verun lato o modo: e vogliono, o son forzate a volere
(inutilmente) quella stabilità, che non ebbero mai nè avranno gli uomini
e le cose umane, al cui servigio elle son destinate, e al cui seguito le
costringe in ogni modo la natura. Conchiudo che impedire alle lingue la
giudiziosa e conveniente novità, non è preservarle, ma tutt’uno col
guidarle per mano, e condannarle, e strascinarle forzatamente alla
barbarie. (8-14. Marzo 1821).
Alla p. 785. Oltre di queste due sorte di novità ce ne sono altre simili
delle quali intendo pur di parlare. Cioè una voce italianissima e di buona
lega può esser nuova per questo [801] solo, che non si trova nel
vocabolario trovandosi ne’ testi; o non trovarsi nè in questi nè in quello,
ma bensì ne’ buoni libri di lingua non citati (che sono infiniti, massime
de’ buoni tempi ed hanno in diritto la stessissima autorità che i citati) o
finalmente trovarsi solo nelle scritture mediocri o pessime in lingua, ma
pure aver tutte le condizioni richieste per esser legittima. E di queste
parole o frasi ce ne ha moltissime. Massimamente poi se si trovino nelle
scritture non buone de’ buoni tempi, dove a ogni modo la natura e
l’indole vera e prima della lingua italiana la conosceva e la sentiva
ciascun italiano molto meglio che oggidì, e l’Italia aveva la mente e le
orecchie molto meno inclinate e meno avvezze alle parole ai modi al
genio straniero delle lingue. (16. Marzo 1821).
[805] Alla p. 762. Per poco che si osservi facilmente si scuopre che
tutte le lingue colte, da principio hanno avuto e adoperato estesamente la
facoltà dei composti, come poi tutte, cred’io, (eccetto la greca che la
conservò fino alla fine) l’hanno quale in maggiore quale in minor parte
perduta. Tutte però hanno conservato o tutti, o maggiore o minor parte
dei loro primi composti, divenuti bene spesso così familiari, che han
preso come apparenza e opinione di radici, e forse così hanno servito di
materia essi stessi a nuove composizioni. La lingua Spagnuola ha
composti, e derivati da’ composti (come pure le altre lingue, ché anche
questi derivati sono un bellissimo e fecondissimo genere di parole): ed
alcuni bellissimi e utilissimi e felicissimi altrettanto che arditi, come
tamaño, demàs, e da questo ademàs, demasìa, demasiado, demasiadamente,
sinrazon, sinjusticia, sinsabor, pordiosear cioè limosinare, e pordioseria
mendicità, ec. che sono di grande uso e servigio. Tutte le lingue colte
hanno ancora avuto delle particelle destinate espressamente alla
composizione e che non si trovano fuor de’ composti. Così la greca, così
la latina, così la francese, la spagnuola (des ec. ec.), l’inglese [806] (mis ec.
ec.) ec. Ed è tanta la necessità de’ composti che senza questi nessuna
lingua sarebbe mai pervenuta a quello che si chiama o ricchezza, o
coltura, o anche semplice potenza di discorrere di molte cose, o di alcune
cose particolarmente e specificatamente. Perché le radici converrebbe che
fossero infinite per esprimere e tutte le cose occorrenti, e tutte le piccole
gradazioni, e differenze e nuances e accidenti di una cosa, per ciascuna
delle quali gradazioncelle si richiederebbe una diversa radice, altrimenti
il discorso non sarà mai nè espressivo nè proprio, e neanche chiaro, anzi
per lo più equivoco, improprio, dubbio, oscuro, generico, indeterminato.
Così appunto avviene alla lingua ebraica (la quale non par che si possa
mettere fra le colte) perché con bastanti radici e derivati, è priva di
composti: o quasi priva: non avendo che fare i suoi suffissi ed affissi colla
composizione, ma essendo come casi o inflessioni o accidenti o affezioni
(πάτη) de’ nomi e de’ verbi, o segnacasi ec. e non variando punto il
significato essenziale, nè la sostanza della parola; come presso noi
batterlo, uccidermi, dargli, andarvi, uscirne ec. che non si chiamano, nè sono
composti nel nostro senso. Dal che segue ch’ella ed è soggetta alle dette
difficoltà, e disordini; e resta poverissima; ed io dico che tale ci parrebbe
eziandio quando anche in quella lingua esistessero altri libri, oltre la
Bibbia, se però questi libri mancassero parimente de’ composti. Ci
vorrebbero, ho detto, infinite radici. Ora [807] una più che tanta
moltitudine di radici, è difficilissima per natura, giacché un composto,
subito s’intende, ma perché una radice, sia subito e comunissimamente
intesa (com’è necessario), e passi nell’uso universale, ci vuol ben altro.
Perciò la invenzione delle radici in qualunque società d’uomini parlanti,
o primitiva o no, è sempre naturalmente scarsa, e povera quella lingua
che non può esprimersi senza radici, perch’ella non si esprimerà mai se
non indefinitamente, ed ogni parola (come accade nell’Ebraico) avrà una
quantità di significati. Vedi se vuoi, SOAVE, appendice al capo 1. Lib.3. del
Compendio di Locke, Venezia 37a ediz. 1794. t. II. p. 12. fine 13. e Scelta di
opuscoli interessanti Milano 1775. volume 4. p. 54. e questi pensieri p.1070.
capoverso ult. E se, volete vedere facilmente, perché una lingua appena è
cominciata a divenire un poco colta, e ad aver bisogno di esprimere
molte cose, e queste specificatamente e chiaramente e distintamente e le
loro differenze ec. perché, dico, abbia subito avuto ricorso e trovati i
composti, osservate. Che sarebbe l’aritmetica se ogni numero si dovesse
significare con cifra diversa, e non colla diversa composizione di pochi
elementi? Che sarebbe la scrittura se ogni parola dovesse esprimersi colla
sua cifra o figura particolare, come dicono della scrittura Cinese? La
stessa [808] facilità e semplicità di metodo, e nel tempo stesso fecondità
anzi infinità di risultati e combinazioni, che deriva dall’uso degli
elementi nella scrittura e nell’aritmetica, anzi in tutte le operazioni della
vita umana, anzi pure della natura (giacché, secondo i chimici tutto il
mondo e tutti i diversissimi corpi si compongono di un certo tal numero
di elementi diversamente combinati, e noi medesimi siamo così composti
e fatti anche nell’ordine morale come ho dimostrato in molti pensieri
sulla semplicità del sistema dell’uomo); deriva anche dall’uso degli
elementi nella lingua. Al che si ponga mente per giudicarne quanto sia
necessario anche oggidì ritenere più che si possa, e nella nostra e in
qualunque lingua, la facoltà de’ nuovi composti, atteso l’immenso
numero delle nuove cose bisognose di denominazione (massime nella
lingua nostra); numero che ogni giorno necessariamente e naturalmente
si accresce: e d’altra parte l’impossibilità della troppa moltiplicità delle
radici, sì al fatto, o all’invenzione, sì all’uso, intelligenza, e diffusione, sì
anche alle facoltà della memoria e dell’intelletto umano, ed alla chiarezza
delle idee che debbono risultare dalla parola, chiarezza quasi
incompatibile colle nuove radici (vedi p. 951), e compatibilissima coi
nuovi composti; oltre alla mancanza di gusto che deriva dalle nuove
radici, le quali sono sempre termini, come ho spiegato altrove: non così i
composti derivati dalla propria lingua. Lo dico senza dubitare. La lingua
più ricca sarà sempre quella che avrà conservata [809] più lungamente, e
più largamente adoperata la facoltà dei composti, e oggidì quella che la
conserverà maggiore, e maggiormente l’adoprerà. L’esempio della lingua
greca, ricchissima fra quante furono sono e saranno, anzi sempre e anche
oggi inesauribile, conferma abbondantemente col fatto questa mia
sentenza, già sì evidente in ragione. E d’altra parte la mia teoria serve a
spiegare il secreto e il fenomeno di una tal lingua sempre uguale alla
copia qualunque delle cose. Se dunque vogliamo che una lingua sia
veramente onnipotente quanto alle parole, conserviamole o rendiamole,
e se è possibile, accresciamole la facoltà de’ nuovi composti e derivati,
cioè l’uso degli elementi ch’essa ha, e il modo, la facoltà di combinarli
quanto più diversamente, e moltiplicemente si possa. Questo, e non la
moltiplicità degli elementi forma la vera e sostanziale ricchezza copia e
onnipotenza delle lingue (quanto alle parole) come la forma di tutte le
altre cose umane e naturali. Generalizziamo un [810] poco le nostre idee,
e facilmente ci persuaderemo di questo ch’io dico, e come, per natura
universale delle cose umane, la detta facoltà sia non solo la principale e
fondamentale, ma necessaria e indispensabile sorgente della ricchezza
copia e potenza di qualunque lingua, e della proprietà, definitezza, e
chiarezza dell’espressione: dico quanto alle parole. (18. Marzo 1821).
[819] Che cosa è barbarie in una lingua? Forse quello che si oppone
all’uso corrente di essa? Dunque una lingua non imbarbarisce mai,
perché ogni volta ch’ella imbarbarisse, quella barbarie non potendo
essere in altro che nell’uso corrente (altrimenti sarà barbarie parziale di
questo o di quello, e non della lingua), non sarebbe barbarie essendo
conforme all’uso. Barbaro nella lingua non è dunque altro se non quello
che si oppone all’indole sua primitiva: e chiunque ponga mente, converrà
in questo: giacché in fatti una parola, uno scrittore barbaro
ordinarissimamente sono conformi all’uso di quel tempo, lo seguono, ne
derivano, e così accade oggidì nella lingua italiana. Di più, nessun secolo
sarebbe mai, o sarebbe [820] mai stato barbaro per nessuna lingua. Al più
si potrebbe dire se quella lingua di quel tal secolo fosse più o meno bella,
ricca, buona, ec. confrontando fra loro i secoli di una stessa lingua, come
si confrontano le diverse lingue fra loro, delle quali se questa o quella si
giudica men pregevole, non perciò si giudica barbara. Anzi si
chiamerebbe barbara se contro l’indole sua, volesse adottare e
accomodarsi all’andamento di una lingua migliore più bella ec. come se
la lingua inglese volesse adottare le forme della greca ec. Insomma
barbarie in qualunque lingua non è nè la mancanza di qualsivoglia
pregio, nè quello che contraddice all’uso corrente, ma quello solo che
contraddice all’indole sua primitiva, per conservar la quale ella deve
conservarsi anche meno pregevole, se tale è la sua natura, perché i pregi
essendo relativi, sarebbe vizio e bruttezza in lei, quello ch’è virtù e
bellezza in un’altra, se si oppone alla sua natura in cui consiste la
perfezion vera [821] (benché relativa) non solo di una llngua, ma di
ciascuna cosa che sia.
Da queste osservazioni particolari; facili, chiare, e di cui tutti
convengono, salite dunque ad una più generale, ma tanto vera quanto le
precedenti, e che non si può negare se queste si riconoscono, e
concedono. Che cosa è barbarie nell’uomo? Quello che si oppone all’uso
corrente? Dunque nessun popolo, nessun secolo barbaro. Barbarie è quel
solo che si oppone alla natura primitiva dell’uomo. Ora domando io se i
nostri costumi, istituti, opinioni ec. presenti sarebbero stati compatibili
colla nostra prima natura. Come potevano esserlo, quando anzi la natura
ci ha posti evidentemente i possibili ostacoli? Che non siano compatibili
colla nostra primitiva natura, è così manifesto, anche per la osservazione
sì di ciascuno di noi, sì de’ fanciulli, selvaggi, ignoranti ec. ec. che non ha
bisogno di dimostrazione. Dunque se non sono compatibili, è quanto
dire che le ripugnano e contrastano. Dunque? dunque son barbari. [822]
Che sieno conformi all’uso e all’abitudine, non val più di quello che
vaglia la stessa circostanza a scusare un secolo depravato nella lingua.
Che si stimino buoni assolutamente, e più buoni de’ naturali e primitivi,
primieramente non val più di quello che vaglia nella lingua, come ho
detto; poi, siccome nella lingua, questa opinione è erronea, e deriva
dall’inganno parte dell’abitudine, parte della immaginaria perfezione
assoluta, là dove è sostanzialmente imperfezione e vizio tutto ciò che si
oppone all’indole e natura particolare e primitiva di una specie, quando
anche questo medesimo sia virtù e perfezione in altra specie. (20. Marzo
1821).
Che vuol dire che i così detti barbari, o popoli non ancora arrivati se
non ad una mezza o anche inferiore civiltà, hanno sempre trionfato de’
popoli civili, e del mondo? I Persiani degli Assiri inciviliti, i greci de’
Persiani già corrotti, i Romani de’ greci giunti al colmo della civiltà, i
settentrionali de’ Romani nello [867] stesso caso? Anzi che vuol dire che i
Romani non furono grandi se non fino a tanto che furono quasi barbari?
Vuol dire che tutte le forze dell’uomo sono nella natura e illusioni; che la
civiltà, la scienza ec. e l’impotenza sono compagne inseparabili; vuol dire
che il fare non è proprio nè facoltà che della natura, e non della ragione; e
siccome quegli che fa è sempre signore di chi solamente pensa, così i
popoli o naturali o barbari che si vogliano chiamare, saranno sempre
signori dei civili, per qualunque motivo e scopo agiscano. Non dubito di
pronosticarlo. L’Europa, tutta civilizzata, sarà preda di quei mezzi
barbari che la minacciano dai fondi del Settentrione; e quando questi di
conquistatori diverranno inciviliti, il mondo si tornerà ad equilibrare. Ma
finattanto però che resteranno barbari al mondo, o nazioni nutrite di forti
e piene e persuasive, e costanti, e non ragionate, e grandi illusioni, i
popoli civili saranno lor preda. Dopo quel tempo, quando à son tour la
civiltà divenuta oggi sì rapida vasta e potente conquistatrice, non avrà
più nulla da conquistare, allora o si tornerà alla barbarie, e se sarà
possibile, alla natura per una nuova strada, e tutta opposta al naturale,
cioè la strada dell’universale corruzione come ne’ bassi tempi; o io non so
pronosticare più oltre quello che si dovrà aspettare. Il mondo allora
comincerà un altro andamento, e quasi un’altra essenza ed esistenza. (24.
Marzo 1821).
[868] Quella sentenza che gli uomini sono sempre i medesimi in tutti i
tempi e paesi, non è vera se non in questo senso. I periodi che l’uomo
percorre, e quelli di ciascuna nazione paragonati insieme, come i periodi
de’ tempi fra loro, sono sempre appresso a poco uguali o
somigliantissimi; ma le diverse epoche che compongono questi periodi,
sono fra loro diversissime, e quindi anche gli uomini di quest’epoca,
rispetto a quelli di quell’altra, e questa nazione oggi trovandosi in
un’epoca, rispetto a quell’altra nazione che si trova in altra epoca. Come
chi dicesse che l’orbita de’ pianeti è sempre la stessa, non però verrebbe a
dire che il punto, l’apparenza in cui essi si trovano, fosse sempre una. I
periodi della società si rassomigliano in tutti i tempi. Questo è un vero
assioma. E l’eccessiva civiltà avendo sempre condotto i popoli alla
barbarie, anzi precedutala immediatamente, anzi partecipato di essa; così
accadrà anche ora, o il detto assioma riuscirà falso per la prima volta. Del
resto che gli uomini sieno gli stessi in tutti i tempi, a non volerlo
intendere, o emendare come io dico, è proposizione o falsa o ridicola.
Falsa se si vuole estendere agli effetti delle facoltà umane, che ora
sviluppate, ora [869] no, ora più, ora meno, ora attivissime, ora così
sepolte nel fondo dell’animo da non lasciarsi scoprire nemmeno ai
filosofi (come per esempio la sensibilità odierna negli antichi, e peggio
ne’ primitivi, la ragione ec. ec.), hanno diversificato la faccia del mondo
in maniera infinita, e in moltissime guise. Domando io se questi italiani
d’oggi sono o paiono i medesimi che gli antichi; se il secolo presente si
rassomiglia a quello delle guerre Persiane, o peggio, della Troiana.
Domando se i selvaggi si rassomigliano ai francesi, se Adamo ci
riconoscerebbe per uomini, e suoi discendenti ec. Ridicola se non vuole
significare fuorché questo, che l’uomo fu sempre composto degli stessi
elementi e fisici e morali in tutti i tempi. (ma elementi diversamente
sviluppati e combinati, come i fisici, così i morali). Cosa che tutti sanno.
Le qualità essenziali non sono mutate, nè mutabili, dal principio della
natura in poi, in nessuna creatura, bensì le accidentali, e queste per la
diversa disposizione delle essenziali, che partorisce una diversità [870]
rilevantissima, e quanto possa esser, notabile, in quelle cose, che sole
naturalmente, possono variare. Questa proposizione dunque in
quest’ultimo senso, sarebbe tanto importante quanto il dire che il mare, il
sole, la luna sono le stesse in tutti i tempi ec. (lasciando ora una fisica
trascendente che potrebbe negarlo, e ponendolo per vero, com’è
conforme all’opinione universale). (25. Marzo 1821).
Alla p. 872. E non per altra cagione sono odiose e riputate contrarie
alla buona creanza le lodi di se medesimo, se non perché offendono
l’amor proprio di chi le ascolta. E perciò la superbia è vizio nella società,
e perciò l’umiltà è cara, e stimata virtù. (7. Aprile 1821).
Spegnere parola tutta propria oggi degl’italiani, non pare che possa
derivare da altro che da σβεννύειν mutato, oltre la desinenza, il ν in p,
mutazione ordinaria per esser due lettere dello stesso organo, cioè labiali,
e il doppio ν in gn, questo pure ordinario, e ordinarissimo presso gli
spagnuoli che da annus fanno año ec. ec. Se dunque spegnere deriva dalla
detta parola greca, è necessario supporre ch’ella fosse usitata nell’antico
latino, (sia che le dette mutazioni, o vogliamo, diversità di lettere
esistessero già nello stesso latino, sia che vi fossero introdotte, nel
passare questa parola dal latino in italiano) tanto più che l’uso del detto
verbo spegnere è limitato, (cred’io) alla sola Italia. Il Forcellini non ha
niente di simile nelle parole comincianti per exb, exp, exsb, exsp, sb, sp.
Parimente il Ducange, che ho ricercato accuratamente. (10. Aprile 1821).
Oggi l’uomo è nella società quello ch’è una colonna d’aria rispetto a
tutte le altre e a ciascuna di loro. S’ella cede, o per rarefazione, o per
qualunque conto, le colonne lontane premendo le vicine, e queste
premendo nè più nè meno in tutti i lati, tutte accorrono ad occupare e
riempiere il suo posto. Così l’uomo nella società egoista. L’uno
premendo l’altro, quell’individuo che cede in qualunque maniera, o per
mancanza di abilità, o di forza, o per virtù, e perché lasci un vuoto di
egoismo, dev’esser sicuro di esser subito calpestato dall’egoismo che ha
dintorno per tutti i lati: e di essere stritolato come una macchina
pneumatica dalla quale, senza le debite precauzioni, si fosse sottratta
l’aria. (11. Aprile 1821).
Alla p. 943. Così che la lingua Chinese quanto supera le altre lingue
nella moltiplicità, complicazione, e confusione degli elementi e della
costruttura della scrittura, tanto le avanza nella semplicità e piccolo
numero degli elementi dell’idioma. (14. Aprile 1821).
Alla p. 940. Quello che ho detto delle lingue rispetto ai luoghi, si deve
applicare proporzionatamente anche ai tempi, essendo certo ed evidente
che le lingue vanno sempre variando, non già leggermente, ma in modo
che alla fine muoiono, e loro ne sottentrano altre, secondo la variazione
dei costumi, usi, opinioni ec. e delle circostanze fisiche, politiche, morali,
ec. proprie dei diversi secoli della società. In maniera che si può dire che
come nessuna lingua è stata, così neanche nessun’altra sarà perpetua. (18.
Aprile 1821).
Una delle principali cagioni per cui l’infelicità rende l’uomo inetto al
fare, e lo debilita e snerva, onde l’infelicità toglie la forza, non è altra se
non che l’infelicità debilita l’amor di se stesso. E intendo massimamente
della infelicità grave e lunga. La quale col continuo contrasto che oppone
all’amor di se stesso che era nel paziente, colla battaglia ostinatissima e
fortissima che gli fa, e coll’obbligarlo ad uno stato contrario del tutto a
quello ch’è scopo, oggetto e desiderio di questo amore, finalmente
illanguidisce questo amore, rende l’uomo meno tenero di se stesso,
siccome avvezzo a sentirsi infelice malgrado gli sforzi che ci opponeva.
Anzi una tale infelicità, se non riduce l’uomo alla disperazion viva, e al
suicidio o all’odio di se stesso ch’è il sommo grado, e la somma intensità
dell’amor proprio in tali circostanze, lo deve ridurre per necessità ad uno
stato opposto, cioè alla freddezza e indifferenza verso se stesso; giacché
s’egli continuasse ad essere così infiammato verso se medesimo, com’era
da principio, in che modo potrebbe sopportare la vita, o contentarsi di
sopravvivere, vedendo e sentendo sempre infelice questo oggetto del suo
sommo amore, e di tutta la sua vita sotto tutti i rispetti?
Ma l’amor di se stesso è l’unica possibile molla delle azioni e dei
sentimenti umani, secondo ch’è applicato a questo o quello scopo
virtuoso o vizioso, grande o basso ec. [959] Diminuita dunque, e
depressa, e ridotta a pochissimo (cioè a quanto meno è possibile mentre
l’uomo vive) l’elasticità e la forza di molla, l’uomo non è più capace nè di
azioni, nè di sentimenti vivi e forti ec. nè verso se stesso, nè verso gli altri,
giacché anche verso gli altri, anche ai sacrifizi ec. non lo può spingere
altra forza che l’amor proprio, in quella tal guisa applicato e diretto. E
così l’uomo ch’è divenuto per forza indifferente verso se stesso, è
indifferente verso tutto, è ridotto all’inazione fisica e morale. E
l’indebolimento dell’amor proprio, in quanto amor proprio e
radicalmente, (non in quanto è diretto a questa o quella parte) cioè il vero
indebolimento di questo amore, è cagione dell’indebolimento della virtù,
dell’entusiasmo, dell’eroismo, della magnanimità, di tutto quello che
sembra a prima vista il più nemico dell’amor proprio, il più bisognoso
del suo abbassamento per trionfare e manifestarsi, il più contrariato e
danneggiato dalla forza dell’amore individuale. Così il detto
indebolimento secca la vena della poesia, e dell’immaginazione, e l’uomo
non amando, se non poco, se stesso, non ama più la natura; non sentendo
il proprio affetto, non sente più la natura, nè l’efficacia della bellezza ec.
Una nebbia grevissima d’indifferenza sorgente immediata d’inazione e
insensibilità, si spande su tutto l’animo suo, e su tutte le sue facoltà, da
che [960] egli è divenuto indifferente, o poco sensibile verso quell’oggetto
ch’è il solo capace d’interessarlo e di muoverlo moralmente o fisicamente
verso tutti gli altri oggetti in qualunque modo, dico se stesso.
Altra cagione dello snervamento prodotto nell’uomo dall’infelicità, è
la diffidenza di se stesso o delle cose, affezione mortifera, com’è vivifica e
principalissima nel mondo e nei viventi la confidenza, e massime in se
stesso: e questa è una qualità primitiva e naturale nell’uomo e nel
vivente, innanzi all’esperienza. ec. ec. Così pure l’uomo che ha perduto, o
per viltà e vizio, o per forza delle avversità e delle contraddizioni e
avvilimenti e disprezzi sofferti, la stima di se stesso, non è più buono a
niente di grande nè di magnanimo. E dicendo la stima, distinguo questa
qualità dalla confidenza, ch’è cosa ben diversa considerandola bene. (19.
Aprile 1821).
Per l’invenzione della polvere l’energia che prima avevano gli uomini
si trasportò alle macchine, e si trasformarono in macchine gli uomini,
cosicché ella ha cangiato essenzialmente il modo di guerreggiare.
Biblioteca Italiana t. 5. p. 31. Prospetto Storico-filosofico ec. del Conte
Emanuele Bava di S. Paolo, 2.o. ed ult. estratto. (23. Aprile 1821).
Che il verbo latino serpo sia lo stesso che il greco ἕρπο, è cosa
evidente, come pure i derivati, serpyllum etc. Ma che gli antichi latini, e
successivamente il volgo latino, usassero ancora, almeno in
composizione, lo stesso verbo senza la [984] s, come in greco, lo raccolgo
dal verbo neutro italiano inerpicare o innerpicare che significa appunto lo
stesso che il greco ἀνέρπω, composto di ἕρπο, cioè sursum repo, come
anche ανερπύζω. (Del verbo ἀνέρπω non ha esempio lo Scapula, ma lo
spiega sursum repo. Ve n’è però esempio in Arriano, Expedit. lib.6. c.10.
sect. 6. e nell’indice è spiegato sursum serpo.) Il qual verbo siccome non ha
radice veruna nella nostra lingua, nè nella latina conosciuta, così l’ha
evidentissima nel detto verbo ἕρπο, dal quale non può esser derivato, se
non mediante il latino, cioè mediante l’uso del volgo romano, differente
in questo dagli scrittori. (25 Aprile 1821).
Delle qualità e pregi della lingua Sascrita, vedi alcune cose estratte da
un articolo di Jones nelle Notizie letterarie di Cesena 1791. 24. Novembre
p. 365. colonna 1. Dell’abuso ch’ella fa talvolta de’ composti vedi ib. p.
363. colonna 2. fine. Abuso simile a quello che ne facevano talvolta gli
antichi scrittori, e massime poeti, latini, ma assai maggiore, secondo la
natura de’ popoli orientali che sogliono sempre e in ogni genere
spingersi fino all’ultimo e intollerabile eccesso delle cose. (25. Aprile
1821).
I latini erano veramente δίγλοττοι rispetto alla lingua loro e alla greca
1. perché parlavano l’una come l’altra, ma non così i greci generalmente,
anzi ordinariamente: 2. perché scrivendo citavano del continuo parole e
passi greci, in lingua e caratteri greci, ovvero usavano parole o frasi
greche nella stessa maniera; ma non i greci viceversa, del che vedi p. 981
e p. 1052 capoverso 3, e p. 2165. 3. Resta memoria di parecchie traduzioni
fatte dal greco in latino anche ne’ buoni tempi, e fino dagli ottimi scrittori
latini, come Cicerone. Ed anche restano di queste traduzioni, o intere o in
frammenti, come quelle di Arato fatte da Cicerone e da Germanico,
quella del Timeo di Cicerone, quelle di Menandro fatte da Terenzio,
quelle fatte da Apuleio o attribuite a lui, quelle dell’Odissea fatta da Livio
Andronico, dell’Iliade da Accio Labeone, da Cneo Mattio o Mazzio, da
Ninnio Crasso (FABRICIUS, Bibliotheca Graeca 1. 297.) ec. tutte anteriori a
Costantino. Vedi ANDRÈS, Storia della letteratura, ediz. di Venezia, Vitto. t.
9. p. 328. 329. cioè Parte 2. lib. 4. c. 3. principio. Non così nessuna
traduzione, che sappia io, si rammenta dal latino in greco, se non dopo
Costantino, e quasi tutte di opere teologiche o ecclesiastiche o sacre, cioè
scientifiche e appartenenti a quella scienza che allora prevaleva. Non mai
letterarie. (Vedi ANDRÈS, t. 9. p.330. fine.) La traslazione di Eutropio fatta
da Peanio che ci rimane, e l’altra perduta di un Capitone Licio, non pare
che si possano riferire a letteratura, trattandosi di un compendio
ristrettissimo di storia, fatto a solo uso, possiamo dire, elementare. [989]
E si può dire con verità quanto alla letteratura, che la comunicazione che
v’ebbe fra la greca e la romana, non fu mai per nessunissimo conto
reciproca, neppur dopo che la letteratura Romana era già grandissima e
nobilissima, anzi superiore assai alla letteratura greca contemporanea. 4.
I latini scrivevano bene spesso in greco del loro. Così fa molte volte
Cicerone nelle epistole ad Attico (forse anche nelle altre); dove forse per
non essere inteso dal portalettere, la qual gente, com’egli dice, soleva
alleviare la fatica e la noia del viaggio leggendo le lettere che portava;
ovvero per evitare gli altri pericoli di lettere vertenti sopra negozi
pubblici, politici ec. dal contesto latino passa bene spesso a lunghi
squarci scritti in greco, e tramezzati al latino, e scritti anche in maniera
enigmatica e difficile. Restano parecchie lettere greche di Frontone. Resta
l’opera greca di Marcaurelio, il quale imperatore scriveva parimente,
com’è naturale, in latino, e così bene, come si può vedere nelle sue lettere
ultimamente scoperte. Eliano, conosciuto solamente come scrittor greco,
fu di Preneste, e quindi cittadino Romano, ed appena si mosse mai
d’Italia. Nondimeno dice di lui Filostrato: ῾Pωµαῖος µὲν ἦν, ἠττίχιζε δὲ
ὥσπερ οἱ ἐν τῇ µεσογείᾳ ᾽Aϑηναῖοι (FABRICIUS III, 696. not.) 9 Non così i
greci sapevano mai scrivere in latino. Anzi Appiano in Roma scrivendo a
Frontone, uomo latino, sebbene di origine affricana, scriveva in greco, e
Frontone rispondeva parimente in greco, non in latino. E così molti libri
di autori greci si trovano, scritti in greco, sebbene indirizzati a personaggi
[990] romani o latini.
Le stesse cose appresso a poco si possono notare avvenute a noi
riguardo al francese. Giacché fino a tanto che la nostra letteratura
prevalse o per merito reale, o per continuazione di fama e di opinione
generale, e la nostra lingua era per tutti i versi più studiata, più
conosciuta, più dilatata fra i francesi ed altrove, e la nostra letteratura
parimente, sì nella nazione, che fra’ suoi letterati e scrittori; e si trovarono
di quei francesi che scrivevano in ambedue le lingue francese e italiana.
Ora accade tutto l’opposto: e si trovano degl’italiani, come anche non
pochi d’altre nazioni, che scrivono e stampano così nella lingua francese,
come nella loro: libri, parole, testi francesi si allegano continuamente in
tutti i paesi di Europa: non così viceversa in Francia, dove difficilmente si
troverà un francese che sappia scrivere altra lingua che la sua, e
scrivendo a’ forestieri scriveranno in francese, e riceveranno risposta
nella stessa lingua; e dove è più necessario che in qualunque altro paese
colto, che i passi o parole che si citano di libri forestieri, (e massime
italiani) si citino in francese, o se n’aggiunga la traduzione.
Osservo ancor questo. Ridotti in provincie romane i diversi paesi
dell’impero, tutti gli scrittori che uscirono di queste provincie, qualunque
lingua fosse in esse originaria o propria, scrissero in latino. I Seneca,
Quintiliano, Marziale, [991] Lucano, Columella, Prudenzio, Draconzio,
Giovenco, ed altri Spagnuoli; Ausonio, Sidonio Apollinare, S. Prospero,
S. Ilario, Latino Pacato, Eumenio, Sulpizio Severo ed altri Galli; Terenzio,
Marziano Capella, Frontone, Apuleio, Nemesiano, Tertulliano, Arnobio,
S. Ottato, Mario Vittorino, S. Agostino, S. Cipriano, Lattanzio ed altri
Affricani; Sedulio Scozzese. Vedi p.1014. Parecchi de’ quali arrivarono
ancora all’eccellenza nella lingua latina. Non così i greci. E dico tanto i
greci Europei, quanto quelli nativi delle colonie greche nell’Asia Minore,
o delle altre parti dell’Asia divenute greche di lingua e di costumi dopo
la conquista di Alessandro, e così dell’Egitto, o di qualunque luogo dove
la lingua greca prevalesse nell’uso quotidiano, ovvero anche solamente
come lingua degli scrittori e della letteratura. Nessuno di questi scrisse in
latino, ma tutti in greco, eccetto pochissimi (come Claudiano, e Igino
Alessandrini, Petronio Marsigliese ec.); che son quasi nulla rispetto al
numero ed estensione delle dette provincie greche, massime
paragonandoli alla gran copia degli altri scrittori latini forestieri di
ciascuna provincia, ancorché minore. E di questi pochissimi nessuno
arrivò, non dico all’eccellenza, ma appena alla mediocrità nella lingua
latina. Vedi p.1029. E Macrobio, che si stima uno di questi pochissimi, si
scusa se ec. (vedi il FABRICIO, Bibliotheca Latina t. 2. p.113. l.3. c.12. §.9. nota
a) e di lui dice Erasmo (in Ciceroniano) Graeculum latine balbutire credas.
(FABRICIO, ivi) Cosa applicabilissima agli odierni francesi per lo più
balbettanti nelle altrui lingue, e massime nella nostra. E di Ammiano
Marcellino, altro di questi pochissimi, e più antico di Macrobio, dice il
SALMASIO (Praef. de Hellenistica p.39.) ec. Vedi il Fabricio l. c. p. 99. nota b)
l.3. c. 12 §. 1.
[992] Ma del resto i greci di qualunque parte, ancorché sudditi
romani, ancorché cittadini romani, ancorché vissuti lungo tempo in
Roma o in Italia, ancorché scrivendo precisamente in Italia o in Roma, e
in mezzo ai latini, ancorché scrivendo ai romani tanto gelosi del
predominio del loro linguaggio, come sì è veduto p. 982. 983. ancorché
nel tempo dell’assoluta padronanza, ed intiera estensione del dominio
della nazione latina, ancorché impiegati in cariche, in onori ec. al servizio
de’ Romani, e nella stessa Roma, ancorché finalmente nominati con nomi
e prenomi latini, scrissero sempre in greco, e non mai altrimenti che in
greco. Così Polibio, familiare, compagno, e commilitone del minore
Scipione; così Dionigi d’Alicarnasso, vissuto 22 anni in Roma; così
Arriano prenominato Flavio (Fabricio, Bibliotheca Graeca III, 269, not. b)
fatto cittadino Romano, senatore, Console, caro all’imperatore Adriano, e
mandato prefetto di provincia armata in Cappadocia; così Dione
Grisostomo, cognominato Cocceiano dall’Imperatore Cocceio Nerva,
vissuto gran tempo in Roma, e familiare del detto Imperatore e di
Traiano; così l’altro Dione prenominato Cassio e cognominato parimente
Cocceiano ec.; così Plutarco ec.; così Appiano ec. così Flegone, ec.; così
Galeno prenominato Claudio ec.; così Erode Attico prenominato Tiberio
Claudio, ec.; così Plotino ec.; (vedi per ciascuno di questi il Fabricio) così
quell’Archia poeta ec. (vedi CICERONE, pro Archia).
Da tutto ciò si deduce in primo luogo, quanto, e con quanta differenza
dalle altre nazioni, i greci [993] di qualunque paese fossero tenaci della
lingua e letteratura loro, e noncuranti della latina, anche durante e dopo
il suo massimo splendore. Considerando ancora che generalmente gli
scrittori greci di qualunque età, e nominatamente i sopraddetti e loro
simili, che per le loro circostanze, parrebbono non solo a portata ma in
necessità di aver conosciuto la letteratura latina, non danno si può dir
mai segno veruno di conoscerla, nè la nominano ec. e se citano talvolta
qualche autore latino, li citano e se ne servono per usi di storia, di notizie,
di scienze, di teologia ec. non mai di letteratura. Questa è cosa universale
negli scrittori greci.
In secondo luogo risulta dalle sopraddette cose, che i mezzi usati dai
romani per far prevalere la loro lingua, come nelle altre nazioni, così in
Grecia, e ne’ moltissimi paesi dove il greco era usato, (vedi p. 982-83.)
laddove riuscirono in tutti gli altri luoghi, non riuscirono e furon vani in
questi. Ed osservo che la lingua latina non prevalse mai alla greca in
nessun paese dov’ella fosse stabilita, sia come lingua parlata, sia come
lingua scritta: laddove la greca avea prevaluto a tutte le altre in questi tali
(vastissimi e numerosissimi) paesi, e in quasi mezzo mondo; e quello che
[994] non potè mai la lingua nè la potenza nè la letteratura latina, lo potè,
a quel che pare, in poco spazio, l’arabo, e le altre lingue o dialetti
maomettani, (come il turco ec.) e così perfettamente, come vediamo
anche oggidì. Ma la lingua latina, (eccetto nella Magna Grecia e in Sicilia)
non solo non estirpò, ma non prevalse mai in nessun modo e in nessun
luogo alla lingua e letteratura greca, se non come pura lingua della
diplomazia: quella lingua latina, dico, la quale nelle Gallie aveva, se non
distrutta, certo superata quell’antichissima lingua Celtica così varia, così
dolce, così armoniosa, così maestosa, così pieghevole, (Annali 1811. n. 18.
p. 386. Notizie letterarie di Cesena 1792. p. 142.) e che al Cav. Angiolini che
se la fece parlare da alcuni montanari Scozzesi, parve somigliante ne’
suoni alla greca: (Lettere sopra l’Inghilterra, Scozia, ed Olanda. vol. 2do.
Firenze 1790. Allegrini. 8° anonime, ma del Cav. Angiolini; Notizie ec. l.
c.) lingua della cui purità erano depositarii e custodi gelosissimi quei
famosi Bardi che avevano e conservarono per sì lungo tempo, ancor
dopo la conquista fatta da’ Romani, tanta influenza sulla nazione, e
massime poi la letteratura: (Annali ec. l. c. p. 385.386. principio.) quella
lingua così ricca, e ogni giorno più ricca di tanti poemi, parte de’ quali
anche [995] oggi si ammirano. Questa lingua e letteratura cedette alla
romana; vedi p. 1012. capoverso 1. la greca non mai; neppur quando
Roma e l’Italia spiantata dalle sue sedi, si trasportò nella stessa Grecia.
Perocché sebbene allora la lingua greca fu corrotta finalmente di
latinismi, ed altre barbarie, (scolastiche ec.) imbarbarì è vero, ma non si
cangiò; e in ultimo, piuttosto i latini vincitori e signori si ridussero a
parlare quotidianamente e scrivere il greco, e divenir greci, di quello che
la Grecia vinta e suddita a divenir latina e parlare o scrivere altra lingua
che la sua. Ed ora la lingua latina non si parla in veruna parte del mondo,
la greca, sebbene svisata, pur vive ancora in quell’antica e prima sua
patria. Tanta è l’influenza di una letteratura estesissima in ispazio di
tempo, e in quantità di cultori e di monumenti; sebbene ella già fosse
cadente a’ tempi romani, e a’ tempi di Costantino, possiamo dire, spenta.
Ma i greci se ne ricordavano sempre, e non da altri imparavano a scrivere
che da’ loro sommi e numerosissimi scrittori passati, siccome non da altri
a parlare, che dalle loro madri. Vedi p. 996. capoverso 1. Certo è che la
letteratura influisce sommamente sulla lingua. (Vedi p. 766. segg.) Una
lingua senza letteratura, o poca, non difficilmente si spegne, o si travisa
in maniera non riconoscibile, non potendo ella esser formata, nè per
conseguenza troppo radicata e confermata, siccome immatura e
imperfetta. E questo accadde alla lingua Celtica, forse perch’ella
scarseggiava sommamente di scritture, sebbene abbondasse di
componimenti, che per lo più passavano solo di bocca in bocca. Non così
una lingua abbondante di scritti. Testimonio ne sia la Sascrita, [996] la
quale essendo ricca di scritture d’ogni genere, e di molto pregio secondo
il gusto orientale, e della nazione, vive ancora (comunque corrotta) dopo
lunghissima serie di secoli, in vastissimi tratti dell’India, malgrado le
tante e diversissime vicende di quelle contrade, in sì lungo spazio di
tempo. E sebbene anche i latini ebbero una letteratura, e grande, e che
sommamente contribuì a formare la loro lingua, tuttavia si vede ch’essa
letteratura, venuta, per così dire, a lotta colla greca, in questo particolare,
dovè cedere, giacché non solamente non potè snidare la lingua e
letteratura greca, da nessun paese ch’ella avesse occupato, ma neanche
introdursi nè essa nè la sua lingua in veruno di questi tanti paesi. (29.
Aprile. 1821). Vedi p. 999. capoverso 1.
Tanto era l’odio degli antichi (quanti aveano una patria e una società)
verso gli stranieri, e verso le altre patrie e società qualunque; che una
potenza minima, o anche una città solo assalita da una nazione intera
(come Numanzia da’ Romani), non veniva mica a patti, ma resisteva con
tutte le sue forze, e la resistenza si misurava dalle dette forze, non già da
quelle del nemico; e la deliberazione di resistere era immancabile, e
immediata, e senza consultazione vervna; e dipendeva dall’essere
assaliti, non [1005] già dalla considerazione delle forze degli assalitori e
delle proprie, dei mezzi di resistenza, delle speranze che potevano essere
nella difesa ec. E questa era, come ho detto, una conseguenza naturale
dell’odio scambievole delle diverse società, dell’odio che esisteva
nell’assalitore, e che obbligava l’assalito a disperare de’ patti; dell’odio
che esisteva nell’assalito, e che gl’impediva di consentire a soggettarsi in
qualunque modo, malgrado qualunque utilità nel farlo, e qualunque
danno nel ricusarlo, ed anche la intera distruzione di se stessi e della
propria patria, come si vede nel fatto presso gli antichi, e fra gli altri, nel
citato esempio di Numanzia.
Oggi per lo contrario, la resistenza dipende dal calcolo, delle forze,
dei mezzi, delle speranze, dei danni, e dei vantaggi, nel cedere o nel
resistere. E se questo calcolo decide pel cedere, non solamente una città
ad una nazione, ma una potenza si sottomette ad un’altra potenza,
ancorché non eccessivamente più forte; ancorché una resistenza vera ed
intera potesse avere qualche fondata speranza. Anzi oramai si può dire
che le guerre o i piati politici, si decidono a tavolino col semplice calcolo
delle forze e de’ mezzi: io posso impiegar tanti uomini, tanti danari ec. il
nemico tanti: resta dalla parte mia tanta inferiorità, o superiorità: dunque
assaliamo o no, cediamo ovvero non cediamo. [1006] E senza venire alle mani,
nè far prova effettiva di nulla, le provincie, i regni, le nazioni, pigliano
quella forma, quelle leggi, quel governo ec. che comanda il più forte: e in
computisteria si decidono le sorti del mondo. Così discorretela
proporzionatamente anche riguardo alle potenze di un ordine uguale.
In questo modo oggi il forte, non è forte in atto, ma in potenza: le
truppe, gli esercizi militari ec. non servono perché si faccia esperienza di
chi deve ubbidire o comandare ec. ec. ma solamente perché si possa
sapere e conoscere e calcolare, a che bisogni determinarsi: e se non
servissero al calcolo sarebbero inutili, giacché in ultima analisi il risultato
delle cose politiche, e i grandi effetti, sono come se quelle truppe ec. non
avessero esistito.
Ed è questa una naturale conseguenza della misera spiritualizzazione
delle cose umane, derivata dall’esperienza, dalla cognizione sì propagata
e cresciuta, dalla ragione, e dall’esilio della natura, sola madre della vita,
e del fare. Conseguenza che si può estendere a cose molto più generali, e
trovarla egualmente vera, sì nella teorica, come nella pratica. Dalla quale
spiritualizzazione che è quasi lo stesso coll’annullamento, risulta che
oggi in luogo di fare, si debba computare; e laddove gli antichi facevano
le cose, i moderni le contino; e i risultati una volta delle azioni, oggi sieno
[1007] risultati dei calcoli; e così senza far niente, si viva calcolando e
supputando quello che si debba fare, o che debba succedere; aspettando
di fare effettivamente, e per conseguenza di vivere, quando saremo
morti. Giacché ora una tal vita non si può distinguere dalla morte, e
dev’essere necessariamente tutt’uno con questa (1. Maggio 1821).
Alla p. 995. principio. Cedette alla romana in modo che nella moderna
lingua francese, per confessione del Bonamy (Discours sur l’introduction de la
langue latine dans les Gaules: dans les Mémoires de l’Ac. des inscriptions tome
XLI.), pochissime parole celtiche sono rimase; e nella provenzale, al dire
dell’Astruc. (Ac. des Inscr. tome 41.), appena trovasi una trentesima parte di
voci gallesi; siccome la lingua spagnuola tutta figlia della latina, non più
conserva alcun vestigio dell’antico parlare di quelle genti. (ANDRES, luogo cit.
di sopra, p. 252.) (4. Maggio 1821).
Che la lingua latina a’ suoi buoni tempi, e quando ella era formata, si
distinguesse in due lingue, l’una [1013] volgare, e l’altra nobile, usata da’
patrizi, e dagli scrittori (i quali neppur credo che scrivessero come
parlavano i patrizi) (ANDRÈS, l. c. p. 256. nota), che Roma al tempo della
sua grandezza avesse una lingua rustica, plebeia, vulgaris, un sermo
barbarus, pedestris, militaris, (Spettatore di Milano, Quaderno 97. p. 242.) è
noto e certo, senza entrare in altre quistioni, per la espressa
testimonianza di Cicerone. (Andrès, l. c.) Del quale antico volgare latino
parlerò forse quando che sia, di proposito. Ora si veda quanto fosse
impossibile che la lingua latina divenisse universale, mentre i soldati, i
negozianti, i viaggiatori, i governanti, le colonie ec. diffondevano una
lingua diversa dalla letterata, che sola avendo consistenza e forma, sola è
capace di universalità; e mentre l’unicità di una lingua, come ho detto
altrove, è la prima condizione per poter essere universale. Laddove la
latina, non solo non era unica nella sua costituzione e nella sua indole,
dirò così, interiore, come lo è la francese; ma era divisa perfino
esteriormente in lingue diverse, e, si può dir, doppia ec. (4. Maggio 1821).
Vedi p.1020. capoverso 1.
Alla p. 991. Così Beda inglese, nonostante che la sua lingua nazionale
(cioè l’anglo-sassone: (ANDRES, loc. cit., p. 1010, p. 255. fine) diversa dalla
Celtica, stabilita nella Scozia e nel paese di Galles) fosse adoperata anche
in usi letterarii, come si rileva da quello ch’egli stesso riferisce di un
Cedmone monaco Benedettino, illustre poeta improvvisatore nella sua
lingua. (ANDRES, p. 254.) Cosa la quale, se non altro, dimostra ch’ella era
una lingua già ridotta a una certa forma (lo riferirà forse il Beda nella
Storia Ecclesiastica degli Angli.) (5. Maggio 1821).
[1017] Dalla mia teoria del piacere seguita che l’uomo, desiderando
sempre un piacere infinito e che lo soddisfi intieramente, desideri sempre
e speri una cosa ch’egli non può concepire. E così è infatti. Tutti i
desiderii e le speranze umane, anche dei beni ossia piaceri i più
determinati, ed anche già sperimentati altre volte, non sono mai
assolutamente chiari e distinti e precisi, ma contengono sempre un’idea
confusa, si riferiscono sempre ad un oggetto che si concepisce
confusamente. E perciò e non per altro, la speranza è meglio del piacere,
contenendo quell’indefinito, che la realtà non può contenere. E ciò può
vedersi massimamente nell’amore, dove la passione e la vita e l’azione
dell’anima essendo più viva che mai, il desiderio e la speranza sono
altresì più vive e sensibili, e risaltano più che nelle altre circostanze. Ora
osservate che per l’una parte il desiderio e la speranza del vero amante è
più confusa, vaga, indefinita che quella di chi è animato da qualunque
altra passione: ed è carattere (già da molti notato) dell’amore, il
presentare all’uomo un’idea infinita (cioè più sensibilmente indefinita di
quella che presentano le altre passioni), e ch’egli può concepir meno di
qualunque [1018] altra idea ec. Per l’altra parte notate, che appunto a
cagione di questo infinito, inseparabile dal vero amore, questa passione
in mezzo alle sue tempeste, è la sorgente de’ maggiori piaceri che l’uomo
possa provare. (6. Maggio 1821).
La lingua cinese può perire senza che periscano i suoi caratteri: può
perire la lingua, e conservarsi la letteratura che non ha quasi niente che
far colla lingua; bensì è strettissimamente legata coi caratteri. Dal che si
vede che la letteratura cinese poco può avere influito sulla lingua, e che
questa non ostante la ricchezza della sua letteratura, può tuttavia e potrà
forse sempre considerarsi come lingua non colta, o poco colta. (7. Maggio
1821).
[1024] Sebbene la lingua Celtica fosse così bella ed atta alla letteratura,
e per conseguenza, formata, e stabilita e ferma (espressioni del
Buommattei in simil senso), come si vede oggidì ne’ monumenti che ne
avanzano, e come ho detto p. 994. fine; sebben fosse così antica e radicata
ec. nondimeno laddove i greci ancorché sudditi romani, e vivendo in
Roma o in Italia, scrivevano sempre in greco e non mai in latino, nessuno
scrittor gallo, nelle medesime circostanze, scrisse mai che si sappia in
lingua celtica, ma in latino. (9. Maggio 1821).
Del sogno d’istituire una lingua universale vedi ANDRES, loc. cit. qui
sopra, p. 320. e il Locke del Soave t. 2. p. 62-76. ediz. terza di Venezia
1794, (10 Maggio 1821).
La Bibbia ed Omero sono i due gran fonti dello scrivere, dice l’Alfieri
nella sua Vita. Così Dante nell’italiano, ec. Non per altro se non
perch’essendo i più antichi libri, sono i più vicini alla natura, sola fonte
del bello, del grande, della vita, della varietà. Introdotta la ragione nel
mondo tutto a poco a poco, e in proporzione de’ suoi progressi, divien
brutto, piccolo, morto, monotono. (11. Maggio 1821).
Alla p. 991. Eccetto il solo Fedro, o ch’egli fosse Trace, come è creduto
comunemente, (la lingua della letteratura in Tracia era la greca, come
mostrano Lino, Orfeo Traci, e il più recente Dionigi famoso gramatico
detto il Trace) o Macedone come vuole il Desbillons. (Disputat. 1. de Vita
Phaedri, praemissa Phaedri fabulis, Manhemii 1786. p. vedi seq.) La cui
latinità, sebbene a molti non pare eccellente e perfettissima certo però è
superiore al mediocre. (11. Maggio 1821).
Alla p. 988. Citavano ancora non rare volte i latini (come Cicerone nel
libro de Senectute) passi anche lunghi di scrittori greci recati da essi in
latino. Non così i greci viceversa, se non talvolta (e in tempi assai
posteriori anche ai principii della Chiesa greca) qualche passo di Padri o
scrittori ecclesiastici latini rivolto in greco; ma ben di rado, massime in
proporzione delle molte autorità di padri greci ec. che recavano i latini,
[1053] voltandoli nel loro linguaggio. E generalmente l’uso de’ padri ec.
latini nella Chiesa e scrittori greci, fu sempre senza paragone minore di
quello delle autorità greche nella Chiesa e Scrittori ecclesiastici latini, non
ostante la riconosciuta supremazia della Chiesa Romana. (15. Maggio
1821).
Non solo la greca parola ψυχή, come dissi altrove, deriva da spirare
ec. ma anche la latina animus e quindi anima da ἄνεµος, vento. Vedi
Sulzer, luogo cit. alla pag. qui dietro, p. 62. E l’antico significato di vento
nella parola anima fu spesso usato da’ latini. (Credo massime i più
antichi, o loro imitatori.) Vedi il Forcellini, e il Saggio sugli Errori popolari
degli antichi. (15 Maggio 1821).
[1056] Alla p. 1038. La lingua latina prima del detto tempo, ebbe anzi
alcuni scrittori veramente insigni, e come scrittori di letteratura, e come
scrittori di lingua; alcuni eziandio che nel loro genere furono così perfetti
che la letteratura romana non ebbe poi nessun altro da vincerli.
Lasciando gli Oratori nominati da Cicerone e principalmente i Gracchi (o
C. Gracco), lasciando tanti altri scrittori perduti, come alcuni comici
elegantissimi, basterà nominar Plauto e Terenzio che ancora ammiriamo,
l’uno non mai superato in seguito da nessun latino nella forza comica,
l’altro parimente non mai agguagliato nella più pura e perfetta e nativa
eleganza. E certo (se non erro) la Comedia latina dopo Cicerone e al suo
stesso tempo, andò piuttosto indietro, di quello che oltrepassasse il grado
di perfezione a cui era stata portata da’ suoi antenati. E pure chi mette la
perfezione della lingua latina, o la sua formazione ec. piuttosto nel secolo
di Terenzio, che in quello di Cicerone e di Virgilio? E Lucrezio un secolo
dopo Terenzio, si lagnava, com’è noto, della povertà della lingua latina.
Quanto più dunque dovrà valere il mio argomento per gli scrittori del
trecento. De’ quali eccetto tre soli, nessuno appartiene alla letteratura.
Ma non ostante la vastissima letteratura del cinquecento non però la
lingua italiana si potè ancora nè si può dire perfetta. Non basta
l’applicazione di una lingua [1057] alla letteratura per perfezionarla, ed
interamente formarla. Bisogna ancora che sia applicata ad una letteratura
perfetta, e perfetta non in questo o quel genere, ma in tutti. Altrimenti
ripeto che il secolo principale della lingua latina, non sarà quello di
Cicerone, ma di Plauto o di Terenzio, come secolo più antico e primitivo,
e meno influito da commercio straniero.
Ora lascerò stare che in quelle medesime parti di letteratura che più
soprastanno, e più furono coltivate in Italia; in quelle medesime dove noi
primeggiamo su tutti i forestieri, la nostra letteratura è ben lungi ancora
dalla perfezione e raffinatezza della greca e latina, che in queste tali parti
sono, e furon prese effettivamente a modelli, da’ nostri scrittori: e per
conseguenza propriamente parlando, sono ancora imperfette. Ma la
nostra eloquenza, e più la nostra filosofia (e nella filosofia trovava povera
la lingua latina Lucrezio) non sono solamente imperfette, ma neppure
incominciate. Quanti altri generi di letteratura, (prendendo questa parola
nel più largo senso), e di poesia come di prosa, o ci mancano affatto, o
sono in culla, o sono difettosissimi! Lasciando gl’infiniti altri, la lirica
italiana, quella parte in cui l’Italia, a parere del Verri (Pref. al Senofonte
del Giacomelli), [1058] e della universalità degl’italiani, è senza emola,
eccetto il Petrarca che spetta piuttosto all’elegia, chi può mostrare
all’Europa senza vergogna? Gli sforzi del Parini (veri sforzi e stenti,
secondo me) mostrano e quanto ci mancasse, e quanto poco si sia
guadagnato.
Oltracciò supponendo che i generi coltivati da noi nel 500. o anche nel
300. fossero tutti perfetti, chi non sa che uno stesso genere cambiando
forma ed abito, e quasi genio e natura, col cambiamento inevitabile degli
uomini e de’ secoli, la perfezione antica non basta ad una lingua nè ad
una letteratura, s’ella non ha pure una perfezione moderna in quello
stesso genere? Se Lisia fu perfetto oratore al tempo de’ 30. tiranni,
Demostene ed Eschine non meno perfetti oratori a’ tempi di Filippo e di
Alessandro, appartengono ad una specie del genere oratorio sì diversa
da quella di Lisia, che si può dire opposta (᾽ἰσχνός, e il δεινός); e certo
assolutamente parlando, lo vincono di molto in pregio ed in fama. E
potremmo recare infiniti esempi di tali rinnuovate e rimodernate
perfezioni di uno stesso genere, nelle medesime letterature antiche, e
nella stessa italiana dal 300 al 500, e forse anche dentro i limiti dello
stesso Cinquecento. Ora se la letteratura italiana non ha perfezione [1059]
moderna in nessun genere, anzi se l’Italia non ha letteratura che si possa
chiamar moderna, se ec. (ricapitolate il sopraddetto) come dunque la
lingua italiana si dovrà stimare perfetta, e così perfetta che non le si
possa niente aggiungere di perfezione nè di ricchezza (cosa che non
accade a nessuna cosa umana che pur si possa chiamare degnamente
perfetta); quando è costantissimo che nessuna lingua si perfeziona se non
per mezzo della letteratura? e che la perfezione delle lingue dipende
capitalmente dalla letteratura? (17. Maggio 1821).
Quello che ho detto intorno alla novità delle parole cavate dalla
propria lingua, si deve anche applicare alla novità de’ sensi e significati
d’una parola già usitata, alla novità delle metafore ec. Vedi Scelta di
opuscoli interessanti. Milano. vol. 4. p. 54.58-61. I quali nuovi e diversi
significati d’una stessa parola, non denno però esser tanti che dimostrino
povertà, e producano confusione, ed ambiguità, come nell’Ebraico. (20.
Maggio 1821).
Alla p. 807. marg. Dice Varrone che gli uomini (in sermones non solum
latinos, sed omnium hominum necessaria de causa) Imposita nomina esse
voluerunt quam paucissima, quo citius ediscere possent, intendendo per
nomi imposti, le parole radicali [1071] (Varro, De ling. lat. lib. 7.) (p. 2. del
I. libro de Analogia nella ediz. che ho del 400). (21. Maggio 1821).
Quelli che non sogliono mai far nulla, e che per conseguenza hanno
più tempo libero, e da potere impiegare, sono ordinariamente i più
difficili a trovare il tempo per una occupazione, ancorché di loro
premura, a ricordarsi di una cosa che bisogni fare, di una [1076]
commissione che loro sia stata data, e che anche prema loro di eseguire.
Al contrario quelli che hanno la giornata piena, e quindi meno tempo
libero, e più cose da ricordarsi. La cagione è chiara, cioè l’abito di
negligenza nei primi, e di diligenza nei secondi (22. Maggio 1821). E lo
stesso differente effetto si vede anche in una stessa persona, secondo i
diversi abiti e metodi temporanei di attività e diligenza, o inattività e
negligenza.
Alla p.761. Anzi questa facoltà de’ composti di due o più voci, è
proprissima anche oggidì del linguaggio italiano familiare (e credo anzi
del linguaggio familiare di tutte le nazioni, massime popolare): e
specialmente del toscano lo è stato sempre, e lo è. Il qual dialetto vi ha
molta e facilità e grazia; e il discorso ne riceve una elegante e pura novità,
ed una singolare efficacia; come tagliacantoni, ammazzasette, pascibietola,
(del Passavanti) frustamattoni, perdigiorno, pappalardo e simili voci
burlesche o familiari antiche e moderne. Sicché non si può dire che
questa medesima facoltà sia neppur oggi perduta: (giacché sarebbe
ridicolo l’impedire di fare altri composti simili ec.) nè che la nostra lingua
non ci abbia attitudine; e neppure che non si possano estendere oltre al
burlesco o familiare, giacché il burlesco o familiare di questi composti
deriva non tanto dalla composizione, quanto dalla natura delle voci che
li formano. Ma altre voci, purché fosse fatto con giudizio, e senza eccesso
[1077] di lunghezza, nè forzatura delle parti componenti, si potrebbero
benissimo comporre allo stesso modo, senza toglier nulla alla gravità, nè
indurre nessuna apparenza di buffonesco o di plebeo. E così fece
giudiziosamente il Cesarotti nell’Iliade, e credo anche nell’Ossian. Omero,
Dante, e tutti i grandi formano nomi dalle cose. Quintiliano, e tutti i Gramatici
l’approvano: quando calzino appunto, come qui, dove Tiberio schernisce la
cinquannaggine, che Gallo voleva, de’ magistrati. Davanzati (Annali di Tacito
Lib.2. c.36. postilla 3.) in proposito del verbo incinquare da lui formato per
rendere il latino quinquiplicare di Tacito. (23. Maggio 1821). Era però già
stato usato da Dante.
Il tempo di Luigi decimoquarto e tutto il secolo passato, fu veramente
l’epoca della corruzione barbarica delle parti più civili d’Europa, di
quella corruzione e barbarie, che succede inevitabilmente alla civiltà, di
quella che si vide ne’ Persiani e ne’ Romani, ne’ Sibariti, ne’ Greci ec. E
tuttavia la detta epoca si stimava allora, e per esser freschissima, si stima
anche oggi, civilissima, e tutt’altro che barbara. Quantunque il tempo
[1078] presente, che si stima l’apice della civiltà, differisca non poco dal
sopraddetto, e si possa considerare come l’epoca di un risorgimento dalla
barbarie. Risorgimento incominciato in Europa dalla rivoluzione
francese, risorgimento debole, imperfettissimo, perché derivato non dalla
natura, ma dalla ragione, anzi dalla filosofia, ch’è debolissimo, tristo,
falso, non durevole principio di civiltà. Ma pure è una specie di
risorgimento; ed osservate che malgrado la insufficienza de’ mezzi per
l’una parte, e per l’altra la contrarietà ch’essi hanno colla natura; tuttavia
la rivoluzione francese (com’è stato spesso notato), ed il tempo presente
hanno ravvicinato gli uomini alla natura, sola fonte di civiltà, hanno
messo in moto le passioni grandi e forti, hanno restituito alle nazioni già
morte, non dico una vita, ma un certo palpito, una certa lontana
apparenza vitale. Quantunque ciò sia stato mediante la mezza filosofia,
strumento di civiltà incerta, insufficiente, debole, e passeggera per natura
sua, perché la mezza filosofia, tende naturalmente a crescere, e divenire
perfetta filosofia, ch’è fonte di barbarie. Applicate a questa osservazione
le barbare e ridicolissime e mostruose mode (monarchiche e feudali),
come guardinfanti, pettinature d’uomini e donne ec. ec. che regnarono,
almeno in Italia, fino agli ultimissimi anni del secolo passato, e furono
distrutte in un colpo dalla rivoluzione (Vedi la lettera di Giordani a
Monti §. 4.) E vedrete che il secolo presente è l’epoca di un vero
risorgimento da una vera barbarie, anche nel gusto; e qui può anche
notarsi quel tale raddrizzamento della letteratura in Italia oggidì. (23.
Maggio 1821). Vedi p.1084.
Una delle prove evidenti e giornaliere che il bello non sia assoluto,
ma relativo, è l’essere da tutti riconosciuto che la bellezza non si può
dimostrare [1086] a chi non la vede o sente da se: e che nel giudicare
della bellezza differiscono non solo i tempi da’ tempi, e le nazioni dalle
nazioni, ma gli stessi contemporanei e concittadini, gli stessi compagni
differiscono sovente da’ compagni, giudicando bello quello che a’
compagni par brutto, e viceversa. E convenendo tutti che non si può
convincere alcuno in materia di bellezza, vengono in somma a convenire
che nessuno de’ due che discordano nell’opinione, può pretendere di
aver più ragione dell’altro, quando anche dall’una parte stieno cento o
mille, e dall’altra un solo. Tutto ciò avviene sì nelle cose che cadono sotto
i sensi, e queste o naturali, o, massimamente, artificiali, sì nella
letteratura ec. ec. Vedi a questo proposito il P. Cesari, Discorso ai lettori
premesso al libro De ratione regendae provinciae, Epistola M. T.
CICERONE, ad Q. Fratrem, cum adnott. et italica interpretat. Jacobi Facciolati;
accedit nuper eiusdem interpretatio A. C.. Verona, Ramanzini. Ovvero lo
Spettatore di Milano, Quaderno 75. p.177. dove è riportato il passo di
detto discorso che fa al mio proposito. (25. Maggio 1821).
Alla p. 1087. Eccetto alcuni ben pochi, come Descartes, Pascal ec. ed
altri tali, nessuno de’ quali appartiene propriamente alla provincia del
genio, anzi a quelle cose che lo distruggono, cioè alle scienze, ed al vero,
tanto più nemico del genio, quanto più profondo e riposto, benché non
iscavato nè scoperto, se non dal genio. (26. Maggio 1821).
[1092] Alla pagina 894. marg. Riferite pure agli stessi principii il
danno, le stragi, la miseria, l’impotenza per esempio dell’Italia ne’ bassi
tempi, di quell’Italia ch’era per altro animata di sì vivo, sì attivo, e spesso
sì eroico amor di patria. Ma di patria oscura, debole, piccola, cioè le
repubblichette, e le città, e le terre nelle quali era divisa allora la nazione,
formando tante nazioni, tutte, com’è naturale, nemiche scambievoli. Dal
che nasceva l’oscurità, la debolezza, la piccolezza delle virtù patrie, e il
poco splendore dello stesso eroismo esistente. Riferite agli stessi
principii, cioè alla soverchia divisione e piccolezza, e alla conseguente
moltiplicità delle nimicizie, il famosissimo danno, e l’estrema miseria del
sistema feudale. Riferitevi parimente il danno riconosciuto da tutti i savi
oggidì nel soverchio amore delle patrie private, cioè delle città, ovvero
anche delle provincie natali. Danno pur troppo ed evidente e gravissimo
oggi in Italia, per naturale conseguenza della sua divisione non solo
statistica o territoriale, (come ogni regno ec.) ma politica. Ed è osservabile
che l’amor patrio (intendo delle patrie private) regna oggi in Italia tanto
più fortemente e radicatamente, quanto è maggiore o l’ignoranza, o il
poco commercio, o la piccolezza di ciascuna città, o terra, o provincia
(come la Toscana); insomma in proporzione [1093] del rispettivo grado di
civiltà e di coltura. E in alcune delle più piccole città d’Italia l’amor
patrio, e l’odio de’ forestieri è veramente accanito. E così
proporzionatamente in Toscana, paese pur troppo rimaso indietro nella
coltura artificiale, non si sa come. E lo stesso dico degl’individui più
ignoranti ec. (26. Maggio 1821).
Altra prova che il bello è sempre relativo. Dice il Monti (Proposta ec.
vol.1. par.2. p.8. fine) che l’orecchio è unico e superbissimo giudice della
bellezza esterna delle parole. Ora per quest’orecchio, parlando di parole
italiane, non possiamo intendere se non l’orecchio italiano, e il giudizio
di detta bellezza esterna, varia secondo le nazioni, e le lingue. (28.
Maggio 1821).
[1100] L’uomo non si può muovere neanche alla virtù, se non per solo
e puro amor proprio, modificato in diverse guise. Ma oggi quasi nessuna
modificazione dell’amor proprio può condurre alla virtù. E così l’uomo
non può esser virtuoso per natura. Ecco come l’egoismo universale,
rendendo per ogni parte inutile anzi dannoso ogni genere di virtù
all’individuo, e la mancanza delle illusioni e di cose che le destino, le
mantengano, le realizzino, producono inevitabilmente l’egoismo
individuale, anche nell’uomo per indole più fortemente e veramente e
vivamente virtuoso. Perché l’uomo non può assolutamente scegliere
quello che si oppone evidentemente e per ogni parte all’amor proprio suo.
E perciò gli resta solo l’egoismo, cioè la più brutta modificazione
dell’amor proprio, e la più esclusiva d’ogni genere di virtù. (28. Maggio
1821).
Chiamano moderne le massime liberali, e si scandalezzano, e ridono
che il mondo creda di essere oggi solo arrivato al vero. Ma elle sono
antiche quanto Adamo, e di più hanno sempre durato e dominato, più o
meno, e sotto differenti aspetti sino a circa un secolo e mezzo fa, epoca
vera e sola della perfezione del dispotismo, consistente in gran parte in
una certa moderazione che lo rende universale, [1101] intero, e durevole.
Dunque tutta l’antichità delle massime dispotiche, cioè del loro vero ed
universale dominio nei popoli (generalmente e non individualmente
parlando), non rimonta più in là della metà del seicento. Ed ecco come
quel tempo che corse da quest’epoca sino alla rivoluzione, fu veramente
il tempo più barbaro dell’Europa civile, dalla restaurazione della civiltà
in poi. Barbarie dove inevitabilmente vanno a cadere i tempi civili:
barbarie che prende diversi aspetti, secondo la natura di quella civiltà da
cui deriva, e a cui sottentra, e secondo la natura de’ tempi e delle nazioni.
Per esempio la barbarie di Roma sottentrata alla sua civiltà e libertà, fu
più feroce e più viva: quella dei Persiani fu simile nella mollezza e nella
inazione e torpore, alla nostra. Ed ecco come il tempo presente si può
considerare come epoca di un nuovo (benché debole) risorgimento della
civiltà. E così le massime liberali si potranno chiamare risorte (almeno la
loro universalità e dominio); ma non mica inventate nè moderne. Anzi
elle sono essenzialmente e caratteristicamente antiche, ed è forse l’unica
parte in cui l’età presente somiglia all’antichità. Puoi vedere in tal
proposito la lettera di Giordani a Monti nella Proposta ec. vol.1. part.2.
alla voce Effemeride, dove Giordani discorre delle barbarie antiche
rinnovate oggi. (28. Maggio 1821).
Dal pensiero precedente e dagli altri miei sulla influenza somma del
linguaggio nella ragione e nelle cognizioni, deducete che una delle cause
principalissime e generalissime, e contuttociò puramente fisiche, della
inferiorità delle bestie rispetto all’uomo, e della immutabilità del loro
stato, è la mancanza degli organi necessari ad un linguaggio perfetto, o
ad un sistema perfetto di segni di qualunque genere. E mancando degli
organi mancano anche della inclinazione naturale ad esprimersi per via
di segni, e nominatamente per via della voce, e de’ suoni. Inclinazione
materiale e innata nell’uomo, e che tuttavia fu la prima origine del
linguaggio. Essendo certo per esperienza che l’uomo, ancorché privo di
linguaggio, tende ad esprimersi con suoni inarticolati ec. (28. Maggio
1821).
dice Virgilio (Aen. 5-614. seq.) delle donne Troiane solitarie sul lido
Siciliano. Non avrebbe già in questo senso potuto dire adspiciebant. Così
dal semplice di adspicere (cioè specere o spicere, verbo antico), participio
spectus, fecero spectare. Azione evidentemente continuatissima perché
spectantur quelle cose che domandano lungo tempo ad essere o vedute o
esaminate, come gli spettacoli ec., che non videntur, nè adspiciuntur
(propriamente), ma spectantur (e notate che adspicere, e specere o spicere
negli antichi, significano azione più lunga di intueri ec. ma adspectare e
spectare anche più lunga di loro; e così respectare dal quale abbiamo
rispettare che non è atto, ma abito, o azione abituale ec. e così gli altri
composti di spectare). Vedi p. 2275. ed Aen. VI 186. adspectans, e osservane
la forza, e nota che poteva egualmente dire adspiciens. Così dico dei
derivati e composti di spectare, come appunto spectaculum, come
exspectare azione continuata per sua natura, e che deriva da spectare, ed
esprime quasi il guardare lungamente e da lontano, che fa talvolta quegli
che aspetta, nello stessissimo modo che lo spagnuolo aguardar, aspettare.
(Vedi se vuoi la p. 1388. fine.)
Da raptus participio di rapere viene raptare cioè strascinare, azione
come ognuno vede, ben più continuata e lunga di rapere.
Così da captus participio di capere, si fa [1107] captare, che non importa
continuazione di capere o prendere, perché l’azione del prendere non si
può continuare, ma vale cercar di prendere, cioè in somma cercare,
accattare e simili; azione continuata. Vedi il Forcellini. E da acceptus di
accipere, acceptare, il cui significato continuativo si può vedere nel secondo
e 3.o esempio del Forcellini, che significano, non il semplice ricevere, ma
il costume continuato di ricevere, e dico continuato, e ben diverso dal
frequente. Vedi p.1148. Vedi exceptare in Virg. Georg. 3.274. e p.2348.
Da saltus antico participio di salire 10 (o dal supino saltum ch’è
tutt’uno) viene saltare. E qui la forza (dirò così) continuativa di questa
formazione di verbi, è manifestissima. Perché salire propriamente vale
saltum edere, e saltare, vale ballare ch’è una continuazione del salire, una
serie di salti.
Così da cantus antico participio di canere, abbiamo cantare, verbo che
significava primitivamente un’azione ben più continuata che il canere.
Da adventus antico participio di advenire procede adventare, che
significa l’azione continuata di avvicinarsi, o stare per arrivare, laddove
advenire significa l’atto del giungere o del sopravvenire.
[1108] Del verbo tentare dice il Forcellini che deriva a supino TENTUM
verbi TENEO. Est enim (notate) diu et multum tenere ac tractare, ut solent
quippiam exploraturi. Vedi p. 2344. e p. 1992. principio.
Così rictare da rictus di ringi, dictare da dictus participio del verbo
dicere, e ductare da ductus del verbo ducere, e nuptare da nuptus di nubere, e
flexare del vecchio Catone da flexus ec. adfectare da adfectus participio di
adficere, e adflictare da adflictus di adfligere; e volutare da volutus di volvere; e
consultare da consultus di consulere; commentari e commentare da
commentus di comminisci e comminiscere; natare dall’antico natus o natum di
nare; e reptare (di cui vedi se vuoi, Forcellini) da reptus o reptum di repere; e
offensare da offensus di offendere; e argutare ed argutari (vedi Forcell. da
argutus di arguere; e occultare da occultus di occulere; e pressare da pressus di
premere (gl’ital. i franc. ec. e il glossar. hanno anche oppressare da
oppressus); vedi p. 2052. 2349. e vectare da vectus di vehere. Vedi nel
Forcellini gli es. i quali dimostrano che subvectare e convectare denotano
propriamente il costume e il mestiere di subvehere ec.
Sectari che importa (chi ben l’osserva) un’azione più continuata e
durevole che il verbo sequi, deriva senza fallo da secutus, participio di
questo verbo, contratto in sectus. O piuttosto da principio dissero secutari,
e poi per contrazione sectari. E acciò che questa sincope non si stimi un
mio supposto (un ritrovato, un’immaginazione), ecco il verbo francese
exécuter, e lo spagnuolo executar, vale a dire in latino executari, composto
di secutari. Anzi io credo che questa prima forma del verbo sectari abbia
durato nel volgare latino fino all’ultimo; e lo credo tanto a cagione dei
detti verbi francese e spagnuolo, quanto perché il nostro seguitare non
par che derivi da altro che da secutari o sequutari, come seguire da sequi.
Giacché da sectari non avremmo fatto seguitare, ma settare, come affettare
da adfectare, [1109] e così altre infinite parole. Del resto anche seguitare
presso noi ha propriamente un senso più continuato che seguire. Vedi p.
2117. fine.
Sia poi che l’antico volgare latino, o che quello de’ tempi bassi, o
quelli finalmente che ne derivarono, li ponessero in uso; certo è che le
nostre lingue figlie della latina abbondano di verbi formati dal participio
di altri verbi simili latini antichi, laddove questi nuovi verbi non si
trovano nella buona latinità; come usare (Glossar. abusare ec. da usus di
uti, ec., inventare da inventus participio d’invenio, infettare da infectus
participio d’inficio, traslatare da translatus di transferre, benché da questo
verbo gl’italiani abbiano anche trasferire; (translatare è nel Glossario.)
fissare e ficcare (fixer, fixar) da fixus ec. (Glossario fixare oculos.); disertare,
déserter ec.; despertar da experrectus di expergiscere; vedi p. 2194; votare da
votus di vovere; (Glossar. da junctus di jungere lo spagnuolo juntar, (non è
nel Glossar. bensì Juncta per Giunta, voce presa da scrittori spagnuoli
latinobarbarici); invasare da invasus di invadere; (il Gloss. ha invasatus, cioè
obsessus a daemone) confessare (Glossar. da confessus di confiteri; e così mille
altri. Vedi p. 1527. e 2023. (I due primi verbi non si trovano nel Du
Fresne). Vedi p. 1142. Parecchi de’ quali stanno nelle lingue nostre in
cambio de’ loro primitivi latini, usciti d’uso, e pare che nel formarli non
si avesse più riguardo alla natura de’ verbi continuativi.
A questo proposito tornerà bene di avvertire una svista del Monti
(Proposta di alcune correzioni ed aggiunte al Vocab. della Crusca. vol. 1. par. 2.
Milano 1818. alla vedi allettare. p.42. seg.), il quale dice e sostiene che il
nostro ALLETTARE (e per conseguenza il latino adlectare ch’è lo stesso che
il nostro, come afferma lo stesso Monti p.43.) viene da LETTO, come da
LATTE ALLATTARE, da ESCA ADESCARE, da LENA ALLENARE ed altri a man
piena; che significa Dar letto, e Perché poi il letto è riposo, e il riposarsi è
soavissima e giocondissima cosa, [1110] ne seguì che ALLETTARE, ossia
APPRESTARE IL LETTO, divenne subito per metafora INVITAR CON LUSINGHE; e a
poco a poco la prepotente forza dell’uso fe’ sì che il senso traslato si mise in luogo
del proprio e ne usurpò le funzioni. Questa etimologia, se per avventura non è
tortamente dedotta, potrebbe di leggieri aprire la strada a trovare anche l’altra di
DILETTARE e DILETTO con tutti i lor derivati, per conseguenza(dico io) del latino
delectare, illectare, oblectare e simili. E nega che questi verbi abbiano niente che
fare con allicere al quale dà tutt’altra etimologia. (p.44.)
Lascio stare che quel significato metaforico, e la successiva
metamorfosi del significato di allettare, se a lui par naturale, a me pare del
solito conio delle etimologie famosissime, e che tutto il filo de’ suoi
ragionamenti si romperebbe e troncherebbe facilmente per esser troppo
sottile e debole in questo punto. Ma egli non ha veduto che adlectare (e
quindi allettare) fu formato da adlectus participio di adlicio nello
stessissimo modo che i tanti verbi soprammentovati, e i tanti altri che si
potrebbero mentovare. Ora allettare è azione continuata, e così oblectare
che significa trastullare ec. e così dilettare ec. Laddove adlicere è
propriamente l’atto del tirare, prendere, [1111] indurre colle lusinghe. E il
suo semplice lacio che significa ingannare, indurre in fraude è parimente
significativo di azione non continuata. Laddove lactare formato da lacere
(diverso da quello formato da lac) significa propriamente un’azione
continuata, appresso a poco la stessa che adlectare o allettare. Vedi p. 2078.
Giacché anche nell’etimologia del verbo adlicere s’inganna il Monti (p.44.)
facendolo derivare dal licium o liccio degl’incantamenti amorosi. La sua
etimologia, dic’egli, di cui non trovo chi sappia darmi un sol cenno, a
tutto mio credere è questa. Ma avrebbe trovata la vera etimologia nel
Forcellini vedi allicio, e vedi lacio. Adlicio dunque (come inlicio ec. ec.) è
composto di ad e lacio (che deriva da lax, fraus) mutata per la
composizione la a in i, come in adficio da facio, in adjicio da jacio ec. ec. Del
resto sebben diciamo volgarmente e comunemente allettare per porre a
letto, e allettarsi per mettersi a letto, questo è un verbo tanto differente
dall’adlectare, sebbene uniforme nel suono, quanto è differente nel
significato e nell’origine, e uniforme nel suono, letto participio di leggere,
da letto nome sostantivo. Vedi il passo di Cicerone addotto dal Monti, e
provati di sostituirvi adlicere ad adlectare, se il puoi. In luogo che adlectare
venga da lectus, (Festo) dubito che lectus (sustantivo) venga da adlicere.
Forcell. in Lectus, i.
Non bisogna confondere questo genere di verbi che io chiamo
continuativi, e che significano continuazione o maggior durata
dell’azione espressa da’ loro verbi originari, con quello de’ verbi
frequentativi, [1112] che importano frequenza della medesima azione, e
hanno al tempo stesso una certa forza diminutiva. Questi (lasciando i
frequentativi coll’infinito in essere che non possono esser confusi co’
nostri continuativi) si formano essi pure dal participio in us o dal supino
in um, di altri verbi, troncandone la desinenza, ma sostituendo in sua
vece non la semplice terminazione infinita are, o ari, bensì quella d’itare, o
itari se il verbo da cui si formano è deponente (o passivo.) Così da lectus
participio di legere, lectitare; così da victus o victum di vivere, victitare; da
missus di mittere, missitare; da scriptus di scribere, scriptitare; da esus di
edere, esitare; da sessus o sessum di sedere, sessitare; da emptus di emere,
emptitare; da factus di facio, factitare; da territus di terreo, territare; da ventus
di venio, (o dal sup. ventum), ventitare; da lusus di ludere, lusitare; da haesus
o haesum di haerere, haesitare; da sumptus di sumere, sumptitare; da risus di
ridere, risitare di Nevio. Eccetto però il caso che il participio o supino di
quel verbo dal quale si doveva formare il frequentativo, cadesse in itus o
itum, che allora sarebbe stato assai duro aggiungendo la terminazione
itare, o itari, fare ititare, o ititari. In questo caso dunque troncata la
desinenza us o um del participioo del supino aggiungevano la semplice
desinenza are o ari, con che però il frequentativo veniva nè più nè meno a
cadere in itare o itari. Così da venditus di vendere facevano venditare (non
vendititare); da meritus di merere, meritare; (il quale par continuativo e
talora denotante costume), da pavitus antico part. di pavere, pavitare; da
solitus ec. solitare; da latitus, antico participio, o da latitum antico sup. di
latere, fecero latitare; [1113] da monitus di monere, monitare; da domitus di
domare, domitare; da dormitus o dormitum di dormire, dormitare; da licitus di
liceri, licitari; da vomitus di vomere, vomitare; da territus, territare; da itus o
itum del verbo ire, itare; da pollicitus di polliceri, pollicitari; da exercitus part.
di exercere, exercitare; da citus part. di cieo, citare, e i suoi composti; da
strepitus o strepitum antico supino o participio di strepere, e da crepitus o
crepitum di crepare, strepitare e crepitare; da scitus di sciscere o di scire scitari,
sciscitare e sciscitari; da noscitus o noscitum antico sup. o part. di noscere,
noscitare; da agitus antico particip. di agere, contratto poscia in agtus, e
finalmente mutato in actus, agitare. La quale eccezione merita d’esser
notata, giacché in questi casi la formazione de’ frequentativi non
differisce da quella de’ continuativi, e si potrebbero confonder tra loro.
Ed anche qualche verbo terminato in itare o itari, ma formato da un
participio o sup. in itus o itum, apparterrà o sempre o talvolta ai
continuativi, (come per esempio agitare, domitare ec. e vedi Forcellini in
tinnito) vale a dire non cadrà in detta desinenza, se non per esser derivato
da un tal participio o supino. Vedi p. 1338. principio. Minitari e minitare
formati da minatus di minari e minare, sono così fatti o per contrazione, e
troncamento non solo dell’us ma dell’atus del participio, affine di
sfuggire il cattivo suono atitare; o per mutazione dell’a del participio in i,
fatta allo stesso effetto. Similmente rogitare da rogatus di rogare, coenitare
da coenatus di coenare. Vedi p. 1154. Vedi p.1656. capoverso 1.
Mi sono allungato in questo discorso, ed ho voluto spiegare
distintamente tutte queste cose, perché non mi paiono osservate dai
Gramatici nè da’ vocabolaristi. Il Forcellini chiama indifferentemente
frequentativi, tanto i verbi in itare o itari, come quelli che io chiamo
continuativi. E s’inganna, perché [1114] la differenza sì della formazione
sì del significato, fa chiara la differenza di queste due sorte di verbi. Per
esempio raptare, ch’egli chiama frequentativo di rapere e che significa
strascinare, ognun vede che quest’azione non è frequente ma continuata.
E se i latini avessero voluto fare un frequentativo di rapere, dal participio
raptus avrebbero fatto raptitare e non raptare, anzi Gellio fa menzione
effettivamente di tal verbo raptitare, 9. 6. nel qual luogo puoi vedere molti
esempi di tali frequentativi in itare formati (com’egli pur nota) da’
participii de’ verbi originarii. E i verbi augere, salire, jacere, prehendere o
prendere, currere, mergere, defendere, capere, dicere, ducere, facere, vehere,
venire, pendere, gerere e altri tali che hanno i loro continuativi, auctare,
saltare, iactare, prehensare o prensare, cursare, mersare, defensare, captare,
dictare, ductare (che i gramatici chiamano contrazione di ductitare e
sbagliano), vedi p. 2340. factare, vectare, ventare, pensare, gestare, formati
tutti dal loro participio o supino, secondo le leggi da noi osservate; hanno
pure i frequentativi auctitare, saltitare, iactitare, prensitare, cursitare,
mersitare, defensitare, captitare, dictitare, ductitare, factitare, vectitare,
ventitare, pensitare, gestitare, distinti per forma e per significato proprio
dai detti continuativi, e non derivati (certo ordinariamente) da questi,
(come va dicendo qua e là il Forcellini) ma immediatamente da’ verbi
originarii. Vedi p. 1201. Il verbo videre, da cui nasce il verbo continuativo
anomalo visere (in luogo di visare), ha pure il suo frequentativo visitare,
dal participio [1115] visus comune a videre col suo continuativo visere, e
ciò per anomalia. Legere e scribere, che hanno i loro frequentativi ec. si
crede ancora che abbiano i continuativi lectare e scriptare de’ quali vedi il
Forcellini vedi Lecto, che non sono frequentativi, nè lo stesso che lectitare
e scriptitare, come dice esso Forcellini ib. e vedi Scripto. Così pure del
verbo vivere che ha il frequentativo victitare, credono alcuni di trovare in
Plauto victare (Captiv. vedi 1. 1. V. 15.) Da prandere che ha il frequentativo
pransitare, noi abbiamo pransare che oggi si dice pranzare, ma pranso agg. o
partic. e sost. si trova nel Caro e in Dante. (ALBERTI) Vedi i Diz. spagnuoli.
Vedi p. 2194. Vedi p. 1140. e 2021. Da mansus di manere si ha mantare (per
mansare), e mansitare. Vedi p. 2149. fine.
Anzi non solo i gramatici non distinguono ch’io sappia il
frequentativo dal continuativo, ma neppur conoscono, per quello ch’io
sappia, questo genere di verbi, che è pur così numeroso, e importante, e
che io chiamo continuativo con voce nuova, perché nuova è
l’osservazione.
Ben è tanto vero, quanto naturale e inevitabile che le significazioni e
proprietà primitive de’ verbi continuativi, frequentativi, originarii,
furono molte volte confuse nell’uso, non solo della barbara latinità, o
delle lingue figlie, ma degli stessi buoni ed ottimi scrittori, massime da’
non antichissimi. E si adoperò per esempio il continuativo nel significato
del suo primo verbo; o perduto il primo verbo restò solo il continuativo,
e s’adoprò in vece di quello (come noi italiani, francesi ec. diciamo saltare
ec. per quello che i buoni latini dicevano salire, verbo oggi perduto in
questa significazione, e trasferito ad un’altra ec. ec. vedi p. 1162. e per lo
latino saltare, diciamo ballare, danzare ec.); o forse anche il continuativo
talvolta prese la forza del [1116] frequentativo, o qualche volta viceversa;
o finalmente il verbo positivo si adoprò in vece del continuativo disusato
o no. Differenze menome, e quasi metafisiche, difficilissime o impossibili
a conservarsi nelle lingue anche coltissime, e studiatissime; e gelosissime,
anzi severissime della proprietà, come la latina; e che dileguandosi
appoco appoco, danno luogo alla nascita de’ sinonimi, de’ quali vedi p.
1477. segg. E il Forcellini nota molte volte che il tale e tale frequentativo è
spesso ed anche sempre usato nel senso medio del suo positivo, nè perciò
veruno dubita o dell’esistenza di questo genere di verbi, o che quei tali
non sieno frequentativi propriamente e originariamente. I verbi formati
nuovamente da’ participi nelle lingue figlie della latina, non hanno
ordinariamente se non la forza del positivo latino. Vedi p. 2022.
Questa facoltà de’ continuativi, è una delle bellissime facoltà, non
ancora osservata, con cui la lingua latina diversificando regolarmente i
suoi verbi e le sue parole, le adattava ad esprimere con precisione le
minute differenze delle cose, e traeva dal suo fondo tutto il possibile
partito, applicandolo con diverse e stabilite inflessioni e modificazioni a
tutti i bisogni del linguaggio; e si serviva delle sue radici per cavarne
molte e diverse significazioni, distintissime, chiare, certe, e senza
confusione; e moltiplicava con sommo artifizio e poca spesa la sua
ricchezza, e accresceva la sua potenza. Questa facoltà manca alla lingua
italiana, la qual pure si è fatti i suoi nuovi verbi frequentativi e
diminutivi, formandoli da’ verbi originarii con modificazioni di
desinenza. Verbi derivati, che ora hanno la sola forza frequentativa, come
appunto spesseggiare e pazzeggiare, passeggiare ec. punteggiare, da punto o
da pungere ec. ora la sola diminutiva, come tagliuzzare, sminuzzolare,
albeggiare [1117] (formato però non da altro verbo, ma da nome, come
altri pure de’ precedenti; che così pure usa felicemente l’italiano),
arsicciare (siccome in lat. ustulare, che anche i latini hanno i loro verbi
puramente diminutivi); ora l’una e l’altra insieme al modo de’ verbi latini
in itare, come canticchiare, canterellare, formicolare ec. (vedi il Monti a
questa voce, e alla vedi frequentativo). E di altre tali formazioni di verbi e
d’altre voci; formazioni arditissime, utilissime a significare le differenze
delle cose, e moltiplicare l’uso delle radici, senza confondere i significati,
abbonda la lingua italiana in modo singolare, e più (credo io) che la
latina, e la stessa greca. Ma de’ continuativi manca affatto, se alle volte
non dà (come mi pare) questo o simile significato a qualche
frequentativo, o vogliamo spesseggiativo. Vedi p. 1155. Manca pure,
cred’io, la detta facoltà alla lingua greca, sì gran maestra nel diversificare
e modificare le sue radici, e moltiplicare le significazioni; ma per
affermarlo mi bisognerebbe più lunga considerazione. E nella stessa
lingua latina, ch’ebbe questa bella facoltà da principio, sembra che poi
andasse in disuso, e in dimenticanza, continuando forse talvolta ad
usarsi, con formare nuovi verbi di tal fatta, ma con una nozione confusa e
non precisa del valore di tal formazione, e con significato non ben
distinto dagli altri verbi; come fecero pure de’ continuativi già formati e
introdotti. [1118] Giacché negli stessi antichi gramatici o filologi latini de’
migliori secoli, non trovo notizia nè osservazione positiva di questa
proprietà della loro lingua. Vedi p. 1160.
Vo anche più avanti e dico che, secondo me, quasi tutti i verbi latini
terminati nell’infinito in tare o tari (dico tare, non itare) non sono altro che
continuativi di un verbo positivo o noto o ignoto oggidì, e spesso andato
anticamente in disuso, restando solo i suoi derivati, o il suo continuativo,
adoperato quindi bene spesso in vece sua. E credo che l’infinito di detti
verbi in tare o tari, indichino il participio del verbo positivo, o il supino,
troncando la desinenza in are o ari, e ponendo quella in us o in um. Come
optare, secondo me, dinota un participio optus di un verbo primitivo e
sconosciuto, di cui optare sia il continuativo. E mi conferma in questa
opinione il vedere in alcuni di questi verbi conservato per anomalia come
abbiamo notato in visere, un participio che non pare appartenente se non
ad un altro verbo primitivo, e dal qual participio medesimo io credo
formato quel verbo che rimane. Per esempio il verbo potare, che, oltre
potatus, ha il participio potus. Io credo che questo participio anomalo in
detto [1119] verbo, non sia contrazione di potatus, come dicono i
gramatici, ma participio regolare di un verbo che avesse il perfetto povi,
come motus ha il perfetto movi, fotus ha fovi, votus vovi, notus novi da nosco,
di cui notare è continuativo, e fa nel participio non già notus ma notatus. E
la prima voce indicativa di detto verbo originario di potare, sarebbe stata
poo, ché appunto da πόω verbo greco antico e disusato in questa e nella
più parte delle sue voci, stimano i gramatici che derivi potare.
(Forcellini.) Ed osservo che la propria significazione di potare è infatti
continuativa, e denota azione più lunga che il verbo bibere, come può
sentire ogni orecchio avvezzo alla buona e vera latinità. Saepe est largius
vino indulgere, poculis deditum esse, dice il Forcellini di esso verbo. Onde
potatio non è propriamente il bere ma beveria ec. cioè un bere continuato,
come si può vedere ne’ due primi esempi del Forcellini, che sono di
Plauto e Cicerone laddove nel terzo ch’è di Seneca, vale lo stesso che
potio, cioè bevuta, per la improprietà di quello scrittore più moderno, e
meno accurato. E vedete appunto che potio parola derivata da potus
participio del verbo perduto ch’io dico, significa azione poco continuata,
cioè una semplice bevuta: Cum ipse poculum dedisset, [1120] subito illa in
media potione exclamavit, (CICERONE,) cioè nell’atto di bere. Laddove potatio
formata da potatus di potare, significa beveria, come ho detto, e non si
potrebbe propriamente e convenientemente esprimere con una voce
formata dal verbo bibere. Osservazione, secondo me, assai forte, e che
serve a dimostrare e confermare sì l’esistenza del detto verbo originario
di potare, ed avente il participio potus, sì tutta la mia teoria de’ verbi
continuativi.
Rechiamo un altro esempio di tali participi anomali dinotanti
l’esistenza di un verbo primitivo, di cui quel verbo che resta ed ha detto
participio, è, al mio credere, il continuativo. Auctare, come vedemmo p.
1114. è continuativo di augere dal suo participio auctus, ed ha il participio
auctatus. Mactare è lo stesso che magis auctare, ma oltre mactatus, ha il
participio mactus. E siccome mactatus è magis auctatus, così mactus (e lo
dice espressamente Festo) è magis auctus. Ecco dunque evidente un antico
e disusato verbo magere o maugere cioè magis augere, di cui mactus è il
participio, e mactare il continuativo formato dal participio mactus che
impropriamente se gli attribuisce. Vedi p. 1938. capoverso 1. e p. 2136. e
2341.
Il verbo stare, secondo me, indubitatamente è continuativo del verbo
esse formato da un antico participio o supino di questo verbo, come stus
o stum, [1121] piuttosto da situs o situm, contratto in stus o stum. 11 O
forse da prima si disse sitare, come secutari, e solutare da cui soltar per
solvere, come ho detto p. 1527. e voltare per volutare ec. L’analogia fra il
verbo essere e stare si vede nel nostro particolare stato di essere, e nel
franc. été, sebbene i francesi non hanno il verbo stare. Del qual participio
situs abbiamo un indizio manifesto nel sido spagnuolo, ch’è participio
appunto di ser essere. E forse sussiste ancora il detto participio nel situs
dei latini che significa collocato, ma che spesso è usurpato dagli scrittori
in significato somigliantissimo a quello di un participio del verbo essere,
e che il Vossio con pessima grazia fa derivare da sinere. È noto che presso
Plauto (Curcul. 1.1.89.) alcuni leggono site in significato di este, dal che
verrebbe situs, così naturalmente come auditus da audite; e che l’antica
congiugazione del presente indicativo di esse, era, secondo Varrone, (de
L. L. l.8. c.57.) esum, esis, esit; esumus, esitis, esunt. Del rimanente lo stesso
Forcellini avvertendo che il verbo stare si trova adoperato più volte in
luogo di esse, soggiunge, cum aliqua significatione diuturnitatis (vedi sto), (e
ne reca gli esempi), cioè, dico io, secondo la primitiva proprietà di esso
verbo che è continuativo di esse. Adsentari che il Forcell. dice esser lo
stesso che adsentiri, forse non è altro che un suo continuativo o
frequentativo anomalo o contratto da adsentitari o per adsensari. Nel
Glossario Isidoriano (op. Isid. t. ult. p.487.) si trova: SENTITARE, in animo
sensim diiudicare. Vedi p. 2200. Vedi p. 1155. e p. 2145. fine e p. 2324. fine.
A me par di poter asserire, 1. che tutti o quasi tutti i verbi latini
radicali (intendo non composti, non derivati, non formati da nomi, come
populo da [1122] populus, o da altre voci), e regolari, cioè non soggetti ad
anomalie, constano sempre di una sola sillaba radicale e perpetua, e la
più parte di tre sole lettere radicali (al modo appunto de’ verbi ebraici);
come parare, docere, legere, facere, dicere, dove le lettere radicali e costanti
sono par, doc, leg, fac, dic. Talvolta di più lettere radicali, ma pure di una
sola sillaba, come scribere (che anticamente facea scribsi e scribtum ec. e
così gli altri verbi simili, mutato il b in p o viceversa ec. come puoi vedere
nel Frontone), dove le lettere radicali sono cinque: scrib, e la sillaba è
nondimeno una sola. Talvolta di una sillaba parimente, e di sole due
lettere come amare le cui lettere radicali sono am, e così anche ponere,
cedere e simili, dove le lettere perpetue sono solamente po e ce, facendo
posui, positum, positus; cessi, cessum, cessus: ma questi tali anderebbero
piuttosto fra’ verbi anomali. Potranno dire che il g di legere non si
conserva nel supino lectum e nel participio; che l’a di facere si perde nel
perfetto feci, e il c di dicere in dixi. Ma dixi contiene evidentemente il c,
essendo lo stesso che dicsi; e il g di legere si muta nel supino e participio in
c per più dolcezza; non però si perde nè si trascura come l’o di lego, e
come le altre lettere e sillabe che servono alla sola inflessione de’ verbi.
[1123] E così dite dell’a di facere, mutata nel perfetto in e, o per dolcezza, o
per arbitrio, o per innovazioni introdotte dal tempo, e non primitive; ma
in ogni modo, mutata e non omessa. Così texi e tectum di tegere, sono lo
stesso che tegsi e tegtum. Vedi p. 1153.12
2. Dico che tutti i suddetti verbi radicali e regolari, avendo una sola
sillaba radicale, hanno due sole sillabe nella prima persona presente
singolare indicativa, due parimente nella terza persona, (come i verbi
ebraici nella terza persona del perfetto ch’è la loro radice) e tre
nell’infinito.
3. Dico che tutti, o almeno quasi tutti i verbi latini regolari che hanno
più di una sillaba radicale, più di due sillabe nella prima e terza persona
presente singolare indicativa, più di tre sillabe nell’infinito; non sono
radicali, ancorché paiano, ma derivati, ancorché non si trovi da che fonte.
Bisogna eccettuare da queste regole i verbi regolari della quarta
congiugazione che hanno due sillabe radicali e perpetue, come audi in
audire. Bisogna, dico, eccettuarli quanto alla regola di una sola sillaba
radicale, non quanto a quella di due sole [1124] sillabe nella prima e terza
persona indicativa, e di tre sole nell’infinito. Nell’infinito, audire, sentire
ec. è chiaro che hanno tre sole sillabe. Così nella terza persona indicativa
è chiaro che ne hanno due sole, audit, sentit. Nella prima persona audio,
sentio pare che n’abbiano tre. Ma io non dubito che anticamente non si
contassero queste e siffatte voci per composte di due sole sillabe,
considerando e pronunziando per esempio l’io di audio, come dittongo.
Al modo stesso che queste vocali così congiunte sono effettivi dittonghi
nella lingua italiana, tanto più somigliante nelle forme sì del discorso, sì
delle parole, sì della pronunzia, alla lingua latina antica, di quello che
somigli all’aurea latinità.
Così l’antica pronunzia de’ dittonghi greci che si pronunziavano
sciolti, non impediva che si considerassero come formanti una sola
sillaba. De’ quali dittonghi parlerò poco appresso. Vedi p. 1151. fine. e
2247.
Queste considerazioni indeboliscono assai anche l’eccezione che
abbiamo riconosciuta ne’ verbi della 4. congiugazione e provano che se
questi pare che abbiano 2. sillabe radicali, ella è piuttosto una differenza
accidentale d’inflessione, che proprietà essenziale del verbo
assolutamente considerato, e non influisce sul numero intiero delle sue
sillabe radicali o no: numero che ne’ luoghi specificati, è lo stesso in
questi che negli altri verbi.
Lo stesso dico de’ verbi della seconda congiugazione, dove doceo,
secondo la prosodia latina conosciuta, è trisillabo. Lo stesso di facio, e
simili. Lo stesso de’ verbi suadere, suescere e simili, (verbi per altro
anomali) i quali senza essere della quarta congiugazione, hanno oggi due
sillabe radicali, sua e sue, che anticamente, secondo me, erano una sola
sillaba.
Secondo la quale opinione, io penso che si potrebbe anche notare
come costante nella lingua latina antichissima, che la prima e terza
persona singolare [1125] presente indicativa del perfetto, fossero
parimente dissillabe in tutti i verbi radicali e regolari, al modo appunto
che in ebraico la terza persona di detto tempo e numero. Vedi p. 1231.
capoverso 2. Dei verbi della terza congiugazione, questo è manifesto,
come in legi e legit, feci e fecit, dixi e dixit. Dei verbi della seconda, non si
può disputare, ammessa la suddetta opinione, ch’io credo certissima,
(essendo naturale all’orecchio rozzo il considerare due vocali unite come
una sillaba sola, e proprio di un certo raffinamento e delicatezza il
distinguerla in due sillabe): perché secondo essa opinione, docui e docuit
anticamente furono dissillabi. Restano la prima e la quarta
congiugazione, dove amavi ed amavit, audivi ed audivit sono trisillabi. Ora
della quarta congiugazione io penso che il perfetto primitivo fosse in ii
cioè audii e audiit, perfetto che ancora dura, ed è ancora comune a tutti o
quasi tutti i verbi regolari d’essa congiugazione, a molti de’ quali manca
il perfetto in ivi, come a sentire che fa sensi. Audii ed audiit (che troverete
spessissimo scritti all’antica audi ed audit, come altre tali i che ora si
scrivono doppi) erano, secondo quello che ho detto, dissillabi. La lettera
v, io penso che fosse frapposta posteriormente alle due i di detto perfetto,
per più dolcezza. E [1126] tanto sono lungi dal credere che la desinenza
in ivi di quel perfetto, fosse primitiva, che anzi stimo che anche la
desinenza antichissima del perfetto indicativo della prima
congiugazione, non fosse avi, ma ai, nè si dicesse amavi, ma amai,
dissillabo secondo il sopraddetto. Nel che mi conferma per una parte
l’esempio dell’italiano che dice appunto amai, (e richiamate in questo
proposito quello che ho detto p. 1124. mezzo), (come anche udii), e del
francese che dice j’aimai; per l’altra parte, e molto più, l’esser nota fra gli
eruditi la non grande antichità della lettera v, consonne que l’ancien Orient
n’a jamais connue. (Villefroy, Lettres à ses Elèves pour servir d’introduction à
l’intelligence des divines Écritures. Lettre 6. à Paris 1751. t.1. p.167.) Vedi p.
2069. principio. E lasciando gli argomenti che si adducono a dimostrare
la maggiore antichità de’ popoli Orientali rispetto agli Occidentali, e la
derivazione di questi e delle loro lingue da quelli, osserverò solamente
che la detta lettera manca alla lingua greca, colla quale la latina ha certo
comune l’origine, o derivi dalla greca, o le sia, come credo, sorella. E di
più dice Prisciano (l. I. p. 554. ap. Putsch.) (così lo cita il Forcell. init. litt. u
nella mia ediz. del 400. sta p. 16. fine) che anticamente la lettera u multis
italiae populis in usu non erat. E che il v consonante fosse da principio appo
i latini una semplice [1127] aspirazione, e questa leggera, si conosce,
secondo me dal vedere ch’esso sta nel principio di parecchie parole latine
gemelle di altre greche, che in luogo d’essa lettera hanno lo spirito lene o
tenue, come ὄϊς ovis, vinum οἶνος, video εἴδο, viscus o viscum ἰξός. (Talora
anche in luogo di spirito denso come υἱός, onde gli Eoli Ϝυιός, i latini
filius.) Vedi Encyclop. Grammaire. in H. pag. 214. col. 2. sul principio, e in
F. ec. E ch’elle sieno parole gemelle, è consenso di tutti i gramatici.
Laddove lo spirito denso dei greci solevano i latini cangiarlo in s (e così
per un sigma lo scrivevano i greci anticamente), come in ὕπνος che
presso i latini si disse prima sumnus (Gell.) e poi somnus ec. Vedi p. 2196.
Anzi di questa cosa non resterà più dubbio nessuno se si leggerà quello
che dice il Forcellini (vedi Digamma. e vedilo), e Prisciano (p.9. fine-11. e
vedilo). Da’ quali apparisce che il v consonante appresso gli antichi latini
fu lo stessissimo che il digamma eolico (giacché dagli eoli prese assai,
com’è noto, la lingua lat.). Il qual digamma presso gli Eoli era
un’aspirazione, o specie di aspirazione che si preponeva alle parole
comincianti per vocale, in vece dello spirito, e (nota bene) si frapponeva
alle vocali in mezzo alle parole per ischifare l’iato, come in amai,
ampliaϜit terminaϜitque ha un’iscrizione presso il Grutero. (Vedi Encyclop.
Grammaire, art. F. CELLARIO, Orthograph. Patav. Comin. 1739. p. 11-15.) E
vedi il luogo di Servio nel Forcellini circa il perfetto della quarta
congiugazione. Dalle quali osservazioni essendo chiaro che l’antico v
latino fu (come oggi fra’ tedeschi) lo stesso che una f, non resta dubbio
che non fosse aspirazione, giacché la f non fu da principio lettera, ma
aspirazione, e lieve. E così viceversa gli spagnuoli che da prima dicevano
fazer, ferido, afogar, fuso, figo, fuìr, fierro, filo, furto, fumo, fondo, formiga,
forno, forca, fender, ora dicono hazer, herido, ahogar, huso, higo, huìr, hierro,
hilo, hurto, humo, hondo, hormiga, horno, horca, hender ec. Vedi p. 1139. e
1806. In somma si vede chiaro che la primitiva e regolare uscita de’
perfetti 1. e 4. congiug. era ai ed ii, trasmutata in avi ed [1128] ivi per
capriccio, per dolcezza, per forza di dialetto, e pronunzia irregolare,
corrotta e popolare, che suole sempre e continuamente cambiar faccia alle
parole, col successo del tempo, e introdursi finalmente nelle scritture, e
convertirsi in regola, come vediamo nella nostra e in tutte le lingue. Vedi
p. 1155. capoverso ult. e p. 2242. capoverso 1. e 2327.
Queste osservazioni ci porterebbero anche più avanti non poco, ed
avendo veduto che tutti i verbi radicali e regolari latini hanno una sola
sillaba radicale, verremmo a dedurne che la lingua latina da principio fu
tutta composta di monosillabi, come è probabile e naturale che fossero
tutte le lingue primitive (balbettanti come fanno i fanciulli che da
principio non pronunziano mai se non monosillabi; (come pa, ma, ta) poi
due sole sillabe per parola, accorciando, e contraendo, o troncando quelle
che sono più lunghe; e finalmente, ma solo per gradi, si avvezzano a
pronunziar parole d’ogni misura, in forza per altro della imitazione, e
dell’esempio che hanno di chi le pronunzia, il che non avevano i primi
formatori delle lingue) e come è tuttavia la cinese, meno forse discosta di
qualunque altra lingua nota, dal suo primo stato, a causa della
maravigliosa immutabilità di quel popolo. Ecco come bisogna discorrere.
Ho detto che intendeva per verbi radicali, fra le altre cose, quelli non
composti e non derivati da nomi. Ma voleva dire da nomi noti, e da nomi
non primitivi, perché tutti i metafisici moderni s’accordano, che tutte le
lingue son cominciate e derivano da’ nomi, e il vocabolario primitivo di
tutti i popoli, fu sempre una semplice nomenclatura (SULZER). È dunque
indubitato che anche quei verbi latini che paiono radicali, derivano da
nomi sconosciuti, giacché le radici d’ogni lingua furono i nomi soli, e
volendo esprimere azioni, [1129] non s’inventarono certo nuove radici,
che non sarebbero state intese (giacché gran tempo dovè passare prima
che si pensasse a formare i verbi, e la lingua, cioè la nomenclatura era già
stabilita); ma si derivarono dalle radici esistenti, cioè da’ nomi. Ora
vedendo che i verbi latini che chiamiamo radicali, ossia che non hanno
veruna derivazione nota, nè composizione ec. hanno una sola sillaba
radicale, si conchiude che le loro radici vere, che certo furono nomi, tutte
furono monosillabe, e che il primitivo linguaggio latino, la fonte di tutta
la lingua latina, fu tutto monosillabo. Osserviamo per esempio i verbi
pacare, regere, vocare, ducere, lucere, necare. Questi cadono tutti, e
perfettamente sotto le osservazioni che ho stabilite: hanno una sola
sillaba e 3. sole lettere radicali, 3. sillabe all’infinito ec. E tuttavia non gli
possiamo chiamare radicali perché resta notizia de’ nomi da cui sono
formati, e son tutti monosillabi: pax, rex, vox, dux, lux, nex. E notate che di
questi monosillabi, alcuni esprimono delle cose che debbono essere state
fra le prime ad esprimersi in ogni linguaggio, come vox, lux, e similmente
rex, e dux nella prima società. Così l’antico precare e lacere, che cadrebbono
sotto la stessa categoria, sappiamo che vengono da prex e lax monosillabi.
Così sperare da spes. Così arcere da arx che significa luogo alto, cima,
altezza (idea certo primitiva nelle lingue) e quindi rocca, fortezza. Vedi p.
1204. Così quiescere da quies, partire e partiri da pars, tutte idee primitive.
Lactare da lac. Vedi p. 2106. principio. [1130] Se così discorressimo intorno
agli altri verbi (dico latini propri ed antichi, e non presi poi
manifestamente dal greco, o d’altronde) che hanno una sola sillaba
radicale, e che non si vede da qual nome sieno derivate, potremmo forse
più volte ritrovare di questi nomi perduti o mal noti, e tutti monosillabi.
Legere lo fanno derivare da λέγω; e lex Cicerone e Varrone a legendo. Ma
la natura delle cose porta che il nome sia prima del verbo. Oltre ch’è più
facile, più conforme al meccanico dell’etimologia, ed al solito progresso
delle parole il derivare legere da lex che viceversa. Io penso che lex sia la
radice di legere ed avesse primitivamente un significato perduto, diverso
da quello di legge, ed atto a produr quelli di legere. Fax vale face, e deriva,
come pare, dal greco, ed è tutt’altra parola da quella ch’io voglio dire.
Penso cioè che facere derivi da un antichissimo monosillabo fax di
significato analogo, e ne trovo un vestigio, anzi lo trovo intero in artifex,
pontifex, carnifex ed altri tali composti. La prima parola è composta di ars
e fax, la seconda di pons e fax, la terza di caro e fax, cambiato in fex per
forza della composizione, come factus diviene fectus ne’ composti,
adfectus, effectus, confectus ec. e facere [1131] nel perfetto ha feci, e così iacere
ha ieci, e jactus fa adiectus, deiectus ec. Similmente che capere derivi da un
antico monosillabo caps si può dedurre dai composti particeps, anceps,
auceps ec. Fra’ quali anceps, io credo assai più con Festo che sia derivato
dall’antica preposizione amphi rispondente alla greca ἀµϕί, e troncata in
am, e quindi in an dalla composizione (nel che tutti convengono), e da
caps appartenente a capere, di quello che a caput, come piace ad altri, fra’
quali il Forcellini. Giacché mi pare che risponda letteralmente al greco
ἀµϕιλαϕής composto appunto di ἀµϕί e di λαµβάνω capio, piuttosto
che ad ἀµϕιχάρηνος, come lo spiega il Forcellini, sebbene sia stato poi
adoperato in significazioni più conformi a questa seconda voce. Ma io
credo poi che questo caps sia la radice tanto di capere quanto di caput
(ne’ di cui composti parimente si ravvisa, come biceps, triceps, praeceps).
La qual parola Varrone fa derivare da capere (ap. Lact. de Opif. Dei c. 5.) ed
io per lo contrario capere da caput, o dalla stessa radice; dalla quale però
io credo derivato prima caput, e poi capere, o che essa radice, significasse
da principio caput. Giacché, lasciando che questo è nome, e quello è
verbo, è ben più naturale, [1132] che prima sia stata nominata la parte
principale del corpo umano, e poi l’azione del prendere. E non so se
possa qui aver niente che fare il nostro cappare (volgarmente capare), che
significa pigliare a scelta, e deriva da capo, quasi scegliere capo per capo, cioè
cosa per cosa, o scegliere un capo, ossia una cosa, fra altri capi o cose. E così
capere da principio avrebbe voluto dire pigliare pel capo, o pigliare un capo
cioè una cosa, nominando la parte principale pel tutto, o prendendo la
metafora dall’essere il capo la parte principale dell’uomo: onde i latini,
(ed anche oggi gl’italiani testa, e i francesi tant par tête, cioè tant par chaque
personne. ALBERTI) dicevano caput per uomo, o persona, o individuo umano.
Vedi ancora il §. 6. 7 e 10. della Crusca, voce Capo, e i vocabolari francese
e spagnuolo ec. Vedi chef etc. e il lat. caput nelle significazioni di detti §§.
della Crusca, e così anche i Lessici greci. Vedi p. 1691.
La radice monosillaba dell’antico specere o spicere si troverebbe
similmente ne’ composti auspex, haruspex, cioè spex o spax. Così di iungere
in coniux o coniunx, cioè iux o iunx ec. Vedi p. 1166. fine. 2367. principio.
E così si scoprirebbe come da pochi monosillabi radicali, o tutti nomi,
o quasi tutti, che formavano da principio tutto il linguaggio, allungandoli
diversamente, e differenziandoli con variazioni di significato, e con
innumerabili inflessioni, composizioni, modificazioni di ogni sorta,
giungessero i latini a cavare infinite parole, infinite significazioni,
esprimerne le minime differenze delle cose che da principio si
confondevano e accumulavano [1133] in ciascuna delle dette poche
parole radicali, trarne tutto ciò che doveva servire tanto alla necessità
quanto all’utilità ed alla bellezza e a tutti i pregi del discorso, e in somma
da un piccolo vocabolario monosillabo (anzi nomenclatura) cavare tutta
una lingua delle più ricche, varie, belle, e perfette che sieno state. E così
denno essersi formate tutte le lingue colte del mondo ec. Così la Chinese
ec. E sarebbe utile e curiosa cosa il formare un albero genealogico di tutte
le parole latine derivate, composte ec. da uno di questi monosillabi, come
per esempio dux, che somministrerebbe un’infinita figliuolanza, senza
contare le tante inflessioni particolari di ciascuno de’ verbi o nomi
derivati o composti ec. ne’ loro diversi casi, o persone e numeri e tempi e
modi, e voci (attiva e passiva); e si vedrebbe per l’una parte quanto le
vere radici sien poche nella latina come in tutte le lingue, per la naturale
difficoltà di porle in uso, e di far nascere la convenzione che sola le può
fare intendere e servire; per l’altra parte quanta sia l’immensa fecondità
di una sola radice, e le diversissime cose, e differenze loro, ch’ella si
adatta ad esprimere mediante i suoi figli ec. in una lingua giudiziosa e
ben coltivata.
Raccogliendo il sin qui detto, io penso che se tali osservazioni si
facessero in maggior numero e con più diligenza che non si è fatto finora,
(della qual diligenza e profondità gl’inglesi e i tedeschi ci hanno già dato
l’esempio anche in questi particolari, massime negli [1134] ultimi tempi,
come Thiersch ec.) si semplificherebbe infinitamente la classificazione
derivativa delle parole, ossia delle famiglie loro; l’analisi delle lingue si
spingerebbe quasi sino agli ultimi loro elementi; si giungerebbe forse a
conoscere gran parte delle lingue primitive; (vedi Scelta di opusc. interess.
Milano 1775. vol. 4. p. 61-64.) lo studio dell’etimologie diverrebbe
infinitamente più filosofico, utile ec. e giungerebbe tanto più in là di
quello che soglia arrestarsi; facendosi una strada illuminata e sicura per
arrivare fin quasi ai primi principii delle parole, e le etimologie stesse
particolari, sarebbero meno frivole; si conoscerebbero assai meglio le
origini remotissime, le vicende, le gradazioni, i progressi, le formazioni
delle lingue e delle parole, e la loro primitiva (e spesso la loro vera)
natura e proprietà; e si scoprirebbero moltissime bellissime ed utilissime
verità, non solamente sterili e filologiche, ma fecondissime e filosofiche,
atteso che la storia delle lingue è poco meno (per consenso di tutti i
moderni e veri metafisici) che la storia della mente umana; e se mai fosse
perfetta, darebbe anche infinita e vivissima luce alla storia delle nazioni.
Vedi p. 1263. capoverso 2.
Osservo che la lingua latina è più atta a queste speculazioni che la
greca, contro quello che può parere a prima giunta, per causa della sua
minore antichità vera o supposta.
I. L’infinità e l’immensa varietà delle modificazioni che la lingua
greca poteva dare alle sue radici, e continuò sempre nel lunghissimo
spazio della sua letteratura, e nel grandissimo numero de’ suoi scrittori, a
poterlo ed a farlo, (principal causa della sua potenza e ricchezza), reca un
grande impedimento a scoprire [1135] i primitivi elementi, e le vere ed
ultime radici di essa lingua, in mezzo alla confusione alla selva delle
innumerabili e differentissime diversificazioni di significato, di forma ec.
che hanno continuamente ricevuto, e con cui ci rimangono. Puoi vedere
la p. 1242. marg. fine.
II. Le diversissime relazioni ch’ebbero i popoli greci con popoli
stranieri d’ogni sorta, mediante il commercio, le guerre, le colonie, le
spedizioni d’ogni genere ec. ec. relazioni antichissime ed anteriori a quei
primi tempi che noi possiamo conoscere della lingua greca; relazioni che
hanno certo influito assaissimo su detta lingua, e moltiplicate le sue
ricchezze per l’una parte, per l’altra mandate molte sue proprie ed
antichissime radici in disuso, ed altre svisatene ed alteratene (vedi in
questo proposito il luogo di Senofon. della lingua Attica); recano altro
gravissimo impedimento al nostro fine. Trattandosi massimamente di
relazioni con popoli le cui lingue sono quali del tutto sconosciute, quali
malissimo note. I latini ebbero altrettante e forse maggiori relazioni con
forse maggior numero di popoli, ma in tempi più moderni. Il che 1.o
diminuisce la difficoltà delle ricerche: 2.o la lingua latina essendo già
formata, anzi sul punto di essere la più colta del mondo dopo la greca,
(dico quando incominciarono [1136] le grandi ed estese relazioni de’
latini cogli stranieri) era meno soggetta ad esserne alterata, se non altro,
nel suo fondo principale: 3° conoscendo noi bastantemente i tempi della
lingua latina anteriori a dette relazioni, le alterazioni che poterono poi
sopravvenire a essa lingua non pregiudicano alle nostre ricerche, le quali
riguardano gli antichissimi elementi di quella lingua che si parlava
quando Roma o non era ancor nata, o era fanciulla. Infatti gli eruditi
inglesi che hanno cercato di provare l’affinità del sascrito colle lingue
antiche Europee, sebben credono la greca derivata dall’origine stessa che
la latina, hanno tuttavia scelto piuttosto questa per le loro osservazioni,
dicendo che la penisola d’Italia vorrà probabilmente riputarsi più favorevole
(della Grecia) alla pura trasmissione della lingua originale, potendo essa essersi
tenuta più lontana dalla mescolanza di nazioni circonvicine, e di linguaggi
diversi. (Edinburgh Review. Annali di Scienze e lett. Milano 1811. Gennaio. n.
13. p. 38. fine.) E si trova effettivamente maggiore analogia fra certe voci
ec. latine e sascrite, che fra le stesse greche e sascrite, e pare che la lingua
lat. ne abbia meglio conservate le prime forme. L’H derivata dall’Heth
dell’alfabeto fenicio, samaritano ed Ebraico, il quale Heth era
un’aspirazione densa o aspra (Encyclop. planches des caractères) simile all’j
spagnuolo (Villefroy), ha conservata nel latino la sua qualità di carattere
aspirativo, laddove è passata a dinotare una e lunga nel greco, dove
antichissimamente era pur segno d’aspirazione o spirito. La f e il v
mancanti all’alfabeto Fenicio (Encyclop. l.c.) mancarono pure come
vedemmo all’antico alfabeto latino Vedi p. 2004-2329. (e la p. 2371. fine)
III. E questa che son per dire è la ragione principale. Tutti sanno, e
dalle cose ancora che abbiamo dette, si può vedere, quanto le lingue si
allontanino [1137] immensamente dalla loro prima e rozza forma
mediante la coltura. Una lingua non colta, e parlata da un popolo poco in
relazione cogli altri, può conservarsi lunghissimo tempo o qual era da
principio, o poco diversa, tanto che il primitivo facilmente vi si possa
ripescare. La lingua latina fu veramente formata e stabilita e perfezionata
solo negli ultimi tempi dell’antichità. Giacché l’epoca del suo
perfezionamento è quella di Cicerone. Ed oltre parecchi monumenti
rozzi, ed anteriori non poco a questa perfezione, vale a dire, totale
trasformazione della lingua latina primitiva, ci restano ancora molti
scrittori di lingua assai meno rozza della prima, e meno colta della
Ciceroniana. Mediante le quali cose, come per gradi, possiamo risalire, se
non altro, assai vicino ai principii della lingua latina.
Ora per lo contrario la formazione e quasi perfezione della lingua
greca appartiene non solo alla più lontana epoca dell’antichità che noi
conosciamo distintamente, ma anzi ad un’epoca ancora tenebrosa e
favolosa. E il più antico monumento della scrittura greca che ci rimanga,
è forse anche (eccetto i libri sacri) la più antica scrittura [1138] che si
conosca: dico Omero. E questo scrittore non solamente non è rozzo, ma
tale che non ha pari di pregio in veruno de’ secoli susseguenti. Nè tale
avrebbe potuto essere senza una lingua o perfetta, o quasi. Bisogna
dunque supporre (come tutti fanno) avanti Omero, una lunga serie di
tempi e di scrittori ne’ quali la lingua di rozza e impotente divenisse
appoco appoco quale si vede in Omero. Ma i Catoni, i Plauti, i Lucrezi
che precederono Omero, non ci restano, come quelli che precederono
Cicerone e Virgilio, e neppure si ha certa memoria di nessuno di loro.
Anzi da Omero in su ci si spegne ogni lume intorno alla lingua greca.
Vedi dunque la gran differenza degli ostacoli allo scoprimento della
prima lingua greca, paragonati con quelli per la prima lingua latina.
Possiamo dire che nella lingua latina abbiamo la stessa antichità della
greca, e contuttociò un’antichità meno antica e più vicina a noi.
Io credo però che la ricerca di questa, ci farà strada alla ricerca delle
origini greche. Stante che la lingua latina è sorella della greca, ed
arrivando alla fonte di quella, si giunge dunque alla fonte di questa. O se
il latino è derivato dal greco, certo n’è derivato in antichissima età, e così
verremo ad illuminare mediante le origini latine, quest’antichissima età
della lingua greca. Vedi p. 1295.
Se è vera l’opinione del Lanzi che la lingua [1139] Etrusca non sia
fuori che un misto dell’antichissimo latino e dell’antichissimo greco,
detta lingua, e il suo studio potrà molto giovare a queste nostre ricerche.
E vicendevolmente le osservazioni che abbiam fatto, dovranno poter
giovare notabilmente alla intelligenza e rischiaramento della lingua
Etrusca ancora sì tenebrosa, e per l’altra parte altrettanto interessante.
(29. Maggio-5. Giugno 1821)
Giugno 1821
Cioè vi passa e ripassa sopra colla mano, attraversa quella pasta già sodetta
colla mano. Ecco dunque il verbo transversare, e le nostre parole ec. di
origine antica, e latina pura.
Potrebbe darsi che transversare volesse dire a un dipresso versare, cioè
rivolgere e dimenare fra le mani. Nondimeno la spiegazione che danno il
Gloss. e il Forcell. a transversare, la prep. trans, e il significato della voce
transversus ec. par che confermino la mia interpretazione. C’è anche il
verbo transvertere di cui vedi Forcell. e di cui transversare par che debba
essere il continuativo.
Tiriamo innanzi con altro esempio. Da arctus o arcitus antico
participio di arcere preso nel significato di coercere, continere (del quale
vedi Festo e il Forcellini che ne dà buoni esempi), viene il continuativo
arctare che significa stringere constringere, non già momentaneamente
come quando stringiamo la mano ad uno; ma stringere continuatamente,
ed in modo che l’azione dello stringere non sia un puro atto, ma
un’azione. O da arctare, o da coercere deriva il verbo coarctare che significa
ne’ buoni scrittori latini ristringere. Ma ne’ Glossari latino barbari questo
verbo si trova in significato di costringere o forzare, e in questo senso
l’adoperò Paolo giureconsulto l’esempio del quale è registrato negli stessi
vocabolari latini: e in questo senso assai più che in quello di ristringere
(oggi, si può dire dimenticato) s’adopera in Italia coartare e coartazione,
quantunque la Crusca non dia questo significato a coartare, [1145] e
dandolo a coartazione, s’inganni credendo che nell’unico esempio che
riporta, questa parola sia presa in detto senso, giacché v’è presa nel senso
di restrizione; conforme ha dimostrato il Monti (Proposta ec. alla voce
Coartazione. vol. 1. par. 2. p. 166.). Il quale condanna come barbare le
parole coartare e coartazione prese in forza di Costrignimento, Sforzamento.
Ora io credo che questo significato non sia nè barbaro in italiano, nè
moderno nel latino, ma antico ed usitato nel latino volgare, quantunque
non ammesso nelle buone scritture.
Primieramente osservo che coarctare è continuativo di coercere, e
coercere, come ognun sa, ha ne’ buoni latini un significato metaforico (più
comune forse del proprio) che somiglia molto a quello di forzare. Anzi
alcuni gramatici gli danno anche questo significato, sebbene sopra
autorità incompetente, cioè quella del libricciuolo De progenie Augusti
attribuito a Messala Corvino, dove si legge: Superatos hostes Romae
cohabitare COERCUIT, cioè costrinse. Il quale libretto sebbene dagli eruditi è
creduto apocrifo, e dell’età mezzana, tuttavia non è forse d’autorità nè di
tempo inferiore a molti e molti altri che sono pur citati nel Vocabolario
latino. Laonde, se coercere [1146] significava forzare, o cosa somigliante, è
naturalissimo che il suo continuativo coarctare avesse, almeno nel
volgare latino, lo stesso o simile significato.
In secondo luogo osservo che la metafora dallo stringere al forzare è
così naturale che si trova e nel latino stesso, e (lasciando le altre) in tutte
le lingue che ne derivano. Quae tibi scripsi, primum, ut te non sine exemplo
monerem: deinde ut in posterum ipse AD EANDEM TEMPERANTIAM
ADSTRINGERER, cum me hac epistola quasi pignore obligavissem, dice Plinio
minore (l. 7. ep. 1.). Che altro vuol dire se non costringersi, forzarsi,
obbligarsi (com’egli poi spiega) alla temperanza? Altri usi di adstringere (e
parimente di obstringere, constringere, e del semplice stringere latino)
similissimi a quelli di forzare sono noti ai gramatici. E cogere che in senso
metaforico (più comune ancora del proprio) significa forzare, ed è
contrazione di coagere, che altro significa propriamente se non se in unum
colligere, congregare, condensare, spissare, colligare, constringere? Il suo
continuativo coactare si adopra pure da Lucrezio nel significato di forzare.
Presso noi stringere, astringere, costringere, [1147] oltre i significati propri
hanno anche il metaforico di sforzare. Presso i francesi astreindre e
contraindre si sono talmente appropriato il detto senso, che astreindre
manca del primitivo significato di stringere, e in contraindre si considera
questa significazione propria, come figurata. Il che avviene ancora al
secondo e terzo dei detti verbi italiani. Presso gli spagnuoli apretar che
significa stringere, vale ancora comunemente hacer fuerza, ossia sforzare; e
constreñir o costreñir (da estreñir che significa stringere) non serba altro
significato che di sforzare. Estrechar ha quello di stringere per significato
proprio e comune, e quello di costringere o sforzare per metaforico. Il
legare è una maniera di stringere. Ora, lasciando le significazioni
metaforiche del latino obligare, somiglianti a quelle di forzare 13 in
italiano, in francese, [1148] in ispagnuolo ognuno sa che obligare, obliger,
obligar si adopra continuamente nell’espresso significato di costringere.
Mi par dunque ben verisimile che il verbo coarctare (continuativo di
coercere), oltre il senso proprio di ristringere, avesse anche, non solo nella
bassa latinità, ma nell’antico volgare latino, il senso di forzare. (6-8. Giu.
1821). Vedi p. 1155.
Alla p. 1166. Quello che dico de’ verbi in tare si deve anche estendere
ad altri verbi terminati in altro modo, massimamente in sare per
anomalia de’ participi o supini da cui derivano; come pulsare (che
anticamente, e soprattutto, come nota Quintiliano, presso i Comici, si
scrisse anche pultare) [1151] è continuativo di pellere dall’anomalo
participio pulsus, e così versare di vertere, ed altri che abbiamo veduto.
Voglio però notare che forse pultare creduto lo stesso che pulsare, è
contrazione di pulsitare, e diverso originariamente da pulsare quanto è
diverso il frequentativo dal continuativo. E quanto a pulsare s’egli sia
propriamente continuativo o frequentativo, come lo chiamano, vedilo in
questo luogo di Cicerone (De Nat. Deor. 1. c.41.) cum SINE ULLA
INTERMISSIONE PULSETUR. Così da responsus o responsum di respondere, viene
responsare continuativo.
Alla p.1117. Nostri soli continuativi sono i verbi venire e andare uniti a’
gerundi de’ verbi denotanti l’azione che vogliamo significare, come venir
facendo, andar dicendo. I quali modi però hanno meno forza, e meno
significazione della continuità, che non ne hanno propriamente i
continuativi latini. E dimostrano una languida continuazione della cosa,
un’azione più languida, e meno continua, ed anche interrotta; e di più
un’azione meno perfetta. Vedi p. 1212. capoverso 1. e p. 2328. (11.
Giugno 1821).
Domandato il tale qual cosa al mondo fosse più rara, rispose, quella
ch’è di tutti, cioè il senso comune. (13. Giugno 1821).
[1164] I Toscani che dicono bi ci di, perché dicono effe, emme, enne, erre,
esse (vedi la Crusca) e non effi, emmi ec.? anzi iffi, immi ec.? (13. Giugno
1821).
Tutti quanti i giovani, benché qual più qual meno, sono per natura
disposti all’entusiasmo, e ne provano. Ma l’entusiasmo de’ giovani
oggidì, coll’uso del mondo e coll’esperienza delle cose che quelli da
principio vedevano da lontano, si spegne non in altro modo nè per
diversa cagione, che una facella per difetto di alimento: anche durando la
gioventù, e la potenza naturale dell’entusiasmo. (13. Giugno 1821).
Alla p. 1132. Così nelle parole simplex, duplex, [1167] triplex, multiplex e
altre tali, si potrebbe ritrovare la radice monosillaba del verbo plicare (i
greci dicono πλέχειν) del quale io credo che sia continuativo anomalo il
verbo plectere ne’ significati di piegare, intrecciare e simili. (14. Giugno
1821). Vedi p.2225. capoverso 1.
Alla p. 1154. principio. E lo stesso dico de’ verbi d’altre forme. Come
l’antico participio di noscere si deduce dal verbo noscitare formato da
noscitus, come notare da notus. Così di pascere dal verbo pascitare formato
da pascitus in luogo di pastus. E non solo di altre forme, anche d’altre
congiugazioni. Come doctus che sia contrazione di docitus facilmente
rilevasi da nocitus e nociturus di nocere, verbo che non differisce
materialmente da docere se non che d’una lettera: da placitus di placere,
verbo regolarissimo della stessa congiugazione seconda, e da molti altri
simili participii. Se doctus fosse il vero participio lo sarebbe plactus
dirittamente in vece di placitus. Da coerceo non coarctus o coerctus, ma
coercitus, sebben poi contratto in coarctare ec. Il supino paritum e il
participio paritus di parere cioè partorire, in luogo de’ quali sono più
usitati partum e partus, deducesi però necessariamente da pariturus. E
parturus, ch’io sappia, non si dice mai. Vedi p.2009. e 2200. capoverso 2.
Io stimo probabile che il verbo sollicitare intorno all’origine del quale
vanno a tastoni gli etimologisti che lo derivano da citare, venga piuttosto
[1168] da quel medesimo verbo da cui vedemmo formato adlicere (cioè
dal verbo lacere) che ora fa nel participio adlectus, onde adlectare, e
anticamente faceva, secondo me, adlicitus. E così penso che sollicitare sia
lo stesso che sublicitare dal participio sublicitus di un antico sublicere (altro
composto di lacere) dal qual participio contratto in sublectus abbiamo
effettivamente in Plauto il verbo sublectare. Di maniera che il significato
appunto di adlicere, invitare, che i Vocabolaristi danno a sollicitare come
traslato e secondario, dovrebbe considerarsi come primo e proprio.
Questa però non intendo di darla se non come congettura. (15. Giugno
1821).
Si consideri per l’una parte che cosa sarebbe la civiltà senza l’uso della
moneta. Oltre ch’ella non potrebbe reggersi, non sarebbe neppur giunta
mai ad un punto di gran lunga inferiore al presente, essendo la moneta,
di prima necessità ad un commercio vivo ed esteso, e questo commercio
scambievole vivo ed esteso, tanto delle nazioni, quanto degl’individui di
ciascuna, essendo forse la principal fonte dei progressi della civiltà, o
della corruzione umana. E se bisognassero prove di una proposizione
così manifesta, si potrebbe addurre, fra gli altri infiniti de’ popoli
selvaggi ec., l’esempio di Sparta che, avendo poco uso della moneta per
le leggi di Licurgo, in mezzo al paese più civile del mondo a quei tempi,
cioè la Grecia, si mantenne sì lungo spazio, e incorrotta, e quasi
stazionaria, o certo la sua civiltà, o corruzione, fu sempre di molti gradi
minore di quella degli altri popoli greci, e le andò sempre molti passi
indietro.
[1171] Per l’altra parte si consideri l’immensa difficoltà, l’immenso
spazio che ha dovuto percorrere lo spirito umano prima di pur pensare a
ridurre all’uso suo quotidiano, materie così nascoste dalla natura, così
difficili a trarsi in luce, così difficili, non dico a lavorarsi, ma a dar
sospetto che potessero mai esser lavorate, e solamente modificate e
cambiate alquanto di forma. Anzi prima di trovare i metalli. E dopo tutto
ciò, prima di pensare a ridurre ed erigere in rappresentanti di tutte le
cose o necessarie, o utili o dilettevoli, de’ pezzi di materia per se stessa
(massime anticamente) o inutile, o poco utile, disadatta, pesantissima, e
(riguardo ai metalli che formarono le prime monete, cioè rame o ferro ec.)
bruttissime ancora a vedersi. E quanto spazio passasse effettivamente
prima di tutto ciò, si deduce anche dal fatto, e dal vedere che a’ tempi
d’Omero, o almeno a’ tempi troiani (benché certo non incolti), o
mancava, o era di poco e raro uso la moneta.
E qui torno a domandare se la natura poteva ragionevolmente porre
sì grandi, numerosi, incredibili ostacoli al ritrovamento di un mezzo
necessario e principale per ottener quella che noi chiamiamo [1172]
perfezione e felicità del genere umano, cioè l’incivilimento; e dico al
ritrovamento dell’uso della moneta.
Osservate poi, nella stessa moderna perfezione delle arti, le immense
fatiche e miserie che son necessarie per proccurar la moneta alla società.
Cominciate dal lavoro delle miniere, ed estrazion dei metalli, e
discendete fino all’ultima opera del conio. Osservate quanti uomini sono
necessitati ad una regolare e stabile infelicità, a malattie, a morti, a
schiavitù (o gratuita e violenta, o mercenaria) a disastri, a miserie, a pene,
a travagli d’ogni sorta, per proccurare agli altri uomini questo mezzo di
civiltà, e preteso mezzo di felicità. Ditemi quindi 1. se è credibile che la
natura abbia posta da principio la perfezione e felicità degli uomini a
questo prezzo, cioè al prezzo dell’infelicità regolare di una metà degli
uomini. (e dico una metà, considerando non solo questo, ma anche gli
altri rami della pretesa perfezione sociale, che costano il medesimo
prezzo.) Ditemi 2. se queste miserie de’ nostri simili sono consentanee a
quella medesima civiltà, alla quale servono. È noto come la schiavitù sia
[1173] difesa da molti e molti politici ec. e conservata poi nel fatto anche
contro le teorie, come necessaria al comodo, alla perfezione, al bene, alla
civiltà della società. E quello che dico della moneta, dico pure delle
derrate che ci vengono da lontanissime parti, mediante le stesse o simili
miserie, schiavitù ec. come il zucchero, caffè ec. ec. e si hanno per
necessarie alla perfezione della società. Vedi p. 1182.
E vedete da questo, come la civiltà (secondo il costume di tutte le false
teorie) contraddica a se stessa anche in teorica, ed oltracciò non possa
sussistere senza circostanze che ripugnano alla sua natura, e sono
assolutamente incivili, anzi barbare in tutta la verità e la forza del
termine. Sicché la perfetta civiltà non può sussistere senza la barbarie
perfetta, la perfezione della società senza la imperfezione (e imperfezione
nello stesso senso e genere in cui s’intende la detta perfezione); e tolta
questa imperfezione, si taglierebbero le radici alla pretesa perfezione
della società.
Torno a domandare se tali contraddizioni ed assurdi è presumibile
che fossero ordinati e disposti primordialmente dalla natura, intorno alla
perfezione, vale a dire al ben ESSERE della principal creatura terrena, cioè
l’uomo.
[1174] E notate che l’uso della moneta quanto è necessario a quella
che oggi si chiama perfezione dello stato sociale, tanto nuoce a quella
perfezione ch’io vo predicando; giacché il detto uso è l’uno de’
principalissimi ostacoli alla conservazione dell’uguaglianza fra gli
uomini, e quindi degli stati liberi, alla preponderanza del merito vero e
della virtù ec. ec. e l’una delle principalissime cagioni che introducono, e
appoco appoco costringono la società all’oppressione, al dispotismo, alla
servitù, alla gravitazione delle une classi sulle altre, insomma estinguono
la vita morale ed intima delle nazioni, e le nazioni medesime in quanto
erano nazioni. (16. Giugno 1821). Quel che si è detto della moneta si può
dire di mille altri usi ec. necessari alla società o civiltà, e pur d’invenzione
ec. difficilissima, come la scrittura, la stampa ec.
Alla p. 1173. Così dico pure delle gemme, e di tanti altri oggetti o di
uso o di lusso, difficilissimi a procacciarsi, e non possibili senza infiniti
travagli e disastri, ma che d’altra parte si considerano appresso a poco
come necessari alla vita civile, e servono effettivamente, o sono anche
necessari al commercio fra le nazioni, (che senza molti di tali oggetti, e di
tali bisogni, non sussisterebbe), fonte principale della civiltà e quindi
della pretesa felicità del genere umano.
[1183] Il pensiero precedente intorno all’effettiva necessità di tanti
oggetti di lusso ec. per mantenere e dar motivo al commercio, necessario
alla civiltà, quando anche i detti oggetti non sieno effettivamente e per se
stessi nè bisognevoli nè utili alla vita, merita di essere ampliato: perché i
detti oggetti costando infiniti travagli all’umanità, si vede come sia
necessaria alla civiltà l’inciviltà, alla perfezione l’imperfezione (nel senso
in cui chiamiamo perfezione il suo contrario), alla umanità e delicatezza
e raffinatezza ec. la barbarie della società. (18. Giugno 1821).
[1202] Alla p.767. Le parole che per se stesse sono meri suoni, e così le
lingue intere, in tanto sono segni delle idee, e servono alla loro
significazione, in quanto gli uomini convengono scambievolmente di
applicarle a tale e tale idea, e riconoscerle per segni di essa. Ora il
principal mezzo di questa convenzione umana, in una società alquanto
formata, si è la scrittura. Le lingue che o mancano o scarseggiano di
questo mezzo di convenzione per intendersi, e spiegarsi distintamente,
ed esprimere tutte le cose esattamente, restano sempre o affatto
impotenti, o poverissime, e debolissime; e così accade a tutte le lingue
finché non sono estesamente applicate alla scrittura. Come convenire
scambievolmente in tutta una nazione, di dare a quella tal parola quella
tal significazione certa determinata e stabile, e di riconoscerla
universalmente per segno di quella tal cosa o idea? Come arricchire la
lingua, accrescere le significazioni di una stessa parola, stabilire l’uso e
l’intelligenza comune di una metafora o traslato, dare alla lingua una tal
facoltà di tale o tal formazione di voci o di modi che significhi
regolarmente tale o tal altro genere di cose o idee? Come poi regolare ed
uniformare e ridurre sotto leggi conformi in tutta la nazione la sintassi, le
inflessioni dinotanti i diversi accidenti di una stessa parola, ec. ec.? Tutte
queste cose sono impossibili [1203] senza la scrittura, perché manca il
mezzo di una convenzione universale, senza cui la lingua non è lingua
ma suono. La viva voce di ciascheduno, poco ed a pochi si estende. Le
scritture vanno per le mani di tutta la nazione, e durano anche dopo che
quegli che le fece, non può più parlare. Gl’individui di una nazione non
possono convenir tutti fra loro di veruna cosa a uno a uno. Ed un
individuo, ancorché di sommo ingegno, non può mettere in uso una
parola, una frase, una regola di lingua, un significato, e renderne comune
e stabilirne l’intelligenza colla sola sua voce, e favella (di cui tanto pochi
e solo istantaneamente possono partecipare), se non lentissimamente e
difficilissimamente. Ora le lingue le più estese sono sempre nate
dall’individuo, e vi fu sempre il primo che inventò e pronunziò quella
parola, quella frase, quel significato ec. In qualunque modo si sieno
formate le lingue primitive, e gli uomini abbiano cominciato ad
intendersi ed esprimersi scambievolmente mediante gli organi della
favella, certo è che questo non è avvenuto se non a pochissimo per volta,
sinché una lingua non è stata applicata alla scrittura; perché la
convenzione individuale di ciascheduno, non può essere se non
lentissima e difficilissima. Di più è certo che l’uso di tutte le lingue nel
loro nascere fu ristretto [1204] a una piccolissima società, dove la
convenzione era meno difficile, perché fra un piccolo numero
d’individui. Ma trattandosi di arricchire, accrescere, regolare, ordinare,
perfezionare, e in qualunque modo migliorare una lingua già parlata da
una nazione, dove la convenzione che deriva dall’uso è lentissima,
difficilissima, e per lo più parziale e diversa, il principale e forse l’unico
mezzo di convenzione universale (senza cui la lingua comune non può
ricevere nè miglioramento nè peggioramento), è la scrittura, e fra le
scritture quella che 1. va per le mano di tutti, 2. è conforme ne’ suoi
principii, e nelle sue regole, vale a dire la letteratura largamente
considerata. Perché la scrittura non letterata, o non importante in
qualunque modo per se stessa, come lettere cioè epistole ec. ec. è soggetta
quasi agli stessi inconvenienti della viva voce, cioè si comunica a pochi,
(forse anche a meno di quelli a cui si comunica la voce di un individuo) e
non è uniforme nè costante nelle sue qualità. Insomma si richiede un
genere di scrittura che sia nazionale, e possa produrre, stabilire, regolare
e mantenere la convenzione universale circa la lingua. (22. Giugno 1821).
Alla p. 1129. Bisogna notare che i gramatici e vocabolisti intorno a
parecchi di questi e simili verbi e nomi portano opinione contraria al
parer nostro, cioè fanno derivare i nomi da’ verbi, come vedremo [1205]
di lex da legere, e come rex da regere, laddove noi regere da rex, conforme
porta la sana filosofia, e ideologia, e la considerazione del progresso
naturale delle idee. Che certo molto prima ebbero gli uomini un nome da
significare colui da cui veniva il comando, che un altro da significar
l’azione stessa del comandare. L’idea dell’azione la più materiale, e per
conseguenza l’idea espressa da’ verbi, è sempre metafisica, e quindi
posteriore a quella significata da’ nomi. Vedi in proposito la p. 1388-91.
Dico posteriore ad esser significata, non sempre però posteriore nella
concezione; ma benché anteriore nella concezione (come in questo
esempio) l’uomo stabilì prima un segno per esprimere colui che la
faceva, e che era materiale e visibile, (come il re, cioè quegli che
comanda) di quello che arrivasse a fissare e determinare con un segno
l’idea metafisica di ciò che questi faceva. Perché questa idea benché
seconda nell’ordine, fu la prima idea ch’egli concepisse chiaramente, in
modo da poterla determinare e circoscrivere con un segno. Così che ella è
anteriore come idea chiara, benché posteriore come idea semplicemente.
E quello che bisogna cercare in riguardo alle lingue è l’ordine e la
successione non delle idee assolutamente ma delle idee chiare che
l’uomo ha concepite, giacché queste sole egli ha potuto e può significare.
Vedi Sulzer p. 53. Ma bisogna perdonare ai gramatici se finora non sono
stati ideologi; bensì non bisogna che il filologo illuminato dalla filosofia,
si lasci imporre dalla loro opinione in quelle cose che ripugnano
all’analisi e alla scienza dell’umano intelletto. (22. Giugno 1821).
Alla p. 1201. Ho già detto altrove di una donna sterile che bastonava
una cavalla pregna dicendo, [1206] Tu gravida, e io no? Io credo che un
padre storpio difficilmente possa vedere con compiacenza i suoi figli
sani, e non provare un certo stimolo a odiarli, o una difficoltà ad amarli,
che facilmente si convertirà in odio, e riceverà poi scioccamente il nome
di antipatia, quasi fosse una passione innata, e senza causa morale. Del
che si potrebbero portare infinite prove di fatto, come dell’odio delle
madri brutte verso le figlie belle, e delle persecuzioni che bene spesso
fanno per tal cagione a giovani innocentissime, senza che nè queste nè
esse medesime vedano bene il perché. Così de’ padri di poco ingegno o
in qualunque modo sfortunati, verso i figli di molto ingegno, o in
qualunque modo avvantaggiati su di loro. Così (e questa è cosa
generalissima) de’ vecchi verso i giovani (siano anche loro figliuoli, (anzi
massimamente in simili casi) e femmine o maschi ec. ec.); ogni volta che i
vecchi non hanno deposto i desiderii giovanili, ed ogni volta che i
giovani, ancorché innocentissimi ed ottimi, non si conducano da vecchi.
Così tra fratelli e sorelle ec. ec. Tanto naturalmente l’amor proprio
inseparabile dai viventi, produce e quasi si trasforma nell’odio degli altri
oggetti, anche di quelli che la natura ci ha maggiormente raccomandati
(al nostro stesso amor proprio) e resi più cari. (22. Giugno 1821).
Alla p. 1155. Alle volte, anzi bene spesso dinotano l’appoco appoco, il
corso il progresso dell’azione, per lo più lento, anzi hanno forza bene
spesso di esprimere appunto la lentezza dell’azione, e non si usano ad
altro fine. Ovvero esprimono formalmente la debolezza dell’azione, ed
hanno come una forza diminutiva uguale o simile a quella de’ verbi latini
terminati in itare. Hanno simili modi anche gli spagnuoli e francesi, e gli
adoprano in simili significati. (24. Giugno 1821). Vedi p. 1233. capoverso
2.
Alla p. 1125, marg. - ossia le radici de’ verbi ebraici chiamati perfetti,
tutte composte di tre lettere nè più nè meno, e di due sillabe, ed anche
gl’imperfetti fuorché i Deficienti (come dicono) in Ghaiin, quando per
contrazione perdono la seconda radicale nella terza singolare del
Preterito di kal attivo (cioè della prima coniugazione attiva); e i
Quiescenti detti in Ghaiin Vau, i quali avendo pur tre lettere, hanno però
una sola sillaba nella radice. Questo genere di radici dissillabe e trilettere,
io credo che sia comune e regolare anche nell’Arabo, nel Siriaco e in altre
lingue orientali. (27. Giugno 1821).
Alla p. 1126. Dovrebbe, dico adottare, fra queste voci, tutte quelle che
non hanno, nè possono avere nell’italiano un preciso equivalente, cioè
preciso nella significazione, e preciso nell’intelligenza e nell’effetto.
[1232] Perché se qualcuna di tali voci ha già nell’uso o dello scrivere o del
parlare italiano, una voce corrispondente che produca lo stesso preciso
effetto, quantunque diversa materialmente; o se si può formare dalle
nostre radici, o riporre in uso qualche parola dismessa che indichi la
stessa idea in modo da suscitarla con piena e perfetta precisione, e senza
oscurità nè veruna minima incertezza, e senza niente di vago o di
dissimile, nella mente del lettore, o uditore; non nego, anzi affermo, che
in tal caso (che quando si ponga ben mente a tutte e a ciascuna delle dette
condizioni sarà rarissimo) faremo bene a preferir queste voci nostre, alle
sopraddette, benché universali, e benché in tal caso pure, non saremmo
in diritto di riprenderle come impure, mentre son pure, cioè
comunemente usate, e precisamente intese in tutta l’Europa. (27. Giugno
1821).
La trattabilità e facilità della lingua francese, ond’ella è così agevole a
scriver bene e spiegarsi bene sì per lo straniero che l’adopra o l’ascolta, sì
pel nazionale, non deriva dall’esser ella uno strumento pieghevole e
souple (qualità negatale espressamente dal Thomas) ec. ma dall’essere un
piccolo strumento, e quindi manuale, εὐµεταχείριστος, maneggiabile,
[1233] facile a rivoltarsi per tutti i versi, e ad adoprare in ogni cosa. ec.
(27. Giugno 1821).
Quello che ho detto de’ termini filosofici comuni oggi a tutta Europa,
bisogna anche estenderlo ai nomi appartenenti al commercio, alle arti,
alle manifatture, agli oggetti di lusso ec. ec. che da qualunque lingua e
nazione abbiano ricevuto il nome, lo conservano in gran parte per tutte le
lingue e nazioni, e così è sempre accaduto. Quanto però al Vocabolario
ch’io propongo, il comprendervi questi nomi, sarebbe anche meno
necessario di quelli appartenenti alle scienze esatte o materiali. (28.
Giugno 1821).
Alla p. 1226. marg. fine. L’analisi delle cose è la morte della bellezza o
della grandezza loro, e la morte della poesia. Così l’analisi delle idee, il
risolverle nelle loro parti ed elementi, e il presentare nude e isolate e
senza veruno accompagnamento d’idee concomitanti, le dette parti o
elementi d’idee. Questo appunto è ciò che fanno i termini, e qui consiste
la differenza ch’è tra la precisione, e la proprietà delle voci. La massima
parte delle voci filosofiche divenute comuni oggidì, e mancanti a tutti o
quasi tutti gli antichi linguaggi, non esprimono veramente idee che
mancassero assolutamente ai nostri antichi. Ma come è già stabilito
dagl’ideologi [1235] che il progresso delle cognizioni umane consiste nel
conoscere che un’idea ne contiene un’altra (così Locke, Tracy ec.), e
questa un’altra ec.; nell’avvicinarsi sempre più agli elementi delle cose, e
decomporre sempre più le nostre idee, per iscoprire e determinare le
sostanze (dirò così) semplici e universali che le compongono (giacché in
qualsivoglia genere di cognizioni, di operazioni meccaniche ancora ec. gli
elementi conosciuti, in tanto non sono universali, in quanto non sono
perfettamente semplici e primi); (vedi in questo proposito la p. 1287. fine)
così la massima parte di dette voci, non fa altro che esprimere idee già
contenute nelle idee antiche, ma ora separate dalle altre parti delle idee
madri, mediante l’analisi che il progresso dello spirito umano ha fatto
naturalmente di queste idee madri, risolvendole nelle loro parti,
elementari o no (che il giungere agli elementi delle idee è l’ultimo confine
delle cognizioni); e distinguendo l’una parte dall’altra, con dare a
ciascuna parte distinta il suo nome, e formarne un’idea separata, laddove
gli antichi confondevano le dette parti, o idee suddivise (che per noi sono
oggi altrettante distinte idee) in un’idea sola. Quindi la secchezza che
risulta dall’uso de’ termini, i quali ci destano un’idea quanto più si possa
scompagnata, solitaria e circoscritta; laddove la bellezza del discorso e
della poesia consiste nel destarci gruppi d’idee, e nel fare errare la nostra
mente nella moltitudine delle concezioni, e nel loro vago, confuso,
indeterminato, incircoscritto. Il che si ottiene colle parole proprie,
ch’esprimono un’idea composta di molte parti, e legata [1236] con molte
idee concomitanti; ma non si ottiene colle parole precise o co’ termini
(sieno filosofici, politici, diplomatici, spettanti alle scienze, manifatture,
arti ec. ec.) i quali esprimono un’idea più semplice e nuda che si possa.
Nudità e secchezza distruttrice e incompatibile colla poesia, e
proporzionatamente, colla bella letteratura.
P. e. genio nel senso francese, esprime un’idea ch’era compresa
nell’ingenium, o nell’ingegno italiano, ma non era distinta dalle altre parti
dell’idea espressa da ingenium. E tuttavia quest’idea suddivisa, espressa
da genio, non è di gran lunga elementare, e contiene essa stessa molte
idee, ed è composta di molte parti, ma difficilissime a separarsi e
distinguersi. Non è idea semplice benché non si possa facilmente
dividere nè definire dalle parti, o dal’intima natura. Lo spirito umano, e
seco la lingua, va sin dove può; e l’uno e l’altra andranno certo più
avanti, e scopriranno coll’analisi le parti dell’idea espressa da genio, ed
applicheranno a queste parti o idee nuovamente scoperte, cioè distinte,
nuove parole, o nuovi usi di parole. Così egoismo che non è amor
proprio, ma una delle infinite sue specie, ed egoista ch’è la qualità del
secolo, e in italiano non si può significare.
Così cuore in quel senso metaforico che è sì comune a tutte le lingue
moderne fin dai loro principii, era voce sconosciuta in detto senso alle
lingue antiche, e non però era sconosciuta l’idea ec. ma non bene distinta
da mente, animo ec. ec. ec. ec. Così immaginazione o fantasia, per quella
facoltà sì notabile ed essenziale della mente umana, che noi dinotiamo
con questi nomi, ignoti in tal senso alla buona latinità e grecità, benché
da esse derivino. Ed altri nomi non avevano per dinotarla, sicché anche
queste parole (italianissime) e questo senso, vengono da barbara origine.
(28. Giugno 1821).
[1237] Nè solamente col progresso dello spirito umano si sono distinte
e denominate le diverse parti componenti un’idea che gli antichi
linguaggi denominavano con una voce complessiva di tutte esse parti, o
idee contenute; ma anche si sono distinte e denominate con diverse voci
non poche idee che per essere in qualche modo somiglianti, o analoghe
ad altre idee, non si sapevano per l’addietro distinguer da queste, e si
denotavano con una stessa voce, benché fossero essenzialmente diverse e
d’altra specie o genere. Vedi per esempio quello che ho detto p.1199-200.
circa il bello, e quello ch’essendo piacevole alla vista, non è però bello, nè
appartiene alla sfera della bellezza, benché ne’ linguaggi comuni, si
chiami bello, e l’intelletto volgare non lo distingua dal vero bello.
Da queste osservazioni e da quelle del pensiero precedente, inferite 1.
che quelli i quali scartano tali nuove parole o termini, e vietano la novità
nelle lingue, pretendono formalmente d’impedire l’andamento, e
rompere il corso, e fermare immobilmente e per sempre il progresso
dello spirito umano, posto il quale, la lingua necessariamente
progredisce, e si arricchisce di parole sempre più precise, distinte, sottili,
uniformi ed universali, e in somma di termini; e [1238] vicendevolmente
senza il progresso della lingua (e progresso di questa precisa natura, e
non d’altra, che poco influisce) è nullo il progresso dello spirito umano, il
quale non può stabilire ed assicurare, e perpetuare il possesso delle sue
nuove scoperte e osservazioni, se non mediante nuove parole o nuove
significazioni fisse, certe, determinate, indubitabili, riconosciute; e di più,
uniformi, perché se non sono uniformi, il progresso dello spirito umano
sarà inevitabilmente ristretto a quella tal nazione, che parla quella lingua
dove si sono formate le dette nuove parole; o a quelle sole nazioni che le
hanno bene intese e adottate.
2. Che tali parole o termini, sono affatto incompatibili coll’essenza
della poesia, e l’abuso loro, guasta affatto, e perde e trasforma in
filosofia, o discorso di scienze ec. la bella letteratura. (29. Giugno, dì mio
natalizio. 1821).
Già non accade avvertire che tali parole universali in Europa, non
riuscirebbero nè nuove, nè per verun conto più difficili, oscure, incerte ai
lettori italiani, di quello riescono agli stranieri, non ostante che in Italia
non sieno riconosciute per proprie della lingua, cioè per voci pure, nè
ammesse ne’ Vocabolari. E di questo è cagione 1. l’uso giornaliero [1239]
del parlare italiano, il quale vorrei che non avesse altro di forestiero e di
barbaro, che l’uso di siffatte parole. 2. l’uso di molti scrittori italiani
moderni, i quali parimente vorrei che non meritassero altro rimprovero
fuorché di avere adoperato tali voci. 3. l’intelligenza e l’uso del francese,
familiare agl’italiani come agli altri, dal qual francese son derivate, o nel
quale son ricevute e comuni, e per via e mezzo del quale ci sono
ordinariamente pervenute o tutte o quasi tutte simili parole. Circostanza
notabile e favorevolissima all’introduzione di tali voci in nostra lingua,
mentre quasi tutte le moderne cognizioni, colle voci loro appartenenti, ci
vengono pel canale di una lingua sorella, e già ridotte in forma
facilmente adattabile al nostro idioma, massime dopo averci
familiarizzato l’orecchio mediante l’uso fattone da essa lingua 1.o sì
comune in Italia e per tutto, 2.o. sì affine alla nostra. (29. Giugno, dì di S.
Pietro. 1821).
Alla p. 302. principio. In prova di quello che ho detto della utilità che
risulta ai governi dai partiti loro contrarii, osservate cosa già nota, che
non è luogo dove la religion cattolica, anzi la cristiana, (e così qualunque
altra) sia più rilasciata nell’esterno ancora, e massime nell’interno, come
in quel paese dov’ella è non solo dominante ma unica, cioè in Italia, che
di più è la sua sede. (La Spagna, come finora non civile, e fuori del
mondo colto, non fa eccezione). E proporzionatamente scendendo sì per
le stesse province d’Italia più vicine o più commercianti ec. con religioni
diverse, sì per le diverse nazioni, come la Francia ec. sino alla Germania e
all’Inghilterra ec. si trova che dove la religion cattolica o le altre cristiane,
sono più avvilite, più vicine e frammiste a religioni diverse e contrarie,
sette ec. quivi appunto il loro culto esterno ed interno è più che mai vivo,
sodo, vero, efficace, e fermo. (29. Giugno 1821).
Passano anni interi senza che noi proviamo un piacer vivo, anzi una
sensazione pur momentanea di piacere. Il fanciullo non passa giorno che
non ne provi. Qual è la cagione? La scienza in noi, in lui l’ignoranza.
Vero è che così viceversa accade del dolore. (2. Luglio 1821).
Altra prova che noi siamo più inclinati al timore che alla speranza, è il
vedere che noi per lo più crediamo facilmente quello che temiamo, e
difficilmente quello che desideriamo, anche molto più verisimile. E poste
due persone delle quali una tema, e l’altra desideri una stessa cosa,
quella la crede, e questa no. E se noi passiamo dal temere una cosa al
desiderarla, non sappiamo più credere quello che prima non sapevamo
non credere, [1304] come mi è accaduto più volte. E poste due cose, o
contrarie o disparate, l’una desiderata, e l’altra temuta, e che abbiano lo
stesso fondamento per esser credute, la nostra credenza si determina per
questa e fugge da quella. Nell’esaminare i fondamenti di alcune
proposizioni ch’io da principio temeva che fossero vere, e poi lo
desiderava, io li trovava da principio fortissimi, e quindi
insufficientissimi. (10. Luglio 1821.)
Alla p. 1309. Tanto più che l’osservazione che noi abbiam fatta in noi
stessi delle dette parti è minutissima, e quindi l’idea che abbiamo della
loro conveniente figura ec. è bene esatta e determinata, forse più di
qualunque altra simile idea. E questo pure perch’ella è formata sopra noi
stessi, vale a dire sopra un esemplare che da noi è naturalmente meglio
conosciuto, più precisamente osservato, e più frequentemente anzi
continuamente veduto che qualunque altro oggetto materiale. (10. Luglio
1821.)
Alla p. 1255. marg. - e divenir maturo, pratico ec. p.e. in uno stile, con
una sola lettura, cioè con pochissimo esercizio ec. La qual facilità di
assuefazione, segno ed effetto del talento io la notava in me anche nelle
minuzie, come nell’assuefarmi ai diversi metodi di vita, e nel
dissuefarmene agevolmente mediante una nuova assuefazione ec. ec. In
somma io mi dava presto per esercitato in qualunque cosa a me più
nuova. (12. Luglio 1821.)
La nostra lingua ha, si può dire, esempi di tutti gli stili, e del modo
nel quale può essere applicata a tutti i generi di scrittura: fuorché al
genere filosofico moderno e preciso. Perché vogliamo noi ch’ella manchi
e debba mancare di questo, contro la sua natura, ch’è di essere adattata
anche a questo, perché è adatta a tutti gli stili? Ma nel vero, quantunque
l’esito sia certo, non s’è fatta mai la prova di applicare la buona lingua
italiana al detto genere, eccetto ad alcuni generi scientifici [1317] negli
scritti del Galilei del Redi, e pochi altri; ed alla politica, negli scritti del
Machiavelli, e di qualche altro antico, riusciti perfettamente quanto alla
lingua, ed in ordine alla materia, quanto comportavano i tempi e le
cognizioni d’allora. Ma a quel genere filosofico che possiamo
generalmente chiamare metafisico, e che abbraccia la morale, l’ideologia,
la psicologia (scienza de’ sentimenti, delle passioni e del cuore umano) la
logica, la politica più sottile, ec. non è stata mai applicata la buona lingua
italiana. Ora questo genere è la parte principalissima e quasi il tutto degli
studi e della vita d’oggidì. (13. Luglio 1821.)
I termini della filosofia scolastica possono in gran parte servire
assaissimo alla moderna, o presi nel medesimo loro significato
(quantunque la moderna avesse altri equivalenti), il che non farebbe
danno alla precisione, essendo termini conosciuti nel loro preciso valore;
o torcendolo un poco senz’alcun danno della chiarezza ec. E questi
termini si confarebbero benissimo all’indole della lingua italiana, la quale
ne ha già tanti, e i cui scrittori antichi, cominciando da Dante, hanno
tanto adoperato detta filosofia, ed introdottala nelle scritture più colte ec.
oltre che derivano tutti o quasi tutti dal latino, [1318] o dal greco
mediante il latino ec. Anche per questa parte ci può essere utilissimo lo
studio del latino-barbaro, ed io so per istudio postoci, quanti di detti
termini, andati in disuso, rispondano precisamente ad altri termini della
filosofia moderna, che a noi suonano forestieri e barbari; e possano essere
precisamente intesi da tutti nel senso de’ detti termini recenti: e così
quanti altri ve ne sarebbero adattatissimi, e utilissimi, ancorché non
abbiano oggi gli equivalenti ec. ec. anzi tanto più. Aggiungete che benché
andati in disuso negli scrittori filosofi moderni, gran parte di detti
termini è ancora in uso nelle scuole, o in parte di esse, e per questa e per
altre ragioni, sono di universale e precisa e chiara intelligenza. (13.
Luglio 1821.). V. p. 1402.
Alla p. 1259. principio. Nel che, intorno al giudizio del bello, non
opera tanto l’assuefazione, quanto l’opinione. Giacché di momento in
momento varia il giudizio, e se noi [1319] vediamo una foggia di vestire
novissima, e diversissima dall’usitata, noi subito o quasi subito la
giudichiamo bella, e proviamo ben tosto il senso della bellezza, se
sappiamo che quella foggia è d’ultima moda, e se al contrario, il contrario
ci accade, perché quella nuova foggia contrasta sì all’assuefazione nostra,
come all’opinione. Aggiungete che noi giudichiamo bella quella nuova
foggia di moda, quando pure contrasti a tutte le forme ricevute del bello,
eccetto che allora, bastando un solo momento per formare il giudizio del
bello, vi vorrà però proporzionatamente qualche poco di tempo per
concepirne il senso istantaneo, vale a dire, acquistarne l’assuefazione, la
quale conserva pur sempre i suoi dritti; e disfare l’assuefazione passata.
Del resto quanto la pura opinione indipendente dall’assuefazione
stessa e da ogni altra cosa, influisca sul giudizio e senso del bello, si
potrebbe mostrare con mille prove le più quotidiane, quantunque perciò
appunto meno avvertite. Chi non sa che una bellezza mediocre, ci par
grande, s’ella ha gran fama? E che ci sentiamo più inclinati, e proviamo il
senso della bellezza molto più vivo nel mirare una donna famosa per la
[1320] beltà, che nel mirarne una più bella, ma ignota, o meno famosa?
Così pure se una donna non è bella, ma ha nome di esserlo o è celebre
per avventure galanti, o è stata contrastata ec. ec. ec. Così dico degli
uomini rispetto alle donne ec. ec. Così negli scrittori: il senso del bello è
molto maggiore, più intimo, più frequente, più minuto, quando leggiamo
p.e. un poeta già famoso, e di merito già riconosciuto, che quando ne
leggiamo uno, del cui merito abbiamo da giudicare, sia pur egli più bello
di molti altri che sommamente ci dilettano. Il formare il gusto, in
grandissima parte non è altro che il contrarre un’opinione. Se il tal gusto,
il tal genere ec. è disprezzato, o se tu in particolare lo disprezzi,
quell’opera di quel tal gusto o genere ec. non piace. Nel caso contrario, e
se tu cambi opinione, ecco che quella stessa opera ti dà sommo piacere, e
ci trovi infinite bellezze di cui prima neppur sospettavi. Questo caso è
frequentissimo in ogni genere di cose. Pochissimi trovavano piacere nella
lettura del buono stile italiano, durante l’ultima metà del secolo passato,
e i primi anni di questo. Oggi moltissimi; e quei medesimi che non vi
trovavano alcun diletto, anzi noia ec., oggi se ne pascono con gran
piacere, perché l’opinione in Italia è cambiata. Fra questi così cambiati,
sono ancor io.
[1321] Potrei condurre questo discorso a cento altri particolari. Lo
stile dei trecentisti ci piace sommamente perché sappiamo ch’era proprio
di quell’età. Se lo vediamo fedelissimamente ritratto in uno scrittore
moderno, ancorché non differisca punto dall’antico, non ci piace, anzi ci
disgusta, e ci pare affettatissimo, perché sappiamo che non è naturale
allo scrittore, sebben ciò dallo scritto non apparisca per nulla. Questa è
dunque sola opinione; ragionevole bensì, ma dunque il bello non è
assoluto, perché la stessissima cosa, in diversa circostanza, ci par bella e
brutta, e se noi non sapessimo p.e. la circostanza che quel tale scrittore
sia moderno, quel suo scritto ci piacerebbe moltissimo. Così dite delle
imitazioni le più fedeli nel genere letterario, o nelle arti ec. ragguagliate
cogli originali, ancorché non ne differiscano d’un capello, del che ho
detto in altro pensiero. Così dite della simmetria ec. del che v. la p. 1259.
Così dite degli arcaismi i quali non ci offendono punto, nè ci producono
verun senso di mostruosità in uno scrittore antico, perché sappiamo che
allora si usavano; e ci fanno nausea in un moderno, ancorché di stile
tanto simile all’antico, che quegli arcaismi non vi risaltino, o discordino
dal rimanente nulla più che negli antichi scrittori. (14. Luglio 1821.)
Si suol dire; se il tale incomodo ec. ec. fosse durevole, non sarebbe
sopportabile. Anzi si sopporterebbe molto meglio, mediante
l’assuefazione e il tempo. All’opposto diciamo frequentemente; il tal
piacere ec. sarebbe stato grandissimo, se avesse durato. Anzi durando,
non sarebbe stato più piacere. (15 Luglio 1821.)
Altra gran fonte della ricchezza e varietà [1333] della lingua italiana,
si è quella sua immensa facoltà di dare ad una stessa parola, diverse
forme, costruzioni, modi ec., e variarne al bisogno il significato, mediante
detta variazione di forme, o di uso, o di collocazione ec. che alle volte
cambiano affatto il senso della voce, alle volte gli danno una piccola
inflessione che serve a dinotare una piccola differenza della cosa
primitivamente significata. Non considero qui l’immensa facoltà delle
metafore, proprissima, anzi essenziale della lingua italiana (di cui non la
potremmo spogliare senz’affatto travisarla), e naturale a spiriti così
vivaci ed immaginosi come i nostri nazionali. Parlo solamente del potere
usare p.e. uno stesso verbo in senso attivo, passivo, neutro, neutro
passivo; con tale o tal caso, e questo coll’articolo o senza; con uno o più
nomi alla volta, e anche con diversi casi in uno stesso luogo; con uno o
più infiniti di altri verbi, governati da questa o da quella preposizione, da
questo o da quel segnacaso, o liberi da ogni preposizione o segnacaso; co’
gerundi; con questo o quell’avverbio, o particella (che, se, quanto ec.); e
così discorrendo. Questa facoltà non solamente giova alla varietà ed alla
eleganza che nasce dalla novità ec. e dall’inusitato, e in somma alla
bellezza del discorso, [1334] ma anche sommamente all’utilità,
moltiplicando infinitamente il capitale, e le forze della lingua, servendo a
distinguere le piccole differenze delle cose, e a circoscrivere la
significazione, e modificarla; potendo l’italiano esprimere
facilissimamente e chiaramente, mille cose nuove con parole vecchie
nuovamente modificate, ma modificate secondo il preciso gusto della
lingua ec. Questa facoltà l’hanno e l’ebbero qual più qual meno tutte le
lingue colte, essendo necessaria, ma la nostra lingua in ciò pure, non cede
forse e senza forse nè alla greca nè alla latina, e vince tutte le moderne. E
l’è tanto propria una decisa singolarità e preminenza in questa facoltà,
che forma uno de’ principali ed essenziali caratteri della lingua italiana
formata e applicata alla letteratura. Come dunque vogliamo spogliarla di
questo suo carattere proprissimo, e dell’utilità che ne risulta? Come
vorremo negare agli scrittori italiani la facoltà di continuare a servirsene?
Se essa fu data alla lingua da’ suoi fondatori e formatori ec. E se del tal
uso della tal parola non si troverà esempio nel Vocabolario, dovrà
condannarsi, quantunque si abbiano mille esempi perfettamente simili e
della stessa natura in altre parole, e quantunque il detto uso sia
perfettamente d’accordo colla detta facoltà della lingua, e colla sua
indole? Perché una lingua viva dovrà perdere le sue facoltà, che sole in
lei [1335] sono proprietà vive e feconde, e conservare solamente il
materiale delle parole e modi già usati e registrati, che sono proprietà
sterili, e rispetto alle dette facoltà, proprietà morte? Che matta pedanteria
si è questa di giudicare di una parola o di un modo, non coll’orecchio nè
coll’indole della lingua, ma col Vocabolario? vale a dire non coll’orecchio
proprio, ma cogli altrui. Anzi colla pura norma del caso. Giacché gli è
mero caso che gll antichi abbiano usato o no tale o tal voce in tale o tal
modo ec. e che avendola pure usata, sia stata o no registrata e avvertita
da’ Vocabolaristi. Ma non è caso ch’essi abbiano data o non data alla
lingua la facoltà di usarla ec. e che quella voce, forma ec. convenga o non
convenga colle proprietà della lingua da loro formata, e col suo costume.
ec. E questo non si può giudicare col Vocabolario, ma coll’orecchio
formato dalla lunga ed assidua lettura e studio non del Vocabolario ma
de’ Classici, e pieno e pratico, e fedele interprete e testimonio dell’indole
della lingua, sola solissima norma per giudicare di una voce o modo dal
lato della purità e del poterlo usare ec. E questa fu l’unica guida di tutti
quanti i Classici scrittori [1336] sì di tutte le lingue, come della nostra
prima del Vocabolario, dal quale che effetto sia risultato in ordine alla
stessa purità dello scrivere, e quanto egli abbia giovato alla
conservazione della purità della favella, a cui pare che dovesse
principalmente giovare, v. la pref. del Monti al 2. vol. della Proposta.
Io qui non intendo solamente difendere i nuovi usi delle parole (nel
rispetto soprannotato) che si fa per sola utilità, ma quello pure che si fa
per mera eleganza, senza necessità veruna, ma serve colla sua novità, a
dare alla locuzione ec. ec. quell’aria di pellegrino, e quel non so che di
temperatamente inusitato, e diviso dall’ordinario costume, da cui deriva
l’eleganza ec. (17. Luglio 1821.)
[1338] Alla p. 1113. mezzo. Habitare che nel suo significato metaforico,
(divenuto da gran tempo proprio) di abitare (notate che si usa spesso
attivamente coll’accusativo e passivamente) è manifestamente
continuativo e non frequentativo, viene da habitus di habere. V. il
Forcellini. (17. Luglio 1821.)
Alla p. 1257. Insomma questa idea benché entri subito nel bello
ideale, è figlia della madre comune di tutte le idee, cioè dell’esperienza
che deriva dalle nostre sensazioni, e non già di un insegnamento e di una
forma ispirataci e impressaci dalla natura nella mente avanti
l’esperienza, il che non è più bisogno dimostrare dopo Locke. Ma quello
che mi tocca provare si è, che queste sensazioni, sole nostre maestre,
c’insegnano che le cose stanno così, perché così stanno, e [1340] non
perché così debbano assolutamente stare, cioè perch’esista un bello e un
buono assoluto ec. Questo noi lo deduciamo pure dalle nostre sensazioni,
(e lo deduciamo naturalmente, come ne deduciamo naturalmente le idee
innate, della quale opinione questa è una conseguenza) ma questo è ciò
che non ne possiamo dedurre; e non possiamo, appunto perché tutto ci è
insegnato dalle sole sensazioni, le quali sono relative al puro modo di
essere ec. e perché nessuna cognizione o idea ci deriva da un principio
anteriore all’esperienza. Quindi è chiaro che la distruzione delle idee
innate distrugge il principio della bontà, bellezza, perfezione assoluta, e
de’ loro contrarii. Vale a dire di una perfezione ec. la quale abbia un
fondamento, una ragione, una forma anteriore alla esistenza dei soggetti
che la contengono, e quindi eterna, immutabile, necessaria, primordiale
ed esistente prima dei detti soggetti, e indipendente da loro. Or
dov’esiste questa ragione, questa forma? e in che consiste? e come la
possiamo noi conoscere o sapere, se ogn’idea ci deriva dalle sensazioni
relative ai soli oggetti esistenti? Supporre il bello e il buono assoluto, è
tornare alle idee di Platone, e risuscitare le idee innate dopo averle
distrutte, giacché tolte queste, non v’è altra possibile [1341] ragione per
cui le cose debbano assolutamente e astrattamente e necessariamente
essere così o così, buone queste e cattive quelle, indipendentemente da
ogni volontà, da ogni accidente, da ogni cosa di fatto, che in realtà è la sola
ragione del tutto, e quindi sempre e solamente relativa, e quindi tutto
non è buono, bello, vero, cattivo, brutto, falso, se non relativamente; e
quindi la convenienza delle cose fra loro è relativa, se così posso dire,
assolutamente. (17. Luglio 1821.)
Il nostro gli, il nostro gn, e simili suoni, sono distinti da tutti gli altri, e
volendo esattamente rappresentarli converrebbe farlo con caratteri
particolari e distinti. Giacché il gli, benché partecipi del suono di g e di l
ne partecipa come [1343] suono affine, alla maniera di tanti altri, che pur
si distinguono da’ loro affini, con caratteri propri; ma in realtà non è nè g,
nè l, e non contiene precisamente nessuno dei due, ed è una consonante
distinta, ed unica, quando anche si voglia chiamare composta, come la z.
La quale sarebbe male espressa con ts o ds ec. Così la f è differente dal p,
quantunque sia composta di questo suono, e di un’aspirazione o soffio, e
i greci anticamente l’esprimessero col carattere del p, e con quello
dell’aspirazione cioè H. Quel suono che contiene veramente il g e la l, è
quello della nostra parola Inglese, o del francese aigle, anzi generalmente
del francese gl, ben diverso dal nostro gli. Tuttavia si può lodare, l’avere
(per maggior semplicità dell’alfabeto) rappresentato questo suono, co’
due caratteri, del suono de’ quali partecipa; il che dimostra la sottigliezza
con cui s’è analizzata la voce articolata, fino a decomporre parecchi suoni
che non equivalgono precisamente a verun altro. Questa lode però spetta
particolarmente alla lingua italiana, giacché i francesi esprimono il detto
suono con due ll, e così gli spagnuoli. Carattere insufficiente, e male
appropriato, e che dimostra minor sottigliezza di analisi. V. p. 1345.
capoverso 2. Nel qual proposito mi piace di riferire quello che dice M.
Beauzée (Encycl. méthod. in H.), parlando di un altro carattere, cioè dell’h.
Il semble qu’il auroit été plus raisonnable de supprimer de [1344] notre
orthographe tout caractère muet: et celle des Italiens doit par-là meme arriver
plutôt que la nôtre à son point de perfection, parce qu‘ils ont la liberté de
supprimer les H muetes. La mia osservazione ancora può molto servire a
mostrare quanto la scrittura materiale italiana e il suo sistema sia più
filosofico, e al tempo stesso più naturale che forse qualunque altro. Puoi
vedere la p. 1339. (17. Luglio 1821.). Il gl, il gn ec. hanno parte di g e parte
di l, ec. ma non contengono queste due lettere intere, e non sono nè l’una
nè l’altra. Sono dunque vere lettere proprie, e non doppie, perché non è
doppio quello che ha due metà. Così dico della z. Non così l’x, che
contiene due lettere intere, e non è che una cifra, ossia un carattere (e non
lettera) doppio.
Alla p. 1246. marg. Ho detto altrove che la lingua francese è
universale, anche perché lo scritto differisce poco dal parlato, a
differenza dell’italiano. Questo non si oppone alle presenti osservazioni:
1. perché ciò s’intende, ed è vero, massimamente nel gusto, nella
costruzione nella forma, e nel corpo intero della lingua e dello stile
francese scritto, che pochissimo varia dal parlato: ma non s’intende delle
particolari parole e locuzioni e costruzioni volgari. 2. perché la lingua
francese polita differisce dalla popolare assai meno dell’italiana. E ciò,
primo, per le circostanze politiche e sociali ec. diverse assai nell’una
nazione rispetto all’altra: secondo, [1345] perché la lingua italiana
essendo divisa in tanti dialetti popolari, ha un dialetto comune e polito
necessariamente diviso assai da tutte le favelle popolari; dico un dialetto
comune, non solo scritto, ma parlato da tutte le colte persone d’Italia, in
ogni circostanza conveniente ec. Ora la singolarità della lingua italiana
scritta consiste appunto nell’aver preso più di qualunque altra, dalla
favella popolare sì divisa dalla colta, e massime da un particolare dialetto
vernacolo, ch’è il toscano; e nell’aver saputo servirsene, e nobilitare, e
accomodare alla letteratura quanto n’ha preso. Ma la lingua francese
scritta, poco si differenzia da quella della conversazione ec.: dove però
questa si differenzia da quella del volgo, quella del volgo non influisce e
non somministra nulla alla lingua letterata francese. 3. Ho già detto che
da principio, cioè quando la lingua italiana scritta seguiva
principalmente questo costume di attingere dalla favella popolare,
costume che ora ha quasi, e malamente, abbandonato, allora anch’ella era
effettivamente assai simile alla parlata. ec. Anche ora ella si accosta al
1346] parlar polito, e vi si accosta più di quello che mai facesse il latino
scritto ec. ma non si accosta al parlar popolare, che tanto fra noi differisce
dal polito. (19. Luglio 1821.)
Alla p. 1343. marg. Anche questo però serve a dimostrare che il detto
suono, non è quello di g ed l: il quale è rappresentato appunto da’
francesi ec. con gl, ed anche da noi, come ho detto. Del resto il suono del
nostro gli e dell’ill francese, ed ll spagnuolo, mancava alla lingua latina
ed alla greca, le quali però aveano il suono del gl come in Aegle (Virg. Ecl.
6. 20-21.), γλυχύς ec. (19. Luglio 1821.)
Una cosa è tanto più perfetta quanto le sue qualità sono meglio
ordinate al suo fine. Questa perfezione evidentemente relativa, si può
misurare, e paragonare anche con perfezioni d’altri generi. Ma la maggiore o
minor perfezione dei diversi fini come si può misurare? come si possono
comparare i diversi fini? Che ragione assoluta, che norma comparativa
esiste indipendentemente da checchessia, per giudicare questo fine più
perfetto o migliore di quello, fuori di un medesimo sistema di fini?
(Giacché dentro un medesimo sistema, i fini subalterni si possono
paragonare: non sono però veramente fini, ma mezzi, e parti, e qualità
anch’essi del sistema.) Come dunque si può assolutamente giudicare
della maggiore o minor perfezione astratta delle cose? E come può
sussistere un bene o un male assoluto, una bontà o bellezza assoluta, o i
loro contrari? (20. Luglio 1821.)
[1356] Un viso bellissimo, il quale abbia qualche somiglianza con una
fisonomia di nostro controgenio, o che abbia l’idea, l’aria di un’altra
fisonomia brutta ec. ec. non ci par bello. (20. Luglio 1821.)
Tutto ciò si deve applicare non solo alle lingue, ma alle letterature
ancora, la cui perfezione parimente consiste in quel punto che ho detto
delle lingue, ec. ed alle quali parimente conviene separarsi dalla
moderna filosofia, ed ai letterati non esser filosofi alla moderna, non solo
nelle scritture, ma, se è possibile, neppur nell’animo ec. (21. Luglio 1821.)
Oύδὲν τοῦ ὅλου, rien du tout, pas (che val propriamente nulla) du tout.
(21 Luglio 1821.)
Chi vuol vedere la differenza fra l’amor patrio antico e moderno, e fra
lo stato antico e moderno delle nazioni, e fra l’idea che s’aveva
anticamente, e che si ha presentemente del proprio paese ec. consideri la
pena dell’esilio, usitatissima e somma presso gli antichi, ed ultima pena
de’ cittadini romani; ed oggi quasi disusata, e sempre minima, e [1362]
spesso ridicola. Nè vale addurre la piccolezza degli stati. Presso gli
antichi l’essere esiliato da una sola città, fosse pur piccola, povera,
infelice quanto si voglia, era formidabile, se quella era patria dell’esiliato.
Così forse anche oggi nelle parti meno civili; o più naturali, come la
Svizzera ec. ec. il cui straordinario amor patrio è ben noto ec. Oggi l’esilio
non si suol dare veramente per pena, ma come misura di convenienza, di
utilità ec. per liberarsi della presenza di una persona, per impedirla da
quel tal luogo ec. Non così anticamente dove il fine principale
dell’esiliare, era il gastigo dell’esiliato. ec. ec. (21. Luglio 1821.). La
gravità della pena d’esilio consisteva nel trovarsi l’esiliato privo de’
diritti e vantaggi di cittadino (giacché altrove non poteva essere
cittadino), i quali anticamente erano qualche cosa.
Mess. ad uno che gli esponeva la sua passione per una donna, Ma
ella, disse, è tua rivale. Soleva dire che tutte le donne sono ardentissime
rivali de’ loro amanti. (21. Luglio 1821.)
Non basta che Dante, Petrarca Boccaccio siano stati tre sommi
scrittori. Nè la letteratura nè la lingua è perfetta e perfettamente formata
in essi, nè quando pur [1367] fosse ciò basterebbe a porre nel 300 il secol
d’oro della lingua. Qual poeta, anzi quale scrittore, anzi quale ingegno
maggiore di Omero ebbe mai, non dirò la Grecia, ancorché sì feconda per
sì gran tempo, ma il mondo? E tuttavia nessuno può riporre la perfetta
formazione e il secol d’oro della lingua greca, nel tempo, e neppur nella
lingua d’Omero: (v. se vuoi, la lettera al Monti sulla Grecità del Frullone,
in fine. Proposta ec. vol. 2. par. 1. appendice.) quantunque la lingua greca
sia molto più formata in Omero, che non è l’italiana massime in Dante;
perché Dante fu quasi il primo scrittore italiano, Omero non fu nè il
primo scrittore nè il primo poeta greco. E la lingua greca architettata
(siccome lingua veramente antica) sopra un piano assai più naturale ec.
del nostro, era capace di arrivare alla perfezione sua propria in molto
meno tempo dell’italiana, ch’è pur lingua moderna, e spetta
(necessariamente) al genere moderno. (22. Luglio 1821.). V. p. 1384. fine.
Alla mia teoria del piacere aggiungi che quanto più gli organi del
vivente sono suscettibili, sensibili, mobili, vivi, insomma quanto è
maggiore la vita naturale del vivente, tanto più sensibile e vivo è l’amor
proprio (ch’è quasi tutt’uno colla vita) e quindi il desiderio della felicità
ch’è impossibile, e quindi l’infelicità. Così accade dunque agli uomini
rispetto alle bestie, così a queste pure gradatamente, così agl’individui
umani ec. più sensibili, immaginosi ec. rispetto agli altri individui della
stessa specie. E l’uomo anche in natura, è quindi ben conseguentemente,
il più infelice degli animali (come vediamo), perciò stesso che ha più vita,
più forza e sentimento vitale che gli altri viventi. (24. Luglio 1821.)
Alla p. 1365. fine. La memoria non è quasi altro che virtù imitativa,
giacché ciascuna reminiscenza è quasi un’imitazione che la memoria,
cioè gli organi suoi propri, fanno delle sensazioni passate, (ripetendole,
rifacendole, e quasi contraffacendole); e acquistano l’abilità di farla,
mediante un’apposita e particolare assuefazione, diversa dalla generale, o
esercizio della memoria, di cui v. p. 1370. seg. Così dico delle altre
imitazioni, e assuefazioni, che sono quasi imitazioni ec. Tanto più che
quasi ogni assuefazione e quindi ogni attitudine abituale acquisita della
mente, dipende in gran parte dalla memoria ec. (24. Luglio 1821.)
Dal sopraddetto si vede che la proprietà della memoria non è
propriamente di richiamare, il che è impossibile, trattandosi di cose poste
fuori [1384] di lei e della sua forza, ma di contraffare, rappresentare,
imitare, il che non dipende dalle cose, ma dall’assuefazione alle cose e
impressioni loro, cioè alle sensazioni, ed è proprio anche degli altri
organi nel loro genere. E le ricordanze non sono richiami, ma imitazioni,
o ripetizioni delle sensazioni, mediante l’assuefazione. Similmente (e
notate) si può discorrere delle idee. Questa osservazione rischiara assai la
natura della memoria, che molti impossibilmente hanno fatto consistere
in una forza di dipingere, o ricevere le impressioni stabili di ciascuna
sensazione o immagine ec. laddove l’impressione non è stabile, nè può. E
v. in tal proposito quello che altrove ho detto delle immagini visibili delle
cose, che senza volontà nè studio della memoria, ci si presentano la sera,
chiudendo gli occhi ec. Effetto puro dell’assuefazione degli organi a
quelle sensazioni e non già di una continuazione di esse. (24. Luglio
1821.)
Alla p. 1367. fine. Chi vuol vedere che la lingua italiana nel 300 non fu
formata malgrado i 3 sommi sopraddetti, osservi che il Boccaccio,
l’ultimo de’ tre quanto al tempo, s’ingannò grossamente, e fece un
infelice tentativo nella [1385] prosa italiana, togliendole il diretto e naturale
andamento della sintassi, e con intricate e penose trasposizioni infelicemente
tentando di darle (alla detta sintassi) il processo della latina. (Monti, Proposta
t. 1. p. 231.). Il che dimostra che dunque se in questi tre sommi si volesse
anche riporre il perfezionamento ec. della lingua italiana poetica, (che è
falsissimo) non si può nel trecento riporre, a cagione de’ 3. sommi, quello
della lingua italiana prosaica. Ora una lingua senza prosa, come può
dirsi formata? La prosa è la parte più naturale, usuale, e quindi
principale di una lingua, e la perfezione di una lingua consiste
essenzialmente nella prosa. Ma il Boccaccio primo ed unico che
applicasse nel 300 la prosa italiana alla letteratura, senza la quale
applicazione la lingua non si forma, non può servir di modello alla prosa.
E notate ancora che dunque il Boccaccio ch’era pure sì grande ingegno,
scrivendo dopo i 2 grandi maestri sopraddetti, e dopo tanti altri
prosatorelli italiani, s’ingannò di grosso intorno alla stessa indole della
lingua [1386] italiana, intorno alla forma che le conveniva applicandola
alla letteratura, vale a dire insomma alla sua forma conveniente, o le ne
diede una ch’ella ha poi del tutto abbandonata, e che le divenne subito
affatto sconveniente. Dunque la lingua italiana, almeno quanto alla
prosa, ch’è il principale, non era ancora formata; il Boccaccio non valse a
formarla, anzi errò di gran lunga. Come dunque la lingua italiana fu
formata dai detti tre? come fu formata nel 300. se il principale prosatore
italiano di quel secolo, e l’unico che appartenga alla letteratura, non
conobbe la sua forma conveniente, e se non può servire di modello a
veruna prosa? (25. Luglio 1821.)
La semplicità è quasi sempre bellezza sia nelle arti, sia nello stile, sia
nel portamento, negli abiti ec. ec. ec. Il buon gusto ama sempre il
semplice. Dunque la semplicità è assolutamente e astrattamente bella e
buona? Così si conclude. Ma non è vero. Perché dunque suol esser bella?
Ho detto che il naturale è conveniente, e quindi per lo più bello, cioè
giudicato tale. Or dunque la semplicità suol essere, cioè parer bella, 1.
perché suol esser propria della natura, la quale, (potendo ben fare
altrimenti) si è per lo più diportata semplicemente, coi mezzi semplici ec.
ec. (il che massimamente apparisce dalla [1412] mia teoria della natura)
almeno quanto all’apparenza delle cose. La quale solo bisogna
considerare circa il bello: giacché la natura forzatamente e contro natura
scoperta e svelata, non è più natura, qual ella è; e quindi non è più fonte
di bellezza ec. ec.
2. La semplicità è bella, perché spessissimo non è altro che
naturalezza; cioè si chiama semplice una cosa, non perch’ella sia
astrattamente e per se medesima semplice, ma solo perché è naturale,
non affettata, non artifiziata, semplice in quanto agli uomini, non a se
stessa, e alla natura ec.
Per queste, e non per altre ragioni, la semplicità forma parte
essenziale, e carattere del buon gusto, e sebbene gli uomini se ne possono
allontanare, certo però vi tornano, cioè tornano alla natura, la quale nelle
cose essenziali è immutabile. Perciò le poesie o scritture greche saranno
sempre belle, non riguardo al bello in se stesso, ma riguardo alla
semplicità e naturalezza loro. ec. E quei tempi e quei paesi e quegli
uomini che non le hanno apprezzate, o le hanno disprezzate, si chiamano
e furono di cattivo gusto, [1413] non perché non conoscessero ec. le leggi
eterne e necessarie del bello (come si dice), le quali non esistono, ma
perché, a forza di assuefazioni ec. corrotte, cioè non naturali, e quindi
non proprie, non convenienti all’uomo, si erano ridotti a non conoscere o
misconoscere, e non sentir la natura, che è veramente o può dirsi eterna.
E però ripugnavano al gusto che solo può durare, ed essere universale
negli uomini, perché solo ha il suo fondamento nella realtà delle cose
quali sono; e il loro gusto, non potendo nè piacere a tutti, nè per lungo
tempo, era falso in quanto a questo, non in quanto a se. Così dico delle
pitture, statue, architetture greche. Così della letteratura italiana, la quale
intanto è universalmente preferita, malgrado le diversità de’ gusti ec. in
quanto, non il bello, ma la natura è universale, e la letteratura italiana è la
più conforme alla natura. E perciò, e non riguardo al bello indipendente,
si considerano e sono modelli di buon gusto le letterature ec. antiche,
siccome più [1414] prossime, anche materialmente alla natura, e quindi
più semplici. ec. Quell’inaffettato, quel dipingere al vivo le cose o i
sentimenti, le passioni ec. e far grandissimo effetto quasi non volendo, è
bellezza eterna, perch’è naturale, ed è il solo vero modo d’imitar la
natura, giacché si può male imitar la natura, anche imitandola
vivissimamente, e l’imitazione la più esatta può essere anzi è per lo più la
meno naturale, e quindi meno imitazione. V. il mio Discorso sui
romantici dove si parla di Ovidio. ec.
Le vantate, immutabili, ed universali leggi del bello, sono dunque
giuste (complessivamente e quanto all’essenziale); ma non perché il bello
in se stesso sia immutabile e universale e assoluto, ma perché tale è la
natura, che essendo natura, è quindi la principale e più solida fonte delle
convenienze in ciò ch’ella contiene, e però del bello. Quindi la teoria delle
belle arti (eccetto alcuni particolari) resta salda, quanto ai precetti ec.
benché speculativamente s’inganni nei principii fondamentali. Ma
l’astrazione generalmente non nuoce nel nostro caso al concreto: perché
solamente si tratta di chiamar leggi di natura, necessarie quanto a noi, ma
libere quanto a lei, quelle che la detta teoria suol chiamare leggi
assolutamente necessarie del bello. Quindi restano le regole della
rettorica, della poetica ec. restano gl’indizi per distinguere e fuggire i falsi
gusti ec. solamente che si chiamino falsi non in se stessi nè in quanto al
bello, ma in quanto ripugnanti al modo di essere effettivo delle cose.
Ond’è che il principio delle [1415] belle arti ec. ec. si deve riconoscere
nella natura, e non già nel bello, quasi indipendente dalla natura, come si
è fatto finora.
Veniamo adesso ad alcune considerazioni le quali dimostreranno
come la semplicità che si tiene per qualità assolutamente bella, vari nel
giudizio degli uomini e nella stessa natura. 1. in quanto semplicità, 2. in
quanto bellezza.
I tempi, costumi, opinioni, climi, razze ec. ec. diversificano il giudizio
e il gusto degli uomini intorno alla semplicità niente meno che intorno al
bello e al grazioso ec. Ho detto che la letteratura italiana, la più semplice
delle moderne, è universalmente preferita. 1 Nondimeno è certo che i
francesi, come eccessivamente civilizzati, differiscono sommariamente
dalle altre nazioni nel giudizio di che cosa sia semplice, ed essendo
semplice sia naturale, ed essendo naturale sia bella; quantunque si
accordino con tutte le nazioni di buon gusto nel giudicare che il semplice
e naturale è bello, cioè conveniente. Ai francesi producono l’effetto di
somma semplicità, naïveté, (e [1416] quindi o grazia o bellezza) mille cose
che a noi italiani (se conserviamo il gusto italiano, o l’antico) e anche agli
altri, paiono o affettate o certo ricercate, artifiziate, studiate; o finalmente
assai meno vicine alla natura di quello che paiono ai francesi, e quindi vi
sentiamo assai meno grazia e bellezza, o nessuna, o anche bruttezza;
ovvero le riponiamo nel numero delle bellezze d’artifizio ec. Esempi, La
Fontaine, modello di semplicità per li francesi, Fénélon di grazia, Bossuet
di sublimità ec. Ma i francesi tanto lontani dalla natura sono colpiti da
quello che n’è più vicino, benché riguardo al nostro stato ne sia per anche
troppo lontano. Viceversa quello che a noi italiani par semplice, naturale,
bello, grazioso, ai francesi pare così eccessivamente semplice, che non par
loro naturale, (giudicando, come sempre accade, della natura, dalla
condizione in cui essi si trovano) nè vi sentono grazia o bellezza, ma
viltà, bassezza e deformità. Ed è cosa ordinarissima e frequentissima che
la grazia, la semplicità, la naturalezza [1417] francese, sia affettazione,
artifizio, ricercatezza per noi, e la semplicità ec. italiana, sia rozzezza per
li francesi, intollerabile e ridicola. E pur tutti conveniamo nel giudicar
bello e grazioso il semplice e naturale, come tutti ci accordiamo nel
giudicar bello il conveniente, senza accordarci nel giudicare della
convenienza.
Le altre nazioni non differiscono meno tra loro, e per gl’inglesi non
sarà bastantemente naturale nè semplice quello che lo è per gl’italiani, e
viceversa sarà sconcio e rozzo per gl’italiani quello ch’è naturale,
semplice, naïf per gl’inglesi ec. ec.
I tempi differiscono assai di più. Lasciamo stare la letteratura classica
greca paragonata colla classica latina, che pur si formò su di quella. I
trecentisti ci piacciono assai anche oggi, ma oggi chi scrivesse
precisamente come loro, in questa lingua, ch’è pur la stessa, sarebbe
giudicato barbaro, e quella semplicità ec. ec. parrebbe eccessiva, cioè
sconveniente, inverisimile, e non più naturale oggidì, quantunque [1418]
la natura in quanto all’essenziale non si muti. I francesi gustano i latini e i
greci, ma si guarderebbero bene dall’imitarne molte cose, che in quelli
non li disgustano, anzi paiono loro bellezze, perché le giudicano
convenienze relativamente alle circostanze della loro natura, de’ tempi
ec. Del resto non mancano francesi che anche quanto al bello,
antepongano la loro letteratura alle antiche, segno di falso gusto, cioè
allontanato dalla natura, più gradi, che non ne sono allontanati gli altri
gusti. I francesi di buon gusto cioè più naturale, gusteranno anche
gl’italiani classici, sebbene tanto opposti alla loro maniera. Li gusteranno
però meno di quello che facciano (ed effettivamente lo fanno) le altre
nazioni, e saranno offesi di molte che a noi e agli altri paiono naturalezze.
Non dico niente delle letterature e gusti orientali, o selvaggi ec. ec.
Ho discorso delle sole letterature. Altrettanto va detto delle belle arti,
modi di conversare ec. ec. e di tutto ciò dov’entra il semplice e il naturale.
Ho notato altrove certe naïvetés francesi che mi paiono affettatissime,
non relativamente, [1419] cioè perch’elle non sieno naïvetés per noi, ma
(dirò così) assolutamente, perch’essendo naïvetés anche per noi, e vere
naïvetés, risaltano e contrastano sopramodo colla maniera e lo stile ec. di
quella nazione, e producono il senso della sconvenienza, almeno in noi
che in questo punto, e nel giudizio della naturalezza (che è tutto ciò che
si chiama finezza di gusto, e che si venera e si consulta negli antichi
maestri ec.), siamo più delicati. Ed ecco come la stessa assoluta semplicità
o naturalezza, che si considera per assolutamente bella, possa molte volte
esser brutta, perché sconveniente, secondo le circostanze, le assuefazioni,
le opinioni ec. Il che si avvera in milioni di casi, come ho dimostrato.
Insomma tante sono le naturalezze quante le assuefazioni, e quindi lo
stesso buon gusto si divide in tanti gusti, quante sono le assuefazioni ec.
de’ tempi e luoghi ec. e quanto ai particolari non c’è regola generale
intorno al bello di letteratura, arti ec.
Prima di lasciare il discorso della semplicità, voglio notare che
siccome il piacer che si riceve dal bello, dal grazioso ec. è bene spesso
[1420] in ragione dello straordinario dentro certi limiti, così noi proviamo
della semplicità de’ greci de’ trecentisti ec. maggior piacere assai che i
loro contemporanei, e quindi l’ammiriamo di più, e la troviamo assai
spesso più bella ec. Così pure accade secondo le diverse nazioni. Vale a
dire che la differenza delle nazioni e de’ tempi, ossia delle assuefazioni
ec. come può diminuire il pregio della semplicità e naturalezza ec.
secondo che ho dato a vedere, così lo può anche aumentare, e variare
intorno ad essa il giudizio e il senso degli uomini anche in questa parte.
V. p. 1424. Tanto è vero che tutte le sensazioni umane sono modificate e
dipendono quasi esclusivamente dall’assuefazione e dalle circostanze ec.
V. ed applica alla semplicità quanto ho detto della grazia. p. 1322-28. (30.
Luglio 1821.)
Siccome gl’inglesi hanno una patria, però sono accusati come i
francesi di non trovar bello nè buono se non ciò ch’è inglese, e di un
gusto esclusivo per le cose loro. (30. Luglio 1821.)
La forza anche passeggera del corpo, oltre gli effetti altrove notati,
rende anche più coraggiosi del solito, e meno suscettibili al timore, anche
[1421] de’ pericoli straordinari ec. Quindi i giovani sono più coraggiosi
de’ vecchi, e disprezzatori della vita, benché abbiano tanto più da
perdere ec. contro quella osservazione ordinarissima, che principal fonte
di coraggio suol essere l’aver poco a perdere ec. (31. Luglio 1821.)
Alla p. 512. marg. Ancor noi oltre ove ch’è ubi, abbiamo pur dove che
vale il medesimo, ma è quasi de ubi, cioè unde. Siccome gli spagnuoli per
ubi dicono donde (e adonde) che è quasi de unde. E noi pure oltre onde cioè
unde, abbiamo donde, che per altro vale, non ubi, ma unde. (31. Luglio
1821.)
Alla p. 1420. marg. Del resto la durevolezza del gusto che si trova in
questa semplicità p.e. di Omero ec. l’universalità di questo gusto (almeno
fra le nazioni di un medesimo genere ec.), il risorgere ch’egli fa negli
uomini, ancorché spento talora dalle circostanze; il perpetuarsi; il
crescere in luogo di scemare, siccome ho detto; tutto ciò non è proprio nè
possibile se non a quella vera semplicità, o a quelle qualità d’ogni genere
(sia in letteratura o altrove) che sono realmente conformi alla natura
immutabile, e universale; almeno alla natura qual ella è in quelle tali
nazioni. Da questo dunque e non da altro può derivare ciò che dice
Voltaire: pourquoi des scènes entières du PASTOR FIDO sont-elles sçues par coeur
aujourd’hui à Stocolm et à Pétersbourg? et pourquoi aucune piece de
Shakespeare n’a-t-elle pu passer la mer? C’est que le bon est recherché de toutes
les nations. Un falso pregio, cioè non naturale, in fatto di bellezza, non
può dunque nè lungamente nè comunemente essere stimato, e la mia
teoria che distrugge il bello assoluto, lascia salda questa massima, e
quella che il giudizio conforme delle nazioni e de’ secoli circa il bello
d’ogni genere, non erra mai; e lascia interi e inviolati i diritti che i grandi
scrittori, poeti, artisti, hanno alla immortalità, ed alla universalità della
fama. (31. Luglio 1821.)
Alla p. 1424. Molte volte non basta che una nazione sia stata la prima
inventrice di una disciplina, datole il nome, e una certa nomenclatura.
Bisogna vedere dov’ella ha ricevuto il suo principale [1428] incremento e
formazione. E se ciò è stato presso un altro popolo, e se ciò ha cangiato il
suo primo nome e la sua prima nomenclatura, allora quello stesso popolo
che inventò quella disciplina, e la comunicò agli stranieri, ricevendola
scambievolmente dagli stranieri come nuova, non dovrà adoprar mica
que’ suoi primi nomi, ch’egli non ne ha più il dritto, non sarebbe inteso
neppur da’ suoi, e guasterebbe ogni cosa; ma gli sarà forza adottare que’
nuovi termini, e il nuovo nome della stessa disciplina. Così (v. p. 1422-
1424.) quando anche l’Italia fosse stata la prima a ridurre a scienza il
commercio sotto nome di mercatura, s’ella poteva dargli questo nome al
tempo del Davanzati (nel qual tempo, oltracciò l’Europa non era in tale
stato che potesse avere vocaboli universali, o ne abbisognasse ec. nè la
precisione della convenzione era sì stabilita ec.), non può darglielo oggi
che questa scienza per opera principalmente degli stranieri, mutando
faccia da quello ch’era nel 500, ha preso un altro nome universalmente
adottato dalle colte nazioni. E [1429] quantunque in etimologia possa egli
chiamarsi sinonimo dell’italiano, non è sinonimo quanto all’uso ed
all’idea che produce in forza della convenzione, sola arbitra dei
significati de’ vocaboli, che per se nulla mai significano, e del più e del
meno di detti significati ec. (1. Agosto 1821.)
Non c’è miglior modo di far colpo e fortuna con una giovane superba
e sprezzante, che disprezzandola. Or chi crederebbe che l’amor proprio
(giacché dal solo amor proprio deriva l’amore altrui) potesse produrre
questo effetto, che quando egli è punto, si provasse inclinazione per chi
lo punge? Chi non crederebbe al contrario che una donna altera e
innamorata di se stessa, dovesse vincersi, interessarsi, allettarsi cogli
ossequi, cogli omaggi, ec.? Eppur così è. Non solo l’ossequio e l’omaggio
ti farà sempre più disprezzar da costei, ma se disprezzandola tu sei
pervenuto a fissarla, e a produrle una inclinazione per te, ed allora o per
amore, o per abbandono, o per credere di aver fatto abbastanza, ec. tu
cerchi di cattivartela coi mezzi più naturali, e le dai qualche piccolo
segno di sommissione, [1432] di amore che si dimostri per vero ec. tu hai
tutto perduto, ed ella immediatamente si disgusta di te, e ti disprezza.
Conviene che tu segua imperturbabile a mostrarle noncuranza fino alla
fine. Ed è questo un effetto semplicissimo di quel centiforme amor
proprio, che produce gli effetti i più svariati e contrari. Tanto che, mentre
quasi tutte le donne si cattivano col disprezzo, (sebbene alcune volte, e in
certe circostanze, se ne offendono) quelle però massimamente dove
l’amor proprio è più vivo e tirannico, cioè le più superbe ed egoiste ec. V.
in questo proposito les Mémoires secrets de Duclos à Lausanne 1791. t. 1.
p. 95. e p. 271-273. V. in questo proposito altro pensiero dove ho notato
questo effetto, discorrendo della grazia. Certo è però che questa
modificazione dell’amor proprio, non è delle più naturali, benché non
molto lontana dalla natura; e ricerca un carattere alquanto alterato, ma
per altro comunissimo. (1 Agos. 1821.)
La detta applicazione non credo che sia stata mai fatta, almeno
sufficientemente. Quando il Cartesio imprese la riforma della vecchia
filosofia, dovette, secondo la qualità di que’ tempi (e pur troppo di tutti i
tempi) entrare in guerra aperta colle scuole d’allora: e il mondo avrebbe
stimato ch’egli prevaricasse, o desse indizio di povertà o fiacchezza, se
avesse voluto servirsi più che tanto del linguaggio de’ suoi nemici. Così
appoco appoco, prevalendo la nuova dottrina, non più a causa della
ragione, che della novità, e dismessa la vecchia filosofia, nessuno ebbe
cura bastante di cernere il buono dal cattivo, e gittando questo,
conservare o richiamar quello, massime circa il linguaggio. In ordine alla
teologia molto peggio. La teologia s’è abbandonata da chiunque ora
influisce cogli studi sullo spirito d’Europa ec. non per migliorarla o
rinnovarla, ma del tutto, come scienza vecchia, e [1469] quasi come
l’alchimia. Ora quanto sia il numero degli scrittori e pensatori teologici
diversissimi di tempo, di paese, di lingua, di opinioni ancora e di sistemi
e di sette, e conseguentemente quanta debba esser la ricchezza del
linguaggio di questa scienza, linguaggio tutto astratto perché la scienza è
tale, linguaggio che s’è tutto abbandonato e dimenticato insieme con lei,
facilmente si comprende. (8. Agos. 1821.)
Il formare il nostro Dio degli attributi che a noi paiono buoni, benché
non lo sieno che relativamente, è un’opinione meno assurda, ma della
stessa natura, andamento, origine, di quella che attribuiva agli Dei figura
e qualità e natura quasi del tutto umana; di quella che, come dice
Senofane presso Clemente Alessandrino, se il cavallo o il bue sapesse
dipingere, gli farebbe dipingere e immaginare i suoi Dei in forma e
natura di cavalli o di buoi. V. il mio Discorso sui romantici dove si cita
questo passo con altre osservazioni. Anzi la nostra opinione è un
raffinamento, un perfezionamento, di questa quanto assurda, tanto
naturale (v. il cit. discorso) opinione [1470] antica; raffinamento prodotto
da quello spirito metafisico che produsse il Cristianesimo, o da quello
che presso gli antichi Orientali (la cui storia rimonta tanto più indietro
delle nostre) produsse il sistema di un solo Dio, seguito dagli Ebrei, e da
questi comunicato ai Gentili d’epoca e civiltà più moderna, quando il
secolo fu adattato a fare che tal dottrina fosse ricevuta, e divenisse
universalmente popolare. Ho detto che questa è meno assurda, ma
intendo, quanto al nostro modo di ragionare, e all’ordinario sistema delle
nostre concezioni, perché assolutamente parlando, ella è altrettanto
assurda, o piuttosto falsa, giacché l’assurdo si misura dalla dissonanza
col nostro modo di ragionare. Del resto la nostra opinione intorno a un
Dio composto degli attributi che l’uomo giudica buoni, è una vera
continuazione dell’antico sistema che lo componeva degli attributi
umani. ec. L’antica e la moderna Divinità è parimente formata sulle idee
puramente umane, benché diverse secondo i tempi. Il suo modello è
sempre l’uomo. ec. (8. Agos. 1821.)
Non hanno torto i padri e le madri che amano la vita metodica, senza
varietà, senza [1473] commozioni, senza troppe fatiche, la pace domestica
ec. I loro gusti, le loro inclinazioni possono ben difendersi, e v’è tanto da
dire per la morte come per la vita, dice la Staël. Ma il gran torto degli
educatori è di volere che ai giovani piaccia quello che piace alla
vecchiezza o alla maturità; che la vita giovanile non differisca dalla
matura; di voler sopprimere la differenza di gusti di desiderii ec. che la
natura invincibile e immutabile ha posta fra l’età de’ loro allievi, e la loro,
o non volerla riconoscere, o volerne affatto prescindere; di credere che la
gioventù de’ loro allievi debba o possa riuscire essenzialmente, e quasi
spontaneamente diversa dalla propria loro, e da quella di tutti i passati
presenti e futuri; di volere che gli ammaestramenti, i comandi, e la forza
della necessità suppliscano all’esperienza ec. (9. Agos. 1821.)
Quel giovane che fu d’animo eroico nella virtù (come sogliono essere
tutti quelli che nascono con grande e forte immaginazione e sentimento),
se per forza dell’esperienza, delle [1474] sventure, degli esempi,
disingannato della virtù, arriva a lasciarla, diviene eroico nel vizio, e
capace di molto maggiori errori, che non sono gli altri ec. Non già per
una continuazione di entusiasmo applicato al male, ma per un eccesso di
freddezza che è sempre compagna della malvagità. Egli diviene un eroe
di freddezza, e tanto più intrepido, duro, ghiacciato, quanto era stato più
fervido. Come quei vapori che si convertono in grandine, i quali non si
stringerebbero nel più duro, denso, e sodo ghiaccio che possa formarsi
nell’aria, se straordinario calore non gli avesse innalzati a straordinaria
sublimità. In tutte le cose gli eccessi si toccano assai più fra loro, che col
loro mezzo, e l’uomo eccessivo in qualunque cosa, è molto più inclinato e
proclive all’eccesso contrario che al mezzo. Ed è molto più facile,
conseguente, e naturale per la forza e la qualità di un’indole eccessiva, il
saltare dall’uno all’opposto estremo, che il recarsi e fermarsi nel mezzo
ec. ec. (9. Agos. 1821.)
La maggior parte degli uomini in ultima analisi non ama e non brama
di vivere se non per vivere. L’oggetto reale della vita è la vita, e lo
strascinare con gran fatica su e giù per una medesima strada un carro
pesantissimo e vôto. (10. Agos. 1821.)
[1477] Non v’è infelicità umana la quale non possa crescere. Bensì
trovasi un termine a quello medesimo che si chiama felicità. Può trovarsi
un uomo perfettamente fortunato, che nulla possa desiderare di più, la
cui felicità non possa più stendersi. Augusto era in questo caso. Ma un
uomo tanto infelice, che non possa immaginarsi maggiore infelicità,
infelicità non solamente fantastica, non solamente possibile, ma
realizzata bene spesso in questo o quell’individuo, per quella o per
questa parte; un tal uomo non si dà. La fortuna può dire a molti, io non
ho maggior potere di beneficarti, ma nessuno può mai vantarsi, e dire
alla fortuna, tu non hai forza di nuocermi davantaggio e di aumentare i
miei dolori. Può mancar che sperare, ma nessuno mancherà mai di che
temere. La disperazione stessa non basta ad assicurar l’uomo. (10. Agos.
1821). Nessuno può vantarsi o sdegnarsi con verità dicendo: io non posso
essere più infelice di quel che sono.
Qual lingua è più varia della latina? (se non forse la greca). E quale è
più propria? neppur forse la greca. E dalla proprietà deriva naturalmente
la varietà, come ho detto p. 1479. Ella era strettamente propria per legge,
e non avrebbe scritto latino ma barbaro, chi non avesse scritto con
proprietà: laddove la greca potendo essere altrettanto e più propria, era
più libera, ed ho già osservato altrove come ciascuno scrittor greco, abbia
un vocabolarietto particolare, cioè faccia uso continuo delle stesse voci, e
si restringa ad una sola parte della sua lingua, con che la proprietà non
può esser perfetta. Ai latini bisognava una perfetta cognizione ed uso
della loro lingua, non solo in grosso ma in particolare, e quindi il
vocabolario che si può formare a ciascun buono scrittore latino è [1495]
generalmente molto più ampio che a qualunque greco classico. E pur la
lingua greca era più ricca della latina. Ma la lingua di ciascun latino era
più ricca che di ciascuno scrittor greco. Eccetto gli scrittori greci più bassi,
come Luciano, Longino ec. i quali sono ricchissimi, e tanto più quanto il
loro stile è meno antico, perché i contemporanei, come Arriano, Dionigi
Alicarnasseo, sono più antichi di stile, e meno ricchi di lingua. La stessa
immensa ricchezza della lingua greca impoveriva gli scrittori, finch’ella
non fu studiata con un’arte perfetta ch’è sempre propria de’ tempi
imperfetti e scaduti.
Ora tornando al proposito, qual lingua, malgrado tutte le dette
qualità, era più scarsa di vera sinonimia che la latina, non pur nelle voci,
se così posso dire, nelle locuzioni? E pur ella era così varia ec. Anzi la
mancanza appunto di sinonimia produceva quella ricchezza individuale
di ciascheduno scrittore, ch’era obbligato a mutare espressione ad ogni
piccola varietà del discorso. La sinonimia è maggiore assai negli antichi e
ottimi greci, [1496] cioè finché la lingua greca non fu pienamente
posseduta per arte e studio. Quando lo fu, la sinonimia fu minore assai, e
la varietà e la proprietà molto maggiore. E Luciano è assai più proprio
d’Isocrate tanto studioso della sua lingua. Così che la squisita proprietà è
realmente aliena dall’ottima lingua greca, e muta il di lei carattere negli
scrittori più recenti, e gli accosta al carattere del latino. I latini venuti a
tempi signoreggiati dall’arte, possederono sempre pienamente e
interamente la loro lingua.
Consideriamo però le lingue antiche, consideriamo i primi scrittori di
ciascuna lingua moderna, e vedremo che la sinonimia è assolutamente
scarsissima rispetto alle lingue e alle scritture moderne. Dal che si
conferma ch’ella non è primitiva, ma prodotta e continuamente
accresciuta dal tempo, con danno grande della proprietà, della forza ec. e
della vera ricchezza. Danno irreparabile per se stesso, e al quale poco
sufficiente ostacolo può porre la determinazione [1497] del valor preciso
delle parole, i vocabolari, i dizionari de’ sinonimi ec. Danno pertanto che
obbliga assolutamente alla novità delle parole, solo mezzo di riparare
all’impoverimento che il tempo arreca alle lingue per questo verso, e che
è tanto inimpedibile quanto quello che arreca loro colla soppressione
delle parole; e maggiore, secondo me, non poco.
Dovunque prevale la sinonimia quivi la proprietà soffre assai. Gli
scrittori italiani possono rassomigliarsi ai greci nel riguardo che ho detto,
sì come ho notato altre volte. Nè solo gli scrittori ma la lingua eziandio.
La latina può rassomigliarsi per questo lato, come ho pur detto altrove,
alla francese. Quella fra le antiche, questa fra le moderne, sono forse le
più scarse di vera sinonimia. Quindi anche allo scrittor francese è
necessario il posseder bene e interamente la sua lingua, cosa non
necessaria agl’italiani, non dico per iscriver bene, ma per poter pur
scrivere in italiano.
Sebbene però e la lingua francese e la latina scarseggiano di vera
sinonimia, e sono [1498] similissime in questo che ambedue dipendono
sommamente dall’arte, e da un’esatta determinazione ec. nondimeno le
differenze fra loro, anche sotto l’aspetto che noi consideriamo, sono
grandissime. La lingua francese scarseggia di sinonimia, non tanto per
esattezza, nè per una perfetta conservazione del valor primitivo delle
parole (come la latina) quanto per povertà. Una lingua povera sarà
sempre esatta, purché la povertà non giunga all’altro estremo, nel quale
si trova p.e. la lingua ebraica. La differenza de’ tempi e delle cagioni
produce la differenza degli effetti. L’arte antica rese propria e
sostanzialmente ricca la lingua latina fra tutte le altre. L’arte moderna e
matematica, volendo rendere esatta la lingua francese, l’ha resa
poverissima. Quindi dalla sua esattezza, e dalla scarsezza de’ suoi
sinonimi, non nasce nè proprietà, nè forza, nè varietà, nè ricchezza.
L’esattezza dello scriver latino, li portava a variar espressione secondo le
minime varietà del discorso. Non così ponno fare i francesi. La parola o
la frase che adoprano è certamente quella che offre la loro [1499] lingua,
quella che conviene, e che non potrebbe scambiarsi con un’altra. Ma ella
torna bene spesso, perch’ella conviene a molte cose, ella perciò non
produce nè proprietà nè forza, poiché bene spesso non conviene a quella
tal cosa, se non perché la lingua è povera e non ha altro modo da
esprimerla, nè da differenziarla da altre cose, o parti, o accidenti ec. ec.
ec. Dico ciò generalmente parlando, ed eccettuando quelle materie nelle
quali la lingua francese abbonda di parole precise. Ma la precisione (in
cui la lingua francese regna) come non abbia a far colla proprietà, e come
da lei non derivi nè bellezza nè varietà nè forza (la quale è sempre
relativa all’immaginazione mentre la precisione parla alla ragione), l’ho
detto altrove. Ora io qui non parlo che della proprietà, e considero le
lingue e la ricchezza loro, piuttosto intorno al bello, che all’esatto ec.
Del resto gli scrittori antichissimi e primitivi, non meno italiani e
greci, che latini e francesi, sono sempre sommamente propri, e
scarseggiano di sinonimia. Ciò accade, perch’essi, ancorché senza studio,
pur possedevano assai bene e pienamente la lingua, ancorché vastissima,
ch’essi stessi creavano o formavano, tanto in ordine al generale e
all’indole, quanto in ordine ai particolari, e alle parole e modi, e alla
determinazione dei loro significati ec. e v. la pag. 1482-84. la quale, stante
questa riflessione, non contraddice alla pag.1494-96. (13-14. Agosto.
1821.)
La brevità non piace per altro, se non perché nulla piace. Anche i
maggiori piaceri [1508] si bramano, e denno esser brevi, e lasciar
desiderio, altrimenti lasciano sazietà. Ma non v’è mezzo fra questi due
estremi? non possono lasciar paghi? No. Se l’uomo potesse appagarsi di
un piacere nè la brevità nè la varietà (che deriva dalla brevità, e l’include
ed importa, ed è quasi tutt’uno con lei) non sarebbero piacevoli per se
stesse, nè amate dall’uomo. Ora siccome l’uomo non può restar pago, e la
sua peggior condizione è la sazietà, perciò una principalissima qualità
de’ piaceri e delle sensazioni interiori o esteriori che servono alla felicità,
si è che lascino desiderio, si è la brevità, e varietà loro, e la varietà della
vita. (17. Agos. 1821.)
Degli stessi tre soli scrittori letterati del trecento, un solo, cioè Dante,
ebbe intenzione scrivendo, di applicar la lingua italiana alla letteratura. Il
che si fa manifesto sì dal poema sacro, ch’egli considerava, non come
trastullo, ma come impresa di gran momento, e dov’egli trattò le materie
più gravi della filosia e teologia; sì dall’opera, tutta filosofica, teologica, e
insomma dottrinale e gravissima del Convito, simile agli antichi Dialoghi
scientifici ec. (vedilo); sì finalmente dalle opinioni ch’egli manifesta nel
Volgare Eloquio. Ond’è che Dante fu propriamente, com’è stato sempre
considerato, e per intenzione e per effetto, il fondatore della lingua
italiana. [1526] Ma gli altri due, non iscrissero italiano che per
passatempo, e tanto è lungi che volessero applicarlo alla letteratura, che
anzi non iscrivevano quelle materie in quella lingua, se non perché le
credevano indegne della lingua letterata, cioè latina, in cui scrivevano
tutto ciò con cui miravano a farsi nome di letterati, e ad accrescer la
letteratura. Siccome giudicavano (ancor dopo Dante, ed espressamente
contro il parere e l’esempio suo, specialmente il Petrarca) che la lingua
italiana fosse indegna e incapace delle materie gravi e della letteratura.
Sicché non pur non vollero applicarvela, ma non credettero di potere, nè
che veruno potesse mai farlo. Opinione che durò fin dopo la metà del
Cinquecento circa il poema eroico, del quale pochi anni dopo la morte
dell’Ariosto, e pochi prima che uscisse la Gerusalemme, si credeva in
Italia che la lingua italiana non fosse capace: onde il Caro prese a
tradurre l’Eneide ec. (v. il 3. tomo delle sue lett. se non fallo). Ed è
notissima l’opinione che portava il Petrarca del suo canzoniere: ed egli lo
scrisse [1527] in italiano, come anche il Boccaccio le sue novelle e
romanzi, per divertimento delle brigate, come ora si scriverebbe in un
dialetto vernacolo, e per li cavalieri e dame, e genti di mondo, che non si
credevano capaci di letteratura. ec. ec. Ed è pur noto come nel 500. si
scrivessero poemi sudatissimi in latino, e storie ec. (19. Agos. 1821.)
Alla p. 1109. marg. fine. Fra’ quali lo spagnuolo soltar sciogliere, in
vece di solutar, da solutus di solvere. E si ha nel Glossar. solta cioè solutio,
ed hanno pure i francesi soute, cioè solte, invece di solute. Così sectari sta
per secutari. E il primitivo solvere s’è perduto nello spagnuolo. (v. però il
Diz.) E noi pure non diciamo assolto per assoluto? sciolto ec.? e voltare
appunto, da volutare come soltar da solutare, che differisce per una sola
lettera? (19. Agos. 1821.). V. p. 1562. fine.
E notate che, stante il gusto naturale che hanno le donne per la forza
negli uomini, e gli uomini per la debolezza nelle donne, parrebbe che il
fatto dovesse andare all’opposto di ciò che ho detto qui sopra. Ma oltre
che i gusti naturali si alterano sommamente, infinite sono le
modificazioni, le facce, le differenze di un medesimo gusto, e degli effetti
suoi. ec. (20. Agos. 1821.)
Alla p. 1513. fine. Questo ch’io dico, che la bellezza umana, massime
della fisonomia, è inseparabile e deriva principalmente dalla
significazione, che niente ha che fare col bello, si può vedere ancora ne’
diversi atteggiamenti di una persona o di un volto, più o meno animati
ed espressivi, e significatori di cose più o meno piacevoli, o viceversa;
secondo le quali differenze, una stessa persona, par bella e brutta, più e
meno bella o brutta. [1530] Del resto un volto bello e regolare significa
sempre per se qualche cosa di piacevole, quantunque falsamente. Quindi
ogni volto regolare piace. Ma piace pochissimo, ed alle volte appena si
sente che sia bello, s’egli o per mancanza di anima, o di coltura, o di arte
nella persona, manca affatto d’ogni significazione estranea alla sua
significazione naturale, e se questa si riconosce evidentemente per falsa.
Onde par molto più bello un viso molto meno regolare, ma espressivo,
animato ec. che quello che ho detto. ec. ec. ec. (20. Agos. 1821.)
Chi non crederebbe che il significato francese della parola genio non
fosse al tutto [1534] moderno? Eppure nel seg. passo di Sidonio (Panegyr.
ad Anthem. v. 190. seqq.) io non so in qual altro senso, che in questo o
simile, si possa intendere.
Se pur non volesse dire piacevolezza, e una cosa simile a quella che
esprime talvolta l’italiano genio, e in questo senso pure non si troverebbe
presso gli antichi scrittori. V. però il Forcell. e il Ducange. (20. Agos.
1821.)
Gli odori sono quasi un’immagine de’ piaceri umani. Un odore assai
grato lascia sempre un certo desiderio forse maggiore che qualunqu’altra
sensazione. Voglio dire che l’odorato non resta mai soddisfatto neppur
mediocremente: e bene spesso ci accade di fiutar con forza, quasi per
appagarci, e per render completo il piacere senza potervi riuscire. Essi
sono anche un’immagine delle speranze. Quelle cose molto odorifere che
son buone anche a mangiare, per lo più vincono coll’odore il sapore, e
questo non corrisponde mai all’aspettativa di quel gusto, che dall’odore
se n’era conceputa. E se voi osserverete vedrete che odorando queste tali
cose, vi viene quel desiderio che tante volte ci avviene nella vita,
d’immedesimarci in certo modo con quel piacere, il che ci spinge a
porcelo in bocca: e fattolo restiamo mal paghi. Nè solo nelle cose buone a
mangiare, ma anche negli altri odori ci sopravviene lo stesso desiderio; e
[1538] fiutando p.e. con gran diletto un’acqua odorifera, e non potendoci
mai appagare di quella sensazione, ci vien voglia di berla. (21. Agos.
1821.)
Alla p. 1453. Che la natura infatti abbia lasciato da fare all’uomo più
che agli altri animali, e ch’egli anche naturalmente sia più sviluppabile, e
più destinato a crescere moralmente, si fa chiaro in certo modo anche per
l’incremento fisico del suo corpo: giacché pochi altri animali crescono
proporzionatamente tanto quanto cresce l’uomo da quel ch’egli è quando
nasce; vale a dire, pochi altri animali nascendo, sono
proporzionatamente tanto più piccoli, di quando sono adulti, quanto è
l’uomo. (21. Agos. 1821.)
Bellezza e bruttezza relativa. Siccome la bellezza è rara, perciò
andando in un nuovo paese, tu ritrovi persone la più parte brutte. Or
queste ti paiono assai più brutte di quelle del tuo paese (benché sia
confinante), e a prima vista ti pare che in [1539] quel paese regni una
gran deformità. La ragione è che il giudizio del bello e del brutto dipende
dall’assuefazione; e i brutti del tuo paese, non ti fanno gran senso, nè ti
paiono molto brutti, perché sei avvezzo a vederli. Così pure ci accade
riguardo a questo o quell’individuo in particolare. Ma quello che accade
a te in quel nuovo paese, accadrà pure a que’ paesani venendo nel tuo.
Viaggiando però molto, si arriva presto a perdere queste tali sensazioni,
per effetto parimente dell’assuefazione. (21. Agos. 1821.)
Siccome non v’è infelicità che non possa crescere (p. 1477.), così non
v’è uomo tanto perfettamente disperato che sopraggiungendolo [1547]
una nuova, impreveduta e grande sciaura non provi nuovo dolore. Anzi
bene spesso quando anche sia preveduta, quando anche sia quella
medesima per cui si disperava. Dunque la speranza gli restava ancora. E
nessuno è mai tanto disperato che, se bene si dia a credere di non esser
più suscettibile di maggior dolore, e di star sicuro nella sua piena
disperazione, non sia realmente soggetto a sentire l’accrescimento del
male. Non v’è infermo così ragionevole e capace di conoscer da se di
avere necessariamente a morir del suo male (come sarebbe un medico
ec.), che al ricever l’avviso di dover morire non si turbi fuor di modo.
Dunque sperava ancora di non morire. Questa osservazione è del Buffon.
E come non v’è tanto gran male che non possa esser maggiore, così non
v’è disperazione umana che non possa crescere. Dunqu’ella non è mai
perfetta per grande ch’ella sia, dunque non esclude mai pienamente la
speranza. (22. Agos. 1821)
Alla p. 1449. Vero è per altro che nè l’immaginazione de’ vecchi sarà
mai così feconda nè forte ec. come quella de’ giovani, nè quella de’
moderni, come quella degli antichi, nè la comandata come la spontanea.
E quindi la poesia de’ moderni cederà sempre all’antica quanto
all’immaginazione. E si può ben comandare a questa, e renderla a viva
forza anche più feconda e più gagliarda dell’antica, ma non si riuscirà
mai in questo modo a dare a’ suoi parti quella bellezza, quella grazia,
quella vita che [1549] non ponno avere se non le sue produzioni
spontanee. Saranno anche più energici, e non per tanto meno vivi, e men
belli, anzi tanto meno quanto più energici, derivando quest’energia dalla
forzatura, e dalla tortura a cui si mette la fantasia, per cavarne cose che
facciano grand’effetto, e spirino originalità ec. Tali sono ordinariamente i
parti delle fantasie settentrionali, parti la cui straordinaria forza non è
vitale, ma come quella che si acquista coll’acqua vite, e benché più forti
assai delle invenzioni greche, sono ben lungi dall’averla vita, e la sana
complessione di queste.
Bisogna però convenire che l’uomo moderno, così tosto com’è
pienamente disingannato, non solo può meglio comandare
all’immaginazione che al sentimento, il che avviene in ogni caso, ma
anche è meglio atto a immaginare che a sentire. Quando gli uomini sono
ben conosciuti, non è più possibile sentir niente per loro; ogni moto del
cuore è languido, e oltracciò s’estingue appena nato. L’affetto è
incompatibile colla conoscenza della malvagità dell’uomo, e della nullità
[1550] delle cose umane. L’uomo disingannato non ha più cuore, perché i
sentimenti ancorché destati da tutt’altro, hanno sempre relazione o
vicina o lontana co’ nostri simili. E come può l’uomo riscaldarsi per cose
di cui conosce o la perversità o la total vanità? Sparito dagli occhi umani
quel mondo umano, dove solo si poteva esercitare il suo cuore; sparita
l’idea della virtù, dell’eroismo ec. ec. ec. il sentimento è distrutto. L’odio
o la noia non sono affetti fecondi; poca eloquenza somministrano, e poco
o niente poetica. Ma la natura, e le cose inanimate sono sempre le stesse.
Non parlano all’uomo come prima: la scienza e l’esperienza coprono la
loro voce: ma pur nella solitudine, in mezzo alle delizie della campagna,
l’uomo stanco del mondo, dopo un certo tempo, può tornare in relazione
con loro benché assai meno stretta e costante e sicura; può tornare in
qualche modo fanciullo, e rientrare in amicizia con esseri che non
l’hanno offeso, che non hanno altra colpa se non di essere stati esaminati,
e sviscerati troppo minutamente, e che anche secondo la scienza, hanno
pur delle intenzioni e de’ fini benefici verso lui. Ecco un certo [1551]
risorgimento dell’immaginazione, che nasce dal dimenticare che l’uomo
fa le piccolezze della natura, conosciute da lui colla scienza; laddove le
piccolezze, e le malvagità degli uomini, cioè de’ suoi simili, non è quasi
possibile che le dimentichi. Egli stesso assai mutato da quel di prima, e
conosciuto da lui assai più intimamente di prima, egli stesso da cui non
si può nè allontanare nè separare, servirebbe a richiamargli l’idea della
miseria, della vanità, della tristizia umana. In questo stato l’uomo
moderno è più atto ad imitare Omero che Virgilio. (23. Agos. 1821.). V. p.
1556. fine.
Certe voci false negli uomini piacciono moltissimo alle donne. Così
forse anche viceversa, sebbene noi siamo meglio informati e avvertiti
intorno a ciò che accade alle donne rispetto a noi, che a noi rispetto alle
donne. Del resto il detto effetto appartiene alla grazia derivante dallo
straordinario e dallo stesso difettoso. (23. Agos. 1821.)
Quello che ho detto altrove del sozzo e del polito, si può parimente
dire dello schifoso ec. ec. E si può aggiungere che non solo nelle diverse
specie d’animali, ma in una stessa specie, in uno stesso individuo,
massimamente umano, l’idea del sozzo o del netto varia in maniera,
secondo le assuefazioni ec. che non si può ridurre a veruna forma
concreta universale. (27. Agosto 1821.)
Tanto è vero esser la grazia del tutto relativa, che gli uomini svogliati
e blasés dal lungo uso de’ piaceri ec. hanno bisogno di un forte
straordinario per provare il senso della grazia, tanto che quello
straordinario che ad essi par grazioso, ad altri par difettoso, e produce il
senso e il giudizio della [1576] sconvenienza. Come quei palati che hanno
bisogno dei ragoûts e delle salse ad esser solleticati. Questo effetto è
comunissimo oggidì, stante la natura della nostra civiltà, massime
riguardo alle donne negli uomini, e viceversa. Quel naso retroussé che fa
miracoli presso Marmontel, gli fa in Solimano, annoiato, com’è naturale a
un Sultano, dall’eccesso de’ piaceri ec. E forse la massima parte delle cose
che oggi si hanno per graziose, e lo sono, non debbono questa qualità che
alla svogliatura di questo secolo, o di questa o quella nazione. Il numero
di queste grazie derivanti da sola svogliatura è infinito, e comunissimo
nella nostra vita. E si può prevedere che crescerà di mano in mano, e che
oltracciò diverranno grazie molte qualità delle cose, che ora si hanno per
difetti, anche gravi, e che producono un vivo senso e giudizio di
sconvenienza. (27. Agosto 1821.)
Quanto sia vero che la bellezza delle fisonomie dipende dalla loro
significazione, osservate. L’occhio è la parte più espressiva del volto e
della persona; l’animo si dipinge sempre nell’occhio; una persona
d’animo grande ec. ec. [1577] non può mai avere occhi insignificanti;
quando anche gli occhi non esprimessero nulla, o fossero poco vivi in
qualche persona, se l’animo di costei si coltiva, acquista una certa vita,
divien furbo e attivo, ec. ec. l’occhio parimente acquista significazione, e
viceversa accade nelle persone d’occhio naturalmente espressivo, ma
d’animo torpido ec. per difetto di coltura ec. ec.; nei diversi momenti
della vita, secondo le passioni ec. che ci commuovono, l’occhio assume
diverse forme, si fa più o men bello ec. ec. Ora l’occhio ch’è la parte più
significativa della forma umana, è anche la parte principale della
bellezza. (Questo si può dimostrare con molte considerazioni.) Un paio
d’occhi vivi ed esprimenti penetrano fino all’anima, e destano un
sentimento che non si può esprimere. Questo si chiama effetto della
bellezza, e questa si crede dunque assoluta; ma non v’ha niente che fare;
egli è effetto della significazione, cosa indipendente dalla sfera del bello,
e la bellezza principale dell’occhio, non appartenendo alla convenienza,
non entra in quello che il filosofo considera come bello.
[1578] Dipingete un viso senz’occhi, voi non sapete ancora s’egli è
bello o brutto, e non vi formate un’idea sufficiente di quella fisonomia
(fosse anche un ritratto somigliantissimo). Aggiungeteveli, e quella
fisonomia vi par tutt’altra da quella di prima ec. ec. Quest’osservazione si
può molto amplificare e distinguere in molte parti.
Un viso irregolare con un bell’occhio par bello, con occhio
insignificante, si troverà regolare ma non bello. Dunque quello che noi
chiamiamo bello nell’umana fisonomia, ch’è singolarmente proprio della
bellezza di essa, quell’effetto particolare ch’essa produce, e che non è
prodotto da verun’altra regolarità, quell’effetto che si potrebbe
considerare come assoluto, non appartiene al bello (oltre che anch’esso
varia secondo gl’individui ec.), ma alla significazione, e deriva da una
cagione simile a quella per cui si giudicano universalmente belle le
donne βαϑύχολποι.
Parecchie fisonomie di animali somigliano all’umana. Osservate e
vedrete che questa somiglianza siede principalmente nell’occhio. E
generalmente parlando l’occhio di ciascun animale [1579] determina la
sua fisonomia, e l’impressione ch’ella ci fa. Un animale senz’occhi, o i cui
occhi non si vedano, o sien fatti diversamente dai nostri (come quelli
delle lumache), tali animali non hanno fisonomia per noi; talora neppur
ci paiono appartenenti al nostro genere, cioè al regno animale. E lo ci
parrebbero se avessero occhi simili ai nostri, quando anche tutto il resto
della loro forma differisse affatto dalle forme generalmente comuni agli
animali. L’occhio insomma sembra essere il costituente di ciò che si
chiama fisonomia, e quasi anche (almeno nella nostra idea) di tutto
l’aspetto dell’animale.
L’altezza della fronte è indizio di talento, d’anima nobile, suscettibile,
capace ec. V. Lavater. E l’altezza della fronte è bellezza e piace; e
viceversa la bassezza.
Il volto è la parte più significativa dell’uomo. E il volto è la parte
principale della bellezza umana, come ho sviluppato altrove. (28. Agos.
1821.)
Dalla mia teoria del piacere si conosce per qual ragione si provi
diletto in questa vita, quando senza aspettarne nè desiderarne vivamente
nessuno, l’animo riposato e indifferente, si getta, per così dire, alla
ventura in mezzo alle cose, agli avvenimenti, e agli stessi divertimenti ec.
Questo stato non curante de’ piaceri nè de’ dolori, è forse uno de’
maggiori piaceri, non solo per altre cagioni, ma per se stesso.
[1581] Parecchie volte un vigore straordinario e passeggero, cagiona
al corpo e a’ nervi un certo torpore, per cui l’animo s’abbandona in seno
di una negligenza circa le cose e se stesso, in maniera che o vede tutto
dall’alto, e come non gli appartenesse se non debolissimamente; o non
pensa quasi a nulla, e desidera e teme il meno che sia possibile. Questo
stato è per se stesso un piacere.
Il languore del corpo alle volte è tale, che senza dargli affanno e
fastidio, affievolando le facoltà dell’animo, affievola ogni cura e ogni
desiderio. L’uomo prova allora un piacere effettivo, massime se viene da
uno stato affannoso ec. e lo prova senz’alcun’altra cagione esterna, ma
per quella semplice dimenticanza de’ mali, e trascuranza de’ beni, desideri
e speranze, e per quella specie d’insensibilità cagionatagli da quel
languore. (28. Agos. 1821.)
La letteratura italiana fu per alcun tempo universale in modo che per
cagione di essa si studiava e sapeva la nostra lingua nelle altre nazioni
civili, anche dalle donne, come oggi il [1582] francese. E nondimeno la
lingua italiana ha bensì lasciato alle altre parecchie voci spettanti alla
nomenclatura di quelle scienze o arti che l’Italia ha comunicato agli
stranieri, ma poche o quasi nessuna appartenente alla letteratura. Questo
accade perché la lingua italiana non è stata mai universale se non a causa
della letteratura, e in quanto letterata. Ed è una nuova prova che la
letteratura è debolissima fonte di universalità. Le altre lingue letterate,
state universali non per questa sola, ma per altre cagioni insieme, hanno
introdotto e introducono, hanno perpetuato ec. nelle altre lingue non
poche voci e modi spettanti alla letteratura. Forse anche il detto effetto
deriva dal poco tempo che durò l’influenza della letteratura italiana,
dalla poca coltura delle nazioni che la risentirono, dal poco stretto
commercio delle nazioni in que’ tempi, dallo scarso numero de’ letterati
che v’avevano allora tra’ forestieri, e quindi di coloro che coltivarono la
nostra lingua ec. sebbene ho detto ch’ell’era coltivata anche dalle donne,
e ciò fino al tempo di Luigi 14. I costumi sono la principal [1583] fonte
della universalità di una lingua. La letteratura può servire a introdurre i
costumi e le opinioni ec. Senza ciò, la lingua per mezzo suo poco si
propaga. E piuttosto rimangono alle altre lingue qualche voce spettante a
qualche costume ec. ec. venuto di qua più o meno anticamente, che alla
nostra letteratura. (28. Agos. 1821.)
Nessuno vede più degli altri, ma qualcuno osserva e combina più
degli altri. Quello che accade nelle scienze fisiche, accade nelle
metafisiche e morali. In quelle e in queste, una scoperta fatta si comunica
e partecipa a chicchessia. Un ragionamento ben espresso e sviluppato il
quale conduca alle verità le più remote dall’opinione e dalla cognizione
comune, può subito essere inteso dallo stesso volgo. Ognuno può vedere
da che uno ha veduto. ec. ec. (29. Agos. 1821.). V. p. 1767.
La manière de vivre des Chartreux suppose, dans les hommes qui sont
capables de la mener, ou un esprit extrêmement borné, ou la plus noble et la plus
continuelle exaltation des sentiments religieux. (Corinne, lieu cité ci-dessus. p.
113.) Così è: l’inattività e la monotonia non conviene che agli spiriti
menomi [1589] o sommi. Gli uni e gli altri per diversissima ragione
cercano il metodo e il riposo. Gli uni per sopire i desiderii che li
tormentano, gli altri perché non ne hanno. Gli uni perché la vita non
basta loro, si rifuggono alla morte, gli altri perché il loro animo non vive.
Gli uni ancora perché non hanno bisogno di vita esterna, vivendo assai
internamente, gli altri perché non abbisognano d’alcuna vita. Gli spiriti
mediocri, cioè la massima parte degli uomini, sono incompatibili con
questo stato, e infelicissimi in esso, o in altro che lo somigli. V. la p. 1584.
fine. (30. Agos. 1821.)
Chi ha perduto la speranza d’esser felice, non può pensare alla felicità
degli altri, perché l’uomo non può cercarla che per rispetto alla propria.
Non può dunque neppure interessarsi dell’altrui infelicità. (30. Agos.
1821.)
Alla p. 1602. fine. Nè solo il vigor del [1607] corpo, ma anche quello
dello spirito è singolarmente ordinato dalla natura. Almeno i primi
progressi dello spirito umano sono sempre compagni di una forza (in
tutta l’estensione e le classificazioni del termine) che va di mano in mano
scemando e perdendosi coi successivi progressi della civiltà. Parlino le
storie. V. il pensiero precedente che appartiene pure a questo, perché
l’odio è una delle più vigorose passioni dell’anima; ed è oggi o estinto o
travisato in maniera che è fonte di tutt’altro che di forza. V. pure il
pensiero seguente. (2. Sett. 1821.)
L’uomo il più dotto, erudito, letterato, del gusto e giudizio il più fino,
dell’ingegno il più fecondo ec. ec. ma poco avvezzo a trattare, saprà
egregiamente e fecondissimamente scrivere, e non saprà parlare neppur
di cose appartenenti a’ suoi studi. E ciò non già per sola soggezione, ma
effettivamente gli mancheranno le parole e i concetti. Tutto è esercizio
nell’uomo. Ed è ordinario il veder uomini studiosi non saper parlare,
appunto perché avvezzi allo studio, non sono abituati a parlare ma a
tacere; oltre ch’essi contraggono sovente e [1611] per questa e per altre
ragioni un carattere di taciturnità, parimente acquisito. Del resto
s’ingannano assai coloro che dal vedere che il tale non sa parlare,
concludono ch’egli non sa pensare, non è coltivato ec. Si può parlare
come uno scimunito, con freddezza e frivolezza estrema ec. ed essere il
primo scienziato, pensatore, scrittore del mondo. (2. Sett. 1821.)
Le cose non sono quali sono, se non perch’elle son tali. Ragione
preesistente, o dell’esistenza o del suo modo, ragione anteriore e
indipendente dall’essere e dal modo di essere delle cose, questa ragione
non v’è, nè si può immaginare. Quindi nessuna necessità nè di veruna
esistenza, nè di tale o tale, e così o così fatta esistenza. Come dunque
immaginiamo noi un Essere necessario? Che ragione v’è fuori di lui e
prima di lui perch’egli esista, ed esista in quel modo, ed esista ab eterno?
- La ragione [1614] è in Lui stesso, cioè l’infinita sua perfezione. Che
ragione assoluta vi è perché quel modo di essere che gli ascriviamo, sia
perfezione? perché sia più perfetto degli altri possibili? più perfetto delle
stesse altre cose esistenti e degli altri modi di essere? Questa ragione
dev’essere assoluta e indipendente dal modo in cui le cose sono,
altrimenti il detto Ente non sarà assolutamente necessario. Or nessuna se
ne può trovare. - Il suo modo di essere è perfezione perch’egli esiste così.
- La stessa ragione milita per tutte le altre cose e modi di essere. Tutte
saran dunque egualmente perfette, e tutte assolutamente necessarie.
Quest’è un giuoco di parole. Bisogna trovare una ragione perché il suo
modo di essere sia astrattamente e indipendentemente da qualunque
cosa di fatto, più perfetto di tutti gli altri possibili o esistenti: perché non
sia possibile una maggior perfezione; ovvero un tutt’altro ordine di cose,
dove quel modo di essere non sia neppur buono. Bisogna insomma porsi
al di fuori dell’ordine esistente e di tutti gli ordini possibili, e così trovare
una [1615] ragione per cui le qualità che ascriviamo a quell’Essere sieno
assolutamente e necessariamente perfette, non possano esser diverse, nè
più perfette, non possano esser tali e non esser ottime, e sieno migliori di
tutte le altre possibili.
L’aseità insomma è un sogno o compete a tutte le cose esistenti e
possibili. Tutte hanno o non hanno egualmente in se stesse la ragione di
essere e di essere in quel tal modo, e tutte sono egualmente perfette.
Ma lo spirito è più perfetto della materia - 1. Che cosa è lo spirito?
Come sapete ch’esiste, non sapendo che cosa sia? non potendo concepire
al di là della materia una menoma forma di essere? 2. perché è più
perfetto della materia? - Perché non si può distruggere, e perché non ha
parti ec. - Il non aver parti chi vi ha detto che sia maggior perfezione
dell’averne? Chi vi ha detto che lo spirito non ha parti? che avendone o
no, non si possa distruggere ec. ec.? Come potete affermare o negar nulla
intorno alle qualità di ciò che neppur concepite, e quasi non sapete se sia
possibile? Tutto è dunque un romanzo arbitrario della vostra fantasia,
che può figurarsi un essere come vuole. V. un altro mio pensiero in tal
proposito. (2. Sett. 1821.)
Alla p. 1602. Gli antichi intendevano molto bene questa verità che
dovrebb’essere il fondamento della scienza medica. I greci quasi autori
della medicina dicevano ἀσϑένεια, cioè debolezza ogni genere
d’infermità, ed ἀσϑενειν l’esser malato. Ed anche oggi i medici
chiamano con termine greco stenia (sarebbe σϑένεια) che suona, come
σϑένος, vigore, [1625] forza, robustezza, il buono stato di salute. ῎Eρρωµαι,
inf. ἐρροσϑαι prospera utor valetudine, non significa propriamente altro se
non esser forte, da ῥώννυµι confirmor, corroboror. Così εὐρωστία sanitas,
bona valetudo, e i contrari, ἀρροστία, adversa valetudo, morbus, ἄρροστος
aegrotus, ἀρροσττέω aegroto, ἀρρώστηµα aegrotatio, aegritudo, morbus.
Così dico delle parole latine valere, valetudo, bene o male valere, infirmus,
imbecillitas ec. ec. V. i Diz. Tutto ciò che ci cagiona il senso della forza, ci
cagiona il senso del piacere e della sanità. L’uomo veramente forte è
sano. Quanto la civiltà favorisca per sua natura la forza in genere e in
ispecie, facilmente si vede alla bella prima. (4. Sett. 1821.)
Chi vuol vedere l’effetto della civiltà sul vigore del corpo, paragoni
gli uomini civili ai contadini o ai selvaggi, i contadini d’oggi a ciò che noi
sappiamo del vigore antico. ec. (Omero, com’è noto, assai spesso chiama
l’età sua degenerata dalle forze de’ tempi troiani.) Osservi di quanto è
capace il corpo umano, vedendo l’impotenza nostra assoluta di far ciò
che fa il meno robusto de’ villani; i pericoli a cui noi ci esporremmo
volendo esporci a qualcuno de’ loro patimenti; le vergognose usanze
quotidiane di fuggir l’aria il sole ec. di maravigliarsi come il tale o tale
abbia potuto affrontarlo per questa o quella circostanza; le malattie o
incomodi che tutto giorno si pigliano per un [1632] menomo strapazzo
del corpo, o fatica di mente ec. e poi dica se la civiltà rafforza l’uomo;
accresce la sua capacità e potenza; se gli antichi si maraviglierebbero o no
della impotenza nostra; se la natura stessa se ne debba o no vergognare; e
se noi medesimi non lo dobbiamo, vedendo sotto gli occhi per l’una
parte di quanto sia capace il corpo umano, senza veruno sforzo
straordinario, e per l’altra di quanto poco sia capace il nostro. (5. Sett.
1821.)
Si suol dire che tutte le cose, tutte le verità hanno due facce diverse o
contrarie, anzi infinite. Non c’è verità che prendendo l’argomento più o
meno da lungi, e camminando per una strada più o meno nuova, non si
possa dimostrar falsa con evidenza ec. ec. ec. Quest’osservazione (che
puoi molto specificare ed estendere) non prova ella che nessuna verità nè
falsità è assoluta, neppure in ordine al nostro modo di vedere e di
ragionare, neppur dentro i limiti della concezione e ragione umana? (5.
Sett. 1821.). V. p. 1655. fine.
[1637] Dal detto in altri pensieri risulta che Dio poteva manifestarsi a
noi in quel modo e sotto quell’aspetto che giudicava più conveniente.
Non manifestarsi, come ai Gentili; manifestarsi meno, e in forma
alquanto diversa, come agli Ebrei; più, come a’ Cristiani: dal che non
bisogna concludere ch’egli ci si è manifestato tutto intero, come noi
crediamo. Errore non insegnato dalla Religione, ma da’ pregiudizi che ci
fanno credere assoluto ogni vero relativo. La rivelazione poteva esserci e
non esserci. Ella non è necessaria primordialmente, ma stante le
convenienze relative, originate dal semplice voler di Dio. Egli si nascose
a’ Gentili, rivelossi alquanto agli Ebrei, manifestò al mondo una maggior
parte di se, nella pienezza de’ tempi, cioè quando gli uomini furono in
istato di meglio comprenderlo. Egli si è rivelato perché ha voluto e l’ha
stimato conveniente, e quanto e come e sotto la forma che ha stimato
conveniente, secondo le diverse circostanze delle sue creature: forma
sempre vera, perch’egli esiste in tutti i modi possibili.
Da ciò che si è detto della legge pretesa naturale, risulta che non vi è
bene nè [1638] male assoluto di azioni; che queste non son buone o
cattive fuorché secondo le convenienze, le quali sono stabilite, cioè
determinate dal solo Dio, ossia, come diciamo, dalla natura; che variando
le circostanze, e quindi le convenienze, varia ancor la morale, nè v’è legge
alcuna scolpita primordialmente ne’ nostri cuori; che molto meno v’è una
morale eterna e preesistente alla natura delle cose, ma ch’ella dipende e
consiste del tutto nella volontà e nell’arbitrio di Dio padrone sì di
stabilire quelle determinate convenienze che voleva, sì di ordinare o
proibire espressamente agli esseri pensanti quello che gli piaccia,
secondo gli ordini e le convenienze da lui solo create; che Dio non ha
quindi nè può avere alcuna morale, il che non potrebb’essere, se non
ammettendo le idee di Platone indipendenti da Dio, e i modelli eterni e
necessari delle cose; che la morale per tanto è creata da lui, come tutto il
resto, e ch’egli era padrone di mutarla a tenore delle diverse circostanze
del genere umano, siccome è padrone di darne una tutta diversa, e anche
contraria, o anche non darne alcuna, a un diverso genere di esseri, sì
dentro gli ordini noti delle cose (come agli abitanti d’altri [1639] pianeti),
sì in altri sconosciuti, ed ugualmente possibili e verisimili. Da tutto ciò
resta spiegata la differenza fra la legge che corse prima di Mosè, quella di
Mosè, e quella di Cristo. Tutti dicono che il Cristianesimo ha perfezionata
la Morale. (Ciò stesso vuol dire ch’ella non è dunque innata.) Mutiamo i
termini. Non l’ha perfezionata, ma rinnovata, cioè perfezionata solo
relativamente allo stato in cui la società umana era ridotta, e da cui
(quanto al sostanziale) non poteva più tornare indietro, come non ha
fatto. Allora divenne conveniente la nuova morale, ossia la legge di
Cristo, legge che doveva essere perpetua per la detta ragione; legge che
ha fatto illecito realmente ciò che prima era lecito, e viceversa, come
agevolmente si può vedere confrontando i costumi naturali di
qualsivoglia o uomo isolato, o società, e degli Ebrei prima di Mosè, con la
legge contenuta nel Pentateuco, e questa e quelli con la legge del
Vangelo. Giacché queste due leggi non si restringono di gran lunga al
Decalogo, il quale intanto è rimasto immutabile, in quanto contenendo i
primissimi [1640] elementi della morale, è perciò appunto applicabile e
conveniente a tutti i possibili stati della società umana, che non può
sussistere, senza una morale, e questa non può aver fondamento vero se
non in Dio. Però il Decalogo combina appresso a poco colla sostanza e
collo spirito delle leggi scritte di tutti i savi legislatori antichissimi e
modernissimi, e colle leggi praticate anche da’ più rozzi popoli, che pur
compongano una società. L’uomo poteva esser fatto diversamente, ma è
fatto realmente in modo, che formando società co’ suoi simili, gli divien
subito necessaria una legge il cui spirito sia quello del Decalogo. Vale a
dire che il Decalogo contiene i principii generali delle convenienze delle
azioni in una società umana, pel bene di essa. Il generale contiene tutti i
particolari: ma questi sono infiniti e diversissimi. Le convenienze loro
rispetto alle azioni, variano secondo gli stati delle società, e della società
in genere. L’antica legge Ebraica permetteva il concubinato, fuorché colle
donne forestiere ec. L’odio del nemico costituiva lo spirito delle antiche
nazioni. Ecco le leggi di Mosè tutte patriottiche, ecco santificate [1641] le
invasioni, le guerre contro i forestieri, proibite le nozze con loro,
permesso anche l’odio del nemico privato. E Gesù comandando l’amor
del nemico, dice formalmente che dà un precetto nuovo. Come ciò, se la
morale è eterna e necessaria? Come è male oggi, quel ch’era forse bene
ieri? Ma la morale non è altro che convenienza, e i tempi avevano portato
nuove convenienze. Questo discorso potrebbe infinitamente estendersi
generalizzando sullo stato del mondo antico e moderno, e sulla differente
morale adattata a questi diversi stati. L’uomo isolato non aveva bisogno
di morale, e nessuna ne ebbe infatti, essendo un sogno la legge naturale.
Egli ebbe solo dei doveri d’inclinazione verso se stesso, i soli doveri utili
e convenienti nel suo stato. Stretta la società, la morale fu convenienza, e
Dio la diede all’uomo appoco appoco, o piuttosto ora una ora un’altra,
secondo i successivi stati della società: e ciascuna di queste morali era
ugualmente perfetta, perché conveniente; e perfetto è l’uomo isolato,
senza morale. La morale cristiana sarebbe stata imperfetta perché
sconveniente per Abramo, [1642] e per Mosè. ec. Ciò che dicono i Teologi
delle azioni fatte lecite da un particolare impulso dello Spirito Santo, non
dimostra egli chiaro che la morale dipende da Dio (siccome la
convenienza), e che Dio non dipende punto dalla morale?
A me pare che il mio sistema appoggi il Cristianesimo in luogo di
scuoterlo; anzi che egli n’abbia bisogno, e in certo modo lo supponga. Nè
fuori del mio sistema si ponno facilmente accordare le parti in apparenza
discordantissime e contraddittorie della religione Cristiana non solo
quanto ai misteri, ma alla legge, alla storia successiva della religione, ai
dogmi d’ogni genere ec.
La fede nostra fa guerra alla ragione. Io dimostro l’impotenza
assoluta ed essenziale della ragione, non solo in ordine alla felicità umana,
al conservare ec. la società, allo stabilire e mantenere una morale, ma alla
stessa facoltà di ragionare e concepire.
La pluralità de’ mondi, quasi fisicamente dimostrata, come si può
accordare col Cristianesimo fuori del mio sistema, il quale dimostra che
le creature possono esser d’infinite specie, e che Dio esistendo verso noi
come la religione insegna, [1643] esiste ancora in tutti i possibili modi, e
può avere avuto ed avere con diversissime creature, diversissimi e
contrari rapporti, e non averne alcuno? Quante verità fisiche, metafisiche
ec. ripugnano alla religione, fuori del mio sistema che nega ogni verità e
falsità assoluta, ammettendo le relative, e in queste la religione?
Il mio sistema abbracciando e ammettendo quasi tutto il sistema
dell’ateismo, negando tutti i sistemi ec. e pur facendone risultare l’idea
costante di Dio, religione, morale ec. mi par l’ultima e decisiva prova
della religione; o se non altro che non può per ragioni esser dimostrata
falsa quella rivelazione, che d’altronde avendo prove di fatto, si deve
tenere per vera, perché il fatto nel mio sistema decide, e la ragione non se
gli può mai opporre.
Ma, se Dio è superiore alla morale, se il buono o cattivo non esiste
assolutamente ec. Dio non può egli ingannarci in ciò che ci ha rivelato,
promesso, minacciato ec.? - No, perch’egli ci vieta d’ingannare. La legge
ch’egli ci ha data, quel modo del suo essere ch’egli ci ha [1644]
manifestato, la maniera in cui l’ha fatto, i rapporti che ha preso con noi, i
doveri che ci ha prescritti verso lui, verso i nostri simili, verso noi stessi,
ciò che ci ha proibito, gl’insegnamenti che ci ha dato, la verità che ci ha
fatto amare, la natura in cui ci ha formati, l’ordine di cose che ha stabilito,
ec. decidono del modo in cui egli deve portarsi verso noi, cioè ha voluto
e vorrà portarsi, si è portato e porterà. Altrimenti non sarebbero buoni i
suoi rapporti verso noi, e quindi egli non sarebbe buono o perfetto cioè
conveniente ed in intera armonia rispetto a noi, ed a quest’ordine di cose,
che egli poteva bene tutt’altrimenti costituire, ma ha costituito in questo
tal modo in cui l’ingannare è male. Il nostro modo, la nostra facoltà di
ragionare è giusta e capace del vero, quando si restringe all’ordine di
cose che noi conosciamo o possiamo conoscere, e che in qualche maniera
ci appartiene, ed alle cose che vi hanno rapporto, in quanto ve lo hanno.
Io non distruggo verun principio della ragione umana (nè in quanto alla
morale, nè a tutto il resto): [1645] solamente li converto di assoluti in
relativi al nostro ordine di cose ec. La Religion Cristiana, come ho già
detto, resta tutta quanta in piedi (restano quindi i suoi effetti, le sue
promesse ec.), non come assolutamente vera, e necessaria
indipendentemente dalle cose quali sono, e dal modo in cui sono ec. ma
relativamente, e dipendentemente in origine dall’arbitrio di chi potendo
stabilire e ordinar la natura ben altrimenti, o non istabilirla ec. la stabilì
però, ed in questa tal guisa ec. Sicché quanto a noi, quanto agli effetti ec.
la cosa è tutt’una. (5-7. Sett. 1821.)
Piace nelle donne una certa virilità non solo di corpo, anche d’animo,
e parimente a causa dello straordinario. Piace in esse anche la
magnanimità, e questa piace pure, tanto alle donne quanto agli uomini,
negli uomini ancora; perché anche in essi è straordinaria,
proporzionatamente parlando ec. Le sventure, le passioni, la malinconia,
i sacrifizi generosi, e più o meno eroici, ec. piacciono pure in ambo i sessi
e danno grazia ec. in parte per la compassione, ma in parte anche per lo
straordinario. Così le grandi virtù, o i grandi vizi ec. (9. Sett. 1821.)
L’assioma de’ Leibniziani (se non erro) nihil in natura fieri per saltum,
quella gradazione continua con cui la natura assuefa le cose a
diversissimi stati, e nasconde il passaggio dall’inverno all’estate, ec. ec.
ec. del che parla Senofonte, tutto ciò non dimostra egli che tutta la natura
è un sistema di assuefazione? La gradazione importa l’assuefazione, e
viceversa. (9. Sett. 1821.)
[1659] Alla p.1284. marg. - fine. Da simili ragioni, nacque senza fallo
la gran differenza che si scorge fra la scrittura e la pronunzia delle lingue
francese, inglese ec. Differenza chiamo io, quando le lettere scritte si
pronunziano tutto giorno diversamente dal valore che è loro assegnato
nel rispettivo alfabeto di ciascuna lingua, (Empire, si pronunzia ampire. La
e nell’alfabeto francese è a o e? Perché dunque scrivete e dovendo
pronunziare a?) quando si scrivono lettere che non si pronunziano (come
in Wieland); quando altre si omettono che si denno pronunziare. Questa
differenza è imperfezione somma nella scrittura di tali lingue. L’italiana e
la spagnuola sono in ciò le più perfette fra le moderne, forse perché
furono coltivate prima delle altre, e passarono in mano delle persone
istruite, quando erano ancor molli, e prima che il modo di scriverle fosse
già determinato dall’uso quotidiano degl’ignoranti e negligenti.
L’ortografia italiana era molto imperfetta, com’è naturale, ne’ trecentisti,
e nello stesso Dante, Petrarca ec. V. Perticari. Del resto era ben naturale
che le lingue moderne nate dalla corruzione e dall’ignoranza, e in tempi
d’ignoranza, non si sapessero scrivere; non si trovassero nè sapessero
applicare i segni; [1660] si confondessero i suoni e i segni antichi co’
moderni; si seguitasse il costume di scrivere le parole in quel tal modo
come si scrivevano anticamente, benché la pronunzia fosse cambiata, e la
forma di esse ec.; si pigliasse in prestanza l’ortografia degli antichi ne’
luoghi e ne’ casi alquanto dubbi ec. (come notano infatti degl’italiani che
non essendo ben formata l’ortografia nostra massime nel 400. e ne’
principii del 500, si serviano della latina, e scrivevano p.e. et
pronunziando e, vulgare, letitia ec. ec. così mi pare che osservi il Salviati) e
tutto ciò producesse le imperfezioni che si trovano nelle ortografie
straniere. (9. Sett. 1821.). V. p. 1945. e 2458.
Si dice tutto giorno, aria di viso, fisonomia ec. e la tal aria è bella, la tale
no, e aria truce, dolce, rozza, gentile ec. ec. In maniera che bene spesso non
trovando difetto in nessuno de’ lineamenti, o non trovandovi pregio, si
trovano però difetti o pregi, bellezza o bruttezza nell’aria del viso. Non è
questa una prova che il bello o brutto della fisonomia, non dipende nella
principal parte dalla convenienza, ma dalla significazione, e quindi non è
propriamente bellezza nè bruttezza? Notate anche il nome di aria che si è
dato a questa significazione generale di una fisonomia, appunto perch’ella
consistendo in sottilissimi rapporti colle qualità non materiali dell’uomo,
è una cosa impossibile a determinarsi, e quasi aerea. [1667] Ond’è che i
giudizi differiscono intorno alla bellezza umana forse più che a
qualunque altra, quando parrebbe che dovesse accadere l’opposto. Aria
ec. si applica anche alle fisonomie non umane. (10. Sett. 1821.)
Alla p. 1605. principio. Da tutto ciò risulta che l’uomo tal quale è in
natura non piacerebbe all’uomo d’oggidì nè gli parrebbe bello; che l’idee
naturali (cioè derivanti dalla natura) circa il bello umano (ch’è pure il
meno soggetto a dispareri) discordano sommamente dalle nostre: che
massimamente poi la donna tal qual ell’era bella in natura, e la più bella
che si possa immaginare, non piacerebbe punto all’uomo moderno.
Perocché il fondamento della bellezza umana è il vigore, il quale nella
natura peccherebbe e dispiacerebbe alle donne moderne per il troppo, ma
non per il poco. Ma il fondamento della bellezza femminile essendo la
delicatezza, questa in natura peccherebbe [1699] per noi di troppo poco.
Ed essendo propria sì dell’uomo che della donna naturale la così detta
rozzezza, questa sconverrebbe meno (secondo le nostre opinioni)
all’uomo che alla donna, perché in questa più, in quello meno lontana
dalle qualità fondamentali della loro bellezza. ec. ec. ec.
Del resto che cosa è dunque il buon gusto? Qual tipo ha egli? La
natura? Anzi ella ci ha fatti diversissimi da quel che siamo, e quindi
datoci diversissimi gusti. E ciò non solo nelle forme umane, ma in ordine
a tutti gli oggetti del buon gusto. ec. ec. ec. (14. Sett. 1821.)
Alla p. 1562. fine. Non si dà salvatichezza in natura. Bensì per noi. Ciò
vuol dire che non siamo quali dovevamo. Quello che per noi è salvatico,
o non doveva servirci, e non era destinato all’uomo, o non è salvatico se
non perché noi siamo civili, e incapaci quindi di servircene come
avremmo dovuto, e come la natura avea destinato. Non si nega che la
coltura, i nesti ec. non migliorino le piante le frutta, e le razze loro, molte
delle quali [1700] nel loro stato di salvatichezza, non ci potrebbero servire
affatto, o ci servirebbero, o diletterebbero assai meno. ec. Così dico degli
animali. ec. Ma questo miglioramento è relativo al nostro stato presente,
non mica alla natura di quelle razze ec. pretese migliorate, nè alla natura
propria nostra. Infatti quelle razze ec. coi miglioramenti che ricevono
dalle nostre arti, acquistano qualunque altra qualità fuorché il vigore, la
robustezza, la sanità, la forza di resistere alle intemperie alle fatiche ec. di
operare ec. di crescere proporzionatamente ec. Anzi quanto guadagnano
in altre qualità (non proprie nè primitive loro) altrettanto perdono in
questa, ch’è il vero carattere della natura in tutte le sue opere, e senza la
cui rispettiva dose proporzionata alla natura di ciascun genere,
l’individuo è insomma in istato di malattia abituale. V. la Veterinaria di
Vegezio, prologo al lib.2. nel passo riportato dal Cioni, Lettera a G.
Capponi sopra Pelagonio, not. 19. Il vigore rispettivo è la prima e più
necessaria di tutte le facoltà, perché insomma non è altro che la facoltà di
pienamente esercitare tutte le proprie facoltà, e tutte le qualità rispettive
della propria natura, e tutta la perfezion fisica della propria esistenza.
Senza la qual perfezione [1701] fisica (che la natura ha dato
immediatamente a tutti i generi, ed all’umano come agli altri, a
differenza della pretesa perfezione dell’animo), nè l’animo (che dipende
in tutto dal fisico) nè l’intero animale può mai essere se non imperfetto.
(14. Sett. 1821.)
Il sistema di Platone delle idee preesistenti alle cose, esistenti per se,
eterne, necessarie, indipendenti e dalle cose e da Dio: [1713] non solo non
è chimerico, bizzarro, capriccioso, arbitrario, fantastico, ma tale che fa
meraviglia come un antico sia potuto giungere all’ultimo fondo
dell’astrazione, e vedere sin dove necessariamente conduceva la nostra
opinione intorno all’essenza delle cose e nostra, alla natura astratta del
bello e brutto, buono e cattivo, vero e falso. Platone scoprì, quello ch’è
infatti, che la nostra opinione intorno alle cose, che le tiene
indubitabilmente per assolute, che riguarda come assolute le
affermazioni, e negazioni, non poteva nè potrà mai salvarsi se non
supponendo delle immagini e delle ragioni di tutto ciò ch’esiste, eterne
necessarie ec. e indipendenti dallo stesso Dio, perché altrimenti 1. si
dovrà cercare la ragione di Dio, il quale se il bello il buono il vero ec. non
è assoluto nè necessario, non avrà nessuna ragione di essere, nè di esser
tale o tale, 2. posto pur che l’avesse, tutto ciò che noi crediamo assoluto e
necessario non avrebbe altra ragione che il voler di Dio; [1714] e quindi il
bello il buono il vero, a cui l’uomo suppone un’essenza astratta, assoluta,
indipendente, non sarebbe tale, se non perché Dio volesse, potendo
volere altrimenti, e al contrario. Ora, trovate false e insussistenti le idee
di Platone, è certissimo che qualunque negazione e affermazione
assoluta, rovina interamente da se, ed è maraviglioso come abbiamo
distrutte quelle, senza punto dubitar di queste. (16. Sett. 1821.)
[1720] Le verità contenute nel mio sistema non saranno certo ricevute
generalmente, perché gli uomini sono avvezzi a pensare altrimenti, e al
contrario, nè si trovano molti che seguano il precetto di Cartesio: l’amico
della verità debbe una volta in sua vita dubitar di tutto. Precetto
fondamentale per li progressi dello spirito umano. Ma se le verità ch’io
stabilisco avranno la fortuna di essere ripetute, e gli animi vi si
avvezzeranno, esse saranno credute, non tanto perché sian vere, quanto
per l’assuefazione. Così è sempre accaduto. Nessuna opinione vera o
falsa, ma contraria all’opinione dominante e generale, si è mai stabilita
nel mondo istantaneamente, e in forza di una dimostrazione lucida e
palpabile, ma a forza di ripetizioni e quindi di assuefazione. Da principio
fischiate, oggi regnano, o hanno regnato lungo tempo. Bene spesso vinte
dagli ostacoli opposti loro dall’opinione dominante, e abbandonate in
dimenticanza, sono poi state o copiate, o di nuovo inventate da altri più
fortunati, a cui la diversità delle circostanze ha proccurato [1721] che le
loro opinioni venissero ripetute in maniera che assuefattivi gli orecchi e
gli animi, cominciativi ad allevare i fanciulli, esse si sono stabilite, e
stabilite in modo da far considerare come sogni le opinioni contrarie, o
antiche e passate, o nuove ed ardite ec. Tutto ciò non è che una prova del
mio stesso sistema, il quale fa consistere le facoltà, le opinioni, le
inclinazioni, la ragione umana ec. nell’assuefazione. (17. Sett. 1821.). V. p.
1729.
Alla p. 1717. principio. Così dico della prontezza sì del corpo, che
dello spirito, de’ discorsi ec. della mobilità, e di altre tali qualità umane o
qualunque, che sono piacevoli per se, per natura delle cose; piacevoli
dico, e non belle, anzi talvolta contrarie al bello fino a un certo punto, e
pur piacciono. ec. Quello che ho detto degli uccelli, dico pure de’
fanciulli in genere, il piacere ch’essi ordinariamente cagionano,
derivando in gran parte da simili fonti. E parimente discorro d’altri simili
oggetti piacevoli. (17. Sett. 1821.)
L’uomo il più certo della malizia degli uomini, si riconcilia col genere
umano, e ne pensa alquanto meglio, se anche momentaneamente ne
riceve qualche buon trattamento, sia pur di pochissimo rilievo.
L’individuo da te più conosciuto per malvagio, se ti usa distinzioni e
cortesie che lusinghino il tuo amor proprio, divien subito qualche cosa di
meno male nella tua fantasia. Molto più la donna coll’uomo, o l’uomo
(anche il più brutto, anche quello di cui s’ha peggiore idea, anzi pure
avversione particolare) colla donna: e però è massima, specialmente
degli uomini, che [1728] per qualunque ripulsa, idea, opinione, ostacolo,
costume, non si dee mai disperare di venire a capo di una donna. Si
potrebbe parimente dire in genere, che l’uomo non dee mai disperare di
venire a capo di qualunque persona. Ecco quanta è la gran forza della
ragione nell’uomo! (18. Sett. 1821.)
Il me semble que nous avons tous besoin les uns des autres; la
littérature de chaque pays découvre, à qui sait la connaître, une nouvelle
sphère d’idées. C’est Charles-Quint lui-même qui a dit qu’un homme qui
sait quatre langues vaut quatre hommes. Si ce grand génie politique en
jugeait ainsi pour les affaires, combien cela n’est-il pas plus vrai pour les
lettres? Les étrangers savent tous le français, ainsi leur point de vue est
plus étendu que celui des Français qui ne savent pas les langues
étrangères. Pourquoi [1729] ne se donnent-ils pas plus souvent la peine
de les apprendre? Ils conserveraient ce qui les distingue, et
découvriraient ainsi quelquefois ce qui peut leur manquer. Corinne liv. 7.
ch. 1. dernières lignes. (18. Sett. 1821.)
Da quella parte della mia teoria del piacere dove si mostra come degli
oggetti veduti per metà, o con certi impedimenti ec. ci destino idee
indefinite, si spiega perché piaccia la luce del sole o della luna, veduta in
luogo dov’essi non si vedano e non si scopra la sorgente della luce; un
luogo solamente in parte illuminato da essa luce; il riflesso di detta luce,
e i vari effetti materiali che ne derivano; il penetrare di detta luce in
luoghi dov’ella divenga incerta e impedita, e non bene si distingua, come
attraverso un canneto, in una selva, per li balconi socchiusi ec. ec.; la
detta luce veduta in luogo oggetto ec. dov’ella non entri e non percota
dirittamente, ma vi sia ribattuta e diffusa da qualche altro luogo od
oggetto ec. dov’ella venga a battere; in un andito veduto al di dentro o al
di fuori, e in una loggia parimente ec. quei luoghi dove la luce si
confonde ec. ec. colle ombre, come sotto un portico, in una loggia elevata
e pensile, fra le rupi e i burroni, in una valle, sui colli veduti dalla parte
dell’ombra, in modo che ne sieno indorate le cime; il riflesso che produce
p.e. un vetro colorato su quegli oggetti su cui si riflettono i raggi che
passano per detto vetro; tutti quegli oggetti in somma che per diverse
[1745] materiali e menome circostanze giungono alla nostra vista, udito
ec. in modo incerto, mal distinto, imperfetto, incompleto, o fuor
dell’ordinario ec. Per lo contrario la vista del sole o della luna in una
campagna vasta ed aprica, e in un cielo aperto ec. è piacevole per la
vastità della sensazione. Ed è pur piacevole per la ragione assegnata di
sopra, la vista di un cielo diversamente sparso di nuvoletti, dove la luce
del sole o della luna produca effetti variati, e indistinti, e non ordinari. ec.
È piacevolissima e sentimentalissima la stessa luce veduta nelle città,
dov’ella è frastagliata dalle ombre, dove lo scuro contrasta in molti
luoghi col chiaro, dove la luce in molte parti degrada appoco appoco,
come sui tetti, dove alcuni luoghi riposti nascondono la vista dell’astro
luminoso ec. ec. A questo piacere contribuisce la varietà, l’incertezza, il
non veder tutto, e il potersi perciò spaziare coll’immaginazione, riguardo
a ciò che non si vede. Similmente dico dei simili effetti, che producono gli
alberi, i filari, i colli, i pergolati, i casolari, [1746] i pagliai, le
ineguaglianze del suolo ec. nelle campagne. Per lo contrario una vasta e
tutta uguale pianura, dove la luce si spazi e diffonda senza diversità, nè
ostacolo; dove l’occhio si perda ec. è pure piacevolissima, per l’idea
indefinita in estensione, che deriva da tal veduta. Così un cielo senza
nuvolo. Nel qual proposito osservo che il piacere della varietà e
dell’incertezza prevale a quello dell’apparente infinità, e dell’immensa
uniformità. E quindi un cielo variamente sparso di nuvoletti, è forse più
piacevole di un cielo affatto puro; e la vista del cielo è forse meno
piacevole di quella della terra, e delle campagne ec. perché meno varia
(ed anche meno simile a noi, meno propria di noi, meno appartenente
alle cose nostre ec.) Infatti, ponetevi supino in modo che voi non vediate
se non il cielo, separato dalla terra, voi proverete una sensazione molto
meno piacevole che considerando una campagna, o considerando il cielo
nella sua corrispondenza e relazione colla terra, ed unitamente ad essa in
un medesimo punto di vista.
È piacevolissima ancora, per le sopraddette [1747] cagioni la vista di
una moltitudine innumerabile, come delle stelle, o di persone ec. un
moto moltiplice, incerto, confuso, irregolare, disordinato, un
ondeggiamento vago ec. che l’animo non possa determinare, nè
concepire definitamente e distintamente ec. come quello di una folla, o di
un gran numero di formiche, o del mare agitato ec. Similmente una
moltitudine di suoni irregolarmente mescolati, e non distinguibili l’uno
dall’altro ec. ec. ec. (20. Sett. 1821.)
La più grande scienza musicale è inutile per dilettare col canto senza
una buona voce. Questa può supplire al difetto o scarsezza di quella, ma
non già viceversa. Qual è dunque la principale sorgente del piacer
musicale? Si suol dire che i bravi compositori di musica non sanno
cantare, perché non sovente si combina la disposizione naturale e
acquisita degli organi intellettuali con quella degli organi materiali della
voce. E così il più perfetto conoscitore e fabbricatore di armonia e di
melodia pel canto, saprebbe bene eseguire l’armonia e la melodia, ma
non perciò recare alcun diletto musicale.
Sogliono molto lodarsi le voci che [1760] si accostano, e questo è uno
de’ principali anzi necessari pregi di un vero buon cantore. Or questa
proprietà che non si sa nemmeno esprimere, nè in che cosa consista, è
tutta propria della sola voce, e indipendente affatto dall’armonia, le cui
qualità si sanno bene e matematicamente definire ed esprimere e
distinguere. Essa non appartiene dunque al bello, non più di un color
dolce che si confa e piace all’occhio per se stesso; o di un sapore, o di un
odore ec. Alle volte detta proprietà consiste nell’affettuoso, nel tenero,
nell’espressivo ec. Cosa pure indipendente dal bello, e appartenente
all’imitazione, ec. ovvero alla passione, all’affetto al sentimento che è
piacevole senza essere perciò bello. (21. Sett. 1821.)
Io ho per fermo che il bambino appena nato, o certo nel primo tempo
che succede al pieno sviluppo de’ suoi organi nell’utero della madre, non
si ricordi dell’istante precedente. Quest’è un’opinione che mi par
dimostrata dal vedere come la facoltà della memoria vada sempre
crescendo a forza di assuefazione, onde il fanciullo si ricorda più del
bambino, il giovane più del fanciullo (del quale spesso ci maravigliamo
se mostra [1766] memoria di qualche cosa alquanto lontana, di cui però ci
sovveniamo senza pena, e consideriamo come uno sforzo e una felicità di
memoria in loro, quello che ci pare ordinarissimo in un grande e in noi
stessi) e così di mano in mano finch’ella viene a declinare colla
declinazione della macchina umana. Io dunque penso che nel bambino
perfettamente organizzato, non esista assolutamente memoria, prima
dell’assuefazione de’ sensi, e dell’esperienze ec. (22. Sett. 1821.)
Ho detto altrove: non si può fare, quello che troppo si vuol fare.
Perciò giornalmente si osserva che una cosa sfugge alla memoria nel
punto ch’ella si vuol ricordare, [1777] e se le offre spontaneamente
quando non ce ne curiamo. Infatti ogni volta che con soverchia
contenzione di mente ci mettiamo per richiamarci una ricordanza la più
presente, e che ci sovverrà forse poco dopo, possiamo esser sicuri di non
ritrovarla, finché non abbiamo cessato di cercarla. Nel qual punto
medesimo bene spesso ella ci sovviene. Così noi ci ricordiamo sempre di
quel che ci siamo prefisso o che abbiamo desiderato di dimenticare, e ce
ne ricordiamo nel tempo che appunto non volevamo.
Queste osservazioni provano ancora l’altro mio pensiero che il troppo
è padre del nulla. (23. Sett. 1821.)
Egli notava ancora che quell’uno in quell’atto non era stato veduto
dagli altri. Linguaggio di società fra gli animali. (24. Sett. 1821.)
Nel tentativo di una transazione tra gli antichi e i moderni aggiunto per
terzo tomo dal traduttore Napoletano all’opera del Dutens, Origine delle
scoperte attrib. a’ moderni, cap. ult. §.2. v. due bei passi di S. Tommaso ne’
quali viene ad affermare la perfezione di tutto ciò che è, non rispetto ad
alcuna ragione antecedente, ma perciò solo che è così fatto; e la possibilità
di altri ordini di cose, diversissimi di perfezione, e infiniti di numero. (25.
Sett. 1821.)
Si può dire (ma è quistione di nomi) che il mio sistema non distrugge
l’assoluto, ma lo moltiplica; cioè distrugge ciò che si ha per assoluto, e
rende assoluto ciò che si chiama relativo. Distrugge l’idea astratta ed
antecedente del bene e del male, del vero e del falso, del perfetto [1792] e
imperfetto indipendente da tutto ciò che è; ma rende tutti gli esseri
possibili assolutamente perfetti, cioè perfetti per se, aventi la ragione
della loro perfezione in se stessi, e in questo, ch’essi esistono così, e sono
così fatti; perfezione indipendente da qualunque ragione o necessità
estrinseca, e da qualunque preesistenza. Così tutte le perfezioni relative
diventano assolute, e gli assoluti in luogo di svanire, si moltiplicano, e in
modo ch’essi ponno essere e diversi e contrari fra loro; laddove finora si
è supposta impossibile la contrarietà in tutto ciò che assolutamente si
negava o affermava, che si stimava assolutamente e indipendentemente
buono o cattivo; restringendo la contrarietà, e la possibilità sua, a’ soli
relativi, e loro idee. (25. Sett. 1821.)
Sul proposito che una lingua nuova non s’impara se non per mezzo
della propria, osservate che noi siamo soliti a misurare la regolarità o
irregolarità di una lingua, tanto in genere, quanto in ordine a ciascuna
costruzione, frase ec. dalla conformità ch’essa lingua ha colla lingua
nostra e sue frasi ec. Onde ci sembra regolare, non ciò che lo è per natura,
e ragione analitica, ma ciò che corrisponde esattamente alla maniera della
nostra lingua, [1797] ed a quell’ordine di espressioni e d’idee e di segni,
al quale siamo abituati. E così proporzionatamente fino all’irregolarità, la
quale benché sia regolarissima, ci pare generalmente irregolare quando
discorda dall’ordine abituale della nostra loquela. Applicate queste
osservazioni 1. al proposito dei francesi incapaci di ben conoscere
un’altra lingua, e giudicarla; e degl’italiani, capacissimi, perché la loro
lingua si presta quanto è possibile fra le moderne, ad ogni maniera di
favellare, 2. alla debolezza e moltiplicità della ragione umana, alla
mancanza di tipo universale per lei, all’influenza che su di essa esercita
l’assuefazione.
Quindi è che p.e. agl’italiani dee parer la lingua più regolare del
mondo, la spagnuola: ai moderni, e massime ai francesi, dee parere
irregolarissima e figuratissima ogni lingua antica, e massime la latina.
Agli antichi (e proporzionatamente agl’italiani) non pareva certo così. ec.
ec. ec. [1798] (26. Sett. 1821.)
Che sotto un governo dispotico non esista mai un gran talento; che le
circostanze pubbliche li facciano nascere, e che una rivoluzione, un
principe benefico e illuminato ec. sia padrone di produrli, come si è
sperimentato in mille occasioni, immediatamente e in gran copia; che i
grandi talenti sorgano ordinariamente e fioriscano tutti in un tempo; che
un secolo si trovi decisamente non solo più fecondo di qualunque altro di
grandi talenti in un tal genere, ma in modo che passato quel tal giro di
anni, non si trovi più in quel genere un talento degno di memoria, o di
essere paragonato ai sopraddetti, (v. il Saggio di Algarotti, e la fine [1820]
del primo lib. di Velleio); che nelle repubbliche abbondino gli eloquenti,
e fuori di esse non si trovi un uomo magniloquente, ec. ec. ec. tutto ciò da
che deriva, e che cosa dimostra, se non che il talento è l’opera in tutto
delle circostanze; sì il talento in genere, che il talento tale o tale? - Le
circostanze lo sviluppano, ma esso già esisteva indipendentemente da
queste. - Che cosa vuol dire sviluppare una facoltà già esistente ed intera?
Forse applicarla, e renderla ἐνεργῆ cioè operativa? Signor no, perché
questo non si può fare, se prima non si sono abilitati gli animi ad
operare, e in quel tal modo. Che gli organi, e con essi le disposizioni, cioè
le qualità che li compongono, si sviluppino, lo intendo. Ma che una
facoltà, che senza le circostanze corrispondenti, senza l’assuefazione e
l’esercizio, è affatto nulla e impercettibile a qualunque senso umano, si
debba dire e credere sviluppata, e non prodotta dalle circostanze, [1821]
questo non l’intendo. Che cosa è una facoltà? in che consiste la sua
esistenza? come è ella innata in chi non l’ha se l’assuefazione e le
circostanze non gliela proccurano? ec. Le disposizioni sono innate,
ovvero si acquistano mediante lo sviluppo, cioè il rispettivo
perfezionamento, di quegli organi che le contengono come loro qualità, e
come la carta contiene la disposizione ad essere scritta, a prender questa
o quella forma. Ma si può egli perciò dire che la carta abbia per se stessa
la facoltà di parlare alla mente di chi legge, e che quegli che vi scrive
sopra, sviluppi in lei questa facoltà, e non gliela dia? Ben ci può essere
una carta che sia suscettibile di questa o quella forma, inchiostro ec. e di
un altro no. E così negl’individui di una stessa specie variano, sono
maggiori o minori, mancano ancora affatto delle disposizioni o qualità
che in altri individui si trovano. Questa è tutta la differenza innata o
sviluppata de’ talenti umani, [1822] sì rispetto a se stessi, che rispetto alle
altre specie di animali. ec. Differenza di disposizioni, non mica di facoltà.
Differenza, mancanza, scarsezza, inferiorità, o superiorità che nessun
principe e nessuna circostanza (se non fisica) può toglier di mezzo;
laddove il contrario accade in ordine alle facoltà. Queste nascono dalle
circostanze, queste dipendono affatto da’ principi, dall’educazione ec.
laddove le disposizioni non ne dipendono. (1. Ott. 1821.)
Quanto una lingua è più ricca e vasta, tanto ha bisogno di meno
parole per esprimersi, e viceversa quanto è più ristretta, tanto più le
conviene largheggiare in parole per comporre un’espressione perfetta.
Non si dà proprietà di parole e modi senza ricchezza e vastità di lingua, e
non si dà brevità di espressione senza proprietà. Quindi la lingua
francese che certo non può gloriarsi di vastità (altrimenti non sarebbe
universale), si gloria indarno di brevità; quasi che la brevità de’ periodi
fosse lo stesso che la brevità dell’espressione, o che slegatura [1823] e
brevità fossero una cosa. V. il Sallustio di Dureau Delamalle. t. 1. p.
CXIV. (1. Ott. 1821.)
L’uomo tende sempre a’ suoi simili (così ogni animale), e non può
interessarsi che per essi, per la stessa ragione per cui tende a se stesso, ed
ama se stesso più che qualunque de’ suoi simili. Non vi vuole che un
intero snaturamento prodotto dalla filosofia, per far che l’uomo inclini
agli animali, alle piante ec. e perché i poeti (massime stranieri) de’ nostri
giorni pretendano d’interessarci per una bestia, un fiore, un sasso, un
ente ideale, un’allegoria. È ben curioso che la filosofia, rendendoci
indifferenti verso noi medesimi e i nostri simili, che la natura ci ha posto
a cuore, voglia interessarci per quello a cui l’irresistibile natura ci ha fatti
indifferenti. Ma questo è un effetto conseguentissimo del sistema
generale d’indifferenza derivante dalla ragione, il quale non mette
diversità fra’ simili e dissimili; e noi non ci figuriamo di poter provare
interesse per questi, se non perché l’abbiamo [1824] perduto o
illanguidito per noi e per gli uomini, e siamo in somma indifferenti a
tutto. Così gli altri esseri vengono a partecipare non del nostro interesse
ma della nostra indifferenza. Lo stesso accade riguardo a’ nostri simili,
nella sostituzione dell’amore universale all’amor di patria. ec. (1. Ott.
1821.). V. p.1830. e 1846.
Dove non è odio nazionale, quivi non è virtù. (3. Ott. 1821.)
Alla p. 1824. Non nego che questi effetti non possano anche derivare
dal contrario dell’indifferenza, cioè da una soprabbondanza di vita, di
passione, di attività nell’animo umano, quale si trova ne’ meridionali, e
massime negli orientali. In oriente in fatti sono assai comuni le poesie, le
favole, le invenzioni, dove i protagonisti, o quelli per cui si pretende
d’interessare, sono animali, piante, nuvole, monti, divinità o enti favolosi
e ideali, uomini in gran parte diversi da quelli che sono ec. ec. E
dall’oriente vennero col Cristianesimo le prime tracce, anzi quasi l’intero
sistema dell’amore universale. Presso noi però, e [1831] a’ nostri tempi è
certo che i detti effetti non nascono se non dall’indifferenza: e il contrario
di questa faceva che la mitologia greca trasmutasse in uomini tutti gli
oggetti della natura; e che gli antichi amassero sommamente la loro
patria, e odiassero gli stranieri. V. p. 1841.
È notabile come cagioni dirittamente contrarie producano gli stessi
effetti, e come la soprabbondanza di vita negli orientali, ravvicini la loro
poesia, i loro pensieri, la loro filosofia, e buona parte della loro indole a
quella de’ settentrionali. Ond’è che la poesia orientale disprezzata nel
mezzogiorno d’Europa fa fortuna nel Nord, e le fantasie del gelato e buio
settentrione, rassomigliano assai più a quelle del più fervido e brillante
mezzogiorno, che de’ climi temperati. (3. Ott. 1821.). Vedi la p.1859. fine.
Oggi la gara di onore è più fra coloro che compongono una stessa
armata che fra le armate nemiche; anticamente per lo contrario: oggi per
conseguenza il soldato invidia e quindi odia il suo compagno più [1843]
che il nemico; anticamente per lo contrario: oggi egli si duol più di un
vantaggio riportato da un suo emulo sopra il nemico, che de’ vantaggi
del nemico; anticamente per lo contrario: oggi insomma anche nelle
armate dove regna quella utilissima e grande illusione che si chiama
punto di onore, tutto è egoismo individuale; anticamente tutto era
egoismo nazionale. Signori filosofi, giacché non si può fare a meno
dell’uno o dell’altro, quale vi sembra il migliore? Anticamente erano
emule le nazioni, oggi gl’individui, e più quelli di una stessa che di
diverse nazioni; e così quando anche si cerca la gloria, cosa ben rara, e
quando ella si cerca operando per la nazione e contro i di lei nemici, ella
non è cercata e non ha per fine che l’individuo in luogo della nazione a
cui esso appartiene. (5. Ott. 1821.)
Tutta l’Europa e tutte le colte lingue hanno riconosciuto la lingua
greca per fonte comune alla quale attingere le parole necessarie per
significare esattamente le nuove cose, per istabilire, formare, [1844] ed
uniformare le nuove nomenclature d’ogni genere, o perfezionarle e
completarle ec. Sola l’Italia ricusa di conformarsi a questo costume; dico
l’Italia che non si sa in che consista, perché i suoi figli vi si uniformano
come gli altri; ma ciò ch’essi fanno in questo particolare, non si vuol
riconoscere dall’universalità della nazione (o da’ pedanti) come bene e
convenientemente fatto in punto di lingua, all’opposto di ciò che accade
nelle altre nazioni. Convengo che quando in luogo di una parola greca
ch’è sempre straniera per noi, si possa far uso di una parola italiana o
nuova o nuovamente applicata, che perfettamente esprima la nuova
cosa, questa si debba preferire a quella; (purché la greca o altra
qualunque non sia universalmente prevalsa in modo che sia
immedesimata coll’idea, e non si possa toglier quella senza distruggere o
confondere o alterar questa; giacché in tal caso una diversa parola, per
nazionale, espressiva, propria, esatta, precisa ch’ella fosse, non
esprimerebbe mai la stessa idea, se non dopo un lungo uso ec. e fratanto
non saremmo intesi.) Ma fuori di [1845] questo caso che di rarissimo si
verifica, perché l’Italia sola vorrà rinunziare, primo al costume generale
di questo e d’altri secoli e dell’Europa, che avrebbe diritto di farsi
adottare quando anche non fosse necessario nè buono; secondo al
benefizio universale di quella maravigliosa lingua, che benché morta da
tanti secoli, somministra perpetuamente il bisognevole a denominare e
significare appuntino tutto ciò che vive, e tutto ciò che nasce o si scuopre
o nuovamente si osserva nel mondo? (5. Ott. 1821.)
Alla p.1824. Del resto queste tali poesie che ho detto, orientali o
settentrionali, non producono effettivamente in noi che l’indifferenza,
dico quanto all’interesse, sebben possano stordire, colpire, e dilettar poco
[1847] a lungo colla novità, la maraviglia, l’eccesso della varietà ec. E dico
in noi, lasciando gli orientali ne’ quali potrebbe darsi che producessero
altro effetto stante le osservazioni della p.1830. Quanto a’ settentrionali
credo che sieno nel caso nostro, ed anche più di noi. (5. Ott. 1821.)
Alla p. 1840. principio. Eccovi infatti, contro quello che a prima vista
parrebbe, che le nazioni le più distinte nell’immaginazione, i popoli
meridionali insomma, dalle [1849] prime tracce che abbiamo della storia
umana fino a’ dì nostri, si trovano aver sempre primeggiato nella
filosofia, e massime nelle grandi scoperte che le appartengono. Grecia,
Egitto, India, poi Arabi, poi Italiani nel risorgimento. La profonda
filosofia di Salomone e del figlio di Sirac, non era ella meridionale?
L’Oriente non ha primeggiato in tutta l’antichità in ordine al pensiero,
alla profondità, alle cognizioni le più metafisiche, alla morale ec.?
Confucio non fu meridionale? Donde venne la filosofia tra’ latini? dalla
Grecia. Chi si distinse in essa fra tutti gli scrittori latini per ciò che spetta
alla profondità? gli spagnuoli Seneca, Lucano, possiamo anche dir
Quintiliano, ec. E nella teologia? gli Affricani Tertulliano, S. Agostino, ec.
nella teologia e filosofia insieme? Arnobio Affricano, e Lattanzio (credo)
parimente. Fra i greci quante sottigliezze, quante astrazioni, quante sette,
quante dispute, quanti scritti acutissimi in materie teologiche dal
principio della Chiesa fino agli ultimi secoli della [1850] Grecia. Si può
dir che la teologia Cristiana sia tutta greca. E quell’opera profondissima
del Cristianesimo donde venne? dalla Palestina. Mostratemi della
filosofia antica in qualsivoglia parte settentrionale o antartica dell’Asia,
dell’Affrica, dell’Europa. Quanto alle due prime mostratemi ancora, se
potete, della filosofia moderna, ch’io ve ne mostrerò non poca nelle loro
parti meridionali. Quello che dico della filosofia dico pur della teologia
(inseparabile dalla metafisica), a qualunque credenza ella appartenga.
Fra’ moderni, i tedeschi, certo abilissimi nelle materie astratte,
sembrano fare eccezione al mio sistema, e son tutto il fondamento del
sistema contrario; giacché gl’inglesi per indole spettano piuttosto al
mezzodì, come altrove ho detto. Ma questi tedeschi ne’ quali
l’immaginazione e il sentimento (parlando in genere) è tanto più falso, e
forzato, e innaturale e debole per se stesso, quanto apparisce più vivo ed
estremo (giacché questa estremità deriva in essi manifestamente da
cagione [1851] contraria che negli orientali, il cui clima è l’estremo
opposto del loro); questi tedeschi il cui spirito come dice la Staël, (De
l’Allem. tom. 1. 1. part. ch.9. 3me édit. p. 79.) est presque nul à la superficie, a
besoin d’approfondir pour comprendre, ne saisit rien au vol; questi tedeschi
sempre bisognosi di analisi, di discussione, di esattezza; questi tedeschi sì
generalmente e sì profondamente applicati da circa due secoli alle
meditazioni astratte, e queste quasi esclusivamente, hanno certo
sviluppato delle verità non poche, scoperte da altri; hanno recato
chiarezza a molte cose oscure; hanno trovato non piccole e non poche
verità secondarie; hanno insomma giovato sommamente ai progressi
della metafisica, e delle scienze esatte materiali o no; ma qual grande
scoperta, specialmente in metafisica, è finora uscita dalle tante scuole
tedesche ec. ec.? Quando ha mai un tedesco gettato sul gran sistema delle
cose un’occhiata onnipotente che gli abbia rivelato un grande e
veramente [1852] fecondo segreto della natura, o un grande ed universale
errore? (giacché la scoperta delle verità non è ordinariamente altro che la
riconoscenza degli errori.) Il colpo d’occhio de’ tedeschi nelle stesse
materie astratte non è mai sicuro, benché sia liberissimo, (e tale infatti
non può essere senza gran forza d’immaginare, di sentire, e senza una
naturale padronanza della natura, che non hanno se non le grand’anime.)
La minuta e squisita analisi, non è un colpo d’occhio: essa non iscuopre
mai un gran punto della natura; il centro di un gran sistema; la chiave, la
molla, il complesso totale di una gran macchina. Quindi è che i tedeschi
son ottimi per mettere in tutto il loro giorno, estendere, ripulire,
perfezionare, applicare ec. le verità già scoperte (ed è questa una gran
parte dell’opera del filosofo); ma poco valgono a ritrovar da loro nuove e
grandi verità. Essi errano anche bene spesso, malgrado il più fino
ragionamento, come chi analizza senza intimamente sentire, nè quindi
perfettamente conoscere, giacché grandissima [1853] e principalissima
parte della natura non si può conoscere senza sentirla, anzi conoscerla
non è che sentirla. Oltreché a chi manca il colpo d’occhio non può veder
molti nè grandi rapporti, e chi non vede molti e grandi rapporti, erra per
necessità bene spesso, con tutta la possibile esattezza. L’immaginazione
de’ tedeschi (parlo in genere) essendo poco naturale, poco propria loro,
ed in certo modo artefatta e fattizia, e quindi falsa benché vivissima, non
ha quella spontanea corrispondenza ed armonia colla natura che è
propria delle immaginazioni derivanti e fabbricate dalla stessa natura.
(Altrettanto dico del sentimento). Perciò essa li fa travedere e sognare. E
quando un tedesco vuole speculare e parlare in grande, architettare da se
stesso un gran sistema, fare una grande innovazione in filosofia, o in
qualche parte speciale di essa, ardisco dire ch’egli ordinariamente delira.
L’esattezza è buona per le parti, ma non per il tutto. Ella costituisce lo
spirito [1854] de’ tedeschi; or ella o non è buona o non basta alle grandi
scoperte. Quando delle parti le più minutamente ma separatamente
considerate si vuol comporre un gran tutto, si trovano mille difficoltà,
contraddizioni, ripugnanze, assurdità, dissonanze e disarmonie; segno
certo ed effetto necessario della mancanza del colpo d’occhio che scuopre
in un tratto le cose contenute in un vasto campo, e i loro scambievoli
rapporti. È cosa ordinarissima anche negli oggetti materiali e in mille
accidenti della vita, che quello che si verifica o pare assolutamente vero e
dimostrato nelle piccole parti, non si verifica nel tutto; e bene spesso si
compone un sistema falsissimo di parti verissime, o che tali col più
squisito ragionamento si dimostrano, considerandole segregatamente.
Questo effetto deriva dall’ignoranza de’ rapporti, parte principale della
filosofia, ma che non si ponno ben conoscere senza una padronanza sulla
natura, una padronanza ch’essa stessa vi dia, sollevandovi sopra di se,
una forza di colpo d’occhio, tutte le [1855] quali cose non possono stare e
non derivano, se non dall’immaginazione e da ciò che si chiama genio in
tutta l’estensione del termine. I tedeschi si strisciano sempre intorno e
appiedi alla verità; di rado l’afferrano con mano robusta: la seguono
indefessamente per tutti gli andirivieni di questo laberinto della natura,
mentre l’uomo caldo di entusiasmo, di sentimento, di fantasia, di genio, e
fino di grandi illusioni, situato su di una eminenza, scorge d’un’occhiata
tutto il laberinto, e la verità che sebben fuggente non se gli può
nascondere. Dopo ch’egli ha comunicato i suoi lumi e le sue notizie a de’
filosofi come i tedeschi, questi l’aiutano potentemente a descrivere e
perfezionare il disegno del laberinto, considerandolo ben bene palmo per
palmo. Quante grandissime verità si presentano sotto l’aspetto delle
illusioni, e in forza di grandi illusioni; e l’uomo non le riceve se non in
grazia di queste, e come riceverebbe una grande illusione! Quante grandi
illusioni concepite in un momento [1856] o di entusiasmo, o di
disperazione o insomma di esaltamento, sono in effetto le più reali e
sublimi verità, o precursore di queste, e rivelano all’uomo come per un
lampo improvviso, i misteri più nascosti, gli abissi più cupi della natura, i
rapporti più lontani o segreti, le cagioni più inaspettate e remote, le
astrazioni le più sublimi; dietro alle quali cose il filosofo esatto, paziente,
geometrico, si affatica indarno tutta la vita a forza di analisi e di sintesi.
Chi non sa quali altissime verità sia capace di scoprire e manifestare il
vero poeta lirico, vale a dire l’uomo infiammato del più pazzo fuoco,
l’uomo la cui anima è in totale disordine, l’uomo posto in uno stato di
vigor febbrile, e straordinario (principalmente, anzi quasi
indispensabilmente corporale), e quasi di ubbriachezza? Pindaro ne può
essere un esempio: ed anche alcuni lirici tedeschi ed inglesi abbandonati
veramente che di rado avviene, all’impeto di una viva fantasia e
sentimento. V. p.1961. capoverso ult.
Ho detto che nessuna veramente strepitosa scoperta nelle materie
astratte, e in [1857] qualsivoglia dottrina immateriale è uscita dalle scuole
ec. tedesche. Quali sono in queste materie le grandi scoperte di Leibnizio,
forse il più gran metafisico della Germania, e certo profondissimo
speculatore della natura, gran matematico ec.? Monadi, ottimismo,
armonia prestabilita, idee innate; favole e sogni. Quali quelle di Kant,
caposcuola ec. ec.? Credo che niuno le sappia, nemmeno i suoi discepoli.
Speculando profondamente sulla teoria generale delle arti, i tedeschi ci
hanno dato ultimamente il romanzo del romanticismo, sistema falsissimo
in teoria, in pratica, in natura, in ragione, in metafisica, in dialettica, come
si mostra in parecchi di questi pensieri. Ma Cartesio, Galileo, Newton,
Locke ec. hanno veramente mutato faccia alla filosofia. (Vero è che ora e
dopo che la letteratura è divenuta generale nella nazion tedesca, e ha
preso forma ed indole propria, queste grandi, strepitose e generali
mutazioni vanno gradatamente divenendo più difficili, per natura de’
tempi, de’ costumi, e de’ progressi dello spirito, per la soppressione delle
scuole, o delle fazioni scolastiche, le quali non esistono omai che [1858] in
Germania, dove tali mutazioni forse ancora accadono.) Macchiavelli fu il
fondatore della politica moderna e profonda. In somma lo spirito
inventivo è così proprio del mezzogiorno, riguardo all’astratto ec. come
riguardo al bello e all’immaginario.
Il sistema detto di Copernico, potrebbe riguardarsi come una grande
scoperta e innovazione, anche in ordine alla metafisica; ma è noto che
quel tedesco non fece altro che colle sue meditazioni lunghe e profonde,
coltivare e stabilire ec. una verità già saputa o immaginata da’ Pittagora
da Aristarco di Samo, dal Card. di Cusa ec. Questo è ciò che sanno fare i
tedeschi.
Da tutto ciò deducete 1. l’impotenza, e la contraddizione che involve
in se, ed introduce nell’uomo, e nell’ordine delle cose umane, la ragione,
la quale per far grandi effetti e decisi progressi ha bisogno di quelle
stesse disposizioni naturali ch’ella distrugge o n’è distrutta,
l’immaginazione e il sentimento. Facoltà generalmente e naturalmente
parlando incompatibili con lei, massime dovendo esser questa e quelle in
[1859] grado sommo. Vedete quanto sieno naturali i grandi progressi
della ragione, quanto la natura gli abbia favoriti nel fabbricar l’uomo,
quanto sia facile e naturale il conseguimento della pretesa perfezione
umana. Laddove l’immaginazione e il sentimento non hanno alcun
bisogno della ragione. E siccome, sebben questa e quelle sieno qualità
naturali, nondimeno quelle si ponno considerar come più proprie della
natura, più generali, più perfetti modelli di essa, meglio armonizzanti
con lei, più singolarmente proprie dell’uomo e delle nazioni e de’ tempi
naturali, de’ fanciulli ec. così vedete la gran superiorità della natura sulla
ragione, e su tutto ciò che l’uomo si proccura, si fabbrica, si perfeziona da
se stesso e col tempo.
2. Una nuova prova del come gli stessi effetti nascano da cagioni
contrarie. Il fervor dell’immaginazione e la freddezza o mancanza di
essa, producono la sottigliezza dello spirito. Sottili i tedeschi, sottilissimi
anzi sofistici i greci, gli arabi, gli orientali. V. p.1831. [1860] ed applicala a
questo luogo, ed osserva come sì in quello che nel nostro caso, trionfi
però sempre ciò che deriva da copia di vita, su ciò che nasce da scarsezza.
(5-6. Ott. 1821.)
Ho detto che l’immaginazione può risorgere o durare anche ne’
vecchi e disingannati. Aggiungo che l’immaginazione e il piacere che ne
deriva, consistendo in gran parte nelle rimembranze, lo stesso aver
perduto l’abito della continua immaginativa, contribuisce ad accrescere il
piacere delle rimembranze, giacch’elle, se fossero presenti ed abituali, 1.
non sarebbero, o sarebbero meno rimembranze, 2. non sarebbero così
dilettevoli, perché il presente non illude mai, bensì il lontano, e quanto è
più lontano. Onde non è dubbio che le immagini della vita degli antichi,
non riescano più dilettevoli a noi per cui sono rimembranze
lontanissime, che agli stessi antichi per cui erano o presenze, o
ricordanze poco lontane. Del resto la rimembranza quanto più è lontana,
e meno abituale, tanto più innalza, stringe, addolora dolcemente, diletta
[1861] l’anima, e fa più viva, energica, profonda, sensibile, e fruttuosa
impressione, perch’essendo più lontana, è più sottoposta all’illusione; e
non essendo abituale nè essa individualmente, nè nel suo genere, va
esente dall’influenza dell’assuefazione che indebolisce ogni sensazione.
Ciò che dico dell’immaginativa, si può applicare alla sensibilità. Certo è
però che tali lontane rimembranze, quanto dolci, tanto separate dalla
nostra vita presente, e di genere contrario a quello delle nostre sensazioni
abituali, ispirando della poesia ec. non ponno ispirare che poesia
malinconica, come è naturale, trattandosi di ciò che si è perduto;
all’opposto degli antichi a cui tali immagini, poteano ben far minore
effetto a causa dell’abitudine, ma erano sempre proprie, presenti, si
rinnovavano tuttogiorno, nè mai si consideravano come cose perdute, o
riconosciute per vane; quindi la loro poesia dovea esser lieta, come quella
che verteva sopra dei beni e delle dolcezze da [1862] loro ancor
possedute, e senza timore. (7. Ott. 1821.)
Ho detto che i greci furono i più filosofi e profondi tra gli antichi,
perché la loro lingua si presentava mirabilmente (sì come si presta ancora
forse meglio di ogni altra) alla filosofia ed alla precisione, come ad ogni
altra cosa e qualità. Bisogna osservare che questo pregio non l’ebbe ella
dalla filosofia, così che questo si debba attribuire alla filosofia de’ greci,
piuttosto che questa al detto pregio. Poiché la lingua greca fu formata, e
resa onnipotente assai prima che i greci avessero filosofia, e prima ancora
che si fosse intrapresa l’analisi delle lingue, e creata la gramatica, nelle
quali cose i greci furono poi sottilissimi specialmente intorno alla lingua
loro. Ma la lingua greca era tal quale noi la vediamo, e l’ammiriamo,
assai prima della gramatica, inventata, si può dire, dagli stessi greci, ne’
tempi in cui la loro lingua o aveva già perduto, o stava per perdere (forse
anche in forza delle regole ritrovate o osservate) il suo nativo [1863]
colore ec. Anzi la lingua greca, dopo che fu analizzata, e ridotta a regole,
dopo le circoscrizioni, le dispute, gli scrupoli de’ gramatici, divenne forse
meno atta alla filosofia, come ad ogni altra cosa, perché meno libera, e
meno capace (secondo il parere e il desiderio de’ pedanti) di novità.
Altrettanto nè più nè meno si può dire della lingua italiana. La libertà è
la prima condizione di una lingua sì filosofica, che qualunque. I francesi
l’hanno quanto alle parole. Ma ridotta ad arte, ogni lingua perde la sua
libertà e fecondità. Allora ella varia quanto alle forme che riceve, secondo
che alla sua formazione presiede la ragione o la natura ec.
Primitivamente l’indole di tutte le lingue è appresso a poco la stessa,
almeno dentro una stessa categoria di climi e caratteri nazionali. (7. Ott.
1821.)
Come quel diletto, e quel bello della musica, che non si può ridurre nè
alla significazione, nè a’ puri effetti del suono isolato dall’armonia e
melodia, nè alle altre cagioni che altrove ho specificate, derivi
unicamente dall’abitudine nostra generale intorno alle armonie, la quale ci
fa considerare come convenienti fra loro quei tali suoni o tuoni, quelle
tali gradazioni, quei tali passaggi, [1872] quelle tali cadenze ec. e come
sconvenienti le diverse o contrarie ec. osservate. Le nuove armonie o
melodie (che già si tengono per rarissime) ordinariamente, anzi sempre,
s’elle sono affatto, cioè veramente nuove, a prima vista paiono
discordanze, quantunque sieno secondo le regole del contrappunto, per
lo che ben tosto appresso ne conosciamo e sentiamo la convenienza, cioè
non per altro se non perch’elle sono, e ben presto le ritroviamo conformi
alla nostra assuefazione generale intorno all’armonia e melodia, cioè alle
convenienze de’ tuoni, quantunque elle non sieno conformi alle nostre
assuefazioni particolari. E quanto più la detta assuefazione generale è
meno estesa, o meno radicata e sensibile e immedesimata coll’uditore,
tanto più vivo è il sentimento di discordanza e disarmonia che questi
prova a prima giunta; e tanto eziandio più durevole, di maniera ch’egli le
giudicherebbe discordanze definitivamente, se l’opinione e la
prevenzione che quelle sieno [1873] poi veramente armonie o melodie,
non glielo impedisse. Tale è il caso del volgo, della gente rozza o non
assuefatta a udir musiche, e proporzionatamente, degli uomini non
intendenti di quest’arte. I quali tutti in udir tali nuove armonie sono
dilettati da’ soli suoni e dalle altre cause di diletto che altrove ho
spiegato, ma non già dall’armonia o melodia in quanto armonia e
melodia, perocch’essi non la ravvisano. E però piacciono soprattutto, o
più universalmente, le melodie chiamate popolari, cioè conformi
particolarmente o generalmente alle assuefazioni particolari o
all’assuefazione generale del comune degli uditori in fatto di melodie ec.
Le armonie o melodie affatto nuove ordinariamente non piacciono che
agl’intendenti, i quali sentono la difficoltà, e le raffrontano colle regole
ch’essi conoscono ec. E questi medesimi provano a primissima giunta un
senso di discordanza, che però presto svanisce, e ch’essi immediatamente
ravvisano per illusorio: ma si può dir che ogni assoluta novità in fatto di
musica contiene e quasi consiste in un’apparenza [1874] di stuonazione.
Altre armonie e melodie che non inchiudono quest’apparenza, o non
molto viva, e contuttociò si considerano come nuove, non sono nuove, se
non in quanto ad una non usitata combinazione delle diverse parti di
quelle convenienze musicali che l’assuefazione generale o particolare ci
fa riguardar come convenienze. E queste combinazioni quanto meno si
accostano a quello che di sopra ho spiegato per popolare, tanto più
piacciono agl’intendenti, e meno al popolo, e tanto meno hanno di
significazione, parlando però in genere. Di questa natura è una
grandissima parte delle giornaliere novità in fatto di musica, e delle
nuove composizioni musicali.
Similmente osservate che se tu ascolti, come spessissimo accade, un
pezzo p.e. di un’aria che tu già conosci, ed il seguito di questo pezzo è
diverso da quello che tu pur conosci, tu provi subito un senso di
discordanza, perché questa diversità si oppone alla tua assuefazion
particolare; ma sospendi il tuo giudizio, e ben tosto lo determini [1875]
favorevolmente, e provi il senso dell’armonia e melodia cioè
convenienza, perché detta diversità è poi conforme alla tua assuefazione
generale in fatto di convenienze musicali, la quale assuefazione e non
altro, è la base, la ragione, la materia ec. del contrapunto. E
quest’assuefazione generale comprende molte diversità di combinazioni
delle stesse parti, o di alcune di esse con altre ec. Il detto effetto è
comunissimo, perché è comunissima e spesso inevitabile la detta
circostanza che lo produce, e posta questa, il detto effetto ne segue
immancabilmente anche ne’ più intelligenti, ed avvezzi alla più gran
varietà delle combinazioni musicali.
Queste osservazioni possono rendere molto bella ragione del perché
la vera novità sia generalmente considerata come rarissima e
difficilissima in fatto di musica, cioè di armonia e soprattutto di melodia,
a differenza della pittura, della scultura, della poesia, dell’eloquenza ec.
Infatti un’assoluta novità in musica non può esser altro che disarmonia,
perché sarebbe sconvenienza dalle assuefazioni generali. Anche nella
poesia e nella prosa, ciò che spetta puramente all’armonia e melodia, non
è quasi punto capace di novità. Cioè le nuove combinazioni in [1876]
questo genere sarebbero facilissime e infinite, ma non sarebbero più
armonie nè melodie perché non converrebbero coll’assuefazione della
propria nazione e lingua; mentre che l’assuefazione è il solo fondamento,
ragione, elemento, principio costitutivo dell’armonia e melodia. Nelle
diverse nazioni e lingue diversissime sono le armonie e melodie della
prosa e del verso, (come pure di ciascuna parola isolata, vale a dir la
melodia delle sillabe e lettere, della quale e non d’altro si compone quella
di ciascun verso o periodo) perché diverse le assuefazioni, ma in ciascuna
lingua rispettivamente, la novità è quasi impossibile in questo genere; e
ciò che in un’altra lingua è melodioso, per quanto, assolutamente
parlando, e prima della diversa o contraria assuefazione, fosse
adattabilissimo alla lingua in cui tu scrivi, non lo è più, perché
sconverrebbe coll’assuefazione, e quindi sarebbe sconvenienza e
disarmonia. V. p. 1879. Laddove quel bello che dipende dall’imitazione
dalla significazione, dall’espression degli affetti ec. dal seguir la natura
ec. ec. è infinitamente variabile e suscettivo di novità. E siccome questo
bello costituisce la parte principale del bello pittorico, scultorico, poetico
ec. [1877] e non dipende cotanto nè consiste nell’assuefazione, (la quale
non può esser che limitatissima, massime generalmente e nel volgo ec.)
però le dette arti belle sono suscettibilissime di novità e varietà.
L’architettura, il cui bello costitutivo dipende anch’esso e consiste per la
più parte nell’assuefazione, varia bensì nelle nazioni affatto diverse,
come varia la musica, e come la melodia della prosa o del verso, ma in
nessuna nazione è suscettibile di più che tanta novità. Ed è questo un
nuovo genere di somiglianza fra queste due belle arti, architettura e
musica, oltre gli altri da me notati altrove.
E qui osservate come la pittura, scultura, poesia, eloquenza, quelle
arti belle in somma, che ho detto esser più suscettive di novità, quelle
appunto, generalmente parlando, e considerandole in un certo grado di
perfezione, non possono nelle loro principali qualità esser più che tanto
differenti nelle differenti nazioni. E viceversa la musica e l’architettura,
arti incapaci di molta [1878] novità e varietà dentro una stessa sfera di
costumi, differiscono sommamente nelle diverse sfere di costumi, anche
quanto alle qualità principali, ed elementari. Ciò avviene perché quelle
hanno un soggetto e un modello universale, cioè la natura, queste
particolare affatto, cioè le assuefazioni nazionali. Nuova prova del
quanto sia relativo quel bello che consiste nelle sole convenienze, cioè
quel solo che è veramente bello, e spetta all’astratta considerazione di
esso.
Ond’è che le arti quanto più son suscettive di novità e varietà in
ciascuna nazione, e per se stesse, tanto meno ponno variare da nazione a
nazione, e viceversa. E la varietà nazionale di cui un’arte bella è capace
sta in ragione inversa della varietà universale e costitutiva e specifica. (9.
Ott. 1821.)
Ne’ versi rimati, per quanto la rima paia spontanea, e sia lungi dal
parere stiracchiata, possiamo dire per esperienza di chi compone, che il
concetto è mezzo del poeta, mezzo della rima, e talvolta un terzo di
quello, e due di questa, talvolta tutto della sola rima. Ma ben pochi son
quelli che appartengono interamente al solo poeta, quantunque non
paiano stentati, anzi nati dalla cosa. (13. Ott. 1821.)
Non v’è cosa più sciocca e ingiuriosa alla natura del dire e ripetere
continuamente che la perfezione non è propria delle cose create, che
niente al mondo è perfetto, che le cose umane sono imperfette, che non vi
può esser uomo perfetto ec. ec. Che cosa mancava a quella insigne
maestra ch’è la natura per far le sue opere perfette? forse l’intelligenza?
forse il potere? Certo che nulla è nè può esser perfetto secondo la frivola
idea che noi ci formiamo di una perfezione assoluta, [1908] che non
esiste, di una perfezione indipendente da qualunque genere di cose, ed
anteriore ad essi, quando in essi soli è rinchiusa ogni perfezione, da essi
deriva, e in essi e nel loro modo di essere, ha l’unica ragione dell’esser
suo, e dell’esser perfezione. Certo che nulla è perfetto in un modo che
non è, in un modo in cui le cose non sono; e la natura delle cose che sono,
non può corrispondere a quello ch’è fuor di loro, e non è riposto in
nessun luogo. Noi sognando andiamo a cercare la perfezione di ciò che
vediamo, fuori dell’esistenza, mentr’ella esiste qui con noi, e coesiste a
ciascun genere di cose che conosciamo, e non sarebbe perfezione in
verun altro caso possibile. Non è maraviglia dunque se tutto ci pare
imperfetto, quando per perfetto intendiamo l’esistere in un modo in cui
le cose non son fatte, laddove la perfezione non consiste e non ha altra
ragione di esser tale, che nel modo in cui le cose son fatte, ciascuna nel
suo genere.
[1909] Certo è ancora che le cose propriamente umane ci debbono
parer tutte imperfette, perché in verità son tali. Noi fantastichiamo la
perfettibilità dell’uomo, e dopo così immensi (pretesi) avanzamenti del
nostro spirito, non siamo più vicini di prima alla nostra supposta
perfezione; e quando anche ci si dassero in mano le facoltà e la scienza di
un Dio, per comporre un uomo perfetto secondo le nostre idee, non lo
sapremmo fare, perché da che noi immaginiamo una perfezione assoluta,
ed unica, non possiamo in eterno sapere in che cosa possa consistere la
perfezione dell’uomo, nè di qualunque altro essere possibile, o genere di
esseri. Giacché immaginando un solo ed assoluto tipo di perfezione,
indipendente ed antecedente ad ogni sorta di esistenza, tutti gli esseri per
esser perfetti debbono essere interamente conformi a questo tipo; dunque
tutti perfettamente uguali e identici di natura; dunque da che esistono
generi, esiste necessariamente un’immensa imperfezione [1910] nella
stessa essenza di tutte le cose, la quale non si può toglier via, se non
confondendo tutte le cose insieme, estirpando tutte le possibili nature,
esistenti o non esistenti, e tutti i possibili modi di essere, e riducendo
un’altra volta il tutto, e l’intera esistenza a quel tipo di perfezione ch’è
anteriore all’esistenza, e quindi non esiste. Che cosa dunque intendiamo
noi per perfezione dell’uomo? a che cosa pretendiamo noi di andare
incontro? qual è la meta dei pretesi perfezionamenti del nostro spirito?
qual è la debita, anzi pur la possibile perfezione dell’uomo, anche ridotto
allo stato di eterna Beatitudine, e in Paradiso?
Non è maraviglia dunque se ogni cosa umana ci desta sempre l’idea
dell’imperfezione, e ci lascia scontenti, e se si grida che l’uomo è
imperfetto. Tale è veramente oggidì, e tale non lascerà mai di essere, da
che egli è sortito da quella perfezione che portava con se, consistente
[1911] nello stato naturale della sua specie, e nell’uso naturale delle sue
naturali disposizioni; e perdendo di vista il tipo che avea sotto gli occhi, e
che era egli stesso, o sia la sua stessa specie, è andato dietro a
un’immaginaria perfezione assoluta ed universale, che non ha nè può
avere nessun tipo, giacché questo non potrebb’essere se non anteriore
all’esistenza, e quindi per sua stessa natura non esistente, e vano; giacché
la perfezione assoluta, (o il tipo di essa) e l’esistenza, sono termini
contraddittorii. (13. Ott. 1821.)
Alla p. 1906. fine. Infatti siccome le qualità che l’uomo porta dalla
natura, non sono altro che disposizioni, così la corrispondenza che deve
rappresentar nell’esterno queste qualità interne, non può esser più che
una disposizione dell’esterno a rappresentarle. (13. Ott. 1821.)
[1915] Una cagione del piacere che produce la semplicità nelle opere
d’arte, o di scrittura, o in tutto ciò che spetta al bello; cagione universale,
e indipendente dall’assuefazione quanto al totale dell’effetto, ed inerente
alla natura del bello semplice; si è il contrasto fra l’artefatto e
l’inartefatto, o la perfetta apparenza dell’inartefatto. Contrasto il quale
può essere 1. tra le altre bellezze e qualità dell’opera, che stante la loro
perfezione, non paiono poter essere inartefatte, e la semplicità o
naturalezza che tutte le veste e le comprende, la quale è, o pare del tutto
inartefatta: 2. fra la stessa natura della semplicità e naturalezza che per se
stessa par che includa lo spontaneo e non artefatto, e il sapere o
accorgersi bene (com’è naturale) ch’essa, malgrado questa perfetta
apparenza, è non per tanto artefatta, e deriva dallo studio. Contrasto il
quale produce la meraviglia che sempre deriva dallo straordinario, [1916]
e dall’unione di cose o qualità che paiono incompatibili ec. Siccom’è il
ricercato colla sembianza del non ricercato. Sottilissime, minutissime,
sfuggevolissime sono le cause e la natura de’ più grandi piaceri umani. E
la maggior parte di essi si trova in ultima analisi derivare da quello che
non è ordinario, e da ciò appunto, ch’esso non è ordinario. ec. (14. Ott.
1821.). La maraviglia principal fonte di piacere nelle arti belle, poesia, ec.
da che cosa deriva, ed a qual teoria spetta, se non a quella dello
straordinario?
E pur questa frase potè ben essere molto, se non altro usitata, anche
nel parlar latino, dove sappiamo che fabulare, e fabula si adopravano
comunemente per parlare chiacchierare, giacché n’è derivato il nostro
favellare e favella, e lo spagnuolo fablar, oggi hablar. Ma favola in nostra
lingua oggi non vuol dir propriamente altro che novella falsa; ond’è che
presa questa voce nel detto senso riesce elegantissima e di più riceve
presso noi un’intelligenza quanto significativa, tanto diversa da quella
che le davano i latini nella frase simile, dove usurpavano fabula, per
favella o ciancia.
Parimente discorro in ordine ad altre lingue, alle parole e frasi
italiane, o usi diversi delle medesime, passate nello spagnuolo, e
viceversa. ec. ec. (14. Ott. 1821.)
Si può dire che il dilicato in ordine alle forme ec. non consiste in altro
che in una proporzionata e rispettiva piccolezza del tutto o delle parti. E
viceversa il grossolano, o ciò ch’è di mezzo fra il grossolano e il dilicato.
La qual proporzione, la qual piccolezza è determinata dall’assuefazione.
La piccolezza del piede delle Chinesi a noi parrebbe sproporzionata. La
natura non entra qui (come non entra altrove) o non basta a tali
determinazioni. La più lunga vita della donna più grande nei nostri
vestiarii d’oggidì è più corta della più corta vita dell’uomo il più piccolo,
o almeno il più mediocre ec. ec.
Applicate queste osservazioni al dilicato immateriale ec.
Quello che noi chiamiamo sveltezza di forme, non è altro che
dilicatezza cioè piccolezza rispettiva, come di una proporzione rispetto
ad un’altra, della larghezza rispetto alla lunghezza ec. Il tutto
determinato dall’assuefazione [1922] e soggetto a variare seco lei. (15.
Ott. 1821.)
La lingua del bambino chi dirà che abbia la facoltà di favellare? Non
ne ha che la disposizione. Così quella del muto.Così quella di chi per
circostanze non fisiche non ha mai acquistato la pronunzia di tale o tal
lettera. Se ciò è avvenuto per circostanze fisiche, allora con ragione
diremo ch’egli non aveva la disposizione necessaria ad acquistar la
facoltà di quella pronunzia. (15. Ott. 1821.)
La lingua italiana è certo più atta alle traduzioni che non sarebbe stata
la sua madre latina. Fra le lingue ch’io conosco non v’è che la greca alla
quale io non ardisca di anteporre la nostra in questo particolare, nel
quale però poca esperienza fecero i greci della lor lingua. (16. Ott. 1821.)
Quello che altrove ho detto sugli effetti della luce, o degli oggetti
visibili, in riguardo all’idea dell’infinito, si deve applicare parimente al
suono, al canto, a tutto ciò che [1928] spetta all’udito. È piacevole per se
stesso, cioè non per altro, se non per un’idea vaga ed indefinita che desta,
un canto (il più spregevole) udito da lungi, o che paia lontano senza
esserlo, o che si vada appoco appoco allontanando, e divenendo
insensibile; o anche viceversa (ma meno), o che sia così lontano, in
apparenza o in verità, che l’orecchio e l’idea quasi lo perda nella vastità
degli spazi; un suono qualunque confuso, massime se ciò è per la
lontananza; un canto udito in modo che non si veda il luogo da cui parte;
un canto che risuoni per le volte di una stanza ec. dove voi non vi
troviate però dentro; il canto degli agricoltori che nella campagna s’ode
suonare per le valli, senza però vederli, e così il muggito degli armenti
ec. Stando in casa, e udendo tali canti o suoni per la strada, massime di
notte, si è più disposti a questi effetti, perché nè l’udito nè gli altri sensi
non arrivano a determinare nè circoscrivere la sensazione, e le sue
concomitanze. È piacevole qualunque suono (anche vilissimo) che
largamente e vastamente si diffonda, come in taluno dei detti casi,
massime se non si vede l’oggetto da cui parte. A queste considerazioni
appartiene il piacere che può dare e dà (quando non sia vinto dalla
paura) il fragore del tuono, massime quand’è più sordo, quando è udito
[1929] in aperta campagna; lo stormire del vento, massime nei detti casi,
quando freme confusamente in una foresta, o tra i vari oggetti di una
campagna, o quando è udito da lungi, o dentro una città trovandosi per
le strade ec. Perocché oltre la vastità, e l’incertezza e confusione del
suono, non si vede l’oggetto che lo produce, giacché il tuono e il vento
non si vedono. È piacevole un luogo echeggiante, un appartamento ec.
che ripeta il calpestio de’ piedi, o la voce ec. Perocché l’eco non si vede
ec. E tanto più quanto il luogo e l’eco è più vasto, quanto più l’eco vien
da lontano, quanto più si diffonde; e molto più ancora se vi si aggiunge
l’oscurità del luogo che non lasci determinare la vastità del suono, nè i
punti da cui esso parte ec. ec. E tutte queste immagini in poesia ec. sono
sempre bellissime, e tanto più quanto più negligentemente son messe, e
toccando il soggetto, senza mostrar [1930] l’intenzione per cui ciò si fa,
anzi mostrando d’ignorare l’effetto e le immagini che son per produrre, e
di non toccarli se non per ispontanea, e necessaria congiuntura, e indole
dell’argomento ec. V. in questo proposito Virg. Eneide 7. v.8. seqq. La
notte, o l’immagine della notte è la più propria ad aiutare, o anche a
cagionare i detti effetti del suono. Virgilio da maestro l’ha adoperata. (16.
Ott. 1821.)
Da tutto ciò si rilevi come l’armonia cioè il bello sia pura opera e
creatura dell’assuefazione tanto che se questa non esiste non esiste
neppur l’idea dell’armonia, neanche dov’ella parrebbe più naturale. (18.
Ott. 1821.)
Il toccar con mano che nessuno stato sociale fu nè sarà nè può esser
perfetto, cioè perfettamente equilibrato ed armonico nelle sue forze
costitutive, e nella sua ordinazione al ben essere dei popoli e
degl’individui (tutti i savi lo confessano); e che quando anche potesse
esser tale da principio, (come una monarchia, una repubblica) la stessa
assoluta essenza della società porta in se i germi della corruzione, e
distrugge immancabilmente e prestissimo questa perfezione,
quest’armonia ec. ne’ suoi principii costitutivi; non è ella una prova
bastante che l’uomo non è fatto per la società, o almeno per una società
stretta, e [1953] d’uomini inciviliti, e che questa è incompatibile con la
natura umana, e contraddittoria ne’ suoi principii? Una tal società da un
lato abbisogna, dall’altro produce immancabilmente la civiltà; e la civiltà
distrugge la perfezione e l’armonia di qualunque siffatta società. Essa
non può trovarsi in natura, e frattanto, come altrove ho mostrato, ella
non può essere perfetta e perfettamente ordinata al suo fine, che in
natura e fra uomini naturali. (19. Ott. 1821.)
Quest’ordine in tutte le parti del sistema della natura qual altro può
essere che il primitivo? cioè quel solo ch’effettivamente si trova esistere
in natura, e prima [1960] dell’influenza delle altre volontà, e degli altri
agenti pensanti. (20. Ott. 1821.)
Quello che ho detto altrove degli effetti della luce, del suono, e d’altre
tali sensazioni circa l’idea dell’infinito, si deve intendere non solo di tali
sensazioni nel naturale, ma nelle loro imitazioni ancora, fatte dalla
pittura, dalla musica, dalla poesia, [1983] ec. Il bello delle quali arti, in
grandissima parte, e più di quello che si crede o si osserva, consiste nella
scelta di tali o somiglianti sensazioni indefinite da imitare.
E questo è un bello che non entra punto nella teoria di quel bello o
brutto che nasce dalla convenienza o sconvenienza, e ch’io nego essere
assoluto; sebbene neppur questo è assoluto, ma parte dipendente dalla
natura dell’uomo in quanto ella è tale, e per le ragioni dette nella teoria
del piacere; parte soggetto anch’esso all’assuefazione, alle circostanze ec.
(24. Ott. 1821.)
A quanto ho detto del nostro guai venuto dal lat. vae, aggiungi che in
parecchi luoghi d’Italia si suol dire ghel o ghelo per ve lo (ghel dissi, ghelo
dico), o gh’ per v’ (gh’ho messo, per v’ho messo, cioè ho messo quivi) ec. Così
mi par che usino massimamente i Veneziani.
[1984] Alla p. 1937. Non rideremmo noi di un povero scolare di
gramatica che nel suo latinuccio si lasciasse fuggir dalla penna non volo
per nolo? E pur questo nolo è una pretta corruzione e storpiatura di non
volo, fatta non da altri che dal popolaccio che suol troncare le parole, e
conglutinarne a dritto e rovescio i pezzi ec. Viceversa io sento
tuttogiorno dire dalla nostra plebe noglio o n’oglio per non voglio: e chi
s’ardirebbe di scrivere in italiano noglio per non voglio, e di introdurre il
verbo nolere nella nostra lingua? Sicché il buono e il cattivo, il puro e
l’impuro di una lingua non è altro che ciò ch’è usato o non usato, e che
ha fatto o non ha fatto fortuna presso i buoni scrittori, e nel tempo della
sua formazione. Ma quanto al degenerare, tutte le parole, tutti i modi,
tutte le lingue che noi conosciamo, non sono altro che un ammasso di
degenerazioni e corruzioni. [1985] (24. Ott. 1821.)
L’uomo che a tutto si abitua, non si abitua mai alla inazione. Il tempo
che tutto alleggerisce, indebolisce, distrugge, non distrugge mai nè
indebolisce il disgusto e la fatica che l’uomo prova nel non far nulla.
L’assuefazione [1989] intanto può influire sull’inazione, in quanto può
trasportare l’azione dall’esterno all’interno, e l’uomo forzato a non
muoversi, o in qualunque modo a non operare al di fuori, acquista
appoco appoco l’abito di operare al di dentro, di farsi compagnia da se
stesso, di pensare, d’immaginare, di trattenersi insomma vivamente col
proprio solo pensiero (come fanno i fanciulli, come si avvezzano a fare i
carcerati ec.). Ma la pura noia, il puro nulla, nè il tempo nè alcuna forza
possibile (se non quella che intorpidisce o estingue o sospende le facoltà
umane, come il sonno, l’oppio, il letargo, una totale prostrazione di forze
ec.) non basta a renderlo meno intollerabile. Ogni momento di pura
inazione è tanto grave all’uomo dopo dieci anni di assuefazione, quanto
la prima volta. La nullità, il non fare, il non vivere, la morte, è l’unica
cosa di cui l’uomo sia incapace, e [1990] alla quale non possa avvezzarsi.
Tanto è vero che l’uomo, il vivente, e tutto ciò che esiste, è nato per fare, e
per fare tanto vivamente, quanto egli è capace, vale a dire che l’uomo è
nato per l’azione esterna ch’è assai più viva dell’interna. Tanto più che
l’interna nuoce al fisico quanto ell’è maggiore e più assidua, e l’esterna
viceversa. Quanto all’azione interna dell’immaginazione, essa sprona e
domanda impazientemente l’esterna, e riduce l’uomo a stato violento, se
questa gli è impedita. E quella infatti agognano i giovani, i primitivi, gli
antichi, e non si può loro impedire senza metter la loro natura in istato
violento. Ciò non per altro se non perché l’uomo e il vivente tende
sempre naturalmente alla vita, e a quel più di vita che gli conviene. (26.
Ott. 1821.)
Ho detto che la grazia ec. deriva dai contrasti, e perciò spesso l’uomo,
e l’amore inclina al suo contrario. Osserviamo infatti che alla donna
debole per natura, piace la fortezza dell’uomo, e all’uomo viceversa. Il
che sebbene deriva immediatamente dalla naturale inclinazione d’ambo i
sessi, contuttociò viene in parte dalla [1991] forza del contrasto, giacché
si vede che ad una donna straordinariamente forte piace talvolta un
uomo piuttosto debole più che a qualunque altra, e forse più che
qualunque altro; e viceversa all’uomo debole una donna forte. ec. Così
dico della delicatezza opposta alla nervosità, e delle altre rispettivamente
contrarie qualità de’ due sessi. In tutto questo però influisce l’abitudine
de’ diversi individui. (26. Ott. 1821.)
Colui che imita la maniera di parlare, di gestire, ec. ec. usata da una
persona ignota a colei a cui egli l’imita e la descrive, quando anche
l’imitazione sia vivissima, ingegnosissima ec. non produce quasi nessun
effetto nè piacere; laddove un’imitazione assai men viva della stessa
cosa, fatta a chi ne conosca bene il soggetto, riuscirà piacevolissima.
Questo serva di regola ai poeti, ai pittori, ai comici, ec. ec. che
esauriscono [1992] la loro vena imitativa (sia pur felicissima) nell’imitar
cose ignote o poco note o niente familiari a’ lettori agli spettatori, o al più
de’ medesimi. (26. Ott. 1821.)
Alla p. 1974. La lingua latina è fra tutte quante la meno adattabile alle
cose moderne, perch’essendo di carattere antico, e proprissimo, e
marcatissimo, è priva di libertà, al contrario delle altre antiche, e quindi
incapace d’altro che dell’antico, e inadattabile al moderno, a differenza
della greca. Quindi venne e ch’ella [2008] si corrompesse prestissimo a
differenza pur della greca, e ch’ella dovesse cessare di esser lingua
universale, per intendersi scambievolmente, come oggi col francese, e
molto più di servire agli usi civili e diplomatici ec. ed essere adoperata
dai letterati e dai dotti in luogo delle parlate; dovesse dico cessare
appena i tempi presero uno spirito determinato e proprio, al quale il
latino era inadattabile. Ciò forse non sarebbe accaduto alla lingua greca,
e s’ella ne’ bassi tempi fosse stata universale in Europa, come lo fu la
latina, e com’essa l’era stata anticamente, e massime in oriente, forse ella
non avrebbe perduto ancora questa qualità, e noi ci serviremmo ancora
tra nazione e nazione di una lingua antica, e in questa scriveremmo ec.
Nel che saremmo in verità felicissimi per la infinita capacità, potenza, e
adattabilità di quella lingua, [2009] unite alla bellezza ec. che la fanno
egualmente propria e bastante e all’immaginazione e alla ragione di tutti
i tempi. Così sarebbe accaduto se l’armi greche avessero prevaluto in
Europa alle latine. Ed infatti la lingua tedesca che è similissima alla
greca, ec. - V. appresso un mio pensiero su questo particolare. (28. Ott.
1821.)
[2012] Alla p. 1271. mezzo. In prova di questo ch’io dico, cioè che le
nazioni si comunicarono gli alfabeti scambievolmente, e che quando
questa o quella nazione cominciava ad istruirsi, pigliava l’alfabeto di
quella da cui le venivano i primi lumi, perocché essa in realtà non
l’aveva, nè sapeva scrivere; e che ciò dovette portare somme alterazioni
nelle lingue; e che ciò durò non solo ne’ tempi antichissimi, ma fino a’
più moderni, e durerebbe anche oggi, dandosi un simil caso ec. v.
Samuelis Aniensis Chronica, (coll’Eusebio del Mai) an. Christi 418.423. e
la nota del Mai all’an. 399. cioè p. 44. not. 4. e la pref. del Mai al Filone, p.
LIX. e quivi not. 4. V. anche Malte par un Voyageur françois (Rome) 1791.
2de partie. - Langue. - p. 61-63. (29. Ott. 1821.)
[2019] Alla p.2010. marg. Questi due verbi però, fluctuare, ed effettuare
(effectuer, efectuar) mi denotano un altro genere di formazione di verbi,
fatti da’ verbali in us (cioè consonanti co’ participii in us de’ verbi
positivi) troncando la s e aggiungendo l’are, genere analogo ai
continuativi, ma assai meno copioso; il quale essendo stato adoperato ne’
tempi della buona antichità, seguì pure ad esserlo, con nuove formazioni
ne’ bassi tempi, dove trovi usuare, usufructuare ec. ec. Abbiamo pur noi
situare, ec. graduare ec. abituare ec. ed in uere si trova statuere da status us.
V. p.2226. 2338. Abbiamo volgarmente questuare da quaestus us azione
evidentemente più lunga, abituale ec. di cercare. Quêter in francese puro
continuativo di quaerere, ha pure simil forza ec. Derivano insomma questi
verbi in uare da’ nomi della 4. declinazioni per lo più verbali, e presi da’
participii in us. Così arcuare, tumultuare, o ari. Così sinuare, insinuare,
aestuare, exdorsuare. V. p.2323. (30. Ott. 1821.)
La semplicità bene spesso non è altro [2038] che quella cosa, quella
qualità, quella forma, quella maniera alla quale noi siamo assuefatti, sia
naturale o no. Altra cosa, forma, ec. benché assai più semplice in se, o più
naturale ec. se non ci par semplice, perché ripugna, o è lontana dalle
nostre assuefazioni.
Quindi è che le stesse cose, qualità, maniere ec. naturali, o l’imitazione
o l’espressione ec. di esse naturalissimamente fatta, sovente non ci par
semplice, perché non vi siamo assuefatti, o ce ne siamo dissuefatti; e per
la stessa ragione per cui non par naturale. Ciò accade sopra tutto ai
francesi. L’idea e il senso della semplicità e naturalezza varia del tutto
secondo le assuefazioni (anche in uno stesso individuo, tutto giorno): e il
semplice e il naturale de’ francesi è tutt’altro da quello de’ primitivi, degli
antichi, delle altre nazioni ec. e ciò in tutti i generi.
Il semplice in gran parte non è che l’ordinario: e lo straordinario
difficilmente par semplice. Ora qual cosa più relativa dell’ordinario
[2039] e straordinario? (2. Nov. 1821.)
Alla p. 2035. fine. In somma è proprietà de’ continuativi (proprietà
ben motivata dal modo e natura che ho sviluppata della loro formazione)
di accrescere sempre il significato e la forza de’ positivi, in un modo e
senso, o nell’altro ec. e i continuativi dicono sempre più de’ positivi per
qualche verso, se non interamente. (2. Nov. 1821.)
Alla p. 1126. marg. Quanto sia vero che il v è stato sempre, per natura
della pronunzia umana, almeno ne’ nostri climi, o considerato o confuso
con una aspirazione, e questa lieve, si può vedere nella lingua italiana
che spesso lo ha tolto via affatto o dalle parole derivate dal latino, o da
altre. E in quelle stesse dove lo ha conservato, la pronunzia volgare
spessissimo lo sopprime, e spesso anche la scrittura, come nella parola
nativo dal latino nativus, che noi scriviamo indifferentemente natìo, ed in
molte altre simili, latine o no, che o si scrivono indifferentemente in
ambo i modi, o sempre senza il v che prima avevano, come restìo, che
certo da prima si disse restivo, o restivus Giulio per giulivo, Poliz. l.1.
Stanza 6. v.4. Bevo, beo, bee ec. Devo deve, deo dee ec. V. le gramatiche, e fra
gli altri il Corticelli. Paone, pavone ec. Viceversa il popolo molte volte in
queste o altre [2070] voci, inserisce o aggiunge comunque, quasi per
vezzo, il v, che non ci va, massimamente fra due vocali, per evitare l’iato,
al modo appunto del digamma eolico ch’io dico esser lo stesso che
l’antico v latino. Del resto come i latini dicevano audivi e audii ec. ec. così
è solenne proprietà della nostra lingua il poter togliere il v agl’imperfetti
della 2. 3. e 4. congiugazione e dire tanto udia, leggea, vedea quanto udiva,
leggeva, vedeva (cioè videbat ec. essendo il b latino un v presso noi in tali
casi, come lo era spesso fra’ latini, e viceversa, e come tra gli spagnoli
queste due lettere, e ne’ detti tempi e sempre si confondono.)
Particolarità analoghe a queste che ho notate nella lingua italiana, si
possono anche notare nella francese e più nella spagnola. Siccome
l’analogia fra la f e il v si può notare nel francese vedendo dal masc. vif
farsi il fem. vive ec. ec. (7. Nov. 1821.)
Alla p. 1151. fine. Quassare di cui dice Gellio, QUASSARE quam QUATERE,
gravius violentiusque est, non è altro che un continuativo di quatere dal suo
participio quassus. Il quale si trova bene spessissimo negli autori latini,
ma da’ gramatici è riconosciuto piuttosto per nome aggettivo che per
participio di quatere. (Forse anche [2077] ameranno di chiamarlo
contrazione di quassatus). Non nego che infatti non si trovi usato in forma
per lo più di aggettivo, ma ciò accade nè più nè meno a innumerabili altri
evidentissimi participii passivi d’altri verbi. Ora che quassus in origine sia
puro participio di quatere, si farà chiaro dal verbo quassare considerato
secondo le osservazioni che noi abbiamo fatte circa la formazione di tali
verbi continuativi dal participio in us de’ positivi; e si conferma ancora
dall’autorità di Festo il quale dice che concutere è composto di con e
quatere. Ora egli ha il suo participio passato e questo fa concussus, (così
excussus, incussus ec.) e se concutere, è quanto dire conquatere, concussus
sarà come conquassus. (V. Forcell. in quatere principio, concutere ecc.).
Conquassare altro derivato compositivo di quatere, viene dunque ad essere
un continuativo di concutere ec. niente meno di quello che succussare
(onde succussator, succussatura ec. Ve. anche il Du Cange) lo sia di
succutere. Forcell. lo chiama frequentativo di succutere. È verbo antico, co’
suoi derivati; pur di questi se n’ha nel Gloss. e noi pure volgarmente
diciamo talvolta succussare. (9. Nov. 1821.)
Les écrivains français ont besoin d’animer et de colorer leur style par toutes
les hardiesses qu’un sentiment naturel peut leur inspirer, tandis que les
Allemands, au contraire, gagnent à se restreindre. La réserve ne sauroit
détruire en eux l’originalité; ils ne courent risque de la perdre que par
l’excès même de l’abondance (De l’Allemagne. t. 1. 2. part. ch. 9. p. 244.)
[2080] Ciò non vuol dir altro se non che la lingua tedesca non è ancora
abbastanza formata; e perciò solo le sue ricchezze e facoltà non hanno
limiti: tutto ciò ch’è possibile in fatto di lingua, è possibile a lei, e tutto ciò
ch’è possibile a tutte le lingue insieme, ed a ciascuna separatamente; ell’è
come una pasta molle suscettibile d’ogni figura, d’ogni impronta, e di
cangiarla a piacere di chi la maneggia; simile appunto al fanciullo prima
dell’educazione, il quale è suscettibile d’ogni sorta di caratteri e di
facoltà, e non si può ancor dire qual sia precisamente la sua indole, a
quali facoltà la natura l’abbia disposto, perciocché la natura include in
ciascun individuo delle disposizioni maggiori o minori bensì, ma per
qualunque indole e facoltà possibile.
A queste considerazioni appartiene ciò che l’autrice ha detto
immediatamente prima. Les dialectes germaniques ont pour origine une
langue mère, dans laquelle ils puisent tous. Cette source commune renouvelle et
multiplie [2081] les expressions d’une facon toujours conforme au génie des
peuples. Les nations d’origine latine ne s’enrichissent pour ainsi dire que par
l’extérieur; elles doivent avoir recours aux langues mortes, aux richesses
pétrifiées pur étendre leur empire. Il est donc naturel que les innovations en fait
de mots leur plaisent moins qu’ aux nations qui font sortir les rejetons d’une tige
toujours vivante. — La lingua madre delle teutoniche moderne, non è più
viva della latina. Ma la differenza è che la latina fu formata e
determinata, l’antica teutonica no. Quella visse ed è morta, questa non è
morta, perché non è, si può dire, vissuta. La forma certa della lingua
latina influisce sempre più o meno sulle sue figlie. Quando queste
nacquero, benché nuove, e non formate, contenevano in se stesse un non
so che di vecchio e di formato, e questo vecchio e questo formato era
morto. Quindi sempre un non so che di gêne nelle nostre lingue, se si
paragonano all’infinita libertà e potenza della tedesca e della greca. La
madre [2082] delle moderne teutoniche non essendo mai stata formata, si
può dire che appena sia madre; si può dire che le sue figlie non sieno
figlie, ma una continuazione di lei, una formazione e determinazione di
essa, che non avea mai ricevuto forma ec. Ella dunque ancor vive; e le
lingue moderne teutoniche derivano dall’antico senza interruzione, senza
una intermedia rinnovazione totale di forme, che pone quasi un muro di
separazione fra le lingue meridionali e le loro antiche sorgenti. La lingua
antica teutonica si presta dunque al moderno come si vuole; e la radice
delle sue figlie ancor vive, perch’ella non ebbe mai una tal forma che la
determinasse e circoscrivesse e attaccasse inseparabilmente al tempo suo,
ad un carattere di una tal età, all’indole antica ec. e la diversificasse dalla
lingua di un altro tempo, per derivata ch’ella fosse da lei, e simile a lei, e
debitrice a lei ec. L’ebbe bensì la latina, ed ella è morta col carattere e le
circostanze di quei tempi a’ quali fu attaccata, ne’ quali ricevè piena
forma, e determinazione. [2083] Non l’ebbe la greca, ed ella perciò si
rassomiglia sommamente alla tedesca, ma solo per queste circostanze e
qualità esteriori, non già per le qualità intrinseche, le quali sono tanto
diverse, quanto il carattere meridionale dal settentrionale. E perciò
sarebbe sciocco il credere che il carattere della lingua tedesca somigliasse
a quello della greca sostanzialmente. Bisognerebbe veder tutte due
queste lingue ben formate, e allora la discrepanza dell’indole, sarebbe
somma. Bensì, stante la detta conformità esteriore, la lingua tedesca è
adattabile a tutte le qualità intrinseche e proprie della lingua greca; ma
non senza perdere la sua natura, il suo spirito e gusto nativo, la sua
originalità. Lo sarebbe nè più nè meno anche la greca rispetto alla
tedesca.
L’antico teutonico dunque non si può diversificare dal moderno
tedesco, nè considerar questo e quello come due individui, ma come un
solo, anticamente fanciullo, oggi adulto. Dove che l’italiano p.e. e il latino
sono due individui parimente maturi, e diversi l’uno dall’altro. Tutto ciò
non prova l’adattabilità e conformabilità particolare della lingua tedesca,
ma la conformabilità comune a tutte le [2084] lingue non mai state
formate, e la fecondità comune a tutte le lingue la cui origine non si può
fissare a cinque o sei secoli addietro, come dell’italiana, ma si perde nella
caligine dei tempi. Perciò la lingua tedesca ha ancora e potrà avere,
finché non riceverà perfetta forma, indole tanto moderna quanto antica, o
piuttosto nè l’una nè l’altra; a differenza dell’inglese che è pur sua sorella
carnale, ma che per diverse circostanze, ha ricevuto maggior forma e
determinazione, e proprietà. La lingua ebraica se oggi si continuasse a
scrivere, sarebbe nel caso della tedesca, e ci fu veramente negli scritti de’
rabbini, i quali sono veramente ebraici, sebbene tanto abbiano affare
coll’antico ebraico, quanto il tedesco coll’antico teutonico, il quale
appena si conosce. Laddove nè gli scritti latini de’ bassi tempi, nè
gl’italiani, sono o furono latini perché il latino ricevè una forma certa e
determinata, [2085] fuor della quale non v’è latinità. Ma v’è sempre
teutonicità ed ebraicità fuor dell’antico teutonico ed ebraico, che non
furono mai formati nè circoscritti, in modo che si potesse dire, questa
frase ec. non è teutonica. Così proporzionatamente discorrete del greco,
la cui libertà a differenza del latino, nacque indubitatamente dalla
differenza delle circostanze sociali e politiche, e dalla molta maggior
quantità di tempo in cui la lingua greca fiorì per iscrittori ottimi e sommi,
non come linguisti, ma come scrittori. (13. Nov. 1821.)
Il lui reste encore (à l’Allemand) une sorte de roideur qui vient peut-être de
ce qu’on ne s’en est guère servi ni dans la société ni en public. l. c. p. 246. (13.
Nov. 1821.)
Piace l’essere spettatore di cose vigorose ec. ec. non solo relative agli
uomini ma comunque. Il tuono, la tempesta, la grandine, il vento
gagliardo, veduto o udito, e i suoi effetti ec. Ogni sensazione viva porta
seco nell’uomo una vena di piacere, quantunque ella sia per se stessa
dispiacevole, o come formidabile, o come dolorosa ec. Io sentiva un
contadino, al quale un fiume vicino soleva recare grandi danni, dire che
nondimeno era un piacere la vista della piena, quando s’avanzava e
correva velocemente verso i suoi campi, con grandissimo strepito, e
menandosi davanti gran quantità di sassi, mota ec. E tali immagini,
benché brutte in se stesse, riescono infatti sempre belle nella poesia, nella
pittura, nell’eloquenza ec. (18. Nov. 1821.)
Alla p. 2022. fine. L’errore de’ Gramatici ec. [2119] in ordine ai verbi
formati dal participio in us di altri verbi, col troncamento dell’us e la
semplice aggiunta dell’are nell’infinito, verbi ch’io chiamo continuativi, si
è di non avere osservato che questa tal formazione (ch’essi non potevano
non conoscere, sebbene non so se l’abbiano mai avvertita e specificata
distintamente, e secondo le sue regole e qualità) avesse una forza, e un
fine, e un valore proprio, distinto, speciale, assegnato, determinato,
particolare. E l’aver creduto, ora che fossero frequentativi come quelli in
itare, senza veruna differenza, quasi la diversità della formazione fra
questi e quelli, fosse o casuale, o arbitraria, o insomma di nessun conto;
ora che fossero contratti, o in qualunque modo derivati dai verbi in itare,
e stessero insomma in vece loro (onde tanto fosse ductare quanto
ductitare, e così di tutti gli altri verbi in solo are, che hanno per compagni
[2120] altri verbi analoghi in itare, e che questi e quelli si usassero
indifferentemente); ora che non ci fosse alcuna diversità primitiva di
valore e di qualità fra i verbi originarii, e quelli formati colla sola giunta
dell’are, dai loro participi in us troncando l’us. (18. Nov. 1821.)
Pare sproposito, e pure è certo che una lingua è tanto più atta alla più
squisita eleganza e nobiltà del parlare il più elevato, e dello stile più
sublime, quanto la sua indole è più popolare, quanto ella è più modellata
sulla favella domestica e familiare [2131] e volgare. Lo prova l’esempio
della lingua greca e italiana e il contrario esempio della Francese. La
ragione è, che sola una tal lingua è suscettibile di eleganza, la quale non
deriva se non dall’uso peregrino e ardito e figurato e non logico, delle
parole e locuzioni. Ora quest’uso è tutto proprio della favella popolare,
proprio per natura, proprio in tutti i climi e tempi, ma soprattutto ne’
tempi antichi, o in quelle nazioni che più tengono dell’antico, e ne’ climi
meridionali. Quindi è che lo stesso esser popolare per indole, dà ad una
lingua la facoltà e la facilità di dividersi totalmente dal volgo e dalla
favella parlata, e di non esser popolare, e di variar tuono a piacer suo, e
di essere energica, nobile, sublime, ricca, bella, tenera ogni volta che le
piace. Insomma l’indole popolare di una lingua rinchiude tutte le qualità
delle quali una lingua umana possa esser capace (siccome la natura
rinchiude tutte le qualità e facoltà di cui l’uomo [2132] o il vivente è
suscettibile, ossia le disposizioni a tutte le facoltà possibili); rinchiude il
poetico come il logico e il matematico ec. (siccome la natura rinchiude la
ragione): laddove una lingua d’indole modellata sulla conversazione
civile, o sopra qualunque gusto, andamento ec. linguaggio ec. di
convenzione, non rinchiude se non quel tale linguaggio e non più
(siccome la ragione non rinchiude la natura, nè vi dispone l’uomo, anzi la
esclude precisamente), secondo che vediamo infatti nella lingua latina, e
molto più nella francese, proporzionatamente alle circostanze che
asservissent e legano quest’ultima al suo modello ec. molto più che la
latina ec. (20. Nov. 1821.)
Alla p. 988. Fino i titoli delle loro opere i latini gli scrivevano bene
spesso, non solo con parole, ma con elementi greci ancora, come
l’ἀποχολοχύτωσις di Seneca, parecchi libri logistici o satirici di Varrone
(v. Fabric. B. lat. t.1. p.88. e 428. not. d.) cioè nello stesso secolo aureo
della latinità; lasciando i titoli interamente greci per origine, per
terminazione ancora ec. come Metamorphoseon, Epodon di Orazio, Georg. e
Bucol. ed Eclog. di Virgilio, Ephemeris di Ausonio, ed altri veramente
infiniti in tutti [2166] i secoli della latinità. I latini aveano pur forse delle
parole proprie o già usate o nuove da sostituire a queste scritte in greco,
o prese dal greco. Di più esse non erano in uso nel linguaggio latino in
quelle materie (come georgica per agricultura ec.), e neppur credo che
esistesse poema greco con tal titolo, ec. almeno famoso. Le quali cose non
ardiremmo noi (nè forse i tedeschi, i russi ec.) di far col francese,
malgrado l’inondazione del francesismo, la sommersione che questo ha
prodotta delle lingue native ec. (al che certo non arrivò la greca rispetto
alla latina); l’esser la lingua e le parole francesi, almen tanto
generalmente intese in ciascuna nazione civile, ed in tutte insieme,
quanto la greca a quei tempi nella nazion latina, e nelle altre (anzi nelle
altre assai meno che il francese oggidì): e malgrado che gli elementi
francesi non differiscano dagl’italiani ec. come differivano i greci da’
latini, il che doveva rendere assai più strano e discordante e barbaro un
titolo forestiero ad un’opera nazionale, un titolo greco a un’opera latina.
(25. Nov. 1821.)
Non solo alla lingua francese, (come osserva la Staël) ma anche a tutte
le altre moderne, pare che la prosa sarebbe più confacente del verso alla
poesia moderna. Ho mostrato altrove in che cosa debba questa
essenzialmente consistere, e quanto ella sia più prosaica che poetica.
Infatti laddove leggendo le prose antiche, talvolta desideriamo quasi il
numero e la misura, per la poeticità delle idce che contengono (non
ostante che e per numero e per ogni altra qualità, la prosa antica tenga
tanto della versificazione); per lo contrario leggendo i versi moderni,
anche gli ottimi, e molto più quando ci proviamo a mettere noi stessi in
verso de’ pensieri poetici, veramente propri e moderni, desideriamo la
libertà, la scioltezza, l’abbandono, la scorrevolezza, la facilità, la
chiarezza, la placidezza, la semplicità, il disadorno, l’assennato, il serio e
sodo, la posatezza, il piano della prosa, [2172] come meglio armonizzante
con quelle idee che non hanno quasi niente di versificabile ec. (26. Nov.
1821.)
Sono tanto più ardite poetiche le lingue e gli stili antichi, che i
moderni, che (per quanto qualunque di esse antiche sia affine a
qualunque delle moderne, per quanto questa sia fra le moderne
arditissima, poeticissima liberissima e ciò per clima, carattere nazionale
ec.) anche nella lingua italiana la più poetica e ardita delle perfettamente
formate fra le moderne, e figlia germana della latina, un ardire della
prosa latina non riesce comportabile se non in verso, un ardire proprio
dell’epica latina, non si può tollerare se non nella nostra lirica. Anzi la
più ardita delle nostre poesie (o per genere, o per istile particolare
dell’autore ec.) quando va più avanti in ardire, non va più là di quello
che andassero i greci o i latini nella loro poesia più rimessa; anzi
spessissimo una frase, metafora ec. prosaica ed usitata (forse anche
familiare) in latino o in greco, non può esser che lirica in italiano.
Ciò deve servir di norma nell’imitazione [2173] degli antichi, nel
trasportare le bellezze o le qualità degli stili e lingue antiche alle moderne
ec.
Colla stessa proporzione si può discorrere dell’orientale o
settentrionale, rispetto all’occidentale o meridionale.
La lingua latina si trova, rispetto all’italiana, nel detto caso, anche più
della greca, bench’ella è madre. L’ardire poetico (anche nella prosa) è
maggiore nella lingua latina che nella greca, e pure essa è meno libera.
Accordate queste due qualità che sembrano contraddittorie. (26. Nov.
1821.)
Lo spirito della lingua e dello stile latino è più ardito e poetico che
quello della greca (non solo in verso ma anche in prosa), e nondimeno
egli è meno libero assai. Queste due qualità si accordano benissimo. La
lingua greca aveva la facoltà di non essere ardita, la lingua latina non
l’aveva. La lingua greca poteva non solo essere ardita [2174] e poetica
quanto la latina (come lo fu bene spesso), non solo più della latina (come
pur lo fu), ma in tutti i possibili modi, laddove la latina non poteva
esserlo se non dentro un determinato modo, genere, gusto, indole di
ardiri. La libertà di una lingua si misura dalla sua maggiore o minore
adattabilità a’ diversi stili, dalla maggiore o minore quasi quantità di
caratteri ch’essa contiene in se stessa, o a’ quali dà luogo. ec. Ma ch’ella
sia di un tal carattere ardito, ch’ella [abbia] per proprietà un certo tal
genere di ardire, ciò non prova ch’ella sia libera. Ci può dunque essere
una lingua serva ed ardita, come una lingua timida e serva, (tale è la
francese) una lingua libera e non ardita, come una lingua ardita e libera.
Bensì da che una lingua è libera, non dipende che dallo scrittore ec. il
renderla ardita. L’ardire dello spirito proprio della lingua latina formata
e letterata, venne dalla [2175] natura poetica dei popoli meridionali, da
quella degli scrittori che la formarono, dall’energia e vivacità degl’istituti
politici e dei costumi e dei tempi romani. La poca libertà della medesima
lingua venne dall’uso sociale che la strinse, l’uniformò, le prescrisse e
determinò quella tale strada, quel tal carattere e non altro. La lingua
greca sebbene in mano di popoli vivacissimi per clima, carattere, politica,
costumi, opinioni ec. nondimeno inclinò più a far uso dello stile semplice
che dell’ardito, e ciò per la natura dei tempi candidi ne’ quali essa
principalmente fiorì, e fu applicata alla letteratura. Ma dai soli scrittori
dipendeva il farla ardita più della latina, e in qualunque genere, come
fecero infatti ogni volta che vollero. Laddove non dipendeva dagli
scrittori latini dopo che la lingua fu formata, il ridurla al semplice, al
candido, al piano, al riposato della [2176] lingua greca, se non fino a un
certo segno. Onde accade alle frasi latine trasportate in greco, o viceversa,
quello appresso appoco che ho detto p. 2172. ma più nel caso di
trasportare le frasi greche in latino, le quali vi riescono troppo semplici,
di quello che nel caso contrario, perché la lingua greca si presta a tutto.
In tutte le suddette qualità la lingua italiana somiglia alla greca assai
più che alla latina, siccome all’una e all’altra somigliava assai più la
primitiva latina scritta, che quella dell’aureo secolo. (27. Nov. 1821.)
Alla p.1073. Le cinque, anzi le dieci dita delle mani, all’uomo privo di
favella non potevano servire (stante le osservazioni fatte di sopra) se non
per contare al più sino a 25. (e con molta difficoltà) cioè sino a cinque
volte cinque, contando le unità coll’una mano, e coll’altra le cinquine.
Senza il che la memoria non l’avrebbe condotto neppure al 15. o al venti.
Del resto i popoli scarsi di favella e privi di sufficienti nomi numerali, si
vede che infatti non sanno contare neppur sino al 20. (se nel Romanzo di
Robinson Crusoe si è avuto qualche riguardo alla verità, o al verisimile).
V. l’Enciclopedia, Logique ec. art. Nombres ec. [2187] I fanciulli sinché
non hanno bene e radicatamente appresi i nomi numerali, e legate ad essi
strettamente le rispettive idee, non sono capaci di concepire appena
confusamente nessuna quantità determinata (o di numero o di misura
ec.) se non piccolissima, cioè tanta per lo più quanto si stende la loro
cognizione de’ nomi numerali; e non arrivano se non dopo lungo tempo
a contar sino a venti, o più là del dieci ec. Anzi arrivano prima a contar
questi numeri, che a concepire le corrispondenti quantità, non avendo
ancora abbastanza strettamente legate e immedesimate e incastrate le
idee rispettive dei numeri, nelle parole che li rappresentano. (28. Nov.
1821.)
Alla p. 1115. Così da usus di uti, onde hanno i buoni latini usitari,
usitatus, usitate, verbo, nome, avverbio frequentativi, s’è conservato nelle
lingue moderne (non solo il freq. usitar spagn. e il nostro usitato ec. e il
franc. usité) ma anche il continuativo usare, user ec. vero continuativo non
solo per forma, ma per significato eziandio, e che perciò come ho detto
altrove, si può creder proprio dell’antico latino almeno volgare. V. il
Gloss. in Usare. Così abbiamo abusare ec. Uti è meno continuo di usare, o
usari. Si disse anche uto is. Forcell. utor in fine. (29. Nov. 1821.)
[2195] Alla p. 1127. prima del mezzo. Altri esempi di ciò gli ho notati
altrove, altri se ne ponno vedere nell’Encycl. Grammaire, non mi ricordo
a quale articolo, ma credo all’H. presi da Prisciano, altri p.1276. e quivi in
marg. A’ quali tutti aggiungi sulcus fatto da ὅλχος (tractus), che però
dovette da prima dirsi solcus, come volgus, volpes, come solpur per sulphur
pretende il Pontedera, come forse per lo contrario supnus o sumnus ec.
Questa etimologia di sulcus da ὅλχος è riconosciuta dal Forcell. Vedilo in
principio di Sulcus. V. anche sisto p. 2143. fine-seg.
Osservo che questi nomi greci che passando in latino hanno mutato lo
spirito in s, (siccome quelli che l’hanno mutato in h, e di questi è naturale
perché più recentemente fatti latini) conservano in latino le proprietà, e
quasi la forma intera che hanno nel greco p.e. il genere maschile neutro
ec. Non così quelli che hanno mutato lo spirito in v [2196] i quali hanno
mutato il genere, la forma ec. in modo che appena o certo più
difficilmente si ravvisano. Ho detto nomi, e intendo parole d’ogni sorta.
Ciò fa credere o 1. che tal pronunzia di v o f in luogo dello spirito sia più
antica, che quella in s, e perciò quelle parole più anticamente fatte
proprie del latino 2. o ch’elle venendo forse dall’Eolico, avessero in esso
dialetto forma diversa dalla greca comune. 3. o che in verità sieno passate
dal latino al greco, o piuttosto (ed è verisimilissimo) siano di quelle
parole primitivamente comuni ad ambe le lingue, e derivate da comune
madre, il che conferma l’opinione della fratellanza del greco e latino.
Bisogna però notare che quello che si cambia nel latino in s (o in h) è lo
spirito denso, e quello che in v (o forse talvolta in f) il lene. Onde si
potrebbe anche concludere che l’uso dello spirito denso, sebbene
antichissimo, sia però nelle voci greche più recente, che quello del lene.
Che l’uso greco [2197] (e quindi anche il latino) del σ per lo spirito, sia
più recente di quello dell’H, mutato nel latino in v, o del digamma Ϝ ec.
Che forse quelle parole greche scritte oggi collo spirito denso, che nel
latino hanno il v, anticamente si scrissero o pronunziarono col lene (come
῾Εστία ec.), o che così passarono agli Eoli ec.
V. anche (circa lo spirito denso mutato in s) il Forc. in Sollus, Sollicitare
principio, Solitaurilia princ. Solidus princ. (30. Nov. 1821.)
Quello che altrove ho detto della lingua del Bartoli, dimostra quanto
la nostra lingua si presti all’originalità dello stile e degli stili individuali,
in tutti i generi, e in tutta l’estensione del termine. Originalità [2198]
strettamente vietata dalla lingua francese allo stile ec. dell’individuo, se
non pochissima, che a’ francesi pare gran cosa, come la lingua di Bossuet.
Perocché è molto una piccola differenza, in una nazione, in una
letteratura, in una lingua, avvezza, e necessariamente conducente
all’uniformità, che non può essere alterata se non se menomamente,
senza dar bruttamente negli occhi, e uscir de’ limiti del lecito. Laddove
nella lingua italiana lo scrittore individuo può essere uniforme agli altri,
e difforme se vuole, anzi tutt’altro, e nuovissimo, e originalissimo, senza
lasciar di essere e di parere italiano, e ottimo italiano, e insigne nella
lingua. Ciascuno colla lingua italiana si può aprire una strada novissima,
propria, ignota, e far maravigliare i nazionali di parlare una lingua che si
possa esprimere in modo sì differente dal loro, e da loro non mai
pensato, [2199] benché benissimo l’intendano, per nuovo che sia. (30.
Nov. 1821.)
Alla p. 1154. marg. Quanto però a mussitare io non credo che venga da
mussatus ma da mussus, o quando anche venga da mussare, io non credo
che questo sia verbo originario ma continuativo da mussus. Il quale io
stimo antico participio di mutire o muttire verbo usato dagli scrittori
antichi (come da concutio ec. concussus da sentire sensus, e non sentitus,
concutitus ec. ec.) Quantunque in Terenzio se ne trovi (non è però senza
controversia) il partic. mutitus. Il Forc. stesso, deriva mussare da mutire.
Vedilo in Musso, Mutio, Mutitus. Mussitare però al solito lo dice
frequentativo di mussare, ma io lo credo immediato frequentativo di
mutire. Potrebb’essere però anche il contrario, trattandosi che mutire è
verbo quasi disusato fra’ latini del buon secolo, secondo ciò che ho detto
p. 1201. dopo il mezzo. (30. Nov. 1821.)
Alla p. 1112 marg. fine. Forse sentire ebbe un antico part. sentitus,
(regolarissimo) in vece di sensus (anomalo). Questo infatti viene da sensi
(anomalo); perché non dunque quello da sentii (regolare come audii)?
Forc. però non riconosce punto il pret. sentii. (30. Nov. 1821.)
Dicembre 1821
Come l’amor proprio, così l’odio verso altrui che n’è indivisibile
conseguenza, o fratello, si può bensì nascondere, o travisare sotto infiniti
aspetti, ma non perdere nè scemare mai in verun individuo della razza
animale, nè esser maggiore o minore [2205] in questo individuo che in
quello. Se non quanto può esser maggiore o minore l’amor proprio, non
così che l’individuo non si ami sempre quanto più può, ma riguardo
all’intensità, ed a quella forza maggiore o minore di passione e di
sentimento, che la natura ha dato ai diversi individui e specie di animali,
e che l’assuefazione ha conservato, o cresciuto o scemato. Sotto questo
aspetto l’amor proprio, il grado, la forza, la massa di esso può esser
maggiore o minore secondo gl’individui e specie, e quindi anche l’odio
verso altrui. Può anche esser maggiore o minore nello stesso individuo
secondo le diverse età, assuefazioni successive, circostanze accidentali,
giornaliere, momentanee, tanto fisiche che morali. Può parimente esser
maggiore o minore in una medesima specie generalmente, nelle diverse
sue epoche fisiche e morali, circostanze, ec. [2206] P.e. verso i suoi simili
l’odio naturale può talvolta esser maggiore talvolta minore che verso gli
altri animali ec. (1. Dic. 1821.)
V. anche Oraz. od. 17. l.2. v. 28. seqq. e l. 3. 16.3. seqq. Così in quel
famoso perieram nisi periissem. Cioè sarei perito, se non fossi perito. Or da
tali osservazioni io deduco due cose.
1. Che l’imperfetto ottativo o soggiuntivo spagnuolo terminato nella
prima e terza persona in ara o in era, amara, leyera, oyera, non derivi
dall’imperfetto latino dello stesso modo, amarem, legerem, audirem, ma dal
piucché perfetto dimostrativo, amaveram, [2223] legeram, audieram E me lo
persuade 1. la desinenza e la forma materiale, che in non pochi verbi è
similissima, anzi tutt’una coi detti tempi latini, come fueram fuera,
quaesieram quisiera (che ha che far quisiera con quaererem?), dixeram dixera
(e questo che ha da far con dicerem?) ec. 2. Il veder che il detto tempo
spagnolo si forma nè più nè meno, sempre dal passato dimostrativo, sì
come appunto il più che perfetto dimostrativo latino, non così il latino
imperfetto del congiuntivo. 3. L’uso e il significato di detto tempo
spagnuolo; giacché gli spagnuoli dicono per es. fuera per sarei stato e per
fossi stato, per j’aurais été, e si j’avais été, che sono i due significati del
piucché perfetto congiuntivo latino (come fuissem), in luogo del quale
appunto abbiamo veduto che spesso si usava dai latini appunto il più che
perfetto dimostrativo. (Credo pur che si usi dagli spagnoli [2224] fuera
p.e. per fossi, si j’étais, che i latini dicono essem distinto da fuissem, o anche
forem; negli altri verbi, usano l’imperfetto congiuntivo, si legerem, se
leggessi, si je lisais.)
2. Che questa proprietà della lingua spagnuola, lingua derivata dal
volgare latino, debba dare ad intendere che in esso volgare si costumasse
di adoperare regolarmente e ordinariamente il piucché perfetto del
dimostrativo in luogo di quello del congiuntivo, come effettivamente
troviamo fatto qua e là dagli stessi scrittori latini. Ma essi lo fanno, quasi
per figura o eleganza. Il volgare latino lo doveva fare per costume e
proprietà, se osserviamo le dette ragioni, e come quest’uso sia comune e
regolare (anzi inviolabile e proprio e necessario) in una lingua moderna e
popolare, derivata da quel volgare; e che certo non accaso combina in ciò
con l’uso che abbiamo osservato in parecchi passi [2225] degli antichi
scrittori. (4. Dic. 1821.)
Ho detto altrove che nel giudizio che il lettore pronunzia sulle poesie
(così proporzionatamente si può dire d’ogni altro genere di scrittura),
dipende ed è influito moltissimo dall’attuale disposizione del suo animo,
e soggetto perciò ad esser falsissimo (sì nel favorevole come nello
sfavorevole), per molto che il lettore sia giudizioso, ingegnoso, sensibile,
capace di entusiasmo, insomma giudice al tutto competente. Osservate
infatti. In una disposizion d’animo fredda e indifferente, ovvero [2234]
distratta, o gravata d’altre cure, o scoraggiata, o disingannata ec. sia ella
tale attualmente per qualunque cagione, o abitualmente, acquisita o
naturale ec. le più belle scene della natura ec. ec. non producono,
neppure all’uomo il più sensibile del mondo, il menomo effetto, e quindi
nessun piacere; e non però elle sono men belle. Così viceversa.
Similmente dunque deve accadere, e similmente si deve discorrere del
giudizio che gli uomini, anche i più capaci, pronunziano e concepiscono
delle poesie, cose di eloquenza, di sentimento d’immaginazione ec.
Giudizio diversissimo e nelle diverse persone, e in una stessa in diversi
tempi, e momenti anche della giornata, e molto più in diverse nazioni ec.
Aggiungete la sazietà, la scontentezza, il vôto dell’animo, la noia;
aggiungete le circostanze degli studi, il trovarsene sazio o annoiato in
quel [2235] tal momento, il venire da uno studio o lettura che ti ha
stancato o annoiato ec. il che può rendere il giudizio tanto più favorevole
del giusto, quanto anche (assai spesso) più sfavorevole.
Ed è cosa generalmente notabile che gli uomini disingannati, e
disseccati sono necessariamente cattivi giudici della poesia, eloquenza ec.
Or tale è ben presto il caso degli uomini più sensibili e immaginosi, come
ho detto altrove. Anzi lo è quasi sempre in quel tempo in cui essi son
giunti a formarsi un gusto e un tatto fino e squisito in materie letterarie e
in ogni altra cosa, il che non può essere se non dopo lungo studio,
esperienza, tempo. Quindi è che oggidì i più competenti giudici delle
opere d’immaginazione e sentimento, anzi i soli competenti, vengono
pur troppo ad essere incompetenti, per la quasi [2236] inevitabile
abitudine di freddezza e noncuranza ch’essi contraggono più presto, più
costantemente e durevolmente e continuamente, e più radicalmente,
profondamente, e vivamente degli spiriti mediocri. Fra’ quali per
conseguenza non isbaglierebbe forse, chi pretendesse di ritrovare i
giudici migliori possibili in tali materie, se non altro come mezzi e
subbietti d’esperimento. (8. Dic. dì della Concezione di Maria SS. 1821.)
[2239] Alla p. 2043. A quello che altrove dico delle cause per cui piace
la rapidità ec. dello stile, massime poetico, ec. aggiungi che da quella
forma di scrivere, nasce necessariamente a ogni tratto l’inaspettato, il
quale deriva dalla collocazione e ordine delle parole, dai sensi metaforici,
i quali ti obbligano, seguendo innanzi colla lettura a dare alle parole già
lette un senso bene spesso diverso da quello che avevi creduto; dalla
stessa novità dei traslati, e dalla naturale lontananza delle idee,
ravvicinate dall’autore ec. Tutte cose, che oltre il piacere della sorpresa,
dilettano perché lo stesso trovar sempre cose inaspettate tien l’animo in
continuo esercizio ed attività; e di più lo pasce colla novità, colla
materiale e parziale maraviglia derivante da questa o quella parola, frase,
ardire ec. (9. Dic. 1821.)
Alla p. 1563. principio. Il nostro urtare, franc. heurter (v. gli spagn. Il
Gloss. non ha nulla), viene evidentemente da urgere alla maniera de’
continuativi, cioè da urtus, suo participio ignoto per se stesso, ma fatto
manifesto da [2245] questo verbo comune a due lingue figlie della latina,
e dalla voce urto, franc. heurt, che non è altro che un verbale formato dal
participio in us di urgere, alla maniera di tanti altri verbali latini, come
dirò altrove. (11. Dic. 1821.)
Nel passo di Ovidio pertanto quell’ut non vuol dire in italiano a, cioè
ad tangendum, ma affinché ec. secondo il solito. (12. Dic. 1821.)
Involare che presso noi vale solamente rubare ebbe in fatti questa
significazione non presso i latini del secolo di Augusto, ma presso gli
anteriori e i posteriori. (V. Forcell.) Fra’ quali l’autor della Vita di Virgilio,
innanzi [2247] alla metà, cioè cap.11. V. il Gloss. se ha nulla. Voler dicono
i francesi, ed è notabile perché viene ad essere la radice d’involare in
questo senso. V. il Gloss. anche in Volare se ha nulla. V. i Diz. spagn.
Nocchiero voce nostra usuale viene da ναυχλῆρος mutato l’au in o e il
cl in chi, come appunto da clericus chierico, da clamare chiamare ec.
Nauclerus si trova negli scrittori latini ma rara, non usuale; e parrebbe
ch’ella fosse stata per loro un grecismo: pure indubitatamente ella fu
presso i latini volgarissima, sebben poco usata dagli scrittori, giacché
volgarissima è in italiano fino ab antico. V. il Forcell. e (se ha nulla)
l’Append. e il Gloss. (12. Dic. 1821.)
Alla p. 1124. marg. Tutto quello che ho detto della monosillabìa di tali
vocali successive, quantunque non connumerate fra’ dittonghi, cresce di
forza, se queste vocali doppie, triple ec. sieno le stesse, cioè due e, due i
ec. e massimamente se sono due i (l’esilissima lettera dell’alfabeto).
Giacché non solo i poeti giambici, comici ec. ma gli epici, i lirici ec.
consideravano spessissimo il [2248] doppio i come una sola sillaba,
secondoché si può vedere in Dii Diis; anzi più spesso, cred’io, per una
sola sillaba che per due. Anzi lo scrivevano ancora con una sola lettera, e
questo fu proprio degli antichi, e seguitato poi da’ poeti. (V. il Forcell. il
Cellar. l’Encyclop. Grammaire, in I, o J.) Ora appunto il caso nostro ne’
preteriti della 4ta. è di un doppio i, il quale pure cred’io che spesso
troveremo e nelle antiche scritture latine e ne’ poeti, e scritto e computato
per vocale semplice, ovvero per sillaba unica; e forse più spesso così che
altrimenti, cioè più spesso audi che audii ec. Osservate che anche i nostri
antichi solevano scrivere udì, partì per udii partii ec. I latini facevano
similmente ed anche scrivevano semplice il doppio i di ii, iidem, iisdem,
ec. V. fra gli altri infiniti, Virg. En. 2.654. 3.158. E quante volte troverete
ne’ poeti o negli antichi prosatori audisse audissem ec. ec. Ovvero p.e.
petiisse trisillabo ec. Forse più spesso che quadrisillabo.
Osservate ancora che au, il quale non è uno de’ dittonghi latini, e si
pronunzia sciolto (almeno così fanno gl’italiani, e insegnano gli antichi
gramatici, o lo mostrano quando [2249] non lo contano fra’ dittonghi
chiusi), tuttavia forma sempre una sola sillaba. V. p.2350. fine. Suadeo,
suesco ec. credo che li troveremo talvolta ne’ poeti, massime ne’ più
antichi, in modo che sua sue siano computate per una sillaba ciascuna.
Così è infatti assai spesso. V. il marg. della pagina seguente Suadeo ha la
seconda lunga. Però in Virg. Ecl. 1. v.55. En. 2. v.9. ec. suadebit, suadentque
sono trisillabi. V. la Regia Parnasi in Suadeo, Suesco ec. ec. e gli esempi de’
poeti nel Forcell. adeo in teneris consuescere multum est. Virg. Georg. 2.272.
ec. Abiete in Virg. Aen. 2. principio e 5.663. ec. è trisillabo. Ariete
parimente ib. l.2. v.492. V. la Regia Parnasi, e il Forcell. anche in Arieto as.
E che cos’è l’esser l’i così spesso consonante, se non esser egli computato
per formante una sola sillaba colla vocale o vocali seguenti? Giacché i
consonante per se stesso non si dà, ma egli è sempre un suono vocale (a
differenza del v, il quale per natura si distingue dal suono dell’u.) Tutti
gli j consonanti latini (che anticamente si scrissero sempre i) non sono
dunque altro che formanti tanti dittonghi, secondo quello ch’io dico delle
vocali doppie. Dejicere quadrisillabo, ha effettivamente cinque vocali. Così
Jacere ec. ec. ec.
[2250] Non liquidi gregibus fontes, non gramina DEERUNT (dissillabo).
Virg. Georg. 2.200. E di tali esempi ne troverete infiniti presso i più colti e
rigorosi versificatori latini. Il che prova che la pronunzia di tali parole li
favoriva. (13. Dic. 1821.). Corticibusque cavis vitiosaeque ilicis alvEO. Quid ec.
Georg. 2.453. V. p.2266. e 2316. fine. MiscUEruntque herbas et non innoxia
verba. Georg. 2.129. 3.283. Vir gregis ipse caper DEErraverat: atque ego
Daphnim. Virg. Ecl. 7. v.7. Tum celerare fugam, patriaque excedere SUAdet. En.
1.357. Atria: dependent lychni laquearibus aurEIS. En. 1.726. V. En. 3.
373.450.486.541. 5. 269.773. 6. 201.678.[7]33. (e vedi quivi le varianti). 5.
532.
Alla p. 2243. Tutto ciò che è finito, tutto ciò che è ultimo, desta sempre
naturalmente nell’uomo un sentimento di dolore, e di malinconia. Nel
tempo stesso eccita un sentimento piacevole, e piacevole nel medesimo
dolore, e ciò a causa dell’infinità dell’idea che si contiene in queste parole
finito, ultimo ec. (le quali però sono di lor natura, e saranno sempre
poeticissime, per usuali e volgari che sieno, in qualunque lingua e stile. E
tali son pure [2252] in qualsivoglia lingua ec. quelle altre parole e idee,
che ho notate in vari luoghi, come poetiche per se, e per l’infinità che
essenzialmente contengono.) (13. Dic. 1821.). V. p. 2451.
[2256] Ciò che dice Virg. Georg. 2. 420-30. paragonato a ciò che
precedentemente scrive della difficilissima e laboriosissima cultura delle
vigne, e loro inevitabile decadenza, può applicarsi a dimostrare quali cibi
e bevande, e qual vita la natura avesse destinato all’uomo; e quanto i
suoi presenti (acquisiti e fattizi) bisogni, sieno contrarii alla natura, e per
soddisfarli convenga far forza alla natura; e quanto per conseguenza si
debba credere che la nostra presente vita corrisponda all’ordine
destinatoci da chi ci formò. (15. Dic. 1821.)
Ante etiam sceptrum Dictaei regis, et ante Impia quam caesis gens est
epulata juvencis, Aureus hanc vitam in terris Saturnus agebat. Nec dum
etiam audierant inflari classica, nec dum Impositos duris crepitare
incudibus enses. Sed nos immensum spatiis confecimus aequor. (nota questo
verso detto però da Virgilio in altro senso.) Georg. 2. fine. (15. Dic. 1821.)
[2270] Come dunque sarebbe assurdo il dire che la natura abbia dato
al piede le facoltà della mano, e nondimeno vediamo che esso le acquista;
così parimente è stolto il dire che la natura abbia dato alla mano alcuna
facoltà, ma solamente la disposizione e la capacità di acquistarne;
disposizione ch’ella ha pur dato al piede, bench’ella resti non solo inutile,
ma sconosciuta e neppur sospettata in quasi tutti gli uomini; disposizione
che non è quasi altro che possibilità; disposizione maggiore certo nella
mano, che la natura aveva espressamente destinata ad acquistare le sue
facoltà ec. (altro è però destinarla, altro porvi essa stessa veruna facoltà
ingenita); e però l’aveva provveduta di maggior numero di articolazioni,
e postala in parte più adattata ad operare ec. Discorrete allo stesso modo
di tutte le facoltà umane, e di tutti gli organi intellettuali, esteriori,
interiori ec. L’argomento va in regola, e dalle cose più materiali chiare e
visibili, si può e si deve [2271] inferire e spiegare la natura ec. delle meno
chiare e facili, e meno materiali in apparenza. (22. Dic. 1821.)
Il partire, il restare contenti di una persona, non vuol dire, e non è
altro in sostanza che il restar contenti di se medesimi. Noi amiamo la
conversazione, usciamo soddisfatti dal colloquio ec. di coloro che ci
fanno restar contenti di noi medesimi, in qualunque modo, o perché essi
lo proccurino, o perché non sappiano altrimenti, ci diano campo di
figurare. ec. Quindi è che quando tu resti contento di un altro, ciò vuol
dire in ultima analisi che tu ne riporti l’idea di te stesso superiore all’idea
di colui. Così che se questo può giovare all’amore verso quella tal
persona, ordinariamente però non giova nè alla stima, nè al timore, nè al
peso, nè al conto, nè all’alta opinione ec. cose che gli uomini in società
desiderano di riscuotere dagli altri uomini assai più che l’amore. [2272]
(E con ragione, perché l’amore verso gli altri è inoperoso, non così il
timore, l’opinione, il buon conto ec.) E però volendo farsi largo nel
mondo, solamente i giovanetti e i principianti cercano sempre di lasciar
la gente soddisfatta di se. Chi ben pensa, proccura tutto il contrario, e
sebben pare a prima vista che quegli il quale parte malcontento di voi
porti con se de’ sentimenti a voi sfavorevoli, nondimeno il fatto è che egli
suo malgrado, e senza punto avvedersene, anzi e desiderando e cercando
e credendo il contrario, porta de’ sentimenti a voi favorevolissimi
secondo il mondo, giacché l’esser malcontento di voi, non è per lui altro
che esser malcontento di se stesso rispetto a voi, e quindi in un modo o
nell’altro tu nella sua idea resti superiore a lui stesso (che è quello
appunto che gli dà pena); e gl’impedisci di ecclissar la opinione di te, con
l’opinione e l’estimazione di se. Ne seguirà l’odio, ma non mai il
disprezzo [2273] (neppur quando tu l’abbia fatto scontento con maniere
biasimevoli, ed anche villane); e il disprezzo, o la poca opinione, è quello
che in società importa soprattutto di evitare; e il solo che si possa evitare,
perché l’odio non è schivabile; essendo innato nell’uomo e nel vivente
l’odiare gli altri viventi, e massime i compagni; non è schivabile per
quanta cura si voglia mai porre nel soddisfare a tutti colle opere, colle
parole, colle maniere, e nel ménager, e cattivare, e studiare, e secondare
l’amor proprio di tutti. Laddove il disprezzo verso gli altri non è punto
innato nell’uomo: bensì egli desidera di concepirlo, e lo desidera in virtù
dell’odio che porta loro; ma dipendendo esso dall’intelletto, e da’ fatti, e
non dalla volontà, si può benissimo impedire. Tutti questi effetti sono
maggiori oggidì di quello che mai fossero nella società, a causa del
sistema di assoluto e universale e accanito e sempre crescente egoismo,
che forma il carattere del secolo. (22. Dic. 1821.)
Alla p. 1106. marg. Oraz. Epod. 2.13. Aut in reducta valle mugientium
PROSPECTAT errantes greges, il rustico, o il campagnuolo, colui insomma
che abita in campagna. Che ne dite? vi par questo un frequentativo?
Spectare dicevano i latini quello stesso che noi diciamo guardare,
riguardare, riuscire, rispondere, mettere ec. in un luogo, da una parte, come
guardare a ponente, cioè esser situato a ponente, mettere sul, o nel giardino,
rispondere (una finestra) alla strada. ec. Che vi pare? questo pure sarà un
frequentativo? Altri significati continuativissimi di Spectare v. nel Forcell.
[2276] E domando se un muro, una casa la quale spectat orientem, o ad
orientem faccia cosa frequente o continua. Se si è mai trovato alcun verbo
in itare adoperato ad esprimere azioni di questo genere. Qui si deve
riferire anche l’uso di spectare per appartenere, che noi pure (oltre spettare)
diciamo riguardare, ragguardare, risguardare nello stesso senso. E
quell’adspectabant di Virgilio è frequentativo o continuativo? Alcun verbo
in itare è stato mai adoperato, o può mai adoperarsi in tal significato?
Che ve ne dice l’orecchio per nulla che intendiate di latinità? Così dite di
cento altri esempi di verbi continuativi da me addotti. (23. Dic. 1821.)
Alla p. 1107. fine - e v. Offensus, massime nel principio e nel fine, sul
qual proposito vedi gl’interpreti di Oraz. Epod. 15. v. 15. V. p. 2291. e
2299. fine.
Alla p. 2141. fine. Il greco ἅπτω è tutt’un verbo col lat. apto. Questo
deriva manifestamente da un apo. E questo apo non è greco ma latino. E
quando anche si volesse supporre o si potesse trovare un apo nell’antico
greco, il greco ἅπτω non avrebbe potuto esserne formato per le ragioni
dette di sopra. Dunque l’apto latino non può derivar dal greco, e l’ἅπτω
greco essendo evidentemente lo stesso verbo non par che possa essere
stato preso altronde che dal Lazio. (23 Dic. 1821.)
Si trova in lat. obsidium per assedio, obsidiare per insidiare. (V. e consulta
il Forcell.) Parrebbe pur tuttavia ch’egli dovesse valere assediare. Fatto sta
che questo verbo e quel nome sono composti. Dunque è naturale che una
volta avessero i loro semplici. E quali? sidium, o sedium, e sidiare ec. Ora io
credo che questi in realtà vivessero nel volgare latino benché morti nelle
scritture, e lo deduco dallo spagn. sitio, e sitiar (assedio, assediare) mutato il
d in t, scambio consueto. Osservate anche il franc. siège, il Glossar. in
Sedius il med. in Assedium, e Assediare, parole italiane e francesi formate
dalla stessa radice di obsidium, obsidiari, ma con diversa preposizione. (23.
Dic. 1821.)
Qual autor greco più facile di Senofonte? anzi qual autor latino? e
forse anche qual autore in qualunque lingua, massime antica, può essere,
o avrebbe potuto esser più facile, figurandoci anche una lingua a nostro
talento? E pure egli è pienissimo di locuzioni, modi, forme figuratissime,
irregolarissime. Ma esse sono naturali, e ciascuno le comprende, e
qualunque principiante di greco, proverà gran facilità ad intender
Senofonte (forse sopra qualunque altro autore, massime della stessa
antichità), di qualunque nazione egli sia, e quantunque quelle
frequentissime e stranissime figure di Senofonte, non sieno meno
contrarie alle regole della sintassi greca, che all’ordine [2285] logico
universale del discorso. Tanto è vero che la natura non è meno universale
della ragione, e che adoperando naturalmente le facoltà proprie di una
lingua, per molto ch’elle si allontanino dalla logica, non si corre rischio di
oscurità, e che una lingua di andamento naturale, se non è così facile
come quella di andamento logico, certo non è oscura, e fra le antiche
poteva (e può) esser giudicata facilissima, e servire anche alla
universalità. (25. Dic. dì di Natale. 1821.)
Alla p. 2192. fine. Se alcuno volesse dire che i verbi ch’io chiamo
continuativi, quando presso gli scrittori, si trovano, come non di rado
avviene, in significato frequentativo o diminutivo, fossero contrazioni de’
verbi in itare, (come prensare di prensitare) noti o ignoti, stieno in somma
in vece di essi, e così vengano ad esser [2286] derivati dai frequentativi
anzi veri frequentativi non solo per significazione ma anche per
formazione ed origine gramaticale; non lo contrasterei più che tanto:
benché mi paia naturalissima e più verisimile quell’altra ragione ch’io
adduco di tale uso de’ continuativi, cioè le solite metamorfosi che nelle
parole, frasi, forme, formazioni, significati ec. produce inevitabilmente il
tempo e il vario uso de’ vari generi di scrittori, e parlatori. Chi può
dubitare che le desinenze in ulus, e altre tali non fossero espressamente
diminutive, e che i nomi o verbi ec. così formati, originariamente e
propriamente non significassero diminuzione di quella cosa o azione,
ch’era significata dal verbo o nome positivo? E nondimeno v. la p. 2281.
dove ho dimostrato come questi diminutivi sì nell’antico ottimo latino
scritto, sì nel volgare, sì nelle lingue sue figlie, sieno passati spessissimo a
significazione positiva, divenuta [2287] loro così propria, che oltre che
non significano più alcuna diminuzione, volendoli ridurre a diminuire,
bisogna, come spesso si fa, soprattaccargli un’altra desinenza diminutiva.
E ho mostrato ancora che perduti affatto i loro positivi, restano essi in
luogo di questi, e con lo stesso preciso valore dei medesimi ec.
Del resto ho fatto vedere in più luoghi, e notato anche espressamente,
che i verbi continuativi, in un modo o nell’altro indicano o sempre o
quasi sempre accrescimento di quell’azione ch’è significata dai positivi, o
sarebbe significata se essi tuttora esistessero. L’indicano, dico, per loro
natura, e l’indicano o riguardo al tempo e alla durata, o a qualunque
altra di quelle cose che ho notate. Or come dunque si vorrà confondere la
proprietà e la natura, e la forma stessa di quei verbi (come fa il Forc.) con
quelle de’ verbi in itare, forma che porta con [2288] se una forza
diminutiva, che a prima giunta è manifesta e sensibile a qualunque
orecchio men che mediocremente assuefatto al latino? (26. Dic. 1821.)
[2292] Chi deve governare gli uomini, dovrebbe conoscerli più che
alcun altro mai. I principi per lo contrario, cresciuti fra l’adulazione, e
vedendo gli uomini sempre diversi da quello che sono, (per le infinite
simulazioni della corte) e da giovani avendo poca voglia, più tardi poco
tempo di attendere agli studi, non possono conoscer gli uomini nè come
li conoscono i filosofi, nè come li conosce chi ha praticato e sperimentato
il mondo qual egli è. Quindi nella cognizione degli uomini, dote in essi di
prima necessità per il bene de’ sudditi, i principi non solo non sono
superiori, ma necessariamente inferiori ai più meschini e ignoranti che
vivono nel mondo. A questo gran difetto rimedierebbero gli studi: e
infatti quanti principi sono stati studiosi o in gioventù o in seguito,
quanti principi sono stati filosofi, tanti sono stati buoni principi, avendo
appreso dai libri a conoscer quel mondo e [2293] quelle cose che avevano
a governare. Marcaurelio, Augusto, Giuliano ec. Parrebbe questo un
grandissimo pregio e un vero trionfo della filosofia, e dimostrazione
della sua utilità. Ma io dico che la filosofia non ha fatto nè farà mai
questo buon effetto di darci dei buoni principi, se non fino ch’ella fu, o
quando ella è imperfetta: allo stesso modo che solo in questo caso ella
può darci de’ buoni privati, e ce ne diede e ce ne dà. Vengo a dire che la
filosofia moderna (la quale può dirsi che nella sua natura, cioè in quanto
filosofia, o scienza della ragione e del vero, sia perfetta) non farà de’
buoni principi, come non farà mai de’ buoni privati; anzi ne farà dei
pessimi, perché la perfezione della filosofia, non è insomma altro che
l’egoismo; e però la filosofia moderna non farà de’ principi (come [2294]
vediamo de’ privati) se non de’ puri e perfetti egoisti. Tanto peggiori de’
principi ignoranti, quanto che in questi l’egoismo ha una base meno
salda; la natura che lo cagiona, v’aggiunge molti lenitivi e modificativi; le
illusioni della virtù della grandezza d’animo, della compassione, della
gloria non sono irrevocabilmente chiuse per loro, come per un principe
filosofo moderno: e se non altro in quelli la coscienza e l’opinione
ripugna al costume, e al vizio; in questi li rassoda, li protegge (essendo
un filosofo moderno, necessariamente egoista, e quindi malvagio, per
principii), anzi li comanda, e condannerebbe il principe se non fosse
egoista dopo aver conosciute le cose e gli uomini. Così che anche un
principe inclinatissimo alla virtù, divenendo filosofo alla moderna,
diverrebbe quasi per forza e suo malgrado vizioso, [2295] come accade
ne’ privati. Volete una prova di fatto? Volete conoscere che cosa sia un
principe filosofo moderno? Osservate Federico II. e paragonatelo con M.
Aurelio. Di maniera che è da desiderarsi sommamente oggidì che un
principe non sia filosofo, il che tanto sarebbe, quanto freddo e feroce e
inesorabile egoista, ed un egoista che ha in mano, e può disporre a’ suoi
vantaggi una nazione, è quanto dire un tiranno. Ecco il bel frutto e pregio
della filosofia moderna, la quale finisce d’impossibilitare i principi ad
esser virtuosi (siccome fa ne’ privati), e a conoscer gli uomini, senza il
che non possono esser buoni principi. Ma siccome questo effetto della
filosofia moderna, non è in quanto moderna, ma in quanto vera e
perfezionata filosofia (giacché niente di falso le possiamo imputare), e
siccome le cose si denno considerare e giudicare nella [2296] loro
perfezione cioè nella pienezza del loro essere, e delle loro qualità e
proprietà, così giudicate che cosa sia per essenza la filosofia, la sapienza,
la ragione, la cognizione del vero, tanto riguardo al regolare le nazioni,
cioè riguardo a’ principi, quanto assolutamente parlando. (27. Dic. 1821.)
Circa quello che ho detto altrove del vir frugi de’ latini, che significava
uomo di garbo, e propriamente non voleva dir altro che utile, vedi il
Forcellini in Nequam, che significa cattivo, e propriamente non vale che
inutile. Così in Nequitia ec. (31. Dic. 1821.)
Gennaio 1822
Alla p. 2250. marg. Nihil, vehemens ec. sono adoperati più volte da’
poeti, quello come monosillabo, questo come dissillabo ec. V. il Forcellini.
Così Nihilum dove appunto devi vedere il Forcell. in fine della voce. E
quel fare di nihil nil, di vehemens vemens (v. il Forc. Vehemens fine), di
prehendo prendo ec. cose usitate nelle buone scritture latine anche in prosa,
che altro significa se [2317] non che quelle vocali successive, benché
secondo le regole della prosodia si considerassero per altrettante sillabe,
nondimeno nella pronunzia quotidiana equivalevano o sempre o bene
spesso a una sola? Altrimenti queste tali contrazioni sarebbero state
sconvenientissime: e come poi sarebbero elle venute in uso generale,
anche presso chi non ne aveva bisogno (quali erano i prosatori), come nil
detto indifferentemente per nihil? Ed osservate che qui v’è anche di
mezzo l’aspirazione ch’è quasi una consonante, ed oggi la pronunziano
per tale. E nondimeno le dette vocali si tenevano per componenti una
sola sillaba, e così si pronunziavano. (Come appunto ne’ nostri antichi
poeti, anche, se non erro, nel Petrarca, noja, gioia ec. monosillabi, Pistoia
dissillabo ec. e così mostra che si pronunziassero.) Mihi parimente si
contraeva nelle scritture, e massime ne’ poeti, in mi. E non è apocope,
come dice il Forcell. ma contrazione, come nil ec. Che dirò di eburnus per
eburneus e di tante altre simili contrazioni di più vocali; mediante le quali
contrazioni [2318] (autorizzate dall’uso) il considerar quelle vocali come
formanti una sola sillaba diveniva alla fine affatto regolare (in ogni
genere di scrittori) e conforme alle stesse regole della prosodia? Non
dimostra ciò quello ch’io dico? Queis monosillabo, o così scritto o
contratto in quis, non è posto fra i dittonghi latini. V. il Forcell. e la Regia
Parn. Lascio stare i nomi greci, dove quelli che in greco sono dittonghi, a
talento del poeta latino ora diventano dissillabi ec. ora monosillabi come
Theseus, Orphea, Orphei dativo, ec. Nè solo i nomi, ma ogni sorta di
parole. L’i terminativo dei nominat. plur. 2. declinazione ch’è sempre
lungo dovette esser da prima un dittongo, come l’οι greco nei
corrispondenti nominativi plurali della 3za.
Lascio ancora che l’ablativo della prima declinazione singolare, da
principio, e forse sempre a’ buoni tempi, si pronunziò (cred’io, e v. i
gramatici) coll’a doppia, (musaa, o musâ) e pur fu sempre considerata
quell’a come monosillaba. E che si pronunziasse coll’a doppia me ne fa
fede il veder che se ciò non fosse, molte volte ne’ poeti si troverebbe una
brutta cacofonia e consonanza, quando tali ablativi concorrono con altre
parole terminate in a, ch’è frequentissimo. Lascio l’antica scrittura di heic
per hic, sapienteis, sermoneis ec. ec. dove l’ei fu pur [2319] sempre avuto
per monosillabo. Lascierò ancora che tutte o quasi tutte le contrazioni
usitate in latino, o per licenza o per regola, dimostrano il costume di
pronunziar più vocali in una sola sillaba. P. es. Deum, virum per deorum,
virorum, venne dal costume di elidere la r, onde deoum, viroum, dissillabi,
e quindi deum, virum, genitivi contratti, forma usitatissima specialmente
presso gli antichi, più conformi al volgare. V. p.2359. fine.
Ma il vedere che i latini poeti per costumanza regolare, tanto che il
contrario sarebbe stato irregolare (come in quel di Virgilio foemineo
ululatu) elidevano costantemente l’ultime vocali delle parole seguite da
altre parole comincianti per vocale, e ciò anche da un verso all’altro
spesse volte (come in Orazio animumque moresqUE Aureos educit in astra,
nigroqUE Invidet Orco ec. e in Virg. Georg. 2.69. Inseritur vero et foetu nucis
arbutus horridA: Et steriles platani ec. ec.); e non solo le vocali, ma anche le
sillabe am, em, im, um; e sì le vocali che queste sillabe le elidevano anche
seguendo una parola cominciante per vocale aspirata (come Virg. Georg.
3.9. TollerE Humo: v. p.2316-17.); e non solo elidevano una vocale, ma
anche più d’una ec. tutto ciò non dimostra evidentemente che l’indole
della pronunzia latina formava in fatti una sola sillaba delle vocali
concorrenti? Giacché questo solo vuol dire eliderle: non già ch’esse [2320]
nella pronunzia si tacessero (ciò forse avveniva alla sola m in simili casi);
altrimenti non le avrebbero scritte, ma posto in luogo loro l’apostrofo,
come facevano i greci quando le elidevano in verso o in prosa, che
quando non ponevano l’apostrofo in luogo loro, non le elidevano mai; e
come gli stessi latini ponevano l’apostrofo in luogo di quelle vocali o
consonanti che non s’avevano effettivamente da pronunziare, come ain’,
Sisyphu’, confectu’ ec. o non ponendo l’apostrofo, tralasciavano di scrivere
quelle lettere che non s’avevano da pronunziare, come appunto la s in
ain’ per ais ne, ec. ec.
Altra prova e dell’usanza latina di pronunziar più vocali in modo di
una sola sillaba, e dell’essere stato originariamente il v latino una
semplice aspirazione, e questa essere stata leggera (come l’h), e della
dissillabìa della 1. e 3. persona sing. perfetta indicativa delle
congiugazioni 1. e 4. ec. ch’è appunto quello che s’ha a dimostrare, e
della somiglianza tra l’antichissimo latino conservatosi nel volgare, e le
moderne figlie del latino; eccola. Amaverunt, amaverat ec. si diceva
spessissimo [2321] amarunt, amarat ec. Donde venne questa contrazione
usualissima? Le contrazioni non nascono già, e molto meno diventano
comunissime (più spesso troverete amarunt che amaverunt ec.) senza una
ragione di pronunzia. Anticamente si disse amaerunt, amaerat trisillabe,
senza però che l’ae si pronunziasse e, ma sciolto. Poi coll’aspirazione
eufonica, per fuggire l’iato si disse ec. Indi amaϜerunt. Ma il volgo
continuò a considerarli come trissillabi; e perciò saltando facilmente una
lettera, e conservando la parola trisillaba, disse amarunt, amarat ec. E non
fece caso dell’aspirazione (ossia del v) non più di quello che in nil per
nihil ec. V. disopra. Che il volgo solesse pronunziare così contratto
piuttosto che sciolto lo dimostra il nostro amarono, amaron, aimèrent. (E
quanto ad amarat vedi la p.2221. fine-segg.) Quest’uso essendo comune a
tutte tre le lingue figlie, dimostra un’origine comune cioè il volgare
latino. E viceversa le dette considerazioni provano che detto uso
moderno, è di antichissima origine, e proprio (forse esclusivamente
dell’altro) del volgare latino, com’era pur [2322] proprio della scrittura, e
lo fu, sino ab antico, per sempre.
Gli stessi motivi mi fanno credere che p. es. trovando noi nelle tre
lingue figlie amammo, amamos, aimâmes, si debba concludere che il volgo
latino diceva parimente amamus contratto per amavimus, come abbiamo
veduto ch’egli diceva amai (che gli spagn. e i franc. dicono aimai, emè
mutato l’ai in e); e come pur diceva amasti, amastis per amavisti ec. (del che
discorrete come sopra), onde amasti amaste, amaste amastes, aimas aimâtes
(anticamente aimastes.). (1. Gen. 1822.)
Alla p. 1121. fine. Il verbo periclitari che cosa crediamo noi che sia con
quella sua desinenza in tari? Null’altro che un continuativo o
frequentativo di un periculari, part. periculatus contratto in periclatus,
(come periculum spessissimo in periclum, e qui con più ragione per non
dire [2325] duramente periculitari) donde periclitari nè più nè meno come
da minatus di minari, minitari. Che è? questo periculor è un sogno? 1.
Perché dunque da periculum o periclum s’ha da far di prima mano
periclitor, e non periclor o periculor, secondo tutte le regole? 2. Eccovi
periculor presso Festo in Catone, che disse Periculatus sum. (Forcell. in
Periculatus). Ed eccovi appunto questo antichissimo verbo dimenticato
nella letteratura latina, vivo e verde ne’ volgari dal volgar latino derivati.
Pericolare diciamo noi (e non periclitare, come potevamo ben dire, ma non
può esser oggi parola se non poetica, e forse forse): peligrar gli spagnuoli,
ed è lo stesso, perché in ispagnuolo periculum s’è fatto peligro. Sempre, ὃ
οὐ διαλείπο λέγων, i nostri volgari si trovano più simili all’antichissimo
che all’aureo latino. V. il Dufresne in Periculare. (4. Gen. 1822.). Abbiamo
però anche periclitare. V. la Crusca.
Volgus, volpes dicevano gli antichi latini ec. ec. e cento mila altre voci
similmente, adoperando l’o in cambio dell’u. (V. il Forc. [2326] in O, U ec.
ec.) Uso proprio del volgo, proprio dell’antichità, e perciò amato anche
recentemente da quelli che affettavano antichità di lingua, come
Frontone ec. Or quest’uso appunto eccovelo nell’italiano, solito a
scambiare in o l’u latino dei buoni tempi, e restituir queste voci nella
primitiva loro forma ch’ebbero fra gli antichi latini, e nelle vecchie
scritture. È noto che tal costume è più proprio dell’italiano che dello
spagnuolo, e più assai che del francese. ec. ec. (4. Gen. 1822.)
Alla p. 155. poco sopra il fine. È anche maniera continuativa fra noi
star facendo dicendo, ec. V. la Crusca. Anzi il verbo stare, e per sua natura
in tutte le lingue (giacché egli è propriamente ed essenzialmente un
continuativo di essere), e per proprietà della nostra, è il più adattato, o
piuttosto è precisamente quello ch’esprime la continuità o durata di
qualsivoglia azione (sebbene non molto elegantemente). P.e. s’io vorrò
esprimere la forza di un continuativo latino, non avrò che ad usare in
italiano il verbo stare col gerundio esprimente quell’azione, e per lectare
dirò star leggendo, massime se l’azione non è affatto di moto, o materiale o
ideale, e metaforico ec. Ma volgarmente diciamo tutto giorno anche star
passeggiando, o camminando, o viaggiando e simili, e propriamente e
perpetuamente adoperiamo in questa forma il verbo stare in luogo di
universale continuativo. (4. Gen. 1822.). V. p. 2374.
[2329] Alla p.1136. fine. Fra le molte prove che si potrebbero addurre
di ciò, cavate dalla veramente profonda e non superficiale investigazione
della più remota antichità, v’è anche questa. Noi diciamo che lo spirito
denso dei greci fu bene spesso trasformato dai latini in una s. Ma il fatto
sta che gli antichissimi monumenti greci hanno essi medesimi il sigma,
dove poi si costumò di porre lo spirito denso, e forse anche in luogo del
lene. V. Iscriz. antiche illustrate dall’Ab. Gaetano Marini, p.184. e
soprattutto il Lanzi, della lingua Etrusca. Questo che cosa dimostra?
dimostra secondo me, che l’antichissima forma di quelle tali parole
comuni ab antichissimo al greco e al latino, era infatti colla s in principio,
e non collo spirito; che questo per indole di loro pronunzia fu coll’andar
del tempo sostituito dai greci parlatori, e poi dagli scrittori, al sigma, e
non viceversa la s allo spirito dai latini; che per conseguenza la forma
latina è più antica della greca, la pronunzia cioè e la scrittura latina di tali
parole; e che quindi in esse i latini hanno conservato l’antichità e il
primitivo più dei [2330] greci. V. p. 2143. segg. 2307-8. ed altri miei passi
su questo punto di antichità. E quante altre simili osservazioni si
potrebbono fare sulle antichissime parole, proprietà, ortografie ec. delle
due lingue: osservazioni le quali mostrerebbero che quello che
comunemente crediamo venuto dalla Grecia nel Lazio, o è tutto al
rovescio, o vien da origine comune; e che quelle differenze che in tali cose
s’incontrano fra il greco e il latino e che da noi sono attribuite a
corruzione sofferta da quelle parole ec. passando nel Lazio, si debbono
invece attribuire a corruzione sofferta in Grecia; e nel Lazio conservano
la loro forma antichissima, e non differiscono dalla greca, se non perché
questa s’è allontanata essa stessa dal primitivo assai più della latina. (5.
Gen. 1822.). V. p.2351. fine. e 2384.
Alla p. 1153. Tali versi de’ comici, giambici, ec. erano quasi ritmici,
cioè regolati e misurati piuttosto sul numero delle sillabe, e la
disposizione degli accenti, (poco anche osservata) che sul valore e
quantità di ciascuna sillaba. Dunque vuol dire che secondo il ritmo, tali
vocali doppie si dovevano pronunziare piuttosto come monosillabe che
dissillabe [2331] ec. Dunque pel volgo, anzi nella pronunzia quotidiana
esse erano monosillabe, e non altrimenti, fino agli ultimi tempi della
lingua latina (giacché questo med. costume si può molto più notare ne’
versi espressamente ritmici de’ bassi tempi) ec. ec. (5. Gen. 1822.)
Da ciò che altrove ho detto sul Buonarroti che scrisse apposta per dar
vocaboli alla Crusca, sul Salvini che non fu niente parco di nuovissimi
vocaboli, o tirati da lingue forestiere, o antiche, o da radici italiane, in
tutte le sue scritture, e che scrisse contemporaneamente alla
compilazione del vocabolario, anzi finché visse non permise d’esser
citato ec. apparisce che i nostri pedanti vogliono espressamente che in
quell’atto medesimo che si pubblica il vocabolario [2336] di una lingua,
restino per virtù di essa pubblicazione, rivocate in perpetuo tutte le
facoltà che tutti gli scrittori fino a quel punto avevano avute intorno alla
favella, e chiuse in quel momento per sempre le fonti della lingua, fino
allora sempre e incontrastatamente aperte. (8. Gen. 1822.)
Alla p. 2019. marg. Così da metus us, metuere. Actuar (da actus us) per
ridurre ad atto o mettere in atto dicono gli spagnuoli. V. attuare nella
Crusca, [2339] actuare nel Ducange.
La cagione poi per cui dalle voci della quarta congiugazione si
facevano i verbi in uare (o uere ec.) e non in are semplicemente come da
quelli della seconda, io credo che fosse questa, che le dette voci
anticamente e propriamente terminassero in uus, giacché anche oggi,
almeno nel genitivo singolare, o ne’ nominativi e accusativi plurali, si
suole scrivere metûs, fluctûs, actûs ec. col circonflesso. V. i gramatici, e gli
eruditi. Infatti contro il costume della lettera u, nella prosodia latina, essa
lettera è lunga nella desinenza del genitivo e ablativo singolare,
nominativo e accusativo plurale della quarta declinazione. Dove appunto
io credo che l’u anticamente fosse doppio, e quindi poi lungo, come l’a
dell’ablativo singolare 1. declinazione per la stessa causa. V. la p. 2360.
2365. (Ed osserva che questa è un’altra prova dell’essersi dagli antichi
pronunziate le vocali doppie come sillabe semplici, giacché metus ec.
presso tutti i poeti è dissillabo, e metum seguito da vocale, resta
monosillabo ec.) Laonde togliendo ad esse voci la terminazione in us
come nè più nè meno a quelle della seconda, restava un altro u, ed
aggiungendo la desinenza in are, conveniva dire fluctu-are, e non fluct-are
ec. Come appunto da continuus, ch’essendo della seconda, pur finisce in
uus, si fa (togliendo la desinenza in us) continu-are, da perpetuus pertu-are,
da cernuus cernu-are, ec. da vacu-us evacu-are, da Febru-us o da Febru-a,
orum, februare ec. da obliquus obliquare ec. da viduus viduare ec. (9. Gen.
1822.), da Fatua fatuari, da fatuus infatuare.
[2340] Alla p. 2357. Faxo usato assai dagli scrittori, massime antichi,
giacché è parola al tutto antica, per faciam fut. indicat. non è
gramaticalmente altro che un’antica forma del fut. congiunt. fecero, come
levasso di levavero, presso Cic. nel principio de Senectute. V. il Forcell. in
Faxim. (9. Gen. 1822.)
Alla p. 1181. marg. fine. Abbiamo pure le [2341] carra dal neutro
carrum che i buoni latini dicono piuttosto carrus, ma che per
testimonianza di Nonio, si soleva dire carrum. Ma egli, dice il Forc. de suo
tempore loquitur, ed io credo ch’egli voglia intendere che così volgarmente
si diceva, benché i buoni scrittori usassero il mascolino. V. il Forcell. e il
Glossar. (9. Gen. 1822.)
Alla p. 1120. fine. Vedi il Forcellini in certo as, il quale egli chiama
frequentativo, ed io credo piuttosto continuativo da cerno, quasi cernito,
derivando da certus originariamente participio di cerno, e lo stesso che
cretus. V., dico, il Forcell. tanto in certo, quanto in certus, in cerno ec. (9.
Gen. 1822.). V. p. 2345.
Alla p. 2138. marg. fine. Così appunto di certus abbiamo detto nel
pensiero qui sopra, il quale vedi, e di certare che ne deriva. Il qual certus
non è originariamente addiettivo ma participio, e certare viene così da un
participio, e non come pare, da un addiettivo. (9. Gen. 1822.). Di tutus
onde tutari o tutare vero continuativo di tueor, o tuor, o tueo ec. v. il
Forcell. in tutti questi luoghi. Sebbene tutus sia divenuto semplice
addiettivo esso non è che un participio.
[2342] Il mondo deride chi fedelmente e sinceramente osserva i suoi
doveri, o prova effettivamente e segue i sentimenti dettati dalla natura e
dalla morale; e si scandolezza e biasima chi trascura pubblicamente i
medesimi doveri, chi mostra di disprezzarli, chi pienamente non gli
adempie in faccia al pubblico, quando anche egli abbia i suoi giustissimi
motivi per non farlo, e non seguire il costume in questa parte. Una donna
è derisa s’ella piange sinceramente il suo marito recentemente morto, se a
chi la tratta, dà segno di sentir vivo e vero dolore della sua perdita; ma
s’ella, anche per circostanze imperiose, trascura il menomo dei doveri
che il costume impone in questi casi, s’ella un giorno più presto del
tempo prescritto dall’uso si fa vedere in pubblico, s’ella, anche a solo fine
di portar qualche alleggerimento al suo vero dolore, si permette prima
del detto tempo, qualche menomo spasso o distrazione, il mondo
severissimamente la giudica, e inesorabilmente la condanna, senz’aver
riguardo a ragioni nè circostanze, per reali che possano essere, e non
lascia di mordere [2343] e di riprendere la più piccola violazione dei
doveri apparenti, mentre è prontissimo a schernire chi gli osservi di
buona fede ec. (10. Gen. 1822.)
Alla p. 1141. fine. Rechiamo un altro esempio del quanto giovi la mia
teoria a conoscere e sentire il vero proprio ed intimo significato di
moltissimi passi degli ottimi scrittori latini, ignorato finora, o male, o
imperfettamente e indistintamente sentito, e interpretato.
Alla p. 2222. marg. Quest’uso di dire p.e. erat invece di esset o fuisset, è
un’enallage molto frequente ne’ latini (anche ottimi) scrittori; frequente
ed elegante in italiano ancora, (e principalmente nei nostri più antichi ed
eleganti scrittori) precedendola, o accompagnandola, o seguendola ec. la
particella condizionale, (siccome pure in latino) a questo modo: [2349] se
non fosse stato aiutato, egli moriva, ovvero egli moriva, se non era aiutato ec.
cioè moriebatur in luogo di sarebbe morto, mortuus esset, periisset ec.;
analogo finalmente assai, benché non precisamente conforme, a quello
degli spagnuoli di cui ora si discorre ec. (13 Gen. 1822.). V. p.2350.
[2350] Alto, altezza e simili sono parole e idee poetiche ec. per le
ragioni accennate altrove, (p. 2257.) e così le immagini che spettano a
questa qualità. (14. Gen. 1822.)
Alla p. 2349. Virg. En. 2. 599.600. et, ni mea cura resistat, Jam flammae
TULERINT, inimicus et HAUSERIT ensis. In vece di tulissent o ferrent. Locuzione
comunissima nell’elegante latinità, ed analoga anch’essa al proposito
nostro. Così En. 3.187. crederet, e moveret per credidisset, e movisset, avrebbe
creduto, o mosso. Locuzione pure frequentissima. Traherent per traxissent
En. 6.537. Admoneat e irruat per admoneret irrueret, ib. 293.-4. e diverberet
parimente; modo pure elegante e ordinarissimo. Generalmente si può
osservare una gran varietà, ed un grand’uso di figure di dizione presso
gli scrittori latini circa i tempi del congiuntivo, ora scambiati fra loro,
come qui che il perfetto sta in vece del piucché perfetto, ora scambiati
con quelli dell’indicativo ec. E la stessa varietà si trova intorno ai
medesimi tempi nelle 3. lingue figlie, varietà o relativa alla lingua latina,
o ad esse stesse fra loro, o a ciascuna di esse in se stessa. Varietà derivata
certo dal volgare latino, come si vede per gli addotti esempi.(14. Gen.
1822.)
Alla p. 2249. principio. Qua, que o quae, [2351] qui, quo, quu, sono
sempre monosillabi in latino, (seppur talvolta, ma per licenza, non per
regola, non dividono il quü), eppure essi sono bivocali, e non contati fra’
dittonghi. Gua gue ec. ora sono dissillabi come in ambiguus a um, irriguus,
exiguus ec. ora monosillabi, come in anguis, sanguis ec. Che ragion v’è
perché ora dissillabi, ora no? Per natura dunque essi non sono nè l’uno
nè l’altro, ma la sola pronunzia decide. Dicono che l’u spesso si considera
come consonante. V. il Forcell. in U. Che si consideri va bene, ma non lo è
in natura, e gua ec. e altri simili bivocali, hanno effettivamente due suoni
vocali, e tuttavia si pronunziano monosillabi, nè sono contati fra’
dittonghi. Qua ec. gua ec. è sempre monosillabo in italiano, e neppur la
licenza poetica li può dividere in 2. sillabe. Così in ispagnuolo. (14. Gen.
1822.). V. p. 2359. fine.
Alla p. 2282. marg. Non trovi ne’ moderni volgari mas, ma sibbene
masculus (maschio, mâle, v. lo spagnuolo). Oculus è mero diminutivo di un
antico occus perduto nelle scritture latine, restandovi in vece il solo
diminutivo, (perduto anche nel volgare latino seppur da occus non deriva
l’oco dei russi), onde occhio, oeil (come da auricula oreille, secondo l’uso
della pronunzia francese), e ojo, che non viene già da occus, ma da oculus,
come oreJA da auriCULA ec. E v. in proposito di ciò e di tali diminutivi la
p. 980. seg. (24. Gen. 1822.)
Alla p. 2351. fine. Così dico di cui, huic, ec. monosillabi. V. il Forcell. in
Qui ec. e la Regia Parnasi. (25. Gen. 1822.)
Che vuol dire che l’uomo ama tanto l’imitazione e l’espressione ec.
delle passioni? e più delle più vive? e più l’imitazione la più viva ed
efficace? Laonde o pittura, o scultura, o poesia, ec. per bella, efficace,
elegante, e pienissimamente imitativa ch’ella sia, se non esprime
passione, se non ha per soggetto veruna passione, (o solamente qualcuna
troppo poco viva) è sempre posposta a quelle che l’esprimono, ancorché
con minor perfezione nel loro soggetto. E le arti che non possono
esprimere passione, come l’architettura, sono tenute le infime fra le belle,
e le meno dilettevoli. E la drammatica e la lirica son tenute fra le prime
per la ragione [2362] contraria. Che vuol dir ciò? non è dunque la sola
verità dell’imitazione, nè la sola bellezza e dei soggetti, e di essa, che
l’uomo desidera, ma la forza, l’energia, che lo metta in attività, e lo faccia
sentire gagliardamente. L’uomo odia l’inattività, e di questa vuol esser
liberato dalle arti belle. Però le pitture di paesi, gl’idilli ec. ec. saranno
sempre d’assai poco effetto; e così anche le pitture di pastorelle, di
scherzi ec. di esseri insomma senza passione: e lo stesso dico della
scrittura, della scultura, e proporzionatamente della musica. (26. Gen.
1822.)
Aliter usato in latino alla maniera italiana di altrimenti, cioè come noi
diciamo p.e. fa questo; [2363] altrimenti t’ammazzo, cioè per se no, o se non
che ec. (v. la Crusca in Se non §. 4. dove spiega sin secus, alioquin, e in
italiano, Altrimenti, benché a questa voce non faccia parola di tal uso)
usato dico in tal senso, è raro assai ne’ buoni latini, e potrebbe credersi
sproposito, e frase moderna. Eccone esempio dall’En. 6.145. segg. Et rite
repertum (il ramo d’oro, sacro a Proserpina come dice v.138.) Carpe manu.
Namque ipse volens facilisque sequetur, Si te fata vocant: ALITER non viribus
ullis Vincere, nec duro poteris convellere ferro. V. il Forcell. aliter §. ult.
Dubito però che quei 2. esempi, specialmente il primo, facciano
precisamente al caso. (27. Gen. 1822.)
Alla p. 2340. marg. Vedi pure il Forcell. in Fido, Fisus, Confido, Confisus
(participii passati non passivi ma neutri, e non di deponenti ma di
neutri), e Virg. En. 5. v. penult. (870-1.) O nimium coelo et pelago CONFISE
sereno, Nudus in ignota, Palinure, iacebis arena. (27. Gen. 1822.)
Quei pochissimi poeti italiani che in questo o nel passato secolo
hanno avuto qualche barlume di genio e natura poetica, qualche poco di
forza nell’animo [2364] o nel sentimento, qualche poco di passione, sono
stati tutti malinconici nelle loro poesie. (Alfieri, Foscolo ec.). Il Parini
tende anch’esso nella malinconia, specialmente nelle odi, ma anche nel
Giorno, per ischerzoso che paia. Il Parini però non aveva bastante forza di
passione e sentimento, per esser vero poeta. E generalmente non è che la
pura debolezza del sentimento, la scarsezza della forza poetica
dell’animo, che può permettere ai nostri poeti italiani d’oggidì (ed anche
degli altri secoli, e anche d’ogni altra nazione), a quei medesimi che più
si distinguono, e che per certi meriti di stile, o di stiracchiata
immaginazione, son tenuti poeti, l’essere allegri in poesia, ed anche
inclinarli e sforzarli a preferir l’allegro al malinconico. Ciò che dico della
poesia dico proporzionatamente delle altre parti della bella letteratura.
Dovunque non regna il malinconico nella letteratura moderna, la sola
debolezza n’è causa. (27. Gen. 1822.)
Tra me, tra se, fra te ec. dicono gl’italiani (credo anche gli spagnuoli)
per quello che i latini mecum, secum ec. cioè dentro di me, nel mio pensiero
ec. V. la Crusca. Eccovi questa stessa frase in latino, e presso scrittore
elegantissimo qual è Virg. En. [2367] 1.455. dove inter se, io credo
certamente che in verità non vaglia altro che questo. Vedi gl’interpreti. Il
Forcell. in inter, non ha nè questo nè altro esempio nè significato simile.
Vedilo in Se, Me ec. se avesse nulla, e così l’Append. e il Glossar. (29.
Gen. 1822.)
Alla p. 2267. marg. Nate, patris summi qui tela Typhoea temnis (Virg. En.
1.665.): oe dissillabo. V. gl’interpreti il Forcell. la Regia Parnasi. (29. Gen.
1822.)
Noi diciamo fare una cosa di buona gana, cioè alacriter. Presso gli
spagnuoli gana vale alacritas. Gli scrittori latini non hanno parola da cui
questa si possa derivare. E pure dove credete che rimonti la sua origine?
Alle primissime sorgenti delle due lingue sorelle latina e greca. Γάνος in
greco vuol dire laetitia, gaudium, voluptas. V. il Lessico co’ suoi derivati.
Come dunque questa voce nostra e spagnuola, volgarissima in ambo le
lingue, anzi plebea, nè degna della scrittura sostenuta, può esser mai
derivata dal greco? quando ne’ tempi barbari in cui nacquero tali lingue,
[2370] appena si sapeva in Italia o in Ispagna che vi fosse al mondo una
lingua greca? come può esser venuta questa voce se non dal volgare
latino, e per mezzo di esso?
Non basta. Questa radice, non solo è delle antichissime nella lingua
greca, ma di quelle che s’avevano per antiquate negli stessi antichi tempi
della greca letteratura. V. il Simposio di Senofonte, c. 8. §. 30, dove ricerca
l’etimologia del nome di Ganimede e per provare che Γανυ, viene da una
radice che significa godimento, diletto, ec. ricorre ad Omero. Dunque al
tempo di Senofonte, ell’era già disusata, e certo non era volgare,
quantunque ella si trovi anche in alcuni pochi autori o contemporanei o
posteriori a lui: il che non dee far maraviglia perché l’imitazione di
Omero durò sempre nella poesia greca; le sue parole e la sua lingua
furono sempre tenute proprie d’essa poesia; oltre che il poeta usa senza
biasimo molte parole antiquate per più ragioni che ve l’autorizzano, ed
anche glielo prescrivono. Ora questa voce (e suoi derivati) non si trova
quasi che ne’ poeti, e si può dir poetica. Così durano fra [2371] nostri
scrittori, e massime poeti, molte parole ec. di Dante, disusate nel resto ec.
E dal luogo di Senofonte si vede che quella voce era sin d’allora in
Grecia, quel che sarebbe fra noi una voce detta dantesca.
Quest’antichissima radice, non riconosciuta dagli scrittori latini, come
mai vive oggi in due volgari derivati da una lingua sorella della greca?
Dunque ella fu propria della lingua latina fino da’ suoi principii, cioè da
quando ebbe comune origine colla greca (non dopo, 1. perché già
divenuta fuor d’uso tra’ greci, così che il volgo romano non potè da essi
prenderla, il che sarebbe già inverosimile per se; e come avrebbe potuto
prender dai greci una voce poetica? 2. perché non si trova negli scrittori
latini, i quali, e non il volgo, furono coloro che poi massimamente
grecizzarono il latino). Dunque d’allora in poi il volgare latino la
conservò fino all’ultimissimo suo tempo, e fino a lasciarla nelle bocche
del moderno popolo italiano e spagnuolo dove ancora rimane. Dunque
ecco anche un’altra prova che la lingua latina fosse più tenace della sua
remotissima antichità che la greca, dove questa voce ec. era uscita d’uso
al tempo [2372] già di Senofonte.
E perché non resti dubbio che il nostro gana sia tutt’una radice col
greco γάνος, se non bastasse l’identità delle lettere radicali, e la quasi
identità del significato, osserveremo che ἐπιγάννυµαι significa insulto.
La preposizione ἐπί in composizione spessissimo risponde alla latina in
(come appunto insilire, o insultare nel senso di saltar sopra, risponde ad
ἐϕάλλοµαι). Ora il nostro ingannare, (spagn. engañar) se derivi da
ingenium (v. il Dufresne in ingenium 1.) o da gannare non voglio ora
asserirlo. Certo è che gannare (onde gannum ec. che v. nel Dufresne), voce
conosciuta solamente nella barbara latinità, significò irridere ec. Ed
osservare che appunto illudere illusione ec. che significa primitivamente lo
stesso, passò poi, specialmente presso i francesi, a significare
assolutamente inganno, errore ec. V. il Forcell. e il Gloss. Gannare vien
dunque da gana, e ne viene come ἐπιγάννυσϑαι da γάνος, e con lo
stesso significato. (Non so se ganar gagner ec. possano aver niente a fare
col proposito. V. il Gloss. ec.).
Ecco dunque queste due parole, l’una latino-barbara, cioè gannare,
l’altra vivente e popolare italiana [2373] e spagnuola, d’ambe le quali,
non solo non si sarebbe creduto che fossero antiche, e de’ più buoni
tempi, ma si sarebbe penato a congetturare l’etimologia; dimostrate non
solo non moderne, non solo non derivate da’ tempi barbari, ma identiche
con una radice antichissima che si trova nell’antichissimo greco, che nel
greco de’ buoni secoli era già fatta antiquata, che non potè passare nel
latino, donde solo potè venir sino a noi e al nostro volgo, se non da
quando nacque il latino da una stessa origine col greco, e che perduta nel
latino scritto, si è conservata perennemente nel volgare, in modo che oggi
la nostra plebe usa familiarmente una radice ch’era già poetica, e però già
divisa dal volgo, sino dal tempo del più antico scrittore profano che si
conosca, cioè di Omero. Tanta è la tenacità del volgo, e tanto sono antiche
tante cose e parole che si credono moderne, perciò appunto che l’eccesso
della loro antichità nasconde affatto la loro origine, e l’uso che
anticamente se ne fece. E quindi potete argomentare [2374] quante voci
frasi ec. latino-barbare, o italiane, francesi o spagnuole, della cui origine
non si sa nulla, e si credono moderne o di bassa età, perché solo ne’
moderni o ne’ bassi tempi e monumenti si trovano, si debbano stimare
appartenenti all’antichissima fonte de’ nostri volgari e del latino-barbaro,
cioè all’antico latino, e quindi al latino volgare ch’è il solo mezzo per cui i
nostri volgari comunicano colla detta antichissima fonte: e ciò
quantunque in ordine a esse parole e frasi non si possa dimostrare,
appunto a causa della troppo loro antichità, che conservandole ne’
volgari o greci o latini, le bandì dalle scritture. Come vediamo fra noi
molte antichissime parole italiane vivere nella plebe di questa o quella
parte d’Italia, e non esser più ricevute nelle scritture. (31. Gen. 1822.)
[2381] Giovanette di 15. o poco più anni che non hanno ancora
incominciato a vivere, nè sanno che sia vita, si chiudono in un monastero,
professano un metodo, una regola di esistenza, il cui unico scopo diretto
e immediato si è d’impedire la vita. E questo è ciò che si procaccia con
tutti i mezzi. Clausura strettissima, fenestre disposte in modo che non se
ne possa vedere persona, a costo della perdita dell’aria e della luce, che
sono le sostanze più vitali all’uomo, e che servono anche, e sono
necessarie alla comodità giornaliera delle sue azioni, e di cui gode
liberamente tutta la natura, tutti gli animali, le piante, e i sassi.
Macerazioni, perdite di sonno, digiuni, silenzio: tutte cose che unite
insieme nocciono alla salute, cioè al ben essere, cioè alla perfezione
dell’esistenza, cioè sono contrarie alla vita. Oltreché escludendo
assolutamente l’attività, escludono la vita, poiché il moto e l’attività è ciò
che distingue il vivo dal morto: e la vita consiste nell’azione; laddove lo
scopo diretto della vita monastica anacoretica ec. è l’inazione, e il
guardarsi dal fare, l’impedirsi di fare. Così che la monaca o il monaco
[2382] quando fanno professione, dicono espressamente questo: io non
ho ancora vissuto, l’infelicità non mi ha stancato nè scoraggito della vita;
la natura mi chiama a vivere, come fa a tutti gli esseri creati o possibili:
nè solo la natura mia, ma la natura generale delle cose, l’assoluta idea e
forma dell’esistenza. Io però conoscendo che il vivere pone in grandi
pericoli di peccare, ed è per conseguenza pericolosissimo per se stesso, e
quindi per se stesso cattivo (la conseguenza è in regola assolutamente), son
risoluto di non vivere, di fare che ciò che la natura ha fatto, non sia fatto,
cioè che l’esistenza ch’ella mi ha dato, sia fatta inutile, e resa (per quanto
è possibile) nonesistenza. S’io non vivessi, o non fossi nato, sarebbe meglio
in quanto a questa vita presente, perché non sarei in pericolo di peccare,
e quindi libero da questo male assoluto: s’io mi potessi ammazzare sarebbe
parimente meglio, e condurrebbe allo stesso fine; ma poiché non ho
potuto a meno di nascere, e la mia legge mi comanda di fuggir la vita, e
nel tempo stesso mi vieta di terminarla, ponendo la morte volontaria fra
gli altri peccati per cui la vita [2383] è pericolosa, resta che (fra tante
contraddizioni) io scelga il partito ch’è in poter mio, e l’unico degno del
savio, cioè schivare quanto io posso la vita, contraddire e render vana
quanto posso la nascita mia, insomma esistendo annullare quanto è
possibile l’esistenza, privandola di tutto ciò che la distingue dal suo
contrario e la caratterizza, e soprattutto dell’azione che per una parte è il
primo scopo e carattere ed uffizio ed uso dell’esistenza, per l’altra è ciò
che v’ha in lei di più pericoloso in ordine al peccare. E se con ciò nuocerò
al mio ben essere, e mi abbrevierò l’esistenza, non importa; perché lo
scopo di essa non dev’esser altro che fuggir se medesima, come
pericolosa; e l’essere non è mai tanto bene, quanto allorché in qualunque
maggior modo possibile è lontano dal pericolo di peccare, cioè lontano
dall’essere e dall’operare ch’è l’impiego dell’esistenza.
Questo è il discorso di tali persone. E questo raziocinio, e la
risoluzione che ne segue, e la vita che le tien dietro, sono assolutamente e
dirittamente nello spirito del Cristianesimo, e inerenti alla [2384] sua
perfezione. Lo scopo di essa e dell’essenza del Cristianesimo, si è il fare
che l’esistenza non s’impieghi, non serva ad altro che a premunirsi
contro l’esistenza: e secondo essa il migliore, anzi l’unico vero e perfetto
impiego dell’esistenza si è l’annullarla quanto è possibile all’ente; e non
solo l’esistenza non dev’essere il primo scopo dell’esistenza nell’uomo
(come lo è in tutte le altre cose o create, o anche possibili), ma anzi il
detto scopo dev’essere la nonesistenza. Assolutamente nell’idea
caratteristica del Cristianesimo, l’esistenza ripugna e contraddice per sua
natura a se stessa. (2. Feb. dì della Purificazione di Maria SS. 1822.)
Alla p. 2330. Altra prova. I nomi delle cose che sogliono esser
denominate prima d’ogni altra in qualsivoglia lingua, nel latino, se bene
osserverete, sono o monosillabi, o tali che facilmente se ne scuopre una
radice di non più che una sillaba. Segno evidente di conservata antichità,
e questa remotissima e primitiva. Non così, o non sì spesso in greco,
dove sovente i detti nomi non sono monosillabi, nè se ne può trarre una
[2385] radice monosillaba. Dies ἡµέρα, vir ἀνήρ ec. sol ἥλιος, lun-
aσελήνε. Forse non poche volte, se quella parola che nella grecità
conosciuta è rimasta in uso, non è monosillaba, lo sarà però un’altra
equivalente, che si trova solo in Omero, o ne più antichi o ne’ poeti, o che
si conosce per congettura; che in somma a’ buoni e perfetti tempi della
lingua greca era già disusata e antiquata almeno nel linguaggio comune.
Ma questa medesima è un’altra prova anche più materiale che la lingua
latina fosse più tenace della sua antichità. (2. Feb. 1822.)
Alla p.2281. marg. fine. Questo mischiare non viene certo da mescolare
ma da misculari latino immediatamente 1. perché non diciamo miscolare
(nè i franc. mîler o misler, nè gli spagn. mizclar) laddove i latini doverono
certo dir così, e vedendosi che la i cambiata nel mescolare in e s’è
conservata nel mischiare, ciò non può procedere da altra ragione che dalla
sua origine latina. 2. perché è costume bensì dell’idioma italiano il
cangiare in chi il latino cul, (v. p. 2375.) non così però di cangiare
l’italiano col. Così che mischiare [2386] denota un misculare o i latino, dal
quale necessariamente dev’essere stato preceduto. Questa 2. ragione vale
anche per meschiare altra corruzione di mischiare, cioè cambiato poi l’i in e,
come in mescolare mezclar ec. (3. Feb. 1822.)
Alla p. 2324. sul principio. V. pure il Forcell. in montuosus il quale
inclino a credere che possa dinotare un vecchio ed antiquato, o popolare
e corrotto dal volgo montus us. V. il Gloss. se ha nulla. (3. Feb. 1822.)
Ni sabian que pudiesse haver sacrificio sin que muriesse alguno por la salud
de los demàs. Parole di Magiscatzin, vecchio Senatore Tlascalese a
Ferdinando Cortès, presso D. Antonio de Solìs, Hist. de la Conquista de
Mexico, lib.3. capit.3. [2388] en Madrid 1748. p.184. col.1. Ecco l’origine e
la primitiva ragione de’ sacrifizi, e idea della divinità. Si stimava
invidiosa e nemica degli uomini, perché gli uomini lo erano per natura
fra loro, e per causa delle tempeste ec. le quali appunto si cercava di
stornare co’ sacrifizi. Nè si credeva già primitivamente che gli Dei
godessero materialmente godessero della carne o sangue o altro che loro
si sacrificava, ma della morte e del male della vittima, e che questo
placasse l’odio loro verso i mortali, e la loro invidia. Egoismo del timore,
che ho spiegato in altro luogo. Quindi si facevano imprecazioni ed
esecrazioni sulla vittima, che non si considerava già come cosa buona,
ma come il soggetto su cui doveva scaricarsi tutto l’odio degli Dei, e
come sacra solo per questo verso. Quindi quando il timore (o il bisogno,
o il desiderio ec.) era maggiore, si sacrificavano uomini, stimando così di
soddisfar maggiormente l’odio divino contro di noi. E ciò avveniva o tra’
popoli più vili e timidi (e quindi più fieramente egoisti), o più travagliati
dalle convulsioni degli elementi (com’erano i Tlascalesi ec.), o ne’ tempi
più antichi, [2389] e quindi più ignoranti, e quindi più paurosi. E
nell’estrema paura, si sacrificavano non solo prigionieri, o nemici, o
delinquenti ec. come in America, ma compatrioti, consanguinei, figli, per
maggiormente saziare l’odio celeste, come Ifigenia ec. Eccesso di egoismo
prodotto dall’eccesso del timore, o della necessità, o del desiderio di
qualche grazia ec. (6. Feb. 1822.)
Nè fra gli antichi, nè fra’ popoli poco civilizzati fu mai che il popolo
conquistato s’avesse per compatriota del conquistatore, come oggidì. (14.
Feb. 1822.)
[2391] Ma nulla fa chi troppe cose pensa. Tasso Aminta, Atto 2. scena
3. v. ult. (20. Feb. primo di Quaresima. 1822.)
I muti hanno essi la facoltà della favella? No certo. Eppur quanto alla
favella n’hanno tutta la disposizione naturale quanta n’ha il miglior
parlatore del mondo. Ma questa non è altro che possibilità, la quale il
muto non riduce mai all’atto e non adopera in verun modo, perché non
avendo udito, non impara dagli altri (cioè non si avvezza) a farlo, e
coll’assuefazione, di cui non ha il mezzo, non acquista la facoltà. Ecco che
cosa sono tutte le pretese facoltà naturali ed ingenite nell’uomo. E qual si
crede più naturale della favella? principal caratteristica dell’uomo, e suo
maggior distintivo dai bruti. (20. Feb. 1822.)
Cogliere (che anche si dice corre) e coger non sono altro che colligere;
scegliere (anche scerre) ed escoger dimostrano un excolligere latino detto
volgarmente a preferenza e in vece di eligere 1. perché la preposizione ex
della quale sono composti questi due verbi moderni non significa niente
in queste due lingue (oltre ch’ella è qui sfigurata in modo che anche
[2392] significando per se, non significherebbe nulla in questi casi, non
essendo più lei) bensì in latino. 2. perché questi due verbi sono tanto
simili che dimostrano l’unità dell’origine, e tanto diversi fra loro che
danno ad intendere di non esser derivato nessuno di essi due dall’altro.
(22. Feb. 1822.)
Πάντα γὰρ ἀγαϑὰ µὲν χαὶ χαλά ἐστι πρὸς ἃ ἂν εὖ ἔχῃ· χαχὰ δὲ
χαὶ αἰσχρὰ πρὸς ἂν χαχῶς. Quippe omnia bona sunt ac pulcra, ad quae bene
se habent; mala vero ac turpia, ad quae male. Leunclav. Parole di Socrate ad
Aristippo appresso Senofonte ᾽Aποµνηµονευµάτων βιβλ. γ´. χεϕ. 8. §.
7. (17. Marzo 1822.)
Nelle scritture de’ moderni puristi italiani (p.e. del Botta) per lo più si
vede chiaramente un moderno che scrive all’antica, e quindi non ha la
grazia dello scrivere antico, non avendone lo spontaneo. Una delle due, o
s’ha da parere un [2396] antico che scriva all’antica, vale a dire che
questo scrivere paia naturale dello scrittore, e venuto da se; o s’ha da
essere un moderno che scriva alla moderna: e volendo parere un
moderno, non si dee volere scrivere altrimenti, se si vuol fuggire il
contrasto ridicolo e l’affettazione; e molto meno volendo scriver cose
moderne, e pensieri di andamento moderno (cioè insomma propri dello
scrittore, che mentre vive non sarà mai antico): le quali cose e i quali
pensieri, da che mondo è mondo, in qualsivoglia nazione non si sono
scritti nè potuti scrivere in altra lingua che moderna (perché questa sola è
loro connaturale, e perciò sola dà il modo di bene e pienamente
esprimerli), e non altrimenti che alla moderna. (19. Marzo dì di S.
Giuseppe. 1822.)
Il Vocab. della Crusca non ha interi due terzi delle voci, o significati e
vari usi loro, e nè pure un decimo dei modi di quegli stessi autori e libri
che registra nell’indice. E questi non sono appena una terza o quarta
parte di quegli autori e libri italiani de’ buoni secoli che secondo ogni
ragione vanno considerati e sono autentici nella lingua, anche nella pura
lingua antica. Aggiungeteci ora i libri moderni bene scritti, e le voci e
modi che usati o non usati ancora da buoni scrittori, sono necessarissimi
a chi vuole scriver [2398] (com’è dovere) delle cose presenti, e a’ presenti
o futuri, massime le spettanti alle scienze immateriali o materiali, e che
tutti mancano al Vocabolario; si può far ragione che questo non contenga
più d’una quarantesima parte della lingua italiana in genere (a dir
molto); e non più d’una trentesima dell’antica in particolare, ossia di
quella che s’ha per classica. Del che non si può far carico ai compilatori,
se non quanto alle mancanze relative agli autori de’ quali professano
d’aver fatto spoglio e formatone il vocabolario. Perché del resto nessuna
lingua viva ha, nè può avere un vocabolario che la contenga tutta,
massime quanto ai modi, che son sempre (finch’ella vive) all’arbitrio
dello scrittore. E ciò tanto più nell’italiana (per indole sua). La quale
molto meno può esser compresa in un vocabolario, quanto ch’ella è più
vasta di tutte le viventi: mentre veggiamo che nè pur la greca ch’è morta,
s’è potuta mai comprendere in un Vocabolario nè men quanto alle voci,
che ogni nuovo scrittore, ne porta delle nuove. [2399] Molto meno quanto
ai modi ne’ quali ell’è infinita e a disposizione degli scrittori, come
appunto la nostra, e ciascuno scrittor greco ne forma de’ nuovi a suo
piacere, e in gran numero. Or non è cosa ridicolissima che mentre
nessun’altra nazione stima che la sua lingua sia determinata e prescritta
dal suo vocabolario, non ostante che questo sia molto meglio fatto, molto
più esteso (relativamente) del nostro, e che la lingua loro possa più
facilmente o meglio esser compresa in un vocabolario; noi la cui lingua è
impossibile (sopra qualunque altra) che vi si possa comprendere, che di
più, abbiamo un vocabolario inesattissimo nelle cose stesse che porta,
molto più inferiore alla ricchezza della nostra lingua di quello che le
convenga o se le debba perdonare di essere, fatto sopra un piano sopra
cui nessun altro è fatto, cioè sopra il piano dell’antico, mentre noi siamo
moderni, e della pura autorità quando la lingua è viva; noi dico vogliamo
che un vocabolario così ridondante d’imperfezioni, e poco proprio della
lingua nostra (e d’ogni lingua viva), abbia su di questa una virtù,
un’autorità e un dominio, che i più perfetti vocabolari delle altre nazioni
(anche nazioni unite come la francese e l’inglese) nè si arrogano, nè
sognano, nè pensano che [2400] sia menomamente proprio dell’essenza
loro, nè compatibile colla natura delle lingue vive, e che nessuno
s’immagina mai di riconoscere in essi. (29. Marzo. Venerdì
dell’Addolorata. 1822.)
Aprile 1822
Intorno alla gelosia che avevano i romani della preminenza della loro
lingua sulla greca, vedi Dione p. 946. nota 86. (23. Aprile 1822.)
Di quelli che non avendo mani, supplirono all’ufficio loro coi piedi, v.
Dione Cassio l. 54. c. 9. p. 739. e quivi la nota 91. (25. Aprile. 1822.)
Alla p. 1287. principio. Io son certo che gli antichi orientali, o i primi
inventori dell’alfabeto, non s’immaginarono che i suoni vocali fossero
così pochi, e tanto minori in numero che le consonanti. Anzi dovettero
considerarli come infiniti, vedendo ch’essi animavano, per così dire, tutta
la favella, e discorrevano incessantemente per tutto il corpo di essa, come
il sangue per le vene degli animali. O pure, (e questo credo piuttosto)
non li considerarono neppure come suoni, ma come suono individuo, e
questo infinito e indeterminabile e indivisibile, come appunto
immaginarono gli antichi filosofi quello spirito animator del tutto che
totam agitat molem, et toto se corpore miscet. Ed è verisimile che l’idea di
rappresentare i suoni vocali col mezzo de’ punti (alieni affatto, e
avventizi alla [2405] scrittura ebraica) non venisse (così tardi) in mente ai
rabbini, se non per la pratica che aveano contratta delle lingue
occidentali, diffuse nell’Asia da gran tempo ec. oltre che i medesimi ebrei
s’erano già sparsi da gran tempo per l’occidente, o per paesi dove
correvano le lingue occidentali. Par che gli antichi ebrei considerassero le
vocali comespiriti, o come inseparabili dalle consonanti (p. e. א, ךec.) laddove
le consonanti per lo contrario sono inseparabili dalle vocali. Ma la sottigliezza
e la spiritualità, e il continuo uso del suono vocale nella favella,
impedivano loro di considerarlo nelle sue parti, se non come legato colle
consonanti, o colle aspirazioni che rendevano la vocale più aspra, più
notabile, piùcorporea, e quasi la trasmutavano in consonante, ovvero esse
stesse eran come consonanti, legate necessariamente a questo o quel
suono vocale; p.e. l’aspirazione אal solo suono dell’a, non comportando
forse un’altra vocale, quella tal razza di aspirazione ec. (29. Aprile. 1822.).
V. p. 2500.
Dalla mia teoria del piacere segue che per essenza naturale e
immutabile delle cose, quanto è maggiore e più viva la forza, il
sentimento, e l’azione e attività interna dell’amor proprio, tanto è
necessariamente maggiore l’infelicità del vivente, o tanto più difficile il
conseguimento d’una tal quale felicità. Ora la forza e il sentimento
dell’amor proprio è tanto maggiore quanto è maggiore la vita, o il [2411]
sentimento vitale in ciascun essere; e specialmente quanto è maggiore la
vita interna, ossia l’attività dell’anima, cioè della sostanza sensitiva, e
concettiva. Giacché amor proprio e vita son quasi una cosa, non
potendosi nè scompagnare il sentimento dell’esistenza propria (ch’è ciò
che s’intende per vita) dall’amore dell’esistente, nè questo esser minore
di quello, ma l’uno si può sempre esattamente misurare coll’altro. E tanto
uno vive, quanto si ama, e tutti i sentimenti di chi vive sono compresi o
riferiti o prodotti ec. dall’amor proprio: il quale è il sentimento universale
che abbraccia tutta l’esistenza; e gli altri sentimenti del vivente (se pur ve
n’ha che sieno veramente altri) non sono che modificazioni, o divisioni, o
produzioni di questo, ch’è tutt’uno col sentimento dell’essere, o una
parte essenziale del medesimo.
Dal che segue che l’uomo avendo per la sua natura ed organizzazione
esteriore ed interiore maggior vita, maggior capacità di più vasta e più
numerosa concezione, maggior sentimento insomma, o maggior
sensibilità di tutti gli [2412] altri viventi, dee necessariamente avere
maggiore intensità, attività, ed estensione o quantità o sentimento d’amor
proprio, che non ne ha verun altro genere di viventi. Quindi l’uomo per
essenza propria e inseparabile, è, e nasce più infelice, o meno capace di
felicità che verun altro genere di viventi, o di esseri.
Questo si deve intendere dell’uomo naturale. Ma siccome questa
capacità ed intensità e forza ed attività di sentimento della quale egli è
naturalmente provveduto sopra ogni altro animale, rende il suo spirito
più conformabile, più suscettibile di sempre maggior sentimento, più
raffinabile, vale a dire più capace di sempre più vivamente e più
variamente sentire; anzi siccome essa capacità non è altro che
conformabilità, e suscettività di nuovo sentimento, e di nuove
modificazioni dell’animo; così l’uomo, perfezionandosi, come dicono,
cioè crescendo la forza e la varietà e l’intimità del suo sentimento, e
perciò prevalendo in lui sempre più lo spirito, cioè la parte sensitiva,
[2413] al corpo, cioè alla parte torpida e grave; acquista egli e viene di
secolo in secolo necessariamente accrescendo la forza e il sentimento
dell’amor proprio, e quindi di secolo in secolo divien più, e più
inevitabilmente infelice. Dal che segue che l’uomo, come dicono,
perfezionato, è, per essenza umana, e per ordine generale della natura,
più infelice del naturale, e tanto più quanto è più perfezionato. E così
l’infelicità dell’uomo è sempre in ragion diretta degli avanzamenti del
suo spirito, cioè della civiltà, consistendo essa negli avanzamenti dello
spirito, e non potendo dire alcuno che il corpo dell’uomo si sia perfezionato
mediante di essa. Anzi è manifestamente scaduto da quel ch’era nell’uomo
naturale, in cui la preponderanza del corpo o della materia tenea più
basso, e men vivo il sentimento, e quindi l’amor proprio e quindi
l’infelicità.
In uno stesso secolo, essendo altri più raffinato, colto ec. di spirito,
altri meno, segue [2414] dalle predette cose che quegli debba
necessariamente esser più infelice, questi meno, in proporzione; e
l’ignorante e il rozzo e il villano manco infelice del dotto, del polito, del
cittadino ec.
Indipendentemente dalla coltura, nascendo gli uomini quali con
maggior sensibilità, o vivezza di spirito, o conformabilità, o sentimento
d’uomo (dice il Casa, Galat., cap.26. princip.), quali con minore, dalle
predette cose resta spiegato il perché gli uomini quanto più sensibili,
tanto più sieno irreparabilmente infelici, e il perché la natura dica agli
uomini grandi, Soyez grand et malheureux (D’Alembert). Giacché questo
maggior sentimento non è altro che maggior vivezza e profondità e senso
ed attività d’amor proprio, o non può star senza queste cose,
abbracciando l’amor proprio ogni possibile sentimento animale, e
producendolo, o essendo sostanzialmente legato con essolui, e in
proporzion diretta con esso. (2. Maggio 1822.). V. p. 2488.
[2415] Alla p.2402. Non solo non bisogna vantarsi delle proprie
sciagure, ma guardarsi di confessarle, e ciò anche a quelli cui sono
notissime. Se ne perde, non solo la protezione, o l’amore efficace, ma
eziandio la semplice affezione, e lo so per propria sperienza. (5. Maggio.
1822.)
La vita è fatta naturalmente per la vita, e non per la morte. Vale a dire
è fatta per l’attività, e per tutto quello che v’ha di più vitale nelle funzioni
de’ viventi. (5. Maggio. 1822.)
Alla p. 2419. Come può esser bella una lingua che non ha proprietà?
Non ha proprietà quella lingua che nelle sue forme, ne’ suoi modi, nelle
sue facoltà non si distingue dalle forme, modi, facoltà della grammatica
generale, e del discorso umano regolato dalla dialettica. Una lingua
regolata da questa sola [2426] non ha niente di proprio; tutto il suo è
comune a tutte le nazioni parlanti, e a tutte le altre lingue; il suo spirito,
la sua indole, il suo genio non è suo, ma universale; vale a dire ch’ella
non ha veruna originalità, e quindi non può esser bella, cioè non può
esser nè forte, nè distintamente nobile, nè espressiva, nè varia (quanto
alle forme), nè adattata all’immaginazione, perché questa è diversissima
e moltiplice, e nel tempo stesso ella è la sola facoltà umana capace del
bello, e produttrice del bello. Ora che cosa vuol dire una lingua che abbia
proprietà? Non altro, se non una lingua ardita, cioè capace di scostarsi
nelle forme, nei modi ec. dall’ordine e dalla ragion dialettica del discorso,
giacché dentro i limiti di quest’ordine e di questa ragione, nulla è proprio
di nessuna lingua in particolare, ma tutto è comune di tutte. (Parlo in
quanto alle forme, facoltà ec. e non in quanto alle nude parole, o alle
inflessioni delle medesime, isolatamente considerate.) Dunque se non è,
nè può esser bella la forma di una lingua che non ha proprietà, non è nè
può esser [2427] bella una lingua che nella forma sia tutta o quasi tutta
matematica, e conforme alla grammatica universale. E così di nuovo si
viene a concludere che la bellezza delle forme di una lingua (tanto delle
forme in genere, quanto di ciascuna in particolare) non può non trovarsi
in opposizione colla grammatica generale, nè esser altro che una
maggiore o minor violazione delle sue leggi.
La lingua francese si trova nel caso detto di sopra: poich’ella in
quanto alla forma, esattamente parlando, non ha proprietà, vale a dir che
non ha qualità sua propria, ma tutte le ha comuni con tutte le lingue, e
colla ragione universale della favella. Il che quanto noccia alla originalità,
anzi l’escluda, e quanto per conseguenza favorisca la mediocrità, anzi la
richieda e la sforzi, resta chiaro per se stesso. (Bossuet, scrittore non
mediocre, ebbe bisogno di domare, come gli stessi francesi dicono, la sua
lingua; e come dico io, fu domato e forzato alla mediocrità dello stile,
dalla sua lingua. E così lo sono tutti quegli scrittori francesi [2428] che
hanno sortito un ingegno naturalmente superiore al mediocre. Nè più nè
meno di quello che la società, e lo spirito della nazion francese, sforzi alla
mediocrità in ogni genere di cose gli uomini i più elevati della nazione, e
gli spiriti più superiori all’ordinario. Essendo la mediocrità non solo un
pregio, ma una legge in quella nazione, dove il supremo dovere
dell’uomo civile, è quello d’esser come gli altri).
Dalle dette considerazioni segue che la lingua francese, non avendo
nessuna o quasi nessuna proprietà, e quindi ripugnando alla vera e
decisa originalità dello stile (ben diversa da quelle minime differenze
dell’ordinario, che i francesi esaltano come somme originalità), non può
aver lingua poetica; e così è nel fatto.
Segue ancora, che, non avendo niente di proprio, ma tutto comune a
tutte le lingue, e tutto proprio del discorso umano in quanto discorso
umano, dev’essere accomodata sopra tutte alla universalità: e così è
realmente. (7. Maggio 1822.)
[2429] A voler esser lodato o stimato dagli altri, bisogna per necessità
intuonar sempre altamente e precisamente alle orecchie loro: io vaglio
assai più di voi: acciocché gli altri dicano: colui vale alquanto più di noi,
o quanto noi. La fama di ciascheduno in qualsivoglia genere, o
propriamente o almeno metaforicamente parlando, è sempre
incominciata dalla bocca propria. Se tu fai nel cospetto di quanta gente tu
vuoi, un’azione o una produzione ec. la più degna e la più lodevole che
si possa immaginare; t’inganni a partito se credi che quell’azione ec.
essendo manifestissima, e manifestissimamente lodevolissima, gli altri
debbano aprir la bocca spontaneamente, e cominciare essi a dir bene di
te. Guardano, e tacciono eternamente, se tu non rompi il silenzio, e se
non hai l’arte o il coraggio d’essere il primo a far questo. Ciò
massimamente in questi tempi di perfezionato e purificato egoismo. Chi
vuol vivere, si scordi della modestia. (7. Maggio. 1822.)
Amando il vivente quasi sopra ogni cosa la vita, non è maraviglia che
odi quasi sopra ogni cosa la noia, la quale è il contrario della vita vitale
(come dice Cicerone in Lael.). Ed in tanto non l’odia sempre sopra ogni
cosa, in quanto non ama neppur sempre la vita sopra ogni cosa; p.e.
quando un eccesso di dolor fisico gli fa desiderare anche naturalmente la
morte, e preferirla a quel dolore. Vale a [2434] dire quando l’amor
proprio si trova in maggiore opposizione colla vita che colla morte. E
perciò solo egli preferisce la noia al dolore, cioè perché gli preferisce
eziandio la morte, se non quanto spera di liberarsi dal dolore, e il
desiderio della vita è così mantenuto puramente dalla speranza.
Del resto l’odio della noia, è uno di quei tanti effetti dell’amor della
vita (passione elementare ed essenziale nel vivente) che ho specificati in
parecchi di questi pensieri. E l’uomo odia la noia per la stessa ragione per
cui odia la morte, cioè la non esistenza. E quest’odio medesimo della noia
è padre d’altri moltissimi e diversissimi effetti, e sorgente d’altre molte e
varie passioni o modificazioni delle medesime, tutte essenzialmente
derivanti da esso odio, delle quali ho pur detto in più luoghi. (8. Maggio
1822.)
[2453] Se l’uomo sia nato per pensare o per operare, e se sia vero che il
miglior uso della vita, come dicono alcuni, sia l’attendere alla filosofia ed
alle lettere (quasi che queste potessero avere altro oggetto e materia che
le cose e la vita umana, e il regolamento della medesima, e quasi che il
mezzo fosse da preferirsi al fine) 19, osservatelo anche da questo. Nessun
uomo fu nè sarà mai grande nella filosofia o nelle lettere, il quale non
fosse nato per operare più, e più gran cose degli altri; non avesse in se
maggior vita e maggior bisogno di vita che non ne hanno gli uomini
ordinarii; e per natura ed inclinazione sua primitiva, non fosse più
disposto all’azione e all’energia dell’esistenza, che gli altri non sogliono
essere. La Staël lo dice dell’Alfieri (Corinne, t.1. liv. dern.), anzi dice
ch’egli non era nato per iscrivere, ma per fare, se la natura de’ tempi suoi
(e nostri) glielo avesse permesso. E perciò appunto egli fu vero scrittore,
a differenza di quasi tutti i letterati o studiosi italiani del suo e del nostro
tempo. Fra’ quali siccome nessuno o quasi nessuno è nato per fare (altro
che fagiolate), perciò nessuno o quasi nessuno è [2454] vero filosofo, nè
letterato che vaglia un soldo. Al contrario degli stranieri, massime
degl’inglesi e francesi, i quali (per la natura de’ loro governi e condizioni
nazionali) fanno, e sono nati per fare più degli altri. E quanto più fanno, o
sono naturalmente disposti a fare, tanto meglio e più altamente e
straordinariamente pensano e scrivono. (30. Maggio 1822.)
Giugno 1822
Grazia dallo straordinario. I nei che altro sono se non difetti, e false
produzioni della cute? E non sono stati considerati lungo tempo come
bellezze? (Anzi così anche oggi volgarmente si sogliono chiamare). E le
donne col porsegli dintorno non facevano insomma altro che fingersi dei
difetti, e fabbricarseli appostatamente, per proccurarsi grazia e bellezza.
(1. Giugno 1822.)
Alla p. 1660. mezzo. Non so bene se il Salviati o il Salvini sia quel che
dice dell’antica falsa, e latina ortografia degl’italiani, e particolarmente
dell’et non mai pronunziato se non e, o ed. Tutte le lingue nascono, com’è
naturale appoco appoco, e per lungo tempo non sono adattabili alla
scrittura e molto meno alla letteratura. Cominciando ad adattarle alla
scrittura, l’ortografia n’è incertissima, per l’ignoranza di quei primi
scrittori o scrivani, che non sanno bene applicare il segno al suono:
massime quando si servano, com’è il solito, di un alfabeto forestiero,
quando è certo che ciascuna nazione o lingua ha i suoi suoni particolari,
che non corrispondono a quelli significati dall’alfabeto di un’altra
nazione. Venendo poi la letteratura, l’ortografia piglia una certa
consistenza, ed è prima cura de’ letterati di regolarla, di ridurla sotto
principii fissi, e generali, e di darle stabilità. Ma anche questa opera è
sempre imperfettissima ne’ suoi principii. Per lo più la letteratura di una
nazione deriva da quella di un’altra. Quindi anche l’ortografia in quei
principii [2459] segue la forma e la stampa di quella che i letterati hanno
sotto gli occhi, troppo deboli ancora per essere originali, e per immaginar
da se, e seguire e conoscer bene la natura particolare de’ loro propri
suoni ec.: le quali cose non son proprie se non di quello ch’è già o
perfezionato o vicino alla perfezione. Nel nostro caso poi, questa lingua
letterata, e di ortografia già regolatissima e costante, sopra la cui
letteratura s’andavano formando le moderne, era anche immediatamente
madre delle lingue moderne. E benché queste (massime la francese),
avessero perduto molti de’ suoi suoni, e sostituitone, o aggiuntone molti
altri, contuttociò la somiglianza fra la madre e le figlie era tanta, e la loro
derivazione da lei era così fresca, che cominciando a scrivere e poi a
coltivare queste lingue non mai ancora scritte o coltivate, non si pensò di
potersi servire d’altra ortografia che della latina. La quale ortografia già
esisteva, e la nostra s’avea da creare: ma nessuna cosa si crea in un
momento, massime che tante altre ve n’erano da creare allo [2460] stesso
tempo, le quali occupavano tutta l’attenzione di quei primi formatori
delle favelle moderne. Uomini che ad una materia putrida (giacché tutte
erano barbarissime corruzioni) aveano a dar vita, e splendore.
Quindi l’ortografia italiana del trecento, anche quella dei primi
letterati, era tutta barbaramente latina. Si può vedere il manoscritto della
divina Commedia fatto di pugno del Boccaccio e del Petrarca, e
pubblicato quest’anno o il passato da una Biblioteca di Roma. Quindi
conservato l’h che niun italiano pronunziava più (se non colla g, e c);
quindi l’y, lettera inutile, avendo perduta la sua antica pronunzia di u
gallico; quindi il k, ec. ec. E siccome per lunghissimo tempo, anche dopo
stabilita la nostra letteratura, si durò a credere che il volgare non fosse
capace di scrittura e d’uso più che tanto nobile e importante (e per molto
tempo realmente non lo fu, perché non v’era applicata); così fino al
cinquecento, e massimamente fino a tutta la sua prima metà, [2461] si
seguitò a scrivere l’italiano, con ortografia barbaramente latina, o non
credendolo capace d’ortografia propria, o non sapendogliela ancora
trovare, e ben regolare e comporre, o pedantescamente volendo ritornare
il volgare al latino quanto più si potesse. Vedi la edizione della
Coltivazione dell’Alamanni fatta in Parigi 1546. da Rob. Stefano, sotto gli
occhi dell’autore, e ristampata colla stessa ortografia in Padova, Volpi
1718, e Bologna 1746. e quella delle Api del Rucellai, Venez. 1539, che fu
la prima, (per Giananton. de’ Nicolini da Sabio) ristampata parimente ne’
detti luoghi. Dice il Volpi che quella maniera e di scrivere e di puntare che
vedesi all’Alamanni esser piacciuta, è alquanto diversa non solo da quella che
oggidì s’usa, ma da quella eziandio che a tempi di lui universalmente si
costumava. (G. A. V. a’ Lettori). Vedi anche le lettere del Casa al
Gualteruzzi, da un ms. originale, nelle sue op. t.2. Venez. 1752. Io non so
se sia vero, nè se quella del Rucellai p.e. se ne diversifichi notabilmente:
non mi par che l’edizioni italiane di que’ tempi (come quella delle Rime
del Firenzuola in Firenze, cit. nel Voc.) [2462] ne vadano molto lungi: ma
se ciò fosse, verrebbe dalla dimora dell’Alamanni in Francia. V. p. 2466.
In somma la lingua italiana pericolava di stabilirsi e radicarsi
irreparabilmente in quella stessa imperfezione d’ortografia, in cui si
veniva formando, e poi per sempre si radicò la lingua francese.
Fortunatamente non accadde, anzi ell’ebbe la più perfetta ortografia
moderna: non lettere scritte le quali non si pronunzino: non lettere che si
pronunzino e non si scrivano: ciascuna lettera scritta, pronunziata
sempre e in ogni caso, come si pronunzia recitando l’alfabeto ec. V. p.
2464.
Cagioni di questo vantaggio furono l’infinita capacità, acutezza e
buon gusto d’infinite persone in quel secolo, e l’altre circostanze ch’ho
notate altrove. Alle quali si può e si dee forse aggiungere che i suoni della
lingua latina, e generalmente la pronunzia e l’uso di essa, sopra la cui
ortografia si formava naturalmente la nostra, era molto meno diverso
dall’uso e pronunzia nostra e spagnuola, di quel che sia dal francese.
[2463] Quindi essendo tutte tre queste ortografie formate da principio
egualmente sulla latina, le due prime che poco avevano da mutarla per
conformarla all’uso loro, facilmente la corressero (massime l’italiana) e ve
l’uniformarono; ma la francese che avrebbe dovuto quasi trovare una
nuova maniera di scrivere (essendo nella pronunzia, come in ogni altra
parte, la più degenere figlia della latina), ed anche trovare in parte un
nuovo alfabeto (come per le e mute ec.), fu incorrigibile.
Fra tanto queste osservazioni si debbono applicare a dimostrar con
un esempio recente, quanto debbano essere state alterate le primitive
lingue nell’applicarle alla scrittura e all’alfabeto o proprio o forestiero, e
nella creazione della loro ortografia, e quanto poco ci possiamo fidare del
modo in cui esse ci ponno essere pervenute, cioè pel solo mezzo della
scrittura. (5. Giugno, vigilia del Corpus Domini. 1822.)
Alla p. 2457. marg. Qual nazione, se non dopo fatta Cristiana, non
riputò per doni [2464] di Dio, e segni del favor celeste le prosperità, e per
gastighi di Dio, e segni dell’odio suo le sventure? (Onde fra’ più antichi,
e fra gli stessi ebrei, come i lebbrosi ec., si fuggiva con orrore l’infelice
come scellerato, e quando anche non si sapesse, o non si fosse mai saputa
da alcuno la menoma sua colpa, si stimava reo di qualche occulto delitto,
noto ai soli Dei, e la sua infelicità s’aveva per segno certo di malvagità in
lui, e se l’avevano creduto buono, vedendo una sua sciagura, credevano
di disingannarsene.). Al contrario accadde nella nostra religione, la
quale, se non altro, definisce per maggior favore, e segno di maggior
favore di Dio l’infelicità, che la prosperità. (5. Giugno. 1822.)
I greci ϑεῖος, gli spagnuoli Tio, gl’italiani zio, esprimendo questi col Z,
quelli col T, il suono del t aspirato che nè gli uni nè gli altri hanno. Donde
questa parola così necessaria e usuale e volgare in tutti i linguaggi, e
usualissima e volgarissima nello spagnuolo e nell’italiano; donde, dico, e
per qual mezzo può esser passata dal greco a questi volgari moderni, se
non per mezzo del volgare latino, non trovandosi nel latino scritto?
L’avranno forse presa gli spagnuoli e gl’italiani dal greco moderno, o da
quello de’ bassi tempi (non si saprebbe con qual mezzo), e avrebbe
potuto divenir usuale e volgarissima e scacciar la parola antica, [2466]
una parola forestiera significante una cosa che tuttogiorno s’era
nominata e si nomina? E siccome si potrebbe dubitare che alcune o tutte
queste parole ch’io dimostro uniformi nel greco e ne’ nostri volgari, ci
fossero derivate per mezzo del francese ne’ bassi tempi, e il francese
l’avesse avute dalle colonie greche state anticamente in Francia ec. del
che ho discorso altrove, notate che questo ϑεῖος si trova in tutti i volgari
derivati dal latino, fuorché appunto nel francese che da avunculus dice
oncle. Oltre che la qualità della cosa significata da questa voce, non
permetterebbe, come ho detto, ch’ella fosse passata così tardi, e potuta
stabilirsi ne’ nostri volgari in luogo dell’antica denominazione; se questa,
cioè, non fosse antica e antichissima. Vedi però il Forcell. il Gloss. i Diz.
franc. ec. (8. Giugno 1822.). V. anche calare a cui la Crusca pone per greco
χαλᾶν. (9. Giugno 1822.)
[2481] N. N. diceva che gli ossequi ec. e i servigi interessati rade volte
conseguiscono l’intento loro, perché gli uomini sono facili a ricevere e
difficili a rendere. (tutti ricevono volentieri, e rendono mal volentieri e
poco.) Ma eccettuava da questo numero quelli che i giovani prestano
talvolta alle vecchie ricche o potenti. E soggiungeva che non v’ha
lusinghe, ossequi o servigi meglio collocati di questi, nè che più
facilmente e più spesso ottengano il loro fine. (17. Giugno. 1822.)
[2484] I francesi non hanno poesia che non sia prosaica, e non hanno
oramai prosa che non sia poetica. Il che confondendo due linguaggi
distintissimi per natura loro, e tutti due propri dell’uomo per natura sua,
nuoce essenzialmente all’espressione de’ nostri pensieri, e contrasta alla
natura dello spirito umano: il quale non parla mai poeticamente quando
ragiona coll’animo riposato ec. come par che sieno obbligati di fare i
francesi, se vogliono scrivere in prosa che sia per loro elegante e spiritosa
ed ornata ec. (19. Giugno. 1822.)
Quanto sia vero che i talenti in gran parte son opera delle circostanze,
vedasi che ne’ paesi piccoli è infinitamente maggiore che ne’ grandi, il
numero delle persone di grado agiato e comodo e (negli altri luoghi)
colto e civile, che non hanno il senso comune, e da’ quali non si può
fidare l’esecuzione o il maneggio del menomo affare ec. Lo stesso dico
proporzionatamente delle città meno grandi, rispetto alle più grandi,
delle meno colte o socievoli rispetto alle più colte, delle capitali dove tutti
son obbligati [2485] a conversare, a trattar negozi ec. rispetto alle città di
provincia ec. (19. Giugno. 1822.)
Quel che si dice, ed è verissimo, che gli uomini per lo più si lasciano
governare dai nomi, da che altro viene se non da questo che le idee e i
nomi sono così strettamente legati nell’animo nostro, che fanno un
tutt’uno, e mutato il nome si muta decisamente l’idea, benché il nuovo
nome significhi la stessa cosa? Splendido esempio ne furono i romani,
esecratori del nome regio, i quali non avrebbero tollerato un re chiamato
re, e lo tollerarono chiamato imperatore, dittatore, ec. e dichiarato
inviolabile (cosa nuova) col nome vecchio della potestà tribunizia. E che
non avrebbero tollerato un re così detto, si vede. Perocché Cesare il
quale, bench’avesse il supremo comando, pur sospirava quel nome, non
parendoli essere re, se non fosse così chiamato, (e ciò pure per la
sopraddetta qualità dell’animo nostro, bench’egli fosse
spregiudicatissimo), fattosi [2488] offerire la corona da Antonio ne’
Lupercali, fu costretto rigettarla esso stesso da’ tumulti ed esecrazioni di
quel popolo già vinto e schiavo, e che poi chiamato di nuovo alla libertà,
non ci venne. E gl’imperatori che furono dopo, e che da principio (cioè
finché il nome d’imperatore non fu divenuto anche nella immaginazion
loro e del popolo, lo stesso e più che re) ebbero lo stesso desiderio di
Cesare, non crederono che quel popolo domo si potesse impunemente
ridurre a sostenere il nome di re, benché non dubitarono di fargli avere
un re e di fargli tollerare ed anche amare la cosa significata da questo
nome. (22. Giugno. 1822.)
Alla p. 2414. fine. Tutti gli uomini e tutti gli animali amano se stessi
nè più nè meno secondo la misura ed energia della loro vitalità. Quindi
non mi par più vero quel ch’io dico altrove, che la quantità dell’amor
proprio sia precisamente uguale in ciascun vivente. Perocché le diverse
specie di viventi, e i diversi individui d’una medesima specie, e questi
medesimi individui in diversi tempi e circostanze [2489] hanno
relativamente diverse somme di vitalità. Come altre specie hanno più
spiriti, altre meno. E fra queste l’umana ne ha più di tutte. Ma fra gli
uomini altri n’hanno più, altri meno: ed anche naturalmente questi nasce
con più, questi con meno talento.
Di più l’amor proprio essendo una qualità del vivente, e queste
qualità, come ho provato in più luoghi, essendo disposizioni, e queste
disposizioni conformabili, e che possono fruttificare e produrre delle
facoltà, e questo massimamente nell’uomo, ne segue che l’amor proprio,
specialmente nell’uomo, è conformabile e coltivabile come le altre
qualità. Anzi tanto più quanto egli abbraccia tutte le qualità dell’animo
del vivente. Quindi anche l’amor proprio fa progressi, come ne fa lo
spirito umano, ed è maggiore non solo in una specie o individuo
naturalmente più vivo e sensitivo, ma anche in un individuo colto
rispetto ad uno non colto, in un secolo colto rispetto [2490] ad un altro
meno colto, in una nazione civile rispetto a una barbara, e in uno
individuo medesimo, è maggiore dopo lo sviluppo delle sue qualità o
disposizioni sensitive, sentimento, vitalità, ingegno, è maggiore, dico, che
non era prima.
E siccome ho provato che l’infelicità dell’animale è sempre in ragion
diretta dell’attività del suo amor proprio, così resta chiaro, e perché
l’uomo sia naturalmente meno felice degli altri animali, e perché a
misura ch’egli s’incivilisce, il che accresce di mano in mano l’attività
dell’amor proprio, egli divenga ogni giorno più infelice, necessariamente,
e quasi per legge matematica.
Che poi l’amor proprio sia conformabile, coltivabile, modificabile,
sviluppabile, suscettivo d’incremento, e di maggiore o minore attività e
influenza, si farà chiaro considerando l’amor proprio, come una
passione. E infatti lo è, anzi non v’è passione che non sia amor proprio, e
tutte sono un effetto suo [2491] non distinto dalla causa, e non esistente
fuor di lei, la quale opera ora così, e si chiama superbia, ora così, e si
chiama ira, ed è sempre una passione sola, primitiva, essenziale. Dimodo
che le passioni sono piuttosto azioni ch’effetti dell’amor proprio, cioè non
sono figlie sue in maniera che ne ricevano un’esistenza propria, e
separata o separabile da lui.
Or p.e. l’ira o l’impazienza del proprio male, non è ella
modificabilissima e diversissima, non solo in diverse specie, o individui,
ma in un medesimo individuo, secondo le circostanze? Ponetelo nelle
sventure ed assuefatecelo. Sia pure impazientissimo per natura; col
tempo e coll’assuefazione, diviene pazientissimo. (Testimonio io per ogni
parte di questa proposizione). Fate che questo medesimo non abbia mai
provato sventure, o assuefatelo di nuovo alla prosperità, o supponete in
una di queste due circostanze un altro individuo, e sia egli di natura
mansuetissima. Ogni menomo male lo pone in impazienza. Or qual
effetto più sostanziale dell’amor proprio, che l’impazienza del male di
questo sè che si ama? E pur questa [2492] impazienza è maggiore e
minore secondo le nature, le specie, gl’individui, e le circostanze e le
assuefazioni di un medesimo individuo. Così dunque l’amor proprio del
qual essa è opera. (22. Giugno. 1822.)
Intorno al suicidio. È cosa assurda che secondo i filosofi e secondo i
teologi, si possa e si debba viver contro natura (anzi non sia lecito viver
secondo natura) e non si possa morir contro natura. E che sia lecito
d’essere infelice contro natura (che non avea fatto l’uomo infelice), e non
sia lecito di liberarsi dalla infelicità in un modo contro natura, essendo
questo l’unico possibile, dopo che noi siamo ridotti così lontani da essa
natura, e così irreparabilmente. (23. Giugno. 1822.)
Il fatto sta così e non si può negare. La somma della moralità pratica
era ed è tanto maggiore presso gli antichi, i pagani, i selvaggi, che presso
i moderni, i Cristiani, gl’inciviliti, quanto la somma della morale teorica,
e la perfetta cognizione, definizione, analisi e propagazione della
medesima è maggiore presso questi che presso quelli. E nella stessa
[2493] proporzione si deve discorrere anche oggidì de’ Cristiani più
rozzi, e meno (o più confusamente) istruiti de’ doveri sociali ed umani,
per rispetto alla gente più colta e addottrinata ne’ medesimi doveri. (24.
Giugno dì di S. Gio. Battista. 1822.)
Il giovane istruito da’ libri o dagli uomini e dai discorsi prima della
propria esperienza, non solo si lusinga sempre e inevitabilmente [2524]
che il mondo e la vita per esso lui debbano esser composte d’eccezioni di
regola, cioè la vita di felicità e di piaceri, il mondo di virtù, di sentimenti,
d’entusiasmo; ma più veramente egli si persuade, se non altro,
implicitamente e senza confessarlo pure a se stesso, che quel che gli è
detto e predicato, cioè l’infelicità, le disgrazie della vita, della virtù, della
sensibilità, i vizi, la scelleraggine, la freddezza, l’egoismo degli uomini, la
loro noncuranza degli altri, l’odio e invidia de’ pregi e virtù altrui,
disprezzo delle passioni grandi, e de’ sentimenti vivi, nobili, teneri ec.
sieno tutte eccezioni, e casi, e la regola sia tutto l’opposto, cioè quell’idea
ch’egli si forma della vita e degli uomini naturalmente, e
indipendentemente dall’istruzione, quella che forma il suo proprio
carattere, ed è l’oggetto delle sue inclinazioni e desiderii, e speranze,
l’opera e il pascolo della sua immaginazione. (29. Giugno, dì di S. Pietro.
1822.)
[2525] Alla p.2516. marg. fine - e sempre scrisse (il Caro) nella propria
lingua del suo secolo, non del trecento, e della sua nazione, non di sola
Firenze. Or vedasi nell’esempio del Caro non Fiorentino, come era bella e
graziosa questa lingua nazionale del cinquecento, ch’allora si disprezzava, e
diceva il Salviati che bisognava scordarsene e lavarsene gli orecchi, nè
più nè meno di quello che ci dicano oggi della nostra moderna. Certo è
che nessun Fiorentino nè del trecento nè del 500 nè d’altro secolo scrisse
mai così leggiadramente e perfettamente come scrisse il Caro
Marchegiano e di piccola terra, tanto le cose studiate, quanto le non
istudiate; vero apice della prosa italiana, e che anche oggidì, letto o bene
imitato, è fresco e lontanissimo dall’affettazione la più menoma, come
s’oggi appunto scrivesse. E notate che il Caro, tutto quello che scrisse,
ebbe poco tempo di studiarlo, lasciando star le lettere, familiari, ch’egli
scriveva anzi di malissima voglia, come dice [2526] spessissimo, e dice
ancora: E delle mie (lettere) private io n’ho fatto molto poche che mi sia messo
per farle (cioè con istudio), e di pochissime ho tenuta copia (lett. 180. vol.2. al
Varchi.) Dal che si vede che quello stile e quella lingua gli erano naturali,
e sue proprie, non altrui, cioè proprie del suo secolo e della sua nazione,
benché da lui modificate secondo il suo gusto, e benché si professi molto
obbligato nella lingua a Firenze, scrivendo al Fiorentino Salviati. (lett. ult.
cioè 265. fine, vol.2.). Vedi ancora quel ch’egli dice del poco studio e
impegno con cui tradusse l’Eneide, la Rettor. d’Aristot. le Oraz. del
Nazianz. Tutte opere, che siccome le lettere familiari (e forse queste
anche più della Rettor. e delle Oraz.) ci riescono pur contuttociò di
squisita e quasi inimitabile eleganza. (29. Giugno, dì di S. Pietro. 1822.)
Quanto gli uomini sieno allontanati dalla vera loro natura, dalle
qualità e distintivi destinati alla loro specie, l’osservo anche nella gran
differenza fisica che s’incontra fra gli uomini da individuo a individuo.
Lascio i mostri, difettosi ec. dalla nascita, o dopo la nascita, che sono
infiniti presso gli uomini; e fra qualunque genere d’animali appena se ne
troverà uno per mille dei nostri, in proporzione della numerosità della
specie: anche escludendo affatto quelli che tra gli uomini hanno contratto
imperfezioni fisiche, per cause accidentali, visibili, [2559] e se non facili,
almeno possibili ad evitarsi. Lascio gli Etiopi, gli Americani che non
avevano barba, certe differenze di costruzione negli Ottentotti, i Patagoni
(se ve n’ha), i Lapponi (che forse nascono e vivono in un clima non destinato
dalla natura alla specie umana, come a tante altre specie d’animali, piante
ec. ha negato questo o quel clima, o paese ec. o tutti i climi e paesi,
fuorché un solo.). Tutto ciò si potrà considerare come differenze delle
varie specie tra loro, dentro uno stesso genere, nel modo che p.e. il
genere dei cani ha diversissime specie, e diverse o in uno stesso clima, e
paese, o in diversi climi destinati a tale o tal altra di esse ec.
Ma che in un medesimo clima, in un medesimo paese, da due
medesimi genitori, nascano dei figli così differenti fisicamente, come
accade tra gli uomini, che [2560] di due concittadini, di due fratelli, l’uno
sarà p.e. di statura gigantesca, e di temperamento robustissimo, l’altro
fiacchissimo e piccolissimo; e che questo accada indipendentemente da
ogni causa visibile, o accidentale, o amovibile; che accada nonostante una
medesimissima educazione ed esercizio fisico; che accada e resti
manifestamente determinato fin dalla nascita dell’uno e dell’altro:
questo, dico io, in qual altra specie d’animali si trova? Specie, dico, e non
genere, perché p.e. diverse specie di cani sono diversissime di grandezza,
ma non così gl’individui di ciascuna d’esse specie fra se stessi, neppur
pigliandoli da diverse famiglie, da diverse patrie, da diversi paesi, da
diversi climi.
E fermandomi e ristringendomi alla differenza che passa fra le
proporzioni fisiche degl’individui umani, io dico che i [2561] due estremi
di questa differenza sono così lontani, che niun’altra specie d’animali,
considerata nelle stesse circostanze di famiglia, patria, clima ec. offre di
grandissima lunga due individui così differenti di grandezza come sono
gl’individui umani tutto giorno, e massimamente pigliandoli da’ due
sopraddetti estremi.
Certo è che la natura a ciascuna specie d’animali (come anche di
piante ec.) ha assegnato certe proporzioni nè tanto strette che l’uno
individuo sia precisamente della misura dell’altro, nè tanto larghe che
non si possa quasi definir nemmeno lassamente la grandezza propria
degl’individui di quella specie. Ora di qualunque specie d’animali vi
discorra un naturalista, ve ne dirà presso a poco la grandezza, e
qualunque individuo voi ne veggiate, corrisponderà, o si [2562]
discosterà poco da quella, e in somma la misura della grandezza sarà
sempre per voi una qualità distintiva di quella specie d’animali, e
pigliandola a un dipresso, (tanto più a un dipresso quanto la loro
grandezza specifica è maggiore assolutamente) non t’ingannerà mai.
Poniamo anche caso che d’una specie tu non abbia veduto se non un solo
individuo, e che questo sia l’estremo o della grandezza o della piccolezza
della specie. Ancorché tu ti formi l’idea della grandezza di quella specie
sopra quel solo individuo, vedendone poi degli altri, non ti trovi
ingannato gran cosa, nè sproporzionatamente lontano dalla tua idea, nè
per causa della differente grandezza (purché siano in fatto della
medesima specie), ti accade di non riconoscerli per individui di quella tale
specie, o di dubitare che non lo sieno. E ciò quando anche fossero gli
estremi contrari del primo individuo da te veduto.
[2563] Questo pensiero, considerate ben le cose, trovo che non è vero,
e però lo lascio a mezzo. La differenza delle proporzioni fisiche tra
gl’individui umani, ci par maggiore che nell’altre cose, per le ragioni
ch’ho detto altrove. Ma in realtà non è maggiore nè sproporzionata
relativamente, e n’esiste altrettanta fra gli altri individui animali, in
proporzione della loro maggiore o minor grandezza specifica, e parlando
sempre, come si deve, a un dipresso: benché in essi animali non ci dia
così nell’occhio e non ci paia tanta. Ma colla misura facilmente si scopre
che la detta differenza negli animali è maggiore, e negli uomini è minore
ch’a noi non sembra. (9-10. Luglio 1822.)
[2566] È egli possibile che nella morte v’abbia niente di vivo? anzi
ch’ella sia un non so che di vivo per natura sua? come dunque credere
che la morte rechi, e sia essa stessa, e non possa non recare un dolor
vivissimo? Quando tutti i sentimenti vitali, e soli capaci del dolore o del
piacere, sono non solamente intorpiditi come nel sonno o nell’asfissia ec.
(ne’ quali casi ancora, le punture, i bottoni di fuoco ec. o non danno
dolore, o ne danno meno dell’ordinario, in proporzione
dell’intorpidimento, della gravezza p.e. del sonno, ch’è minore o
maggiore, com’è somma nell’ubbriaco) ma anzi il meno vitali, il meno
suscettibili e vivi che si possa mai pensare, essendo quello il punto in cui
si spengono per sempre, e lasciano d’esser sentimenti. Il punto in cui la
capacità di sentir dolore s’estingue interamente, ha da esser un punto di
sommo dolore? Anzi non può esser nemmeno di dolore comunque, non
potendosi concepir [2567] l’idea del dolore, se non come di una cosa viva,
e il vivo è inseparabile dal dolore, essendo questo un irritamento, un
aigrissement dei sensi, che si risentono, cosa di cui non sono capaci nel
punto in cui in vece di risentirsi, si dissentono per sempre. Così non si dee
creder nemmeno che quel piacer fisico ch’io affermo esser nella morte,
sia un piacer vivo ma languidissimo. E il piacere, a differenza del dolore,
opera languidamente sui sensi, anzi osservate che il piacer fisico per lo
più consiste in qualche specie di languore, e il languor de’ sensi è un
piacere esso stesso. Però i sentimenti ne son capaci anche estinguendosi,
e perciò medesimo che si estinguono. (16. Luglio. 1822.)
Dire che la lingua latina è figlia della greca, perché vi si trovano molte
parole e modi greci introdottivi parte dalla letteratura, parte dal
commercio e vicinanza delle colonie greco-italiane, parte dall’antico
commercio avuto colla nazione greca sempre mercatrice, parte derivanti
dalla stessa comune origine d’ambe le lingue, è lo stesso appunto che
vedendo la nostra presente [2573] lingua italiana piena di francesismi, e
modellata sulla francese, conchiudere che la lingua italiana è figlia della
francese. Anzi v’ha più di francese nella presente lingua italiana (che è
quasi una traduzione, e una scimia della francese) di quel che v’abbia di
greco nella lingua latina, massime poi dell’antica. Del resto la parità va
molto bene a proposito, perché infatti le lingue italiana e francese sono
appunto sorelle, come la greca e la latina. (20. Luglio 1822.)
Da quello che altrove ho detto de’ numeri ec. si deduce che gli
animali, non avendo lingua, non sono capaci di concepir quantità
determinata ec. se non menoma, e ciò non per difetto di ragione, e
insufficienza e scarsezza d’intendimento, ma per la detta necessarissima
causa. (30. Luglio 1822.). Onde l’idea della quantità determinata (benché
cosa materialissima) è [2589] esclusivamente propria dell’uomo.
Le stelle, i pianeti ec. si chiamano più o men belle, secondo che sono
più o meno lucide. Così il sole e la luna secondo che son chiari e nitidi.
Questa così detta bellezza non appartiene alla speculazione del bello, e
vuol dir solamente che il lucido, per natura, è dilettevole all’occhio
nostro, e rallegra l’animo ec. ec. (3. Agosto. 1822.)
Alla p.2581. marg. Fra le lingue antiche, la greca non solo ebbe infiniti
scrittori prima della sua grammatica, ma prima ancora d’ogni
grammatica conosciuta. Quindi la sua inesauribile ricchezza, e la sua
assoluta onnipotenza. La lingua latina per [2593] verità non dico che
avesse Vocabolari (sebbene ebbe forse parecchie nomenclature ec. come
la greca col tempo ebbe i suoi libri detti ᾽Ατικισταὶ ec. ec.), e certo ebbe
parecchi scrittori anteriori alla sua grammatica (fra’ quali se vogliamo
porre Cicerone, sarà certo che questi furono i migliori), ma la grammatica
essa già l’aveva in quella della lingua greca, studiando la qual lingua per
principii e nelle scuole ec. (cosa che i greci non avevano mai fatto con
altra lingua del mondo) necessariamente i latini imparavano le regole
universali della grammatica e l’analisi esatta del linguaggio, e
applicavano tutto ciò alla lingua loro: lasciando star gl’infiniti libri di
grammatica greca che già s’avevano dal tempo de’ Tolomei in giù.
Quindi la lingua latina, per antica, riuscì meno libera e meno varia d’ogni
altra. Laddove la lingua italiana scritta primieramente da tanti che nulla
sapevano dell’analisi del linguaggio (poco o nulla studiando altra lingua
e grammatica, come sarebbe stata la latina), venne, per lingua moderna,
similissima di ricchezza e d’onnipotenza alla greca. La lingua tedesca ha
veramente [2594] grammatica, ma non so quanto sia rispettata dagli
scrittori tedeschi; ovvero le eccezioni superando le regole, queste
vengono ad essere illusorie, e il grammatico non può far altro ch’andar
qua e là dietro chi scrive, per vedere e notar come scrivono. Di più ella
non ha vocabolario riconosciuto per autorevole, e questo in una lingua
moderna è una gran cosa conducentissima alla ricchezza, potenza, libertà
della lingua. (4. Agosto. 1822.)
Ho detto altrove che le voci greche nelle lingue nostre non sono altro
che termini (in proporzione però del tempo da ch’elle vi sono introdotte:
p.e. filosofia e tali altre voci greche venuteci mediante il latino, sono
alquanto più che termini), cioè ch’elle non esprimono se non se una pura
idea, senz’alcun’altra concomitante. Per questa ragione appunto, oltre le
altre notate altrove, le voci greche sono infinitamente a proposito nelle
nostre scuole e scienze, perocch’elle rappresentano costantemente e
schiettamente quella nuda, secca e semplicissima idea alla quale sono
state appropriate; e perciò servono alla precisione [2595] molto meglio di
quello che possano mai fare le voci tolte dalle proprie lingue, le quali
voci benché fossero formate, composte ec. di nuovo, sempre
porterebbero seco qualche idea concomitante. Ma per questa medesima
ragione le voci greche sono intollerabili nella bella letteratura (barbare
poi nella poesia, benché i francesi si facciano un pregio, un vezzo e una
galanteria d’introdurcele), dove intollerabili sono le idee secche e nude, o
la secca e nuda espressione delle idee. (6. Agosto 1822.)
A ciò che ho detto altrove di quel verso dell’Alfieri, Disinventore od
inventor del nulla, soggiungi. Quest’appunto è la mirabile facoltà della
lingua greca, ch’ella esprime facilmente, senza sforzo, senza affettazione,
pienamente e chiarissimamente, in una sola parola, idee che l’altre lingue
talvolta non possono propriamente e interamente esprimere in nessun
modo, non solo in una parola, ma nè anche in più d’una. E questo non lo
conseguisce la detta lingua per altro mezzo che della immensa facoltà de’
composti.
[2596] Quanta sia l’influenza dell’opinione e dell’assuefazione anche
sui sensi, l’ho notato altrove coll’esempio del gusto, che pur sembra uno
de’ sensi più difficili ad essere influiti da altro che dalle cose materiali.
Aggiungo una prova evidente. Io mi ricordo molto bene che da fanciullo
mi piaceva effettivamente e parevami di buon sapore tutto quello che
(per qualunque motivo ch’essi s’avessero) m’era lodato per buono da chi
mi dava a mangiare. Moltissime delle quali cose, ch’effettivamente
secondo il gusto dei più, sono cattive, ora non solo non mi piacciono, ma
mi dispiacciono. Nè per tanto il mio gusto intorno ai detti cibi s’è mutato
a un tratto, ma appoco appoco, cioè di mano in mano che la mente mia
s’è avvezzata a giudicar da se, e s’è venuta rendendo indipendente dal
giudizio e opinione degli altri, e dalla prevenzione che preoccupa la
sensazione. La qual assuefazione ch’è propria dell’uomo, e ch’è
generalissima, potrà essere ridicolo, ma pur è verissimo il dire che
influisce anche in queste minuzie, e determina il giudizio [2597] del
palato sulle sensazioni che se gli offrono, e cambia il detto giudizio da
quello che soleva essere prima della detta assuefazione. In somma tutto
nell’uomo ha bisogno di formarsi; anche il palato: ed è cosa
facilissimamente osservabile che il giudizio de’ fanciulli sui sapori, e sui
pregi e difetti dei cibi relativamente al gusto, è incertissimo, confusissimo
e imperfettissimo: e ch’essi in moltissimi, anzi nel più de’ casi non
provano punto nè il piacere che gli uomini fatti provano nel gustare tale
o tal cibo, nè il dispiacere nel gustarne tale o tal altro. Lascio i villani, e la
gente avvezza a mangiar poco, o male, o di poche qualità di cibi, il cui
giudizio intorno ai sapori (anzi il sentimento ch’essi ne provano) è poco
meno imperfetto e dubbio che quel dei fanciulli. Tutto ciò a causa
dell’inesercizio del palato.
Del resto quello ch’io ho detto di me stesso, avviene indubitatamente
a tutti, e ciascuno se ne potrà ricordare. Perché sebbene non tutti, col
crescere, si liberano dall’influenza della prevenzione, [2598] e acquistano
l’abito di giudicare da se generalmente parlando, pure, in quanto alle
sensazioni materiali, difficilmente possono mancare di acquistarlo,
essendo cosa di cui tutti gli spiriti sono capaci. Nondimeno anche questo
va in proporzione degl’ingegni, e della maggiore o minore
conformabilità, ed io ho espressamente veduto uomini di poco, o poco
esercitato talento, durar lunghissimo tempo a compiacersi di saporacci e
alimentacci ai quali erano stati inclinati nella fanciullezza. E ho veduto
pochi uomini il cui spirito dalla fanciullezza in poi abbia fatto notabile
progresso, pochi, dico, n’ho veduti, che anche intorno ai cibi non fossero
mutati quasi interamente di gusto da quel ch’erano stati nella puerizia.
Ben potrebbono tuttavia esser poco conformabili i sensi esteriori, o
qualcuno de’ medesimi, in un uomo di conformabilissimo ingegno. Ma si
vede in realtà che questo accade di rado, e per lo più la natura degli
individui (come quella delle specie, e dei generi, e come la natura
universale) si corrisponde appresso a poco in ciascuna sua parte. [2599] E
in questo caso particolarmente ciò è ben naturale, poiché la
conformabilità non è altro che maggiore o minor dilicatezza di organi e
di costruzione; e difficilmente si trovano affatto rozzi, duri, non
pieghevoli i tali o tali organi in un individuo che sia dilicatamente
formato nell’altre sue parti. Come infatti è osservato da’ fisici che l’uomo
(della cui suprema conformabilità di mente diciamo altrove) è parimente
di tutti gli animali il più abituabile, e il più conformabile nel fisico: però il
genere umano vive in tutti i climi, e uno individuo medesimo in vari
climi ec. a differenza degli altri animali, piante ec. Così mi faceva
osservare in Firenze il Conte Paoli. (6. Agosto. 1822.)
Quello che ho detto del vetro, si dee dire di mille e mille altre
importantissime invenzioni, che senza una benché menoma notizia e
traccia ec. che però il solo caso ha potuto somministrare, non si sarebbero
mai potute fare, e però son tutte casuali, per applicate, accresciute,
perfezionate che sieno state in seguito, e quando anche non si possano
più riconoscere da quel che furono [2607] a principio, non si possa
neanche investigare la loro prima origine e forma e natura, ec. ec. (10.
Agosto. 1822.)
Così tosto come il bambino è nato, convien che la madre che in quel
punto lo mette al mondo, lo consoli, accheti il suo pianto, e gli
alleggerisca il peso di quell’esistenza che gli dà. E l’uno de’ principali
uffizi de’ buoni genitori nella fanciullezza e nella prima gioventù de’ loro
figliuoli, si è quello di consolarli, d’incoraggiarli alla vita; perciocché i
dolori e i mali e le passioni riescono in quell’età molto più gravi, che non
a quelli che per lunga esperienza, o solamente per esser più lungo tempo
vissuti, sono assuefatti a patire. E in verità conviene che il buon padre e
la buona madre studiandosi di racconsolare i loro figliuoli, emendino alla
meglio, ed alleggeriscano il danno che loro hanno fatto col procrearli. Per
Dio! perché dunque nasce l’uomo? e perché genera? per poi racconsolar
quelli che ha generati del medesimo essere stati generati? (13. Agosto
1822.)
Dicasi quel che si vuole. Non si può esser grandi se non pensando e
operando contro ragione, e in quanto si pensa e opera contro ragione, e
avendo la forza di vincere la propria riflessione, o di lasciarla superare
dall’entusiasmo, che sempre e in qualunque caso trova in essa un
ostacolo, e un nemico mortale, e una virtù estinguitrice, e raffreddatrice.
(22. Agosto 1822.)
Non basta che lo scrittore sia padrone del proprio stile. Bisogna che il
suo stile sia padrone delle cose: e in ciò consiste la perfezion dell’arte, e la
somma qualità dell’artefice. Alcuni de’ pochissimi che meritano
nell’Italia moderna il nome di scrittori (anzi tutti questi pochissimi),
danno a vedere di essere padroni dello stile: vale a dir che il loro stile è
fermo, uguale, non traballante, non sempre sull’orlo di precipizi, non
incerto, non legato e rétréci, come quello di tutti gli altri nostri moderni,
francesisti o no, ma libero e sciolto e facile, e che si sa spandere e
distendere e dispiegare e scorrere, sicuro di non dir quello che lo scrittore
non vuole intendere, sicuro di non dir nulla in quel modo che lo scrittore
non lo vuol dire, sicuro di non dare in un altro stile, di non cadere in una
qualità che lo scrittore voglia evitare; procede a piè saldo senza
inciampare nè dubitare di se stesso, non va a trabalzoni, ora in cielo ora
in terra, or qua or là, ec. Tutte queste qualità nel loro stile si trovano, e si
dimostrano, cioè si fanno sentire al lettore. Questi tali son padroni del
loro stile. Ma il loro stile non è padrone delle cose, vale [2612] a dir che lo
scrittore non è padrone di dir nel suo stile tutto ciò che vuole, o che gli
bisogna dire, o di dirlo pienamente e perfettamente: e anche questo si fa
sentire al lettore. Perciocché spessissimo occorrendo loro molte cose che
farebbero all’argomento, al tempo, ec. che sarebbero utili o necessarie in
proposito, e ch’essi desidererebbero dire, e concepiscono perfettamente, e
forse anche originalmente, e che darebbero luogo a pensieri notabili e
belli; essi scrittori, ben conoscendo questo, tuttavia le fuggono, o le
toccano di fianco, e di traverso, e se ne spacciano pel generale, o ne
dicono sola una parte, sapendo ben che tralasciano l’altra, e che sarebbe
bene il dirla, o in somma non confidano o disperano di poterle dire o
dirle pienamente nel loro stile. La qual cosa non è mai accaduta ai veri
grandi scrittori, ed è mortifera alla letteratura. E per ispecificare; i detti
scrittori sono e si mostrano sicuri di non dare nel francese (cioè in quel
cattivo italiano che è proprio del nostro tempo, e quindi naturale anche a
loro, anzi solo naturale), ma non sono nè si mostrano sicuri di [2613]
poter dire nel buono italiano tutto quello che loro occorra; come lo erano
i nostri antichi. Anzi lasciano ottimamente sentire, che molte cose quasi
necessarie, e delle quali si compiacerebbero se le avessero potuto e
saputo dire nel buono italiano, e la cui mancanza si sente, e che molte
volte sono anche notissime a tutti in questo secolo, essi le tralasciano
avvertitamente, e le dissimulano, almeno da qualche necessaria parte, e
se ne mostrano o ignoranti, o poco istruiti, o di non averle concepite,
quando pur l’hanno fatto anche più degli altri, e che in somma non
ardiscono dirle per timore di offendere il buono italiano e il proprio stile.
Il qual timore e la quale impotenza assicurerebbe alla letteratura e
filosofia italiana di non dar mai più un passo avanti, e di non dir mai più
cosa nuova, come pur troppo si verifica nel fatto. (27. Agosto. 1822.)
Lo scriver francese tutto staccato, dove il periodo non è mai legato col
precedente (anzi è vizio la collegazione e congiuntura de’ periodi, come
[2614] nelle altre lingue è virtù), il cui stile non si dispiega mai, e non sa
nè può nè dee mai prendere quell’andamento piano, modesto
disinvoltamente, unito e fluido che è naturale al discorso umano, anche
parlando, e proprio di tutte le altre nazioni; questo tale scrivere, dico io,
fuor del quale i francesi non hanno altro, è una specie di Gnomologia. E
queste qualità gli convengono necessariamente, posto quell’avventato
del suo stile, di cui non sanno fare a meno i francesi, e senza cui non
trovano degno alcun libro di esser letto. Per la quale avventatezza lo
scrittore e il lettore hanno di necessità ogni momento di riprender fiato. E
par proprio così, che lo scrittore parli con quanto ha nel polmone, e
perciò gli convenga spezzare il suo dire, e fare i periodi corti, per
fermarsi a respirare. (28. Agosto 1822.). Effettivamente il tuono di
qualunque scrittura francese fin dalla prima sillaba è quello di uno che
parla ad alta voce. Tale riesce almeno per chi non [2615] è francese, e per
chi non è assuefatto durante tutta la sua vita a letture francesi ec. Quel
tuono moderato del discorso naturale, col qual tuono gli antichi aprivano
anche le loro Orazioni, e fra queste, anche [le] più veementi e passionate,
è una qualità eterogenea anche alle lettere familiari de’ francesi. (28.
Agosto 1822.)
Isocrate nel Panegirico p. 133. cioè prima del mezzo, (quando entra a
parlare delle due guerre Persiane) lodando i costumi e gl’istituti di coloro
che ressero Atene e Sparta innanzi al tempo d’esse guerre, dice, ἴδια
µὲνἄστη τὰς ἑαυτῶν πόλεις ἡγούµενοι, κοινὴν δὲ πατρίδα τὴν
῾Eλλάδα νοµίζοντες εἶναι. (30. Settembre 1822.)
A ciò che ho detto altrove delle voci ermo, eremo, romito, hermite,
hermitage, hermita ec. tutte fatte dal greco ἔρηµος, aggiungi lo spagnuolo
ermo, ed ermar (con ermador ec.) che significa desolare, vastare, appunto
come il greco ἐρηµόω. (3. Ottobre. 1822.). Queste voci e simili sono tutte
poetiche per l’infinità o vastità dell’idea ec. ec. Così la deserta notte, e tali
immagini di solitudine, silenzio ec.
Le sensazioni o fisiche o massimamente morali che l’uomo può
provare, sono, niuna di vero piacere, ma indifferenti o dolorose. Quanto
alle indifferenti la sensibilità non giova nulla. Restano solo le dolorose.
Quindi la sensibilità, benché [2630] assolutamente considerata sia
disposta indifferentemente a sentire ogni sorta di sensazioni, in sostanza
però non viene a esser altro che una maggior capacità di dolore. Quindi è
che necessariamente l’uomo sensibile, sentendo più vivamente degli
altri, e quel che l’uomo può vivamente sentire in sua vita non essendo
altro che dolore, dev’esser più infelice degli altri. Egli più capace
d’infelicità, e questa capacità non può mancar d’esser empiuta
nell’uomo. (5. Ottobre 1822.)
La lingua greca ch’è la più antica delle colte ben conosciute, è anche
fra tutte le lingue colte la più capace di significar l’idee e gli oggetti più
propriamente moderni cioè i più difficili a significarsi e di supplire ai
bisogni d’espressioni, prodotti dall’ampiezza, varietà e profondità delle
nozioni moderne. E il fatto stesso lo dimostra, ricorrendosi tutto dì alla
lingua greca ec. come ho detto altrove. (10. Ottobre. 1822.)
Ταύτης δὲ τῆς ἀνωµαλίας χαὶ τῆς ταραχῆς αἴτιόν ἐστιν ὀτι τῆν
βασιλείαν, ὥσπερ ἱεροσύνην, παντὸς ἀνδρὸς εἶναι νοµίζουσιν, ὃ (τ. ‘ε.
ἡ βασιλεία τῶν ἀνϑρωπίνον πραγµάτων µέγιστόν ἐστιν, καὶ πλείονος
[2636] προνοίας (all. codd. πλείστης) δεόµενο. Isocr. πρὸς Νικοκλέα p.
37. cioè a meno di tre piccole pagine dal principio dell’Oraz. (10. Ott.
1822)
Non c’è regola nè idea nè teoria di gusto universale ed eterno. Qual
potreb’ella essere, se non la natura? (e qual cosa è, o vero, essendo, si può
immaginare e intendere e concepire da noi, fuori della natura?) ma qual
natura, se non l’umana? Poiché le cose che cadono sotto la categoria del
buon gusto o del cattivo gusto, non sono considerate se non per rispetto
all’uomo. Or non è ella cosa manifestissima, che la natura dell’uomo si
diversifica moltissimo secondo i climi, secoli, costumi, assuefazioni,
governi, opinioni, circostanze fisiche, morali, politiche, ec. e queste,
individuali, nazionali ec. ec.? Resta dunque per tutta idea e teoria di
gusto [2637] universale ed eterno, un idea ed una teoria, che comprenda
solamente, e si fondi, e si formi di quei principii che, relativamente al
gusto, si trovano esser comuni a tutti gli uomini, e tenere alla primitiva e
immutabile natura umana. Ma questi principii, dico io che sono
pochissimi, ed applicabilissimi, conformabilissimi, e fecondi di
numerosissime e diversissime conseguenze (siccome lo sono tutti i
principii naturali, e veramente elementari, perché la natura è
semplicissima, pochi principii ha posto, e questi, infinitamente e
diversissimamente e anche contrariamente 20 modificabili): dal che segue
che questa idea e questa teoria d’un gusto che sia veramente universale
ed eterno, si riduce a pochissime regole, ed è infinitamente meno
circoscritta e distinta di quel che comunemente si crede; e lascia luogo a
infiniti [2638] gusti diversissimi ed anche contrarii fra loro (che noi
riproviamo, e perché ripugnano al gusto nostro o individuale o
nazionale, e questo forse momentaneo, li crediamo, al nostro solito,
contrarii all’universale ed eterno): anzi non solo lascia loro luogo, ma li
produce, non meno che quello ch’a noi pare il solo vero buon gusto ec.
(13. Ott. 1822.)
Ho detto altrove che gran parte delle voci che in poesia si chiamano
eleganti, e si tengono per poetiche, non sono tali, se non per esser fuori
dell’uso comune e familiare, nel quale già furono una volta (o furono
certo nell’uso degli scrittori in prosa); e conseguentemente per essere
antiche rispetto [2640] alla moderna lingua, benché non sieno antiquate.
E ciò principalmente cade nelle voci (o frasi) che sono oggidì
esclusivamente poetiche. Ho detto ancora che per tal cagione, non potendo
i primi poeti o prosatori di niuna lingua, aver molte voci nè frasi antiche
da usare ne’ loro scritti, e quindi mancando d’un’abbondantissima fonte
d’eleganza, è convenuto loro tenersi per lo più allo stile familiare, come
familiarissimo è il Petrarca ec., e sono stati incapaci dell’eleganza
Virgiliana.
Aggiungo ora che in fatti la poesia, appresso quelle nazioni ch’hanno
lingua propriamente poetica, cioè distinta dalla prosaica (e ciò fu tra le
antiche la greca, e sono tra le moderne l’italiana e la tedesca, e un poco
fors’anche la spagnuola) è conservatrice [2641] dell’antichità della lingua,
e quindi della sua purità, le quali due qualità sono quasi il medesimo, se
non che la prima di queste due voci dice qualcosa di più. Dell’antichità,
dico, è conservatrice la lingua poetica, sì ne’ vocaboli, sì nelle frasi, sì
nelle forme, sì eziandio nelle inflessioni, o coniugazioni de’ verbi, e in
altre particolarità grammaticali. Nelle quali tutte essa conserva (o segue
di tratto in tratto a suo arbitrio) l’antico uso, stato comune ai primi
prosatori, e quindi sbandito dalle prose. Ed ha notato il Perticari nel
Trattato degli Scrittori del Trecento che in tanta corruzione ultimamente
accaduta della nostra lingua parlata e scritta, lo scriver poetico s’era pur
conservato e si conserva puro; il che fino a un certo segno, e massime ne’
versificatori [2642] che non hanno molto preteso all’originalità (come gli
arcadici, i frugoniani ec. a differenza de’ Cesarottiani ec.) si trova esser
verissimo. Così fu nella lingua greca, che la poesia fu gran conservatrice
delle parole, modi, frasi, inflessioni, e regole e pratiche grammaticali
antiche. Ond’ella ha una lingua tutta diversa dalla sua contemporanea
prosaica. E ciò accade (parlo del conservar l’antichità e purità della
lingua), accade, dico, proporzionatamente anche nelle poesie che non
hanno lingua appartata, come la francese, e forse l’inglese. Se non altro,
queste poesie sono sempre più pure dello scriver prosaico appresso tali
nazioni, rispetto alla lingua. (15. Ottobre 1822.)
[2643] L’amor della vita cresce quasi come l’amor del danaio, e,
com’esso, cresce in proporzione che dovrebbe scemare. Perciocché i
giovani disprezzano e prodigano la vita loro, ch’è pur dolce, e di cui
molto avanza loro; e non temono la morte: e i vecchi la temono
sommamente, e sono gelosissimi della propria vita, ch’è miserabilissima,
e che ad ogni modo poco hanno a poter conservare. E così il giovane
scialacqua il suo, come s’egli avesse a morire fra pochi dì, e il vecchio
accumula e conserva e risparmia come s’avesse a provvedere a una
lunghissima vita che gli restasse. (24. Ottob. 1822.)
Cara spagn. cioè faccia, e così cera, e chére nello stesso senso, vengono
dal greco. V. Perticari Apol. di Dante part.2. c.5. not.1. p.75. (28. Ott.
1822.)
È bello a paragonare il luogo di Cicerone pro Archia da me recato
altrove, sulla ristrettezza geografica [2644] della lingua latina al suo
tempo, col luogo di Plutarco sulla sua immensa propagazione a tempo di
Traiano, il qual luogo è portato dal Perticari l. sop. cit. c.8. princip. p.88.
(28. Ottob. 1822.). Vedi anche il med. Pertic. ib. p.89. e 92-94.
Novembre 1822
[2653] Da rullus cioè circulator, roule, rouler etc. (8. Dic. 1822. dì della
Concezione di Maria SS.a)
Quin adeo de fin. 1. 3. ausus est Cicero latinam quoque linguam dicere
locupletiorem quam graecam, qua de re saepe se disseruisse confirmat.
Sed contradicunt merito primum ipse Cicero tusc. II. 15. et apud
Augustinum contra acad. II. 26; tum Lucretius 1. 140. 831; Fronto apud
Gellium II. 26. Maius ad Cic. de repub. p.67. not. (18. Dic. 1822.)
De Massiliae graecis legibus et litteratura, triplicique lingua, graeca
scilicet, latina et gallica, lege Varron. apud Isid. Orig. XV. 1. 63. et ap.
Hieron. prolog. lib. II. comm. ad Gal. (scil. in ep. D. Pauli ad Galat.).
Confer etiam Caesarem Bell. Civil. II. 12. Tacitum Agric. IV. Silium XV.
169. Homeri editio seu recensio massiliensis [2656] laudatur inter nobiles
in scholiis venetis. Maius loc. sup. cit. p.75. not.1. (18. Dic. 1822.)
Quod quantae fuerit utilitati post videro (onninamente per videbo) Cic. de re
publ. l.2. c.9. Rom. 1822. p. 142. v. ult. Luogo da aggiungersi a quelli che ho
recati altrove per dimostrare l’uso antico del futuro ottativo in vece del
futuro indicativo; uso da cui sono nati tutti i futuri di tutti i verbi italiani
francesi e spagnuoli, distintiva de’ quali futuri e caratteristica è sempre la
r. (19. Dic. 1822.)
Ad Cic. de re publ. II. 10. p.143. v. ult. ubi legitur septem, haec Maius
editor ib. not. c. Cod. SEPTE. Iam M finalem omitti interdum in antiquis
codicibus exploratum est. An vero illud SEPTE e lingua rustica est? Certe
ita fere nunc loquuntur Itali. (19. Dic. 1822.). Nel Conspectus
Orthographiae Codicis Vaticani aggiunto dal Niebuhr a questa ediz., si
legge p.352. col.2. SEPTE (II. 10.) et MORTUS (II. 18.) a desciscente in
vulgarem sermone tracta sunt. Le sillabe finali am em ec. s’elidevano ne’
versi. Dunque l’m infatti non si pronunziava. V. i miei pensieri sulla
sinizesi. V. la pag. 2658.
[2658] Nella republ. di Cic. succitata, al c. 37. del lib. 2. p. 203. v.1.-2,
dove l’edizione ha res publica richiedendosi in fatti il nominativo, il Cod.
ha repubblica, quasi fosse italiano. Dal che apparisce che anche
anticamente s’usava di tralasciare l’s finale nel pronunziare le voci latine,
come si lascia nelle nostre lingue. (21. Dic. 1822.). Infatti è nota l’apocope
della s nella fine delle voci presso gli antichi poeti latt. V. la p. 2656,
marg.
Circa la mia opinione che troia nell’antico latino volesse dire come in
italiano scrofa, vedi nel Forcellini troianus aggiunto di porcus, e che cosa
ne dica. (Roma 28. Dicembre 1822.)
Gennaio 1823
Il Padre Sforza Pallavicino nel Trattato dello Stile e del Dialogo, Capo 27,
intitolato Si stabilisce quali Autori deono esser seguiti nelle materie scientifiche
da quelli che scrivono in Italiano, ovvero in Latino (ristampa di Modena 1819.
pag. 175-8.) dà decisa ed universale, e non relativa ma assoluta
preferenza agli [2663] scrittori, stile e lingua del 500, (e del seguente secolo
ancora, in cui egli scriveva) sopra quelli e quella del 300. (5. Gennaio
1823.)
Nell’Oratore di Cic. num. 196. illa ipsa delectarent, leggi non delectarent.
(11. Gen. 1823.)
Transferenda tota dictio est ad illa quae nescio cur, quum Graeci
κόµµατα et κῶλα nominent, nos non recte incisa et membra dicamus.
Neque enim esse possunt rebus ignotis nota nomina; sed, quum verba
aut suavitatis aut inopiae causa transferre soleamus, in omnibus hoc fit
artibus, ut, quum id appellandum sit quod, propter rerum ignorationem
ipsarum, nullum habuerit ante nomen, necessitas cogat aut novum facere
verbum, aut a simili mutuari. Cic. Orator, num.209. (11. Gen. 1823.)
Sopra quello che ho detto altrove che l’uso de’ sacrifizi nacque
dall’egoismo del timore. Toutes les fois que le courroux des dieux se déclare
par la famine, par une épidémie ou d’autres fléaux on tâche de le détourner sur
un homme et sur une femme du peuple, entretenus par l’état pour être, au
besoin, des victimes expiatoires, chacun au nom de son sexe. On les promène
dans les rues au son des instrumens; et après leur avoir donné quelques coups de
verges, on les fait sortir de la ville (d’Athènes). Autrefois on les condamnoit
aux flammes et on jetoit leurs cendres au vent. (Aristoph. in equit. v. 1133.
Schol. ibid. Id. in ran. v. 745. Schol. ib. Hellad. ap. Phot. p.1590. Meurs.
graec. fer. in thargel.). Voyage du jeune [2670] Anacharsis en Grèce t.2.
ch. 21. 2e édit. Paris 1789. p. 395. Vedete anche nello stesso capit. la 3°
pag. avanti a questa, circa i sacrifizi di vittime umane, i quali si facevano
principalmente ne’ maggiori pericoli e timori, come dice altrove il
medesimo autore. (7. Feb. 1823.). V. p. 2673.
[2672] Le plus grand des malheurs est de naître, le plus grand des
bonheurs, de mourir. (Sophocl. Oedip. Colon. v. 1289. Bacchyl. et alii ap.
Stob. serm.96. p. 530. 531. Cic. tusc. l.1. c. 48. t. 2. p. 273.) La vie, disoit
Pindare, n’est que le rêve d’une ombre (Pyth. 8. v. 136.); image sublime,
et qui d’un seul trait peint tout le néant de l’homme. Même ouvrage. ch.
28. p. 137. t. 3. (10. Feb. 1823.)
Les plaisirs de l’esprit ont des retours mille fois plus amers que ceux
des sens. ib. p.139. (10. Feb. 1823.)
Alla p. 2670. Le peuple de Leucade qui célèbre tous les ans la fête
d’Apollon, est dans l’usage d’offrir à ce dieu un sacrifice expiatoire, et de
détourner sur la tête de la victime tous les fléaux dont il est menacé. On
choisit pour cet effet un homme condamné à subir le dernier supplice.
On le précipite dans la mer du haut de la montagne de Leucade. Il périt
rarement dans les flots; et après l’en avoir sauvé, on le bannit à
perpétuité des terres de Leucade. (Strab. l. 10. p. 452. Ampel. memorab. c.
8.) Voyage d’Anacharsis etc. ch. 36. t. 3. p. 402. (17. Feb. 1823.)
Dei beni umani il più supremo colmo È sentir meno il duolo. Sentenza che
racchiude la somma di tutta la filosofia morale e antropologica. Poeta
antico nel luogo citato qui sopra. (19. Feb. 1823.)
[2674] ῎Εµβραχυ per insomma, denique ec. come noi diciamo appunto
in breve. Platone, Gorgia, ed. principe Ald. t… p. 457. A. (19. Feb. 1823.)
Grave non è nè a farsi nè a soffrirsi Quello a che noi necessità
costringe. Tragico antico, ap. Plut. Discorso di consolazione ad
Apollonio, una pagina avanti il mezzo. Volgarizzamento di Marcello
Adriani il giovine. Fir. 1819. t. 1. p.194. (20. Feb. 1823.)
Gli scrittori greci più eleganti ed attici e antichi sogliono usare la voce
ϕησὶ per ϕασὶ nel significato di aiunt, è fama, on dit, il singolare invece
del plurale (forma ellittica per ϕησι τις uom dice, altri dice). Così noi
volgarmente tutto giorno, e non solo noi nel parlare, ma eziandio gli
scrittori nostri, massime del trecento, usiamo dice per dicono, altri dice,
l’uom dice, un dice (on dit). Passavanti Ediz. Venez. del Bortoli p. 251. E
così DICE che fa il Leone. Mi ricordo di aver trovato questa frase anche in
altri trecentisti, e mi par senza fallo nelle Vite de’ Santi Padri. Quest’uso
che noi abbiamo comune cogli antichissimi e più eleganti e puri scrittori
greci, per qual mezzo ci può esser venuto se non per quello dell’antico
[2677] volgar latino? Sempre ch’io trovo qualche conformità frappante fra
il greco e l’italiano (massime l’italiano volgare, popolare, corrente e
parlato) e così il francese e lo spagnuolo, conformità che non appartenga
alla natura generale delle favelle, ma alle proprietà arbitrarie ed
accidentali delle lingue, se quella tal qualità o parte ec. sopra cui cade
questa conformità, non si trova negli scrittori latini, io tengo per fermo
ch’ella si trovasse nel latino parlato, cioè nel volgar latino. Giacché
questo ebbe commercio col volgar greco, e quel ch’è più, venne da una
medesima fonte col greco; e da esso volgar latino è venuto il nostro
volgare. Ma qual commercio ebbe mai il nostro volgare col volgar greco,
cioè col greco parlato, e massime coll’antico? qual commercio poi col
greco scritto, e questo pure antichissimo? Quanto al nostro caso, io non
credo che negli scrittori latini si trovi p.e. ait in vece di aiunt. Ma veggasi
il Forcellini. (Roma 2. Marzo 1823.). V. p. 2987.
In vero rare volte interviene che chi non è assueto [2683] a scrivere,
per erudito che egli si sia, possa mai conoscer perfettamente le fatiche ed
industrie degli scrittori, nè gustar la dolcezza ed eccellenza degli stili, e
quelle intrinseche avvertenze che spesso si trovano negli antichi. Il
medesimo, ivi, p. 79. Da quanto pochi adunque può sperar degna, vera
ed intima e piena e perfetta stima e lode il perfetto scrittore o poeta! e per
quanto pochi scrive e prepara piaceri colui che scrive perfettamente! V. p.
2796. (15. Marzo. 1823.)
Sopra il verbo difendere usato già dagli antichi Latini come da’ francesi
e dagli antichi italiani e dagli spagnuoli per proibire, vedi Perticari
Apologia di Dante p.157. (Recanati 12. Maggio 1823.)
Degli scrittori non romani che scrissero in latino, e son tenuti classici
in quella lingua e letteratura vedi Perticari, Apologia di Dante, capo 30.
p. 314-16. (Recanati 16. Maggio. 823.)
[2694] Formata una volta una lingua illustre, cioè una lingua ordinata,
regolare, stabilita e grammaticale, ella non si perde più finché la nazione
a cui ella appartiene non ricade nella barbarie. La durata della civiltà di
una nazione è la misura della durata della sua lingua illustre e viceversa.
E siccome una medesima nazione può avere più civiltà, cioè dopo fatta
civile, ricadere nella barbarie, e poi risorgere a civiltà nuova, ciascuna sua
civiltà ha la sua lingua illustre nata, cresciuta, perfezionata, corrotta,
decaduta e morta insieme con lei. Il qual rinnuovamento e di civiltà e di
lingua illustre, ha, nella storia delle nazioni conosciute, o vogliamo
piuttosto dire, nella storia conosciuta, un solo esempio, cioè quello della
nazione italiana. Perché niuna delle altre nazioni state civili in antico,
sono risorte a civiltà moderna e presente, e niuna delle nazioni
presentemente civili, fu mai civile (che si sappia) in antico, se non
l’italiana. Così niun’altra nazione può mostrare due lingue illustri da
[2695] lei usate e coltivate generalmente, (come può far l’italiana) se non
in quanto la nostra antica lingua, cioè la latina, si diffuse insieme coi
nostri costumi per l’Europa a noi soggetta, e fece per qualche tempo
italiane di costumi e di lingua e letteratura le Gallie, le Spagne, la
Numidia (che non è più risorta a civiltà) ec.
Ma tornando al proposito nostro, siccome la Grecia, in tutta la storia
conosciuta, è la nazione che per più lungo tempo ha conservato una
civiltà, così la lingua greca illustre è di tutte le lingue illustri conosciute
nella storia antica o moderna, quella che ha durato più lungo tempo.
Sebbene nei secoli bassi la civiltà greca fosse in gran decadenza, e
similmente e proporzionatamente la lingua greca illustre, nondimeno la
Grecia non divenne assolutamente barbara, se non dopo la presa di
Costantinopoli, conservandosi almeno qualche parte della civiltà greca,
se [2696] non altro, nella Corte di Bisanzio finché questa durò. E fino a
questo medesimo termine durò ancora la lingua greca illustre, in maniera
che gli scrittori greci di questi ultimi tempi, come Teofilatto e quei della
Storia Bizantina, sono per la più parte intelligibili e piani senz’altro
particolare studio, a tutti quelli che intendono Omero ed Erodoto. Di
modo che la lingua greca illustre durò sempre una e sempre quella, per
23 secoli, cioè da Omero fino all’ultimo imperatore greco. Durata
maravigliosa: ma tale altresì fu quella della greca civiltà. Perché la Grecia
per niuna circostanza di tempi non divenne mai interamente barbara
finché non fu tutta suddita de’ turchi; nè mai per tutto l’intervallo de’
secoli antecedenti fu priva di letteratura, neanche ne’ peggiori secoli,
come si può vedere, considerando anche solamente la Biblioteca di Fozio
scritta nel nono secolo, e le varie opere di Tzetze [2697] scritte nel 12°
oltre il Violario d’Eudocia Augusta, il Lessico di Suida ec. opere che in
niun’altra parte del mondo fuor della parte greca, quando pur fossero
state tradotte nelle rispettive lingue, si sarebbero a quei tempi sapute
neppure intendere, non che comporne delle simili.
La lingua illustre latina nata tanto più tardi, tanto più presto morì,
perché la civiltà italiana e quella di tutta l’Europa latina per diverse
circostanze finì pochissimi secoli dopo nata. Già quando Costantino
trasportò la corte in Bisanzio, la Grecia vinceva d’assai e per civiltà e per
letteratura il mondo latino, e massimamente l’Italia. E forse questa fu una
delle cagioni che indussero Costantino a quel traslocamento, il quale fu
poi un’altra circostanza che contribuì a mantenere la civiltà in Grecia, e
seco la lingua illustre (coltivata poi da Temistio, da Libanio, da Giuliano
imperatore da Giamblico, da Gregorio, da Basilio ben superiori in [2698]
grecità a quello che furono in latinità Girolamo, Agostino, Ambrogio,
Gregorio e Leone Papi, Ammiano, Boezio), ed aiutò la corruzione ed
estinzione della civiltà e della lingua illustre latina, massime in Italia,
dove mancò affatto una corte latina. La quale per poco tempo fu nelle
Gallie, e vi produsse Sidonio e Pacato e gli altri nobili letterati di que’
tempi, e fece per allora quella provincia superiore senza comparazione
per latinità, letteratura e civiltà alla stessa Italia che le avea compartite
alle Gallie. Finché le conquiste fatte dai Barbari distrussero affatto e la
civiltà e la lingua illustre in tutta l’Europa latina.
La nuova nostra lingua illustre fu sufficientemente organizzata e
stabilita nel 300 insieme colla nuova civiltà italiana. Questa ancor dura e
non s’è mai più perduta. Dunque anche la lingua italiana illustre del 300,
nè si è mai perduta, e dura ancora dopo ben cinque secoli: e quei
trecentisti che più si divisero dal parlar plebeo e dai particolari dialetti
separati, o (come in [2699] Dante) mescolati, quali sono il Petrarca, il
Boccaccio, il Passavanti, il traduttore delle Vite de’ Padri, eccetto alcune
poche e sparse parole o frasi, sono ancora moderni per noi, e la loro
lingua è fresca e viva, come fosse di ieri. La differenza tra essi e noi sta
quasi tutta nello stile e ne’ concetti. V. p. 2718.
Al contrario le lingue non bene o sufficientemente organizzate e
regolate, variano continuamente e in breve si spengono quasi affatto, e
fanno luogo a lingue quasi nuove, anche durando il medesimo stato della
nazione, sia di civiltà (se pur vi fu mai civiltà non accompagnata da
lingua illustre), sia di maggiore o minore barbarie. La lingua provenzale
benché scritta da tanti in poesia ed in prosa, pure perché non ordinata
sufficentemente nè ridotta a grammatica, è tutta morta dopo brevissima
vita. E degli stessi trecentisti italiani, quelli che più s’accostarono al dir
plebeo e provinciale, fosse fiorentino o qualunque, siccome tanti scrittori
fiorentini o toscani di cronichette o d’altro, sono già da gran tempo
scrittori di lingua per grandissima [2700] parte morta; giacché infinite
delle loro voci, frasi, forme e costruzioni più non s’intendono nelle stesse
loro provincie, o vi riescono strane, insolite, affettate, antiquate e
invecchiate. Vedi Perticari Apologia di Dante, capo 35. e specialmente p.
338.-45. (17. Maggio. 1823.).
La voce popolare bobò che significa presso di noi uno spauracchio de’
fanciulli simile al µορµ ec. dei greci, alle Lammie de’ latini ec. [2704] (V.
il mio Saggio sugli errori popolari) non è altro che un sostantivo formato
dalle due voci bau bau (colla solita mutazione dell’au in o), o piuttosto le
stesse due voci sostantivate, e ridotte a significare una persona o spettro
che manda fuori quelle voci bau bau. Le quali sono voci antichissime e
comuni ai greci che con esse esprimevano l’abbaiare dei cani, e quindi
fecero il verbo βαΰζειν; ai latini che ne fecero nello stesso senso il verbo
baubari, e a noi che ne abbiamo fatto baiare e quindi abbaiare (se pur questi
verbi non vengono dal suddetto latino), onde il francese antico abaïer e il
moderno aboyer de’ quali verbi vedi il Dizionario di Richelet. Vedi anche
la pag. 2811.-13. Ma dall’esprimere la voce de’ cani, le parole bau bau
passarono a significare una voce che spaventasse i fanciulli. Vedi la
Crusca in Bau. Quindi il nostro Bobò sostantivo di persona. Presso i
francesi bobo è voce parimente puerile che significa un petit mal, cioè
quello che le nostre balie dicono bua, la qual [2705] voce fu pur delle balie
latine, ma con altro significato, cioè con quello che le nostre dicono
bumbù, o come ha la Crusca, bombo. Vedi Forcellini. I Glossari non hanno
nulla al proposito. (20. Maggio 1823.).
Dell’antico volgare latino, vedi Perticari Degli scrittori del 300. lib.1.
cap.5. 6. 7. (21. Maggio 1823.).
Perticari, Degli Scritt. del 300. l.2. c.2. p.106-7. fa derivare il nome
italiano carogna da un’antica voce greca. (22. Maggio 1823.).
Di quelli che nel 500. volevano restringere la lingua italiana della
poesia a quella del Petrarca, e della prosa a quella del solo Boccaccio,
vedi Perticari Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 12. p. 178. colle similitudini che
ivi pone de’ greci e de’ latini, e Apologia di Dante c. 41. p. 407-10. (23.
Maggio 1823.).
Chi vuol vedere un piccolo esempio della infinita varietà della lingua
greca, e come ella sia innanzi un aggregato di più lingue che una lingua
sola, secondo che ho detto altrove; e vuol vederlo in uno stesso scrittore e
in uno stesso libro; legga il Fedro di Platone. Nel quale troverà, non dico
tre stili, ma tre vere lingue, l’una nelle parole che compongono il Dialogo
tra Socrate e Fedro, la quale è la solita e propria di Platone, l’altra nelle
due orazioni contro l’amore, in persona di Lisia e di Socrate; la terza
nell’orazione di questo in lode dell’amore. Perciocché Platone in queste
orazioni adopra e vocaboli e frasi e costrutti [2718] notabilissimamente e
visibilmente diversi da quelli che compongono la lingua ordinaria de’
suoi Dialoghi, sebbene in questi egli tratta bene spesso le medesime o
simili materie a quelle delle tre suddette orazioni, massime dell’ultima. E
i vocaboli, le frasi, i costrutti dell’ultima orazione (di stile tutta poetica,
ma non perciò tumida o esagerata o eccessiva o tale che non sia vera
prosa) sono pure diversissimi da quelli delle altre due. Nè in veruna di
queste tre lo scrittore fa forza alla lingua, o dimostra affettazione, come
fecero poi quei greci più recenti che si scostarono dalla maniera propria
per seguire e imitare l’altrui. Ma certo chi non conoscesse altra lingua
greca che la consueta di Platone, non senza una certa difficoltà potrebbe
intendere quelle tre orazioni. (23. Maggio. 1823.).
Alla p. 2699. Di quelli scrittori del 300 che usarono lingua più illustre
e comune, o manco plebea e provinciale o municipale, vedi Perticari
[2719] Degli Scritt. del 300. l. 2. c. 6. È da notare che molte differenze che
s’incontrano in questi scrittori fra la loro lingua e la presente, non sono
da attribuire alla lingua di quel secolo. Ma elle sono tutte proprie degli
scrittori medesimi. I quali in quei primi cominciamenti della nostra
lingua illustre, in quella scarsezza di esempi, e quindi di regole della
lingua volgare scritta, seguirono quali una strada e quali un’altra, sì nel
trovare o crear le voci ai dati oggetti, sì nel collegarle, come quelli
ch’erano i primi; e spesso per mancanza d’arte, per cattivo gusto, per
povertà di voci o di modi propria loro o della lingua, per vaghezza di
novità, o per sola ignoranza, e poca conoscenza della loro stessa lingua
scritta o parlata, e per non sapere scrivere, divisero le loro scritture dalla
lingua parlata molto più che non si doveva, o in quelle cose e in quelle
guise che non si doveva; non volendo esser plebei, furono qua e là mostri
di locuzione; non sapendo esprimersi, inventarono parole e forme tutte
loro, tutte barbare; introdussero nelle scritture molti vocaboli e modi
latini o provenzali durissimi e [2720] ripugnanti all’indole della favella
comune o particolare, illustre o plebea, di quel medesimo secolo. Della
qual favella pertanto in queste cose non si può nè si dee fare argomento
da quelle scritture. Perché quelle mostruosità e stranezze, che noi
crediamo e chiamiamo comunemente arcaismi, come non si parlano ora
nè si scrivono, così non furono mai parlate nè pure in quel secolo, nè
scritte se non da uno o da pochi; e quindi non sono proprie della lingua
del 300 ma di quei particolari scrittori. E neanche nei secoli seguenti al
suddetto, fino a noi, non furono mai parlate da alcuno in Italia, nè scritte
se non da qualche pedantesco imitatore, e razzolatore degli antichi, de’
quali pedanti ve n’ha gran copia anche oggidì. Ma l’autorità di questi
non fa la lingua nè presente nè passata. Vedi anche circa queste
mostruosità arbitrarie e particolari di tale o tale [2721] trecentista, il
Perticari loc. cit. p.13-5. e massime p.136. fine. (23. Maggio 1823.).
Anche il Gelli confessava (ap. Perticari Degli Scritt. del Trecento l.2.
c.13. p.183.) che la lingua toscana non era stata applicata alle scienze. (24.
Maggio 1823.).
Aristotele diceva più essere le cose che le parole: e il Perticari loc. cit. p.
187-8. spiega ed applica questa sentenza alla necessità di far sempre
nuovi vocaboli per le nuove cognizioni e idee. (24. Maggio 1823.).
Della necessità di far nuove voci alle nuove cose, o alle cose non mai
trattate da’ nazionali, e che ciascuna scienza o arte abbia i suoi termini
propri e divisi da quelli delle altre scienze e del dir comune, vedi
Cicerone de finibus l.3. c.1-2. (24. Maggio 1823.).
[2722] Delle lingue vive non accade quello che delle lingue le quali
più non si parlano. Queste, a guisa di pianta che più non vegeta, non
possono ricevere accrescimento; e tutto quello, che a lor riguardo si può
fare da noi, si è di serbarle diligentemente nello stato in cui sono;
perciocché in esse ogni alterazione tende a corrompimento. Al contrario
le lingue che sono vive, vegetano tuttora, e possono crescere di più in più: e in
esse le piccole mutazioni, che si vanno facendo di tempo in tempo, non sono
segnali certi di corrompimento; anzi sono talora di sanità e vigoria. E però
coloro, i quali non vorrebbon che i nostri scritti avessero altro sapore che
di Trecento, nocciono alla lingua, perché si sforzano di ridurla alla
condizione di quelle che sono morte, e, in quanto a loro sta, ne diseccano i
verdi rami, sicch’ella non possa, contro all’avviso d’Orazio, più vestirsi di
nuove foglie. Quest’autore vivea pure nel secol d’oro [2723] della lingua
latina, e nel tempo in cui essa era nel suo più florido stato: e tuttavia
perch’ella era ancor viva, egli pensava ch’essa potesse arricchirsi vie
maggiormente e ricevere nuove forme di favellare. Nota dell’Abate
Colombo alle Lezioni sulle Doti di una colta favella con una non più stampata
sullo stile da usarsi oggidì ed altre operette del medesimo autore (cioè
dell’Abate Colombo). Parma per Giuseppe Paganino 1820. (ediz. 2da
delle tre prime Lezioni e delle altre operette, fuorché d’una). Lezione IV,
Dello Stile che dee usare oggidì un pulito Scrittore. pag.96. (antepenultima
delle Lezioni). nota a. (25. Maggio. Domenica della SS. Trinità. 1823.).
Per quanto voglia farsi, non si speri mai che le opere degli scienziati si
scrivano in bella lingua, elegantemente e in buono stile (con arte di stile).
Chiunque si è veramente formato un buono stile, sa che immensa fatica
gli è costato l’acquisto di quest’abitudine, quanti anni spesi unicamente
in questo studio, quante riflessioni profonde, quanto esercizio dedicato
unicamente a ciò, quanti confronti, quante letture destinate a questo solo
fine, quanti tentativi inutili, e come solamente a poco a poco dopo
lunghissimi travagli, e lunghissima assuefazione gli sia finalmente
riuscito di possedere il vero sensorio del bello scrivere, la scienza di tutte
le minutissime parti e cagioni di esso, e finalmente l’arte di mettere in
opera esso stesso quello che non senza molta difficoltà [2726] è giunto a
riconoscere e sentire ne’ grandi maestri, arte difficilissima ad acquistare,
e che non viene già dietro per nessun modo da se alla scienza dello stile;
bensì la suppone, e perfettissima, ma questa scienza può stare e sta
spessissimo senza l’arte. Ora gli scienziati che fino da fanciulli hanno
sempre avuta tutta la loro mente e tutto il loro amore a studi diversissimi
e lontanissimi da questi, come può mai essere che mettendosi a scrivere,
scrivano bene, se per far questo si richiede un’arte tutta propria della
cosa, e che domanda tutto l’uomo, e tanti studi, esercizi, e fatiche? E
come si può presumere che gli scienziati si assoggettino a questi studi e
fatiche, non avendoci amore alcuno, ed essendo tutti occupati e pieni di
assuefazioni ripugnanti a queste, e mancando loro assolutamente il
tempo necessario per un’arte che domanda più tempo d’ogni altra? Oltre
di ciò i più perfetti possessori di quest’arte, dopo le [2727] lunghissime
fatiche spese per acquistarla, non sono mai padroni di metterla in opera
senza che lo stesso adoperarla riesca loro faticosissimo e lunghissimo,
perché certo neppure i grandi maestri scrivono bene senza gravissime e
lunghissime meditazioni, e revisioni, e correzioni, e lime ec. ec. Si può
mai pretendere o sperare dagli scienziati questo lavoro, il quale è tanto
indispensabile come quello che si richiede ad acquistare l’arte di bene
scrivere?
Per gli scienziati ch’io escludo dalla possibilità di scriver bene ed
elegantemente, non intendo i moralisti, i politici, gli scrutatori del cuore
umano e della natura umana, i metafisici, insomma i filosofi
propriamente detti. Le scienze di costoro non sono molto lontane da
quella che si richiede a bene scrivere, nè le loro abitudini ripugnano
all’abitudine e alla riflessione che produce il bello, il semplice, l’elegante.
Anzi Cicerone diceva che senza filosofia non si dà perfetto oratore; e lo
stesso si può dire [2728] del perfetto scrittore d’ogni genere. La scienza
del bello scrivere è una filosofia, e profondissima e sottilissima, e tiene a
tutti i rami della sapienza. Di più la materia stessa di tali discipline è
suscettibilissima d’eleganza. Quindi molti ottimi scrittori antichi e
moderni ha fornito questa sorta di dottrine.
Io escludo dal bene scrivere i professori di scienze matematiche o
fisiche, e di quelle che tengono dell’uno e dell’altro genere insieme, o che
all’uno o all’altro s’avvicinano. E di questa sorta di scienze in verità non
abbiamo buoni ed eleganti scrittori nè antichi nè moderni, se non
pochissimi. I greci trattavano queste scienze in modo mezzo poetico,
perché poco sperimentavano e molto immaginavano. Quindi erano in
esse meno lontani dall’eleganza. Ma certo essi ne furono tanto più
lontani, quanto più furono esatti. Platone è fuori di questa classe. Gli
antichi lodano assai lo stile d’Aristotele e di Teofrasto. Può essere
ch’abbiano riguardo ai loro scritti politici, morali, metafisici, piuttosto
che ai naturali. Io dico il vero che nè in questi [2729] nè in quelli non
sento grand’eleganza. (Quel ch’io ci trovo è purità di lingua e un
sufficiente e moderato atticismo: l’uno e l’altro, effetto del secolo e della
dimora anzi che dello scrittore, e insomma natura e non arte. Niuna
eleganza però nè di stile nè di parole. Anzi sovente grandissima
negligenza sì nella scelta sì nell’ordine e congiuntura de’ vocaboli; poca
proprietà, e non di rado niuna sintassi.) Ben la sento e moltissima in
Celso, vero e forse unico modello fra gli antichi e i moderni del bello stile
scientifico-esatto. Col quale si potrà forse mettere Ippocrate. I latini
ebbero pochi scrittori scientifici-esatti. E di questi, fuori di Celso, qual è
che si possa chiamare elegante? Non certamente Plinio, il quale se si
vorrà chiamar puro, si chiamera così, perché anch’egli per noi fa testo di
latinità. Lascio Mela, Solino, Varrone, Vegezio, Columella ec. Il nostro
Galileo lo chiami elegante chi non conosce la nostra lingua, e non ha
senso dell’eleganza. (Vedi GIORDANI, Vita del Cardinale Pallavicino). Il
Buffon sarebbe unico fra’ moderni per il modo elegante di trattare le
scienze esatte: ma oltre che la storia naturale si presta all’eleganza più
d’ogni altra di queste scienze; tutto ciò che è elegante in lui, è estrinseco
alla scienza propriamente detta, [2730] ed appartiene a quella che io
chiamo qui filosofia propria, la quale si può applicare ad ogni sorta di
soggetti. Così fece il Bailly nell’Astronomia. Sempre che usciamo dei
termini dottrinali e insegnativi d’una scienza esatta, siamo fuori del
nostro caso. La scienza non è più la materia ma l’occasione di tali
scritture; non s’impara la scienza da esse, nè questa fa progressi diretti,
per mezzo loro, nè riceve aumento diretto dalle proposizioni ch’esse
contengono: elle sono considerazioni sopra la scienza. (28. Maggio.
Vigilia del Corpus Domini. 1823.). I pensieri di Buffon non compongono
e non espongono la scienza, non sono e non contengono i dogmi della
medesima, o nuovi dogmi ch’esso le aggiunga, ma la considerano, e
versano sopra di lei e sopra i suoi dogmi. Si può ornare una materia coi
pensieri e colle parole. Tutte le materie sono capaci dell’ornamento de’
pensieri, perché sopra ogni cosa si può pensare, e stendersi col pensiero
quanto si voglia, più o meno lontano dalla materia strettamente presa.
Ma non tutte si possono ornare colle parole. Il Buffon adornò la scienza
con pensieri [2731] filosofici, e a questi pensieri non somministrati ma
occasionati dalla storia naturale, applicò l’eleganza delle parole,
perch’essi n’erano materia capace. Ma i fisici, i matematici
ordinariamente non possono e non vogliono andar dietro a tali pensieri,
ma si ristringono alla sola scienza.
Chiamo qui scienze esatte 23 tutte quelle che ancorché non sieno
ancora giunte a un cotal grado di perfezione e di certezza, pure di natura
loro debbono esser trattate colla maggior possibile esattezza, e non
danno luogo all’immaginazione (della quale il Buffon fece grandissimo
uso), ma solamente all’esperienza, alla notizia positiva delle cose, al
calcolo, alla misura ec. (30. Maggio. 1823.).
Opra sincope di opera si trova in Ennio (ap. Forcell. v. opera, fin.), come
nei nostri poeti opra e [2740] oprare e adoprare ec. Tan alla spagnuola per
tam nel cod. antichissimo di CICERONE, de Repub. l. 1. c. 9. p. 26. ed. Rom.
1822. dove vedi la nota del Mai. (3 Giugno. 1823.).
Per esempio d’uno dei tanti modi in cui gli alfabeti, ch’io dico esser
derivati tutti o quasi tutti da un solo, si moltiplicarono e diversificarono
dall’alfabeto originale, secondo le lingue a cui furono applicati, può
servire il seguente. Nell’alfabeto fenicio, ebraico, samaritano ec. dal quale
provenne l’alfabeto greco, non si trova il ψ, carattere inutile perché
rappresenta due lettere; inventato, secondo Plinio, da Simonide,
proccurato vanamente dall’Imperatore Claudio d’introdurre nell’alfabeto
latino, che parimente ne manca, sebbene derivi dall’origine stessa che il
greco; e in luogo del quale si trovano negli antichi monumenti greci i due
caratteri π σ. (Secondo i grammatici il ψ vale ancora βσ e ϕσ; ma essi lo
deducono dalle inflessioni ec. come ἄραψ ἄραβος, ἄραβες, ἄραψι ec.
Non so nè credo che rechino alcun’antica inscrizione ec.) Vedi p. 3080.
Ora ecco come dev’esser nato questo carattere che distingue l’alfabeto
greco dal fenicio. Nella lingua greca, [2741] per proprietà sua, è
frequentissimo questo suono di ps: ed ogni lingua ha di questi suoni che
in lei sono più frequenti e cari che nelle altre. Gli scrivani adunque
obbligati ad esprimerlo bene spesso, incominciarono per fretta ad
intrecciare insieme quei due caratteri πσ ogni volta che occorreva loro di
scriverli congiuntamente. Da quest’uso, nato dalla fretta, nacque una
specie di nesso che rappresentava i due sopraddetti caratteri; e questo
nesso che da principio dovette conservare parte della forma d’ambedue i
caratteri che lo componevano, adottato generalmente per la comodità che
portava seco, e per la brevità dello scrivere, appoco appoco venne in
tanto uso che occorrendo di scrivere congiuntamente il π e il σ, non si
adoperava più se non quel nesso, che finalmente per questo modo venne
a fare un carattere proprio, e distinto dagli altri [2742] caratteri
dell’alfabeto, destinato ad esprimere in qualunque caso quel tal suono:
ma destinato a ciò non primitivamente, nè nella prima invenzione o
adozione dell’alfabeto greco, e nella prima enumerazione de’ suoni
elementari di quella lingua o della favella in genere; ma per comodità di
quelli che già si servivano da gran tempo del detto alfabeto. Di modo che
si può dire che questo carattere non sia figlio del suono ch’esso esprime,
come lo sono quelli ch’esprimono i suoni elementari, ma figlio di due
caratteri preesistenti nell’alfabeto greco, e quindi quasi nepote del suono
che per lui è rappresentato. La grammatica e le regole dell’ortografia ec.
non esistevano ancora. Venute poi queste, e prendendo prima di tutto ad
esaminare e stabilire l’alfabeto nazionale, trovato questo nesso già
padrone dell’uso comune, e sottentrato in luogo di carattere distinto e
non doppio [2743] ma unico, lo considerarono come tale, gli diedero un
posto proprio nell’alfabeto greco tra i caratteri elementari, e fissarono per
regola che quel tal suono ps si esprimesse, come già da tutti si esprimeva,
col ψ, e non altrimenti. Ed eccovi questo nesso, introdotto a principio
dagli scrivani per fretta e per comodo, non riconoscendosi più la sua
origine, o anco riconoscendosi, ci viene nelle grammatiche antiche e
moderne come un carattere proprio dei greci, e come uno degli elementi
del loro alfabeto. Lo stesso accadde allo ξ, che non è fenicio, introdotto
come nesso per rappresentare due caratteri, cioè γσ, o κσ, o χσ: e ciò per
essere questi suoni, frequentissimi nella lingua greca, siccome anche nella
lingua latina, nel cui alfabeto pertanto ha pure avuto luogo questo
medesimo nesso, considerato come carattere. In luogo del quale gli
antichi greci scrivevano γσ, o κσ. Lo stesso dicasi [2744] del ϕ, carattere
(originariamente nesso) che non si trova nell’alfabeto fenicio (perciocché
il ףo פè veramente il π, latino P, giacché l’Ϝ è il digamma eolico), e che fu
introdotto in vece del PH che si trova negli antichi monumenti greci,
dove pur si trova il KH in vece del X, carattere non fenicio. Questi due
suoni composti, anzi doppi, ph e ch, frequentissimi nella lingua greca,
non si udivano nella latina. Dunque l’alfabeto latino non ebbe questi due
segni. I tre caratteri ξ, ϕ, χ s’attribuiscono presso Plinio (7. 56.) a
Palamede, aggiunti da lui all’alfabeto Cadmeo o Fenicio. Lo stesso dite
dell’ω, che s’attribuisce presso il medesimo a Simonide ec.
Ne’ tempi più bassi, moltiplicandosi le scritture, o piuttosto la
necessità di scrivere in fretta per la scarsezza degli scrivani e del
guadagno, e di scrivere in poco spazio per la scarsezza della carta ec., e
massimamente la negligenza e sformatezza e il cattivo gusto della
scrittura, e quindi impicciolendosi e affrettandosi sommamente le forme
dei caratteri, [2745] si moltiplicarono anche a dismisura i nessi, le
abbreviature ec. d’ogni genere (delle quali gli antichi erano stati
parchissimi, e alle quali anche poco si prestava la forma del loro
carattere); di modo che non v’è quasi codice o greco o latino di quelle età
che non offra nuove differenze di legature e abbreviature ec. Ma oltreché
la stessa moltitudine e varietà loro impediva che questi tali caratteri
doppi o tripli o quadrupli ec. non fossero ricevuti nell’alfabeto; esisteva
già la grammatica e le regole ortografiche, e gli alfabeti delle rispettive
lingue erano da sì gran tempo, per sì lungo uso, e sì pienamente
determinati, fissati e circoscritti, che non davano più luogo nemmeno ai
nessi più costantemente e universalmente, e con più certa significazione
adottati in quei tempi.
Se non che forse negli alfabeti delle [2746] lingue che si formarono
dopo i detti tempi, e massimamente delle settentrionali, rimase alcun
vestigio di quel barbaro uso de’ caratteri composti, il quale è
probabilmente l’origine del W, del Ç ec.
Negli alfabeti Orientali, settentrionali antichi ec. (alcuni de’ quali
abbondano perciò strabocchevolmente di caratteri, impropriamente
chiamati lettere da’ nostri, come il sascrito, che n’ha più di 50.) si trovano
moltissimi caratteri rappresentanti due, tre, quattro o anche più suoni
elementari unitamente. I quali caratteri non si debbono creder sincroni
all’invenzione o adozione di quegli alfabeti, ma nati dalla fretta e dal
comodo degli scrivani come nessi, e ricevuti poi facilmente come
caratteri semplici (benché così numerosi) negli alfabeti di lingue le cui
grammatiche e regole ortografiche o non esistono, o nacquero tardi, o
non sono abbastanza fisse, ferme, certe, stabilite, invariabili, o abbastanza
precise, minute, determinate, esatte, particolari, distinte, o abbastanza
note e adottate universalmente [2747] nella rispettiva nazione, o tardi
hanno conseguito queste qualità. E dico tardi, rispetto alla maggiore o
minore antichità della scrittura e letteratura presso quelle nazioni; presso
alcune delle quali esse sono molto più antiche che presso la greca, come
la scrittura e letteratura sascrita presso gl’indiani.
Nondimeno questa prodigiosa moltiplicità di caratteri rappresentanti
de’ suoni composti, nasce in alcuni dei detti alfabeti dal mancare in essi
totalmente o in parte i segni rappresentanti i suoni semplici della favella.
La qual mancanza, ch’è la maggiore imperfezione che possa essere in un
alfabeto, cagiona necessariamente e immediatamente un’assoluta e
indeterminata moltiplicità di segni nell’alfabeto medesimo. Ma questa
mancanza ed imperfezione non è già una prova che quegli alfabeti
abbiano un’origine diversa da quella degli alfabeti Europei. Essa
mancanza ed imperfezione, e la moltiplicità [2748] di caratteri che ne
deriva, e l’uso di segni rappresentanti de’ suoni composti, sono tutte
qualità che dovettero necessariamente essere nell’alfabeto primitivo;
perché l’uomo non arriva al semplice e agli elementi se non per gradi,
anzi queste sono le ultime cose a cui egli arriva, e nell’arrivarvi consiste
appunto la maggior possibile perfezione delle sue idee in qualunque
genere. Ora nessuna cosa umana è perfetta nel suo principio, e massime
un’invenzione così difficile e astrusa come fu quella dell’alfabeto. Non fu
poco, anzi fu maravigliosissimo il pensiero di applicare i segni della
scrittura ai suoni delle parole, invece di applicarli alle cose e alle idee,
come si fece nella scrittura primitiva e nella geroglifica, come facevano i
messicani nelle loro pitture scrittorie, come fanno i selvaggi, e i chinesi.
Dopo concepito questo mirabile pensiero, che fu l’origine dell’alfabeto,
questo pensiero ch’io dico essere stato unico nel mondo, cioè concepito
da un uomo solo (e in questo senso io sostengo [2749] che l’origine di
tutti gli alfabeti sia stata una sola) molto ancora vi volle, e molto tempo
dovette passare, e molti tentativi farsi, e molti alfabeti passare in uso
presso varie nazioni, prima che l’uomo arrivasse a distinguere i suoni
veramente semplici della favella, cioè quelli di cui si componevano tutti
gli altri suoni che formavano le parole. Ma da principio, e poi
successivamente a proporzione, finché non si giunse al detto punto,
moltissimi suoni composti dovettero parer semplicissimi e
indecomponibili. Il numero di questi, e dei segni destinati a
rappresentarli, e quindi dei caratteri dell’alfabeto, dovette andar sempre
scemando a misura che l’uomo si avvicinava a scoprire i puri elementi
dei suoni. Ma in questo intervallo gli alfabeti che si usavano, dovevano
aver molti caratteri, perché questi rappresentavano dei suoni composti.
Non tutte le nazioni poterono profittare della scoperta che finalmente si
fece dei suoni veramente semplici. Quelle nel cui uso erasi già [2750]
confermato un alfabeto più o meno composto di segni rappresentanti de’
suoni più o manco moltiplici; quelle presso cui la scrittura era già
comune; quelle massimamente che avevano già una letteratura,
dovettero conservare il loro alfabeto, o tal qual era, o semplificato di
poco, perché l’uso vince ogni ragione. (Basti osservare che la China
presso cui l’uso della scrittura s’era forse o introdotto o diffuso prima che
fra le altre nazioni, non potè neppure o non volle ricevere l’uso
dell’alfabeto assolutamente.) Così l’alfabeto fenicio, e gli alfabeti europei
derivati da quello, si perfezionarono, mentre molti alfabeti orientali ec.
rimasero nell’imperfezione, e questa si radicò e si mantenne in essi
perpetuamente fino al dì d’oggi.
Vedesi dalle sopraddette cose, ch’io distinguo due epoche nelle quali
l’uso de’ caratteri rappresentanti de’ suoni composti dovette introdurli
ne’ vari alfabeti. L’una prima del perfezionamento dell’alfabeto, l’altra
dopo la sua intera perfezione. [2751] Nell’una e nell’altra epoca
(specialmente però nella prima) questi caratteri contribuirono
grandemente a distinguere l’alfabeto di una nazione da quello di
un’altra, benché tutti gli alfabeti derivassero da un’origine sola. Anzi
parlando delle diversità intrinseche ed essenziali de’ vari alfabeti (cioè di
quelle che non consistono nella forma de’ caratteri ec.), questa è forse la
loro cagione principale. (3-4. Giugno. 1823.). Si possono facilmente
riconoscere i caratteri composti appartenenti alla seconda epoca da quelli
della prima, considerando se essi si trovano o no nell’alfabeto da cui più
o meno immediatamente deriva quello in questione. Non trovandosi, è
segno ch’essi appartengono alla seconda epoca. Come, non trovandosi
nell’alfabeto fenicio, da cui viene il greco, i caratteri composti o doppi ψ
ϕ χ ω ξ, è segno che questi appartengono alla seconda epoca, nel modo
che si è mostrato di sopra. Questo però non è sempre un segno certo,
potendo una nazione anche in quella prima imperfezione dell’alfabeto,
[2752] avere adottato dei caratteri composti che non si trovassero in
quell’alfabeto da cui derivava il suo, ed avergli adottati per diverse
ragioni, come per bisogni particolari della sua lingua, a cui non
bastassero i caratteri che bastavano all’altra, o alcuni di questi
soprabbondassero e non servissero, altri mancassero. La vera, intrinseca,
ed essenziale differenza tra i caratteri composti della prima epoca e quelli
della seconda, si è che quelli sono figli immediati de’ suoni, cioè trovati
per rappresentare immediatamente i suoni, e questi sono figli d’altri
caratteri, cioè trovati per rappresentare due o più caratteri già esistenti e
noti, e così sono nipoti de’ suoni. (4. Giugno. 1823.).
Alla p. 2739. fine. In primavera non è dubbio che la vita nella natura è
maggiore, o, se non altro, è maggiore il sentimento della vita, a causa
della diminuzione e torpore di esso sentimento cagionato dal freddo, e
del contrasto tra il nuovo sentimento, o fra il ritorno di esso, e l’abitudine
contratta nell’inverno. Questo accrescimento di vita [2753] (chiamiamolo
così) è comune in quella stagione, come alle piante e agli animali, così
agli uomini e massime agli individui giovani, sì delle predette specie,
come dell’umana. Ora indubitatamente non è alcuno, se non altro de’
giovani, che in quella stagione non sia più malcontento del suo stato e di
se, che negli altri tempi dell’anno (parlando astrattamente e
generalmente, senza relazione alle circostanze particolari, o vogliamo
dire, in parità di circostanze). Tanto è vero che il sentimento
dell’infelicità si accresce o si scema in proporzione diretta del sentimento
della vita, e che l’aumento di questo è inseparabile dall’aumento di
quello. (4. Giugno 1823.). Vedi p.2926. fine. Così una sventura particolare
opera maggior effetto e più dolorosa impressione in un temperamento
forte e vivo, e lo abbatte di più che non un temperamento [2754] debole,
contro quello che parrebbe dovesse essere, e che il volgo crede e dice. E
la causa di ciò, non è, come si suol dire, la maggior resistenza che un
temperamento forte oppone alla sventura e al dolore, ma il maggior
grado di vita, e quindi la maggiore intensità di amor proprio e il maggior
desiderio di felicità, che nasce dal maggior vigore; nè qui ha che far la
rassegnazione, o piuttosto essa non è altro che un sentir meno il dolore.
Se il dolore faceva quasi una strage nell’uomo antico, siccome fa nel
selvaggio; se gli antichi, come ora i selvaggi, erano portati dalla sventura
fino alle smanie e al furore, a incrudelire contro il proprio corpo, al
deliquio, al totale spossamento di forze, al deperimento della salute,
all’infermità, alla morte o volontaria o naturale, ciò non proveniva, come
si dice, dal non essere assuefatti al dolore. Qual è l’uomo vivo che non sia
accostumato a soffrire? Ma proveniva dal maggior vigore di corpo ch’era
negli antichi ed è ne’ selvaggi, a paragone de’ moderni e civili. E forse
questa, più che la minore assuefazione, è la causa che i giovani siano più
sensibili [2755] alle sventure e più suscettibili di dolore che i vecchi; o
certo questa n’è in grandissima parte la causa. Massimamente
osservando che questa differenza si trova anche fra giovani
assuefattissimi alle calamità, ed informatissimi, per dottrina, di quanto
convenga patire in questa vita, e vecchi assuefatti ad aver sempre avuto
ogni cosa a lor modo, ignorantissimi, e persuasissimi che questa terra sia
la più felice abitazione del mondo, e la vita il sommo bene degli uomini
(4. Giugno 1823.).
[2771] Noi diciamo fumo per superbia, fasto, vanità, onori vani o
l’orgoglio che ne nasce, e il vanto ch’altri ne fa: insomma applichiamo in
molti modi e casi quella parola a significare la superbia e le cose che a
questa appartengono. Vedi Caro lett. 20. vol.1. principio. Nè più nè meno
fanno i greci della voce τύϕος, (il cui proprio significato si è fumo), e de’
suoi derivati e composti. Siccome anche noi similmente di fumoso, e
fumosità. (12. Giugno 1823.).
Matto non verrebb’egli da µάτην, µάταιος e mattia cioè mattezza da
µατία? (12. Giugno 1823.).
Che il proprio tema de’ verbi ἵστηµι, ἵσταµαι fosse στάω, come forse
ho detto nella mia teoria de’ continuativi parlando di sisto, e che l’iota sia
una giunta fatta al tema per proprietà di lingua, si conosce sì dalle molte
voci di questi verbi che mancano di quell’i paragogico, e da tutti i loro
derivati che parimente [2780] ne mancano, sì dal verbo ἵπταµαι il quale
colla medesima paragoge (ch’esso perde in molte voci) è fatto
dall’inusitato πτάω (vedi la Gramm. di Pad. p. 210.) o πετάω, onde
πετάοµαι, πέταµαι, πέτοµαι che vagliono altresì volare, e che in origine
non debbon esser altro che il verbo στάω pando explico che ancora esiste,
trasportato alla significazione del volare per lo spiegar delle ali ec. e vedi
la pag. 2826.
Del resto niente impedirebbe che sto e στάω non avessero niente di
comune nella loro origine, o ch’essi fossero nati da una stessa lingua
madre, ma indipendentemente l’uno dall’altro, giacché l’uno significa
stare ed anche essere (vedi Forcellini), e l’altro stabilire, il cui passivo o
medio ἵσταµαι, passivando il significato di stabilire, viene a prendere la
significazione neutra di stare (quasi essere stabilito).
Ma supponendo che sto e στάω sieno in origine uno stesso verbo,
niente pure impedisce che il greco sia derivato dal verbo latino, e che
tuttavia il latino sisto, ben diverso da sto e per coniugazione e per
significato e per tutto, sia nato dal greco ἱστάω, ἱστῶ.
[2781] Chi può saper le varie vicende dei commerci antichissimi fra le
lingue latina e greca, dopo che l’una e l’altra nacquero dalla stessa madre;
quando la storia delle due nazioni comincia per noi così tardi, e massime
la storia veridica, e certa; e la storia non alterata dalle favole ambiziose di
cui è tutta piena l’antica istoria greca? Chi può con certezza negare che in
quel lunghissimo tratto di tempi oscurissimi non vi fossero delle epoche
nelle quali la lingua greca si arricchisse delle spoglie della sorella, ed
altre, o successivamente o anche allo stesso tempo, in cui la lingua latina
si arricchisse, come certo fece, delle spoglie della greca, ed anche
ricevesse sotto nuova forma alcune di quelle medesime voci ch’erano
nate da lei e da lei passate nella lingua greca, o alcuni derivati di quelle?
Come sarebbe nella nostra supposizione; cioè che sto, nato nella lingua
latina dal participio di sum, passato in Grecia sotto forma di στάω, [2782]
ridotto quivi per paragoge alla forma di ἱστάω, e per contrazione a quella
d’ἱστῶ e mutata significazione per affinità, ritornasse nel latino colla
forma di sisto, il qual verbo verrebbe così ad essere originalmente il
medesimo che sto.
Osservando la cosa ne’ tempi moderni, non sappiamo noi che la
lingua francese è venuta d’Italia? e che dal medesimo fonte nacque una
lingua sorella della francese, cioè l’italiana? E non vediamo noi quante
parole nate o allevate nel nostro paese, cioè nella lingua latina; di qua
passate in Francia; quivi alterate o di forma o di senso o d’ambedue; sono
ritornate in Italia come forestiere ed altrui, e ricevute in questa lingua
sorella della francese, e ciò fino dal cento o dal dugento o dal trecento, e
tuttogiorno nella metà dell’ultimo secolo e in questo? E chi dicesse per
questa ragione che la lingua francese è madre e non sorella dell’italiana, o
chi negasse che la lingua francese sia provenuta [2783] d’Italia,
s’apporrebb’egli al vero?
Credo eziandio che non poche voci venute dalla stessa lingua italiana
(non dall’antica latina), e passate in Francia; di là ci sieno tornate, e ci
tornino tuttavia bene spesso come forestiere: o che quelle nostre sieno
dimenticate, o che queste sieno alterate in modo che non si riconoscano
essere originalmente tutt’une colle nostre ancora esistenti, e già
preesistenti alle sopraddette francesi. (Quanto a molte voci e forme
italiane passate anticamente fra’ provenzali, ed ora credute provenzali di
origine, o perché si trovano nei loro scrittori, e non più presso noi; o
perché, alquanto mutate dalla prima figura e significazione, le ritolsero
dai provenzali i nostri primi poeti o que’ del 300, e i commerci di que’
tempi, vedi Perticari Apologia capo 11. 12. p. 108-17. e capo 19. fine p. 176-
7.). Così dico di molte voci spagnuole ricevute nella nostra lingua
durante il 500 e il 600, ne’ quali secoli la letteratura spagnuola nata
dall’italiana, modellavasi pur tutta sull’italiana, e quindi certo la loro
lingua doveva abbondare, e abbondava, di parole e maniere provenutele
dall’italiano.
Ma lasciando questo, potremo anche dire che il sistema de’
continuativi fosse proprio della lingua onde nacquero la latina e la greca;
che di lei fossero il verbo sum (il quale certo si trova [2784] tutto nella
sascrita) e il verbo sto che ne deriva; che da lei li pigliassero le dette due
lingue; e che poi dalla greca venisse nella latina, coll’andar del tempo e
de’ commerci, il verbo sisto. Così discorrete de’ verbi apo ed apto, ἅπτω
ed ἅπτωµαι, de’ quali nella mia teoria de’ continuativi.
In questa supposizione la lingua latina resterebbe pur molto superiore
alla greca, rispetto alla conservazione dell’antichità. 1. Ella avrebbe
conservato il sistema de’ continuativi, e la greca no. Di più ella n’avrebbe
conservato il modo cioè la formazione da’ participii passivi, il che alla
lingua greca è impossibile. 2. Il suo verbo sum sarebbe più conforme a
quello della lingua madre. E ciò si proverebbe, primo perch’esso, come
ho detto, si trova molto più simile a quello della lingua sascrita
antichissima, che non il greco εἱµί: secondo, perché esso si presterebbe
ottimamente per la sua forma grammaticale, come altrove ho mostrato,
alla formazione del verbo sto, il quale nella nostra supposizione sarebbe
venuto dalla lingua madre, e in essa, come in latino, sarebbe stato un
continuativo formato da sum: e perché esso sum si presterebbe [2785] a
questa formazione secondo la regola ordinaria de’ continuativi latini, la
qual regola nella nostra supposizione sarebbe provenuta dalla lingua
madre.
Laddove nella lingua greca il verbo στάω per ragione grammaticale,
e per origine considerata dentro i termini d’essa lingua, non ha che far
niente con εἱµί, ed è un tema intieramente distinto. Il tema στάω non si
trova nel greco, ma ἵστηµι, ἱστάνω, ἑστήκω, e tali alterazioni. Ma in
latino il tema sto si trova, non pur semplice, anche ne’ composti adsto ec.
ec. chiaro e puro. E il verbo sto si può dir quasi regolare, se non fosse il
duplicamento nel perfetto steti, usitato però in molti altri verbi ancora,
come in do monosillabo, di coniugazione affatto simile a sto ec. 3. Perché
il medesimo sto e per forma e per significato si riconoscerebbe in latino
per derivato espressamente da sum, come abbiamo supposto ch’ei fosse
nella lingua madre: laddove in greco nè per forma nè per significato
avrebbe che far nulla con εἱµί. In somma tutta la ragione grammaticale e
dei continuativi in generale, e in particolare del verbo sto considerato
come continuativo e derivativo di sum, la qual ragione abbiamo supposto
che fosse nella lingua madre, sussisterebbe piena e perfetta nella lingua
latina; laddove nella greca sarebbe intieramente perduta. Così discorrete
della ragione grammaticale, [2786] e della origine e derivazione di apto o
ἅπτω, le quali si troverebbero intere nella lingua latina, e per nulla nel
greco; oltre al tema apo conservato nel latino e perduto nel greco. (13-14.
Giugno 1823.).
Alla p. 2776. La voce ἁρπυῖαι properispómena può benissimo essere
un antico participio di un verbo ἅρπω (vedi la p. 2826. marg.) come
εἰκυῖα di εἴκω, εἰδυῖα di εἴδω per sincope di εἰδηκυῖα, da εἷδα sincope di
εἴδηκα. 24 Non così di ἁρπω al quale non può in nessun modo
appartenere. Che se i grammatici fanno questa voce ἁρπυῖαι
proparossìtona, scrivendo ἅρπυῖαι, 1. non tutti così fanno, e vedi
Schrevel. e Forcell. in Harpyiae: 2. può ben essere che questa voce sia
proparossìtona ne’ due luoghi dell’Odissea, e in quello della Teogonia (v.
267.) ne’ quali è usurpata per antonomasia, come vuole il Visconti che sia
nell’Odissea, o per nome appellativo, come è nella Teogonia: perciocché
perduta la sua forma e significazione di participio, e ridotta a sostantivo,
[2787] e mutato uso, condizione e significato, non è maraviglia ch’esso
muti l’accentazione come accade in altre mille parole. Ma tale ancora, ella
si riconosce per un participio femminino, il quale non può venire se non
da ἅρπω parossìtono, e non da ἁρπω, nè da ἁρπάω nè da ἁρπάζω, e il
cui mascolino sarebbe ἁρπώς. E nel luogo delle iscrizioni triopee,
dov’ella è aggettivo, io son d’opinione che vada scritta properispómena.
Non so come la scriva il Visconti: la lapide non ha accenti. 3. Ognun sa
che in queste materie degli accenti, come in tante altre, non è da prestar
gran fede ai grammatici che abbiamo, benché greci, e ch’essi sono stati
corretti cento volte dagli eruditi moderni colla più accurata osservazione
dell’antichità; delle origini, delle derivazioni, delle analogie, della ragion
grammaticale della lingua greca. E se ciò accade anche nelle cose che
appartengono alla lingua di Tucidide o di Platone, quanto minor forza
avrà un’obbiezione [2788] fondata sull’autorità di sempre recenti e
semibarbari e poco dotti grammatici in materie così antiche, come è
questa; nella quale poi in particolare, i grammatici, secondo il Visconti,
errarono nella stessa significazione della parola, pigliando per démoni
alati, per tempeste, procelle, venti ec. (vedi lo Scapula e il Tusano) quelle
che, secondo il Visconti, non erano altro che le Parche.
Del resto, quando ben si volesse che ἁρπυῖαι fosse participio di
ἁρπάω (il che io non credo) fatto per sincope d’ἁρπηκυῖα, (come anche
ἑστώς da ἑστηκώς o ἑστακώς o ἑσταώς o ἑστεώς, βεβώς da βεβηκώς o
da βεβαώς, βεβρώς da βεβρωκώς o da βεβροώς) e che il latino rapio non
fosse un disusato ἅρπω (supposto dal Visconti) ma questo ἁρπαω (del
quale trovo nel Tusano: ᾿Aρπαω, pro ἁρπάζω, usurpatur, Etym.)
resterebbe sempre fermo e che ἁρπυῖαι o ἅρπυιαι fosse in origine un
participio ec. e che la lingua latina conservi qui l’antichità più della greca,
nella quale quest’ἁρπάο, che sarebbe, certo più antico di ἁρπάζω, sarà
pur sempre o inusitato o rarissimo, e forse noto per lo [2789] solo
Etimologico. (14. Giugno 1823.). Nota che il Visconti, se ben mi ricordo,
non cita se non due luoghi dell’Odissea, e questi sono, s’io non
m’inganno, α, 241. ξ, 371. In due altri luoghi Omero usa quella voce,
l’uno Odiss. υ, 77. dov’ella sta parimente per le Parche, l’altro Iliade, Π,
150. dov’ella è puro aggettivo d’una cavalla, e viene a dir veloce, benché
gl’interpreti la rendono per Harpyia sostantivo o appellativo, come negli
altri luoghi d’Omero. Raptim dicono i latini per cito ec. Così ἅρπυια o
ἁρπάῖα per veloce. Vedi ne’ Lessici ἁρπακτικῶς, ἁρπάγδην, ἁρπαλέως,
καρπάλιµος, καρπάλίµως, ἀνάρπαστος, ed ἁρπάζω per ὀξέως νοῶ,
cito intelligo et mente percipio, quasi mente corripio, usato da Sofocle. Vedi
anche i lessici latini in rapio e suoi derivati e composti. Noi diciamo ratto
(cioè raptus) aggettivo e avverbio per veloce, presto ec. Così rattezza,
rattamente ec. E i latini rapidus, rapido, francese rapide ec. Vedi lo
spagnuolo in questa radice, o in altra metafora di velocità, tolta dal rapire
in qualunque sia voce o modo. (14. Giugno. 1823.). Vedi la Crus. in
Rapina §.1. Rapinosamente, Rapinoso, e questi pensieri p. 4165. fin.
Gli scrittori greci de’ secoli medii e bassi, cioè dal terzo inclusive in
poi, sono pieni d’improprietà di lingua (com’è quella di Coricio sofista
del sesto secolo nell’Orazione εἰς Σοῦµµον στρτηλάτην in Summum
ducem, §. 11. ap. Fabric. B. G. edit. vet. vol. 8. p. 869. lib. 5. cap. 31. di
usare la voce δικαστὴς in vece di κριτὴς o di µάρτυς), pieni di frasi
strane quanto alla lingua, pieni di solecismi, e di mille contravvenzioni
alle antiche regole della sintassi e grammatica greca, ma non hanno
barbarismi. La loro lingua per tutto ciò che appartiene all’eleganza, è
diversissima da quella degli antichi scrittori: ma per tutto il resto è la
stessa. Si può dir ch’essi ignorino il buon uso della lingua che scrivono,
che non la sappiano adoperare; ma la lingua che scrivono è quella degli
antichi: quella che gli antichi scrissero [2794] bene, essi la scrivono male.
Molte loro parole che non si trovano negli antichi, sono però cavate dal
fondo della lingua greca o per derivazione o per composizione ec.; rade
volte ripugnano all’indole d’essa lingua, e per esser chiamate buone,
greche, pure e di buona lega, non manca loro se non la sanzione
dell’antichità. In somma il grecismo di questi scrittori è per lo più cattivo
o pessimo, ma la loro lingua è pura. Le voci e frasi poetiche versate a due
mani nelle prose, le voci o frasi antiquate, le metafore o strane affatto e
barbare, o poetiche, non offendono la purità della lingua, ed
appartengono piuttosto al conto dello stile. Il periodo di questi scrittori, il
giro della dicitura, per lo più rotto, slegato, saltellante, ineguale, ovvero
intralciato, duro, aspro, monotono, e lontanissimo dalla semplicità e
dalla maestà dell’antica elocuzione greca, appartiene certo in gran parte
alla lingua, al cui genio è contrarissima la struttura dell’orazione di quei
bassi scrittori, ma non nuoce alla purità. Il numero e l’armonia è
diversissimo [2795] in questi scrittori da quel ch’egli è negli antichi, ma
ciò non solo per la negligenza di quelli, bensì ancora per la diversa
pronunzia introdotta appoco appoco nella lingua greca, massimamente
estendendosi ella a tanti e sì diversi e tra se lontani paesi, e subentrando
a sì diverse favelle, o prendendo luogo accanto ad esse e in compagnia di
esse, o in mezzo ad esse: giacché bisogna considerare che la più parte
degli scrittori greci dal 3. secolo in poi, non furono greci di nazione, o
certo non furono greci di paese, ma Asiatici ec., e greci solamente di
lingua, e questo ancora non sempre dalla nascita, ma per istudio, come
per esempio Porfirio, della cui lingua patria, vedi la Vita di Plotino, capo
17. e l’Holstenio de Vita et scriptis Porphyrii cap.2. Vedi p.2827. (17.
Giugno. 1823.).
Una delle proprietà comuni alle tre lingue figlie della latina, le quali
proprietà si debbono per conseguenza credere originate dalla lingua
madre di tutt’e tre, come ho detto altrove, si è quella di [2796] usare causa
(cosa, chose) per res. (18. Giugno 1823.).
Καὶ µοι δοκεῖ, εἴ τις τῶν ϑεῶν πάντας ἀνϑρώπους εἰς ἕνα που
χῶρον συναγαγῶν, ἕκαστον ἀπαιτήσει τὴν ἑαυτοῦ διηγήσασϑαι τύχν,
εἶτα πάντων εἰπόντων, ἑκάστον πύϑοιτο πάλιν, ποίαν ἔχειν ἕλοιτο;
πάντας ἂν ἀποροῦντας σιγῆσαι µεδένα ζηλωτὸν ϑεωµένους.
᾽Eντεῦϑεν ἄρα τινὲς, Tρασους οἶµαι τὸ γένος (nationem hanc)
προςαγορεύουσι, τικτοµένου µὲν τινος ὠλοϕύροντο σκοποῦντες, εἰς
ὀσα ἦλϑε κακὰ, ἀπιόντος δὲ πανήγυριν (festum) ἦγον, ὀσων
ἠλευϑέρωται δυσχερῶν ἐννοόυµενοι. Χορικίου Σοϕιστοῦ ᾽Eπιτάϕιος
ἐπὶ Προκοπίῳ Σοϕιστῇ Γάζης. Oratio funebris in Procopium Sophistam-
Gazaeum (§. 35. p. 859.) primum edita gr. et lat. a Fabric. in B. G. edit.
vet. t. 8. p. 841-63. lib. 5. c. 31 (19. Giugno 1823.).
Si sa che negli antichi drammi aveva gran parte il coro. Del qual uso
molto si è detto a favore e contro. Vedi il Viaggio d’Anacarsi cap.70. Il
dramma moderno l’ha sbandito, e bene stava di sbandirlo a tutto ciò ch’è
moderno. Io considero quest’uso come parte di quel vago, di
quell’indefinito ch’è la principal cagione dello charme dell’antica poesia e
bella letteratura. L’individuo è sempre cosa piccola, spesso brutta, spesso
disprezzabile. Il bello e il grande ha bisogno dell’indefinito, e questo
indefinito non si poteva introdurre sulla scena, se non introducendovi la
moltitudine. Tutto quello che vien dalla moltitudine è rispettabile,
bench’ella sia composta d’individui tutti disprezzabili. Il pubblico, [2805]
il popolo, l’antichità, gli antenati, la posterità: nomi grandi e belli, perché
rappresentano un’idea indefinita. Analizziamo questo pubblico, questa
posterità. Uomini la più parte da nulla, tutti pieni di difetti. Le massime
di giustizia, di virtù, di eroismo, di compassione, d’amor patrio sonavano
negli antichi drammi sulle bocche del coro, cioè di una moltitudine
indefinita, e spesso innominata, giacché il poeta non dichiarava in alcun
modo di quali persone s’intendesse composto il suo coro. Esse erano
espresse in versi lirici, questi si cantavano, ed erano accompagnati dalla
musica degl’istrumenti. Tutte queste circostanze, che noi possiamo
condannare quanto ci piace come contrarie alla verisimiglianza, come
assurde, ec. quale altra impressione potevano produrre, se non
un’impressione vaga e indeterminata, e quindi tutta grande, tutta bella,
tutta poetica? Quelle massime non erano poste in bocca di un individuo,
che le recitasse in tuono ordinario e naturale. [2806] Per grande e perfetto
che il poeta avesse finto questo individuo, la idea medesima d’individuo
è troppo determinata e ristretta, per produrre una sensazione o
concezione indeterminata ed immensa. Queste qualità contrastano con
quelle, e quelle avrebbero direttamente impedita questa concezione, non
che potessero produrla. Gli uditori avrebbero conosciuto il nome, le
azioni, le qualità, le avventure di quell’individuo. Egli sarebbe stato
sempre quel tal Teseo, quel tal Edipo, re di Tebe, uccisore del padre,
marito della madre, e cose simili. La nazione intera, la stessa posterità
compariva sulla scena. Ella non parlava come ciascuno de’ mortali che
rappresentavano l’azione: ella s’esprimeva in versi lirici e pieni di poesia.
Il suono della sua voce non era quello degl’individui umani: egli era una
musica un’armonia. Negl’intervalli della rappresentazione questo attore
ignoto, innominato, questa moltitudine di mortali, prendeva a far delle
profonde o sublimi riflessioni [2807] sugli avvenimenti ch’erano passati o
dovevano passare sotto gli occhi dello spettatore, piangeva le miserie
dell’umanità, sospirava, malediceva il vizio, eseguiva la vendetta
dell’innocenza e della virtù, la sola vendetta che sia loro concessa in
questo mondo, cioè l’esecrare che fa il pubblico e la posterità gli
oppressori delle medesime; esaltava l’eroismo, rendeva merito di lodi ai
benefattori degli uomini, al sangue dato per la patria. (Vedi Oraz. art.
poet. v. 193-201.). Questo era quasi lo stesso che legare sulla scena il
mondo reale col mondo ideale e morale, come essi sono legati nella vita:
e legarli drammaticamente, cioè recando questo legame sotto i sensi dello
spettatore, secondo l’uffizio e il costume del poeta drammatico, e quanto
è possibile al dramma di rappresentare quello che è. Questo era
personificare le immaginazioni del poeta, e i sentimenti degli uditori e
della nazione a cui lo spettacolo si rappresentava. Gli avvenimenti erano
[2808] rappresentati dagl’individui; i sentimenti, le riflessioni, le passioni,
gli effetti ch’essi producevano o dovevano produrre nelle persone poste
fuori di essi avvenimenti erano rappresentati dalla moltitudine, da una
specie di essere ideale. Questo s’incaricava di raccogliere ed esprimere
l’utilità che si cava dall’esempio di quelli avvenimenti. E per certo modo
gli uditori venivano ad udire gli stessi sentimenti che la rappresentazione
ispirava loro, rappresentati altresì sulla scena, e si vedevano quasi
trasportati essi medesimi sul palco a fare la loro parte; o imitati dal coro,
non meno che si fossero gli eroi imitati e rappresentati dagli attori
individui. Anche quando il coro prendeva parte diretta all’azione, questo
fare agir nel dramma la moltitudine, era più poetico, e doveva produrre
maggiore e più vivo effetto, che il divider tutta l’azione fra pochi
individui, come noi facciamo.
Da queste considerazioni si argomenti se [2809] sia giusto il dire che
l’uso del coro nuoce all’illusione. Qual grata illusione senza il vago e
l’indefinito? E qual dolce grande e poetica illusione doveva nascere dalle
circostanze sovra esposte! (21. Giugno. 1823.). Nelle commedie la
moltitudine serve altresì all’entusiasmo e al vago della gioia, alla
βακχείᾳ, a dar qualche apparente e illusorio peso alle cagioni sempre
vane e false che noi abbiamo di rallegrarci e godere, a strascinare in certo
modo lo spettatore nell’allegrezza e nel riso, come accecandolo,
inebbriandolo, vincendolo coll’autorità della vaga moltitudine. Vedi p.
2905.
[2811] Alla p. 2775. Il verbo δείδω che oggi si pone come tema, non è
certamente altro che reduplicazione di un tema più semplice, il che è
dimostrato sì dalla voce δέος, sì dal verbo δίω presso Omero, sì dalla
voce δεῖσϑαι usata più volte da Plutarco per temere. Kάρχαρος,
χαρχαρέοι, χαρχαρίας da χαράσσο per reduplicazione. ὀπιπτεύω da
ὀπτεύω. βέβαιος da βαίνω o da βέβαα. Vedi p. 4109. Anche in latino
titillo è fatto per duplicazione da τίλλω. E altre tali duplicazioni alla
greca si trovano pure in latino (come quelle de’ perfetti memini, cecidi ec.),
sieno veramente latine di origine, o greche, o comuni anticamente ad
ambe le lingue, ec. ec. (23. Giugno. 1823.).
I continuativi latini, tutti (se non forse visere da visus di video, co’ suoi
composti inviso, reviso ec., e forse qualche altro, che io chiamerò
continuativi anomali) appartenenti alla prima congiugazione, sono fatti
dal participio o dal supino del verbo originale come ho dimostrato.
Nondimeno io trovo alcuni pochi verbi, pur della prima maniera, i quali
sono evidentemente fratelli o figli di altri verbi della terza, ed hanno una
significazione evidentemente continuativa della significazione di questi,
ma non sono fatti da’ loro participii. Quelli che io ho osservati sono 1.
cubare, co’ suoi composti accubare, incubare, decubare, secubare, recubare,
ec. il significato de’ quali è manifestissimamente [2814] continuativo di
quello di cumbere (inusitato, fuorché nella voce cubui ec. e cubitum che ora
s’attribuiscono a cubare) incumbere, accumbere ec. tanto che ogni volta che
si dee esprimere azione continuata, si usano immancabilmente quelli e
non questi, (come anche viceversa nel caso opposto) e appena si troverà
buono esempio del contrario, quale potrebb’esser quello di Virgilio Aen.
2. 513-14. Ingens ara fuit; juxtaque veterrima laurus Incumbens arae, invece
d’incubans. 2. educare continuativo di educere quanto al significato. 3.
jugare parimente di jungere, e così conjugare, abiugare, deiugare, e s’altro
composto ve n’ha. 4. dicare similmente di dicere, e così i composti judicare,
di ius dicere; dedicare, praedicare, abdicare ec. Vedi p. 3006. 5. labare di labere
inusitato, cioè labi deponente. È noto che questi verbi della terza hanno
anche i loro continuativi formati regolarmente da’ loro participii, ma con
significato diverso da quello de’ soprascritti verbi della prima, sebbene
anch’esso continuativo; come dicere ha pur dictare e dictitare; ducere, onde
educere, ha ductare e ductitare; jungere ha nel basso latino e nello
spagnuolo junctare, (noi volgarmente aggiuntare, i franc. ajouter); labi o
labere ha pur lapsare. 26 Cubitare, accubitare ec. possono venire da
accubatus [2815] inusitato e da accubitus, ec. e quindi essere derivativi così
di accumbere come di accubare. Ma questo, con tutti i suoi fratelli e col suo
semplice cubo, non ha del proprio nè il preterito perfetto nè i tempi che
da questo si formano, nè il participio in us, nè il supino, ma li toglie in
prestito da accumbere, recumbere, incumbere ec. facendo, nè più nè meno
come fan questi, accubui, accubitus i, accubitum ec. Vedi però la p. 3570.
3715-7. Incubare ha anche incubavi, incubatum. Cubare ha anche cubavi, o
certo cubasse. Notate che se talvolta troverete ne’ lessici o ne’ grammatici
ec. degli esempi di accubare, incubare ec. adoperati nel preterito o nel
supino ec. che non vi paiano di senso continuativo, dovete credere
ch’essi sieno male attribuiti a quei verbi, e spettino ad incumbere,
accumbere, occumbere ec. (24. Giugno, dì del Battista 1823.). Vedi p. 2996.
Vedi a questo proposito p. 2930.2935.
Sono molti verbi formati da’ participii in us, i quali non esprimono
azione continuata, nè costume di fare quella tale azione, o non
l’esprimono sempre, e nondimeno anch’essi, ed anche in questo caso,
sono veri continuativi, e il Forcellini e gli altri che li chiamano
frequentativi, sbagliano, ed usano una voce impropria, parlando [2816]
con tutto rigore ed esattezza. Per esempio iactare nel luogo dell’Eneide 2.
459. ed exceptare nelle Georg. 3. 274. sopra i quali luoghi ho disputato
altrove, non esprimono azione continuata per se stessa, giacché l’azione
di lanciare, e quella di ricever l’aria col respiro non sono azioni continue,
ma si concepiscono come istantanee; nè anche significano costume di
lanciare o di ricevere; ma moltitudine continuata di queste tali azioni,
cioè di lanciamenti, per così dire, e di ricevimenti, che senza interruzione
e per lungo tempo succedono l’uno all’altro. Questa è idea continua, e
bene, in questo caso, si chiameranno continuativi quei tali verbi, e non
potranno per nessun modo chiamarsi altrimenti con proprietà.
Malissimo poi si chiameranno frequentativi, giacché ben altro è il fare
una cosa frequentemente, ed altro il ripetere per un certo maggiore o
minor tempo una stessa azione continuamente, quando anche
quest’azione per se non sia continua, e si fornisca nell’istante. Questa è
continuità di fare una stessa azione, ben diversa dalla frequenza di fare
una stessa azione. La qual frequenza suppone e considera degl’intervalli,
maggiori [2817] minori, e più o meno numerosi che sieno, durante i quali
quell’azione non si fa; laddove la detta continuità non li suppone, ed
ancorché, come è naturale, sempre vi sieno, pure, siccome minimi, non li
considera. Avendo l’occhio a queste osservazioni si vedrà quanto gran
numero di verbi latini detti frequentativi, lo sieno impropriamente, e
quante significazioni credute frequentative, e che tali paiono a prima
vista, perché rappresentano ripetizione di una stessa azione, contuttociò
non lo sieno, ma sieno veramente continuative. Bisogna sottilmente
distinguere, come abbiamo mostrato, e non credere che qualunque verbo
esprime ripetizione di una stessa azione, sia frequentativo, nè che questa
ripetizione sia sempre lo stesso che la frequenza d’essa azione. La
successione di più azioni di una stessa specie è ben altra cosa che la
frequenza di esse. E con questo criterio, siccome cogli altri che abbiamo
dati in vari luoghi circa le diverse significazioni de’ verbi fatti da
participii in us, si correggeranno infiniti errori de’ grammatici e
lessicografi; rettificherannosi infinite loro definizioni; conoscerassi e
distinguerassi partitamente il vero spirito, e la vera e varia proprietà e
forza de’ verbi formati da’ suddetti participii; e vedrassi come il senso
frequentativo, [2818] ch’è solamente l’uno dei tanti che ricevono essi
verbi, sia stato male scelto o preso a denotare e denominare e definire
tutti questi verbi, ed anche considerato come l’unico loro proprio senso.
Il che è lo stesso che porre la parte per il tutto. E quando ciò s’abbia a
fare, meglio converrà a questi verbi il nome di continuativi, il qual nome
abbraccia un assai più gran numero delle varietà proprie del significato
di questi verbi. Le quali varietà non ancora considerate nè dai
grammatici nè dai filologi nè dai filosofi, e nondimeno necessarissime a
considerarsi e distinguersi per ben penetrare nell’intima proprietà ed
eleganza, ed anche nell’intimo e vero senso e valore della lingua latina, e
nell’intelligenza dell’efficacie, delle bellezze ec. dei passi degli scrittori,
noi abbiamo proccurato di dichiarare ed esporre, sì ai grammatici e
filologi, come ai filosofi e a’ letterati. (25. Giugno 1823.).
Un altro futare dice Festo che fu usato da Catone per saepius fuisse.
Questo dimostrerebbe un antico participio [2822] futus del verbo
sostantivo latino. Dico del verbo sostantivo, e non dico del verbo sum.
Questo è originalmente il medesimo che il greco ειµί ovvero ἔω, e che il
sascrito asham, e il suo participio in us dovette essere situs o stus o sutus
(giacché è notabile il nostro antico suto, vero e proprio participio del
verbo essere, laddove stato che oggi s’usa in vece di quello, è tolto in
prestito da stare), come ho detto altrove. Il franc. été è lo stesso che sté,
giacché gli antichi dicevano esté, e quell’e innanzi, è aggiunto per
dolcezza di lingua avanti la s impura nel principio della parola, come in
espérer, espouser (ora épouser), del che ho detto altrove. Ora il participio sté
sarebbe appunto stus in latino. Ma il participio futus, onde futare, non
potè essere se non di quel verbo da cui il verbo sum tolse in prestito il
preterito perfetto fui colle voci che da questo si formano, cioè fueram,
fuero ec. Il qual verbo fuo non ha che far niente in origine con sum nè con
ειµί, ma è lo stesso che ϕύω, e vedi Forcell. in fuam e in sum. Di questo
dunque dovette esistere anche il participio futus, il quale dimostrasi col
verbo futare che ne deriva. E nótisi che Festo dice il verbo futare essere
stato usato da Catone per saepius fuisse, e non per saepius esse, onde pare
che questo verbo appresso Catone conservasse una certa corrispondenza
e similitudine e analogia colle voci fui, fuisse ec. tolte in prestito da sum, le
quali tutte indicano il passato, e che anch’esso denotasse il passato di
natura sua, ed avesse [2823] significazione preterita. Del resto come il
verbo futare è diverso da stare, così il participio futus, da cui quello
deriva, è diverso da situs o stus da cui vien questo, e come futus è
participio di fuo e stus di sum, così futare è continuativo di fuo e stare di
sum. E l’esistenza del participio futus dimostrata dal verbo futare, non
nuoce a quella che io sostengo del participio stus, giacché sum e fuo, che
ora fanno un sol verbo anomalo composto e raccozzato di due difettivi,
furono a principio due verbi ben distinti e per origine, e per forma
materiale, e probabilmente completi tutti e due, e non difettivi come ora.
(26. Giugno 1823.).
In ciascun punto della vita, anche nell’atto del maggior piacere, anche
nei sogni, l’uomo o il vivente è in istato di desiderio, e quindi non v’ha
un solo momento nella vita (eccetto quelli di totale assopimento e
sospensione dell’esercizio de’ sensi e di quello del pensiero, da
qualunque cagione essa venga) nel quale l’individuo non sia in istato di
pena, tanto maggiore quanto egli o per età, o per carattere e natura, o per
circostanze mediate o immediate, o abitualmente o attualmente, è in
istato di maggior sensibilità ed esercizio della vita, e viceversa. (30.
Giugno 1823.). V. p.3550.
Gli spagnuoli usano l’avverbio luego, cioè subito, nel principio delle
enumerazioni, e massime quando s’hanno a recare più d’un argomento, e
recasi il primo, dicono luego, che vale primieramente. Pretto grecismo. I
greci [2866] in casi simili, e specialmente nel caso predetto, usano
elegantemente αὐτίκα, cioè subito, in principio di periodo, come gli
spagnuoli luego, ed anche luego al punto in istile più familiare, o burlesco.
S. Gio. Crisostomo o chiunque sia l’autore dei due sermoni sulla
Preghiera περὶ προσευχῆς, nel Serm. 2, che incomincia ὅτι µὲν παντὸς
ἀγαϑοῦ, sul principio: Eὐϑὺς τοινυν ἐκεῖνο µέγιστον περὶ εὐχῆς εἰπεῖν
ἔχοµεν, ὅτι κ. λ. V. Plat. de rep. 1. t. 4. p. 32. vedi ult. dove αὐτίκα non
serve all’enumerazione ma vale ecco qua subito, pronto e come senza cercare
o senza andar lontano. E così i greci spessissimo. Noi diremmo la prima cosa
avverb. prima di tutto, in primo luogo; i latini primum, o principio (vedi
Georg. 2. 8., 4. 8.), ec. (1. Luglio 1823.).
Ho detto sovente che ciascuno autor greco ha, per così dire, il suo
Vocabolarietto proprio. Ciò vale non solamente in ordine all’usare
ciascun d’essi sempre o quasi sempre quelle tali parole per esprimere
quelle tali cose, laddove gli altri altre n’usano, o in ordine ai loro modi e
frasi familiari e consuete, ma eziandio in ordine al significato delle stesse
parole o frasi che anche gli altri usano, o che tutti usano. Perocché chi
sottilmente attende e guarda negli scrittori greci, vedrà che le stesse
parole e frasi presso un autore hanno un senso, e presso un altro un altro,
e ciò non solamente trattandosi di autori vissuti in diverse epoche, il che
non sarebbe strano, ma eziandio di autori contemporanei, e compatriotti
ancora, come per esempio di Senofonte e [2867] Platone, i quali furono di
più condiscepoli, e trattarono in parte le stesse materie, e la stessa
Socratica filosofia. Dico che il significato delle parole o frasi in ciascuno
autore è diverso: ora più ora meno, secondo i termini della
comparazione, e secondo la qualità d’esse parole; e per lo più la
differenza è tale che i poco accorti ed esercitati non la veggono, ma ella
pur v’è, benché picciolissima. Un autore adoprerà sempre una parola nel
significato proprio, e non mai ne’ metaforici. Un altro in un significato
simile al proprio, o forse proprio ancor esso, e non mai negli altri sensi.
Un altro l’adoprerà in un senso traslato, ma con tanta costanza, che
occorrendo di esprimere quella tal cosa, non adoprerà mai altra voce che
quella, e adoprando questa voce, non la piglierà mai in altro senso, onde
si può dire che presso lui questo significato è il proprio di quella voce:
(come accade che i sensi metaforici de’ vocaboli pigliano spesse volte
assolutamente il luogo del proprio, che si dimentica) e questo caso è
molto frequente. Un altro adoprerà quella voce colla stessa costanza, o
con poco manco, in [2868] un altro senso traslato, più o meno diverso, e
talvolta vicinissimo e similissimo, ma che pur non è quel medesimo. E
tutta questa varietà (con altre molte differenze simili a queste) si troverà
nell’uso di uno stesso verbo, di uno stesso nome, di uno stesso avverbio
in autori contemporanei e compatriotti. Alla qual varietà, come ben
sanno i dotti in queste materie, è da por mente assai, e da notar sempre
in ciascuno autore, massime ne’ classici, qual è il preciso senso in cui egli
suole o sempre o per lo più adoperare ciascuna parola o frase. Trovato e
notato il quale, si rende facile la intelligenza dell’autore, e se ne penetra
la proprietà e l’intendimento vero delle espressioni, e si spiegano molti
suoi passi che senza la cognizione del significato da lui solito d’attribuirsi
a certe parole, non s’intenderebbero; com’è avvenuto a molti interpreti e
grammatici ec. che spiegando questi passi secondo l’uso ordinario di
quelle tali parole o frasi, e non considerandole in quello particolare
ch’esse sogliono aver presso quello scrittore, o non hanno saputo [2869]
strigarsi o si sono ingannati. E così accade anche ai ben dotti, che però
non abbiano pratica di quel tale autore, e vi sieno principianti, o che ne
leggano qualche passo spezzato. Certo non prima si arriva a pienamente
e propriamente intendere qualunque autor greco che si abbia presa
pratica del suo particolar Vocabolario, e de’ significati di questo: e tal
pratica è necessario di farla in ciascuno autore che si prende nuovamente
o dopo lungo intervallo a leggere: benché in alcuni costa più in altri
meno, e in certi costa tanto, che solo i lungamente esercitati e
familiarizzati colla lezione e studio di quel tale autore sono capaci di
bene intenderne e spiegarne la proprietà delle voci e frasi, e della
espressione sì generalmente, sì in ciascun passo. Insomma questi solo
conoscono la sua grecità, la quale, si può dire, in ciascuno autor greco, più
o meno è diversa. (1. Luglio 1823.).
Che il v, presso gli antichi latini non sia stata che una specie
d’aspirazione, e non una consonante, e che tale in verità sia la sua natura,
di tener cioè dell’aspirazione, e di svanir sovente dalle voci secondo
l’indole delle varie pronunzie. Dionigi d’Alicarnasso Archaeol. roman.
l.1. c.35. parlando dell’origine del nome Italia. ῾Eλλάνικος δὲ ὁ λέσβιός
ϕησιν ῾Ηρακλέα τὰς Γηρυόνου βοῦς ἀπελαύνοντα εἰς ῎Aργος, ἐπειδή
τις αὐτῷ δάµαλις ἀποσκιρτήσας τῆς ἀγέλης ἐν ᾽Iταλίᾳ ὄντι ἤδη
ϕεύγων διῇρε τὴν ἀκτήν, καὶ τὸν µαταξὺ διανηξάµενος πόρον τῆς
ϑαλάσσης εἰς Σικελίαν ἀϕίκετο, ἐρόµενον ἀεὶ τοὺς ἐπιχωρίους καϑ᾽
οὓς ἑκάστοτε γένοιτο διώκων τὸν δάµαλιν, εἴ ποι τὶς αὐτὸν ἑωρακώς,
τῶν τῇδε ἀνϑρώπων ἑλλάδος µὲν γλώττη ὀλίγα συνιέντων,τῇ δὲ
πατρίῳ ϕωνῇ κατὰ τὰς µηνύσεις τοῦ ζώου τὴν [2880] χώραν
ὀνοµάσαι πᾶσαν, ὅσην ὁ δάµαλις διῆλϑεν, Oὐϊταλίαν. Μεταπεσῖν δὲ
ἀνὰ χρόνον τὴν ὀνοµάσίαν εἰς τὸ νῦν σχῆµα, οὐδὲν ϑαυµαστὸν. ᾽Επεὶ
καὶ τῶν ἐλληνικῶν πολλὰ τὸ παραπλήσιον πέπονϑεν ὀνοµάτων. Da
bibo noi diciamo bevo, e beo tolta la lettera v, beve e bee, beendo, bere da
bevere tolto il v, e contratto beere in bere ec. Vedi il Corticelli, e il
Buommattei Trattato 12. c. 40. fine. Così da debeo devo e deo, devi e dei ec.
Vedi i grammatici e l’uso volgare. Dal lat. pavo diciamo pavone e paone,
paonessa, paoncino ec. Diciamo altresì pavonazzo e paonazzo. E in cento altre
parole leviamo e inseriamo il v a nostro piacere, o ch’esso veramente,
secondo l’etimologia appartenga loro, o che no, e talvolta l’inseriamo
sempre e costantemente in voci a cui esso non appartiene, o lo passiamo
pur sempre e costantemente sotto silenzio in quelle voci dov’esso
dovrebb’essere ed era. E in questo particolare v’è frequentissima
discordanza tra le pronunzie e dialetti delle provincie, città, individui
d’Italia, tra gli antichi autori e i moderni, tra l’antico parlare e il
moderno, tra il moderno parlare e lo scrivere ec. (2. Luglio. 1823.).
Dico altrove delle sillabe latine che non sono dittonghi, e pur sono
composte di più vocali. Tra queste è notabile la seconda sillaba di eheu, la
qual voce non è trisillaba, ma dissillaba, benché composta di tre vocali, e
benché eu non si conti fra’ dittonghi latini. [2890] Ed è dissillaba non per
licenza o figura poetica, ma per regola, e trisillaba non potrebb’essere o
non senza licenza. Così dite di hei, heu, euge, eugepae, euganeus ec. ec.
Eburneus-eburnus. (4. Luglio. 1823.).
[2893] A proposito del vario significato e del figurato uso de’ tempi
dell’ottativo in latino, dello scambio d’essi tempi tra loro, e con quelli
d’altri modi, ec. vedi Orazio epist. 1. l. 2. v. 3. 4. dove peccem, morer
stanno per peccarem, morarer. (5. Luglio 1823.).
Quanto sia facile l’imparare a parlare, quanto poco tempo debba esser
corso innanzi che il genere umano [2896] arrivasse primieramente ad
accorgersi di avere organi capaci di formare e articolare vari suoni, poi ad
imparar di formare e articolar tali suoni, e finalmente a crear col loro
diverso accozzamento una serie di voci di convenuta significazione, che
fosse bastante a potersi scambievolmente communicare i proprii sensi, e
più ancora innanzi che il genere umano arrivasse a portar questa serie al
punto di poter essere chiamata lingua e di servire a tutti i bisogni
dell’espressione; si consideri nel muto. Il quale, convivendo pur tutto
giorno con uomini i quali parlano, ed usano una lingua già perfetta, non
arriva mai in tutta quanta la sua vita nemmeno alla prima delle
sopraddette cose, cioè ad accorgersi di avere organi capaci di suoni
articolati: giacché seppure egli manda fuori alcun suono di voce, questo è
meno articolato e meno vario che non sono le voci delle bestie. Ora io
torno in campo colla mia solita domanda. È egli possibile che se la natura
aveva espressamente destinato l’uomo a parlare, se, come dice Dante,
opera naturale è ch’uom favella, essa natura lasciasse tanto da fare
all’uomo per [2897] arrivare ad eseguire quest’opera naturale, e debita
alla sua essenza, e propria di essa, quest’opera senza la quale egli non
avrebbe mai corrisposto alla sua natura particolare, nè all’intenzione
della natura in generale, e condannasse espressamente tanta moltitudine
e tante generazioni d’uomini, quante dovettero passare prima che fosse
trovata una lingua, altre a non sapere nè potere in alcun modo fare, altre
a non poter fare se non se imperfettissimamente, quello che l’uomo
doveva pur sapere e potere compiutamente fare per sua propria natura?
E poiché l’uomo senza la lingua non sarebbe uscito mai del suo stato
primitivo purissimo, e la lingua è il principale e più necessario
istrumento col quale egli ha operato ed opera quello che si chiama suo
perfezionamento; e se d’altronde tanto è per ciascuna cosa il ben essere,
quanto l’esser perfetta, nè si dà per veruna specie di enti felicità veruna
senza la perfezione conveniente ad essa specie; è egli possibile che se
questa che si chiama perfezione dell’uomo, fosse veramente tale, e
destinatagli dalla natura, essa natura nel formar l’uomo [2898] l’avesse
posto così mirabilmente lontano dalla perfezione da lei voluta e
destinatagli, ed a lui necessaria, che egli non avesse ancora nè potesse
avere nemmeno una prima idea dell’istrumento, col quale dopo
lunghissimi travagli, e lunghissimo corso di generazioni e di secoli, la sua
specie sarebbe finalmente arrivata a conseguire alcuna parte di questa
perfezione? Certo se questo è vero, perché diciamo noi che l’uomo è per
natura il più perfetto degli esseri terrestri? Lasciamo stare che la
perfezione è sempre relativa a quella tale specie in che ella si considera.
Ma paragonando pur l’uomo colle altre specie di questo mondo, se la sua
perfezione è quella che altri dice, come non si dovrà sostenere che l’uomo
è per natura la più imperfetta di tutte le cose? Perocché tutte le altre cose
hanno da natura la perfezione che loro si conviene, e però sono tutte
naturalmente così perfette, come debbono essere, che è quanto dire
perfettissime. Solo l’uomo, secondo il presupposto che abbiamo fatto, è
per natura così lontano dallo stato che gli conviene, che più, quasi, non
potrebb’essere, e quindi laddove tutte [2899] l’altre cose sono in natura
perfettissime, l’uomo è in natura imperfettissimo. Pertanto la specie
umana lungi da esser la prima in natura, è anzi l’ultima di tutte le specie
conosciute.
Questa conseguenza deriva dal supposto principio: ma come il
principio è falso, così essa non è vera; e questa proposizione considerata
ancora in se sola, si riconosce agevolmente per falsissima. Poiché
relativamente all’ordine delle cose terrestri, l’uomo come l’essere più di
tutti conformabile, è il più perfetto di tutti.
Se però nel detto ordine delle cose terrestri, considerando la
perfezione di ciascheduna specie in modo comparativo, cioè
relativamente l’una all’altra, non vogliamo immaginare una doppia scala,
ovvero una scala parte ascendente e parte discendente. E nella estremità
inferiore della prima, porre gli esseri affatto o più di tutti gli altri
inorganizzati. Indi salendo fino alla sommità, porre gli esseri più
organizzati, fino a quelli che tengono il mezzo della organizzazione, della
sensibilità, della conformabilità. E di questi farne il sommo [2900] grado
della scala, cioè della perfezione comparativamente considerata, come
quelli che forse sono per natura i più disposti a conseguire la propria
particolare e relativa felicità, e conservarla. Da questi in poi sempre
discendendo giù giù per gli esseri più organizzati sensibili e
conformabili, porre nell’ultimo e più basso grado dell’altra parte della
scala l’uomo, come il più organizzato, sensibile, e conformabile degli
esseri terrestri.
Discorrendo in questo modo, e raddoppiando o ripiegando così la
scala, troveremmo che l’uomo è veramente nella estremità non della
perfezione (come ci parrebbe se facessimo una scala sola o semplice e
retta), ma della imperfezione; e in una estremità più bassa ancora di
quella che è dall’altra parte della scala. Perocché dalla comparativa
imperfezione degli esseri posti in quel grado, non ne segue ai medesimi
alcuna infelicità laddove all’uomo grandissima.
E veramente io così penso. L’uomo non è per natura infelice. La
natura non ha posto [2901] in lui nessuna qualità che lo renda tale per se
medesima, nessuna che tal qual è naturalmente, si opponga da niuna
parte al suo ben essere; e però la natura direttamente non ha prodotto
l’uomo nè infelice, nè tale ch’ei debba necessariamente divenirlo.
Perocché l’uomo potrebbe conservarsi nello stato suo primitivo puro,
come gli altri esseri si conservano nel loro, e conservandocisi, sarebbe
così felice, o così non infelice, come gli altri esseri sono felici o non sono
infelici durando nel naturale stato. Sicché la natura in ordine all’uomo
non ha violato per niun conto nè trapassato le sue universali leggi, che
ciascuno essere abbia nella sua propria essenza immediatamente quanto
abbisogna alla felicità che gli conviene, e nulla che per se lo sforzi alla
infelicità. Ma l’eccessiva, o diciamo meglio, la suprema conformabilità e
organizzazione dell’uomo, che lo rende il più mutabile e quindi il più
corruttibile di tutti gli esseri terrestri, lo rende eziandio per conseguenza
il più infelicitabile, benché non lo renda per se stessa e naturalmente
infelice, cioè lo rende il [2902] più disposto a potersi, e più d’ogni altro
essere, allontanare dal suo stato naturale, e quindi dalla sua propria
perfezione, e quindi dalla sua felicità; perch’essa stessa conformabilità
umana è più d’ogni altra disposta e facile a poter perdere il suo primitivo
stato, uso, operazioni, applicazioni e simili. Talché difficilmente l’uomo si
conserva in effetto nel suo naturale e primitivo stato, e però difficilmente
si salva in fatti dalla infelicità. Stante le quali considerazioni, e stante
appunto la somma conformabilità e organizzazione dell’uomo,
metafisicamente considerata in ordine alla vera e metafisica perfezione,
diremo che l’uomo è il più imperfetto degli esseri terrestri, anche per
natura, in quanto però solamente ella è naturale in lui una disposizione
maggiore che in qualunqu’altro essere a perdere il suo stato e la sua
perfezione naturale. Niuna imperfezione, neppure in ordine all’uomo, si
può trovare propriamente nella natura; l’uomo non è imperfetto nè in
natura, nè per natura; anzi se volete, in natura e per natura egli è il più
perfetto degli esseri; ma [2903] in natura e per natura egli è più di tutti
disposto a divenire imperfetto; e ciò per ragione appunto della somma
sua perfezione naturale; come quelle macchine o quei lavorii
compitissimi e perfettissimi, che per esser tali, sono minutamente
lavorati, e quindi delicatissimi, e per la somma delicatezza più facilmente
degli altri si guastano, e perdono l’essere e l’uso loro.
Ma ad essi si trovano forse artefici che possono ripararli, a noi guasti
e snaturati una volta, non si trova mano che ci riponga nel primo stato,
(nè da noi medesimi siamo atti a farlo). Poiché nè la natura ci ripiglia in
mano per riformarci, come l’artefice il suo lavoro sconciato, nè altra
potenza v’ha che ci possa restaurare come un nuovo artefice il lavoro
altrui. (6. Luglio. 1823.)
Alla p. 2809. Nelle nostre Opere serie e buffe l’effetto del coro non è
cattivo. Ma esso nelle opere serie è ben lontano dal far quegli uffici, dal
sostener quel personaggio, e quindi dal muovere quelle illusioni e far
quegli effetti che faceva nelle tragedie antiche: ond’è ch’esso riesce forse
meglio nelle opere buffe, quanto all’effetto morale, giacché muove pure
all’allegria, e fa come l’uffizio, così l’effetto che produceva nelle antiche
commedie, nè il muovere all’allegria, ch’è pure una passione, è piccolo
effetto morale. Laddove nelle opere serie esso non interessa quasi che gli
occhi e gli orecchi, e niuna passione ancorché menoma nè desta nè pur
tocca. Ma questo è pur troppo il general difetto di tutta l’Opera, e
massime della seria, e nasce dal far totalmente servir le parole allo
spettacolo e alla musica, e dalla confessata nullità d’esse parole, dalla
qual necessariamente deriva la nullità de’ personaggi, e [2906] così del
coro, e quindi la mancanza d’effetto morale, ossia di passione; se non
altro la molta scarsezza, rarità, languidezza, e poca durevolezza dell’uno
e dell’altra.
Del resto i pochi moderni che hanno introdotto il coro ne’ loro
drammi regolari, come Racine nell’Ester, non avendogli dato le
condizioni ch’esso avea negli antichi, niuno o quasi niuno effetto hanno
prodotto. Ed anche la natura d’essi drammi sì moralmente parlando, e sì
anche materialmente (poiché la scena si finge per lo più in luogo coperto
e chiuso, con altre tali circostanze che restringono, e impiccoliscono, e
circoscrivono, e depoetizzano le idee), non era adattata nè al coro degli
antichi nè a’ suoi effetti. Parlo anche delle commedie, le quali presso gli
antichi si supponevano per lo più, o la più parte di ciascuna, in piazza, o
ne’ porti, come il Rudens di Plauto, o in somma all’aperto ec. V. p. 2999.
(7. Luglio. 1823.)
In tutte le lingue tanto gran parte dello stile appartiene ad essa lingua,
che in veruno scrittore l’uno senza l’altra non si può considerare. La
magnificenza, la forza, la nobiltà, l’eleganza, la semplicità, la naturalezza,
la grazia, la varietà, tutte o quasi tutte le qualità dello stile, sono così
legate alle corrispondenti qualità della [2907] lingua, che nel considerarle
in qualsivoglia scrittura è ben difficile il conoscere e distinguere e
determinare quanta e qual parte di esse (e così delle qualità contrarie) sia
propria del solo stile, e quanta e quale della sola lingua; o vogliamo
piuttosto dire, quanta e qual parte spetti e derivi dai soli sentimenti, e
quanta e quale dalle sole parole; giacché rigorosamente parlando, l’idea
dello stile abbraccia così quello che spetta ai sentimenti come ciò che
appartiene ai vocaboli. Ma tanta è la forza e l’autorità delle voci nello
stile, che mutate quelle, o le loro forme, il loro ordine ec. tutte o ciascuna
delle predette qualità si mutano, o si perdono, e lo stile di qualsivoglia
autore o scritto, cangia natura in modo che più non è quello nè si
riconosce. Veggasi la p. 3397-9.
Tutto ciò accade in tutte le lingue, fuorché nella francese. ché
veramente nella lingua francese lo stile è formato quasi tutto dai
sentimenti, e dalle figure che appartengono alle sentenze. E la diversità
degli stili, e quella delle qualità di uno stile, non si può considerare in
essa lingua se non quanto ai sentimenti, e non appartiene, non dipende,
non [2908]nasce se non da questi. Perocché, se ben si osserva, quanto alle
parole, e a tutto ciò che loro appartiene, tutti gli stili de’ francesi, sì di
diversi autori e scritture, sì di una stessa scrittura o scrittore in
diversissime materie, sono poco men che conformi.
E non è maraviglia; perocché dov’è pochissimo luogo alla scelta delle
parole e dell’ordine e composizioni loro, quivi pochissima potrà essere la
differenza o tra gli stili di vari autori o di varie opere, o tra le qualità di
un medesimo stile in diverse materie e occasioni, per ciò che spetta alle
parole. Le quali non potendosi scegliere, non possono essere qua
eleganti, qua nobili, qua efficaci, qua graziose, ma sempre tali, o non mai.
Nè potendosi scegliere gli ordini e collocamenti delle medesime, non può
nascere dalla composizion de’ vocaboli ora una qualità di stile ed ora
un’altra, ma sempre una, perché sempre una e niente variabile è ella
medesima. Dico dalla composizion de’ vocaboli considerata in se, non in
quanto ai sentimenti ch’esprimono, perché in quanto a questa parte, la
lingua francese è capace di ricever varietà di stile dalla composizione
delle parole, [2909] ma ben guardando, si sente che questa varietà non
deriva punto dalla composizione stessa in se, ma dalle sentenze e figure
loro.
Onde si può dire che la lingua francese non avendo appresso a poco
che uno stile, lo scrittor francese, quanto alla lingua, non ha mai stile
proprio, e che per quanto appartiene alle parole, lo stile di qualsivoglia
scrittor francese non è suo, ma della lingua. E così lo stile di qualsivoglia
genere di scrittura non è d’esso genere ma della lingua universale; e lo
stile della poesia francese non è della poesia ma della lingua, e lo stile
della prosa è quel della lingua, è quello della conversazione, non è
neppur proprio della prosa più che della poesia, anzi vedi in proposito la
p. 3429.
Il che si può parimente dire della lingua ebraica, nella quale altresì,
quanto alle parole, non era luogo alla scelta, benché, quanto alle
composizioni delle medesime, forse v’avesse luogo un poco più che nella
francese, essendo ella tutta indigesta e informe, e quindi tutta poetica.
Effettivamente la differenza degli stili e delle qualità di un medesimo
stile, quanto alla lingua, è così minuta e così scarsa in francese, che un
forestiere il quale benissimo la distinguerà negli scrittori greci e latini,
che sono lingue morte, difficilmente, anzi appena, secondo me, la
distinguerà e sentirà mai negli scrittori francesi. Nè potrà mai ben dire,
questo scrittore o questo passo è elegante, [2910] questo dignitoso e
magnifico, questo energico, questo grazioso quanto alle parole, e questo
no. Onde nasce che anche generalmente parlando, la differenza dello
stile, cioè del modo di esprimere i concetti, ché questo è ciò che si chiama
stile, è poco sensibile al forestiere nella lingua francese; certo assai meno
sensibile che nelle altre. Difficilissimo è ancora al forestiero il sentir la
differenza degli stili (inquanto propriamente stili) francesi di diversi
tempi (dico dal secolo di Luigi in poi), o comparando uno scrittor d’un
secolo a uno di un altro, o generalmente lo stile di un secolo a quel di un
altro. Ho detto dal secolo di Luigi, e intendo di quelli che in quel secolo
scrissero bene, e che s’hanno ancora per buoni, e inquanto s’hanno per
tali (come Corneille), nella lingua ec. Tanto più che nella espressione de’
concetti, anche in quella parte dello stile che spetta alle sentenze, il modo
degli scrittori francesi è più vario bensì che nella parte delle parole, ma
infinitamente meno vario che negli scrittori delle altre lingue, sì per
rispetto dell’uno scrittore e dell’un secolo all’altro, o dell’una opera e
dell’un genere di scrittura all’altra opera e all’altro genere, sì per rispetto
alle varie parti di una stessa opera o genere, e alle varie gradazioni e
qualità di un medesimo stile. E basti dire in prova, che la lingua francese,
non solamente non ha linguaggio, ma neppur quasi stile poetico
veramente.
In simil modo nella lingua ebraica, non si sente se non poca differenza
di stili, o di qualità di un [2911] medesimo stile. Il che si attribuisce alla
lontananza de’ tempi e de’ nostri gusti e costumi, quasi l’uniformità dello
stile ebraico non fosse vera, se non relativamente. Ma io la credo
assolutamente vera, e l’attribuisco alle dette ragioni, nè credo che lo
scrittore ebraico potesse avere stile proprio, nè veruna materia stile
proprio, ma tutti e due un solo, quanto alla lingua, per la povertà di
questa 33 ed eziandio quanto al modo e alla parte dello stile che spetta
alle sentenze, per la niuna arte degli scrittori, e perché la lingua li serrava
e circoscriveva anche in questa parte. Come appunto anche in Francia fa
la medesima lingua, e l’impero assoluto dell’usanza il qual si esercita colà
sullo stile come su d’ogni altra cosa. Del resto come la lingua francese
non ha che linguaggio e stile prosaico e manca del poetico, così l’ebraico
non ha che il poetico e manca del prosaico. E ciò perché quella è lingua
definitamente ed essenzialmente moderna, questa fu essenzialmente e
moralmente antica e quasi primitiva.
[2912] È notabile come da contrarie cause nascano uguali effetti. La
lingua ebraica non ammette varietà nello stile per esser troppo antica, la
lingua francese nemmeno, per esser troppo moderna; quella per eccesso
d’imperfezione e per povertà che nasce dall’antichità, questa per eccesso
di perfezione e per povertà che nasce dall’essere squisitamente moderna,
sì di tempo come d’indole. Nell’una e nell’altra le parole poco vagliono,
le sentenze tutto, lo stile si riduce ai nudi concetti (cosa che non ha luogo
in verun’altra lingua letterata). Ma ciò nella ebraica perché le parole non
hanno ancor preso vigore, nella francese perché l’hanno perduto; in
quella perché i concetti non hanno ancora onde farsi un corpo, in questa
perché l’hanno deposto, in quella perché la materia è ancora scarsa a
vestir lo spirito, in questa perché lo spirito ha consumato la materia, è
ricomparso nudo del corpo di cui s’era vestito, ha prevaluto alla materia,
e tutta l’esistenza è spiritualizzata, nè si vede o si tocca oramai, o certo
non si vuole nè vedere nè toccare quasi altro che spirito. [2913] Ambedue
le lingue dànno nel metafisico, e, si può dire, nell’incorporeo per due
cagioni e principii direttamente opposti, come il fanciullo per eccessiva
semplicità è talvolta così sottile nelle sue quistioni, come il filosofo per
grande dottrina e sapienza e sagacità. (7. Luglio. 1823.). V. la p. seguente.
[2923] Gl’italiani non hanno costumi: essi hanno delle usanze. Così
tutti i popoli civili che non sono nazioni. (9. Luglio. 1823.)
Bisogna (far grande stima) avere una grande idea di se stesso, per
esser capace di sacrificar se stesso. Chi non ha molta e costante stima di
se medesimo, non è buono all’amor vero, nè capace del dévouement e del
totale sacrifizio ch’egli esige ed ispira. (9. Luglio. 1823.)
Intorno al verbo habitare, che per virtù della sua formazione può
essere e continuativo e frequentativo, si considerino gli esempi del
Forcellini, in alcuni de’ quali (come in quello di Cic. de Senect. c. ult.) egli
ha decisissimamente il primo significato, in altri il secondo: o vale solere
habere cioè esse ec. E vedi ancora il primitivo habere nel senso del
continuativo habitare (dal qual senso deriva quello di questo verbo) nel
Forcellini in habeo col.3. (9. Luglio. 1823.)
Savamo, savate de’ nostri antichi, per eravamo eravate, sarebbono elle
persone di un imperfetto più regolare, più antico e più vero di sum,
sumus, sunt, che non è l’usitato eram fatto forse da un altro tema; persone,
dico, di un imperfetto sabam, era, conservato nel volgar latino fino ai
primi tempi del nostro? (9. Luglio 1823.)
[2947] Intentare lat. da intendo, onde il francese intenter e quello che noi
pur diciamo intentare un’accusa, un processo e simili. V. il Glossar. Cang.
Participio intentatus. Intentare de’ nostri antichi (v. la Crus. in intentare e
intentazione) e intentar spagnuolo, da tento colla prepos. in, e vale lo stesso
che tentare. Questo composto, tutto alla latina, ma tutto diverso dall’altro
intentare sopraddetto, io lo credo venuto, se non altro, dal latino volgare,
poiché m’ha sapor di vera latinità, e non mi riesce verisimile che sia stato
creato nelle lingue vernacole, pochissimo usate a crear nuovi composti
con preposizione il qual uso è tutto greco e latino. Participio intentato,
intentado, o intentatus, cioè tentatus (Similmente obtento, se questa voce è
vera, viene da obtineo, laddove ostento da ostendo, antic. obstendo, [v. la
p.2996.]). Diverso da questo è l’altro participio intentatus che significa il
contrario, cioè non tentatus, fatto non colla prep. in, ma colla particella
privativa del medesimo suono in, il quale participio noi pure l’abbiamo, e
viene ad essere un terzo participio intentatus diverso per origine e per
significato, benché di suono in ogni cosa conforme ed uguale, dai due
sopraddetti. Similmente inauditus, insuetus ed [2948] altri tali, vagliono
non auditus, non suetus, ed altresì l’opposto, cioè suetus, auditus, da
insuesco ed inaudio. (12. Luglio. 1823.)
Quanto mirabile sia stata l’invenzione dell’alfabeto, oltre tutti gli altri
rispetti e modi, si può anche per questa via facilmente considerare. È cosa
osservata che l’uomo non pensa se non parlando fra se, e col mezzo di
una lingua; che le idee sono attaccate alle parole; che quasi niuna idea
sarebbe o è stabile e chiara se l’uomo non avesse, o quando ei non ha, la
parola da poterla esprimere non meno a se stesso che agli altri, e che
insomma l’uomo non concepisce quasi idea chiara e durevole se non per
mezzo della parola corrispondente, nè arriva mai a perfettamente e
distintamente concepire un’idea, anzi neppure a determinarla nella sua
mente in modo ch’ella sia divisa dall’altre, e divenga idea, oscura o
chiara che sia, nè a fissarla in modo ch’ei possa richiamarla, riprenderla,
raffigurarla nella sua mente e seco stesso quando che sia; non arriva,
dico, a far questo mai, finch’egli non [2949] ha trovato il vocabolo con cui
possa significar questa idea, quasi legandola e incastonandola; o sia
vocabolo nuovo, o nuovamente applicato, se l’idea è nuova, o s’egli non
conosce la parola con cui gli altri la esprimono, o sia questo medesimo
vocabolo che gli altri usano a significarla.
Tutto ciò ha luogo in ordine ai suoni elementari della favella, per
rispetto all’alfabeto. L’alfabeto è la lingua col cui mezzo noi concepiamo
e determiniamo presso noi medesimi l’idea di ciascuno dei detti suoni.
Quegli che non conosce l’alfabeto, parla, ma non ha veruna idea degli
elementi che compongono le voci da lui profferite. Egli ha ben l’idea
della favella, ma non ha per niun conto le idee degli elementi che la
compongono: siccome infinite altre idee hanno gli uomini, degli elementi
e parti delle quali non hanno veruna idea nè chiara nè oscura che sia
separata dalla massa delle altre: e questo appunto è il progresso dello
spirito umano; suddivider le idee, e concepir l’idea delle parti e degli
elementi delle medesime, conoscere [2950] che quella tale idea ch’egli
teneva per semplice, era composta, o scompor quella idea ch’era stata
semplice per lui finallora, e scompostala concepir l’idee delle parti di
essa, sia di tutte le parti, sia d’alcuna. Nè altro è per l’ordinario una
nuova idea 37, che una porzione d’idea già posseduta, nuovamente
separata dalle altre porzioni della medesima, e nuovamente determinata
in modo ch’ella sussista da se, e sia idea da se, e da se si concepisca.
Or questa determinazione si fa col mezzo della lingua, cioè con un
vocabolo nuovo o nuovamente applicato. E non è difficilissimo il farlo,
perocché la lingua è già trovata e posseduta, e l’uomo ha chiare idee
degli elementi che la compongono, cioè de’ vocaboli, e facilmente si
aggiunge alle cose trovate.
Ma per determinare gli elementi della voce umana articolata, l’unica
lingua, come ho detto, è l’alfabeto. Or questa lingua non era trovata
ancora, e niuna idea se ne aveva. Quindi niun mezzo [2951] di
determinare presso se stesso le idee degli elementi di detta voce; e quindi
infinita difficoltà di concepir queste idee e di fissarle nella propria mente;
cioè di suddivider l’idea della voce, e stabilire nel proprio intelletto le
idee separate delle di lei porzioni.
A noi già istruiti dell’alfabeto, niuna difficoltà reca il concepire
determinatamente l’idea di ciascun suono di nostra voce, distintamente
l’uno dall’altro. Ma supponghiamo, come ho detto, un uomo non istruito
dell’alfabeto, quali sono i fanciulli e gl’illetterati, e senza insegnargli
l’alfabeto, nè dargliene veruna idea (s’è possibile che nel presente stato di
cose, un uomo, benché ignorante, niuna lontana e confusa idea possegga
dell’alfabeto), comandiamogli ch’egli da se risolva la sua propria voce nei
suoni che la compongono, e dica quanti e quali. Già questa sola
proposizione moltissima luce gli darà, la qual non avevano i primi
inventori dell’alfabeto, perocch’egli intenderà che la sua voce è composta
di parti diverse l’una dall’altra, e concepirà l’idea della divisibilità della
medesima. Idea difficilissima [2952] a concepire, e molto più quella, che
tali parti si possano determinare ciascuna da se, e concepire
distintamente l’una dall’altra. A ogni modo, dopo tutte queste idee
preliminari, e dopo aver fatto così grandi e difficili passi verso
l’invenzione dell’alfabeto, si può quasi certamente credere ch’egli in niun
modo riuscirà nè a trovare e concepire quali parti ed elementi
compongano il suono della sua voce, nè quando anche trovasse e
concepisse la qualità e diversità scambievole di questi elementi, riuscirà a
determinare e fermare appo se stesso l’idea di ciascuno di loro, non
avendo i segni con cui significarli, e rappresentarli distintamente a se
stesso, ed a cui riferire le sue proprie idee; nè formerà per niun modo il
pensiero che siccome l’altre idee si rappresentano e determinano co’
vocaboli, e così determinate e rappresentate, ad essi vocaboli si
riferiscono, così anche quelle de’ suoni elementari si possano significare e
determinare con altri segni, cioè con quelli dell’alfabeto, ed a questi
riportare [2953] colla mente. Imperciocché questo appunto è quello che
noi facciamo, senz’avvedercene: rapportiamo ciascun suono elementare
al corrispondente carattere dell’alfabeto, e per questo mezzo ne
concepiamo chiaramente e determinatamente l’idea distinta e separata,
sempre che ci occorre, e la richiamiamo e riprendiamo a piacer nostro.
Così facciamo dell’altre idee rispetto alle parole.
Ed è notabile che in questo secondo caso, noi rapportiamo l’oggetto
della nostra idea alla parola che lo significa, o pronunziata o scritta. Gli
uomini avvezzi alla lettura, sogliono per lo più rapportarsi al vocabolo
scritto, e concepir tutt’insieme l’idea di ciascuna cosa, del vocabolo che lo
significa, e della forma materiale in ch’egli si scrive. V. p. 3008. Ma
gl’illetterati e i fanciulli si rapportano semplicemente al vocabolo
pronunziato, e ciò basta a concepire l’idea determinata e chiara di
qualsivoglia cosa il cui vocabolo si conosca, e di qualsivoglia vocabolo il
cui significato ben s’intenda. Perocché ciascun vocabolo anche [2954]
semplicemente considerato nella sua profferenza, nella qual solamente
possono considerarlo gl’illetterati, ha tanto corpo, e per così dire persona,
e tanta consistenza, che basta a ferire i sensi, e quindi essere ritenuto
nella memoria, e distinto col pensiero dagli altri vocaboli.
Il che non accade circa i suoni della voce. Perocché esso suono è il
vocabolo di se medesimo; e quindi l’idea del suono e del vocabolo che lo
significa essendo una cosa stessa, e non potendosi l’uno riferire all’altro,
la mente non è in verun modo aiutata dal linguaggio a concepire
determinatamente e ritenere e richiamare a suo talento le idee d’essi
suoni distinte l’una dall’altra. Vero è che non potendosi profferir da sè se
non le vocali, tutti gli altri suoni hanno presso noi una sorta di nome, che
non è propriamente esso suono nudo, come bi ci, sono nomi di b c. E nelle
antiche lingue ciascun suono anche vocale, portava un suo proprio nome
arbitrario e di convenzione (come son le parole, o vogliam dire come i
nomi d’ogni altra [2955] cosa) il qual nome era più distinto che fra noi da
esso suono nudo, onde si può dir che in quelle lingue i suoni della favella
avessero i loro vocaboli diversi dall’oggetto, siccome l’avevano gli altri
oggetti; che il linguaggio aiutasse il pensiero anche circa i detti suoni, e
che la nuda idea de’ medesimi avesse dove appoggiarsi e a che riferirsi
anche fuori della scrittura e dell’alfabeto scritto, cioè i nomi conventizi ed
imposti dei detti suoni, e l’alfabeto pronunziato. Per esempio alèf, beth,
ghimèl, alfa, beta, gamma, iota, eta erano nell’ebraico e nel greco i nomi
propri de’ suoni, diversi da’ medesimi suoni.
Contuttociò, se non agli antichi, certo ai moderni, si può considerar
come quasi impossibile di concepir chiaramente e precisamente, ritener
costantemente, e richiamar facilmente le idee di ciascun suono
elementare della favella, delle qualità proprie di ciascuno, e della loro
scambievole diversità, senza la cognizione dell’alfabeto scritto. [2956] Nè
credo che si possa allegare esempio di chi possegga o abbia mai
posseduto distintamente e perfettamente queste tali idee nel modo e colle
condizioni ch’io dico, senza conoscere i caratteri che le significano e
rappresentano. Vale a dire non credo che alcuno abbia mai avuto e
ritenuto, abbia e ritenga la chiara, determinata e distinta idea di ciascun
suono, senza poterlo riferire al rispettivo carattere dell’alfabeto, ma
rapportandolo solamente al suo vocabolo, o non rapportandolo a cosa
alcuna, ma considerandolo col pensiero solamente in se stesso, e
tenendolo semplicemente per se stesso. Non lo credo, dico, di alcuno, e
neppur degli antichi, i quali tengo per fermo che nell’imporre i nomi che
imposero ai suoni, avessero tutt’altro intento e motivo 38 che quello di
aiutar con essi nomi il pensiero, e di far ch’essi suoni si potessero
insegnare separatamente dall’alfabeto scritto, ed esser saputi, conosciuti
distintamente e costantemente ritenuti da quelli che non conoscessero i
caratteri nè potessero in niun modo leggere. Certo i fanciulli [2957]
oggidì non prima imparano a distinguere i suoni del proprio lor favellare
che ad intendere i caratteri che li significano, nè la distinta cognizione e
idea di quelli è nelle menti loro per alcun tempo scompagnata dalla
cognizione e dalla idea di questi.
Per le quali ragioni io dissi di sopra (p. 2953.) che noi colla nostra
mente rapportiamo sempre ciascun suono elementare della favella al
corrispondente carattere dell’alfabeto, quante volte concepiamo nella
mente nostra la distinta idea di qualsivoglia dei detti suoni; e non dissi al
nome o vocabolo de’ medesimi.
Con queste considerazioni fra l’altre, e per questa via, si può
facilmente comprendere e sentire che l’invenzione dell’alfabeto fu, si può
dire, così difficile, ed è così maravigliosa come fu ed è l’invenzione della
lingua. Perocché quel medesimo che dee farci maravigliare intorno alla
lingua, cioè come sienosi potute avere idee chiare e distinte senza l’uso
delle parole, e come inventar [2958] le parole senza avere idee chiare e
distinte alle quali applicarle, questa medesima meraviglia ha luogo in
proposito dell’alfabeto. Potendosi appena concepire come questo abbia
potuto preceder le idee chiare e distinte de’ suoni elementari, o come tali
idee abbiano potuto essere innanzi alla cognizione de’ segni che li
figurano. Onde si può applicare all’alfabeto quel detto di Rousseau il
quale confessava che nella considerazion della lingua e nello investigare
e spiegare l’invenzione della medesima, trovavasi in grandissimo
imbarazzo perché non sembra possibile una lingua formata innanzi a una
società quasi perfetta, nè una società quasi perfetta innanzi all’uso d’una
lingua già formata e matura.
Anzi a rispetto dell’alfabeto cresce sotto un certo riguardo la
meraviglia. Perché idee chiare e distinte d’oggetti sensibili e
sensibilmente distinti gli uni dagli altri, si poterono avere anche senza
l’uso delle parole, e trovate le parole a significar questi oggetti, si potè col
mezzo delle similitudini e delle metafore (principale [2959] strada per cui
tutte le lingue si accrebbero) nominare eziandio gli oggetti meno
sensibilmente distinti fra loro, e quindi i meno sensibili, i meno
chiaramente conceputi, e finalmente gl’insensibili e gli oscurissimi; e
trovare il modo di significarli. Ma questa scala non ebbe luogo in ordine
all’alfabeto, che è, come ho detto, la lingua significante i suoni
elementari. Tutti questi, benché cadano sotto i sensi, sono tuttavia così
confusi, legati, stretti, incorporati gli uni cogli altri nella pronunzia della
favella, così lontani dall’essere in modo alcuno sensibilmente distinti, e la
loro diversità scambievole è così difficile a notare, ch’ella è quasi fuor del
dominio de’ sensi, e la difficoltà di concepire l’idea chiara e distinta di
ciascuno di loro senza i segni, e di trovarne i segni senz’averne
conceputo le chiare e distinte idee, non è quasi aiutata da verun rispetto,
nè fu potuta vincere gradatamente, ma quanto alla parte principale, e alla
somma dell’invenzione, essa difficoltà fu dovuta necessariamente
vincere tutta in un tratto. Questa [2960] invenzione, per dirlo
brevemente, apparteneva tutta all’analisi; è di natura sua, tutta opera ed
effetto di questa; richiedeva essenzialmente la risoluzione negli ultimi e
semplicissimi elementi, le quali cose sono appunto le più difficili
all’umano intelletto, e le ultime operazioni ch’egli soglia giungere a fare.
(12. 14. Luglio. 1823.)
Supponete un cieco nato al quale una felice operazione, nella sua età
già matura o adulta, doni improvvisamente la vista. Domandategli o
considerate i suoi giudizi (dico giudizi e non sensazioni, le quali non
appartengono alla considerazione del bello esattamente e filosoficamente
inteso) circa il bello materiale o il brutto materiale degli oggetti visibili
che si presentano a’ suoi occhi. E voi vedrete se questi giudizi sono
conformi al giudizio che generalmente si suol fare di quegli oggetti sotto
il rapporto del bello; o se piuttosto essi non sono difformissimi o
contrarissimi, non solo nelle minuzie e nelle finezze o delicatezze, ma
nelle parti e nelle cose più sostanziali. Di ciò non mancano esperienze
[2961] effettive e prove di fatto, perché la circostanza ch’io ho supposta
non manca di esempi reali.
E il cieco nato, restando cieco, quali idee concepisce egli della forma
umana e di quella degli altri oggetti ch’ei può pur conoscere per mezzo
del tatto? quali idee circa la loro bellezza o bruttezza? crediamo noi che
queste idee, questi giudizi ch’ei forma convengano colle idee e co’
giudizi degli uomini che veggono? e che sovente non sieno contrarissime
a queste? Ma se esistesse un bello ideale e assoluto, non dovrebbe il cieco
nato conoscerlo, come si pretende ch’ei conosca naturalmente e che tutti
gli uomini conoscano il bello morale che si crede essere assoluto, il qual
bello morale niuno lo vede, come il cieco non vede il bello materiale? E
nelle qualità che si credono assolutamente belle o brutte in questa o
quella specie d’oggetti; e massime in quelle qualità che appartengono
agli oggetti che il cieco nato conosce per mezzo degli altri sensi fuor della
vista; e più in quelle che appartengono alla specie umana, della [2962]
quale esso medesimo cieco fa parte, non dovrebbero le idee ed i giudizi
del cieco, in quanto egli può comprenderle, convenire col giudizio e colle
idee di quelli che veggono, circa il bello e il brutto che ne deriva o che n’è
composto? non dovrebbero dico convenire, almeno per ciò che spetta al
sostanziale e al principale? Laddove ciascuno di noi è persuaso ch’esse
idee e giudizi non convengono coi nostri, se non forse accidentalmente,
anzi per lo più ne sono remotissimi e contrarissimi. (14. Luglio 1823.)
Alla p. 2864. Noi abbiamo anche i positivi frate e suora, cioè frater e
soror. I francesi non hanno che i positivi. Frayle spagnuolo, cioè frate
religioso sembra essere un diminutivo di frater, cioè, non che sia
diminutivo in ispagnuolo, ma che sia venuto da fratellus, o dall’italiano
fratello. (16. Luglio 1823.). V. p. 2983. fine.
Dico che nella formazione dei continuativi da’ verbi della prima,
l’ultima a del participio si cambia in i. Da mussatus mussitare. Ed
aggiungo che i verbi della prima non hanno se non questo o continuativo
o frequentativo, e non un altro frequentativo che verrebbe a essere in
ititare. Si eccettuino [2987] i verbi il cui participio è dissillabo, come do,
flo, no-datus, flatus, natus, i quali non mutano l’a in i, ma la conservano.
Datare, flatare, natare. E da questi participii si potrà anche fare un distinto
frequentativo in itare, sebbene ora non mi sovvenga esempio al
proposito. (18. Luglio. 1823.)
Alla p. 2870. Come la nazion francese è tra tutte quelle europee che si
chiamano meridionali quella che più partecipa del settentrionale sì per
clima, come per indole, costumi eccetera 41 così la lingua francese è di
tutte le figlie della latina, o vogliamo dire delle meridionali colte, quella
che ha più del settentrionale sì per la natura, asprezza ec. dei suoni, come
per [2990] la proprietà ed indole della dicitura, forma, struttura ec. E si
può dire che per l’uno e per l’altro rispetto essa lingua, siccome la
nazione che la parla tenga il mezzo, e sia quasi un grado e un anello fra
le meridionali e le settentrionali europee colte. Dico per l’uno e per l’altro
rispetto, cioè per li suoni e per l’indole. Le quali due cose sono sempre
analoghe e corrispondenti fra loro, cioè tale è sempre l’indole di una
lingua perfetta qual è quella de’ suoni materiali ch’ella adopera. E la
varietà medesima che si trova fra i suoni di due lingue d’una medesima
classe, o di due lingue di classi diverse, o delle lingue di due classi (come
settentrionale e meridionale), si troverà sempre fra i caratteri e i geni
delle medesime lingue o classi, purch’elle sieno perfette, e ben
corrispondenti all’indole della nazione, il che sempre accade quando una
lingua è perfettamente sviluppata, e senza di che non può essere che una
lingua, ancorché [2991] colta, abbia perfettamente sviluppato, o conservi,
il suo vero, conveniente, naturale e proprio carattere. (19. Luglio 1823.)
Alla pag. 2974. Intorno a questo verbo urito, e al verbo quaerito di cui
diffusamente altrove, e ad altri simili, è da discorrere come segue. Puoi
vedere la p. 3060 1. e le note grammaticali del Mai a Cic. de Rep. I. 5.
p.18. Gli antichi latini dissero frequentissimamente s per r. Veggasi il
Forcell. in S, ed R, e in Quaeso. Quindi, dicendo essi uso per uro, dissero
eziandio ussi per uri preterito perfetto (raddoppiando la s dopo vocale
lunga, del qual uso v. Quintil. ap. Forcell. in S), ed usitum per uritum che
sarebbe stato il vero supino di uro. O quando anche non iscambiassero la
s e la r nelle altre voci di uro, le scambiarono certo nel perfetto nel supino
e nel participio in us, per modo che mancando il perfetto il supino e il
participio regolare, non restò in uso se non il detto ussi ed usitus e usitum,
contratto però questo in ustus e ustum, come positus-postus, e come
quaestus us e chiesto, quisto ec. da quaesitus (del che vedi la p.2894-5.).
[2992] Similmente da haereo, haurio, sia che dicessero anticamente, haeseo,
hausio, o sia come si voglia, certo è che in luogo dei regolari haeri o haerui,
haeritum haeritus, hauri o haurii o haurivi, hauritum, hauritus, fecero haesi,
hausi hausitum hausitus, che oggi rimangono in luogo di quelli, contratto
però hausitum ed hausitus in haustum ed haustus, come appunto usitus in
ustus. E fecero similmente haesitus il quale oggi non rimane, ma è
dimostrato da haesitare, che regolarmente dovrebb’essere haeritare.
Haesum, onde haesurus ec. o è contratto diversamente o anomalo, come
haesi per haesui (o haerui), il quale però fu trovato da Diomede in non so
quale antico (Forcell. Haereo fin.). Così dite di hausum ed hausus. Ma in
conferma di questo mio discorso, e di tutto quanto io dico circa questi tali
continuativi, come urito, quaerito, ed anche legito, agito e tanti altri che non
sembrano poter derivare da participii, e in conferma di quanto altrove ho
ragionato degli antichi e regolari participii e supini ora perduti, ma
dimostrati in parte da continuativi e frequentativi, eccovi appunto [2993]
haurivi o haurii, hauritu, hauriturus, hauritus (come appunto uritus
perduto, onde uritare; quaeritus perduto, onde quaeritare, querido, chéri ec.)
usati anch’essi in vece di hausi, haustu, hausturus (o, come Virg. hausurus),
haustus; bensì da autori, la più parte, recenti, perché, come ho detto,
l’antica pronunzia preferiva la s. Ma la regolare era pur questa, e il
vederla usata da’ più moderni e più rozzi, e il vederla convenire coi
continuativi antichi (come urito, quaerito), i quali da essa e non d’altronde
derivano, persuade ch’ella fosse conservata continuamente nelle bocche
del volgo, fino a passare nelle lingue moderne, giacché p.e. querido chéri
ec. non sono altro che il regolare e originario quaeritus per quaesitus, onde
l’antico quaeritare proprio de’ Comici Plauto e Terenzio, il qual verbo fa
fede al detto participio, che conservatosi nelle lingue moderne, è perduto
nel latino.
Del resto, io non so, come ho detto, se gli antichi dicessero anche uso,
haeseo, hausio ec. per [2994] uro ec. come dissero ussi, hausi, haesi ec. per
uri perfetto, hauri o haurii ec. Ben so che siccome dissero quaesii, quaesivi,
quaesitus, quaesitum per quaerii, quaerivi, quaeritus, quaeritum che sono
affatto perduti, così dissero quaeso per quaero, e tutto questo verbo
profferirono colla s siccome colla r, benché questa in molte voci di quaero
non sia perduta, anzi col tempo sia rimasta in esse voci la sola pronunzia
della r, e non quella dell’s. Dalle quali cose è seguìto che di quaero e
quaeso si facciano dai lessicografi ec. due verbi, essendo un solo, e che
quaero si faccia anomalo (quaero is, sii o sivi, situm) e quaeso difettivo
(quaeso is, ii o ivi), quando in realtà il primo (volendoli distinguere, che
non si dee) sarebbe difettivo, e il secondo intero e regolarissimo. Ma
tornando al proposito, questo quaeso mi persuade che si dicesse anche
haeseo, hausio e così in ogni altra voce; e così pure in molti altri verbi de’
quali si dee discorrere nel [2995] modo stesso che si è fatto di uro, haereo,
haurio, quaero. (19. Luglio. 1823.)
Alla p. 2922. fine. Alcune volte noi diciamo volere anche di cose
animate, anche degli uomini, ma relativamente a ciò che non dipende
dalla lor volontà, o che non può dipender da volontà, o che anche è
contrario affatto alla lor volontà; e lo diciamo non solo per ischerzo, ma
eziandio seriamente, in virtù dell’idiotismo che ho preso a illustrare. P.e.
il tale non vuole ancora guarire, cioè, ancor non guarisce: e il verbo volere
ridonda. Qua si dee riferire un luogo di Platone nel Sofista ed. Astii t. 2.
p.246. [3001] v. 7. A. dove οὐδέποτ᾽ ἃν ἐϑέλειν µαϑεῖν è lo stesso che
οὐδέποτ᾽ ἃν µαϑεῖν, e ben lo rende l’Astio nec numquam fore ut discat,
ridondando elegantemente ἐϑέλειν. Se però non si vuol dire che in
questo luogo equivalga a µέλλειν, appunto come il nostro volere nei casi
specificati di sopra, e in ciò pure sarà notabile la conformità del nostro
idiotismo coll’attico. (21. Luglio. 1823.)
[3006] Suso, giuso. Così i più antichi latini per sursum deorsum. V.
Forcellini in Susum ec. e il Gloss. se ha nulla. Alla p.2814. Vindicare,
indicare che risponderebbe forse a indicere com’educare a educere. Ma si
può pur dubitare che quello venga da vindex icis, questo da index icis; 45 e
così iudicare da iudex icis, educare da un e-dux ucis, (in senso reciproco
come redux da reduco) jugare da jux o junx jugis ch’esiste oggidì ne’
composti coniux ec. come ho detto altrove. E così si può molto dubitare
che tutta questa categoria di verbi venga da nomi verbali o noti o ignoti,
non da’ verbi originarii a dirittura. In ogni modo, posto quello che ho
congetturato altrove, che tali nomi, come dux, dex (iu-dex, in-dex ec.), ceps
(particeps, au-ceps ec.), fex (artifex ec.), spex (aru-spex ec.), fer (luci-fer ec.), e
simili, sieno anteriori ai rispettivi verbi, seguirebbe da ciò che i verbi di
questa categoria formati da tali nomi fossero fratelli e non figli di que’
della terza corrispondenti, e sempre sarebbe importante e a proposito
nostro il notare come di due verbi fatti da una radice, quello [3007] che
ha o che da principio ebbe senso continuativo, sia della prima
coniugazione, e l’altro della terza ec. Si può anche discorrere in questo
modo. Educare può venire da dux, aggiunta la preposizione al solo verbo,
e non al nome; onde non è necessario supporre un nome composto edux.
Basta il nome semplice. Così sacrificare (p. 2903.) può venir da un sacrifex
ed anche dal semplice fex. Così occupare (p. 2996.) può venire da un occeps
occupis (come auceps aucupis onde aucupare), ovvero occeps occipis che
sarebbe il medesimo (giacché la mutazione scambievole dell’i ed u in
questi tali nomi è ordinarissima siccome in ogni altro caso; e quindi
mancipium e mancupium etc.), può venir dico da questo nome composto,
ovvero dal semplice ceps. Mancipo o mancupo, secondo questo discorso,
non verrà da manus e capio, ma da manceps ipis, che anticamente si
dovette anche dir manceps cupis. V. p.3019. fine. Opitulare (p.2997.) verrà
da opitulus. E così, se non tutti, almeno una gran parte de’ verbi di questa
categoria. 46 (22. Luglio. 1823.)
Alla p.2845. Si vuol notare che avvisare e altri verbi da me segnati alla
p. 3005. i quali vengono da videre serbano la forma regolare e ordinaria
della loro derivazione dal participio in us, mentre il continuativo di video
che trovasi nel buon latino, non serba questa forma, e non è visare, ma
visere, coi composti invisere, revisere ec. Frattanto il franc. viser anche per
significato è vero continuativo di videre, ed è fatto da questo, non dal
verbo francese che gli risponde, cioè voir il quale non ha mai la sillaba vis.
Se però viser non viene da visage o dalla parola vis che propriamente
significa viso, benché ora non s’adoperi che nella dizione vis-à-vis. (24.
Luglio. 1823.)
Alla p. 3007. Che tali verbi vengano da cotali nomi piuttosto che da’
verbi corrispondenti della terza, si può anche dedurre dal vedere che
praeceps, [3020] il quale sembra venir dalla stessa radice di manceps auceps
ec. (siccome anceps ἀµϕιλαϕὴς, il quale fa pure ancipitis e non ancipis o
ancupis), secondo quello che altrove ne ho ragionato, avendo per suo
genitivo praecipitis e non praecipis o praecupis, troviamo che il verbo della
prima coniugazione che a lui corrisponde, non è praecipare nè praecupare,
ma praecipitare. Laddove manceps particeps ec. facendo mancipis, participis,
troviamo che si dice appunto mancipare, participare, e non mancipitare,
participitare. ec. (24. Luglio. 1823.)
Alle molte cose da me dette altrove per mostrare come la lingua greca
non ha bisogno che di poche radici per essere ricchissima, stante l’infinito
uso ch’ella fa delle derivazioni e composizioni ec., e com’ella moltiplichi
in infinito i suoi vocaboli primitivi, ec. aggiungi la voce media ch’ella ha,
e il bellissimo uso ch’ella fa delle [3022] voci passive de’ suoi verbi.
Perocché di moltissimi verbi greci si può dire che ciascuno di essi non è
uno, ma tre, e serve per tre; avendo l’attivo, il medio, e il passivo de’
medesimi, ciascuno un significato diverso proprio, oltre ai metaforici che
ha per ciascuno di loro, e questi anche diversi, cioè l’attivo diverso dal
medio ec. O vogliamo dire che ciascuno di tali verbi ha tre ben distinti
significati propri, oltre ai metaforici. Nè questi significati si possono
confondere insieme, perocché ciascuno di loro corrisponde a una diversa
e distinta inflessione. Onde non si accumulano i significati in una stessa
parola, e non ne segue l’oscurità e ambiguità, nè la povertà e uniformità
che da tale accumulamento deriva nella lingua ebraica. E pur quei tre
non sono in sostanza che un verbo, e non hanno che un tema. L’uso che i
latini fanno del passivo non è paragonabile a quello che ne fanno i greci
(oltre che il passivo latino è difettivo e scarso, avendo bisogno in gran
parte dell’ausiliare sum). Appresso i quali il passivo [3023] ha sovente
una significazione propria attiva o neutra, diversa però da quella
dell’attivo, e da quella del medio ec. ec. (24. Luglio. 1823.)
[3027] Alla p. 2895. fine. Da sutus ancora si potè fare sto, poiché anche
l’u per contrazione, nominatamente ne’ participii, è solito a sparire,
siccome l’i. Da solutus gli spagnuoli soltar, noi sciolto, omesso l’u. Da
volutus e volutare noi voltare e volto, e così ne’ composti involto, rivolto ec.
Così gli spagnuoli buelto o vuelto: i francesi voûte (cioè volta sostantivo) e
quindi voûter, dove la sillaba ou equivale al nostro ol, come in écOUter
ascOLtare. Volta per fiata, viene altresì da volvere ed è contrazione di
voluta. Così il sostantivo spagn. buelta cioè voltata, ritorno ec. (25. Luglio.
1823.)
Alla p. anteced. Chi poi volesse che pisere non venisse da pisus
(benché pur se n’abbia un bellissimo esempio in visere da visus, siccome
ho detto), ma che (s’ei veramente esistè) fosse lo stesso che pinsere,
detratta la n come in pistus, mi darebbe altresì poca noia. In tal caso pisare
non sarebbe fratello ma figlio di pisere; e certo esso e pisar e pigiare
verrebbero da pisus, come dimostrano gl’infiniti [3040] esempi che della
formazione di tali verbi della prima maniera da’ participii in us d’altri
verbi, raccoglie la mia teoria de’ continuativi ec. ec. (26. Luglio. dì di
Sant’Anna. 1823.). V. p.3052.
L’uomo in cui concorressero grande e colto ingegno, e risolutezza, si
può affermare senz’alcun dubbio che farebbe e otterrebbe gran cose nel
mondo, e che certo non potrebbe restare oscuro, in qualunque
condizione l’avesse posto la fortuna della nascita. Ma l’abito della
prudenza nel deliberare esclude ordinariamente la facilità e prontezza
del risolvere, ed anche la fermezza nell’operare. Di qui è che gli uomini
d’ingegno grande ed esercitato sono per lo più, anzi quasi sempre
prigionieri, per così dire, dell’irresolutezza, difficili a risolvere, timidi,
sospesi, incerti, delicati, deboli nell’eseguire. Altrimenti essi
dominerebbero il mondo, il quale, perché la risolutezza per se può
sempre più che la prudenza sola, fu ed è e sarà sempre in balia degli
uomini mediocri. (26. Luglio, dì di S. Anna. 1823.)
[3041] Alla p.3014. Io credo per certo che in qualunque modo, quelle
inflessioni, voci, frasi ec. che in Omero si credono proprie di tale o tal
altro dialetto, fossero al suo tempo per qualsivoglia cagione conosciute
ed intese da tutte le nazioni greche, o se non altro, da una tal nazione
(come forse la ionica), alla qual sola, in questo caso, egli avrà avuto in
animo di cantare e di scrivere, e avrà probabilmente cantato e scritto.
Quanto agli altri poeti, se le ragioni che ho addotte per ispiegare come,
malgrado l’uso de’ dialetti, essi fossero universalmente intesi, non
paressero bastanti, si osservi che effettivamente in Grecia, siccome
altrove, i poeti cessarono ben presto di cantare al popolo, (e così pur gli
altri scrittori), e il linguaggio poetico greco divenne certo inintelligibile al
volgo, dal cui idioma esso era anche più separato che non è la lingua
poetica italiana dalla volgare e familiare. Scrissero dunque i poeti per le
persone colte, le quali intendendo e studiando tuttodì e sapendo a
memoria i versi d’Omero, e citandoli, parodiandoli, alludendovi a ogni
tratto [3042] nella colta conversazione e nella scrittura, intendevano
anche facilmente gli altri poeti, e il linguaggio poetico greco, benché
composto delle proprietà di vari dialetti. Perocché esso era tutto
Omerico, come ho detto, sia in ispecie sia in genere; cioè le inflessioni, le
frasi, le voci che lo componevano, o erano le identiche Omeriche (e tali
erano in fatti forse la più gran parte), o erano di quel tenore, di quella
origine, derivate o formate da quelle di Omero, o tolte dai fonti e dai
luoghi ond’egli le trasse, e ciò secondo i modi e le leggi da lui seguite.
Quei poeti che scrissero dopo Omero al popolo, e per il popolo
composero, come i drammatici, poco o nulla mescolarono i dialetti, e ne
segue effettivamente che se talvolta il loro stile è Omerico, come quello di
Sofocle, il loro linguaggio però non è tale. Esso è attico veramente,
siccome fatto per gli Ateniesi, se non forse nei pezzi lirici, i quali anche
per la natura del soggetto e del genere, sarebbero stati poco alla portata
degl’ignoranti. In effetto Frinico appresso Fozio (cod. 158.) conta fra’
modelli, regole [3043] norme del puro e schietto sermone attico i tragici
Eschilo, Sofocle, Euripide, e i Comici in quanto sono attici, perocché
questi talora per ischerzo o per contraffazione mescolarono qualche cosa
d’altri dialetti, e ciò non appartiene al nostro proposito, ed alcuni tragici,
forse, avendo rispetto al gran concorso de’ forestieri che d’ogni parte
della Grecia accorrevano alla rappresentazione dei drammi in Atene, non
avranno avuto riguardo di usare alcuna cosa d’altri dialetti. Ma
generalmente si vede che il dialetto de’ drammatici greci è un solo. E del
resto, siccome tra noi e ne’ teatri di tutte le colte nazioni, benché la più
parte dell’uditorio sia popolo, nondimeno i drammi che s’espongono,
non sono scritti nè in istile nè in lingua popolare, ma sempre colta, e bene
spesso anzi poetichissima e diversissima dalla corrente e familiare ed
eziandio dalla prosaica colta; così si deve stimare che accadesse appresso
a poco più o meno anche in Grecia e in Atene, dove i giudici de’ drammi
che concorrevano al premio, [3044] non era finalmente il popolo, ma uno
scelto e piccol numero d’intelligenti, e dove le persone colte fra quelle che
componevano l’uditorio, erano per lo meno in tanto numero come fra
noi. V. il Viaggio d’Anacar. cap. 70.
Altri poeti non drammatici si restrinsero pure a tale o tal dialetto
particolare, e per conseguenza scrissero a una sola nazione o parte della
Grecia, e questa si proposero per uditorio (com’è verisimilissimo che
facesse anche Omero); nè questi furono pochi, anzi fra gli antichi furono i
più. E si può dir che la totale, confusa, indifferente, copiosa mescolanza
de’ dialetti nel linguaggio poetico greco, e il seguir ciecamente la lingua e
l’uso di Omero non sia proprio se non de’ poeti greci più moderni e nella
decadenza della poesia, come Apollonio Rodio, Arato, Callimaco e tali
altri de’ tempi de’ Tolomei, quando già la base della letteratura greca era
l’imitazione de’ suoi antichi classici. Perocché di Esiodo contemporaneo
di Omero, o poco anteriore o posteriore, non è maraviglia se il suo
linguaggio si trova omerico: spieghisi l’uso di [3045] questo linguaggio in
lui, colle ragioni e considerazioni stesse con cui si spiega in Omero. In
Anacreonte v’ha pochissima mescolanza di dialetti. (V. Fabric. B. Gr. in
Anacr.) Certo il suo linguaggio è tutt’altro da quello di Omero. Esso è
Ionico. Saffo scrisse in Eolico. Empedocle, benché Siciliano e pittagorico,
adoperò in vece del dorico l’ionico. (V. Fabric. in Empedocle, Giordani
sull’Empedocle di Scinà, fine dell’articolo secondo). Forse che il dialetto
ionico era allora il più comune della Grecia? Probabile, pel gran
commercio di quella nazione tutta marittima e mercantile. Forse quello
che noi chiamiamo ionico non era in quel tempo che il linguaggio
comune della Grecia, siccome poi lo fu con certe restrizioni l’attico, che
nacque pur dall’ionico? Probabile ancora; e in tal caso sarebbe risoluta
anche la quistione intorno ad Omero, il quale da tutti è riconosciuto per
poeta principalmente ionico di linguaggio; e si confermerebbe la mia
opinione che il linguaggio da lui seguito, non fosse allora che l’idioma
comune di tutta la Grecia, siccome l’italiano [3046] del Tasso è l’italiano
comune di tutta l’Italia. O forse la Grecia era ancor troppo poco colta
universalmente per aver un linguaggio comune già regolato e perfetto, e
in mancanza di questo serviva l’ionico, come il più divulgato perché
proprio della nazione più commerciante? O finalmente Empedocle scelse
l’ionico per imitare e seguire Omero? Molto probabile. In Pindaro e in
altri lirici del suo o di simil genere, la mescolanza de’ dialetti non fa
maraviglia. Essa è licenza piuttosto che istituto (ἐπιτήδεµα); e questa
licenza è naturale in quel genere licenziosissimo in ogni altra cosa, come
stile, immagini, concetti, transizioni, sentenze ec.
Questa mia sentenza che il creduto moltiplice dialetto di Omero, non
fosse che il greco comune di allora, o non fosse che un dialetto solo al
quale appartenessero tutte quelle proprietà che ora a molti e diversi si
attribuiscono, credo che sia sentenza già sostenuta e [3047] anche
generalmente ricevuta oggidì appresso gli eruditi stranieri. (26. Luglio
1823. dì di S. Anna.)
Voce non esistente nel latino scritto, comune però alle tre lingue
figlie. Speranza, espérance, esperança, cioè sperantia, verbale di [3052] spero,
fatto secondo l’uso del buon latino, come constantia, instantia, redundantia
ec. (27. Luglio. 1823.)
[3054] A proposito di quel che ho detto nel principio del mio discorso
sui continuativi circa exspectare esperar ec. vedi il Gloss. Cang. in Sperare 3,
e 5. (27. Luglio. 1823.)
Alla p. 3040. fine. Questi tali diminutivi comuni a tutte tre le lingue
figlie dimostrano che l’uso di essi in luogo e significato de’ positivi viene
dal latino, massime che anche nel buon latino si trovano molti diminutivi
usati in luogo de’ positt. disusati o perduti o meno usati, ovvero
indifferentemente dai positivi ec. ec. ec. I quali fanno ben probabile che il
volgo o il sermon familiare latino usasse nel modo stesso anche que’
diminutivi positivati che oggi s’usano o in tutte 3. le lingue figlie, o in
alcuna di loro ec. da noi in parte annoverati ec. ec. ec.
Al qual proposito si osservi la voce fabula fabella ec. onde fabulo as,
fabulor aris, e favella, favellare ec. come ho largamente detto altrove.
Ch’ella venga da fari lo credo, ma parmi eziandio chiaro ch’ella è un
diminutivo d’altra voce. E tanto più che non si dice fabulella, ma fabella,
altro diminutivo, che non vien da fabula, ma pare che insieme con questo
dimostri un terzo [3055] e positivo nome, del quale ambedue sieno
diminutivi. 50 Questo positivo è ignoto nel latino. Non vi si usano che i
detti diminutivi, col verbo diminutivo fabulo ec. Ma noi abbiamo la voce
fiaba che significa appunto favola, e che poi fu applicato particolarmente a
certe stravaganti composizioni teatrali, come anche fabula in latino fu
applicato a significare i drammi in senso non diminutivo ma positivo.
Dubito forte che questo fiaba sia voce antichissima nel latino, perduta
nello scritto, conservata nel volgare fino a noi. (27. Luglio. 1823.)
Porgo per porrigo is, sincope usata dagli antichi latini e volgare tra noi.
V. Forcell. in Porgo e massime il luogo di Festo. (28. Luglio. 1823.)
Alla p. 3061. Che assare venga da ardere, e sia lo stesso che arsare, oltre
la verisimiglianza ch’ha in se medesimo, considerando i significati di tali
verbi, si fa eziandio più probabile osservando che il nostro arrostire
(franc. rôtir) ch’equivale ad assare, viene da urere ch’equivale quasi ad
ardere (preso attivamente, come noi sovente lo prendiamo, e come
bisogna considerarlo nel caso nostro: v. Forcell. in ardeo e arsus participio
passato, i Diz. franc. in arder, e lo spagnuolo). E che arrostire venga da
urere, si dimostra guardando ch’egli è corruzione (o che altro si voglia)
d’abbrostire il quale originariamente è il medesimo verbo; e che abbrostire
è quasi il medesimo che abbrostolire, il qual è corruzione di abbrustolare; e
che abbrustolare, detratte le lettere abbr (non so come premessegli) è
appunto il latino ustulare, il cui significato è nè più nè meno quello di
abbrustolare; e che ustulare è fatto da ustus di urere. Abbrustiare voce
fiorentina è quanto al materiale lo stesso che abbrustolare, mutato il tol
[3065] (lat. tul) in ti, secondo il costume della lingua nostra (e massime
della fiorentina e toscana), come da oc-ulus occh-i-o, da masc-ul-us masch-i-
o, che i fiorentini dicono mastio ec. come ho detto altrove (così da misc-ul-
are misch-i-are, i fiorentini mistiare). Le lettere abbr abr o br 1932 paiono
nelle nostre lingue esser proprie, non so perché, delle voci di questo tal
significato o simile; come in abbrostire e ne’ sopraddetti (i francesi non
conservano che l’r, cioè rostir, ma questa sembra essere un’aferesi di
abbrostire, o abrustire che sarebbe un vero latinobarbaro), in brustolare,
abbruciare ec., bruciare ec., abbronzare ec. abbruscare (v. l’Alberti), brûler,
abrasar ec. Forse queste tutte sono corruzioni del latino amb (ambustus,
amburere ec.). Veggasi il Glossario se ha nulla in proposito. Veramente
abbruciare, bruciare, brûler, abrasar sembrano non appartenere al latino, e
da quella origine da cui essi vennero, fu tolto forse ancora l’uso di
premettere le lettere abbr, abr, br ad altre voci di significato affine al loro,
[3066] benché venute d’altra origine, cioè latina ec. (30. Luglio. 1823.)
Che la lingua italiana mediante la letteratura sia stata per più secoli
divulgatissima in Europa, e più divulgata che niun’altra moderna a quei
tempi, o certo per più lungo spazio (perché la lingua spagnuola per certo
tempo lo fu forse altrettanto, e in Italia nel 600 trovo stampate le Novelle
di Cervantes in ispagnuolo, mentre oggi in tanta diffusione della lingua
francese, che niuno è che non la intenda, è ben difficile che tra noi si
ristampi un libro francese di letteratura o divertimento in lingua
francese), raccogliesi da parecchi luoghi e notizie da me segnate qua e là,
e da molte altre che si possono facilmente raccorre. Vedi in particolare
Andres, Stor. della letterat. parte 2. l. 1. poesia inglese, ed. Ven. del
Loschi, t. 4. p. 116. 117. 119., la Vita di Milton, l’Orazione di Alberto
Lollio in lode della lingua toscana, nelle Prose fiorentine, part. 2. vol. 4.
ed. Ven. 1730-43. p. 38 39, dov’è un passo molto interessante a questo
proposito. Ma si noti che in altre edizioni come in quella [3067] della
Raccolta di prose ad uso delle regie scuole, ed. 3a Torino, 1753. p.309.
questo passo, siccome tutta l’orazione, è notabilissimamente mutato; e
veggasi la prefazione al citato vol. delle Prose fior. p. X-XI. Veggasi
ancora Speroni Oraz. in morte del Bembo nelle Orazioni stampate in Ven.
1596. p. 144-5. La Canzone de’ Gigli del Caro, mandata in Francia, e fatta
apposta per colà, come anche il Commento alla medesima secondo che
dice il Caro in una delle sue lettere al Varchi, il conto fattone in Francia
ec. (vedi la Vita del Caro); la Canzone del Filicaia per la liberazione di
Vienna, mandata in Germania, e credo anche in Polonia, e colà molto
lodata, come si vede nelle lettere del Redi; 52 i poemi dell’Alamanni fatti
in Francia ad istanza di quei principi ec. e colà stampati (v. Mazzucchelli,
Vita dell’Alamanni), siccome molti altri libri italiani originali o tradotti si
pubblicavano allora o si ristampavano fuor d’Italia, nella quale certo niun
libro francese, inglese, tedesco si pubblicava o ristampava originale, e
ben pochissimi tradotti (francesi o spagnuoli); tutte queste cose, e cento
altre simili notizie e indizi di cui son pieni [3068] i libri del 500, del 600, e
anche de’ principii del 700, dimostrano quanto la lingua italiana fosse
divulgata. Nondimeno ella ha lasciato ben poche o niuna parola agli
stranieri (eccetto alcune tecniche, militari, di belle arti ec. che spettano ad
altro discorso) mentre la lingua francese tanti vocaboli e frasi e modi e
forme ha comunicato e comunica a tutte le lingue colte d’Europa, e in
esse le ha radicate e naturalizzate per sempre, e continuamente ne radica
e naturalizza. Segno che la letteratura è debol fonte e cagione e soggetto
di universalità per una lingua, perocché una lingua universale per la sola
letteratura (e per questo lato fu veramente universale l’italiana a que’
tempi, quanto mai lo sia stato alcun’altra fra le nazioni civili) non rende
διγλώττους le nazioni in ch’ella si spande, e non è mai se non materia di
studio e di erudizione (παιδείας). Quindi poco profonde radici mettono
nell’altre lingue le sue parole: e terminata l’influenza della sua letteratura
[3069] termina la sua universalità (non così, terminata l’influenza della
nazion francese è terminata nè terminerà l’universalità della sua lingua,
nè così della greca ec.), e si dimenticano e disusano ben presto quelle
parole e modi che lo studio e l’imitazione della sua letteratura aveva
forse introdotto nelle letterature straniere, ma non più oltre che nelle
letterature. Quando in Francia a tempo di Caterina de’ Medici, la nostra
lingua si divulgò per altro che per la letteratura, allora l’italianismo nel
francese non appartenne alla letteratura sola, e in questa medesima
eziandio fu maggiore assai che negli altri tempi o circostanze, onde, non
so qual degli Stefani, scrisse quel dialogo satirico del quale ho detto
altrove più volte.
Il Menagio, Regnier Desmarais, il Milton ec. che scrissero e poetarono
in lingua italiana, sono esempi non rinnovatisi, cred’io, rispetto ad
alcun’altra lingua moderna, se non dipoi rispetto alla francese, e certo
non dati nè imitati mai dagl’italiani, se non appresso [3070] parimente
quanto al francese. S’è vero che nel 500 v’avessero cattedre di lingua
italiana tra’ forestieri, come dice Alberto Lollio, esse erano, cred’io, le
uniche dove s’insegnasse lingua moderna forestiera nè nazionale, nè mai
vi fu cosa simile in Italia per nessun’altra lingua moderna (eccetto forse
in Propaganda di Roma) fino a questi ultimissimi tempi (v’è ora qualche
cattedra di lingua moderna in Italia? Dubito assai: di lingua italiana?
dubito ancor più). È noto poi che la letteratura e lingua spagnuola nel
suo secolo d’oro che fu il 500. come per noi, si modellò in gran parte
sull’italiana, colla qual nazione la Spagna ebbe allora purtroppo che fare.
(30. Luglio. 1823.)
Ho discorso altrove della voce camara o camera. V. Fedro IV. 22. v. 29.
e ivi il Desbillons e gli altri. (31. Luglio 1823.)
Agosto 1823
[3080] Assaltare da assalire, come il semplice salto lat. da salio. (1. Agos.
dì del Perdono. 1823.). V. p. 3588.
Alla p.2740. marg. Io credo bene che il ψ fosse posto in uso tanto per
esprimere il πσ, quanto il βσ e il ϕσ; e così il ξ tanto pel κσ, quanto pel
γσ e pel χσ; posto in uso, dico, dagli scrivani che in quei primi tempi e in
quella imperfezione dell’ortografia, non distinguevano bastantemente e
confondevano rispetto ai segni le varie pronunzie e i vari suoni, massime
affini, nè si curavano di distinguerli più che tanto l’un dall’altro nelle
scritture, o non sapevano perfettamente farlo. Credo per conseguenza,
che antichissimamente ϕλὲψ si pronunziasse e scrivesse ϕλὲβσ, non
ϕλέπς; ἀλείψω si pronunziasse e scrivesse ἀλείωϕσω, e non ἀλείψω;
λύγξ λύγγς, e non λύγκς; ἄρχσω ἄρξω, e non ἄρκσω; e così dell’altre
doppie. Ma che poi, introdotto l’uso di queste doppie si continuassero
quelle lettere a pronunziare secondo la derivazione grammaticale o l’uso
antico e le antiche radicali, e che quindi p.e. il ψ e il ξavessero ora una
pronunzia [3081] ed ora un’altra, cioè ora πσ ora βσ ec. non lo credo, anzi
tengo che il ψ fosse sempre pronunziato πσ, e il ξ sempre κσ. Passaggio
non difficile neppure nella pronunzia (e ordinario anche e regolare in
milione d’altri casi sì nella pronunzia che nella scrittura e grammatica
greca) d’una in un’altra affine, cioè dalle palatine γ e χ alla palatina κ, e
dalle labiali β ϕ alla labiale π. Massime che il π e il κ sono veramente
medie nella pronunzia tra le loro affini, benché si assegni il nome di
medie al γ e al β, e al δ, non al τ ec. Lo deduco dal latino, fra’ quali
parimente il χ fu sostituito sì al cs che al gs, ed anticamente scrivevasi e
pronunziavasi p.e. gregs, legs, regs, non grecs, lecs, recs, come oggidì,
almeno noi italiani, sogliamo sempre pronunziare. V. il Forc. e il Diz. di
gramm. e letterat. dell’Encicl. metod. in X. Ma che in seguito il x anche
tra’ latini antichi, ossia de’ buoni tempi, fosse sempre pronunziato cs,
come oggi, dimostrasi dal considerare p.e. i verbi lego, rego, tego e simili
(appunto venuti da’ nomi sopraddetti) i quali nel perfetto fanno rexi, texi
(lego ha legi). Dove certo la x antichissimamente equivalse a gs, come ho
detto altrove. Ma eccovi i participii lectus, rectus, tectus, che da prima
furono legitus ec. e poi contratti, mutarono il g in c. Resta dunque più che
probabile che anche quei perfetti si pronunziassero col c, recsi, tecsi
malgrado [3082] la loro derivazione grammaticale e quindi è altrettanto
probabile che qualora nell’x doveva esservi il g, passasse in c, giacché
non v’è niuna ragione di più perch’ei dovesse far questo passaggio ne’
detti perff. che in qualunqu’altra voce. (2. Agosto. dì del Perdono. 1823.)
Gli uomini che nel mondo sono stimati e son tenuti da quanto gli altri
o da più degli altri, lo sono per l’ordinario in quanto coll’uso della società
essi si sono allontanati dalla natura lor propria e dagli abiti naturali
dell’uomo generalmente, ed hanno in se oscurata e coperta la natura, o
sanno, sempre che vogliono, coprirla. E quanto più è oscurata in loro e
coperta e mutata sì la natura individuale e lor propria, vale a dire il loro
natural carattere, e gli abiti a che essa particolar natura gli avrebbe
condotti, sì la natura generale degli uomini, tanto la stima generale verso
di essi è maggiore. Voglio dir che la più parte delle qualità che negli
uomini ottengono stima appo il mondo, o sono totalmente acquisite e per
nulla naturali, anzi spesso contrarie alla natura lor propria o generale;
ovvero sono talmente svisate [3184] dal naturale che per naturali non si
ravvisano, e più che sono svisate, più, per l’ordinario, si stimano.
Perocché egli è ben raro che una qualità semplicemente naturale, e tale
qual ella è da natura, sia stimata punto nella società, e quando pur sialo,
questa stima non è nè durevole, nè salda, nè generale, nè molta, ed è
sempre inferiore a quella delle qualità acquisite o snaturate, le quali si
apprezzano per regola, stabilmente e seriamente, ma le naturali quasi per
gioco, per rarità, per variare, per passatempo, momentaneamente. Quelle
si stimano come gravi, serie, e da negozio; queste come lievi, di poca
importanza ed utilità, da semplice trattenimento e da ozio: e la società
presto se ne annoia.
Questo genere di persone ch’è l’unico generalmente stimato nella
società, tiene il mezzo fra due generi, non istimato nè l’uno nè l’altro, ma
l’uno non istimabile, l’altro stimabilissimo e molto più stimabile
veramente di quello che il mondo stima. Del primo genere sono quelle
persone, in cui la natura non ha avuto forza bastante per cangiarsi; cioè
quelle che non furono capaci dell’arte, onde vivendo nella società, non
hanno da lei saputo apprendere, nè su di lei modellarsi, e per [3185] poca
abilità naturale hanno conservata la loro natura, il loro natural carattere,
gli abiti a cui la natura o propria o generale gl’inclinò; sicché vivono e
conversano nella società, tali appresso a poco quali dapprima vi
entrarono. Ciò sono le persone povere di spirito, di tardo e duro ingegno,
di corta e scarsa capacità. Eziandio spettano a questo genere coloro in cui
la natura si conserva per mancanza di coltura che la scacci o la tramuti.
Ciò sono le persone idiote e rozze, di poco o niuno uso sociale, poco o
nulla assuefatte alla civile conversazione, le quali recano nella società,
sempre che vi si accostano, il loro primitivo carattere, e le naturali
abitudini, non mai cangiate da quello che furono da principio, non
mescolate o accresciute con alcuna qualità sociale acquisita; e ciò non per
durezza d’ingegno, nè per naturale insufficienza, e incapacità di
apprendere, ma per mancanza d’insegnamento, di esercizio, di coltura
dell’ingegno e delle maniere. Questo genere di persona sia della prima
specie sia della seconda, non è punto stimata nè ricercata [3186] nè
gradita nella società, perch’egli conserva la natura, al contrario di quelle
persone che ho detto essere apprezzate nel mondo.
Del secondo genere 71 sono coloro in cui la natura straordinariamente
forte, e più potente che nel comune degli uomini, ha superato e respinto
l’arte, e non le ha lasciato luogo da situarsi, non per istrettezza e cortezza
d’essa natura, ma perch’ella, sebbene amplissima ed estesissima, tutto il
luogo essa medesima irremovibilmente occupò. Ciò sono le persone di
carattere originale, straordinariamente vigoroso, costante, fermo, i quali
rigettano le abitudini contrarie alla loro gagliarda natura e al detto
carattere, di qualunque genere ei sia; e non soffrono di piegarsi e
adattarsi agli altrui costumi, di seguire le altrui inclinazioni, di cangiare o
di modificare o di nascondere e mascherare o finalmente di smentire se
stessi; non ammettono nè modi, nè usanze, nè gusti, nè occupazioni, nè
istituti di vita, nè parole, nè fatti se non conformi esattamente alla loro
primitiva natura ed indole, e da essa richiesti, cagionati, mossi, suggeriti.
Questi sono [3187] gli uomini chiamati singolari e originali; non mai
stimati (certo oggidì, e nelle nazioni più civili e socievoli, non mai), per lo
più disprezzati, ovvero odiati e fuggiti, sempre derisi. In questi tali tutto
è forza, e per la forza si conserva in essi immutabile la natura. Altri pur
v’ha del medesimo genere, ne’ quali avvengaché la natura sia parimente
fortissima e potentissima, contuttociò si mescola in essi e nella natura
loro una sorta di debolezza e non poca. Ciò sono quelle persone di
vastissimo finissimo e altissimo ingegno, al quale per la troppa capacità
ed ampiezza sfuggono e in essa ampiezza si perdono le cose piccole; per
la troppa finezza riescono difficilissime e impossibili ad apprendersi, a
seguirsi, a possedersi le cose grosse; per la troppa altezza escono di vista
le cose basse. Non già ch’essi sempre le sdegnino, anzi bene spesso con
somma e intentissima cura le cercano e studiano, ma con gran meraviglia
loro e dei pochi che ben li conoscono, non viene lor fatto di conseguire in
quelle cose appena una centesima parte di quell’abilità e di quel successo
che gl’ingegni mediocri, e talora [3188] piccoli, con molto minor cura e
studio, facilmente e perfettamente conseguono, possiedono e adoprano.
Il medesimo eccesso della cura e della contenzion d’animo che quei rari
ingegni pongono a conseguire ed esercitare le qualità sociali, cura e
contenzione abituale e familiare in essi, e che mai e’ non sanno
intermettere o rilasciare; il medesimo eccesso dico, togliendo loro la
possibilità della disinvoltura, del riposo d’animo, della facilità,
dell’abbandono, della sicurezza, della confidenza in se stessi (che a chi
suol riflettere sulle cose, e conoscerne e investigarne e sentirne e pesarne
le difficoltà, e a chi sempre mira alla perfezione, e d’altronde sa bene per
molte esperienze e sente quanto ella sia difficile, a questi tali, dico, la
confidenza in se stessi è impossibile); togliendo dunque loro la possibilità
di queste qualità che sono d’indispensabilissima e primissima necessità
per godere nella società e per piacerle, e generalmente per ottenere colle
parole o coi fatti qualunque successo nel mondo; il detto eccesso, torno a
ripetere, impedisce a quei rari ingegni di mai, se non
imperfettissimamente conseguire, di mai, se non con grandissima
difficoltà e stento, adoperare ed esercitare le [3189] qualità che nel mondo
si apprezzano ed amano e premiano. Questi tali, benché grandissimi
ingegni, benché fecondi di bellissimi, utilissimi, altissimi, nuovissimi
pensieri, benché scrittori sommi in questo o quel genere, o pur letterati o
filosofi o privati politici di altissimo valore, benché d’animo nobilissimi,
sensibilissimi, rarissimi, benché spesso capacissimi di dilettar
sommamente o di sommamente giovare a qualsivoglia società e a
qualunque genere di persone coi loro scritti o colle produzioni
qualunque del loro ingegno, lungamente e maturamente, o almeno
riposatamente, pensate; anzi benché le dette misere qualità siano pur
troppo propriissime de’ singolari ingegni, e tanto più quanto alcun d’essi
più s’inalza sopra il comune, e a proporzione di ciò più invincibili e
costanti; e benché quasi tutti gl’ingegni veramente singolari e sommi,
massime quelli che risplendettero o risplendono negli studi delle scienze,
delle lettere, o delle arti, fossero e sieno più o meno partecipi di tali
qualità caratteristiche, si può dire, degli straordinarii e sublimi talenti;
(vedi fra l’altre cose il Pseudo-Donato nella Vita di Virgilio [3190] cap. 6.
fine, dov’è l’autorità di Melisso, Grammatico, liberto di Mecenate,
contemporaneo di Virgilio: Forcell. in Melissus, Fabric. B. Lat. 1. 494.);
contuttociò questi tali nella società, se non da quelli che conoscono per
altra parte il loro merito, e che conoscendolo sono capaci di apprezzare
chi lo possiede, sono generalmente (e non irragionevolmente, perocché
niun diletto e molta noia e fatica reca la loro conversazione) disprezzati
ed evitati, ancor maggiormente che quelli dell’altra specie, e confusi dai
più coi primi del primo genere, ai quali in fatti, nell’esteriore e in ciò che
d’essi apparisce, quasi a capello si rassomigliano. In questo genere si può
recar per esempio della prima specie l’Alfieri, della seconda G. G.
Rousseau. 72 Anche questo genere di persone benché stimabilissimo non
è stimato, perocch’ei conserva la natura, o non è bastantemente mutato
dal naturale. Sicché tra quello che non è stimabile e quello ch’è degno di
somma stima, restano solamente stimati quelli che tengono il mezzo, e
cioè gli uomini mediocri e mediocremente [3191] degni. E ritrovasi per
questa via e sotto questo rispetto, siccome per tutte l’altre vie e per ogni
altro riguardo, trionfare nell’umana conversazione la mediocrità.
Nè solamente alla stima del mondo, ma a qualunque altro successo
nella società, come al far fortuna, all’avanzarsi nel favore o de’ principi o
de’ privati, e a cose tali si può applicare la triplice distinzione e la
successiva suddivisione degli uomini da me fatta fin qui, e troverannosi
dovunque gli effetti corrispondere ai sopra osservati, secondo i generi e
le spezie surriferite. (18. Agos. 1823.)
All’amore che noi abbiamo della vita, e quindi delle sensazioni vive,
dee riferirsi il piacere che ci recano negli scritti o nel discorso le parole
chiamate espressive, cioè quelle che producono in quanto a loro una idea
vivace, o per la vivacità dell’azione o del soggetto qualunque ch’elle
significano (come spaccare), o perché vivamente rappresentano
all’immaginativa questa [3192] medesima azione o soggetto, qualunque
siasi la cagione perch’esse vivamente lo rappresentino (come spaccare più
vivamente rappresenta l’azione significata, e desta un’idea più viva che
fendere per varie ragioni che ora non accade specificare, e lungo sarebbe il
farlo), o perché di un’azione o di un soggetto non vivace, ne destano però
una viva e presente idea. (18. Agosto. 1823.)
Per li nostri pedanti il prender noi dal francese o dallo spagnuolo voci
o frasi utili o necessarie, non è giustificato dall’esempio de’ latini classici
che altrettanto faceano dal greco, come Cicerone massimamente e
Lucrezio, nè dall’autorità di questi due e di Orazio nella Poetica, che
espressamente difendono e lodano il farlo. Perocché i nostri pedanti
coll’universale dei dotti e degl’indotti tengono la lingua greca per madre
della latina. Ma hanno a sapere ch’ella non fu madre della latina, ma
sorella, nè più nè meno che la francese e la spagnuola sieno sorelle
dell’italiana. Ben è vero che la greca letteratura e [3193] filosofia fu, non
sorella, ma propria madre della letteratura e filosofia latina. Altrettanto
però deve accadere alla filosofia italiana, e a quelle parti dell’italiana
letteratura che dalla filosofia debbono dipendere o da essa attingere, per
rispetto alla letteratura e filosofia francese. La quale dev’esser madre
della nostra, perocché noi non l’abbiamo del proprio, stante la singolare
inerzia d’Italia nel secolo in che le altre nazioni d’Europa sono state e
sono più attive che in alcun’altra. E voler creare di nuovo e di pianta la
filosofia, e quella parte di letteratura che affatto ci manca (ch’è la
letteratura propriamente moderna); oltre che dove sono gl’ingegni da
questa creazione? ma quando anche vi fossero, volerla creare dopo
ch’ella è creata, e ritrovare dopo trovata ch’ell’è da più che un secolo, e
dopo cresciuta e matura, e dopo diffusa e abbracciata e trattata
continuamente da tutto il resto d’Europa del pari; sarebbe cosa, non solo
inutile, ma stolta e dannosa, mettersi a bella posta lunghissimo tratto
addietro degli [3194] altri in una medesima carriera, volersi collocare sul
luogo delle mosse quando gli altri sono già corsi tanto spazio verso la
meta, ricominciare quello che gli altri stanno perfezionando; e sarebbe
anche impossibile, perché nè i nazionali nè i forestieri c’intenderebbono
se volessimo trattare in modo affatto nuovo le cose a tutti già note e
familiari, e noi non ci cureremmo di noi stessi, e lasceremmo l’opera,
vedendo nelle nostre mani bambina e schizzata, quella che nelle altrui è
universalmente matura e colorita; e questo vano rinnovamento piuttosto
ritarderebbe e impaccerebbe di quel che accelerasse e favorisse gli
avanzamenti della filosofia, e letteratura moderna e filosofica. Erano ben
altri ingegni tra’ latini al tempo che s’introdussero e crebbero gli studi nel
Lazio; ben altri ingegni, dico, che oggi in Italia non sono. Nè però essi
vollero rinnovare nè la filosofia nè la letteratura (la quale essendo allora
poco filosofica, si potea pur variare passando a nuova nazione), ma
trovando l’una e l’altra in alto stato, e grandissimamente avanzate e
mature appresso i [3195] greci, da questi le tolsero, e gli altrui
ritrovamenti abbracciarono e coltivarono; e ricevuti e coltivati che gli
ebbero, allora, secondo l’ingegno di ciascheduno e l’indole della nazione,
de’ costumi, del governo, del clima, della lingua, delle opinioni romane,
modificarono ed ampliarono le cose da’ greci trovate, e diedero loro abito
e viso e attitudini domestiche e nuove. Se vuol dunque l’Italia avere una
filosofia ed una letteratura moderna e filosofica, le quali finora non ebbe
mai, le conviene di fuori pigliarle, non crearle da se; e di fuori
pigliandole, le verranno principalmente dalla Francia (ond’elle si sono
sparse anche nelle altre nazioni, a lei molto meno vicine e di luogo e di
clima e di carattere e di genio e di lingua ec. che l’italiana), e vestite di
modi, forme, frasi e parole francesi (da tutta l’Europa universalmente
accettate, e da buon tempo usate): dalla Francia, dico, le verrà la filosofia
e la moderna letteratura, come altrove ho ragionato, e volendole ricevere,
nol potrà altrimenti che ricevendo altresì assai parole e frasi di là, ad esse
intimamente e indivisibilmente spettanti e fatte proprie; [3196] siccome
appunto convenne fare ai latini delle voci e frasi greche ricevendo la
greca letteratura e filosofia; e il fecero senza esitare. E noi colla stessa
giustificazione, ed anche col vantaggio della stessa facilità il faremo,
essendo la lingua francese sorella dell’italiana siccome della latina il fu la
greca, e producendo la filosofia e la filosofica letteratura francese una
letteratura moderna ed una filosofia italiana, siccome già la greca nel
Lazio. E tanto più saremo fortunati degli altri stranieri che dal francese
attinsero voci e modi per la filosofia e letteratura, quanto che noi nel
francese avremo una lingua sorella, e non, com’essi, aliena e di
diversissima origine. (18. Agos. 1823.)
Alla p. 1011. marg.-fine. Aggiungete ancora che la lingua latina è
della italiana, madre conosciuta e certa e fuori d’ogni controversia. Non
così accade all’altre lingue d’origine diversa. Si saprà per certo che la
lingua tedesca è d’origine teutonica, la svedese d’origine slava, ma quale
delle antiche lingue teutoniche o schiavone sia madre della tedesca e
della svedese, non si potrà senza moltissime controversie, nè senza
grandi [3197] dubitazioni e incertezze, nè più che largamente e mal
distintamente, determinare ec. ec. (19. Agos. 1823.). Noi sappiamo bene
qual e che cosa sia questa lingua latina madre dell’italiana, e possiamo
definitamente additarla, e mostrarla tutta intera. Ma dir che la teutonica
o la slava o simili è madre della tedesca o della russa ec., è quasi un dire
in aria, benché sia vera, nè quelli possono definitamente additarci quale
individualmente sia questa lor lingua madre, nè, se non confusamente e
per laceri avanzi, mostrarcela.
Che quello che nella musica è melodia, cioè l’armonia successiva de’
tuoni, o vogliamo dire l’armonia nella successione de’ tuoni, sia
determinata, come qualsivoglia altra armonia ovver convenienza
dall’assuefazione, o da leggi arbitrarie; osservisi che le melodie musicali
non dilettano i non intendenti, se non quanto la successione o successiva
collegazione de’ tuoni in esse è tale, che il nostro orecchio vi sia
assuefatto; cioè in quanto esse melodie o sono del tutto popolari, sicché il
popolo, udendone il principio, ne indovina il mezzo e il fine e tutto
l’andamento, o s’accostano al popolare, o hanno alcuna parte popolare
che al popolare si accosti. Nè altro è nelle melodie musicali il popolare, se
non se una successione di tuoni alla quale gli orecchi del popolo, o degli
uditori generalmente, siano per qualche modo assuefatti. E non per altra
cagione riesce universalmente grata la musica di Rossini, se non perché
[3209] le sue melodie o sono totalmente popolari, e rubate, per così dire,
alle bocche del popolo; o più di quelle degli altri compositori, si
accostano a quelle successioni di tuoni che il popolo generalmente
conosce ed alle quali esso è assuefatto, cioè al popolare; o hanno più parti
popolari, o simili, ovver più simili che dagli altri compositori non s’usa,
al popolare. E siccome le assuefazioni del popolo e dei non intendenti di
musica, circa le varie successioni de’ tuoni, non hanno regola
determinata e sono diverse in diversi luoghi e tempi, quindi accade che
tali melodie popolari o simili al popolare, altrove piacciano più, altrove
meno, ad altri più, ad altri meno, secondo ch’elle agli uditori riescono o
troppo note e usitate; o troppo poco; o quanto conviene, colla competente
novità che lasci però luogo all’assuefazione di far sentire in quelle
successioni di tuoni la melodia, la qual dall’assuefazione degli orecchi è
determinata. Onde una medesima melodia musicale piacerà più ad uno
che ad altro individuo, più in [3210] una che in altra città, piacerà
universalmente in Italia, o piacerà al popolo e non agl’intendenti, e
trasportata in Francia o in Germania, non piacerà punto ad alcuno, o
piacerà agl’intendenti e non al popolo; secondo che le assuefazioni di
ciascheduno orecchio circa le successioni de’ tuoni, saranno più o meno o
nulla conformi o affini agli elementi o membri (µέλη) che comporranno
essa melodia, ovvero a quello che si chiama il motivo.
E di qui, e non d’altronde, nasce la diversità de’ gusti musicali ne’
diversi popoli. Dico ne’ popoli, e non dico negl’intendenti, i quali avendo
tutti un’arte uniforme, distinta in regole, universalmente abbracciata e
riconosciuta, co’ suoi principii fissi e invariabili e universali, siccome
quelli di qualsivoglia altra scienza che tale è in Italia quale in Polonia, in
Portogallo, in Isvezia; nel giudicare di una melodia musicale, non mirano
all’orecchio, ma alle regole e a’ principii ch’essi hanno nella loro arte o
scienza, cioè nel contrappunto; ed essendo esse regole e principii
dappertutto gli stessi e dappertutto ugualmente riconosciuti, i giudizi
che i diversi intendenti pronunziano non possono grandemente [3211]
disconvenire gli uni dagli altri, e tanto meno quanto essi più sono
intendenti. Ma non così de’ popoli, e de’ non intendenti, i quali non
hanno altra regola e canone che l’orecchio, e questo non ha altri principii
che le sue proprie assuefazioni, e non già alcuni dettati e infusi
universalmente dalla natura, come si crede. E però le nostre melodie non
paiono pur melodie a’ turchi a’ Cinesi nè ad altri barbari, o diversamente
da noi, civili. Che se questi pure alcuna volta se ne dilettano, il diletto
non nasce in loro dalla melodia, cioè dal senso della successiva armonia
de’ tuoni, la quale essi non sentono nè comprendono, posto pur ch’ella
fusse tra noi l’una delle più popolari; ma nasce da’ puri suoni per se, e
dalla delicatezza, facilità, rapidità, volubilità del loro succedersi,
mescolarsi, alternarsi (sia nella voce o in istrumenti), dalla dolcezza delle
voci o degl’istrumenti, dal sonoro, dal penetrante e da simili qualità de’
medesimi, dalla soavità eziandio de’ rapporti rispettivi d’un tuono
coll’altro in quanto alla facilità e alla delicatezza del passaggio da questo
a quello (laddove i passaggi nelle [3212] musiche de’ barbari sono
asprissimi, perché fatti da tuoni a tuoni troppo lontani o da corde a corde
troppo distanti), e insomma da cento qualità (per così dire, estrinseche)
della nostra musica che nulla hanno a fare colla rispettiva scambievole
armonia o convenienza de’ tuoni nella lor successione, cioè colla melodia,
e col senso e gusto della medesima, che nè i turchi nè gli altri barbari,
udendo la nostra musica, non provano punto mai. La qual cosa appunto,
salva però la proporzione, accade ai non intendenti di musica e al popolo
fra noi, quando egli odono, come tutto dì avviene, di quelle melodie che
nulla o troppo poco hanno del popolare. Niun diletto ne provano, se non
quello, per così dire, estrinseco, che di sopra ho descritto, e che nasce
dalle qualità della musica, diverse e indipendenti dall’armonia de’ tuoni
nella successione. Di queste non popolari melodie, che sono la più gran
parte della nostra musica, parlerò poco sotto. E per conchiudere il
discorso de’ barbari e delle nazioni che hanno circa la musica idee e gusti
e sentimenti affatto diversi da’ nostri, dico che in essi, siccome [3213] fra
noi, le assuefazioni determinano quali sieno le successive collegazioni de’
tuoni che sieno tenute per melodie, e le assuefazioni cagionano, siccome
fra noi, il senso e il piacere d’esse melodie, quando elle sono udite. E
questo, se in essi popoli, non v’ha teoria musicale, accade a tutta la
nazione. Se alcun d’essi popoli ha teoria musicale, come l’hanno i
Chinesi, diversa però dalla nostra, gl’intendenti fra loro hanno altra
cagione che determina il loro giudizio e produce in loro il diletto circa le
melodie; e questa cagione si è, come nei nostri intendenti, la conformità
di quelle cotali successioni de’ tuoni co’ principii e i canoni della loro
teoria o arte o scienza musicale, i quali principii e canoni essendo diversi
da’ nostri, diverso eziandio dev’essere il giudizio di quegl’intendenti
circa le varie, o nazionali o forestiere, melodie, da quello de’ nostri, e
diverso similmente il piacere. E così è infatti nella China, dove e il popolo
(che dappertutto, dovunque esiste una musica, avrebbe giudicato nello
stesso modo) e gl’intendenti (il che non potrebbe avvenire nelle nazioni
barbare che non hanno teoria musicale [3214] sufficientemente distinta
per principii e regole, e ordinata e compiuta, come l’hanno i Chinesi),
giudicarono espressamente più bella la loro musica che l’Europea, la
quale i nostri, favoriti in ciò espressamente da un loro imperatore,
volevano introdurvi, insieme colle nostre teorie. E ciò furono, se ben mi
ricorda, i Gesuiti.
Ho detto in principio che la melodia nella musica non è determinata
se non dall’assuefazione o da leggi arbitrarie. Delle melodie determinate
dall’assuefazione, e che per ciò sono melodie, perché quelle tali
successioni di tuoni convengono con quelle che gli orecchi sono
assuefatti a udire, ho discorso fin qui. Le melodie determinate da leggi
arbitrarie, sono quelle che il popolo e i non intendenti non gustano, se
non se nel modo specificato di sopra, senza nè conoscere nè sentire
ch’elle sieno melodie, cioè che quei tuoni così succedendosi e
intrecciandosi e alternandosi, armonizzino, cioè convengano, tra loro;
quelle che pel popolo e per li non intendenti, non sono infatti melodie,
ma solo per gl’intendenti; quelle che gl’intendenti soli gustano in virtù
del giudizio, quali sono infiniti altri diletti umani (v. Montesquieu, Essai
sur le goût. De la sensibilité. p. 392.), massime nelle arti; quelle che non
[3215] sono melodie se non perché ed in quanto corrispondono alle
regole circa la successiva combinazione de’ tuoni, consegnate in una
scienza o arte, non dettata dalla natura ma dalla matematica, universale e
universalmente riconosciuta in Europa, come lo sono tutte le altre arti e
scienze in questa parte del mondo legata insieme dal commercio e da una
medesima civiltà ch’ella stessa si è fabbricata e comunicata di nazione a
nazione, ma non riconosciuta fuori d’Europa nè dalle nazioni non civili,
nè da quelle che hanno un’altra civiltà da esse fabbricata o d’altronde
venuta; qual è sopra tutte la nazion Chinese, la quale ed ha una scienza
musicale, e in essa non conviene punto con noi. Ho detto che la nostra
scienza o arte musicale fu dettata dalla matematica. Doveva dire
costruita. Essa scienza non nacque dalla natura, nè in essa ha il suo
fondamento, come le più dell’altre; ma ebbe origine ed ha il suo
fondamento in quello che alla natura somiglia e supplisce e quasi
equivale, in quello ch’è giustamente chiamato seconda natura, ma che
altrettanto a torto quanto [3216] facilmente e spesso è confuso e
scambiato, come nel caso nostro, colla natura medesima, voglio dire
nell’assuefazione. Le antiche assuefazioni de’ greci (per non rimontar più
addietro, che nulla rileva al proposito) furono l’origine e il fondamento
della scienza musicale da’ greci determinata, fabbricata, e a noi ne’ libri e
nell’uso tramandata, dalla qual greca scienza, viene per comun consenso
e confessione la nostra europea, che non è se non se una continuazione,
accrescimento e perfezione di quella, siccome tante altre e scienze ed arti
(anzi quasi tutte le nostre) che la moderna Europa ricevè dall’antica
Grecia e perfezionò, e a molte cangiò faccia appoco appoco del tutto. La
greca musica popolare, le ragioni della quale non altrove erano che
nell’assuefazione (siccome quelle di qualsivoglia musica popolare), fu
l’origine, il fondamento, e per così dir l’anima e l’ossatura della musica
greca scientifica, e quindi altresì della nostra, che di là viene. Ma siccome
accade a tutte le arti ch’elle col crescere, col perfezionarsi, col
maggiormente determinarsi, si dilungano appoco appoco da ciò che fu
loro origine, fondamento, subbietto primitivo e ragione, o fosse la natura
[3217] o l’assuefazione o altro, e talvolta giungono fino a perderlo affatto
di vista, ed esser fondamento e ragione a se stesse, il che è intervenuto in
buona parte alla poetica, intervenne ancora all’arte musica. 74 Quindi è
che spessissimo sia giudicato buono ed ottimo dagl’intendenti, e perciò
piaccia loro sommamente, e che sia melodia per essi, quello che dal
popolo e da’ non intendenti è giudicato o mediocre o cattivo, che poco o
niun effetto produce in essi, che poco o nulla gli diletta, che per essi non è
assolutamente melodia: sebbene ei lodano sovente ed ammirano cotali
composizioni di tuoni, o in vista delle qualità indipendenti
dall’armonizzare della loro combinazione successiva, che di sopra ho
descritte, o mossi dalla fama del compositore, o dalla voce
degl’intendenti, o dal favore, o dal diletto altre volte ricevuto nelle
composizioni del medesimo, o dalla coscienza della propria ignoranza, o
dalla maraviglia delle difficoltà e stranezze che in tali composizioni
ravvisano, o dalla stessa novità, benché per essi nulla dilettevole
musicalmente, o in fine da cento altre cause estrinseche e accidentali, o
diverse e indipendenti dal diletto che nasce dal senso della melodia, cioè
della convenienza scambievole de’ tuoni nel succedersi [3218] l’uno
all’altro. E per lo contrario interviene spessissimo che quelle successioni
de’ tuoni le quali per il popolo sono squisitissime, carissime, bellissime,
spiccatissime e dilettosissime melodie, non ardisco dire non piacciano
agli orecchi degl’intendenti, ma con tutto ciò dispiacciano al loro
giudizio, e ne sieno riprovate, tanto che per essi talora non sieno neppur
melodie quelle che per tutti gli orecchi e per li loro altresì, sono melodie
distintissime, evidentissime, notabilissime e giocondissime. Il che si può
vedere in fatto nel giudizio degl’intendenti circa il comporre di Rossini, e
generalmente circa il modo della moderna composizione, la quale da
tutti è sentita esser piena di melodia molto più che le antiche e classiche,
e da chiunque sa è giudicata non reggere in grammatica ed essere
scorrettissima e irregolare. Tutto ciò non per altro accade se non perché
gl’intendenti giudicano, e giudicando sentono (cioè col fattizio, ma reale
sensorio dell’intelletto e della memoria) secondo i principii e le norme
della loro scienza; e i non intendenti sentono e sentendo giudicano
secondo le loro assuefazioni relative al proposito. Le quali assuefazioni
segue e si propone [3219] o loro si accosta il moderno modo di comporre,
assai più che l’antico, ignorando o trascurando più o manco i canoni
dell’arte, di che gli antichi furono peritissimi e religiosissimi osservatori.
Con queste considerazioni s’intenderà facilmente il perché nelle
melodie sia, come si dice, difficilissima e rarissima la novità, cioè solo
difficilissimamente e di rado possa il Musico trovare nuove melodie. Il
che mirabilmente conferma le mie osservazioni. Perocché veramente il
disporre in nuove maniere la scambievole successione de’ tuoni secondo
le regole dell’arte musicale, non è punto difficile, essendo infinite le
diversità di combinazioni successive sia di tuoni sia di corde (cioè
generalmente di note) a cui esse regole danno luogo. Ma limitatissime e
poche, e non più assolutamente che tante, sono le assuefazioni de’ nostri
orecchi; ond’è che pochissime sieno quelle combinazioni successive di
tuoni (dico pochissime rispetto all’immenso numero d’esse combinazioni
assolutamente considerate) che possano parer melodie all’universale, o al
più di una nazione o secolo, e produrre in esso il diletto che nasce dal
senso della melodia. Ed infatti nuove melodie, [3220] che tali sieno per
gl’intendenti e rispetto all’arte, non sono in verità punto rare, nè difficili a
inventarsi, e di esse si compone la massima parte di qualsivoglia opera
musicale, non solo antica e classica, ma moderna italiana eziandio,
benché le moderne italiane abbiano, come ho detto, più melodia popolare
che le antiche e straniere; cioè maggiormente seguano le assuefazioni de’
nostri orecchi, ed un più gran numero delle loro melodie contraffacciano
o imitino, o in tutto o in qualche parte o nel motivo somiglino le
successioni di tuoni e note, a cui sono assuefatti generalmente gli uditori.
E in verità, se non fosse la memoria, che anche involontariamente e
inavvertitamente subentra a pigliar parte nella composizione, più
difficile sarebbe forse al compositore l’abbattersi a trovar melodie non
popolari già da altri trovate, che non il trovarne delle nuove, conformi alle
regole musicali.
Certo è che la principale, anzi la vera arte degl’inventori di musica, e
il vero, proprio musicale, e grande effetto delle loro invenzioni, allora
solo si manifesta ed ha luogo quando le loro melodie son tali che il
popolo e generalmente tutti gli uditori ne sieno colpiti e maravigliati
come di [3221] melodia nuova, e nel tempo medesimo, per essere in
verità assuefatti a quelle tali succcessioni di tuoni, sentano al primo tratto
ch’ella è melodia. Il qual effetto, proprio, anzi solo proprio della vera
vera musica, e solo grande, solo vivo, solo universale, non altrimenti si
ottiene che coll’adornare, abbellire, giudiziosamente e fino al debito
segno variare, nobilitare per dir così, nuovamente fra loro congiungere e
disporre, presentare sotto un nuovo aspetto le melodie assolutamente e
formalmente popolari, e tolte dal volgo, e le varie e sparse forme di
successioni di note, che gli orecchi generalmente conoscono, e vi sono
assuefatti. Non altrimenti che il poeta, l’arte del quale non consiste già
principalmente nell’inventar cose affatto ignote e strane e a tutti inaudite,
o nello sceglier le cose meno divulgate, anzi ciò facendo egli più tosto
pecca e perde e toglie all’effetto della poesia, di quel che gli aggiunga; ma
l’arte sua è di scegliere tra le cose note le più belle, nuovamente e
armoniosamente, cioè fra loro convenientemente, disporre [3222] le cose
divulgate e adattate alla capacità dei più, nuovamente vestirle, adornarle,
abbellirle, coll’armonia del verso, colle metafore, con ogni altro splendore
dello stile; dar lume e nobiltà alle cose oscure ed ignobili; novità alle
comuni; cambiar aspetto, quasi per magico incanto, a che che sia che gli
venga alle mani; pigliare v. g. i personaggi dalla natura, e farli
naturalmente parlare, e nondimeno in modo che il lettore riconoscendo
in quel linguaggio il linguaggio ch’egli è solito di sentire dalle simili
persone nelle simili circostanze, lo trovi pur nel medesimo tempo, nuovo
e più bello, senz’alcuna comparazione, dell’ordinario, per gli
adornamenti poetici, e il nuovo stile, e insomma la nuova forma e il
nuovo corpo di ch’egli è vestito. Tale è l’officio del poeta, e tale nè più nè
meno del Musico. Ma siccome la poesia bene spesso, lasciata la natura, si
rivolse per amore di novità e per isfoggio di fantasia e di facoltà creatrice,
a sue proprie e stravaganti e inaudite invenzioni, e mirò più alle regole e
a’ principii che l’erano stati assegnati, di quello che al suo fondamento ed
anima ch’è [3223] la natura; anzi lasciata affatto questa, che aveva ad
essere l’unico suo modello, non altro modello riconobbe e adoperò che le
sue proprie regole, e su d’esso modello gittò mille assurde e mostruose o
misere e grette opere; laonde abbandonato l’officio suo ch’è il
sopraddetto, sommamente stravolse e perdè, o per una o per altra parte,
di quell’effetto che a lei propriamente ed essenzialmente si convenia di
produrre e di proccurare; così l’arte musica nata per abbellire, innovare
decentemente e variare e per tal modo moltiplicare; ordinare, regolare,
simmetrizzare o proporzionare, adornare, nobilitare, perfezionare
insomma le melodie popolari e generalmente note e a tutti gli orecchi
domestiche; com’ella ebbe assai regole e principii, e d’altronde s’invaghì
soverchiamente della novità, e dell’ambiziosa creazione e invenzione,
non mirò più che a se stessa, e lasciando di pigliare in mano le melodie
popolari per su di esse esercitarsi, e farne sua materia, come doveva per
proprio istituto; si rivolse alle sue regole, e su questo modello, senz’altro,
gittò le sue composizioni [3224] nuove veramente e strane: con che ella
venne a perdere quell’effetto che a lei essenzialmente appartiene, ch’ella
doveva proporsi per suo proprio fine, e ch’ella da principio otteneva,
quando cioè lo cercava, o quando coi debiti e appropriati mezzi lo
proccurava.
Perocché io non dubito che i mirabili effetti che si leggono aver
prodotto la musica e le melodie greche sì ne’ popoli, ossia in interi
uditorii, sì negli eserciti, siccome quelle di Tirteo, sì ne’ privati, come in
Alessandro; effetti tanto superiori a quelli che l’odierna musica non solo
produca, ma sembri pure, assolutamente parlando, capace di mai poter
produrre; effetti che necessitavano i magistrati i governi i legislatori a
pigliar provvidenze e fare regolamenti e quando ordini, quando divieti,
intorno alla musica, come a cosa di Stato (v. il Viag. d’Anacarsi, Cap. 27.
trattenimento secondo); (e parlo qui degli effetti della musica greca che si
leggono nelle storie e avvenuti fra’ greci civili, non di que’ che s’hanno
nelle favole, accaduti a’ tempi salvatichi); non [3225] dubito, dico, che
questi effetti, e la superiorità della greca musica sulla moderna, che pur
quanto a’ principii ed alle regole, dalla greca deriva, non venga da
questo, ch’essendo fra’ greci l’arte musicale, sebbene adulta, pur tuttavia
ancora scarsa, non offriva ancora abbastanza al compositore da coniare o
inventar di pianta nuove melodie che niun’altra ragione avessero di esser
tali se non le regole sole dell’arte; nè da poter gittarne sopra queste regole
unicamente, o sopra le forme e melodie musicali da altri inventate di
pianta, delle quali non poteva ancora avervi così gran copia, come ve n’ha
tra’ moderni. Ma quel ch’è più, l’arte, sebben cominciò anche tra’ greci a
corrompersi e declinare da’ suoi principii, e da’ suoi propri obbietti o fini
e instituti, anzi molto avanzò nella corruzione (v. Viag. d’Anac. l. c.), non
giunse tuttavia di gran lunga ad allontanarsi tanto come tra noi, e così
decisamente e costantemente, dalla sua prima origine, dal primo
fondamento e ragione delle sue regole, dalla prima materia delle sue
composizioni, cioè le popolari melodie; nè a dimenticare, [3226] come
oggi, impudentemente e totalmente il suo primo e proprio fine, cioè di
dilettare e muovere l’universale degli uditori ed il popolo; nè, molto
meno, giunse a rinunziar quasi interamente e formalmente a questo fine,
e scambiarlo apertamente in quello di dilettare, o maravigliare, o
costringere a lodare e applaudire una sola e sempre scarsissima classe di
persone, cioè quella degl’intendenti: il quale per verità è il fine che
realmente si propone la musica tedesca, inutile a tutti fuori che
agl’intendenti, e non già superficiali, ma ben profondi. Non fu così la
Musica greca. E in questo ravvicinamento della moderna musica al
popolare, ravvicinamento così biasimato dagl’intendenti, e che sarà forse
cattivo per il modo, ma in quanto ravvicinamento al popolare è non solo
buono, ma necessario, e primo debito della moderna musica; in questo
ravvicinamento, dico, vediamo quanto l’effetto della musica abbia
guadagnato e in estensione, cioè nella universalità, e in vivezza, cioè nel
maggior diletto, ed anche talor maggior commovimento degli animi.
[3227] Che se in niuna parte, e meno in quest’ultima, gli effetti della
moderna musica sono per anche paragonabili a quelli che si leggono
della greca, è da considerarsi che l’uomo oggidì è disposto in modo da
non lasciarsi mai veementemente muovere a nessuna parte; che
analogamente a questa generale disposizione, neanche le melodie
assolutamente popolari d’oggidì, son tali nè di tal natura che possano
facilmente ricevere dal compositore una forma da produrre in veruno
animo un più che tanto effetto; e che in ultimo i compositori non
iscelgono nè quelle melodie popolari o parti di esse che meglio si
adatterebbero alla forza e profondità dell’effetto, nè in quelle che
scelgono, ci adoprano quei mezzi che si richieggono a produrre un effetto
simile, nè così le lavorano e dispongono come converrebbe per tal uopo:
e ciò non fanno perché nol vogliono e perché nol sanno. Nol sanno
perché privi essi medesimi d’ispirazione veramente sublime e divina, e
di sentimenti forti e profondi nel comporre in qualsiasi genere, non
possono nè scegliere nè usar lo scelto in modo da [3228] produr negli
uditori queste siffatte sensazioni ch’essi mai non provarono nè
proveranno. Nol vogliono, perché appunto non conoscendo tali
sensazioni, nulla o ben poco le stimano, nè altro fine si propongono che il
diletto superficiale e il grattar gli orecchi, al che di gran lunga
pospongono le grandi e nobili e forti emozioni, di cui mai non fecero
esperimento. Ma che maraviglia? quando gli antichi musici erano i poeti,
quegli stessi che per la sublimità de’ concetti, per la eleganza e grandezza
dello spirito brillano nelle carte che di loro ci rimangono, o perdute
queste coi ritmi da loro inventati e applicativi, vivono immortali i loro
nomi nella memoria degli uomini, e ciò talora eziandio per egregi e
magnanimi fatti? E quando all’incontro i moderni musici, stante le
circostanze della loro vita, e delle moderne costumanze a loro riguardo,
sono per corruzione, per delizie, per mollezza e bassezza d’animo il
peggio del peggior secolo che nelle storie si conti? la feccia della feccia
delle generazioni? Da vita, opinioni e costumi vili, adulatorii, dissipati,
[3229] effeminati, infingardi, come può nascer concetto alto, nobile,
generoso, profondo, virile, energico? Ma questo discorso porterebbe
troppo innanzi, e condurrebbe necessariamente al parallelo della musica
e de’ musici colle altre arti e loro professori, a quello della moderna
musica coll’antica, e delle moderne usanze colle antiche relative al
proposito; e finalmente a trattare della funesta separazione della musica
dalla poesia e della persona di musico da quello di poeta, attributi
anticamente, e secondo la primitiva natura di tali arti, indivise e
indivisibili (v. il Viag. d’Anac. l. c. particolarmente l’ult. nota al c. 27.). Il
qual discorso da molti è stato fatto, e qui non sarebbe che digressione.
Però lo tralascio.
Tornando al nostro primo proposito, il qual fu di mostrare che
l’armonia o convenienza scambievole de’ tuoni nelle loro combinazioni
successive, è determinata, siccome ogni altra convenienza,
dall’assuefazione; si vuol notare che quest’assuefazione in fatto di
melodie (come anche di armonie) non è sempre aétñmatow del popolo,
[3230] ma bene spesso in lui prodotta e originata dalla stessa arte musica.
Perocché a forza di udir musiche e cantilene composte per arte, (il che a
tutti più o meno accade) anche i non intendenti, anzi affatto ignari della
scienza musicale, assuefanno l’orecchio a quelle successioni di tuoni che
naturalmente essi non avrebbero nè conosciute nè giudicate per
armoniose (o ch’elle sieno inventate di pianta dagli uomini dell’arte, o da
loro fabbricate sulle melodie popolari, e di là originate); in virtù della
quale assuefazione essi giungono appoco appoco e senza avvedersi del
loro progresso, a trovare armoniose tali successioni, a sentirvi una
melodia, e quindi a provarvi un diletto sempre maggiore, e a formarsi
circa le melodie una più capace, più varia, più estesa facoltà di giudicare,
la qual facoltà, che in altri arriva a maggiore in altri a minor grado, è poi
per essi cagione del diletto che provano nell’udir musiche; giudizio e
diletto determinato, dettato, e cagionato, non già dalla natura primitiva e
universale, ma dall’assuefazione accidentale e varia secondo i tempi, i
luoghi e le nazioni. [3231] Io di me posso accertare che nel mio primo
udir musiche (il che molto tardi incominciai) io trovava affatto
sconvenienti, incongrue, dissonanti e discordevoli parecchie delle più
usitate combinazioni successive di tuoni, che ora mi paiono armoniche, e
nell’udirle formo il giudizio e percepisco il sentimento della melodia.
Nè più nè meno accade nella pittura, scultura, architettura.
Senz’alcuna cognizione della teoria, nè della pratica immediata dell’arte,
a forza di veder dipinti, statue, edifizi, moltissimi si formano un giudizio,
e una facoltà di gustare e di provar piacere in tal vista, e nella
considerazione di tali oggetti, la qual facoltà non aveano per l’innanzi, e
si acquista appoco appoco per mezzo dell’assuefazione, la quale
determina in questi tali (e sono i più che parlino di belle arti) l’idea delle
convenienze pittoriche ec. del bello ec. e quindi anche del brutto ec., col
divario che il soggetto della pittura e scultura si è l’imitazione degli
oggetti visibili, della quale ognun vede la verità o la falsità, onde le idee
del bello e del brutto pittorico e scultorio, in quanto queste arti sono
imitative, è già determinata in ciascheduno prima dell’assuefazione Non
così nell’architettura e nella musica, meno imitative, e questa imitativa di
cose non visibili ec. Così discorrasi in ordine alla poesia, ed al gusto e
giudizio che l’uomo se ne forma e n’acquista, ec.
Nel detto modo si formano i mezzi-intendenti, più o meno capaci di
giudicare e quindi di provar diletto nelle composizioni musicali, cioè che
più o meno hanno udito e riflettuto in questo genere e postovi attenzione.
I quali mezzi-intendenti costituiscono la massima parte di quelli che
parlano di musica e di quel pubblico che dà espressamente il suo voto
circa le composizioni musicali che compariscono, giacché i periti
veramente della scienza musica e conoscitori di essa per elementi e
regole, sono ben pochi rispetto al pubblico.
Or dunque molte che si chiamano melodie popolari, hanno il loro
fondamento nell’assuefazione de’ mezzi-intendenti, o del popolo in
quanto [3232] assuefatto a udir musiche. E delle composizioni successive
di note, altre riescono melodie a tutti gli orecchi, altre a quelli di
chiunque è pure un poco intendente (cioè assuefatto), altre ai mezzi-
intendenti più avanzati, altre ai soli veri e perfetti intendenti, ed altre a
questi più a quelli meno, o viceversa, eccetera. E così il giudizio e il senso
della melodia sempre nasce e dipende ed è determinato
dall’assuefazione, o dalla cognizione di leggi che non hanno la loro
ragione nella natura universale, ma nell’accidentale e particolare uso
presente o passato, e in altre tali cose, le quali leggi ho chiamato di sopra
arbitrarie.
E tutto ciò sia aggiunto per ispiegare e distinguere e quasi classificare
quello ch’io intenda per popolare nella musica, per melodia popolare, e
per assuefazione degli orecchi determinante la scambievole convenienza
delle note nella loro scambievole successione e collegamento.
Del resto poi le assuefazioni che di sopra ho chiamato αὐτόµατοι del
popolo, (voglio dire dell’universale) nascono ed hanno origine da varie
cagioni, e fra l’altre dalla natura, indipendentemente però da veruna
naturale [3233] convenienza scambievole di quali si sieno tuoni, ma solo
in tanto in quanto p.e. certe passioni naturalmente e universalmente
amano certi tali tuoni e certi tali passaggi da un tal tuono a un tal altro.
La qual cosa che nulla ha che fare coll’assoluta convenienza di tal tuono a
tal tuono, (perocché qui la ragione della convenienza de’ tuoni non istà
nella natura loro, nè nei loro naturali rapporti, ma è relativa alla natura
dell’uomo che indipendentemente dalla convenienza, ama in quel tal
caso quel tuono e quel passaggio) fu l’origine delle melodie, le quali
furono da principio, siccome sempre avrebbero dovuto e dovrebbero
essere, imitative; bensì tali che abbellivano ed ornavano e variavano la
natura, colla scelta, colla disposizione, coll’atta mescolanza e
congiungimento, e di più colla delicatezza, grazia, mobilità ec. degli
organi o naturali (coltivati ed esercitati), o artifiziali inventati e
perfezionati. Nè più nè manco di quello che le poesie debbano,
imitandola ornare, abbellire, variare e mostrar sotto nuovo abito la
natura. Veggasi a questo proposito la citata nota ultima al Capo [3234] 27.
del Viag. d’Anac. e quello che altrove ho detto sopra l’imitativo della
musica, e sopra quella convenienza musicale che ha nella imitazione sola
la sua ragione ed origine.
E notisi che se nulla v’ha nella musica, sia nell’armonia sia nella
melodia, che universalmente da tutti i popoli civili e barbari sia
riconosciuto e praticato, o che in tutti faccia effetto; ciò si dee riferire alla
natura operante nel modo detto di sopra, o in altri che si potrebbero dire,
operante prima dell’assuefazione e indipendentemente da lei, ma
indipendentemente altresì dalla convenienza e senz’alcuna relazione
all’armonia. Oltre all’altre cagioni di universale effetto nella musica,
indipendenti pure dalla convenienza, parte delle quali ho annoverate di
sopra p.3211. sg., parte altrove, parte potrei annoverare. (20-21. Agos.
1823.)
Alla p. 2998. ult. linea. Crepo is ui itum sarebbe come strepo is ui itum,
da cui strepitare, come appunto da crepo as o is, crepitare. E crepo as
riterrebbe o torrebbe in prestito il perfetto e il supino di crepo is, cioè
crepui, itum, come appunto accubo ec. quelli di accumbo ec. cioè accubui
itum. Profligo [3235] as è da fligo is, onde affligo is, confligo is ec. che hanno i
continuativi afflicto, conflicto ec. fatti regolarmente da’ participii. V. Forc.
in Profligo e proflictus. (22. Agos. 1823.). V. p. 3246. e 3341. 3987.
Alla p.3235. Placeo es - placo as. Placeo ha pur Placito as. Notisi che
questo placo viene da un verbo della seconda maniera, non della 3.a
Convivo is - convivo as e convivoraris. Convitare, e combidar (franc. convier),
quasi convictare è un regolar continuativo di convivo is - convictus.
Quando però non fosse o una corruzione, o piuttosto un fratello
(comune, come vedete, a tutte le tre lingue figlie), d’invito as, il qual
verbo donde viene? forse da vita? o forse è un continuativo dell’anomalo
continuativo inviso is - invisus, quasi invisare, mutata la s in t, come non di
rado si scambiano queste lettere ne’ participii (fixus - fictus etc.), o è una
diversa inflessione d’inviso is medesimo, e più regolare? Del resto, se non
convivo is, certo il suo semplice vivo is, ha forse il regolare continuativo
victo as, e senza dubbio il frequentativo victito. Vedi poi il Glossario, se ha
nulla in proposito per le suddette cose. (23. Agos. 1823.). V. p.3289.
[3247] È cosa nota che le favelle degli uomini variano secondo i climi.
Cosa osservata dev’essere altresì che le differenze de’ caratteri delle
favelle corrispondono alle differenze de’ caratteri delle pronunzie ossia
del suono di ciascuna favella generalmente considerato: onde una lingua
di suono aspro ha un carattere e un genio austero, una lingua di suono
dolce ha un carattere e un genio molle e delicato; una lingua ancora rozza
ha e pronunzia ed andamento rozzo, e civilizzandosi, raddolcendosi e
ripulendosi il carattere della lingua e della dicitura, raffinandosi,
divenendo regolare, e perfezionandosi essa lingua, se ne dirozza e
raddolcisce e mitigasi e si ammollisce eziandio la generale pronunzia ed
il suono. Dev’esser parimente osservato, che siccome il carattere della
lingua al carattere della pronunzia, così i caratteri delle pronunzie
corrispondono alle nature dei climi, e quindi alle qualità fisiche degli
uomini che vivono in essi climi, e alle lor qualità morali che dalle fisiche
procedono e lor corrispondono. Onde ne’ climi settentrionali, dove gli
uomini indurati dal freddo, da’ patimenti, e dalle fatiche di provvedere a’
propri bisogni in terre [3248] naturalmente sterili e sotto un cielo iniquo,
e fortificati ancora dalla fredda temperatura dell’aria, sono più che
altrove robusti di corpo, e coraggiosi d’animo, e pronti di mano, le
pronunzie sono più che altrove forti ed energiche, e richiedono un
grande spirito, siccome è quella della lingua tedesca piena d’aspirazioni,
e che a pronunziarla par che richiegga tanto fiato quant’altri può avere in
petto, onde a noi italiani, udendola da’ nazionali, par ch’e’ facciano
grande fatica a parlarla, o gran forza di petto ci adoprino. Per lo contrario
accade nelle lingue de’ climi meridionali, dove gli uomini sono per
natura molli e inchinati alla pigrizia e all’oziosità, e d’animo dolce, e
vago de’ piaceri, e di corpo men vigoroso che mobile e vivido. Ond’egli è
proprio carattere della pronunzia non meno che della lingua p.e. tedesca,
la forza, e dell’italiana la dolcezza e delicatezza. E poste nelle lingue
queste proprietà rispettive dell’una lingua all’altra, ne segue che anche
assolutamente, e considerando ciascuna lingua da se, nella lingua p.e.
italiana, sia pregio la delicatezza e dolcezza, [3249] onde lo scrittore o il
parlatore italiano appo cui la lingua (sia nello stile, sia nella
combinazione delle voci, sia nella pronunzia) è più delicata e più dolce
che appo gli altri italiani (salvo che queste qualità non passino i confini
che in tutte le cose dividono il giusto dal troppo, sia per rispetto alla
stessa lingua in genere, sia in ordine alla materia trattata), più si loda che
gli altri italiani, appunto perocché la lingua italiana nella dolcezza e
delicatezza avanza l’altre lingue. Ma per lo contrario fra’ tedeschi dovrà
maggiormente lodarsi lo scrittore o il parlatore appo cui la lingua riesca
più forte che appo gli altri tedeschi, perocché la lingua tedesca supera
l’altre nella forza, e suo carattere è la forza, non la dolcezza: nè la
dolcezza è pregio per se, neppur nella lingua italiana, ma in essa,
considerandola rispetto alle altre lingue, è qualità non pregio, e nello
scrittore o parlatore italiano è pregio, non in quanto dolcezza, ma in
quanto propria e caratteristica della lingua italiana. Così civilizzandosi le
nazioni, e divenendo, rispetto alle primitive, delicate di corpo, divenne
altresì pregio negl’individui umani la maggior [3250] delicatezza delle
forme, non perché la delicatezza sia pregio per se; che anzi la rispettiva
delicatezza delle forme era certamente biasimo, e tenuto per difetto, o per
causa di minor pregio d’esse forme, appo gli uomini primitivi; ma solo
perché la delicatezza fisica oggidì, contro le leggi della natura, e contro il
vero ben essere e il destino dell’umana vita, è fatta propria e caratteristica
delle nazioni e persone civili. 78 Laonde ben s’ingannarono quei tedeschi
(ripresi da Mad. di Staël nell’Alemagna) che cercarono di raddolcire la
loro lingua, credendo farsi tanto più pregevoli degli altri tedeschi quanto
più dolcemente di loro la parlassero e scrivessero, e che la dolcezza,
proccurandola alla lingua tedesca, le avesse ad esser pregio, contro la
natura, e contro il carattere della lingua, il quale è la forza, e tanta forza
richiede nello scrittore e nel parlatore, quanta possa non varcare i confini
prescritti dalla qualità d’essa lingua, e da quella delle particolari materie
in essa trattate; ed esclude, colle medesime condizioni, la dolcezza, come
vizio nella lingua tedesca e non pregio, perché opposta alla sua natura.
[3251] Tornando al proposito debbono esser, come ho detto, cose
osservate queste proporzioni che passano tra le diverse nature dei climi e
i diversi caratteri delle rispettive pronunzie e geni delle rispettive lingue,
ed altresì il modo di queste proporzioni, cioè il modo in che il clima
opera sulle favelle, e da quali proprietà del clima quali proprietà derivino
alle pronunzie e alle lingue. Ma forse non sarà stato egualmente notato
che trovandosi in un medesimo clima e paese essere stati in diversi tempi
diversi caratteri di pronunzia e di lingua, queste diversità
corrispondettero sempre alle qualità fisiche degli uomini che ciascuna
d’esse pronunzie e lingue, l’una dopo l’altra usarono, le quali fisiche
qualità variarono secondo le diverse circostanze morali, politiche,
religiose, intellettuali ec. che in diverse generazioni in quel medesimo
clima e paese ebber luogo. Ond’è che sebbene il clima meridionale
naturalmente ispira dolcezza ne’ caratteri delle pronunzie e de’ suoni,
tuttavia suono della lingua greca, e quello della lingua romana, certo più
molle che non era a quel tempo, e che adesso non è, il suono delle [3252]
lingue settentrionali, pur fu molto men delicato e più forte di quello che
oggi si sente nella nuova lingua dello stesso Lazio e di Roma e d’Italia. E
ciò non per altra cagione fisica immediata, se non perché, stante le loro
circostanze morali e politiche e il lor genere di vita e di costumi, gli
antichi Greci e Romani (il che anche per mille altri segni e notizie si
prova) furono di corpo molto più forti che i moderni italiani non sono. La
stessa pronunzia della moderna lingua francese (e così delle altre) si è
addolcita coi costumi della nazione, come dice Voltaire ec. giacché un dì
si pronunziava come oggi si scrive ec. Ond’è che siccome la pronunzia
francese per la geografica posizione e natural qualità del suo clima, ch’è
mezzo tra meridionale e settentrionale, tiene quasi tanto delle pronunzie
del sud quanto di quelle del nord, 79 ed è un temperamento dell’une e
dell’altre e un anello che queste a quelle congiunge, 80 così il carattere
delle pronunzie greca e latina, tiene, non dirò già il proprio mezzo tra il
settentrionale e il meridionale, ma tra il carattere dell’italiana, ch’è l’uno
estremo delle moderne pronunzie meridionali, e l’estremo assoluto della
dolcezza; e quello della pronunzia settentrionale meno aspra e che più
[3253] s’accosti a dolcezza, e sia per questa parte l’estremo delle
pronunzie settentrionali, alle meridionali più vicino. O volessimo
piuttosto dire che le pronunzie greca e latina sieno medie tra l’italiana
ch’è la più meridionale, e la francese, che non è nè ben meridionale nè
per anco settentrionale. Le lingue orientali, la greca moderna, la turca,
quelle de’ selvaggi e indigeni d’America sotto la zona, parlate e scritte in
climi assai più meridionali che quel d’Italia o di Spagna, sono tuttavia
molto men dolci dell’italiana e della spagnuola, e taluna anche delle
settentrionali europee. Ciò per la rozzezza o per la acquisita barbarie de’
popoli che l’usano o che l’usarono, per li costumi aspri e crudeli ec.
antiche o moderne ch’esse lingue si considerino. (23. Agos. 1823.)
[3264] Alla p. 2864. Castello, château, castillo tengono fra noi il luogo
del positivo castrum, col quale anche in latino bene spesso
indifferentemente si scambiava castellum, o si usava equivalentemente ec.
(26. Agos. 1823.)
Alla p. 3275. marg. - Anzi quanto più questi tali son franchi,
coraggiosi, non timidi dell’altrui aspetto nè dell’altrui conversazione,
schietti, aperti, liberi nel parlare, nei modi, nell’operare, intolleranti di
dissimulare e di mentire (anche, tal volta, eccessivamente); e quanto più
sono vendicativi delle ingiurie, fieri con chi gli offende o insulta o
disprezza o danneggia, quanto meno molli e facili ai nemici,
agl’invidiosi, ai detrattori, ai maldicenti, agli oltraggiatori, agli
offenditori qualunque; ed eziandio quanto più pendono a una certa
soverchieria di parole o di fatti verso chi non è nè compassionevole nè
bisognoso, amico o indifferente o nemico che sia; proclivi o facili all’ira,
anche durevole; tanto più sono misericordiosi e benefici verso gli amici o
gl’indifferenti (dandosene loro l’occorrenza, e la facoltà ec. e in questi il
bisogno o l’utilità ec.), o verso i nemici stessi e gli offenditori, vinti che
sieno, o già puniti, o chiedenti scusa o perdono, o riparata che hanno
l’offesa, o anche senz’altro caduti in grave disgrazia o bisogno, ed avviliti
ec. (Tale fu Giulio Cesare come si vede in Svetonio). E il contrario accade
negli uomini di contraria qualità: [3283] il contrario, dico, si quanto al
compatire o beneficare chi che sia, sì quanto al rimettere o dimenticare le
ingiurie. E di contraria qualità sono gli uomini timidi, di maniere legate,
deboli di corpo e d’animo ec. quali ho descritti a pagg. 3279-80. (27. Agos.
1823.)
Fator aris da for-aris-fatus. Verbo da porsi insieme con dato as, nato as, e
s’altro ve n’ha (fatti tutti da un tema monosillabo.), dove l’a del participio
in atus, non si muti, nella formazione del continuativo, in i. (28. Agosto
1823.)
Come l’uomo sia quasi tutto opera delle circostanze e degli accidenti:
quanto poco abbia fatto in lui la natura: quante di quelle medesime
qualità che in lui più naturali si credono, anzi di quelle ancora che non
d’altronde mai si credono poter derivare che dalla natura, nè per niun
modo acquistarsi, e necessariamente in lui svilupparsi e comparire, non
altro sieno in effetto che acquisite, e tali che nell’uomo posto in diverse
circostanze, non mai si sarebbero sviluppate, nè sarebbero comparse, nè
per niun modo esistite: come la natura non ponga quasi [3302] nell’uomo
altro che disposizioni, ond’egli possa essere tale o tale, ma niuna o quasi
niuna qualità ponga in lui; di modo che l’individuo non sia mai tale
quale egli è, per natura, ma solo per natura possa esser tale, e ciò ben
sovente in maniera che, secondo natura, tale ei non dovrebb’essere, anzi
pur tutto l’opposto: come insomma l’individuo divenga (e non nasca)
quasi tutto ciò ch’egli è, qualunque egli sia, cioè sia divenuto. Qual cosa
pare più naturale, più inartifiziale, più spontanea, meno fattizia, più
ingenita, meno acquistabile, più indipendente e più disgiunta dalle
circostanze e dagli accidenti, che quel tal genere di sensibilità con cui
l’uomo suol riguardare la donna, e la donna l’uomo, ed essere trasportato
l’uno verso l’altra; quel tal genere, dico, di affetti e di sentimenti che
l’uomo, e massimamente il giovane nella prima età, senz’ombra di
artifizio, senza intervento di volontà, anzi tanto più quanto egli è più
giovane, più semplice ed inesperto, e quanto meno il suo carattere [3303]
è stato modificato e influito dall’uso del mondo e dalla conversazione
degli uomini e pratica della società, suol provare alla vista o al pensiero
di donne giovani e belle, o nel trattenersi seco loro; e così le donne
giovani cogli uomini giovani e belli? quel tressaillement, quell’emozione,
quell’ondeggiamento e confusione di pensieri e di sentimenti tanto più
indistinti e indefinibili quanto più vivi, che parte par che abbiano del
materiale, parte dello spirituale, ma molto più di questo, in modo che par
ch’egli appartengano interamente allo spirito, anzi alla più alta e più
pura e più intima parte di esso? Or questo genere di sentimenti e di
affetti e di pensieri, questa qualità del giovane, cioè questa tale
sensibilità, e la facoltà ed abito di provare questi siffatti sentimenti, non è
per niun modo naturale nè innata, ma acquisita, ossia prodotta di pianta
dalle circostanze, e tale che se queste non fossero state, l’uomo neppur
conoscerebbe nè potrebbe pur concepire questa qualità, nè anche
sospettare d’esserne capace. [3304] Il genere umano naturalmente è nudo,
e, seguendo la natura, almeno in molte parti del globo, egli non avrebbe
mai fatto uso de’ vestimenti, siccome le vesti sono affatto ignote p.e. ai
Californii. Nè l’uomo nè il giovane non avrebbe mai veduto nè
immaginato nelle donne (e così la donna negli uomini) nulla di nascosto.
E nulla vedendo di nascosto, nè potendo desiderare o sperar di vedere, e
ben conoscendo fin dal principio la nudità e la forma dell’altro sesso, egli
non avrebbe mai provato per la donna altro affetto, altro sentimento,
altro desiderio, che quello che per le lor femmine provano gli altri
animali; nè avrebbe concepito intorno a lei altro pensiero che quello di
mescersi seco lei carnalmente; nè l’aspetto o il pensiero o la compagnia
della donna avrebbe in lui cagionato, neppur nella primissima gioventù,
verun altro effetto che un desiderio il più puramente e semplicemente
sensuale che possa mai dirsi, un impeto a soddisfare tal desiderio, ed un
piacere (molto languido in se stesso per l’abitudine e l’assuefazione
incominciata sin dalla nascita, e sempre continuata) altrettanto carnale
che quel desiderio, e interamente, unicamente [3305] e
manifestissimamente materiale, cioè appartenente e derivante dalla sola
materia e dal senso, nè più nè meno che quel piacere che in lui avrebbe
prodotto la vista di un color rosso bello e vivo o altra tal sensazione; se
non solamente che quel diletto sarebbe stato per natura maggiore di
questi; siccome tra gli altri diletti, o naturalmente o per circostanze, qual
è maggiore qual è minore, non in se, ma rispetto agli uomini e agli
animali, insomma agli esseri che li provano, e ne’ quali essi diletti
nascono ed hanno l’essere.
Tale sarebbe stato l’uomo in natura per rispetto alla donna, e la donna
per rispetto all’uomo. Ma introdotto l’uso de’ vestimenti (e di più que’
costumi e quelle leggi fattizie ed arbitrarie di società che impediscono o
difficultano il torli di mezzo quando si voglia ed occorra), la donna
all’uomo (massime al giovane inesperto) e l’uomo alla donna sono
divenuti esseri quasi misteriosi. Le loro forme nascoste hanno lasciato
luogo all’immaginazione di chi le mira così vestite. Per l’altra [3306] parte
l’inclinazione e il desiderio naturale dell’un sesso verso l’altro non ha,
per questo cangiamento di circostanze esteriori, potuto nè cessare nè
scemare nel genere umano, niente più che negli altri animali. L’uomo
dunque (e così la donna verso l’uomo) si è veduto sommamente e sopra
tutte le cose trasportato, com’ei fu sempre, verso un essere il quale non
più, come prima, se gli rappresentava e se gli era sempre rappresentato
dinanzi tutto aperto e palese, e tale e tanto, quale e quanto esso è; ma
verso un essere quasi tutto a lui nascosto, un essere che sin dalla sua
nascita non se gli è rappresentato nè agli occhi nè al pensiero, o non suole
rappresentarsegli, che velato tutto e quasi arcano. Ecco da una
circostanza così estrinseca, così accidentale, così removibile, com’è quella
de’ vestimenti, mutato affatto, massime nella fanciullezza e nella prima
gioventù il carattere e le qualità dell’un sesso rispettivamente all’altro. La
vista, il pensiero, la conversazione di [3307] questo essere sopra tutti e
invincibilmente amato e desiderato, ma le cui forme non cadono (almeno
abitualmente) sotto i suoi sensi, e che per conseguenza, essendone celate
le forme (che sono sì gran parte e dell’uomo e d’ogni cosa), e di più
impeditane o fattane difficile la libera conversazione, e quindi anche
l’intera conoscenza del suo animo, costumi ec., per conseguenza, dico, è
divenuto per lui tutto misterioso; il pensiero dico e la vista e il consorzio
di questo essere l’immerge in una quantità di concezioni,
d’immaginazioni, d’illusioni, di sentimenti, vivissimi e profondissimi
perché quell’essere gli è per natura dolcissimo e carissimo, ma nel tempo
stesso confusissimi, incertissimi, per lo più falsissimi, sublimi, vasti,
perché quel medesimo essere trovandosi essergli quasi tutto misterioso e
quasi cosa segreta ed occulta, i pensieri e i sentimenti ch’esso gli desta,
sono tutti capitalmente e quasi esclusivamente governati e modificati e
figurati, e in gran parte prodotti e creati, dalla fantasia, e questa [3308]
gagliardamente mossa. Nello stato naturale, l’inclinazione innata
dell’uomo verso la donna, trovando tutto aperto e palese, e niun luogo
avendovi alla immaginativa, ella non producea che pensieri e sentimenti
semplicissimi, distintissimi, chiarissimi, materialissimi. Ora essa
inclinazione, esso amore ingenito e naturalmente fortissimo e
ardentissimo, trovando il mistero, e i loro effetti congiungendosi
nell’animo umano colla idea del mistero, o vogliamo dir con un’idea
oscura e confusa, oscurissimi e confusissimi, ondeggianti, vaghi,
indefiniti, cento volte meno sensuali e carnali di prima (poiché la detta
idea non viene immediatamente dal senso ec.), e finalmente quasi mistici
debbono essere i pensieri e gli affetti che risultano da questa mescolanza
di sommo desiderio e tendenza naturale, e d’idea oscura dell’oggetto di
tal desiderio e tendenza. E però l’uomo si rappresenta la donna in genere,
e in ispecie quella ch’egli ama, come cosa divina, come un ente di stirpe
diversa dalla sua ec. Perocché la natura gliela propone come
desiderabilissima e amabilissima, le circostanze gliela rendono
desideratissima (perocch’ei non può facilmente nè subito ottenerla), ed
esse altresì gli nascondono quale ella sia veramente ec. E così da una
circostanza così materiale, com’è quella de’ vestimenti (e come son l’altre
cagionate dai costumi e leggi sociali circa le donne), nasce nell’uomo un
effetto il più spirituale [3309] quasi, che abbia mai luogo nel suo animo, i
pensieri e i sentimenti più sublimi e più nobili e più propri dello spirito,
la persuasione di non esser mosso che da esso spirito ec. ec.; da una
circostanza così reale e visibile e determinata nascono in lui le maggiori
illusioni, i più vaghi, incerti, indeterminati pensieri, la maggiore
operazione della più fervida e più delirante e sognante immaginativa; da
una circostanza così accidentale un effetto così intimo, così generale nel
più de’ giovani (almeno per un certo tempo), così costante, così connesso
e proprio, a quel che pare, del carattere dell’individuo; finalmente da una
circostanza non naturale nasce un effetto che universalmente si considera
come il più naturale, il più proprio dell’uomo, il più assolutamente
inevitabile, il meno acquistabile, il meno fattibile, il meno producibile da
altra forza che dalla stessa mano della natura, il più congenito ec.
secondo che ho detto di sopra.
Così e per queste cagioni nacque nel genere umano tra l’uno e l’altro
sesso la tenerezza, la quale i selvaggi non provano e non conoscono (nè
gli uomini primitivi provarono, nè una nazione dove non s’usino le
vestimenta ec. [3310] proverà o conoscerà mai) siccome niun altro degli
effetti sopra descritti, anzi neppure, propriamente parlando, l’amore, ma
l’inclinazione e l’impeto da lei cagionato, l’ὁρµήν, l’abito e l’atto della
tendenza; perché non è propriamente amore quello che noi ponghiamo
p.e. all’oro e al danaio. V. p. 3636. e 3909.
Altra prova delle proposizioni da me esposte nel principio di questo
pensiero, può essere, fra le mille, la seguente. Qual uomo civile udendo,
eziandio la più allegra melodia, si sente mai commuovere ad allegrezza?
non dico a darne segno di fuori, ma si sente pure internamente rallegrato,
cioè concepisce quella passione che si chiama veramente gioia? Anzi ella
è cosa osservata che oggidì qualunque musica generalmente, anche non di
rado le allegre, sogliono ispirare e muovere una malinconia, bensì dolce,
ma ben diversa dalla gioia; una malinconia ed una passion d’animo che
piuttosto che versarsi al di fuori, ama anzi per lo contrario di
rannicchiarsi, concentrarsi, e ristringe, per così dire, l’animo in se stesso
quanto più può, e tanto più quanto ella è più forte, e maggiore l’effetto
[3311] della musica; un sentimento che serve anche di consolazione delle
proprie sventure, anzi n’è il più efficace e soave medicamento, ma non in
altra guisa le consola, che col promuovere le lagrime, e col persuadere e
tirare dolcemente ma imperiosamente a piangere i propri mali anche,
talvolta, gli uomini i più indurati sopra se stessi e sopra le lor proprie
calamità. In somma generalmente parlando, oggidì, fra le nazioni civili,
l’effetto della musica è il pianto, o tende al pianto (fors’anche talor di
piacere e di letizia, ma interna e simile quasi al dolore): e certo egli è
mille volte piuttosto il pianto che il riso, col quale anzi ei non ha mai o
quasi mai nulla di simile. Questi effetti della musica su di noi ci paiono sì
naturali, sì spontanei ec. ec. che non pochi vorranno e vogliono che sia
proprio assolutamente della natura umana l’essere in tal modo affetti
dall’armonia e dalla melodia musicale.
Ora, tutto al contrario di quello che avviene costantemente tra noi,
sappiamo che [3312] i selvaggi, i barbari, i popoli non avvezzi alla
musica o non avvezzi alla nostra, in udirne qualche saggio, prorompono
in éclats di giubilo, in salti, in grida di gioia, si rompono dalle risa per la
grande contentezza, e insomma cadono in un entusiasmo e in un’intera e
decisa ebbrietà e furore e smania di pura allegria. (29-30. Agos. 1823.).
Circa quello che ho detto altrove della melodia, basti il tenere che il
principio, l’origine prima, il fondamento, ossia la ragione originale del
perché qualsivoglia successione melodiosa di tuoni, sia melodiosa, cioè
armonica successivamente; o vogliamo dire la prima fonte e ragione
della convenienza scambievole de’ tuoni nella successione, non fu e non
è quasi altro che l’assuefazion solamente, la quale bensì è suscettibile di
ampliazione, di modificazioni infinite e variazioni, di applicazioni
diversissime, di diversissime combinazioni delle sue parti; cose tutte che
hanno infatti avuto ed hanno continuamente luogo nella musica e nelle
composizioni del Musico, il cui uffizio non è originariamente e
principalmente altro che il far buon uso delle assuefazioni generali circa
l’armonia, cioè la convenienza, successiva o simultanea delle note delle
corde, degli stromenti, voci ec. ec. servata la proporzione scambievole
degl’intervalli, ossia del tempo. Ben può il Musico modificare in
assaissime guise queste assuefazioni, ma dee però sempre riconoscerle
[3314] e seguirle e in loro mirare, come fondamento e ragione dell’arte
sua. (31. Agosto. Domenica. 1823.)
Italianismi nell’uso della voce unus. Vedi Svetonio, in Iul. Caes. cap.32.
§.1. e quivi il Pitisco ec. col Forcellini ec. (1. Sett. 1823.)
Del resto, dalle considerazioni qui dietro fatte sulla necessità che
l’Europa e lo spirito umano avevano di nuove lingue illustri a potersi
avanzare e nè costumi e nelle scienze e nelle lettere e nella filosofia, dopo
il risorgimento degli studi; e sul grandissimo detrimento e ritardo che
portò alla rinata civiltà la rinnovazione dell’uso esclusivo del latino come
lingua illustre; e sul maggior danno e indugio che le avrebbe apportato la
continuazione di tale uso, apparisce più visibilmente che mai quanto
debbano a Dante, non pur la lingua italiana, come si suol predicare, ma
la nazione istessa, e l’Europa tutta e lo spirito umano. Perocché Dante fu
il primo assolutamente in Europa, che (contro l’uso e il sentimento di
tutti i suoi contemporanei, e di molti posteri, che di ciò lo biasimarono: v.
Perticari Apologia cap. 34.) ardì concepire [3339] e scrisse un’opera
classica e di letteratura in lingua volgare e moderna, inalzando una
lingua moderna al grado di lingua illustre, in vece o almeno insieme
colla latina che fino allora da tutti, e ancor molto dopo da non pochi, era
stata e fu stimata unica capace di tal grado. E quest’opera classica non fu
solo poetica, ma come i poemi d’Omero, abbracciò espressamente tutto il
sapere di quella età, in teologia, filosofia, politica, storia, mitologia ec. E
riuscì classica non rispetto solamente a quel tempo, ma a tutti i tempi, e
tra le primarie; nè solo rispetto all’Italia ma a tutte le nazioni e
letterature. Senza un tale esempio ed ardire, o s’ei fosse riuscito men
fortunato e splendido, e se quell’opera pel suo soggetto fosse stata meno
universale, e meno appartenente, per così dire, a ogni genere di
letteratura e di dottrina; si può, se non altro, indubitatamente credere che
sì l’Italia sì l’altre nazioni avrebbero tardato assai più che non fecero a
inalzare le lingue proprie e moderne al grado di lingue illustri, e quindi a
formarsi delle letterature proprie e [3340] moderne e conformi ai tempi, e
quindi lo spirito e il carattere nazionale, moderno, distinto, determinato
ec. Dante diede l’esempio, aprì e spianò la strada, mostrò lo scopo, fece
coraggio e col suo ardire e colla sua riuscita agl’italiani: l’Italia alle altre
nazioni. Questo è incontrastabile. Nè il fatto di Dante fu casuale e non
derivato da ragione e riflessione, e profonda riflessione. Egli volle
espressamente sostituire una lingua moderna illustre alla lingua latina,
perché così giudicò richiedere le circostanze de’ tempi e la natura delle
cose; e volle espressamente bandita la lingua latina dall’uso de’ letterati,
de’ dotti, de’ legislatori, notari ec., come non più convenevole ai tempi. Il
fatto di Dante venne da proposito e istituto, e mirò ad uno scopo; e il
proposito, l’istituto e lo scopo (quanto spetta al nostro discorso) 89
(siccome eziandio la scelta e l’uso de’ mezzi) fu da acutissimo,
profondissimo e sapientissimo filosofo. Veggasi il Perticari nel luogo
citato. (2. Sett. 1823.)
I limiti della materia sono i limiti delle umane idee. (3. Settembre.
1823.)
Alla p. 2843. Anzi dal dirsi incettare, piuttosto che incattare (come pur
diciamo [3351] accattare, riscattare ec.) deduco che questo verbo spetti a’
buoni tempi della lingua latina, giacché ne’ bassi tempi, e meno nelle
lingue volgari, non si conservò e si trascurò questo uso di mutare l’a de’
verbi latini in e o i per la composizione, e l’e in i ec. (4. Sett. 1823.)
Alla p. 2843. marg. Dico verbi dissillabi contando per una sola sillaba
l’eo ne’ verbi della seconda (do-ceo), e l’io in quelli della quarta (au-dio),
secondo il volgar uso da me altrove dimostrato, che per dissillabi li
pronunziava. E dico dissillabi, avendo riguardo al tema, cioè alla prima
persona singolare presente indicativa. (4. Sett. 1823.)
Dialetti della lingua latina. Vedi Cic. pro Archia poeta, c.10.. fine,
dove parla de’ poeti di Cordova pingue quiddam sonantibus atque
peregrinum. Non avevano certamente questi poeti scritto nella lingua
indigena di Spagna, che i romani mai non intesero, siccome niun’altro
idioma forestiero, eccetto il greco; ma in un latino che sentiva di
Spagnolismo, come quel di Livio parve [3373] sapere di Patavinità. E le
parole di Cicerone, chi ben le consideri anche in se stesse, non possono
significare altro. Perocché era fuor di luogo la nota di peregrino se si fosse
trattato di una lingua forestiera, che non in parte, o per qualche qualità,
ma tutta è peregrina; nè questo in lei sarebbe stato difetto, e volendolo
considerar come tale, soverchiamente leggiera e sproporzionata sarebbe
stata quella semplice espressione che la lingua e lo stile di quei poeti
sapeva di forestiero. Oltreché l’una e l’altro sarebbero stati barbari, e per
le orecchie romane affatto strani, rozzi, insolenti, insopportabili, non così
solamente macchiati d’un non so che di pingue e di peregrino. Era in
Cordova introdotta già (siccome in altre parti della Spagna già
soggiogate, perché quella provincia non fu sottomessa che appoco
appoco, e con grandissimo intervallo una parte dopo l’altra, e, come
osserva Velleio, 100 fu di tutte la più renitente, e tra le romane conquiste
la più lunga e difficile e per lungo tempo incertissima); era, dico,
introdotta già in Cordova la lingua e la letteratura latina, siccome [3374]
dimostra l’aver essa poi potuto produrre i Seneca e Lucano, l’esempio
dello stile de’ quali, può (quanto allo stile) servire pur troppo di copioso
commento alle parole di Cicerone, che, s’io non m’inganno, della lingua
non meno che dello stile si debbono intendere. (6. Settem. 1823.)
Dico in più luoghi che la natura non ingenera nell’uomo quasi altro
che disposizioni. Or tra queste bisogna distinguere. Altre sono
disposizioni a poter essere, altre ad essere. Per quelle l’uomo può divenir
tale o tale; può, dico, e non più. Per queste l’uomo, naturalmente
vivendo, e tenendosi lontano dall’arte, indubitatamente diviene quale la
natura ha voluto ch’ei sia, bench’ella non l’abbia fatto, ma disposto
solamente a divenir tale. In queste si deve considerare l’intenzione della
natura: in quelle no. E se per quelle l’uomo può divenir tale o tale, ciò
non importa che tale o tale divenendo, egli divenga quale la natura ha
voluto ch’ei fosse: perocché la natura per quelle disposizioni non ha fatto
altro che lasciare all’uomo la possibilità di divenir tale o tale; nè quelle
sono [3375] altro che possibilità. Ho distinto due generi di disposizioni
per parlar più chiaro. Ora parlerò più esatto. Le disposizioni naturali a
poter essere e quelle ad essere, non sono diverse individualmente l’une
dall’altre, ma sono individualmente le medesime. Una stessa
disposizione è ad essere e a poter essere. In quanto ella è ad essere,
l’uomo, seguendo le inclinazioni naturali, e non influito da circostanze
non naturali, non acquista che le qualità destinategli dalla natura, e
diviene quale ei dev’essere, cioè quale la natura ebbe intenzione ch’ei
divenisse, quando pose in lui quella disposizione. In quanto ella è
disposizione a poter essere, l’uomo influito da varie circostanze non
naturali, siano intrinseche siano estrinseche, acquista molte qualità non
destinategli dalla natura, molte qualità contrarie eziandio all’intenzione
della natura, e diviene qual ei non dev’essere, cioè quale la natura non
intese ch’ei divenisse, nell’ingenerargli quella disposizione. Egli però non
divien tale per natura, benché questa disposizione sia naturale: perocché
essa disposizione non era ordinata a questo [3376] ch’ei divenisse tale,
ma era ordinata ad altre qualità, molte delle quali affatto contrarie a
quelle che egli ha per detta disposizione acquistato. Bensì s’egli non
avesse avuto naturalmente questa disposizione, egli non sarebbe potuto
divenir tale. Questa è tutta la parte che ha la natura in ciò che tale ei sia
divenuto. Siccome, se la disposizion fisica del nostro corpo non fosse
qual ella è per natura, l’uomo non potrebbe, per esempio, provare il
dolore, divenir malato. Ma non perciò la natura ha così disposto il nostro
corpo acciocché noi sentissimo il dolore e infermassimo; nè quella
disposizione è ordinata a questo, ma a tutt’altri e contrarii risultati. E
l’uomo non inferma per natura; bensì può per natura infermare; ma
infermando, ciò gli accade contra natura, o fuori e indipendentemente
dalla natura, la quale non intese disporlo a infermare.
Similmente si discorra degli altri animali, e di mano in mano degli
altri generi di creature, con quest’avvertenza però e con questa
proporzione, che negli altri animali, le disposizioni [3377] ingenite sono
più ad essere che a poter essere; il che vuol dire che gli animali sono
naturalmente meno conformabili dell’uomo; che essi per le loro naturali
disposizioni, non solo non debbono acquistare altre qualità che le
destinate loro dalla natura, il che è proprio anche dell’uomo, ma non
possono acquistarne molto diverse da queste, come l’uomo può; non
possono acquistar tante e così varie qualità, come l’uomo può, per essere
sommamente conformabile: in fine che le loro naturali disposizioni non
rendono possibile tanta varietà di risultati, non possono esser così
diversamente applicate e usate come quelle dell’uomo. Ond’è che gli
animali non acquistino quasi altre qualità che le destinate loro dalla
natura, non divengano se non quali la natura gli ha voluti, quali ella
intese che divenissero nel dar loro quelle disposizioni. Il che vuol dire
ch’ei si mantengono nello stato naturale; che non è altro se non quello
che ho detto, cioè divenir tali quali la natura ha inteso; perché nè anche
gli animali nascono, ma divengono; nè la [3378] natura ingenera in essi
delle qualità, ma delle disposizioni, ben più ristrette che quelle
dell’uomo. In questo modo e con questa proporzione passando ai
vegetabili, e quindi scendendo per tutta la catena degli esseri, troverete
che le naturali disposizioni sono di mano in mano sempre maggiormente
ad essere che a poter essere, cioè si restringono, finché gradatamente si
arrivi a quegli enti ne’ quali la natura non ha posto disposizioni nè ad
essere nè a poter essere, ma solo qualità. Del qual genere io non credo
che alcuna cosa si possa in verità trovare, esattamente e strettamente
parlando, ma largamente si potrà dire che di tal genere sia questo nostro
globo tutto insieme considerato e rispetto al sistema solare o universale, e
similmente i pianeti e il sole e le stelle e gli altri globi celesti. Ne’ quali e
ne’ moti loro, e per dir così, nella vita, e nell’esistenza rispettiva degli uni
agli altri, niun disordine si può trovare, niuna irregolarità, niun morbo,
niuna ingiuria, niun accidente, successo o effetto che sia contro nè fuori
delle intenzioni avute dalla natura nel porre in essi le qualità che ci ha
posto; dico le qualità rispettive [3379] che hanno gli uni verso gli altri, le
quali negli effetti e nell’uso loro sempre e interamente corrispondono alle
primitive destinazioni della natura, e immutabilmente serbano ed
efficiunt quell’ordine dell’universo che la natura volle espressamente e
vuole, e quella vita o esistenza ch’essa natura gli ha destinata, e tale nè
più nè meno quale ella intese e ordinò che fosse. Da questo genere di
esseri rimontando indietro per insino all’uomo, troveremo sempre di
mano in mano decrescere secondo l’ordine delle specie e de’ generi, il
numero e l’efficacia e importanza delle qualità ingenerate in ciascun di
essi generi o specie dalla natura, e crescere altrettanto il numero o
l’estensione, la varietà o piuttosto la variabilità o adattabilità delle
disposizioni in esse dalla natura ingenerate: e queste disposizioni esser da
principio solamente, o quasi del tutto, ad essere, poscia eziandio a poter
essere, e ciò sempre più, salendo pe’ vegetabili ai polipi, indi per le varie
specie d’animali fino alla scimia, e all’uomo salvatico, e da queste specie
all’uomo. Nella cui parte che si chiama morale o spirituale, troveremo,
come ho detto, che [3380] la natura non ha posto di sua mano quasi
veruna qualità determinata, se non pochissime, e queste, semplicissime:
tutto il resto disposizioni, non solo ad essere, ma a poter essere tante
cose, ed acquistare tanto varie qualità, quanto niun altro genere di enti a
noi noti. E per questa scala ascendendo, troveremo colla medesima
gradazione, che quanto minore in ciascun genere o specie è il numero e il
valore delle qualità ingenite e naturali, quanto maggiore quello delle
disposizioni altresì naturali, e quanto maggiormente queste disposizioni
sono a poter essere (ossia divenire), tanto maggiore esattamente in
ciascuno d’essi generi o specie, e nell’esistenza loro, e negli effetti loro
sopra se stessi e fuor di se stessi è il numero e la grandezza de’ disordini,
delle irregolarità de’ morbi, de’ casi, degli accidenti, de’ successi non
naturali, non voluti o espressamente disvoluti dalla natura, contrarii alle
intenzioni e destinazioni fatte dalla natura nel formare quei tali generi o
specie, e nel così disporli com’essa li dispose, sì rispetto a se stessi, sì
riguardo agli altri generi e specie a cui essi hanno relazione, ed all’intera
[3381] università delle cose. Tutto ciò troverassi nelle meteore, ne’
vegetabili, negli animali sopra tutto, e fra gli animali, sopra tutti
nell’uomo, ossia nel genere umano. Perocché il vivente è meno dell’altre
cose tutte composto di qualità naturali, e più di disposizioni; e tra’
viventi l’uomo in massimo grado. Nel quale è maggior la vita che negli
altri viventi; e la vita si può, secondo le fin qui dette considerazioni,
definire una maggiore o minore conformabilità, un numero e valore di
disposizioni naturali prevalente in certo modo (più o meno) a quello
delle ingenite qualità. Massime rispetto allo spirituale, all’intrinseco, a
quello che, propriamente parlando, vive; a quello in che sta
propriamente e si esercita la vita, in che siede il principio vitale, e la
facoltà dell’azione sia interna sia esterna, cioè la facoltà del pensiero e
della sensibile operazione. ec. Nella qual facoltà consiste propriamente la
vita ec. (6-7. Settembre. 1823.). Per lo contrario le cose che meno
partecipano della vita sono quelle che per natura hanno meno di qualità
e più di disposizione, cioè le meno conformabili naturalmente. E se v’ha
cosa che non sia punto conformabile naturalmente, quella niente
partecipa della vita, ma solo esiste; quella è che si dee propriamente
[3382] chiamare semplicemente e puramente esistente ec. ec. ec. (8. Sett.
Natività di Maria Santissima. 1823.)
Alla p. 3343. marg. È da notare che tutti questi nomi per etimologia
non significano propriamente altro che misero, afflitto, ec. o povero ec. o
fatichevole ec., ovvero miseria, calamità, povertà, laboriosità ec. E che in
processo di tempo, molti di essi, e forse i più, perduta o fatta men
comune e antiquata o poetica ec. questa significazione non ritennero
nell’uso ordinario che quella di ribaldo, cattivo, scellerato, malvagità,
nequizia ec. quasi fosse impossibile che il misero non fosse malvagio.
Probabilmente la distinzione tra πόνηρος miser e πονηρός improbus, e la
diversa accentazione, non vien che da’ grammatici greci, i quali non
considerarono i tanti altri esempi di voci sì greche sì forestiere che
riuniscono l’una e l’altra significazione, e non avvertirono che la seconda
è un vero e mero traslato della prima. (8. Sett. Natività di Maria Vergine
Santissima. 1823.) V. 823.
È tanto mirabile quanto vero, che la poesia la quale cerca per sua
natura e proprietà il bello, e la filosofia ch’essenzialmente ricerca il vero,
cioè la cosa più contraria al bello; sieno le facoltà le [3383] più affini tra
loro, tanto che il vero poeta è sommamente disposto ad esser gran
filosofo, e il vero filosofo ad esser gran poeta, anzi nè l’uno nè l’altro non
può esser nel gener suo nè perfetto nè grande, s’ei non partecipa più che
mediocremente dell’altro genere, quanto all’indole primitiva
dell’ingegno, alla disposizione naturale, alla forza dell’immaginazione.
Di ciò ho detto altrove. Le grandi verità, e massime nell’astratto e nel
metafisico o nel psicologico ec. non si scuoprono se non per un quasi
entusiasmo della ragione, nè da altri che da chi è capace di questo
entusiasmo. (Eccetto ch’elle sieno scoperte appoco appoco, piuttosto dal
tempo e dai secoli, che dagli uomini, in guisa che a nessuno in particolare
possa attribuirsene il ritrovamento, il che spesso accade). La poesia e la
filosofia sono entrambe del pari, quasi le sommità dell’umano spirito, le
più nobili e le più difficili facoltà a cui possa applicarsi l’ingegno umano.
E malgrado di ciò, e dell’esser l’una di loro, cioè la poesia, la più utile
veramente di tutte le facoltà, sì la poesia, [3384] come la filosofia sono del
pari le più sfortunate e dispregiate di tutte le facoltà dello spirito. Tutte
l’altre dànno pane, molte di loro recano onore anche durante la vita,
aprono l’adito alle dignità ec.: tutte l’altre, dico, fuorché queste, dalle
quali non v’è a sperar altro che gloria, e soltanto dopo la morte. Povera e
nuda vai, filosofia. 101 Della sorte ordinaria de’ poeti mentre vivono, non
accade parlare. Chi s’annunzia per medico, per legista, per matematico,
per geometra, per idraulico, per filologo, per antiquario, per linguista,
per perito anche in una sola lingua; il pittore eziandio e lo scultore e
l’architetto; il musico, non solo compositore ma esecutore, tutti questi son
ricevuti nelle società con piacere, trattati nelle conversazioni e nella vita
civile con istima, ricercati ancora, onorati, invitati, e quel ch’è più
premiati, arricchiti, elevati alle cariche e dignità. Chi s’annunzia solo per
poeta o per filosofo, ancorch’egli lo sia veramente, e in sommo grado,
non trova chi faccia caso di lui, non ottiene neppure ch’altri gli parli con
leggiere testimonianze di stima. La ragione si è che tutti si credono esser
filosofi, [3385] ed aver quanto si richiede ad esser poeti, sol che volessero
metterlo in opera, o poterlo facilissimamente acquistare e adoperare.
Laddove chi non è matematico, pittore, musico ec. non si crede di esserlo,
e riguarda come superiori per questo conto a lui ed al comune degli
uomini, quei che lo sono. Il genio, da cui principalmente pende e nasce la
facoltà poetica e la filosofica, non si misura a palmi, come ciò che si
richiede a esser medico o geometra. Quindi nasce che quello ch’è più raro
tra gli uomini tutti si credano possederlo. E quindi è che le due più
nobili, più difficili e più rare, anzi straordinarie, facoltà, la poesia e la
filosofia, tutti credano possederle, o poterle acquistare a lor voglia. Oltre
che il genio non può essere nè giudicato, nè sentito, nè conosciuto, nè
aperçu che dal genio. Del quale mancando quasi tutti, nol sentono nè se
n’avveggono quand’ei lo trovano. E il gustare, e potere anche
mediocremente estimare il valor delle opere di poesia e di filosofia, non è
che de’ veri poeti e de’ veri filosofi, a differenza delle opere dell’altre
facoltà. ec.
[3386] E qui si consideri il divario fra gli antichi e i moderni tempi.
ché fra gli antichi i filosofi, e massime i poeti, avevano senza contrasto il
primo luogo, se non nella fortuna (molti filosofi l’ebbero ancora nella
fortuna, come Pitagora, Empedocle, Archita, Solone, Licurgo ed altri de’
più antichi, che furono padroni delle rispettive repubbliche), certo nella
estimazion pubblica, non solo dopo morte, ma durante la loro vita. E
pure molti più erano allora che oggidì quelli che potevano esser poeti,
perché l’immaginazione era signora degli uomini; e la debole filosofia di
que’ tempi non distingueva gran fatto i filosofi da’ volgari, nè molto si
richiedeva per giungere alle loro cognizioni, e per salire alla loro altezza.
- ec. ec. (8. Sett. Natalizio di Maria Vergine Santissima. 1823.)
Molti presenti italiani che ripongono tutto il pregio della poesia, anzi
tutta la poesia nello stile, e disprezzano affatto, anzi neppur
concepiscono, la novità de’ pensieri, delle immagini, de’ sentimenti; e
non avendo nè pensieri, nè immagini, nè sentimenti, tuttavia per
riguardo del loro stile si credono poeti, e poeti perfetti e classici; questi
tali sarebbero forse ben sorpresi se loro si dicesse, non solamente che chi
non è buono alle immagini, ai sentimenti, ai pensieri non è poeta, il che
lo negherebbero schiettamente o implicitamente; 102 ma che chiunque
non sa immaginare, pensare, sentire, inventare, non può nè possedere un
buono stile poetico, nè tenerne l’arte, nè eseguirlo, nè giudicarlo nelle
opere proprie nè nelle altrui; che l’arte e la facoltà e l’uso
dell’immaginazione e dell’invenzione è tanto indispensabile allo stile
[3389] poetico, quanto e forse ancor più ch’al ritrovamento, alla scelta, e
alla disposizione della materia, alle sentenze e a tutte l’altre parti della
poesia ec. (Vedi a tal proposito la p. 2978-80.) Onde non possa mai esser
poeta per lo stile chi non è poeta per tutto il resto, nè possa aver mai uno
stile veramente poetico, chi non ha facoltà, o avendo facoltà non ha
abitudine, di sentimento di pensiero di fantasia d’invenzione, insomma
d’originalità nello scrivere. (9. Sett. 1823.)
La lingua spagnuola, secondo me, può essere agli scrittori italiani una
sorgente di buona e bella ed utile novità ond’essi arricchiscano la nostra
lingua, massimamente di locuzioni e di modi.
1° Io penso che niuno possa pienamente discorrere di niuna delle
cinque lingue che compongono la nostra famiglia, ciò sono greca, latina,
italiana, spagnuola, e francese, s’egli non le conosce più che
mediocremente tutte cinque.
2° La lingua spagnuola è sorella carnalissima della nostra. Or come
sia ragionevole il derivar [3390] nuove ricchezze nella lingua propria
dalle lingue sorelle, vedi, fra l’altre, p. 3192-6.
3° La potenza avuta dagli Spagnuoli in Europa, e in Italia
nominatamente, al tempo appunto che la lingua e letteratura nostra si
formava e perfezionava, ciò fu nel cinquecento, 103 a fece che molte voci
e molte più locuzioni e forme spagnuole fossero, non solo dal volgo e nel
discorso familiare, ma dai dotti e dai letterati nella lingua scritta ed
illustre italiana introdotte o accettate in quel secolo e nel seguente
eziandio (dal Redi, dal Salvini, dal Dati ec. V. p. es. la Crusca in alborotto,
verdadiero Dallo spagnuolo viene l’avv. giacché o già che per poiché,
usitatissimo appo i nostri migliori del seicento). Perocché la lingua
spagnuola era a quel tempo generalmente studiata, intesa, parlata,
scritta, e fino stampata, in Italia. (V. Speroni Oraz. in lode del Bembo
nelle Orazz. Ven. 1596: p. 144; Caro Lett. vol. 2. lett. 177.) E questa è
primieramente un’ottima ragione perché dalla lingua spagnuola si possa
ancora [3391] attingere, dico l’essersene già molto attinto. Così sempre
accade nelle lingue. Il già tolto d’altronde e naturalizzato, prepara gli
orecchi e il gusto a quello che si voglia ancor torre dallo stesso luogo,
appiana la strada, apparecchia quasi il posto e il letto alle novità che dalla
medesima fonte si vogliano dedurre, e ne facilita l’introduzione. Il canale
è scavato, nè fa di bisogno fabbricarlo; sta allo scrittore il dar corso per
esso alle acque, giusta la misura che gli paia opportuna. Aggiungasi a
questo, che tale commercio onde la lingua italiana si arricchì della
spagnuola, fu, come ho detto, nel secolo in che la nostra lingua si formò e
perfezionò, e prese o determinò il suo carattere, cioè nel cinquecento;
ond’è ben naturale che molte parti della lingua spagnuola non ancora da
noi ricevute, convengano e consuonino colle proprietà della nostra
lingua, poiché non poche forme e locuzioni, ed anche non poche voci
spagnuole e significazioni di voci, entrarono nella composizione della
nostra lingua appunto quand’ella ricevè la sua piena forma e
perfezionamento e la distinta specifica impronta del suo [3392] carattere.
Finalmente è da osservarsi che mentre i nostri antichi non solo nel
cinquecento, ma fin dal ducento e dal trecento introdussero nella lingua
nostra moltissime voci, locuzioni e forme francesi che ancora in buona
parte vi si conservano, queste, da tanto tempo in qua, e similmente quelle
altre infinite che i moderni v’introdussero e v’introducono tuttavia,
serbano sempre, chi ben le guarda, una sembianza e una fisonomia di
forestiere, massime le locuzioni e forme. Laddove le frasi e i modi, ed
anche i vocaboli spagnuoli introdotti nella nostra lingua, stanno e
conversano in essa colle nostre voci italiane così naturalmente che paiono
non venuti ma nati, non ispagnuoli ma italiani quanto alcun altro mai
possa essere e quanto lo sono i nostri propri vocaboli. Anzi io so certo
che pochissimi, ma veramente pochissimi, sanno, o sapendo, avvertono
questi tali esser modi e vocaboli o significati d’origine spagnuola. Ben ne
veggo assai sovente de’ riputati e battezzati per purissimi italiani natii.
104 Nè me ne maraviglio, perocché in essi la differenza dell’origine nulla
si sente, ed è possibile il saperla, ma [3393] non il sentirla. E non voglio
tacere che delle tante parole, frasi e forme francesi introdotte da’ nostri
antichi, sia ducentisti, sia trecentisti, sia cinquecentisti, sia secentisti,
nell’italiano, grandissima parte, e forse la maggiore, è uscita dall’uso
nostro ed antiquata per modo che oggidì nemmeno il più sfrontato e
impudente gallicista e parlatore o scrittore di francese maccheronico
sarebbe ardito di usarle. E ciò, quanto a quelle che furono tra noi usate
nel ducento o nel trecento, è accaduto da gran tempo in qua, cioè fino dal
cinquecento, nel qual secolo le antiche voci francesiitaliane che oggi più
non s’usano, erano parimente quasi tutte dimenticate, benché delle altre
se ne introducessero. Ma delle voci e maniere spagnuole introdotte fra
noi, ben poche o la minor parte, o certo in assai minor numero che delle
francesi, si trovano oggidì esser cadute dell’uso nostro. Le altre han posto
da gran tempo saldissime radici nella lingua italiana, come quelle che
l’hanno trovata esser terreno proprio da loro, e tale che l’esservi esse state
[3394] piuttosto traspiantate che prodotte spontaneamente e
primieramente, sia piuttosto caso che natura.
4° La lingua spagnuola è carnal sorella dell’italiana, non di famiglia
solo e di nascita e di eredità, ma di volto, di persona e di costumi. Nè la
lingua francese se le può paragonare per questo conto, non più ch’ella si
possa comparare all’italiana o alla spagnuola per conto della
somiglianza, sia esteriore sia interiore, colla madre comune. La lingua
spagnuola è piuttosto altra che diversa dall’italiana. Ed era ben ragione
che così fosse, perocché l’Italia, la Spagna e la Grecia sono in Europa per
natura di clima, di terreno e di cielo le più conformi provincie
meridionali. 105 Or tra queste, la Spagna e l’Italia avendo l’una dato,
l’altra ricevuto una stessissima lingua, era ben naturale che in processo di
tempo ambedue riuscissero tanto e niente meno conformi di linguaggio,
quanto a due separate nazioni è possibile il più. Laddove la Francia che
una medesima lingua ricevè dall’Italia ancor essa, partecipando però del
settentrionale [3395] e pel clima e per l’indole e per gli avvenimenti che la
storia descrive, settentrionalizzò la sua ricevuta lingua, e fecene un misto
nuovo, suo proprio e bello, come altrove s’è detto. E intanto
allontanandosi da’ suoni dalle forme e dal genio della lingua madre,
l’idioma francese col medesimo passo si divise eziandio dall’indole, dallo
spirito e dalla qualità de’ suoni delle lingue sorelle, che sempre alla
madre si attennero quanto comportarono i tempi e le circostanze; e che
quantunque inondate ancor esse dalle lingue settentrionali, pure per la
totale diversità del clima e dell’indole delle loro regioni, se ne
mantennero così pure, che pervenute per così dire a seccarle, soltanto
pochissime parole, niuna forma, niuna qualità appartenente al genio ed
all’indole, si trovarono averne contratto. Veramente la lingua spagnuola
e per carattere e per forme e per costrutti e per suoni e per che che sia, è
così conforme all’italiana, che altre due lingue colte così tra loro conformi
non si trovano ch’io mi creda, nè mai, ch’io sappia, si ritrovarono. [3396]
E più conformi sarebbero le suddette due lingue se la Spagna avesse
avuto e potesse vantare più vasta, copiosa e varia, più lunga, e più
perfetta letteratura, ch’ella non ebbe. Dico sarebbono più conformi per
ciò che tocca alla quantità, come dire alla ricchezza, alla varietà e cose
tali. ché per certo non mancò alla lingua spagnuola se non quello che ho
detto, per essere anche in queste parti comparabile alla lingua italiana;
per esserlo cioè in tutto, anche nella quantità, siccom’essa lo è nella
qualità, eccetto solamente che ancor nelle sue qualità ell’è meno perfetta
dell’italiana. Del rimanente ella, quanto alla qualità, non potrebbe quasi
essere più conforme alla nostra di quel ch’ella sia.
5° Nè tale sarebbe se la letteratura spagnuola, benché cedendo d’assai
all’italiana per la quantità, non le fosse pari del tutto nella qualità, salvo
la minore perfezione di ciascun suo attributo. Le stesse cagioni, sì
naturali, sì accidentali, che ci resero gli spagnuoli così conformi di lingua,
ce li fecero altrettanto conformi [3397] nella letteratura. Nè poteva essere
altrimenti, perché l’una e l’altra vanno sempre del pari. Certo è che nel
cinquecento, secolo aureo e principale non meno della lingua e
letteratura spagnuola che della italiana, il commercio tra queste due
letterature fu strettissimo, e l’influenza reciproca; bensì maggiore d’assai
quella dell’italiana sulla spagnuola che viceversa, perché l’italiana era di
gran lunga maggiore, e portata ad un alto grado già molto prima, cioè nel
300. Laonde, se imitazione vi fu, non è dubbio che gli spagnuoli
imitarono, e gli scrittori italiani furono loro modelli. Ma senza più
stendersi in questo, egli è certissimo ed evidente che il buono e classico
stile spagnuolo e lo stile italiano buono e classico, salvo che quello è
meno perfetto, non sono onninamente che uno solo. Ora quanta parte
abbia la lingua nello stile, 106 quanta influenza lo stile nella lingua, come
sovente sia difficile e quasi impossibile il distinguere questa da quello, e
le proprietà dell’una da quelle dell’altro, o si parli di uno scrittore e di
una scrittura particolarmente, [3398] o di un genere, o di una letteratura
in universale; sono cose da me altrove accennate più volte. Basti ora il
dire che non si è mai per ancora veduto in alcun secolo, appo nazione
alcuna, stile corrotto o barbaro e rozzo, e lingua pura o delicata, nè
viceversa, ma sempre e in ogni luogo la rozzezza, la purità, la perfezione,
la decadenza, la corruttela della lingua e dello stile si sono trovate in
compagnia. 107 ché se ne’ nostri trecentisti la lingua è pura e lo stile
sciocco; 1° lo stile non pecca se non per difetto di virtù, per inartifizio, e
mancanza d’arte e di coltura, ma niun vizio ha e niuna qualità malvagia;
sicché non può chiamarsi corrotto: 2° lo stile de’ trecentisti è semplice e
nella semplicità energico, come porta la natura, e tale nè più nè meno è la
lingua loro, la quale generalmente non ha pregio nessuno se non questi,
che sono pur pregi dello stile, ma non sempre, e che non bastano: 3° che
che ne dicano i pedanti, ogni volta che lo stile de’ trecentisti pecca di
rozzo, anche la lor lingua è rozza; ogni volta che di barbaro, anche la
lingua è barbara; ogni volta che di eccessiva semplicità ed inartifizio,
anche la semplicità della [3399] lingua passa i termini, com’è stato ben
provato in questi ultimi tempi; e finalmente se talvolta il loro stile è
tumido, falso, o insomma corrotto comunque, (benché tal corruzione in
loro sia piuttosto fanciullesca e d’ignoranza, che manifestante il cattivo
gusto, e la depravazione, che in essi non poteva aver luogo), allora anche
la lingua non è da noi chiamata pura, se non perché ed in quanto antica,
secondo le osservazioni da me fatte altrove circa quello che si chiama
purità di lingua.
Adunque lo stile che colla lingua è così strettamente legato, è lo stesso
nello spagnuolo e nell’italiano. Dico quello stile che dall’una e dall’altra
nazione è riconosciuto per classico. Ebbero anche i francesi nel medesimo
secolo del cinquecento uno stile conforme o quasi conforme allo
spagnuola e all’italiano, ma esso non è riconosciuto oggidì per classico da
quella nazione, nè per tale fu riconosciuto in quel secolo in che la
letteratura francese pigliò forma e carattere e perfezionossi, in somma nel
secolo aureo che dà legge [3400] e norma, generalmente parlando, alla
lingua e letteratura francese di qualunque secolo successivo. E se pur
quello stile talvolta è o fu riconosciuto per classico da’ francesi (come in
Amyot), ciò è come un classico che essi non debbono seguire nè imitare,
un classico diverso da quello che è classico oggidì per loro nelle scritture
di questo secolo, un classico che in queste scritture sarebbe vizio, anzi
non si comporterebbe, anzi non senza fatica s’intenderebbe; una lingua in
somma e uno stile che, secondo confessano essi medesimi, ancorché bello
e classico, non è più loro.
Lo stile e la letteratura spagnuola forma veramente (quanto alla sua
indole) una sola famiglia collo stile e letteratura greca, latina e italiana.
Lo stile e la letteratura francese per lo contrario appartengono a una
famiglia ben distinta dalla suddetta. La letteratura francese insieme con
quelle ch’essa ha prodotte, ciò sono la inglese del tempo della regina
Anna, la svedese, la russa, (e credo eziandio l’olandese), forma in Europa,
propriamente parlando, una terza distinta famiglia, un terzo genere di
letteratura e di stile: intendendo per seconda famiglia di letterature
[3401] europee quelle di carattere settentrionale, cioè l’inglese de’ tempi
d’Ossian e di quelli di Shakespeare, e la moderna ch’è una continuazione
di questa, la tedesca, l’antica scandinava, illirica, e simili. (Sebbene il
carattere scandinavo e illirico, sì delle nazioni, sì delle letterature, è
distinto dal teutonico ec. Ma non esiste letteratura scandinava nè illirica,
se non antica e mal nota, perché la presente letteratura Svedese, Danese,
russa ec. non è che francese. Staël nel principio dell’Alemagna). 108
Come altrove ho detto della lingua, così della letteratura e dello stile
francese si deve dire. Essi tengono il mezzo tra il meridionale e il
settentrionale, tra il classico e il romantico; essi formano una categoria
propria, niente meno diversa e distinta da quella delle letterature e stili
greco, latino, italiano classico, spagnuolo classico, e dall’indole e spirito
loro, di quel ch’ella sia dalle letterature inglese moderna, tedesca, e loro
affini o simiglianti. V. p. 3559.
Quel carattere di nobiltà, di dignità, di ardire, di semplicità, di
naturalezza ec. ec. che distingue [3402] gl’idiomi e gli stili greco e latino,
non si possono in alcuna lingua del mondo, nè moderna nè antica,
esprimer meglio nè più spontaneamente e naturalmente che nella italiana
e nella spagnuola, e negli stili riconosciuti respettivamente per classici
appo queste due nazioni: nè si potrebbero, assolutamente parlando,
esprimer meglio di quello che queste due lingue e questi due stili
possano fare. Dico possano fare, perché lo spagnuolo non lo ha forse
ancora mai fatto perfettamente, benché la sua indole e lo comporti e lo
richiegga. Dico quel tal carattere identico di nobiltà ec. proprio della
lingua e stile greco e latino. Le qualità medesime in genere, come la
nobiltà in genere ec. possono esser proprie anche del francese e del
tedesco e d’ogni lingua colta, ma quel tal carattere individuale e identico
di nobiltà ec. che distingue i suddetti stili greco e latino, non solo non lo
richieggono nè l’amano, ma in niun modo lo comportano, gli stili
francese, inglese ec. Questi possono esser nobili, ma in altro modo;
semplici ma in diversissimo [3403] modo; naturali ma tutt’altra
naturalezza, perch’egli hanno tutt’altra natura, e tutt’altro carattere
hanno le rispettive nazioni, e tutt’altro per queste è naturale; arditi, ma la
lingua francese rispetto a se stessa solamente, ché rispetto all’altre, e
assolutamente parlando, è timidissima, al contrario della greca e della
latina, e della spagnuola e italiana altresì: le restanti lingue e stili possono
essere arditi, anche più del greco e del latino, anche più dello spagnuolo
e dell’italiano, ma in tutt’altro modo.
E per recare un esempio; laddove la lingua e lo stile spagnuolo e
italiano si piegano naturalmente e quasi da se al dignitoso, come il greco
e il latino (che in qualunque genere e materia hanno sempre del grave e
dell’elevato), lo stile francese non ci si piega per niun modo, ma sempre
tira al familiare e al piano. Contuttociò egli pure ottiene di staccarsi dal
familiare e dal volgo, di sostenersi, d’innalzarsi; ma come? Con un
copiosissimo uso d’immagini, pensieri ed espressioni poetiche. [3404] E
non mezzanamente confusamente o solo in parte poetiche, ma forte
espressa e totalmente. Senza ciò non ottiene mai dignità ed elevazione, e
sempre tira al basso, e si accosta al discorso ordinario, allo stile parlato, di
conversazione ec. Ma ciò è ben diverso, e in certo senso, contrario al
modo in che i greci e i latini davano dignità ed elevatezza al loro stile, in
che gliene diedero i nostri classici e gli spagnuoli, benché non sempre
perfetti nel loro genere di stile, come avrebbero e potuto e dovuto essere,
e come esigeva naturalmente esso genere di stile, e l’indole stessa della
lingua ec. Si possono vedere le pagg. 3453. segg. e 3561. segg. ec. Vedi
quello che altrove ho detto sopra il poetico dello stile di Floro, (v. p.
3420.), e quello che ho detto sopra ciò, che la lingua francese sempre
prosaica nel verso, è oggimai sempre poetica nella prosa; e altri tali
pensieri.
Venendo alla conchiusione, ripeto che da una lingua così conforme
alla nostra, come ho mostrato essere la spagnuola, per ogni verso, e per
tante cagioni naturali, accidentali, intrinseche, estrinseche ec.; da una
lingua sorella com’essa è all’italiana; da una lingua ec. ec.; molta bella ed
utile novità possono trarre gli scrittori italiani moderni, come ne trassero
gli antichi e classici nostri. Ma voglio io perciò introdotti nella lingua
italiana degli spagnuolismi? Tanto come, consigliando [3405] di attingere
dal latino, intendo consigliare che s’introducano nell’italiano de’
latinismi. 109 Sono nel latino molte parole, nello spagnuolo alcune, nel
greco, nel latino e nello spagnuolo moltissimi modi e forme di dire, (e
molte significazioni di vocaboli o modi già fatti italiani) le quali tutte non
per altro non sono italiane, se [non] perché da veruno per anche non
introdotte nella nostra lingua. Adoperandole nell’italiano, elle sarebbero
così bene intese, cadrebbero così bene e facilmente, parrebbero così
spontanee e naturali, sarebbero così lontane da ogni sembianza
d’affettate, che niuno s’accorgerebbe non pur ch’elle fossero o greche o
latine o spagnuole anzi, o più, che italiane, ma neppur sentirebbe che
fossero nuove nella nostra lingua, nè se n’avvedrebbe in altro modo che
ricercandone espressamente il vocabolario. O se vi sentisse della novità,
ne sentirebbe quel tanto e non più, che dà grazia, eleganza, forza, nobiltà,
bellezza allo stile e alla lingua, e dividono l’una e l’altra dal popolo, il che
non pur è concesso ma richiesto al nobile scrittore in qualunque genere.
Queste [3406] voci, frasi, forme, benché latine, greche, spagnuole di
origine; benché non mai per l’innanzi usate o sentite in italiano;
introdotte che vi fossero, non sarebbero nè latinismi nè grecismi nè
spagnolismi, perché non vi si conoscerebbe nè la latinità, nè la grecità ec.,
o se vi si conoscerebbe, non vi si sentirebbe, ch’è quel che importa; nè vi
si conoscerebbe che per cagioni estrinseche e proprie del lettore, cioè per
la cognizione che questi avrebbe di quelle lingue, e degli scrittori italiani
ec.; non per cagioni intrinseche, cioè proprie di quella tale scrittura, stile
ec. per le qualità di quelle tali voci, frasi ec. rispetto alla lingua italiana o
a quel tal genere e stile. Altre voci, frasi, forme, significazioni sono in
gran numero nelle dette lingue, che si potrebbero pure utilissimamente
introdurre nella italiana, ma non altrove che in certi luoghi, con certi
contorni, preparazioni ec. nè senza molta avvertenza, arte, discrezione,
giudizio dell’opportunità ec. Con le quali condizioni, nè anche queste
(che sono in molto maggior numero dell’altre sopraddette) non
riuscirebbero nè latinismi nè grecismi ec. per le stesse ragioni. [3407]
Ovunque si senta latinità, grecità ec. o un sapore di non nazionale,
indipendentemente dalle cognizioni ec. del lettore, e per propria qualità
della parola o frase, o del modo in ch’ella è adoperata, quivi è latinismo,
grecismo ec. quivi barbarismo, quivi sempre vizio. E siccome nei
contrarii casi suddetti, malgrado la vera novità, niun vizio, anzi pregio vi
sarebbe; così in questo caso, niun pregio sarebbevi, e sempre vizio,
quando anche la novità non fosse vera, cioè quando bene quella tal
parola ec. avesse già esempio d’autor classico nazionale, e n’avesse ancor
molti; sia che in tutti questi ella stesse parimente male, o che stando bene
in questi, ella stesse male nel dato caso, perché non intelligibile o difficile
a intendere, perché male adoperata, e senza i debiti riguardi, e in
occasione e con circostanze non opportune ec. Similmente accade e si dee
discorrere intorno alle parole antiquate. La novità in una lingua, o la
rarità ec., insomma il pellegrino, da qualunque luogo sia tolto (o da’
forestieri, o dagli antichi classici nazionali ec.), deve sempre parere una
[3408] pianta, bensì nuova nel paese o rara, ma nata nel terreno
medesimo della lingua nazionale, e non pur della nazionale, ma della
lingua di quel secolo, della lingua conveniente a quel genere a quello stile
a quel luogo della scrittura. Sempre ch’ella par forestiera (e recata
d’altronde) per qualunque ragione, e in qualunque di questi sensi, ella è
cattiva. Nel caso contrario è sempre buona.
Lo studio della lingua greca, latina, spagnuola, applicato a quello
dell’italiana, non ci deve servire a latinizzare, grecizzare ec. in niuna
parte (sensibilmente) la nostra lingua. Esso ci deve servire e ci serve
mirabilmente a conoscere in quanti modi, niuno per anche usato, si possa
usare e rivolgere questa lingua italiana medesima che abbiam per le
mani, si possano comporre insieme, o adoperare per se stesse le sue
parole, frasi ec. 110 Noi dobbiamo pescare in esse lingue, non latinismi,
grecismi, ec. ma, per dir così, voci e forme e frasi italiane non per anche
usate; delle quali esse lingue abbondano. Studiandole (siccome
strettissimamente affini alla nostra, alla sua indole) ec. noi ci avveggiamo
[3409] che l’italiano può adoperare un tal modo, forma, voce,
significazione, ch’e’ non ha mai adoperato; la può adoperare, non perché
latina, greca, spagnuola, ma perché conforme all’indole dell’italiano
stesso, perché questa lingua per se medesima, e tale qual ella è n’è
capace; perché appunto adoperata nell’italiano, non parrà nè latina nè
greca nè spagnuola, ma parrà e sarà subito italiana. (cioè sarà intesa
subito, cadrà naturalmente, o dovunque o in certi tali generi o luoghi, ec.
ec.). Fatta questa scoperta, e avvedutici di questa verità, della quale senza
lo studio di quelle lingue non avremmo avuto alcuna notizia, noi
introduciamo nell’italiano quella tal frase ec. da niuno ancora usata, e che
noi, se la lingua latina ec. non ce l’avesse mostrata, non avremmo potuto
concepire e immaginare e inventare da noi medesimi e mediante la sola
cognizione della nostra lingua, se non per caso. 111 Così quelle lingue ci
somministrano copiose novità, che non sono nè latinismi nè grecismi, ec.
ma italianismi o nuovi o rari, e questi bellissimi e utilissimi, e insomma
degnissimi d’entrare in uso. Nello stesso modo che sono italianismi,
[3410] e degnissimi d’entrare in uso, infiniti vocaboli, locuzioni
(significati) e forme nuove, che l’abile e giudizioso e ben perito scrittore,
può inesauribilmente e incessantemente derivare, formare, comporre ec.
dalle stesse radici, degli stessi materiali, degli stessi capitali e fondi della
lingua nostra, profondamente conosciuti e perfettamente posseduti,
seguendo sempre e intieramente la vera indole e proprietà d’essa lingua,
e conformandosi con tutte le sue qualità sieno intrinseche, sieno
estrinseche ec. (9-10. Sett. 1823.)
Alla p. 3404. Quanto nel cit. pensiero ho detto dello stile di Floro, si
può, e meglio, applicare a quello di Platone, riputato, sì quanto allo stile e
a’ concetti, sì quanto alla dizione, 115 esser [3421] quasi un poema (v.
Fabric. B. G. in Plat. §. 2. edit. vet. vol. 2. p. 5.); e nondimeno sommo e
perfetto esempio di bellissima prosa, elegantissima bensì e soavissima
(non meno che gravissima: suavitate et gravitate princeps Plato: Cic. in
Oratore), amenissima ec., ma pur verissima prosa, e tale che la meno
poetica delle moderne prose francesi (e mi contento di parlare delle sole
riconosciute per buone), è molto più poetica di quella di Platone che tra
le greche classiche è di tutte la più poetica. Non altrimenti che molto più
poetiche della prosa platonica sono assaissime prose sacre e profane de’
posteriori sofisti e de’ padri greci ec. la cui moltitudine avanza forse e
senza forse quella che ci rimane delle prose classiche antiche. Ma per
vero dire, nè quelle son prose, nè le moderne francesi lo sono, ma
sofistumi l’une e l’altre, quelle in ogni cosa, queste in quanto allo stile.
(12. Sett. 1823.) Che i miracoli della musica, la sua natural forza sui nostri
affetti, il piacere ch’ella [3422] naturalmente ci reca, la sua virtù di
svegliar l’entusiasmo e l’immaginazione, ec. consista e sia propria
principalmente del suono o della voce, in quanto suono o voce grata, e
dell’armonia de’ suoni e delle voci, in quanto mescolanza di suoni e voci
naturalmente grata agli orecchi; e non già della melodia; e che
conseguentemente il principale della musica e la considerazione de’ suoi
effetti non appartenga alla teoria del bello proprio, più di quello che
v’appartenga la considerazione degli odori, sapori, colori assoluti ec.,
perocché il diletto della musica, quanto alla principale e più essenziale
sua parte, non risulta dalla convenienza; veggasi in questo, che non v’ha
così misera melodia che perfettamente eseguita da un istrumento o da
una voce gratissima non diletti assaissimo; nè v’ha per lo contrario così
bella melodia ch’eseguita p.e. con bacchette su d’una tavola, o su di più
tavole che rispondano a’ diversi tuoni, o in qualsivoglia istrumento o
voce ingratissima o niente grata, rechi quasi diletto alcuno, e ciò quando
anche ella sia eseguita perfettamente rispetto a [3423] se stessa. E ben gli
uomini si sono potuti accorgere delle suenunciate verità in questi ultimi
tempi, ne’ quali, per quello che se n’è detto, la sorprendente voce della
Catalani ha rinnovato quasi negli uditori i miracolosi effetti della musica
antica. Certo questi effetti non nascevano nè principalmente nè
essenzialmente nè quasi in parte alcuna dalle melodie. Le quali, oltre che
da mille altri potevano esser cantate, si sa poi ch’erano delle più triviali
ed insipide. Tutto il diletto era dunque originato dalla voce della
cantante, cioè dalle qualità d’essa voce che piacciono naturalmente agli
orecchi umani, tutte indipendenti dalla convenienza: straordinaria
dolcezza, flessibilità, rapidità, estensione ec. voce canora, sonora, chiara,
pura, penetrante, oscillante, tintinnante, simile alle corde o ad altro
istrumento musicale artefatto ec. ec. Con queste osservazioni non farà
maraviglia che i barbari e anche gli animali sieno tanto dilettati dalla
nostra musica, benché non assuefatti alle nostre melodie, e quindi non
capaci di conoscere nè di sentire quello che noi chiamiamo il bello
musicale. Non sono le melodie in se, nè la loro novità, che producono in
essi il [3424] diletto: sono gl’istrumenti e le voci, che presso noi sono
raffinate e perfette, queste coll’esercizio, coll’arte ec. quelli colle tante
invenzioni e perfezionamenti ec. Alla perfetta qualità di questi organi
unita l’arte di adoperarli perfettamente cioè di trarne de’ suoni più grati
ec. che non ne trarrebbe chi non avesse alcun’arte; unitavi di più l’arte di
accordare insieme questi organi nel modo ch’è naturalmente il più grato
agli orecchi (come l’arte di mescolare e temperare i sapori); ne risulta una
dolcezza ec. che a’ barbari riesce affatto nuova, e che perciò produce in
essi un piacer sommo ed effetti mirabili; piacere ed effetti che niente
hanno da far col bello, perché niente colla convenienza, se non con quella
ch’è relativa alla naturale disposizione degli orecchi, e che tanto
appartiene al bello, quanto la grata mescolanza de’ sapori, ch’è una
convenienza dello stessissimo genere dell’armonia musicale. Con queste
osservazioni si spiegheranno ancor bene, e meglio che in alcun altro
modo, moltissimi [3425] de’ miracoli della musica antica, massime quelli
che si raccontano delle nazioni o de’ tempi più rozzi, come di Saule e
Davidde ec. Essi miracoli non nascevano dalle qualità delle melodie,
come si crede, ma dalle qualità naturali o artifiziali degl’istrumenti o
delle voci, e del modo di toccarli o adoperarle, in quanto da tali qualità
nascevano suoni, o armonie di suoni, straordinariamente grate per se
stesse all’orecchio; straordinariamente, dico, rispetto a quelle nazioni o a
quei tempi. L’esser da lungo intervallo dissuefatto dall’udir musiche,
produceva anch’esso e produce tuttavia molti mirabili effetti, i quali
s’attribuiscono alle melodie, ma non nascono infatti principalmente che
dalla sensazione di suoni grati ec. per se stessa, tornata ad essere molto
efficace per la dissuefazione. Se Alessandro tutto il dì occupato nelle cose
militari, era a tavola mirabilmente affetto e dominato dalla musica (se
non erro) di Timoteo, ciò si rechi alla suddetta cagione, oltre al vino che
[3426] naturalmente esalta l’animo, in un corpo stanco massimamente; e
dispone a provar vivissime sensazioni per menome cause ancora.
Osservisi che generalmente fa negli uomini molto maggiore effetto la
musica vocale che l’istrumentale, la voce di una donna in un uomo che
quella di un uomo, e nella donna viceversa; la voce di basso fa forse nella
donna maggior effetto che quella di tenore o contralto, e nell’uomo al
contrario ec. Così de’ diversi istrumenti, quello fa in generale maggior
effetto, produce maggior piacere ec.; questo meno. Tutto ciò in parità di
circostanze, e trattandosi p.e. d’una medesima melodia ec. Or tali
differenze non hanno a far nulla colla convenienza, nulla, col bello
proprio, sono indipendenti dalla qualità delle melodie, che sole spettano
nella musica al discorso del bello; appartengono alle qualità sole de’
suoni ec.; sono della stessa categoria che le differenze degli odori e sapori
ec. che niuno s’avvisò di chiamar belli nè brutti, bensì più o meno
piacevoli o dispiacevoli: [3427] e ciò non per altro se non perché in essi
non ha luogo, come non l’ha nel nostro caso, il discorso della
convenienza ec. (12. Sett. 1823.)
Che il timore sia, come ho detto altrove, più naturale all’uomo della
speranza, e che l’uomo inclini più a quello che a questa, veggasi che
qualora gli uomini ignorano le cagioni degli effetti o naturali o artifiziali,
ordinariamente ne temono; e tanto è quasi, per gl’ignoranti
massimamente e primitivi e selvaggi e fanciulli, effetto di cagione
nascosta, quanto effetto spaventoso. Or quando mai la speranza è così
temeraria? Di più se l’ignoranza, superstizione ec. portò anticamente
[3434] o porta oggidì a pigliar qualch’effetto nuovo o sconosciuto per
presagio dell’avvenire o per segno del presente ignoto, osservisi che
generalmente questi presagi e questi segni furono creduti sinistri. Lascio
l’ecclissi le quali possono parere spaventose naturalmente a chi ne ignora
la cagione, non ne ha mai veduto ec., e da questo primitivo spavento può
ben esser nata l’opinione del cattivo augurio che loro si attribuì, e che le
rese spaventose per sì lungo tempo presso tutte le nazioni, e fin anche al
di d’oggi, benché già si sapesse e si sappia che l’oscurazione non era per
durar sempre ma passeggera ec. Ma le comete che cosa hanno di
spaventevole per se, più ch’altro corpo celeste, o che la via lattea ec.? E
volendole pigliare per segni o presagi, perché non di bene? ma non si
troverà nazione dov’elle fossero o sieno stimate annunziare altro che
male. Quelli che gli antichi chiamavano mostri, cioè cose straordinarie,
benché nulla terribili per se stesse e materialmente tutte erano stimate
cattivi augurii. Così nelle vittime il mancare del cuore, s’è pur vero che
ciò accadesse talvolta, come gli antichi narrano, [3435] o che paresse così
per errore di chi inspiciebat le viscere ec. Tutti segni che l’uomo è più
facile e proclive a temere che a sperare; e che questo è di rado così
irragionevole e precipitoso come quello; o certo ben più di rado ec.
Massimamente in natura, ne’ fanciulli, negl’ignoranti e negli uomini
naturali. (15 Sett. 1823.) L’immaginazione e le grandi illusioni onde gli
antichi erano governati, e l’amor della gloria che in lor bolliva, li facea
sempre mirare alla posterità ed all’eternità, e cercare in ogni loro opera la
perpetuità, e proccurar sempre l’immortalità loro e delle opere loro.
Volendo onorare un defonto innalzavano un monumento che
contrastasse coi secoli, e che ancor dura forse, dopo migliaia d’anni. Noi
spendiamo sovente nelle stesse occasioni quasi altrettanto in un apparato
funebre, che dopo il dì dell’esequie si disfa, e non ne resta vestigio. La
portentosa solidità delle antiche fabbriche d’ogni genere, fabbriche che
ancor vivono, mentre le nostre, anche pubbliche, non saranno certo
vedute da posteri molto lontani; le piramidi, gli obelischi, gli archi di
trionfo, [3436] la profondissima impronta delle antiche medaglie e
monete, che passate per tante mani, dopo tante vicende, tanti secoli ec.
ancor si veggono belle e fresche, e si leggono, dove i coni delle nostre
monete di cent’anni fa son già scancellati; tutte queste e tant’altre simili
cose sono opere, effetti, e segni delle antiche illusioni e dell’antica forza e
dominio d’immaginazione. Se fabbricavano per fasto i monumenti del
loro fasto dovevano durare in eterno, e il loro orgoglio non si appagava
dell’ammirazione di un secolo, ma tutti in perpetuo dovevano esser
testimoni della sua potenza e contribuire a pascere la sua vanità: se per
diletto, per bellezza, ornamento ec. tutto questo s’aveva da propagare nel
futuro in perpetuo; se per utile tutte le generazioni avvenire avevano a
partecipare di quella utilità; se il principe, se il comune, se i privati, se per
comodo, per onore, per vantaggio particolare o pubblico; se in memoria
di successi ricordevoli o privati o pubblici; se in ricompensa di virtù, di
belle azioni, di beneficii pubblici o privati; se in onor privato o pubblico,
di vivi o di morti; se in testimonianza d’amore ec. ec. qualunque fine si
proponessero, qualunque [3437] effetto dovesse seguitare a quell’opera,
esso aveva ad essere eterno, s’aveva a stendere in tutto l’avvenire, non
aveva a cessar mai. Le grandi illusioni onde gli antichi erano animati non
permettevano loro di contentarsi di un effetto piccolo e passeggero, di
proccurare un effetto che avesse a durar poco, instabile, breve; di
soddisfarsi d’una idea ristretta a poco più che a quello ch’essi vedevano.
L’immaginazione spinge sempre verso quello che non cade sotto i sensi.
Quindi verso il futuro e la posterità, perocché il presente è limitato e non
può contentarla; è misero ed arido, ed ella si pasce di speranza, e vive
promettendo sempre a se stessa. Ma il futuro per una immaginazione
gagliardissima non debbe aver limiti; altrimenti non la soddisfa. Dunque
ella guarda e tira verso l’eternità.
Fu proprio carattere delle antiche opere manuali la durevolezza e la
solidità, delle moderne la caducità e brevità. Ed è ben naturale in un’età
egoista. Ell’è egoista perché disingannata. Ora il disinganno, [3438] come
fa che l’uomo non pensi se non a se, così fa che non pensi se non quasi al
presente; di quello poi che sarà dopo di lui, non si curi punto nè poco.
Oltre che l’egoista è vile, sì per l’egoismo, sì per altre parti e cagioni. E
l’età moderna ch’è quella del despotismo tranquillo, incruento e
perfezionato, come può non essere abbiettissima? Ora un animo basso
non si sa levar alto, nè proporsi de’ fini nobili, nè cape l’idea dell’eternità
in menti così anguste, nè l’uomo abbietto può riporre la sua felicità nel
conseguimento d’obbietti sublimi.
Ne’ tempi intermedi fra l’antico e il moderno, osservando i
monumenti materiali che n’avanzano, si trovano evidenti segni e
dell’antiche illusioni e del sopravvegnente disinganno. Si vede anche
grandissima solidità in molte barbariche opere de’ bassi tempi, (anche
private, anzi per lo più tali) certo a paragone delle moderne. Chi può
paragonare la solidità di queste con quella degli edifizi pubblici o privati
del 500, in Italia massimamente. In Roma, dove v’ha monumenti d’ogni
età dalle egiziane alla presente, si può in questi [3439] considerare la
sommità, la decadenza, il distruggimento dell’umana immaginazione e
illusioni; anzi pur le diverse sommità e decadenze ec. delle medesime; e
le diverse età dell’immaginazione ec. e la storia delle nazioni non solo,
ma in genere dello spirito umano spiritualmente considerato, malgrado
la materialità degli oggetti. Si può cominciare dall’obelisco di piazza del
popolo, e finire, tornando poco distante da quello, nel palazzo Lucernari
che ancor si fabbrica. Quel denaro che da noi si spende in tabacchiere, e in
astucchi, gli antichi lo spendevano in busti e statue, e dove per una vittoria si fa
ora giuocare un fuoco di artifizio, essi muravano un arco di trionfo. Algarotti,
Pensieri, pensiero 13. 118 Si possono applicare queste considerazioni
anche alla letteratura. Non s’usavano anticamente le brochures, nè gli
opuscoli e foglietti volanti, nè scritture destinate a morire il dì dopo nate.
E quello ancora che si scriveva per sola circostanza e per servire al
momento, scrivevasi in modo ch’e’ potesse e dovesse durare
immortalmente.
[3440] Cicerone dopo dato un consiglio al senato o al popolo, da
mettersi in opera anche il dì medesimo, dopo perorata e conchiusa una
causa, ancor di una piccola eredità si poneva a tavolino, e dagl’informi
commentari che gli avevano servito a recitare, cavava, componeva,
limava, perfezionava un’orazione formata sulle regole e i modelli eterni
dell’arte più squisita, e come tale, consegnavala all’eternità. Così gli
oratori attici, così Demostene di cui s’ha e si legge dopo 2000 anni
un’orazione per una causa di 3 pecore: mentre le orazioni fatte oggi a’
parlamenti o da niuno si leggono, o si dimenticano di là a due dì, e ne
son degne, nè chi le disse, pretese nè bramò nè curò ch’elle avessero
maggior durata. (15. Sett. 1823.)119
Quante volte diss’io Allor pien di spavento, Costei per fermo nacque in
paradiso. Petr. Canz. Chiare fresche e dolci acque. Καὶ γελάϊς δ᾽ ἱµερόεν· τό
µοι ᾽µὰν Καρδίαν ἐν στήϑεσιν ἐπτόασεν Saffo ap. Longin. sezione 10. È
proprio dell’impressione che fa la bellezza [3444] (e così la grazia e l’altre
illecebre, ma la bellezza massimamente, perch’ella non ha bisogno di
tempo per fare impressione, e come la causa esiste tutta in un tempo, così
l’effetto è istantaneo) è proprio, dico, della impressione che fa la bellezza
su quelli d’altro sesso che la veggono o l’ascoltano o l’avvicinano, lo
spaventare; e questo si è quasi il principale e il più sensibile effetto ch’ella
produce a prima giunta, o quello che più si distingue e si nota e risalta. E
lo spavento viene da questo, che allo spettatore o spettatrice, in quel
momento, pare impossibile di star mai più senza quel tale oggetto, e nel
tempo stesso gli pare impossibile di possederlo com’ei vorrebbe; perché
neppure il possedimento carnale, che in quel punto non gli si offre affatto
al pensiero, anzi questo n’è propriamente alieno; ma neppur questo
possedimento gli parrebbe poter soddisfare e riempiere il desiderio
ch’egli concepisce di quel tale oggetto; col quale ei vorrebbe diventare
una cosa stessa (come profondamente, benché in modo scherzevole
osserva Aristofane nel Convito di Platone): ora ei non vede che questo
possa mai essere. [3445] La forza del desiderio ch’ei concepisce in quel
punto, l’atterrisce per ciò ch’ei si rappresenta subito tutte in un tratto,
benché confusamente, al pensiero le pene che per questo desiderio dovrà
soffrire; perocché il desiderio è pena, e il vivissimo e sommo desiderio,
vivissima e somma, e il desiderio perpetuo e non mai soddisfatto è pena
perpetua.Ora a lui pare e che quel desiderio non sarà mai soddisfatto (o
non ne vede il come, e gli par cosa troppo ardua e difficile e
improbabile), e ch’esso non sarà mai per estinguersi da se medesimo,
come quando proviamo un dolor vivissimo, ci pare a prima giunta ch’ei
sarà perpetuo, e che ne sia impossibile la consolazione, e che niuna cosa
mai lo consolerà. Tutto questo accade principalmente (ed oggimai
unicamente) ai giovani prima d’entrar nel mondo, o sul loro primo
ingresso (talvolta, e non di rado, ancora ai fanciulli). I quali e son più
suscettibili di vivezza d’impressione e di vivezza di desiderio ec., e sono
inesperti del quanto presto e facilmente l’amore [3446] o si dilegui o si
soddisfaccia, e del come; e che al mondo non v’ha cosa veramente
amabile; e di quanto sia facile ottenere ogni cosa ch’ei brama da quegli
oggetti ch’ei stima inaccessibili ec. ec.
Del resto, generalizzando, è da osservare che il primo concepimento
d’un desiderio vivissimo di cosa difficile a ottenere, il qual concepimento
non ha più luogo se non se ne’ fanciulli e nella prima gioventù, è sempre
accompagnato da spavento, e ciò si spiega colle cagioni sopraddette.
Massime se la cosa è o pare impossibile ad ottenere; l’uno e l’altro de’
quali casi è ben frequente nelle suddette età. Alle quali, per queste
ragioni, i desiderii come son penosissimi nella lor durata e nel loro corso,
così riescono spaventosi nella or nascita (e più quel d’Amore, ch’è più
penoso, perché più forte; massime negl’inesperti). E si dice per ischerzo,
ma non senza ragione di verità, che bisogna soddisfare ai desiderii de’
fanciulli per non trovargli morti dietro alle porte. (16. Sett. 1823.)
Gli uomini straordinari, bene spesso e forse il più delle volte, non son
tali per grandezza assoluta di niuna loro qualità, nè anche per grandezza
o forza ec. di essa qualità considerata rispettivamente a quel ch’ella suol
essere nel comune degli uomini; insomma non sono straordinarii perché
veruna lor qualità sia straordinaria (cioè non si trovi nel comune), nè
straordinariamente grande o perfetta ec.; ma solo per lo squilibrio delle
loro qualità, cioè perché l’una o più d’una di esse, senza esser nè
straordinaria, nè maggior ch’ella soglia, prepondera all’altre, e perciò
risalta e dà negli occhi. Mentre molti uomini [3448] di qualità tutte
grandi, (ed anche straordinarie), ma ben tra loro equilibrate, bilanciate e
compensate, sicché l’una non eccede l’altra, non sono stimati
straordinarii, perché l’una offusca lo splendore e nuoce alla vista
dell’altra scambievolmente. E spesse volte lo stesso avere, benché non
tutte, però molte o parecchie qualità grandi, (ed anche straordinarie),
producendo un certo equilibrio e contrappeso, e facendo che l’una di loro
renda l’altra meno notabile, è cagione che l’uomo non paia straordinario.
Ed all’opposto l’averne poche o una sola che sia o straordinariamente
grande o straordinaria, producendo uno squilibrio e sbilancio, non solo
non nuoce alla riputazione d’uomo straordinario, nè la rende minore, ma
la produce e l’accresce. (16. Sett. 1823.)
Ces hommes qui existent ainsi (les Chartreux de Rome) sont pourtant
les mêmes à qui la guerre et toute son activité suffiraient à peine s’ils s’y
étaient accoutumés. C’est un sujet inépuisable de réflexion que [3467] les
différentes combinaisons de la destinée humaine sur la terre. Il se passe
dans l’intérieur de l’ame mille accidents, il se forme mille habitudes qui
font de chaque individu un monde et son histoire. Connaître un autre
parfaitement serait l’étude d’une vie entière; qu’est-ce donc qu’on entend
par connaître les hommes? les gouverner, cela se peut, mais les
comprendre, Dieu seul le fait. Corinne, livre 10. chap.1. t. 2. p. 114. Ciò
vuol dire che l’uomo è sommamente e infinitamente o
indeterminatamente conformabile, e non è possibile conoscer mai tutti i
modi e tutte le differenze in cui lo spirito degl’individui, secondo la
diversità delle circostanze (ch’è infinita o indeterminabile), si conforma o
si può conformare; per la stessa ragione per cui non si possono conoscere
tutte le circostanze possibili ad aver luogo, che possono influire sullo
spirito degl’individui, nè tutte quelle che hanno effettivamente influito
su tale o tale individuo determinato, nè le loro combinazioni
scambievoli, nè le loro minute diversità che producono non piccole
differenze di carattere ec. [3468] La maggior cognizione adunque che si
possa avere dell’uomo è quella di sapere perfettamente e ragionatamente
che gli uomini non si possono mai ben conoscere, perché l’uomo è
indefinitamente variabile negl’individui, e l’individuo stesso per se. E il
più certo segno di tal cognizione si è quello di non maravigliarsi mai un
punto, e di esser bene e ragionatamente e veramente disposto a non
maravigliarsi di qualunque strana e inaudita e nuova indole, carattere,
qualità, facoltà, azione di qualunque individuo umano noto o ignoto ci
possa venire agli orecchi o agli occhi, ci accada o possa accader
d’intendere o di vedere, in bene o in male. Chi è veramente giunto a
questa disposizione, e l’ha in se ben perfetta, radicata e costante, ed
efficace, può dire di conoscer l’uomo il più ch’è possibile all’uomo. E più
infatti non può se non Dio, come ben dice la Staël, perché Dio solo può
conoscere e conosce tutti i possibili. Or gli uomini non si possono
perfettamente conoscere, chi non conosca poco men che tutti i possibili,
dico, i possibili di questa natura e di questa terra. (19. Sett. 1823.)
[3469] Alla p. 2709. Quasi tutti gli antichi che scrissero di politica
(tranne Cic. de rep. e de legibus), la pigliarono puramente o principalmente
dalla parte speculativa, la vollero ridurre a sistema teorico e di ragione, e
disegnare una repubblica di lor fattura; e questo si fu lo scopo,
l’intenzione e il soggetto de’ loro libri. Ond’è che quantunque i moderni,
primieramente abbiano fatto della politica il loro principale studio,
secondariamente, come privati che erano e sono la più parte, e quindi
inesperti del governo, sieno stati obbligati a tenersi in ciò alla
speculazione più che alla pratica, e per la medesima cagione abbiano
immaginato, sognato, delirato e spropositato nella politica più che in
altra scienza; nondimeno io tengo per fermo che gli antichi, anzi i soli
greci, avessero più Utopie 122 che tutti i moderni insieme non hanno.
Utopia è la repubblica di Platone, sì quella disegnata nella Politia, sì
l’altra ne’ libri delle Leggi, diversa da quella, come osserva Aristotele nel
2do de’ Politici, p. 106-16. Utopie furono quelle di Filea Calcedonio
(Aristot. Politic. l.2. ed. Victorii, Florent. p. 117-26.), e d’Ippodamo
Milesio (ib. p. 127-35.), Utopia è quella d’Aristotele (v. il Fabricio). 123 E
senza [3470] fallo Utopie furono ancora i libri politici e peri nomon o
nomoi di Teofrasto, di Cleante e d’altri tali filosofi, mentovati dal
Laerzio, e i perduti libri pur politici e peri nomon dello stesso Aristotele,
e molti altri siffatti. 124 Aristotele spianta le repubbliche degli altri, ma
nè più nè meno che in filosofia, si crede in obbligo di sostituire, e ci dà la
sua repubblica e il suo sistema. 125 E così gli altri. Ed è pur notabile che
gli antichi, e nominatamente i greci, o avevano, o avevano avuto in mano
gli affari pubblici, o potevano averli, o certo, ancorché stati sempre
privati, erano pur parte delle rispettive repubbliche, e contribuivano
insieme col popolo al governo. E generalmente parlando, nelle antiche
repubbliche, tutte libere, i privati, ancorché dediti solo a filosofare e
studiare, erano più al caso, se non altro per li continui discorsi
giornalieri, per lo essersi trovati assai spesso alle concioni, perché i
negozi pubblici passavano tutti e succedevano sotto gli occhi di tutti, e le
cause degli avvenimenti erano manifeste, e nulla v’avea di segreto; [3471]
erano dico al caso d’intendersi veramente di politica, e di poterne
ragionare per pratica, molto più che i moderni privati non sono, i quali si
trovano e si son trovati, per lo più, in circostanze tutte opposte, e
nemmeno fanno effettivamente parte della loro repubblica e nazione, nè
d’altra veruna, se non di nome. E nondimeno essi seguono nella politica
l’immaginazione e la speculazione molto manco, e l’esperienza e i fatti
molto più che gli antichi non fecero, e vaneggiano e inventano ed errano
molto meno. (19. Sett. 1823.)
Ne’ tragici greci (così negli altri poeti o scrittori antichi) non
s’incontrano quelle minutezze, quella particolare e distinta descrizione e
sviluppo delle passioni e de’ caratteri che è propria de’ drammi (e così
degli altri poemi e componimenti) moderni, non solo perché gli antichi
erano molto inferiori a’ moderni nella cognizione del cuore umano, il che
a tutti è noto, ma perché gli antichi nè valevano gran fatto nel dettaglio,
nè lo curavano, anzi lo disprezzavano e fuggivano, e tanto era impropria
degli antichi l’esattezza e la minutezza quanto ella è propria e
caratteristica de’ moderni. Ciò nel modo e per le ragioni da me spiegate
altrove.
Oltre di ciò i moderni ne’ drammi vogliono interessare col mettere i
lettori o uditori in relazione coi personaggi di quelli, col far che i lettori
[3483] ravvisino e contemplino se stessi, il proprio cuore, i propri affetti, i
proprii pensieri, le proprie sventure, i proprii casi, le proprie circostanze,
i proprii sentimenti, ne’ personaggi del dramma, e nel loro cuore, affetti,
casi, ec. quasi in un fedelissimo specchio. Si può esser certi che
l’intenzione de’ greci tragici, massime de’ più antichi, fu tutt’altra, e in
certo senso contraria. Questo effetto era troppo debole, molle, intimo,
recondito, sottile, perché o i poeti antichissimi fossero capaci di
proporselo, o i loro uditori di provarlo, o provato, di compiacersene.
Secondo la natura de’ popoli e de’ tempi meno civili, gli spettatori
cercavano e i poeti si proponevano nel dramma un effetto molto più forte
e gagliardo ed éclatant, delle sensazioni molto più fiere, più energiche,
più prononcées; delle impressioni molto più grandi; ed al tempo stesso
meno interiori e spirituali, più materiali ed estrinseche. I tragici greci
cercarono lo straordinario e il maraviglioso delle sventure e delle
passioni, appresso a poco come fa oggi Lord Byron (con molta maggior
cognizione però dell’une [3484] e dell’altre); tutto l’opposto di quel che si
richiedeva per metterle in relazione, in conformità, e d’intelligenza, con
quelle degli uditori. Sventure e casi orribili e singolari, delitti atroci,
caratteri unici, passioni contro natura, furono i soggetti favoriti de’ tragici
greci. Tale per certo si fu l’intenzion loro, sebbene la scelta l’invenzione
l’immaginazione non sempre corrispondesse pienamente all’intento, e
talor più talor meno, in chi più in chi meno. Ma generalmente parlando, e
massime, torno a dire, i più antichi tragici greci, cercarono o amarono di
preferenza il sovrumano de’ vizi e delle virtù, delle colpe e delle belle o
valorose azioni, de’ casi, delle fortune: al contrario appunto de’ moderni
tragici che cercano in tutto questo il più umano che possono. Quindi
coloro si rivolsero per lo più al favoloso, quindi il corrispondente
apparato della scena e degli attori; quindi non solo il soggetto ma il modo
di trattarlo, di condurre il dramma, d’intrecciarlo, di recare lo
scioglimento dovettero corrispondere al fine del poeta e dell’uditorio, che
era in questo di ricevere in quello di produrre una sensazione delle più
vive, [3485] delle più poetiche ec.; quindi anche gli episodii dovettero
corrispondere alla natura di tale scopo e di tal dramma; quindi le furie
introdotte nel teatro (nelle Eumenidi di Eschilo), che fecero abortir le
donne e agghiacciare i fanciulli (v. Fabric. Barthélemy ec.); quindi i
soggetti per lo più lontani o di tempo, o di luogo, di costumi ec. dagli
spettatori, benché tanti soggetti poetici offrisse ai tragici greci la storia,
non pur nazionale ma patria, e non pur patria, ma contemporanea ec. ec.;
quindi le inverisimiglianze d’ogni genere, i salti, le improvvisate, (fatte
per verità con meno arte, varietà ec. che non farebbero i modi e che non si
fa ne’ modi drammi e romanzi d’intreccio), l’intervento sì frequente degli
Dei o semidei ec. ec. I moderni drammatici come gli altri poeti, come i
romanzieri ec. si propongono di agir sul cuore, ma gli antichi tragici, non
men che gli altri antichi, sulla immaginazione. Questa osservazione, che
non si può negare, basta a far giudizio quanto debbano essenzialmente
differire i caratteri dell’antico e del moderno dramma, con che diversi
canoni si debba giudicar dell’uno e dell’altro, quanto sia assurdo il tirar
le moderne poesie drammatiche a parallelo d’arte ec. colle antiche, quasi
appartenessero a uno stesso genere, ch’è falsissimo. Gli antichi tragici
non vollero altro che por sotto gli occhi e l’immaginazione degli
spettatori quasi un volcano ardente o altro [3486] tale terribile fenomeno
o singolarità della natura, che niente ha che fare con quelli che lo
riguardano. Essi rappresentavano così quelle sciagure, quelle colpe,
quelle passioni, quelle prodezze, come meteore spaventevoli che gli
spettatori potessero contemplare senza pericolo di nocumento, provando
il piacer della maraviglia, e dello spaventoso impotente a nuocere, senza
però trovare nè dover trovare alcuna conformità o somiglianza fra esse
sciagure ec. e le lor proprie, o quelle de’ loro conoscenti, anzi neppur de’
loro simili e degl’individui della loro specie.
Da queste osservazioni si dee raccogliere per qual ragione non si
trovi, e come sia vano il cercare e più il pretendere di trovare nelle
antiche tragedie que’ dettagli quelle gradazioni quella esattezza nella
pittura e nello sviluppo e condotta delle passioni e de’ caratteri, che si
trovano nelle moderne; anzi neppur cosa alcuna di simile odi analogo.
Queste osservazioni possono in parte applicarsi anche alle antiche
commedie, massime a quella [3487] che in Atene si usò da principio e che
poi fu chiamata propriamente antica, ἀρχαία. Neppur questa mirava a
mettere i personaggi in relazione cogli spettatori, se non con alcuni in
particolare, che in essa erano espressamente rappresentati in caricatura.
Ancor essa mirava ad agir sull’immaginazione, intento affatto alieno
dalla moderna commedia, ed anche da quella che fu chiamata in Grecia
la commedia nuova νέα, o seconda δευτέρα, ch’è del genere di Terenzio,
traduttor di Menandro, che ne fu il principe. Quindi nell’antica
commedia le invenzioni strane, non naturali, poetiche, fantastiche; i
personaggi allegorici, come la Ricchezza ec.; le rane, le nubi, gli uccelli; le
inverisimiglianze, le stravaganze, gli Dei, i miracoli ec. Le antiche
commedie non erano propriamente azioni (δράµατα), ma satire
immaginose, fantasie satiriche, drammatizzate, ossia poste in dialogo;
come quelle di Luciano, conformi in tutto alle antiche commedie, se non
quanto all’estensione, alla personalità, ed altre tali non qualità ma
circostanze estrinseche, accidentali, arbitrarie ec. che non toccano alla
natura del genere ec. (20. Sett. [3488] 1823. Vigilia di Maria SS.
Addolorata.)
Si suol dire che gli antichi attribuivano agli Dei le qualità umane,
perch’essi avevano troppo bassa idea della divinità. Che questa idea non
fosse appo loro così alta come [3495] tra noi, non posso contrastarlo, ma
ben dico che se essi attribuirono agli Dei le qualità umane, ne fu causa
eziandio grandemente l’aver essi degli uomini e delle cose umane e di
quaggiù troppo più alta idea che noi non abbiamo. E soggiungo che
umanizzando gli Dei, non tanto vollero abbassar questi, quanto onorare
e inalzar gli uomini; e ch’effettivamente non più fecero umana la divinità
che divina l’umanità, sì nella lor propria immaginazione e nella stima
popolare, sì nella espressione ec. dell’una e dell’altra, nelle favole, nelle
invenzioni, ne’ poemi, nelle costumanze, ne’ riti, nelle apoteosi, ne’
dogmi e nelle discipline religiose ec. (22. Sett. 1823.). Tanto grande idea
ebbero gli antichi dell’uomo e delle cose umane, tanto poco intervallo
posero fra quello e la divinità, fra queste e le cose divine (non per
abbassar l’une ma per elevar l’altre, nè per disistima dell’une ma per
altissimo concetto dell’altre), ch’essi stimarono la divinità e l’umanità
potersi congiungere insieme in un solo subbietto, formando una persona
sola. Onde immaginarono un intiero genere participante [3496]
dell’umano e del divino, participazione che lor sembrò naturalissima, e
ciò furono i semidei. E similmente i fauni, le ninfe, i pani ed altre tali
divinità, anzi semidivinità 129 terrestri, acquatiche, aeree, insomma
sublunari, reputate mortali, si possono ridurre a questo genere di
partecipanti (vedi il Forcellini in Nympha): sebben elle erano inferiori ai
semidei, come Ercole (di cui vedi Luciano Dial. d’Ercole e Diogene, che
fa molto a proposito), cioè participanti forse di minor parte di divinità e
più d’umanità o mortalità; siccome gli eroi, finch’essi sono mortali
possono parere un grado inferiori a’ Pani, ninfe ec. cioè men divini. (V.
Forcell. in Heros, Indigetes, Semideus; e Platone nel Convito ed. Astii t. 3.
498. D-500. E, che fa ottimamente al caso). 130 Gli antichi non trovarono
maggior difficoltà a comporre in un suggetto medesimo l’umanità e la
divinità, di quel che a comporre i due sessi umani, il maschio e la
femmina, negl’immaginari ermafroditi; quasi l’umano e il divino fossero,
non altrimenti che il virile e il donnesco, due diverse specie, per dir così,
d’un genere istesso, nè maggior differenza, o intervallo, [3497] o
distinzion di natura fosse tra loro. (22. Sett. 1823.)
Testa si dice anche per ogni genere di coccia, come di quella de’ pesci,
onde la tartaruga è detta testudo ec. Quindi si conferma la congettura da
me altrove fatta sopra l’origine del dir testa, cioè coccia per capo. Si
cominciò a dar quel nome al cranio, ed è metafora o metonimia ec. molto
naturale. V. Forcell. (25. Sett. 1823.)
[3517] Alla p. 3412. fine. Altrettanto però è certo che una società
capace di repubblica durevole, non può essere che leggermente o
mezzanamente corrotta; che una società pienamente corrotta (come la
moderna) non è assolutamente capace d’altro stato durevole che del
monarchico quasi assoluto; e che il non essere assolutamente capace se
non di assoluta monarchia, e l’essere incapace di durevole stato franco, è
certo segno di società pienamente corrotta. Così, apparentemente, si
ravvicinano i due estremi, di società primitiva, di cui non è proprio altro
stato che la monarchia; e di società totalmente guasta, di cui non è
propria che l’assoluta monarchia. Colla differenza che questa società non
è onninamente capace di altro stato durevole, quella sì; e che in questa
non può durar che una monarchia assoluta cioè dispotica, in quella una
tal monarchia non poteva assolutamente durare; ma l’era propria una
monarchia piena bensì ed intera, ma non assoluta nè dispotica; una
monarchia dove il re era padron di tutto, e il suddito niente manco
libero. Del resto s’egli è [3518] proprio carattere sì della società primitiva
come della più corrotta l’essere ambedue per natura monarchiche di
governo, non è questo il solo capo in cui si veda che le cose umane
ritornano dopo lungo circuito e dopo diversissimo errore ai loro
principii, e giunte (come or pare che siano) al termine di lor carriera, o
tanto più quanto a questo termine più s’avvicinano, si trovano di nuovo
in gran parte cogli effetti medesimi, e nel medesimo luogo, stato ed
essere che nel cominciar d’essa carriera. Bensì per cagioni ben diverse e
contrarie a quelle d’allora: onde questi effetti e questo stato sono ben
peggiori ritornando, che allora non furono; e se e dove furon buoni e
convenienti all’umana società ed alla felicità sociale nel principio, son
pessimi nel ritorno e nel fine ec. (25. Sett. 1823.)
Monosillabi latini. Pes, spes, 137 dies, nox, fax, nix, res. Nótisi che questi
e tutti gli altri monosillabi da me raccolti, sono radici (anche rex, lex ec.
come ho mostrato). E che i nomi greci corrispondenti, bene spesso, oltre
al non essere monosillabi, non sono radici: come ἥλιος (lat. sol
monosillabo) si deriva da ἅλς [3542] ec. ec. e πρᾶγµα (res) viene da
pr.ssv indubitabilmente. Ed essendo verisimile che i nomi delle cose più
necessarie e frequenti a nominarsi, più materiali ec., delle cose che
sembrano dover essere state le prime nominate ec. (come sono, almeno in
gran parte, quelle significate ne’ monosillabi latini da me raccolti ec.)
fossero radici, non meno che monosillabi; par che ne segua che in greco,
ove tali nomi non sono radici, essi non siano i nomi primitivi greci delle
dette cose, e che questi sieno perduti, e che il latino all’incontro gli abbia
conservati; e così si confermi la maggior conservazione dell’antichità nel
latino che nel greco. E probabilmente i detti nomi latini saranno stati una
volta anche greci, e saranno venuti da quella lingua onde il greco e il
latino scaturirono, ma il latino gli avrà sempre conservati, sino a
trasmettergli alle lingue oggi viventi, e nel greco si saranno poi perduti o
disusati ec. ec. (27. Sett. 1823.)
Il fine del poeta epico (e simili, e in quanto gli altri gli son simili), non
dev’esser già di narrare, ma di descrivere, di commuovere, di destare
[3549] immagini e affetti, di elevar l’animo, di riscaldarlo, di correggere i
costumi, d’infiammare alla virtù, alla gloria, all’amor della patria, di
lodare, di riprendere, di accender l’emulazione, di esaltare i pregi della
propria nazione, de’ propri avi, degli eroi domestici ec. Tutti questi o
parte di questi hanno da essere i veri e proprii fini del poeta epico, non il
narrare; ma il poeta epico dee però fare in modo che apparisca il suo vero
e proprio, o certo principal fine, non esser altro che il narrare. Appena
merita il nome di poesia un poema il quale in verità non faccia altro che
raccontare, cioè non produca altro effetto che di stuzzicare e pascere la
semplice curiosità del lettore, ossia coll’intreccio bene intrigato e
avviluppato, ossia con qualunque mezzo. Queste sono piuttosto novelle
che poesie, per quanto l’azione raccontata potesse esser nobile sublime
interessante ec. (Di questa specie sono l’Orlando innamorato, il
Ricciardetto e simili). E possono ben essere di questa natura anche i
poemi tessuti o sparsi d’invenzioni capricciose e di favole ec. come i veri
poemi. Anche favoleggiando [3550] sempre o quasi sempre, un poema
può non far veramente altro che raccontare. Questi tali non sono poemi
perché il poeta ha veramente e principalmente per fine quel ch’ei non
dee senon far vista di avere, cioè il narrare. Ma per lo contrario i poemi
pieni di lunghe descrizioni, di dissertazioni e declamazioni morali,
politiche ec., di sentenze, di elogi, di biasimi, di esortazioni, di
dissuasioni ec. in persona del poeta ec. e di simili cose, non sono poemi
epici ec. perché il poeta mostra veramente di avere per principali fini,
quei ch’e’ non deve se non avere senza mostrarlo. (29 Sett. 1823.). V. p.
3552.
Alla p. 3388. Il vino (ed anche il tabacco e simili cose) e tutto ciò che
produce uno straordinario vigore o del corpo tutto o della testa, non pur
giova all’immaginazione, ma eziandio all’intelletto, ed all’ingegno
generalmente, alla facoltà di ragionare, di pensare, e di trovar delle verità
ragionando (come ho provato più volte per esperienza), all’inventiva ec.
Alle volte per lo contrario giova sì all’immaginazione, sì all’intelletto, alla
mobilità del pensiero e della mente, alla fecondità, alla copia, alla facilità
e prontezza dello spirito, del parlare, del ritrovare, del raziocinare, del
comporre, alla prontezza della memoria, alla facilità di tirare le
conseguenze, di conoscere i rapporti ec. ec. una certa debolezza di corpo,
di nervi ec. [3553] una rilasciatezza non ordinaria ec. come ho pure
osservato in me stesso più volte. Altre volte all’opposto.
Le passioni che son cose indipendenti dalle idee, giovano pure assai
volte, non solo all’immaginazione, ma eziandio all’ingegno in genere,
alla ragione ec. perocché negli accessi di passione si scuoprono non di
rado, anche da’ piccoli o non esercitati o non riflessivi ingegni, delle
verità così grandi come solide, secondo che ho detto altrove biasimando
l’uso della nuda ragione o facoltà dialettica e ragionatrice nella filosofia,
proprio de’ tedeschi ec. E per lo contrario le passioni mille volte
nocciono, impediscono, offuscano, indeboliscono ec. ec. sì
l’immaginazione, sì la facoltà ragionatrice, sì l’ingegno in genere, la
memoria ec. come ognun sa ec. Così ancora il vino e le cose dette di
sopra. ec. (29. Sett. dì di S. Michele Arcangelo. 1823.).
Alla p. 3341. princ. Dire p.e. livre deux, chapitre dix e simili, sembra
veramente esser uso de’ francesi più familiare che letterario. Trovo così
scritto a lettere in libri modernissimi, ma di niun’autorità. In libri
alquanto più antichi ma ben autorevoli, trovo p.e. chapitre dixième ec. (30.
Sett. 1823.). V. p. 3560.
Dalle cose altrove dette (nel principio della [3559] teoria de’
continuativi) intorno al verbo aspettare si può dedurre con
verisimiglianza che nel volgare latino aspecto as avesse il significato che
ha oggi in italiano, come l’ebbe in lat. expecto; massime considerando il
corrispondente greco προς-δοκάω che letteralmente si renderebbe
appunto ad-spectare, e lo spagnolo a-guardar ec. Attendere attendre per
aspettare, è traslazione fatta appunto nello stesso modo, cioè dalla
significazione di osservare a quella di aspettare (e notate anche in attendere
la preposizione ad in conferma della sopraddetta congettura); siccome
all’incontro può vedersi nel Forcell. un esempio di Tacito, dove aspectare
è preso per attendo is (il che potrebbe anche in certo modo confermare la
stessa congettura). I quali dati possono farci ancora congetturare che
attendere nel significato d’aspettare ch’egli ha nelle due lingue figlie
italiano e francese abbia la sua origine nel volgare latino ec. V. il Gloss. in
aspectare, attendere ec. se ha nulla. (30. Sett. 1823.) Alla p. 3401. La lingua
francese quanto all’origine (non quanto all’indole, veggasi la p.2989. e
altre) forma una famiglia colla greca, latina italiana spagnuola [3560] ma
la letteratura francese appartiene ad un’altra famiglia, e le quattro
letterature suddette formano una famiglia da se (aggiunta la portoghese
ch’io comprendo ed intendo sotto la spagnuola). E questo non è
contraddizione, come sarebbe, secondo i nostri principii, se la lingua
francese appartenesse alla famiglia dell’altre quattro anche quanto
all’indole. Laddove quanto all’indole, anche la lingua de’ moderni
francesi appartiene a una famiglia diversa (ch’ella forma, si può dir, da se
sola se non quanto ella, come la sua letteratura, ha corrotte e va
corrompendo parecchie altre lingue, e letterature, e ad alcune che ancor
non hanno carattere, come la russa, la svedese, olandese ec. ha impresso
o imprime il suo, più o meno durevolmente ec.), e l’altre quattro
suddette, formano una famiglia a parte. (30. Sett. 1823.)
Alla p. 3557. fine. Del resto l’uso de’ nomi ordinali de’ numeri in vece
de’ cardinali è anche comune in parte agl’italiani, sì nel discorso
familiare (come l’anno mille, il reggimento quattro ec. ec.) sì nella
scrittura anche elegante. V. fra gli altri lo Speroni nel Discorso o lettera
del tempo del partorire delle Donne, che tiene il terzo luogo tra’ suoi
Dialoghi, Ven. 1596. p. 49. lin. 16. paragonata colle superiori, p.50. lin. 23.
24. p. 51. lin. 24. p. 52. lin. 1.7.9.10. 18.22. p. 56. lin. 3. e altrove. (30. Sett.
1823.)
Alla p. 2911. marg. La lingua ebraica è poetica ancor nella prosa, per
quella sua estrema povertà, della quale altrove ho ragionato, mostrando
come in ciascuna sua parola cento significati si debbano accozzare e si
accozzino, conforme accadde a principio in ciascheduna lingua, finché
col variare o per inflessione, o per derivazione, o per composizione, o con
altra modificazione le poche radici a seconda de’ loro vari significati, si
venne d’una sola parola a farne moltissime, e di poche, infinite; per modo
che ciascun significato de’ tanti che dapprima erano riuniti in un solo
vocabolo, non per esser trasportato ad altra parola, ma come per
suddivisione o emanazione o altra varia modificazione di [3565] quello
stesso primo vocabolo, ebbe una parola per se, o con poca e discreta
compagnia d’altri significati.
Or dunque non potendo quasi la prosa ebraica usar parola che non
formicolasse di significazioni, essa doveva necessariamente riuscir
poetica e per la moltiplicità delle idee che doveva risvegliare ciascuna
parola, (cosa poetichissima, come altrove ho detto);e perché essa parola
non poteva dare ad intendere il concetto del prosatore se non in modo
vago e indeterminato e generale come si fa nella poesia; e perché quasi
tutte le cose, eccetto pochissime si dovevano esprimere con voci
improprie e traslate (ch’è il modo poetico); cosa che in tutte le lingue
intravviene, rigorosamente parlando, ma non si sente, se non alcune
volte, la traslazione, perché l’uso l’ha trasformata, quasi o del tutto, in
proprietà; laddove ciò non poteva aver fatto nella lingua ebraica, la qual
se toglieva a una parola il significato proprio in modo che il traslato
divenisse padrone e paresse proprio esso, al vero proprio che cosa poteva
restare in tanta povertà? [3566] sentivasi dunque sempre, anche nella
prosa ebraica, la traslazione, perché la voce, insieme co’ sensi traslati,
riteneva il proprio. Tale pertanto essendo la lingua destinata alla prosa,
necessariamente anche lo stile del prosatore doveva esser poetico,
siccome per la contraria ragione i primitivi poeti latini italiani ec. non
trovando nella lingua voci poetiche, furono necessitati a tenersi in uno
stile che avesse del familiare, come altrove ho detto.
La prosa ebraica era dunque poetica per difetto e mancamento, e
perché la lingua scarseggiava di voci. Non così la prosa francese, la qual
è per lo più poetica, mentre la lingua abbonda di voci, come ho detto
altrove. Ma essa prosa è poetica perché la lingua francese scarseggia, e si
può dir, manca di voci poetiche, cioè di voci antiche ed eleganti
propriamente, cioè peregrine ec. E vedi il pensiero antecedente con
quello a cui esso si riferisce. Le voci ebraiche sono tutte poetiche non
appostatamente, nè perché usate da’ poeti, nè perché fatte ad esser
poetiche e destinate all’uso della poesia, nè perché peregrine o per
antichità, o per [3567] traslazione ec. ma per causa materiale ed
estrinseca, e semplicemente perché son poche. E la lingua ebraica è tutta
poetica materialmente, cioè semplicemente perciocch’è povera. E lo stile
e la prosa ebraica sono poetiche stante la semplice povertà della lingua.
Qualità comune a tutte le lingue ne’ loro principii, insieme colla
conseguenza di tal qualità, cioè insieme coll’esser poetiche. Non intendo
però di escludere le altre ragioni non materiali che certo anch’esse
grandemente contribuirono a render poetica la lingua, stile e prosa
ebraica, cioè l’orientalismo e la somma antichità, del che vedi la pag.3543.
E questa seconda condizione influisce altresì grandemente e produce
l’effetto medesimo in ciascun’altra lingua ne’ di lei principii, in ciascuna
lingua che conserva il suo stato primitivo, in ciascun’altra lingua
antichissima ec. Del resto la somma forza e il sommo ardire che si
ammira nelle espressioni della Bibbia, e che si dà per un segno di
divinità, (veggasi la p. citata qui sopra) non proviene in gran parte
d’altronde che da vera impotenza e necessità, cioè da estrema povertà
che obbliga a [3568] un estremo ardire nelle traslazioni e in qualsivoglia
applicazione di significati, a tirar le metafore di lontanissimo ec. (1
Ottobre, giorno in cui s’intese la creazione del nuovo Papa. 1823.)
Della corruzione, degenerazione, snaturamento, deterioramento ec.
delle generazioni degli uomini civili, e degli animali dagli uomini
dimesticati, cioè alterati, snaturati e corrotti, in quanto tal deterioramento
viene da cause fisiche, e in quanto la civiltà dell’uomo ec. opera
fisicamente sulla generazione, è da esser veduto il Discorso o Lettera del
tempo del partorire delle donne di Sperone Speroni, che tiene il 3°. luogo
tra’ suoi Dialoghi, Venez. 1596. p. 53-54. principio. (1. Ottobre. 1823.)
A ciò che ho detto del nostro usare, usar, user continuativo di utor-
usus, aggiungi [3569] il nostro abusare, abusar, abuser, continuativo di
abutor abusus, e v. il Gloss. se ha nulla. Oltre disusare, ausare o adusare ec.
(1. Ott. 1823.)
Curtare (cortar spagn. accortare, scortare coll’o stretto, accorciare ec. ital.
accourcir ec. franc.) viene da curtus. Così decurtare ec. Ma curtus che cos’è?
forse un semplice aggettivo? Signor no, ma egli è senza fallo
originariamente un participio (come insinua anche la sua forma
materiale e il modo della sua significazione e del suo uso assolutamente e
generalmente considerato) di un verbo di cui curtare è continuativo. E
questo verbo perduto era un curo o cero o ciro o simile da κουρεύω o da
κειρω, tondeo, scindo, abscindo. Curtare per tondere vedilo nell’ultimo
esempio del Forcellini; il qual luogo non sarebbe stato tentato dai critici,
o forse guasto dagli amanuensi se avessero saputo e considerato questa
certissima etimologia e formazione di curtare che, secondo le norme della
nostra teoria de’ continuativi, qui dichiariamo. La qual etimologia indica
ancora il proprio significato di curtare [3570] ch’è appunto tondere,
creduto finora al più metaforico, e il proprio significato di curtus che è
tonsus. Questo verbo originario di curtare, e affatto conforme a un verbo
greco della stessa significazione è da riporsi insieme con quelli che
abbiamo dimostrato per mezzo di gustare, potare e s’altri tali n’abbiamo
accennati, conformi ai greci πόω γεύω 140 che altrettanto vagliono
quanto essi verbi ignoti, e quanto i loro noti continuativi, non altrimenti
che κειρω vaglia il medesimo che curto. E il discorso e le ragioni addotte
per li suddetti verbi, si ripetano in proposito di questo. La forma di
questo verbo doveva essere, s’io non m’inganno, e s’è lecito il
congetturare, curo is, curti, curtum, ovvero cureo es ui tum, ovvero anche
curo as curui curtum, come neco as ui ctum, seco as ui ctum, eneco as ui ctum,
reseco ec. i quali supini sembrano contratti da necitum, secitum (non già
necatum, secatum), fatti alla forma di domitum da domo as ui, cubitum di
cubo as ui 141 ec. Onde il primitivo e intero sarebbe curitum, curitus p.
curtus. (1. Ott. 1823.)
Alla p. 3544. Di unus per primus ve n’ha un solo esempio nel Forcell.
ed è l’ottavo da lui portato alla voce Unus, preso da Cic. de Senect. c.5.
ma il Forcellini non vi nota il significato di primus. Puoi vederlo ancora in
duo, tres ec. se avesse nulla in proposito. (3. Ott. 1823.)
Alla p. 2983. I francesi chiamano cervelet quello che gli anatomici appo
noi cerebellum. Sicché quello è un diminutivo di diminutivo. Così noi
diciamo cervellino e agnellino e cento diminutivi di diminutivi positivati.
Ma noi sogliamo diminuire anche i diminutivi propri, come in fiorellino
ec. fino anche a triplicar la diminuzione. (7. Ott. 1823.)
[3620] Alla p. 3477. Citus a um. Sanctus a um, che nelle lingue figlie
non è più che aggettivo. Servio (v. Forcell. Sancio in fine) par che derivi
sancio da Sanctus. 153 In questo caso ei s’inganna assai, perocch’ei viene a
derivare il verbo dal suo participio. (7. Ott. 1823.)
[3622] Sempre che l’uomo non prova piacere alcuno, ei prova noia, se
non quando o prova dolore, o vogliamo dir dispiacere qualunque, o e’
non s’accorge di vivere. Or dunque non accadendo mai propriamente
che l’uomo provi piacer vero, segue che mai per niuno intervallo di
tempo ei non senta di vivere, che ciò non sia o con dispiacere o con noia.
Ed essendo la noia, pena e dispiacere, segue che l’uomo, quanto ei sente
la vita, tanto ei senta dispiacere e pena. Massime quando l’uomo non ha
distrazioni, o troppo deboli per divertirlo potentemente dal desiderio
continuo del piacere; cioè insomma quando egli è in quello stato che noi
chiamiamo particolarmente di noia. V. p. 3713. (7. Ott. 1823.)
Il υ non fu che un’aspirazione che si metteva, per evitare l’iato, fra più
vocali; e tralasciavasi spessissimo ec. ec. come altrove in più luoghi.
[3625] V. il Forcellini in Fuam. (7. Ott. 1823.)
L’uso de’ diminutivi positivati (sì verbi che nomi ec.) o che i positivi
non s’usino o non esistano ec., o che s’usino collo stesso valore o
equivalente, è comune alle nostre lingue anche in vocaboli che non
derivano dal latino, donde ch’egli abbiano origine. V. p. 3946.3998. Come
in francese fardeau (it. fardello), marteau, martel (martello, martillo), roseau,
berceau, tonneau ec. ec. diminutivi per forma, sono tutti positivi di
significato. 156 Fourreau, diminutivo di un fourre, onde fourrer, che
rispondesse al nostro fodero o fodera. Infatti in spagnuolo si ha aFORRO
onde aFORRAR ec. come noi da fodera, foderare. L’aggiunta dell’a nel
principio delle voci è usitata assai in spagnuolo come in italiano (Monti
Propos. in ascendere). Sicché aforro è fourre. V. p. 3852. A proposito di
berceau, anche noi diciamo positivamente culla, ch’è altresì diminutivo,
fatto da cuna (che noi pure abbiamo), o ch’e’ sia corruzione moderna di
cunula (che si trova in Prudenzio), o ch’e’ sia forma antica latina,
diminutiva anch’essa, e contratta da cunula, o indipendente da questo.
Vedi il Forcellini in trulla diminutivo di trua. (9. Ott. 1823.). V. p.
3897.3993.
Alla p. 3586. Quanto più tai voci e frasi saranno e saranno sempre
state, nelle moderne lingue, affatto volgari, e quanto meno proprie degli
scrittori e delle moderne lingue illustri, o meno sospettabili di essere
state introdotte dagli scrittori e dalla lingua illustre, tanto più forte e
concludente sarà l’argomento da esse al latino, e dal latino a esse, poste
l’altre debite circostanze ec. Onde i nostri dialetti volgari e non mai scritti
(se non per giuoco ec.) e che non hanno linguaggio illustre, sono molto a
proposito in queste materie, e se ne conferma quello che ho detto della
loro utilità per investigar le origini della lingua latina ec. nella mia teoria
de’ continuativi verso [3638] il fine. Altrettanto e più dicasi intorno alla
lingua Valacca, che non è stata mai per niun modo, neppure indiretto,
influita da niuna letteratura, ch’io sappia. (9. Ottobre 1823.)
Primos in orbe deos fecit timor. Intorno a ciò altrove. Or si aggiunga, che
siccome quanto è maggior l’ignoranza tanto è maggiore il timore, e
quanta più la barbarie tanta è più l’ignoranza, però si vede che le idee de’
più barbari e selvaggi popoli circa la divinità, se non forse in alcuni climi
tutti piacevoli, sono per lo più spaventose ed odiose, come di esseri tanto
di noi invidiosi e vaghi del nostro male quanto più forti di noi. Onde le
immagini ed idoli che costoro si fabbricano de’ loro Dei, sono mostruosi e
di forme terribili, non solo per lo poco artifizio di chi fabbricolle, ma
eziandio perché tale si fu la intenzione e la idea dell’artefice. E vedesi
questo medesimo anche in molte nazioni che benché lungi da civiltà pur
non sono senza cognizione ed [3639] uso sufficiente di arte in tali ed altre
opere di mano ec. come fu quella de’ Messicani, i cui idoli più venerati
eran pure bruttissimi e terribilissimi d’aspetto come d’opinione. Molte
nazioni selvagge, o ne’ lor principii, riconobbero per deità questi o quelli
animali più forti dell’uomo, e forse tanto più quanto maggiori danni ne
riceveano, e maggior timore ne aveano, e minori mezzi di liberarsene,
combatterli, vincerli ec. La forza superiore all’umana è il primo attributo
riconosciuto dagli uomini nella divinità. V. p. 3878. E certo egli è segno di
civiltà molto cresciuta e bene istradata il ritrovare in una nazione e la
idea e le immagini o simboli o significazioni della divinità, piacevoli o
non terribili. Come fu in Grecia, sebben molto a ciò dovette contribuire la
piacevolezza e moderatezza di quel clima, che nulla o quasi nulla offre
mai di terribile. Perocché le forze della natura vedute negli elementi ec.,
riconosciute per superiori di gran lunga a quelle degli uomini, e, a causa
dell’ignoranza, credute esser proprie di qualche cosa animata e capace,
come l’uomo, di volontà, poiché è capace di movimento, di muovere ec.;
sono state le cose che hanno suscitata l’idea della divinità (perché gli
uomini amano e son soliti di spiegar con un mistero un altro mistero, e
d’immaginar cause indefinibili degli effetti che non intendono, e di
rassomigliare l’ignoto al noto; come le cause ignote de’ movimenti
naturali, alla volontà ed all’altre forze note che producono i movimenti
animali ec.), ond’è ben naturale che tale [3640] idea corrispondesse alla
natura di tali effetti, e fosse terribile se terribili, moderata se moderati,
piacevole se piacevoli ec. e più e meno secondo i gradi ec. Se non che
nell’idea primitiva dovette sempre prevalere o aver gran parte il terribile,
perché essendo l’uomo naturalmente inclinato più al timore che alla
speranza, come altrove in più luoghi, una forza superiore affatto
all’umana, dovette agl’ignoranti naturalmente aver sempre del
formidabile. Oltre che in ogni paese v’ha tempeste, benché più o meno
terribili ec. E tra le varie divinità di una nazione che ne riconosca più
d’una, di una mitologia ec., le più antiche son certamente le più
formidabili e cattive, e le più amabili e benefiche ec. son certamente le
più moderne. Le nazioni più civilizzate adoravano gli animali utili,
domestici, mansueti ec. come gli egizi il bue, il cane, o loro immagini. Le
più rozze, gli animali più feroci, o loro sembianze (v. la parte 1. della
Cron. del Peru di Cieça, cap.55. fine. car. 152. p. 2.). Quelle p.e. il sole o
solo o principalmente, queste, o sola o principalmente la tempesta ovvero ec.
ec. E a proporzione della rozzezza o civiltà, gli Dei ec. malefici e benefici
erano stimati più o men principali e potenti, ed acquistavano o
perdevano nell’opinione e religion del popolo, e nelle mitologie, e riti ec.
V. p. 3833. Come della mitologia greca e latina ec. senza dubbio si dee
dire. Infatti anche indipendentemente da questa osservazione, s’hanno
argomenti di fatto per asserire che p.e. Saturno, Dio crudele e malefico, e
rappresentato per vecchio, brutto, e d’aspetto come d’indole e di opere,
odioso, fu l’uno de’ più antichi Dei della Grecia o della nazione onde
venne la greca e latina mitologia, e più antico di Giove ec. Effettivamente
la detta mitologia favoleggia che Saturno regnò prima di Giove, [3641] e
da costui fu privato del regno. La qual favola o volle espressamente
significare la mutazione delle idee de’ greci ec. circa la divinità, e il loro
passaggio dallo spaventoso all’amabile ec. cagionato dal progresso della
civiltà, e decremento dell’ignoranza; o (più verisimilmente) ebbe origine
e occasione da questo passaggio, di essere inventata naturalmente.
Del resto, ho detto altrove che dalla considerazione della divinità
come formidabile, odiosa, odiatrice, nemica ec. nacque l’uso de’ sacrifizi
cruenti, comune alla massima parte degli antichi popoli e de’ selvaggi
ch’ebbero o hanno una qualunque religione o tintura di religione. Ora è
da notare che detti sacrifizi furono e sono tanto più crudeli, quanto i detti
popoli furono o sono più barbari e ignoranti, perché tanto più crudele,
nemica, maligna, odiosa, terribile e’ si figuravano o si figurano la
divinità. Onde per placarla e soddisfarla, tormentano le vittime, volendo
pascere il di lei odio e sfamarlo, acciocch’esso risparmi i sacrificatori. E
perciò ne’ più antichi tempi de’ greci e de’ latini, così de’ Galli a’ tempi e
nella religione de’ Druidi, tra’ Celti ec. furono propri di questi popoli
[3642] ancor barbari e ignoranti, i sacrifizi d’uomini (che poi per l’uso
durarono anche fino a tempi più civili), e lo sono e furono d’altri
moltissimi popoli selvaggi; come che con tali sacrifizi meglio si
soddisfacesse l’ira e l’odio della divinità verso gli uomini, cioè verso quel
tal genere che a lei facea sacrifizi. E non pur d’uomini nemici, che non
sarebbe gran meraviglia (uso anch’esso comunissimo tra’ selvaggi), o di
colpevoli e malvagi, ma eziandio nazionali e probi, benché questi
sacrifizi sieno e fossero meno frequenti di quelli di nemici o di rei. Qua si
può riferire lo spontaneo sacrifizio e devozione (cioè esecrazione di se
stessi ec.) di Codro, de’ Decii, di Curzio (s’è vero) e simili. Tutti
appartenenti a’ più antichi e barbari tempi della Grecia e di Roma, nè mai
rinnovati ne’ tempi civili appo l’una nè l’altra nazione.
È da considerare ancora che tra’ selvaggi e tra’ barbari antichi o
moderni ch’ebbero o hanno più divinità, altre più odiose, altre meno,
altre amabili e buone ec.; le più venerate e colte con sacrifizi e riti e
cerimonie e preci ec. sono o furono le più cattive, [3643] terribili, odiose,
brutte a vedere ec. perché il timore è più forte, valevole, efficace, attivo
che la speranza e l’amore. Al contrario accadde e accade ne’ men barbari
ec. e tanto più quanto men barbari, e altresì in quelle medesime nazioni
in tempi più civili, e a proporzione degl’incrementi della civiltà e delle
conoscenze e del lume della ragione ec. e de’ progressi dello spirito
umano. L’una e l’altra di queste verità è dimostrata dalla storia, dalle
notizie dell’antichità, e dalle relazioni de’ viaggiatori ec. V. fra gli altri
mille, D. Ant. de Solìs, Historia de la Conquista de Mexico L. 1. c. 15. p.
43-45. L. 3. c. 13. p. 236-8. Madrid 1748. (9. Ott. 1823.)
[3676] Alla p. 3349. Non è da trascurare una differenza che si trova fra
il carattere, il costume ec. degli antichi settentrionali e abitatori de’ paesi
freddi, e quel de’ moderni; differenza maggior di quella che suol trovarsi
generalmente dagli antichi ai moderni. Perocché gli antichi settentrionali
ci sono dipinti dagli storici per ferocissimi, inquietissimi, attivissimi non
solo di carattere, ma di fatto, per impazienti del giogo, sempre vaghi di
novità, sempre macchinanti, sempre ricalcitranti e insorgenti, e per quasi
assolutamente indomabili e indomiti. Germani, Sciti ec. I moderni al
contrario sono così domabili, che certo niun popolo meridionale lo è
altrettanto. E tanto son lungi dalla ferocia, che non v’ha gente più buona,
più mansueta, più ubbidiente, più tollerante di loro. E se v’ha parte
d’Europa dove meno si macchini, e si ricalcitri al comando, e si desideri
novità e si odi la soggezione, ciò è per l’appunto fra i popoli
settentrionali. In questa tanta diversità di effetti hanno certamente gran
parte da un lato la diversità de’ governi antica e moderno, dall’altro la
poca coltura del popolo nelle regioni settentrionali. Ma grandissima parte
v’ha certamente ancora la differenza materiale della vita. Gli antichi
[3677] settentrionali, ma difesi contra le inclemenze dell’aria dalle
spelonche, proccurantisi il vitto colla caccia (Georg. 3. 370. sqq. etc.),
alcuni anche erranti e senza tetto, come gli Sciti ec., erano anche più
ὑπαίϜριοι di vita, che non sono i meridionali oggidì. Introdotti gli usi e i
comodi sociali, i popoli civilizzati del Nord divennero naturalmente i più
casalinghi della terra. Niuna cosa rende maggiormente quiete e pacifiche
sì le nazioni che gl’individui, niuna men cupidi, anzi più nemici di
novità, che la vita casalinga e le abitudini domestiche, le quali
affezionano al metodo, rendono contenti del presente ec. come ho detto
ne’ pensieri citati in quello a cui questo si riferisce. Quindi è seguìto che
non per sole circostanze passeggere e accidentali, come la maggiore o più
divulgata e comune coltura di spirito ec. ma naturalmente e
costantemente, nel sistema di vita sociale, e dopo resa la civiltà comune
al nord come al sud, i popoli del mezzogiorno, come meno casalinghi,
sieno stati, sieno, ed abbiano a essere più inquieti e più attivi di quelli del
settentrione, sì d’animo, sì di fatti, [3678] al contrario di quello che
porterebbe la pura natura degli uni e degli altri comparativamente
considerata. Ond’è che i settentrionali moderni e civili sieno in verità
molto più diversi e mutati da’ loro antichi, che non sono i meridionali
dagli antichi loro, sì di carattere, sì di usi, di azioni ec.
Ed è a notare in proposito della vita casalinga, metodica e uniforme,
ch’ella contribuisce a mettere in attività l’immaginazione, a destare e
pascere le illusioni, a far che l’uomo abbondi d’immagini e di deliri, e con
questi facilmente faccia di meno delle opere, e basti a se stesso, e trovi
piaceri in se stesso, ad accrescere la vita e l’azione interna in pregiudizio
dell’esterna; assai più che non fanno la bellezza e la vitalità della natura
ne’ paesi meridionali. Qui gli uomini sono distratti e dissipati, e versati al
di fuori, ed hanno sempre sotto gli occhi il mondo, e gli altri uomini, e la
vita, e la società e la realtà delle cose; il che distrugge o impedisce
l’immaginazione e l’illusione, e produce la noia, e quindi la scontentezza
del [3679] presente e il desiderio di novità. Ma nella vita casalinga, la
solitudine, l’esser sempre, o il più del tempo, raccolto in se stesso, l’esser
privo o scarso di distrazioni, stante il metodo e l’uniformità della vita e la
poca società, lascia libero il campo alle facoltà dell’anima di agire, di
svilupparsi, di ripiegarsi sopra se stesse, di meditare, di pensare, di
riflettere, d’immaginare, e produce necessariamente un’abitudine di
pensiero, che nuoce sommamente, o anche esclude, sì l’abito sì
l’inclinazione sì l’atto dell’operare. E d’altronde l’esser gran parte del
tempo, lontano dal mondo, dalla società, dagli uomini di fuori;
l’abitudine di veder la vita e le cose umane ordinariamente da lungi,
produce naturalmente le illusioni e i bei sogni e i castelli in aria, e lascia
libero l’immaginare e il figurarsi, e il crearsi il mondo e gli uomini e la
vita a suo modo, e dà luogo alla speranza; o perduta ch’ella sia, le
agevola il ritorno (perché la speranza, purché sia lasciata fare, e non sia
continuamente respinta dalla realtà, per natura dell’uomo
indubitatamente e presto ritorna); o indebolita, le dà agio di ristorarsi e
rintegrarsi; [3680] o moribonda, la conserva, se non altro, in vita; o fa
insomma, che in parità di circostanze, ella sia sempre maggiore che non
sarebbe in una vita in mezzo al mondo; e tien lungi, o ritarda, o minora il
disinganno, o ne indebolisce gli effetti, o ne ristringe l’estensione ec.
Conseguenza e prova di queste osservazioni si è che infatti i
settentrionali per una parte sono più profondi e sottili speculatori, più
filosofi, massime nelle scienze astratte, o parti più astratte di esse, o
generi più astratti ec., e insomma più pensatori, che i meridionali; onde la
Staël chiama la Germania la patrie de la pensée. E per altra parte, cosa che
sembra contraria sì alla detta qualità, sì alla natura rispettiva de’
settentrionali e meridionali, sono più immaginosi e più poeti veramente e
più sensibili, entusiasti, e di fantasia più efficace e forte (quanto però al
poetare, non quanto all’operare; e quanto a ciò ch’è opera del solo spirito,
non del corpo), e più inventivi originali e fecondi che non sono i
meridionali. Ma ciò, secondo le suddette osservazioni, si deve intendere,
ed è infatti, de’ soli settentrionali e meridionali moderni, stante le
moderne circostanze degli uni e degli altri. Negli antichi, stante la
diversità di tali circostanze, doveva essere [3681] ed era tutto l’opposto,
cioè i meridionali più immaginosi, fecondi ec. de’ settentrionali,
conforme alla vera natura, e alla natural proprietà degli uni e degli altri.
Sicché la detta superiorità de’ settentrionali moderni ec. è veramente uno
de’ tanti accidenti sociali; bensì di quelli costanti e connaturali all’essenza
della civiltà assolutamente, e che durando la civiltà appo gli uni e appo
gli altri popoli, non possono mai venir meno.
Del resto l’immaginazione de’ settentrionali rispetto alla meridionale
quanto è, generalmente e tutta insieme, più forte, viva, vigorosa, attiva,
feconda e maggiore, tanto ancora è più sombre, lugubre, trista,
malinconica, funesta e, si può dir, brutta. Perocché, lasciando l’altre
circostanze, essa è nutrita dalla solitudine, dal silenzio, dalla monotonia
della vita; e la meridionale dalle bellezze e dalla vitalità ed attività della
natura; e le opere di quella nascono tra le pareti di una camera scaldata
da stufe; le opere di questa nascono, per così dire, sotto un cielo azzurro
e dorato, in [3682] campagne verdi e ridenti, in un’aria riscaldata e
vivificata dal sole. (13. Ott. 1823.)
Alla p. 3637. Anzi l’amore che noi portiamo al cibo e simili cose che o
ci servono o ci dilettano, si potrebbe piuttosto chiamare odio,
perocch’esso, mirando solamente al nostro proprio bene, ci porta a
distruggere, in vista di esso bene, o a consumare in qualunque modo e
logorare e disfare coll’uso, l’oggetto amato; o ad esser disposti a disfarlo
o pregiudicarlo se, e quanto, e come il nostro bene, e l’uso che perciò
abbiamo a farne, lo richiedesse. Quale è l’odio che il Lupo porta
all’agnello, e il falcone alla starna, i quali veramente non odiano nè la
starna nè l’agnello, anzi, secondo che noi sogliamo discorrere dell’altre
cose, si dovrebbe dire ch’essi gli amassero. Ma perciocché questo amore
li porta a ucciderli e distruggerli per loro proprio bene, perciò noi lo
chiamiamo odio e inimicizia. (V. Speroni Dialogo 5° Ven. 1596. p. 87-8.)
Or tale nè più nè meno si è l’amore degli uomini primitivi verso le
femmine, se non quanto il piacere ch’essi ne bramano e ricercano non
richiede la distruzione di quelle. Ma [3683] s’e’ la richiedesse, l’amor
delle donne porterebbe i primitivi a distruggerle, tanto è lungi ch’e’ ne
gli ritenesse. Siccome infatti ei gli porta a non avere riguardo alcuno
agl’incomodi e ai danni fisici che molte volte loro recano per soddisfare
al desiderio proprio, nel proccurarsi il proprio piacere con esse ec., anche
potendo far questo senza danneggiare. Ed accade pure (eziandio fra’
civili) che volendo con esse proccurarsi il proprio piacere, o potendo o
non potendo a meno, o prevedendolo o non prevedendolo, e’ le
uccidano, o loro sieno cagione di morire in breve o fra certo tempo, o di
soffrir grandemente nella sanità corporale, anche per sempre. E non sono
elle uccise tuttodì dagli amanti nell’onore? ec. ec. Così fatto e non altro si
è l’amore de’ primitivi verso le donne; e delle donne altresì verso gli
uomini, proporzionatamente alla natura e alle forze di quelle rispetto a
questi. E forse solamente dei primitivi? Queste osservazioni si applichino
a quelle in cui proviamo che dall’amor proprio nasce necessariamente
l’odio verso altrui ec. (13. Ott. 1823.)
Cattiva ortografia italiana nel 500. per troppo voler somigliarsi all’uso
della scrittura latina. Machiavelli scrive alcune volte (o così portano le
sue antiche stampe) sanctissimo per santissimo. (13. Ott. 1823.)
[3684] Non v’è persona che riesca più intollerabile e che meno sia
tollerata nella società, di uno intollerante. (14. Ott. 1823.)
Intorno alla voce anceps, di cui nella mia teoria de’ continuativi, vedi
la voce am nel Forcell. (14. Ott. 1823.)
Voci basse e volgari e del latino non illustre ma rustico, e riprovate
dagli scrittori anche fino al tempo di S. Girolamo; due delle quali sono
ora proprie delle lingue moderne. V. il Forcell. in Annihilare, e il Gloss. ec.
(14. Ott. 1823.)
Nomi in uosus, verbi in uare ec. ec. come altrove in più luoghi.
Aggiungi amanuensis. Casuale. Exercitualis. Casuiste, franc. Luctuosus.
Fructuosus. Fatuité. fortuitus. mortualia, mortuarius, mortuosus.
manualis. manuarius. Questi nomi o verbi o avverbi ec. ch’essendo fatti
da nomi della quarta declinazione (come da manus) conservano sempre
l’u, mentre quelli fatti da’ nomi della [3685] seconda, sempre (o
regolarmente) lo perdono, mostrano chiaramente che il genitivo ec. de’
nomi della quarta, ch’ora è in us lungo ec. o in u lungo ne’ neutri,
anticamente fu in uus o in uu ec. V. p. 3752. Giacché si vede che i derivati
da’ nomi della quarta si formano al modo istesso che i derivati delle voci
nelle quali il doppio u ancor si conserva ed è manifesto e fuori di
controversia, come dire i derivati de’ nomi in uus ec. I quali due in
valsero per una sola sillaba, come il doppio u degli ablativi singolari
della prima. Sia che questo, e il doppio u, si pronunziassero doppi, o pur
semplici, strascinando in certo modo la voce ec. In tutti i modi
quest’osservazione si riferisca al mio discorso sui dittonghi latini non
considerati da’ grammatici, o ch’essi nella pronunzia fossero
monottonghi, o dittonghi veramente, o trittonghi ec. che tutto fa
egualmente a quello ch’io voglio dimostrare in detto discorso. Perocché
s’anche e’ divennero col tempo monottonghi, e ciò fino nella migliore età
della lingua latina (come i comuni ae oe ec.), ciò tuttalvolta, anzi più che
mai, dimostra che gli antichi latini (de’ quali nel detto discorso si parla)
pronunziavano sì rapidamente le vocali successive e concorrenti, ch’e’ le
tenevano tutte insieme (o due o più che fossero) per una sillaba sola, e
tale le facevano essere nella pronunzia, e sovente nella scrittura [3686] e
ne’ versi più o men regolari, più o men rozzi e informi, e massime ne’
ritmici, che certo furono propri de’ più antichi, come poi de’ più
moderni, invece de’ metrici, o più di questi ec. ma eziandio ne’ metrici,
ec. ec. (14. Ott. 1823.)
Ignotus, ch’è specie di participio, attivamente preso per qui non novit.
V. Forcell. (14. Ott. 1823.)
Circa il verbo nicto, di cui altrove, vedi Forc. in nico is. Inclino molto a
credere che quello sia continuativo di questo, anzi che d’altro verbo; dico
[3694] quel nicto che sta appresso a poco per µύω ec. (14. Ott. 1823.)
Aiguille, aguglia, aguja, guglia (co’ lor derivati ec.) diminutivo sovente
positivato, dal lat. aculeus, altresì diminutivo come equuleus. Anche il
greco ὀβελίσκος quando significa guglia è un diminutivo positivato.
᾽Οβελίσκος e aguglia o guglia, aiguille, aguja suonano cose simili tra loro
anche nel senso proprio. (15. Ott. 1823.)
Alla p. 2996. marg. Nigreo - nigrico - nigro as. Se nigro venisse da nigreo
apparterrebbe forse alla nostra teoria, almen quanto alla derivazione e
formazione, e sarebbe a notare che il suo verbo originale sarebbe della
seconda, non della 3a. Ma forse nigro viene a dirittura da niger gri. Nigrico
o da nigreo, o da nigro. (15. Ott. 1823.)
Obsoleto as da obsolesco - obsoletus. (15. Ott. 1823.). Ma questo non è
continuativo. Esso significa obsoletum reddere, significato alienissimo della
sua formazione. Ei non è che di Tertulliano e d’altri d’inferior latinità
(Forcell. e Gloss.). La sua barbarie è maggiormente manifesta per la
nostra [3696] teoria de’ continuativi la quale fa vedere l’improprietà e
disanalogia totale (perché niuno altro esempio ve n’ha, ch’io sappia, nel
buon latino) del suo significato ed uso. 169 Completare, compléter ec. voce
moderna, sarebbe di simile genere di significazione perocch’ella
propriamente vale far completo; benché questo viene a coincidere col
senso del verbo originario complere, il che non accade in obsoletare, perché
obsolesco è neutro e obsoleto attivo. Di completare mi ricordo aver detto
altrove. Questi tali verbi son fatti da’ rispettivi participii (come obsoletus,
completus) già passati in aggettivi, e non come participi ma come
aggettivi, onde e’ non spettano alla nostra teoria. E’ sono assaissimi.
Forse ve n’ha anche nel buon latino, sotto questo aspetto. Ma meno,
cred’io, che nel basso latino, e fra’ moderni. (15. Ott. 1823.)
Alla p.2996. fine. Obsoleo, obsolesco da obs e oleo, olesco. Vedi il pensiero
seguente. (15. Ott. 1823.)
Alla p. 3688. principio. Che cretum e cretus non sieno propri di cresco
(v. Forc. cresco fine), ma di altro verbo, lo dimostra la differenza del
significato. (cretus da cerno è altra voce). Cretus vale generato. Io tengo
certo ch’esso sia contrazione di creatus; che cresco sia fatto da creo as, come
hisco da hio as; e ch’ei vaglia propriamente quasi venirsi creando,
generando, formando; che è veramente quello che fa chi cresce; a ciascun
momento si forma e genera quello che a lui aggiungi e in che consiste il
suo incremento. L’incremento è una continua formazione e generazione,
[3704] non del tutto, ma delle parti accedenti ec. ec. V. Forc. in Crementum
e cretus. Quest’etimologia non è stata forse data da alcuno. E ciò perché
niuno, credo, ha considerato cresco come un verbo della nostra categoria
de’ verbi in sco fatti da altri originali, con analoga variazione di
significato ec. Noi e la troviamo e la confermiamo per mezzo
dell’analogia e proprietà generale del significato, formazione ec. de’ verbi
in sco. Cretus non è dunque di cresco ma di creatus, e ciò anche per la
significazione, laddove gli altri tali, suetus, p.e. per grammatica è di sineo,
per significazione però, di suesco ec. (15. Ott. 1823.)
Advento as. N’ho discorso, mi pare, nella mia teoria de’ continuativi.
Aggiungo. Qual cosa v’ha mai nel suo significato, che possa, neppure per
somiglianza, farlo chiamare frequentativo? quale che non sia
continuativa, e che non convenga a questo nome, e lo giustifichi, e ne sia
bene dinotata? E con qual altro nome generalmente potrebb’essere
indicata quella significazione, se non con quello di continuativo? (17. Ott.
1823.)
Alla p. 3700. marg. Che la desinenza ui nel perfetto della 2da, sia stata
introdotta nel modo che abbiam detto, mostrasi ancora col considerarla
in alcuni verbi della 1a. Della quale niuno dubita che il perfetto regolare e
proprio non sia quello in avi. Ma pur parecchi suoi verbi l’hanno in ui:
domui, secui, vetui, necui, crepui ec. co’ loro composti enecui, perdomui ec.
179 Or da che è venuta quest’anomalia? Dalla stessa cagione che l’ha
introdotta ne’ verbi della 2da, [3716] nella quale ella, per esser più
comune assai che nella prima, e più comune che non è ciascuna dell’altre
desinenze, non si chiama anomalia, anzi regola; e piuttosto chiamasi
anomalia quella in evi perché divenuta più rara, e una di quell’altre meno
comuni. Ma parlando esattamente e guardando all’origine, quella in ui è
anomalia o alterazione nella seconda non meno che nella prima, e quella
in evi è così regolare nella 2. come nella prima quella in avi. E più comune
si è la desinenza in ui nella seconda che nella prima, perché l’ommissione
della vocale, da cui essa deriva, era ed è più facile e naturale circa la e che
circa la a, lettera più vasta, per servirmi dell’espressione di Cicerone in
altro proposito (Orat. c. 45. circa l’x.). Del resto, come parecchi della
seconda hanno il perfetto così in evi come in ui, qualunque de’ due sia
più comune, così tutti o quasi tutti quelli della 1. che l’hanno in ui,
conservano pur quello in avi, o che questo sia in essi il più usitato, o
viceversa. [3717] E tutti altresì, se non erro, hanno il supino in itum, come
quelli della seconda ch’hanno il perfetto in ui (mentre quelli che l’hanno
in evi conservano altresì il vero supino in etum, credo, tutti); ovvero in
ctum contratto da citum (nectum, sectum ec.) come appunto lo sogliono
avere quelli della seconda che hanno il perfetto in ui, come docui-doctum
contratto da docitum. 180 Plico as (v. Forc.) plicatus. Adplico, explico ec. avi
atum, ui itum. Frico as ui ctum, fricatum. Perfrico ec. Sono as avi atum, ui,
sonitus us. V. p. 3868. Mico as ui, micatus us. Emico as ui, emicatio, emicatim.
Ma molti di que’ della 1. che hanno il supino in itum, conservano altresì,
come il vero perfetto in avi, così il vero supino in atum (o il participio in
atus o in aturus ec. ch’è tutt’uno, e lo dimostra) più o meno usitato di
quello in itum, non altrimenti che alcuni della seconda conservino forse
accanto del supino in etum il vero in etum. Dico, forse, perché ora non me
ne soccorre esempio. (17. Ott. 1823.)
Alla p. 3390. Anche ne’ nostri più antichi, cioè ne’ trecentisti e così in
que’ del 500 che più gl’imitano, o in quanto egli adoprano le voci
antiquate (come spesso il Davanzati e altri assai), e fors’anche ne’
ducentisti si trovano moltissime parole spagnuole, oggi fra noi disusate
affatto, o rare più o meno, e tra gli spagnuoli ancora correnti e usuali, o
ancor fresche più o meno; le quali anche chi sa spagnuolo e italiano, non
sa che sieno o sieno state comuni ad ambe le lingue, e trovandole ne’
nostri antichi se ne maraviglia, perché son prettissime spagnuole. Queste
o furon tolte dallo spagnuolo (forse per mezzo de’ provenzali ch’ebbero
[3729] a fare coi catalani, ec. e ne presero e dieder loro voci e modi e
poesia e stile e metri ec. ec.: v. Andres); o forse più probabilmente
vengono dalla comun fonte d’ambo gl’idiomi, o ciò fosse il latin volgare,
o qualchessia altra delle tante secondarie che diedero de’ vocaboli alle
nostre lingue, potendo essere che da una di queste le ricevesse sì l’Italia,
come la Spagna indipendentemente l’una dall’altra. P.e. da’ provenzali
ec. ec. Del resto lo stesso ci accade di vedere ne’ nostri antichi rispetto alle
parole e frasi francesi ec. Ma quanto a queste le cagioni parte son note,
parte l’ha spiegate Perticari nell’Apologia. V. p. 3771. e già fur propri
italiani (senza esser punto presi dalla Spagna), indi passarono in disuso,
mentre in Ispagna si conservano ancora: e chi sa che questa non li
ricevesse originariamente dalla lingua italiana. Come che sia, tali voci (o
frasi ec.) appo i nostri antichi non hanno punto del forestiero, se non per
chi sappia che or sono spagnuole, e sia avvezzo a sentirle, leggerle,
parlarle nello spagnuolo, e di là le creda venute ec. ma per se stesse
hanno tutta l’aria naturale.
Molte ancora delle voci, frasi ec. spagnuole che si trovano ne’
cinquecentisti (e anche secentisti) italiani, ed ora son fuor d’uso, è
probabilissimo che nè allora fossero antiquate e prese da autori del 300
ec. ma usitate ancora (il che è facile a vedere, se ne’ trecentisti non si
trovano, i quali erano forse meno [3730] studiati, (fuor de’ tre grandi) e
certo in assai minor numero noti ed editi, che oggidì, sicché gli scrittori
del 500 o 600 non potessero conoscerne quello che noi non ne
conosciamo, anzi assai meno di noi); nè fossero prese dallo spagnuolo,
ma proprie e native italiane, benché alle spagnuole conformi affatto, ed
oggi antiquate tra noi e non nello spagnuolo.
Del resto gli spagnuoli ancora, massime nel 500 e 600, pigliarono
dall’italiano moltissime voci e frasi ec., sì gli scrittori, sì l’uso del favellare
spagnuolo (pel commercio scambievole sì delle due letterature sì delle
due nazioni e insomma per le cause medesime che introdussero tanto
spagnuolo nell’italiano). Or queste voci e frasi italiane stettero e in
grandissima parte stanno ancora nello spagnuolo così naturalmente che
nulla hanno del forestiero per se, e per chi non sappia che tali sono; e non
parvero nè paiono (agli spagnuoli nè agl’italiani nè agli altri) adottive
(com’erano e sono) ma naturali, secondo l’espressione dello Speroni in
altro proposito (Diall. p.115.). [3731] (Non altrimenti che accadde e
accade nell’italiano alle voci e frasi spagnuole sì per rispetto a noi, sì agli
spagnuoli sì agli altri). Il che si applichi allo scopo del pensiero a cui il
presente si riferisce. (18. Ott. 1823.)
Alla p. 3708, marg. Lavitum è dimostrato dal verbo lavito. Così fautum
è contrazione di favitum dimostrato (se bisognasse) da favitor ec. Ma il
detto [3732] scambio tra il v e l’u è dimostrato piucché mai chiaramente
da tutti o quasi tutti i verbi (ec.) composti di lavo, in cui lavo diventa luo.
Contrazione la qual conferma mirabilmente e pienamente quella ch’io ho
supposta ne’ perfetti in ui della seconda e massime della prima. P.e.
domui è da domavi nello stessissimo modo che abluo per ablavo, soppressa
la a e volto il v in u. Del resto pluit ebat ha il perfetto pluit ed anche pluvit
per evitar l’iato, come a p. 3706. Exuo is ui utum. Ruo is ui utum
contrazione di ruitum, che anche esiste: prova delle mie asserzioni. V.
Forc. in Ruo e composti. Fruor, itus e ctus sum, ma fruitus è più usato, e
così fruiturus ec. Luo is ui luitum dimostrato da luiturus. Anche si disse o
scrisse luvi. V. Forc. in luo, verso il fine. Fluo is fluxi, fluctum, fluxum e
fluitum dimostrato da fluito e da fluitans. Tribuo, Minuo, Statuo, Induo,
Arduo, Acuo, Annuo, Innuo ec., Imbuo ec. ui utum, co’ loro composti, e così
con quelli di Sino ec. In tutti questi supino l’i è stato mangiato per evitar
l’iato, o come in docitum ec. Notisi che laddove l’u in tutti gli altri tempi
di questi verbi, compreso il perfetto, è sempre breve. V. p. 3735. (19. Ott.
1823.). Così i composti di fluo ec. Lavito da lavare o da lavere. (19. Ott.
1823.)
[3735] Alla p.3732. marg. - (fuorché ne’ perfetti di luo ec. V. Forc. luo:
fui da fuo è breve), ne’ supini in utum è sempre lungo (dico l’u radicale),
fuorché ne’ composti di ruo; dico ne’ composti, ma in ruo no. (V. Forc. in
ruo fin. e in Ruta caesa). Anche l’antico futum di fuo (per fuitum) dovette
aver la prima breve, come l’ha futurus che da esso viene, e che sta per
fuiturus. Vedi la pag. 3742. Il che par che dimostri che quell’u radicale in
utum tien luogo di due vocali (ui); altrimenti non avrebbe alcuna ragione
di esser lungo quivi, e in tutto il resto del verbo, breve. E infatti se il
supino si conserva primitivo e non contratto, cioè desinente in uitus, l’u è
breve non men che l’i, come in ruitus (Aeg. Parnas.) e in fluito, fluitans ec.
(20. Ott. 1823.)
Che fino ad ora sia stata poco bene osservata la formazione costante
de’ continuativi e frequentativi da’ participii o supini, me lo persuade fra
gli altri il vedere che Forcell. da fluctus us ec. deduce l’inusitato supino
fluctum di fluo (v. Fluo fin.), ma dal verbo fluito (ch’e’ pur chiama
frequentativo di fluo) non si avvisa punto di dedurne l’inusitato fluitum,
che n’è evidentemente dimostrato. Sebbene il medesimo non lascia in
parecchi continuativi o frequentivi di ammonire ch’e’ son fatti dal supino
de’ rispettivi verbi originali. (20. Ott. 1823.)
[3736] Alla p. 3734. fine. Per es. fusum di fundo potrebbe mostrare un
antico perfetto fusi. Fluitus di fluo un antico perfetto flui che sarebbe il
regolare e corrispondente agli altri notati p. 3706. 3732. ec. E così,
osservata la corrispondenza tra i perfetti e i supini in latino, tanto ci
possiamo servire de’ perfetti noti a dimostrare o congetturare i supini
ignoti, (come abbiam fatto p. 3733.) quanto viceversa ec. (massime
quando i supini noti sieno regolari ec. e i perfetti noti nol sieno, o
viceversa ec.). Anzi tanto meglio da’ supini si conghiettureranno i
perfetti, quanto che quelli derivano da questi, ma non questi da quelli.
Onde dati i supini par necessario supporre i perfetti; ma non v’è tanta
necessità nel caso inverso. (20. Ott. 1823.).
Il v non è che aspirazione nell’antico latino ec.: sta in vece dello spirito
nelle parole tolte dal greco, e non pur dell’aspro ma del lene ec. come
nella mia teoria de’ continuativi Paphlagonia insignis Roco HENETO, a quo,
ut Cornelius [3745] Nepos perhibet, Paphlagones in Italiam transvecti, mox
VENETI sunt nominati. Solin. c. 44. ed. Salmas. 46. al., Plin. l.6. c.2. V.
Menag. ad Laert. II. segm.113, e notate che ivi il greco ᾽Ε νετὸς è sempre
collo spirito lene, benché nell’addotto luogo si scriva Heneto. V. anche
Cellar. ec. Del resto quelle mie osservazioni potrebbero confermare
questa etimologia e questa storia. (21. Ott. 1823.). V. Forc. in Veneti e in
Velia.
Prolicio, prolecto as ec. Aggiungansi alle cose dette nella mia teoria de’
continuativi (sul principio) circa i verbi allicio, allecto ec. (22. Ott. 1823.)
Verbo diminutivo in senso positivo. Nidulor per nidor aris (che non
esiste) da nidulus per nidus. Noi abbiamo annidare ec. (22. Ott. 1823.)
Alla p. 3706. Senza fallo il nostro verbo fu noo is, non no nis. (e
altrettanto si dica di poo, non po, da πόω, il quale dovette essere poo pois
povi potum secondo le ragioni che or si diranno). 1. Da no non si sarebbe
fatto nosco ma nisco. Veggasi la p. 3709. fine-10. principio. 2. No non
avrebbe fatto nel preterito novi ma ni (o per duplicazione neni), come suo
sui, luo lui ec. Noo bensì doveva far noi, come suo sui ec. (p. 3731. seg.
3706. marg.), poi per evitar l’iato fece novi, come amai amavi, docei docevi,
[3757] lui luvi ec. (p. 3706. 3732. V. Forc. in luo verso il fine). 3. Così no non
avrebbe fatto notum ma nitum. 189 Nè questo si sarebbe mai mutato in
notum, nè ni o neni in novi. Bensì noi in novi nel modo detto; e in notum il
regolare noitum di noo (p. 3708. marg. 3731-2. 3735.). Anche Nomen,
agnomen, cognomen ec. vien da noo, e serve a mostrare, primo, noo non no
(onde sarebbe nimen, come da rego, regimen ec.); secondo, noo da cui esso
viene, non da nosco, checché dica il Forc. in nomen, princip. e quivi Festo
ec. 4. Nobilis non potrebbe venir da no. Bensì da noo. Perocché i verbali in
bilis nel buon latino non si fanno se non da supino in tum (o partic. in
tus), e non da altri, mutato il tum (o tus) in bilis. V. p. 3825. Bensì tali
supini (o participii) non sono sempre noti, ma dato il verbale in bilis, e’ si
possono conoscere mediante l’analogia e la cognizione dell’antichità e
della regola della lingua latina, le quali anche da se li possono mostrare, e
il verbale in bilis li conferma, sempre ch’egli esista. P.e. Docibilis è da
docitum. Questo supino già lo conoscevamo per altra via, benché
inusitato, cioè per altri argomenti ec. Il verbale docibilis lo conferma.
Immarcescibilis da marcescitus inusitato. Già abbiam detto e sostenuto che
il proprio participio [3758] o supino de’ verbi in sco era in scitus. Eccone
altra prova in marcescitum di marcesco (che ora non ha o non gli
s’attribuisce supino alcuno) dimostrato da immarcescibilis. Solutum,
volutum, solu-bilis, volu-bilis ec. Labilis, nubilis, habilis ec. sono dai regolari,
veri ed interi, benché inusitati supini, labitum, nubitum, (habitum è usitato,
anzi solo usitato, ma non è il primitivo) ec., secondo la regola, fuor
solamente ch’e’ son contratti da labi-bilis, nubi-bilis per effetto di
pronunzia accelerata o confusa ec. o per evitare il cattivo suono ec. 190
Or dunque da no nitum avremmo nibilis. Nobilis non può essere che da no-
tum, gnobilis da no-tum o da gnotum, ignobilis da no-tum o gno-tum o
ignotus o gnobilis o nobilis. Ovvero nobilis ec. sono contrazioni di noibilis
come notum lo è di noitum. Vedi la pag. 3832. fine.
Secondo queste osservazioni, nobilis, gnobilis, ignobilis confermano
l’esistenza di un verbo originario di nosco, al quale è chiaro ch’essi hanno
attinenza; ma se venissero da nosco farebbero noscibilis ec. da noscitum, ed
anche il Forc. che certo non aveva osservata la formazione de’ verbali in
bilis da’ supini in tum, pur vide che nobilis era quasi noscibilis (vedilo in
[3759] nobilis princip. dove ha vari spropositi, secondo le nostre
osservazioni). Nè da noscibilis sarebbe stata punto naturale nè latina la
contrazione in nobilis ignobilis ec. V. ignoscibilis, antica voce, nel Forc. la
quale conferma il supino noscitum, secondo le presenti osservazioni, e che
da nosco si sarebbe fatto noscibilis, non nobilis, come anche da marcesco
immarcescibilis, non immarcibilis ec. V. anche nel Forc. noscibilis, agnoscibilis
ec. irascibilis. Del resto nobilis, gnobilis ec. sono voci antichissime, onde
ben poterono venire dall’antichissimo e poscia inusitato noo. [V. p. 3851.]
Possibilis (e impossibilis, possibilitas ec.) dimostra possitus, e quindi il
participio o supino situm di sum, confermando il detto da noi in
proposito di sto, come potens dimostra il participio sens (pag. 3742-4.).
Del resto noo, poo e simili andarono presto in disuso probabilmente
per il cattivo suono di quel doppio o l’un dietro l’altro, onde si preferì
l’uso de’ verbi lor derivati, i quali restarono, e quasi o senza quasi nel
senso degli originarii (massime nosco e composti ec.), o anche [3760] in
esso senso ec. Nosco però non restò tutto, nè noo perì tutto, ma ne restò
novi e notum ec. insomma una gran parte (dove non aveva luogo, o n’era
stato scacciato, il cattivo suono), la quale supplì ai mancamenti e perdite
sofferte dal derivato ec. Così di poo restò potus, epotus, potum, poturus ec.
anche più usati di potatus ec., e potus sum ec. (22. Ott. 1823.). V. p.3850.
Niente d’assoluto. Qual cosa par più assoluta e generale, almen fra gli
uomini, di quello che la corruzione sia nauseosa? Or le sorbe e le nespole,
perocché nello stato che per loro è vera maturità e perfezione, per noi
non son buone a mangiare; bensì nello stato che per loro è vera, non pur
vecchiezza, ma morte e corruzione; perciò mezze e corrotte si mangiano.
- Lo schifoso è interamente relativo. La lumaca non fa schifo a se stessa.
Non è schifoso a noi quello che in noi, o da noi uscito o prodotto ec. è
schifoso agli altri. Il porco si diletta di ravvolgersi nel fango e lordure ec.
E quanti uomini trattano e amano, e mangiano e gustano ec. [3761] cose
che agli altri (a tutti o a più o ad alcuni, nella stessa nazione o in diverse)
riescono schifosissime. - La sorba, la nespola, secondo noi, è perfetta
quando è corrotta, misurando noi la perfezione di queste, come d’infinite
altre cose, dall’uso nostro ec. Ma chi non vede che questa perfezione è al
tutto relativa? e relativa a noi soli, anzi al solo uso del nostro palato e
stomaco, ed in quanto la sorba è atta a divenirci una volta cibo, cosa a lei
affatto accidentale ed estrinseca? E che la sorba non ne è perciò meno
corrotta e degenerata? nè, per se stessa e per sua natura, meno perfetta
allor quando ec. e non in altro tempo ec. (23. Ott. 1823.)
Forte, fortemente, fort, force ec. per molto, molti ec. Kάρτα. Vedi lo
Scapula, e Arriano nell’Indica e nella Spediz. d’Alessandro ec. E nótisi
che κάρτα per valde mostra d’essere antichissimo, ond’egli è poetico
piucch’altro ec. V. Forcell. Gloss. Diz. franc. spagn. ital.
Anche i latini vehementer, vehemens ec. E valde è contrazione di valide
ec. Onde nelle lingue moderne dicendo fortemente per valde si conserva la
etimologia di questa parola ec. (23. Ott. 1823.)
Chi vorrà credere che apto ed ἅπτω (de’ quali altrove) essendo gli
stessissimi materialmente, e significando propriamente la stessissima
cosa, non abbiano a far nulla tra loro per origine ec. converrà supporre
un’assoluta casualità che troverà pochi fautori ec. (23. Ott. 1823.)
Alla p. 2657. marg. E se in Italia, in che parte, (avendo noi tanti e sì
diversi dialetti), come ne’ paesi ove la pronunzia tien più dello straniero,
ne’ paesi di confine, nel Piemonte (ove forse è probabile che sia stato
scritto il [3763] Cod. de rep. e così di Frontone ec.) nell’alta Lombardia e
Venezia, o generalmente nella Lombardia o nel Veneziano. E se nel cuor
d’Italia, ed anche in Roma, a che tempo, come ne’ vari tempi che vi
furono più stranieri, e più influenti ec. E finalmente da chi, se da italiani
o stranieri, e italiani di che parte d’Italia, e di buona pronunzia o cattiva,
e periti dell’ortografia o no, e vissuti fra gli stranieri o no ec. ec. (23. Ott.
1823.). Puoi vedere la p. 3754.
Alla p. 3692. Aggiungasi che scivi scitum di scisco, e de’ suoi composti
(ascitum, conscitum, plebiscitum) ec. hanno tutti l’i lungo. Or la desinenza
in itum è affatto improprissima de’ verbi della terza. (Lascio quella in ivi,
che n’è parimente impropria, ma altresì quella in ivi il sarebbe). Che
segno è questo, se non che scitum grammaticalmente non è di scisco, ma
di scio, di cui, come verbo della 4. è propria e debita peculiarmente la
desinenza del supino in itum? Così dicasi di qualunqu’altro verbo in sco
che sia fatto da un verbo della quarta, noto o ignoto: che se tal verbo in
sco ha supino, o se gli si attribuisce, esso è certamente in itum, e però è
certamente tolto in prestito dal suo verbo originale, il quale, se non esiste,
da ciò n’è dimostrato ec. E può vedersi la p. 3707. fine 08. principio. (23.
Ott. 1823.)
Alla p. 3729. marg. Trovansi eziandio ne’ nostri antichi parecchie voci
o significazioni ec. proprie del latino noto, ma che ora non potremmo in
alcun modo usare, ben sono usate e familiari appo gli spagnuoli: il che
[3772] pare che provi ch’elle fecero parte di quel volgare che precedette
ambo le lingue, del volgar latino ec. se non vogliamo supporre che
l’antico italiano allo spagnuolo, o l’antico spagnuolo all’antico italiano le
comunicasse, che nè l’uno nè l’altro è molto verisimile. (25. Ott. 1823.)
[3773] Vogliono che l’uomo per natura sia più sociale di tutti gli altri
viventi. Io dico che lo è men di tutti, perché avendo più vitalità, ha più
amor proprio, e quindi necessariamente ciascun individuo umano ha più
odio verso gli altri individui sì della sua specie sì dell’altre, secondo i
principii da me in più luoghi sviluppati. Or qual altra qualità è più
antisociale, più esclusiva per sua natura dello spirito di società, che
l’amore estremo verso se stesso, l’appetito estremo di tirar tutto a se, e
l’odio estremo verso gli altri tutti? Questi estremi si trovano tutti
nell’uomo. Queste qualità sono naturalmente nell’uomo in assai maggior
grado che in alcun’altra specie di viventi. Egli occupa nella natura
terrestre il sommo grado per queste parti, siccome generalmente egli
tiene la sommità fra gli esseri terrestri.
Il fatto dimostra, al contrario di quel che gli altri lo interpretano, che
l’uomo è per natura il più antisociale di tutti i viventi che per natura
hanno qualche società fra loro. Da che il genere umano ha passato i
termini di quella scarsissima e larghissima società che la natura gli avea
destinata, più scarsa ancora e più larga che non è [3774] quella destinata e
posta effettivamente dalla natura in molte altre specie di animali; filosofi,
politici e cento generi di persone si sono continuamente occupati a
trovare una forma di società perfetta. D’allora in poi, dopo tante ricerche,
dopo tante esperienze, il problema rimane ancora nello stato medesimo.
Infinite forme di società hanno avuto luogo tra gli uomini per infinite
cagioni, con infinite diversità di circostanze. Tutte sono state cattive; e
tutte quelle che oggi hanno luogo, lo sono altresì. I filosofi lo confessano;
debbono anche vedere che tutti i lumi della filosofia, oggi così raffinata,
come non hanno mai potuto, così mai non potranno trovare una forma di
società, non che perfetta, ma passabile in se stessa. Nondimeno ei dicono
ancora che l’uomo è il più sociale de’ viventi. Per società perfetta non
intendo altro che una forma di società, in cui gl’individui che la
compongono, per cagione della stessa società, non nocciano gli uni agli
altri, o se nocciono, ciò sia accidentalmente, e non immancabilmente; una
società i cui individui non cerchino sempre e inevitabilmente di farsi
male gli uni agli altri. Questo è ciò che vediamo accadere fra le api, fra le
formiche, fra i [3775] castori, fra le gru e simili, la cui società è naturale, e
nel grado voluto dalla natura. I loro individui cospirano tutti e sempre al
ben pubblico, e si giovano scambievolmente, unico fine, unica ragione
del riunirsi in società; e se l’uno nuoce mai all’altro, ciò non è che per
accidente, nè il fine e lo scopo di ciascheduno è immancabilmente e
continuamente quello di soverchiare o di nuocere in qualunque modo
altrui. E talora gli uni fanno male ad alcun degli altri, o tutti ad un solo o
a pochi, per lo solo oggetto del ben comune o del ben dei più, come
quando le api puniscono le pigre. Nol fanno già esse per il bene di un
solo. Nè chi ’l fa, lo fa pel solo ben suo, anzi pel bene ancora di chi è
punito. Ed anche questo far male ad alcuno è un cospirare al ben
comune. Ma nelle società umane quello non si trovò mai, questo sempre.
Leggi, pene, premi, costumi, opinioni, religioni, dogmi, insegnamenti,
coltura, esortazioni, minacce, promesse, speranze e timori di un’altra
vita, niente ha potuto far mai, niente è nè sarà bastante di fare, che
l’individuo di qualsivoglia società umana, conformata come si voglia,
non dico giovi altrui, ma si astenga dall’abusarsi, o vogliamo dire dal
servirsi di qualunque vantaggio egli abbia sugli altri, per far bene a se col
male altrui, dal cercare di aver più degli altri, di soverchiare, di volgere
in somma quanto è possibile, tutta la società al suo solo utile o piacere, il
che non può avvenire senza disutile e dispiacere degli altri individui.
Infinite e diversissime furono [3776] e sono le forme dei costumi, delle
opinioni, delle istituzioni, de’ governi, le varietà delle leggi ec. infinite e
diversissime quelle che i filosofi ec. in tutti i secoli e nazioni civili hanno
immaginato ed immaginano e che non sono mai state poste in effetto, ma
in ciascuna di queste forme è sempre avvenuto, o certo sempre
avverrebbe il medesimo. Quali mezzi, quali artifizi non si sono
immaginati o impiegati per impedirlo? che studio, che dottrina, che
esperienza, che fatica, che forza d’ingegno si è risparmiata per ottener
questo effetto? quanti geni sommi non vi si sono applicati? ma tutto è
stato pienissimamente indarno; e chiunque abbia fior di giudizio dee
senza difficoltà convenire, che tutto lo sarà sempre ugualmente,
qualunque affatto nuova e strana circostanza si possa mai offrire, e
qualunque novissima arte e via ritrovare. Il che insomma vuol dire che
una società perfetta, e niente più perfetta che nel modo spiegato di sopra,
senza il quale l’idea della società è contraddittoria ne’ termini; una
società, dico, perfetta fra gli uomini, anzi pure una società vera è
impossibile. Or come può star che sia impossibile, se la natura ce l’avesse
[3777] destinata, e se l’uomo fuor di una tal società non potesse
conseguire la sua perfezione e felicità naturale? Veggiamo pur che quella
società ch’è stata destinata dalla natura ad animali tanto inferiori a noi, è
stata sempre fin dal principio, ed è costantemente, perfetta nel suo
genere, bench’essi non abbiano avuti e non abbiano nè legislatori, nè
filosofi, nè esperienze d’altre forme di società ec. Veggiamo eziandio
ch’ella è perfetta, non pure nel genere suo, ma rispetto al genere ed
all’idea della società assolutamente, la quale importa, moltitudine
maggiore o minore d’individui cospiranti in una o altra forma al bene di
tutta la moltitudine, e ad essa in niun modo mai, se non accidentalmente,
pregiudicanti; del resto poi comunicanti tra se più o meno, e moltissimo
o pochissimo; ciò nulla rileva, purché in tanto cospirino al ben comune,
in quanto e’ comunicano insieme, poco o molto che ciò sia. Non
dobbiamo dunque dedurre da tutto il sopraddetto, sì ragioni, sì
esperienze di tanti e tanti secoli, che il genere umano per natura, o non è
destinato a società veruna tra se, o (com’è vero) è destinato ad un genere,
o per meglio dire, ad un grado di società diverso affatto da tutti quelli
che in esso lui ebbero luogo dal primissimo principio del suo (così detto)
dirozzamento, fino al dì d’oggi? Cioè ad una scarsissima comunione de’
suoi individui tra loro, nella qual comunione, in quanto ella si stendeva
ed esigeva, ciascuno avrebbe cospirato al comun bene degl’individui in
essa compresi, e niuno, se non [3778] per caso, gli avrebbe nociuto; onde
sarebbe risultata agli uomini una specie di società perfetta in se stessa e
relativamente ai subbietti suoi proprii, e perfetta in ordine all’idea ed alle
condizioni essenziali della società assolutamente considerata. La quale
specie di società essendosi bentosto perduta, niun’altra specie di società
perfetta ha potuto mai rimpiazzarla in non so quante migliaia d’anni, nè
mai la rimpiazzerà, perché la natura non si rimpiazza, nè più d’una sola
perfezione (cioè del suo naturale stato) può convenire a niuna specie
d’esseri creati, e quindi non più d’una felicità.
Stante la natura generale de’ viventi, e massime quella dell’uomo in
particolare, una società stretta, la quale è cosa dimostrata che
necessariamente produce tra gli uomini la disuguaglianza di mille generi
e intorno a mille beni e mali, non può a meno di eccitare e di mettere in
movimento, com’ella fa in effetto, le passioni dell’invidia,
dell’emulazione, della gara, della gelosia, conseguenze necessarie, o
piuttosto specie e nuances dell’odio verso gli altri, naturale ad ogni essere
che ami naturalmente se stesso. Or qual cosa è più antisociale di queste
passioni? Elle non avrebbero avuto luogo nella società scarsa e larga
destinataci dalla natura, il cui uffizio sarebbesi limitato al vero fine
d’ogni società, quello di soccorrersi scambievolmente ne’ bisogni (che in
natura son pochi), e massime in quei bisogni (che sono anche meno) i
quali esiggono la cospirazione di più individui, come sarebbe il
difendersi dagli altri animali nemici, al qual effetto anche gli animali
meno socievoli, si riuniscono e fanno tra loro una società temporanea,
che dura quanto il pericolo, come i cavalli si stringono insieme in una
ruota, ove ciascuno resta co’ piedi di dietro al di fuori, per difendersi dal
lupo, ec. Le dette passioni, [3779] ripeto, non avrebbero avuto luogo, sì
per la poca strettezza di quella società, sì perché in essa e nello stato
naturale dell’uomo, i vantaggi naturali dell’uno individuo sull’altro
sarebbero stati pochi, rari, e piccoli, e i sociali non vi sarebbero stati
affatto. La disuguaglianza tra gli uomini che la società rende
naturalmente somma e di mille generi, sarebbe stata quasi nulla, e
limitata a ben poche cose. Infatti fra gli altri animali, fra cui la società è
scarsa, la disuguaglianza fra gli individui è rara e sempre scarsissima;
così i vantaggi degli uni sugli altri. Quindi le dette passioni, che sono
necessariamente suscitate da’ vantaggi e dalla disuguaglianza ch’è
inevitabilmente prodotta da una società stretta, sono fra gli altri animali
rarissime e debolissime. E quelle che nascono dall’orgoglio naturale di
ciascheduno individuo, necessariamente punto ed afflitto e molestato dal
comando, dalle dignità, dalle preminenze qualunque, dalla stima e dalla
gloria degli altri individui della stessa specie e compagnia, non avrebbero
avuto luogo nella società scarsa in modo alcuno, nè l’hanno tra gli
animali i più socievoli, perché nè in quella si sarebbero trovati, nè fra
questi si trovano gli oggetti che le suscitano, anzi neppur l’idea loro, non
che il desiderio. E quanto al comando, se ve n’ha vestigio alcuno tra gli
animali, come tra le api, tra’ buoi, tra gli elefanti (v. Arriano Indica), esso
viene da superiorità di natura e quasi di specie, intorno a cui non ha
luogo invidia nè emulazione; come le pecore non possono invidiare al
montone che le conduce e quasi governa perch’egli è di sesso più forte,
nè le donne invidiano agli uomini la loro maggior fortezza, nello stesso
modo che noi non l’invidiamo al leone. Oltre di che il comando [3780] e
qualunque specie di preminenza fra gli animali, come dalla natura fu
posta, così da tutti gli altri individui soggetti è sempre riconosciuta per
utile a tutti loro, ed utile non solo in potenza non solo in destinazione,
ma in atto e in effetto continuamente, e come a tale essi vi si soggettano
naturalmente, non pur senza la menoma ripugnanza, ma con piacere, e
molto si dolgono s’ella, per qualche accidente, vien loro a mancare, come
alle api il re ec. Ma in una società stretta, massime umana, è d’inevitabile
necessità che abbiano luogo tutte le dette preminenze, come altresì è
necessario ch’elle sempre offendano grandemente l’orgoglio naturale
degli altri individui. E fra esse preminenze è d’indispensabile necessità
che v’abbia luogo il comando, e questo fra gli uomini non può esser
effetto di superiorità di natura o di specie, ma è necessario che l’uguale
per natura, sia signor degli uguali. E il comando e la soggezione fra gli
uomini è incontrastabilmente inevitabile che sebbene utili per istituto, il
più delle volte sieno anzi dannosissime in effetto a chi ubbidisce e
sottostà, e per tale siano riconosciute da loro, seguendone naturalmente
un’invidia e un odio sommo verso chi comanda; odio antisocialissimo,
massimamente che il comando è necessario, ec. Ed è ancora inevitabile
che non di rado, (anzi quasi sempre), il comando e la signoria per
l’origine medesima e per istituto sieno dirette al danno de’ sottoposti ed
al solo bene de’ signori: come sono le signorie acquistate per viva forza o
per arte, contro il volere e l’intenzione de’ subbietti, le quali si chiamano
tirannie. E certo è che tutti o la più parte de’ principati passati e presenti
hanno avuto principio dalla forza o dall’artifizio, e che tutti i troni
d’Europa [3781] si possono, genealogizzando, far risalire a queste radici.
Insomma, com’egli è cosa certissima che tutto il mondo è il patrimonio
della forza (sia fisica, cioè vigore, sia morale, cioè ingegno, arte ec. ch’è
tutt’uno), e ch’egli è fatto per li più forti, ne segue che in una società
stretta, inevitabilmente, qualunque forma se gli possa mai dare, i più
deboli individui denno essere, furono sono e saranno la preda, la vittima,
il retaggio de’ più forti. Onde non si può assolutamente dare, molto
meno fra uomini, una società stretta, che ottenga il fine della società, cioè
il ben comune degl’individui che la compongono, ed il cui risultato sia il
detto ben comune. Senza di cui la società non può avere ragione alcuna.
In una società larga i più forti non hanno nè mezzo nè occasione nè
desiderio nè stimolo alcuno di esercitare e porre in opera la superiorità
delle loro forze sopra gl’individui di essa società, se non solamente
alcuna volta per accidente, in modo scarso e passeggero. Ciò ch’ei si
propongono di ottenere, non è a spese della lor società, nè di alcuno de’
suoi individui; esso è fuori di lei; la lor società è troppo scarsa perché
alcuno possa farci sopra dei disegni, e riporre la sua felicità in beni
dipendenti o appartenenti in alcun modo alla medesima società, di cui
appena si avveggono di esser parte, e che loro è, per così dire, fuori degli
occhi, e quindi anche del pensiero, almeno il più del tempo. ec. I lupi
fanno società per attaccare un ovile, ma i disegni ch’essi [3782] formano
sì nel tempo di questa passeggera società, sì nel resto, e i vantaggi che
essi, e tra essi massimamente i più forti, si propongono di ottenere, non
sono sopra gli altri lupi, ma sopra le pecore. Se poi nella division della
preda, nasce fra loro qualche discordia, e se in questa i più forti hanno il
più, queste son cose accidentali e poco durevoli, e che non lasciano ne’
più deboli alcun rancore, perché la società subito si discioglie, sicché
l’effetto della discordia si limita a quei pochi momenti, e in ultimo è
maggior l’utile che quei lupi hanno riportato da quella società, senza cui
non avrebbero penetrato l’ovile, e maggior l’utile che i più deboli hanno
ricevuto da’ più forti che han combattuto più di loro ec., di quello che sia
il danno che quei lupi hanno riportato da tal discordia, e i più deboli da’
più forti. Ma tutto l’opposto accade nelle società umane: dove i più forti
non servono ad altro che a far male ai più deboli e alla società, e la
superiorità qualunque di forze è sempre dannosa altrui, perché sempre
(almeno oggidì, e per lo passato il più delle volte) adoperata in solo bene
di chi la possiede.
La società stretta, ponendo gl’individui a contatto gli uni degli altri,
dà necessariamente l’essor all’odio innato di ciascun vivente verso altrui,
il qual odio in nessuno animale è tanto, neppur verso gl’individui di
specie diversa e naturalmente nemica, quanto egli è negl’individui di una
società stretta verso gli altri individui della medesima società! Perché
ogni [3783] odio naturalmente si accresce a mille doppi colla continua
presenza dell’oggetto odiato, e delle sue azioni ec. massime quando
quest’odio sia naturale, in modo che, per natura, e’ non possa esser mai
deposto. Ora, checché si voglia dire, e in qualunque modo (anche sotto
l’aspetto di amore) si mascheri l’odio verso altrui (così fecondo in
trasfigurazioni come l’amor proprio suo gemello), egli è così vero che
l’uomo è odioso all’uomo naturalmente, com’è vero che il falcone è
odioso naturalmente al passero. E quindi tanto è consentaneo riunire
insieme in una repubblica sotto buone leggi i falconi e i passeri (quando
anche ai falconi si tagliassero gli artigli, e si operasse in modo che di
forza fisica non eccedessero i loro compagni), quanto riunire gli uomini
insieme in istretta società sotto qualsivoglia legislazione. E quando anche
la società stretta non accrescesse il detto odio, certo non si potrà negare
ch’ella lo sveglia e l’accende, e ch’ella sola somministra le occasioni di
esercitarlo, rendendo così fatalissimo alla specie e mettendo in opera
l’odio scambievole innato negl’individui d’essa specie, il quale senza
società o in società larga, sarebbe stato affatto o quasi affatto innocuo alla
specie, ed inefficace, e per mancanza o insufficienza di occasioni e di
stimoli neppur sentito. Il che sarebbe stato conforme alle intenzioni della
natura, ed anche alla ragione assoluta, non essendo presumibile che la
natura abbia voluto che niuna specie (molto manco l’umana) perisse per
le sue medesime mani, o fosse infelicitata (e per conseguenza impeditagli
la perfezione e il fine del suo essere) da’ suoi [3784] propri individui;
sicché ella medesima fosse causa di distruzione e d’infelicità, e quindi
imperfezione, a se stessa, e la sua medesima esistenza cagionasse
direttamente e come propria, non altrui, opera la sua non esistenza, sia
col distruggersi, sia coll’infelicitarsi, che è privarsi del proprio fine e
complemento, e quindi rendersi non esistenza, e peggio ancora 192.
Queste, essendo contraddizioni evidentissime e formalissime, sono
escluse dal ragionamento assoluto; il principio stesso della nostra
ragione, o si riconosce per falso, e non possiamo più discorrere, o
impedisce di supporre queste contraddizioni nella natura; le quali però
vi avrebbero necessariamente luogo s’ella avesse voluto in qualunque
specie una società stretta, siccome sempre in una società stretta,
qualunque sia stata o sia o sia per essere la sua forma, hanno avuto ed
avranno luogo le cose sopraddescritte. Dal che si deduce
efficacissimamente che il supporre nella natura l’intenzione di una
società stretta in qualsivoglia specie, e massime nell’umana (che da una
parte, essendo la prima, doveva esser la più felice e perfetta, dall’altra, in
una società stretta, è necessariamente più di tutte sottoposta ai detti
inconvenienti) ripugna dirittamente al principio stesso della ragione. La
natura non ha posto nel vivente l’odio verso gli altri, ma esso da se
medesimo è nato dall’amor proprio per natura di questo. Il quale amor
proprio è un bene sommo e necessario, e in ogni modo nasce per se
medesimo dall’esistenza sentita, e sarebbe contraddizione un essere che
sentisse di essere e non si amasse, come altrove ho dichiarato. Ma da
questo principio ch’è un bene e che la natura non poteva a meno di porre
nel vivente, e che [3785] anzi, senza l’opera diretta della natura, nasce
necessariamente dalla stessa vita (onde la natura medesima, per così dire,
lo aveva e lo ha, verso se stessa, indipendentemente dal suo volere) 193
ne nasce necessariamente l’odio verso altrui, ch’è un male, perché
dannoso di sua natura alla specie, come ne nascono cento altre
conseguenze, che sono mali, e producono di lor natura effetti
dannosissimi, non pure alla specie e agli altri individui, ma all’individuo
medesimo. Or questi effetti non sono stati voluti dalla natura, nè ella n’ha
colpa, (come l’avrebbe), perché ella ha provveduto che quelle cattive
conseguenze dell’amor proprio fossero inefficaci, e tali sarebbero state
nell’esser naturale di quel tale individuo e specie. Così ella dunque ha
provveduto che l’odio verso gli altri individui della stessa specie fosse
inefficace, se non per qualche assoluto accidente, perché privo di
occasione e di stimolo e di circostanza ove potesse operare. E ciò ha fatto
destinando agl’individui di una stessa specie, e fra questi agli uomini, o
niuna società, o scarsa e larga. Una società stretta pone necessariamente
in contrasto gl’interessi degl’individui, rende necessario alla
soddisfazione dei desiderii degli uni, il male degli altri; alla superiorità,
ai vantaggi, alla felicità degli uni, l’inferiorità, gli svantaggi, l’infelicità
degli altri; desta il desiderio di beni che non si possono conseguire senza
il male degli altri, di beni che consistono nel male altrui, che
corrispondono per lor natura ad altrettanti mali [3786] degli altri
individui, ed altrettali, anzi, per lo più, maggiori che quei beni non sono.
Dunque una società stretta nuoce necessariamente a grandissima parte (e
la maggiore, perché i più deboli sono sempre i più) de’ suoi individui:
dunque il suo effetto è il contrario del fin proprio ed essenziale della
società, ch’è il bene comune de’ suoi individui, o almeno dei più: dunque
ella è il contrario di società, e ripugna per essenza non pure alla natura in
genere, ma alla natura e alla nozione stessa della società. Sì il contrasto
degl’interessi, sì l’altre cose qui dietro esposte, fanno in modo che l’odio
naturale d’ogn’individuo verso gli altri, in una società stretta, non pur si
sviluppa tutto intero, e riceve tanta efficacia e tanto atto quanto egli ha di
potenza, ma fa necessariamente, che, contro le intenzioni della natura e il
ben essere della specie, quell’odio naturale che in potenza e in natura è
molto minore verso i suoi simili che verso gli altri viventi, in atto sia
molto maggiore verso i suoi simili, anzi quasi tutti i suoi atti e i suoi
effetti sieno rivolti contro i soli suoi simili. Perocché l’individuo di una
società stretta, coi soli suoi simili ha stretto e quotidiano commercio ed
affare. Or l’odio verso altrui non si può sviluppare nè porre in atto se non
quando si abbia o si abbia avuto affare coll’oggetto odioso. E tanto più si
sviluppa ed opera quanto questo affare è o è stato maggiore, e più
frequente, più lungo, più continuo. E in conformità di questi evidenti
principii, veggiamo infatti che mentre l’individuo umano da principio
odiava assai più sì in potenza sì in atto gli altri viventi, [3787] massime
gli a lui dannosi ec. ora in atto odia senza alcun paragone più i suoi simili
che gli altri viventi qualunque, anche gli a lui più micidiali, perché da
questi è lontano, o poco affar ci può avere, e niun commercio di spirito; a
quelli è sempre presente, e sempre ha affar seco loro, e commercio
continuo e grandissimo, sì di corpo, sì, che è molto più, di spirito. Per le
quali cose è veramente un zucchero l’odio che oggidì l’uomo porta a
qualsivoglia più misantropo animale rispetto a quello ch’ei porta a’ suoi
simili, e ciascun vede quanto sarebbe ridicolo il farne paragone. Sicché
l’odio verso gli altri, qualità come naturale, così distruttiva della vera
società, non solo in una società stretta non si scema nulla rispetto ai suoi
simili da quel ch’egli era in natura, ma anzi, se non in potenza, certo in
atto s’accresce a mille doppi, anzi pure svolgendosi da tutti gli altri
viventi, si raccoglie tutto, si termina e si rivolge ne’ soli suoi simili. Onde
se il vivente, stante il detto odio, è antisociale per natura, in virtù della
società stretta, non pur diviene più sociale, ma infinitamente più
antisociale che da principio, perché da principio egli odiava i suoi simili
quasi solo in potenza, e in atto soli o molto più gli altri viventi, e nella
società stretta il suo odio dimentica quasi affatto gli altri viventi, ed in
atto odia, si può dir, soli i suoi simili, e gli odia più assai che da principio
non fece i dissimili, co’ quali ebbe sempre molto meno affare ed intimo
commercio, che non ha ora co’ simili suoi.
[3788] Dalle quali cose tutte, parlando in somma, si raccoglie che il dir
società stretta, massime umana, è contraddizione, non solo rispetto alla
natura ec. ma assolutamente, rispetto a se stessa, ne’ termini, e rispetto
alla nozione di queste parole. Perocché società importa quello che disopra
(p. 3777.) si è definito; e società stretta importa communione d’individui
sommamente nocentisi scambievolmente, e odiantisi in atto gli uni gli
altri sopra ogni altra cosa, giacché, stante la natura de’ viventi, non vi
può essere società stretta i cui individui non sieno tali, come si è
dimostrato.
Quindi non è maraviglia se mai non si è trovata nè mai si troverà, fra
le infinite eseguite, immaginate, eseguibili e immaginabili, forma alcuna
di società perfetta, da quella primitiva e naturale in fuori. Perocché gli
elementi di tali forme dovevano ben sempre esser discordi, poiché la idea
medesima d’esse forme è contraddittoria per natura. E quella prima
società non è stata mai potuta nè si potrà mai rimpiazzare, perché la
natura universale, nè particolare e speciale, non si rimpiazza, nè si
rimpiazza la felicità e la perfezione destinata a qualsivoglia essere o
specie dalla natura, nè veruna specie e veruno esser creato è capace di
più che una sola e determinata felicità e perfezione, la quale non altrove
si può trovare nè può consistere, che nel suo naturale stato, nè d’altronde
derivare. Nè volle il destino, nè comporta la natura delle cose che [3789]
niuna specie e niuno essere mortale e creato sia l’autore del sistema e
dell’ordine che dee condurlo alla propria felicità e perfezione (come
avverrebbe se l’uomo fosse destinato a quella società che noi pensiamo,
la quale è capace e bisognevole di una forma, non che eseguita ma
immaginata dagli uomini, e infinite ne può ricevere e n’ha ricevute, tutte
parimente buone o cattive, tutte o quasi tutte a lei ed alla sua idea
convenienti, [cioè tutte contraddittorie e discordevoli in se stesse ec.] e la
natura niuna forma le prescrisse nè potè prescriverle, non avendola
voluta; quando però ella ben ne prescrisse, ed intere, e costanti, a quelle
società ch’ella volle, come a quella de’ castori, e delle gru ec.): ma la
natura stessa e sola, o vogliamo dire il Creatore, dovette esser l’autore,
come di ciascuna creatura, così del sistema, ordine e modo che la dovesse
condurre alla perfezione della sua esistenza, vale a dire alla felicità, e
render compiuta l’opera di Lui.
Tutto questo discorso esclude una società stretta, non solo dalla specie
umana, ma da tutte le specie viventi; tanto però maggiormente, quanto
elle sono in maggior grado viventi, contro quello che si presume, e
quindi hanno più vivo amor proprio, e quindi più vive passioni e più
vivo e maggiore odio verso altrui. Il che vuol dire che il detto discorso
esclude la società stretta, dalla specie umana massimamente. Venendo
ora più da presso a mostrare quanto sia vero che l’odio verso gli altri,
specialmente verso i simili, è [3790] assai maggiore nell’uomo che negli
altri animali, e quindi l’uomo è il più insociale di tutti gli animali, perché
una società stretta di uomini, al comune degl’individui che la
compongono, nuoce assai più che non farebbe in niun’altra specie;
considereremo la guerra, male affatto inevitabile in una società stretta di
uomini, e niente accidentale, al che dimostrare se non bastasse
l’esperienza di tutte le nazioni e di tutti i secoli, sì dee bastare il riflettere
che siccome una stretta società pone necessariamente in atto l’odio
naturale degl’individui verso gl’individui simili nel modo e per le
cagioni mostrate di sopra, altrettanto ella fa necessariamente fra classe e
classe, ceto e ceto, ordine ed ordine, compagnia e compagnia, popolo e
popolo. E come la guerra nasca inevitabilmente da una società stretta
qual ch’ella sia, nótisi che non v’ha popolo sì selvaggio e sì poco corrotto,
il quale avendo una società, non abbia guerra, e continua e crudelissima.
Videsi questo, per portare un esempio, nelle selvatiche nazioni
d’America, tra le quali non v’aveva così piccola e incolta e povera
borgatella di quattro capannucce, che non fosse in continua e ferocissima
guerra con questa o quell’altra simile borgatella vicina, di modo che di
tratto in tratto le borgate intere scomparivano, e le intere provincie erano
spopolate di uomini per man dell’uomo, e immensi deserti si vedevano e
veggonsi ancora da’ viaggiatori, dove pochi vestigi di coltivazione e di
luogo anticamente o recentemente abitato, [3791] attestano i danni, la
calamità, e la distruzione che reca alla specie umana l’odio naturale verso
i suoi simili posto in atto e renduto efficace dalla società. Vedi l’op. cit. da
me a p. 3795., passim, e sommariamente nel cap.116. E certo non v’ha nè
v’ebbe al mondo così piccola e remota isoletta, così scarsa d’abitatori, e
così poco di costumi corrotta, dove tra quelle decine d’abitanti umani
stretti in società, non sia stata e non sia divisione, discordia e guerra
mortalissima, e diversità di parti e moltiplicità di nazioni. Come sia nata
e dovesse necessariamente nascere la guerra tra gli uomini, l’ho detto p.
2677. segg. dove si può vedere che la colpa di questo nascimento è tutta
della società stretta, posta la quale, ei non poteva mancare. E tanto è
l’odio dell’uomo verso l’uomo, e tanto il danno che inevitabilmente ne
nasce in una società stretta, che la divisione in popoli diversi, e la nimistà
tra popolo e popolo, posta una società stretta, è piuttosto utile che
dannosa al genere umano, tenendo lontana la molto più terribile e fiera
guerra intestina, sia aperta, come ho detto nel citato luogo, sia la coperta
guerra dell’egoismo, che infelicita tutti gl’individui d’una stessa nazione,
gli uni per opera degli altri, come lungamente ho disputato parlando
dell’utilità dell’amor patrio e nazionale e quindi dell’odio verso gli
estrani, e del danno che nasce dalla mancanza di nazionalità e dal preteso
amore universale ec. Il tutto, supposta una società stretta, e che questa
non si possa più (come già non puossi) evitare.
Or che la specie umana costantemente e regolarmente perisca per le
sue proprie mani, e ne perisca in questo modo così gran parte e così
ordinatamente come avviene per la guerra, è cosa da un lato [3792] tanto
contraria e ripugnante alla natura quanto il suicidio, conforme di sopra
(p. 3784.) si è detto, dall’altro lato priva affatto di esempio e di analogia
in qualsivoglia altra specie conosciuta, sia inanimata o animata, sia
d’animali insocievoli o de’ più socievoli dopo l’uomo. Che una specie di
cose distrugga e consumi l’altra, questo è l’ordine della natura, ma che
una specie qualunque (e massime la principale, com’è l’umana) distrugga
e consumi regolarmente se stessa, tanto può esser secondo natura,
quanto che un individuo qualunque sia esso stesso regolarmente la causa
e l’istrumento della propria distruzione. Cani, orsi e simili animali
vengono molte fiate a contesa tra loro, e fannosi non di rado del male ma
rado è che una bestia sia uccisa dalla sua simile, anzi pur che ne soffra
più che un male passeggero e curabile. E quando pur ne rimanga uccisa,
primieramente questo è un di quei disordini affatto accidentali, non
voluti, ma neanche provvedibili dalla natura, e di cui ella non ha colpa,
accadendo e contro le sue intenzioni e contro le sue provvisioni, che,
benché non in quel caso particolare, nel generale però riescono sufficienti
ed ottengono il loro fine. Questo caso, rispetto alla natura e all’ordine sì
generale delle cose, sì generale della specie, è così accidentale come se un
animale ammazza un suo simile involontariamente inscientemente ec., o
se ammazza nello stesso modo qualche animale d’altra specie ec., o s’è
ucciso dalla caduta di un albero, o da un fulmine, o da morbo ec. ec. ec.
Secondariamente che proporzione, anzi che simiglianza può aver
l’uccisione di uno o di quattro o dieci animali fatta da’ loro simili qua e là
sparsamente, in lungo intervallo, e per forza di una passione
momentanea e soverchiante, con quella di migliaia d’individui umani
fatta in mezz’ora, in un luogo stesso, da altri individui lor simili, niente
passionati, che combattono per una querela o altrui, o non propria
d’alcun di loro, ma comune (laddove niuno [3793] animale combatte mai
per altro che per se solo; al più, ma di rado co’ suoi simili, per li figli, che
son come cosa, anzi parte di lui), e che neppur conoscono affatto quelli
che uccidono, e che di là ad un giorno, o ad un’ora, tornano all’uccisione
della stessa gente, e seguono talvolta finché non l’hanno tutta estirpata
ec. ec.? lasciando gli altri infiniti mali e infelicità che reca la guerra ai
popoli; mali e infelicità parte reali in ogni caso, e che tali sarebbero anche
nello stato naturale del genere umano (come le mutilazioni ec.); parte che
son tali, posta fra gli uomini una società stretta, e le abitudini, e quindi i
bisogni, di questa (come la devastazione de’ campi, e ruina delle città, e
le carestie, oltre le pesti ec. ec.): i quali deono essere riconosciuti per mali
massimamente da quelli che sostengono esser propria dell’uomo una
società com’è la presente, e com’è quella che cagiona la guerra; ma oltre
di ciò eziandio da chi negandola, per così dire, in diritto, dee pur
supporla nel fatto, supponendo la guerra ec. e quindi supporre tutte le
abitudini e i bisogni ch’ella non può a meno di produrre negli uomini ec.
Solamente fra le api, la cui società è naturale, si potrebbe voler trovare un
esempio della nostra guerra, fatta in più persone da ciascuna parte ec. Ma
ben guardando, anche le battaglie dell’api, oltre che son rarissime e
niente regolari e inevitabili (a paragon delle nostre), sono effetto di
passione momentanea, come le battaglie singolari o poco più che
singolari, e inordinate e confuse de’ cani, orsi ec. onde per l’una e per
l’altra cagione son da considerarsi per disordini accidentali, [3794] come
di quelle dei cani ec. si è detto. Del combattere in due partiti d’una stessa
specie, fuor dell’api, non si troverà credo altro esempio che negli uomini,
perché gli altri animali quando anche combattano tra loro in molti,
combattono uno contro un altro confusamente senza veruno amico, o
ciascuno contro tutti, perché ciascuno combatte per se solo, mosso dalla
propria passione, e a fine del proprio, non dell’altrui nè di commun bene.
Quanto sia maggiore la facoltà di odiare che ha l’uomo verso tutti, e
posta la società stretta, verso i suoi simili; maggiore, dico, di quella che
ha verun’altra specie di animali, basti osservare le orribili e
smisuratissime crudeltà che l’uomo col fatto si è mostrato e mostrasi
infinite volte capace di esercitare verso i suoi simili a se nemici, sieno
d’altra nazione, e questa nemica o amica, ed in tal caso esercitate dalle
nazioni intere per costume o straordinariamente, ovver dagl’individui in
particolare; sieno della stessa nazione e società qualunque. Nè l’uomo
primitivo verso gli altri animali a lui più nemici, nè animale alcuno (per
feroce, per insociale ch’ei sia), non pure verso i suoi simili, ma verso
l’altre specie a lui più nemiche, esercitò nè esercita mai (se non per
bisogno, come nel cibarsene ec. ma non per odio, nè a fine di straziarlo,
benché lo strazi), neppur nel più caldo dell’ira e nello stesso
combattimento crudeltà così grande che sia degna d’esser comparata a
quelle che gl’individui umani di una stessa nazione verso i loro
compagni, le nazioni verso le nazioni nemiche, i governi verso i lor
sudditi colpevoli o supposti tali, i tiranni ec. ec. esercitarono infinite volte
ed esercitano dopo la vittoria, dopo il pericolo, a sangue freddo, spesse
volte senza passione veruna, neppur passata, (come nelle pene de’ rei),
per [3795] uso, per regola, per legge, per tradizione de’ maggiori ec. ec.
ec. Chi non sa che cosa possa nell’uomo lo spirito di vendetta? il quale
rende eterna l’ira e l’odio verso i suoi simili cagionato da una
piccolissima offesa, vera o falsa, giusta o ingiusta ec. e dalle altre cagioni
che adirano gli uomini verso gli uomini sia nelle nazioni, sia
negl’individui, sia privato sia pubblico ec. Or questo spirito ch’è
inevitabile in qualunque società umana stretta, fu ignoto all’uomo
primitivo, è ignoto a qualunque altro animale, in cui l’ira non dura più
che qualunque altra passione momentanea, e la ricordanza dell’ingiuria
non più dell’ira; e la vendetta o è subito ottenuta e fatta (e basta ben poco
a placarli e soddisfarli), o di poi non è ricercata niente più che se
l’ingiuria non avesse avuto luogo.
Questo spirito di vendetta ec. le crudeltà sopraddette ec. sono così
naturali all’uomo posto in società stretta, la quale sviluppi il suo odio
innato verso i simili ec., che non v’è bisogno di molta corruzione a
cagionarle, anzi elle si trovano immancabilmente in qualunque più
primitiva e più bambina società. Non si manchi di vedere intorno a
questo proposito, e intorno ad altri orribilissimi costumi, propri solo
dell’uomo verso i suoi simili, e dell’uomo anche mezzo naturale e quasi
primitivo, la Parte primera de la Chronica del Peru di Pedro de Cieça de Leon
(soldato spagnuolo che fu alla conquista e scoprimenti di quei paesi, ove
visse più di diciassett’anni, 194 e vide esso medesimo, ed ebbe parte o
udì da testimonii di vista e dagl’indiani stessi, ec. le cose, i costumi, gli
avvenimenti, i luoghi ec. ch’esso racconta; e protesta sì nella [3796]
prefazione sì in altri molti luoghi, e dimostra col suo scrivere
semplicissimo e inornato, anzi incolto e senza niuna arte, di narrare la
purissima verità: mostra ancora molto buon giudizio, eccetto solamente
in ordine a superstizioni, dove manifesta quella credulità che in tali
materie è propria della sua nazione e fu propria del suo secolo e de’
passati) en Anvers 1554 en casa de Jinan Steelsio. Impresso por Juan Lacio. in
8vo piccolo, cap. 12.16. (p. 41.) 19. (car. 49. p.2.) principalmente, oltre gli
altri luoghi che si trovano notati nell’indice sotto il titolo Indios amigos de
comer carne humana.
Tutte queste cose dimostrano che, come si è detto di sopra, la società
stretta, in luogo di scemare, accresce per sua natura in mille doppi l’odio
naturale dell’uomo verso i di lui simili, il qual è incompatibile coll’idea,
colla nozione, ragione, fine, natura ec. di qualsivoglia società. Dico,
accresce l’odio, non l’ira, se non in quanto mette anche questa in atto
assai più spesso, e le dà molto più frequenti e maggiori occasioni e
cagioni ec. ec. Gli altri animali verso i lor simili non provano mai o quasi
mai, e ben pochi di loro, odio, ma sola ira (ch’è cosa accidentale, e
disordine accidentale ch’ella si volga sopra i simili ec.). Eccetto talvolta
alcuni di quelli che noi contra la natura loro stringiamo in società e
sforziamo a vivere insieme: come talora un cane odia abitualmente per
invidia un altro cane suo compagno, e i tori nella mandra si odiano per
gelosia ec. E questo stesso dimostra come la società stretta ponga subito
in azione l’odio naturale anche negl’individui [3797] e specie ec. che fuori
di essa società mai non provano odio, o mai verso i loro simili, e sono
anche mansuetissimi per natura, e verso gli estrani ec. ec.
Io noto che generalmente parlando, le dette crudeltà ec. tanto sono
più frequenti e maggiori, e le guerre tanto più feroci e continue e
micidiali ec. quanto i popoli sono più vicini a natura. E astraendo
dall’odio e dagli effetti suoi, non si troverà popolo alcuno così selvaggio,
cioè così vicino a natura, nel quale se v’è società stretta, non regnino
costumi, superstizioni ec. tanto più lontani e contrarii a natura quanto lo
stato della lor società ne è più vicino, cioè più primitivo. Qual cosa più
contraria a natura di quello che una specie di animali serva al
mantenimento e cibo di se medesima? Altrettanto sarebbe aver destinato
un animale a pascersi di se medesimo, distruggendo effettivamente
quelle proprie parti di ch’ei si nutrisse. La natura ha destinato molte
specie di animali a servir di cibo e sostentamento l’une all’altre, ma che
un animale si pasca del suo simile, e ciò non per eccesso straordinario di
fame, ma regolarmente, e che lo appetisca, e lo preferisca agli altri cibi;
questa incredibile assurdità non si trova in altra specie che nell’umana.
Nazioni intere, di costumi quasi primitive, se non che sono strette in una
informe società, usano ordinariamente o usarono per secoli e secoli
questo costume, e non pure verso i nemici, ma verso i compagni, i
maggiori, i genitori vecchi, le mogli, i figli. 195 (Veggansi i luoghi citati
nella pagina antecedente). [3798] Le superstizioni, le vittime umane,
anche di nazionali e compagni, immolate non per odio, ma per timore,
come altrove s’è detto, e poi per usanza; i nemici ancora immolati
crudelissimamente agli Dei senza passione alcuna, ma per solo costume;
il tormentare il mutilare ec. se stessi per vanità, per superstizione, per
uso; l’abbruciarsi vive le mogli spontaneamente dopo le morti de’ mariti;
il seppellire uomini e donne vive insieme co’ lor signori morti, come
s’usava in moltissime parti dell’America meridionale; ec. ec. son cose
notissime. Non v’è uso, o azione, o proprietà o credenza ec. tanto
contraria alla natura che non abbia avuto o non abbia ancor luogo negli
uomini riuniti in società. E sì i viaggi sì le storie tutte delle nazioni
antiche dimostrano che quanto la società fu o è più vicina a’ suoi
principii, tanto la vita degl’individui e de’ popoli fu o è più lontana e più
contraria alla natura. Onde con ragione si considerano tutte le società
primitive e principianti, come barbare, e così generalmente si chiamano, e
tanto più barbare quanto più vicine a’ principii loro. Nè mai si trovò, nè
si trova, nè troverassi società, come si dice, di selvaggi, cioè primitiva,
che non si chiami, e non sia veramente, o non fosse, affatto barbara e
snaturata. (o vogliansi considerar quelle che mai non furon civili, o quelle
che poscia il divennero, quelle che il sono al presente ec. ec.). Dalle quali
osservazioni si deduce per cosa certa e incontrastabile che l’uomo non ha
potuto arrivare a quello stato di società che or si considera come a lui
conveniente e naturale, e come perfetto o manco [3799] imperfetto, se
non passando per degli stati evidentemente contrarissimi alla natura.
Sicché se una nazione qualunque, si trova in quello stato di società che
oggi si chiama buono, s’ella è o fu mai, come si dice, civile; si può con
certezza affermare ch’ella fu, e per lunghissimo tempo, veramente
barbara, cioè in uno stato contrario affatto alla natura, alla perfezione,
alla felicità dell’uomo, ed anche all’ordine e all’analogia generale della
natura. I primi passi che l’uomo fece o fa verso una società stretta lo
conducono di salto in luogo così lontano dalla natura, e in uno stato così
a lei contrario, che non senza il corso di lunghissimo tempo, e l’aiuto di
moltissime circostanze e d’infinite casualità (e queste difficilissime ad
accadere) ei si può ricondurre in uno stato, che non sia affatto contrario
alla natura ec.
Or dunque, poiché tutto questo è certo e dimostrato da tutte le storie e
notizie di tutte le nazioni antiche o moderne ec., poiché da un lato è da
tenere per fermissimo che la società e l’uomo non ha potuto nè può
divenir civile senza divenir prima e durare per lunghissimo tempo,
affatto barbaro, cioè in istato affatto contro natura; e dall’altro lato si
vuole che nello stato di società civile consista la perfezione e felicità
dell’uomo, e la condizione sua propria e vera e destinatagli ed intesa in
principio dalla natura ec.; io domando se è possibile, se è ragionevole, il
credere che la natura abbia destinato ad una specie di esseri (e massime
alla più perfetta) una perfezione e felicità, per ottener la quale le
convenisse assolutamente passare p. uno e più stati onninamente contrari
alla [3800] natura sua ed alla natura universale, e quindi per uno e più
stati di somma infelicità, di somma imperfezione sì rispetto a se
medesima e sì a tutto il resto della natura. Una perfezione e felicità della
quale essa specie per lunghissimi secoli, e infiniti individui suoi per tutta
la vita loro, non solo non dovessero esser partecipi, ma averne anzi
necessariamente tutto il contrario. Una perfezione e felicità le quali
esigessero assolutamente gli estremi delle cose a loro contrarie, cioè gli
estremi dell’imperfezione e dell’infelicità, senza i quali estremi essa
perfezione e felicità della specie non avrebbero mai potuto aver luogo.
Una perfezione e felicità di cui fosse proprio ed essenziale il dover
nascere dall’estrema imperfezione e infelicità della specie, e il non poter
nascere d’altronde nè senza queste. Una perfezione e felicità
ch’essenzialmente supponesse la somma corruzione e infelicitazione
della specie per moltissimi secoli, e d’infiniti suoi individui per sempre.
Conseguentemente domando se l’estrema barbarie e corruttela ch’ebbe
luogo anticamente nelle nazioni antiche o moderne, spente o superstiti,
passate o presenti, che divennero poi civili; e quella che ancora ha luogo
in tanto innumerabile quantità di popoli ancor selvaggi ec. ec. e che
durerà per tempo indeterminabile e forse per sempre ec. domando, dico,
se questa barbarie e corruzione, senza cui la civiltà non può nè potè
nascere, fu voluta e ordinata dalla natura, la quale, secondo costoro, volle
e ordinò la civiltà dell’uomo. Domando pertanto se tutto ciò che di
contrario alla natura ebbe ed ha luogo nelle società selvagge, primitive
ec., fu ed è secondo natura. Domando se la natura rispetto [3801]
all’uomo ha bisogno del suo contrario, lo esige, lo suppone. Se fu
intenzione della natura, se è cosa naturale che l’uomo divenisse e
divenga naturale (cioè perfetto) mediante l’essere stato sommamente
contrario e diverso dalla natura sua e generale. Se è proprietà dell’uomo
l’acquistare la sua vera proprietà, mediante l’averla affatto deposta e
contrariata ec. ec. Se l’antropofagia, se i sacrifizi umani, se le
superstizioni, le infinite opinioni ed usi barbari ec. ec. le guerre
mortalissime che nell’America, unite all’antropofagia ec., sino agli ultimi
secoli, distrussero innumerabili popolazioni e spopolarono d’uomini
molti e vasti paesi, e che una volta essendo state comuni a tutti i popoli, e
ciò quando il genere umano era ancora scarso, misero necessariamente
l’intera specie in pericolo di scomparire affatto dal mondo per sua
propria opera; sono cose secondo natura, intese dalla natura, supposte,
volute, ordinate dalla natura; non accidenti, non disordini, ma secondo
l’ordine, e derivanti dal sistema naturale e da’ naturali principii;
necessarie al conseguimento ed effettuamento della perfezione e felicità
della specie. V. p. 3882. e vedi la pag. 3920. 3660-1.
I Californi, popoli di vita forse unico, non avendo tra loro società
quasi alcuna, se non quella che hanno gli altri animali, e non i più
socievoli (come le api ec.), quella ch’è necessaria alla propagazione della
specie ec. e credo, nessuna o imperfettissima lingua, anzi linguaggio,
sono selvaggi e non sono barbari, cioè non fanno nulla contro natura
(almeno per costume), nè verso se stessi, nè verso i lor simili, nè verso
checchessia. Non è dunque la natura, ma la società stretta la qual fa che
tutti gli altri selvaggi sieno o [3802] sieno stati di vita e d’indole così
contrari alla natura. La scambievole communione, voglio dire una società
stretta, non può menomamente incominciare in un pugno d’uomini, che
ciascheduno di questi non ne divenga subito, non che lontano e diverso,
come siam noi, ma contrario dirittamente alla natura. Tanto la società
stretta fra gli uomini è secondo natura. Non è dubbio che l’uomo civile è
più vicino alla natura che l’uomo selvaggio e sociale. Che vuol dir
questo? La società è corruzione. In processo di tempo e di circostanze e di
lumi l’uomo cerca di ravvicinarsi a quella natura onde s’è allontanato, e
certo non per altra forza e via che della società. Quindi la civiltà è un
ravvicinamento alla natura. Or questo non prova che lo stato
assolutamente primitivo, ed anteriore alla società ch’è l’unica causa di
quella corruzione dell’uomo, a cui la civiltà proccura per natura sua di
rimediare, è il solo naturale e quindi vero, perfetto, felice e proprio
dell’uomo? Come mai quello stato ch’è prodotto dal rimedio si dee, non
solo comparare, ma preferire a quello ch’è anteriore alla malattia? Il
quale già nel nostro caso, voglio dir lo stato veramente primitivo e
naturale, non è mai più ricuperabile all’uomo una volta corrotto (non da
altro che dalla società), e lo stato civile (socialissimo anch’esso, anzi
sommamente sociale) n’è ben diverso. Bensì egli è preferibile al corrotto
stato selvaggio: questa preferenza è ben ragionevole, e segue ed è
secondo il nostro e il sano discorso: ma non al vero primitivo ec. ec. V.
p.3932.
[3803] Dai superiori ragionamenti appoggiati e accompagnati ai fatti e
alle storie degli uomini, e queste paragonate con quello che avviene negli
altri animali ec. si dee dedurre che dalla società che passa p.e. tra le api e
i castori, e gli altri animali che per natura hanno tra loro più stretta
comunione di vita, e dagli esempi naturali siffatti, ben si può
argomentare che agli uomini non si convenga una società più stretta di
quella; ma non già perch’ella si trovi in parecchie specie naturalmente, si
può argomentare che agli uomini convenga neppure una società
altrettanto stretta, giacché gli uomini, contro quello che si stima, cioè che
sieno per natura i più socievoli animali, sono anzi i meno socievoli, o
certo manco socievoli di quello che sieno parecchi altri, cioè gli animali
che veramente sono i più socievoli per natura. Onde, non che all’uomo
convenga una società più stretta che all’api ec., come lo è di gran lunga
quella ch’egli ha presentemente, ed ebbe da tempo immemorabile, si dee
concludere che non gliene conviene se non una molto più larga ec. come
ho accennato p. 3773. fine, e come risulta dagli estremi danni dell’umana
società stretta (danni verso se stessa e la specie umana, e verso l’altre
specie ancora e l’ordine della natura terrestre, in quanto egli può essere
ed è influito dall’uomo, massime dall’uomo in società) considerati di
sopra, e dall’estrema insociabilità dell’uomo, dimostrata in tutto il
passato discorso.
[3804] - Moltissimi, anzi la più parte degli argomenti che si adducono
a provare la sociabilità naturale dell’uomo, non hanno valore alcuno,
benché sieno molto persuasivi; perciocch’essi veramente non sono tirati
dalla considerazione dell’uomo in natura, che noi pochissimo
conosciamo, ma dell’uomo quale noi lo conosciamo e siamo soliti di
osservarlo, cioè dell’uomo in società ed infinitamente alterato dalle
assuefazioni. Le quali essendo una seconda natura, fanno che tuttodì si
pigli per naturale, quello che non è se non loro effetto, e bene spesso
contrario onninamente a natura, o da lei diversissimo. Onde gli effetti
della società, quello che sola la società ha reso necessario, quello che non
è vero se non posta la società, che senza questa non avrebbe avuto luogo
ec., si fanno tuttogiorno servire nelle argomentazioni de’ filosofi a
dimostrare la naturale sociabilità dell’uomo, la necessità della società
assolutamente e secondo la nostra natura ec. Di questo genere è quella
inclinazione che tutti abbiamo a far parte ad altrui delle nostre sensazioni
vive e non ordinarie, piacevoli o dispiacevoli ec., inclinazione della quale
ho parlato altrove più volte, ed osservato, che bench’ella sembri affatto
spontanea ed innata, non è che l’effetto dell’assuefazione e del nostro
vivere in società, e nell’uomo posto fuori di essa per qualunque
circostanza, e massime nell’uomo primitivo e veramente incorrotto, non
ha luogo e gli è ignota. Ed infiniti altri sono gli effetti di questo genere
che paiono naturalissimi, e dimostrativi della naturale sociabilità
dell’uomo, e che per tali [3805] si recano tuttogiorno, ma che per vero
non sono naturali, se non in quanto naturalmente hanno luogo, posta la
società, e le rispettive circostanze ed assuefazioni non naturali; e
naturalmente nascono da tali cagioni; nè possono non nascere, supposte
queste. È cosa onninamente e naturalmente difficilissima il discernere tra
l’assoluto naturale, e gli effetti dell’assuefazione, massime
dell’assuefazione universale, e contratta o cominciata a contrarre fin dalla
nascita o da’ primi momenti del vivere, com’è l’assuefazione della
società, e infinite assuefazioni subalterne da questa dipendenti e
cagionate ec. o parti di lei, o da lei supposte ec.; e massime ancora
nell’uomo, ch’essendo di gran lunga più conformabile e modificabile
d’ogni altro animale, facilissimamente e presto si adatta alle assuefazioni,
per innaturali ch’elle sieno, e se le converte in natura, e le abbraccia ed
arripit, e seco loro s’immedesima in modo che appena l’occhio del più
acuto filosofo è bastante a distinguerle dalle disposizioni naturali, e gli
effetti loro dalle naturali qualità ed operazioni ec. Quindi non è
maraviglia se tanti argomenti ci paiono dimostrativi della naturale
sociabilità dell’uomo, e se di questa quasi tutti sono persuasi
intimamente, e credono assurdo e impossibile il contrario, e stimano
questa persuasione naturalissima, e fondata sopra il più certo ed intimo e
spontaneo senso, ed autenticata dalla più chiara e sincera e manifesta
voce della natura; e mai non deporranno questa credenza. Perocché
[3806] tutti gli uomini che di queste cose possono discorrere o pensare in
qualsivoglia modo, filosofi o non filosofi o plebei, sono nati, allevati,
formati e vissuti sempre nella società e nelle assuefazioni ad essa
appartenenti. Onde, non veramente per prima natura, ma per seconda
natura, essi sono tutti in verità esseri sociali, ed a cui la società è propria e
necessaria. E s’alcuno è nato e cresciuto fuori della società esso non
discorre nè pensa di queste cose, o non prima che la società e le sue
assuefazioni, coll’abitudine, gli si sieno convertite in natura. Sicché nel
creder l’uomo naturalmente sociale, e fatto per la società, e di lei
bisognoso assolutamente, e la società natural cosa e indispensabile
all’uomo, i saggi e gl’idioti, i civili e i barbari, gli antichi e i moderni, e
tutte le diversissime nazioni e tutte le classi dissimilissime di persone,
consentono insieme e consentirono e consentiranno forse più
interamente, fortemente, costantemente e per più lungo tempo, che non
fecero non fanno e non sono per fare intorno ad alcun’altra quistione
speculativa. Ma questo consenso quanto vaglia a dimostrar la
proposizione da lui favorita, le cose sopraddette il deggiono fare
giustamente e adeguatamente estimare.
Amongst unequals no society, dice Milton, cioè fra disuguali non è società
ec. ec. Or quello che si suol dire dell’amicizia e delle secondarie società
fra gli uomini, io lo trasporto, e dee parimente valere circa la società del
genere umano generalmente [3807] considerata. 196 Di tutte le specie
d’animali (così degli altri esseri) l’umana è quella i cui individui sono,
non solo accidentalmente, ma naturalmente, costante e inevitabilmente,
più vari tra loro. Come l’uomo è di gran lunga più conformabile d’ogni
altro animale, e quindi più modificabile, ogni menoma circostanza, ogni
menomo accidente (sia individuale, sia nazionale ec. sia fisico sia morale
ec.) basta a produrre tra l’uno uomo e l’altro (e così fra l’una nazione e
l’altra) notabilissime diversità. E come è assolutamente inevitabile la
menoma varietà delle menome circostanze e accidenti, così è inevitabile
la diversità degli umani individui ec. che ne deriva. Inevitabile si è l’una
e l’altra in tutte le specie di animali, ma la seconda è molto maggiore
nell’uomo perché dal poco diverso nasce in lui il diversissimo, stante la
sua somma modificabilità estremamente moltiplice, e la somma
delicatezza e quindi suscettibilità della sua natura rispetto agli altri
animali, come si è detto. Nel modo che la specie umana è divenuta, per la
sua conformabilità, più diversa da tutte l’altre specie animali e da
ciascuna di loro, che non è veruna di queste rispetto ad altra veruna di
esse; e nel modo che l’uomo nelle sue diverse età, e in diversi tempi,
anche naturalmente, è più diverso da se medesimo che niuno altro
animale; più diverso l’uomo giovane da se stesso fanciullo, che non è
niuno animale decrepito da se stesso appena nato; tanto che un uomo in
diverse età o in diverse circostanze naturali o accidentali, locali, fisiche,
morali, ec. di clima ec. native, cioè di nascita ec. o avventizie ec.
volontarie o no ec. appena si può dire esser lo stesso [3808] uomo, ed il
genere umano universalmente in diverse età, o in diverse circostanze
naturali o accidentali, locali ec. appena si può dire esser lo stesso genere;
nel modo stesso gl’individui di nostra specie sono per natura di essa
specie molto più vari tra loro che non son quelli di verun’altra. Ciò
accade ancora, ed inevitabilmente, e naturalmente, nell’uomo naturale,
nel selvaggio ec. Onde anche considerando l’uomo in natura, si può,
eziandio per questa parte, conchiudere che la sua specie è meno di
verun’altra, disposta a società, perché composta d’individui
naturalmente più diversi tra loro, che non son quelli d’altra specie
veruna. Ma come la società introduce e porta al colmo tra gli uomini
quella disuguaglianza che si considera negli stati, nelle fortune, nelle
professioni ec. così ella accresce a mille doppi, promuove inevitabilmente
e porta per sua natura al colmo la diversità sì fisica sì morale, di facoltà,
d’inclinazioni, di carattere, di forze, corpo ec. ec. degl’individui, delle
nazioni, de’ tempi, delle varie età di un individuo ec. ec. Ella accresce le
diversità naturali ed ingenite di uomo ad uomo, ed altre infinite e
grandissime che nello stato naturale dell’uomo non avrebbero avuto
luogo, necessariamente e per sua natura ne introduce e cagiona. Ella
distrugge mille conformità e somiglianze naturali di uomo ad uomo. La
natura è un canone generale e costante, indipendente dall’arbitrio, poco
soggetta agli [3809] accidenti (rispetto alla dipendenza che hanno dagli
accidenti e circostanze le opere ec. dell’uomo), una da per tutto, una
sempre rispetto a ciascuna specie, consistente in leggi certe ed eterne, ec.
La società, opera dell’uomo, dipendente dalla volontà che non ha niuna
legge certa, altrimenti non sarebbe volontà, arbitraria, incostante, varia
secondo gli accidenti e le circostanze de’ tempi, de’ luoghi, de’ voleri,
delle mille cose che la cagionano e che determinano la sua forma e il
modo del suo essere, non è una in se stessa, perché ha avuto ed ha
necessariamente infinite forme, e queste sempre variabili e variate; non è
una in nessuna delle sue forme, perché in ciascuna di queste v’ha mille
varietà che diversificano l’una dall’altra necessariamente le parti che la
compongono, chi comanda da chi ubbidisce, chi consiglia da chi è
consigliato, ec. ec. Nella società l’uomo perde quanto è possibile
l’impronta della natura. Perduta questa, ch’è la sola cosa stabile nel
mondo, la sola universale, o comune al genere o specie, non v’ha altra
regola, filo, canone, tipo, forma, che possa essere stabile e comune, alla
quale tutti gl’individui agguagliandosi, sieno conformi tra loro ec. ec. La
società rende gli uomini, non pur diversi e disuguali tra loro, quali essi
sono in natura, ma dissimili. Onde anche per questo argomento si
conchiude che l’essenza e natura della società, massime umana, contiene
contraddizione in se stessa; perocché la società umana naturalmente
distrugge il più necessario elemento, [3810] mezzo, nodo, vincolo della
società, ch’è l’uguaglianza e parità scambievole degl’individui che
l’hanno a comporre; o vogliamo dire accresce per proprietà sua la
naturale disparità de’ suoi subbietti, e l’accresce tanto che li rende affatto
incapaci di società scambievole, di quella medesima società che gli ha
così diversificati, anzi d’ogni società, anche di quella che per natura
sarebbe stata loro e possibile e destinata e propria; insomma, per tornare
al principio di questo discorso, rende i suoi soggetti quali son quelli tra’
quali naturalmente no society, anzi fa più, perché se la società, secondo
Milton, è impossibile tra disuguali, essa li rende dissimili. E in verità
niuno animale meno che l’uomo ha ragion di chiamare suoi simili
gl’individui della sua specie, nè ha più ragione di trattarli come dissimili,
e come individui di specie diversa. Il che egli non manca di fare. E il
farlo, com’ei lo fa ordinariamente, massime nella società, è ben prova
effettiva del sopraddetto ec. ec. (25-30. Ottobre. 1823.)
Veri participii passati poi in aggettivi ec. Argutus. (31. Ott. 1823.). V. il
pensiero precedente.
A quello che nella teoria de’ continuativi ho detto per mostrare che
sector aris è contrazione di secutor, aggiungi persector aris, che i francesi
dicono infatti persécuter, noi perseguitare, e gli spagnuoli se non fallo,
persecutar. (1. Nov. 1823.)
Alla p. 3036. marg. Periurus, cioè qui peieravit, o periuravit, non sembra
essere altro che contrazione di periuratus (che pur si trova, come anche
peieratus, in senso passivo), siccome coniuratus, qui coniuravit; iuratus, qui
iuravit ec. (iuratus ha pure il senso passivo: non così periurus). (1. Nov.
1823.)
Alla p.2779. Al contrario da ϕὼρ fur ec. (1. Nov. 1823.) Diminutivi
positivati. Libella (it. livella, livello, franc. niveau, spagn. se non erro, nivel;
livellare ec., niveler ec., ec.) per libra che pur si dice nello stesso significato.
V. Forcellini. Circulus (circulo as, circularis ec. ec.) per circus, voce
antiquata ec. (benché pur si trova) se non nel senso dell’anfiteatro romano
ec. ec. V. Forc. (2 Nov. 1823.)
Alla p. 2685. marg. Δέω, δέον ec. significa anche mancare mancante ec.,
e tale si è appresso appoco il suo significato nelle dette frasi, onde elle
sono le stesse che le addotte italiane. Similmente il francese falloir vale
propriamente mancare (dal lat. fallere, spagn. faltar, it. fallire, fallare ec. ed
anche in franc. faillir), e riunisce i significati di mancare e bisognare
appunto come il greco δέω, o l’impersonale δέῖ 198. Simiglianza che non
è da trascurare nè dev’esser casuale ec. Nelle addotte frasi il suo
significato è parimente di mancare. In greco si dice anche semplicemente
ὀλίγου, ὀλίγον, µικροῦ, senza il verbo δέῖν per fere, quasi ec. come noi
per poco e di poco senz’altro verbo. V. la Crusca in di poco e in per §. 98. e
i Lessici greci. Si dice ancora in greco assolutamente ὀλίγου [3818] δέον,
µικροῦ, πολλῦ δέον. Ovvero concordato col subbietto ὀλίγου δέοντα,
δέοντες ec. Ovvero p.e. δυοῖν δέοντα εἴκοσι cioè diciotto ec., ὀλίγου δέον
ἶσος cioè quasi uguale ec. Anche si dice παρὰ µικρὸνἐδέησα τοῦτο ποιεῖν
che risponde precisamente al nostro per poco mancai di far questo: ovvero
di poco ec. V. i Lessici in δέω. Qua si dee riferire il nostro di gran lunga e
d’assai (à beaucoup près) in quelle frasi: egli non è di gran lunga, o d’assai,
così grande (beaucoup s’en faut). Ovvero ei non fu ec. (beaucoup s’en fallut
ec.). Dove il verbo mancare o simile, è soppresso, come nelle frasi greche
ὀλίγου ovvero ὀλίγον ἀπέϑανεν, µικροῦ ἀπόλωλα e simili, dove è
taciuto il verbo δεῖν. Πολλοῦ così assoluto non mi par che si dica. 199 (3.
Nov. 1823.)
Alla p. 3688. fine. Come il significato di no¡v abbia a fare con quel di
nosco, vedi i Lessici. E in ogni modo o che nosco fosse da νοΐσκω, o che sia
da νοέω, sarebbe la stessa cosa, quanto alla ragion del significato ec.
perché νοέω e νοΐσκω sono lo stesso verbo. E γιγνώσκω, che vale nosco,
vien certamente da νοΐσκω ec. (4. Nov. 1823.)
Alla p. 3710. Da’ verbi della 2da si fanno quelli in esco, dalla terza si
fanno in isco, così dalla quarta, come scisco; dalla prima, in asco; del che
vedi gli esempi nel pensiero precedente, ed aggiungi labasco e labascor da
labo as, e simili. In Labasco nel Forcell. trovo il nome appellativo e speciale
de’ verbi in sco. Essi si chiamano presso i grammatici, verba inchoativa. (4.
Nov. 1823.). V. p. 3830. fine.
Dico altrove che noi sogliamo cangiare l’i de’ participii latini in us,
usitati o inusitati, nella lettera u. Che questa mutazione dell’i in u
(mutazione propria della voce umana, come ho detto altrove in più d’un
luogo) ci sia naturale segnatamente in questo caso, veggasi che noi
diciamo concepito (regolare lat. ant. concepitus), e conceputo (diciamo anche
concetto, voce tolta dal latino dagli scrittori e dalla letteratura). Ma questo
secondo è più italiano ed elegante. Così empiuto, compiuto, riempiuto ec.
rispetto ad empìto, compìto (in alcuni sensi però non si potrebbe dir
compiuto per compito ma questi sono anzi forestieri che no) ec. Così forse
altri ec. Nótisi però che i grammatici distinguono empiere ec. ed empire
(meno elegante) ec.; concepere e concepire; e ad empiere danno empiuto ec., a
concepere conceputo; ad empire empìto ec. (5. Nov. 1823.)
Verbi in uo. Tribuo da tribus us; verbo della terza, siccome [3835] acuo
che forse è da acus us, statuo da status us ec. del che altrove. (5. Nov.
1823.)
[3837] Il giovane che al suo ingresso nella vita, si trova, per qualunque
causa e circostanza ed in qual che sia modo, ributtato dal mondo, innanzi
di aver deposta la tenerezza verso se stesso, propria di quell’età, e di aver
fatto l’abito e il callo alle contrarietà, alle persecuzioni e malignità degli
uomini, agli oltraggi, punture, smacchi, dispiaceri che si ricevono
nell’uso della vita sociale, alle sventure, ai cattivi successi nella società e
nella vita civile; il giovane, dico, che o da’ parenti, come spesso accade, o
da que’ di fuori, si trova ributtato ed escluso dalla vita, e serrata la strada
ai godimenti (di qualsivoglia sorta) o più che agli altri o al comune de’
giovani non suole accadere; o tanto che tali ostacoli vengano ad essere
straordinari e ad avere maggior forza che non sogliono, a causa di una
sua non ordinaria sensibilità, immaginazione, suscettibilità, delicatezza
di spirito e d’indole, vita interna, e quindi straordinaria tenerezza verso
se stesso, maggiore amor proprio, maggiore smania e bisogno di felicità e
di godimento, maggior capacità e facilità di soffrire, maggior delicatezza
sopra ogni offesa, ogni danno, ogn’ingiuria, ogni disprezzo, ogni puntura
ed ogni lesione del suo amor proprio; un tal giovane trasporta e rivolge
bene spesso tutto l’ardore e la morale e fisica forza o generale della sua
età, o particolare della sua indole, o l’uno e l’altro insieme, tutta, dico,
questa forza e questo ardore che lo spingevano verso la felicità, l’azione,
la vita, ei la rivolge a proccurarsi l’infelicità, l’inattività, la morte morale.
[3838] Egli diviene misantropo di se stesso e il suo maggior nemico, egli
vuol soffrire, egli vi si ostina, i partiti più tristi, più acerbi verso se stesso,
più dolorosi e più spaventevoli, e che prima di quella sua poca
esperienza della vita egli avrebbe rigettati con orrore, divengono del suo
gusto, ei li abbraccia con trasporto, dovendo scegliere uno stato, il più
monotono, il più freddo, il più penoso per la noia che reca, il più difficile
a sopportarsi perché più lontano e men partecipe della vita, è quello ch’ei
preferisce, ei vi si compiace tanto più quanto esso è più orribile per lui,
egl’impiega tutta la forza del suo carattere e della sua età in abbracciarlo,
e in sostenerlo, e in mantenere ed eseguire la sua risoluzione, e in
continuarlo, e si compiace fra l’altre cose in particolare
nell’impossibilitarsi a poter mai fare altrimenti, e nello abbracciar quei
partiti che gli chiudano per sempre la strada di poter vivere, o soffrir
meno, perché con ciò ei viene a ridursi e a rappresentarsi come ridotto in
uno estremo di sciagura, il che piace, come altrove ho detto, e se qualche
cosa mancasse e potesse aggiungersi al suo male, ei non sarebbe contento
ec. egl’impiega tutta la sua vita morale in abbracciare, sopportare e
mantenere costantemente la sua morte morale, tutto il suo ardore in
agghiacciarsi, tutta la sua inquietezza in sostenere la monotonia e
l’uniformità della vita, tutta la sua costanza in scegliere di soffrire, voler
soffrire, continuare a soffrire, tutta la sua gioventù in invecchiarsi
l’animo, e vivere esteriormente da vecchio, ed abbracciare e seguir
gl’istituti, le costumanze, i modi, le inclinazioni, il pensare, la vita de’
vecchi. Come tutto ciò è un effetto del suo ardore e della sua forza
naturale, egli va molto al di là del necessario: se il mondo a causa di suoi
difetti o morali o fisici, o di sue circostanze, gli nega tanto di godimento,
egli se ne toglie il decuplo; se la necessità l’obbliga a soffrir tanto, egli
elegge di soffrir dieci volte di più; se gli nega un bene ei se ne interdice
uno assai maggiore; se gli contrasta qualche godimento, egli si priva di
tutti, e rinunzia affatto al godere.
[3839] Il giovane è in queste cose così costante, risoluto, forte,
durevole, che gli educatori e quelli che han cura di lui, anche
sommamente benevoli, assai spesso e il più delle volte, stimano tali
risoluzioni e tali forme di vita essergli naturali, nascere dalle sue
inclinazioni, esser conformi al suo vero carattere, al suo vero piacere, e
però determinano di non distornelo, non impedirnelo, di confermarvelo,
di secondarlo, e così fanno, anche talora senz’alcun proprio interesse per
sola premura ed affezione verso di lui. E’ s’ingannano sommamente e in
tali casi la lor poca cognizione del cuore umano e de’ suoi mirabilissimi
accidenti, de’ fenomeni dell’amor proprio e delle sue sottilissime e
sfuggevolissime operazioni e modi di agire, e stravagantissimi effetti e
trasformazioni, nuoce grandemente a quei poveri giovani, i quali ben
potrebbero ancora, ma non senza molta forza e molto artifizio, essere
strappati a quelle dure risoluzioni, azioni e abitudini, e riconciliati con se
stessi e con la vita, vero partito che si dovrebbe prendere in tali casi da
un prudente e filosofo e pietoso curatore, e solo mezzo di svolgere il
giovane da’ tristi partiti ch’egli ha abbracciati o è per abbracciare, e di
sottrarlo dalla vera infelicità che glien’è per seguire, massime calmato il
furore e intiepidito l’ardore dell’età, che sono appunto quelli che
cagionano quella tal sua pazienza e che l’agghiacciano, e che lo sostengono
e nutrono in quella gelata, sterile, ed arida vita ch’egli ha intrapreso, o
nella risoluzione d’intraprenderla; ma poco potranno durare a
sostentarlo, e consumati o diminuiti, egli sentirà tutta [3840] la pena del
suo stato, e gli mancherà la virtù di soffrirlo, dopo impostasene la
necessità. La qual virtù manca insieme colla compiacenza ch’ei prova in
soffrire o in voler soffrire, la qual compiacenza non può essere perpetua,
e il tempo e l’età, se non altro, l’estingue. Massime ch’egli non potrà esser
consolato e reso indifferente verso le sue privazioni dal disinganno, non
avendo mai provato quello di ch’ei si privò, e non essendosene privato
per disinganno e per dispregio ch’e’ n’avesse, anzi al contrario per
inganno, perch’ei ne faceva gran conto, perché assaissimo gli costava il
privarsene. ché questa è la differenza da questa sorta di sacrifizi che or
discorriamo, e quella più facile e più nota, (perché proveniente da causa
più manifesta e facile a comprendere e a vederne la connessione
coll’effetto) e forse più ordinaria, o altrettanto, che nasce dal disinganno,
dall’esperienza de’ godimenti, dal disgusto della vita tutta felice com’ella
può essere.
Quindi accade che tali giovani i quali nella gioventù son vecchi per
lor volontà, e più fortemente vecchi de’ vecchi medesimi, perché la lor
morale vecchiezza viene a nascere appunto dalla lor gioventù fisica, e
dalla forza e ardore di questa e del loro carattere, nella maturità e nella
vecchiezza (posto che abbiano effettuato quelle loro risoluzioni) sono
moralmente giovani, e più giovani assai de’ giovani stessi che abbiano
fatta un poco di esperienza, o che sieno di men fervida e sensitiva natura.
Perché questi sono in parte disingannati, o meno avidi e smaniosi del
godimento. Quelli continuano e serbano tutto intero e fresco il loro
inganno giovanile [3841] e le loro illusioni, e come frutta l’inverno,
conservate nella cera, state sempre escluse dal contatto dell’aria, sotto la
vecchiezza del corpo conservano quasi intatta ed intera la gioventù
dell’anima (mantenuta lungi dall’influenza esteriore ec. nel ritiro ec.) già
vera gioventù, perché cessata la gioventù del corpo che li spingeva a
soffrire, e ne li facea compiacere, e gliene dava il valore. Questi tali, bene
attempati, sono smaniosi del godimento, avidi e sitibondi della felicità
senza sperarla, ma ben persuasi, come da principio, ch’ella sia possibile e
non difficile nè rara, hanno ripreso i desiderii proprii dell’uomo, e
massime della gioventù, con tutto il loro ardore ec. Quindi e’ vivono e
muoiono disperati e infelici, tanto più quanto e’ credono felici gli altri, e
che la loro infelicità, il lor soffrire, il loro non godere, o il non aver mai
goduto e sempre sofferto, sia provenuto da loro, e ch’essi avessero potuto
altrimenti se avessero voluto; la quale opinione e il qual pentimento è la
più amara parte che possa trovarsi in qualunque abituale o attuale
infelicità o sventura o privazione ec. e il colmo dell’infelicità.
Spettano a questo discorso e nascono dalle psicologiche cagioni e
principii, e dagl’interni avvenimenti e circostanze sviluppate di sopra,
gran parte delle monacazioni ec. di giovani, e lo sceglier di vivere in casa
o in campagna, e i ritiri dalla società ec. fatti nel principio della gioventù,
massime da persone vive e sensibili ec. e resi poi necessarii a continuarsi,
per l’abitudine, per li rispetti umani, per l’imperizia, che ne segue, del
conversare, per il timor [3842] panico dell’opinione, del ridicolo ec. che
suole accompagnare lo straordinario, la novità, il cominciare, il mutar
proposito e vita in tempo, in età non conveniente, non ordinaria al
cominciare, o al nuovo proposito e vita per se medesima ec. ec. (5. Nov.
1823.)
Alla p. 2779. marg. fine. Che βούλω attivo esistesse una volta
confermasi con argomento non solo di analogia, ma di fatto; cioè che
boælomai trovasi anche usato in senso passivo. Dunque s’egli è passivo,
ei dovette nascere da un attivo, ed avere il suo attivo onde egli fosse il
passivo. Vedi Creuzer Meletemata e disciplina antiquitatis, par.2. Lips.
1817. p.55. fin.-56. init. (6. Nov. 1823.)
Alla p.3705. marg. Così sino is fa nel perfetto sivi. Ma [3849] notisi che
il primo i quivi è breve, al contrario di quelle voci di cui or discorriamo,
cioè de’ perfetti di cresco, suesco ec. ed anche di sevi e di crevi da cerno.
Sterno is stravi atum. Quest’anomalia forse viene che sterno è difettivo, e
supplito coll’avanzo di un antico stro as dall’inusitato στρώω, onde
στρώσω, ἔστρώσα ec. Simile dico de’ composti prosterno, insterno ec. Le
lettere vocali che precedono il vi ne’ perfetti delle altre coniugazioni sono
sempre per lor natura lunghe (eccetto forse alcune anomalie), dico quelle
che lo precedono regolarmente, cioè l’a nella prima, l’e nella seconda, l’i
nella quarta (perocché p.e. fovi, cavi da foveo, caveo sono contrazioni di
fovevi, cavevi, sicché non regolarmente il vi è preceduto in fovi dall’o, in
cavi dall’a: per altro l’a e l’o di queste e simili voci, sono altresì lunghi).
Insomma la desinenza di sivi non è veramente propria della 3. ma
neanche di verun altra coniugazione. Al contrario di quella de’ perfetti
de’ verbi in sco, i quali se sono in vi, la vocale che precede questa
desinenza, è sempre (credo) lunga. Cosa affatto impropria della 3. e
chiaro segno che tali perfetti sono propri di verbi d’altre coniugazioni. (8.
Nov. 1823.). V. p. 3852.
Monosillabi latini. Lax. Mors, onde morior ec. ec. idee ben primitive.
Ius, onde iuro, iniuria ec. ec. tutte idee primitive nella società. Or la lingua
non antecedette la società. Fraus. Res. (8. Nov. 1823.)
Nuo di cui altrove, oltre il suo continuativo nutare, e i suoi composti,
annuo, innuo, renuo, abnuo ec. e loro continuativi adnuto, [3850] renuto ec.,
è dimostrato ancora sì dagli altri suoi derivati, sì dal verbale nutus us,
ch’è fatto dal supino di nuo, secondo la regola altrove assegnata della
formazione di tali verbali della 4. declinazione. Del resto, come da neæv
si fece indubitatamente nuo, così da γεύω potè bene e verisimilmente e
secondo l’analogia, farsi guo, di cui altrove. E viceversa nuo da νεύω
come guo da γεύω. ec. (8. Nov. 1823.)
[3851] Alla p. 3758. marg. Se non si volesse che nubi-lis, labi-lis, fossero
come doci-lis facilis ec. de’ quali verbali in lis, loro formazione ec. mi par
che si possa discorrere come di quelli in bilis, e però trarne gli stessi
argomenti ec. (10. Nov. 1823.)
Participii passivi di verbi attivi o neutri, in senso attivo o neutro ec.
Ho detto altrove dello spagn. parida participio sovente (o sempre; v. i
Diz.) attivo intransitivo di senso. Simili ne abbiamo ancor noi parecchi, e
molto elegantemente gli usiamo, in luogo de’ participii veramente attivi
di forma, il cui uso è poco grato alla nostra lingua, non altrimenti che alla
francese e spagnuola. Uomo considerato, avvertito, avvisato vagliono
considerante, avvertente ec. cioè che considera ec. veri attivi di significato,
benché intransitivi. Simili credo che si trovino ancora nel francese e più
nello spagnuolo che se ne servono parimente in luogo de’ participii di
forma attiva poco accetti a esse lingue. 210 La detta sorta di participii
passivi attivati, fatti da’ verbi attivi ec. (ed infatti essi o sempre o per lo
più, hanno ancora il proprio lor significato, cioè il passivo) è
massimamente usata da’ nostri antichi del 300. e del 500. che ne hanno in
molto più copia che noi oggidì non sogliamo usare o punto, o solo in
senso passivo. La nostra lingua somigliava anche in questo alla
spagnuola la quale mi pare che anche oggidì conservi quest’uso più
[3852] frequente che non facciam noi, accostatici ora ai francesi, a’ quali
esso è men frequente che agli altri, siccome esso pare singolarmente
proprio della lingua spagnuola ec. ec. (10. Nov. 1823.)
Alla p. 3636. marg. Forse però fourre valeva fodera, e quindi fourreau,
quasi foderetta, per fodero, onde il diminutivo sarebbe d’un senso distinto
dal positivo, e però non apparterrebbe al nostro discorso che considera i
diminutivi usati in iscambio de’ positivi. (10. Nov. 1823.)
Diminutivi positivati. Ladrillo (diminutivo ladrillejo) con tutti i suoi
derivati da later, quasi latericulus, o laterculus. E vedi appunto il Forc.
circa l’uso positivato di laterculus. (10. Nov. 1823.)
Quello che noi chiamiamo spirito nei caratteri, nelle maniere, ne’ moti
ed atti, nelle parole, ne’ motti, ne’ discorsi, nelle azioni, negli scritti e stili
ec. ci piace, e ciò a tutti, perch’egli è vita, e desta sensazioni vive sotto
qualche rispetto, o desta sensazioni qualunque, e molte, e spesse, il che è
cosa viva, perché il sentire lo è. Infatti lo spirito si chiama anche vivacità
ec. o semplicemente, o vivacità di spirito, di carattere, stile, modi ec. ec. Il
suo contrario in certo modo è morte, e non desta sensazioni, o poche,
leggere, [3855] non rapide, non varie, non rapidamente succedentisi e
variantisi, il che è cosa morta. Noi lo chiamiamo spirito perché siamo
soliti di considerar la vita come cosa immateriale, e appartenente a cose
non materiali, e di chiamare spirito ciò ch’è vivo e vive e cagiona la vita
ec.; e la materia siamo soliti di considerarla come cosa morta, e non viva
per se, nè capace di vita ec. (10. Nov. ottava del dì de’ Morti. 1823.)
Accade nelle lingue come nella vita e ne’ costumi; e nel parlare come
nell’operare, e trattare con gli uomini (e questa non è similitudine, ma
conseguenza). Nei tempi e nelle nazioni dove la singolarità dell’operare,
de’ costumi ec. non è tollerata, è ridicola ec. lo è similmente anche quella
del favellare. E a proporzione che la diversità dall’ordinario, maggiore o
minore, si tollera o piace, ovvero non piace, non si tollera, è ridicola ec.
più o meno; maggiore o minore o niuna diversità piace, dispiace, si
tollera o non si tollera nel favellare. Lasceremo ora il comparare a questo
proposito le lingue antiche colle moderne, e il considerare come
corrispondentemente [3864] alla diversa natura dello stato e costume
delle nazioni antiche e moderne, e dello spirito e società umana antica e
moderna, tutte le lingue antiche sieno o fossero più ardite delle moderne,
e sia proprio delle lingue antiche l’ardire, e quindi esse sieno molto più
delle moderne, per lor natura, atte alla poesia; perocché tra gli antichi,
dove e quando più, dove e quando meno, ηὐδοκίµει la singolarità
dell’opere, delle maniere, de’ costumi, de’ caratteri, degl’istituti delle
persone, e quindi eziandio quella del lor favellare e scrivere. La nazion
francese, che di tutte l’altre sì antiche sì moderne, è quella che meno
approva, ammette e comporta, anzi che più riprende ed odia e rigetta e
vieta, non pur la singolarità, ma la nonconformità dell’operare e del
conversare nella vita civile, de’ caratteri delle persone ec.; la nazion
francese, dico, lasciando le altre cose a ciò appartenenti, della sua lingua
e del suo stile; manca affatto di lingua poetica, e non può per sua natura
averne, perocché ella deve naturalmente inimicare e odiare, ed odia
infatti, come la singolarità delle azioni ec. così la singolarità del favellare
e scrivere. Ora il parlar poetico è per sua natura diverso dal parlare
ordinario. Dunque esso ripugna per sua natura alla natura della società e
della nazione francese. E di fatti la lingua francese è incapace, non solo di
quel peregrino che nasce dall’uso di voci, modi, significati tratti da altre
lingue, [3865] o dalla sua medesima antichità, anche pochissimo remota,
ma eziandio di quel peregrino e quindi di quella eleganza che nasce
dall’uso non delle voci e frasi sue moderne e comuni, cioè di metafore
non trite, di figure, sia di sentenza, sia massimamente di dizione, di
ardiri di ogni sorta, anche di quelli che non pur nelle lingue antiche, ma
in altre moderne, come p.e. nell’italiana, sarebbero rispettivamente de’
più leggeri, de’ più comuni, e talvolta neppure ardiri. Questa incapacità
si attribuisce alla lingua; ella in verità è della lingua, ma è acora della
nazione, e non per altro è in quella, se non perch’ella è in questa. Al
contrario la nazion tedesca, che da una parte per la sua divisione e
costituzion politica, dall’altra pel carattere naturale de’ suoi individui,
pe’ lor costumi, usi ec. per lo stato presente della lor civiltà, che siccome
assai recente, non è in generale così avanzata come in altri luoghi, e
finalmente per la rigidità del clima che le rende naturalmente propria la
vita casalinga, e l’abitudine di questa, è forse di tutte le moderne nazioni
civili la meno atta e abituata alla società personale ed effettiva;
sopportando perciò facilmente ed anche approvando e celebrando, non
pur la difformità, ma la singolarità delle azioni, costumi, caratteri, modi
ec. delle persone (la qual singolarità appo loro non ha pochi nè leggeri
esempi di fatto, anche in città e corpi interi, come in quello de’ fratelli
moravi, e in altri molti istituti ec. ec. tedeschi, che per verità non hanno
[3866] punto del moderno, e parrebbero impossibili a’ tempi nostri, ed
impropri affatto di essi), sopporta ancora, ed ammette e loda ec. una
grandissima singolarità d’ogni genere nel parlare e nello scrivere, ed ha
la lingua, non pur nel verso, ma nella prosa, più ardita per sua natura di
tutte le moderne colte, e pari in questo eziandio alla più ardita delle
antiche. La qual lingua tedesca per conseguenza è poetichissima e capace
e ricca d’ogni varietà ec. (11. Nov. 1823.)
Alla p. 3873. marg. - e non contratti. Come venio is veni. [3876] Perde
spesso la i, come in venerunt, veneram ec. per venierunt venieram ec. che
sarebbe il regolare; o ciò sia anomalia, o contrazione, ch’io piuttosto
credo. La qual contrazione ha principio nella stessa prima voce del
perfetto veni per venii. Anzi da questa nasce il tutto ec. Così ne’ composti,
come invenio ec. e in altri molti verbi. (13. Nov. 1823.). V. p.3895.
Alla p. 3715. Sono molte volte che la noia è un non so che di più vivo,
che ha più sembianza perciò di passione, e quindi avviene che non sia
sempre in tali casi chiamata noia, benché filosoficamente parlando, ella lo
sia, consistendo in quel medesimo in cui consiste quel che si chiama noia,
cioè nel desiderio di felicità lasciato puro, senza infelicità nè felicità
positiva, e differendo solo nel grado da quella che noia comunemente è
chiamata. E differisce nel grado, in quanto ell’è noia, in certo modo più
intensa, sensibile e viva, qualità che l’avvicinano all’infelicità così
chiamata positivamente, e che paiono poco convenevoli [3880] alla noia.
Ella infatti, benché del genere stesso, è più passione è più penosa, che la
noia, così comunemente chiamata, non è. Ed è tale perch’ella nasce e
consiste in un desiderio più vivo, e al tempo stesso ugualmente vano.
Questa sorta di passione è quella che provano generalmente i giovani
quando sono in istato di non piacere e non dispiacere. Essi sono poco
capaci della noia comunemente detta. Essi sono poco capaci di trovarsi
giammai senza un’attuale, ancorché indeterminata passione, 216 più viva
d’essa noia, perché il loro amor proprio, e quindi il lor desiderio di
felicità e di piacere, ugualmente vano che nell’altre età, è molto più vivo,
generalmente parlando. Incapaci di noia comunemente detta, benché
privi di piacere e dispiacere, sono ancora similmente quegli stati
dell’individuo, di cui ho detto p. 3835-6. 3876-8. e simili. Altresì lo stato
di desiderio presente e vivo determinato a qual si sia cosa; benché privo
anche questo stato, di piacere e dispiacere positivo ec. E così discorrendo.
Questa sorta di passione, diversa dalla noia comunemente detta, ma
dello stesso genere ec., questa ancora io voglio comprendere sotto il
nome di noia, e ad essa ancora si deve intendere ch’io abbia riguardo
quando affermo che la noia corre immancabilmente e immediatamente a
riempiere qualunque vuoto lasciato dal piacere o dispiacer così detto ec.
e che l’assenza dell’uno e dell’altro è noia per sua natura, e che
mancando essi, v’è la noia necessariamente, e che posta tal mancanza è
posta la noia ec. come alle p. 3713-5. (13. Nov. 1823.)
[3881] Come fra gli antichi le cose e funzioni sacre fossero in mano de’
profani ec. del che altrove, vedi la Polit. di Aristotele, l.6. fine, Florent.
1576. p.543. massime in fine, e quivi il Vettori. (14. Nov. 1823.)
Alla p. 3588. marg. Di ciò che io, sapendo essere vostro servitio, SENZA
ALTRI VOSTRI COMMANDAMENTI era tenuto di fare. Cioè senz’alcun vostro
comandamento, di proprio moto. Bernardo Tasso Lettere. Venetia 1603.
appresso Lucio Spineda. Libro primo car. 27. pag. 2. in 8vo piccolo. (17.
Nov. 1823.)
[3886] Altrove osservo che il cul de’ latini si cangia assai sovente
nell’italiano in chi o cchi (o-cu-lus, o-cchi-o) o gli (pe-ri-cul-um, peri-gli-o),
nello spagnuolo in i (o-cu-lus, oj-o) nel francese in ill o il o eil o eill o ail o
aill ec. (péril, abeille, vermeil, ouaille, o-cul-us, o-eil ec.). Nótisi che tali
cangiamenti non sono certo direttamente stati fatti da cul, ma da cl
contratto nella volgar pronunzia latina, come si vede anche non di rado
nel latino illustre e scritto, massime appo i poeti; come seclum, periclum
ec. (17. Nov. 1823.)
[3887] Alla p. 3856. L’Italia produsse nel 500 ec. molti capitani illustri,
come il Trivulzio, il Montecuccoli ec. sia che questi servissero alle loro
rispettive nazioni italiane, o ad altra nazione italiana diversa dalla
propria, come la Repubblica di Venezia spesso conduceva Generali
italiani d’altri stati, a comandar le sue forze di terra o di mare; o a
principi stranieri, i quali in quel tempo si servirono spessissimo di
Generali e uffiziali italiani pel governo de’ loro eserciti, conducendoli,
anche con grossi partiti, al loro servizio. Del che è curiosa a leggere
un’osservazioncella di Bernardo Tasso, Lettere citate qui dietro (p. 3885.
fine), lib.1. car.29. e tutta quella lettera. Similmente dico de’ politici e
ministri ec. italiani, e negoziatori italiani ec. di quel secolo, e anche de’
seguenti, fino agli ultimi tempi, in cui siamo veramente arrivati
all’estremo della nullità politica, e passività, ed incapacità di ogni sorta di
operazione, o certo totale inazione di fatto, sì in casa sì fuori. Come il
Mazarino, l’Alberoni, il Bentivoglio, ed anche il Lucchesini ec. Il dominio
della religione ai tempi passati, e fino alla rivoluzione, (benché sempre
decrescente, ma non estinto fino ad essa rivoluzione) ma specialmente
prima del 600, e per conseguenza il credito, l’influenza, e l’importanza
del Papa e della Corte di Roma, contribuirono grandemente, e forse,
massime in certi tempi, principalmente, a tener l’Italia in azione, a darle
campo di esercitarsi nella politica e negli affari, materia e modo di
negoziare, importanza e peso, negoziatori, diplomatici, politici, uomini
che ebbero parte attiva negli avvenimenti e ne’ destini d’Europa, e i cui
nomi divennero propri della storia. [3888] Sia nelle materie strettamente
religiose, che allora erano strettamente legate colle politiche, e di grande
importanza temporale, sia nelle materie anche puramente politiche,
gl’italiani ebbero allora dalla religione grandi e continue opportunità
occasioni e necessità di agire e di pensare. Quanta politica ec. non fu
dovuta mettere in opera dagl’italiani nel Concilio di Trento e in tutti gli
affari del Luteranismo, Calvinismo ec. Grandi negoziazioni e trattative e
maneggi e grandi e gravi affari furono allora operati dagl’italiani, o da
una Corte italiana, qual era quella del Papa, e da membri che ad una
corte italiana appartenevano; e tra questi brillarono non pochi politici ec.
Cardinali e nunzi e prelati e Vescovi ec. potenti appo i forestieri ec.
Negoziazioni ec. degli stranieri appo noi, che conservavano l’uso e
l’esercizio della politica e degli affari in casa nostra ec. ec. Questa causa
di azione e di qualche vita per l’Italia non si ristringeva ne’ suoi effetti
alla sola politica, diplomatica, affari pubblici. Naturalmente i suoi effetti
si stendevano a tutte le parti della società e del civile consorzio. V’era
una vita in Italia. Or dunque tutte le parti della nazione e della società ne
partecipavano, come suole accadere. Quindi lo splendor delle arti, le
grandi imprese di edifizi ec. massime in Roma, sede della più importante
politica italiana ec. la chiesa di S. Pietro, le scolture, le pitture, le poesie,
le orazioni, le storie, il secolo di Leon X, la industria, il commercio ec.
Massime nel 500. ma dipoi ancora, fino alla rivoluzione, [3889] Roma
riunendo e ponendo in azione gli spiriti di conto sì propri, sì italiani, sì
forestieri, e dando materia agl’ingegni di svilupparsi, e occasione ai già
sviluppati di concorrere ad essa e quivi esercitarsi, stante l’esser sede
d’importanti affari; ebbe spirito di società, e conversazioni ec. sempre
decrescenti, fino ad estinguersi, ma pur non estinte affatto fino agli
ultimi anni. ec. ec. (17. Nov. 1823.)
Non solo aggettivi si son fatti da’ participii in us, come altrove più
volte, ma spessissimo essi participii son passati in sostantivi, come
factum, actum, iussum ec. ec. Onde anche da tali sostantivi si può talora
argomentare e de’ veri participii, e dell’esistenza di verbi ignoti, di cui
questi sostantivi saranno stati originalmente participii, benché or non si
sappia, ec. ec. (22. Nov. 1823.)
Voce comune alle tre lingue: Ciabatta, zapato, savate (è noto che il
nostro c molle, in ispagnuolo è z, in francese vale s), savaterie, savetier,
zapatero, ciabattino, acciabattare ec. ec. Anche le metafore di tali voci, come
di saveter e acciabattare, di ciabattino e savetier per mauvais ouvrier ec. ec.
sono conformi, almeno tra l’italiano e il francese, giacché il significato di
ciabatta, savate, zapato, benché simile, è alquanto diverso nello spagnuolo
ec. (23. Nov. Domenica. 1823.)
Alla p. 3851. marg. Anche tra noi però avvisato per prudente, può
essere participio di avvisarsi, verbo reciproco, o neutro passivo, in senso
di avvedersi ec., e in tal caso non apparterrebbe al nostro discorso, niente
più di quello che gli appartenga appunto avveduto di avvedersi (che vale
lo stesso che avvisato), accorto di accorgersi (che vale altresì lo stesso: dico
aggettivamente presi accorto, avveduto, avvisato), e gli altri participi de’
neutri passivi o reciprochi. (23. Nov. 1823.)
Alla p. 2843. Che inceptare in questo senso d’incettare, cioè [3901] come
composto di capto, non sia alieno dall’antica latinità, secondo che ho
detto in una delle pagg. citate in quella a cui questo pensiero appartiene,
me lo persuade eziandio il vedere che detto senso è tutto latino, e alla
latina ec. e quasi è lo stesso che quello del semplice captare, se non che è
determinato ad un certo modo di far quello che si denota col verbo
captare. Del resto che la mutazione dell’a in e ne’ composti, e l’altre tali,
usitate regolarmente nell’antico e buon latino, fossero trascurate ne’
composti de’ tempi bassi e delle lingue moderne, ne può essere una
prova appunto accattare (acheter). Vedi Glossar. in accaptare. 221 (23. Nov.
1823.)
Simile esempio a quello di traer usato talora dagli spagnuoli nel senso
di tractare, come nel primo principio della mia teoria de’ continuativi, si è
quello di affecter spesso usato da’ francesi nel significato stesso (o simile)
di afficere. V. Forcell. in affecto fin. e inaffector aris; il Gloss., gli spagn. ec.
(23. Nov. 1823.)
Alle cose dette altrove in più luoghi sopra il g protetico dei latini
avanti la n, aggiungi gnatus, participio o aggettivo, e sostantivo, e gnatula,
e v. Forcell. in queste voci. (23. Nov. 1823.)
Al detto altrove sopra l’uso dello spagn. luego simile a quello che i
greci fanno degli avverbi significanti statim ec. aggiungi un esempio di
Aristot. Polit. l. 8. Florent. 1576 p. 615. princip. 652. fine. p. 675. fine,
εὐϑὺς γὰρ ec. male inteso dal Vettori in tutti i tre luoghi, in un de’ quali
ridonda. (23. Nov. Domenica. 1823.)
[3902] Andare per essere del che altrove. Petr. Sestina 1 verso penult. E
‘l giorno andrà (sarà) pien di minute stelle Prima ch’ec. (24. Nov. dì di San
Flaviano. 1823.)
Monosillabi latini. Lac: idea primitiva ec. Gr. γάλα γάλακτος, dalla
qual voce gli etimologi derivano la latina. (24. Nov. 1823.)