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LEGISLAZIONE SCOLASTICA

L’AUTONOMIA SCOLASTICA E L’OFFERTA FORMATIVA

La nostra Costituzione dedica alcuni articoli all’istruzione poiché la scuola è considerata


ponte di passaggio tra la famiglia e la società.
Art. 9, comma 1: “La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica
e tecnica”.
Art. 33: “L’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento. La Repubblica detta le
norme generali sull’istruzione e istituisce scuole statali per tutti gli ordini e gradi. È prescritto
un esame di Stato per l’ammissione ai vari ordini e gradi di scuole o per la conclusione di essi
e per l’abilitazione all’esercizio professionale”.
Art. 34: “La scuola è aperta a tutti. L’istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è
obbligatoria e gratuita. I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di
raggiungere i gradi più alti degli studi. La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse
di studio, assegni alle famiglie e altre provvidenze”.
Nel comma 1 dell’art. 33 si specifica ulteriormente che la libertà di insegnamento dei docenti
si estrinseca nella libertà di manifestare il proprio pensiero, libertà di professare qualunque
tesi o teoria degne, libertà di svolgere il proprio insegnamento secondo il metodo opportuno.
Art. 1 del Testo unico istruzione D.Lgs 297/1994: la libertà nell’insegnamento si manifesta
nella cosiddetta autonomia didattica. Ai docenti è garantita la libertà d’insegnamento intesa
come autonomia didattica e come libera espressione culturale del docente. L’esercizio di tale
libertà è diretto a promuovere la piena formazione della personalità degli alunni.
L’insegnamento, inoltre, deve sempre osservare il rispetto del buon costume, dell’ordine
pubblico e della pubblica incolumità.
L. 62/2000 (Legge sulla parità scolastica): riconosce, garantisce e istituisce un sistema
nazionale di istruzione a carattere misto costituito da scuole statali e da scuole gestite da
privati o da enti locali col riconoscimento della parità (scuole paritarie).
Strettamente collegata alla libertà d’insegnamento è la libertà d’istruzione. Il diritto
all’istruzione si identifica come potere-dovere di ogni cittadino di frequentare i gradi
dell’istruzione obbligatoria e gratuita, nonché di accedere ai gradi più alti degli studi, anche
se privo di mezzi ma capace e meritevole. Il diritto allo studio, infatti, si colloca nel novero
dei diritti fondamentali dell’uomo. E’, quindi, compito della Repubblica garantire l’estensione
a tutti dell’offerta d’istruzione, realizzando così la vera eguaglianza sociale sancita dall’art.
3 Cost.
D.Lgs. 76/2005: A partire dal comma 1 dell’art. 34, che prevede l’istruzione obbligatoria e
gratuita per otto anni, si attua, sulla scia della Riforma Moratti, con il D.Lgs. n. 76 del 15

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aprile 2005 per il quale l’obbligo scolastico poteva essere ridefinito e ampliato come diritto
all’istruzione e formazione e correlativo dovere per almeno dodici anni.
L. 296/2006: con questa legge, l’obbligo scolastico previsto dalla Costituzione è stato
innalzato di due anni e così portato a dieci anni. In tal modo, fino al sedicesimo anno di età è
obbligatorio frequentare la scuola. Tra i sedici e i diciotto è possibile completare il percorso
in una scuola, nella formazione professionale regionale o nell’apprendistato. L’art. 7
predispone inoltre una sanzione per gli eventuali inadempimenti al dovere di istruzione e
formazione. Responsabili dell’adempimento vengono considerati i genitori dei minori o
coloro che ne fanno le veci, con l’obbligo per entrambi di iscrivere i minori alle istituzioni
scolastiche o formative. Alla vigilanza sull’adempimento del dovere di istruzione e
formazione devono provvedere: il Comune (il Sindaco), i Dirigenti scolastici e i servizi per
l’impiego.
Diverso dal diritto di istruzione, previsto dal comma 1 dell’art. 34 Cost., è il diritto allo
studio. Gli interventi dello Stato per garantire il diritto allo studio concernono sia la scuola
che l’università (sostegni economici, servizi e agevolazioni varie).
D.Lgs. 63/2017: uno dei più recenti interventi finanziari statali è il D.Lgs. 13 aprile 2017, n.
63, il cui scopo è garantire su tutto il territorio nazionale l’effettività del diritto allo
studio degli alunni del sistema nazionale di istruzione e formazione, statale e paritario, fino
al completamento di tutto il percorso di istruzione secondaria di secondo grado. A tal fine è
stato istituito il Fondo unico per il welfare dello studente e per il diritto allo studio.
Leggi Bassanini: negli anni Novanta, si avvia un processo riformatore di modernizzazione
della pubblica amministrazione, portato avanti da una serie di provvedimenti (leggi
Bassanini) promossi dall’allora ministro della funzione pubblica, Franco Bassanini. Con tali
leggi si realizzò una radicale riforma del sistema amministrativo volta a creare
amministrazioni più efficienti, snelle e capaci di dare servizi di maggiore qualità.
L. 59/1997: la legge n. 59 del 15 marzo 1997 (prima Legge Bassanini) proietta il processo
autonomistico delle istituzioni scolastiche e degli istituti educativi nel più ampio contesto
della riorganizzazione dell’intero sistema formativo.
L. 53/2003 (Riforma Moratti): delinea una compiuta e organica riforma della scuola. Si
stabilisce una nuova articolazione degli studi scanditi in: scuola dell’infanzia (3 anni, non
obbligatoria e anticipabile); primo ciclo (scuola primaria di cinque anni e scuola secondaria
di primo grado di tre anni) con esame di Stato alla fine del ciclo; secondo ciclo (sistema dei
licei – durata 5 anni – e sistema dell’istruzione e della formazione professionale – 3+1 anni)
ed esame di Stato. Si istituiscono nuovi licei (economico, tecnologico, musicale, linguistico,
delle scienze umane). Si istituisce l’alternanza scuola/lavoro, un percorso alternativo
riservato ai giovani compresi nella fascia d’età dai 15 ai 18 anni, per assicurare loro
l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro. Si istituisce l’Istituto
nazionale di valutazione con il compito di monitorare con verifiche nazionali la qualità
complessiva dell’offerta formativa e dei livelli degli apprendimenti per valutare il livello
culturale degli studenti.

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Riforma Gelmini (L. 133/2008 + L. 169/2008): si tratta di varie leggi e decreti emanati tra
il 2008 e il 2011. Tra le varie modifiche introdotte si segnalano: 1) la reintroduzione del
maestro unico nella scuola primaria; 2) la reintroduzione dei voti da 1 a 10 nel primo ciclo
di istruzione; 3) l’innalzamento dell’obbligo scolastico fino a 16 anni; 4) l’introduzione delle
Indicazioni nazionali degli obiettivi specifici di apprendimento, atte a definire le Linee-guida
delle conoscenze fondamentali che lo studente dovrebbe possedere al termine del proprio
percorso di studi; 5) il riordino di istituti professionali, istituti tecnici e licei.
L. 107/2015 (Riforma della “Buona scuola”): la legge della “Buona scuola”contiene
disposizioni che incidono su aspetti cruciali della scuola. Il provvedimento reca alcune
importanti modifiche al sistema scolastico, tra cui: 1) la programmazione triennale
dell’offerta formativa (PTOF), che comporta anche eventuali modifiche di tipo
organizzativo della scuola, come l’apertura pomeridiana delle stesse; 2) il rafforzamento del
collegamento tra scuola e mondo del lavoro (si prevede la durata minima dei percorsi di
alternanza scuola-lavoro negli ultimi tre anni della scuola secondaria di secondo grado e la
possibilità di stipulare convenzioni con ordini professionali); 3) l’adozione del nuovo Piano
nazionale scuola digitale; 4) l’organico dell’autonomia, che è costituito dai posti comuni,
per il sostegno e per il potenziamento dell’offerta formativa; 5) è stato previsto un piano
straordinario di assunzioni del personale docente; 6) l’istituzione del Portale unico dei dati
aperti della scuola.
Il PTOF prende il posto del vecchio Piano dell’offerta formativa (POF), predisposto per
ciascun anno scolastico. Il Piano può essere rivisto annualmente. Il PTOF indica: 1) il
fabbisogno di posti comuni e di sostegno dell’organico dell’autonomia; 2) il fabbisogno dei
posti per il potenziamento dell’offerta formativa; 3) il fabbisogno di posti del personale ATA;
4) il fabbisogno di infrastrutture e di attrezzature, e i piani di miglioramento dell’istituzione
scolastica. È elaborato dal Collegio dei docenti, sulla base delle scelte di gestione e
amministrazione definiti dal dirigente scolastico. Infine, viene approvato dal Consiglio di
circolo o di istituto ed è pubblicato sul sito della scuola.
Comma 28, L. 107/2015 (Curriculum dello studente): le scuole secondarie di II grado nel
PTOF introducono insegnamenti opzionali nel secondo biennio e nell’ultimo anno. Tali
insegnamenti costituiscono parte del percorso dello studente e sono inseriti nel curriculum
dello studente, che ne individua il profilo associandolo a un’identità digitale e raccoglie tutti
i dati utili anche ai fini dell’orientamento e dell’accesso al mondo del lavoro.
Commi 127-129, L. 107/2015 (Comitato per la valutazione dei docenti): il comma 127
prevede che il dirigente scolastico possa attribuire un bonus di retribuzione accessoria per
valorizzare il merito dei docenti di ruolo delle scuole di ogni ordine e grado sulla base dei
criteri individuati dal Comitato per la valutazione dei docenti, come stabilito nel comma
129. Il Comitato agisce valutando i docenti sulla base dei seguenti criteri: 1) qualità
dell’insegnamento e del miglioramento apportato alla scuola; 2) risultati ottenuti dai docenti
in relazione al potenziamento delle competenze degli alunni; 3) responsabilità assunte nel
coordinamento organizzativo.

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Art. 21, L. 59/1997 (Autonomia scolastica): contenuto nella Legge Bassanini, l’articolo era
rappresentato dalla codificazione dei principi di autonomia organizzativa e didattica al fine
di organizzare l’offerta di servizi didattici diversi, introdurre nuove tecnologie e predisporre
corsi extracurricolari finalizzati sia a raccordare la formazione scolastica dello studente con
il mondo del lavoro, sia ad attribuire un’istruzione agli adulti. Il processo autonomistico delle
istituzioni scolastiche avviatosi con la legge 59/1997 è stato seguito dal D.P.R. 275/1999 e
dalla L. cost. 3/2001. A tale riguardo le singole scuole e le loro reti hanno facoltà di prendere
decisioni autonome in materia didattica, organizzativa e di sperimentazione, ricerca e
sviluppo.
Art. 4, D.P.R. 275/1999 (Autonomia didattica): 1) rimodulare il monte ore annuale di
ciascuna disciplina; 2) programmare percorsi formativi specifici; 3) organizzare iniziative di
recupero e sostegno nonché di orientamento scolastico e professionale; 4) ampliare l’offerta
formativa; 5) attivare percorsi didattici individualizzati per alunni stranieri, svantaggiati,
disabili, etc.; 6) definire diverse modalità e criteri di valutazione.
Art. 5, D.P.R. 275/1999 (Autonomia organizzativa): 1) ciascuna istituzione scolastica può
diversificare le modalità di impiego dei docenti nelle varie classi e sezioni; 2) è concessa alle
scuole la possibilità di modificare il calendario scolastico; 3) è concessa un’organizzazione
flessibile nell’orario del curricolo in non meno di 5 giorni la settimana. Inoltre, esso prevede
l’apertura pomeridiana delle scuole, la riduzione del numero di alunni e studenti per classe e
la rimodulazione di gruppi di classi con potenziamento del tempo scolastico.
Art. 6, D.P.R. 275/1999 (Autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo): le istituzioni
scolastiche esercitano l’autonomia di ricerca, sperimentazione e sviluppo tenendo conto delle
esigenze del contesto culturale, sociale ed economico delle realtà locali. Si dà così alle scuole
la possibilità di fare ricerca e sperimentazione didattica permanente.
Art. 21, L. 59/1997 (Autonomia finanziaria): le istituzioni scolastiche godono di
autonomia contabile, amministrativa e di bilancio. Le risorse assegnate dallo stato sono
utilizzate per lo svolgimento delle attività di istruzione, di formazione di orientamento. La
scuola gode anche di autonomia negoziale, in quanto il Dirigente scolastico può chiedere
finanziamenti, accendere mutui, accettare eredità, acquistare e vendere immobili, etc.
Art. 7, D.P.R. 275/1999 (Reti di scuole): le istituzioni scolastiche possono promuovere
accordi di rete per il raggiungimento delle proprie finalità istituzionali al fine di potenziare le
attività didattiche, di ricerca, sperimentazione e sviluppo, di formazione e aggiornamento, di
amministrazione e contabilità, di acquisto di beni e servizi, di organizzazione. L’organo
competente per la deliberazione di tali accordi è il Consiglio d’istituto. Esso deve essere
approvato anche dal Collegio dei docenti delle singole scuole interessate.

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GLI ORDINAMENTI DIDATTICI E LA CONTINUITA’ EDUCATIVA

Scuola secondaria di primo grado: ha il compito di assicurare ad ogni allievo il


consolidamento delle padronanze strumentali (lettura, scrittura, matematica, lingue) e della
capacità di apprendere, nonché un adeguato livello di conoscenze e competenze. La frequenza
è obbligatoria. Le classi sono costituite di norma da un numero minimo di 18 a un numero
massimo di 27 alunni. Qualora si formi una sola classe prima, gli alunni possono essere 30.
Le classi che accolgono alunni con disabilità sono costituite, di norma, con non più di 20
alunni. L’orario annuale obbligatorio delle lezioni è di complessive 990 ore, corrispondente
a 29 ore settimanali, più 33 ore annuali da destinare ad attività di approfondimento su materie
letterarie, per un totale di 30 ore settimanali. Nel tempo prolungato il monte ore è di 36 ore
settimanali, elevabili fino a 40.
Scuola secondaria di secondo grado: costituisce, a partire dalla L. 53/2003 (Riforma
Moratti), il secondo ciclo dell’istruzione ed ha finalità di preparare lo studente agli studi
universitari nonché a fornirgli un’adeguata preparazione per il mondo del lavoro. Dal 1°
settembre 2010 è entrata in vigore la riforma complessiva del secondo ciclo d’istruzione ad
opera dei regolamenti emanati nel marzo 2010 (Riforma Gelmini). Il volto della scuola
secondaria superiore si presenta come segue: 1) 6 licei; 2) istituti tecnici suddivisi in 2 settori
con 11 indirizzi; 3) istituti professionali suddivisi in 11 indirizzi. Anche il sistema di
istruzione e formazione professionale di competenza regionale presenta un ordinamento che
prevede qualifiche triennali e diplomi quadriennali. Rafforzando le caratteristiche dei quattro
settori nei quali è stata organizzata dal 2010-2011 l’offerta formativa (licei; istituti tecnici;
istituti professionali; percorsi regionali di istruzione e formazione) si rende più semplice
e chiara l’offerta di istruzione secondaria, semplificando così il vecchio panorama costituito
da centinaia di percorsi. Con la Riforma Gelmini i quadri orari delle lezioni sono stati
alleggeriti in media del 10-15%. La normativa fissa, inoltre, un tetto massimo di 30-32 ore
per l’orario settimanale (35 ore solo per l’istruzione artistica).
Licei: 1) 891 ore per ciascun anno nei primi due anni; 2) 990 ore negli ultimi tre anni
(prolungato a 1023 ore negli ultimi tre anni per il liceo classico). Tutti i licei hanno durata
quinquennale e si concludono con un esame di Stato. Il sistema dei licei comprende le seguenti
tipologie di liceo: artistico, classico, linguistico, musicale e coreutico, scientifico, delle
scienze umane.
Istituti professionali: 1) 1056 ore per ciascun anno nei primi due anni; 2) 1056 ore per
ciascun anno negli ultimi tre anni. Molta importanza è data all’alternanza scuola-lavoro. I
percorsi si concludono con un esame di Stato, al cui superamento viene rilasciato il diploma
di istruzione professionale.
Istituti tecnici: 1) 1056 ore per ciascun anno nei primi due anni; 2) 1056 ore per ciascun anno
negli ultimi tre anni. Ciascun percorso è strutturato in modo da favorire un collegamento con
il mondo del lavoro, attraverso anche attività laboratoriali. I percorsi si concludono con un
esame di Stato, al superamento del quale viene rilasciato il diploma di istruzione tecnica.

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Agli studenti della scuola secondaria la riforma Moratti (art. 4, L. 53/2003) ha riconosciuto
la possibilità di realizzare l’alternanza scuola-lavoro, in collaborazione delle imprese, al fine
di assicurare ai giovani l’acquisizione di competenze spendibili nel mercato del lavoro.
Successivamente i percorsi di alternanza scuola-lavoro sono stati richiamati nei Regolamenti
della “Riforma Gelmini” (D.P.R. 87,88,89 del marzo 2010). L’alternanza scuola-lavoro
prevede diverse esperienze di apprendimento, quali: 1) visite aziendali; 2) stage; 3) tirocini
(anche estivi); 4) imprese formative simulate. Il comma 33, L. 107/2015 (Riforma “Buona
scuola”) prevede l’obbligatorietà dei percorsi in alternanza di scuola-lavoro per tutti gli
studenti delle secondarie (400 ore per gli istituti tecnici e professionali; 200 ore per i licei).
La continuità didattica mira alla conoscenza approfondita dell’alunno; essa, infatti, ha come
oggetto il bambino che apprende, di cui ne valorizza lo sviluppo progressivo. Esistono due
tipi di continuità, quella verticale e quella orizzontale. La continuità verticale è finalizzata
al raccordo tra i diversi ordini di scuola e tra le classi dello stesso istituto. L’obiettivo è quello
di costruire un percorso unitario che eviti frammentazioni. La continuità orizzontale fa leva,
invece, sulla comunicazione e sullo scambio tra scuola, istituzioni, famiglia e territorio. Sul
piano educativo i fini della continuità sono: 1) prevenire la dispersione scolastica; 2) garantire
agli alunni un percorso formativo coerente organico e completo; 3) spingere i docenti a
collaborare anche con docenti esterni alla scuola per condividere esperienze didattiche e
metodologie. Continuità significa, quindi, creare le condizioni educative ed operative affinché
lo sviluppo della personalità dell’alunno possa avvenire in modo armonico. Tra scuola e
famiglia deve poi realizzarsi un vero e proprio patto educativo, in cui vengono dichiarati gli
obiettivi comuni di crescita e benessere dei più piccoli. Nel passaggio agli istituti superiori,
la continuità verticale si traduce in attività di orientamento. L’orientamento deve essere
un’attività che accompagna ogni persona lungo l’intero arco della vita (lifelong learning).
L.111/2011 (Istituti comprensivi): a partire dall’a.s. 2011-2012, la legge 111/2011 ha
imposto che le scuole dell’infanzia, la scuola primaria e la scuola secondaria di primo grado
devono essere obbligatoriamente aggregate in istituti comprensivi. Ciò ha creato le condizioni
per l’affermazione di una scuola unitaria di base che prende in carico i bambini dall’età di 3
anni per guidarli fino al termine del primo ciclo di istruzione. Negli istituti comprensivi è poi
prevista anche l’unitarietà degli organi collegiali dei 3 ordini di scuola: un unico consiglio
d’istituto e un unico collegio dei docenti articolato in sezioni.

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VALUTAZIONE E AUTOVALUTAZIONE DELLE SCUOLE

Il D.Lgs. 286/2004 ha istituito il Servizio nazionale di valutazione (SNV) del sistema


educativo di istruzione e di formazione. Obiettivo di tale Servizio è quello di valutare
l’efficienza e l’efficacia del complessivo sistema di istruzione e di formazione, inquadrandone
la valutazione nel contesto europeo. Il SNV, regolato oggi dal D.P.R. 80/2013, è articolato su
3 livelli rappresentati da 1) INVALSI; 2) INDIRE; 3) contingente ispettivo.
INVALSI: l’Istituto Nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di
formazione (INVALSI) opera insieme alle istituzioni scolastiche, nonché le Regioni, le
Province e i Comuni. L’INVALSI è un ente di ricerca che si occupa di: 1) effettuare verifiche
periodiche sulle conoscenze e abilità degli studenti e sulla qualità complessiva dell’offerta
formativa; 2) svolgere attività di ricerca; 3) studiare le cause dell’insuccesso e della
dispersione scolastica; 4) promuovere nel contesto scolastico italiano progetti di ricerca
europea; 5) svolgere attività di assistenza tecnica all’amministrazione scolastica per
iniziative di monitoraggio, valutazione e autovalutazione; 6) svolgere attività di formazione
del persone docente e dirigente della scuola; 7) realizzare il monitoraggio sul sistema di
valutazione; 8) promuovere periodiche rilevazioni nazionali sugli apprendimenti che
interessano le istituzioni scolastiche; 9) predisporre prove a carattere nazionale per gli esami
di Stato.
INDIRE: anche l’Istituto nazionale di documentazione, innovazione e ricerca educativa
(INDIRE) è un ente di ricerca (il più antico del MIUR). È articolato in tre nuclei territoriali
interregionali (Torino, Roma, Napoli) e si raccorda con le Regioni. L’istituto ha competenze
in materia di: 1) formazione del personale docente, non docente e dei Dirigenti scolastici; 2)
utilizzo di nuove tecnologie per l’innovazione della didattica; 3) monitoraggio dei principali
fenomeni del sistema scolastico italiano; 4) aggiornamento continuo alle scuole e agli
insegnanti, dirigenti e personale ATA.
Il processo di valutazione delle scuole può sintetizzarsi in tre fasi: 1) autovalutazione; 2)
valutazione esterna; 3) azioni di miglioramento.
RAV: il primo passo del processo di valutazione delle istituzioni scolastiche è
l’autovalutazione che si effettua attraverso la compilazione del Rapporto di
autovalutazione (RAV). Ha lo scopo di fornire una descrizione della scuola e del suo
funzionamento ed è il punto di partenza per sviluppare il Piano di miglioramento. Il RAV
deve essere compilato da tutte le scuole ed è curato dal DS e dal Nucleo interno di
valutazione (NIV). Il RAV si compone di 5 sezione: 1) Contesto e risorse, in cui la scuola
esamina il contesto socio-economico in cui opera, le opportunità che esso offre e i punti di
debolezza; 2) Esiti degli studenti, in cui sono analizzati i risultati scolastici degli alunni; 3)
Processi messi in atto dalla scuola, in cui si analizzano le pratiche educative e didattiche
attuate dalla scuola; 4) Processo di autovalutazione, cioè i metodi utilizzati per effettuare
l’autovalutazione e le persone coinvolte; 5) Individuazione delle priorità, ovvero
l’individuazione dei traguardi che si intendono raggiungere con il Piano di miglioramento.

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PDM: una volta pubblicato il RAV, la fase successiva prevede l’attuazione del Piano di
miglioramento (PDM) che indica il percorso che la scuola vuole affrontare per raggiungere
i traguardi indicati nel RAV. Il PDM è curato dal DS e dal NIV. Fondamentale per l’attuazione
del PDM è il coinvolgimento di tutta la comunità scolastica. L’INDIRE fornisce un modello
di PDM basato su due tipi di interventi diversi: le pratiche educative e didattiche e le
pratiche gestionali ed organizzative.
L’organizzazione della valutazione esterna delle scuole è affidata alla Conferenza per il
coordinamento funzionale del Sistema nazionale di valutazione. La valutazione esterna delle
scuole è finalizzata: 1) al miglioramento della qualità dell’offerta formativa; 2) alla
riduzione della dispersione e delle differenze tra scuole e aree geografiche; 3) al
rafforzamento delle competenze di base degli alunni; 4) alla valorizzazione degli esiti a
distanza. È affidata ai Nuclei di valutazione esterna (NEV) costituiti da ispettori (dirigenti
tecnici) che ne assumono il coordinamento. La valutazione esterna ha come punto di partenza
di processo di autovalutazione della scuola, quindi il RAV. La valutazione esterna è articolata
in tre fasi: 1) lettura e analisi dei documenti da parte del NEV; 2) visita; 3) formulazione del
giudizio. Dopo la visita, il NEV predispone di un Rapporto di valutazione esterna (RVE)
e lo invia alla scuola.

LA GOVERNANCE DELLE ISTITUZIONI SCOLASTICHE

Il Ministero della Pubblica Istruzione fu istituito per la prima volta nel 1847 da Carlo
Alberto e nel tempo ha ricevuto varie denominazioni. Con il riordino dei Ministeri nel 1999
(D.Lgs. 300/1999), il Ministero della Pubblica Istruzione fu accorpato al Ministero
dell’Università e della Ricerca scientifica per diventare Ministero dell’Istruzione,
dell’Università e della Ricerca (MIUR). Il MIUR, organo di amministrazione centrale, è
suddiviso in Dipartimenti e aree. Il Ministro ha il compito fondamentale di promuovere
l’istruzione sociale e pubblica e di sovrintendere al corretto andamento dell’intero sistema
scolastico (e universitario). Il Ministro, nominato dal Presidente della Repubblica, è l’organo
di direzione politica del Ministero.
Il MIUR è articolato, a livello periferico, in Uffici scolastici regionali. In ciascun capoluogo
di regione ha sede un Ufficio scolastico regionale, che si configura alla stregua di un ministero
regionale con poteri autonomi poiché persegue lo scopo di vigilare sull’attuazione degli
ordinamenti scolastici, sui livelli dell’efficacia formativa e sull’osservanza degli standard
programmati. Ogni ufficio scolastico regionale è a sua volta organizzato in Uffici scolastici
provinciali (USP) che operano a livello provinciale.
La Riforma della “Buona scuola” (L. 107/2015) dispone che i ruoli del personale docente
sono articolati in ambiti territoriali, suddivisi in sezioni separate per gradi di istruzione,
classi di concorso e tipologie di porti. La loro ampiezza è inferiore alla Provincia o alla Città
metropolitana.

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Il Consiglio di classe, proprio della scuola secondaria, è composto dai docenti di ogni singola
classe: si occupa dell’andamento generale della classe. È presieduto dal DS. Viene rinnovato
all’inizio di ogni anno scolastico.
Il Collegio dei docenti è un organo collegiale composto esclusivamente dal personale
insegnante. La sua formazione è automatica poiché è sufficiente la qualifica di insegnante di
ruolo e non di ruolo in servizio nell’istituto. È presieduto dal DS. Il Collegio si insedia
all’inizio di ogni anno scolastico e si riunisce ogni volta che il DS ne avvisi la necessità,
comunque al meno una volta ogni trimestre o quadrimestre. Al Collegio dei docenti spettano
poteri in ambito esclusivamente tecnico-didattico.
Il Consiglio di circolo o d’istituto è l’organo cui è affidato il governo economico-finanziario
della scuola. Di esso fanno parte i rappresentanti del personale docente e quelli del personale
non docente, i rappresentanti dei genitori degli alunni, i rappresentanti degli studenti e il DS.
L’organo dura in carica tre anni scolastici. Il Consiglio delibera sull’organizzazione e la
programmazione delle attività della scuola. Svolge un ruolo fondamentale
nell’individuazione degli obiettivi che la scuola si propone di raggiungere. In particolare:
1) approva il PTOF; 2) approva il bilancio preventivo e il conto consuntivo; 3) adotta il
Regolamento d’istituto; 4) adatta il calendario scolastico.
Il Regolamento d’istituto è il documento emanato dal Consiglio di istituto che disciplina
le attività della scuola. Comprende le norme riguardanti: 1) la vigilanza sugli alunni; 2) il
comportamento degli alunni; 3) la regolamentazione di ritardi, uscite, assenze, giustificazioni;
4) l’uso degli spazi comuni; 5) la conservazione delle strutture; 6) la mensa; 7)
l’assicurazione; 8) i viaggi d’istruzione.
Come le assemblee degli studenti, le assemblee dei genitori possono essere di classe e di
istituto. Alle assemblee di classe partecipano i genitori degli alunni iscritti alla classe; a quelle
d’istituto i genitori degli alunni iscritti alla scuola. È autorizzata dal DS.
L’art. 25 del D.Lgs. 165/2001 dispone che il Dirigente scolastico assicura la gestione
unitaria dell’istituzione, è responsabile della gestione delle risorse umane, finanziarie e
strumentali, organizza l’attività scolastica ed è titolare delle relazioni sindacali. Nello
svolgimento delle sue funzioni organizzative e amministrative può avvalersi di docenti da lui
individuati, ai quali delegare compiti specifici. Il collaboratore del DS è definito
collaboratore vicario, la cui mansione comporta l’assunzione delle funzioni proprie del DS.
Il DSGA, invece, ha alle sue dipendenze il personale ATA.
Il Piano educativo territoriale è una particolare forma di contratto formativo sottoscritto
tra scuola, famiglie e territorio sulla base di reciproci impegni assunti in vista di un
miglioramento di uno specifico ambito dell’attività scolastica.
Il Patto educativo di corresponsabilità (stabilito dal D.P.R. 235/2007) si pone come una
sorta di contratto tra la comunità scolastica e le famiglie da firmare all’atto dell’iscrizione, in
modo da definire la misura della condivisione delle responsabilità, i diritti e i doveri
necessari per la gestione del rapporto scuola-famiglia. Il contenuto del Patto si articola in una
precisa enunciazione di doveri da rispettare sia da parte degli insegnanti che delle famiglie

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che degli studenti. Il contratto formativo, invece, costituisce la dichiarazione esplicita
dell’operato della scuola. Con esso, il DS e i docenti dichiarano ed esplicitano l’offerta
formativa, e le famiglie e gli allievi riconoscono il Curricolo d’istituto, esprimono il loro
parere e collaborano alla sua realizzazione.

OFFERTA FORMATIVA E PROGRAMMAZIONE

PTOF: è un documento fondamentale delle istituzioni scolastiche. Con la L. 107/2015, il


POF è stato sostituito dal Piano triennale dell’offerta formativa: la principale novità
rispetto al POF consiste nel fatto che la progettazione formativa contenuta nel Piano deve
guardare a un triennio anche per le risorse finanziarie, ma esso resta uno strumento di
programmazione e gestione interna. In particolare, contiene in dettaglio la programmazione
curricolare ed extracurricolare, la programmazione educativa, didattica e organizzativa.
Pertanto deve essere coerente con gli obiettivi generali nazionali. Attraverso il PTOF la scuola
presenta le proprie attività e i propri obiettivi. Il Piano è elaborato dal Collegio dei docenti,
sulla base delle scelte del DS, ed è approvato dal Consiglio di istituto, poi pubblicato sul sito
della scuola. Gli obiettivi formativi del PTOF, stabiliti dalla legge 107, sono: 1)
valorizzazione e potenziamento delle competenze linguistiche; 2) potenziamento delle
competenze scientifico-matematiche; 3) potenziamento delle competenze musicali e
artistiche; 4) sviluppo delle competenze in materia di cittadinanza attiva; 5) potenziamento
delle conoscenze giuridiche ed economico-finanziarie; 6) potenziamento del rispetto della
legalità; 7) alfabetizzazione all’arte; 8) potenziamento delle discipline motorie; 9) sviluppo
delle competenze digitali; 9) potenziamento delle metodologie laboratoriali; 10)
prevenzione e contrasto della dispersione scolastica e potenziamento dell’inclusione
scolastica; 11) valorizzazione della scuola come comunità attiva; 12) apertura
pomeridiana delle scuole; 13) incremento dell’alternanza scuola-lavoro; 14) definizione di
un sistema di orientamento.
CURRICOLO: nel PTOF le scuole determinano il curricolo obbligatorio per i propri
alunni. È il percorso educativo-didattico che la scuola progetta e segue per garantire il
successo formativo degli alunni. È elaborato dal Collegio dei docenti e può essere costruito
in verticale o in orizzontale. Il curricolo, dunque, è il piano di studi della singola scuola. Il
curricolo si articola attraverso: 1) le discipline; 2) l’individuazione dei traguardi per lo
sviluppo delle competenze; 3) gli obiettivi di apprendimento. Una volta definito il curricolo,
si avvia l’attività di programmazione della scuola che ha tre momenti: 1) programmazione
d’istituto; 2) programmazione educativa; 3) programmazione didattica. La programmazione
è un obbligo di legge ma è anche la più alta espressione dell’autonomia didattica delle
scuole.

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COMPETENZE E DOCUMENTI EDUCATIVI EUROPEI

La competenza è l’insieme delle conoscenze, delle abilità e degli atteggiamenti che


consentono a un individuo di ottenere risultati utili e che si manifesta come capacità di
affrontare i problemi della vita attraverso l’uso di abilità cognitive e sociali. Nel Profilo
educativo, culturale e professionale dello studente (D.Lgs 59/2004) vengono precisate le
competenze che dovrebbe possedere uno studente alla fine del primo ciclo di istruzione. Un
ragazzo è competente quando sa: 1) esprimere un personale modo di essere e proporlo agli
altri; 2) risolvere i problemi che di volta in volta incontra; 3) riflettere su se stesso e gestire
il proprio processo di crescita; 4) comprendere la complessità dei sistemi simbolici e
culturali; 5) maturare il senso del bello; 6) conferire senso alla vita.
TRATTATO DI MAASTRICHT 1992: viene stabilito che la Comunità Europea
contribuisse all’incremento di un’istruzione di qualità nel pieno rispetto delle diversità
culturali degli Stati Membri.
STRATEGIA DI LISBONA 2000: l’obiettivo era quello di rendere entro 2010 il sistema
economico europeo basato sulla conoscenza, competitivo e dinamico. Per garantire a tutti
l’accesso alle competenze base e favorire l’apprendimento continuo, furono così definite le
competenze chiave che ogni alunno deve raggiungere al termine del periodo obbligatorio
di istruzione e che sono necessarie per lo sviluppo della personalità, la cittadinanza attiva,
l’inclusione sociale e l’occupazione.
RACCOMANDAZIONE 18/12/2006: con la Raccomandazione del Parlamento e del
Consiglio del 18 dicembre 2006 relativa alle competenze chiave per l’apprendimento
permanente, l’UE ha invitato gli Stati membri a sviluppare strategie per assicurare che: 1)
l’istruzione e la formazione iniziali offrano a tutti i giovani gli strumenti per sviluppare le
competenze chiave che li preparino alla vita adulta; 2) si tenga conto di quei giovani che, a
causa di svantaggi educativi, hanno bisogno di un sostegno particolare per realizzare le loro
potenzialità; 3) gli adulti siano in grado di sviluppare e aggiornare le loro competenze chiave
in tutto il corso della vita (lifelong learning). Le competenze chiave indicate dalla
Raccomandazione 2006 sono 8: 1) Comunicazione nella madrelingua; 2) Comunicazione
nelle lingue straniere; 3) Competenza matematica, base in scienza e tecnologia; 4)
Competenza digitale; 5) Competenze sociali e civiche; 6) Imparare ad imparare; 7) Spirito di
iniziativa e imprenditorialità; 8) Consapevolezza ed espressione culturale.
D.M. 139/2007: riprende nel contesto italiano le competenze della Raccomandazione europea
e ha individuato le competenze chiave di cittadinanza che ogni cittadino dovrebbe
possedere dopo aver assolto il dovere all’istruzione. Esse sono: 1) imparare ad imparare; 2)
progettare; 3) comunicare; 4) collaborare e partecipare; 5) agire in modo autonomo e
responsabile; 6) risolvere problemi; 7) individuare collegamenti e relazioni; 8) acquisire ed
interpretare l’informazione.
RACCOMANDAZIONE DEL 2018: il 22 maggio 2018 il Consiglio dell’Unione europea
ha adottato una nuova Raccomandazione sulle competenze chiave per l’apprendimento

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permanente: essa rinnova e sostituisce la precedente raccomandazione del 2006. Il
documento fa emergere una crescente necessità di maggiori competenze imprenditoriali,
sociali e civiche. Parallelamente viene sottolineata l’importanza del sostegno al lavoro degli
insegnanti. Il Pilastro europeo dei diritti sociali, adottato dall’UE il 17 novembre 2017,
sancisce come suo primo principio che ogni persona ha diritto a un’istruzione permanente di
qualità, al fine di mantenere e acquisire competenze che consentono di partecipare pienamente
alla società. Allo stesso tempo, molte indagini internazionali indicano che una quota elevata
di adolescenti e adulti dispone di competenze di base insufficienti. È pertanto diventato più
importante che mai per l’UE investire nelle competenze di base, che non possono essere
considerate statiche ma devono cambiare nel corso della vita dell’individuo. Le competenze
sono definite, nella nuova Raccomandazione, come una combinazione di conoscenze,
abilità e atteggiamenti. Le competenze chiave sono quelle di cui tutti hanno bisogno per la
realizzazione personale e si sviluppano in una prospettiva di apprendimento permanente,
dalla prima infanzia a tutta la vita adulta. Le competenze chiave sono considerate tutte
ugualmente importanti, poiché ciascuna di esse può contribuire a una vita positiva nella
società della conoscenza. Il quadro di riferimento delinea otto competenze chiave: 1)
competenza alfabetica funzionale; 2) competenza multilinguistica; 3) competenza matematica
e in scienze e tecnologie; 4) competenza digitale; 5) competenza personale, sociale e capacità
di imparare a imparare; 6) competenza in materia di cittadinanza; 7) competenza
imprenditoriale; 8) competenza in materia di consapevolezza culturale.
A completamento della Raccomandazione sulle competenze chiave, sempre il 17 gennaio del
2018, il Consiglio europeo ha adottato anche la Raccomandazione sulla promozione di
valori comuni, di un’istruzione inclusiva e della dimensione europea dell’insegnamento.
Obiettivi della Raccomandazione sono rafforzare la coesione sociale e contribuire a
contrastare l’avanzata del populismo, della xenofobia del nazionalismo fonte di
divisione, spesso alimentate dalla diffusione di fake news.
INDICAZIONI PER IL CURRICOLO: per adeguarsi in parte alle direttive UE, con il D.M.
31 luglio 2007 furono emanate le nuove Indicazioni per il curricolo per la scuola
dell’infanzia e per il primo ciclo di istruzione, il cui obiettivo principale era quello di ridefinire
la finalità di questi gradi di scuola. Le nuove Indicazioni intendevano preparare i giovani al
futuro e alla vita adulta, fornendo loro le competenze indispensabili per essere protagonisti
nella realtà socio-economica in cui vivranno. Le Indicazioni nazionali del 2012 confermano
il tema delle competenze. Il termine competenze rimanda a un’idea di apprendimento
attivo, a qualcosa che rimane negli alunni anche al di fuori della scuola. Anche nella
terminologia le Indicazioni esprimono la nuova concezione della scuola: gli apprendimenti
attesi vengono denominati “traguardi per lo sviluppo delle competenze” e non “risultati
finali”. La valutazione è formativa perché non ha l’obiettivo prioritario di giudicare ma
piuttosto di stimolare il miglioramento continuo.

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LA NORMATIVA SULL’INCLUSIONE

Spesso si tende a usare i termini integrazione e inclusione come sinonimi. L’integrazione è


un concetto superato, che fa riferimento a un modello risalente agli anni ’70 in cui si
incentivava l’inserimento del disabile in una classe comune, pensata però per alunni
normodotati. Dal 2009 si è passati al concetto di inclusione: non è l’alunno con problemi che
deve “integrarsi” all’interno di una classe di normodotati, ma è la classe che deve includerlo,
accoglierlo, valorizzando la diversità che diventa risorsa anche per il gruppo.
L’integrazione scolastica degli alunni con disabilità è un processo avviato da oltre trent’anni.
L’idea di una scuola “aperta a tutti” nasce in Italia negli anni che seguono la contestazione
giovanile del 1968, quando in Europa i movimenti studenteschi diedero vita ad accese
manifestazioni, che misero in discussione il mondo socio-politico-culturale e il sistema
dell’istruzione. In Italia il primo obiettivo contro cui si scagliava la protesta studentesca era
la scuola, che rifletteva le contraddizioni della realtà sociale.
L. 118/1971: con questa legge si introduce per la prima volta il principio per il quale i minori
invalidi civili l’istruzione obbligatoria debba avvenire nelle classi normali della scuola
pubblica. La legge si pone così come presupposto normativo per l’inserimento scolastico degli
alunni portatori di qualsiasi tipo di handicap nella scuola elementare e media. L’applicazione
della norma si estende anche alle scuole superiori e universitarie, per le quali si dispone che
la frequenza degli alunni invalidi e mutilati civili debba essere facilitata.
DOCUMENTO FALCUCCI (1975): nel testo del documento si legge: “Il superamento di
qualsiasi forma di emarginazione degli handicappati passa attraverso un nuovo modo di
concepire la scuola, così da poter veramente accogliere ogni bambino per favorire lo
sviluppo personale”. Nel documento si parlava per la prima volta di “Progetto educativo”,
un modello di insegnamento che attribuiva a un gruppo di insegnanti interagenti la
responsabilità globale verso un gruppo di alunni. Il documento prevede, per la scuola
elementare, un insegnante in più ogni tre gruppi di allievi. Questo insegnante in più è
l’insegnante di sostegno, che era stato pensato come uno specialista di metodologia
didattica.
L. 517/1977: è il primo testo legislativo diretto a disciplinare in maniera completa
l’integrazione degli alunni portatori di handicap. Essa prevede, sulla base del Documento
Falcucci, che tutti gli alunni in situazione di handicap accedano alle scuole elementari e
medie; pertanto, abolisce le classi differenziali per gli alunni svantaggiati e introduce gli
strumenti necessari per attuale tale integrazione: l’insegnante di sostegno nelle scuole
elementari e medie e il principio dell’individualizzazione dell’insegnamento.
L. 270/1982: ha apportato dei correttivi alla L. 517/1977. L’importanza della L. 270 sta nel
fatto di aver stabilito che i posti di sostegno sono di ruolo come i posti comuni e si ricoprono
con concorsi e con graduatorie e titoli specifici.

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L. 104/1992: questa legge quadro ribadisce e amplia il principio dell’integrazione sociale e
scolastica come momento fondamentale per la tutela della dignità umana della persona con
disabilità, impegnando lo stato a rimuovere le condizioni invalidanti che ne impediscono lo
sviluppo. L’art. 14, in particolare, si occupa del ruolo degli insegnanti di sostegno e
dell’importanza di un aggiornamento costante in materia di handicap. Inoltre, la legge quadro
individua alcuni strumenti di formazione necessari alla effettiva integrazione degli alunni con
disabilità: 1) la Diagnosi Funzionale (DF); 2) il Profilo Dinamico Funzionale (PDF); 3) il
Piano Educativo Individualizzato (PEI). Per quanto riguarda la valutazione: 1) nella scuola
dell’obbligo sono predisposte prove d’esame corrispondenti agli insegnamenti impartiti e
idonee a valutare il progresso dell’allievo; 2) nell’ambito della scuola secondaria di secondo
grado, per gli alunni handicappati sono consentite prove equipollenti e tempi più lunghi per
l’effettuazione delle prove scritte e la presenza di assistenti per l’autonomia.
L. 328/2000: si tratta di una legge quadro che indica come obiettivi da realizzare la qualità
della vita, la prevenzione, la riduzione e la eliminazione delle condizioni di disabilità, del
disagio personale e familiare, la promozione delle pari opportunità e la non discriminazione.
A tale scopo, prevede la predisposizione di Progetti individuali per le persone disabili, con
riferimento particolare al recupero e all’integrazione sociale.
L. 18/2009: si tratta delle Linee guida per l’integrazione scolastica degli alunni con
disabilità. Esse affrontano la pratica della vita scolastica, riconoscendo la responsabilità
educativa di tutto il personale scolastico e ribadendo la necessità della progettazione
individualizzata corretta e puntuale, in accordo con Asl, enti locali e famiglie.
DIRETTIVA MINISTERIALE 27 DICEMBRE 2012: con questo documento si sviluppa
nel nostro Paese l’attenzione verso i bisogni educativi speciali (BES), che presuppongono
uno svantaggio scolastico. Nei BES sono comprese tre sottocategorie: 1) quella della
disabilità (L. 104/1992 e D.Lgs. 66/2017); 2) quella dei disturbi evolutivi specifici; 3) quella
dello svantaggio socioeconomico, linguistico, culturale. I BES sono spesso conseguenza di
stati che un alunno attraversa per ragioni fisiche, fisiologiche o di natura psico-sociale, e che
richiedono adeguata risposta. Nel testo della Direttiva ministeriale si legge che, per disturbi
evolutivi specifici, si intendono: 1) i disturbi specifici dell’apprendimento (DSA) (L.
170/2010); 2) i deficit del linguaggio; 3) i deficit delle abilità non verbali; 4) i deficit della
coordinazione motoria; 5) i deficit dell’attenzione e dell’iperattività (DDAI o ADHD). Si
tratta spesso di problematiche che, non certificabili dalla L. 104/1992, non determinano per
l’alunno il diritto all’insegnante di sostegno. Ciononostante, la normativa prevede che le
scuole possono avvalersi degli strumenti compensativi e delle misure dispensative previsti
dalla L. 170/2010.
NOTA MIUR 4233/2014: si tratta delle Linee guida per l’accoglienza degli alunni
stranieri e riguarda l’inserimento di stranieri in classe, alunni spesso in difficoltà sia sul piano
linguistico che culturale. I bambini e i ragazzi con cittadinanza non italiana, anche se in
posizione non regolare, hanno diritto all’istruzione alle stesse condizioni degli alunni
italiani. Questo documento regolamenta, dunque, le attività di iscrizione, accoglienza e
integrazione per gli alunni stranieri.

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D.LGS. 62/2017: è un documento interamente dedicato alla valutazione, certificazione delle
competenze ed esami di Stati, che dedica articoli specifici agli alunni con disabilità, DSA e
altri BES. Essa prevede, oltre quanto già contenuto nella L. 104/1992, che i docenti di
sostegno partecipino alla valutazione di tutti gli alunni, ammette la possibilità di prove di
esame differenziate con valore equivalente a quelle ordinarie ai fini del superamento
dell’esame conclusivo. Tali prove possono essere sostenute anche con l’uso di attrezzature
tecniche e sussidi didattici.
L. 18/2009: è una legge che riprende e ratifica nel contesto italiano la Convenzione ONU per
i diritti delle persone con disabilità, che impegna tutti gli Stati firmatari a prevedere forme di
integrazione scolastica nelle classi comuni. L’Italia è stata tra i primi Paesi al mondo ad
attuare l’integrazione degli alunni con disabilità nella scuola di tutti. In linea con questi
principi si trova l’ICF (International Classification of Functioning) che si propone come un
modello di classificazione attento all’interazione tra la capacità di funzionamento di una
persona e il contesto socioculturale in cui vive. Il funzionamento e la disabilità sono visti
come una complessa interazione tra le condizioni di salute dell’individuo e l’interazione con
i fattori ambientali e personali. Nella seconda parte della Convenzione, l’attenzione si
concentra sull’integrazione scolastica. In particolare, si riconosce la responsabilità
educativa di tutto il personale della scuola e si ribadisce la necessità della puntuale
progettazione individualizzata per l’alunno con disabilità.
STRATEGIA EUROPEA SULLA DISABILITA’: nasce nell’ambito della più ampia
strategia politica Europa 2020 allo scopo di implementare l’inclusione sociale dei soggetti
disabili, garantendone il pieno esercizio dei propri diritti. La Strategia Europa 2020 è mirata
a far crescere i paesi dell’UDE sotto il profilo dell’intelligenza, della sostenibilità,
dell’inclusività. La Strategia sulla disabilità ha il dichiarato intento di promuovere un’Europa
senza barriere, all’interno della quale i disabili possano trovare piena partecipazione alla vita
sociale ed economica.
D.LGS. 66/2017: introduce diversi elementi di novità rispetto la precedente normativa, tra
cui il coinvolgimento di tutte le componenti scolastiche. Tale obiettivo è affidato a
molteplici strategie, fra cui l’incremento della partecipazione e della collaborazione delle
famiglie e delle associazioni. L’inclusione si realizza attraverso la definizione del Progetto
individuale tra tutti gli enti che devono collaborare per la formazione degli studenti. Il PEI è
parte integrante del Progetto individuale, che illustra i compiti spettanti a ciascun attore
coinvolto nei processi di inclusione. Presso il MIUR, inoltre, è istituito l’Osservatorio
permanente per l’inclusione scolastica, a cui vengono assegnati compiti di monitoraggio,
analisi e proposta su leggi e attività nel campo dell’inclusione. Un altro elemento
fondamentale del D.Lgs. 66/2017 prevede la valutazione della qualità dell’inclusione,
prodotta dall’INVALSI. L’art. 16 affronta la problematica dell’istruzione domiciliare, che
garantisce il diritto all’istruzione ai bambini impossibilitati a frequentare la scuola a causa di
gravi patologie.
D.LGS. 96/2019: amplia la prospettiva inclusiva e introduce significative novità. Stabilisce
che la responsabilità dell’integrazione deve essere assunta non dalla singola classe ma si
realizza nell’organizzazione e nel curricolo delle istituzioni scolastiche. Prevede, inoltre, una

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più dettagliata composizione delle Commissioni mediche per l’accertamento della
condizione di disabilità ai fini dell’inclusione scolastica. Il decreto stabilisce che il PEI va
redatto secondo la classificazione ICF, ossia sulla base della descrizione dello stato di salute
in relazione agli ambiti di vita, al fine di coglierne le difficoltà che nel contesto socioculturale
possono causare disagio e porre ostacoli alle attività quotidiane. Inoltre, il decreto stabilisce
che il PEI debba contenere la quantificazione delle ore e delle risorse necessarie per il
sostegno, nonché gli strumenti, le strategie e gli interventi didattici. Il decreto rafforza la
sinergia all’interno della scuola e la collaborazione interistituzionale sul territorio. Infine,
un’attenzione particolare è riservata alla formazione in ingresso: per diventare docenti di
sostegno si dovrà seguire e superare un Corso di specializzazione per le attività di sostegno
didattico e l’inclusione scolastica.

CENTRI TERRITORIALI DI SUPPORTO (CTS): sono stati istituiti dagli Uffici


Scolastici Regionali in accordo con il MIUR, sulla base della Direttiva del 27 dicembre
2012. Essi organizzano iniziative di formazione sui temi dell’inclusione scolastica e sui BES,
nonché nell’ambito delle tecnologie per l’integrazione, rivolte al personale scolastico, agli
alunni o alle loro famiglie. I CTS offrono anche consulenza circa le modalità didattiche da
attuare per l’integrazione. La direttiva prevede poi che a un livello territoriale meno esteso
operano altre scuole come polo per l’inclusione: i centri territoriali per l’inclusione (CTI).
GRUPPI DI LAVORO PER L’INTEGRAZIONE: i primi gruppi di lavoro sono previsti
dalla L. 104/1992 all’art. 15. Secondo tale legge, i Gruppi di lavoro per l’integrazione
scolastica (GLH) hanno compiti di consulenza e proposta per l’impostazione e l’attuazione
dei piani educativi individualizzati. I GLH si suddividono in GLIP (gruppi di lavoro
interistituzionali provinciali) e GLH di istituto che operano all’interno dell’istituzione
scolastica e che contemplano anche la partecipazione delle famiglie. A loro volta, i GLH di
istituto si articolano in: GLHI (i gruppi di lavoro e di studio d’istituto, detti anche GLIS) e
GLHO (i gruppi di lavoro per l’integrazione operativi). I GLHI hanno il compito di favorire
l’integrazione a livello di istituto; i GLHO, invece, lavorano sul singolo alunno con disabilità,
insieme alle famiglie. I GLHI e i GLHO devono essere convocati, riuniti e verbalizzati.
GRUPPI DI LAVORO PER L’INCLUSIONE: la Direttiva ministeriale del 27-12-2012 ha
disciplinato la formazione di Gruppi di lavoro per l’inclusione o l’inclusività: i GLI. Essi
hanno compiti di rilevazione di tutti i bisogni educativi speciali presenti nella scuola,
includendo tutte le tipologie di BES, al fine di elaborare una proposta di Piano annuale per
l’inclusività (P.A.I.), riferito a tutti gli alunni con BES. L’attuale disciplina del D.Lgs.
66/2017 definisce i nuovi Gruppi per l’inclusione scolastica: 1) il Gruppo di lavoro
interistituzionale regionale (GLIR); 2) il Gruppo per l’inclusione territoriale (GIT); 3) il
Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI); 4) il GLHO, gruppo di lavoro operativo per
l’inclusione.

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L’ACCERTAMENTO DELLA DISABILITA’

L’accertamento della disabilità è disciplinato nella normativa dalla legge quadro n. 104/1992,
con le modifiche apportate dal decreto n. 66/2017 e dal suo correttivo, il decreto n. 96/2019.
La procedura ha inizio con la domanda per l’accertamento e si conclude con la sua
certificazione necessaria per l’inclusione scolastica. Essa è stata semplificata con il decreto n.
66/2017 con l’introduzione di un unico documento, il Profilo di funzionamento, che
sostituisce la diagnosi funzionale e il profilo dinamico funzionale. La domanda, come previsto
dai decreti, deve essere corredata di certificato medico a cura della ASL e poi presentata
all’INPS. Le commissioni mediche esaminano la domanda ed effettuano l’accertamento della
condizione di disabilità in età evolutiva. Tale accertamento è propedeutico alla redazione del
Profilo di funzionamento, a cui seguirà il PEI, facente parte del Progetto individuale.
PROFILO DI FUNZIONAMENTO: redato da un’Unità di valutazione multidisciplinare
del SSN, contiene indicazioni relative alla tipologia delle misure di sostegno e delle risorse
strutturali utili ai fini dell’inclusione. Alla sua redazione collaborano i genitori dell’alunno,
con la partecipazione del DS oppure di un docente di sostegno. Esso viene aggiornato a ogni
passaggio di grado di istruzione e in caso di sopravvenute condizioni di funzionamento della
persona. I genitori dell’alunno disabile inviano il Profilo di funzionamento alla scuola ai fini
della predisposizione del PEI.
PIANO EDUCATIVO INDIVIDUALIZZATO (PEI): rappresenta il progetto di vita
scolastica di ogni alunno con disabilità, nel quale sono contenuti i diversi interventi didattico-
educativi, riabilitativi e di integrazione predisposti in favore dell’alunno. In base all’art. 7 del
D.Lgs. 66/2017, modificato dal decreto n. 96/2019, il PEI individua obiettivi educativi e
didattici, strumenti e modalità per realizzare un ambiente di apprendimento. Al suo interno
sono esplicitate le modalità di sostegno didattico, compresa la proposta del numero di ore di
sostegno alla classe, le modalità di verifica, i criteri di valutazione, nonché gli interventi di
assistenza igienica e di base. Il documento viene elaborato e approvato dal Gruppo di Lavoro
Operativo per l’inclusione, composto dai docenti o dal Consiglio di classe, con la
partecipazione dei genitori e delle figure professionali specifiche. Inoltre, è assicurata la
partecipazione attiva dell’alunno. Esso viene redatto in via provvisoria entro il mese di giugno
e in via definitiva non oltre il mese di ottobre. Il PEI è redatto a partire dalla scuola
dell’infanzia ed è aggiornato in presenza di nuove condizioni di funzionamento della persona.
Sulla base dei PEI di ogni alunno, infine, ogni scuola, nell’ambito del PTOF, predispone il
Piano per l’inclusione nel quale sono definite le modalità per l’utilizzo delle misure di
sostegno al fine del superamento delle barriere e dell’individuazione dei facilitatori del
contesto di riferimento. Per elaborare un PEI efficace occorre sapere cosa l’alunno sa fare,
cosa non sa fare e cosa potrebbe fare (potenzialità). L’insegnante di sostegno deve cercare di
avvicinare gli obiettivi individuali a quelli di classe e individuare i metodi, gli strumenti, le
strategie e i tempi funzionali allo scopo. La valutazione dell’allievo con disabilità deve fare
riferimento agli obiettivi indicati nel PEI.

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PSICOLOGIA DELLO SVILUPPO, INTELLIGENZA E CREATIVITA’

Il sistema cerebrale si consolida progressivamente. L’organismo si sviluppa all’interno di un


ambiente che non è inerte, ma si trova in interazione profonda con esso. Perciò, nel corso
dello sviluppo, il cervello umano è in costante interazione con l’ambiente esterno. Nello
sviluppo, infatti, il patrimonio genetico interagisce con gli stimoli ambientali; la rete di
neuroni del cervello si sviluppa dapprima moltiplicando le connessioni e, successivamente,
eliminando quelle ridondanti, in modo tale le connessioni si “specializzano”. Ogni sistema
acquisterà le sue particolari caratteristiche quando sarà stimolato in un certo modo in un dato
periodo critico, mentre se non sarà stimolato ne perderà, in buona parte, la possibilità.
CERVELLO E LA SUA STRUTTURA: il cervello è l’organo fondamentale delle attività
cognitive oltre che l’organizzazione biologica più complessa a noi nota: tutti i processi
psichici dipendono dalle sue funzioni. Il cervello è composto da un numero smisurato di
cellule nervose (o neuroni): circa 100 miliardi nell’uomo. Ciascun neurone comunica con
un numero notevole di altri neuroni: da questi contatti si originano da 1.000 a 10.000
connessioni (o sinapsi). Nella corteccia sono presenti almeno 10.000 miliardi di sinapsi. Le
funzioni della corteccia cerebrale sono molteplici: 1) controllo delle attività motorie
dell’organismo; 2) produzione del linguaggio; 3) funzioni di attenzione; 4) elaborazione del
pensiero e organizzazione della “mente”. Il sistema nervoso centrale è composto
dall’encefalo e dal midollo spinale. L’encefalo si divide, a sua volta, in molteplici strutture,
corticali e sottocorticali. La corteccia cerebrale, composta dai due emisferi cerebrali, è
suddivisa in quattro lobi: frontale (controllo dei movimenti), parietale (sensazioni
somatiche), occipitale (percezione visiva) e temporale (apprendimento, memoria,
linguaggio, emozioni). La plasticità è una proprietà della corteccia cerebrale, che consiste
nella capacità di mutare le proprie caratteristiche funzionali e strutturali in relazione alle
stimolazioni sensoriali esterne per adattarsi all’ambiente. Tra la nascita e l’inizio del
funzionamento degli apparati sensoriali esiste un periodo critico, cioè un fenomeno di
progressiva sintonizzazione tra mondo cerebrale e mondo esterno. Si tratta di un evento
complesso che implica forme di accomodamento e di selezione di determinati circuiti
cerebrali al fine di generare un comportamento che garantisca la sopravvivenza
dell’organismo in un certo ambiente. La riprova è che l’assenza di stimolazione nel periodo
critico produce danni, spesso irreversibili, nello sviluppo. Importanti sono, in proposito, gli
studi dello psicologo Spitz sulla deprivazione delle cure materne su bambini nei primi mesi
di vita. L’impatto ambientale, in questo senso, serve ad attivare una serie di geni che, in
assenza di stimoli, resterebbero latenti. Recenti ricerche mostrano che esistono, seppur in
misura ridotta, zone di plasticità anche nel cervello adulto. Questo fenomeno è probabilmente
alla base della capacità di apprendimento continuo che dura per tutta l’esistenza.

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PERCEZIONE E ATTENZIONE

Per percezione si intende il processo cognitivo che consente all’individuo di trarre


informazioni dal mondo esterno attraverso l’integrazione tra le sensazioni raccolte mediante
gli organi di senso e le esperienze pregresse. Si tratta di un fenomeno complesso che implica
il concorso di elementi fisiologici e condizioni soggettive. La percezione è stata oggetto di
ricerca delle principali scuole psicologiche.
LA PROSPETTIVA PSICOFISIOLOGICA (VON HELMHOLTZ): uno dei temi
maggiormente affrontati dagli psicofisiologi è la capacità di discriminare i colori. La teoria
sulla percezione dei colori fu formulata dal tedesco Hermann von Helmholtz che sostenne
l’esistenza, nell’uomo, di recettori differenti, sensibili agli spettri cromatici del rosso,
dell’azzurro e del verde. Egli considerava fondamentale per l’esperienza percettiva l’attiva
organizzazione dei dati sensoriali. Un oggetto non è solo il semplice risultato di sensazioni,
ma anche l’effetto implicito delle esperienze passate. Il cervello, secondo questa teoria,
opererebbe delle inferenze inconsce componendo i dati semplici in una unità.
LA PROSPETTIVA GESTALTICA (WERTHEIMER): la teoria della Gestalt (o teoria
della forma, struttura) sviluppatasi dopo le ricerche di Max Wertheimer sulla percezione del
movimento apparente, sostenne invece che la percezione non dipende dai singoli elementi,
ma dalla strutturazione di questi elementi in un insieme organizzato. L’organizzazione
finale prevale sempre sugli elementi singoli; vale a dire che l’uomo tende a percepire con più
immediatezza le figure chiuse e strutturate piuttosto che i singoli elementi che le compongono.
LA PROSPETTIVA FUNZIONALISTA (BRUNER): questo indirizzo si è interessato
all’aspetto soggettivo della percezione, cioè al modo in cui le sensazioni vengono integrate
in relazione alla personalità dell’individuo. In questo ambito, è stato lo psicologo Jerome
Bruner a mettere in luce le variabili che si frappongono fra la presentazione dello stimolo e
la risposta dell’individuo. La valenza affettiva che un dato oggetto ha per la persona che lo
percepisce influenza fortemente i tempi di riconoscimento, modificando i valori della sua
soglia percettiva. Ciò è stato interpretato come effetto di un meccanismo messo in atto
dall’individuo, il quale elabora lo stimolo in base al suo vissuto e al suo stato emotivo.
Secondo la teoria funzionalista (nota anche come “New Look of Perception”) il soggetto
interviene attivamente nel processo percettivo, mostrando il bagaglio di esperienze passate
che ne hanno determinato lo stato sociale, culturale e affettivo.
LA PROSPETTIVA COGNITIVISTA: oggetto di analisi di questa corrente psicologica
sono i processi con cui l’individuo acquisisce le informazioni dall’esterno, le elabora e le
consolida in una struttura. Alla base del cognitivismo c’è la convinzione che la mente umana
funzioni come un elaboratore elettronico. Per i cognitivisti, dunque, bisogna comprendere i
meccanismi mentali che permettono di trasformare input sensoriali in organizzazioni
complesse e valutare i tempi che intercorrono tra uno stimolo e l’output da parte del soggetto
(ovvero la sua reazione).
L’ATTENZIONE (HIRST E KALMAR – SHALLICE): si può definire come la capacità
cognitiva di mettere a fuoco specifici contenuti e, all’opposto, inibire informazioni valutate

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come irrilevanti. Essa costituisce una potentissima attività di filtro, impedendo
l’accumulazione di dati inutili. L’attenzione opera sull’informazione in entrata (input),
selezionandola in base a interessi e aspettative. Si tratta della metafora del “filtro” diffusasi
alla fine degli anni Cinquanta del Novecento, dopo le ricerche dello psicologo Broadbent,
che suppose infatti che intervenisse un sistema di filtraggio. Tale azione avverrebbe
selezionando gli stimoli rilevanti e scremando quelli irrilevanti. A partire dagli anni
Ottanta, tra le ricerche più interessanti ci furono quelle di HIRST e KALMAR. Questi due
studiosi dimostrarono che i soggetti potevano prestare attenzione simultaneamente a due
compiti di natura diversa compiendo un minor numero di errori che nella situazione in cui i
due compiti erano uguali. In queste situazioni si parla di interferenza strutturale:
l’esecuzione di un compito interferisce sull’altro se essi condividono lo stesso tipo di
elaborazione, ad esempio verbale. È in questo caso che interverrebbe l’attenzione selettiva:
l’attenzione si sposta ora su un compito ora su un altro. L’attenzione può essere distribuita
più facilmente se i compiti riguardano abilità diverse o se vengono utilizzate risorse
cognitive differenti. In questo contesto, l’attenzione è considerata come un sistema di
organizzazione di risorse cognitive che vengono dislocate in funzione della complessità del
compito. Il compito che riceve la quota di risorse sufficiente per una prestazione ottimale è
definito compito primario; mentre il compito che riceve la quota di risorse residue viene
definito compito secondario. Se nel modello di Broadbent l’attenzione costituisce un
sistema di filtraggio dell’informazione in entrata, nei modelli più recenti essa è considerata
un sistema di controllo delle operazioni cognitive. Secondo il modello più noto, quello
proposto da TIM SHALLICE, l’attenzione interviene nella selezione tra un processo
cognitivo e l’altro qualora questi siano in conflitto tra loro (“selezione competitiva”).
Secondo Shallice, si tratta di una scelta effettuata automaticamente dal cosiddetto “sistema
attenzionale superiore”.

LA COSCIENZA

La ricerca sui processi di coscienza svolta nei laboratori di psicologia sperimentale alla fine
dell’Ottocento e nei primi anni del Novecento era spesso fondata sul modello
dell’introspezione. Gli scienziati chiedevano ai soggetti sotto osservazione di interrogarsi e
“guardare dentro se stessi” mentre percepivano un oggetto o richiamavano dalla memoria una
traccia. Il metodo introspettivo era strettamente legato alla consapevolezza da parte del
soggetto del lavoro psichico che egli stava eseguendo. Secondo i comportamentisti, però, il
metodo introspettivo non era da considerarsi scientifico perché poco attendibile. Per molti
ricercatori contemporanei la coscienza viene invece concepita nei termini di un sistema di
controllo attenzionale delle operazioni mentali, per il quale sarebbe necessario il
funzionamento dei lobi prefrontali. Un’ulteriore area di ricerca attuale in psicologia
cognitiva riguarda la distinzione tra processi cognitivi consci (manifesti) e processi cognitivi

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inconsci (non manifesti). Si ritiene che molte operazioni cognitive si verifichino senza che il
soggetto ne sia consapevole.
LA PROSPETTIVA PSICANALITICA (FREUD): la coscienza riveste un ruolo di
primaria importanza. FREUD, infatti, la colloca come una delle tre istanze della psiche
insieme all’inconscio e al preconscio. Secondo la teoria di Freud, la coscienza rappresenta
una funzione assimilabile alla percezione, ovvero alla capacità di ricevere le informazioni
sensibili. Accanto a questo compito, la coscienza è impegnata anche nel recepire gli stati
interiori dell’individuo, che si manifestano come piacere o dispiacere rispetto alle pulsioni.
Oltre a presiedere la facoltà di percepire, per Freud la coscienza è coinvolta in un perenne
conflitto con l’inconscio, il quale tende a nascondere tutto ciò che è doloroso e sgradevole. I
materiali rimossi, infatti, non sono cancellati in maniera definitiva. Essi possono riaffiorare
in qualsiasi momento. Questa teoria di Freud viene rappresentata con l’immagine di un
iceberg, laddove la zona emersa, ovvero la coscienza, costituisce solo una piccola parte di
tutto il patrimonio mnestico, che giace perlopiù immerso nella zona dell’inconscio.

LA MEMORIA

La memoria è generalmente definita come la struttura psichica che conserva e organizza le


informazioni. Si tratta di una struttura di archivio e di recupero dati. In una prima fase, quella
dell’acquisizione, il soggetto incontra le informazioni (il cosiddetto “registro sensoriale”).
Secondo il modello proposto da ATKINSON e SHIFFRIN, a questa fase segue quella della
ritenzione, cioè la capacità di conservare le tracce per un periodo più o meno lungo: ciò dà
origine alla “memoria a breve termine” (MBT) e a quella a “lungo termine” (MLT). Per
far sì che un’informazione percepita passi dalla MBT alla MLT occorre un processo di
codifica. L’effettiva presenza della traccia in memoria si riscontra nella fase successiva,
quella del recupero o del ricordo.
IL MODELLO ASSOCIATIVO (EBBINGHAUS): è il modello più antico; sostiene che la
capacità di ricordare viene favorita dalle relazioni associative. Le tracce, cioè, si ricordano
meglio se possono essere associate tra loro per somiglianza o per contrasto. HERMANN
EBBINGHAUS, alla fine dell’Ottocento, si propose di studiare la memoria come capacità
pura, cioè non influenzata dalle conoscenze pregresse. Lo psicologo tedesco introdusse così
delle novità tecniche, tra cui l’uso di liste di sillabe senza senso per verificare la sua capacità
di trattenerle in mente e riprodurle. Usando gruppi di lettere senza senso, lo studioso voleva
valutare la capacità della memoria di ricordare informazioni neutre. In questo modo non
sarebbero intervenuti fattori che avrebbero potuto facilitare il compito. Questo tipo di tecnica
mostrò che l’esercizio favoriva in modo significativo l’apprendimento. Egli verificò che con
la ripetizione si riduceva contemporaneamente sia il tempo di apprendimento sia il fenomeno
della dimenticanza. Emerge allora un fenomeno definito risparmio, che consiste in una

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riduzione, rispetto alla prima acquisizione, del tempo del numero e delle prove richieste ai
soggetti per svolgere il compito. Ciò significa che apprendere di nuovo un compito che si era
già imparato in passato costa meno fatica che studiarne uno ex novo.
IL MODELLO “PLURI-COMPONENTI”: i sostenitori di questo modello affermano che
la memoria non ritiene gli stimoli in una traccia univoca, ma ne conserva anche le differenti
componenti, ad esempio quella temporale, spaziale, di frequenza, etc. Questo fenomeno viene
spiegato supponendo l’esistenza di due sistemi di codifica: il sistema verbale e il sistema
per immagini. Se associamo il nome di una persona con l’immagine del suo viso, quindi,
abbiamo più possibilità di ricordarla (doppia codifica: verbale e immaginativa).
IL MODELLO HIP (HUMAN INFORMATION PROCESSING): considera la memoria
come una funzione psichica attiva, e non come un semplice contenitore di dati. Questo
modello è sorto nell’ambito dell’approccio cognitivista. La memoria, secondo questo
approccio, opera sull’informazione che proviene dall’esterno, elaborandola e codificandola a
sua volta, proprio come farebbe un elaboratore elettronico. L’individuo, come il computer,
elabora informazioni trasformando l’input in output. L’obiettivo della psicologia dello
sviluppo consiste nel capire come è programmato l’organismo per riconoscere ed elaborare il
flusso delle informazioni provenienti dall’esterno. Come modello consideriamo quello
proposto da ATKINSON e SHIFFRIN che prevede tre sistemi di memoria: 1) un registro
sensoriale (RS) che riceve gli stimoli tramite gli organi di senso; 2) da questo registro
l’informazione viene inviata a una memoria a breve termine (MBT); 3) infine viene
trasferita e immagazzinata in una memoria a lungo termine (MLT), che ha una capacità
illimitata e che conserva l’informazione per tempi lunghi.

LO SVILUPPO COGNITIVO E L’INTELLIGENZA

La formazione della personalità è il frutto di un percorso di interazione tra fattori “innati”


(variabili dipendenti) e fattori “acquisiti” (variabili indipendenti) attraverso un percorso di
maturazione determinato dall’influenza reciproca tra l’uomo e l’ambiente circostante. Si tratta
di una sorta di organizzazione di quanto già esisteva, per integrazione con il nuovo vissuto.
Le teorie cognitive, i cui esponenti più importanti sono Piaget, Vygotskij e Bruner,
concordano nel sostenere che la mente infantile è differente da quella dell’adulto.

JEAN PIAGET
Per il periodo che va dalla nascita fino ai tre anni, Piaget ha applicato l’osservazione
sistematica, consistente nello studio continuo di determinati comportamenti del bambino; per
il periodo dai quattro anni all’adolescenza, si è servito del metodo critico, laddove, dopo aver

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creato situazioni problematiche sotto forma di gioco, invitava i bambini a trovare una
soluzione ai problemi. Piaget ha utilizzato un metodo d’indagine particolare, che combinava
l’osservazione e l’intervista: il colloquio clinico. Egli presentava al bambino un problema e,
mediante una serie di domande mirate, cercava di comprendere le dinamiche del
ragionamento che portavano il bambino a produrre delle risposte. Per Piaget, dunque,
l’intelligenza è il frutto del lavoro attivo del bambino, visto come un essere impegnato nella
costruzione di se stesso: il motore dell’intelligenza del bambino è la sua azione.
L’EPISTEMOLOGIA GENETICA: Piaget afferma che il suo fine non è di natura
psicologica né pedagogica ma epistemologica, ovvero relativo alla filosofia della scienza.
Da questo assunto deriva una nuova disciplina, denominata epistemologia genetica, secondo
cui la conoscenza avviene attraverso un processo in continua evoluzione che permette
all’individuo di adattarsi all’ambiente circostante. Piaget considera l’intelligenza come un
adattamento all’ambiente esterno che avviene sulla base di due meccanismi diversi: 1)
l’assimilazione, intesa come processo (passivo) consistente nell’integrare i dati
dell’esperienza all’interno delle conoscenze che già si possiedono; 2) l’accomodamento,
inteso come processo (attivo) nel quale, invece, vengono modificati gli schemi preesistenti in
funzione delle nuove esperienze vissute. Secondo Piaget, l’interazione tra assimilazione e
accomodamento porta ad un terzo fenomeno, il principio di equilibrazione, al termine del
quale ha luogo una crescita cognitiva. In generale, Piaget ritiene che gli stadi dello sviluppo
cognitivo nel bambino siano sostanzialmente: 1) universali; 2) sequenziali; 3) determinati
anche da componenti biologiche (il bambino, ancor prima di nascere, dispone infatti di
alcune precise modalità organizzative).
GLI STADI DELLO SVILUPPO (EMBRIOLOGIA MENTALE): secondo Piaget il
processo conoscitivo avviene in maniera “embrionale”: come l’embrione si sviluppa poco a
poco fino ad assumere le fattezze del corpo umano, così i concetti e i processi mentali si
sviluppano uno alla volta fino alla loro massima maturazione. Per questo motivo si parla di
embriologia mentale che prevede quattro tappe specifiche, denominate stadi.

LO STADIO SENSO MOTORIO (0-2 ANNI)


Il primo stadio è quello senso-motorio che va dalla nascita ai due anni e che a sua volta si
suddivide in altre sei fasi.
- PRIMA FASE (0-1 MESE): è la fase dei riflessi innati che va dalla nascita al primo mese
di vita. Tipici di questa fase sono alcuni riflessi innati quali la suzione, il rooting (riflesso di
ricerca), i movimenti oculari e degli arti e i riflessi prensili. Questi riflessi sono considerati
da Piaget molto importanti perché rappresentano i primi schemi senso-motori del bambino
che fungono da base per lo sviluppo cognitivo.
- SECONDA FASE (1-4 MESI): è la fase delle reazioni circolari primarie che va dal primo
al quarto mese di vita. È il momento in cui si formano le prime coordinazioni tra percezione
e movimento perché il bambino tende a ripetere questi riflessi innati molte volte durante l’arco
della giornata, cominciando ad attribuire un significato all’azione. Queste ripetizioni sono
definite reazioni circolari primarie e sono ciò che dà vita alle prime abitudini. In questa fase,

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il bambino utilizza due schemi senso-motori molto importanti: si tratta del vedere-afferrare,
consistente nel prendere in mano tutto ciò che vede, e dell’afferrare-succhiare, consistente
nel portare alla bocca gli oggetti per conoscerli. Il bambino sperimenta il gioco di esercizio,
che ha come oggetto il suo corpo.
- TERZA FASE (4-8 MESI): è la fase delle reazioni circolari secondarie che va dal quarto
all’ottavo mese di vita. Durante questa fase il bambino compie ripetutamente azioni, notando
cosa accade nel momento in cui le compie, interagendo con l’esterno: queste ripetizioni
vengono definite reazioni circolari secondarie. Durante questa fase il bambino diventa sempre
più sociale.
- QUARTA FASE (8-12 MESI): è la fase della coordinazione e differenziazione mezzi-
fine che va dall’ottavo al dodicesimo mese di vita, durante la quale compaiono i primi
movimenti intenzionali, diretti verso uno scopo. Il bambino mostra una maggiore interazione
sia col mondo esterno che con le persone, tant’è che in questa fase il bambino gioca meno con
se stesso e di più con gli oggetti che lo circondano, comportando l’emergere dell’attenzione
condivisa. Lo sviluppo dell’intelligenza senso-motoria consente al bambino, che prima per
eseguire una sequenza di azioni doveva partire sempre dall’inizio, di interrompersi e
riprendere l’azione in qualsiasi punto intermedio.
- QUINTA FASE (12-18 MESI): è la fase delle reazioni circolari terziarie che va dai dodici
ai diciotto mesi di vita. È una fase di esplorazione attiva e intenzionale in cui il bambino
esplora il mondo esterno per scoprirlo e conoscerlo. L’esplorazione viene messa in atto
attraverso schemi nuovi che derivano dall’evoluzione di quelli vecchi. In questa fase il
bambino inizia ad esplorare l’ambiente e ad allontanarsi dalla madre.
- SESTA FASE (18-24 MESI): è la fase della funzione simbolica che va dai diciotto ai
ventiquattro mesi di vita e che vede la sostituzione della precedente rappresentazione
sensoriale degli oggetti con quella mentale (rappresentazione cognitiva). In questa fase il
bambino è in grado di agire sulla realtà col pensiero dando vita al gioco simbolico. Il bambino
comincia a imitare i comportamenti e le azioni di un modello di riferimento, anche a distanza
di tempo (imitazione differita). Inoltre, il bambino inizia a esprimersi tramite il linguaggio
verbale. Questo è anche il momento in cui il bambino raggiunge la piena acquisizione della
permanenza dell’oggetto, che si manifesta con la consapevolezza che gli oggetti esistano
prima di essere percepiti e continuino ad esistere anche fuori dal campo percettivo.

LO STADIO PREOPERATORIO (2-7 ANNI)


Il raggiungimento di tutti i precedenti traguardi consente il passaggio allo stadio successivo,
quello preoperatorio, che va dai due ai sette anni. Esso è suddiviso in altre due fasi.
- PRIMA FASE (2-4 ANNI): è la fase preconcettuale che va dai due ai quattro anni. Questo
periodo è caratterizzato da una serie di progressi cognitivi che portano all’acquisizione di
funzioni complesse, come il linguaggio e la scoperta delle relazioni tra gli oggetti e le figure
di riferimento. È fortemente presente l’egocentrismo intellettuale, per cui il bambino

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percepisce il mondo solo dalla sua prospettiva, non essendo ancora in grado di cogliere punti
di vista diversi dai propri. La difficoltà di discernere l’io dal non-io comporta il fenomeno
dell’animismo infantile, secondo cui il bambino è portato a credere che tutti gli oggetti, anche
quelli inanimati, siano vivi. In questa fase il linguaggio diventa sempre più ricco di termini
fino alla costruzione di frasi complete e complesse e il gioco è la principale attività svolta. In
questo periodo egli imita gli adulti, imparando a comportarsi come questi ultimi vogliono.
- SECONDA FASE (4-7 ANNI): è la fase del pensiero intuitivo che va dai quattro ai sette
anni. Durante questa fase, l’animismo infantile si evolve e il bambino proietta solo verso gli
oggetti in movimento, come i fiumi o il fuoco, l’idea che siano vivi. Il bambino riesce a
percepire gli aspetti qualitativi e quantitativi di un oggetto solo in maniera separata e non
contemporaneamente, così come pure le azioni mentali sono irreversibili, poiché composte
da rappresentazioni mentali isolate.

LO STADIO OPERATORIO CONCRETO (7-11 ANNI)


Questo stadio va dai sette agli undici anni. In questo stadio, l’animismo si evolve
ulteriormente e il bambino attribuisce la vita solo agli oggetti dotati di movimento proprio,
come il mare. La persistenza dell’animismo fino all’età preadolescenziale è dovuta
all’incapacità del bambino di spiegare determinati eventi, per i quali cerca una motivazione
per lui valida. Verso la fine di questo stadio si passa dall’animismo all’artificialismo,
caratterizzato dalla convinzione che tutte le cose siano il risultato dell’opera dell’uomo. Il
pensiero sviluppato in questa fase è di tipo induttivo, che va dal particolare al generale. È
uno stadio caratterizzato anche dalla manipolazione dei simboli in modo logico, motivo per
cui si parla di operazioni concrete. In questa fase si struttura l’acquisizione dei concetti di
conservazione dei materiali e delle quantità e, tra i nove e i dieci anni, quello di
conservazione della superficie. Con reversibilità s’intende non solo la capacità di
comprendere quando un’azione annulla gli effetti di un’altra inversa, ma anche quella di
riuscire a portare avanti, in parallelo, due pensieri contemporaneamente. Il bambino diventa
un verso sperimentatore ed esploratore, cominciando a esaminare i dettagli degli eventi con
attenzione. Si ha la transizione dall’egocentrismo intellettuale alla capacità di comprensione
del punto di vista altrui, sviluppando così l’empatia.

LO STADIO OPERATORIO FORMALE (11 ANNI IN POI)


È lo stadio che va dagli undici anni all’adolescenza e chiude lo sviluppo cognitivo. In questo
stadio il ragazzo diventa in grado di attuare il gioco di linguaggio, che è la capacità di giocare
con le parole. Il bambino è in grado di pensare astrattamente secondo il sillogismo logico,
andando quindi dal generale al particolare. Il pensiero formale si sviluppa in maniera
graduale svincolandosi dalla realtà per cedere il posto all’immaginazione. Anche in questo
stadio è presente una forma di egocentrismo detto metafisico che si manifesta col desiderio
di emergere e di esprimere. Durante questa fase si pongono, infatti, le basi per la definizione
della personalità che si completerà durante l’adolescenza.

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LEV VYGOTSKIJ

Se Piaget è il precursore dell’attivismo pedagogico, caratterizzato dall’assecondare le


naturali inclinazioni del bambino, Vygotskij è il principale esponente della teoria socio-
culturale, che vede lo sviluppo della psiche influenzato dal contesto sociale. Mentre, secondo
Piaget, la pressione dell’ambiente non ha alcun effetto sul sistema nervoso del bambino che
impara interagendo da sé sugli oggetti, Vygotskij dichiara che lo sviluppo del pensiero non
procede dalla spontaneità alla scientificità. I concetti spontanei (assimilati senza che vengano
insegnati) e quelli scientifici (assimilati in seguito a un insegnamento), sono costantemente
collegati e si influenzano reciprocamente. Il concetto spontanei prepara dunque il terreno per
l’acquisizione del concetto scientifico, ma a sua volta il concetto scientifico rende il bambino
sempre più consapevole dei concetti spontanei. Ciò non sarebbe possibile senza l’interazione
sociale e ambientale. Riguardo lo sviluppo cognitivo, mentre Piaget considera
l’apprendimento del bambino formato su una serie di stadi evolutivi, per Vygotskij lo
sviluppo cognitivo avviene tramite la relazione tra età stabili ed età critiche. Le età stabili
sono quei periodi di vita in cui i cambiamenti sono minimi, ma che con l’accumularsi, portano
alla creazione di età critiche che consentono il passaggio allo stadio successivo; queste crisi
sono importanti perché, se superate correttamente, garantiscono uno sviluppo cognitivo
corretto. Inoltre, egli considera il bambino come dotato di un potenziale che gli permette di
acquisire nuove conoscenze nel momento in cui entra in contatto con soggetti aventi una
maturazione cognitiva e una cultura maggiore di quella posseduta dal bambino. Pertanto, per
Vygotskij, l’educatore deve lavorare sulle sue potenzialità.
LA ZONA DI SVILUPPO PROSSIMALE: per spiegare la teoria secondo cui l’insegnante
debba lavorare sulle potenzialità del bambino, Vygotskij introduce il concetto di zona di
sviluppo prossimale, descrivendola come la distanza tra il livello di sviluppo effettivo
(ovvero il livello di sviluppo che il bambino possiede nel risolvere un compito da solo) e il
livello di sviluppo potenziale (ovvero ciò che il bambino riesce a fare con l’aiuto di qualcuno
più esperto). Questa distanza scaturisce da una discrepanza tra la comprensione e la
produzione: posto di fronte a un problema di livello un po’ superiore alle sue effettive
competenze, il bambino, senza aiuto, può riuscire solo a comprendere il problema ma non a
risolverlo; supportato invece dalla persona più esperta, riesce a risolverlo. Se,
successivamente, il bambino impara a padroneggiare il problema da solo, significa che la
competenza è stata interiorizzata. A questo punto, si innescherà una reazione a catena che
permetterà il progredire dello sviluppo cognitivo che, secondo Vygotskij, è reso possibile
dalla continua interazione sociale tra le persone.
L’INTERIORIZZAZIONE: Vygotskij punta l’attenzione sulle competenze che il bambino
acquisisce, interiorizzandole, in seguito a nuove esperienze sociali. Egli individua quattro
stadi nel processo di interiorizzazione, alla fine dei quali il bambino giunge a
un’interiorizzazione. L’interiorizzazione, quindi, è un processo di passaggio
dall’interpsichico (relativo ai rapporti con gli altri) all’intrapsichico (relativo ai rapporti tra
più parti di sé) ed è un processo sociale, perché avviene tra bambino e adulti ed è mediato
dall’uso del linguaggio.

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GLI STIMOLI-MEZZO: è uno stimolo creato dall’uomo, utilizzato per instaurare un nuovo
rapporto stimolo-risposta, indirizzando il comportamento verso una determinata direzione.
Essi sono qualunque stimolo proveniente dall’ambiente, fondamentali per l’acquisizione
dei processi psichici superiori. Per diventare funzione psichica superiore è necessario
l’intervento degli stimoli-mezzo che provengono dall’ambiente esterno.
LE INFLUENZE DI VYGOTSKIJ: la prospettiva globale di Vygotskij ha influenzato molte
teorie importanti in ambito educativo quali: il modello ecologico e la teoria dell’attività. Il
modello ecologico teorizzato dallo psicologo di origine russa Urie Bronfenbrenner intende
l’ambiente di sviluppo del bambino come una serie di cerchi concentrici, legati tra loro da
relazioni umane, sociali e ambientali. Nella teoria dell’attività, invece, il concetto di attività
delinea una sintesi globale delle funzioni psichiche lungo la scala filogenetica, mettendo in
evidenza le differenze tra lo sviluppo psichico degli animali e lo sviluppo della psiche umana.

JEROME BRUNER

Partendo dalle teorie di Piaget e soprattutto di Vygotskij, sviluppò un pensiero in cui la


cultura gioca un ruolo di fondamentale importanza nello sviluppo dell’individuo, motivo per
cui la sua teoria viene definita culturalismo. Il culturalismo considera l’importanza
dell’influenza che i contesti sociali e culturali condivisi hanno sui processi di apprendimento.
A tal proposito, Bruner sostiene che il soggetto, proprio attraverso i rapporti interpersonali,
costruisce le prime, basilari competenze che, in un secondo momento, interiorizza attraverso
il pensiero e il ragionamento. Questo approccio è interessato all’intersoggettività, principio
che sta alla base della psicologia culturale. La psicologia culturale, secondo Bruner, cerca di
comprendere il significato che l’uomo dà ai propri sentimenti, alla propria vita e ai valori che
condivide con gli altri. Lo sviluppo cognitivo per Bruner si realizza come capacità di mettere
in atto una serie di strategie per risolvere problemi. Egli attribuisce una grande importanza
alla situazione e al contesto in cui si affrontano i problemi (ossia ai fattori sociali), ma anche
alle spinte motivazionali (fattori individuali). Lo sviluppo cognitivo procede passando da
sistemi poveri a sistemi sempre più ricchi. Tale passaggio avviene attraverso tre forme di
rappresentazione della realtà: l’azione, l’immagine e il linguaggio, cui corrispondono tre
diversi tipi di elaborazione cognitiva: esecutiva, iconica, simbolica. La rappresentazione
esecutiva è la caratteristica del primo anno di vita, in cui il bambino utilizza la manipolazione,
la percezione, l’attenzione e l’interazione sociale. Il bambino ha una conoscenza motoria della
realtà, ossia apprende e comprende agendo. La rappresentazione iconica si basa su
rappresentazioni mentali e immagini interne, che costituiscono una riorganizzazione della
realtà. La fase della rappresentazione iconica dura fino ai sette anni. La rappresentazione
simbolica è un’espressione della realtà attraverso segni e simboli convenzionali, ossia stabiliti
socialmente. La parola rappresenta il significato dell’oggetto ed esprime un concetto. Tutti i
processi mentali hanno un fondamento sociale. Su questo sfondo, Bruner considera

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l’apprendimento un processo attivo in cui il soggetto costruisce nuove idee o concetti a partire
dalla sua conoscenza passata e presente. Secondo Bruner, infatti, gli elementi fondamentali
di sviluppo della mente umana sono sia i contesti socio-culturali sia i sistemi simbolici che
una cultura produce. Nella prospettiva di Bruner ciò che deve essere maggiormente
approfondito è il rapporto tra gli individui, ovunque ci sia un incontro e un confronto tra
soggetti diversi.
PENSIERO NARRATIVO: Bruner approfondisce lo studio di due tipi di funzionamento
cognitivo: il pensiero logico scientifico e il pensiero narrativo. Il pensiero logico scientifico
permette di spiegare ciò che succede; il pensiero narrativo permette di interpretare ciò che
succede. Il pensiero umano deve la sua ricchezza alla collaborazione di questi due tipi di
pensiero. Bruner afferma inoltre che il ruolo della cultura è duplice: plasma la mente e fornisce
il materiale per le attività conoscitive.

LE NEUROSCIENZE

Alla base delle neuroscienze c’è il riconoscimento dell’interazione tra la biologia e la


psicologia. Le neuroscienze studiano il sistema nervoso centrale e periferico relativamente
alla struttura, allo sviluppo, alla biochimica, alla fisiologia, alla farmacologia e alla patologia.
Tra i temi più importanti di cui si occupano le neuroscienze c’è: 1) il funzionamento dei
neurotrasmettitori nelle sinapsi; 2) il funzionamento delle strutture neurali; 3) il modo in
cui i geni contribuiscono allo sviluppo neurale; 4) i meccanismi biologici alla base
dell’apprendimento; 5) la struttura e il funzionamento della percezione, della memoria e del
linguaggio. Si accosta alle neuroscienze, la psicologia cognitiva (o cognitivismo), uno dei
più importanti movimenti della psicologia contemporanea secondo il quale la mente umana
funziona elaborando attivamente informazioni che le giungono tramite gli organi sensoriali,
in analogia con i meccanismi di tipo cibernetico. Dagli anni Settanta del Novecento, è
avvenuta una svolta che pone in dialogo neuroscienze e psicologia, cercando di superare l’idea
di una incomunicabilità tra il livello biologico del cervello e il livello legato al pensiero.
I NEURONI SPECCHIO (RIZZOLATTI): contributo fondamentale agli studi sulle
neuroscienze viene dal laboratorio di neurofisiologia dell’Università di Parma, dove, negli
anni Novanta, si è svolto un importante esperimento ad opera di un gruppo di ricercatori
coordinati dal neuroscienziato italiano Giacomo Rizzolatti. Nel corso di una pausa di lavoro,
una scimmia stava tranquillamente seduta sulla sua sedia in attesa del nuovo compito.
Qualcuno dei ricercatori fece qualcosa e all’improvviso sentì una scarica di attività prodursi
nel computer collegato agli elettrodi impiantati nel cervello della scimmia, come se essa stessa
compiesse l’azione messa in atto dal ricercatore, sebbene nella realtà non facesse alcun
movimento. Da qui iniziarono le varie ricerche sui neuroni specchio, una particolare classe
di neuroni (che si attivano sia quando si compie un’azione sia quando la si osserva mentre è

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compiuta da altri) che ha permetto di ribaltare alcune concezioni. Oggi sappiamo che i neuroni
specchio ci forniscono una spiegazione neurofisiologica per certe complesse attività mentali.

LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO

Il linguaggio è uno dei caratteri peculiari dell’essere umano, per il quale svolge un ruolo di
primaria importanza, sia nelle interazioni sociali, sia nel funzionamento cognitivo.
LA TEORIA DI SKINNER: secondo Skinner un soggetto impara a parlare in modo del
tutto simile a quello con cui apprende ogni altra tipologia di comportamento, cioè mediante
le sue interrelazioni con l’ambiente, quindi tramite rinforzi e punizioni. Egli ritiene che i
bambini imparino a parlare correttamente perché “rinforzati” circa l’utilizzo del linguaggio.
La teoria di Skinner ha ricevuto molte critiche in quanto considera il bambino un soggetto
passivo, capace solo di rispondere agli impulsi stimolativi e ai rinforzi esterni.
LA TEORIA DI CHOMSKY: massimo esponente della teoria innatista del linguaggio, in
base alla quale gli esseri umani sono predisposti fin dalla nascita allo sviluppo del linguaggio,
Chomsky sostiene che la linguistica debba essere considerata una parte dell’indagine
psicologica. Formula l’innovativa ipotesi secondo cui il procedimento di acquisizione di una
lingua è frutto di una facoltà per la maggior parte innata, in quanto comporta, già nel
bambino, la conoscenza di un insieme di regole molto complesse. Di conseguenza l’indagine
della linguistica deve partire dallo studio della grammatica mentale, presente nel soggetto già
dalla nascita. Lo studioso americano distingue tra: competence, intesa come la capacità di
generare e comprendere l’insieme di frasi di una lingua; performance, corrispondente alla
capacità di costruire concretamente le possibilità offerte dalla competence, quindi le reali
manifestazioni linguistiche del soggetto. La manifestazione del linguaggio avviene in seguito
alla maturazione di un meccanismo specifico a base innata, cosicché il momento della sua
comparsa è predeterminato nel patrimonio genetico del soggetto.
LO SVILUPPO DEL LINGUAGGIO PER PIAGET E VYGOTSKJ: lo sviluppo del
linguaggio è un punto cruciale di divergenza tra Vygotskij e Piaget. Secondo Piaget, lo
sviluppo del linguaggio si evolve dall’interno verso l’esterno, secondo la seguente scansione:
linguaggio autistico, linguaggio egocentrico, linguaggio sociale. Il linguaggio del bambino,
intorno al secondo anno di vita, è un linguaggio di tipo autistico, volto a soddisfare i bisogni
essenziali all’Io; con il passaggio allo stadio pre-operatorio, diventa egocentrico, incentrato
sul proprio punto di vista; poi, intorno al settimo anno, col raggiungimento dello stadio
operatorio concreto, il linguaggio diventa sociale, quindi comunicativo. Vygotskij al
contrario sostiene che il linguaggio del bambino sia già in origine di tipo sociale perché viene
assorbito in modo inconscio in famiglia e nell’ambiente circostante. All’inizio esso assolve
solo una funzione sociale ma, progressivamente, compare un uso intrapsichico che svolge
una funzione interpersonale. Dai due ai sei anni il linguaggio si espande e si articola in due

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piani diversi, di cui uno conserva la funzione di contatto sociale e di normale comunicazione
con gli altri, mentre l’altro diventa linguaggio egocentrico, volto a soddisfare i bisogni
dell’egocentrismo individuale. Questo linguaggio è in transito dall’esterno verso l’interno.
Poi, intorno al settimo anno d’età, questo linguaggio non scompare, come voleva Piaget, ma
diventa linguaggio per sé e serve per ordinare le idee.
UTA FRITH: secondo la psicologa tedesca, il bambino giunge al possesso delle regole
linguistiche attraverso quattro stadi. Questi stadi sono: 1) stadio logografico o ideografico; 2)
stadio alfabetico; 3) stadio ortografico; 4) stadio lessicale.
RAY BIRDWHISTELL: studioso del comportamento, ha individuato una cinquantina di
movimenti e di posizioni elementari del corpo (cinemi), che costituiscono il repertorio di cui
una persona può avvalersi nel corso di una comunicazione. La comunicazione non verbale è
spesso, infatti, involontaria.
PAUL EKMAN: sostiene che esistono determinate espressioni facciali, relative alle
emozioni, che sono comuni in tutto il mondo.
PAUL WATZLAWICK: sostiene che “Non si può non comunicare”, nel senso che anche
uno sguardo, un movimento o un semplice inarcare le sopracciglia veicolano un messaggio a
chi ci sta di fronte.
EDWARD HALL: ha coniato il termine “prossemica” per indicare le modalità con cui
l’uomo percepisce lo spazio personale e sociale nell’ambito della comunicazione
interpersonale. La prossemica mostra che la disposizione dei corpi nello spazio fisico può
avere valore comunicativo. Secondo Hall, gli individui possono porsi a quattro livelli di
distanza (intima, personale, sociale, pubblica).

SVILUPPO PSICODINAMICO, SOCIALE ED EMOTIVO

Le teorie psicoanalitiche di Freud e Erikson hanno apportato un notevole contributo alla


psicologia dello sviluppo.
LA TEORIA DI FREUD: fondatore della psicoanalisi, ritiene che durante i primi anni di
vita vengano gettate le basi per la costruzione della personalità del soggetto adulto, che si
sviluppa attraverso i vari tentativi effettuati per affrontare i conflitti che si incontrano. I
conflitti dipendono dalla facoltà di saper scaricare o meno l’energia pulsionale su oggetti
esterni o interiorizzati. In particolare, la libido presenta diverse fasi evolutive, che si
localizzano in altrettante zone erogene. Le fasi sono cinque: 1) fase orale (0-18 mesi): è
rappresentata dall’attività della suzione, fonte di piacere e nutrimento, e dall’introiezione,
ovvero dall’impossessamento dell’oggetto mediante l’introduzione orale; 2) fase anale (18
mesi-3 anni): è quella in cui l’ano (la capacità di controllo nel ritenere ed espellere le feci)

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rappresenta il luogo più importante dei desideri sessuali; 3) fase fallica (3-5 anni): è quella in
cui l’unico organo conosciuto, sia dal maschio che dalla femmina, è il fallo, che crea
un’opposizione tra i due sessi. In questa fase, Freud pone la nascita del complesso edipico,
inteso come coacervo dei sentimenti amorosi e ostili che il bambino sperimenta nei confronti
dei genitori: si verifica ora un’inconscia competizione tra il bambino e il genitore dello stesso
sesso, unitamente al desiderio sessuale nei confronti del genitore del sesso opposto; 4) fase di
latenza (6-12 anni): in questa fase si conclude il periodo fallico. La sessualità appare sopita
o spostata verso attività considerate più accettabili (gioco, socializzazione, studio, scuola); 5)
fase genitale (12-15 anni): è caratterizzata dalle trasformazioni che avvengono nella pubertà
e dal passaggio alla vera e propria organizzazione genitale adulta.
LO SVILUPPO PSICO-SOCIALE DI ERIKSON: sostiene che alla dimensione psico-
sessuale di Freud vada aggiunta la dimensione psico-sociale. Egli divide il ciclo di vita
dell’uomo in otto età, disposte in sequenza ordinata che si ripete in tutti gli individui. Tra un
ciclo e l’altro, l’individuo si trova a dover affrontare costantemente delle specifiche “crisi”
psico-sociali, sullo sfondo delle quali si colloca il problema dell’identità. La grande novità
di Erikson rispetto a Freud consiste nel ritenere che lo sviluppo psico-sociale continui oltre
l’adolescenza e prosegua per tutta la vita dell’individuo.
ANNA FREUD: ha affrontato direttamente il problema delle nevrosi infantili nel suo
principale scritto, “L’io e i meccanismi di difesa” (1936), in cui pone l’accento sulle vie di
fuga dell’Io di fronte all’angoscia causata dalle repressioni della morale, della realtà e dalle
pulsioni stesse.
MELANIE KLEIN: si concentra sullo studio delle nevrosi precoci. Il gioco diventa lo
strumento fondamentale di ricerca per comprendere le fantasie o le angosce più profonde del
ambino. Emerge un’idea dell’inconscio infantile come luogo delle “produzioni
fantasmatiche”. Il bambino, secondo Klein, si trova, sin dall’inizio della sua vita, in una
condizione di frammentazione e scissione dei suoi desideri e delle sue pulsioni. Klein
introduce la nozione di posizione per indicare le modalità con cui il bambino si relaziona agli
oggetti. La posizione iniziale è definita “schizoparanoide”, ed è appunto quella in cui si
manifesta la frammentazione originaria, in cui cioè affiora un sentimento d’angoscia per la
divisione tra oggetti buoni e cattivi. Solo più tardi, dopo il quarto mese di vita, con la posizione
“depressiva” il bambino è in condizione di percepire la totalità.
HEINZ KOHUT: sostiene che il neonato possiede, come per Klein, un’unità psichica
frammentaria. Tutta la teoria di Kohut si propone come indagine sui processi di
strutturazione della soggettività e della personalità. Egli definisce “Sé” l’apparato psichico
originario. Poiché il Sé primitivo del bambino è disunito, per giungere alla “coesione” ha
bisogno del rapporto con l’Altro.
DONALD WINNICOTT: centrale è lo studio dell’influenza dell’ambiente nello sviluppo
del soggetto che si esprime nella relazione di legame e di separazione tra madre e bambino.
Il punto di partenza è la prima immagine materna. Il neonato percepisce una sorta di
mamma-ambiente empaticamente protettiva. È il cosiddetto holding che indica il
complesso della gestualità materna: cullare, sostenere, proteggere affettivamente. La

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“continuità d’essere” è per Winnicott la possibilità che l’io del bambino possa strutturarsi
senza soffrire l’urto dell’ambiente. Per garantire la separazione c’è bisogno che si instauri tra
mamma e bambino uno spazio simbolico, ossia quello del gioco, in cui si inseriscono i
cosiddetti “oggetti transazionali”: animali di peluche che il bambino tiene nelle situazioni di
distacco. Secondo Winnicott nel passaggio della fase fusionale a quella soggettiva il bambino
scopre l’esistenza del mondo esterno. Particolarmente interessanti per la teoria della
personalità sono i concetti di “Sé” (Self) e quelli di “vero Sé” e “falso Sé”. Il “vero sé”
comprende tutto ciò che di “vivente” esiste nel soggetto. Affinché si formi il true Self nella
propria personalità è necessaria la presenza di una madre che faciliti questa evoluzione. Il
“falso Sé”, invece, è uno sviluppo abnorme delle difese dell’Io che si manifesta soprattutto
sotto forma di iperattività mentale e di precoce investimento delle proprie funzioni intellettive.
Il “falso Sé” serve a proteggere un “vero Sé” troppo frammentato e corrisponde alla
dimensione superficiale e convenzionale dei legami sociali. Il compito di una terapia
psicoanalitica è quello di destrutturare il “falso Sé” attraverso la regressione, in modo da
consentire al “vero Sé” di esprimersi pienamente.
RENE’ SPITZ: constatò che esistono determinate esperienze esistenziali, le quali
rappresentano veri e propri criteri organizzatori di alcune tappe dello sviluppo psicologico
dell’individuo. Ne identificò tre: 1) fase pre-oggettuale; 2) fase dell’oggetto precursore; 3)
fase dell’oggetto libidico. Intorno ai due anni, il bambino comincia a dire no alla madre. Ciò
denota il distacco, la separazione identitaria del figlio dalla madre, la quale da ora in poi sarà
una persona diversa da lui.
MARGARET MAHLER: la sua teoria si basa sul processo di separazione-individuazione,
che consiste in due sviluppi complementari: la separazione avviene con l’emergere del
bambino da una fusione simbiotica con la madre, mentre l’individuazione riguarda la
graduale assunzione da parte del piccolo delle proprie caratteristiche individuali.
DANIEL STERN: individua quattro fasi dello “sviluppo del Sé”: 1) Sé emergente (nei
primi due mesi di vita il piccolo instaura con la madre un rapporto che svolge una funzione
di regolazione fisiologica); 2) Sé nucleare (fase in cui si inizia ad interagire con l’altro e a
concepirlo come soggetto regolatore dei propri stati fisiologici e psicologici); 3) Sé soggettivo
(momento in cui il bambino capisce di avere una mente, che hanno anche gli altri; tale
consapevolezza è alla base del pensiero empatico); 4) Sé verbale (manifestazione del
linguaggio con cui il bambino acquista una nuova conoscenza del mondo).
KONRAD LORENZ (ETOLOGIA): per lo studioso, i fattori che determinano l’evoluzione
sono il cambiamento e la selezione. Lorenz distingue l’aggressività rivolta verso individui
di specie diversa da quella nei confronti degli individui della stessa specie. Secondo l’analisi
di Lorenz, a minacciare direttamente l’esistenza di una specie animale non è il nemico
predatore ma il concorrente. L’aggressività interviene nel regolare il comportamento
dell’individuo nella società in cui vive, attraverso la sopravvivenza.
L’APPROCCIO ETOLOGICO DI BOWLBY: esponente della corrente etologica, che
sostiene che tra l’individuo e l’ambiente si crea un rapporto di interdipendenza che
influenza il processo evolutivo del soggetto, oltre che lo sviluppo della sua personalità.

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Bowlby valorizzava il ruolo dell’ambiente nello studio e nella comprensione dei disturbi
psichici, piuttosto che il ruolo delle fantasie inconsce. Lo sviluppo del soggetto, quindi, non
dipende dal soddisfacimento sessuale ma dall’appagamento del bisogno di instaurare
legami di affetto. Il punto di partenza delle sue riflessioni sono le osservazioni del legame
tra madre e figlio nei primati. Egli ipotizzò che l’attaccamento fosse una funzione importante
nell’evoluzione di una specie in quanto ne favorisce la sopravvivenza. Attaccamento significa
focalizzare l’attenzione sul neonato di percepire la vicinanza e il contatto fisico con una
persona di riferimento. Si sviluppa nei primi mesi di vita intorno ad un’unica figura,
solitamente la madre, giacché è la prima a occuparsi del bambino. Esistono per Bowlby due
differenti tipi di attaccamento: 1) attaccamento sicuro (si sviluppa se il bambino sente di
avere dalla figura di riferimento protezione, sicurezza, affetto); 2) attaccamento insicuro (si
sviluppa quando il bambino nutre nei confronti della figura di riferimento sentimenti come
instabilità, prudenza, paura dell’abbandono). È fondamentale sviluppare un tipo di
attaccamento adeguato, poiché dipende da questo un buono sviluppo della persona. Le
ricerche di Bowlby hanno evidenziato che la separazione dalla figura di riferimento può essere
suddivisa in tre momenti: la protesta, la disperazione e il distacco.
MARY AINSWORTH: ha elaborato una procedura, chiamata strange situation, per
osservare le relazioni di attaccamento tra la madre, degli estranei e il bambino. Nella
procedura indicata dalla studiosa, il bambino viene osservato mentre gioca per venti minuti,
mentre i caregiver e degli estranei entrano ed escano dalla stanza. Sulla base del
comportamento adottato, si classifica il pattern di adattamento del bambino: 1) attaccamento
sicuro (la madre è sensibile alle richieste del bambino, mentre quest’ultimo mostra equilibrio,
sicurezza e fiducia); 2) attaccamento insicuro-evitante (la madre è insensibile ai segnali del
bambino, mentre il bambino mostra comportamenti di distacco, e si mostra indifferente alla
separazione); 3) attaccamento insicuro ansioso-ambivalente (la madre è imprevedibile
nelle riposte, il bambino prova forte disagio alla separazione ed è inconsolabile al ritorno della
madre); 4) attaccamento disorganizzato (la madre è incapace di rispondere alle richieste del
bambino il quale è disorientato).
HARRY HARLOW: studiò la separazione dalla madre e gli effetti dell’isolamento sociale
nelle scimmie, ponendole appena nate a contatto con due surrogati materni. Egli sostiene che
le basi della salute mentale stanno in una buona relazione primaria, e senza che vi sia stata
questa esperienza positiva, la vita sessuale e affettiva può presentare delle difficoltà in fase
evolutiva.
URIE BRONFENBRENNER: costituisce la figura più rappresentativa della scuola
ecologica, che concepisce il soggetto in fase di sviluppo come entità dinamica che agisce in
una propria struttura, in interazione con l’ambiente. Distingue nell’ambiente ecologico una
sequenza ordinata di strutture concentriche inserite l’una nell’altra, che egli identifica come
microsistema, mesosistema e macrosistema: all’interno di ognuna di esse il ruolo è dato dal
complesso delle attività e delle relazioni delle persone facenti parte di un determinato contesto
sociale.
ALAN SROUFE: è il principale esponente della teoria della differenziazione emotiva,
secondo la quale l’individuo possiede fin dalla nascita un corredo emotivo indifferenziato

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e le emozioni si differenziano con lo sviluppo dell’individuo stesso. Sroufe delinea in otto
stadi le fasi di sviluppo delle emozioni, passando da una eccitazione indifferenziata a una
differenziazione delle emozioni.
CARROLL IZARD: autore della teoria differenziale, per la quale il bambino possiede sin
dalla nascita un corredo emotivo, costituito da emozioni fondamentali quali rabbia, tristezza,
gioia, disprezzo. Per Izard l’emozione è dunque un’organizzazione innata che concorre a
motivare un comportamento. Le emozioni vengono secondariamente influenzate
dall’esperienza e dall’apprendimento. Izard pone lo sviluppo emotivo in una forte relazione
genetica con lo sviluppo della coscienza.
ALBERT BANDURA: con il noto esperimento della bambola di pezza, egli evidenziò il peso
che i mezzi di comunicazione avevano nell’influenzare i comportamenti dei più piccoli, ma
anche che alcuni atteggiamenti, come l’aggressività, risentono del rinforzo sociale, ovvero
del verificare se certe azioni compiute da altri vengono premiate o punite. Secondo gli studi
di Bandura, quindi, l’aggressività aumenta se si osserva che le condotte violente vengono
ricompensate.

L’ADOLESCENZA

Lo studio dell’adolescenza è stato affrontato da diversi punti di vista.


APPROCCIO PSICOANALITICO: tende a considerare questo periodo come una fase
naturale dello sviluppo umano. Secondo l’ipotesi del determinismo psichico, l’adolescenza
si configura come un periodo caratterizzato dal fatto che problemi irrisolti nell’infanzia
chiedono di essere nuovamente presi in considerazione. Ciò avviene per via dell’intuizione di
Freud che nessun evento psicologico muore dentro di noi, ma, a seconda delle circostanze,
viene represso o rimosso, e pertanto può riemergere. Secondo Freud, un ulteriore elemento-
chiave dell’adolescenza è il distacco dalle figure genitoriali, per cui l’individuo deve
disinvestire gli oggetti di amore primari e reinvestire la pulsione libidica su oggetti d’amore
esterni alla famiglia e ai genitori. Si tratta di un vero e proprio “lutto”, che richiede di essere
elaborato da entrambi i componenti del rapporto. Anna Freud sostiene che lo sviluppo della
pubescenza non soltanto risveglia la sessualità, ma produce anche un aumento
dell’eccitazione nervosa, dell’ansietà e della fobia genitale. Infatti, le modificazioni
biologiche comportano una difficoltà di adattamento, perché il desiderio sessuale entra in
conflitto con l’equilibrio che si era stabilito tra l’Es, l’Io e il Super Io. La possibilità, o meno,
dell’Io di tollerare gli istinti dipende dal carattere che si è formato durante l’infanzia. Due
sono i meccanismi di difesa tipici che si organizzano in questo periodo: l’ascetismo e
l’intellettualizzazione. L’ascetismo della pubertà è una difesa nei confronti della vita
istintuale, per cui il giovane cerca di adottare un ipermoralismo caratterizzato da rigore e
autocontrollo; l’intellettualizzazione, invece, consiste nel rifiuto di lasciarsi coinvolgere

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emotivamente dalle situazioni: ciò si traduce in atteggiamenti freddi e distaccati. Sia
l’ascetismo che l’intellettualizzazione fanno fortemente intervenire l’intelligenza.
Negli anni Sessanta emergono quattro sfide che l’individuo deve affrontare nel periodo
adolescenziale: 1) la prima sfida è relativa al secondo processo di individuazione: si tratta
di un processo di distacco dalla madre e dalla relazione simbiotica con essa (intorno al terzo
anno di vita); 2) la seconda sfida riguarda la rielaborazione e il controllo dei traumi
infantili; 3) la terza sfida riguarda la continuità dell’Io, la cui funzione è di mediare i rapporti
con la realtà esterna; 4) infine, la quarta sfida riguarda la formazione dell’identità sessuale
e la capacità del soggetto di allacciare rapporti affettivi al di fuori della famiglia.
Nelle teorie psicoanalitiche classiche i genitori sono considerati come “oggetti” da cui
l’adolescente deve “distaccarsi”. Questi modelli sono stati molto criticati, a partire dagli anni
Ottanta, sulla base di prove empiriche, le quali mostravano un ritratto della famiglia molto
meno conflittuale e drammatico. L’antropologa Margaret Mead, ad esempio, nel suo
celebre Adolescenza in Samoa, ha messo in luce come le categorie di crisi e disagio risultano
assenti nell’esperienza dei giovani samoani, per i quali il passaggio dall’infanzia all’età adulta
si verifica senza conflitti o difficoltà particolari. È stato anche recentemente affermato che
esistono non “una”, ma “molte” adolescenze, con molteplici “crisi”, ciascuna legata a un
determinato problema specifico.

EMPATIA E INTELLIGENZA EMOTIVA

L’empatia è il segno distintivo dell’uomo. Essa diviene un’abilità sociale ed emotiva


indispensabile per sentire e comprendere le emozioni, le circostanze, le intenzioni, i
pensieri e i bisogni degli altri. Il termine deriva dal greco “empathéia”, composta da en-,
“dentro”, e pathos, “sofferenza, sentimento”. Essere empatici significa quindi “essere dentro”,
sintonizzarsi in modo profondo con gli stati d’animo e le emozioni altrui fino a percepirle
come se fossero nostre. L’empatia è appunto sentirsi in sintonia con l’oggetto, il cogliere che
esso “sente” ciò che noi sentiamo.
MARTIN HOFFMAN: nel suo libro “Empatia e sviluppo morale” definisce l’empatia “la
scintilla che fa scaturire l’interesse umano per gli altri, il collante che rende possibile la vita
sociale”. Individua in essa tre componenti: 1) la componente affettiva, che è la prima a
svilupparsi; 2) la componente cognitiva, che riguarda il pensiero e consiste nella capacità di
riconoscere gli stati emotivi vissuti dagli altri; 3) la componente motivazionale, che riguarda
il desiderio di aiuto che nasce dopo l’esperienza empatica. Successivamente, il concetto di
empatia si amplia e include anche: l’empatia culturale, l’empatia etno-culturale, l’empatia
positiva, l’empatia negativa.

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NEURONI SPECCHIO: questi neuroni sono considerati fondamentali in quanto sarebbero
alla base di alcuni importanti sentimenti, quali empatia, apprendimento, socialità. La loro
peculiarità è che si attivano non solo nella persona che compie un determinato movimento,
ma anche in chi lo sta osservando. Osservando quello che fanno gli altri, dunque, abbiamo
l’opportunità di capire le loro intenzioni, emozioni, provare empatia ma anche apprendere
con l’imitazione. L’attitudine all’empatia riveste, quindi, un ruolo indispensabile nella vita di
relazione perché consente la comunione con l’altro.
KARLA MCLAREN: ha elaborato un modello secondo il quale l’empatia è costituita da sei
aspetti essenziali separati l’uno dall’altro ma legati da un rapporto di reciprocità: contagio
emotivo, accuratezza empatica, regolazione emotiva, cambio di prospettiva, preoccuparsi per
gli altri, coinvolgimento intuitivo.
L’OMS ha inserito l’empatia tra le dieci Life Skills, vale a dire quelle abilità cognitive,
emotive e relazionali di base, che consentono alle persone di operare con competenza sia sul
piano individuale che su quello sociale, permettendo così di affrontare efficacemente le
richieste e le sfide della vita quotidiana. Gli insegnanti, poi, possono essere aiutati a divenire
empatici in quanto l’empatia non è qualcosa di “innato”, ma anzi può essere appresa
rapidamente in un clima empatico (Rogers). In Danimarca l’empatia è una vera e propria
materia scolastica: la Klassen Time. Adatte a sviluppare un atteggiamento empatico verso se
stessi e gli altri possono essere: la didattica laboratoriale, il problem solving, il debate, il
group reading activity, il role playing.
EMOZIONI E INTELLIGENZA: in psicologia, le emozioni sono spesso definite come uno
stato complesso di sentimenti che si traducono in cambiamenti fisici e psicologici che
influenzano il pensiero e il comportamento. Le emozioni si suddividono in emozioni
fondamentali (o primarie) ed emozioni complesse (o secondarie). Le emozioni primarie
si manifestano nei periodi iniziali della vita umana e sono: rabbia, paura, tristezza, sorpresa,
disgusto, accettazione. Le emozioni secondarie sono date dalla combinazione con le
emozioni primarie e riguardano: invidia, allegria, vergogna, ansia, rassegnazione, gelosia,
speranza, perdono, offesa, nostalgia, rimorso, delusione. Intelligenza ed emozioni sono state
considerate a lungo contrapposte. Il dibattito scientifico e filosofico sul tema dell’intelligenza
è tornato di attualità in seguito alla pubblicazione del saggio Formae mentis di Howard
Gardner che per primo ha proposto il modello di intelligenze multiple.
HOWARD GARDNER: nella sua teoria delle intelligenze multiple, lo psicologo sostituisce
alla vecchia concezione di “intelligenza” quale fattore unitario misurabile mediante il
“quoziente di intelligenza” (QI) una visione più dinamica e complessa, distinta in sottofattori
differenziati: dunque, non una sola intelligenza, ma intelligenze multiple. Gardner distingue
nove diverse tipologie di intelligenza, ognuna deputata a differenti campi dell’attività umana:
1) intelligenza logico-matematica; 2) intelligenza linguistico-verbale; 3) intelligenza
spaziale; 4) intelligenza musicale; 5) intelligenza cinestetica o procedurale; 6) intelligenza
interpersonale; 7) intelligenza intrapersonale; 8) intelligenza naturalistica; 9) intelligenza
esistenziale. Nel testo Cinque chiavi per il futuro (2006), Gardner sostiene che i giovani
dispongono di cinque canali strategici per affrontare la vita: l’intelligenza disciplinare;

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l’intelligenza sintetica; l’intelligenza creativa; l’intelligenza rispettosa dell’alterità;
l’intelligenza etica.
ROBERT STERNBERG: sulla scia di Gardner, ha elaborato una propria teoria sul pensiero
intelligente. Secondo l’autore, il pensiero umano si fonda su tre tipi di intelligenze
fondamentali: 1) intelligenza analitica; 2) intelligenza creativa; 3) intelligenza pratica.
DANIEL GOLEMAN: definisce l’intelligenza emotiva come “la capacità di motivare se
stessi, di persistere nel perseguire un obiettivo nonostante le frustrazioni, di controllare gli
impulsi e rimandare la gratificazione, di modulare i propri stati d’animo evitando che la
sofferenza ci impedisca di pensare, di essere empatici e di sperare”. Le cinque caratteristiche
dell’intelligenza emotiva individuate dall’autore sono: 1) consapevolezza di sé; 2) dominio
di sé; 3) motivazione; 4) empatia; 5) abilità sociale.

CREATIVITA’ E PENSIERO DIVERGENTE

La creatività è un termine che indica genericamente la capacità della mente di creare e


inventare. Creatività è anche la capacità di cambiare, uscire fuori dagli schemi, dalle cose
comunemente accettate.
SIGMUND FREUD: nella concezione freudiana, l’artista si espone alla tensione dialettica
tra conscio e inconscio. Freud considerava gli artisti i veri precursori nella conoscenza del
mondo psichico. Egli individua l’origine della creatività nel desiderio infantile. Per Freud, il
talento e l’abilità artistica sono legati al processo di sublimazione. Tutto il processo creativo
farebbe da ponte tra la vita “fantasmatica” del bambino e la realtà.
CARL JUNG: il processo creativo si può sviluppare in due modalità, l’una di tipo
psicologico, l’altra di tipo visionario.
DONALD WINNICOTT: intende la creatività come una funzione dell’attività sana degli
individui. Egli, inoltre, assegna alla creatività una funzione vitale. La madre presenta il
mondo al bambino e fa in modo che questi possa farlo proprio in modo creativo, del tutto
soggettivo e personale. È in questa dimensione che si sviluppa la creatività, un’esperienza al
limite tra l’illusione e la realtà.
EDWARD DE BONO: elabora la teoria del “pensiero laterale” che serve per risolvere i
problemi utilizzando metodi non ortodossi o “apparentemente illogici”. Il pensiero laterale,
infatti, pur apparendo “illogico”, segue la logica della percezione (si collega all’intelligenza
emotiva di Gardner). Il pensiero laterale, che è esplorativo, può fare dei salti e consente di
essere creativi, si contrappone al pensiero verticale, che è logico, selettivo e sequenziale.
Secondo il pensiero laterale, a seconda di una determinata problematica, la nostra valutazione

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cambia a seconda del punto di osservazione. Pertanto, si può immaginare di indossare un
cappello diverso in base alle situazioni.
I SEI CAPPELLI PER PENSARE DI DE BONO: favoriscono l’attivazione di diversi
settori della mente. Il fatto di “dover” indossare un cappello determina un’autovalutazione del
proprio pensiero. Per applicare questa tecnica metacognitiva supponiamo di indossare un
cappello di diverso colore.
- CAPPELLO BIANCO: pensare con il cappello bianco significa essere neutrali ed
obiettivi, valutare soltanto ciò che è supportato da prove.
- CAPPELLO ROSSO: utilizzare il cappello rosso significa “pensare con il cuore”.
Colui che pensa col cappello rosso si colloca all’estremo opposto del pensatore con il
cappello bianco. Il pensiero da cappello rosso non ha bisogno di giustificazioni o di
basi logiche.
- CAPPELLO GIALLO: il pensiero con il cappello giallo è costruttivo, concerne cioè
le valutazioni ottimistiche. È fondato su una base logica, valuta guadagni e benefici,
offre suggerimenti e proposte concrete. Il pensatore con il cappello giallo sogna e si
diverte a fantasticare, mantenendo però i piedi per terra.
- CAPPELLO NERO: è l’avvocato del diavolo. Rileva gli aspetti negativi, le ragioni
per cui la cosa non può andare. L’oggetto specifico del pensiero con il cappello nero è
la valutazione pessimistica. Il pensiero è sempre logico-negativo, ma non emotivo.
- CAPPELLO VERDE: indica sbocchi creativi, nuove idee, visioni insolite. Il cappello
verde serve per produrre il pensiero creativo. Pensare con il cappello verde significa
muovere da un’idea per approdare a una nuova visione. Il pensatore con il cappello
verde utilizza le tecniche del pensiero laterale per generare concetti nuovi, affrontando
l’ignoto e i rischi.
- CAPPELLO BLU: è adibito al controllo e chi lo usa organizza il pensiero necessario
per esplorare un argomento. Il pensatore con il cappello blu è il direttore d’orchestra,
colui che mette a fuoco i problemi.
J. P. GUILFORD: conia l’espressione di “pensiero divergente”, che è quella più
strettamente connessa all’atto creativo. Lo studioso asserisce che il pensiero divergente è la
capacità di produrre una gamma di possibili soluzioni alternative per una data questione, in
particolare per un problema che non preveda un’unica risposta corretta. Secondo Guilford, il
pensiero divergente è misurato da tre indici: la fluidità, la flessibilità e l’originalità. Lo
studioso si sofferma anche su un secondo modello di pensiero, il “pensiero convergente”,
tramite il quale gli individui “convergono”, appunto”, invece che “discostarsi” sull’unica
risposta accettabile a un problema e producono efficacemente la soluzione. Il pensiero
convergente è, quindi, il ragionamento logico e razionale. Questo “pensiero” si adatta a
problemi “chiusi”, il più delle volte è la forma di pensiero maggiormente sollecitata dalla
scuola. È particolarmente importante che gli insegnanti siano consci delle opportunità di
incoraggiare il pensiero divergente nei loro allievi.
HEBERT JAOUI: l’alternanza tra pensiero divergente e convergente è detta del doppio
imbuto e si applica in tutte le tappe del metodo creativo P.A.P.S.A., ideato da Jaoui,
considerato tra i maggiori esponenti della creatività applicata. Egli parte dal presupposto che

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spesso la reazione spontanea ad un problema è cercare subito una soluzione. Capita, però, che
si trovino delle soluzioni che poi si rivelano inadeguate. Il problema nasce dal fatto che,
talvolta, i sintomi di una situazione problematica non siano il problema, ma solamente una
sua manifestazione. Ecco perché la creatività nella soluzione di problemi è frutto
dell’applicazione di un metodo di lavoro a più tappe. Le tappe individuate per la risoluzione
di situazioni problematiche sono: percezione, analisi, produzione, selezione, applicazione.
EDUCARE ALLA CREATIVITA’: l’apprendimento è per definizione un atto creativo. Si
tratta allora di aiutare ogni alunno a sviluppare la sua capacità di inventiva, di manipolazione
della realtà, di invenzione di storie, di saper fare ipotesi e progetti. KEN ROBINSON
sostiene che la scuola abbia il grave problema di uccidere la creatività, ponendo così un
freno alo sviluppo mentale degli studenti (esattamente il contrario di quel che l’istruzione
dovrebbe fare). Secondo Robinson, tutti nasciamo con dei grandissimi talenti naturali, ma
alla fine del percorso di istruzione molti li perdono perché la scuola non ha dato ad essi valore
o addirittura li ha stigmatizzati annullando la loro curiosità e voglia di imparare. Nelle
Indicazioni Nazionali 2012, tra i principi metodologici che contraddistinguono un’efficace
azione formativa, viene citato il “favorire l’esplorazione e la scoperta, al fine di promuovere
il gusto per la ricerca di nuove conoscenze”.
PEDAGOGIA DELLA CREATIVITA’: per attuare una pedagogia della creatività bisogna
distinguere due interventi differenti: l’insegnamento creativo e l’apprendimento creativo.
L’insegnamento creativo consiste nel pianificare compiti fuori dal comune attuando una vera
e propria didattica della creatività. L’apprendimento creativo permette all’alunno di
costruire competenze specifiche. Per favorire lo sviluppo della creatività, l’attività didattica
punterà sullo sviluppo del pensiero ipotetico, che porti l’alunno a problematizzare
l’esperienza e ricercare personali soluzioni. La creatività si accende quando c’è un
problema da risolvere o un ostacolo da superare. Essa è pertanto sinonimo di pensiero
divergente.
- IL BRAINSTORMING: particolarmente efficace per stimolare la creatività è il
brainstorming. La tecnica è stata utilizzata a partire dagli anni ’50 nell’industria come
mezzo per superare difficoltà, risolvere problemi, sciogliere il pensiero, allenare
all’ascolto e all’accettazione delle idee altrui. Ideatore è Alex Osborn, teorico della
creatività, che la definisce “una tecnica di conferenza con la quale un gruppo cerca di
trovare una soluzione per un problema specifico, accumulando tutte le idee
spontaneamente sorte dai suoi membri”. Con questo metodo si riducono le naturali
inibizioni dei partecipanti, stimolando il pensiero divergente, in quanto spesso idee
“apparentemente infruttuose” ne innescano di utili.
- IL CONCASSAGE: è un’altra tecnica per stimolare la creatività. Il termina deriva dal
francese e può essere tradotto in italiano con frantumazione. La tecnica del
concassage consiste nell’esaminare la problematica da risolvere da tanti punti di vista
diversi e anche insoliti.

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CENNI DI PSICOLOGIA SOCIALE

La psicologia sociale è lo studio scientifico di come i pensieri, le sensazioni e i comportamenti


delle persone sono influenzati dalla presenza effettiva, immaginata o implicata degli altri.
Essa si basa su un assunto fondamentale: il giudizio sociale guida i comportamenti delle
persone.
GLI ATTEGGIAMENTI: l’atteggiamento è una chiave di comprensione del
comportamento. Per questo motivo, i teorici si sono interrogati su come studiare
l’atteggiamento e misurarlo. I metodi per rilevare gli atteggiamenti possono essere di due tipi:
espliciti e impliciti.
- METODI ESPLICITI: sono solitamente costituiti da un set di domande sottoposte al
soggetto, anche se il limite principale dei metodi espliciti è il totale controllo del
soggetto nel tipo della risposta data. Uno dei metodi più usati per rilevare gli
atteggiamenti esplicitamente sono le domande su Scala Likert. LIKERT propose di
misurare l’atteggiamento chiedendo alle persone di esprimere il loro grado di accordo
riguardo un set di affermazioni valutative. Il set di domande ruota sullo stesso tea, ma
ne analizza più sfaccettature, per poter comprendere a fondo la valutazione
complessiva del soggetto sul tema analizzato.
- METODI IMPLICITI: il principale limite dei metodi espliciti è rappresentato dalla
controllabilità delle risposte da parte del soggetto esaminato, il quale decide
liberamente cosa rispondere alle domande. Da qui nasce l’esigenza di usare metodi che
rilevino gli atteggiamenti in modo implicito. La comunicazione non verbale, ad
esempio, può essere utilizzata per rilevare indirettamente gli atteggiamenti. Il
comportamento non verbale, infatti, può rivelare informazioni valutative riguardo un
determinato oggetto in termini emotivi, cognitivi e comportamentali e, dunque, può
darci informazioni sugli atteggiamenti.
IL PREGIUDIZIO: stando all’etimologia del termine (pre-giudizio, giudizio che viene dato
prima), il pregiudizio non avrebbe un’accezione totalmente negativa. Una persona, infatti,
potrebbe formulare una valutazione positiva a priori. Uno dei principali metodi per attenuare
il pregiudizio è il contatto sociale, e consiste nell’aumento delle interazioni e conoscenza tra
membri di gruppi diversi. Questo tema ha particolare rilevanza nel contesto scolastico. Il
concetto di pregiudizio, dunque, si basa su informazioni assenti o sommarie rispetto ad un
oggetto sociale. Le informazioni sommarie riguardo ad un oggetto sociale sono chiamate
stereotipi e sono spesso associate ad un pregiudizio. STALLYBRASS definisce gli
stereotipi sociali come “un’immagine mentale semplificata al massimo”.
LA PERSUASIONE: è il tentativo volontario di influenzare credenze, atteggiamenti,
intenzioni, motivazioni o comportamenti di una persona. Lo psicologo ROBERT CIALDINI
ha concluso che esistono sei elementi fondamentali che possono facilitare la persuasione:
reciprocità, somiglianza, autorità, riprova sociale, simpatia, scarsità.

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LA LEADERSHIP: GARY YUKL definisce la leadership come “processo di
influenzamento degli altri finalizzato a capire e creare consenso su cosa c’è bisogno di fare e
sul come farlo; riguarda il processo di facilitazione degli sforzi individuali e collettivi al fine
di raggiungere gli obiettivi condivisi. Inizialmente, il costrutto di leadership aveva
un’accezione negativa poiché il gruppo era considerato sede dell’irrazionalità. Infatti, le
prime teorizzazioni psicoanalitiche inquadrano il gruppo come un fenomeno che riduce le
capacità intellettive. OTTO KENBERG è tra i primi autori della corrente psicoanalitica a
dare anche una concezione della leadership positiva e matura.
LA TEORIA DEL GRANDE UOMO E LA TEORIA DEI TRATTI: la teoria del grande
uomo sostiene che il successo di un leader dipenda da caratteristiche interne e stabili. È una
teoria che emerge sotto varie forme dalla fine dell’Ottocento al Novecento. Nelle primissime
versioni, le caratteristiche stabili erano l’etnia e la genetica; andando avanti col tempo, le
spiegazioni più comuni facevano riferimento ai tratti di personalità. Alcune ricerche hanno
mostrato che effettivamente esistono dei tratti correlati all’abilità di leadership
(estroversione, dominanza, mascolinità/femminilità, intelligenza, intelligenza emotiva).
LA TEORIA SITUAZIONALE: ipotizza che il fenomeno della leadership sia una funzione
del contesto. Per questo motivo, non è possibile identificare un leader efficace in ogni
contesto. È più corretto dire che la leadership dipende dal contesto. Il contesto esterno, infatti,
definisce quale sia il modo migliore di esprimere la leadership.
L’APPROCCIO TRANSAZIONALE: si focalizza sulla relazione bidirezionale tra leader
e componenti del gruppo. In questo modo, si superano i due approcci precedenti poiché i
membri del gruppo possono, a loro volta, influenzare il leader stesso in un continuo scambio.
IL POTERE: in psicologia sociale si definisce come “il grado potenziale di influenza di una
persona su un’altra; si rileva mediante la massima influenza potenziale”.
IL GRUPPO: un gruppo sociale è costituito da un certo numero di individui che
interagiscono l’uno con l’altro con regolarità. L’appartenenza al gruppo influenza il concetto
di identità sociale, che può attivarsi in determinate circostanze. Questa attivazione è chiamata
“salienza”. L’identità sociale, quindi attiva tutta una serie di processi psicosociali positivi
come la coesione, la cooperazione e la leadership. La cooperazione è il grado in cui
componenti di un gruppo agiscono in modo da trarre mutuo vantaggio. La coesione può
essere definita, invece, come la proprietà di gruppo che descrive le forze psicologiche che
conservano l’appartenenza delle persone al gruppo stesso. L’adesione di un gruppo,
specialmente nelle sue forme più estreme, determina un processo di depersonalizzazione che
può facilitare effetti negativi sia all’interno che all’esterno del gruppo. I fenomeni negativi
sono: la depersonalizzazione, la diffusione di responsabilità, il bullismo, il group thinking.

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PEDAGOGIA, APPRENDIMENTO E DIDATTICA

La pedagogia è oggi comunemente definita come il complesso di scienze relativo


all’educazione. L’educazione fa riferimento sia alla dimensione dello sviluppo delle
potenzialità umane che all’affinamento dei valori, degli affetti, delle relazioni sociali. Il
termine formazione indica il complesso degli eventi in grado di esercitare un’influenza
globale (cognitiva, mentale, culturale, sociale e affettiva) sull’individuo. “Formare” significa
stimolare un individuo a raggiungere una migliore coscienza e conoscenza di sé e del suo
mondo, a potenziare la propria personalità lungo tutta la vita. Si ha formazione quando sono
in giorno contemporaneamente i seguenti aspetti dell’individuo: quello psichico, quello etico
e quello sociale. L’attività dell’educare consiste in primo luogo nel permettere agli individui
di svilupparsi armonicamente. Inoltre, educare significa educare a pensare in maniera
complessa. Formarsi dovrebbe poter significare, infatti, sviluppare al massimo grado
possibile la propria identità psichica e sociale, i propri tratti caratteriali e la propria singolare
“visione del mondo”. Jerome Bruner, caposcuola della psicologia culturale, nell’opera “La
cultura dell’educazione” considera i fenomeni di apprendimento come una sintesi tra abilità
personali e capacità di relazione con gli altri.
FORMAZIONE INTELLETTUALE: si tratta di una dimensione volta a sviluppare la
capacità umana di fronteggiare l’esperienza in tutta la sua molteplicità. Per una buona
formazione intellettuale è necessario rafforzare la creatività cognitiva. L’uso creativo
dell’intelligenza, infatti, consente di apprendere ed elaborare saperi, e di riflettere su di essi,
promuovendo l’autonomia.
FORMAZIONE ESTETICA: l’educazione estetica è funzionale alla creatività che si
manifesta nelle più diverse produzioni culturali. Il risultato della formazione estetica è il
potenziamento della capacità immaginativa, strumento fondamentale di apertura al
cambiamento.
FORMAZIONE DEL CORPO E DEL MOVIMENTO: il corpo ha un fondamentale potere
di mediazione affettiva, cognitiva e comunicativa, ed è anche attraverso il corpo che si realizza
l’apprendimento. Diversi studiosi nel corso del tempo hanno sottolineato l’importanza del
movimento per la costruzione dell’identità personale.
FORMAZIONE AFFETTIVA E RELAZIONALE: la vita affettiva pone in relazione
l’organismo e l’ambiente. Le caratteristiche affettive attribuite a persone, cose, situazioni,
stati interni, tendono a fissarsi in schemi molto duraturi, spesso pervasivi della vita psichica
e sociale.
FORMAZIONE ETICA E SOCIALE: ogni singolo deve essere consapevole
dell’importanza degli “altri” per la costituzione della sua stessa identità. Dal rispetto per gli
altri, si arriva al rispetto per l’ambiente e per tutte le forme di vita animale. Per questo motivo,
la società caratterizzata da multiculturalità, multietnicità e multiconfessionalità offre un
patrimonio incredibilmente ricco di possibilità di apprendimento.

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Senza sviluppo individuale non sarebbe possibile alcuno sviluppo sociale. Tra ambiente e
individuo esiste una convergenza costante e necessaria. Ciò ci spinge continuamente a uno
scambio di esperienze, sentimenti, competenze, abilità, che risulta decisivo per l’evoluzione
naturale dell’essere umano. Apprendere significa modificarsi in funzione dell’ambiente
per adattarsi meglio a esso.

I PRINCIPALI APPROCCI TEORICI

GLI ASILI DI APORTI: in Italia la maggior parte delle prime attuazioni dell’educazione
popolare si deve all’iniziativa degli ambienti ecclesiastici in una sorta di missione cristiana
per contrastare l’allontanamento della fede. A intraprendere questo percorso è stato il
religioso FERRANTE APORTI, il quale concentra il suo studio sull’educazione
dell’infanzia, concependo l’asilo non solo come forma di assistenza, ma anche come
un’opera di prima educazione dei bambini. Infatti, nell’asilo, il piccolo avrebbe dovuto
raggiungere lo sviluppo armonico della sua personalità con un percorso articolato in tre
aspetti: fisico, intellettuale ed etico-religioso. Egli afferma, inoltre, che le lezioni dovrebbero
essere svolte in modo chiaro e vario, e che si accompagnino sempre al concetto di amore,
ossia un misto di comprensione, simpatia e indulgenza. I punti critici di questo approccio
riguardano: la mancata comprensione della psicologia infantile; lo scarso rilievo accordato
al gioco; l’apprendimento di preghiere troppo lunghe e difficili poiché in latino.
L’ORATORIO DI DON BOSCO: alle precarie condizioni di vita delle classi popolari,
rivolge la sua attenzione il prete GIOVANNI BOSCO. A Torino egli costituisce il primo
nucleo dell’oratorio che funzionerà come una casa annessa, simile a un pensionato. Ottenuta
l’approvazione vaticana nel 1869, la Congregazione di don Bosco si allarga in tutto il
territorio italiano, e successivamente anche all’estero. L’oratorio è un luogo dove prevale il
gioco sotto l’assistenza costante degli educatori. Infatti don Bosco individua nel gioco una
delle possibilità per attrarre i bambini ed educarli in un ambiente a loro misura. In questo
contesto, l’educatore diventerà una sorta di genitore, capace di guidarli e correggerli. Don
Bosco sostiene che l’allievo deve essere lasciato libero. Perciò l’autorità dell’educatore deve
presentarsi all’alunno come espressione della ragione. L’educazione religiosa teorizzata da
don Bosco segna una svolta profonda nella pedagogia cristiana, superando la prassi educativa
fondata sulla severità e sugli obblighi, appellandosi invece alla ragionevolezza dell’allievo.
FERRIERE E LE SCUOLE NUOVE: nelle “scuole nuove”, sorte in Europa e in America
a fine Ottocento, l’educazione viene intesa come formazione della personalità autonoma
dell’allievo. ADOLPHE FERRIERE rappresenta la figura di riferimento fondamentale
dell’attivismo pedagogico europeo. Nel 1899 fondò l’Ufficio internazionale delle scuole
nuove al fine di stabilire rapporti di reciproco aiuto tra le varie “scuole nuove”.

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IL METODO GLOBALE DI OVIDE DECROLY: lo psicologo OVIDE DECROLY è un
altro importante esponente dell’attivismo pedagogico. Le idee centrali della sua pedagogia
sono la conoscenza della psicologia infantile, il rispetto per l’individuo e la natura. Nella
Scuola dell’Ermitage, da lui fondata per sperimentare le sue teorie, ideò un ambiente
educativo in cui l’edificio scolastico era circondato dalla natura. Laboratori, campi e giardini,
allevamenti, spazi di gioco e di vita comune costituivano lo spazio educativo. In tal modo la
scuola svolgeva una duplice funzione: alfabetizzare l’alunno e promuovere la formazione
dell’identità personale. Inoltre, le attività di osservazione, di associazione e di espressione
costituiscono il cosiddetto “trittico decrolyano”, indispensabili per il metodo globale. La
conoscenza parte, dunque, dal concreto, si passa poi all’astratto; con la sintesi si recupera
l’intero ma con una conoscenza profonda delle sue parti.
L’EDUCAZIONE FUNZIONALE DI EDOUARD CLEPAREDE: CLEPAREDE
sostiene che lo studio dello sviluppo mentale sia alla base del rinnovamento della scuola e
dell’educazione. Cleparède incentrò i suoi studi sull’interazione tra psiche e necessità
ambientali, sostenendo che l’organismo si adatta alle richieste dell’ambiente e apprende
attraverso i processi mentali, ossia le funzioni. L’educazione funzionale deve essere
organizzata sui bisogni, che derivano dall’interazione dell’individuo con l’ambiente, e sugli
interessi che ne scaturiscono. La vita psichica è una funzione generale di adattamento di un
organismo all’ambiente. Il bambino deve essere libero di farsi da sé. L’educazione deve
partire dai bisogni del bambino per realizzare pienamente la formazione completa
dell’individuo. Il mezzo principale dell’educazione deve essere l’interesse profondo per la
cosa che si tratta di assimilare o di realizzare. La scuola deve essere attiva, cioè deve
promuovere l’attività del fanciullo. Per raggiungere questo scopo, essa deve avvalersi del
gioco, che stimola al massimo l’attività del bambino.
L’ATTIVISMO PEDAGOGICO DI JOHN DEWEY: la teoria pedagogica di JOHN
DEWEY ha costituito un momento rivoluzionario della metodologia educativa. Il lavoro
è diventato il punto centrale della formazione di base: i bambini apprendono gli aspetti
elementari del leggere, dello scrivere e del far di conto mediante i lavori domestici, agricoli e
artigianali; il lavoro viene considerato come uno strumento di formazione, mediante il
quale l’allievo può svolgere attivamente la sua “professione” di alunno. Nella scuola
concepita da Dewey, l’educatore ha la funzione di guidare e stimolare l’esperienza, senza
imposizioni o forzature. Questa nuova scuola sarà in grado di garantire un’educazione
democratica, destinata a tutti. L’educazione, dunque, si esplica attraverso le occupazioni
attive e le attività creative (per questo si parla di attivismo pedagogico).
LA SVOLTA DI MARIA MONTESSORI: il “metodo Montessori”, per la sua netta
impronta scientifica, viene considerato uno dei capisaldi dell’intero attivismo novecentesco.
Studiando i casi dei bambini selvaggi e ritardati, la Montessori scoprì la grande serie di errori
e pregiudizi relativi alle pratiche dell’educazione infantile. L’approfondimento scientifico di
questo campo era stato limitato dal pregiudizio “adultistico”, cioè dal presupposto che
l’infanzia vada studiata partendo dal punto di vista dell’adulto. La Montessori rivaluta
“l’energia latente di ogni individuo” che si sviluppa secondo modalità autonome.
L’autentica educazione è soltanto l’autoeducazione. Uno degli elementi più trascurati della

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psiche dei bambini, secondo la Montessori, è la specificità della loro “energia”. Occorre,
quindi, costruire le condizioni per un mondo “altro”, interamente a misura di bambino. Il
punto-chiave iniziale sarà l’allestimento di un ambiente totalmente innovativo: la “casa dei
bambini”, una struttura dotata di autonomia istituzionale e educativo-pedagogica. Nella “casa
dei bambini” gli spazi sono privi del tradizionale arredamento scolastico e collocati nel
tessuto urbano; le classi sono in numero ridotto in cui sono presenti suppellettili fabbricate
scientificamente per sviluppare le potenzialità sensomotorie dei bambini; gli spazi esterni,
inoltre, prevedono la presenza del giardino. L’aula diventa, così, una autentica sala di lavoro:
fondamentale è l’abolizione del banco. La cura dell’igiene dei locali viene affidata agli
stessi bambini, e lo stesso insegnante diventa coordinatore delle attività dei bambini. Tutto
ciò concorre all’educazione sensoriale dei bambini. In questo ambiente nuovo, assume una
funzione centrale il materiale didattico per far sì che il bambino possa gestire in autonomia
il suo processo di crescita, autoeducandosi in piena libertà. Gli strumenti didattici sono
elementi scientifici, costruiti da esperti; tale materiale deve essere applicato rigidamente e
senza varianti. Esso comprende: oggetti solidi da incastrare, blocchi, tavole, figure e forme
geometriche, panni colorati, superfici di diversa composizione, e così via.
ROSA E CAROLINA AGAZZI: la loro pedagogia si basa sul concetto di semplicità da un
lato e sull’eliminazione di ogni convenzionalismo mnemonico dall’altro. Ciò che interessa
alle “donne d’azione” dello scenario della scuola infantile italiana nei primi anni del
Novecento, è l’attenzione ai bisogni concreti del bambino. Nel 1895, le sorelle Agazzi
fondarono vicino Brescia una scuola organizzata in base a modalità didattiche ai tempi inedite,
che diventeranno modello per la scuola dell’infanzia istituita dallo Stato italiano nel 1968.

TEORIE, STILI DI APPRENDIMENTO E MEDIAZIONE DIDATTICA

L’apprendimento è una modificazione del comportamento che consegue a un’interazione


con l’ambiente. Questo processo è il risultato di esperienze che determinano nuovi schemi di
risposta agli stimoli esterni. L’apprendimento è essenziale anche in termini di adattamento
della specie all’ambiente. Il comportamento umano e animale non è predeterminato
dall’eredità genetica, ma si modifica per effetto dell’esperienza.
Le prime teorie sperimentali sull’apprendimento sono state dominate da due orientamenti,
indicate come il condizionamento classico e il condizionamento operante o strumentale.
La prima di queste impostazioni proviene dagli studi di Ivan Pavlov; la seconda deriva dal
lavoro di Thorndike e Skinner.
IL CONDIZIONAMENTO CLASSICO (PAVLOV): il condizionamento classico di
Pavlov prevede che uno “stimolo incondizionato” (SI) (per esempio, un pezzo di carne),
inserito nella bocca di un cane, determina automaticamente un flusso di saliva, cioè un
“riflesso incondizionato” o “risposta incondizionata” (RI). L’esperimento prevede poi che

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uno stimolo “neutro” (per esempio, il suono di un campanello), che normalmente non
determina il flusso di saliva, viene presentato poco prima della somministrazione del cibo.
Dopo varie presentazioni dei due stimoli in successione, otteniamo che lo stimolo neutro (il
suono del campanello) determina la risposta incondizionata (la salivazione) anche in assenza
dello stimolo incondizionato (il cibo). La nuova risposta viene definita “riflesso
condizionato” o “risposta condizionata” (RC), poiché non è spontanea ma indotta, quindi
frutto in un apprendimento. Il condizionamento consiste, dunque, in un processo di
sostituzione dello stimolo, per cui uno stimolo neutro diventa capace di produrre la risposta
originariamente prodotta dallo stimolo incondizionato. Esso avviene per via associativa.
IL CONDIZIONAMENTO “OPERANTE” O “STRUMENTALE” (THORNDIKE –
SKINNER): nel condizionamento operante gli esperimenti sono stati condotti su animali di
cui prima veniva osservato il comportamento spontaneo e poi, in un secondo tempo, venivano
offerti premi o somministrate punizioni al fine di ottenere una data risposta. I due principali
studiosi del condizionamento operante furono THORNDIKE e SKINNER. Lo psicologo
Thorndike studiò l’apprendimento per prove ed errori, ovvero notò che, procedendo per
tentativi finché non si trova il comportamento giusto, si tende poi a ripeterlo. Thorndike pose
un gatto in una gabbia (la puzzle-box) piena di leve e pulsanti, ma solo uno di questi
consentiva all’animale di uscire e di raggiungere il cibo. Dopo una serie di volte in cui lo
psicologo faceva ripetere all’animale lo stesso esperimento, il gatto impiegava sempre meno
tempo a trovare la leva giusta. Thorndike arrivò così a formulare la legge dell’effetto, secondo
la quale si tende a ripetere quei comportamenti che producono un risultato vincente, cioè
funzionale al nostro scopo. Sulla scia degli studi di Thorndike, lo psicologo SKINNER mise
a punto un metodo per lo studio del condizionamento operante, dimostrando l’influenza dei
premi e delle punizioni sul comportamento. L’esperimento era semplice: un topo affamato
veniva collocato in una scatola (la “Skinner-box”) all’interno della quale era libero di
muoversi. Dopo vari percorsi esploratori, il ratto cominciava a premere una levetta collocata
nella scatola e, ogni volta che lo faceva, gli veniva consegnato un pezzetto di cibo che
consumava. Dopo una serie di volte in cui riceveva la ricompensa, il ratto cominciò a premere
la levetta intenzionalmente per ottenere il cibo. Nel corso di questi esperimenti, e in contrasto
con la somministrazione del premio (il cibo, ossia il “rinforzo positivo”), vennero
somministrati ai ratti anche stimoli nocivi (“rinforzi negativi”), ogni volta che facevano
qualcosa di diverso dal premere la levetta. Questi esperimenti mostrarono che il
comportamento del ratto era funzionale al procurarsi i premi o all’evitare le punizioni. Skinner
studiò, inoltre, anche il fenomeno del modellamento, che consiste nel premiare in maniera
progressiva tutte le azioni che, man mano, portano al comportamento voluto dallo
sperimentatore. Ciò avviene naturalmente anche nell’apprendimento dell’essere umano: i
bambini imparano di più e più velocemente se vengono lodati o premiati ogni volta che
rispondono correttamente a un input. Mentre il condizionamento classico sembra realizzarsi
indipendentemente dalla volontà del soggetto, nel condizionamento operante l’individuo
produce volontariamente quella risposta.
L’APPRENDIMENTO IMITATIVO (BANDURA): lo psicologo ALBERT BANDURA
ha dimostrato che l’apprendimento non è dato dalla semplice imitazione, ma è un processo

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attivo che comprende l’osservazione di un modello, l’immagazzinamento delle informazioni
in memoria e la scelta di cosa tradurre in comportamento.
L’APPRENDIMENTO PER INSIGHT O INTUIZIONE (KOHLER): l’esperienza
insegna che molte volte possiamo risolvere rapidamente un problema attraverso
un’intuizione. In questo caso il nostro apprendimento è di tipo intuitivo. Lo psicologo
WOLFANG KOHLER, uno dei maggiori esponenti della Gestalt, notò che questa
comprensione immediata della soluzione di un problema era un processo diverso dal graduale
avvicinamento a una soluzione per prove ed errori. Dai suoi esperimenti emerse che la
comprensione per insight produceva una ristrutturazione concettuale dei dati di cui il
soggetto disponeva fino a quel momento. In una gabbia dove erano rinchiusi tre scimpanzé,
era stata appesa una banana al soffitto in una posizione così alta da essere irraggiungibile
anche facendo dei salti. Dentro la stessa gabbia erano state messe alcune cassette di legno.
Inizialmente, gli animali cominciarono a saltellare per prendere la banana. Mentre due
continuavano a saltare, però, una prese le cassette di legno, mettendole l’una sull’altra.
Utilizzando le cassette come una scala, riuscì ad afferrare il frutto che poco prima risultava
irraggiungibile. Il comportamento della terza scimmia non procede per prove ed errori ma per
intuizione. Apprendere per insight significa, dunque, individuare soluzioni creative per
risolvere i problemi.
L’APPRENDIMENTO PER MAPPE COGNITIVE (TOLMAN): lo psicologo
EDWARD TOLMAN condusse una serie di esperimenti sui topi chiusi in un labirinto allo
scopo di valutare la capacità degli animali di elaborare delle mappe mentali utili a portare a
termine più velocemente il percorso. Dalle sue osservazioni notò come un animale, lasciato
libero di esplorare un luogo, apprendeva una mappa cognitiva. Tolman avanzò anche l’ipotesi
che l’animale acquisisse questa immagine in base alla semplice attività di esplorazione, anche
quando essa non porta ad alcuna ricompensa. Tolman dimostrò infatti che i topi all’interno
del labirinto, quando si cambiava il punto di partenza o si ponevano ostacoli sul cammino, si
comportavano come se fossero in grado di consultare una mappa, il che permetteva loro di
trovare la strada migliore per raggiungere la meta. Gli animali produssero questa risposta sin
dalla prima volta che si trovarono davanti agli ostacoli. Questo comportamento mostra che i
topi avevano acquisito una conoscenza spaziale del labirinto e che potevano servirsene in
modo intelligente. Il lavoro di Tolman ha permesso di elaborare anche la teoria
dell’apprendimento latente, che non necessita di alcuna ricompensa per realizzarsi e che
quanto appreso può non esprimersi e restare a lungo silente.
APPRENDIMENTO ASSOCIATIVO: processo in cui le nuove conoscenze si acquisiscono
per associazione automatica tra stimolo e risposta:
- Condizionamento classico (Pavlov)
- Apprendimento per prove ed errori (Thorndike)
- Condizionamento operante (Skinner)
APPRENDIMENTO COGNITIVO: processo in cui le nuove conoscenze si acquisiscono
grazie all’intervento attivo della mente e non in modo meccanico:
- Apprendimento sociale o imitativo (Bandura)

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- Insight o intuizione (Kohler)
- Apprendimento latente (Tolman)

IL COSTRUTTIVISMO: per lungo tempo si è considerato l’apprendimento come un


processo passivo da parte dello studente. Nella seconda metà del Novecento, la corrente del
costruttivismo ribalta questo concetto, intendendo l’apprendimento come un processo
dinamico. Nel corso della formazione, l’individuo acquisisce abilità e conoscenze mediante
l’interazione con gli altri e con la sua situazione educativa. I maggiori esponenti di questo
indirizzo sono Piaget, Vygotsky e Bruner, tra i maggiori studiosi di psicologia dello
sviluppo del Novecento.
LA TEORIA DEI COSTRUTTI PERSONALI (KELLY): secondo lo psicologo
GEORGE KELLY, ciascuno percepisce e interpreta il mondo in base a un proprio punto di
vista. Secondo questa teoria, la personalità degli individui può essere considerata come un
organismo dinamico che elabora specifici “costruzioni mentali”, i quali determinano poi gli
atteggiamenti esteriori. Per “costrutto” Kelly intende gli schemi che l’individuo costruisce
per conoscere gli eventi. Secondo Kelly, l’individuo costruisce gli eventi della realtà nella
misura in cui mostra una capacità creativa che gli permette di rappresentarsi l’ambiente,
modificarlo, costruirlo e adattarlo alle sue esigenze. Egli propone la metafora dell’individuo
come scienziato: così come questi mira a verificare le condizioni delle sue ipotesi di partenza,
anche l’individuo comune orienta la propria attività verso forme di controllo degli eventi che
lo coinvolgono.
SOCIOCOSTRUTTIVISMO E APPRENDIMENTO: il sociocostruttivismo pone
l’accento sul ruolo che le relazioni sociali rivestono nell’apprendimento. L’interazione
consente, infatti, di arricchire la propria prospettiva attraverso il punto di vista altrui, e da ciò
scaturisce un miglioramento delle proprie performance. In base a questa teoria, l’attività
cognitiva dell’essere umano si esprime quasi interamente nel rapporto col mondo esterno.
Così l’apprendimento dell’individuo è il risultato di due fattori: la cooperazione con gli altri
(fattore sociale) e le caratteristiche del compito (fattore ambientale) da svolgere. La
conoscenza è, quindi, una costruzione che scaturisce dal confronto e dallo scambio sociale.
In quest’ottica il lavoro di gruppo diventa fondamentale. Nella prospettiva sociocostruttivista,
anche la dimensione affettiva riveste un ruolo importante nella costruzione della conoscenza:
lo scambio sociale deve avvenire in un clima sereno, all’interno del quale il conflitto di
opinioni diverse può essere risolto e generare un arricchimento per tutti.
WILLEM DOISE: sostiene che l’interazione tra individuo e contesto possa essere studiato
su quattro dimensioni: 1) analisi intraindividuale; 2) analisi interindividuale; 3) analisi
posizionale; 4) analisi relativa alle norme sociali e alle componenti ideologiche. Tutti questi
aspetti concorrono alla formazione della personalità dell’individuo e alla strutturazione delle
sue competenze.

LA MOTIVAZIONE: per far sì che l’apprendimento si realizzi, occorre che l’individuo sia
motivato. Con il termine motivazione si intende la causa o il fattore che determina un

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comportamento o induce un’azione. Il comportamento si realizza in base a tre fattori, spesso
concomitanti: 1) lo stimolo (che è sollecitato dall’ambiente esterno o da fattori interiori); 2)
la motivazione; 3) l’emozione (ovvero la componente interiore e soggettiva). Generalmente
si considerano tre livelli della motivazione: riflessi, istinti e pulsioni.
- i riflessi rappresentano la più semplice forma di attività di un organismo in risposta
all’azione degli stimoli esterni. Si tratta di una risposta automatica, rapida e
soprattutto non derivante da un apprendimento precedente.
- gli istinti sono una sequenza comportamentale messa in atto dall’organismo in
relazione a determinate sollecitazioni ambientali. Gli stimoli esterni scatenano il
comportamento istintivo che, come nei riflessi, è automatico e non appreso. Tuttavia,
gli istinti, rispetto ai riflessi, presentano un grado di maggior complessità poiché il
comportamento istintivo è orientato verso una meta.
- le pulsioni non scaturiscono da un fattore esterno, ma da una molla interiore, da
processi cognitivi.
LA PIRAMIDE DI MASLOW: secondo lo psicologo ABRAHAM MASLOW gli individui
sono spinti ad agire sulla base di specifiche motivazioni, che egli individua a partire dai
bisogni umani. A questo proposito Maslow, in una schematizzazione nota come “piramide
di Maslow”, distingue cinque tipi di bisogni fondamentali: 1) i bisogni fisiologici, più
direttamente connessi alla sopravvivenza; 2) i bisogni di sicurezza, emergenti in seguito alla
soddisfazione dei bisogni fisiologici e comprendono la stabilità, la dipendenza, la protezione,
la libertà dalla paura; 3) i bisogni di appartenenza e di affetto, attivi nel momento in cui
quelli precedenti hanno ottenuto una soddisfacente gratificazione e che quindi si rivolgono
alla dimensione sociale, emotiva, sentimentale; 4) i bisogni di stima, a loro volta distinti in
bisogni di autostima e bisogni di stima da parte degli altri; 5) i bisogni di
autorealizzazione, che corrispondono al desiderio di divenire sempre più ciò che si è, cioè al
desiderio di divenire tutto ciò che si è capaci di diventare. Il carattere gerarchico della teoria
deriva dal fatto che l’emergenza dei bisogni più evoluti è di massima condizionata al
soddisfacimento dei bisogni più primitivi.
IL MASTERY LEARNING (BLOOM): si tratta di una metodologia didattica fondata sul
presupposto che tutti gli studenti possono imparare una materia qualora venga garantito loro
un tempo necessario e un’adeguata motivazione. Secondo BLOOM, nel corso della lezione
l’insegnante deve procedere all’analisi e alla scomposizione del compito da comunicare alla
classe. L’insegnante deve orientare e motivare psicologicamente l’allievo, gratificandolo a
fronte di risultati positivi e conferendogli progressiva autonomia nella gestione del compito.
STILI DI APPRENDIMENTO E STILI COGNITIVI: gli stili di apprendimento
rappresentano le caratteristiche secondo cui i diversi individui apprendono; ogni persona
adotta particolari processi per arrivare ad apprendere. Per stile cognitivo si intendono le
modalità preferenziali con cui gli individui elaborano l’informazione nel corso di compiti
diversi, quindi lo stile di apprendimento è un aspetto particolare del concetto più ampio di
stile cognitivo. Gli stili cognitivi di ognuno influenzano la strategia adottata per cercare di
imparare e determinano anche il processo di acquisizione della competenza. Lo stile cognitivo
riguarda la globalità dell’individuo, quindi non solo il suo approccio alle cognizioni, ma

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anche i suoi atteggiamenti. Ogni persona apprende in maniera diversa elaborando una propria
strategia adeguata alla sua personalità. Tra gli stili cognitivi si distinguono: 1) stile
globale/analitico; 2) stile dipendente/indipendente dal campo; 3) stile verbale/visuale; 4) stile
convergente/divergente; 5) stile risolutore/assimilatore; 6) stile sistematico/intuitivo; 7) stile
impulsivo/riflessivo.
IL METODO FEUERSTEIN: il metodo Feuerstein consente di sviluppare la
consapevolezza dei traguardi raggiunti durante il percorso e al termine del processo di
apprendimento. L’approccio del pedagogista REUVEN FEUERSTEIN è di tipo sistematico
ed è basato sulla teoria della modificabilità cognitiva, ossia la teoria per cui le facoltà
intellettive dell’individuo possano essere accresciute sia nell’età evolutiva che durante tutto
l’arco della vita (in contrapposizione alla teoria innatista dell’intelligenza). Secondo
Feuerstein, l’apprendimento si verifica in seguito a stimoli diretti, ma soprattutto in seguito
all’azione di un mediatore. Il metodo elaborato da Feuerstein si chiama PAS (Programma di
Arricchimento Strumentale) e prevede il rispetto di tre vincoli: tempo (adeguatamente
lungo), metodo (solo formatori esperti) e contesto (favorevole e collaborativo). La portata
innovativa degli studi di Feuerstein consiste nell’aver considerato l’intelligenza umana come
processo, ovvero come un costrutto modificabile e dinamico nel corso dell’intera vita.
L’APPRENDIMENTO SIGNIFICATIVO (AUSUBEL): l’apprendimento significativo è
quel tipo di conoscenza che, per realizzarsi, richiede la messa in campo di percorsi cognitivi
complessi e non riconducibile alla mera accumulazione di nozioni. Affinché un
apprendimento sia significativo è necessario che le nuove informazioni vadano ad
“agganciarsi” a esperienze e cognizioni pregresse dello studente. L’apprendimento
significativo, inoltre, avviene per scoperta.
L’APPRENDIMENTO ESPERIENZIALE (KOLB): si impara a partire dalla pratica, e
l’apprendimento si realizza a seguito della teorizzazione dell’esperienza fatta, in un processo
circolare (learning cycle) sintetizzato in quattro fasi: 1) esperienza concreta; 2) osservazione
riflessiva; 3) concettualizzazione astratta; 4) sperimentazione attiva.
L’obiettivo del docente è quello di intercettare gli stili e le caratteristiche della personalità di
ciascuno studente. Lo scopo verso cui tendere è fare in modo che i ragazzi acquisiscano
consapevolezza (metacognizione) del proprio stile e che, al tempo stesso, allarghino le
proprie competenze dal confronto e dall’interazione con gli altri.
APPROCCIO MULTISENSORIALE E METODO VAK (FLEMING – MILLS):
l’approccio multisensoriale si basa sull’idea che, sollecitando i vari sensi
contemporaneamente, il docente ha maggiori possibilità di andare incontro ai diversi stili di
apprendimento dei suoi allievi. Tra i modelli più noti che si fondano su questo assunto figura
il VAK (elaborato da FLEMING e MILLS), acronimo di Visivo, Auditivo e Kinestetico.
Andando a sollecitare tutte e tre queste dimensioni sensoriali, l’insegnamento risulta più
efficace in termini di potenziamento della capacità di comprendere e memorizzare per il
maggior numero di studenti. L’approccio multisensoriale consente di andare incontro anche
alle esigenze di studenti BES e DSA.

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DIDATTICA INDIVIDUALIZZATA E PERSONALIZZATA: la didattica
individualizzata serve a favorire l’apprendimento seguendo le peculiarità degli studenti
verso il perseguimento di obiettivi che sono comuni alla classe. Individualizzare significa
realizzare strategie didattiche ad hoc per le caratteristiche individuali dello studente. La
didattica è, invece, personalizzata se anche gli obiettivi, i contenuti e le attività sono
specifiche per il singolo. Quindi, l’attività è individualizzata se costruita sul singolo anziché
sull’intera classe e diviene personalizzata quando è diretta ad un particolare alunno.
LA DIDATTICA INTEGRATA: il raggiungimento del delicato equilibrio tra persona e
gruppo determina la fusione della didattica individualizzata e personalizzata verso una
didattica integrata. Essa si costruisce mediante l’instaurazione di un clima inclusivo;
lavorando sui punti di contatto tra la programmazione di classe e quella
personalizzata/individualizzata; sviluppando un approccio cooperativo e una didattica
metacognitiva.
LA METACOGNIZIONE: essere in grado di osservarsi è fondamentale per la costruzione
di processi di integrazione che implicano per tutto il gruppo classe un confronto con la
differenza. Per raggiungere tale intento è necessario sviluppare la capacità metacognitiva.
Essa è utile a sviluppare la consapevolezza del funzionamento delle proprie modalità di
apprendimento in modo da divenire attori principali dei propri processi cognitivi. È la
competenza dell’imparare a imparare.
APPROCCIO MULTIDIMENSIONALE: per attuare una didattica inclusiva è necessario
un approccio multidimensionale, capace di intervenire attraverso diverse modalità sensoriali
e motorie, cognitive e metacognitive.
MEDIATORI DIDATTICI (ELIO DAMIANO): i mediatori didattici sono definiti da
ELIO DAMIANO come ciò che agisce da tramite tra soggetto e oggetto nella produzione
di conoscenza; essi consentono di ricostruire la realtà e di trasferirla dentro la scuola. Si
distinguono quattro tipi di mediatori: 1) attivi (sono più vicini alla realtà, fanno ricordo
all’esperienza diretta e costituiscono la base per la creazione delle immagini mentali); 2)
iconici (la realtà è rappresentata mediante immagini, disegni, foto, carte geografiche,
modellini, platici, etc.); 3) analogici (si riferiscono alle modalità proprie del gioco, della
simulazione); 4) simbolici (usano lettere, cifre, simboli ovvero i codici di rappresentazione
convenzionali). Caratteristica di tutti i mediatori è la relatività in quanto ciascuno di essi ha
una sua modalità di richiamare la realtà ma nessuno di per sé è sufficiente per comprenderla
appieno. Per questo motivo è necessario un uso integrato di tutti i mediatori.
GLI APPROCCI INCLUSIVI NELLE INDICAZIONI NAZIONALI: secondo le
Indicazioni nazionali, le pratiche didattiche devono essere tese a valorizzare l’esperienza e
le conoscenze degli studenti, per ancorarvi nuovi contenuti. Il docente deve attuare interventi
adeguati nei confronti delle diversità, per fare in modo che non diventino disuguaglianze;
favorire l’esplorazione e la scoperta; incoraggiare l’apprendimento collaborativo. Il
cooperative learning o apprendimento cooperativo è un metodo didattico che utilizza piccoli
gruppi per far sì che gli alunni lavorino insieme migliorando reciprocamente il loro
apprendimento. Il presupposto è che dalla collaborazione e dallo scambio di idee scaturiscono

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elementi utili ad agevolare l’apprendimento. In tale contesto trovano spazio le attività
didattiche laboratoriali, per favorire l’operatività e allo stesso tempo il dialogo e la
riflessione su quello che si fa.
LA RICERCA-AZIONE (RA) IN CLASSE: è una particolare modalità operativa di
condurre l’attività educativa, fondandola sulla verifica continua delle teorie personali; il
docente è così anche attivo ricercatore e diretto produttore di strategie didattiche. La
ricerca-azione richiede un’ottima capacità di collaborazione tra gli operatori. Fulcro della
ricerca azione è il concetto di partecipazione, che implica una fitta circolazione di idee e
informazioni: perciò ognuno elabora un sapere proprio e partecipa all’elaborazione del sapere
altrui.
LE MAPPE CONCETTUALI: servono per rappresentare in un grafico le conoscenze
intorno a un argomento. Lo scopo è di contribuire alla realizzazione di un apprendimento
significativo, in grado cioè di modificare le strutture cognitive del soggetto, in contrasto con
l’apprendimento meccanico. Una mappa concettuale aiuta a organizzare le informazioni e a
stabilire relazioni tra le idee, a ricordare ciò che è nuovo, aiuta a progettare. Esse sono molto
usate anche nella didattica inclusiva, in quanto la loro “potenza” metacognitiva è utilissima
per rappresentare e comunicare la conoscenza anche ad alunni con deficit e disabilità.
I METODI DI INSEGNAMENTO/APPRENDIMENTO: la didattica è la scienza che
definisce i metodi e le tecniche per insegnare. Il “metodo didattico” è l’insieme delle scelte
operative che un docente adotta per facilitare la trasmissione delle conoscenze. I metodi di
insegnamento/apprendimento si possono raggruppare in quattro grandi categorie:
- INSEGNARE E APPRENDERE ATTRAVERSO LA TRASMISSIONE DEL
SAPERE: viene definito lineare classico o del tubo in quanto presuppone che
l’informazione scorra dall’emittente al destinatario come dentro una tubatura. È
l’emittente (insegnante) che compie scelte di contenuti e di linguaggio, mentre il
ricevente (alunno) riveste solo un ruolo passivo.
- INSEGNARE E APPRENDERE PER IMITAZIONE: Albert Bandura, il più
importante studioso dell’apprendimento imitativo, afferma che l’apprendimento
avviene anche attraverso esperienze indirette, mediante l’osservazione del
comportamento di altre persone. Il termine modellamento (modeling) viene utilizzato
per identificare un processo di apprendimento che si attiva quando il comportamento
di un individuo che osserva si modifica in funzione del comportamento di un altro
individuo-modello. Tale teoria è denominata apprendimento sociale.
- INSEGNARE E APPRENDERE ATTRAVERSO APPROCCI
COSTRUTTIVISTI: il costruttivismo è un metodo di insegnamento/apprendimento
che pone l’allievo che apprende al centro del processo formativo. Secondo l’approccio
costruttivista, l’apprendimento è il prodotto di una costruzione attiva da parte del
soggetto. La conoscenza è un “fare il significato”, ossia un’operazione creativa che
l’alunno attiva tutte le volte che vuole comprendere la realtà, trasformando
l’apprendimento da meccanico in apprendimento significativo. È definito significativo
quell’apprendimento che consente di dare un senso alle conoscenze, permettendo

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l’integrazione delle nuove informazioni con quelle già possedute e il loro utilizzo in
contesti e situazioni differenti.
- INSEGNARE E APPRENDERE ATTRAVERSO LA RICERCA DI GRUPPO:
Y. SHARAN e S. SHARAN hanno dimostrato in un loro studio che gli allievi possono
migliorare l’apprendimento attraverso la ricerca di gruppo. Nella ricerca di gruppo
gli alunni assumono un ruolo attivo, in quanto stabiliscono i propri obiettivi,
sviluppano abilità sociali e contribuiscono alla costruzione delle conoscenze. Scopo
della ricerca di gruppo è far assumere agli studenti un ruolo attivo nello studio e
sviluppare l’interazione sociale tra pari.
LE METODOLOGIE: si tratta di azioni strategiche di insegnamento, che devono essere
flessibili per consentire al docente di adattarle alle situazioni formative e alle caratteristiche
degli alunni. Il termine metodologia riguarda le modalità operative vere e proprie che si
impiegano in un’azione formativa. Le metodologie didattiche in uso nella scuola si
concentrano sull’idea che occorra sostenere ogni allievo sulla via del raggiungimento del
successo formativo, garantendogli la possibilità di apprendere per tutto l’arco della vita. Ciò
richiede una didattica centrata sull’apprendimento piuttosto che sull’insegnamento.
LA DIDATTICA LABORATORIALE: è l’occasione per ridisegnare gli stili di
apprendimento e di insegnamento e per confrontarsi con la problematicità dei saperi. Il
laboratorio didattico, infatti, prevede un lavoro personale, attivo su un determinato problema,
la creazione di percorsi cognitivi, la produzione di idee e soluzioni. Nel laboratorio didattico
è l’apprendimento stesso che diventa oggetto di lavoro. Lavorare all’apprendimento vuol dire
fare esperienza di sé, confrontarsi con un tema, mettendo in azione la fantasia, l’esplorazione
e la curiosità. Pertanto, si può definire laboratorio qualsiasi situazione didattica che presenta
il carattere dell’apprendimento attivo e dell’imparare facendo.
LA DIDATICA METACOGNITIVA: la capacità di “imparare a imparare” fa parte delle
otto competenze chiave individuate nella Raccomandazione del Consiglio Europeo del 22-
5-2018. La didattica più adeguata all’acquisizione di questa competenza è quella cognitiva.
Metacognizione significa letteralmente “oltre la cognizione” e indica la capacità di
riflettere sulle proprie capacità cognitive. L’approccio metacognitivo mira alla costruzione
di una mente aperta. Esso privilegia non cosa l’alunno apprende, ma come l’alunno
apprende. La didattica metacognitiva assume una dimensione trasversale in quanto richiede
allo studente di acquisire un atteggiamento attivo e lo aiuta ad arricchire il proprio bagaglio
intellettuale, attraverso domande, investigazioni e problemi da risolvere. Le principali
strategie didattiche metacognitive sono: 1) selezione; 2) organizzazione; 3) elaborazione; 4)
ripetizione.
LA DIDATTICA PER PROGETTI (KILPATRICK): nel lavoro per progetti l’allievo
viene coinvolto a realizzare un prodotto finale in cui sono in gioco le sue competenze. È un
approccio didattico in cui si manifestano competenze sociali e capacità di orientarsi nel
mondo della scuola e dell’extrascuola. Lavorare per progetti, quindi, significa pianificare,
organizzare e coordinare le risorse nello svolgimento di attività finalizzare al
raggiungimento di un obiettivo predefinito.

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LA DIDATTICA COLLABORATIVA O COOPERATIVE LEARNING: si rifà alla
teoria del sociocostruttivismo, secondo la quale la conoscenza è il prodotto di una
costruzione attiva del soggetto ed è ancorata al contesto in cui si svolge. La didattica
cooperativa punta al miglioramento dei processi di apprendimento e socializzazione
attraverso la mediazione del gruppo, i cui membri devono agire sentendosi interdipendenti
tra di loro, in maniera tale che il successo di uno sia il successo di tutti. Nella didattica
collaborativa, il docente assume il ruolo di tutor: favorisce l’interazione tra gli studenti,
stimola la discussione, facilita l’apprendimento ricorrendo a continue sollecitazioni. Così gli
alunni lavorano in gruppo per migliorare reciprocamente il loro apprendimento, putando su
una mediazione sociale.
LA DIDATTICA PER PROBLEMI (PROBLEM SOLVING): consiste nella possibilità
di dare risposte a situazioni problematiche. La didattica per problemi si basa su operazioni
cognitive in grado di offrire una soluzione inaspettata. Nel problem solving si individuano
cinque momenti: comprensione, previsione, pianificazione, monitoraggio, valutazione. Il
procedimento del problem solving viene schematizzato in vari modi. Uno dei più noti è il
F.A.R.E., acronimo che indica i quattro momenti di questa procedura (Focalizzare,
Analizzare, Risolvere, Eseguire). La seconda schematizzazione altrettanto famosa risale a
LASSWELL. Si basa su cinque W e due H: Who (a chi ci si rivolge), What (che cosa si
deve fare), Where (dove si deve intervenire), When (quando va fatto), Why (perché si fa),
How (come si deve fare), How much (quanto si può spendere). Tutto ciò alimenta il pensiero
produttivo e la creatività intellettuale.
L’INSEGNAMENTO CAPOVOLTO (FLIP TEACHING): è una metodologia didattica
che prevede un’inversione delle modalità di insegnamento tradizionale: normalmente il
docente insegna e l’alunno ascolta per poi studiare e ripetere a casa. La flipped classroom,
invece, ribalta la logica dello studiare in classe con l’insegnante e del ripetere passivamente
a casa quanto sentito in classe. La lezione è flipped perché inverte l’ordine tradizionale. In
una flipped classroom la responsabilità del processo di insegnamento viene in un certo
senso “trasferita” agli studenti, i quali possono controllare l’accesso ai contenuti in modo
diretto, avere i tempi necessari per l’apprendimento e la valutazione. L’insegnante ha un ruolo
di “guida” che incoraggia gli studenti alla ricerca personale e alla collaborazione e
condivisione dei saperi appresi. Le attività avvengono con ampio utilizzo delle nuove
tecnologie. La tecnologia, quindi, assume un ruolo importante perché aiuta gli studenti ad
accedere ai materiali da casa, a prendere appunti e scambiare informazioni; aiuta i docenti
ad ottenere feedback dagli studenti e tracciare il loro progresso. Il tempo in classe è dedicato
alla discussione, alla condivisione e all’approfondimento della conoscenza maturata a casa.
EDUCAZIONE TRA PARI O PEER EDUCATION: è una metodologia volta ad attivare
un naturale passaggio di conoscenze, emozioni ed esperienze da parte di alcuni membri
di un gruppo ad altri individui dello stesso gruppo. Gli alunni più maturi e preparati (peer
educator) insegnano a quelli che hanno bisogno di supporto e di tempi più lunghi per
l’apprendimento. Questo metodo di lavoro rappresenta, quindi, una “rottura” con i modelli
tradizionali. La peer education è un sistema che rende più maturo il peer educator, che ripete
anche lui i concetti; insegna a tutti che il rapporto tra coetanei può avere anche scopi più

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alti del semplice gioco; facilita l’apprendimento; aiuta il docente a conoscere meglio le
reali dinamiche e le esigenze del gruppo.
TUTORING O MENTORING: è ogni intervento che sostiene o aiuta un individuo in
condizioni di disagio o difficoltà di apprendimento. In ambito scolastico il tutor è un
docente che si pone a disposizione del singolo alunno per venire incontro alle sue esigenze
psichiche e cognitive. La figura del tutor (detto anche mentor) in alcune realtà scolastiche è
istituzionalizzata e si identifica con il docente che si occupa del disagio giovanile. In alcuni
casi il tutor (come nella peer education) è un alunno. Oggi piuttosto che di tutoring si
preferisce parlare di mentoring. Si tratta, in sostanza, di una metodologia di formazione
basata sulla relazione tra un soggetto con più esperienza (senior o mentor) e uno con meno
esperienza (junior o mentee) con lo scopo di promuovere in quest’ultimo lo sviluppo di
competenze che riguardano la sfera personale, professionale e sociale. Il mentor è una persona
che presenta una forte motivazione a fare da guida e da consigliere al mentee. Quest’ultimo
è colui che si fa guidare e consigliare nell’apprendimento. Insieme creano il rapporto di
mentorship, segnato da grande fiducia e sincero dialogo.
LO SPAZIO COMUNICATIVO O ROLE PLAYING: l’insegnante, dopo aver assegnato
delle istruzioni e aver diviso la classe in gruppi, si chiama fuori dallo scambio comunicativo,
intervenendo solo se viene richiesto il suo aiuto. Nel caso di drammatizzazioni o role-playing,
l’insegnante dovrebbe lasciare il suo posto agli alunni-attori e mettersi fra il “pubblico”,
costituito dagli studenti non recitanti. Anche attraverso la posizione nello spazio il docente
ha, dunque, la possibilità di rimarcare il suo ruolo di guida e facilitatore, stabilendo un
rapporto inter partes con i propri alunni.
CIRCLE TIME: è un gruppo di discussione su argomenti diversi, con lo scopo principale di
migliorare la comunicazione e di far a acquisire ai partecipanti le principali abilità
comunicative. Questa metodologia aiuta a gestire al meglio le relazioni sociali sia con i
coetanei che con gli adulti. Gli obiettivi del circle time sono: riconoscere e gestire le proprie
emozioni e quelle degli altri (empatia); creare un clima di serenità e di reciproco rispetto;
imparare a discutere insieme; favorire la conoscenza reciproca, la comunicazione e la
cooperazione; aumentare la vicinanza emotiva e risolvere conflitti.

LA RELAZIONE EDUCATIVA

La relazione può essere definita come il rapporto esistente tra persone, cose o fenomeni. I
motivi per i quali le persone si relazionano tra loro sono molteplici e la spinta a stabilire delle
relazioni è insita nella natura stessa dell’uomo. Ogni relazione implica uno scambio,
un’interazione.
WATZLAWICK E BAUMAN: è impossibile separare la relazione dalla comunicazione.
PAUL WATZLAWICK ha dichiarato, infatti, che non si può non comunicare. La

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comunicazione è intesa come comportamento, perché ogni comportamento umano comunica
qualcosa. Tutto il comportamento umano è comunicazione e tutta la comunicazione
influenza il comportamento umano. Secondo Watzlawick, la relazione è un sistema dove i
comportamenti sono circolari: non è possibile stabilire quale sia la causa e quale l’effetto.
Per il sociologo ZYGMUNT BAUMAN, il fallimento di una relazione è quasi sempre un
fallimento di comunicazione. Quindi uno dei prerequisiti di un buon comunicatore è la sua
capacità di saper ascoltare (ascolto attivo).
L’APPROCCIO SISTEMICO: l’olismo è un approccio conoscitivo che attribuisce
un’importanza particolare alla totalità di un essere per capire il comportamento delle parti che
lo compongono. Il sistemismo completa l’approccio olistico perché tenta di capire il
comportamento degli esseri viventi tenendo conto della loro stretta interdipendenza. Il
modello sistemico intende la realtà come un sistema organico, composto da parti integranti,
che vive in relazioni con contesti più ampi. Secondo la teoria generale dei sistemi di
LUDWIG VON BERTALANFFY, tutto ciò che succede sul nostro pianeta è complesso,
composto da elementi correlati tra lodo, per cui è necessario sviluppare un pensiero sistemico,
che non consideri isolatamente ciò che isolato non è. Lo psicologo URIE
BRONFENBRENNER è uno dei più noti studiosi dell’interazione tra l’individuo e il suo
ambiente. Il suo approccio è definito ecologico proprio in virtù dell’attenzione che egli
mostra per la dimensione sociale e ambientale in cui il soggetto asce e sviluppa le sue
competenze.
Il PENSIERO COMPLESSO (EDGAR MORIN): la teoria della complessità ha tra i suoi
principali esponenti il filosofo EDGAR MORIN che, nel testo “I sette saperi necessari
all’educazione del futuro”, specifica quali sono gli elementi che caratterizzano un approccio
educativo di tipo “complesso”, e cioè che tiene conto di tutti gli aspetti e delle relazioni che
formano il tessuto sociale (il contesto, il globale, il multidimensionale). Il termine
“complesso” deriva dal latino complexus, che significa “tessuto insieme”: il pensiero
complesso, quindi, intende la realtà come composta da relazioni. L’educazione deve
promuovere una conoscenza basata sulla capacità di riferirsi al complesso, al contesto, al
globale in modo multidimensionale.
MODELLI EDUCATIVI: pensatori come COMENIO, LOCKE E ROUSSEAU furono i
primi a teorizzare un tipo di educazione ispirato al “puerocentrismo”. Si è continuato, però,
a considerare l’alunno nelle sue caratteristiche funzionali senza prendere in considerazione la
questione della relazione tra docente e discente. Secondo alcuni studiosi, tra cui JEROME
BRUNER, i modelli educativi sono al tempo stesso culturalmente condizionati, perché creati
dalla società, e condizionanti, perché tendono a creare la società secondo il modello in cui la
descrivono. Nelle società attuali si è inclini a pensare al rapporto ideale educatore-educando
come a un rapporto dialogico di reciprocità educativa. Oggi è diffuso il concetto di
relazionalità educativa intesa essenzialmente come un rapporto in cui si prendono in
considerazione anche gli aspetti emotivi delle varie persone coinvolte.
LA RELAZIONE INSEGNANTE-ALLIEVO: il punto nevralgico del rapporto insegnante-
allievi è la comunicazione, che è sempre bidirezionale. Il docente svolge due funzioni: una
didattica, che consiste nell’insegnare i fondamenti di una disciplina; l’altra educativa che

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consiste nell’accompagnare l’allievo attraverso la conoscenza verso una crescita non solo
intellettuale, ma soprattutto umana. L’autorevolezza si realizza se riconosciuta dagli allievi,
che individuano nella persona dell’insegnante una serie di peculiarità. Tale asimmetria è un
elemento costitutivo della relazione educativa. Si tratta di una diversità esclusivamente
legata al patrimonio di conoscenze che il docente possiede e alla sua autorità.
L’insegnante dovrebbe educare alla prosocialità, ossia formare individui e cittadini con
spiccato senso della comunità e della cittadinanza attiva. Sul piano didattico, l’educazione
alla prosocialità si esplica attraverso la promozione della cooperazione e dello sviluppo della
competenza emotiva.
GLI OBIETTIVI EDUCATIVI DI BLOOM: secondo BENJAMIN BLOOM gli
apprendimenti cognitivi vanno dai più semplici a quelli più complessi, articolati in sei
categorie fondamentali: 1) conoscenza; 2) comprensione; 3) applicazione; 4) analisi; 5)
sintesi; 6) valutazione. Quanto alla dimensione affettiva, egli individua come obiettivi
collegati all’apprendimento, tre macroaree, relative all’interesse, all’impegno e alla
partecipazione.
ROGERS E LA PROSPETTIVA UMANISTA: secondo lo psicologo CARL ROGERS,
l’apprendimento dipende in buona parte dal comportamento dell’insegnante. Egli
menziona, in tal senso, l’insegnamento “centrato sullo studente” e suggerisce
all’insegnante di raggiungere una serie di mete educative: dall’atteggiamento flessibile alla
capacità di sostenere conflitti. La realizzazione di queste mete educative consente di
sviluppare in maniera armonica e globale la personalità degli alunni. Secondo Rogers,
l’apprendimento è veramente significativo quando il contenuto è vissuto dallo studente come
rilevante per la soddisfazione dei suoi bisogni e delle sue finalità personali, quando cioè lo
studente è parte attiva del processo di insegnamento-apprendimento. Rogers propone la
realizzazione di un apprendimento che stimoli un coinvolgimento globale della personalità
degli allievi, che stimoli l’autoconsapevolezza e l’autovalutazione.
L’INSEGNANTE RIFLESSIVO: da solo il sapere nozionistico non basta; un insegnante ha
bisogno della capacità di ripensare e contestualizzare costantemente il proprio agire
educativo. La riflessività si sviluppa in un’ottica di pedagogia critica. Il suo compito
specifico è quello di far riflettere il formatore sui reali fondamenti che stanno alla base degli
insegnamenti attivati. Riflettere sui propri presupposti significa rimettere a punto se stessi.
La “riflessione in azione” teorizzata da DONALD SCHON permette all’insegnante di
apprendere in corso d’opera, di dedurre dalla pratica nuove cognizioni, sulla base delle quali
poter ristrutturare il proprio sapere.
LA COMUNICAZIONE INTERSOGGETTIVA: la comunicazione ha forse una vera
regola: il saper ascoltare. È fondamentale lo sforzo di un continuo ascolto attivo perché
comprendere l’altro agevola notevolmente l’intero processo comunicativo. Il docente, in
particolare, si trova spesso a comunicare con interlocutori difficili, per cui deve acquisire tutte
le tecniche utili per una comunicazione efficace.
L’INSEGNANTE AFFETTIVO E LA RELAZIONE EDUCATIVA: tra processi emotivi
e apprendimento esiste una profonda connessione. L’essere umano non si realizza senza

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comunicare con gli altri. Alcuni studiosi, tra cui Bloom, sostengono infatti che il ruolo
dell’affettività nei processi di conoscenza è sempre rilevante e talvolta determinante.
L’insegnante “affettivo”, che si pone come guida autorevole, deve possedere tre tipi di
capacità: 1) ascolto attivo; 2) comprensione delle dinamiche di gruppo; 3) introspezione.
Talvolta tra alunni e insegnante si instaurano relazioni inadeguate e strategie difensive, che
sono l’evasione (l’alunno sfugge alla relazione comunicativa), la seduzione (l’alunno cerca
di conquistare l’insegnante con false promesse), e la ribellione. L’insegnante, per difendersi
dall’ostilità degli allievi, può assumere un ruolo punitivo e autoritario.
IL PROFILO DEL DOCENTE INCLUSIVO: nel 2012 l’Agenzia Europea per lo Sviluppo
dell’Istruzione degli Alunni disabili ha pubblicato il Profilo dei docenti inclusivi, un
documento nato da un progetto triennale realizzato per individuare le competenze necessarie.
Il profilo si fonda su quattro aree fondamentali: 1) valorizzare la diversità dell’alunno; 2)
sostenere gli alunni; 3) lavorare con gli altri; 4) sviluppo e aggiornamento professionale.
PROCESSI DI SOCIALIZZAZIONE: la socializzazione è l’apprendimento delle regole
dello stare con gli altri previste dal sistema in cui si vive. I processi di socializzazione iniziano
nella prima infanzia. Il processo di socializzazione è una forma di interazione con l’ambiente
socioculturale che porta l’individuo ad assumere dei modelli ai quali adattarsi. La prima
forma di socializzazione, quella che avviene tra il bambino e la madre, ha un ruolo
fondamentale nella formazione della personalità. Successivamente, la famiglia e la scuola
svolgono un ruolo fondamentale per l’impostazione del processo di socializzazione. Si attua
così un sistema formativo integrato che media il rapporto tra individuo e società. La scuola
detiene il ruolo fondamentale come mezzo di emancipazione intellettuale e di presa di
coscienza, soprattutto da parte delle classi meno agiate. Quindi la scuola di massa è un
potente mezzo di democrazia e progresso sociale. Il dibattito attuale è volto alla
strutturazione di una scuola che possa garantire l’uguaglianza formativa per tutti. Tutti i
luoghi di socializzazione favoriscono la conquista dell’autonomia intellettuale ed etico-
sociale, ma nello stesso tempo rischiano di favorire l’omologazione delle idee. È dunque
fondamentale che famiglia, scuola e società cooperino nella realizzazione di un modello volto
alla crescita democratica e responsabile del singolo.
LA SCUOLA COME AGENZIA DI SOCIALIZZAZIONE (DURKHEIM): il sociologo
EMILE DURKHEIM definisce la scuola come “microcosmo sociale” perché è la “prima
agenzia di socializzazione”. La scuola, infatti, conserva un ruolo primario nel processo di
formazione e socializzazione. L’apprendimento è condiviso e legato alla socializzazione,
poiché nel contesto scolastico l’imparare a ragionare e l’imparare a stare insieme vanno di
pari passo.
LA FAMIGLIA E I MODELLI EDUCATIVI: i differenti modelli familiari si ripercuotono
in maniera evidente sul bambino in direzione dell’istruzione e della formazione. È possibile
individuare tre modelli educativi parentali: 1) uno stile repressivo (valorizza l’obbedienza,
la tradizione e il rispetto dell’ordine); 2) uno stile indulgente e permissivo (tollerante nei
confronti dei bisogni dei figli ma al tempo stesso esigente); 3) uno stile autorevole (basato
sulla reciprocità, democratico).

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L’INCLUSIONE E LA PEDAGOGIA SPECIALE

DALLA MEDICALIZZAZIONE ALL’INCLUSIONE: grazie al suo modello di


inclusione scolastica, l’Italia risulta tra i primi paesi europei ad aver disciplinato l’inserimento
degli alunni con disabilità nelle classi ordinarie. Così, già verso la fine degli anni Sessanta, la
distinzione tradizione tra “classe differenziale” e “scuola speciale” viene largamente rimessa
in discussione. Tra il 1960 e il 1970 si giunge a negare l’opposizione normalità/anormalità,
in nome di un’eguaglianza tra le persone poiché tutte le persone sono segnate
inequivocabilmente dalla loro diversità e, per questo, “eguali”. Su questa scia, nei primi anni
Settanta i confini tra scuole speciali e scuole normali vengono abbattuti: gli alunni indicati
come anormali e subnormali assumono la meno discriminante denominazione di “portatori
di handicap” e fanno il loro ingresso nelle scuole comuni.
MODALITA’ ORGANIZZATIVE: attualmente la modalità organizzativa ritenuta più
adatta a favorire l’inclusione dei diversamente abili è la scuola a tempo pieno. Si prevede
un’organizzazione didattica a classi aperte. Alle attività di classe si aggiungono le attività di
gruppo. Affinché la scuola possa configurarsi come scuola di tutti, essa deve organizzarsi
come scuola per tutti, in altre parole come “scuola su misura”, dandosi un’organizzazione
flessibile.
DIDATTICA SPECIALE E METODOLOGIE OPERATIVE: un piano educativo
individualizzato per studenti diversamente abili dovrebbe orientarsi allo sviluppo delle
potenzialità di base e al rafforzamento delle abilità residue. In linea di massima, il
diversamente abile dovrebbe partecipare integralmente ai momenti dell’attività comune. Per
altre attività, i loro percorsi didattici possono essere differenziati e svolgersi secondo tempi
e modalità diversificate, nell’ambito dei lavori di gruppo o individuali programmati.
L’ACCOGLIENZA DELL’ALUNNO DISABILE: il problema dell’integrazione dei
soggetti diversamente abili si è posto prima nella scuola che nella società. L’integrazione
scolastica, in questo senso, assume un significato fondamentale anche in prospettiva sociale.
Le problematiche principali sono: 1) L’ACCETTAZIONE dell’alunno disabile da parte di
tutti gli insegnanti sia sul piano cognitivo sia sul piano socio-emotivo; 2) IL
SUPERAMENTO delle resistenze psicologiche (stereotipi, pregiudizi) di emarginazione del
“diverso” e necessità di accettazione integrale dell’altro. L’educatore ha pertanto il compito-
chiave di facilitare la “costruzione” di un clima aperto e relazionale.
IL PIANO PER L’INCLUSIONE: è un documento molto dettagliato predisposto da
ciascuna istituzione scolastica all’interno del Piano triennale dell’offerta formativa (PTOF);
esso definisce le modalità per l’utilizzo coordinato delle risorse umane, strumentali, finanziare
disponibili (art. 8 D.Lgs. 66/2017), per il superamento delle barriere architettoniche, per
progettare e programmare gli interventi per la qualità dell’inclusione scolastica degli alunni
disabili. Il Piano per l’inclusione deve essere redatto entro il mese di giugno e si compone di
due parti: nella prima si individuano i punti di forza e criticità degli interventi di inclusione

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svolti nel corso dell’anno; nella seconda si formulano ipotesi di utilizzo delle risorse
specifiche, al fine di incrementare il livello di inclusione generale della scuola nell’anno
successivo. I Piani per l’inclusione delle scuole vengono approvati dal Gruppo di lavoro per
l’inclusione (GLI) e deliberati dal Collegio dei docenti.

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MEDIA E TECNOLOGIE A SCUOLA

I media permettono l’integrazione fra i processi cognitivi per astrazione (tradizionali) e


quelli per immersione (inaugurati dalla multimedialità). Il sapere trasmetto diventa più
aperto, flessibile e legato all’esperienza; l’organizzazione della didattica più dinamica. La
prima trasformazione determinata dall’intervento della multimedialità a scuola riguarda lo
sviluppo cognitivo dei docenti e degli studenti attraverso l’interazione mediale. Tale sviluppo
è progressivo e avviene passando attraverso diverse fasi: 1) imparare con il computer; 2)
imparare dal computer; 3) imparare il computer. I media possono essere sia veicoli di
messaggi culturali sia attivatori mentali, i quali diventano amplificatori della fantasia,
aumentando le capacità espressive.
LE GENERAZIONI DIGITALI: il sociologo MARK PRENSKY ha coniato il termine
nativi digitali per indicare la prima generazione di bambini cresciuta negli anni della
diffusione di computer e di altri dispositivi elettronici, come console e videogame. A partire
dai nove anni, essi riescono con estrema facilità ad apprendere le diverse funzionalità della
rete. Nei paesi del nord Europa, con l’introduzione nelle scuole dell’uso dei tablet, è salita al
70% la percentuale dei bambini che usano Internet regolarmente per lo studio. Sono quelli
ora definiti come bambini digitali. Se i nativi digitali erano i bambini cresciuti nell’era
dell’informatica di massa della fine del XX secolo, i bambini digitali appartengono alla
cosiddetta terza generazione digitale, quella cresciuta tra smartphone e tablet, fibre ottiche,
etc. Come affermava già la pedagogia montessoriana, le mani sono il prolungamento dei
pensieri dei bambini, gli strumenti dell’intelligenza, fattore che consente ai piccoli di
utilizzare con naturalezza il touchscreen dei dispositivi digitali.
IL PENSIERO COMPUTAZIONALE: obiettivo della L.107/2015 e delle Indicazioni
Nazionali del 2018, il pensiero computazionale è un processo mentale che consente di
risolvere problemi di varia natura seguento metodi e strumenti specifici. Si tratta di un
processo logico-creativo che permette di pianificare una procedura per raggiungere un
obiettivo.
SEYMOUR PAPERT: nella sua teoria dell’apprendimento, nota come Costruzionismo, e
tramite il linguaggio LOGO da lui stesso ideato, individua nel computer un nuovo mezzo di
apprendimento: il computer non è soltanto una macchina con cui elaborare informazioni, ma
uno strumento per costruire, manipolare, apprendere, scoprire e persino sbagliare. Sbagliare
significa esplorare alla ricerca di soluzioni alternative al problema.
IL CODING: è un termine inglese che ha come corrispettivo italiano la parola
“programmazione”. In informatica, con il termine coding si intende la stesura di un
programma o di una app. Il coding è l’applicazione pratica del pensiero computazionale:
attraverso la programmazione e lo svolgimento di esercizi, giochi, rappresentazioni e
animazioni gli studenti imparano a programmare e, di conseguenza, a pensare per obiettivi. Il
coding è trasversale e permette di catturare l’attenzione anche degli alunni più distratti e
demotivati. Gli strumenti del coding sono numerosissimi e si suddividono in due categorie:

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quelli che necessitano di un computer (strumenti plugged) e quelli che non lo richiedono
(strumenti unplugged). Uno dei principali strumenti del coding è la programmazione
visuale o a blocchi, che offre un approccio intuitivo e lo sviluppo del pensiero
computazionale. L’utilizzo del coding nella didattica è un’efficace e divertente attività che
agevola la comprensione dei contenuti.
LA SCUOLA DIGITALE: si fa riferimento all’insieme di interventi atti a potenziare la
qualità dell’insegnamento attraverso lo sviluppo di competenze informatiche. Infatti,
l’amministrazione scolastica ha attivato, nel corso degli anni, piani di aggiornamento
professionale dei docenti e di tutto il personale scolastico. Il web consente l’interconnessione
delle scuole, dei docenti e del personale.
IL PNSD E L’ANIMATORE DIGITALE: il 27-10-2015, l’allora Ministro dell’istruzione
Stefania Giannini presenta il Piano Nazionale per la Scuola Digitale (PNSD), un documento
pensato per guidare le scuole in un percorso di innovazione e digitalizzazione, come
previsto da La Buona Scuola (L. 107/2015). Il documento punta a introdurre le nuove
tecnologie nelle scuole, a diffondere l’idea di apprendimento permanente (lifelong
learning) ed estendere il concetto di scuola dal luogo fisico a spazi di apprendimento
virtuali. In questo paradigma, le tecnologie diventano abilitanti, quotidiane, ordinarie, al
servizio dell’attività scolastica. Il PNSD introduce nella scuola una nuova figura, l’animatore
digitale, che ha un ruolo strategico nella diffusione dell’innovazione digitale nell’attività
didattica. L’animatore digitale è un docente che opera insieme al DS e al direttore
amministrativo per la diffusione dell’innovazione a scuola.
LA DIDATTICA MULTIMEDIALE: la data ufficiale di nascita delle tecnologie per
l’apprendimento è considerata il 1954, quando SKINNER formula la prima teoria di
riferimento delle tecnologie didattiche con l’intento di descrivere il comportamento. Con
gli studi di Skinner ha origine un nuovo settore disciplinare, denominato educational
technology; tuttavia, in breve tempo, i modelli teorici alla base delle tecnologie dell’istruzione
si sono allontanati dal comportamentismo di Skinner per avvicinarsi al cognitivismo.
Nell’ambito degli studi condotti sull’uso delle tecnologie informatiche, è di rilevanza la teoria
delle intelligenze multiple di GARDNER, il quale ha scoperto l’esistenza di diversi tipi di
intelligenza. Gardner ha introdotto, altresì, l’uso della multimedialità utilizzando una
didattica capace di differenziare l’insegnamento. Le nuove tecnologie, infatti sono in perfetta
sintonia con queste intelligenze multiple, in quanto permettono di gestire il materiale di studio
secondo punti di vista differenti, in corrispondenza alle diverse intelligenze. Fra tutte le risorse
informatiche ampiamente diffuse nella società di oggi, Internet è, in buona parte, il luogo
dello scambio privilegiato. L’interazione online permette la collaborazione tra le persone, crea
una comunità virtuale, fa crescere l’idea della rete come elemento di arricchimento
individuale.
LA LIM: la Lavagna Interattiva Multimediale (LIM) è una lavagna interattiva e
multimediale. Si tratta di una grande superficie su cui si visualizza lo schermo del computer
grazie ad un proiettore che vi è collegato: ne risulta che tutto quello che può essere
visualizzato ed utilizzato sul computer può esserlo anche sulla LIM. Si tratta di una superficie
interattiva sensibile al tocco di una penna o delle dita. Sulla LIM, i contenuti visualizzati

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non sono semplici proiezioni da guardare passivamente, ma oggetti attivi che possono essere
editati, cliccati, spostati, operando direttamente sulla sua superficie interattiva. La LIM,
inoltre, può essere un utilissimo strumento compensativo per alunni BES. La LIM offre
grandi possibilità per lo sviluppo di lezioni coinvolgenti. Tutte le LIM presenti nelle scuole
italiane presentano software che includono strumenti compensativi e dispensativi specifici per
i DSA.
L’E-BOOK: o libro elettronico, è un’opera edita in formato digitale. Gli e-book sono
consultabili attraverso un pc o un dispositivo portatile. L’e-book riduce i costi, lo spazio di
ingombro e non ha peso. Sono, inoltre, indispensabili in tutti quei casi uno studente ha limitate
capacità sensoriali o presenta DSA. Scostarsi dalla logica del libro tradizionale, tuttavia, non
è semplice. Alcune ricerche recenti, infatti, hanno fatto emergere una maggiore difficoltà
nell’apprendimento da parte degli studenti che usano solo risorse elettroniche: sembra, infatti,
che il cartaceo favorisca uno studio più attento e analitico e quindi una maggiore facilità di
memorizzazione dei contenuti.
Il BLOG: è una sorta di diario in rete. Il termine è la contrazione di “web-log” (traccia su
rete). Il blogger è colui che scrive e gestisce un blog, mentre l’insieme di tutti i blog viene
detto blogosfera. I blog didattici diventano un interessante strumento di lavoro perché
favoriscono la gratificazione per gli alunni, derivante dal pubblicare articoli personali o di
gruppo. Migliorano così le capacità di problem posing e problem solving, e la capacità di
lavorare in gruppo.
I WIKI: è uno strumento di editoria personale sul web; la sua funzione principale è la
condivisione di conoscenze, oltre che lo scambio e l’immagazzinamento di informazioni e
contenuti. Una caratteristica della tecnologia wiki è la facilità con cui le pagine possono essere
create e aggiornate. Date le sue caratteristiche, il wiki si presenta come uno strumento
utilizzabile a scuola.
I PODCAST: il podcasting è un sistema che permette di scaricare risorse audio o video,
chiamate podcast, per poterle poi riascoltare su smartphone, tablet, pc, etc. I podcast si
possono quindi utilizzare anche offline. È un sistema utilizzato a scuola, specialmente
nell’insegnamento delle lingue straniere.
CLASSI VIRTUALI E LMS (Learning Management System): una piattaforma e-
learning consente ai docenti di creare una classe virtuale alla quale iscrivere i propri studenti.
Il materiale didattico viene organizzato in cartelle, all’interno delle quali gli studenti trovano
test, wiki, blog o quant’altro permetta una condivisione di conoscenze. Nei sistemi LMS più
evoluti è possibile l’erogazione della lezione a distanza, realizzando dei versi e propri corsi
online.
LE TIC E LA SCUOLA: le Indicazioni di Lisbona 2000 e dell’Unione Europea
(Raccomandazioni del 2006 e del 2018) hanno fissato e aggiornato la tavola delle
competenze chiave che un sistema educativo di qualità deve poter garantire a tutti i suoi
utenti, per metterli nelle condizioni di vivere consapevolmente e responsabilmente, quali
cittadini attivi di una società globalizzata e multiculturale. In questo quadro, le tecnologie
dell’informazione e della conoscenza (TIC) e, in particolare, le tecnologie digitali, giocano

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un ruolo chiave perché contribuiscono a definire l’organizzazione del lavoro e gli stili di vita,
nonché i processi culturali e comunicativi che caratterizzano la contemporaneità. Il più
recente quadro strategico promosso dall’Unione europea (2020), fissa quattro obiettivi: 1)
fare in modo che l’apprendimento permanente divenga una realtà; 2) migliorare la qualità
e l’efficacia dell’istruzione e della formazione; 3) promuovere l’equità, la coesione sociale e
la cittadinanza attiva; 4) incoraggiare la creatività e l’innovazione a tutti i livelli della
formazione. Inoltre, nel testo della Raccomandazione del 2018, la competenza digitale
consiste nel saper utilizzare con dimestichezza e spirito critico le tecnologie della società
dell’informazione (TSI) per il lavoro, il tempo libero e la comunicazione. Essa è supportata
da abilità di base nelle TIC. La competenza digitale si definisce inevitabilmente come fatto
culturale e si configura sempre più come una competenza comunicativa. La scuola italiana
è da anni destinataria di alcune azioni di sistema finalizzate all’integrazione delle tecnologie
digitali. Si ricorda il Programma Nazionale delle Tecnologie Didattiche, che nella seconda
metà degli anni ’90 ha supportato l’introduzione delle ICT in tutti gli ordini di scuola con
l’obiettivo di educare gli studenti alla multimedialità. Negli ultimi anni, molti sforzi sono stati
diretti allo sviluppo professionale dei docenti nell’uso della ICT in ambito didattico. Il Piano
Nazionale per la scuola digitale (L. 107/2015) prevede la formazione dei docenti per
l’innovazione didattica, il potenziamento degli strumenti tecnologici e laboratoriali e la
realizzazione di attività digitali. L’esigenza che emerge è, dunque, quella di far acquisire agli
insegnanti una competenza digitale declinata sulle specificità del ruolo professionale,
finalizzata a migliorare l’insegnamento, educando all’uso consapevole e responsabile delle
tecnologie.

STRUMENTI TECNOLOGICI PER L’INCLUSIONE

La normativa L. 170/2015 obbliga le istituzioni scolastiche a garantire l’introduzione di


strumenti compensativi, compresi i mezzi di apprendimento alternativi e le tecnologie
informatiche, nonché misure dispensative da alcune prestazioni non essenziali ai fini della
qualità e dei concetti di apprendere, per tutti gli alunni con bisogni educativi speciali. Gli
strumenti compensativi sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono o facilitano la
prestazione richiesta nell’abilità deficitaria. Tali strumenti sollevano l’alunno dalla
prestazione resa difficile dal disturbo, permettendogli di focalizzare l’attenzione sui compiti
cognitivi più complessi.
WORD PROCESSOR: è un software che consente di creare o modificare testi complessi,
con immagini, tabelle, formule matematiche. La sua funzionalità può essere incrementata con
l’abbinamento del correttore ortografico e con la sintesi vocale.
SINTESI VOCALI: consentendo di ascoltare in voce i testi digitati o importati nel pc,
fornisce un elevato grado di autonomia ai soggetti BES. L’efficacia della sintesi vocale è
legata all’affiancamento di altre strategie, quali le mappe concettuali.

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AUDIOLIBRI: si tratta di libri letti integralmente da una voce narrante che generalmente dà
anche un’intonazione significativa alla lettura.
MAPPE MULTIMEDIALI: consentono di integrare nel testo immagini, video, audio, da
fruire su LIM, tablet, schermi tradizionali o touch screen. Le mappe rappresentano importanti
strategie didattiche, definite Visual Learning, che aiutano a migliorare l’apprendimento e le
performance di tutti gli studenti. Le mappe risultano particolarmente efficaci per gli studenti
con DSA.
SCANNER: consente di trasformare documenti cartacei, come riviste e libri, in file immagine
facilmente fruibili da tutti.
CALCOLATRICE CON SINTESI VOCALE: consente di controllare i dati inseriti
attraverso l’ascolto del numero digitato, del segno o del risultato. È efficace per gli alunni con
disturbi di discalculia.
RICONOSCIMENTO VOCALE: è un software che riconosce il linguaggio naturale
verbale e lo trasforma in scritto. Gli alunni con gravi disturbi di disortografia possono
utilizzare tali tipi di software che permettono di verificare la correttezza di quanto scritto.
COMPUTER E DIVERSABILITA’: per i non vedenti e i disabili con gravi deficit visivi
sono disponibili tastiere e stampanti “braille”, nonché La lettura del libro con la sintesi vocale,
che aprono nuove prospettive di autonomia. Per i disabili fisici con gravi deficit motori
esistono invece dei sensori mediante i quali si comunica con il computer, e quindi con
l’esterno.

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BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI E STRATEGIE DIDATTICHE

L’attenzione verso i Bisogni Educativi Speciali (BES) si è sviluppata nel nostro Paese con
la Direttiva ministeriale del 27-12-2012 “Strumenti di intervento per alunni con Bisogni
Educativi Speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica”. Attraverso
questo documento, la scuola italiana ha recepito l’apporto fornito dal modello diagnostico
ICF (International Classification of Functioning) dell’OMS, che ha permesso di
individuare i cosiddetti BES. Nell’area dei BES sono comprese tre grandi sotto-categorie: 1)
quella della disabilità; 2) quella dei disturbi evolutivi specifici; 3) quella dello svantaggio
socioeconomico, linguistico, culturale. I BES, quindi, non sono necessariamente relativi a
condizioni permanenti più o meno invalidanti, ma spesso sono conseguenza di stati che un
alunno attraversa, con continuità o per determinati periodi, per ragioni fisiche, fisiologiche o
anche di natura psico-sociale, e che richiedono adeguata risposta. Nel testo della Direttiva
ministeriale si legge che, per “disturbi evolutivi specifici” si intendono, oltre ai disturbi
specifici dell’apprendimento, anche i deficit: del linguaggio, delle abilità non verbali, della
coordinazione motoria, dell’attenzione, dell’iperattività. Il funzionamento intellettivo
limite può essere considerato un caso di confine fra la disabilità e il disturbo specifico. Si
tratta spesso di problematiche che, non certificabili dalla legge 104/1992, non determinano
per l’alunno il diritto all’insegnante di sostegno. Ciononostante, la normativa prevede che:
“Le scuole possono avvalersi per tutti gli alunni con BES degli strumenti compensativi e delle
misure previsti dalle disposizioni attuative della Legge 170/2010”. Ciò significa che tali
strumenti devono essere introdotti anche in assenza in una certificazione medica rilasciata dal
servizio sanitario. In assenza di diagnosi o certificazione clinica, la normativa prevede che il
consiglio di classe motivi, verbalizzandole, le decisioni prese, condividendole con la famiglia.
Quindi i BES includono:
- DISABILITA’ (certificata dalla L. 104/1992), che si articola in: disabilità psico-
motoria; disabilità sensoriale; disturbi neuropsichici; pluridisabilità. È previsto
l’insegnante di sostegno.
- DISTURBI EVOLUTIVI SPECIFICI, che si articolano in: DSA (normati dalla L.
170/2010); deficit del linguaggio; ADHD; DOP; altri disturbi evolutivi (D.M. 27-12-
2012).
- SVANTAGGIO (D.M. 27-12-2012 e C.M. 8/2013), che si articola in: svantaggio
linguistico; svantaggio socioeconomico; svantaggio socioculturale; disagio
comportamentale relazionale.
Di fronte ad alunni con bisogni speciali, l’orientamento normativo è quello di elaborare
percorsi specifici con la possibilità per la scuola di stilare un Piano Didattico Personalizzato
(PDP) allo scopo di definire, monitorare e documentare le strategie di intervento più adatte e,
allo stesso tempo, fissare i criteri di valutazione degli apprendimenti.

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IL PIANO DIDATTICO PERSONALIZZATO: su indicazione del Consiglio di classe è
possibile indicare i casi in cui sia opportuna la redazione di un PDP. Nella Circolare
ministeriale del 6 marzo 2013 si legge che il PDP è “lo strumento in cui si potranno, ad
esempio, includere progettazioni didattico-educative calibrate sui livelli minimi attesi per le
competenze in uscita, strumenti utili in maggior misura rispetto a compensazioni o dispense,
a carattere didattico-strumentale”. La Direttiva del 2012 individua come BES anche alcuni
disagi relativi all’area linguistica, socioeconomica e culturale, che non è sempre facile
evidenziare.
PIANO ANNUALE PER L’INCLUSIVITA (PAI) ORA PIANO PER L’INCLUSIONE:
La Direttiva Ministeriale del 27-12-2012 e la C.M. 8/2013 prevedono, per gli istituti
scolastici, la formulazione del PAI (Piano Annuale per l’Inclusività). Si tratta di uno
strumento programmatorio predisposto dal GLI (Gruppo di Lavoro per l’Inclusione) da
sottoporsi al Collegio dei docenti per l’approvazione e la delibera. Attraverso il documento,
la scuola fa il punto sul processo di inclusività messo in campo, evidenzia il successo o le
lacune delle attività svolte e descrive gli interventi in corso e quelli programmati. I docenti
incaricati di redigere il PAI devono individuare anche gli strumenti in possesso dell’istituto.
Il PAI è un documento dinamico e flessibile, che segue la crescita dello studente individuato
come BES nell’ambito dell’intero gruppo classe. Ai fini della programmazione, il Decreto
66/2017 (art.8) prevede che ciascuna scuola predisponga il Piano per l’Inclusione (PI), il
principale documento programmatico in materia, con il quale sono definite le modalità per
l’utilizzo coordinato delle risorse e gli interventi di miglioramento della qualità
dell’inclusione scolastica. Il Piano viene predisposto ogni anno (entro giugno) da ciascuna
scuola nell’ambito della definizione del PTOF. Il Collegio dei docenti definisce il PI sulla
base del supporto del Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI). Il Piano viene poi attuato
dallo stesso GLI, con il supporto di studenti, genitori e associazioni.
GRUPPI DI LAVORO E INCLUSIVITA’: il gruppo di lavoro dedicato alle problematiche
BES, definito Gruppo di lavoro per l’inclusione (GLI) all’interno di una scuola dovrà essere
adeguatamente formato, al fine di essere in grado di rilevare i BES presenti nella scuola,
documentare gli interventi didattico-educativi attivati, fare consulenza e offrire supporto
ai colleghi sulle strategie e le metodologie; monitorare e valutare il livello di inclusività
della scuola; coordinare le proposte formulate dai singoli GLH (Gruppo di lavoro e di
studio d’Istituto); elaborare una proposta di Piano Annuale per l’Inclusività riferito a tutti gli
alunni con BES, da redigere al termine di ogni a.s. È importante, inoltre, che la scuola abbia
consapevolezza del proprio grado di inclusività. La circolare attuativa del marzo 2013
specifica, infine, che “il gruppo di docenti operatori del CTS (Centri Territoriali di Supporto)
o anche del CTI (Centri Territoriali per l’Inclusione) dovrà essere in possesso di specifiche
competenze. È quindi richiesta una “specializzazione”, cioè un’approfondita competenza,
nelle tematiche relative ai BES. Per quanto riguarda l’area della disabilità, si tratterà in primis
di docenti specializzati nelle attività di sostegno, ma anche di docenti curricolari esperti nelle
nuove tecnologie per l’inclusione.
Per sintetizzare, i BES includono:

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- ALUNNI CON DISABILITA’ (certificata con la L. 104/1992):
- Disabilità psico-motoria;
- Disabilità sensoriale;
- Disturbi neuropsichici;
- Pluridisabilità;
- Insegnante di sostegno.
È obbligatorio il Piano Educativo Individualizzato (PEI) redatto dalla scuola e dai
servizi sociosanitari, con la collaborazione delle famiglie.

- ALUNNI CON DSA (certificata con la L. 170/2010):


- Dislessia
- Disortografia
- Disgrafia
- Discalculia
È obbligatorio il Piano Didattico Personalizzato (PDP), redatto dalla scuola in
accordo con le famiglie.

- ALUNNI CON ALTRI BES (D.M. 27-12-2012 e C.M. 8/2013)


- Altre tipologie di disturbo evolutivo specifico (es. DDAI);
- Alunni con DSA non certificati;
- Alunni con svantaggio socioeconomico;
- Alunni con svantaggio socioculturale
È facoltativo il Piano Didattico Personalizzato, redatto dalla scuola in accordo con
le famiglie ed eventualmente il contributo di esperti.

I DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO (DSA)

Con DSA si usano indicare tutte quelle condizioni in cui l’individuo, in particolari situazioni,
non apprende in misura adeguata alla propria età. Sul piano legislativo, la Legge 170/2010 ha
riconosciuto la dislessia, la disortografia, la disgrafia e la discalculia come disturbi specifici
di apprendimento, che si manifestano in presenza di capacità cognitive adeguate, in
assenza di patologie neurologiche e di deficit sensoriali, ma possono costituire una
limitazione importante per alcune attività della vita quotidiana, soprattutto per
l’apprendimento scolastico. Sin dalla scuola dell’infanzia è possibile rilevare alcuni
comportamenti considerati come predittori di DSA. La legge n. 170 tutela il diritto allo studio
in maniera diversa dalla legge 104/1992, concentrando l’attenzione su interventi didattici
personalizzati e su strumenti compensativi, su misure dispensative e su adeguate forme di
verifica e valutazione. Con il D.M. del 12-7-2011 viene rafforzato l’invito a adottare proposte
di insegnamento che tengano conto delle abilità possedute e potenzino anche le funzioni non
coinvolte nel disturbo.

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LA DISLESSIA: si manifesta attraverso una minore correttezza e velocità di lettura ad alta
voce, in relazione all’età anagrafica. Elementi che consentono di individuare la dislessia sono:
lettura lenta e stentata; difficoltà a riconoscere i grafemi orientati nello spazio; difficoltà nel
riconoscimento di suoni simili con inversione di lettere o numeri; omissione di sillabe;
omissioni di parole e salti da una riga all’altra; ripetizioni di sillabe o grafemi; omissione
delle consonanti doppie; difficoltà nella memorizzazione di sequenze; difficoltà a copiare
dalla lavagna, e così via. Nei suoi esordi, la dislessia può essere confusa con un semplice
rallentamento del regolare processo di apprendimento della lettura. La dislessia è una
difficoltà che riguarda la capacità di leggere e scrivere in modo corretto e fluente e non è
causata da un deficit di intelligenza né da problemi ambientali o psicologici, né da deficit
sensoriali o neurologici. Il ragazzo dislessico può leggere e scrivere, ma riesce a farlo solo
impegnando al massimo le sue capacità ed energie, perché non riesce in maniera automatica
e perciò si stanca rapidamente, commette errori ed ha difficoltà ad apprendere.
LA DISGRAFIA E LA DISORTOGRAFIA: la disgrafia è un disturbo specifico della
scrittura legato agli aspetti grafico-formali ed è collegata al momento motorio della
prestazione. Elementi caratteristici dei soggetti disgrafici sono: scrittura irregolare;
impugnatura scorretta; posizione del corpo non corretta; difficoltà a gestire lo spazio
grafico; inadeguata pressione sul foglio; dimensioni delle lettere molto irregolare; difficoltà
nella riproduzione grafica di figure geometriche; alterazione del ritmo di scrittura, e così via.
La disortografia si può definire come un disordine di transcodifica del testo scritto.
LA DISCALCULIA: riguarda l’abilità di calcolo. Sono sintomi tipici della discalculia:
errori di conteggio; incapacità di riconoscere il valore dello zero; errori nel recupero dei
fatti aritmetici; errori nel recupero delle procedure e nelle loro applicazioni.
Si parla, infine, di comorbilità quando in un soggetto con DSA sono presenti più disturbi del
neurosviluppo, che interessano l’area del linguaggio, la coordinazione motoria, l’attenzione e
la sfera emotiva e il comportamento.
LA LEGGE 170/2010: il 20 luglio 2011 è stato presentato il decreto attuativo della Legge
170/2010 con le relative Linee Guida per il diritto allo studio di alunni e studenti con DSA.
Si tratta di un documento che chiarisce le modalità di formazione dei dirigenti scolastici e
dei docenti, le misure didattiche di supporto e le forme di verifica e di valutazione previste
per assicurare il diritto allo studio agli alunni con DSA. La legge 170 si propone di garantire
il diritto all’istruzione, favorire il successo scolastico e assicurare una formazione
adeguata. Per garantire il diritto allo studio, la legge prevede: modalità di formazione dei
docenti e dei DS, misure educative e didattiche, l’uso degli strumenti compensativi e
dispensativi, l’introduzione di una didattica individualizzata e personalizzata.
Il D.M. 5669/2011: il D.M. 12-7-2011, n. 5669, all’art. 3 conferma la previsione di legge
secondo la quale le istituzioni scolastiche attivino percorsi di didattica individualizzata e
personalizzata, basata su misure dispensative e strumenti compensativi. Le istituzioni
scolastiche possono esplicare le attività didattiche anche attraverso la redazione di un Piano
didattico personalizzato (PDP).

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LA DIDATTICA PER I DSA: i termini individualizzata e personalizzata non sono da
considerarsi sinonimi. La didattica individualizzata consiste nelle attività di recupero
individuale che può svolgere l’alunno per potenziare determinate abilità o per acquisire
specifiche competenze, anche nell’ambito del metodo di studio; tali attività possono essere
realizzate nelle fasi di lavoro individuale in classe o in momenti ad esse dedicati. La didattica
personalizzata calibra l’offerta didattica e le modalità relazionali sulla specificità ed unicità
a livello personale dei bisogni educativi che caratterizzano gli alunni della classe,
considerando le differenze individuali soprattutto sotto il profilo qualitativo.
IL PIANO DIDATTICO PERSONALIZZATO: le norme di riferimento prevedono che a
seguito di diagnosi di DSA e di presentazione della documentazione presso la scuola, i docenti
provvedano alla stesura di un PDP, con strumenti compensativi e misure dispensative e
interventi didattici personalizzati e/o individualizzati. Il PDP viene redatto dal Consiglio di
Classe, ma rappresenta di fatto un patto d’intesa fra insegnanti, famiglia e istituzioni socio-
sanitarie. Il PDP, obbligatorio in caso di DSA, deve essere stilato in base alle peculiarità
dell’allievo e se ne devono rispettare i contenuti. Esso impegna gli attori coinvolti ad attivare
le misure necessarie perché tale apprendimento possa realizzarsi in maniera efficace.
STRUMENTI COMPENSATIVI E MISURE DISPENSATIVE: gli strumenti
compensativi per alunni con DSA sono strumenti didattici e tecnologici che sostituiscono
o facilitano la presentazione richiesta nell’abilità deficitaria. Tra questi figurano: la sintesi
vocale; la registrazione; i programmi di video scrittura; la calcolatrice; altri strumenti come
tabelle, formulari, mappe concettuali, etc. Tali strumenti servono a dispensare o facilitare
l’esecuzione dei compiti senza però costituire un vantaggio cognitivo che agevolerebbe lo
studente rispetto ai compagni di classe. Per misure dispensative si intendono quegli
interventi che consentono allo studente di non svolgere alcune prestazioni che, a causa del
disturbo, risultano particolarmente difficoltose e che non migliorano l’apprendimento.
IL DISTURBO DA DEFICIT DELL’ATTENZIONE/IPERATTIVITA’ (DDAI o
ADHD): caratteristica fondamentale di questo disturbo è una persistente disattenzione,
associata o meno a iperattività e a impulsività, più frequente e più grave di quanto si osserva
normalmente in soggetti con un livello di sviluppo equivalente. Per disattenzione si intende
l’incapacità di soddisfare le richieste o seguire suggerimenti e regole. Coloro che soffrono
del disturbo del deficit di attenzione non riescono a prestare attenzione ai particolari e
compiono frequenti errori di distrazione nello svolgimento dei compiti che, per altro, hanno
difficoltà a portare a termine. Lo sforzo mentale protratto viene avvertito come spiacevole e
notevolmente avversato. Facilmente distratti da stimoli irrilevanti, tali individui interrompono
quel che stanno facendo per prestare attenzione a eventi ignorati abitualmente da altri.
L’iperattività di manifesta attraverso l’agitarsi e il dimenarsi del bambino, che non resta
seduto quando dovrebbe, corre in maniera sfrenata, s’arrampica in situazioni in cui ciò appare
fuori luogo. Il bambino può avere difficoltà nel giocare o nel dedicarsi ad attività da tempo
libero, apparendo sotto pressione; spesso parla troppo. Può osservarsi irrequietezza,
incapacità di mantenere le posture richieste, di riposarsi o rilassarsi. L’impulsività di
manifesta essenzialmente con impazienza e difficoltà a tenere a freno le proprie reazioni. I
bambini che presentano questo sintomo tendono, ad esempio, a formulare le risposte prima

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che le domande siano state completate; non riescono ad attendere il proprio turno;
interrompono continuamente gli altri e si intromettono nei loro discorsi in maniera fastidiosa.
Mutano frequentemente l’umore nel corso della stessa giornata. È raro che un soggetto mostri
lo stesso livello di malfunzionamento in ogni circostanza. I sintomi peggiorano, in genere,
quando viene richiesta attenzione o uno sforzo mentale protratto. I segni del disturbo
possono essere minimi o assenti, invece, quando egli è impegnato in attività particolarmente
interessanti. Il DDAI inizia nell’infanzia; è molto spesso identificato nei bambini in età
scolare, dove è richiesta maggiore attenzione e concentrazione. I rapporti con i coetanei sono
spesso caratterizzati dal rifiuto o dalla presa in giro. Durante l’adolescenza i sintomi
dell’iperattività diventano meno evidenti, ma persistono difficoltà legate a irrequietezza e
disattenzione. I soggetti affetti da deficit di attenzione/iperattività presentano comportamenti
di evitamento dei compiti scolastici in conseguenza alle difficoltà che trovano nel loro
svolgimento. Il disturbo specifico di apprendimento si manifesta comunemente in
concomitanza con il DDS. Altri disturbi che possono manifestarsi con il DDAI comprendono
il disturbo ossessivo-compulsivo, i disturbi da tic e il disturbo dello spettro dell’autismo.
LA SCUOLA DELL’INTEGRAZIONE MULTICULTURALE: la Dichiarazione
Universale dei Diritti Umani, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 1948,
individuava il diritto all’istruzione come diritto fondamentale della persona, presupposto
basilare della positiva convivenza sociale. Nella Dichiarazione dei diritti del fanciullo,
promulgata dall’ONU nel 1959, il diritto all’istruzione viene riconosciuto e tutelato come
fondamentale. Il 7 febbraio 1992 viene firmato il Trattato di Maastricht, con il quale la
formazione veniva intesa come risorsa e come sfida: risorsa in quanto valorizzazione dei
saperi, conoscenze, sviluppo delle differenti sensibilità. Nel 2000 la Strategia di Lisbona
attribuì un ruolo significativo alla scuola ed alla formazione come perno per lo sviluppo di
competenze significative nel mercato del lavoro. Si proponeva, tra gli altri obiettivi, quello
di facilitare per tutti l’accesso all’istruzione e alla formazione. La strategia decennale
Europa 2020 si prefigge non soltanto di superare la crisi che le economie di molti Paesi
stanno vivendo, ma anche di creare le condizioni per una crescita più intelligente, sostenibile
e solidale. Fornire un’educazione di qualità, equa ed inclusiva, e opportunità di
apprendimento per tutti, è uno degli obiettivi dell’Agenda 2030. La Costituzione italiana
riconosce come fondamentale il diritto allo studio e all’istruzione per tutti. La Circolare
ministeriale 22-7-1990, n. 205, introduce per la prima volta il concetto di educazione
interculturale, intesa come la forma più alta e globale di prevenzione e contrasto del
razzismo e di ogni forma di intolleranza. Tutta la normativa considera il bambino straniero in
quanto bambino, e dunque soggetto di diritti e tutele al pari dei bambini italiani. Con la
Circolare ministeriale 160/2001 viene prevista l’attivazione di corsi e iniziative di
formazione per minori stranieri e per le loro famiglie. Ancora con la Circolare ministeriale
24/2006 vengono pubblicare le prime Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli
alunni stranieri. Nel febbraio 2014 l’allora ministro dell’istruzione Maria Chiara Carrozza ha
emanato nuove Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli alunni stranieri, che
ribadiscono la necessità di un’educazione interculturale centrata sul dialogo e sul reciproco
riconoscimento e arricchimento. Sempre nel 2014 il MIUR ha istituito l’Osservatorio
nazionale per l’integrazione degli studenti stranieri e per l’intercultura con l’obiettivo di

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individuare soluzioni per un effettivo adeguamento delle politiche scolastiche alle reali
esigenze dell’attuale società italiana sempre più multiculturale.
L’ISCRIZIONE A SCUOLA DI ALUNNI STRANIERI: la normativa sui BES include
nell’area dei bisogni speciali gli alunni con svantaggio socio-economico, linguistico o
culturale. Quanto all’inserimento di stranieri in classe, le Indicazioni nazionali del 2012
prevedono che: “Particolare attenzione va ricolta agli alunni con cittadinanza non italiana, i
quali, ai fini di una piena integrazione, devono acquisire sia un adeguato livello di uso e
controllo della lingua italiana per comunicare e apprendere, sia una sempre più sicura
padronanza linguistica e culturale per proseguire nel proprio itinerario di istruzione”. I
ragazzi con cittadinanza non italiana, anche se in posizione non regolare, hanno diritto
all’istruzione alle stesse condizioni degli alunni italiani; pertanto, al pari di questi ultimi
hanno l’obbligo di iscriversi e frequentare le scuole. La loro iscrizione a scuola può avvenire
in qualsiasi momento dell’anno scolastico. La Direttiva del 2012 prevede che per questi alunni
siano attivati percorsi individualizzati e personalizzati, oltre che adottati strumenti
compensativi e misure dispensative. La Circolare Ministeriale 8/2013 ha chiarito che gli
alunni con cittadinanza non italiana necessitano di interventi didattici relativi
all’apprendimento della lingua, ma solo in via eccezionale di un Piano Didattico
Personalizzato, poiché la personalizzazione va coordinata con le tematiche dell’inclusione e
del riconoscimento delle diversità. A tal fine, la L. 107/2015 ha previsto che nelle aree con
una forte componente di alunni stranieri siano realizzati dei piani di integrazione.
LE LINEE GUIDA DEL 2014: le Linee guida per l’accoglienza e l’integrazione degli
alunni stranieri emanate nel 2014 (con nota MIUR n. 4233/2014) regolamentano le attività
di accoglienza e integrazione. La tutela del diritto di accesso a scuola del minore straniero
trova le sue fonti normative nella legge sull’immigrazione n. 40/1998 e nel decreto
legislativo n. 286/1998 “Testo unico immigrazione”, che riunisce e coordina gli interventi in
favore dell’accoglienza e integrazioni degli immigrati. La legge n. 189/2002 ha poi
confermato le procedure di accoglienza degli alunni stranieri a scuola. Nel dettaglio, le Linee
guida 2014 hanno previsto lo stanziamento di apposite risorse finanziarie per l’inserimento
di bambini stranieri; è suggerita la realizzazione di accordi di rete tra le scuole e gli enti locali;
le iscrizioni di minori non italiani non dovranno superare il 30% degli iscritti; l’assegnazione
degli alunni non italiani nelle classi è autonomamente decisa dalle scuole; in fase di
valutazione, i minori con cittadinanza non italiana sono valutate nelle forme previste per i
minori italiani.
IL PROTOCOLLO DI ACCOGLIENZA DEGLI ALUNNI STRANIERI: le scuole si
dotano di un Protocollo di accoglienza dell’alunno straniero, un documento deliberato dal
Collegio dei docenti, diretto a facilitare l’applicazione delle regole di accoglienza. Il
documento contiene indicazioni riguardanti l’iscrizione e l’inserimento degli alunni
immigrati, definisce i compiti dei docenti e del personale amministrativo. Al contempo
definisce le pratiche condivise all’interno del contesto scolastico, promuovendo anche la
collaborazione sul territorio. Il dirigente scolastico gioca un ruolo fondamentale
nell’accoglienza degli alunni immigrati: egli svolge la funzione di vero e proprio garante del
diritto all’apprendimento nei confronti delle famiglie straniere.

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DEVIANZA E DELINQUENZA MINORILE: alla base della devianza giovanile
troviamo una molteplicità di fattori. Un contributo negativo in questo senso può essere dato,
sin da tenera età, da ambienti educativi come la famiglia e la scuola. L’espressione in forme
di aggressività e violenza fisica della devianza è veicolata, talvolta, anche da una serie di
modelli propagati dai mass-media. Accade così che condizioni di povertà di dialogo e di
isolamento portino molti ragazzi a individuare nella violenza la compensazione del proprio
disagio e una via di affermazione della propria personalità.
CONSUMO DI DROGHE, ALCOOL E TOSSICODIPENDENZE: fra le forme di
devianza socialmente più diffuse troviamo i comportamenti legati al consumo di droghe e
alcool. Il primo contatto con le sostanze potenzialmente pericolose avviene nell’adolescenza.
Alla tossicodipendenza (o tossicomania) si legano spesso comportamenti delinquenziali.
L’OMS ha elencato alcuni tra i fattori principali che contribuiscono a sviluppare il consumo
di droga: l’identità sessuale, l’età, la pressione del gruppo, l’automedicamento, le difficoltà
familiari, i problemi e i profili di personalità, i fattori economici e sociali. Il presupposto
fondamentale delle varie forme di prevenzione resta la capacità di ascolto e di empatia.
L’attuale normativa italiana prevede per la scuola un forte coinvolgimento sul tema delle
tossicodipendenze, nel più generale quadro di una educazione alla salute. In particolare, viene
previsto che la scuola assicuri un ambiente capace di prevenire le condizioni ritenute
agevolanti il comportamento da consumo di dipendenza da sostanze.
DALL’INSUCCESSO ALL’ABBANDONO SCOLASTICO: l’insuccesso scolastico e la
devianza sono fenomeni strettamente collegati. Tale situazione, se non affrontata in tempo,
può portare all’abbandono scolastico, una condizione che acutizza la marginalità assunta
dell’individuo nel gruppo sociale di riferimento. Promuovere attività basate sulla narrazione
e sul lavoro di gruppo aiuta il singolo a esprimersi e confrontarsi con gli altri consente
all’insegnante di ricevere un feedback molto utile sul modo di raccontarsi e di relazionarsi dei
suoi studenti. Compito del docente è fare in modo che il singolo studente si senta compreso
nella sua individualità.
BULLISMO A SCUOLA: per bullismo si intende un comportamento aggressivo ripetuto
nel tempo contro un individuo con l’intenzione di ferirlo fisicamente o moralmente. È
caratterizzato da certe forme di abuso con le quali una persona tenta di esercitare un potere su
un’altra persona (Linee Guida del Consiglio d’Europa, 18-11-2009). Il termine è di
derivazione anglosassone e sta a indicare un fenomeno sociale diffuso, che spesso si sviluppa
proprio a scuola. Tra i coetanei, infatti, il fenomeno spesso si diffonde grazie a dinamiche di
gruppo. Gli atti di bullismo possono configurare dei veri e propri reati ma si ha bullismo
solo quando l’azione aggressiva del bullo è continua e sistematica e deliberatamente
volta a danneggiare sempre la stessa vittima. Gli atti di bullismo possono essere di varia
natura: fisica, verbale o psicologica, e in genere hanno l’obiettivo di isolare la vittima,
escluderla dal gruppo, indebolirla dal punto di vista psicologico. Esistono due forme di
bullismo: 1) bullismo diretto in cui sono evidenti le prepotenze fisiche o verbali; 2) bullismo
indiretto, in cui il bullo non affronta direttamente la vittima ma agisce diffondendo dicerie,
calunnie e pettegolezzi sul conto della stessa, escludendola dal gruppo dei pari. Nel bullismo
vi è una relazione diretta tra bullo e vittima, addirittura una interdipendenza. Il bullo è di

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solito un soggetto apparentemente sicuro di sé ma non necessariamente aggressivo. Spesso le
vittime dei bulli sono ragazzi deboli, disabili o affetti da autismo. La vittima al contrario è
sempre un soggetto di per sé con un basso livello di autostima e che di fronte al bullo risulta
impotente. La vittima può isolarsi dal gruppo evitando di rispondere alle provocazioni del
bullo (vittima passiva), o in alcuni casi provocare essa stessa le azioni aggressive nei suoi
confronti (vittima provocatrice). In alcuni casi la vittima, per non rimanere isolata dal
gruppo dei pari, sottostà volontariamente agli atteggiamenti provocatori e deridenti del bullo
(vittima collusa). La scuola è chiamata in prima linea a contrastare ogni forma di bullismo:
le Linee di orientamento per il contrasto del bullismo (nota MIUR n. 2519/2015)
impongono alla scuola di adottare misure atte a prevenire e combattere tali fenomeni, in
collaborazione con le famiglie.
IL CYBERBULLISMO: è una forma di bullismo indiretto, in costante aumento, la cui
diffusione va di pari passo con la diffusione delle nuove tecnologie. È un particolare tipo di
aggressività intenzionale che si manifesta attraverso i social, forum, chat. È una forma di
prevaricazione insidiosa perché ha un’immediatezza e una capacità di diffusione di cui spesso
lo stesso bullo non ha contezza. La garanzia dell’anonimato poi, in molti casi, fa cadere nel
bullo i pochi freni inibitori che gli rimangono, favorendo atteggiamenti ancora più aggressivi
e violenti. Peraltro, con il diffondersi dei cellulari tra i bambini della primaria, fenomeni di
cyberbullismo incominciano a registrarsi anche in tenerissima età. Il 18 giugno 2017 è entrata
in vigore la nuova legge sul cyberbullismo, la L. 71/2017, che impone a tutte le scuole il
compito di promuovere l’educazione all’uso consapevole di Internet.

PEDAGOGIA SPECIALE, DISABILITA’ E SOSTEGNO

LA PEDAGOGIA SPECIALE: la questione della “differenza” tra individui, della


“diversità” (fisica, mentale, psichica) e dei problemi ad esse connessi in ambiente socio-
educativo costituisce il grande ambito della pedagogia speciale. In Italia, la pedagogia
speciale deve le sue origini al lavoro di Maria Montessori e Giuseppe Montesano che,
insieme, istituirono nel Novecento la prima scuola magistrale ortofrenica. Per la sua
metodologia didattica, la Montessori trasse ispirazione dai medici francesi, Itard e Séguin,
che si erano occupati di fanciulli selvaggi, allevati da animali, trovati in zone isolate.
Studiando i casi dei bambini selvaggi e ritardati, la Montessori mise in luce la grande serie di
errori e pregiudizi che gravavano sull’educazione infantile. Grazie al lavoro di Montessori, i
bambini non considerati normali divennero degni di attenzione pedagogica, e non solo più
medica.
DISABILITA’ E FAMIGLIA: quando i genitori scoprono di aver generato un figlio disabile
accade, secondo molti autori, qualcosa di analogo a ciò che ci colpisce davanti alla morte di
una persona amata: incredulità, rabbia, risentimento, spesso senso di colpa. Ma
soprattutto, si avvia un processo di lutto per la perdita del bambino immaginato. Alcuni
studiosi individuano quattro stadi o fasi di crisi che possono rendere il processo meno

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drammatico: 1) l’impatto; 2) la negazione; 3) la percezione del dolore; 4) la reazione attiva.
La famiglia sembra in realtà essere il primo contesto da sostenere in relazione all’evento
handicap: non solo in termini terapeutici, ma proprio in termini pedagogici.
MENOMAZIONE, DISABILITA’, HANDICAP: secondo l’OMS si deve intendere per
“menomazione” qualsiasi perdita o anomalia a carico di strutture o funzione
psicologiche, fisiologiche o anatomiche. Si deve intendere per disabilità qualsiasi
restrizione o carenza, conseguenze a una menomazione, della capacità di svolgere
un’attività nel modo ritenuto “normale” per un essere umano. Le disabilità sono
caratterizzate sempre da un’oggettiva difficoltà nella realizzazione di compiti ritenuti
“normali; inoltre possono avere carattere transitorio o permanente, essere cioè reversibili o
irreversibili; le disabilità possono insorgere come conseguenza diretta di una menomazione o
come reazione del soggetto ad una menomazione fisica, sensoriale o di altra natura. Le
disabilità vanno considerate come un esito non necessario della menomazione. Per essere
riconosciuti e certificati come “disabili” non è però necessario aver subito una menomazione:
c’è bisogno di un articolato confronto tra presunte capacità perdute da un individuo nel
“quotidiano” e presunti parametri di “normalità”. Possiamo invece intendere per handicap
una generale condizione di svantaggio vissuta da una determinata persona in conseguenza
di una menomazione o di una disabilità che limita o impedisce totalmente o parzialmente la
possibilità di occupare il “ruolo” che normalmente ci si attenderebbe proprio da quella
persona. Esso è segnato dallo sfasamento tra efficienza reale e aspettative di efficienza
potenziali. L’handicap rappresenta la messa in mostra (la “socializzazione”) di una
menomazione o disabilità e come tale esprime gli effetti culturali, socio-economici,
psicologici, ambientali. Lo “svantaggio”, invece, deriva principalmente dalla
diminuzione o dalla perdita della capacità di “conformarsi” alle aspettative sociali. Le
caratteristiche fondamentale della situazione di handicap sembra dunque essere il fatto che lo
svantaggio sia effettivamente “sperimentato” o “vissuto” dalla persona. Tecnicamente un
deficit è un danno irreversibile, mentre l’handicap ne rappresenta la conseguenza sociale.
IL MODELLO ICF: l’OMS si è dotata di uno standard diagnostico, l’ICD (International
Classification of Diseas), giunto ormai alla decima edizione, che rappresenta lo strumento
principale per la definizione delle caratteristiche eziologiche, fisiologiche e anatomiche dei
disturbi umani. Sul finire degli anni Settanta, l’OMS affiancò a tale documento un’appendice
dedicata alle conseguenze delle patologie individuate e classificate dall’ICD; tale ulteriore
strumento, definito ICIDH (International Classification of Impairments, DIsabilities and
Handicaps) pone la distinzione terminologica tra “menomazione”, “disabilità” ed
“handicap”. Nel 1999 l’OMS ha pubblicato la revisione di tale Classificazione (ICIDH-2),
che ha eliminato i termini disabilità e handicap che presentano una valenza negativa,
introducendo una terminologia più neutrale con riferimento all’attività e non più alla
disabilità; viene quindi introdotto al posto del termine disabilità quello di “activities”. Al
posto del termine handicap si introduce quello di partecipazione. Tale processo di revisione
è infine culminato in un documento definitivo pubblicato nel 2001 e denominato ICF
(International Classification of Functioning, Disability and Health). L’ICF focalizza
l’attenzione sul concetto di “funzionamento” piuttosto che di “mancanza”. L’attenzione è
posta quindi sulle abilità del soggetto, ovvero sulle capacità fisiche e sociali di una persona.

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L’ICF-CY (International Classification of Functioning, Disability and Health fort
Children and Youth) è la versione dell’ICF dedicata ai bambini e agli adolescenti. Questo
adeguamento elaborato dall’OMS consente di valutare i profili funzionali dei bambini in
maniera più precisa. Si tratta di uno strumento che si propone come valido supporto
all’individuazione di elementi che possano facilitare i giovani nel loro processo di crescita e
sviluppo.
IL MANUALE DIAGNOSTICO E STATISTICO DEI DISTURBI MENTALI (DSM):
è un documento americano elaborato per scopi nosografici e utilizzato in ambito
internazionale da medici e ricercatori per diagnosticare e classificare i disturbi mentali. Il
manuale, pubblicato per la prima volta negli USA negli anni ’50, è giunto oggi alla sua V
edizione. In esso, i disturbi mentali vengono categorizzati sulla scorta delle manifestazioni
sintomatologiche valutate su base statistica. Per disturbo mentale, il DSM-V intende “una
sindrome caratterizzata da un’alterazione clinicamente significativa della sfera cognitiva,
della regolazione delle emozioni o del comportamento di un individuo, che riflette una
disfunzione nei processi psicologici, biologici o evolutivi che sottendono il funzionamento
mentale”. Sul piano dei contenuti, il DSM-V è impostato sullo sviluppo dell’individuo lungo
l’arco di vita.
DAL RITARDO MENTALE ALLA DISABILITA’ INTELLETTIVA: l’espressione
ritardo mentale è stata abbandonata dalla cultura scientifico-sociale e sostituita da quella di
disabilità intellettiva. Tale espressione è da preferire perché si focalizza sui comportamenti
funzionali e tiene conto dell’interazione tra persona e ambiente. Con “disabilità intellettiva”
si fa riferimento a quei disturbi che insorgono nel periodo dello sviluppo e che riguardano
disfunzioni intellettive e adattive negli ambiti della concettualizzazione, della
socializzazione e delle capacità pratiche. I livelli di gravità del deficit sono quattro: lieve,
moderato, grave, estrema. La diagnosi di disabilità intellettiva è basata sia sulla valutazione
clinica sia su test per le funzioni intellettive e adattive. I più diffusi sono la Scala Stantford-
Binet e i test della serie Wechsler. Il testo consiste nel sottoporre il soggetto ad una serie di
prove; il numero di prove superate permette di valutare il suo Quoziente Intellettivo (QI).
Gli individui con disabilità intellettiva hanno un QI al di sotto della media.
CAUSE DELLA DISABILITA’ INTELLETTIVA: le cause del ritardo mentale possono
essere molteplici, tra cui: 1) le infezioni in gravidanza; 2) l’uso di farmaci e sostanze
stupefacenti in gravidanza; 3) le sindromi genetiche (si tratta di sindromi indotte da
alterazioni cromosomiche. Quando l’anomalia si verifica a carico di quelli autosomici è
presente in genere ritardo mentale. Le principali sono: sindrome di Down, sindrome X fragile
o di Martin Bell, sindrome del Cri-du-chat, la fenilchetonuria); 4) infezioni e traumi; 5)
paralisi cerebrali infantili.
LA COMUNICAZIONE AUMENTATIVA E/O ALTERNATIVA (CAA): costituisce un
sistema di comunicazione non verbale per persone con difficoltà, temporanee o permanenti,
che consente l’interazione in famiglia, a scuola e nel sociale. Utilizza qualsiasi supporto di
facilitazione che renda il linguaggio intellegibile a tutti, compensando le difficoltà di
comunicazione espressiva e recettiva. La CAA non assistita, comprende, invece, soltanto
l’uso del corpo e di nessun altro dispositivo o sistema esterno. Un esempio è il linguaggio dei

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segni, specifico per le persone sorde. La CAA diviene alternativa per le persone che non
hanno o hanno perduto del tutto la facoltà d’uso della parola e della scrittura. Tra i moltissimi
strumenti della CAA ci sono i libri modificati. Si tratta di libri già esistenti che vengono
appunto modificati e tradotti in simboli per essere accessibili a tutti. I simboli PECS (Picture
Exchange Communication System) ovvero Sistema di comunicazione mediante scambio per
immagini, sono invece finalizzati allo sviluppo della comunicazione come scambio sociale.
La comunicazione è funzionale se permette di capire e di farsi capire nelle varie situazioni di
vita: esprimendo i propri bisogni e richieste e facendo comprendere agli altri ciò che vogliamo
comunicare.
LA TECNICA DI AIUTO E RIDUZIONE DELL’AIUTO (PROMPTING E FADING):
le tecniche del prompting e fading rappresentano due momenti di un’unica metodologia
didattica e, quindi, vanno sempre programmate e usate insieme. La tecnica dell’aiuto consiste
nel fornire all’individuo uno o più stimoli discriminati sotto forma di aiuti (prompt) che
possono essere rappresentati da suggerimenti verbali, indicazioni gestuali e guida fisica. È poi
necessario attenuare progressivamente gli aiuti forniti attraverso il fading.
APPRENDIMENTO IMITATIVO (MODELING): la tecnica del modellamento
(modeling) consiste nella promozione di esperienze di apprendimento attraverso
l’osservazione del comportamento di un soggetto che funge da modello anche
inconsapevolmente.
MODELLAGGIO E CONCATENAMENTO (SHAPING E CHAINING): il
modellaggio o shaping è una tecnica tramite la quale è possibile ampliare i repertori di
capacità dei soggetti, facilitando la costruzione di nuove abilità. Si basa essenzialmente sul
rinforzo di comportamenti dell’allievo che progressivamente si avvicinano a quello ricercato
(comportamento meta).
TECNICHE DI RINFORZO: sono peculiari dell’approccio comportamentale. Lo psicologo
Skinner definisce il rinforzo come un evento che, fatto seguire all’emissione di un
comportamento, ne rende più probabile la comparsa in futuro.
I DISTURBI DELLO SPETTRO DELL’AUTISMO: il disturbo dello spettro autistico
appare come un gruppo di sindromi che condividono alcuni aspetti clinici. Per diagnosticare
un disturbo dello spettro autistico è necessario che vi siano alcune condizioni peculiari.
Attualmente, i criteri diagnostici individuati nel DSM-V sono: 1) Deficit persistenti della
comunicazione sociale e dell’interazione sociale; 2) Pattern di comportamenti, interessi o
attività ristretti, ripetitivi; 3) i sintomi devono essere presenti nel periodo precoce dello
sviluppo; 4) i sintomi causano compromissione significativa del funzionamento in ambito
sociale, lavorativo o in altre aree importanti; 5) queste alterazioni non sono meglio spiegate
disabilità intellettiva o da ritardo globale dello sviluppo. La disabilità intellettiva e il disturbo
dello spettro dell’autismo spesso sono presenti in concomitanza. Lo sviluppo sociale dei
bambini affetti da autismo è caratterizzato da una carenza dei comportamenti “di
attaccamento”. A differenza dei bambini dallo sviluppo ritenuto “normale”, gli autistici
spesso verbalizzano più di quanto non comprendano. Sono presenti ecolalia, frasi stereotipate
fuori del contesto, inversione pronominale. Si notano anche molteplici difficoltà

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nell’articolazione verbale. I disturbi della comunicazione, caratterizzati anche da grossolani
errori del linguaggio, appaiono il principale handicap. Le attività e il gioco, quando
presenti, sono rigidi, ripetitivi e monotoni. I giocattoli vengono manipolati in maniera
stereotipata. I soggetti più compromessi intellettivamente presentano svariate anomalie nei
movimenti. Manca ogni mimica e il bambino non risponde alle abituali sollecitazioni degli
adulti o dei coetanei. Si segnala inoltre l’ipercinesia, l’aggressività e accessi di collera senza
ragione apparente, scatenati da richieste anche futili. Frequenti le manifestazioni autolesive
e sono spesso presenti alterazioni dell’alimentazione. Nel DSM-V sono stimati tre livelli di
gravità: 1) Livello 3, per cui è necessario un “supporto molto significativo”; 2) Livello 2,
prevede un “supporto significativo; 3) Livello 1, per il quale “è necessario un supporto”. Con
la Legge 134/2015 per la prima volta i disturbi dello spettro autistico hanno trovato tutela in
una legge nazionale, che prevede: l’inserimento nei livelli essenziali di assistenza delle
prestazioni, della diagnosi precoce, delle cure e del trattamento dell’autismo.
AUTISMO E DISTURBO DI ASPERGER: caratteristica di questo disturbo è l’assenza di
un ritardo del linguaggio. Il livello cognitivo risulta nella norma anche se disomogeneo.
Altre caratteristiche della sindrome sono la presenza di schemi di comportamento, interessi
ed attività ristretti e ripetitivi.
IL DISTURBO DI RETT: caratteristica di questa patologia, che interessa soltanto individui
di sesso femminile, è lo sviluppo di molteplici deficit specifici. Si manifesta tra i 6 mesi e i
due anni e mezzo. Gradualmente diminuisce l’interesse per le persone che stanno intorno.
Peculiare è il rallentamento della crescita del cranio. Insorgono problemi nella coordinazione
dei movimenti e nell’andatura.
LE LINEE GUIDA PER L’AUTISMO: sono state pubblicate dalla Società italiana di
neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza. In esse, l’autismo si configura come una
disabilità “permanente” che accompagna il soggetto nel suo ciclo vitale, anche se le
caratteristiche del deficit sociale assumono un’espressività variabile nel tempo. Le linee guida
suggeriscono modalità di intervento educativo soprattutto di tipo comportamentale. Gli allievi
con autismo frequentano regolarmente la scuola e sono seguiti dall’insegnante di sostegno e
da educatori o assistenti. Nei casi di basso funzionamento, il trattamento più efficace è
l’Applied Behavior Analysis (ABA), cioè l’analisi comportamentale applicata per la
modifica dei comportamenti sociali.
APPROCCI COMPORTAMENTALI E ABA: l’analisi del comportamento (Behavior
Analysis) è lo studio del comportamento, dei cambiamenti che intervengono e dei fattori che
determinano tali cambiamenti. L’analisi del comportamento applicata (Applied Behavior
Analysis = ABA) è l’area di ricerca finalizzata ad applicare i dati che derivano dall’analisi del
comportamento per comprendere le relazioni che intercorrono fra determinati comportamenti
e le condizioni esterne. In questa prospettiva, l’analista comportamentale utilizza i dati
ricavati per formulare teorie relative al perché un determinato comportamento si verifica in
un particolare contesto e, conseguentemente, mette in atto una serie di interventi finalizzati a
modificare il comportamento e/o il contesto. Il programma di intervento (per la modifica del
comportamento) viene realizzato su dati che emergono dall’analisi, utilizzando le tecniche
abituali della terapia del comportamento: la sollecitazione (prompting); la riduzione delle

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sollecitazioni (fading); il modellamento (modeling); l’adattamento (shaping); il rinforzo.
L’azione didattica è per lo più finalizzata ad insegnare allo studente comportamenti nuovi e
funzionali, attraverso la tecnica dello shaping (modellaggio), cioè rinforzando le risposte che
si avvicinano al comportamento atteso. Il docente introdurrà altresì degli stimoli aggiuntivi,
attraverso il ricorso al prompting (tecnica dell’aiuto), con l’ausilio di aiuti verbali, gestuali o
fisici. Tale fase è seguita dal fading, cioè dall’attenuazione dell’aiuto, man mano che si viene
affermando il comportamento atteso.
I DISTURBI DEL LINGUAGGIO: secondo il DSM-V, il disturbo del linguaggio è
caratterizzato da difficoltà persistenti nell’acquisizione e nell’uso di diverse modalità di
linguaggio dovute a deficit della comprensione o della produzione. Le capacità di
linguaggio sono al di sotto di quelle attese per l’età in maniera significativa, portano a
limitazioni funzionali. L’ICF definisce i disturbi evolutivi specifici dell’eloquio e del
linguaggio come quei disturbi in cui l’acquisizione delle normali abilità linguistiche è
compromessa sin dai primi stai dello sviluppo. I disturbi evolutivi specifici dell’eloquio e del
linguaggio sono spesso seguiti da problemi associati, come difficoltà nella lettura e nella
compitazione. Il disturbo del linguaggio emerge precocemente.
DISTURBO FONETICO-FONOLOGICO: è una persistente difficoltà nella produzione
dei suoni dell’eloquio che impedisce la comunicazione verbale di messaggi. Gli altri aspetti
linguistici, espressione e comprensione del linguaggio, sono invece nella norma. Il disordine
fonetico-fonologico viene diagnosticato solitamente intorno ai quattro anni. Solitamente tale
disturbo si risolve positivamente con un trattamento adeguato.
DISTURBO DELLA FLUENZA CON ESORDIO NELL’INFANZIA (BALBUZIE): è
un disturbo dell’articolazione della parola dovuto ad uno spasmo intermittente
dell’apparato fonatorio per cui l’eloquio si presenta esitante, tronco e con ripetizioni.
L’entità varia da situazione a situazione, e spesso è più grave quando vi è una speciale
pressione a comunicare. Il disturbo è, invece, spesso assente durante la lettura orale e il canto.
L’esordio dei sintomi avviene nel periodo precoce dello sviluppo e si verifica entro i 6 anni
di età. Nella maggioranza dei casi il disturbo si risolve da solo.
DISTURBO DELLA COMUNICAZIONE SOCIALE (PRAGMATICA): è caratterizzato
da una difficoltà con l’uso sociale del linguaggio e della comunicazione. Il bambino ha
difficoltà nell’uso della comunicazione per scopi sociali. Il soggetto non riesce a seguire le
regole della conversazione. L’esordio dei sintomi avviene nel periodo precoce dello sviluppo.
DEFICIT VISIVO: di origine congenita o ad insorgenza successiva alla nascita, può avere
diversi livelli di gravità. La legge 138/2001 ha ampliato la fascia dei minorati della vista e ha
riclassificato le tipologie di ipovisione, permettendo a molti ipovedenti di beneficiare delle
misure di assistenza e tutela prima riservate ad una quota più ristretta di popolazione.
DEFICIT UDITIVO: un alunno affetto da grave sordità seguirà la programmazione della
classe, ma si dovranno rimodulare gli obiettivi rispetto a quelli generali, individualizzandoli
per le aree deficitarie. Si devono elaborare percorsi specifici finalizzati al superamento delle
difficoltà derivanti dal suo handicap. Si useranno delle metodologie atte a metterlo in
condizione di parità rispetto al gruppo classe.

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LA VALUTAZIONE DEGLI ALLIEVI DISABILI: l’art. 16 della L. 104/1992 dispone
che la valutazione degli alunni con disabilità debba essere effettuata da tutti i docenti e che
debba avvenire sulla base del PEI. Nella scuola secondaria di primo grado sono predisposte
prove d’esame corrispondenti agli insegnamenti impartiti. Nell’ambito della scuola
secondaria di secondo grado, per gli alunni disabili sono consentite prove equipollenti e tempi
più lunghi e la presenza di assistenti per l’autonomia e la comunicazione. Tali provo sono
diverse nei modi di accertamento, ma non nei risultati. La valutazione degli alunni con
disabilità del primo ciclo di istruzione è regolata anche dall’art. 11 del D.Lgs. 62/2017. La
valutazione degli alunni con disabilità certificata è espressa in decimi ed è riferita al
comportamento, alle discipline curriculari e alle attività svolte sulla base del PEI.
L’ammissione alla classe successiva avviene tenendo a riferimento il PEI. Sulla base del PEI,
la sottocommissione per lo svolgimento dell’esame di Stato del primo ciclo predispone prove
differenziate che hanno valore equivalente ai fini del conseguimento del diploma finale. È
previsto il ricorso ad attrezzature didattiche e sussidi. La disciplina dell’esame di Stato
conclusivo del secondo ciclo di istruzione è, invece, contenuta nell’art. 20 D.Lgs. 62/2017. Il
Consiglio di classe stabilisce la tipologia delle prove d’esame e se le stesse hanno valore
equipollente, all’interno del PEI. La Commissione d’esame predispone una o più prove
differenziate in linea col PEI, che se hanno valore equipollente, determinano il rilascio del
titolo di studio conclusivo. Agli studenti con disabilità per i quali sono state predisposte prove
non equipollenti a quelle ordinarie sulla base del PEI, viene rilasciato un attestato di credito
formativo.
LA VALUTAZIONE DEGLI ALUNNI CON PDP: in base alle norme vigenti, per gli
alunni con BES non riconducibili a disabilità ai sensi della L. 104/1992, si può rendere
necessaria la stesura di un PDP. Esso è obbligatorio in presenza di diagnosi di DSA. Invece,
in quelle situazioni eterogenee individuabili come altri Bisogni Educativi Speciali, la sua
stesura è rimessa alla decisione del Consiglio di classe. Per la valutazione e la verifica degli
apprendimenti degli alunni con DSA occorre tener conto delle specifiche situazioni
soggettive; a tal fine sono adottati gli strumenti compensativi e le misure dispensative ritenute
più idonee. Il D.M. 5669/2011 stabilisce che la valutazione scolastica degli alunni con DSA
deve essere coerenti con gli interventi pedagogico-didattici elaborati nel PDP. Le prove di
esame possono essere svolte con tempi più lunghi di quelli ordinari e con idonei strumenti
compensativi. Per le verifiche di lingua straniera si possono progettare prove compatibili con
le difficoltà connesse al DSA. La novità introdotta dal D.Lgs. 62/2017 consiste nel fatto che
l’alunno con DSA esonerato dalle lingue sostiene, se necessario, prove differenziate con
valore equivalente. Gli studenti DSA devono partecipare alle prove standardizzate
(INVALSI) come requisito di ammissione agli esami. Gli obiettivi fondamentali che gli
alunni con DSA devono raggiungere in ogni materia sono identici a quelli dei compagni.

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