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PATOLOGIA DEL COLLO

TUMEFAZIONI DELLA REGIONE LATERALE


FISTOLE E CISTI BRANCHIOGENE (o cisti laterali del collo)
Sono delle malformazioni che derivano dall’anomalo sviluppo o dalla mancata involuzione dell’apparato
branchiale, il quale è una formazione primitiva presente nel periodo embrionale. In particolar modo le fistole e
le cisti derivano dai solchi, dalle tasche branchiali, o da entrambi nel caso di fistole complete. Si tratta di
malformazioni congenite osservabili sin dalla nascita, sebbene le cisti, poiché richiedono un certo periodo di
tempo per essere distese dalle secrezioni, compaiono generalmente ad un’età più avanzata.
Le fistole, sottili tragitti fistolosi, si distinguono in: complete, quando presentano uno sbocco superiore in
faringe e uno inferiore alla cute del collo e incomplete (o cieche), quando hanno un solo sbocco, solitamente alla
cute e in tal caso il tramite termina in alto a fondo cieco tra i piani sottofasciali del collo. Nella maggior parte
dei casi l’orifizio cutaneo è posto davanti al margine anteriore dello sternocleidomastoideo, in prossimità della
sua inserzione clavicolare, mentre più raramente si trova più in basso, in prossimità della inserzione sternale del
muscolo, nelle fistole complete invece l’orifizio mucoso si trova presso la base della tonsilla. Il tramite,
irregolarmente ristretto, segue il margine anteriore dello sternocleidomastoideo e successivamente s’inflette
sotto il ventre posteriore del digastrico sino alla parete faringea.
La parete della fibra è costituita da connettivo fibroso con fibre muscolari ed isole cartilaginee e il rivestimento
epiteliale è cilindrico e talvolta ciliato nel tratto prossimo al faringe, mentre è pavimentoso composto nel tratto
prossimo alla cute.
La fistola può essere diagnosticata sin dai primi giorni di vita, grazie alla comparsa precoce di un secreto filante
allo sbocco cutaneo, talvolta anche di latte ingerito; altre volte la malformazione rimane a lungo ignorata, finchè
non provoca disturbi evidenti. L’emissione di liquido giallastro denso dall’orifizio cutaneo non sempre è però
indice di un processo suppurativo in atto, poiché può essere conseguente anche a desquamazione dei detriti
cellulari. Le non rare infezioni da piogeni si manifestano con secrezioni francamente suppurative e da segni
flogistici localizzati solo a livello dello sbocco o anche negli spazi più profondi. Le più rare fistole cieche
interne possono passare a lungo inosservate fino a quando non interviene una complicanza suppurativa che sia
causa di rigurgiti muco purulenti in orofaringe o di ascessualizzazioni nel collo. La notevole frequenza di
processi suppurativi nelle fistole branchiali costituisce la principale indicazione per il trattamento chirurgico, il
quale consiste in un’exeresi e successiva ricostruzione di platisma, sottocute e cute.
Le cisti branchiogene sono delle tumefazioni a carico della porzione laterale del collo, che si localizzano nel
triangolo anteriore del collo, lungo il margine anteriore dello sternocleidomastoideo e solitamente al limite tra la
regione carotidea e la sopraioidea. Talvolta la cisti è presente alla nascita ma solitamente si manifesta durante
l’infanzia, l’adolescenza o nell’età adulta e si accresce lentamente. Si presentano come tumefazioni elastiche e
poco mobili a causa delle aderenze fibrose che le uniscono alle formazioni circostanti. Le variazioni di diametro
che si possono osservare in una stessa ciste possono essere dovute alla presenza di fistole, che talvolta
permettono alla cavità cistica di scaricare parzialmente il suo contenuto alla superficie cutanea o nell’orofaringe.
A causa delle comunicazioni con l’esterno si possono avere frequentemente complicanze infettive. Così come
nel caso delle fistole, l’intervento chirurgico consiste nell’exeresi della ciste e dell’eventuale fistola associata. Se
quest’ultima non è asportata si ha maggior rischio di recidive.

CISTI E FISTOLE DEL DOTTO TIREOGLOSSO (o cisti mediane del collo)


Una cisti del dotto tireoglosso può trovarsi in qualsiasi punto della linea mediana, nel tratto compreso tra la
fossetta soprasternale e la radice della lingua, ma più frequentemente in posizione intermedia, in corrispondenza
dell’osso ioide, con il quale la cisti può essere saldamente unita. La cavità, contenente un liquido filante chiaro,
è rivestita da un epitelio cubico o cilindrico. Si manifesta con maggiore frequenza nell’età infantile o
nell’adolescenza, ma può comparire anche negli adulti, sotto forma di una tumefazione delle dimensioni di una
nocciola, asintomatica, non dolente, con mobilità ridotta (può compiere movimenti di verticalità con la
deglutizione e la protrusione della lingua), soprattutto quando la cisti è fissa allo ioide, e crescita lenta. Può
facilmente andare incontro ad episodi flogistici con formazione di un ascesso che può aprirsi all’esterno
formando una fistola.
La terapia è chirurgica e, per evitare il rischio di recidiva, la cisti deve essere rimossa in blocco con tutto il
dotto, senza lasciare residui, e poiché il dotto attraversa l’osso ioide è necessario che anche questo venga
resecato e asportato.
Una fistola del dotto tireoglosso può essere facilmente rivelata dalla presenza del suo orifizio cutaneo, che è
mediano e sottoioideo. La fistola dall’orifizio esterno prosegue verso l’alto contraendo connessioni con l’osso
ioide. Solitamente la fistola termina in alto a fondo cieco, ma talvolta presenta uno sbocco a livello del forame
cieco della lingua.
È importante verificare l’esistenza di connessioni della cisti o della fistola con lo ioide e con la radice della
lingua che portano ad una trazione della malformazione stessa verso il pavimento orale durante la deglutizione e

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la protrusione della lingua. Il trattamento chirurgico richiede una incisione cutanea trasversale con isolamento
della cisti o della fistola e sezionamento del corpo ioide.

MALATTIE INFETTIVE DEL COLLO (LINFOADENOPATIE)


Le linfoadenopatie, cioè l’aumento di volume dei linfonodi laterocervicali, costituiscono la più comune causa di
tumefazione del collo nel bambino e sono di solito conseguenti ad infezioni batteriche da parte dei principali
batteri responsabili delle comuni infezioni suppurative, streptococchi, e stafilococchi. La porta d’ingresso
dell’infezione si trova a livello della cute del capo o della faccia (foruncoli, dermatite da piogeni, escoriazioni,
ulcerazioni) o nella mucosa orofaringea o nell’apparato dentario (le infezioni da carie dentarie, che si propagano
al periodonzio, possono rappresentare il punto di partenza di adeniti e adenoflemmoni sottomascellari o
sottomentonieri).
In particolari condizioni generali dell’organismo (immunodepressione, malattie ematologiche) una linfadenite
acuta può sconfinare oltre la sede linfonodale interessata con conseguente formazione di un adenoflemmone,
cioè di un processo infettivo con formazione di pus intorno alla linfoghiandola.
La linfadenite acuta si manifesta inizialmente con una tumefazione infiammatoria (di dimensioni anche
importanti) evidenziabile all’ispezione e alla palpazione, caratterizzata da dolenzia o vivo dolore, che si aggrava
in seguito a compressione, e dalla presenza di rubor e calor della cute. Questa fase di adenite acuta semplice può
prolungarsi per qualche ora o qualche giorno. Se la malattia, invece di risolversi, evolve verso una suppurazione,
ossia in adenoflemmone, il dolore aumenta e lo stato generale si aggrava. L’edema e il rossore raggiungono il
massimo grado fino a quando la cute si ulcera spontaneamente, o viene incisa, con conseguente fuoriuscita del
pus. Questi caratteri, eviddenti negli adenoflemmoni superficiali, sono meno netti in quelli profondi,
specialmente in quelli che interessano la catena carotidea, perché l’aponeurosi e i muscoli mascherano la
tumefazione e rendono più difficoltosa la palpazione, di conseguenza si può avere una diffusione negli spazi
periviscerali del collo, con grave interessamento del mediastino.
A seconda della sede gli adenoflemmoni si distinguono in: sottomascellari, parotidei, sopraioidei (o
sottomentonieri), sottoioidei, carotidei e nucali. Particolarmente pericolosa è l’evoluzione degli adenoflemmoni
carotidei che aggrediscono le pareti dei grossi vasi del collo, determinando ematomi pulsanti ed aneurismi o
causando delle complicanze venose, soprattutto la tromboflebite settica della giugulare profonda. Un’altra
complicanza temibile è la propagazione al mediastino di adenoflemmoni che originano dai linfogangli della
catena carotidea tramite una colata settica che dal collo si porta al mediastino.
La terapia antibiotica ha non soltanto ridotto la frequenza degli adenoflemmoni, ma ne ha anche migliorato il
decorso e la prognosi. Questa terapia si esegue per via generale o per infiltrazione locale nelle sacche ascessuali
dopo aspirazione della raccolta purulenta. Talvolta bisogna eseguire un tempestivo drenaggio chirurgico prima
che il processo si propaghi o si fistolizzi spontaneamente.
Sebbene la maggior parte delle suppurazioni del collo son rappresentate dagli adenoflemmoni, esistono infezioni
acute, subacute e croniche nelle quali il processo infiammatorio interessa il sottocutanei e gli spazi sottofasciali,
senza coinvolgimento dei linfogangli, in tal caso si parla di cellulite cervicale diffusa. Un raro processo
infiammatorio cronico è il flemmone ligneo del collo, caratterizzato da lenta evoluzione con conseguente
indurimento dei tessuti infiltrati. Il flemmone ligneo del collo viene considerato come una infezione da agenti
infiammatori di virulenza attenuata, con sede più frequentemente ai lati del collo ed appare indurito, tumefatto e
con modico dolore.
Le linfadenite croniche semplici sono di rara osservazione e sono generalmente conseguenti a infezioni
attenuate a lento decorso della faccia o del collo o della bocca. Il linfoganglio tumefatto non supera le
dimensioni di una nocciola o di una mandorla e la dolenzia è scarsa o del tutto assente. La terapia è rivolta al
focolaio primitivo d’infezione.
Una particolare forma di linfadenite cronica è quella tubercolare, la quale predilige la regione cervicale.
L’affezione, a seconda della modalità di penetrazione del BK nei linfonodi, può essere primitiva o secondaria.
Nella primitiva, di gran lunga la più frequente, non è possibile identificare la sede iniziale dell’infezione, ma
comunque in questi casi si presume che la penetrazione avvenga attraverso le mucose della bocca, del naso e del
faringe (soprattutto la mucosa oro-faringea), a cui può conseguire una linfadenite cervicale. Una fonte principale
di contagio è il latte delle bovine affette da TBC.
Il linfoganglio interessato va incontro a necrosi forma caseosa e successivamente l’adenite procede dalle
stazioni sottomascellari e carotidee verso la sopraclaveari. Il processo infiammatorio linfonodale diffonde alla
capsula e al circostante tessuto cellulare, con conseguente formazione di pacchetti linfonodali indolenti che
possono portare a una deformazione tipica del collo, detta “scrofola”. Dalla necrosi il processo può evolvere, per
attenuazione o cessazione dello stato infettivo, verso la sclerosi e la calcificazione, mentre in altri casi il
linfoganglio necrotico va incontro a colliquazione e la tumefazione presenta segni di rammollimento fino a
formazione di fistole cutanee, le quali possono rappresentare la porta d’ingresso per germi piogeni che quindi
causano una infezione secondaria.
La prognosi di questa malattia è notevolmente migliorata grazie alla possibilità di una terapia radicale tramite
chirurgia e terapia antibiotica.

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TUMORI GLOMICI O CHEMODECTOMI
Detti anche paragangliomi (perché originano dal tessuto paragangliare), questi sono i tumori del corpo
carotideo, situati solitamente alla biforcazione della carotide comune e precisamente dietro la carotide o tra le
due carotidi, mentre è più rara la situazione in cui i vasi sono inglobati nella massa neoplastica. La forma è ovale
o rotonda, è presente una capsula e l’aspetto è omogeneo e compatto. Il volume varia, potendo essere molto
piccolo oppure raggiungere le dimensioni di un’arancia: quando le dimensioni aumentano esso può espandersi
fino al processo mastoideo o estrinsecarsi verso il cavo faringeo, senza però infiltrarlo. Proprio per la scarsa
tendenza all’infiltrazione, oltre che per l’eccezionalità delle metastasi, il tumore è considerato clinicamente
benigno.
Dal punto di vista istologico si distinguono tre forme:
1. Tipo comune (70%): rispecchia la struttura dell’organo normale;
2. Tipo adenomatoso (15%): presenza di iperproliferazione di cellule epiteliali fondamentali;
3. Tipo angiomatoso (15%): sono presenti cellule fondamentali e sinusoidi vascolari.
La sintomatologia è variabile. Di solito il primo sintomo è costituito da una tumefazione graduale della regione
carotidea, con limiti ben definiti. Nelle prime fasi non si associano altri sintomi, anche perché la crescita
tumorale è molto lenta (nel caso in cui invece l’accrescimento sia molto rapido bisogna pensare a una
degenerazione cancerogena). Quando invece il tumore aumenta di dimensioni possono comunque mancare i
sintomi, oppure possono aversi disturbi funzionali dovuti alla compressione delle altre strutture: se sono
compressi esofago e faringe si avrà disfagia, se è interessato il nervo ricorrente si avrà disfonia, se il ganglio
stellato la sdr di Bernard Horner. Spesso è inoltre presente una iperreflessia sinusale, con crisi bradicardiche e
manifestazioni sincopali.
Importante per la diagnosi è il quadro angiografico, che mostra una struttura riccamente vascolarizzata.
La terapia è escissionale e può risultare talvolta molto semplice, visto che la capsula permette un piano di
clivaggio col tessuto circostante che facilita l’eradicazione, ma può capitare che il tumore presenti connessioni
tanto tenaci da richiedere interventi chirurgici più complessi, che in passato arrivavano anche a dover sacrificare
la carotide interna, oggi molto diminuiti grazie alle metodiche di ricostruzione vasale, ma sempre possibili,
ragion per cui conviene premunirsi dai danni cerebrali che l’ipossia conseguente a danni della carotide può
determinare, conservando il flusso sanguigno nella carotide attraverso una derivazione interna (cioè uno shunt
tubulare della carotide).
Sono sempre dei paragangliomi, ma di interesse dell’otorinolaringoiatrico, quelli che originano nell’orecchio
medio (glomo timpanico) o nella vena giugulare alla mastoide (glomo giugulare), che possono produrre altri
sintomi, per esempio da paralisi dei nervi cranici 7°, 9°, 10°, 11° e 12°. I tumori che infiltrano il labirinto o l’8o
nervo cranico causano sordità neurosensoriale. Nell’1-3% dei pazienti, i tumori glomici producono
catecolamine, che raramente causano ipertensione intermittente. In questi casi la diagnosi si fa con la clinica,
che mostra una massa pulsatile rossa nell’orecchio medio, seguita da TC con mezzo di contrasto della base del
cranio e dell’osso temporale.

LA TIROIDE
La tiroide origina dall’endoderma, pesa 15-25 grammi ed è composto da due lobi uniti da un istmo. Si trova
nella regione mediana del collo, davanti al passaggio tra laringe e trachea e sotto la cartilagine cricoide.
Istologicamente si presenta come una ghiandola circondata da una capsula fibrosa da cui partono setti
intraparenchimali che la dividono in lobuli. Ogni lobulo contiene 20-40 follicoli tiroidei. I follicoli sono rivestiti
da cellule follicolari, o tireociti, disposte in un unico strato di cellule che circonda la colloide, liquido contenente
gli ormoni tiroidei, prodotti dai tireociti stessi. Affianco ai follicoli tiroidei sono poi presenti cellule
parafollicolari, anch’esse con funzione endocrina. Quindi la tiroide ha, come la surrene, una doppia
componente endocrina: i tireociti producono ormoni tiroidei, le cellule parafollicolari producono calcitonina.
La patologia della tiroide è, in generale, estremamente frequente e colpisce in modo prevalente il sesso
femminile, mentre quello maschile è abbastanza esente da patologie a carico di questa ghiandola, però quando è
colpito, in genere la natura della patologia è più seria, cioè nel 99% dei casi si tratta di tumore (adenomi o
carcinomi), mentre nella donna le patologie della tiroide sono per lo più reattive, cioè flogistiche (ma anche le
neoplastiche sono comuni e comunque sempre più frequenti di quelle dell’uomo).

TIROIDITI
Il termine tiroidite definisce un eterogeneo gruppo di processi infiammatori della tiroide di varia eziologia. Sono
comprese:
Tiroiditi autoimmuni
La tiroidite cronica autoimmune o tiroidite linfocitaria si presenta con due forme cliniche principali: la forma
con gozzo (nota anche come tiroidite di Hashimoto) e la forma atrofica. La tiroidite giovanile (del bambino o
dell´adolescente) e la tiroidite focale o minima costituiscono varianti delle forme più comuni. La  tiroidite

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silente (definita anche painless, cioè non dolorosa) e la tiroidite post-partum sono anch´esse di origine
autoimmune, ma hanno di solito un decorso transitorio.
• La tiroidite cronica autoimmune è dovuta ad autoimmunità organo-specifica, responsabile del danno
(sia l’immunità umorale che quella cellulo-mediata). La tiroide è infiltrata da linfociti e plasmacellule,
in circolo sono presenti anticorpi rivolti contro antigeni tiroidei (Tg, TPO), c´è non infrequentemente
associazione con altre malattie autoimmuni (celiachia, diabete). È spesso presente familiarità per la
tiroidite, a indicare una predisposizione genetica. Fattori endogeni di suscettibilità includono gli ormoni
sessuali femminili e i glucocorticoidi; fattori esogeni (ambientali) quali agenti infettivi, la terapia con
interferone, l´eccesso di iodio, lo stress fisico ed emotivo possono svolgere un ruolo in soggetti
geneticamente predisposti. La tiroidite cronica autoimmune rappresenta la causa più frequente di
ipotiroidismo spontaneo dell´adulto. La prevalenza degli anticorpi antitiroide circolanti, che riflettono la
presenza della tiroidite, tende progressivamente ad aumentare con il passare degli anni, così come tende
ad aumentare la prevalenza dell´ipotiroidismo subclinico o clinico, che della tiroidite costituisce la
frequente evoluzione. I pazienti affetti da tiroidite cronica autoimmune possono presentarsi con gozzo,
ipotiroidismo o entrambi. Nella maggior parte dei pazienti con tiroidite di Hashimoto la tiroide è
aumentata di volume, anche se spesso in maniera non simmetrica. Una rapida crescita del gozzo e la
comparsa di rilevanti disturbi compressivi devono essere attentamente considerati, perché potrebbero
essere espressione della comparsa di un linfoma della tiroide, a cui la tiroidite autoimmune espone, data
la presenza di maggior tessuto linfatico per via dell’infiammazione. Possono esser presenti sintomi e
segni di ipotiroidismo conclamato, ma ancora più frequente è la presenza di un ipotiroidismo
subclinico, nel quale i sintomi sono molto sfumati o del tutto assenti. Nella tiroidite atrofica, in cui
manca il gozzo e che rappresenta il 10% circa di tutte le forme di tiroidite cronica autoimmune, il
quadro di presentazione è quello dell´ipotiroidismo. Dal punto di vista diagnostico, il rilievo della
positività degli anticorpi circolanti (più frequentemente gli anticorpi anti-TPO, presenti in circa il 90%
dei casi, che gli anticorpi anti-Tg, presenti nel 20-50% dei casi), unitamente al rilievo ecografico di una
spiccata ipoecogenicità della tiroide, costituisce gli elementi fondamentali per la diagnosi di tiroidite
cronica autoimmune. Il dosaggio degli ormoni tiroidei liberi (FT 4 e FT3) e del TSH è solitamente
nromale (se lo stadio è subclinico), mentre diviene elevato nel caso di ipotiroidismo conclamato. La
tiroidite cronica autoimmune è una componente frequente della sindrome polighiandolare autoimmune
di tipo 2, caratterizzata dalla coesistenza di due o più tra i seguenti disordini:  malattia di Addison;
tiroidite cronica autoimmune; diabete mellito di tipo 1; gastrite atrofica con o senza anemia perniciosa;
vitiligine; alopecia; miastenia grave; ipofisite. Se è presente ipotiroidismo conclamato, è ovviamente
necessario il trattamento sostitutivo con L-tiroxina. La chirurgia non è indicata, a meno che non vi sia
gozzo di grosse dimensioni che comprime oppure vi sia una associata neoplasia maligna.
• La tiroidite silente è caratterizzata da una transitoria tireotossicosi con bassa captazione tiroidea del
radioiodio e da un piccolo gozzo non dolente e non dolorabile. Rappresenta l´1-4% delle cause di
tireotossicosi, ed è più frequente nel sesso femminile. Questa forma di tireotossicosi potrebbe anche
essere inclusa tra le forme di tiroidite distruttiva (vedi oltre), giacché è legata al danno delle cellule
follicolari dovuto al processo infiammatorio con conseguente liberazione di ormoni preformati.
Tuttavia, nella maggior parte dei casi sono presenti evidenti fenomeni di autoimmunità tiroidea, con
positività degli anticorpi antitiroide circolanti, anche se a titoli più bassi rispetto all’Hashimoto. Dopo la
fase della tireotossicosi (durata: 2-8 settimane) si osserva una fase di ipotiroidismo (4-8 settimane)
dovuto alla precedente soppressione del TSH da parte dell´eccesso di ormoni tiroidei. Si ha
successivamente il ripristino dell´eutiroidismo, mentre l´ipotiroidismo permanente è raro (< 5%).
Queste diverse fasi cliniche sono del tutto sovrapponibili a quelle della tiroidite subacuta di De
Quervain. 
• La tiroidite post partum si può definire come una forma di tiroidite silente con un rapporto cronologico
preciso con il parto (si sviluppa entro 1-6 mesi da questo). La gravidanza rappresenta una condizione di
fisiologica immunosoppressione, cui fa seguito, nel periodo post partum, un rimbalzo (rebound)
immunologico con esacerbazione dei fenomeni autoimmunitari. Essa si presenta come tireotossicosi
transitoria (da distruzione) seguita da un ripristino dell´eutiroidismo, con ipotiroidismo transitorio
seguito da una normalizzazione del quadro clinico e bioumorale.
Tiroiditi distruttive
La tiroidite subacuta di De Quervain è una infiammazione della tiroide che ha probabilmente una base
immunitaria e che in genere insorge in seguito a una infezione virale (parotite, influenzali, adenovirus o
coksackie), infatti è stato visto che l’incidenza di questa malattia aumenta in corso di epidemie virali e che
anticorpi contro certi virus aumentano nel corso dell’evoluzione clinica. Il paziente si presenta con febbre,
malessere generalizzato, dolore al collo e disfunzione tiroidea, che ricalca quella vista nella tiroidite silente.
Morfologicamente la ghiandola apparirà di consistenza aumentata, ingrandita asimmetricamente e con all’esame
istologico un caratteristico infiltrato infiammatorio linfoplasmacellulare, granulomatoso, con presenza di cellule
giganti talora multinucleate. Rara è la formazione di microascessi e la fibrosi. L’evoluzione nella maggior parte
dei casi porta a completa restituito ad integrum della funzionalità dell’organo.

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Tiroidite suppurativa acuta
È un processo infiammatorio acuto causato dall’infezione di un microorganismo, per lo più batteri (tra questi
stafilococchi, streptococchi e batteri gram- sono i più frequenti), meno comunemente agenti fungini (aspergillo,
candida), e raramente virus (talvolta è stato isolato il CMV. Solitamente si presentano come processi infettivi
generalizzati o localizzati in altra sede, soprattutto cervicale, che coinvolgono secondariamente la tiroide.
Clinicamente si presenta con segni e sintomi generali, come febbre e malessere, accompagnati da dolore della
regione anteriore del collo, che si presenta tumefatta, arrossata e calda, e aumento del volume della tiroide.
Morfologicamente è caratterizzata da un infiltrato polimorfo nucleato che può causare alterazioni congestizie ed
essudative. È facilmente curabile con somministrazione di antibiotici.
Tiroidite di Riedel
Conosciuta anche come tiroidite fibrosa o tiroidite sclerosante, è una rara forma di tiroidite cronica a eziologia
sconosciuta, caratterizzata da una marcata fibrosi della tiroide e delle strutture adiacenti. Viene ritenuta parte di
una malattia sistemica sclerosante, giacché in oltre 1/3 dei pazienti è presente una fibrosclerosi extratiroidea,
con fibrosi retroperitoneale, mediastinite fibrosa, fibrosi retrorbitaria, colangite sclerosante o pancreatite.
Tipicamente vi è una lunga storia di un progressivo ed indolente aumento di volume di una massa nella regione
antero-cervicale, che alla palpazione si presenta di consistenza lignea o addirittura lapidea. Sono presenti, spesso
molto marcati, i sintomi da compressione delle strutture cervicali (dispnea, disfonia, disfagia). La funzione
tiroidea è di solito normale. Talora si riscontrano anticorpi antitiroide. La terapia è chirurgica e di solito consiste
nella resezione a cuneo della massa.

IL GOZZO
Con questo termine si indica un aumento di volume della tiroide che risulta maggiore di una falange ungueale
del primo dito della mano del paziente. Esso può essere,dal punto di vista morfologico, distinto in diffuso o
circoscritto o nodulare (uninodulare o plurinodulare), mentre dal punto di vista funzionale si distinguono gozzi
eutiroidei, ipotiroidei e ipertiroidei.
PATOGENESI questo aumento di volume è conseguente a una iperplasia follicolare ed è sostenuto da una
qualsiasi causa che determini iper o ipofunzione ghiandolare. Gli ormoni tiroidei (T3 e T4) sono degli ormoni
iodati e la loro produzione è regolata dal TSH, un ormone ipofisario la cui secrezione è a sua volta regolata con
un controllo a feedback dagli ormoni tiroidei stessi. La corretta secrezione di T3 e T4 dipende quindi in primis
da una corretta stimolazione ipofisaria ma anche da una normale funzionalità tiroidea e da una giusta quantità di
iodio in circolo: è quindi evidente che alterazioni della secrezione degli ormoni possono trovare tre diversi cause
scatenanti. Se non avessimo una quantità di iodio sufficiente all’organificazione (cioè l’incorporazione dello I
nella catena di tireoglobulina, che è il precursore ormonale presente nel colloide), pur con normale attività
ipofisaria e tiroidea gli ormoni tiroidei non sarebbero completi e quindi sarebbero funzionalmente inattivi,
incapaci non solo di svolgere le loro normali azioni (stimolano i processi cosiddetti anabolici, vale a dire di
crescita, sviluppo e movimento dell’organismo, aumentano il processo di ossidazione delle cellule controllando
gli enzimi che presiedono al metabolismo energetico e agiscono così sui processi di accrescimento e di
diversificazione delle cellule), ma anche di inibire a feedback il TSH ipofisario, che perciò continuerà a
stimolare l’attività cellulare e la proliferazione delle cellule tiroidee: questa è la ragione per cui quando c’è calo
di iodio la tiroide, producendo meno ormoni (ma ancora non sviluppa ipotiroidismo), va incontro a una
iperplasia per mantenere un adeguato livello di ormoni e quindi si forma il gozzo. Questa è la ragione del
perché può aversi un gozzo in stato di eutiroidismo: questi pazienti hanno una ridotta produzione di ormoni
perché alcune parti di parenchima non producono proprio, ma sono comunque eutiroidei perché non c’è bisogno
di tutta la tiroide per le nostre necessità ormonali, però la quantità inferiore di ormoni sarà insufficiente per
bloccare il TSH, che quindi andrà a stimolare maggiormente le cellule tiroidee determinando la loro iperplasia.
Nonostante l’iperplasia il paziente dopo un po’ di tempo non riesce a compensare al meglio la carenza ormonale
per cui va incontro a ipotiroidismo. Nel caso il paziente abbia un ipertiroidismo invece lo sviluppo del gozzo si
spiega facilmente con la aumentata attività della ghiandola, che è conseguenza sempre dell’aumentato stimolo
del TSH il quale è, in definitiva, sempre il principale responsabile dell’aumento ghiandolare, poiché è l’unica
sostanza capace di mandare stimoli iperplasiogeni (e anche ipertrofizzanti) alle cellule follicolari.
EZIOLOGIA i fattori eziopatogenetici principali sono:
1) Carenza iodica: le maggiori incidenze di gozzo di hanno nelle regioni con basse concentrazioni di iodio
nell’acqua e negli alimenti (in Italia, soprattutto in passato quando il commercio era meno globalizzato e non
esistevano alimenti come il sale iodato, le regioni più colpite erano quelle degli appennini, e comunque in
generale quelle più interne, a maggior distanza dal mare). Quando la prevalenza del gozzo nei bambini tra 6 e 12
anni è superiore al 10% il gozzo viene detto endemico, mentre se è inferiore è detto sporadico. Esso si
manifesterà con un ipotiroidismo, che prende il nome di cretinismo se i suoi effetti si hanno già nella prima
parte della vita (disturbi sulla crescita somatica – e si parla infatti di nanismo disarmonico – e psichica).
2) Fattori dietetici: sono considerati gozzi geni alcuni alimenti come il cavolo e altri vegetali con altra
concentrazione di tiocomposti, i quali inibiscono la sintesi ormonale mediata dalle tireoperossidasi.

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3) Farmaci: il tiouracile induce un gozzo perché riduce la sintesi ormonale tiroidea, a cui l’ipofisi risponde con
un eccesso di increzione di TSH e, quindi, una iperplasia tiroidea. Anche il litio assunto per lunghi periodi può
causare gozzo.
4) errori congeniti del metabolismo degli ormoni tiroidei sono responsabili del gozzo disormogenetico.
5) anche il meccanismo autoimmune è tra i fattori causali del gozzi, sia esso ipofunzionante, sia iperfunzionante.
Del primo caso fa parte la tiroidite autoimmune di Hashimoto, che può portare a un ipotiroidismo (si parla di
mixedema intendo una condizione caratterizzata da tremore, stanchezza, bradicardia, tendenza ad ingrassare
perché il metabolismo è ridotto, edema pretibiale, edema duro della cute per accumulo di mucopolisaccaridi –
perciò mixedema -, ecc..) per distruzione del parenchima ghiandolare. Del secondo fa parte il morbo di
Basedow, un ipertiroidismo (esoftalmo - dovuto ad aumento degli glicosaminoglicani nei muscoli extraoculari e
dei tessuti fibroadiposi orbitari- , dermatopatia – mixedema- in sede pretibiale, nervosismo, iperidrosi,
insofferenza al calore, tachicardia, palpitazioni, affaticabilità e perdita di peso) dovuto alla produzione di
anticorpi rivolti contro il recettore del TSH. Legandosi al recettore gli anticorpi simulano e potenziano l’azione
del TSH e agiscono aumentando sia la funzione della tiroide che, probabilmente, la proliferazione delle sue
cellule con conseguente iperplasia. L’evento scatenante la produzione di questi autoanticorpi è sconosciuto.
MORFOLOGIA il gozzo iperplastico iniziale è solitamente indistinguibile morfologicamente, sia che esso sia
semplice (non tossico, cioè la produzione ormonale della ghiandola è normale), sia che sia tossico (cioè produca
ormoni in quantità eccessiva, come avviene nel Basedow). Esso poi, nella sua evoluzione, assume spesso un
aspetto multinodulare, con emorragie e formazione di setti fibrosi. Il gozzo che si viene a formare in questi casi
è detto gozzo multi nodulare e può essere anch’esso a sua volta non tossico, oppure tossico se su questo quadro
si sviluppa un ipertiroidismo, come avviene nel gozzo multi nodulare tossico (evoluzione del gozzo semplice,
forse dovuta ad un’eccessiva introduzione di iodio) e nell’adenoma tossico o di Plummer (variante dell’adenoma
follicolare, di cui rappresenta il 5% dei casi, ossia una lesione benigna di derivazione dall’epitelio follicolare,
solitaria e ben capsulata. L’adenoma tossico si presenta con morfologia uguale all’adenoma follicolare, quindi
con cellule simili a quelle follicolari normali e, solo a volte, atipie citologiche che in rari casi possono essere il
segno iniziale di una invasione capsulare, ma con una differenza più che altro clinica: si parla di adenoma
tossico quando alla presenza del nodulo si associano sintomi correlati all’ipertiroidismo e alcuni segni
morfologici di iperfunzione, quali ipertrofia cellulare e frequente emorragia per l’elevata vascolarizzazione,
simili, anche se minori, a quelli del morbo di Graves). L’architettura diventerà quindi da lobulare a nodulare,
con la presenza cioè di noduli, separati dal resto della ghiandola da esili tralci fibrosi, che frequentemente vanno
incontro a fenomeni di involuzione cistica. Durante la fase iperplastica si deposita in alcuni follicoli colloide che
produce un aumento di consistenza e e un aspetto gelatinoso, da cui la definizione di gozzo colloideo. In alcuni
casi si parla di gozzo parenchimatoso (unica variante da ricordare), cosiddetto quando la ghiandola è dura e
compatta perché i follicoli non hanno colloide, e ciò può avvenire o perché la colloide non è mai stata formata,
come appunto nel gozzo endemico, o perché la colloide è stata tutta dismessa, come avviene nel gozzo
ipertiroideo. Riassumendo, si passa da una fase di iperplasia ad una di accumulo di colloide (gozzo colloido-
cistico) o formazione di adenomi (gozzo adenomatoso).
LOCALIZZAZIONE il gozzo è nella maggior parte dei casi cervicale, ma esso può svilupparsi anche a livello
cervico-mediastinico e mediastinico, a seconda della localizzazione della ghiandola tiroide ( in particolare il
gozzo mediastinico si distingue dal cervico-mediastinico a seconda che il gozzo endotoracico si associ a una
tumefazione tiroidea a livello cervicale oppure no). Questi gozzi prendono il nome di strumi distoptici e sono
dovuti a migrazione dalla regione sottoioidea della ghiandola nella vita fetale. In particolare prende il nome di
struma plongeant (affondato nel torace), quel gozzo che è dapprima cervicale e scende in mediastino per via
della pressione negativa inspiratoria.
Tra gli strumi son da ricordare: quello ptosico endotoracico, solitamente laterale, originato da un lobo laterale
della tiroide a cui rimane connesso da un peduncolo passante dietro i vasi mediastinici (si parla di gozzo retro
vascolare). Questo gozzo sospinge trachea ed esofago, rispetto a cui è laterale verso il lato opposto, e talvolta li
comprime tramite una propaggine che si insinua fra essi, causando disfagia e dispnea. Più raramente lo struma
ptosico è mediano, e anche qui comprime gli stessi organi causando soprattutto dispnea, ma cnhe paralisi del
nervo ricorrente, e raramente miosi ed enoftalmo per compressione della catena simpatica. Altro tipo di struma è
quello aberrante, sviluppatosi da tiroidi ectopiche (possono essere endolaringei, endotracheali, endobronchiali,
timici, periaortici, intrapericardici). Raro lo struma ovarico.
CLIINICA all’esame clinico, quando la tiroide si trova in sede normale, ogni suo ingrandimento oltre i limiti
della norma è indicato dalla comparsa di una tumefazione nella regione sottoioidea. Raramente il gozzo si
sviluppa in modo simmetrico, perché di solito prevale lo sviluppo in un lato. Se il gozzo è multinodulare sono
inoltre presenti bozze di variabile grandezza. Se il gozzo non è parzialmente affondato nel torace, si presta a
spostamenti di lateralità e segue i movimenti di salita della laringe, cosa che si può dimostrare facendo deglutire
il paziente. la compressione può causare poi stenosi tracheale, scoliosi tracheale, appiattimento a fodero di
sciabola e, a lungo andare, anche un rammollimento dell’organo, con tracheomalacia. Infine la compressione dei
vasi cervicali causa turgore delle giugulari superficiali (anche per via della maggior portata di sangue refluo
dallo struma).
Tra i sintomi, i principali sono: disfonia, disfagia, dispnea inspiratoria con tirage e cornage.

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DIAGNOSI l’iter diagnostico è lo stesso del nodulo tiroideo (vedi dopo): ecografia tiroidea (permette di
stabilire dimensioni e tipo di modularità del gozzo), scintigrafia (permette di valutare l’attività funzionale), RX
(per visualizzare eventuali compressioni tracheali) e l’esame citologico con ago aspirato (per determinare la
natura delle aree solide).

APPROCCIO DIAGNOSTICO-TERAPEUTICO AL NODULO TIROIDEO


La patologia nodulare tiroidea è molto frequente: noduli rilevabili all´ispezione o alla palpazione del collo si
ritrovano nel 5-10% della popolazione generale, ma l´uso sempre più diffuso dell´ecografia ha permesso di
evidenziare, in oltre il 30% della popolazione (fino al 50% nelle donne di età superiore a 60 anni), noduli non
palpabili, la cui esistenza non era sospettabile all´esame clinico. I noduli tiroidei possono essere singoli, nel
contesto di una tiroide normale, o multipli, nel contesto di una tiroide globalmente aumentata di volume (gozzo
nodulare). La prevalenza della patologia nodulare tiroidea aumenta con l´aumentare dell´età ed è maggiore nelle
zone iodocarenti rispetto alle zone in cui l´apporto iodico è adeguato. Nella maggior parte dei casi i noduli
tiroidei sono benigni: i tumori maligni della tiroide costituiscono IL 5-10% Del totale.
I noduli tiroidei possono essere distinti in neoplastici e non neoplastici.
I noduli non neoplastici includono: noduli iperplastici, che possono svilupparsi spontaneamente o dopo
interventi di tiroidectomia parziale, e i noduli infiammatori (o pseudonoduli), costituiti da cellule infiammatorie,
che sono un reperto frequente nelle tiroiditi (acute, subacute, croniche autoimmuni).
I noduli neoplastici possono essere di natura benigna (adenomi, cisti) o maligna. I noduli benigni possono
essere funzionanti (scintigraficamente "tiepidi" o "caldi") e associarsi a iperfunzione tiroidea clinica o
subclinica, oppure non funzionanti (scintigraficamente "freddi") e non accompagnati da modificazioni della
funzione tiroidea. I noduli neoplastici maligni includono carcinomi primitivi, che traggono origine dalle cellule
follicolari (ca. differenziati e indifferenziati) o dalle cellule parafollicolari o cellule C (ca. midollare), linfomi e
localizzazioni metastatiche di tumori di altri organi.
La diagnosi differenziale tra i due tipi di noduli si fa con elementi anamnestici e obiettivi che possono far
sospettare la natura maligna di un nodulo tiroideo. Essi includono: una pregressa irradiazione esterna nella
regione del collo; l´età giovanile (< 20 anni) o avanzata (> 60 anni); una storia familiare di ca. midollare della
tiroide; la rapida crescita (soprattutto se il paziente è già in terapia soppressiva con L-tiroxina); la consistenza
dura e la superficie irregolare; l´adesione ai tessuti superficiali e profondi (scarsa motilità con la deglutizione);
la presenza di linfoadenomegalia latero-cervicale sede di possibili metastasi; la presenza di disfagia o di
disfonia, che potrebbero essere espressione, rispettivamente, di un´infiltrazione dell´esofago o del nervo
laringeo inferiore (ricorrente).
L´ecografia tiroidea fornisce informazioni molto utili dal punto di vista diagnostico. Elementi ecografici di
sospetto sono: l´ipoecogenicità del nodulo; l´assenza di alone ipoecogeno perinodulare espressione della
presenza di una capsula; la presenza di microcalcificazioni intranodulari; i margini irregolari o mal definiti del
nodulo; la vascolarizzazione intranodulare, possibile espressione della neoangiogenesi. Purtroppo nessuno di
questi elementi, preso singolarmente, ha una specificità assoluta che consenta di discriminare con sicurezza una
neoplasia benigna da un tumore maligno. 
I noduli tiroidei non determinano alterazioni della funzione tiroidea, con l´eccezione degli adenomi tossici
(Plummer, vedi sopra), per cui normalmente la tireoscintigrafia non è utile se non per questo tipo di lesioni: la
maggior parte dei noduli sono non funzionanti ("freddi" alla scintigrafia) ma i noduli "freddi" sono in larga
maggioranza (circa il 90%) benigni. Nodulo "freddo" non è, dunque, sinonimo di tumore maligno, ma
certamente un nodulo "freddo" deve essere sottoposto ad agobiopsia se di dimensioni superiori a 1 cm e/o sono
presenti altri elementi di sospetto. Al contrario, i noduli "caldi" sono, salvo rarissime eccezioni, benigni, per cui
in questi casi non è necessario eseguire l´agobiopsia e l´esame citologico.
Se non sono presenti alterazioni della funzione, all’ecografia segue l´agobiopsia con ago sottile  e dal
successivo esame citologico sulle cellule così prelevate. Questo semplice esame ha molto spesso un carattere
dirimente, consentendo, così, di ridurre il numero di interventi di tiroidectomia non necessari. Occorre rilevare,
tuttavia, che in circa il 15% dei casi l´esame citologico fornisce, anche indipendentemente dall´esperienza di chi
esegue l´agobiopsia, risposte inadeguate per una diagnosi di certezza, e in questi casi deve essere ripetuto.
Per una maggiore attendibilità dell´esame, l´agobiopsia viene oggi quasi sempre eseguita sotto guida ecografica.
La Figura 1.15 propone un algoritmo diagnostico-terapeutico dei noduli tiroidei, basato, come accertamenti
iniziali, sull´ecografia tiroidea e il dosaggio del TSH (e degli ormoni tiroidei liberi). Se il nodulo è
completamente cistico e la funzione tiroidea normale, si può procedere all´evacuazione. Molto spesso le cisti,
però, recidivano, per cui in questi casi si può procedere a una nuova evacuazione immediatamente seguita dall
´iniezione intracistica di etanolo (alcolizzazione) o, come preferito dalla maggior parte degli Autori, all´exeresi
chirurgica della cisti. Se il nodulo è ecograficamente misto o solido e la funzione tiroidea normale, è necessario
procedere all´agobiopsia: il risultato dell´esame citologico, unitamente a considerazioni relative alle dimensioni
del nodulo, guideranno la successiva condotta terapeutica (Fig. 1.15). Se il nodulo, solido o misto, si
accompagna ad ipertiroidismo (clinico o subclinico), verrà eseguita la scintigrafia tiroidea, che confermerà la
diagnosi di adenoma tossico, il cui trattamento, chirurgico o radiometabolico, sarà deciso sulla base dei criteri
illustrati in un precedente paragrafo.
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La terapia del nodulo tiroideo è chirurgica se vi sono sospetti di malignità o se il gozzo e/o i noduli sono,
comunque, di dimensioni tali da causare fenomeni di compressione locale a carico della trachea, dell´esofago o
dei vasi venosi del collo/mediastino. Una possibile alternativa all´intervento chirurgico è rappresentata, nei casi
non sospetti, dalla terapia soppressiva con L-tiroxina (con dosaggi leggermente superiori alla concentrazione
fisiologica) che, più che determinare la regressione di noduli ben consolidati e di lunga data, può arrestarne l
´ulteriore crescita o incremento di numero.

TUMORI DELLA TIROIDE


Si presentano per lo più come noduli neoplastici solitari o, più raramente, nel contesto di una patologia
iperplastica multi nodulare. Il carcinoma tiroideo rappresenta l’1% della patologie neoplastiche ma è il più
frequente tra i tumori endocrini. Colpisce con predilezione il sesso femminile e insorgono soprattutto in soggeti
di età media, tra 40 e 50 anni, ma è comune anche nelle donne tra 25 e 30 anni.
PATOGENESI il fattore patogenetico più importante, osservato in relazione all’insorgenza di quasi tutta i
tumori tiroidei, soprattutto nel k papillifero, ma anche in adenoma e k follicolare (non nel midollare), è
rappresentato dalle radiazioni ionizzanti, specialmente sotto forma di assunzione di iodio radioattivo da sorgenti
esterne, come è accaduto nell’incidente nucleare di Chernobyl (nell’area attorno a Chernobyl l’incidenza del
papillare aumentò da 30 a 100 volte), o con radioterapia. Anche la carenza iodica sembra poter essere
annoverata fra i fattori patogenetici o predisponenti allo sviluppo di tumori, dato che si è visto che in aree a
endemia gozzigena aumenta la percentuale di affetti.
CLASSIFICAZIONE Innanzitutto distinguiamo tumori dei tireociti – o cellule follicolari - e tumori delle
cellule parafollicolari. I tumori dei tireociti possono essere adenomi (benigni) o carcinomi (maligni). Gli
adenomi e i carcinomi sono a loro volta classificati in base al quadro morfologico, per cui nella tiroide
distinguiamo adenomi a cellule follicolari, mentre non esistono adenomi a cellule papillifere, e carcinomi a
cellule follicolari e a cellule papillifere. Si chiama adenoma follicolare o carcinoma follicolare quel tipo di
tumore che proliferando riproduce i follicoli, mentre si chiama papillifero quel carcinoma le cui cellule
proliferanti non riescono a unirsi insieme, a chiudersi, per dare un follicolo e quindi vanno a costituire
formazioni cellulari aperte. Nella classificazione non esiste l’adenoma papillifero, per cui tutte le volte in cui si
vede una struttura papillifera, per definizione si tratta di un carcinoma. Infine, un altro tipo di tumore di origine
dai tireociti è quello a cellule di Hurtle. Il 65% del totale dei tumori tiroidei è papillifero, il 20% follicolare, il
10% è il carcinoma parafollicolare, 5% carcinoma anaplastico.
Per quanto riguarda i tumori a origine dalle cellule parafollicolari (cellule C secernenti calcitonina) si distingue
il carcinoma, detto midollare, ma non un adenoma.
Carcinoma follicolare (e differenze con l’adenoma follicolare)
Questo tumore forma strutture simili ai follicoli e con la stessa capacità di sintetizzare tireoglobulina. Il
problema si pone solo nella sua identificazione rispetto all’adenoma follicolare che ha un aspetto del tutto
sovrapponibile al carcinoma e sintetizza anch’esso Tg. Per distinguerli dobbiamo osservare il loro
comportamento biologico (anche perché il medico non può aspettare di vedere il comportamento clinico del
tumore per fare diagnosi, cioè non può aspettare di vedere se dà metastasi) e per far ciò bisogna vedere se è
presente una capsula (che è la risposta stromale a una crescita neoplastica, e questa capsula è presente quando la
crescita è lenta): noi diamo per scontato che l’adenoma debba averla, per definizione, altrimenti non sarebbe
benigno. Il carcinoma invece per definizione non dovrebbe averla ma nel caso del follicolare della tiroide è
presente una capsula, perché il lento grado di crescita lascia il tempo per sviluppare una risposta stromale. Per
cui la distinzione si fa con questi due dati:
1. L’angioinvasività: è il primo elemento di malignità. Le cellule endocrine hanno un rapporto diretto,
molto intimo, con i vasi in cui versano direttamente il loro secreto per cui può capitare di trovare
singole cellule nei vasi senza che ci sia invasione neoplastica, ma per via di un processo fisiologico.
Però se dentro il vaso c’è una buona quantità di cellule endocrine non tanto isolate ma quanto piuttosto
aggregate in follicoli: si parla di angioinvasività.
2. Gli adenomi a un certo punto della loro vita vanno incontro a una fase di involuzione, cioè presenterà al
suo interno aree di regressione perché lo strozzamento dei vasi determinerà una riduzione del flusso
sanguigno, che quindi non sarà più in grado di nutrire a sufficienza il tumore. Queste aree di regressione
consistono in assenza di follicoli tiroidei con ialinosi e talvolta calcificazione o formazione di cisti.
Quindi vedere all’ecografia un nodulo della tiroide perfettamente capsulato con aspetti cistici o di
calcificazione orienta più verso una forma benigna che verso una maligna. Nella forma maligna invece,
pur essendoci una crescita cellulare a basso grado, non vi è evidenza di fatti regressiva, anzi il
carcinoma va via via ad invadere e distruggere la capsula e i vasi: si parla quindi di invasione capsulare
e angioinvasività, entrambi tipici del carcinoma.
Quindi la diagnosi di adenoma o carcinoma follicolare non si può raggiungere se non dopo intervento
chirurgico. Per esempio davanti a un adenoma di 4 cm e a un carcinoma di 4 cm, che sono uguali a livello
radiografico (sia adenoma che carcinoma si presentano come noduli freddi), fra cui anche la citologia non rileva
differenze e in cui non possiamo fare diagnosi nè con elementi clinici né con elementi istologici, solo dopo
asportazione possiamo vedere se c’è angioinvasività o invasione della capsula o se non è presente nessuna di
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queste due. Quand’anche arrivassimo a fare diagnosi di carcinoma follicolare la prognosi è sempre buona
(sopravvivenza a 5 anni maggiore del 99%).
Le complicanze sono solo del k: la prima è legata all’invasione della capsula, con conseguenti aderenze col
parenchima circostante, soprattutto tessuti molli. La seconda è legata all’invasione vascolare e consiste nelle
metastasi, soprattutto in polmone e ossa, e tra queste le vertebre in primis. L’irradiazione (RT) delle metastasi
dà completa guarigione, ovviamente associata ad asportazione della tiroide. Quindi il k follicolare ha una
prognosi buona anche con metastasi.
Carcinoma a cellule di Hurtle
È la variante ossifila del k follicolare. Si presenta con le tipiche cellule di Hurtle, che sono grandi cellule
poligonali che capatnao meno bene il radioiodio, ragion per cui questo tumore è più aggressivo del normale
tumore follicolare.
Carcinoma papillifero
Le caratteristiche del papillifero sono: multicentrico, bilaterale, senza capsula, o comunque raramente con
capsula, presente nella variante papillifera o in quella follicolare. Ha elementi morfologici abbastanza
caratteristici (nucleo soprattutto) e dà metastasi per via linfatica a livello dei linfonodi laterocervicali (molto più
rara è la metastasi per via ematica, che invece è la principale nel k follicolare). Non esiste un equivalente in
forma di adenoma però esiste un carcinoma papillifero con la capsula (normalmente il k papillifero non ha
capsula) che non possiamo chiamare adenoma perché anche questo va a dare metastasi per cui si parla sempre di
carcinoma. Mentre i pazienti con adenoma o carcinoma follicolare arrivano dal medico con un NODULO, che
può essere di 1 cm, 2 o 4cm a seconda del suo sviluppo, il paziente con carcinoma papillifero non presenta un
unico nodulo, bensì si presenta con struttura multifocale (vari nodulini sparsi qua e la), multicentrica e
bilaterale. Infatti, per definizione, questo carcinoma colpisce la tiroide in maniera diffusa e in entrambi i lobi.
Questa è la ragione per cui una volta per asportare il carcinoma follicolare si toglieva solo una parte della
tiroide, perché quella dove non c’era il nodulo non era interessata dal processo neoplastico e quindi veniva
lasciata, mentre in caso di carcinoma papillifero la tiroide da sempre è stata asporta completamente perché,
anche se dovessimo vedere il carcinoma su un lobo solo possiamo stare sicuri, per definizione, della sua
presenza nell’altro lobo. Questa è la prima differenza col follicolare. La seconda è che il paziente con forma
follicolare va dal medico lamentando la presenza di un nodulo, cioè un ingrandimento, mentre la forma
papillifera non determina alterazioni morfologiche della tiroide. Non solo, ma anche se facessimo una
scintigrafia i focolai son talmente piccoli che essa risulterebbe negativa. Perciò la diagnosi la si fa quando il
tumore da metastasi: molto spesso il soggetto va dal medico perché ha un ingrossamento dei linfonodi
laterocervicali, non dolenti ne fastidiosi ma semplicemente più grossi (tipico della patologia neoplastica, mentre
se ha anche dolore è tipico di patologia flogistica). Mentre il carcinoma follicolare è monomorfo, cioè è sempre
uguale, il carcinoma papillifero è un po’ più vario, potendo avere aspetti diversi nei vari pazienti, è cioè un
carcinoma multiforme (ci sono 25 varianti). Tra le varianti più frequenti c’è quella che si presenta simile a un
carcinoma follicolare, ragion per cui si parla di carcinoma papillifero variante follicolare, intendendo con
questo termine un carcinoma che è papillifero, cioè dovrebbe portare a non fare follicoli, però riesce a formare
dei follicoli. Questa variante può avere o non avere una capsula (comunque è molto raro che l’abbia) e ciò ci
rende ancora più difficoltosa l’identificazione morfologica rispetto a un adenoma follicolare o a un carcinoma
follicolare, mentre le tre forme si differenziano nella loro evoluzione,visto che l’adenoma follicolare non da
metastasi, il carcinoma follicolare da metastasi ossee (soprattutto vertebrali) e il carcinoma follicolare da
metastasi linfonodali. Morfologicamente per distinguere il papillifero dalle altre due forme bisogna guardare i
nuclei cellulari: mentre il nucleo della cellula dell’adenoma follicolare presenta cromatina a zolle (come in tutti i
nuclei cellulari), il nucleo del carcinoma papillifero si presenta otticamente vuoto, praticamente rimane
l’involucro della membrana nucleare ma dentro non c’è cromatina (come se fosse stata risucchiata via). Da
ricordare è anche la possibile presenza di corpi psammomatosi, che sono microcalcificazioni lamellari
concentriche agli apici delle papille, come se il deposito di calcio si fosse stratificato nel tempo (la loro
deposizione è l’esito involutivo di alcune strutture papillari neoplastiche). Le caratteristiche elencate sono quelle
del carcinoma papillifero generale, e sono mantenute anche nella variante follicolare, permettendo così di
poterlo distinguere dalle forme follicolari vere e proprie.
La prognosi è ancora migliore di quella del follicolare (quindi il grado di malignità è praticamente nullo, tanto è
vero che a volte capita di trovare casualmente in tiroidi portate via per gozzo un k papillifero).
Carcinoma anaplastico (o indifferenziato)
Questo è il carcinoma più raro però, a differenza degli altri, presenta una altissima malignità, tanto che la
mortalità è superiore al 90% a 6 mesi dalla diagnosi e praticamente del 100% in generale. È quasi esclusivo
dell’età avanzata, colpendo in più del 75% dei casi soggetti oltre i 60 anni. Secondo alcuni questo non è un vero
e proprio carcinoma con dignità propria, ma può essere un carcinoma follicolare o papillifero che, invece di
evolvere nelle forme più differenziate, è evoluto eccezionalmente in una forma con nessuna differenziazione (ne
verso i tireociti ne verso le cellule C) da cui solo in rari casi, cioè quelli in cui ancora si può riconoscere una
componente residua ben differenziata, si può risalire al tumore originario. Questa forma anaplastica invade
quindi in modo aggressivo la tiroide e i tessuti molli peritiroidei, perciò il soggetto che arriverà dal medico ha
difficoltà a deglutire perché la tiroide è diventata dura e si è fissata ai tessuti molli del collo--> si parla in questa

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situazione di tiroidite lignea (la tiroidite granulomatosa e quella di Riedel, la quale non ha una eziologia nota ed
è detta anche tiroidite lignea perché appunto caratterizzata dalla durezza della ghiandola: la stessa che troviamo
nel carcinoma anaplastico), proprio perché si sente un oggetto duro alla base del collo. Poiché il tumore si
estende oltre la capsula tiroidea infiltrando le strutture adiacenti, risulta difficilmente asportabile perché il
chirurgo dovrebbe asportare anche i tessuti infiltrati, il che è molto complicato soprattutto quando il tumore è
arrivato a danneggiare la trachea. Ad aumentare la malignità c’è la diffusa metastatizzazione.
Carcinoma a cellule parafollicolari o carcinoma midollare
Si intende carcinoma midollare della tiroide un carcinoma formato dalla proliferazione neoplastica di cellule
parafollicolari accompagnato dalla presenza di amiloide interstiziale. Abbiamo accennato a questo carcinoma
quando abbiamo parlato di MEN 1 e MEN 2. La MEN2 presenta una variante, la MEN2A o sindrome di Sipple,
caratterizzata dall’associazione di carcinoma midollare della tiroide col feocromocitoma, che prende origine
dalla midollare surrenale. Abbiamo visto che le due sindromi, MEN 1 e MEN 2, sono dovute ad associazioni di
tumori di ghiandole endocrine correlate tra loro dall’origine embriogenetica: nella MEN1 infatti sono interessate
ipofisi, pancreas e parte tiroidea “normale” (cioè dei tireociti), tutte ghiandole con origine endodermica; nella
sindrome di Sipple invece sono interessate cellule parafollicolari della tiroide e cellule della midollare surrenale,
che hanno entrambe origine ectodermica. Mutazioni germinali puntiformi del proto-oncogene RET, localizzato
sul cromosoma 10, sono responsabili della MEN 2 nel 95% dei casi e del carcinoma midollare familiare nell
´85% dei casi.
Altra cosa da dire di questo carcinoma è che si può trovare sia in forma sporadica che in forma familiare: in
particolare il 10% del totale di questi tumori (che a loro volta sono il 10% di tutti i tumori tiroidei) ha origine
familiare, cioè genetica, mentre il 90% è sporadico. Questa informazione è importante perché se si trova un
carcinoma midollare in un soggetto è bene fare esami sui familiari per cercare una eventuale ipercalcitoninemia.
In questo senso ci aiuta anche la morfologia del carcinoma: mentre le forme familiari sono bilaterali e
multicentriche, le forme sporadiche sono in genere tumori singoli, e in queste forme manca di solito l´iperplasia
delle cellule C che si riscontra nelle forme familiari. Ancora più importante è l’analisi genetica, che ha
profondamente cambiato l´approccio terapeutico, in quanto la dimostrazione della mutazione di RET nei parenti
di pazienti affetti da ca. midollare familiare costituisce di per sé indicazione alla tiroidectomia profilattica, anche
in assenza di evidenza di tumore o di modificazioni dei livelli circolanti di calcitonina, il cui dosaggio era in
passato il momento fondamentale della diagnosi – e lo è tuttora -, dato che le cellule parafollicolari sono
appunto deputate alla produzione di calcitonina, che interviene nel metabolismo del calcio, facendo in modo che
questo venga fissato sulle ossa. Quando si sviluppa un tumore a livello di queste cellule, sempre che il tumore
sia ben differenziato, si determinerà una produzione abnorme dell’ormone. Se il problema fosse solo questo
però si parlerebbe di semplice iperplasia, invece il problema è che questa calcitonina è anomala. Come nel
mieloma multiplo, in cui le plasmacellule producono quantità enormi di gammaglobuline che non hanno attività
specifica (cioè non sono indirizzate verso un antigene ma sono prodotte in gran numero senza nessun fine), così
la calcitonina prodotta dalle cellule parafollicolari neoplastiche non è efficace, cioè non ha la sua azione
normale, oppure è parzialmente efficace, per cui son necessarie quantità enormi per ottenere un effetto modesto.
Il paziente non presenterà sintomi importanti a livello osseo perché gli elevatissimi livelli di calcitonina
aumentano si la deposizione di calcio nelle ossa ma non dando segno al paziente (casomai i sintomi si avrebbero
se ci fosse una ridotta deposizione di calcio, ma se questa aumenta non ci son grossi problemi). la calcitonina è
però, come detto, anomala, sia per quanto riguarda il suo funzionamento sia per quanto riguarda il peso
molecolare. Essa può però mantenere i suoi determinanti antigenici normali, cosicchè all’immunoistochimica
sembrano normali, e ciò può tardare la diagnosi.
Quando c’è una iperincrezione modificata (come appunto a seguito di una neoplasia) di un ormone proteico (la
calcitonina lo è), ci saranno proteine intere, proteine più corte e spezzoni di queste proteine che servivano a fare
l’ormone, completamente inefficaci, per cui quando studiamo l’ormone prodotto da un qualsiasi tumore
endocrino troviamo, se lo facciamo migrare su un campo elettroforetico, che l’ormone si distribuisce su diverse
linee che differiscono per peso molecolare e carica elettrica: ciò ci indica che il prodotto di quella ghiandola
non è univoco. Alle diverse caratteristiche dell’ormone si aggiungono altre caratteristiche istologiche,
caratterizzata da una ialinosi dovuta a una quantità di sostanze correlate all’ormone ma non tipicamente
ormonali che si depositano attorno al parenchima neoplastico. La ialinosi che si determina nei tumori endocrini
è particolare e prende nome di amiloidosi, e si trova in tutti i tumori poliendocrini che producono ormoni
proteici e in particolare in questo.
Dal punto di vista diagnostico, di estrema importanza è la determinazione dei livelli circolanti di calcitonina.
Mentre la Tg è un marker importante dei tumori differenziati della tiroide solo dopo l´intervento chirurgico, il
rilievo di elevati valori di calcitonina circolante prima della tiroidectomia consente di confermare il diagnostico
di carcinoma midollare e, dopo l´intervento, dà indicazioni attendibili sulla presenza/assenza di malattia residua.
Nei casi dubbi in cui i valori di calcitonina non siano molto elevati, l´aumentata e patologica produzione dell
´ormone può essere messa in evidenza dall´iperrisposta al test di stimolazione con pentagastrina o con carico di
calcio. 

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Per quanto riguarda la prognosi, il grado di malignità è superiore a quello del papillifero e del follicolare ma non
altissimo perché le cellule sono comunque ben differenziate. Le metastasi sono ematiche, soprattutto verso
polmone e ossa.

TERAPIA DEI TUMORI


Il trattamento delle neoplasie differenziate della tiroide consiste nella rimozione chirurgica. La tiroidectomia
totale è considerata l´intervento chirurgico elettivo. L´intervento deve essere eseguito con massima meticolosità,
conservando le paratiroidi e rispettando i nervi ricorrenti. La tiroidectomia totale è giustificata dalla frequenza di
tumori multifocali e dall´incidenza del 7% di recidive nel lobo controlaterale quando esso viene risparmiato. La
tiroidectomia totale consente, inoltre, una più precisa valutazione della scintigrafia corporea totale con
radioiodio nel successivo monitoraggio dei pazienti operati. Quando i linfonodi della catena latero-cervicale
sono macroscopicamente coinvolti o presentano la caratteristica colorazione (blu nera) del linfonodo
metastatico, si procede anche allo svuotamento delle stazioni linfatiche. La frequente adesione dei linfonodi alla
vena giugulare e la loro fissità ad altre strutture adiacenti possono talora imporre la necessità di interventi
demolitivi più radicali, con ablazione bilaterale del muscolo sternocleidomastoideo. L´intervento chirurgico
deve essere completato dal trattamento radiometabolico con radioiodio. Questo trattamento sfrutta il fatto che le
cellule neoplastiche mantengono la capacità propria delle cellule tiroidee normali di captare lo iodio. La
somministrazione di una dose ablativa di radioiodio (30-100 mCi) dopo l´intervento chirurgico ha lo scopo di
distruggere i residui tiroidei, facilitando il successivo follow-up del paziente La terapia con radioiodio non ha un
ruolo nel carcinoma midollare, giacché le cellule parafollicolari, proprio per la diversa origine, non hanno la
capacità di captare lo iodio. L´intervento minimo è costituito dalla tiroidectomia totale e dallo svuotamento dei
linfonodi del compartimento centrale; l´eventuale dissezione di altre catene linfonodali dipende dalla
presentazione clinica e dalla stadiazione preoperatoria verificata all´atto dell´intervento chirurgico. Se, dopo l
´intervento, la calcitonina è indosabile basalmente e dopo stimolo con pentagastrina, ci sono buone possibilità
che si sia ottenuta una cura definitiva del tumore.

PARATIROIDI
Le paratiroidi sono quattro ghiandole a secrezione endocrina situate posteriormente ai lobi tiroidei, nella regione
anteriore del collo (non è infrequente il riscontro di paratiroidi in sede atipica, spesso nel torace o raramente in
altre sedi ectopiche). Nel 15-20 % dei casi possono essere sovra o sottonumerarie. Dal punto di vista strutturale
sono divise in lobuli costituiti da cellule principali e ossifile, supportate da un tessuto connettivo lasso,
composto principalmente da adipociti. Le cellule principali intervengono nella regolazione dell’omeostasi del
calcio-fosforo attraverso la sintesi e il rilascio, in maniera pulsatile, di una proteina detta paratormone (PTH). La
funzione delle cellule ossifile non è invece nota.
Il calcio costituisce circa il 2% del peso corporeo adulto ed è contenuto quasi completamente nello scheletro. Il
calcio plasmatico ammonta a 9-10,5 mg per 100 ml  ed è suddiviso quasi alla pari in una forma ionizzata, più
immediatamente correlata all’attività delle paratiroidi, e in una forma legata a proteina (circa l’80% del calcio
lega l’albumina).  Il calcio ionizzato è implicato in una grande varietà di processi fisiologici: coagulazione del
sangue, formazione ossea, produzione di latte, contrazione muscolare e trasmissione neuronale. Il calcio viene
assorbito dal piccolo intestino prossimale in forma inorganica (in una dieta regolare ne viene assorbito circa 1 g
al giorno) per poi essere continuamente scambiato con quello che si trova legato nella parte scambiabile
dell’osso, nel liquido intracellulare e nel filtrato glomerulare, il 99% del quale è riassorbito a livello renale. Nel
soggetto adulto il fosforo è depositato per lo più a livello osseo e dei denti e ammonta a circa 700 g. Il fosforo
plasmatico è pari a 2,5-4,3 mg per 100 ml. In una dieta regolare, vengono assunti quotidianamente circa 1.500
mg di fosfati. I livelli plasmatici di calcio e fosforo variano inversamente, ma il prodotto di calcio e fosforo
plasmatici è costante, e corrisponde a circa 30-40.
I regolatori del metabolismo calcico sono PTH, vitamina D e calcitonina (secreta dalle cellule parafollicolari
della tiroide).
Dal punto di vista fisiologico, la secrezione del PTH è stimolata dall’ipocalcemia, ovverossia dai bassi livelli di
calcio nel sangue, mentre è inibita dalla ipercalcemia. Gli effetti metabolici del PTH si esplicano sugli organi
bersaglio (scheletro, rene ed ossa), attraverso un’azione ipercalcemizzante. Nello scheletro il PTH promuove il
riassorbimento del calcio e del fosforo attraverso l’inibizione degli osteoblasti e la stimolazione degli
osteoclasti. A livello renale la sua azione determina un decremento della clearance del calcio, evitandone
l’eliminazione dal circolo ematico, attraverso un incremento del riassorbimento tubulare renale. L’ormone causa
inoltre un aumento dell’escrezione del fosfato renale, inibendone il riassorbimento nel tubulo renale prossimale
e l’idrossilazione della 25-idrossivitamina D a 1,25-diidrossivitamina D, rendendola così attiva per
l’assorbimento di calcio nell’intestino.

MALATTIE DELLE PARATIROIDI

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La patologia delle paratiroidi è rappresentata fondamentalmente dagli iperparatiroidismi, che si distinguono in
tre tipi, tra cui approfondiremo solo il primo tipo, perché le malattie delle paratiroidi di interesse chirurgico sono
in genere associate ad una alterazione funzionale in eccesso della ghiandola.
Iperparatiroidismo primario: è una sindrome caratterizzata da ipercalcemia, dovuta a ipersecrezione di PTH.
EZIOPATOGENESI Le cause più frequenti di iperparatiroidismo sono:
-l’adenoma paratiroideo, singolo nell’80% dei casi, multiplo nel 5%: patologia tumorale benigna nella quale le
cellule neoplastiche secernono PTH in modo quasi totalmente autonomo e di conseguenza non controllabile dai
meccanismi fisiologici di feedback.
-l'iperplasia ghiandolare diffusa, presente nel 14% dei casi (seconda causa di iperparatiroidismo): e talora
associata a neoplasie endocrine multiple (MEN), in particolare della MEN tipo 1 e della MEN tipo 2° (vedi
capitolo MEN). La MEN tipo 1 è caratterizzata dall’associazione di iperplasia delle paratiroidi, adenomi
ipofisari, neoplasia delle cellule insulari pancreatiche e, in alcuni pazienti, anche da tumori della tiroide o della
corteccia surrenale. La MEN tipo 2A è rappresentata da carcinoma midollare della tiroide, feocromocitoma e
iperplasia delle paratiroidi.
-il carcinoma paratiroideo, responsabile della sindrome solo nell'1% dei casi: spesso non è accompagnato a un
quadro di iperparatiroidismo perché si presenta con cellule talmente atipiche da non essere neppure secernenti. Il
carcinoma è da monitorare ed asportare prima possibile perché diffonde per contiguità e dà metastasi per via
linfatica: il polmone è la sede più comune di localizzazione delle metastasi a distanza, seguite da fegato ed ossa.
CLINICA si presenta con dolori osteo-articolari, osteoporosi con elevato rischio di fratture patologiche e
ritardi di ossificazione, poliuria, coliche renali, nefrocalcinosi, ipertensione, vomito, ulcera peptica, pancreatite,
stipsi. Nei casi più gravi (iperparatiroidismo acuto) possono associarsi insufficienza renale acuta, perdita di
memoria, astenia profusa, depressione, sonnolenza e psicosi.
DIAGNOSI clinicamente risulta impossibile identificare palpatoriamente una o più paratiroidi iperfunzionanti,
per cui per la diagnosi sono necessari esami laboratoristici e strumentali. Gli esami ematologici evidenziano un
incremento dei livelli plasmatici di calcio (V.N.: 8.0-10.4 mg/dl) e di paratormone (V.N.: 10-70pg/ml), associati
ad ipofosforemia; l’esame biochimico delle urine consente di evidenziare un' elevata escrezione urinaria di
calcio e fosforo. L’ecografia cervicale può rilevare una o più ghiandole aumentate di volume, ma l'indagine può
essere ostacolata dalla contemporanea presenza di noduli tiroidei; l’Esame Citologico mediante agoaspirato può
evidenziare liquido color “acqua di roccia” e valori elevati di PTH; la Scintigrafia con sestamibi è un'indagine
fondamentale sia per l'identificazione della patologia che per la documentazione di paratiroidi in sedi ectopiche;
la TC e la RMN sono utili per identificare paratiroidi ectopiche (retroesofagee, retrotracheali e mediastiniche) o
in pazienti già sottoposti a interventi chirurgici sul collo; la recente tomografia ad emissione di positroni ( PET)
appare utile per identificare con alta sensibilità la presenza di forme iperfunzionanti come adenomi e in minor
misura iperplasie paratiroidee. Indagini come l’Rx dello scheletro e la Mineralometria Ossea Computerizzata
(MOC) evidenziano gravi stati di demineralizzazione ossea ed osteoporosi. 
Iperparatiroidismo secondario: è caratteristico dei pazienti con Insufficienza Renale Cronica (per l’insorgenza
di uno stato di resistenza renale all’azione del PTH), diminuita sintesi della Vitamina D (detta ipovitaminosi D)
e minor assorbimento intestinale di calcio. L'incremento dei livelli ematici di PTH compensa il ridotto introito di
calcio. La riduzione dell’eliminazione renale di fosfati genera una iperfosforemia, cui consegue una ipocalcemia
compensatoria, per mantenere il rapporto calcio/fosforo costante. Tutte queste alterazioni inducono a livello
osseo un osteomalacia, detta osteodistrofia renale, che, in prima istanza, viene trattata con l’assunzione di
chelanti del fosforo, anti-acidi a base di alluminio e assunzione di VIT D; in secondo luogo attraverso intervento
chirurgico di paratiroidectomia subtotale o paratiroidectomia totale.
Iperparatiroidismo terziario: è una complicanza dell’iperparatiroidismo secondario di lungo tempo, in cui le
paratiroidi possono svincolarsi completamente dai meccanismi di controllo della secrezione del PTH, divenendo
del tutto autonome: si parla in questo caso di iperparatiroidismo terziario. Tale evenienza si verifica di solito in
pazienti che sono in insufficienza renale cronica, con iperparatiroidismo secondario di lunga data.
Nell'iperparatiroidismo terziario i valori di PTH aumentano decisamente, così come i valori della calcemia,
contrariamente a quello che succede nell’iperparatiroidismo secondario, dove la calcemia tende al basso. A
livello clinico, le alterazioni ossee divengono ancora più evidenti, e frequenti risultano le calcificazioni dei
tessuti molli.
Altre cause: sono rappresentante da una iperproduzione ectopica di PTH.
TERAPIA CHIRUGICA si pone indicazione alla terapia chirurgica quando il paziente presenta valori
decisamente elevati di calcemia (1-1.6 mg/dl al di sopra del range di normalità)e, episodi di ipercalcemia
pericolosi per la vita, riduzione della clearance della creatinina (< 30% del normale), presenza di calcoli renali,
calciuria elevata (>400 mg/24 ore), sostanziale riduzione della massa ossea (>2 DS rispetto al normale), sintomi
neuromuscolari o psicologici disturbanti, malattie coesistenti che complicano il quadro, età giovane (< 50 anni).
La chirurgia assume carattere di urgenza nelle forme di iperparatiroidismo acuto, in cui la paratiroidectomia
deve spesso essere preceduta da una terapia medica intensiva (reidratazione, chelanti del calcio, dialisi, etc..) per
le condizioni di estrema disidratazione o di insufficienza renale in cui i pazienti possono arrivare all'intervento
chirurgico.

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Il trattamento chirurgico dell’iperparatiroidismo deve mirare all’asportazione di tutto il parenchima paratiroideo
patologico e ipersecernente. La scelta dell'intervento dipende pertanto dal tipo di lesione causa
dell'iperparatiroidismo e dal numero delle paratiroidi coinvolte:
1. in caso di adenoma singolo paratiroideo si fa paratiroidectomia, cioè exeresi della ghiandola patologica;
2. in caso di iperparatiroidismo primitivo da iperplasia delle paratiroidi, l'intervento indicato è la   la
paratiroidectomia totale (asportazione di tutte le paratiroidi) con o senza autoinnesto di frammenti di
tessuto paratiroideo in tasche muscolari (di solito in avambraccio). L'innesto ha lo scopo di evitare il
severo ipoparatiroidismo conseguente all'asportazione di tutte le paratiroidi. 
3. nel caso di carcinoma paratiroideo si fa l’exeresi della neoplasia, associata a lobectomia tiroidea ed
asportazione della paratiroide omolaterale in monoblocco e talvolta linfadenectomia. Il nervo
ricorrente, se interessato da infiltrazione neoplastica, deve essere sacrificato. Una procedura terapeutica
chirurgica di recente introduzione, che presenta tutti i vantaggi delle procedure minivasive, è la
paratiroidectomia video-assistita.
LA MAMMELLA
La mammella è un rilievo cutaneo, pari e simmetrico, posto sulla superficie anteriore del torace, al di sopra del
muscolo pettorale, ai due lati della linea mediana. È un organo particolare, perché non è pienamente formato alla
nascita, subisce cambiamenti clinici durante la vita riproduttiva e comincia a involvere prima della menopausa.
Nel maschio la parte ghiandolare abitualmente non si sviluppa e pertanto l’organo rimane rudimentale, nella
donna invece il volume può variare notevolmente a seconda dall’entità del tessuto adiposo. Volume e
consistenza sono inoltre sotto l’influsso di stimoli ormonali. L’attività funzionale inizia con l’allattamento, entro
le 24 ore successive al parto, passando attraverso una intensa fase congestizia a cui segue quella secretoria
(montata lattea). La mammella è una ghiandola sudoripara o salivare modificata, infatti ha le stesse
caratteristiche della ghiandola salivare e della ghiandola sudoripara. Così come le ghiandole salivari, la
ghiandola mammaria è costituita da un numero di lobi, 15-20, immersi nel tessuto adiposo. Ciascun lobo è a sua
volta composto da numerosi lobuli contenenti le unità secernenti ghiandolari, gli alveoli. Ogni lobo ghiandolare
fa capo ad un proprio dotto escretore, il dotto galattoforo, che all’interno del lobo si divide più volte nei dotti
lobulari che raggiungono i singoli lobuli. I dotti lobulari proseguono poi nei condotti alveolari che si immettono
infine in gruppi di alveoli terminali. Quindi i dotti nella mammella sono multipli e si possono distinguere in
dotti di primo ordine e in dotti di secondo ordine. A livello del capezzolo l’epitelio si introflette e forma nella
mammella il seno galattoforo che è una camera di raccolta (all’interno del quale viene riversato il latte per
permettere l’alimentazione del bambino) dove vanno a sfociare tutti i singoli dotti galattofori della ghiandola.

APPROCCIO DIAGNOSTICO-TERAPEUTICO AL NODULO


MAMMARIO
Un nodulo mammario viene spesso individuato dalla paziente stessa, attraverso la autopalpazione.
Nella valutazione di un nodulo mammario, la condotta del medico è in parte indirizzata dall’età della donna che
a lui si rivolge. Mentre infatti nelle pazienti giovani, sotto i 35 anni, la patologia benigna (fibroadenomi, cisti,
steatonecrosi traumatiche) è la regola (peraltro con dolorose eccezioni), con il progredire dell’età le forme
maligne divengono sempre più frequenti, fino ad essere la causa più comune di noduli patologici nelle donne
sopra i 50 anni. Questa considerazione serve naturalmente come indicazione generica: un nodulo sospetto,
quindi, deve essere considerato tale e opportunamente indagato (ecografia, mammografia, eventuale esame cito-
istologico) anche in una donna giovane.
La prima cosa che bisogna fare davanti a un sospetto nodulo riferitoci dalla paziente è l’esame obiettivo. A
riguardo è importante sapere che: nna tumefazione di forma e superficie regolari, a contorni ben definiti, di
consistenza teso-elastica, mobile sui piani superficiali e profondi, è probabilmente benigna. Viceversa, un
nodulo irregolare, a contorni mal definiti, di consistenza duro-lignea, aderente alla parete toracica o ai piani
cutanei, associato a retrazioni della cute o del capezzolo e a linfoadenomegalie ascellari, sarà quasi sicuramente
maligno. Va tuttavia chiarito che anche i reperti obiettivi non hanno un valore assoluto: non è raro infatti il
riscontro di neoplasie maligne che presentano forma regolare e contorni definiti (ciò accade abbastanza spesso,
per esempio, in particolari varianti istologiche, come il carcinoma colloide ed il carcinoma midollare, che
possono simulare clinicamente un fibroadenoma); così come va segnalata l’esistenza di lesioni benigne, come le
steatonecrosi traumatiche, che per la consistenza aumentata, la scarsa mobilità e la frequente associazione con
una retrazione cutanea possono far sospettare una forma neoplastica. Quando l’esame obiettivo evidenzia un
nodulo con caratteristiche che fanno propendere per un giudizio di benignità, è utile continuare le indagini con
un esame ecografico, al fine di stabilire se la lesione in oggetto è di natura liquida (area anecogena, con coni
d’ombra laterali) o solida (area per lo più ipoecogena,). Se invece il nodulo ha caratteristiche di dubbia
malignità, occorre proseguire le indagini sia con una mammografia che con una ecografia mammaria. Questi
due sono gli esami principali, a cui possono aggiungersene altri, e precedono, qualora ve ne sia bisogno, la
biopsia mammaria.

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La mammografia è la tecnica cardine della diagnostica radio-senelogica, per cui è l'indagine di prima scelta,
dopo i 35 anni, sia nella donna sintomatica (mammografia clinica) che in quella asintomatica (mammografia di
screening programmato o spontaneo). Utilizza i raggi X, quindi è potenzialmente dannosa (potenzialmente
perché i raggi X sono dannosi quando sono inutili). Considerando che è l’unico esame che consente di valutare
piccole lesioni è bene iniziare a fare regolarmente la mammografia come minimo a 40 anni, anche a 35 se c’è
familiarità.
È un esame di semplice esecuzione, a basso costo, ad elevata sensibilità, è obiettivo, infatti può essere letto da
più radiologi (a differenza dell’ecografia che è un esame soggettivo perché è l’operatore che fa la diagnosi), è
innocua perché la quantità di radiazioni erogate è minima, è ben tollerata anche se fastidiosa perché la
mammella va compressa (con un peso di 8-13 kg) perché la quantità di radiazioni è legata anche allo spessore e
la compressione riduce lo spessore e la quantità di radiazioni necessaria, e inoltre spalma il contenuto all’interno
della mammella, favorendo la dissociazione delle varie strutture. Viene eseguita nelle due proiezioni classiche:
- la cranio-caudale: eseguita stirando in avanti la mammella in modo da visualizzare, il contorno del muscolo
pettorale
- la medio-laterale obliqua: realizzata inclinando il fascio di raggi X di 45°.
Nell'indicare la sede di una lesione dividiamo la mammella in quattro quadranti con riferimento alla regione
retroareolare: superoesterno (QSE), inferoesterno (QIE), inferointerno (QII) e superointerno (QSI).
Le lesioni che dobbiamo andare a ricercare al mammogramma sono:
• Le calcificazioni: molto frequenti e per la maggior parte benigne (processi infiammatori, fibroadenomi,
lesioni post-traumatiche), possono però talvolta essere l’unica spia di tumore (soprattutto le
microcalcificazioni), soprattutto quando si trova nelle prime fasi, e la mammografia è l’unico esame
capace di metterle in evidenza.
• Distorsioni architettoniche dovute a deformazione della normale architettura fibro-ghiandolare della
mammella. Presentano un aspetto a falla, come un carciofo aperto. Questa manifestazione è legata nella
maggior parte dei casi a una patologia benigna come l’adenosi sclerosante o la cicatrice radiale, però
può anche essere un carcinoma in situ o infiltrante. In generale si può dire che la presenza di un’area
centrale radiopaca orienta verso la malignità e, viceversa, se vi sono componenti radiotrasparenti spesso
si tratta di lesioni benigne che è bene comunque asportare perché possono nascondere aree maligne
anche in sede eccentrica non visibili alla mammografia.
• Lesioni nodulari. Possono essere:
radiotrasparenti in genere espressione di lesioni benigne come lipomi, cisti lipoidee o galattoceli;
miste solitamente benigne come fibroadenolipomi, linfonodi intramammari ed ematomi;
radiopache possono essere sia maligne che benigne ed è quindi necessario procedere con ulteriori
indagini diagnostiche, appaiono infatti come tali sia le lesioni cistiche che quelle cellulate. Oltre che la
radiopacità nemmeno i bordi della lesione ci possono far fare diagnosi certa in quanto lesioni a margini
netti e regolari possono essere anche maligne (sarcoma, metastasi) oltre che benigne (tumore filloide o
ematomi). Allo stesso tempo lesioni polilobate e tenuemente radiopache possono essere maligne (K
mucinoso e papillare) o benigne (cisti o fibroadenomi). Alta probabilità di malignità si ha nelle lesioni
stellate con margini irregolari e spicule corte o lunghe (K scirroso).
È necessario valutare anche i linfonodi, che appaiono come opacità di piccole dimensioni che si proiettano sul
muscolo pettorale o in prossimità di esso. Sospettiamo un processo neoplastico maligno quando l'aspetto è
rotondeggiante e la densità elevata ed omogenea.
Il principale limite della mammella è la radiopacità. In linea di massima si può dire che la mammella di una
paziente giovane è normalmente radiopaca, perché più densa, mentre in età adulta aumenta la componente
adiposa perciò la mammella diventa radiotrasparente. Poiché le formazioni radiopache (tessuto fibroso,
calcificazioni, componente liquida) tendono a nascondersi in mezzo alla radiopacità, le mammelle giovani che
sono più dense e quindi radiopache sono difficili da studiare e il loro studio va integrato con l’ecografia. Altro
limite della mammografia è rappresentato dalla difficoltà di esplorazione in alcune sedi, infatti, quando si
comprime la mammella, se la lesione è vicino alla parete toracica tende a sfuggire, perciò è importantissimo
eseguire anche l’esame clinico. Altro limite ancora è l’incapacità di distinguere le lesioni solide dalle liquide, ad
esempio sia il fibroadenoma che le cisti sono radiopache e alla mammografia non è possibile distinguerle perché
questo esame non è in grado di distinguere il contenuto liquido da quello solido.
La percentuale di errore della mammografia è pari al 10-15%, cioè non vede un tumore nel 10-15 % dei casi.
Ultimamente si sta assistendo al graduale passaggio verso la mammografia digitalizzata che utilizza
mammogrammi di alta qualità con la possibilità di importanti elaborazioni (contrasto e ingrandimento) e
riduzione delle dosi di raggi X. La mammografia digitale non utilizza il complesso schermo/ pellicola ma la
diagnosi la si fa sul monitor o comunque su pellicola stampabile e ha, tra i vari vantaggi, il teleconsulto e
l’utilizzo del CAD (computer assisted diagnosis), un aiuto che segnala al radiologo le lesioni su cui soffermarsi.
L’ ecografia è un esame semplice e poco costoso, con l’unico problema di essere soggettivo. È la tecnica di
seconda istanza per la diagnosi di lesioni mammarie:
- serve a integrare le informazioni ottenute con la mammografia, soprattutto nei casi di mammelle dense e
radiopache,

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- è in grado di distinguere il contenuto solido dal contenuto liquido
- consente di valutare la vascolarizzazione (non sempre una lesione riccamente vascolarizzata è maligna mentre
una lesione non vascolarizzata è benigna, infatti si possono avere dei piccoli tumori duttali molto fibrosi in cui i
vasellini sono mascherati e non si vedono con il color doppler)
- permette di effettuare l’esame bioptico.
L’ecografia non può essere usata come unico test diagnostico per la diagnosi pre-clinica del k della mammella
avendo un margine d’errore molto superiore rispetto alla mammografia, perciò queste due tecniche devono
essere utilizzate insieme. Inoltre è utile solo se effettuato da un medico che ha fatto anche l’esame clinico e
conosce la storia clinica della paziente.
Perciò anche per l’ecografia si hanno dei limiti notevoli: non vede alcuni settori, non differenzia lesioni solide
piccole e non vede le microcalcificazioni (cosa importante perché la maggior parte dei tumori maligni si
manifesta con esse). Perciò, mentre l'associazione di mammografia ed ecografia produce una maggiore
accuratezza diagnostica nel riconoscimento di piccoli tumori e nel ridurre la comparsa di cancri di intervallo,
con l'utilizzo della sola ecografia come indagine di screening si corre il rischio di incorrere in un elevato numero
di FN.
Altro esame strumentale è la galattografia, un esame un po’ traumatico che oggi si fa pochissimo e che si
richiede solo dopo aver fatto altri esami. Consiste nell’individuare il dotto secernente tramite l'Rx previa
iniezione di MdC idrosolubile dall'orifizio esterno di un dotto secernente consentendo di evidenziare la parete
interna dei dotti galattofori. Questa metodica è indicata in caso di secrezione spontanea e continua di liquido
(ematico, siero-ematico o trasparente) dal capezzolo con mammografia negativa. In particolare bisogna
richiederlo quando c’è secrezione ematica, perché la causa può essere si un tumore benigno, come un papilloma,
ma anche uno maligno.
La risonanza magnetica è un esame recente che consiste nell’introdurre la paziente all’interno del magnete in
decubito prono, con entrambe le mammelle pendenti in una bobina e successivamente viene iniettato, tramite un
ago- cannula precedentemente inserita, un mezzo di contrasto. È utile per la stadiazione locale di tumore
mammario e per definire l’esatta estensione (soprattutto se c’è discordanza tra mammografia ed ecografia), per
valutare i rapporti con le strutture circostanti (eventuale infiltrazione di grande pettorale, capezzolo o cute), per
vedere se c’è multifocalità (più foci nello stesso quadrante), la multicentricità (più foci in quadranti diversi) o la
bilateralità. Essa è infatti la metodica più sensibile per dimostrare foci addizionali di K mammario e dunque la
completa estensione tumorale. È inoltre utile per la ricerca del tumore primitivo nel caso in cui si siano trovate
solo le metastasi (soprattutto nei ln ascellari), ed è utilizzato nel follow up post chirurgia e radioterapia e prima e
dopo la chemioterapia neoadiuvante, per vedere se il tumore si è ridotto. Infine l’RM è usata per gli screening al
di sotto dei 35 anni di soggetti ad alto rischio genetico-familiare perché è in grado di evidenziare i tumori anche
in seni densi giovanili grazie all'identificazione della angiogenesi che li accompagna. La RM non può essere
usata come primo esame diagnostico, ma in una donna di una certa età si deve eseguire prima la mammografia,
poi l’ecografia e eventualmente la RM. Per poter effettuare la RM è necessario interrompere un’eventuale
terapia estrogenica almeno sei mesi prima perché la stimolazione ormonale può determinare aree di
enhancement (accrescimento) nella mammella, perciò alla RM la mammella apparirà impallinata (tappezzata di
aree di enhancement).
I limiti dell'RM sono: una risoluzione inferiore a quella della mammografia, la mancata rilevazione di
microcalcificazioni, il necessario utilizzo di mdc e l'alto costo.
- se con gli esami strumentali si evidenzia una lesione, è necessario indagarla effettuando la biopsia mammaria.
La tipizzazione può essere fatta con due tecniche:
1) la citologia con agobiopsia;
2) l’istologia tramite core biopsy con ago tranciante o con il mammotome.
Questi esami possono essere eseguiti sotto guida ecografica se la lesione si vede all’ecografia, se invece la
lesione si vede solo alla mammografia si utilizzerà la stereo tassi (cioè si fa un’altra mammografia che però
viene eseguita in modo specifico, i dati vengono elaborati da un computer che ci dice dove si trova la lesione
non palpabile dando le coordinate – x, y, z - per mettere l’ago al centro della lesione, consentendo la
localizzazione tridimensionale).
L’esame citologico viene fatto con un aghetto, quindi non è traumatico per la paziente e può essere facilmente
eseguito. Esso però ha vari limiti: raramente fa diagnosi di istotipo (cioè non dice se è duttale o lobulare), non ci
dice se il tumore è infiltrante o in situ, è operatore dipendente (quindi è bene che l’anatomopatologo sia
specializzato in citologia mammaria).
L’esame istologico viene eseguito tramite tecnica core biopsy, che consiste nell’uso di un ago automatico che
trancia una parte di tessuto, detta carota. Questi aghi trancianti sono un po’ più grossi rispetto ai normali aghi
(ragion per cui prima di usarli si fa un’anestesia cutanea per poi fare un piccolo taglietto sulla cute dove verrà
infilato l’ago) e presentano un incavo sulla punta, detto camicia, dove si raccoglie il materiale istologico
tranciato. Successivamente l’ago viene tirato indietro ed estratto. Un'altra tecnica per effettuare l’esame
istologico è il mammotome, eseguito con un ago ancora più grosso, una sonda, collegato ad un sistema che
consente di aspirare la lesione e portarla all’esterno mantenendo ancora l’ago dentro, perciò se necessario è
possibile fare prelievi multipli ed inoltre permette anche di asportare grandi lesioni, con il carotaggio continuo,

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senza mai togliere l’ago. Da ricordare che il mammotome avviene sotto guida stereotassica, viene usato
soprattutto per lesioni non palpabili e, siccome spesso può dare FN, se negativo si può fare anche una biopsia
escissionale.
L’esame istologico è semplice da eseguire quando la lesione è grande e palpabile, mentre se il nodulo è piccolo,
profondo e non palpabile è necessario inserire un repere metallico, cioè un filo guida di metallo (simile ad un
ago da pesca, che una volta inserito si apre e non può più spostarsi dalla sede), utile al momento della chirurgia.
Un’altra tecnica eseguita è la chirurgia radioimmunoguidata, una tecnica più complicata che prevede la
somministrazione di sostanze radioattive: viene poco utilizzata perché la chirurgia con repere metallico è meno
complicata da realizzare.

CARCINOMA MAMMARIO
Il carcinoma della mammella è un tumore maligno del tessuto ghiandolare della mammella, che può originare
sia dalle cellule lobulari che da quelle tubulari (duttali). Va a colpire una fascia di età compresa tra i 40 e i 70
anni, interessando
quindi anche donne in età giovane e fertile, mentre è molto più rara sotto i 40 anni, sebbene esistano casi anche
in questa fascia d’età. Esistono due picchi d’incidenza (40 e 55 anni) che permettono di dividere la patologia in
due categorie: pre e postmenopausale, con prognosi e trattamento diversi. L'evoluzione e la prognosi sono più
favorevoli nella forma postmenopausale, (che è la forma più frequente -150 casi ogni 100.000 abitanti l’anno-
ed è più spesso implicata in forme di tipo sporadico e non familiare), tanto che può capitare che donne con K
che stanno per andare in menopausa vi vengano mandate farmacologicamente. Perciò il medico deve applicare
una terapia più aggressiva nei carcinomi pre-menopausali rispetto a quelli postmenopausali, che hanno un
andamento più lento.
EPIDEMIOLOGIA Il k della mammella è la neoplasia più frequente nel sesso femminile ed era fino a poco
tempo fa la principale causa di morte per cancro nel sesso femminile. In questi ultimi anni è stata invece
soppiantata dal carcinoma del polmone, la cui incidenza è in notevole aumento anche nelle donne a causa della
maggiore abitudine al fumo. L’incidenza del k della mammella comunque non si è ridotta ma è anzi aumentata a
causa dell’allungamento della vita media e anche grazie alle migliori tecniche diagnostiche e di screening, che
permettono una diagnosi precoce e quindi aumentano il numero segnalato per i dati statistici, ma permettono
anche una progressiva riduzione della mortalità. Questa patologia in passato era definita male oscuro o male
incurabile, oggi invece le migliori strategie terapeutiche hanno portato ad importanti risultati in termini di
sopravvivenza della persona.
L’incidenza di questa patologia è 8 volte maggiore nei paesi a maggiore sviluppo economico (Europa, Nord
America, Australia) rispetto all’Africa o al sud-est asiatico, probabilmente anche per fattori socio culturali, che
fanno si che la donna più facilmente vada dal medico per fare un controllo, favorendo quindi una diagnosi
precoce, oltre che per la più lunga durata della vita media. I tassi di incidenza in Europa oscillano tra 40,6 casi
per 100.000 abitanti in Grecia, a 81 casi per 100.000 abitanti in Olanda. In Italia ci sono 40.000 nuovi casi
all'anno (53 ogni 100.000 abitanti), cioè lo sviluppa 1 donna su 9 nel corso della vita. La donna già operata per
cancro mammario ha un rischio di insorgenza di lesione omo o controlaterale 5-10 volte maggiore rispetto alla
popolazione normale. La mortalità è pari invece al 20,6% dei casi.
Il k della mammella nell’uomo è invece molto raro, rappresentando lo 0,8%-1,2% dei tumori mammari, con una
maggiore incidenza in Africa e fattori di rischio per il suo sviluppo sono: iperestrogenismo, danno epatico e
radiazioni ionizzanti
FATTORI DI RISCHIO il 70% dei K mammari è sporadico, il 15-20% ha andamento familiare, mentre il 5-
10% ha basi genetiche. I fattori di rischio per il carcinoma della mammella sono:
- familiarità: parenti di primo grado delle donne affette hanno un rischio quasi doppio di sviluppare anch’essi la
neoplasia rispetto alla popolazione generale. Ad oggi non è stato dimostrata l’ereditarietà di questa patologia
sebbene siano stati identificati due geni (BRCA1 e BRCA2) che indicano una predisposizione a sviluppare la
neoplasia. Ai nuclei familiari fortemente a rischio per carcinoma mammario è oggi tecnicamente possibile
offrire una analisi genetica, tramite un semplice prelievo venoso, per la ricerca di mutazioni germinali nei geni
BRCA 1 e 2. Comunque nel 95% delle donne che sviluppano un carcinoma mammario non è presente alcuna
mutazione genetica.
- età: raramente prima dei 25 anni, ma in seguito l’incidenza aumenta progressivamente con l’età;
- storia personale: le donne che hanno avuto un tumore in una mammella, presentano un rischio 3-4 volte
maggiore, rispetto alla popolazione generale, di sviluppare un tumore nella mammella controlaterale;
- storia mestruale e riproduttiva: Le donne con un menarca precoce (prima di 12 anni) e con una menopausa
tardiva (dopo 50 anni), presentano un rischio maggiore di sviluppare un carcinoma alla mammella. Una
gravidanza portata a termine prima dei 30 anni, rappresenta un fattore di protezione nei confronti del carcinoma
della mammella
- terapia ormonale: Lavori recenti evidenziano un possibile lieve incrementato del rischio di carcinoma
mammario nella terapia ormonale con l'associazione di estrogeni e progestinici. Tale associazione ormonale ha
invece un effetto protettivo per il carcinoma dell' endometrio. Non esistono, invece, dati certi sulla sola terapia
estrogenica;
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- razza caucasica: è raro nei giapponesi e negli ispanici, probabilmente fattori ambientali influiscono ma non ci
sono ancora certezze a riguardo;
- obesità: gli estrogeni sono liposolubili, perciò in presenza di una maggiore quantità di adipe agiscono di più,
favorendo una maggior proliferazione delle cellule mammarie ;
- presenza di patologia proliferativa mammaria: per es. la mastopatia fibrosocistica;
- esposizione a radiazioni;
- precedenti biopsie mammarie: la convinzione che biopsie mammarie favoriscano l’insorgenza di cancro va
sfatata, anche perché le biopsie non sono effettuate su mammelle sane ma in pazienti su cui si ha già il sospetto
di una lesione.
- ancora in discussione sono le possibili influenze anche dell’alcool, del fumo e della dieta ricca di grassi, ma
si tende a pensare che non abbiano alcun effetto sul rischio di carcinoma della mammella.
MORFOLOGIA Il k della mammella evolve da una situazione in cui le cellule sono normali, ad una
condizione di displasia con cellule atipiche, ad una condizione di neoplasia in cui le cellule sono indifferenziate,
ed è noto che più le cellule sono indifferenziate, maggiore è la loro malignità e aggressività.
Il carcinoma della mammella può essere mono o bilaterale. Il nodo monolaterale compare nell’80% dei casi,
mentre nel restante 20% dei casi è bilaterale (DD con patologie su base ormonale). Le osservazioni hanno
stabilito che praticamente sempre il carcinoma monolaterale ha un istotipo duttale mentre quello del bilaterale è
lobulare (questi sono i due istotipi di K mammario). Entrambi questi tipi di tumore originano dal TDLU
(terminal duct lobular unit), regione posta a livello della giunzione tra dotto e acino e contenente le cellule di
riserva. Queste, in seguito a una noxa neoplastica, possono proliferare e differenziarsi in senso lobulare o in
senso duttale (i K duttali sono più comuni dei lobulari, nella mammella come in tutti gli altri organi –vedi
pancreas – a eccezione della prostata, perché le cellule duttali sono meno differenziate).
Entrambi i tipi di K si possono trovare a loro volta in due forme: in situ o infiltrante. I K in situ indicano che la
proliferazione di cellule neoplastiche duttali o lobulari è ancora limitata dalla membrana basale, così che essa
limiti l'invasione della neoplasia allo strato epiteliale impedendo l’invasione degli strati sottostanti in cui sono
presenti linfatici e vasi ematici, principali vie di metastatizzazione; per questo hanno prognosi migliore.
Secondo alcuni autori il carcinoma lobulare in situ è un tumore relativo, cioè non è un vero carcinoma, ma solo
un marker, cioè una spia, del vero carcinoma, secondo altri invece è un carcinoma in situ che può evolvere come
il carcinoma duttale in situ.
Quando le cellule non riescono più a produrre la membrana basale (la membrana è in realtà un effetto plastico
dovuto all’incontro tra cellule epiteliali e connettivali), il tumore diventa infiltrante, invadendo lo strato
sottoepiteliale e potendo dare metastasi attraverso vasi linfatici ed ematici. Mentre il K in situ non è palpabile,
quello infiltrante si apprezza come una massa palpabile e dal momento in cui un K diventa tale il 50% dei
pazienti ha già metastasi ai linfonodi ascellari.
Grazie alle migliori tecniche diagnostiche e alle numerose campagne di screening sono aumentati i casi di
carcinomi diagnosticati in fase precoce, quando cioè il tumore non ha ancora superato la membrana basale.
K duttale in situ (CDIS): ha un’incidenza di 17, 5 casi su 100.000 donne, rappresenta il 25-30% di casi di K
mammari individuati mammograficamente. È raro al di sotto dei 40 anni, mentre il picco di incidenza si ha nella
VI decade.
Da un punto di vista istologico si possono distinguere diverse forme: la forma a prognosi peggiore è il
comedocarcinoma, caratterizzato dalla presenza all’interno di necrosi, perché la proliferazione vascolare (che
c’è perché ogni tumore è sempre accompagnato da neoangiogenesi) è comunque inferiore alla proliferazione
cellulare, per cui le cellule del centro della lesione non vengono irrorate e vanno incontro a necrosi.. Le forme
non comedoniche (CDIS cribriforme e il papillifero), prive di aree di necrosi, infatti hanno un tasso di
proliferazione più basso e quindi una prognosi migliore.
A differenza del k lobulare in situ il CDIS diventa infiltrante indiscutibilmente nell’arco di 5 anni massimo.
K lobulare in situ (CLIS): ha un’incidenza di: 0,8-3,6/100.000 donne, rappresenta l’1,1% di tutte le biopsie e il
5,7% di tutti i k mammari. L’età media d’insorgenza di questo tumore è 45 anni e nel 90% dei casi compare in
età pre-menopausale. Questo tumore è multicentrico nel 70% dei casi e bilaterale nel 30-40 %. Il CLIS, secondo
alcuni autori, non è un vero e proprio k, ma attualmente è considerato un indicatore di rischio per l’insorgenza di
un K infiltrante, perciò le donne con CLIS hanno un rischio maggiore rispetto alla popolazione generale di
andare incontro a tumore. La prognosi favorevole ha indotto numerosi autori a rinominare questa lesione
neoplasia lobulare, perché le neoplasie possono essere benigne o maligne, perciò non lo si etichetta più come
carcinoma.
Si distinguono tre tipi di CLIS a seconda della morfologia cellulare: quelli con cellule piccole, cosiddette
linfocito-simili, sono i migliori e vanno rarissimamente incontro a trasformazione in infiltrante, invece quelle
con cellule più grandi e che vanno incontro a diffusione pagetoide (cioè in cui la cellula neoplastica,
camminando tra la membrana basale e il dotto, fa si che le cellule duttali desquamino e l’epitelio duttale venga
sostituito dall’epitelio lobulare) nel 20% dei casi diventano k duttali, infine quelli con cellule simili a quelle
gastriche che producono all’interno del citoplasma un vacuolo, cioè non riuscendo le cellule a creare la
ghiandola ogni singola cellula diventa una ghiandola, diventano k duttale nell’80% de casi.

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K duttale infiltrante: rappresenta il 75% circa dei k della mammella e si può manifestare o come nodulo o
come area di addensamento della ghiandola. Si presenta in genere come una lesione unica, di dimensioni
variabili, di consistenza aumentata rispetto al parenchima circostante. All’interno della lesione si possono
riscontrare aree di necrosi e calcificazioni. In base alla risposta stromale all’invasione neoplastica, si può avere:
un k infiltrante scirroso (contenente una ricca componente di tessuto connettivo) o k infiltrante midollare
(cresce talmente rapidamente che non da la possibilità di una risposta tissutale, cioè connettivale, per cui è molto
più molle).
K lobulare infiltrante: è il secondo tumore maligno della mammella in ordine di frequenza e si può
manifestare o come area di addensamento o raramente con delle micro calcificazioni. È costituito da elementi
cellulari piccoli che tendono a disporsi a fila indiana (infiltrazione a fila indiana, più raramente infiltra tutta la
massa).
PROGNOSILa prognosi è legata all’invasività del tumore (se il tumore ha superato o meno la membrana
basale), all’istotipo (duttale o lobulare), ai recettori (importanti per la terapia) e alle dimensioni, infatti c’è una
stretta correlazione tra le dimensioni e le metastasi linfonodali: si osserva che i tumori con dimensioni inferiori a
1 cm hanno linfonodi negativi nel 98,3% dei casi, mentre all’aumentare delle dimensioni l’interessamento
linfonodale aumenta.
Valutando i tempi di accrescimento, si calcola che ci vogliono circa 8 anni perché un tumore raggiunga 1 cm di
diametro, questo vuol dire che se il medico non vede una lesione, perché di piccole dimensioni, alla
mammografia o con un altro esame strumentale, questa stessa lesione avrà dimensioni maggiori dopo qualche
anno, ma comunque sarà sempre piccola, per questo motivo è bene eseguire la mammografia ogni 12-24 mesi e
per questo motivo hanno tanta importanza le campagne di screening, che sono dei programmi attivi di
prevenzione secondaria.
Da ricordare che donne che hanno già avuto un k della mammella hanno un rischio superiore rispetto alla
popolazione generale di ripresentare un k nella mammella omo o contro laterale (curiosità: questo rischio non è
legato in nessun modo alla gravidanza, per cui donne che hanno avuto k mammario, a differenza di quanto si
pensava in passato, possono avere gravidanze senza la paura di aumentare il rischio di un nuovo k più di quanto
non sia già aumentato).
CLINICA clinicamente le lesioni si possono presentare con:
- noduli palpabili che possono determinare un’evidente tumefazione;
- retrazione cutanea;
- malattia di Paget: alterazione simil flogistica della pelle del capezzolo, molto simile ad un eczema (quindi
caratterizzata da rossore e desquamazione cutanea), ma in realtà causata da un tumore duttale infiltrante della
mammella;
- talvolta, comprimendo la ghiandola si assiste alla fuoriuscita dal capezzolo di una secrezione, che può essere
bianca lattiginosa o, nei casi più eclatanti, di tipo ematico;
- altre volte si può manifestare con tumefazione in regione ascellare, solitamente senza dolore (infatti il dolore si
ha solitamente in corso di infiammazione) e dolore osseo, a causa di una lesione metastatica soprattutto nelle
ossa lunga;
- i carcinomi infiltranti più grandi possono essere aderenti alla parete toracica o possono causare retrazione della
cute e i vasi linfatici possono essere talmente infiltrati da bloccare il locale drenaggio della cute, causando
linfedema e ispessimento cutaneo con aspetto a buccia d'arancia.
Generalmente il carcinoma mammario si presenta clinicamente come una formazione nodulare di diametro
variabile, di consistenza dura, a margini irregolari, generalmente fisso ai piani superficiali (cute, derma e
sottocute) e profondi (muscoli e parete toracica).
DIAGNOSI per fare diagnosi è necessario seguire un protocollo diagnostico.
- anamnesi: che deve essere eseguita in maniera accurata.
- esame obiettivo: deve essere eseguito analizzando in prima istanza l’aspetto esterno della mammella, infatti
spesso all’osservazione, magari facendo sollevare le braccia, è possibile individuare una tumefazione o un
avvallamento, successivamente con la palpazione bisogna analizzare le caratteristiche della ghiandola. La
palpazione viene eseguita con la mano, singola o doppia, a piatto nei vari quadranti (che sono cinque: quattro
spicchi e uno centrale).
- indagini di laboratorio: con la ricerca dei biomarcatori CEA(generico), Ca 15.3 (specifico per il k della
mammella, è una spia del tumore che serve non soltanto per la diagnosi ma anche per il monitoraggio post-
operatorio).
- ecografia: è utile perché semplice e poco costoso, però non riesce ad individuare bene alcune lesioni.
- mammografia: esame complementare all’ecografia (cioè sono due esami che devono essere sempre eseguiti
insieme, perché ciò che non vede l’ecografia lo può vedere la mammografia e viceversa), utilizzato in prima
istanza.
- RM: può essere utilizzato per integrare le informazioni di mammografia e ecografia.
- biopsia mammaria, con esame citologico o istologico.
Vedi la diagnosi in dettaglio nel paragrafo “approccio diagnostico terapeutico al nodulo mammario”.

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CHIRURGIA in presenza di un k lobulare la strategia terapeutica consigliata è la semplice sorveglianza
(follow-up) nel tempo, con l’esecuzione di ripetuti esami clinici, mammografici ed ecografici, in modo tale da
individuare il k invasivo in fase precoce. In queste pazienti non va eseguita una mastectomia (a meno che la
paziente lo richieda perché molto ansiosa e non affronterebbe con serenità il follow-up), perché si è visto che
questa metodica non comporta una riduzione della mortalità rispetto alla semplice sorveglianza, infatti 3
pazienti su 4 non svilupperanno mai un k invasivo.
In presenza di una paziente con CDIS si possono attuare tre diverse strategie terapeutiche: la mastectomia,
l’escissione o l’escissione associata a radioterapia. Il tumore unicentrico multifocale (con foci ad una distanza
inferiore di 1cm), può essere invece trattato con intervento conservativo, detto quadrantectomia.
In presenza di un carcinoma infiltrante è sempre necessario intervenire chirurgicamente. La strategia terapeutica
da adottare può essere: di tipo demolitivo (mastectomia radicale) o conservativo (tumorectomia o
quadrantectomia) a seconda che si asporti o si conservi parte della ghiandola (ma è comunque un intervento
demolitivo). La mastectomia a sua volta si può distinguere in mastectomia nipple sparing e mastectomia skin
sparing, a seconda che sia o meno risparmiato il complesso areola-capezzolo. Quando si asporta il tessuto
sottostante l’areola mammaria, si può verificare una perdita di consistenza e funzionalità del capezzolo; per
evitare che ciò succeda è necessario lasciare un po’ di ghiandola al di sotto dell’areola, che dovrà quindi essere
irradiata. È proprio in questo caso che è utile la IORT.
Alla chirurgia si deve associare la linfadenectomia, di primo, secondo o terzo livello (i linfonodi ascellari di I
livello sono quelli dell’ascella inferiore, laterali rispetto al margine laterale del muscolo piccolo pettorale, quelli
di II livello sono quelli dell’ascella media, situati tra i margini mediale e laterale del muscolo piccolo pettorale e
linfonodi interpettorali, e quelli di III livello sono quelli dell’apice dell’ascella, mediali rispetto al margine
mediale del muscolo piccolo pettorale compresi quelli indicati come sottoclavicolari, infraclavicolari o apicali)
o, se si effettua la tecnica del linfonodo sentinella, si asporta, almeno inizialmente, un solo linfonodo.
Le tecniche chirurgiche sono notevolmente cambiate nel tempo e variano a seconda dei casi da trattare:
Mastectomia secondo Hasteld: è l’intervento più antico, nato per la necessità di asportare tumori voluminosi.
È fortemente mutilante e consiste nell’asportazione dell’intera mammella, compresi i due muscoli pettorali su
cui poggia, e l’intero pacchetto di linfonodi.
Mastectomia radicale secondo Patey: consiste nell’asportazione di tutta la ghiandola mammaria e del muscolo
piccolo pettorale con risparmio del grande pettorale, associata alla linfadenectomia ascellare.
Mastectomia radicale secondo Patey modificata: comporta l’asportazione della ghiandola mammaria
conservando sia il muscolo grande che piccolo pettorale. In questo caso è possibile effettuare delle ricostruzioni
plastiche. Questa metodica è indicata nel caso di tumori infiltranti superiore a 2-2,5 cm o nel caso di tumori
multicentrici.
Quadrantectomia: tecnica che consiste nell’asportazione di un settore della ghiandola mammaria, sede della
neoplasia, e della sottostante fascia muscolare. Se il nodulo si trova al di sotto dell’area centrale, cioè sotto
l’areola mammaria, bisogna asportare il quadrante centrale ma di solito non si fa quadrantectomia. Questa
tecnica è indicata nel caso di tumori infiltranti di dimensioni inferiori a 2-2,5 cm, unifocali, uni centrici e che
non hanno dato metastasi. In America questa stessa tecnica è definita tumorectomia e consiste nell’asportazione
della lesione tumorale con almeno 2 cm di tessuto sano; quindi nella sostanza la tecnica è la stessa, però
l’asportazione del quadrante è più sistematica, didattica, categorica. Alla quadrantectomia va sempre associata
una tecnica detta QUART (QU: quadrantectomia, A: linfadenectomia ascellare di I,II o III livello; R:
radioterapia), che rappresenta oggi l’intervento più importante sia dal punto di vista della terapia che
dell’estetica, inoltre numerosi studi statistici hanno ampiamente dimostrato che il QUART, in confronto alla
mastectomia, ha un pari valore di validità.
Per quanto riguarda l’approccio chirurgico, la quadrantectomia può essere eseguita anche con tecniche
differenti: in alcune situazioni è utile fare un taglio radiale, in altre è utile un taglio circolare. I vantaggi della
quadrantectomia sono: la radicalità chirurgica, la rapida ripresa funzionale, i tempi di degenza ridotti, risultati
estetici buoni o comunque accettabili e il minor trauma psicologico da parte della paziente.
La linfadenectomia ascellare è una metodica importante perché permette di analizzare lo stato linfonodale e in
base alle informazioni che si ottengono si può valutare la prognosi della paziente e si può programmare la
terapia post-operatoria. La radioterapia post-chirurgica va eseguita sistematicamente perché riduce il tasso di
recidive, infatti permette di eliminare eventuali focolai residui. Una particolare forma di radioterapia è la IORT,
radioterapia intraoperatoria, che consente di associare la radioterapia all’intervento chirurgico, somministrando
una dose di radioterapia direttamente sul tumore o nei residui tumorali post-chirurgici. La IORT consente di
ridurre il tasso di frequenza della radioterapia e, poiché è fatto a diretto contatto con i tessuti tumorali, permette
una buona salvaguardia dei tessuti sani, tuttavia non sostituisce la radioterapia postoperatoria.
La mastectomia è indicata quando il k duttale in situ è diffuso o multicentrico, quando ha dimensioni superiori a
3 cm (o comunque di diametro tale da non permettere una escissione locale con buoni risultati estetici), in
pazienti che non possono essere sottoposte a radioterapia, oppure quando il CDIS insorge in pazienti già
sottoposte a radioterapia, o se le pazienti lo richiedono espressamente.

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PREVENZIONE essendo il carcinoma mammario un tumore a lenta crescita (1 cm in 6 anni), è possibile
attuare una prevenzione secondaria, cioè con la diagnosi precoce. Questa viene fatta attraverso uno fra questi
due tipi di metodi: screening mammografico e unità funzionale di senologia diagnostica.
Lo screening mammografico è organizzato dalla Asl su input della regione: è rivolto alle donne asintomatiche,
perché ovviamente le sintomatiche non devono aspettare la lettera d’invito ma devono spontaneamente andare in
un centro di senologia, comprese nella fascia di età tra i 50 e i 69 anni. A queste pazienti viene inviato a casa un
invito personalizzato per presentarsi in un giorno e ad un ora definita presso il centro screening dove sarà
effettuata la mammografia ma non la visita clinica (perché chi esegue la mammografia è il tecnico). Se la
diagnosi è negativa la paziente viene mandata a casa una lettera con il risultato dell’esame e la si invita ad
effettuare un successivo esame dopo 24 mesi, a meno che non insorgano delle anomalie alla palpazione e in tal
caso la paziente deve recarsi prima in un centro di diagnostica; se invece c’è un dubbio viene fissato un
appuntamento a breve per eseguire un’ecografia e altre integrazioni.
L’unità funzionale di senologia diagnostica è una sede dove non si effettua lo screening organizzato dallo
stato, ma si va sotto appuntamento preso al CUP. In esso si effettuano l’anamnesi, la visita, l’ecografia e la
mammografia e, se necessario, si fanno anche le biopsie percutanee e si prende un appuntamento con il chirurgo
per una biopsia istologica. Mentre nello screening si fanno numerosi esami in un giorno, nell’unità funzionale si
visitano solo una ventina di pazienti, perché gli esami sono molti di più.

DISPLASIA FIBROCISTICA
È la principale tra le displasie del parenchima mammario, che sono malattie caratterizzate da aspetti proliferativi
e/o involutivi fibrotici, che si manifestano spesso con una lesione clinicamente palpabile. Le displasie
rappresentano in generale il 75% delle patologie mammarie, e la gran parte di queste è da attribuire alla malattia
fibrocistica, mentre sono diplasie meno comuni l’adenosi, l’iperplasia epiteliale (duttale o lobulare) e la cisti
solitaria.
DEFINIZIONELa malattia fibrocistica è anche detta mastopatia fibrocistica, nome che indica le sue
caratteristiche principali: mastopatia ci indica genericamente una malattia della mammella (il termine è
volutamente generico perché, come vedremo, la malattia non è stata ben classificata, non conoscendosene la
patogenesi), fibrosa perché sono caratteristiche le cicatrici fibrose e cistica perché un elemento caratterizzante di
questa malattia sono le cisti.
EPIDEMIOLOGIA colpisce nello stesso periodo di tempo del carcinoma della mammella (tra i 38-40 anni
sino ai 50-55 anni), per cui il medico si può trovare in difficoltà a diagnosticare una patologia neoplastica o una
mastopatia cistica in donne di 40-45 anni con un quadro mammografico e clinico particolare: infatti il k della
mammella nelle fasi iniziali e la mastopatia cistica in alcune fasi di evoluzione possono presentare aspetti
radiografici, clinici e istopatologici molto simili. Inoltre è bene conoscere la mastopatia cistica perché si è visto
che le donne che la presentano hanno un rischio di sviluppare il carcinoma quattro volte superiore alla
popolazione generale, sebbene essa non sia comunque da considerare una lesione precancerosa (l’aumentato
rischio è dovuto al fatto che in questa malattia c’è aumento delle mitosi e quindi più probabilità di errori).
PATOGENESIè una patologia di cui non si hanno molte notizie. Compare in genere in pazienti con disturbi di
tipo mestruale, anche se di solito non molto rilevanti, oppure in pazienti con fibroadenoma in assenza di
alterazioni del ciclo mestruale. È una patologia sicuramente su base ormonale perché è bilaterale, cioè sono
interessate entrambe le ghiandole mammarie, ma è sempre presente un’ asimmetria della lesione alla palpazione,
perché da un lato la lesione è maggiore del lato opposto. Poiché non la possiamo far rientrare nell’ambito né
delle lesioni neoplastiche, né delle lesioni reattive, né delle lesioni flogistiche, la definiamo mastopatia.
Quale che sia la causa la malattia si caratterizza per una proliferazione (iperplasia) dell’epitelio duttale e
lobulare, quindi sia degli acini che dei dotto ghiandolari (si parla di adenosi intendendo questa proliferazione
dell’epitelio ghiandolare), accompagnata da una proliferazione del tessuto connettivo (lo stroma) disposto
intorno e fra gli acini. Infine sono presenti cisti, dovute alla dilatazione e distensione dei lobuli, le quali hanno
dimensioni variabili e numero variabile e sono costituite da una capsula con all’interno del liquido che, con la
loro rottura, può liberarsi e liberare anche il materiale secretorio dello stroma, dando via ad un’infiammazione.
Dalla riparazione di questo tessuto infiammatorio derivano delle cicatrici fibrose, che contribuiscono
all’aumentata consistenza della mammella di queste pazienti; ovviamente queste cicatrici si trovano in una fase
successiva dello sviluppo della malattia, ma siccome essa è caratterizzata da più foci, alcuni saranno cistici, altri
fibrosi.
MORFOLOGIA i quadri morfologici della displasia fibrocistica sono caratterizzati dalla presenza di:
-lesioni proliferative
-lesioni regressive (che sono quelle che caratterizzano la malattia)
-lesioni miste
Per definire una mastopatia cistica devono essere presenti almeno 3 alterazioni e in particolare: o 2 lesioni
proliferative e 1 regressiva, oppure 2 lesioni regressive e 1 proliferativa.
Le lesioni proliferative si hanno per uno sbilanciamento estrogeni/progesterone, in particolare l’aumento degli
estrogeni stimola la proliferazione di tutto l’albero delle mammelle, soprattutto del lobulo che è la parte più
sensibile. Quando sono interessati gli acini si ha una lesione detta ADENOSI PROLIFERATIVA o FLORIDA,
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che è un aumento del numero degli acini dai normali 8-9 ai 15-20-25. Altre lesioni proliferative si possono avere
quando è stimolata la cellula di riserva (staminale) posta tra il dotto della mammella e il lobulo. Queste cellule
stimolate, che crescono all’interno del dotto di secondo ordine, danno origine all’EPITELIOSI. Quando l’attività
proliferativa interessa non solo la parte finale del dotto ma tutto il dotto di secondo ordine, si avrà la formazione
dei papillomi: si parla allora di PAPILLOMATOSI.
Le lesioni regressive sono la fibrosi e le cisti. LA FIBROSI DIFFUSA è una condizione costante di questa
malattia che si verifica perché sembra che il connettivo di sostegno, formato da mucopolisaccaridi neutri PAS
positivi, si estenda e vada a colonizzare tutta la mammella, perciò sia il tessuto adiposo sia il connettivo
mantellare vanno incontro a fibrosi. In realtà si ha una regressione di tipo connettivale, in cui il tessuto adiposo
tende ad andare in regressione e perde la capacità di essere soffice: ne risultano delle ghiandole mammarie
floride ma tendenzialmente piccole e dure alla palpazione. Quando si è nella seconda fase del ciclo, cioè nel
momento in cui il progesterone accumula acqua nel connettivo mantellare, poiché esso non è più lasso ma
sclerotico, l’accumulo di acqua provocherà dolore, che è la ragione per cui le donne vanno dal medico. LE
CISTI si formano sia a livello del lobulo, sia a livello del dotto, e si identificano quindi come cisti lobulari e cisti
duttali. Ci accorgiamo che siamo nella fase di formazione delle cisti effettuando la palpazione della ghiandola
mammaria, che ci permette di percepire una sensazione di pallini da caccia invece della normale sensazione di
mora di gelso. Questi pallini da caccia rappresentano i singoli acini che formano il lobulo e che son diventati
cistici, perciò possiamo diagnosticare la presenza di cisti lobulari, se invece non si percepisce alla palpazione
una sensazione di pallini da caccia ma si percepiscono delle cisti più voluminose e isolate allora ci troviamo di
fronte alla presenza di cisti duttali.
Le lesioni miste sono lesioni che hanno in contemporanea l’elemento proliferativo e l’elemento regressivo.
Queste alterazioni sono dette ADENOSI SCLEROSANTI (adenosi indica la lesione proliferativa, sclerosanti
quella regressiva). Si tratta di una patologia caratterizzata dalla presenza di una proliferazione degli acini
associata al fatto che l’acino diventa fibroso, quindi è una lesione a doppia componente. Alla palpazione di una
mammella con adenosi sclerosante si ha un quadro caratteristico: l’adenosi determina un aumento delle
dimensione del lobulo (perché ha più acini), perciò alla palpazione si sente un lobulo più voluminoso rispetto
agli altri, ma poiché all’interno del lobulo vi è la fibrosi la sua consistenza sarà aumentata. Inoltre la sensazione
è quella di una lesione con superficie irregolare di consistenza dura: per ciò la sensazione palpatoria è la stessa
de carcinoma. Il medico per sapere se si tratta di un vero carcinoma o di un’adenosi sclerosante deve palpare
entrambe le mammelle: se la lesione la troviamo anche nell’altra mammella non può essere un carcinoma,
inoltre nel caso del carcinoma la lesione è come un’isola nel pacifico e tutto il resto del parenchima è normale,
mentre in questo caso è presente il nodulo e il restante parenchima non è normale ma qui e là sono presenti cisti
e fibrosi.
CLINICA questa patologia è caratterizzata clinicamente da una diffusa nodularità, che interessa in genere
entrambe le mammelle ed è localizzata principalmente ai quadranti superiori esterni. A questa può associarsi
una dolenzia solo in alcune fasi del ciclo. Tutta la ghiandola appare poi granulosa con sensazione di microcisti o
cisti più grosse. I linfonodi non presentano alterazioni di rilievo.
DIAGNOSIviene fatta con l’esame obiettivo, che dimostra le alterazioni descritte, e gli esami strumentali.
Questi sono la mammografia e l’ecografia: se vedono un addensamento sospetto si fa poi il citoaspirato. Se la
lesione rimane sospetta si fa la core biopsy o il mammotome per l’esame istologico (che è più preciso), se è di
origine tumorale si interviene chirurgicamente, se è una mastopatia si fa la terapia.
TERAPIA nella maggior parte dei casi è sufficiente l’autopalpazione e il controllo ripetuto nel tempo. In
alternativa si può fare una terapia medica con progestinici, che correggono gli squilibri ormonali, e come
extrema ratio, un intervento chirurgico, che può essere una mammectomia o una mastectomia., comunque da
cercare di evitare soprattutto se le pazienti sono di giovane età (cosa frequente in questa malattia). Da ricordare
che le cisti, della malattia, queste non devono essere bucate, perché tendono a riformarsi.

MEDIASTINO
Il mediastino è la parte di spazio toracico compresa tra le due cavità pleuriche. È delimitato anteriormente dallo
sterno (dalla fossetta del giugulo all´apofisi xifoidea); posteriormente dalla colonna vertebrale (dalla I alla XI
vertebra toracica); ai lati dalle pleure mediastiniche; superiormente comunica direttamente con le fasce cervicali
attraverso lo stretto toracico superiore; inferiormente è delimitato dal diaframma e comunica con l´addome
tramite vari orifizi o iati.
Il mediastino può essere a sua volta diviso in tre comparti: antero-superiore, medio, posteriore. È importante
ricordare i principali organi e le strutture anatomiche presenti in ciascun di essi:
•Mediastino antero-superiore: timo, linfonodi, tessuto connettivo di sostegno, vasi mam. int.
•Mediastino medio: pericardio, cuore e grossi vasi (v. cava, v. anonime, arco aortico e suoi rami), nervi
frenici, nervi vaghi (porzione superiore), trachea ed ili polmonari, linfonodi, connettivo di sostegno
•Mediastino posteriore: esofago, dotto toracico, vena azygos ed emiazygos, aorta discendente, catene
simpatiche, nervi vaghi (porzione inferiore), linfonodi, connettivo areolare.

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SINDROMI MEDIASTINICHE
Le sindromi mediastiniche sono complessi sintomatologici causati da compressione o infiltrazione delle
strutture mediastiniche da parte di una massa neoformata, che solitamente è di natura tumorale. Le strutture
mediastiniche che più facilmente risentono di compressione estrinseca sono quelle più collassabili, cioè le vene
(v. cava superiore; v. anonime); più tardiva è la stenosi da compressione a carico della trachea e dell´esofago;
inoltre l´infiltrazione neoplastica di alcune importanti strutture nervose mediastiniche può dare origine a
sindromi neurologiche tipiche. Nell´ambito delle sindromi mediastiniche possiamo distinguere: la sindrome
della v. cava superiore; la sindrome da compressione tracheale; la sindrome disfagica; le sindromi neurologiche.

Sindrome della vena cava superiore


Questa sindrome si caratterizza per un ostacolato deflusso di sangue dal distretto cavale superiore al cuore
destro, causata da ostruzione parziale o totale del lume della vena cava superiore, a vario livello. La sindrome
conclamata è contrassegnata da turgore delle vene giugulari, che non si modifica con il ciclo respiratorio; si
manifesta inoltre congestione ed edema dei tessuti molli del capo e dell´estremità superiore, dell´emitorace e
degli arti superiori (edema a mantellina). Una caratteristica associata a tale sindrome è il mancato svuotamento
delle vene dell´arto superiore quando l´arto è alzato. 
La sede in cui avviene l´ostruzione cavale e la sua estensione endoluminale, specialmente in rapporto all´ostio
della v. azygos, determinano le varie possibilità di compenso del deflusso venoso e condizionano le diverse
modalità di manifestazione dei sintomi. La pervietà o meno del sistema azygos-emiazygos rappresenta un
fattore importante nel determinare il quadro clinico. Infatti, l´ostruzione della vena cava superiore in sede distale
o prossimale rispetto allo sbocco dell´azygos consente un buon compenso emodinamico; se invece si associa l
´occlusione del sistema azygos-emiazygos, le vene mammarie ed i vasi della parete toracica non sono in grado
da soli di garantire un adeguato ritorno venoso di compenso ed i segni di stasi venosa (edema a mantellina) sono
marcati.
EZIOLOGIA la sindrome è spesso causata da una linfoadenopatia neoplastica o infiammatoria (per es.
metastasi linfonodali di carcinoma broncogeno, o di linfoma; sclerosi linfonodale tubercolare, ecc.); oppure da
un tumore maligno primitivo che infiltra ed occlude la v. cava superiore per invasione diretta (per es. carcinoma
broncogeno, carcinoma del timo); oppure, più raramente, da tumore benigno (per es. gozzo
plongeant voluminoso). Una causa rara di compressione della v. cava superiore è rappresentata dall´aneurisma
dell´aorta ascendente. 
CLINICA l´esordio della sintomatologia da ostruzione della vena cava superiore è variabile, potendo
manifestarsi in modo brusco oppure gradualmente. Nel primo caso, il mancato sviluppo di circoli collaterali è
causa di disturbi legati alla stasi circolatoria; compaiono in seguito turgore delle vene giugulari, edema e cianosi
cervico-facciale e degli arti superiori. 
Un segno spesso presente e caratteristico è il cosiddetto collare di Stokes, con scomparsa delle depressioni
cutanee alla base del collo. Tali disturbi si possono successivamente attenuare, in seguito alla formazione di
circoli collaterali venosi adeguati. Persiste invece l´aumento della pressione venosa degli arti superiori, che in
posizione orizzontale può aumentare anche di 3,4 volte il limite superiore di normalità di 10 cmH 2O. 
DIAGNOSI la sede di ostruzione della vena cava superiore si può precisare mediante l´esecuzione di angio-
TC. 

Sindrome da compressione tracheale


Questa sindrome compare di solito più tardivamente rispetto alla sindrome della v. cava superiore, per la
struttura semirigida della trachea, la cui parete è irrobustita per due terzi della circonferenza da anelli
cartilaginei. La trachea può venir compressa in senso antero-posteriore, dando luogo alla configurazione
della trachea piatta; la compressione in senso laterale dà invece origine alla trachea a fodero di sciabola. Tali
alterazioni sono evidenziabili dalla radiografia del torace e la loro estensione può essere utilmente precisata
dalla TC e dalla RM; quest´ultima indagine consente di valutare l´esatta lunghezza della riduzione del lume
tracheale. La stenosi tracheale al di sotto di una soglia critica, cioè a meno della metà del diametro normale,
determina l´insorgenza di cornage (stridore respiratorio) e di dispnea inspiratoria, definita tirage, caratterizzata
da contrazione dei muscoli inspiratori accessori e da aumento della depressione inspiratoria della fossetta del
giugulo e delle regioni sopraclaveari. Il peggioramento della compressione tracheale causa ristagno delle
secrezioni, tosse e cianosi e può portare a morte per asfissia. 

Sindrome disfagica
Può comparire in seguito a compressione sull´esofago esercitata da una massa che si sviluppa nel comparto
mediastinico posteriore. La mobilità dell´esofago in senso laterale ed anteriore fa sì che la stenosi del lume
esofageo da compressione non si verifichi che tardivamente, e soprattutto in seguito a infiltrazione della parete
esofagea con compressione del viscere in senso posteriore, contro il piano rigido della colonna vertebrale. Tra le
cause più frequenti si ricordano le metastasi linfonodali mediastiniche paraesofagee del cancro del polmone. 

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La diagnosi si accerta con l´esofagografia, con l´esofagoscopia e con la TC torace; per definire la natura della
compressione sull´esofago può essere necessario eseguire un prelievo bioptico della massa che comprime l
´esofago. 

Sindromi neurologiche
Derivano da compressione o da infiltrazione neoplastica di strutture nervose importanti che decorrono nel
mediastino. 
Ricordiamo la sindrome dispnoica da paralisi del nervo frenico, con conseguente paralisi ed innalzamento dell
´emidiaframma omolaterale; la sindrome di Claude Bernard-Horner, caratterizzata da paralisi della catena del
simpatico toracico prossimale; la sindrome disfonica, da paralisi del nervo laringeo ricorrente, più frequente a
sinistra, per il più lungo decorso nel mediastino del nervo laringeo ricorrente di tale lato. 

MASSE MEDIASTINICHE
Le patologie del mediastino, divise a seconda del compartimento maggiormente interessato, sono:
• Mediastino anteriore
Tumori timici; tumori a cellule germinali (teratoma; seminoma; carcinoma a cellule embrionali;
coriocarcinoma);linfomi; tumori mesenchimali: lipoma, fibroma, altri; patologie della tiroide; patologie delle
paratiroidi.
• Mediastino medio
Linfomi; metastasi da carcinoma; malattie granulomatose; angiosarcoma, rabdomiosarcoma, fibrosarcoma,
mesotelioma, liposarcoma, osteosarcoma extrascheletrico; cisti: pericardiche; broncogene; enteriche; masse
vascolari e aneurismatiche;
ernia diaframmatica.
• Mediastino posteriore
in quest’area le masse sono rappresentante virtualmente solo da tumori di origine neurogena: neurilemmoma –
neurinoma; neurofibroma; ganglioneuroma, ganglioneuroblastoma e neuroblastoma; PNET (tumore neuro
ectodermico primitivo).
EPIDEMIOLOGIA le più frequenti sono le masse nel mediastino anteriore (55%), seguite da quelle del
posteriore (25%) e del medio (20%). In particolare timomi e carcinomi timici sono i più frequenti (20-30%),
seguit dai tumori neurogeni (15-20%), dai tumori germinali (10-15%), dai linfomi (10-12%), dai tumori
mesenchimali (5-7%) e via via dagli altri.
CLINICAnel mediastino si possono sviluppare masse di notevoli dimensioni senza che compaia alcuna
sintomatologia soggettiva, con i segni clinici locali (sdr mediastinica, tosse, dispnea, dolore), che compaiono
solo tardivamente. Al contrario, talune masse di piccole dimensioni possono essere accompagnate da un ricco
corteo sintomatologico. Ciò dipende dall´eventuale tendenza della neoformazione a infiltrare gli organi
circostanti e a dare quindi origine a una sindrome mediastinica. La presenza di sintomatologia soggettiva
accompagna il 70% circa delle lesioni maligne e solo il 10% circa di quelle benigne. La sintomatologia, quando
presente, può essere del tutto aspecifica, con senso di costrizione al torace, anoressia e calo ponderale
(raramente c’è sintomatologia dolorosa), oppure specifica, legata cioè alla produzione di ormoni, o ad
alterazioni metaboliche caratteristiche. Per esempio, il timoma può essere associato alla miastenia; il gozzo
plongeant si può accompagnare a ipertiroidismo o a ipotiroidismo; l´adenoma paratiroideo ectopico
mediastinico può determinare iperparatiroidismo; il feocromocitoma può determinare crisi ipertensive. 

Neoformazioni del timo


Le neoformazioni del timo hanno caratteristicamente sede nel mediastino antero-superiore; sono relativamente
frequenti, rappresentando circa il 20% di tutti i tumori mediastinici dell´adulto. La classificazione delle
neoformazioni del timo comprende l´iperplasia timica, la cisti timica, il timoma, il carcinoma, il carcinoide,
il timolipoma, i disembriomi, i linfomi (Hodgkin e non-Hodgkin) e i tumori metastatici.
L´iperplasia timica può presentarsi in due forme distinte: 1) iperplasia vera; 2) iperplasia follicolare; è una
neoformazione rara, che talora si osserva in corso di chemioterapia. 
Le cisti timiche sono lesioni rare, talora con sede nel collo, lungo la linea di migrazione del timo. Possono
determinare sintomatologia compressiva sulle strutture circostanti.
Il timoma è un tumore che si localizza nel mediastino antero-superiore e che trae origine dalle cellule timiche di
origine epiteliale. Rappresenta circa il 20% di tutte le neoplasie del mediastino e colpisce prevalentemente il
sesso maschile, in età compresa tra 40 e 60 anni. Si presenta in forma solida o mista solido-cistica. Nelle forme
benigne ha margini ben delimitati, è incapsulato, con scarsa tendenza all´infiltrazione delle strutture circostanti e
alle recidive locali. Nelle forme invasive, invece, ha limiti irregolari e sfumati ed è senza capsula; diffonde per
contiguità alla pleura, al polmone, ai grossi vasi mediastinici e al pericardio. Poco frequente è la diffusione
metastatica a distanza, prevalentemente a carico del polmone e del fegato. Microscopicamente può presentarsi: a
prevalenza epiteliale (45%); a prevalenza linfocitaria (25%); misto linfoepiteliale (30%). La classificazione
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istologica dei timomi attualmente utilizzata è: tipo A midollare o a cellule fusate; tipo AB misto
(midollare/corticale); tipo B1 prevalentemente corticale o linfocitario; tipo B2 corticale; tipo B3 carcinoma
timico ben differenziato o epiteliale o atipico o squamoide; tipo C  carcinoma timico non organo tipico
(squamoso, squamoso non cheratinizzante, linfoepiteliale, sarcomatoide, a cellule chiare, basalioide,
mucoepidermoide, papillare, indifferenziato). La sintomatologia è variabile. Vi sono timomi benigni che
crescono lentamente, rimanendo a lungo asintomatici; tuttavia, quando il tumore raggiunge il diametro di 4-5
cm diventa sintomatico, per compressione delle strutture mediastiniche adiacenti, con la comparsa di  dolore
toracico, tosse o dispnea (non solo per compressione dei bronchi ma anche per infiltrazione del nervo frenico,
con conseguente paralisi diaframmatica). A queste può aggiungersi la presenza di disfonia per infiltrazione del
nervo ricorrente e di tachiaritmie sopraventricolari. Al timoma si può inoltre associare un corredo
sintomatologico dovuto a sindromi paraneoplastiche e sindromi associate (autoimmuni, come LES, AR,
sclerodermia, ecc.; endocrine come Hashimoto, Addison, ecc..; dermatologiche come pemfigo; ematologiche
come la pan citopenia, la linfocitosi T, aplasia pura della serie eritroide – cioè reticolo citopenia con
conseguente anemia, sembra dovuto ad un meccanismo immunomediato -; o ancora la ipogammaglobulinemia;
ma soprattutto neuromuscolari, come la miastenia gravis). Tra queste la più frequente è la miastenia gravis, una
malattia autoimmune caratterizzata da un deficit dei recettori dell’acetilcolina a livello della placca
neuromuscolare dovuto alla produzione di anticorpi diretti contro il recettore stesso. Essa si manifesta con una
facile affaticabilità del muscolo volontario (soprattutto ptosi palpebrale, diplopia, poi difficoltà a deglutire e
perdita della mimica facciale, e infine difficoltà respiratoria), seguita da un recupero dopo qualche minuto di
riposo. Si diagnostica con la positività agli Ab anti Ach, il rapido miglioramento dopo somministrazione di
edrofonio e la ridotta risposta all’EMG. Questa patologia si associa nel 30% dei casi a timoma e infatti
regredisce in 1/3 dei casi con la timectomia.
Nel 30% dei timomi la diagnosi è occasionale, nel corso di accertamenti Rx o TC o RM del torace eseguiti per
altri motivi, in assenza di sintomi. Un corretto iter diagnostico prevede un Rx torace, TC torace ed eventuale
RM nelle forme che presentano caratteri di invasività periferica, al fine di valutare la compromissione delle
strutture contigue. La diagnosi di certezza si ottiene con la biopsia, che si può effettuare con ago tranciante per
via percutanea TC-guidata. In alternativa, o quando la biopsia percutanea non è fattibile o non è diagnostica
(materiale insufficiente o necrotico), si esegue una biopsia incisionale del tumore attraverso una
mediastinotomia minima parasternale nel II o III spazio intercostale (sec. Chamberlain); meno frequentemente
la biopsia si esegue per via toracoscopica transpleurica. L´asportazione chirurgica offre i migliori risultati per il
trattamento del timoma.
I carcinomi timici, analogamente ai timomi, sono tumori epiteliali del timo caratterizzati biologicamente da un
alto grado di anaplasia istologica ed atipia cellulare e clinicamente da un’elevata aggressività e capacità di
metastatizzazione. Per il suo trattamento trova talora indicazione la chemioterapia, in aggiunta alla chirurgia.
Sono comunque rari (1% delle formazioni timiche) em colpiscono soprattutto i maschi intorno ai 60 anni. In più
del 50% dei casi sono indifferenziati, con assenza di linfociti T. la prognosi è severa, avendo una sopravvivenza
a 5 anni del 50%.
Il carcinoide timico, raro, origina dalle cellule neuroectodermiche presenti nel contesto della ghiandola e fa
parte del gruppo dei tumoriderivanti da cellule del sistema APUD. Si presenta simile ai timomi ma senza
capsula e dal punto di vista molecolare ha dei marcatori della differenziazione in senso neurale: cromogranina e
sinaptofisina, utili nella diagnosi. La sintomatologia è quella locale compressiva, mentre non si associa mai alla
classica sdr da carcinoide.
Il timo lipoma: raro tumore a insorgenza dalla componente adiposa della ghiandola.
Il linfoma timico primitivo (Hodgkin e non-Hodgkin) è una neoplasia rara; più frequenti sono i linfomi
originati dal tessuto linfonodale mediastinico, che si estendono per contiguità al timo. 

Tumori neurogeni
Rappresentano circa il 25% di tutti i tumori mediastinici. La loro tipica sede di insorgenza è la doccia costo
vertebrale, dove sono più concentrate le strutture nervose (origine dei nervi intercostali, gangli e catena
simpatica).
È opportuno distinguere i tumori derivati dai nervi da quelli che originano dalle cellule gangliari. Tra le
neoplasie a partenza dai nervi periferici ricordiamo lo schwannoma (neurinoma o neurilemmoma), tumore
benigno che insorge dalle guaine nervose, prevalentemente a livello della doccia costovertebrale e solo
raramente dal nervo frenico e dal vago. Il neurofibroma deriva dai fibrociti delle guaine nervose dei nervi
periferici, è un tumore benigno e può essere associato alla malattia di von Recklinghausen. I corrispondenti
tumori maligni delle guaine nervose sono lo schwannoma maligno (schwannosarcoma), con un´incidenza
maggiore nei giovani e una prognosi severa, e il neurofibrosarcoma. 
Le neoplasie a origine dalle cellule gangliari e dalle catene simpatiche sono a prevalente localizzazione nel
mediastino posteriore; si tratta frequentemente di tumori aggressivi e che hanno una maggiore incidenza nell´età
infantile. Ricordiamo il ganglioneuroma, che rappresenta la variante benigna di questa neoplasia a origine dalle
cellule neuronali. Il ganglioneuroblastoma è dotato di malignità ridotta ma capace di metastatizzare. 

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Un tumore tipico dell´infanzia e contrassegnato da elevata malignità è il neuroblastoma: origina dalle cellule
gangliari simpatiche, che talora possono sintetizzare catecolamine; in tal caso si può manifestare sintomatologia
clinica caratterizzata da diarrea, sudorazione, vampate cutanee. Il monitoraggio di questi pazienti deve
prevedere il dosaggio degli acidi omovanillico e vanilmandelico. Da ultimo ricordiamo il
feocromocitoma (paraganglioma cromaffine, catecolaminosecernente), che origina dai gangli simpatici, capace
di provocare crisi ipertensive. Il paraganglioma non secernente (chemodectoma) è un tumore raro che insorge a
livello del plesso simpatico dei grandi vasi arteriosi del mediastino, a lenta crescita, ma che può determinare
incastramento dei vasi e del pericardio. Circa il 10% dei tumori neurogeni del mediastino si estende per
continuità nel canale midollare, attraverso uno o più forami di coniugazione intervertebrali; in tal caso il tumore
assume la configurazione a clessidra (dumb-bell), o a tappo di champagne.
L´esistenza di un tumore neurogeno paravertebrale a clessidra può essere documentata dalla TC e meglio ancora
dalla RM nelle proiezioni coronali, senza necessità di dover ricorrere alla mielografia. La terapia d´elezione è l
´exeresi chirurgica.

Tumori a cellule germinali (disembriomi)


Tra le classificazioni proposte la più diffusa si basa sugli elementi anatomici dai quali le diverse neoformazioni
traggono origine. È possibile pertanto distinguere:
• Disembriomi omoplastici: sono neoformazioni benigne che comprendono le cisti broncogene, le cisti
celomatiche o pleuropericardiche, le cisti enterogene ed il linfangioma cistico.
• Disembriomi eteroplastici: sono costituiti da cellule appartenenti ai diversi foglietti embrionali primitivi
ecto, ento e mesoderma.
Le forme benigne comprendono le cisti epidermoidi (monodermomi, a derivazione ectodermica); le cisti
dermoidi (didermomi, a derivazione ectodermica e mesodermica); i teratomi (tridermomi, che possono
contenere in varia misura tutte le strutture dell´organismo). Questi disembriomi eteroplastici sono
istologicamente benigni, ma tendono a recidivare localmente se l´exeresi chirurgica è stata incompleta.
Il teratocarcinoma è la variante maligna del teratoma. 
Tra i disembriomi eteroplastici maligni sono compresi: il seminoma, il corioncarcinoma, il carcinoma
embrionario e il carcinoma del sacco vitellino. La localizzazione dei disembriomi mediastinici è costante e ciò
facilita l´identificazione diagnostica. Le cisti pleuropericardiche si localizzano nel mediastino antero-inferiore;
le cisti broncogene (sono le cisti mediastiniche di riscontro più frequente) ed i linfangiomi cistici hanno
insorgenza paratracheale; le cisti enterogene hanno generalmente sede paraesofagea. I disembriomi eteroplastici
sono invece spesso localizzati nel mediastino anteriore. La terapia chirurgica è il trattamento di scelta e consente
la guarigione definitiva. Radio e chemioterapia sono adottate in genere come terapia di complemento. Il
seminoma è caratterizzato da elevata sensibilità alla chemioterapia e alla radioterapia. Nelle forme maligne la
prognosi è molto severa, con sopravvivenza inferiore ad un anno.

Tumori mesenchimali
I tumori connettivali nel mediastino sono rari e nel 50% dei casi benigni (fibroma, lipoma); in tali casi la terapia
chirurgica è radicale e porta a guarigione. Nelle forme maligne (fibrosarcoma, liposarcoma) la prognosi è molto
severa; la recidiva dopo exeresi chirurgica è frequente, nonostante i trattamenti polichemioterapici adiuvanti. 

Altri
Anche il tumore polmonare deve essere annoverato tra le masse mediastiniche, sebbene non si sviluppino da
organi che fanno parte del mediastino, ma si sviluppino andando ad interessare le strutture che del mediastino
fanno parte.
Lo stesso discorso vale per il mesotelioma, che è un tumore interessante i foglietti viscerali, quindi pericardio e
pleura (anche il peritoneo in addome, sebbene il suo interessamento sia molto raro, e talvolta dalla cavità
vaginale dei testicoli).
Infine è da nominare lo struma intratoracico. Gli strumi distopici possono trovarsi nel torace a seguito di una
migrazione avvenuta dalla regione sottoioidea dopo la nascita o in seguito allo sviluppo di una matrice tiroidea
in sede ectopica. Nel primo caso si parla di strumi ptosici, plongeant o migranti; nel secondo caso di strumi
ectopici. Generalmente lo struma intratoracico ha connessione anatomica e vascolare con il gozzo a sede
cervicale, di cui rappresenta una migrazione a sede mediastinica. Non è costante la localizzazione anatomica; in
alcuni casi lo struma si colloca in posizione pretracheale, più raramente ha sede lateralmente alla trachea e all
´esofago o tra esofago e piano vertebrale. Nel gruppo degli strumi intratoracici sono alquanto rare le forme prive
di rapporto anatomico con la tiroide a sede cervicale. In tali casi si parla di  ectopia per definire l´origine
disontogenetica dello struma, per migrazione di una gemma embrionaria tiroidea. Ciò spiega come tali strumi
(raramente) si possano localizzare in sedi assai diverse, come per esempio nel timo o addirittura nel miocardio o
nel pericardio. Il quadro radiologico è abbastanza suggestivo, con allargamento del mediastino superiore,
spostamento o compressione tracheale e talora calcificazioni all´interno della massa. La TC cervico-
mediastinica con mezzo di contrasto offre spesso un reperto patognomonico. La scintigrafia tiroidea ed
eventualmente il prelievo citologico confermano il sospetto. L´intervento chirurgico di exeresi trova

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indicazione in presenza di disturbi da compressione a carico della trachea (dispnea), dell´esofago (disfagia) o dei
nervi (laringeo ricorrente - disfonia; frenico - paralisi dell´emidiaframma). Quasi mai è necessaria la sternotomia
o la toracotomia, che trovano invece indicazione in caso di un k della tiroide sviluppato nel contesto di un gozzo
mediastinico che abbia infiltrato le strutture anatomiche limitrofe.

PLEURA
La pleura è una sottile membrana sierosa che aderisce strettamente alla superficie esterna del polmone,
addentrandosi anche nelle scissure interlobari (pleura viscerale), per poi continuare a livello ilare a rivestire la
parete omolaterale del mediastino, il diaframma e la superficie interna della parete toracica (pleura parietale). La
pleura parietale e viscerale sono separate da uno spazio virtuale che contiene di norma pochi ml di liquido
sieroso pleurico, che si forma costantemente per filtrazione dai capillari della pleura, il quale permette alle due
tonache di scivolare senza frizione una sull’altra, consentendo le escursioni del polmone con la respirazione.
La pressione intrapleurica è negativa rispetto alla pressione atmosferica, a causa delle proprietà elestiche dei
polmoni che tendono a collassare, e della parete toracica che tende ad espandersi.

PNEUMOTORACE (PNX)
È una condizione patologica caratterizzata dalla presenza di aria nella cavità pleurica, la quale penetra attraverso
una soluzione di continuo della parete toracica, oppure attraverso una lacerazione delle vie aeree comunicante
con il cavo pleurico. È una affezione che si osserva abbastanza frequentemente e può essere:
- spontaneo (o semplice): più frequentemente nei giovani è dovuto a bolle enfisematose sub-pleuriche, mentre
negli anziano è favorito dall’enfisema polmonare. È più frequente nel sesso maschile e nei fumatori, in soggetti
giovani e più frequentemente con aspetto longilineo
- acquisito (o secondario): si verifica in seguito alla rottura di una qualsiasi lesione situata vicino alla superficie
pleurica, che consente quindi una comunicazione tra gli alveoli e la cavità pleurica. A sua volta si può
distinguere in traumatico o iatrogeno. In quest’ultimo caso, può conseguire a cateterismo venoso centrale, a
toracentesi, a biopsia trans toracica, ecc..
In base alla patogenesi il pneumotorace si può distinguere anche in:
- PNX aperto: è dovuto ad una soluzione di continuo della parete toracica. L’aria atmosferica penetra nel cavo
pleurico durante l’inspirazione, causando collasso del polmone e spostamento del mediastino verso l’emitorace
sano, impedendo quindi la normale espansione del polmone contro laterale e ostacolando il ritorno venoso
cavale. Ne deriva una insufficienza respiratoria e una insufficienza cardiovascolare, che può mettere a rischio la
vita del paziente. Il primo trattamento d’emergenza è l’occlusione, anche con mezzi fortuiti, della breccia
toracica.
- PNX chiuso: si distingue a sua volta in completo, quando la retrazione elastica del polmone collassato
provvede alla chiusura funzionale della breccia polmonare che ha causato il pneumotorace, e parziale, quando la
lacerazione è così piccla che la sua chiusura avviene prima che il polmone sia completamente collassato, oppure
quando la quantità di aria penetrata nel cavo pleurico è modesta.
Se la penetrazione dell’aria avviene con un meccanismo a valvola, si verifica un PNX iperteso, caratterizzato da
un progressivo aumento della pressione nel cavo pleurico, per il continuo ingresso di aria che entra durante
l’inspirazione, ma che non riesce a fuoriuscire durante l’espirazione. In questo caso, il continuo aumento della
pressione causa uno spostamento del mediastino dalla parte opposta alla lesione, con conseguente ostacolo al
reflusso venoso e al riempimento del cuore. Di conseguenza nel PNX iperteso si ha una riduzione della gittata
cardiaca ed ipotensione. È quindi necessario intervenire d’urgenza, pungendo il cavo pleurico con un’ago-
cannula e successivamente si deve trattare la lesione toracica e posizionare un drenaggio pleurico con valvola ad
acqua (Bulau), o in aspirazione.
CLINICAdipende dal grado di collassamento polmonare e dalle sue condizioni pregresse. Il PNX spontaneo
non complicato può essere asintomatico, oppure può manifestarsi con: dispnea, tachipnea, ipossiemia, cianosi
fino allo shock. Può essere presente dolore toracico irradiato alle spalle e all’arto superiore omolaterale.
Il PNX bilaterale è particolarmente grave e si caratterizza per la presenza di grave dispnea e il paziente arriva
all’osservazione che è già in coma.
Se il PNX è presente da più di 24 ore, frequentemente sono presenti delle piccole raccolte fluide chiare o
sierose, mentre voluminose raccolte pleuriche sono solitamente ematiche e indicano che oltre al PNX si è
verificato un emotorace. In tal caso all’Rx si osserva un livello idro-aereo. Una complicanza è rappresentata
dalla sovra infezione, che da origine a un pio-PNX o empiema-PNX.
ESAME OBIETTIVOSegni clinici sono l’iperfonesi plessica e l’assenza o la diminuzione del murmure
vescicolare e del fremito vocale tattile.
DIAGNOSIsi diagnostica con certezza con una radiografia che evidenzia una zona iperdiafana (per la
presenza di aria), in cui non è riconoscibile la trama bronco-vascolare, ed una iperespansione dell’emitorace
corrispondente. In caso di PNX di modesta entità, che non si rileva all’RX, si utilizza la TC.
TERAPIAsi esegue un drenaggio pleurico di Boulau, che viene posizionato elettivamente nel II spazio
intercostale all’incrocio con la linea emiclaveare. In caso di PNX associato a importante versamento pleurico
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ematico è opportuno posizionare un secondo drenaggio, che viene inserito a livello del V-VI spazio intercostale
sull’ascellare anteriore, con l’apice del tubo diretto verso l’angolo costo-frenico, per raccogliere il liquido in
posizione declive. Talvolta si può inserire un solo drenaggio, sia per i liquidi che per l’aria, costituito da un tubo
che presenta diversi “buchini” lungo tutta la sua lunghezza. Per evitare di ledere i vasi intercostali che decorrono
a livello del margine costale inferiore, è necessario pungere rimanendo rasenti al margine superiore della costa.
La terapia chirurgica viene eseguita in caso di PNX recidivante o persistente, o in seguito a un primo episodio in
paziente che hanno un rischio professionale (pilota di aerei, sommozzatori), e consiste in interventi in video
toracoscopia di abrasione pleurica, pleurodesi chimica (con talco o tertracicline) o pleurectomia.

VERSAMENTI PLEURICI
Con questo termine ci si riferisce ad una raccolta di liquido nel cavo pleurico superiore a quella fisiologicamente
presente (10-20 ml). I versamenti pleurici devono essere distinti in essudati e trasudati (idrotorace), i quali si
differenziano per la quantità di proteine presenti. I versamenti trasudati insorgono a causa di un’aumentata
pressione idrostatica o di una diminuita pressione oncotica, mentre i versamenti essudati sono conseguenti ad
un’aumentata permeabilità pleurica conseguente ad un processo infiammatorio (pleuriti) o neoplastico. La
differenziazione tra versamento essudato e trasudato può essere fatto mediante la prova di Rivalta, oppure
determinando i livelli di proteine totali e di LDH nel liquido pleurico e nel siero. Se nesuno di questi test è
positivo allora il versamento è di tipo trasudativo e può essere dovuto ad embolia polmonare, a scompenso
cardiaco congestizio, a cirrosi o a nefrosi.
Per poter precisare la diagnosi eziologica, nel liquido si possono misurare diverse sostanze:
- glucosio: in caso di TBC, tumori, malattia reumatica è inferiore a 60 mg/dl
- amilasi: elevati valori possono essere dovuti a pancreatiti, tumori, rottura esofagea
- LDH: è un indicatore della gravità dell’infiammazione pleurica
- CEA: aumenta in caso di adenocarcinoma
Altri esami possono essere: esame citologico, microbiologico, il conteggio leucocitario e linfocitario (per il chilo
torace).
Quando il paziente presenta un versamento pleurico clinicamente rilevante, che condiziona cioè una riduzione
significativa degli scambi respiratori, è necessario attuare una puntura del cavo pleurico (toracentesi) per
evacuarlo. Se il liquido aspirato è putrido, allora vi è la presenza di una infezione batterica del cavo pleurico
(empiema), se il liquido è ematico, siamo i presenza di un emotorace, se il liquido è torbido allora si parla di
chilo torace.
La diagnosi definitiva di certezza della natura del versamento si ottiene con la pleuroscopia (si introduce un
endoscopio in uno spazio intercostale, dopo aver eseguita una piccola incisione sulla cute).

EMOTORACE
Con questo termine ci si riferisce ad una raccolta di sangue nel cavo pleurico. L’origine del sanguinamento nella
maggior parte dei casi è dai vasi intercostali, dai vasi mammari interni o da lacerazioni del parenchima
polmonare, solitamente in seguito a fratture costali o schiacciamento. Più rara è la rottura dei vasi maggiori
(tronchi sovraortici, aorta) dai quali deriva un emotorace massivo. Talvolta può essere anche la complicanza di
piccoli traumi o di una toracentesi, se è in atto una terapia anticoagulante. Se l’emotorace si complica con
infezione, dà origine ad un empiema.
CLINICAl’emotorace si manifesta clinicamente con dispnea, tachipnea e dolore tracico, ma in caso di
emotorace massivo (il cavo pleurico può accogliere sino a 3 l di sangue) e acuto, si possono avere conseguenze
gravi, infatti può portare a morte in breve tempo a causa dell’anemia, dell’insufficienza respiratoria da
impossibilità all’espansione del polmone e dell’ipovolemia e ipoperfusione tissutale che portano a shock.
DIAGNOSIAll’Rx l’emotorace appare come un’opacità più o meno sfumata verso l’alto, mentre in caso di
emo-PNX si ha la presenza di un livello idro-aereo. L’opacamento di un seno costo-frenico implica la presenza
di un versamento di 500 ml, mentre un opacamento di un intero emitorace indica la presenza di circa 2 litri di
versamento.
TERAPIAIl trattamento dell’emotorace dipende dall’entità delle perdite ematiche: se l’emotorace è limitato al
seno costo-frenico, si tiene il paziente sotto osservazione, infatti solitamente va incontro a riassorbimento
completo dalla pleura, se il sanguinamento è maggiore di 500 ml si posiziona un tubo di drenaggio, se invece si
ha un sanguinamento continuo, superiore a 2 l è necessaria una toracotomia d’urgenza per il controllo
dell’emorragia e una trasfusione di sangue. Una caratteristica del sangue che si versa nel cavo pleurico è che
tende a defibrinarsi, perciò coagula molto lentamente e può essere raccolto tramite drenaggio.

CHILOTORACE
È una raccolta nello spazio pleurico di liquido linfatico, di aspetto lattescente e contenente microaggregati di
lipidi.
La sua presenza è sempre espressione di una ostruzione o rottura dei dotti linfatici maggiori, di solito legata ad
una neoplasia nel mediastino (per esempio un linfoma), mentre più raramente dovuta a trauma del dotto
toracico, accidentale o intraoperatorio, solitamente conseguente a intervento di esofagectomia o di correzione di
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anomalie cardiovascolari. Raramente il chilo torace può essere congenito, dovuto ad anomalie del sistema
linfatico.
La perdita di liquido linfatico, ricco di linfociti, proteine e lipidi, può causare uno stato di depressione
dell’immunità cellulare e una marcata ipoproteinemia.
La diagnosi viene posta sulla base dell’esame del liquido pleurico e la sede della lacerazione del dotto toracico
può essere posta mediante linfografia con Lipiodol. La d.d. deve essere posta con il pseudochilotorace o
versamento pleurico chiliforme ricercando la presenza nel liquido di cristalli di colesterolo.
La terapia consiste nel digiuno, in modo tale da ridurre il flusso di linfa nei vasi linfatici e lo svuotamento
mediante toracentesi. Se permane dopo 3-4 settimane si deve eseguire una pleurodesi, cioè la creazione di
aderenze tra pleura viscerale e parietale per obliterare lo spazio pleurico.

EMPIEMA
È una raccolta di pus nello spazio pleurico. Può essere dovuta a: infezione pleurica per contiguità da polmonite
o ascesso polmonare, sovra infezione di un emotorace o di un altro versamento pleurico, infezione cavo pleurico
da lacerazione polmonare o da fistola bronco pleurica, propagazione di un infezione attraverso la via ematica o
linfatica, ecc…
I batteri più frequentemente responsabili sono lo Stapfilococco aureus, gli streptococchi e i batteri gram negativi
(pseudomonas, klebsiella, E.coli, proteus, salmonella).
L’empiema può essere localizzato in una porzione circoscritta, solitamente alla base, oppure può coinvolgere
l’intera cavità pleurica. Può essere distinto in: essudativo (costituito da poche cellule) e fibrino-purulento
(caratterizzata da una grande quantità di granulociti, materiale necrotico e batteri. La deposizione di fibrina sia
sulla pleura viscerale che parietale favorisce la cronicizzazione e la circoscrizione della raccolta).
Il pus si raccoglie nella parte declive della sacca dell’empiema, dando origine a un livello idroaereo, ben
evidente all’Rx. La pleura che circoscrive l’empiema si ispessisce per reazione infiammatoria e fibrosa,
impedendo l’espansione del polmone. Una particolare condizione clinica è l’empiema necessitas, caratterizzata
da un’empiema che si fa strada nella parete toracica, con il pus che si raccoglie nel sottocute e tende a
fistolizzare all’esterno.
L’esame radiografico mostra un opacamento pleurico o scissurale interlobare e in caso di empiema cronico, un
livello idroaereo. La diagnosi viene confermata dalla toracentesi aspirativa che conferma la presenza di pus e
permette di eseguire un esame microbiologico e l’antibiogramma.
La terapia può essere medica, con antibioticoterapia, e se questa fallisce si esegue un intervento
videotoracoscopico per eseguire un evacuazione, una toilette e un drenaggio del cavo. Se a causa della fibrosi il
polmone non si riespande è necessario eseguire un intervento di decorticazione pleurica.

TUMORI PLEURICI
Si distinguono in primitivi (10%) e metastatici (90%). Le forme primitive possono essere benigne e maligne.
I tumori benigni sono rari e si possono distinguere in neoformazioni mesoteliali o sottomesoteliali, che possono
essere sia localizzate che diffuse. Esempi sono il fibroma mesoteliale o mesotelioma fibroso localizzato, che può
originare sia dalla pleura viscerale che parietale, può rimanere asintomatico, ma può anche causare artralgia,
ippocratismo digitale, febbre e ipoglicemia. Si presenta come una massa unica, capsulata, protrudente negli
spazi pleurici come una masserella peduncolata. Può essere asportato con facilità.
I tumori maligni possono originare sia dal rivestimento pleurico (mesotelioma), sia dai tessuti sotto mesoteliali
(fibrosarcoma, angiosarcoma o altri sarcomi). Il più frequente, sebbene molto raro è il mesotelioma.
Il mesotelioma pleurico è il tumore maligno pleurico più frequente. Origina dal mesotelio, cioè dallo strato di
cellule che riveste come una pellicola le cavità sierose del corpo. Oltre che nella pleura il mesotelioma può
originare anche dal peritoneo, dal pericardio e dalla membrana che riveste i testicoli.
È un tumore che fino a qualche anno fa era considerato raro, ma la sua diffusione degli ultimi anni è in
aumento, a causa della maggiore esposizione in ambiente lavorativo, o per contaminazione ambientale, a
fattori di rischio. Colpisce più frequentemente gli uomini, con una incidenza di 3,4 casi ogni 100.000
uomini in Italia.
EZIOLOGIA non è nota, ma sembra essere correlata, anche se solo su base epidemiologica,
all'esposizione all’amianto (asbesto), responsabile anche di una patologia flogistica polmonare detta asbestosi e
associato anche ad un maggior rischio di sviluppare carcinoma polmonare (i lavoratori dell’asbesto hanno un
rischio 5 volte maggiore di sviluppare un k polmonare e un rischio oltre 1000 volte maggiore di sviluppare il
mesotelioma). Altri cofattori sono il fumo di sigaretta, il virus della scimmia SV 40, la radioterapia e altre
esposizioni lavorative.
PATOGENESIA differenza dell’asbestosi, di cui conosciamo la patogenesi e l’evoluzione della malattia, per
il mesotelioma è presente solo una associazione epidemiologica, non si è ancora dimostrato come un soggetto
esposto ad asbesto, ma adeguatamente tutelato (perciò non lo inala), sviluppano il mesotelioma. È bene sapere
che possono passare anche più di 20 anni tra la prima esposizione all’amianto e l’insorgenza del mesotelioma e
che il rischio non diminuisce una volta eliminata completamente l’esposizione, ma rimane costante per tutta la
vita.
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MORFOLOGIA La sede più colpita è il mesotelio pleurico, seguita da quella peritoneale, mentre più rara è
quella pericardica e testicolare. Si manifesta inizialmente con un ispessimento irregolare della pleura, che può
essere: localizzato e incapsulato (rarissimo), solitamente asintomatico e non correlato con l’esposizione
all’asbesto, o diffuso, che è localmente aggressivo e comunemente associato con l’esposizione all’asbesto.
Successivamente tende ad infiltrare sia il foglietto viscerale che quello parietale, è infatti una neoplasia
altamente aggressiva, con conseguente obliterazione dello spazio pleurico e blocco polmonare. Questo tumore,
può nascere o in sede basale, apicale o posteriore; il mesotelioma in sede apicale può essere scambiato
erroneamente con carcinoma polmonare apicale però il carcinoma polmonare non porta alla formazione di una
massa mediastinica, ma solo polmonare.
Il polmone è invaso per via diretta e le metastasi si possono avere ai linfonodi ilari, al fegato e ad altri organi a
distanza.
Esistono 3 varianti istologiche: sarcomatoide (cellule fusate e fibroblasto-simili organizzate in tralci), epiteliale
(cellule cuboidali che delimitano spazi tubulari e microcistici) e bifasica (caratterizzata da entrambi gli aspetti) .
STADIAZIONEla stadiazione secondo Brenner distingue:
• STADIO I: Tumore confinato alla pleura ed alla superficie dei tessuti da essa ricoperti
• STADIO II: Tumore infiltrante la parete toracica o le strutture mediastiniche (esofago, trachea, cuore) o
presenza di metastasi linfonodali intra-toraciche
• STADIO III: Tumore che infiltra il diaframma ed i vari organi sotto-diframmatici; invasione della
pleura controlaterale; metastasi ai linfonodi extra-toracici
• STADIO IV: Metastasi ematogene a distanza
CLINICALa sintomatologia d’esordio è caratterizzata dal dolore toracico, dispnea, tosse, calo ponderale,
anoressia, sudorazione notturna. Può comparire tardivamente anche disfonia per interessamento dei nervi
laringei.
DIAGNOSIè utile l’anamnesi per valutare il rischio di esposizione e per la conferma diagnostica si esegue
l’esame RX e la TC, che confermano il sospetto di versamento pleurico ed evidenziano gli ispessimenti pleurici,
la biopsia pleurica (transcutanea o videotoracoscopica) e il dosaggio dell’acido ialuronico nel liquido pleurico
(patognomico se < 1mg/ml).
TERAPIAil mesotelioma è solitamente uno dei tumori meno curabili e la prognosi è infausta in pochi mesi
dalla comparsa dei sintomi. La malattia non può quasi mai essere curata radicalmente né con la chirurgia, né con
la radioterapia e chemioterapia, sia per le caratteristiche del tumore, che per lo stato generale del paziente. Gli
interventi chirurgici che si possono eseguire sono ampliamente demolitivi e consistono in una decorticazione
pleurica o in una pleuro-pneumonectomia.

POLMONE
APPROCCIO DIAGNOSTICO-TERAPEUTICO ALLA PROBLEMATICA
DEL NODULO UNICO POLMONARE
Per nodulo polmonare solitario (NPS) si intende una lesione nodulare singola di forma rotondeggiante,
circondata da parenchima polmonare su almeno tre lati, non associata ad atelettasia né linfoadenopatia ilare o
mediastinica. Le dimensioni di questa struttura devono fino ai 3-6 cm di diametro a seconda delle casistiche,
mentre se superano queste dimensioni si parla di massa polmonare.
Il NPS può essere una lesione maligna o benigna. Le lesioni benigne sono più comuni: nell’80% dei casi sono
dovute a processi infettivi di tipo granulomatoso, nel 10% sono lesioni amartomatose e nel 10% processi
granulomatosi non infettivi; rarissimamente si tratta di neoplasie benigne. Le lesioni maligne sono invece meno
comuni, rappresentando il 30% delle situazioni, ma è per dimostrare la loro presenza che è importante seguire
un iter diagnostico particolare.
-L’Rx torace, compiuto in duplice proiezione (postero-anteriore e laterale), è l’indagine di prima istanza,
sebbene non vede il 20-50% dei noduli. In particolare ha difficoltà a vedere quelli che si trovano nelle regioni
ilari ed apicali, per via della sovrapposizione di altre strutture, e ha difficoltà a vedere i noduli sotto 1 cm, in
particolare non vede mai quelli sotto i 5 mm; questo è un grosso limite, perché riduce moltissimo l’attività di
screening dell’Rx, ragion per cui deve essere associato, in caso di sintomatologia sospetta, alla TC, anche se i
bassi costi lo mantengono come primo esame di screening. Gli elementi caratteristici che ci da l’rx, e che
possono orientarci verso la diagnosi, sono: l’aspetto a corona radiata (segno di malignità), la presenza di
calcificazioni (segno di benignità) e informazioni sull’accrescimento volumetrico nel caso in cui si eseguano più
Rx nel tempo.
-La TC del torace, che può essere fatta ad alta risoluzione (la più usata) con mdc (di seconda scelta) o a bassa
dose (si sta diffondendo sempre più), deve essere eseguita in tutti i pazienti che all’esame Rx presentano un
addensamento parenchimale sospetto, o in quelli che, pur avendo un Rx normale, presentano un forte sospetto
diagnostico basato sulla sintomatologia (sdr mediastinica, oppure tosse con emottisi, ecc..). Il problema della TC
sono gli alti costi e la maggior quantità di radiazioni, oggi ridotta grazie alla TC spirale a basse dosi, a cui si
associa un software di ricostruzione di immagini che permette di accorciare il tempo dell’esame. Rispetto all’Rx

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la specificità e la sensibilità rimangono molto alti e addirittura si riescono a vedere noduli di 5 mm (sebbene la
sensibilità sia più bassa), di cui individua anche speculazioni e margini irregolari (entrambi segni di malignità).
Inoltre mentre all’Rx ci può essere la mancata visione di un nodulo perché nascosto da questa trama o da altre
strutture, alla TC si vedono nitidamente tutte le caratteristiche del polmone e quindi anche le eventuali
formazioni nodulari, anche grazie ai nuovi strumenti tecnologici che ci permettono di cancellare al computer
delle zone che nascondono la regione interessate e in generale cancellare tutto ciò che non ci interessa, in modo
da avere un panorama completo del polmone (trachea, grossi bronchi e bronchi via via più piccoli). Infine, altro
vantaggio della TC, è quello di consentirci di fare un prelievo bioptico TC guidato, che è abbastanza preciso e
quindi permette di prelevare il tessuto della lesione vista alla TC, sebbene esistano delle zone critiche: le basi
polmonari, che risentono della dinamica respiratoria, cioè il diaframma che va su e giù può farci sfumare il
punto dove prelevare, l'apice, in prossimità della scapola, perché è difficile accedervi, e a livello dell’ilo, magari
mascherata dai grossi vasi ilari; in tutti gli altri casi la TC ci è di grande aiuto. La TC ha l’obbiettivo di
caratterizzare la lesione e per fare ciò dobbiamo concentrare la nostra attenzione su alcuni elementi (che devono
essere integrati fra loro per avere anche un quadro prognostico ben chiaro):
• Dimensione: esiste un criterio che ci dice che il 90% delle lesioni superiori ai 3 cm è maligno e l’80% di
quelle inferiori ai 2 cm è benigno. Questo criterio però non ci da informazioni di cosa ci sia tra i 2 cm e i
3 cm e lascia comunque delle probabilità di avere lesioni maligne sotto i 2 cm (anche sotto il cm
possono essere maligne) e benigne sotto i 3 per cui non ci da un grande aiuto perché per dire al soggetto
se si tratta di neoplasia o meno dobbiamo avere la certezza. Quindi è da tenere presente che le
dimensioni non rappresentano da sole un indice di malignità e in generale nessuno di questi parametri
da solo ci dice che la lesione è maligna o benigna.
• Contorni: possono essere lisci, lobulati (lobulature grossolane senza processo di infiltrazione: possono
essere benigni ma si può anche trattare di adenocarcinoma), spiculati (cioè appuntiti, sono i più critici,
che più facilmente si riscontrano in tumori maligni), a corona radiata (dovuto al fatto che il tumore
cresce formando delle digitazioni che si inseriscono nel parenchima circostante e a volte inglobano
anche l’aria contenuta negli alveoli, la quale appare quindi circoscritta da tralci radio opachi e dà
un’immagine di radiotrasparenza: perciò nella corona radiata si alternano immagini di radiotrasparenza,
date dall’aria, intervallate dalle estroflessioni tumorali, il tutto conferisce l’aspetto tipico a corona
radiata. Alcuni di questi aspetti suggeriscono di collocare la lesione tra le maligne o le benigne ma
anche qui, come per quanto riguarda le dimensioni, non esiste una certezza assoluta: per esempio
l’aspetto a corona radiata è considerato patognomico di carcinoma ma può anche capitare, nel 5% dei
casi, che la lesione sia benigna.
• Presenza di calcificazioni: le calcificazioni sono espressione della difesa dell’organismo, che produce
sclerosi e cerca di isolare la lesione; infine su questa lesione si appongono le calcificazioni. Le
calcificazioni possono formarsi in tante situazioni (TBC per esempio, dove il nodulo sclerotico può
presentarsi con calcificazioni concentriche, espressione di una lesione benigna) e possono essere
centrali, diffuse (tipiche della presenza di un granuloma) o laminate (espressione di processi flogistici) o
a pop corn (tipiche dell’amartoma). Sono tutte lesioni benigne, cioè la loro presenza fa scendere la
probabilità che si tratti di un tumore. Se ci sono calcificazioni asimmetriche, amorfe, eccentriche e con
aspetto granulare, puntiforme, reticolare, disposte senza nessun criterio, allora è più probabile si tratti di
lesioni maligne.
• Caratteri interni della lesione: i noduli polmonari con densità minore sono nella maggioranza dei casi
benigni (75% dei casi), in particolare la presenza di grasso all’interno del nodulo è un indicatore certo di
amartoma.
• Il contrast enhancement: è la capacità della lesione di assorbire mezzo di contrasto. In caso di tumore
questo è più alto perchè nelle neoplasie il circolo neoformato è un circolo tortuoso per cui
frequentemente quando il mezzo di contrasto è già andato via dai territori sani, una parte di esso può
essere intrappolato nella lesione.
• Definizione della sede: stabilire cioè i rapporti con altre strutture, in particolare con i grossi vasi (cosa
utile anche per fare una biopsia senza correre rischi, oltre che per sapere che strutture può infiltrare il
tumore). Oggi ciò è ben visto da al computer, con programmi che ci permettono di ricostruire le
immagini e quindi essere più precisi.
• Double time: consiste nel tempo di raddoppiamento del volume del nodulo polmonare ma non è
anch’esso patognomico perché ci sono tumori maligni che raddoppiano in 30 giorni (microcitoma) e
altri che lo fanno in molto più tempo (anche 380 giorni). Il tempo di raddoppio si calcola con la TC.
• Stadiazione: la TC ci indica l’eventuale interessamento di organi mediastinici, parete toracica e
linfonodi.
Queste due indagini, Rx e TC, sono sufficienti in una buona percentuale di casi (30%) per cogliere queste
caratteristiche e dare quindi indicazioni sulla natura delle lesioni: nel caso in cui siano benigne (cosa che si
valuta anche con l’associazione con altri dati: assenza di fattori di rischio, età sotto i 35 anni, ecc..) si fa la
terapia medica, o eventualmente chirurgica se richiesta; nel caso in cui si riscontri una lesione maligna (anche
qui, se ci sono dubbi, ci aiuta l’associazione con età avanzata e fattori di rischio), si interviene chirurgicamente

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dove si può, altrimenti si agisce con la terapia palliativa; se le lesioni sono indeterminate bisogna invece
proseguire con altre indagini di seconda linea. Di queste fanno parte:
-la TC multistrato: è oggi considerata il gold standard per l’individuazione del NPS, potendo vedere formazioni
con diametro inferiore ai 3 mm. Ha però delle limitazioni nell’individuare lesioni in sede ilare e nei lobi
inferiori.
-la RM: si sta affermando come esame complementare alla TC in quanto vede i territori dove essa ha
qualche zona d’ombra: scissure, apici parete toracica e diaframma; inoltre è utile perché può v alutare
l’integrità del tessuto adiposo (importante perché se è presente all’interno della lesione, essa è probabilmente
benigna), mostrare il piano di clivaggio della lesione con la pleura (quindi è importante anche dal punto di vista
chirurgico), evidenziare il coinvolgimento del mediastino, fare il follow up post-radioterapia così da analizzare
il paziente senza sottoporlo a radiazioni supplementari. Non può essere usata se ci sono controindicazioni al
mdc.
-la PET: è un esame che ci da informazioni funzionali più che morfologiche, ma la sua attuale integrazione con
la TC (si usa ormai la PET-TC) ha il vantaggio di integrare i due tipi di informazioni: la PET studia il
metabolismo delle cellule attraverso l’utilizzo di marcatori (fluorodesossiglucosio, tetrofosmina e pentetreotide),
che sono metabolizzati in maniera diversa dalle cellule neoplastiche rispetto alle sane (ne captano di più).
Questa metodica integrata può cogliere formazioni con diametro di 3 mm, oltre ad essere utile nella stadiazione,
perché coglie, con lo stesso principio, le cellule neoplastiche presenti a livello dei linfonodi. Questa metodica ha
una sensibilità del 94% e una specificità dell’82%.
Anche l’esame citologico dell’espettorato è molto importante, avendo un’accuratezza di circa l’80% e non
avendo bisogno di aver localizzato prima la lesione (cosa necessaria ovviamente per l’agoaspirato). Il risultato
di questo esame dipende dalla bravura del citologo e dal tipo di neoplasia polmonare: se essa esfolia, come per
lo squamocellulare, il citologico è utile, se non esfolia, come per il microcitoma, è inutile.
Infine sono da ricordare alcuni marker tumorali, come CEA, NSE, citocheratina, che però non sono molto
specifici.
La diagnosi di certezza è comunque istologica. La biopsia può essere compiuta in vari modi:
--con agoaspirazione trans toracica TC guidata: permette di vedere lesioni al di sotto dei 2 cm, soprattutto se a
localizzazione periferica, non è molto invasiva e ha elevata sensibilità e specificità, anche se non mancano i falsi
negativi;
-con broncoscopia: utile soprattutto per i tumori a localizzazione centrale, ma solo se maggiori di 2 cm. La
broncoscopia è utile perché ci permette di avere un quadro più preciso sotto vari aspetti: permette di vedere
direttamente il tumore se esso aggetta nella cavità bronchiale (quindi non può vedere il microcitoma –vedi dopo
-), permette di fare l’agoaspirato e di fare il BAL (lavaggio bronchio alveolare), il quale consiste
nell’introduzione, grazie al broncoscopio, di liquido nei bronchi, che si mischia alle cellule esfoliate e che viene
poi riaspirato, elaborato e analizzato.
-attraverso metodiche chirurgiche: esse sono la video toracoscopia e la toracotomia esplorativa. Queste
tecniche vengono utilizzate qualora non sia possibile ottenere la biopsia negli altri modi visti. La toracotomia
consiste in una incisione toracica posterolaterale fra V° e VII° spazio intercostale: eprmette di individuare
lesioni centrali del parenchima, di palpare il parenchima stesso ed è economicamente vantaggioso. Gli svantaggi
sono la maggiore mortalità e morbilità e l’aumento della degenza media. La toracoscopia ha il vantaggio del
minor traumatismo, minor dolore e quindi riduzione della degenza, oltre che del ridotto danno estetico.
Questi esami sono sufficienti per fare diagnosi. Quando poi si vuole completare la stadiazione bisogna fare
anche_ ecografia addominale (o TC addominale), TC o RM cerebrale, scintigrafia ossea, mediastinoscopia.
Questi esami servono per vedere se ci sono metastasi in addome, encefalo, ossa e linfonodi mediastinici
rispettivamente.

TUMORI POLMONARI
CARCINOMA POLMONARE
Il k polmonare è una delle forme più insidiose e aggressive di neoplasia maligna. Deriva dalle diverse
componenti epiteliali ed è causato in larga misura dagli effetti cancerogeni del fumo di sigaretta. È una lesione
silente in virtù delle caratteristiche del parenchima polmonare che si presenta facilmente comprimibile e con un
elevata capacità funzionale di riserva tant'è che, molto spesso, è già in uno stadio avanzato quando si manifesta
clinicamente. Di solito si riscontra in pazienti di circa 50 anni di età che presentano sintomi da molti mesi, i più
frequenti dei quali sono la tosse (75%), il calo ponderale (40%) e la dispnea (20%). Altri sintomi possono essere
astenia, febbre, malessere generale, algie toraciche, versamento pleurico e escreato; talvolta però possono avere
insorgenza acuta di tipo “broncopneumico”. Spesso il tumore viene scoperto per la sua diffusione secondaria
durante esami eseguiti per valutare un altra evidente neoplasia primaria in altra sede e la sua prognosi
generalmente è infausta.
EPIDEMIOLOGIA il k del polmone colpisce una fascia di età estremamente ampia, incomincia a 40/45 anni e
arriva fino a 65/70 anni, con un picco di incidenza intorno ai 50-60 anni. Solo il 2% di tutti i casi compare prima
dei 40 anni. In particolare, il microcitoma colpisce i soggetti giovani, lo spinocellulare colpisce i soggetti più

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anziani. Il k polmonare è attualmente il k diagnosticato con maggiore frequenza nel mondo ed è la più comune
causa di mortalità per cancro (e a loro volta i tumori sono la seconda causa di morte dopo le malattie
cardiovascolari). In Italia si registrano oltre 26000 morti l'anno per tumori dell'apparato respiratorio e negli
ultimi dieci anni c'è stato un incremento di oltre il 50%. La mortalità altissima è dovuta, oltre alla malignità del
polmone, al fatto che il k passa spesso inosservato e quando diventa clinicamente evidente da spingere il
paziente ad andare dal medico, in genere è troppo tardi.
EZIOLOGIA e FATTORI PREDISPONENTI nello sviluppo del k broncogeno sono stati indicati numerosi
fattori predisponenti. Essi possono essere distinti in: fattori endogeni e fattori esogeni.
• Fattori endogeni:
o Fattori genetici: come tutte le neoplasie, anche i k del polmone sono determinati da un
accumulo di modificazioni genetiche che colpiscono oncogeni e geni soppressori del tumore
(myc, K-RAS). Inoltre le donne presentano una suscettibilità più alta all'azione carcinogena del
tabacco rispetto agli uomini.
• Fattori esogeni:
o Fumo di sigaretta: è senza dubbio il più importante fattore causale. Ad esso possono essere
attribuiti il 90% dei casi di k broncogeno nei maschi e il 70% nelle femmine. Il rischio di k
broncogeno è infatti 8-20 volte superiore nel fumatore rispetto al non fumatore. L'interruzione
del fumo riduce tale rischio ma non lo elimina completamente neanche dopo 10 anni di
astensione. Alcuni autori hanno, inoltre, documentato un aumento di incidenza di k broncogeno
nei fumatori passivi. Il meccanismo dell'azione carcinogena delle sostanze presenti nel fumo
non è conosciuta: forse alcune sostanze del fumo sono metabolizzate in altre ancora più
carcinogene. Secondo questa teoria, quindi, le attività enzimatiche soggettive condizionano la
comparsa di neoplasie (ciò spiegherebbe perché alcuni accaniti fumatori non sviluppano il
tumore).
o Inquinamento atmosferico: determina un aumento del rischio di k broncogeno di circa 2 volte.
o Attività lavorative: aumentano il rischio, soprattutto se associate al fumo. Tra queste ricordiamo
l'esposizione a: asbesto, berillio, nickel, derivati del cromo, arsenico, cloro-etere, uranio e
carbone.
o Ricorrenti bronchiti: i soggetti che vanno incontro a bronchiti ricorrenti sono per lo più
fumatori, quindi questo fattore di rischio è da ricondurre al fumo.
PATOGENESI i suddetti agenti eziologici a lungo andare determinano un insulto dell'albero respiratorio. Di
fronte a una bronchite il nostro organismo cerca di tutelarsi: la mucosa bronchiale è rivestita da un epitelio
cilindrico monostratificato che è vibratile nella trachea e che poi diventa cuboide, con pochi elementi ciliati, a
livello dei bronchioli; nel momento in cui c'è una flogosi cronica ripetuta, questa, in genere, si crea nel punto di
giunzione tra il bronco e l' alveolo e, quindi, dà bronchite cronica (intendiamo bronchite quando la lesione
interessa un bronco e non interessa l' alveolo). Il bronchiolo così già leso, per continua stimolazione da parte
del fumo, tende ad andare incontro anche a delle infezione sovrapposte, perchéla mucosa bronchiale perde la
capacità batteriostatica e i batteri, tendono a crescervi. A queste lesioni ripetute si aggiunge lo stimolo
cancerogeno (benzopirene, arsenico, nichel, polonio): questi fattori con gli anni promuovono varie alterazioni:
inizialmente lo stimolo causa una intensa proliferazione cellulare, detta iperplasia; il tessuto iperplastico può poi
andare incontro a metaplasia, cioè formazione di un epitelio pavimentoso composto in sostituzione di uno
cilindrico semplice; situazione successiva è la displasia, in cui viene ad alterarsi la normale architettura tissutale
e le cellule cominciano a proliferare disordinatamente: differentemente dalla metaplasia, che può essere risolta
eliminando lo stimolo nocivo, la displasia è un processo irreversibile e rappresenta il seme dal quale si sviluppa
il carcinoma in situ.
Poiché il k del polmone nasce nel punto in cui ci sono le cellule di riserva, e cioè tra la fine del bronco e l'inizio
dell'alveolo, questo evolverà secondo le linee di maturazione. Se è presente ancora un epitelio cilindrico,
evolverà verso un k con cellule mucose, se, invece, sarà avvenuta una metaplasia, per cui l' epitelio sarà
pavimentoso composto, evolverà verso un k a cellule squamose. Quindi, l'evoluzione di una cellula neoplastica,
che si trova a livello della cellula di riserva, sarà guidataverso una forma normale se non è avvenuta la
metaplasia ,o verso cellule squamose, se avvenuta la metaplasia.
MORFOLOGIA Il k del polmone si chiama k broncogeno perché, sebbene sia nel polmone, la cellula
interessata dal processo neoplastico è a livello di passaggio tra la fine del bronco e l'inizio dell'epitelio
polmonare, perciò si parla anche di k bronco-polmonare. Poiché un k tende sempre a differenziarsi verso le vie
più semplici e non verso le vie più complicate, nel k del polmone la stragrande maggioranza dei tumori evolve
verso strutture bronchiali e soltanto una piccola percentuale verso un k a cellule polmonari. Questa piccola
percentuale di casi prende il nome di adenocarcinoma bronchioloalveolare.
CLASSIFICAZIONE i tumori del polmone sono un’infinità, tanto che se ne contano più di 25 tipi, ognuno
con una sua caratteristica morfologica. Necessariamente si è creata una classificazione istologica che
semplificasse la loro suddivisione:
• Carcinoma spinocellulare (a cellule squamose o epidermoide) 60%.
• Carcinoma a piccole cellule ( microcitoma) 20%.

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• Adenocarcinoma 15%.
• Carcinoma anaplastico (a grandi cellule) 5%.
La classificazione clinica è ancora più semplice; essa prevede: tumori non a piccole cellule e tumori a piccole
cellule, cioè mette insieme l' adenocarcinoma, lo spinocellulare e l’anaplastico, che sono a grandi cellule,
tralasciando quelli a piccole cellule. Gli spinocellulari e gli adenocarcinomi vanno incontro a differenziazione, i
primi verso cellule squamose e i secondi verso ghiandole. Esiste, quindi, una terapia per tumori che seppur in
maniera differente presentano comunque quadri di differenziazione. I microcitomi, invece, sono tumori che non
differenziano. Dal punto di vista anatomo-topografico, infine, le neoplasie broncopolmonari si possono
classificare in 2 categorie:
• Neoplasie che hanno rapporto con l'albero bronchiale (sono prevalentemente neoplasie centrali o
parailari).
• Neoplasie a localizzazione parenchimale periferica.
--Adenocarcinoma
È un tumore epiteliale maligno con differenziazione ghiandolare o produzione di mucina da parte delle cellule
tumorali. Più comune di k polmonare nelle donne e nei non fumatori. Gli adenocarcinomi mostrano varie
modalità di crescita e possono essere puri o, più spesso, misti. Queste modalità sono rappresentate dai tipi:
• Acinare: tumori ben differenziati con evidenti elementi ghiandolari.
• Papillare: lesioni papillari simili ad altri carcinomi papillari.
• Solido con formazione di mucina.
Questi tre fanno parte del sottotipo classico, che si svilupa in sede prevalentemente ilare.
• Bronchioloalveolare: è quello non convenzionale, che si sviluppa prevalentemente a livello periferico,
spesso in territori di pregresse lesioni polmonari (per es. processi tubercolari guariti) che potrebbero
costituire uno stimolo infiammatorio cronico alla degenerazione neoplastica. Poiché il tumore non
coinvolge i bronchi principali, atelettasia e enfisema sono poco frequenti. Può presentarsi come nodulo
singolo o, più frequentemente, sotto forma di noduli molteplici diffusi, che possono localizzarsi in un
unico lobo o in più lobi, talvolta anche bilateralmente, e che talvolta confluiscono a provocare un
addensamento simile a una polmonite (queste lesioni hanno minor probabilità di essere trattate con
resezione chirurgica rispetto alle forme uni nodulari). È l'unico tipo di k del polmone che si differenzia
verso le cellule polmonari formando ghiandole, cioè non formando più delle masse cave. Questo perché
la neoplasia non fa altro che ripercorrere le vie dell'evoluzione dell'ontogenesi (il polmone nel bambino
è una massa solida, che si cavitavizza solo successivamente). Altra caratteristica tipica è la crescita
lungo le strutture preesistenti senza distruzione dell'architettura alveolare. Questa modalità di crescita è
stata chiamata “lepidica”, un allusione al fatto che le cellule neoplastiche assomigliano a farfalle posate
su uno steccato. Infine è da ricordare una particolare forma di adenocarcinoma, che si sviluppa all’apice
polmonare, detta tipo Pancoast perché responsabile della sdr di Pancoast o “spalla-mano”. Essa è
dovuta all'invasione del plesso brachiale e cervicale da parte e causa forte dolore nella zona di
distribuzione del nervo ulnare. Può anche complicarsi con la sdr di Claude-Bernard-Horner (enoftalmo,
ptosi, miosi, anidrosi) per distruzione del ganglio stellato parasimpatico.
--Carcinoma a cellule squamose (spinocellulare)
È l’istotipo più frequente, colpisce specialmente soggetti di sesso maschile tra i 60 e i 70 anni (quindi in un
paziente di una certa età la lesione più frequente sarà uno spinocellulare, mentre nei giovani può comparire sia
l'adenocarcinoma, più frequente nelle donne che il microcitoma) ed è correlato in assoluto al fumo di sigaretta, il
quale è responsabile dell'instaurarsi di una flogosi cronica bronchiale che nel tempo determina l'insorgenza di
una metaplasia squamosa sulla quale poi si svilupperà la lesione neoplastica. La metaplasia squamosa è la
conditio sine qua non per avere un k spinocellulare; se infatti non ci fosse la trasformazione dell'epitelio da
cilindrico a squamoso, non avremmo un k spinocellulare ma un adenocarcinoma. Quindi perché insorga la
neoplasia occorrerà più tempo ed è questo il motivo per cui sono colpiti pazienti anziani. Il k spinocellulare
origina nei bronchi, più frequentemente in sede centrale (70%): quando la sede è centrale alla malignità
istologica si associa quella topografica in quanto il paziente in questa situazione è inoperabile. Questa neoplasia
ha una forma ad iceberg, cioè sporge entro il dotto bronchiale per pochi centimetri poi si estende massivamente
a livello del parenchima polmonare. Quando la neoplasia si estende ulteriormente entro al lume bronchiale può
provocare atelectasia o enfisema a seconda che l'ostruzione sia completa o incompleta. Questo tipo di k è
pertanto suscettibile sia di indagine endoscopica che di indagine citologica dell'espettorato, dove si riscontrano
frammenti di k che si sfalda facilmente sotto i colpi di tosse giacché le cellule tumorali posseggono un fattore
inibente l'aggregazione da contatto. Istologicamente il k spinocellulare può essere ben differenziato o
moderatamente o poco differenziato (quest’ultimo di solito si manifesta già all'esordio con metastasi
extratoraciche e si distingue per una notevole aggressività. La sopravvivenza a 5 anni è del 10% ; l'aspettativa di
vita dopo la diagnosi è di circa un anno. Solo il 20% dei casi sono suscettibili di intervento chirurgico.
--Microcitoma o tumore a piccole cellule
Dal greco micros= piccolo e citos=cellula. È un tumore altamente maligno in quanto poco differenziato, quindi
con un indice di proliferazione altissimo, ma soprattutto perché colpisce anche soggetti più giovani rispetto agli
altri tipi di k, intorno ai 45/50 anni (prevalentemente di sesso maschile). Sono i tumori polmonari più aggressivi,

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metastatizzano ampiamente e sono praticamente incurabili chirurgicamente: questo è dovuto alla crescita rapida
(raddoppiano in 30 giorni) e alla rapida diffusione linfonodale. I k a piccole cell hanno una forte relazione con il
fumo di sigaretta. Solo l'1% circa si riscontra nei non fumatori. Non vi è una fase pre-invasiva nota o k in situ.
Nell' 80% dei casi hanno sede parenchimale mentre nel 20% restante hanno sede subpleurica. Si manifestano
generalmente sotto forma di una massa di colorito grigio-pallido che cresce a manicotto lungo i bronchi, sotto la
mucosa imbottendola, per cui si ha riduzione del lume bronchiale ma la mucosa appare piana (per cui a poco
serve la broncoscopia, perché internamente la mucosa è normale, sebbene ispessita): cresce, cioè, nella stessa
maniera in cui cresce il k ad anello con castone dello stomaco (“a manicotto”). La prima lesione che darà,
quindi, non sarà una lesione espansiva al di fuori del lume ma un'atelectasia, che si presenta alla
radiografiacome una lesione opaca che ha una dimensione maggiore del tumore, perché una parte sarà tumore e
una parte atelectasia. Un'atelectasia, però, può essere dovuta per esempio ad un tappo di muco, che occlude la
parte terminale del bronco, in questi casi si parla di “quadro incerto“ e si procede prescrivendo una terapia
antibiotica o antiinfiammatoria, perché se è data da un problema flogistico, dalla presenza di muco, o da un
problema di altro genere, con la terapia scompare. Da un punto di vista istologico il microcitoma viene distinto
in: microcitoma a cellule fusiformi, a cellule poligonali, a cellule linfocitosimili e microcitoma misto. in ogni
caso il microcitoma nasce dalle cellule basali dell’epitelio bronchiale, che sono piccole cellule ancora destinate a
differenziarsi, ragion per cui le sue cellule saranno sempre piccole.
Altra caratteristica del microcitoma è l’elevata capacità sintetica di sostanze simil-ormonali per proprietà
neuroendocrine: il microcitoma è infatti il principale responsabile di sindromi paraneoplastiche in corso di k
broncogeno. Ciò si spiega col fatto che talvolta esso è l'evoluzione massima di un carcinoide (tumore endocrino
a basso grado di malignità). Tra questo e il microcitoma ci sono dei tumori che si chiamano carcinomi
neuroendocrini (originanti dalle cellule polmonari del Kulchitsky, che sono cellule endocrine). Alcuni
microcitomi però non sono producenti (sono il 50%), cioè nascono direttamente maligni e non sono una
sdifferenziazione di un carcinoide, per cui non danno sindromi paraneoplastiche: questi sono anche i tumori
meno contrastabili perché meno differenziati e quindi più proliferanti.
--Carcinoma a grandi cellule o anaplastico
E' un tumore epiteliale maligno le cui cellule sono giganti, estremamente anaplastiche, hanno tipicamente grossi
nuclei, nucleoli prominenti e una quota modesta di citoplasma. Probabilmente rappresentano k squamocellulari
e adenocarcinomi cosi indifferenziati da non essere più riconosciuti con il microscopio ottico. Inoltre si crede
riconosca lo stesso substrato patogenetico del microcitoma (cioè può originare anche da cellule neuroendocirne
dell’epitelio bronchiale, così come il carcinoide, tipico e atipico e, appunto, il microcitoma). Una variante
istologica è rappresentata dal k a grandi cellule neuroendocrine, caratterizzato dalla crescita organoide,
trabecolare, simile a rosette e dall'aspetto a palizzata. Si presenta soprattutto nei territori polmonari periferici e
nell' 80% dei casi invade la pleura. Ha una prognosi sfavorevole e tende a diffondere precocemente a distanza
(nel 50% dei casi ha già coinvolto il SNC al momento della diagnosi).

CLINICA è dimostrato che il k broncogeno, prima di rendersi evidente con sintomatologia, viene preceduto
da un periodo di latenza prolungata, detta fase di induzione. Questa può durare da 15 a 30 anni.
Con l'accrescimento locale, a seconda della localizzazione della neoplasia, il cancro del polmone può dare
origine a segni e sintomi che dipendono dall'invasione delle strutture contigue, dalla diffusione linfatica loco-
regionale, dalla diffusione metastatica a distanza ed infine dagli effetti generali della malattia neoplastica
(sindromi paraneoplastiche, che vedremo). La maggior parte dei pazienti giunge all'osservazione con una
malattia già sintomatica. Il primo e tipico sintomo che il paziente avrà sarà la tosse stizzosa non produttiva (cioè
senza catarro), talmente frequente e costante che a lungo andare viene scotomizzata. Tosse, emottisi, dispnea e
febbre sono segni di localizzazione centrale o endobronchiale della neoplasia mentre l'accrescimento periferico
del tumore è in genere associato a dolore da infiltrazione pleurica, tosse, dispnea e febbre da ascessualizzazione.
Manifestazioni cliniche tipiche di uno stadio avanzato e diffuso della malattia, invece sono:
• L'ostruzione tracheale con dispnea.
• La compressione esofagea con disfagia;
• La disfonia da paralisi del nervo ricorrente.
• La paralisi del nervo frenico con dispnea e innalzamento dell'emidiaframma.
• La paralisi del simpatico con la sindrome di Claude Bernard-Horner (enoftalmo, ptosi palpebrale,
miosi e perdita omolaterale della funzione sudoripara).
• La sindrome di Pancoast da infiltrazione dell'VIII nervo cervicale e del I toracico con dolore irradiato
all'arto superiore.
• La sindrome della vena cava superiore con alterazioni del ritmo cardiaco: la compressione invasione
della venca cava causa stasi ematica e anche possibili microtrombi. Si esprime clinicamente con:
congestione ed edema al volto e collo, edema della radice degli arti superiori, circoli collaterali
superficiali e cefalea, sonnolenza, disfagia.
• La presenza di versamento pleurico da ostruzione linfatica: dovuto soprattutto all’adenocarcinoma.
Altra caratteristica clinica di alcuni tumori, in particolare del microcitoma e del carcinoma anaplastico, sono le
sindromi paraneoplastiche, presenti nel 3-10% di tutti i pazienti con k broncogeno sviluppano sindromi

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paraneoplastiche clinicamente evidenti, cioè dei quadri clinici autonomi determinati non direttamente dalla
massa tumorale, ma dalla sintesi da parte di questa di sostanze ormonali o analoghi dotati di attività biologica
che possono causare alterazioni sintomatologiche e bioumorali notevoli e che spesso sono responsabili della
prima espressione clinica del tumore o che ne possono precedere la sua scoperta. Infatti oltre che con la
secrezione di ormoni proteici, le sindromi paraneoplastiche, possono manifestarsi con altri meccanismi quali
l'alterazione del metabolismo periferico degli ormoni steroidei e la produzione di auto-anticorpi, per l'affinità
conformazionale tra antigeni espressi dalle cellule neoplastiche e quelle presenti nelle cellule ormonali. Si
riscontrano:
• Ipercalcemia: dovuta alla secrezione di un peptide simile al paratormone.
• Sindrome di Cushing: per aumento della produzione di ACTH. È la sindrome più comune e si manifesta
con iperglicemia, ipertensione arteriosa sistemica, ipopotassiemia.
• Diabete insipido: per inappropriata secrezione di ormone antidiuretico.
• Acanthosis nigricans: per aumentata produzione di FSH.
• Sindromi neuromuscolari.
• Alterazioni ematologiche: tromboflebiti migranti; endocarditi abatteriche; CID.
• Dita a bacchetta di tamburo.
DIAGNOSI Dopo anamnesi (abitudine al fumo, esposizione a sostanze pericolose sul luogo di lavoro, storia
personale e familiare di cancro), quadro clinico (tosse secca non produttiva che peggiora con il tempo, perdita
dell'appetito, stanchezza, ripetute polmoniti o bronchiti sensazione dolorosa al torace) ed esame obiettivo (tosse,
a volte sangue nell'espettorato, accorciamento del respiro, dispnea sibilante o raucedine, gonfiore del collo o del
viso, manifestazioni da sindromi paraneoplastiche, sindrome mediastinica), bisogna ricorrere agli esami
strumentali: vedi sopra capitolo NPS.
PROGNOSI è più spesso infausta, con sopravvivenza a 5 anni di poco superiore al 10% in soggetti con
diagnosi in stadio metastatico. I parametri di malignità della neoplasia vengono utilizzati come indicatori
prognostici: stadio della malattia, stato generale del paziente (valutato con la determinazione del grado di
autonomia), calo ponderale (espressione dello stato di compromissione generale). la sopravvivenza è buona solo
se il tumore viene escisso nello stadio I (sopravvivenza dell’80%), situazione comunque rara perchè la
sintomatologia è sfumata o assente, per cui è la diagnosi in questo stadio è per lo più casuale o per screening.
Nel resto dei casi la mortalità è oltre il 95%. La malignità del k polmonare è notevole grazie anche alla sede in
cui si trova che è riccamente vascolarizzata e quindi basta un tumore di poche cellule per avere invasione
vascolare e disseminazione nel circolo sistemico, con conseguenti metastasi, che sono quindi precoci e diffuse
in tutti gli organi: encefalo, ossa (le lesioni sono osteolitiche), surrenali (al surrene arrivano solo metastasi da
polmone e melanoma), renali (il rene è un organo resistente e vi attecchiscono solo metastasi polmonari e di
leucemie), cutanee, vescicali, epatiche, intestinali gastriche e spleniche (le metastasi alla milza son sempre
polmonari).
STADIAZIONE nei K non a piccole cellule viene utilizzato il sistema di classificazione TNM (dimensioni
della massa primitiva, linfonodi e metastasi), nelle fasi iniziali si fa la stadiazione clinica non invasiva (cTNM) e
nei pazienti trattati chirurgicamente si può avere anche quella anatomopatologica sul pezzo operatorio (pTNM)
che è il GS.
Per “T” si riconoscono quattro livelli: T1: tumore uguale o inferiore a 3 cm senza interessamento della pleura
viscerale e/o del bronco principale; T2: tumore di dimensioni maggiori a 3 cm oppure di qualunque dimensione
che però sia localizzato a 2 cm dalla carena tracheale, o che coinvolga al pleura viscerale, o provochi atelettasia
polmonare; T3: qualunque dimensione purché infiltri la parete toracica, il diaframma, la pleura medistinica, dia
atelettasia di un intero polmone o sia entro 2 cm dalla carena tracheale; T4: qualunque tumore che invada il
mediastino, il cuore o i grossi vasi, la trachea o il corpo vertebrale, la carena, che presenti noduli multipli in uno
stesso lobo e/o versamento pleurico.
Per “N” si riconoscono quattro livelli: N0: non evidenza di metastasi linfonodali; N1: metastasi a carico dei
linfonodi bronchiali o ilari omolaterali al tumore primitivo; N2: metastasi a carico dei linfonodi mediastinici e
carinali omolaterali; N3: metastasi a carico dei linfonodi ilari, mediastinici e carinali controlaterali o
sovraclaveari.
Per “M” si riconoscono due livelli: M0: non evidenza di metastasi a distanza; M1: presenza di metastasi a
distanza.
La combinazione dei diversi T, N ed M determina la stadiazione, che riconosce 4 stadi principali:
Stadio I: può essere a o b a seconda che il paziente si trovi in T1 o T2 (mentre N e m sono sempre assenti, cioè
N0 e M0). Situazione ideale: la sopravvivenza è elevata ma è difficile cogliere i pz in questo stadio.
Stadio IIa: T1N1M0
Stadio IIb: T2N1M0; T3N0M0
Stadio IIIa: T1N2M0; T2N2M0; T3N1M0
Stadio IIIb: qualsiasi T N3M0; T3N2M0; T4 qualsiasi N M0.
Stadio IV: qualsiasi T, qualsiasi N, M1.
La diffusione ai linfonodi mediastinici omolaterali e intratracheobronchiali (N2) e una distanza della massa di
meno di 2 cm dalla carena (T3) rendono il tumore molto difficilmente operabile. Il trattamento chirurgico è in

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genere riservato a tumori di piccole dimensioni o a più di 2 cm dalla carena (T1 o T2) con assenza di metastasi
linfonodali o comunque limitate alla regione peribronchiale.
Nel caso del microcitoma, vista l'elevata malignità e la conseguente metastatizzazione precoce, si utilizza una
stadiazione molto più semplice basata sulla distinzione tra malattia limitata (confinata a un emitorace e ai
linfonodi regionali omolaterali senza versamento pleurico), e malattia estesa (qualsiasi altra condizione in cui
sono presenti metastasi).
TRATTAMENTO nel microcitoma la terapia varia a seconda che il tumore sia esteso o limitato. Se è limitato
si fa un’associazione di chemioterapia e radioterapia, mentre se è estesa si fanno 5-6 cicli di chemioterapia. Il
trattamento chirurgico non viene quasi mai fatto per il microcitoma perché esso cresce in maniera troppo veloce
ed è molto voluminoso. Negli altri tumori la terapia chirurgica può essere fatta, a meno che il tumore non si
localizzi a livello della carena (cioè in prossimità della trache), dei vasi o dell’ilo polmonare: in questo caso
sarebbe troppo pericoloso operare. In tutti gli altri casi può essere fatto un intervento chirurgico di resezione a
cuneo (se la lesione è piccola), lobectomia o pneumectomia. Questa terapia viene fatta dallo stadio IA allo
stadio 3A (tumore poco esteso – T1 - ma con linfonodi interessati – N2 - e nessuna metastasi –M0) e dallo
stadio 2A all’intervento chirurgico si associa la terapia neoadiuvante, sia chemioterapica che radioterapica, per
ridurre la massa prima dell’intervento. Dallo stadio 3B al 4 non ha più senso fare l’intervento chirurgico perché
c’è interessamento linfonodale e metastasi, per cui la prognosi è infausta.
Da ricordare, oltre a chemioterapia e radioterapia, che può essere di supporto alla chirurgia, oltre alla CT e RT,
anche la terapia fotodinamica, che consiste nella somministrazione di un particolare prodotto chimico che è
rapidamente dismesso dalle cellule normali e più lentamente da quelle neoplastiche che vengono colpite con un
raggio laser che attiva la sostanza con distruzione della cellula.
PREVENZIONE poiché nel momento in cui appare una massa piccola apparentemente insignificante è
presente solitamente già metastasi, risulta molto più difficile rispetto ad altri casi (vedi tumori mammari) fare la
prevenzione secondaria, basata cioè sulla diagnosi precoce. Infatti, nonostante il miglioramento delle tecniche, è
difficilissimo vedere il k in fase iniziale. gli screening che si stanno provando si fanno sui pazienti a rischio
(quindi i fumatori) e consistono in: esame Rx del torace in proiezione postero-angeriore e laterale, e TC spirale
del torace. Si eseguono una volta all’anno.
Altra profilassi, che però non ha avuto gli esiti sperati, è quella primaria, basta cioè sull’eliminazione delle cause
del k. Sebbene esse siano in gran parte sconosciute, i dati statistico-epidemiologici ci dicono che ad avere un
ruolo nell'insorgenza del k del polmone è certamente il fumo di sigaretta.

TUMORI A BASSO GRADO DI MALIGNITA'


Le neoplasie comprese in questa categoria hanno un comportamento maligno, con uno sviluppo infiltrativo
locale che determina solo tardivamente la comparsa di metastasi linfoghiandolari a distanza.
Carcinoide
I tumori carcinoidi rappresentano l'1-5% di tutti i tumori del polmone e l'80% di quelli a basso grado di
malignità. La maggior parte dei pazienti colpiti da questo tipo di tumore ha meno di 40 anni e l'incidenza è
uguale in entrambi i sessi. Il 20-40% circa dei pazienti è rappresentato da non fumatori. I carcinoidi sono
neoplasie epiteliali che vengono sottoclassificati in base alla morfologia in carcinoidi tipici (cellule poliedriche
raccolte uniformemente in gruppi) e atipici (pleomorfismo nucleare, numero più alto di mitosi e maggiore
aggressività). Questi due forme sono dette rispettivamente tipi II di Kultschitsky e tipi I, mentre il tipo III è
rappresentato dal carcinoma neuroendocrino a piccole cellule.
Questi tumori sono definiti a basso grado di malignità perché a crescita lenta (1-2 cm ogni paio di anni) e perché
danno metastasi a distanza solo nel 20% dei casi, soprattutto al fegato, mentre interessano i linfonodi nel 50%
dei casi, ma tardivamente. Sono solitamente asintomatici, a meno che non interessino i bronchi principali, nel
qual caso si esprimono con tosse, emottisi e stridore. Se sono situati perifericamente danno segno di sé solo se
producono l’ormone peptidico attivo. In questo caso causano la sindrome da carcinoide, caratterizzata da:
arrossamenti improvvisi della cute (flush cutaneo) del volto, diarrea e respiro sibilante con crisi asmatiformi,
insufficienza valvolare cardiaca e alterazioni neuropsichiche (lipotimia, sensorio eccitabile). La diagnosi la si fa
come per gli altri tumori con l’aggiunta della scintigrafia total body con octreoide marcato, un analogo della
somatostatina che si lega ai recettori del carcinoma.
Carcinoma adenoido-cistico
Detto cilindroma. È poco frequente e si osserva a tutte le età. La resezione chirurgica comporta una
sopravvivenza del 100% a 5 anni.
Carcinoma muco epidermoide
Si localizza in trache e grossi bronchi ed è formato da elementi squamosi ,intermedi e ghiandolari.

TUMORI BENIGNI
I tumori benigni del polmone sono neoplasie poco frequenti; rappresentano circa l'1% di tutte le neoplasie
polmonari e dell'albero tracheo-bronchiale. Generalmente asintomatici, possono manifestarsi clinicamente
quando hanno localizzazione ilare e determinano segni di compressione od ostruzione delle vie aeree.

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I tumori benigni vengono distinti in periferici e centrali (endobronchiali). La distinzione è legata alla differente
sintomatologia clinica; quelli periferici sono solitamente asintomatici, mentre quelli endobronchiali o a sviluppo
parailare sono talora causa di sintomi da ostruzione bronchiale che ne rivelano la presenza: atelectasia, infezioni
ricorrenti (polmoniti, bronchiti, ascessi), bronchiectasia.
Amartaoma
È la neoplasia benigna di più frequente riscontro, rappresentando circa l'80% di tutte le neoplasie benigne del
polmone. Ha localizzazione prevalentemente periferica ed è costituito da tessuto cartilagineo, cellule
mesenchimali indifferenziate, adipociti e formazioni ghiandolari. Generalmente è singolo e asintomatico con
diagnosi occasionale. Quando giunge all'osservazione clinica si rende necessaria la diagnosi differenziale con il
k polmonare o con la metastasi polmonare. La crescita di questa neoplasia è lenta. Patognomica è la presenza di
grasso nella lesione.
Papilloma
Si sviluppa soprattutto nei bronchitici cronici. Istologicamente è costituito da un asse fibro-vascolare rivestito da
epitelio squamoso; questo lo differenzia dal papilloma infiammatorio che è rivestito da epitelio cilindrico
mucosecernente. All’Rx si vede l’atelettasia che il papilloma causa con la sua sporgenza in lume, oppure si vide
direttamente la lesione.
Adenoma
Si ha nei grossi bronchi. È costituito da tessuto epiteliale respiratorio con interposti tessuto mixoide, mucoide,
condroide.

IDATIDOSI POLMONARE
L’idatidosi è una antropo-zoonosi causata da un parassita, un cestode: l’echinococcus granulosus. Esso svolge il
suo ciclo vitale tra due ospiti, l’ospite definitivo in cui si sviluppa il verme adulto (soprattutto canidi) e l’ospite
intermedio in cui si sviluppa la forma larvale. Sebbene si parli ormai in generale di echinococcosi sarebbe
corretto intendere con questo termine la forma causata dalla forma adulta del cestode, mentre il col termine
idatidosi la forma causata dal metacestode.
CICLO BIOLOGICO L’echinococco è la più piccola tenia di importanza medica. Trascorre la fase adulta
nell’intestino tenue dei cani (come detto questi sono gli ospiti definitivi del cestode), mentre la fase larvale si
sviluppa nei tessuti degli animali erbivori ed occasionalmente anche dell’uomo (ospiti intermedi).
Il cestode adulto è lungo circa 6 mm, ha uno scolice (testa) di forma globosa con quattro ventose, che
permettono l’adesione alle mucose, ed un rostrello munito di uncini disposti in duplice corona; lo strobilo (il
corpo) è generalmente formato da 3 (o 4) proglottidi con apparato genitale ermafrodita. La prima proglottide è
immatura, quasi quadrata, ne segue una matura, più lunga (poco più di 1 mm) che larga, l’ultima è la più grande,
gravida, di forma ovale allungata (2-3 mm), con circa 600 uova. Ogni uova contiene una larva esacanta,
cosiddetta perché dotata di 6 uncini. Nell’ospite definitivo lo scolice aderisce alla parete intestinale ed il verme
fluttua nel lume. Quando le uova sono mature l’ultima proglottide si stacca e le uova sono emesse con le feci
mentre le proglottidi rimaste continuano a maturare fino all’emissione di una proglottide carica di uova. Di
solito è emessa una proglottide ogni settimana ed il verme vive nel cane 8 mesi.
Le uova liberate possono contaminare l’uomo, che funge da ospite intermedio al pari di pecore, capre, mucche,
maiali, cinghiali, anche se è considerato ospite accidentale, in vari modi: egli può infatti entrare a diretto
contatto con animali domestici (cani), che trasportano il cestode nei loro peli, soprattutto nella regione perianale,
oppure che la trasmettono leccando l’uomo e i bambini; oppure ancora l’uomo può ingerire alimenti contaminati
da escrementi di cani, come per esempio acqua o verdure crude sporcate direttamente o per azione del vento, di
insetti, ecc.. il metodo di trasmissione più frequente è però quello ingestione di carne di animali infetti (pecore,
maiali, cavalli, cinghiali, ecc..), che possono contenere le uova ingerite in tutti gli organi, muscoli compresi. Una
volta ingerite, le uova schiudono nel duodeno liberando le larve esacante. Queste penetrano nelle pareti
intestinali del tenue e raggiungono il circolo portale trasportate dal sangue venoso o il circolo linfatico. Il fegato
(per via ematica) ed il polmone (per via linfatica) costituiscono per la migrazione della larva i due principali
filtri, e ciò spiega la frequenza della localizzazione epatica (55-70% dei casi), seguita dalla sede polmonare (15-
34%). Qualora la larva riesca a superare questi organi, può raggiungere attraverso la circolazione sistemica i
muscoli, il rene, la milza, il SNC, il tessuto osseo ed altri organi (in ordine decrescente di frequenza della
localizzazione). Le localizzazioni a livello del SNC e del tessuto osseo, pur meno comuni, rappresentano dei
casi di particolare gravità. Le forme primitive multiple non sono eccezionali (in alcune statistiche raggiungono
un terzo del totale), nello stesso organo (fegato o polmone), o contemporaneamente in fegato, polmone o milza.
Quando la larva si annida nel tessuto che ha raggiunto, si nutre per osmosi di carboidrati (secondo il ciclo dei
pentosi), formando rapidamente una cavità interna che alla fine della prima settimana ha già l’aspetto della cisti
idatidea (idatide). Attorno ad essa si dispongono le cellule reticolo endoteliali dell’ospite, in modo radiale, e si
forma un tessuto fibroso che riveste uniformemente la cisti senza soluzione di continuità con il tessuto
circostante, che sempre più col trascorrere del tempo ed in relazione allo sviluppo della cisti mostrerà segni di
atrofia per compressione meccanica. Dopo cinque mesi la cisti raggiunge la circonferenza di circa 1 centimetro
(ma col tempo può arrivare anche a 20 cm e più) e si presenta formata da tre membrane:

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1. membrana esterna formata da tessuto infiammatorio dell’ospite: è detta pericistio. Questa membrana
fibrosa è costituita da connettivo, fibroblasti, macrofagi, eosinofili.
2. una membrana intermedia stratificata, cuticolare, di natura polisaccaridica, molle, elastica, di colorito
bianco-latte, dovuta al secreto del parassita: è detta membrana chinotosa. Ha la consistenza di una
medusa.
3. una membra interna, detta germinativa o proligera, ricca di cellule germinative: questa è formata dal
parassita vero e proprio che con la sua membrana delimita lo spazio della cisti piena di un liquido
limpido costituito da acqua con disciolti sali minerali, zuccheri, albumina.; da questa membrana
emergono per gemmazione le capsule proligere, che rappresentano la porzione fertile dell’idatide.
All’interno di ciascuna capsula vi sono una dozzina di proto scolici (anche 500000 negli ovini, che sono
un terreno più fertile per il pr0tozoo), dai quali origina il verme adulto.
La cisti aumenta progressivamente di volume fino ad assumere, dopo diversi anni (di solito almeno 5), la
grandezza di un'arancia o della testa di un neonato; la cisti potrebbe divenire ancora più grande nel caso di
localizzazioni in cui la crescita non sia ostacolata, come ad esempio nella cavità addominale e potrebbe
aumentare ancora di più nel caso all’interno di cisti mature si producano nuove cisti, identiche nella struttura
alla ciste primaria, dette cisti figlie o esogene. Nel suo interno la cisti contiene il liquido idatideo, limpido e
incolore, il cui contenuto deriva in parte dall'ospite e in parte dal parassita (sali minerali, creatinina, lecitina,
glicogeno, muco-polisaccaridi e numerose proteine). Il sedimento che si osserva all'interno delle cisti fertili
viene comunemente chiamato sabbia idatidea, ed è costituito da scolici liberi e capsule proligere. Quando un
cane ingerisce i visceri di un animale parassitato le cisti sono digerite ed i protoscolici si attaccano al tenue e si
formano le proglottidi. Dopo 45 giorni compaiono le prime uova nelle feci e si conclude il ciclo del parassita. Se
però la cisti si rompe e gli scolici si versano nella cavità peritoneale o nei vasi sanguigni dell’ospite intermedio,
si distribuiscono nei più svariati organi e possono determinare una echinococcosi secondaria generalizzata, di
solito letale.
EPIDEMIOLOGIA è soprattutto prevalente nelle zone con economia agro-pastorale per la presenza
contemporanea di ospite definitivo ed intermedio. I tassi di frequenza più elevati si registrano in Uruguay,
Bolivia, Cipro, Cile ,Grecia, Algeria. In Italia la Sardegna accumula da sola annualmente il 30% dei casi
registrati in Italia, sebbene stia andando diminuendo con gli anni grazie alle campagne di eradicazione iniziate
negli anni ’80. In Sardegna si ritiene sia diffusa perché l’echinococco compie rapidamente il suo ciclo vitale: La
frequenza in Questo fa si che più facilmente l’echinococco completi, e anche rapidamente, il suo ciclo vitale: il
cane ingerisce le uova dagli ovini,che abbiamo detto sono tra gli ospiti intermedi più fertili, sia per ingestione
delle uova con le feci, sia per ingestione della carne degli animali morti). Si ritiene che il 100% dei cani sia
portatore anche perché spesso si macella in clandestinità e perché anche nei macelli istituzionali, soprattutto un
tempo, si utilizzavano discariche irregolari accessibili ai cani che potevano nutrirsi delle interiora (oggi sono
vietate). Categorie più a rischio sono quindi pastori e agricoltori, ma anche casalinghe e pensionati ( per il
contatto con cani domestici o con verdure non lavate) e cacciatori, per l’abitudine di nutrire i cani da caccia coi
visceri degli animali cacciati.
CLINICA La patologia resta asintomatica finchè la cisti non comprime l’organo in cui si è sviluppata e le
strutture contigue oppure si complica per fissurazione (febbricola, prurito, orticaria, asma), suppurazione, rottura
completa (shock anafilattico). Quando la cisti è localizzata nel fegato causa: dispepsia, senso di peso in
ipocondrio dx, ittero, febbre, prurito. Epatomegalia. Se la cisti è localizzata ai polmoni causa tosse, dolore
toracico, febbricola, emoftoe oppure vomica idatidea.
DIAGNOSI Può essere strumentale con l’ecografo e la TC o di laboratorio con esami ematochimici (aumento
eosinofili), test di ipersensibilità cutanea (intradermoreazione di Casoni: si introducono 0,1 ml di liquido
idatideo e se entro 1ora compare una chiazza eritematosa è positivo) ed esami sierologici: test di Boyden
(emoagglutinazione indiretta), reazione di fissazione del complemento di Gedini-Wenberg, reazione di
precipitazione, Elisa, reazione di immunofluorescenza, test al lattice (screening). Il test di Boyden consiste nel
cimentare su GR di montone trattati con acido tannico e sensibilizzati con liquido cistico col siero del soggetto
in esame; se ci sono Ac specifici si ha una reazione di agglutinazione che si considera positiva se il titolo supera
1:400 di diluizione.
TERAPIA è chirurgica una volta trovata la lesione. Prima è fondamentale la profilassi, che sonsiste in un
trattamento antielmintico dei cani, nel controllo della mattazione, nella lotta al randagismo e nella informazione
alla popolazione generale e soprattutto alle categorie più esposte.

Le cisti di echinococco polmonari


Come detto, le cisti di echinococco possono localizzarsi nel polmone in circa il 20% dei casi e possono essere
uniche o multiple, a carico di un polmone o a carico di entrambi. Le dimensioni delle cisti possono variare da
pochi mm ad alcuni cm di diametro. La sua morfologia è quella esposta sopra (tre membrane). La cisti ha
tendenza all’accrescimento, sino a causare erosione delle strutture adiacenti, con conseguente fistolizzazione del
bronco, che si esprime clinicamente con l’emottisi. Se questo non avviene la cisti può rimanere asintomatica per
tutto il tempo che precede la rottura, anche se talvolta possono essere presenti tosse, emoftoe e dispnea, più

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raramente febbre. Spesso è presente eosinofilia. L’espressione clinica della cisti si ha però sempre al momento
della rottura della stessa; in questo caso si avrà: dispnea, insufficienza respiratoria, alterazioni del ritmo cardiaco
e manifestazioni allergiche. Ma il sintomo patognomonico di rottura della cisti è la vomica idatidea, che consiste
nell’espulsione della membrana cistica dalle vie aeree. La rottura è una complicanza gravissima, potendo
determinare la morte per shock anafilattico ed edema polmonare.
La diagnosi di cisti viene sospettata sulla base delle caratteristiche della cisti alla radiografia o alla TC. Questi
esami, che possono essere fatti in seguito alla sintomatologia lamentata dal paziente, o possono essere esami
occasionali, di routine o per altri ragioni, nel caso in cui il paziente sia astinomatico, mostrano una
neoformazione tondeggiante a margine netto, di aspetto capsulato. Se invece la cisti è rotta, con una
fistolizzazione bronchiale o una rottura nel cavo pleurico si rileva un livello idroaereo dentro la neoformazione
cistica. A ciò si aggiungono i test sierologici visti sopra.
La terapia chirurgica consiste nella exeresi della cisti conservando il parenchima sano circostante il pericistio.
L’exeresi può essere fatta in toracoscopia se la cisti ha dimensioni inferiori a 3 cm e non è in rapporto con l’ilo
polmonare.

TERAPIA CHIRURGICA DELLA TUBERCOLOSI


Con l’avvento dei nuovi farmaci chemioterapici antitubercolari negli anni 60 (etambutolo, rifampicina), diminuì
notevolmente il numero di interventi chirurgici necessari per trattare le complicanze della tubercolosi, che sino a
quell’epoca venivano fatti con metodiche di collassoterapia (vedi dopo), intrapleurica o extrapleurica, volte a
favorire i naturali processi di riparazione del polmone.
Oggi il trattamento della tubercolosi si basa invece sull’impiego di varie combinazioni di farmaci:
streptomicina, isoniazide, pirazinamide, etambutolo e rifampicina. Solo se questa non è sufficiente si interviene
chirurgicamente. Per cui la terapia chirurgica trova indicazione:
-quando ha fallito la terapia antibiotica;
-se le lesioni anatomopatologiche che si sono sviluppate non permettono ai farmaci tubercolari, per qualsiasi via
essi siano somministrati, di raggiungere l’agente infettivo;
- se è presente una distruzione del parenchima polmonare (in questo caso si fa l’exeresi), o sono presenti
caverne, o fistole bronco pleuriche, ecc;
-se sono presenti esiti permanenti lasciati da antichi focolai lasciati all’estinzione; stenosi cicatriziali bronchiali
per esempio (ma vale per qualsiasi organo, quindi anche stenosi degli ureteri, dell’intestino, ecc.., tutti
conseguenti a disseminazione tubercolare);
-raramente per favorire il processo di riparazione cicatriziale polmonare (come in passato): viene fatto
soprattutto con toracoplastiche e non più con collasso terapia;
-se c’è il sospetto di neoplasia su lesione tubercolare.
Nonostante si ricorra molto meno frequentemente all’intervento chirurgico, quando esso viene fatto è molto più
aggressivo rispetto al passato, cioè non ha un’azione indiretta, come nella collassoterapia, in cui si deve favorire
semplicemente la normale riparazione e cicatrizzazione polmonare, ma ha azione diretta, cioè si basa
sull’aggressione della tubercolosi nei suoi focolai distruttivi mediante operazioni di exeresi.
Esistono fondamentalmente tre tipi di intervento:
1. Collassoterapia
Venne introdotta da Forlanini agli inizi del ‘900 e consiste nell’induzione di un pneumotorace terapeutico: se
nella pleura, dove c'è normalmente una pressione negativa, si crea una pressione positiva il polmone collassa e
le caverne tenderanno a chiudersi e ad appiccicarsi; se poi si mantiene una pressione positiva per un certo
periodo si avrà la formazione di una cicatrice che chiuderà definitivamente la caverna. Dopo un certo periodo di
tempo, togliendo la pressione positiva l'aria viene riassorbita e rimarrà una cicatrice lineare. In questo modo
viene eliminata la fonte bacillifera e se per caso qualche bacillo è rimasto, questo risulterà murato vivo. Questa
metodica è ormai abbandonata.
2. Toracoplastica
È preferita alla collassoterapia, sebbene rimanga comunque poco usata perché le si preferisce l’exeresi
polmonare. Consiste nell’induzione di un permanente collasso del parenchima polmonare, soprattutto dell’apice
polmonare (sede più frequente di infezione polmonare), che viene fatto attraverso la resezione di più coste,
solitamente le prime 3-4 coste. Ha l’obbiettivo di liberare il polmone dalle sue connessioni anatomiche con la
parete costale: in questo modo il polmone, non più sospeso alla parete, si raggrinzisce e le cavità (caverne)
presenti in esso si occludono.
3. Resezioni polmonari (exeresi)
Possono essere lobectomia o pneumonectomia, a seconda dell’estensione delle lesioni. L’obiettivo è quello di
eliminare solo la parte malata, conservando una quantità di parenchima sufficiente ad assolvere alla funzione
respiratoria. È fondamentale, prima dell’intervento, compiere ogni sforzo chemioterapico finché non sia
negativo l’espettorato del paziente, perché si è visto che i pazienti con ancora il bacillo nel polmone vanno più
facilmente incontro a complicanze postoperatorie come: fistole bronco-pleuriche ed empiema.

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PATOLOGIA DELL’ADDOME: GENERALITA’
DOLORE ADDOMINALE
La sensazione dolorosa è una reazione a un danno tissutale, finalizzata a rendere il soggetto cosciente di un
processo patologico in atto. Lo stimolo dolorifico è dovuto alla stimolazione di fini terminazioni nervose, infatti
non esistono specifici recettori per il dolore, da parte di stimoli che possono essere:
- chimici: infiammazione, variazioni del PH, ischemia, necrosi
- meccanici: distensione della capsula di organi parenchimatosi, distensione della parete di visceri cavi, trazione
di legamenti e mesi, ecc… Spesso nella genesi del dolore concorrono sia stimoli meccanici che chimici.
Dolore addominale acuto
In rapporto all’origine e alle diverse modalità con cui viene trasmesso si distinguono tre tipi di dolore
addominale:
• dolore parietale: origina dal peritoneo parietale, conseguentemente a stimolazione delle terminazioni
dolorifiche del peritoneo parietale (ad esempio in corso di peritonite). È un dolore epicritico (cioè che
permette una precisa definizione della sede, dell’intensità e della durata), generalmente molto intenso. Il
paziente è tipicamente immobile, in decubito laterale, con le cosce flesse sull’addome per ridurre la
distensione del peritoneo parietale e quindi il dolore. Si associa a contrattura involontaria della parete
addominale e arresto della peristalsi, con occlusione intestinale da ileo paralitico.
• dolore viscerale puro: origina dagli organi addominali nei quali si ha un processo patologico. Può essere
intermittente (colico) o continuo (ischemico). È un dolore di tipo protopatico, scarsamente discriminato,
perciò il paziente lo descrive sulla linea mediana della parete anteriore dell’addome senza riuscire a
indicare un punto ben localizzato, tuttavia, benché venga descritta in modo grossolano, in genere la sede
del dolore viscerale è coerente con la sede anatomica dell’organo. Spesso il dolore viscerale è
accompagnato da un corteo di sintomi neuro-vegetativi (nausea, vomito, tachicardia, tachipnea,
sudorazione) e da irrequietezza psico-motoria. Nella pratica clinica la causa più frequente di dolore
viscerale è lo spasmo della muscolatura liscia dei visceri cavi.
• dolore riferito (viscero-parietale): è un dolore che origina da un viscere addominale sofferente per un
processo patologico, ma che viene percepito dal paziente in tutt’altra sede, incoerente con la sede
anatomica dell’organo, in un territorio superficiale muscolo-cutaneo, anche molto distante dal viscere, a
causa della convergenza a livello midollare delle afferenze viscerali sugli stessi neuroni responsabili
della sensibilità dolorosa superficiale. In presenza di un dolore riferito, la sede del dolore può essere
quindi fuorviante: il dolore della colica biliare viene spesso riferito alla regione sotto-scapolare destra; il
dolore della perforazione di un’ulcera duodenale viene talvolta riferito alla regione sovra-claveare
destra; il dolore della pancreatite acuta viene spesso riferito alla regione dorsale; il dolore uterino viene
talvolta riferito alla regione lombare ecc..
In generale, indipendentemente dal tipo di dolore, le zone superficiali in cui viene percepito il dolore a seguito
di un processo patologico vengono chiamate zone di Head.
CARATTERISTICHE DEL DOLOREall’anamnesi è necessario valutare diversi aspetti del dolore:
- modalità d’insorgenza: la presentazione del sintomo può essere improvvisa (tipico nella perforazione di ulcera
gastro-duodenale), oppure graduale (appendicite, colecistite)
- il tipo di dolore: può essere descritto come trafittivo, gravativo, urente, crampi forme, costrittivo, ecc.. ma
essendo queste caratteristiche difficilmente oggettivabili, sono solo di importanza relativa all’anamnesi, mentre
è molto più importante conoscere se il dolore è continuo (cioè che non presenta fasi di risoluzione ed è più
frequentemente dovuto a infiammazione o ischemia) o intermittente (cioè è un dolore di tipo colico provocato
dallo spasmo di un viscere cavo, come la colecisti, l’intestino, l’uretere, la vescica, ecc..)
- la localizzazione: infatti la localizzazione del dolore ci può far sospettare una patologia piuttosto che un’altra,
ad esempio un dolore in fossa iliaca destra può far sospettare una appendicite, oppure un dolore epigastrico può
essere dovuto a un’ulcera gastrica. - l’evoluzione: ad esempio, in un paziente con occlusione intestinale, la
trasformazione di un dolore colico in continuo è un importante segno di allarme, perché dovuto a una sofferenza
ischemica.
- i sintomi associati: si può avere febbre (sintomo aspecifico), vomito (si accompagna spesso alle crisi
addominali acute. Da un punto di vista patogenetico si possono distinguere 3 tipi di vomito: vomito riflesso, è un
fenomeno neuro-vegetativo che si realizza per le connessioni esistenti tra le vie ascendenti dolorifiche e i nuclei
vagali, vomito da intossicazione e vomito ostruttivo, dovuto ad un ostacolo al transito digestivo che determina
l’accumulo nello stomaco di alimenti, succhi gastrici, biliari e intestinali che portano ad una distensione delle
pareti gastriche responsabile del meccanismo del vomito. Se la sede dell’ostruzione è prossimale alla seconda
porzione duodenale, il vomito sarà trasparente o biancastro; se si trova a livello di porzioni intestinali distali,
sarà inizialmente verdastro, giallastro o fecaloide), alterazione delle funzioni intestinali (ad esempio
un’occlusione intestinale comporta la chiusura dell’alvo, mentre la diarrea con dolori addominali iperperistaltici
può essere sintomo di gastroenterite), disturbi urinari (stranguria e pollachiuria possono suggerire un’infezione
delle vie urinarie).

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ANAMNESIle domande che devono essere poste al paziente sono: dove ha dolore e dove si irradia?quando è
iniziato il dolore?è cominciato gradualmente o improvvisamente?come è cambiato?quanto è intenso?quali altri
sintomi ha?
ESAME OBIETTIVO- ispezione: si deve osservare la conformazione dell’addome, la sua simmetria, la
presenza di distensione addominale, di tumefazioni erniarie, di cicatrici chirurgiche o traumatiche. La
distensione addominale è una condizione in cui l’addome sporge dai piani delle arcate costali e delle ali iliache:
la causa più comune, oltre l’obesità, è il meteorismo, ma può essere anche dovuto a versamento peritoneale o a
masse addominali.
- auscultazione: si valuta l’attività peristaltica e l’eventuale presenza di soffi vascolari che possono essere
suggestivi di un aneurisma. In caso di occlusione intestinale l’auscultazione permette di distinguere l’ilo
meccanico da quello paralitico, infatti nel primo caso sono presenti rumori ad alta frequenza e dei timbri
metallici, mentre nel secondo caso si ha assenza di rumori peristaltici.
- percussione: permette di distinguere la presenza di gas (suono timpanico) da quella di liquidi (ottusità
plessica).
- palpazione: è la fase più importante della semeiotica e il suo obiettivo è quello di ricercare aree di massima
dolorabilità d la conferma o l’esclusione di una peritonite. Va eseguita con la mano posta a piatto sull’addome,
partendo da una zona lontana dalla sede del dolore, infatti la dolorabilità evocata può infatti provocare un
ipertono di tutta la parete addominale, cioè una contrazione volontaria della muscolatura per evitare che la
palpazione esacerbi il dolore. Bisogna invitare il paziente a rilassarsi in modo tale da poter distinguere l’ipertono
muscolare con la contrattura involontaria della parete addominale che è invece segno di peritonite. Inizialmente
deve essere eseguita una palpazione superficiale, per valutare la presenza di dolorabilità e successivamente si
effettua una palpazione profonda per ricercare la presenza di tumefazioni addominali.
Attraverso la palpazione possono inoltre essere ricercati alcuni segni, che si basano sul dolore provocato:
• segno di Blumberg o dolore di rimbalzo: la sua positività è indicativa di una peritonite, spesso seguita da
contrattura involontaria della muscolatura addominale. Il dolore è evocato dall’improvviso rilascio della
pressione esercitata dalla mano esploratrice sulla parete addominale.
• segno di Murphy: è indicativo di colecistite. Si manifesta con comparsa di dolore e arresto inspiratorio
quando la pressione è esercitata sul punto cistico (inserzione del margine laterale del muscolo retto
destro sull’arcata costale). Per eseguirlo si invita il paziente a compiere una inspirazione profonda, così
che il diaframma contraendosi spinge in basso il fegato e la colecisti e quest’ultima, entrando in contatto
con la mano del medico, poiché è infiammata, causa un dolore talmente intenso che non riesce neppure
a completare l’atto inspiratorio.
• segno di McBurney: è indicativo di appendicite. Consiste nell’eseguire la manovra di Blumberg sul
punto appendicolare di McBurney (situato a metà della linea che unisce la spina iliaca antero-superiore
destra alla cicatrice ombelicale). Sempre in caso di appendicite può essere eseguito anche il segno di
Rovsing, che consiste nell’esercitare una certa pressione sulla fossa iliaca sinistra in modo da
comprimere il colon discendente così che l’aria che in esso è contenuta si muove in senso retrogrado
arrivando all’intestino cieco, dove non potendo superare la valvola ileo-cecale causa una stimolazione
dell’appendice.
• segno dell’ileo-psoas: indicativo di flogosi peritoneale in fossa iliaca. Per verificarlo si invita il paziente
(in posizione supina) a flettere sull’addome la coscia destra contro la resistenza opposta dalla mano del
medico; il paziente avverte dolore in fossa iliaca destra a causa dell’infiammazione che interessa il
muscolo ileo-psoas.
• segno dell’otturatorio: indicativo di peritonite endopelvica. Per verificarlo si invita il paziente (in
posizione supina) a flettere la gamba sulla coscia e la coscia sull’addome; la intra-rotazione passiva
(impressa dal medico) arreca al paziente dolore addominale (perché l’infiammazione può interessare
anche il muscolo otturatorio).
I segni di dolorabilità possono essere incostanti o aspecifici, infatti può accadere che il segno di Blumberg sia
negativo nonostante una peritonite in atto o che il segno di McBurney, quasi sempre positivo in caso di
appendicite, sia positivo anche in corso di differenti infiammazioni del quadrante inferiore destro dell’addome.
DIAGNOSIsi esegue necessariamente prima una diagnosi clinica e solo successivamente una diagnosi
strumentale, con la valutazione degli esami di laboratorio (esame emocromocitometrico, ematochimici, esame
delle urine, emogasanalisi) e degli esami radiologici ed ecografici.
TERAPIA il trattamento è volto ad alleviare la sintomatologia dolorosa, attraverso FANS o antispatici, a
curare la patologia di base e a correggere eventuali squilibri idroelettrolitici.
Dolore addominale cronico o dispepsia
Con il termine dispepsia ci si riferisce ad un dolore addominale cronico (o ad un fastidio non doloroso),
continuo o intermittente, che si protrae per più di 3 settimane, localizzato prevalentemente ai quadranti
addominali superiori.
La sintomatologia dolorosa si presenta sempre circa 30 minuti dopo aver mangiato, con una sensazione di
pesantezza nella parte superiore e centrale dell’addome (epigastrio). Questa sensazione è particolarmente
soggettiva, potendo essere descritta da alcuni pazienti come un semplice fastidio, mentre da altri come un dolore

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(in tal caso si può parlare anche di epigastralgia). Spesso il dolore è accompagnato anche da altri sintomi come:
sazietà precoce, senso di ripienezza, gonfiore all’addome superiore, nausea ecc..
Sebbene la dispepsia sia un disturbo piuttosto frequente, non sempre è facile capirne la causa, infatti può essere
legato a cause identificabili, come infezioni, infiammazioni o alterazioni metaboliche, nel qual caso si parla di
dolore addominale organico, ma è anche possibile che la causa non possa essere individuata e in questo caso si
parla di disordine funzionale. Le cause più frequenti di dolore organico sono: la costipazione, le gastriti, l’ulcera
peptica, l’intolleranza al lattosio, la malattia celiaca, le infezioni urinarie, le IBD e nelle donne anche le
patologie ginecologiche.
La definizione di dispepsia funzionale è complessa perché non è legata alla presenza di cause organiche (perciò
agli esami endoscopici non si rilevano alterazioni). Più frequentemente è causata da disturbi psico-sociali, infatti
lo stress può causare alterazioni della motilità gastro-intestinale e una ipersensibilità viscerale. Alcune forme di
dispepsia funzionale sono: dispepsia funzionale reflux-like (caratterizzata da pirosi, acidità e disfagia); dispepsia
funzionale ulcer-like (dolore epigastrico post-prandiale tardivo, bruciori, crampi, fame dolorosa; in genere,
dovuta a iper-secrezione o iper-peristalsi dello stomaco, spesso associata ad ansia e a Helicobacter pylori);
dispepsia funzionale dismotility-like (senso di peso epigastrico post-prandiale; digestione lenta; in genere,
dovuta a ipotonia e a ipo-peristalsi dello stomaco). Quest’ultima forma è espressione della sindrome del colon
irritabile (IBS).

ITTERO DI INTERESSE CHIRURGICO


Si definisce “ittero” la colorazione giallastra della pelle, delle sclere e delle mucose causata dall’eccessivo
innalzamento dei livelli di bilirubina nel sangue.
La bilirubina è un pigmento giallo-rossastro contenuto nella bile e prodotto ogni giorno in quantità di circa 250-
350 mg. Deriva in massima parte (più dell’80%) dal catabolismo dell’emoglobina, cioè dalla distruzione dei
globuli rossi senescenti. Solo una minima parte (meno del 20%) deriva dal catabolismo di emoproteine sieriche
(mioglobina, citocromi, perossidasi, catalasi). L'emoglobina contenuta negli eritrociti viene catabolizzata, con
rottura del suo caratteristico anello protoporfirinico, e l’eme liberato è convertito in biliverdina (intermedio a cui
è stato staccato il ferro e la globina). Sulla biliverdina agisce l’enzima biliverdina-reduttasi, che la trasforma in
bilirubina. La bilirubina formatasi è insolubile, perciò per essere trasportata nel sangue deve legarsi ad una
proteina sierica prodotta dal fegato: l’albumina. Questa forma, detta bilirubina non coniugata o indiretta,
attraverso il circolo ematico arriva al fegato, dove passa dai sinusoidi alle cellule epatiche grazie ad una proteina
epatica, la ligandina, che la capta; infine all’interno degli epatociti si distacca dall’albumina e viene coniugata,
dall’enzima glucoronil trasnferasi, all’acido glucuronico, formando la bilirubina diretta o coniugata (importante
l’identificazione di quale delle due forme di bilirubina è presente in eccesso perché ci dà un’indicazione sulle cause
dell’ittero), la quale è solitamente diglucoronide, sebbene talvolta possa essere monoglucoronide e l’altra acido
glucoronico gli sia aggiunto in seguito da un altro enzima. Così formata, la bilirubina è diventata solubile e
quindi più facilmente eliminabile, per cui viene escreta dall’epatocita con la bile e riversata nell’intestino, a cui
arriva attraverso un sistema di dotti: la bile formata dagli epatociti passa nei dotti intraepatici, che confluiscono
tra loro formando il dotto epatico comune di destra e di sinistra; questi due, a loro volta, percorrono un breve
tratto prima di unirsi nel dotto epatico comune, il quale si dirige verso il basso divenendo dotto coledoco dal
punto in cui in esso si butta il dotto cistico (che porta la bile dalla colecisti, un organo che funge da serbatoio
della bile in attesa del pasto, momento in cui viene espulsa dalla colecisti, percorre a ritroso il dotto cistico e si
immette nel dotto coledoco); infine il dotto coledoco, che ha una lunghezza di circa 6-8 cm, riversa il suo
contenuto nel duodeno, sotto il controllo dello sfintere di Oddi, che si contrae e rilascia a seconda della
situazione, attraverso la papilla del Vater, nella quale si getta anche il dotto pancreatico principale o di Wirsung,
che talvolta non sfocia separatamente nel duodeno ma si unisce alla parte finale del coledoco (da quanto detto
risulta evidente che il duodeno può rappresentare una via di accesso per lo studio endoscopico delle vie biliari,
ma è anche utile per manovre chirurgiche che le riguardano – come a risoluzione di un’eventuale ostruzione
frantumando un calcolo -). Dall’intestino la bilirubina passa nel colon, dove è trasformata in parte in
urobilinogeno e in parte in stercobilinogeno. Il primo è trasformato in urobilina ed espulso dai reni, conferendo
il tipico aspetto giallastro delle urine, il secondo è trasformato in stercobilina ed espulso con le feci, a cui
conferisce il colore.
La bilirubina che si trova nel sangue, diretta e indiretta, è detta totale e deve stare entro limiti abbastanza
contenuti, cioè tra 0,8 e 1,3 mg/dl di plasma . Se il livello è oltre questa soglia (maggiore di 1,5), ma non supera
i 3 mg/dl si parla di sub-ittero, situazione che si rende manifesta clinicamente solo con una iperpigmentazione
delle sclere e che può precedere l’insorgenza di un ittero franco. Questo si ha quando il livello di bilirubina
supera i 3-5 mg/dl, rendendosi clinicamente manifesto con la colorazione giallastra della cute e delle mucose,
sebbene inizialmente ciò sia apprezzabile solo a livello delle sclere e del frenulo linguale. Man mano che
aumenta la bilirubinemia, si arriva all’ittero franco, in cui la anche la cute appare giallastre, le urine si
presentano molto più scure di quelle del soggetto normale (color marsala, cioè marrone) perché c’è aumento
della bilirubina filtrata dal rene, mentre le feci sono acoliche (chiare) perché c’è una riduzione della bilirubina
che arriva nell’intestino.

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L’innalzamento dei livelli di bilirubina oltre 3 è quindi da considerarsi sempre patologico, eccetto una
situazione: l’ittero neonatale. In questo caso l’aumento della bilirubinemia è parafisiologico, tanto che si osserva
in più del 50% dei neonati, perché dovuto ad una aumentata emolisi che avviene nei primi giorni dopo la nascita
e che ha come obiettivo quello di ridurre il livello di Hb nel sangue da 16 (livello fetale) a 11 g/dl, perché nella
vita extrauterina son sufficienti valori più bassi per sopravvivere. L’assestamento dei livelli di bilirubina nel
neonato avviene quindi senza alcun intervento e non causa problemi, se non nei casi in cui la bilirubina supera i
20-25 mg/dl (soprattutto nei pretemine) causando una encefalopatia bilirubinica per la sua tossicità sul SNC.
CLASSIFICAZIONE le cause di ittero si possono inquadrare in tre classi:
1- Ittero pre-epatico o emolitico: in questo caso si ha un aumento della bilirubina per aumentata produzione.
L’aumento è a carico della forma indiretta o non coniugata, ossia di quella che non è ancora transitata nel
fegato. Le cause:
- Emolisi: ad esempio, comune in Sardegna, l’emolisi può essere legata al fatto che il paziente, carente di G6PD,
ha mangiato fave.
- Eritropoiesi inefficace: ad esempio, nel caso della β-talassemia (in cui c’è anche emolisi).
- Ematomi grossolani: se in seguito a un trauma si forma un ematoma, e se la quantità di sangue accumulata
nell’ematoma è tanta, può aversi una condizione di sub-ittero o ittero.
2- Ittero epato-cellulare
In questo caso il problema non è a monte, ma nel fegato, che non è in grado di captare, di coniugare o di
eseguire l’escrezione della bilirubina. In questo caso di solito aumenta la bilirubina indiretta, a meno che il
difetto non sia nell’escrezione, dopo che è già avvenuta la coniugazione. Le cause possono essere congenite o
acquisite.
1. Tra i congeniti sono da ricordare:
- Diminuzione dell’up-take (captazione) della bilirubina da parte del fegato per deficit della ligandina: il
paziente svilupperà allora la sindrome di Gilbert, che è un’iperbilirubinemia benigna in cui i pazienti vivono
benissimo senza bisogno di cure sebbene negli esami ematologici presenti sempre valori di bilirubinemia
intorno a 2 mg/dl.
- Difetto nella coniugazione della bilirubina con acido glucuronico da parte del fegato per deficit della
glucoronil trasnferasi: questi soggetti sviluppano la sindrome di Crigler-Najjar, che causa un ittero severo e
persistente.
- Difetto nell’escrezione della bilirubina da parte del fegato per un difetto nella membrana epatocita ria: il
paziente svilupperà sindrome di Dubin-Johnson o di Rotor.
2. Tra gli itteri acquisiti:
- Uso di farmaci epato-tossici, che alterano il metabolismo della bilirubina.
- Epatiti acute/croniche (necrosi degli epatociti). In questa classe sono comprese le epatiti infettive, come quelle
da virus B e C, e le epatiti tossiche: per esempio diventano itterici i pazienti che mangiano funghi a caso, per
epatite acuta legata alle tossine di alcuni funghi velenosi.
- Cirrosi epatica: riduce uptake, coniugazione, escrezione.
3- Ittero post-epatico o ostruttivo
Questo è l’ittero che ci interessa prendere in considerazione e che approfondiremo.

ITTERO OSTRUTTIVO o POST-EPATICO


Detto anche colestatico perché caratterizzato da una stasi della bile, o chirurgico perché la sua risoluzione è
chirurgica. È una forma di ittero causata da un ostacolo meccanico al deflusso della bile lungo le vie biliari.
Almeno inizialmente, l’aumento di bilirubinemia riguarda la bilirubina diretta (perché il fegato, perfettamente
funzionante, la coniuga normalmente e la secerne nella bile).
EZIOPATOGENESI Quale che si la causa essa agisce in modo tale da causare un aumento della pressione
interna delle vie biliari (normalmente intorno ai 10 cmH2O nel dotto coledoco), fino a che essa non supera la
pressione di secrezione (25 cm cmH2O); in queste condizioni, si verifica una stasi biliare.
Le cause sono molteplici e possono ricondursi a tre classi:
1. Processo espansivo (sono soprattutto tumori, che quindi agiscono per espansione ma anche
compressione):
-carcinoma della testa del pancreas: non raro come si può pensare, è dovuto a compressione del
segmento infraduodenale del dotto coledoco, che quindi causa blocco del deflusso della bile fino
all’ittero, che è infatti in questi casi il sintomo d’esordio del carcinoma;
-carcinoma della papilla duodenale maggiore o di Vater e carcinomi dell’intestino;
-carcinoma dell’ilo del fegato;
-carcinoma delle vie biliari: un tipo particolare fra questi è il tumore di Klatskin, che colpisce le vie
biliari extraepatiche e che si divide in 5 tipi a seconda del grado di interessamento delle vie biliari: tipo I
(dotto epatico comune e confluenza), tipo II (interruzione della comunicazione tra dotti epatici destro e
sinistro), tipo III (fino al dotto epatico destro o fino a quello sinistro), tipo IV (dotti epatici destro e
sinistro), tipo V (fino ai rami minori).
2. Processo compressivo:
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-linfoadenopatie dell’ilo
-metastasi epatiche (il fegato è sede di metastasi di numerosi tipi di tumore);
-cisti di echinococco (idatidosi).
3. Processo infiammatorio:
-calcolosi: è la causa più frequente di ittero. Da ricordare che il semplice calcolo non dà ittero, perché
consente alla bile di defluire normalmente attraverso i dotti; affinché si instauri l’ittero la colelitiasi non
deve essere semplice ma complicata, devono perciò essere presenti altre complicanze quali colecistite,
empiema della colecisti, gangrena della colecisti, ecc…
- papilliti e odditi;
-pancreatiti croniche;
Un’altra classificazione raggruppa le stesse cause viste in: extra-epatiche e intra-epatiche.
Tra le intra-epatiche: idatidosi, colangio-carcinoma intra-epatico, litiasi intraepatica (rara), metastasi epatiche.
Tra le extra-epatiche: litiasi biliare (causa principale), pancreatite, tumore della testa del pancreas, tumore della
papilla di Vater, emo-bilia (presenza di sangue nelle vie biliari, da cause iatrogene o traumatiche), stenosi
(infiammatorie, infettive, iatrogene), tumore di Klatskin (colangiocarcinoma).
CLINICA questi pazienti presentano principalmente 4 alterazioni caratteristiche: sono itterici, hanno urine
più scure, feci chiare e prurito con conseguente grattamento. L’ostruzione biliare causa infatti un reflusso, il
quale determina un maggior passaggio di urobilinogeno nel sangue, il quale va a depositarsi nei vari tessuti,
soprattutto cute, mucose e sclere, dove si accumula rendendosi responsabile della colorazione giallastra di
queste regioni. Il deposito di Sali biliari nella cute causa inoltre prurito, responsabile a sua volta delle lesioni da
grattamento tipiche di questi pazienti. Ancora, la presenza di urine scure si spiega col fatto che l’aumentato
livello di urobilinogeno nel sangue si trasferisce anche al rene, che quindi filtra maggiori quantità di questo
pigmento con conseguente colorazione marsala. Al contrario, le feci appariranno ipocoliche o acoliche perché
non arriva più bile in intestino (e la bile, come detto, colora normalmente le feci).
Infine, altri sintomi, che però appaiono tardivamente e quindi non sono utili nella prima diagnosi, sono quelli da
malassorbimento dovuti al deficit di lipidi e vitamine liposolubili, per la cui digestione la bile è fondamentale.
Valutati i sintomi che il paziente riferisce, si passa all’esame obiettivo, in cui è molto importante per un primo
orientamento diagnostico la “regola” di Courvoisier-Terrier, che dice che:
-l’ittero con colecisti aumentata di volume → cancro (testa del pancreas, coledoco);
-l’Ittero senza colecisti aumentata di volume → litiasi (→ infiammazione cronica della colecisti → no
distensione).
Il concetto è che se la colecisti aumenta di dimensioni, significa che le sue pareti sono ancora elastiche e quindi
il problema non è a livello della colecisti: perciò è probabile che sia stato un cancro a causare un’idrope della
colecisti (accumulo anomalo di trasudato) rendendola palpabile. Invece, se c’è un calcolo, si instaura una
infiammazione cronica, le pareti della colecisti diventano sclerotiche (non più elastiche) e la colecisti non è
palpabile. A questo si aggiungono gli altri sintomi: la colecisti non palpabile dovuta ai calcoli si ha in genere in
persone sui 40-50 anni (più giovani rispetto ai soggetti con colecisti palpabile per il tumore), con stato generale
ben conservato, spesso con episodi di febbre remittente, con dolore localizzato all’ipocondrio destro magari in
rapporto all’assunzione di cibo (brodo di carne e uova sono tra i principali secretagoghi). Questa regola ha però
un’eccezione, perché può accadere che, in presenza di ittero, ci sia una colecisti palpabile senza che ci sia
necessariamente il tumore; ciò accade se alla litiasi delle vie biliari si associa il calcolo nel dotto cistico, che
ostacola il passaggio della bile: la colecisti può andare in idrope e diventare palpabile. Il paziente avrà quindi
ittero e colecisti palpabile, ma per sua fortuna non rispetta la legge di Courvoisier e non ha cancro.
ESAME CLINICO precede la diagnosi strumentale. Si avvale di anamnesi e esame obiettivo. Dà un primo
orientamento.
ANAMNESI. Considera l’eventuale uso o esposizione a certi composti chimici o farmaci (preparati a base di
erbe,rifampicina, probenecid, vitamine,steroidi anabolizzanti). I pz dovrebbero essere attentamente interrogati
circa possibili esposizioni parenterali,comprese trasfusioni, uso endovenoso o endonasale di farmaci, tatuaggi e
attività sessuale. Altre domande importanti riguardano i viaggi recenti,i contatti con persone con
ittero,l’esposizione ad eventuali cibi contaminati, l’esposizione occasionale ad epatotossine, l’assunzione di
alcolici,la durata dell’ittero e la presenza di sintomi di accompagnamento come artralgie, mialgie, rash cutanei,
anoressia, perdita di peso, dolore addominale, febbre, prurito ed eventuali variazioni dell’alvo e della diuresi.
ESAME OBIETTIVO. Valutazione generale con stima dello stato nutrizionale. L’ipotrofia muscolare è
suggestiva di una malattia di lunga durata come il cancro del pancreas o la cirrosi. Segni di malattia epatica
cronica come gli spider nevi, l’eritema palmare, la ginecomastia, il caput medusae, l’ingrossamento della
parotide e l’atrofia testicolare si riscontrano comunemente nella cirrosi alcolica avanzata. L’ingrandimento del
linfonodo di Virckow o la presenza di un nodulo periombelicale devono far pensare a una malattia neoplastica.
Il turgore giugulare,segno di ICC destra,suggerisce una congestione epatica. Una intensa dolorabilità in
ipocondrio destro che interrompe un’inspirazione (segno di Murphy) è suggestivo di colecistite. L’ascite con
ittero deve far pensare o a cirrosi o a una neoplasia con disseminazione peritoneale.
DIAGNOSI Gli esami di laboratorio indicano: iper-bilirubinemia diretta (aumento della bilirubina coniugata
nel plasma); aumento di γ-GT microsomiali e fosfatasi alcaline (segni indicativi di danno biliare e ittero

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ostruttivo), aumento delle transaminasi ALT e AST (segno indicativo di sofferenza epatocitaria; tale aumento,
infatti, è meno rilevante rispetto alle condizioni di ittero medico epato-cellulare). A questo punto devono essere
fatti esami indirizzati verso il sospetto diagnostico (per es. anticorpi contro i virus dell’epatite virale, ecc..).
L’esame strumentale principale è l’ecografia addominale, che mostra generalmente una dilatazione delle vie
biliari (a monte dell’ostruzione); l’assenza di dilatazione orienta la diagnosi verso un ittero medico. La presenza
di un fegato grossolanamente aumentato di volume e nodulare o la chiara evidenza di una massa addominale
devono far pensare a una neoplasia .La colangiografia con mezzo di contrasto è caduta in disuso. quando invece
vogliono essere indagate le cause in modo più specifico si usano altri strumenti (vedi singola patologia).
TERAPIA varia a seconda della causa.

OCCLUSIONE INTESTINALE o ILEO


È una condizione patologica caratterizzata un arresto del transito del contenuto intestinale (liquido, solido o
gassoso) nel suo progredire in direzione cefalo-caudale. In base ad un criterio eziopatogenetico l’occlusione
intestinale si distingue in:
- ileo meccanico: quando il blocco del transito intestinale è dovuto alla presenza di un ostacolo fisico che
occlude, ostruisce, comprime, angola o deforma l’intestino;
- ileo adinamico o paralitico: è invece una forma puramente funzionale, legata cioè a una paralisi della
muscolatura intestinale che rende inefficace l’attività propulsiva.

ILEO MECCANICO
La causa dell’ostruzione meccanica può risiede all’interno del lume stesso (occlusione intraluminale), può
essere legata ad una patologia della parete intestinale (occlusione intramurale), oppure a una patologia estrinseca
che comprime un intestino di per sé normale (occlusione extraintestinale). Una particolare forma di occlusione
extraintestinale è inoltre rappresentata dall’ileo da angolatura.
• Ileo meccanico da occlusione intra-luminale
In questa forma di ileo l’ostruzione è dovuta ad una causa intrinseca al lume intestinale:
- fecalomi: aggregati di feci solidificatesi a causa del ristagno nell’intestino (da stipsi) e della disidratazione e
che si accumulano fino a occludere il lume. La manovra che permette di fare la diagnosi è l’esplorazione rettale
perché consente di valutare la presenza di concrezioni dure nell’ampolla rettale.
- neoformazioni vegetanti: i polipi possono inizialmente causare una sub-occlusione, che si manifesta con
stipsi e successivamente, quando il tumore cresce al punto da ostruire completamente l’intestino, si ha un quadro
di occlusione.
- bezoari: raccolte compresse di materiale indigerito o parzialmente digerito, costituito da peli e capelli (trico-
bezoari) o da fibre vegetali indigeribili (fito-bezoari), che si accumulano nel canale digerente ostruendolo. Sono
condizioni particolari che si presentano soprattutto nei pazienti con turbe psichiatriche che tendono a ingerire
peli o capelli.
- calcoli biliari: una rara forma di ileo meccanico è dovuta al passaggio nel lume intestinale di uno o più calcoli
attraverso una fistola colecisto-enterica.
- meconio: è il normale contenuto intestinale del feto (costituito da secrezioni intestinali, cellule epiteliali
intestinali di desquamazione, liquido amniotico) che normalmente viene espulso nelle prime ore di vita
extrauterina. In particolari condizioni, come nella fibrosi cistica, questo materiale è talmente denso che non
viene espulso ed ostruisce l’intestino del neonato (ileo da meconio).
• Ileo meccanico intra-murale.
In questa forma di ileo l’ostruzione è dovuta ad una riduzione del calibro del lume intestinale per la presenza di
una causa intrinseca alla parete intestinale: malattie infiammatorie intestinali croniche (ad esempio: morbo di
Crohn), radio-terapia (stenosi attinica, da raggi), malformazioni (atresia di un tratto intestinale), diverticolite
stenosante.
• Ileo meccanico da compressione extra-intestinale .
È’ dovuto alla presenza di una massa estrinseca che causa una compressione delle anse. Può essere causata da:
- splenomegalia: la milza ingrossata può comprimere il colon trasverso;
- tumore ovarico di grandi dimensioni: può comprimere il sigma;
- pancreas anulare: anomalia congenita caratterizzata dalla presenza di tessuto pancreatico che circonda il
duodeno con conseguente sua ostruzione.
- aderenze post-operatorie: in seguito a pregressi interventi addominali si può avere la formazione di briglie
aderenziali che possono determinare un’anomala angolazione di un’ansa intestinale con conseguente alterazione
del lume intestinale. Questa particolare forma è detta ileo da angolazione.
- volvolo: è una torsione assiale di un segmento intestinale su se stesso che comporta, oltre al blocco meccanico
del transito intestinale come conseguenza della torsione, lo strozzamento dei vasi che decorrono nel meso
dell’ansa. Inizialmente la compressione interessa solo le vene ma non le arterie che sono più resistenti, cosicché
l’ansa presenta stasi venosa, edema e diventa più scura del normale, tuttavia, a lungo andare anche l’afflusso

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arterioso viene compromesso con conseguente ischemia. Prima che insorga l’ischemia la terapia chirurgica di
de-rotazione dell’ansa garantisce ancora la restitutio ad integrum, se però l’intervento di de-rotazione non è
tempestivo, interviene la necrosi che può condurre alla perforazione dell’ansa. Il volvolo è una condizione
piuttosto frequente e può essere dovuto, come la angolatura, alla presenza di briglie aderenziali post-operatorie.
- intussuscezione intestinale (invaginazione): è una condizione che si realizza quando un segmento intestinale
scivola e penetra all’interno di un segmento contiguo con stiramento del meso e strozzamento dei vasi che in
esso decorrono. Questa patologia è relativamente più frequente nell’età infantile probabilmente a causa della
presenza di pareti intestinali più sottili e di una anomalia della peristalsi che si verifica al cambio
dell’alimentazione dopo lo svezzamento, invece nell’età adulta l’invaginazione può essere favorita dalla
presenza di neoplasie, polipi o diverticoli di Meckel che stimolano la peristalsi. La terapia è chirurgica ed è
rappresentata dalla resezione.
- ernia intestinale strozzata: è una condizione caratterizzata dalla fuoriuscita di un tratto di intestino al di fuori
dell’addome. Una grave complicanza delle ernie è lo strozzamento, che si verifica in presenza di una porta
erniaria molto stretta che impedisce la riduzione spontanea o manuale dell’ernia, con conseguente
strangolamento non soltanto dell’ansa intestinale, con conseguente ileo meccanico, ma anche dei vasi a livello
della porta erniaria.
- laparocele: è un’erniazione delle anse intestinali che si verifica conseguentemente a interventi chirurgici in cui
sia stata aperta la parete addominale (ernia post-laparotomica); in questo caso, la porta erniaria non è
rappresentata da un orifizio o da un canale anatomico pre-esistente, bensì dalla ferita dovuta alla laparotomia,
attraverso cui le anse si fanno strada.
FISIOPATOLOGIAle occlusioni intestinali sono caratterizzate da importanti modificazioni dovute
principalmente ad una distensione delle anse a monte dell’occlusione a causa dell’accumulo dei gas, dei liquidi
e degli elettroliti impossibilitati a superare l’ostacolo e a progredire. Nelle fasi più avanzate dell’occlusione
inoltre l’accumulo dei gas è favorito anche dal loro aumento di volume all’interno del lume intestinale a causa
dell’aumentata crescita batterica, mentre l’accumulo dei liquidi è dovuto alla perdita della capacità di
riassorbimento della parete intestinale che si è dilatata, con conseguente disidratazione dell’organismo, e
all’aumento della loro secrezione.
CLINICAi sintomi più caratteristici dell’occlusione intestinale sono:
- chiusura dell’alvo a feci e gas: nelle fasi iniziali la chiusura dell’alvo può mancare a causa dello svuotamento
dei tratti intestinali distali all’occlusione. Quando l’occlusione non è ancora completa l’alvo può essere diarroico
perché solo le feci semiliquide possono oltrepassare l’ostruzione.
- vomito: le caratteristiche del vomito sono differenti in base alla sede dell’occlusione: quanto più l’occlusione è
alta (piloro, duodeno, digiuno) tanto più il vomito è precoce, costante, continuato e abbondante. In questi casi è
prevalentemente biliare ed è ricco di elettroliti. Quanto più l’occlusione è bassa, tanto più il vomito diventa
meno frequente e più tardivo, di colorito scuro, maleodorante e fecaloide, inoltre è povero di elettroliti.
- dolore addominale: anche per il dolore le caratteristiche sono differenti a seconda della sede dell’occlusione:
nell’occlusione pilorica e duodenale il dolore è intermittente, localizzato nella regione epigastrica e viene più
frequentemente come sensazione dolorosa piuttosto che crampi forme; nell’occlusione della porzione media e
distale del tenue il dolore è crampi forme; nelle occlusioni del colon il dolore è solitamente meno intenso, più
sordo e profondo.
- distensione addominale: è assente o poco significativa nelle occlusioni alte, mentre diventa via via più
importante nelle occlusioni più basse, raggiungendo i massimi livelli nelle forme ostruttive del colon distale. La
distensione si realizza inizialmente nel tratto situato immediatamente a monte dell’occlusione, per poi
propagarsi in direzione craniale e se non si interviene si verifica un progressivo assottigliamento della parete
intestinale, una compressione dei vasi intra-murali con ulteriore sofferenza della parete e, nei casi più gravi, si
può avere perforazione del cieco (perforazione diastasica del cieco), infatti il cieco rappresenta un punto critico
di debolezza perché ha un calibro piuttosto ampio rispetto al resto dell’intestino (per la legge di Laplace, a parità
di pressione interna, la tensione sopportata dalla parete di una struttura cava aumenta all’aumentare del raggio),
per cui una distensione determina precocemente il raggiungimento di elevate tensioni parietali, al punto che può
anche verificarsi una rottura, con conseguente peritonite.
CONSEGUENZEè importante intervenire precocemente in caso di occlusione, infatti questa patologia è
potenzialmente letale a causa delle importanti modificazioni che si possono presentare. Particolarmente
importanti sono le modificazioni dell’equilibrio idroelettrolitico ed acido base che si presentano, soprattutto, in
seguito a vomito per occlusioni alte, a causa della disidratazione e della grave perdita elettrolitica, tanto che si
può arrivare ad una condizione di alcalosi ipo-kaliemica e ipo-cloremica, a cui può conseguire una serie di
problemi, come alterazioni della funzione contrattile dei tessuti muscolari (in primo luogo del cuore). Se non si
interviene il paziente va progressivamente incontro a ipo-volemia, aumento dell’ematocrito, emo-
concentrazione, problemi renali (oliguria, iper-azotemia), ipo-tensione (con tachicardia compensatoria) sino allo
shock ipo-volemico.
COMPLICANZEla più grave complicanza dell’occlusione intestinale è lo strangolamento, cioè una
condizione caratterizzata da sofferenza ischemica dell’ansa intestinale, per compressione del suo peduncolo
vascolare, che può portare ad una necrosi, che va a sommarsi ai problemi legati al blocco del transito intestinale

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già dovuto all’anomalia di natura meccanica. L’ileo da strangolamento (o da strozzamento) può conseguire ad
alcune situazioni che abbiamo già visto: volvolo, invaginazione intestinale, laparocele, ernia strozzata, briglie
aderenziali.
DIAGNOSIsi esegue attraverso l’esame obiettivo e con esami strumentali:
all’esame obbiettivo generale il paziente appare sofferente, ha febbricola e presenta segni si disidratazione e
ipovolemia (cute secca, occhi infossati, diuresi contratta o assente, tachicardia e riduzione della pressione
arteriosa).
All’ispezione dell’addome bisogna ricercare l’eventuale presenza di cicatrici, ernie o laparoceli e di distensione
addominale. Le cicatrici di pregressi interventi di chirurgia addominale possono suggerire la presenza di briglie
aderenziali e orientare la diagnosi verso un ileo meccanico con meccanismo da angolatura oppure da
strangolamento.
Alla palpazione bisogna verificare l’eventuale presenza di dolenzia e dolorabilità. Il paziente occluso riferisce
dolore spontaneo (solitamente una dolenzia), ciononostante l’addome si presenta abbastanza trattabile alla
palpazione nella quale si può evidenziare la distensione delle anse; questo permette di fare diagnosi differenziale
con l’addome acuto causato da peritonite, in cui invece l’addome si presenta rigido come una tavola (a causa
della contrattura della parete addominale) e perciò del tutto intrattabile alla palpazione. Il segno di Blumberg
(dolore vivo evocato dalla brusca rimozione della pressione manuale profonda esercitata sull’addome) è in
genere negativo, ma risulta positivo in caso di occlusione da strangolamento in cui si ha sofferenza dell’ansa.
Alla percussione, si apprezza un suono timpanico diffuso e marcato (simile a quello del tamburo), talvolta con
timbro metallico, per la presenza di una quantità d’aria molto superiore a quella normalmente presente, in caso
di occlusione colica; nelle occlusioni ileali si alternano aree di timpanismo ad aree di ottusità per la presenza di
liquido nelle anse.
Alla percussione e al movimento dell’addome è possibile inoltre apprezzare il rumore del liquido che ristagna
(rumore di guazzamento).
All’auscultazione, i reperti sono differenti in base al momento in cui si visita il paziente occluso: inizialmente, a
causa della iper-peristalsi che l’intestino mette in atto per cercare di forzare l’ostacolo che causa l’occlusione, è
possibile sentire rumori che sono accentuati rispetto alla norma e hanno un timbro metallico, invece
tardivamente (ad esempio dopo 2 giorni) non si apprezza alcun rumore (silenzio auscultatorio), perché
nell’intestino si arresta del tutto la peristalsi a causa degli squilibri elettrolitici che compromettono la funzione
contrattile della tonaca muscolare di tutto l’intestino, perciò se un ileo meccanico viene trascurato evolve in un
ileo paralitico. L’auscultazione è poco significativa in caso di occlusione colica.
Nell’esame obiettivo dell’occlusione intestinale bisogna anche eseguire l’esplorazione rettale, per escludere
l’eventuale presenza di fecalomi. Gli esami strumentali che possono essere eseguiti per la diagnosi sono:
- analisi di laboratorio: si rileva la presenza di aumento dell’ematocrito, aumento dell’azotemia e della
creatininemia, ipocloremia e ipokaliemia, neutrofilia marcata nei casi di sofferenza vascolare, aumento
dell’LDH e CPK (segno di necrosi intestinale), ecc..
- esami strumentali: l’Rx diretto addome rappresenta l’esame radiologico cardine nella diagnostica
dell’occlusione intestinale. Normalmente il gas intestinale è presente nel fondo gastrico (bolla gastrica) e nel
colon. In caso di occlusione si può osservare la presenza di anse distese da liquidi e gas e, in ortostatismo, la
presenza di livelli idroaerei (linee che separano i liquidi, in basso, dal materiale gassoso, in alto), mentre in
clinostatismo si può osservare la presenza della pliche conniventi (pieghe della mucosa intestinale) ravvicinate
circonferenziali, che rappresentano il segno patognomonico dell’ileo meccanico. Le pliche conniventi sono
assenti in caso di sofferenza vascolare e nell’ileo dinamico. Può essere eseguito anche un clisma del tenue
(eseguito inserendo un sondino sino a livello dell’angolo di Treitz e iniettando solfato di bario) per poter fare
una d.d. tra ileo meccanico e dinamico e tra occlusione completa e sub-occlusione, oppure può essere eseguito
un clisma opaco, che permette di evidenziare l’eventuale presenza di neoplasia (stenosi con aspetto a torsolo di
mela), stenosi diverticolare e volvolo (immagine a becco d’uccello). Il clisma opaco può essere anche
terapeutico in caso di volvolo e di invaginazione intestinale pediatrica, ma non deve essere assolutamente
eseguito in caso di sospetta perforazione intestinale e di diastasi del cieco, per evitare il rischio di una peritonite
da bario. Altri esami strumentali son la TC, le ecografie e gli esami endoscopici.
TERAPIA La terapia medica prevede il monitoraggio, la terapia di supporto (per la correzione degli squilibri
degli elettroliti e della volemia), la decompressione intestinale (con sondino naso-gastrico), ma può essere
necessaria anche la terapia chirurgica (in laparotomia) per rimuovere le briglie aderenziali e liberare le anse, per
rimuovere i tratti necrotici, per rimuovere i calcoli ecc.

ILEO PARALITICO (o ileo dinamico o ileo adinamico)


E’ una condizione di occlusione non dovuta a una causa meccanica, bensì a un blocco della peristalsi,
conseguentemente all’attivazione di un riflesso inibitorio intestinale, probabilmente per stimolazione dei
recettori dolorifici del peritoneo, che in condizioni normali è presente ma non prevalente, per cui l’intestino
risulta paralizzato.
L’ileo paralitico si distingue a sua volta in peritoniitco
Questa patologia può essere secondaria a svariate cause: chirurgia addominale, peritonite, sepsi generalizzata,

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squilibri elettrolitici (che causano alterazioni della funzione contrattile della tonaca muscolare dell’intestino),
emorragie retro-peritoneali, traumi vertebrali (per lesioni a livello della colonna che compromettono l’invio
dell’impulso nervoso), evoluzione di un ileo meccanico trascurato (per squilibri elettrolitici).
La più tipica situazione è quella che insorge nel decorso postoperatorio di un intervento che ha comportato
l’apertura della cavità peritoneale, tuttavia questo tipo di occlusione è priva di carattere patologico, anzi è del
tutto normale. A causa dell’ilo, per alcuni giorni dopo l’intervento il paziente presenta una totale chiusura
dell’alvo a feci e gas, per questa ragione, bisogna interrogare sistematicamente il paziente riguardo l’alvo: il
ritorno alla normalità dell’alvo è un segno positivo, perché indica che l’intestino si sta riprendendo dall’ileo
paralitico indotto chirurgicamente.
CLINICAil paziente presente solitamente nausea, a causa della stasi gastrica, e vomito, qualora si alimenti. Il
dolore risulta essere meno intenso e meno localizzato che nell’ostruzione meccanica.
DIAGNOSIall’esame radiografico è possibile osservare la distensione più o meno uniforme delle anse
intestinali e la presenza dei livelli idro-aerei, cioè delle). In condizioni normali, nell’intestino non dovrebbero
esserci livelli idro-aerei, perché i liquidi e i gas defluiscono assieme grazie alla peristalsi, se però si ha un blocco
del transito intestinale il liquido ristagna e il gas si dispone sopra di esso. Nell’ileo paralitico i livelli idro-aerei
sono presenti un po’ in tutto l’addome mentre nell’ileo meccanico sono presenti solo al di sopra dell’ostacolo.
TERAPIAconsiste nella terapia della patologia casuale. La stasi gastrica, che comporta la possibilità vomito e
di aspirazione nell’albero bronchiale, richiede l’impiego di un drenaggio naso-gastrico (che viene sempre
eseguito dopo un intervento chirurgico), mentre gli eventuali squilibri elettrolitici vanno corretti così come per
l’ileo meccanico.

IL SANGUINAMENTO GASTROENTERICO
Le emorragie acute del tubo digerente sono spesso assai gravi e tali da mettere improvvisamente a repentaglio
la vita dal paziente. Anche le emorragie croniche di modesta entità, che si rivelano per la comparsa di anemia e
la presenza di sangue occulto nelle feci, vanno indagate con grande rigore, perché possono preludere a
sanguinamenti massivi e possono essere il sintomo-spia di gravi malattie. Ogni caso di ematemesi, melena o
enterorragia va inizialmente considerato con urgenza.
L´ematemesi e/o la melena possono conseguire infatti a emorragie verificatesi a vario livello: esofageo, gastrico,
epato-biliare, duodenale o intestinale. La quantità di sangue emesso con ematemesi o melena fornisce solo
indicazioni presuntive sulla entità effettiva dell´emorragia e sulla sua sede; il colore del sangue emesso è invece
un indice utile ai fini della localizzazione del sanguinamento. In particolare la comparsa di ematemesi senza
melena è indicativa di emorragia che origina prossimalmente al legamento di Treitz. L´ematemesi è
generalmente un sintomo grave, perché indica una perdita ematica cospicua (in genere > 1000 ml) avvenuta in
un tempo relativamente breve; in molti pazienti la terapia medica è inefficace e per il controllo dell´emorragia si
rende necessario l´intervento chirurgico d´urgenza. L´ematemesi va comunque distinta dal vomito di sangue
deglutito, che può verificarsi in corso di emottisi o in seguito a epistassi massive. 
Un´ematemesi abbondante e di colore rosso vivo indica che l´emorragia è di origine esofagea o gastro-
duodenale e di tale portata da causare il riempimento rapido dello stomaco e la comparsa precoce di vomito,
prima che l´emoglobina possa essere digerita dal succo gastrico. 
Un´emorragia cospicua può accompagnarsi anche ad un rapido passaggio di sangue nell´intestino; ciò induce un
incremento della peristalsi e determina la comparsa di scariche alvine commiste a sangue parzialmente digerito
e che assumono un colore variabile dal rosso scuro al piceo (melena). Un´ematemesi con emissione di vomito
caffeano indica che l´emorragia è sì abbondante, ma che il sanguinamento è piuttosto lento, così da permettere il
ristagno del sangue nello stomaco per un periodo di tempo piuttosto lungo; l´emoglobina, per effetto dell´acido
cloridrico, viene così convertita in emetina ed il colore del sangue vira dal rosso al nerastro. In questi casi
compare di solito anche melena entro qualche ora.
La melena può prodursi in conseguenza di un sanguinamento insorto in qualunque punto del tubo digerente
compreso tra la bocca e il sigma distale, purché il tempo impiegato dal sangue a percorrere il tubo digerente sia
sufficientemente lungo da consentire l´azione del succo gastrico, così da far assumere alle feci il colore piceo e l
´aspetto catramoso. Il 50% delle emorragie esofagee e gastro-duodenali si rende manifesto per la comparsa solo
di melena; si tratta solitamente di emorragie di portata abbastanza modesta, dato che è sufficiente la presenza di
50-100 ml di sangue nell´intestino per produrre l´emissione di feci melaniche.
Se la melena consegue ad emorragie consistenti, con presenza di notevoli quantità di sangue nell´intestino, l
´evacuazione di feci melaniche può protrarsi per 3-4 giorni dopo la cessazione del sanguinamento. Il
riassorbimento intestinale di cataboliti dell´emoglobina può comportare la comparsa di subittero,
iperpotassiemia e modesto rialzo febbrile.
L´enterorragia, cioè l´emissione di sangue rosso vivo dal retto, commisto o meno alle feci, è di solito
indicativa di emorragie insorte distalmente al legamento di Treitz, in genere oltre l´ileo terminale. Le
manifestazioni generali di un´emorragia gastro-intestinale grave dipendono dalla sede e dalla rapidità con cui
avviene la perdita di sangue, nonché dalla frequenza degli episodi emorragici.
Il sanguinamento cronico in genere si rivela solo con segni clinici di anemia e per la presenza di sangue
occulto nelle feci.
48
Nei casi di sanguinamento acuto possono comparire shock ipovolemico e oligo-anuria.

Quando il paziente con emorragia gastro-intestinale giunge all´osservazione, si deve anzitutto valutare la
stabilità delle sue condizioni emodinamiche; si procede quindi all´infusione endovenosa inizialmente di liquidi
plasma expanders e, se necessario, di sangue. Si devono eseguire gli esami siero-ematici atti a valutare l´entità
della perdita ematica, la concentrazione degli elettroliti sierici e la presenza di eventuali deficit della
coagulazione, della funzione epatica e renale. 
Per valutare l´entità delle perdite ematiche e la necessità di emotrasfusioni, si eseguono determinazioni seriate
dell´ematocrito (ogni punto % in meno corrisponde circa a 100 ml persi). L´esame morfologico dei globuli rossi
e la determinazione della sideremia non devono comunque essere trascurati, perché possono fornire indicazioni
riguardo alla natura acuta o cronica del sanguinamento. L´azotemia può risultare elevata, sia per la diminuzione
dell´ultrafiltrazione conseguente all´ipoperfusione renale, sia, soprattutto nel caso di emorragie del primo tratto
del tubo digerente, per il riassorbimento di cataboliti azotati derivanti dalla digestione intestinale del sangue. Nei
pazienti epatopatici può comparire iperammoniemia in conseguenza del riassorbimento intestinale delle
cospicue quantità di ammoniaca derivanti dal catabolismo dell´Hb. 
La terapia rianimatoria fondamentale comprende il trattamento dello shock ipovolemico tramite infusione di
colloidi e sangue intero e la correzione di eventuali turbe elettrolitiche e coagulative. Si deve quindi chiarire la
diagnosi, per meglio indirizzare la terapia. Nell´anamnesi si deve indagare l´eventuale assunzione di alcool e
farmaci gastro-lesivi, la presenza di pregressa patologia gastro-intestinale e di epatopatie croniche. All´esame
obiettivo si deve ricercare l´eventuale presenza di ipertensione portale ed escludere fonti non gastrointestinali di
sanguinamento (emottisi, epistassi massive, ecc.), si devono indagare i segni di diatesi emorragiche, la presenza
di masse addominali palpabili e di malattie potenzialmente in grado di indurre emorragie dell´apparato
digerente. Se si accerta un sanguinamento da varici esofagee si può posizionare la sonda di Sengstaken-
Blakemore (pag. 535) ed iniziare l´infusione endovenosa di somatostatina e pitressina, in attesa della sclerosi
endoscopica delle varici o del loro trattamento chirurgico. Una volta stabilizzate le condizioni si possono
eseguire gli esami strumentali per accertare la sede e la natura dell´emorragia, ed effettuare quindi la terapia
causale.
Per la diversità del quadro sintomatologico, i sanguinamenti del tubo digerente si possono distinguere in due
gruppi: emorragie del primo tratto (da faringe a duodeno compreso) ed emorragie del tratto intermedio-distale
(da digiuno a retto). 

EMORRAGIE DEL PRIMO TRATTO DEL TUBO DIGERENTE


Le cause più frequenti di sanguinamento a questo livello sono l´ulcera duodenale (30%), l´ulcera gastrica (20%),
le varici esofagee (20%), la gastrite acuta erosiva (20%), la sindrome di Mallory-Weiss (5%). Il restante 5% è
rappresentato da: tumori benigni e maligni dell´esofago e dello stomaco, ernia iatale, esofagite peptica,
diverticoli duodenali o della prima ansa digiunale, emobilia. Anche le emopatie primitive (leucemie,
trombocitopenie, emofilia) e acquisite (CID), nonché le vasculiti sistemiche (porpora di Schoenlein-Enoch,
panarterite nodosa) possono causare sanguinamento gastro-intestinale. 
Nei casi in cui si sospetta l´origine gastro-duodenale dell´emorragia, si deve procedere al posizionamento di un
sondino naso-gastrico di grosso calibro, che va lasciato in situ per almeno 12 ore dopo la cessazione dell
´emorragia, al fine di segnalare tempestivamente l´eventuale ripresa del sanguinamento e istituire il trattamento
d´urgenza. 
Se in anamnesi viene riferita ematemesi e all´aspirazione del sondino naso-gastrico si riscontrano sangue rosso
vivo e coaguli freschi, il sanguinamento va considerato ancora in atto; si eseguono quindi ripetuti lavaggi dello
stomaco con soluzione fisiologica fredda per favorire l´emostasi inducendo una vasocostrizione locale; si
instillano procoagulanti ad azione topica, fino ache l´aspirato non risulti privo di sangue. Se l´emorragia cessa o
comunque diminuisce di intensità, si procede immediatamente all´esecuzione dell´endoscopia. Eventualità
molto frequente è quella in cui il paziente giunge all´osservazione riferendo episodi di ematemesi, ma il sondino
naso-gastrico evidenzia la presenza nello stomaco solo di una modesta quantità di liquido caffeano. Ciò indica
che il sanguinamento è cessato; pertanto, dopo lavaggio dello stomaco con soluzione fisiologica fredda, si può
procedere all´esecuzione dell´esame endoscopico. Anche nel sospetto di sanguinamento duodenale va eseguita
rapidamente l´endoscopia. Se il paziente presenta melena senza ematemesi e l´aspirato gastrico evidenzia tracce
di liquido caffeano, bisogna sospettare che la sede del sanguinamento sia a livello duodenale, comunque a
monte del legamento di Treitz. L´assenza di sangue dall´aspirato gastrico non è sufficiente per escludere l
´origine duodenale dell´emorragia. Se l´aspirato è tipicamente di succo gastrico e non contiene sangue, il
sondino naso-gastrico va lasciato in sede fino alla comparsa di aspirato tinto di bile; il sanguinamento duodenale
può infatti indurre uno spasmo pilorico, impedendo al sangue di refluire nello stomaco. Se invece l´aspirato
gastrico fornisce materiale biliare privo di sangue, la sede del sanguinamento è probabilmente distale rispetto al
legamento di Treitz.

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L´esame endoscopico consente di individuare la sede di un sanguinamento del primo tratto del tubo digerente
nell´80% dei casi e permette talvolta un trattamento emostatico: elettrocoagulazione, lasercoagulazione, sclerosi
di varici esofagee, applicazioni alla sede di sanguinamento di colla di fibrina e di ponfi con agenti emostatici.
Se l´endoscopia non fornisce sufficienti delucidazioni riguardo alla sede dell´emorragia (come può succedere in
caso di sanguinamenti massivi, quando la presenza di notevoli quantità di sangue può impedire la visione diretta
della mucosa, oppure quando si sospetta che l´emorragia sia insorta in sede distale rispetto al legamento di
Treitz), e le condizioni generali del paziente si deteriorano per l´impossibilità di controllare l´emorragia con il
trattamento medico, è indicato l´intervento chirurgico d´urgenza.
L´angiografia selettiva del tripode celiaco e dell´arteria mesenterica superiore risulta solo raramente utile per
localizzare la sede di sanguinamento; è difficile che l´esame fornisca indicazioni riguardo alla causa del
sanguinamento, a meno che non si tratti di varici esofagee, aneurismi fissurati o malformazioni vascolari. La
dimostrazione angiografica del sanguinamento richiede infatti un flusso maggiore di 0,5 ml/secondo; poiché
emorragie di questa portata sono di notevole gravità, le condizioni cliniche del paziente spesso impongono
comunque l´esecuzione dell´intervento chirurgico urgente. Nei pazienti inoperabili per la gravità delle
condizioni generali, l´angiografia può talora essere sfruttata con finalità terapeutiche, perché consente l
´infusione distrettuale di vasopressina e l´embolizzazione selettiva dei vasi sanguinanti, con coagulo autologo o
gelatine emostatiche polverizzate (Gelfoam). 
Se l´esame endoscopico dimostra la presenza di varici esofagee sanguinanti bisogna iniziare l´infusione
endovenosa di vasopressina e somatostatina (di efficacia sovrapponibile all´infusione intrarteriosa distrettuale) e
si posiziona la sonda di Sengstaken-Blakemore (Fig. 8.29). Tali manovre servono ad ottenere un´emostasi
temporanea, utile per consentire di riequilibrare le condizioni generali del paziente, di allestire la scleroterapia
endoscopica o preparare l´intervento chirurgico. Il tamponamento con sonda di Sengstaken-Blakemore riesce a
controllare da solo l´emorragia da varici esofagee nel 75% dei casi. Se il sanguinamento cessa, i palloni della
sonda vengono sgonfiati dopo 24 ore e si ritira la sonda dopo 48 ore; l´effettivo arresto dell´emorragia viene
confermato con l´esame endoscopico. Quando si detendono i palloni della sonda, se si ha ancora evidenza di
stillicidio ematico o di emorragia massiva, il paziente va preparato per l´intervento d´urgenza. La scleroterapia
endoscopica delle varici sanguinanti, da alcuni autori indicata come trattamento di prima scelta, permette il
controllo del sanguinamento nell´80% dei casi; la recidiva del sanguinamento nel corso dello stesso ricovero è
del 25%. Se il sanguinamento si arresta, l´endoscopia deve essere ripetuta a distanza di 48 ore e poi ancora 1 o 2
volte a intervalli di 1 settimana, per completare la sclerosi. 
Se l´entità dell´emorragia è notevole, il trattamento conservativo con scleroterapia e terapia medica è inefficace
nel 10-15% dei pazienti. La decisione di ricorrere all´intervento d´urgenza è comunque legata all´entità e alla
durata del sanguinamento, non alla causa di esso. Indicazioni all´intervento sono: grave shock emorragico con
scarsa risposta alla terapia infusionale e rianimatoria; condizioni emodinamiche instabili, mantenute solo a
prezzo di continue trasfusioni. 
Le trasfusioni massive possono infatti condurre all´insorgenza di una CID difficilmente controllabile. Non si
può stabilire a priori per quanto tempo è opportuno insistere con i tentativi di trattamento medico di un
sanguinamento, perché ciò è funzione delle condizioni generali del paziente, oltre che del grado di risposta alla
terapia; a titolo indicativo, comunque, si deve prendere in considerazione il ricorso all´intervento quando il
sanguinamento continua cospicuamente dopo aver trasfuso 8-10 unità di sangue. Dal momento in cui si pone
chiaramente l´indicazione chirurgica d´urgenza, ogni dilazione risulta comunque controproducente e si
accompagna a notevole incremento delle complicanze e della mortalità.n

EMORRAGIE DEL TUBO DIGERENTE INTERMEDIO-DISTALE


Le emorragie del tenue e del colon-retto possono avere eziologia assai varia: infarto mesenterico, malattia di
Crohn, enteriti gravi, retto colite ulcerosa, tumori del colon-retto, diverticolosi del colon, angiodisplasia,
emorroidi, ragadi anali. Cause meno frequenti sono i tumori del tenue, il diverticolo di Meckel, le ulcere
peptiche del tenue, l’invaginazione intestinale, il volvolo, la colite, l’ulcera solitaria del retto, l’e emopatie e la
CID. L´emorragia può rendersi evidente in vari modi:
• con l´evacuazione di feci melaniche, quando essa origina a livello del tenue prossimale e il sangue
permane nell´intestino a lungo prima di essere evacuato;
• per la comparsa di enterorragia (feci commiste a sangue di color rosso vivo), quando essa origina dal
tratto più distale del tubo digerente;
• con la comparsa di anemia ipocromica e sangue occulto nelle feci se il sanguinamento è cronico e di
modesta entità.
L´emorragia cessa spesso spontaneamente e completamente, oppure persiste uno stillicidio ematico. Talvolta,
dopo un periodo di remissione, l´emorragia recidiva con intensità uguale o maggiore rispetto all´episodio di
esordio. Poiché l´entità delle emorragie del tenue e del colon è generalmente modesta, è solitamente possibile
stabilizzare le condizioni del paziente con relativa facilità, e vi è quindi tempo per organizzare gli accertamenti
diagnostici più opportuni. 
La malattia diverticolare, la rettocolite ulcerosa, le lesioni angiodisplastiche e l´infarto mesenterico sono le
principali cause organiche di emorragia, che possono dar luogo alla perdita anche di notevoli quantità di sangue;

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emorragie di entità paragonabile possono verificarsi a causa di coagulopatie, di tossicità da chemioterapici, e di
lesioni da terapia radiante.
I tumori benigni e maligni raramente inducono un sanguinamento imponente; più spesso si manifestano per la
presenza di stillicidio ematico cronico. 
La colite ulcerosa, in particolare, si segnala per le ripetute scariche di diarrea ematica. La colite ischemica, tipica
dei pazienti anziani, può talora insorgere in soggetti giovani diabetici o affetti da lupus eritematoso sistemico o
da altre vasculiti. 
Le emorragie a livello rettale possono essere conseguenza di tumori benigni e maligni del retto, di proctite,
di emorroidi interne, di ragadi, o di introduzione di corpi estranei. La perdita di sangue conseguente a patologia
anorettale è in genere modesta e non pone di solito problemi di diagnosi differenziale. 
Il riscontro di lesioni anorettali sanguinanti non è però sufficiente ad escludere la presenza di altre sedi di
emorragia, che devono essere identificate. In presenza di rettorragia, si deve sempre eseguire l´esplorazione
digitale dell´ampolla rettale e la rettoscopia. Questi esami, che non necessitano di preparazione intestinale,
possono essere sufficienti ad individuare la sede rettale e la causa del sanguinamento, oppure possono indicare
che la causa di emorragia è localizzata più a monte (per es. reperto di feci melaniche all´esplorazione rettale).
In caso di melena si può posizionare un sondino naso-gastrico per verificare che il sangue non provenga da sedi
prossimali al legamento di Treitz. Se si esclude questa possibilità la ricerca della sede di emorragia va eseguita
con la pancolonscopia. Durante la colonscopia è possibile spesso procedere alla biopsia o all´asportazione
endoscopica di lesioni sanguinanti e alla loro elettrocoagulazione o lasercoagulazione. 
L´infusione endovenosa di globuli rossi marcati con tecnezio oppure di tecnezio-sulfocolloidale permette,
attraverso la localizzazione di accumuli di radioattività, di dimostrare se un sanguinamento è ancora in atto e di
valutarne approssimativamente la sede; questa metodica si impiega principalmente per valutare le sedi di
sanguinamento ileali (per es. diverticolo di Meckel). 
L´angiografia selettiva delle arterie mesenteriche è in grado di identificare la sede del sanguinamento solo nel
60% dei casi e viene eseguita raramente. 
Una volta fatta la diagnosi, e dopo aver arrestato o comunque ridotto al minimo il sanguinamento, si instaurerà
la terapia più opportuna, medica o chirurgica, della malattia di base. Il ricorso all´intervento chirurgico è
comunque necessario in caso di sanguinamenti non controllabili con la terapia medica o recidivanti.

PERITONITE
Il peritoneo è una membrana sierosa, di circa 2 m 2 di superficie, molto sottile e quasi trasparente, che si dispone
a rivestire internamente tutta la cavità addominale (foglietto peritoneale parietale) per poi ribaltarsi e rivestire i
visceri addominali (foglietto peritoneale viscerale). Il peritoneo parietale e quello viscerale sono separati solo da
uno spazio virtuale che contiene un film liquido sieroso (circa 50-100 ml) che consente lo scorrimento reciproco
dei due foglietti peritoneali, nonché il movimento degli organi.
Le peritoniti sono infiammazioni del peritoneo. Si possono classificare secondo tre criteri:
• eziopatogenesi
Le peritoniti si possono distinguere in primitive e secondarie; le primitive sono molto rare, mentre più frequenti
sono quelle secondarie, cioè conseguenti a differenti cause, che a loro volta si possono classificare in intra-
peritoneali ed extra-peritoneali. La peritonite si instaura per causa intra-peritoneale quando la flogosi acuta di un
viscere addominale si estende, in seguito a perforazione di un viscere addominale, al peritoneo. Ad esempio:
una colecistite, un ascesso epatico, un ascesso splenico, una perforazione gastrica, una perforazione duodenale,
una appendicite, una diverticolite con perforazione, un infarto intestinale da volvolo, una salpingite ecc. sono
tutti processi flogistici che, se trascurati, possono arrivare a coinvolgere anche il peritoneo.
Le cause extra-peritoneali possono essere legate a:
- diffusione di processi infiammatorio a carico di organi extraperitoneali: ad esempio da ascessi polmonari, per
trasudazione di materiale purulento attraverso il diaframma, oppure da pancreatiti acute (perché il pancreas è un
organo retro-peritoneale),
- da traumi penetranti dell’addome: possono determinare peritonite per contaminazione dall’esterno o per rottura
di visceri addominali,
- da cause iatrogene: ad esempio per complicanze performative a carico dei visceri addominali in seguito ad
esami endoscopici, agio biopsie, manovre di radiologia interventistica (drenaggio percutaneo), rx con m.d.c.,
ecc..
- post-operatorie: per deiscenza di anastomosi o suture intestinali
- da emoperitoneo: può essere dovuto a varie cause (rottura cisti ovarica, gravidanza ectopica, rottura traumatica
della milza, del fegato o dei mesenteri, rottura di un aneurisma aortico.
Sempre da un punto di vista eziopatogenetico le peritoniti si possono anche distinguere in settiche, causate
soprattutto da spandimento del contenuto settico dei visceri intestinali, ad alto contenuto di batteri, nel
peritoneo, e in peritoniti chimiche, causate dal versamento in peritoneo del sangue o delle secrezioni sterili, o
solo parzialmente contaminate, del tubo digerente, ad esempio la bile (si parla in tal caso di coleperitoneo e può
essere conseguente a traumi, a puntura percutanea del fegato o delle vie biliari, a sovra distensione delle vie
biliari ostruite con conseguente filtrazione della bile, a lesione iatrogena), il succo gastro-enterico (a causa di
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perforazione da ulcera peptica o da neoplasia, di traumi o di deiscenze di suture), il succo pancreatico (a causa di
traumi, deiscenze anastomotiche o pancreatiti acute necrotico-emorragiche), l’urina (si parla in tal caso di uro
peritoneo e può essere causato da traumi delle vie urinarie, soprattutto della vescica, la lesioni iatrogene come
cateterismi, o da deiscenze anastomotiche).
Da un punto di vista epidemiologico, le cause più frequenti di peritonite sono: appendicite acuta, perforazione
gastro-duodenale, perforazione colica, colecistite acuta, pancreatite acuta necrotizzante, traumi addominali.
• estensione
L’estensione è condizionata da molti fattori: eziologia, sede della lesione e capacità di difesa dell’organismo. In
base alla diffusione del processo infiammatorio, le peritoniti si possono distinguere in:
- peritoniti diffuse o generalizzate: il processo flogistico è esteso alla maggior parte della cavità addominale.
Può essere la conseguenza di una contaminazione massiva o di un deficit delle capacità di difesa dell’organismo
(immunodepressione)
- peritoniti localizzate o circoscritte: il processo flogistico è arginato dai meccanismi di difesa (reazione
infiammatoria, fagocitosi, reazione fibroblastica, formazione di aderenze).
- pelvi peritonite: è una particolare forma di peritonite localizzata nello scavo pelvico, secondaria ad infezione
dell’utero o degli annessi (salpingite o endometriti da clamidia o gonococco) che si propagano per contiguità al
peritoneo.
• evoluzione
le peritoniti si possono distinguere in acute e croniche. Quasi sempre le peritoniti hanno decorso acuto,
caratterizzato da manifestazioni cliniche che si presentano immediatamente o in poche ore dopo l’evento causale
e che perdurano solitamente per pochi giorni e talvolta, soprattutto per il sopravvenire di uno shock settico o
ipovolemico, possono portare rapidamente a morte. Le peritoniti croniche sono rare e sono rappresentate dalla
forma tubercolare, oggi molto rara, e da alcune peritoniti settiche diffuse cronicizzate che determinano la
formazione di molteplici micro focolai ascessuali con lenta tendenza alla risoluzione spontanea.
FISIOPATOLOGIA gli stimoli irritativi de peritoneo determinano la comparsa di tre tipi di risposta:
- risposta infiammatoria locale: è caratterizzata da iperemia, congestione ed edema del peritoneo con
comparsa di essudato peritoneale, infatti la sierosa peritoneale flogistica diventa permeabile al passaggio
bidirezionale di liquidi, macromolecole, batteri e in parte anche di elementi figurati del sangue. Inizialmente nel
cavo peritoneale si ha la trasudazione di liquido interstiziale e dopo poche ore assume i caratteri dell’essudato
(concentrazione proteica >3g/dl e prova di Rivalta positiva –prova per valutare la concentrazione proteica nei
liquidi organici patologici). Nell’essudato peritoneale sono presenti leucociti, tracce di sangue, detriti cellulari,
proteine e fibrina, a cui talvolta si aggiunge la presenza di batteri e particelle di corpi estranei. L’aspetto
dell’essudato può essere sub-limpido, torbido, emorragico o francamente purulento, a seconda del grado di
infiammazione, dalla presenza di infezione, dalla reattività del paziente e della durata del processo peritonitico.
Il volume del liquido di essudazione può variare da alcune decine di millimetri ad alcuni litri e non è sempre
proporzionale alla gravità della peritonite, ma comunque, in ogni caso, se l’essudato è cospicuo, contribuisce
alla comparsa di ipovolemia e di squilibri emodinamici.
Il liquido essudato si accumula nelle porzioni più declivi e nei recessi del cavo peritoneale, dove può avere
un’evoluzione ascessuale. Tra le anse intestinali, i mesi e i visceri addominali si creano dei ponti di fibrina come
tentativo di arginare la flogosi. La fibrina a sua volta stimola la deposizione di collagene da parte dei fibroblasti,
creando il presupposto per la formazione di aderenze viscerali.
- ileo paralitico o adinamico: è una reazione dell’intestino allo stato di flogosi peritoneale e si manifesta con
arresto della peristalsi, distensione addominale per l’accumulo di aria e di liquidi e alvo chiuso a feci e gas.
Nell’ileo paralitico si ha un ridotto riassorbimento di liquidi dal lume intestinale con conseguente aggravamento
dell’ipovolemia.
- risposta generale dell’organismo: comprende le modificazioni emodinamiche e cardiovascolari, che
avvengono come conseguenza dell’ipovolemia, che si manifestano con tachicardia, diminuzione della PVC e
della gettata cardiaca; modificazioni respiratorie come tachicardia e dispnea per sovra distensione addominale e
riduzione della capacità polmonare; modificazioni endocrine causate da molecole liberate dai monociti-
macrofagi che favoriscono un aumento della secrezione di ACTH e ormoni catabolici (catecolamine,
corticosteroidi e glucagone).
Le alterazioni circolatorie e metaboliche sono caratterizzate da un iniziale stato iperdinamico (aumento della
frequenza cardiaca, della gittata cardiaca, del consumo di ossigeno e della temperatura corporea) che
contribuisce a migliorare la perfusione dei tessuti e può portare a risoluzione del processo infettivo-
infiammatorio. L’evoluzione sfavorevole, in particolare della peritonite settica, è caratterizzata dalla comparsa
di uno stato ipodinamico (diminuzione della gittata e della frequenza cardiaca, ipotensione) che comporta
ipoperfusione tissutale e l’attivazione di un metabolismo anaerobico.
CLINICAIl paziente peritonitico presenta delle caratteristiche che possono suggerire la diagnosi: dolore
addominale, nausea e vomito, tachicardia, ipo-tensione, respirazione frequente e superficiale, occlusione
intestinale (da ileo paralitico), aumento della temperatura differenziale tra ascella e intestino retto, febbre, sete,
oliguria.
Il dolore addominale è spontaneo (dolenzia) e, nelle forme generalizzate, è diffuso a tutti i quadranti addominali

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e contemporaneamente compare una contrattura di difesa di tutta la parete alla palpazione (addome ligneo o a
tavola).
Il paziente appare agitato, visibilmente sofferente (soprattutto se il dolore è intermittente, definito cioè “colico”)
e assume una posizione caratteristica nel tentativo di ridurre il dolore: decubito laterale con le cosce flesse sul
tronco, infatti in questa posizione si riduce la distensione del peritoneo parietale e perciò il dolore. Per quanto
riguarda la modalità di insorgenza, il dolore può comparire improvvisamente (ad esempio in seguito a
perforazione gastrica) o in modo graduale (in caso di infiammazione da appendicite o colecistite). Per quanto
riguarda il tipo di dolore, il paziente lo può descrivere come trafittivo, gravativo, urente, crampi forme,
costrittivo, ma maggiore importanza per il medico è il sapere se il dolore è intermittente oppure continuo, infatti
un dolore intermittente, cioè un dolore di tipo colico, può essere causato dagli spasmi di un viscere cavo
(stomaco, colon, uretere, vescica ecc.), mentre un dolore continuo può far pensare a una sofferenza ischemica o
a un quadro infiammatorio che si è consolidato e non regredisce più.
Il paziente sofferente ha tachipnea con atti respiratori superficiali, che rappresentano un tentativo messo in atto
dal paziente per ridurre il dolore, infatti atti respiratori profondi comporterebbero una maggiore discesa
inspiratoria del diaframma con conseguente compressione dell’addome e aumento del dolore.
A causa dell’ileo paralitico il paziente presenta inoltre nausea e, nel caso di irritazione del peritoneo
diaframmatico, anche singhiozzo. Spesso il pazienta ha anche febbre continua.
Il paziente peritonitico ha un aspetto tipico, definito facies hippocratica, caratterizzato da: volto sudato, pallido
o livido, secchezza delle labbra e della lingua, alitazione delle pinne nasali e bulbi oculari affondati nelle orbite.
DIAGNOSI con l’esame obiettivo l’addome all’ispezione appare disteso, alla palpazione è poco trattabile,
compare il segno della difesa addominale e si ha positività del segno di Blumberg (dolorabilità addominale di
rimbalzo alla palpazione) che conferma lo stato di flogosi peritoneale, alla percussione si ha scomparsa dell’aia
di ottusità epatica per la presenza di gas libero in cavo peritoneale (nel caso di perforazione di un viscere cavo),
all’auscultazione si ha scomparsa dei rumori di peristalsi intestinali.
È sempre opportuno eseguire un’esplorazione rettale, perché, in caso di versamento settico o di emoperitoneo
cospicuo che si raccoglie nel cavo di Douglas, si ha dolore alla palpazione della parete anteriore dell’ampolla
rettale.
Per la diagnosi è importante valutare la presenza di una dissociazione tra la temperatura cutanea e rettale,
infatti, a causa della flogosi peritoneale la temperatura rettale può anche essere 1°C superiore a quella cutanea.
Agli esami di laboratorio si può valutare un aumento dell’ematocrito, legato all’ipovolemia, e un aumento
della glicemia, conseguente all’aumentata secrezione ormonale.
All’esame radiologico è possibile valutare la presenza dei segni di ileo paralitico e l’eventuale presenza di
perforazione viscerale. L’ecografia e la TC possono essere usate per documentare la presenza di raccolte liquide
addominali.
TERAPIAa peritonite rappresenta un’urgenza chirurgica, perciò il paziente deve essere operato
immediatamente, appena viene fatta la diagnosi, nell’arco di qualche ora. L’intervento chirurgico consiste nella
risoluzione della causa della peritonite (ad esempio una perforazione gastrica), nella toilette peritoneale, che
consiste nella rimozione dell’essudato infiammatorio di tipo purulento tramite il lavaggio con acqua ossigenata e
successivamente deve essere posto un sistema di drenaggio per la rimozione del pus che continua a essere
prodotta.

VERSAMENTI PERITONEALI
TRASUDATI ED ESSUDATI ASCITICI
Si intende per ascite una raccolta di liquido sieroso nella cavità peritoneale, prescindendo dal carattere
trasudativo o essudativo (infiammatorio) del liquido. La quantità del liquido può variare da alcuni decilitri (non
dimostrabili clinicamente perché l’esame obiettivo permette di dimostrare la presenza di non meno di 1-2 l in
cavità peritoneale) a 8-10 litri e più. In particolare questo termine è usato per i versamenti importanti, che
possono, col loro volume, alterare la normale forma dell’addome.
CLINICA come appena accennato, le grandi asciti sono tra le cause di massima tumefazione dell’addome, il
quale appare anche proteso verso l’alto quando il paziente è in decubito dorsale perché l’intestino e lo stomaco
sono sospinti contro la parete addominale dal liquido in cui galleggiano. La forma descritta è detta globosa, ed è
tipica del primo periodo, mentre la forma di antica data è detta batraciana, per perdita del tono muscolare con
sfiancamento laterale della parete. Sempre per aumento della pressione in cavità addominale, si può avere una
estroflessione della cicatrice addominale. Un altro reperto abbastanza caratteristico di questa condizione sono i
reticoli venosi ben visibili attraverso la cute assotigliata e distesa della parete addominale. Questi reticoli sono
importanti perché ci danno già alcune informazioni: se sono laterali ci indicano una stasi della vena cava
inferiore determinata da una compressione ascitica, da ostruzione trombotica o dalle due condizioni associate; se
sono disposti a raggiera in sede periombelicale (caput medusae) ci indicano uno scarico anomalo degli affluenti
della vena porta verso la rete della cava inferiore a causa di un’ipertensione portale (tipico della cirrosi).
Alla semplice ispezione si deve aggiungere la palpazione e la percussione, attraverso alcune manovre che
possono darci ulteriori informazioni. In particolare è importante ricercare il segno del fiotto, che è un esame che

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consiste nel poggiare il palmo della mano su un fianco mentre l’altra mano percuote la parete con piccoli urti: se
il versamento è elevato la mano che palpa percepisce una sensazione di fiotto (un’ondetta, una sensazione di
liquido che si avvicina) ad ogni piccolo urto. La percussione può mostrare versamenti di scarsa entità: difatti
quando il paziente giace supino, le parti declivi dei fianchi (occupate dal liquido) formano due zone laterali di
ottusità, mentre permane il timpanismo intestinale nella zona mediana. Inoltre, facendo girare il paziente sui
fianchi, vengono notate le variazioni dei limiti di ottusità plessica in rapporto con lo spostarsi dell’ascite. Questo
esame serve anche a distinguere i versamenti liberi da quelli raccolti in cisti.
DIAGNOSI dopo l’esame obiettivo si ricorre all’indagine strumentale. Lo strumento principale per
diagnosticare e valutare una raccolta liquida del cavo peritoneale è l’ecografia. Per identificare un versamento
liquido peritoneale occorre che esso raggiunga quasi il litro, se invece è di minor entità dovremmo andare a
vedere il cavo di Douglas (400 ml) o la tasca di Morison, tra fegato e rene destro (30 ml).
Una volta accertata la presenza di liquido libero in peritoneo occorre analizzarne la natura fisica: a tale scopo
viene effettuata la paracentesi, che nei casi di versamenti cospicui può anche essere terapeutica, poiché allevia le
difficoltà respiratorie di cui un grande versamento è causa, sollevando il diaframma. La sede di elezione della
paracentesi è il quadrante inferiore sinistro dell’addome, in corrispondenza del punto di mezzo di una linea che
congiunge la spina iliaca antero-superiore all’ombelico. Il liquido prelevato è di colore variabile dal giallo
citrino pallido al giallo piuttosto intenso: nel primo caso si tratta di trasudato, nel secondo di essudato.
CLASSIFICAZIONE
Asciti trasudatizie
Sono conseguenti a varie condizioni che hanno tutte in comune l’ipertensione portale. Le cause principali, che a
seconda dei casi possono portare all’ascite in maniera acuta o progressiva, sono rappresentate dalla patologie
con ostacolo intraepatico alla circolazione portale, come si osserva nella cirrosi atrofica di Morgagni-Laennec,
in cui è presente anche una ridotta pressione oncotica (vedi dopo meccanismi patogenetici) del sangue per grave
ipoalbuminemia (il fegato malato non ne produce a sufficienza), con inversione del rapporto albumine-
globuline.
Tra le cause più rare sono da menzionare l’occlusione delle vene sovra epatiche per trombosi (sindrome di
Cruveilher-Baumgarten), la splenomegalia congestizia (sinonimo per alcuni di sindrome di Banti),la
piletrombosi e le pileflebiti (qeuste sono situazioni di ascite molto grave). Inoltre l’ostacolo alla circolazione
portale può inserirsi nel quadro di una stasi venosa generalizzata per scompenso cardiaco. Un’ascite trasudativa
fa anche parte del quadro anasarcatico a cui conduce la peritonite costrittiva, per impedito deflusso del sangue
attraverso la vena cava inferiore, fortemente compressa al suo termine. Un grosso fegato da stasi è di regola
presente nelle suddette condizioni ascitogene.
Quale che sia la causa, affinchè si formi l’ascite è necessaria la concomitanza di tre fattori: pertensione portale,
ipoprotinemia (e specialmente marcata ipoalbuminemia) e blocco post-sinusoidale. I primi due fattori
s’inseriscono nei fenomeni di secrezione-riassorbimento del liquido intracellulare, regolati dalla legge di
Starling: l’ipertensione portale aumenta la pressione idrostatica di secrezione e l’ipoalbuminemia diminuisce la
pressione oncotica di riassorbimento. Il blocco post-sinusoidale aumenta la produzione di linfa epatica, la quale
si versa nel liquido ascitico per la porzione eccedente la portata massima dei vasi linfatici. Nel blocco pre-
epatico l’ascite è rara se le plasmaproteine non diminuiscono per una complicanza (ad es. la rottura delle varici
esofagee), mentre nella cirrosi l’ascite indica insufficienza epatocellulare. La ritenzione di sodio è conseguente
alla risposta renale alla riduzione del volume circolante mediante l’attivazione del sistema R-A-A, il quale
aumenta appunto il riassorbimento tubulare del sodio; concorre l’aumento dell’attività ortosimpatica, espressa
dagli aumentati livelli plasmatici di noradrenalina e ADH. La ritenzione di acqua è correlata a quella di sodio
nella misura di 200 ml per ogni grammo di sodio.
Ogni ora, fino a metà del suo volume ricircola attraverso il letto capillare sottostante al peritoneo viscerale. Il
riassorbimento netto è inferiore a 700-900 ml al giorno. La sua concentrazione proteica è compresa tra 1 e 2 g%
(può essere maggiore nella sindrome di Budd-Chiari: quadro clinico caratterizzata da ittero, epatomegalia e
splenomegalia, ascite e ipertensione portale, causati da una occlusione della vena epatica, a sua volta dovuta a
trombosi, o ostruzione estrinseca da parte di un tumore, o infezioni, ecc..), le concentrazioni elettrolitiche sono
uguali a quelle del liquido extracellulare ( ad es. la concentrazione di sodio è 140 mEq/l circa). Il potassio totale
(intra ed extracellulare) diminuisce nella cirrosi ascitogena a causa dell’iperaldosteronismo, della riduzione delle
masse muscolari e della perdita di potassio intracellulare. La diuresi diminuisce ed il sodio urinario discende
sino a 5 mEq/die e , talora, ad 1 mEq/die; un paziente con cirrosi ascitogena elimina meno di 35 mEq (0,7 g) di
sodio al giorno, dei quali 10 per via renale e 25 per via extrarenale. Le urine sono ipercromiche e iperosmolari.
La pressione interna al liquido generalmente non supera i 10 mmHg; quando invece ciò avviene (ascite ipertesa)
è necessaria la paracentesi evacuativa.
Ascite essudative
Le asciti essudative sono nella maggior parte dei casi secondarie alla peritonite tubercolare e alla carcinosi
peritoneale. Questa è eccezionalmente primitiva, mentre sono piuttosto comuni le disseminazioni di metastasi
trasportate sulla superficie sierosa dallo stesso liquido endoperitoneale e provenienti da neoplasie di visceri
situati nell’addome (stomaco, intestino, ovaie). È tipica, benché incostante, la tendenza di tali versamenti ad

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assumere carattere emorragico (ascite sieroemorragica). Nel centrifugato del liquido ascitico l’esame citologico
può dimostrare le cellule neoplastiche.
TERAPIA la terapia dell’ascite trasudativa si basa su restrizioni dietetiche (meno di 0,5 g di sodio e di 1l di
acqua al giorno), sui diuretici risparmiatori di potassio (amiloride), se necessario integrati da diuretici con
maggior attività natriuretica (furosemide), e sulle integrazioni di potassio. La paracentesi evacuativa (non più di
5l in un’ora) s’impone nell’ascite ipertesa e nell’ascite voluminosa.
Nell’ascite refrattaria si fa l’ultrafiltrazione dell’ascite con re infusione e si fa lo shunt di LeVeen.

EMOPERITONEO
È un versamento di sangue in cavità addominale.
EZIOLOGIA esistono varie cause, che fanno in modo che gli emoperitonei vengano classificati in: traumatici
(per ferite addominali o per traumi contusivi dell’addome) e spontanei (da rotture patologiche per preesistenti
alterazioni morbose di vasi o di visceri contenuti nell’addome). La maggior frequenza di emoperitonei spontanei
e non traumatici nel sesso femminile è legata alla gravidanza tubarica. Altre cause di emoperitoneo sono nella
donna le rotture di utero gravidico o di cisti ovarica. In entrambi i sessi le rotture un origine frequente di
emoperitoneo è la rottura di milza sia traumatica che per cause morbose. Sono anche degni di menzione le
rotture di aneurismi dell’arteria epatica, splenica e coronarica dello stomacica. Tra le cause più rare di
emoperitoneo spontaneo si trovano gli emangiomi che affiorano sulla sierosa del fegato o di un altro viscere
addominale.
CLINICA nella sintomatologia è importante riconoscere immediatamente i segni dello shock emorragico.
Questo può rivelarsi in un tempo molto breve, talvolta in pochi minuti, e con immediato pericolo di morte; in
altri casi l’emorragia può essere meno intensa o ripetersi ad intervalli, conducendo in poco tempo ad un quadro
di anemia acuta, il cui esordio insidioso può prestarsi a equivoci con altri tipi di collasso cardiocircolatorio. Il
dolore è incostante e varia in rapporto con la sede della lesione e con la distribuzione del versamento
emorragico. La rottura della salpinge per gravidanza extrauterina si annuncia spesso con un violento dolore
addominale irradiato al dorso, immediatamente prima dei sintomi di anemia acuta. Un dolore all’epigastrio e
agli ipocondri con irradiazione alla base del collo può essere indizio di sangue raccolto nella loggia
sopramesocolica (rottura milza o fegato). Poiché negli spazi più declivi, dove il versamento emorragico tende a
raccogliersi, è più intensa la reazione peritoneale, un sintomo di notevole importanza è la viva dolorabilità dello
scavo di Douglas, che si dimostra comprimendo il fornice posteriore col dito introdotto in vagina nella donna e
con l’esplorazione rettale nell’uomo. È tuttavia opportuno non attendere la comparsa del dolore, che può del
tutto mancare anche in presenza di versamenti cospicui, specialmente quando l’intensità dell’emorragia e la
rapida evoluzione dello shock emorragico non lasciano tempo sufficiente al prodursi della reazione peritoneale.
Di raro riscontro è la varietà pseudoperitonitica in cui l’emorragia è piuttosto discreta e, mancando un quadro di
rapido collasso, il paziente giunge all’osservazione clinica a distanza di numerose ore o di alcuni giorni
dall’inizio del sanguinamento, con segni alquanto marcati di reazione peritoneale allo stravaso ematico.
Una raccolta di sangue abbandonata a se stessa può venire riassorbita per l’attività dei macrofagi, che si esercita
sugli eritrociti in via di disfacimento e sugli altri elementi dello stravaso; ma talvolta i coaguli si organizzano
oppure la raccolta si incista e in questo caso parliamo di ematocele, che si osserva come conseguenza di una
gravidanza tubarica, si viene localizzare prevalentemente nello scavo di Douglas, e può regredire con la
cessazione dello stato gravidico per morte dell’embrione, oppure continuare ad ingrandirsi per emorragie
successive; inoltre può suppurarsi e aprirsi negli organi vicini o complicarsi con una peritonite diffusa.

VERSAMENTO BILIARE (COLEPERITONEO)


Le lesioni traumatiche o morbose delle vie biliari causano il versamento di bile in peritoneo con una reazione
infiammatoria immediata, anche in assenza di germi; sono tuttavia comuni le complicanze settiche, sostenute dal
successivo intervento di batteri.
La peritonite biliare può rappresentare una complicanza post-operatoria, per lesioni accidentali di dotti biliari
accessori, o per insufficiente chiusura del cistico dopo colecistectomia, o per deiscenza della sutura coledocica
dopo una coledocotomia. Talvolta la causa può essere una puntura esplorativa del fegato, in pazienti con ittero
colestatico. L’azione irritativa della bile è dovuta in maggior misura ai sali biliari a contatto col peritoneo; i
fenomeni essudativi e la perdita di bile nel cavo addominale conducono in breve tempo ad una ipovolemia, e se
a questo si aggiunge la dilatazione diffusa del territorio degli splancnici, si comprende come il paziente possa
andare incontro ad un shock irreversibile.
All’azione irritativa dei sali biliari è legata soprattutto la peritonite da meconio, che consegue alla perforazione o
alla rottura dell’intestino nel periodo prenatale, in seguito ad una eccessiva distensione causata da un’atresia a
valle. In tali condizioni avviene una reazione fibroblastica intorno al versamento intraperitoneale di meconio,
per cui questo tende a d incistarsi. Il quadro alla nascita può essere quello di un’unica grande raccolta saccata,
che occupando tutto l’addome sospinge di lato o indietro la matassa intestinale. La parete della sacca presenta
delle calcificazioni, perciò è facilmente visibile alla Rx. Oggi la diagnosi prenatale è agevole grazie

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all’ecografia, i segni ecografici sono l’ascite e i focolai intraddominali di addensamento, conseguenti alle
calcificazioni (coni d’ombra).
La mortalità per tale affezione è molto alta e soltanto un tempestivo intevento laparotomico può salvare il
neonato.

VERSAMENTO URINOSO (UROPERITONEO)


Il passaggio di urina in peritoneo avviene per una soluzione di continuo nella parete di un bacinetto o di un
uretere o della vescica, contemporaneamente estese al peritoneo; la condizione più frequente riguarda la vescica
inseguito a traumi. Tali spandimenti sono rapidamente seguiti da un quadro di shock, al quale possono associarsi
il dolore addominale e la contrattura di difesa. Questi segni di reazione peritoneale sono tuttavia di grado molto
variabile e possono del tutto mancare qualora l’urina sia asettica; perciò il sospetto di uro peritoneo deve
insorgere in presenza di un rapido aggravamento dello stato generale con tendenza al collasso cardiocircolatorio,
specialmente dopo traumi del bacino o dopo manovre strumentali sospettabili di aver provocato una rottura della
vescica o di un uretere.
La mancata emissione spontanea di urine non deve indurre ad una precipitosa diagnosi di anuria: difatti la
presenza nella vescica di qualche goccia di urina sanguinolenta, dimostrabile con semplice cateterismo, basta
talvolta ad indirizzare verso una corretta diagnosi. I classici segni clinici di uro peritoneo, se rendono evidenti
soltanto in presenza di raccolte molto cospicue; ma assai prima che questo avvenga può già essere in piena
evoluzione un quadro minaccioso di ipovolemia, seguito dal terminale collasso vasomotorio.

VERSAMENTO CHILOSO (CHILOPERITONEO)


Si parla di ascite chilosa per indicare un versamento endoperitoneale di chilo.
EZIOLOGIA varia, nella maggioranza dei casi è dovuta ad un ostruzione neoplastica (linfomi) all’origine del
dotto toracico, in altri casi è dovuta ad una compressione del dotto (tumori pancreatici), in altri ancora a rottura
traumatica del dotto toracico o di un collettore chilifero. Il chilo peritoneo può essere secondario anche alla
filariasi e alla tubercolosi. Altra causa relativamente frequente è il difetto del sistema di trasporto linfatico
mesenterico intestinale. Infine si parla di ascite chilosa idiopatica per indicare i casi ad eziologia sconosciuta,
che si manifestano con graduale tumefazione dell’addome, senza dolore e senza reazione di tipo infiammatorio.
Anche l’ascite da cirrosi epatica talvolta può assumere un carattere chiloso. Le condizioni del paziente possono
mantenersi per qualche tempo discrete, sebbene il rapido riformarsi del versamento dopo ogni paracentesi
conduca alla lunga ad uno stato di cachessia. La prognosi di queste forme è aggravata dalla difficoltà ad
individuare e chiudere la fistola.
Col termine di chiloperitoneo acuto sono indicati i casi in cui l’inizio del versamento è annunciato da disturbi
improvvisi, con carattere di peritonite attenuata. Dopo uno sforzo o una contusione addominale o un abbondante
pasto grasso, ma il più delle volte senza una causa dimostrabile, l’addome si fa dolente con discreta difesa,
modica reazione febbrile e talvolta leucocitosi. Il dolore è solitamente riferito al medio addome e spesso alla
regione iliaca destra: ciò spiega come in una gran parte dei casi venga posta la diagnosi di appendicite. La
prognosi del chiloperitoneo acuto spontaneo è di regola favorevole, poiché la fistola chilosa tende
spontaneamente a chiudersi.
Il chiloperitoneo traumatico può prodursi quando l’interruzione interessa il dotto toracico nella sua porzione
subdiaframmatica oppure la cisterna chyli, ma può anche darsi che lo spandimento avvenga per la rottura di un
vaso chilifero alla radice del mesentere; questa interruzione può avvenire per una ferita penetrante o inseguito ad
un intervento chirurgico con una lesione accidentale, ma più propriamente si parla di rottura traumatica allorché
la lesione del dotto è l’effetto di un trauma chiuso dell’addome. Il periodo di latenza più volte notato dal
momento del trauma alla comparsa del chiloperitoneo si spiega con l’iniziale formazione di una raccolta chilosa
retro peritoneale, che in un secondo tempo può versarsi nella grande cavità dell’addome per macerazione e
perforazione del peritoneo parietale posteriore. Tale meccanismo è in tutto simile a quello già descritto, per cui
la rottura del dotto toracico nella sua porzione sopradiaframmatica dà origine inizialmente ad una raccolta
saccata retro pleurica e poi al chilotorace, per secondaria rottura della pleura parietale o mediastinica.
Il chiloperitoneo e il chilotorace possono trovarsi associati se la raccolta saccata consecutiva alla rottura del
dotto toracico ha il tempo di estendersi dal mediastino posteriore allo spazio retro peritoneale, finché si rompono
contemporaneamente o in rapida successione la pleura e il peritoneo.
Si parla di ascite pseudochilosa quando si hanno versamenti biancastri simili al chilo ma non confondibili con
questo, come nella carcinosi peritoneale
CLINICA riconoscere la rottura del vaso linfatico nella fase di latenza che precede la comparsa del
versamento è estremamente complicato: spesso si presenta con un ileo paralitico con dolore addominale
profondo e tendenza al collasso, ma questa sintomatologia è comune anche a traumi contusivi dell’addome
senza rottura del dotto toracico. Il versamento può essere preannunciato da una crisi dolorosa con quadro di
shock.
DIAGNOSI viene posta tramite la paracentesi addominale che dimostra la presenza di un liquido lattescente,
l’aspetto lattescente viene conferito al chilo dai grassi alimentari finemente emulsionati.

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La rottura può essere evidenziata mediante linfangiografia. A tale scopo conviene incannulare un vaso linfatico
del primo spazio interdigitale in ciascuno dei due piedi e iniettare simultaneamente in ciascun lato 20cc di
lipiodol ultrafluido. Questa metodica è ormai assai limitata per i danni che può causare all’epitelio linfatico.
Vengono utilizzate anche l’ecografia, la laparoscopia, la toracoscopia.
EVOLUZIONE in alcuni casi lo spandimento cessa spontaneamente per obliterazione sclerocicatriziale del
vaso nella sede della rottura. Si tratta tuttavia di una lenta evoluzione, durante la quale possono intervenire
complicanze diverse.
I grandi versamenti compromettono inevitabilmente lo stato generale in quanto c’è grande dispersione di
linfociti.
TERAPIA consiste nella legatura del dotto toracico che è ben sopportata poiché permette la formazione dei
circoli collaterali; la parte più delicata dell’operazione consiste nel reperimento della rottura (perciò si può fare
una linfoangiografia pre-operatoria).per la via di accesso conviene nella maggior parte dei casi una
toracolombotomia sinistra nel letto dell’XI costa, oppure nell’XI spazio intercostale. Importante è anche una
terapia dietetica con trigliceridi a catena media che vengono direttamente assorbiti per via portale anziché
linfatica.

PARETE ADDOMINALE E DIAFRAMMA


ERNIE DELLA PARETE ADDOMINALE
Parlando di ernie addominali non prenderemo in considerazione le ernie interne (non ci interessano).
Questa patologia è molto semplice da studiare perché, al contrario di quanto avviene per altre patologie, in cui è
importante conoscere il protocollo diagnostico prima ancora che saper fare diagnosi, in questo caso la diagnosi
la si fa di solito semplicemente con l’esame obiettivo, e solo in particolari condizioni si ricorre a indagini
strumentali come la TC (per es. da poco in un paziente con dispnea ingravescente che era diventata molto grave
e in cui si sospettavano patologie respiratorie, si è arrivati alla diagnosi con la TC, che ha dimostrato la presenza
di un’ernia interna diaframmatica; comunque questi sono casi estremi).
DEFINIZIONE Per ernia si intende la migrazione di un viscere addominale oltre i limiti fisiologici
rappresentanti dalla parete addominale (quindi verso l’esterno), attraverso una porta erniaria. La porta erniaria
può essere dovuta a una zona di debolezza della parete o a una lacerazione o soluzione di continuo della parete
addominale; in alcuni casi può anche essere congenita, cioè dovuta ad una incompleta formazione della parete
addominale. Se lasciate a se alcune ernie possono raggiungere anche dimensioni notevoli.
EPIDEMIOLOGIA L’importanza di questa patologia sta nella sua grande diffusione. Le ernie colpiscono
infatti il 5% della popolazione generale e l’8-10 % di quella maschile. Questo comporta una grossa spesa, basti
pensare che negli USA ogni anno vengono eseguiti 500.000 interventi di ernioplastica (in paesi come gli Stati
Uniti questo rappresenta un business, infatti i principali metodi utilizzati sono nati qui, ma da noi rappresenta
una spesa per lo stato). 1/5 di tutti gli interventi sono fatti per ernie recidive, cioè ernie che tendono a
ripresentarsi dopo intervento chirurgico, ma questo dato si sta modificando per l’avvento di nuove e più efficaci
tecniche di ricostruzione della parete addominale (che vedremo dopo).
CLASSIFICAZIONE esistono varie classificazioni. La principale, già intravista, si basa sulla eziologia e
distingue:
---ernie congenite.
---ernie acquisite. Queste possono essere a loro volta:
• spontanee: sono la maggior parte;
• post-traumatiche: dovute a un traumatismo della parete addominale che ne determina la debolezza
prima e la lacerazione in seguito, con conseguente fuoriuscita del viscere e formazione dell’ernia;
• di origine iatrogena: generalmente postoperatorie, prendono il nome di laparocele.
Un’altra classificazione tiene conto della sede in cui si formano le ernie, o meglio della sede della porta
erniaria, perché può esserci la migrazione del viscere dalla sede di formazione (per esempio addome),
verso un’altra sede (per esempio scroto), per cui per classificarle si considera l’orifizio in cui si
formano:
• Ernie Inguinali e crurali (o femorali) che sono in assoluto le più frequenti,
• Ernie epigastriche, (lungo la linea mediana nella regione epigastrica sopra ombelico)
• Ernie ombelicali, a ridosso della cicatrice ombelicale
• Ernie lombari otturatorie ed interstiziali che sono rarissime,
• Laparoceli: sono le ernie di origine iatrogena.
Altre ancora sono molto più rare: e rnie lombari, ernie ischiatica, ernie perineali, ernie
otturatorie, ernia di von Spiegel, ernie interne dell’addome.
MORFOLOGIA L’ernia ha tre elementi essenziali che sono:
• il colletto, è il segmento prossimale e ristretto del sacco situato a livello della porta
erniaria. È il punto dove solitamente avvengono le complicanze principali.

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• il corpo erniario che è la porzione slargata più grande. È la porzione intermedia che occupa il tragitto
erniari. Il corpo erniario contiene generalmente un viscere, di solito l’omento, ma può essere anche
l’intestino tenue o crasso o un qualsiasi altro viscere, ad esclusione del pancreas che non ernia
praticamente mai.
• il fondo dell’ernia che è la parte espansa terminale e più distale dell’ernia.
Inoltre quando il viscere migra dalla cavità addominale verso l’esterno si porta appresso il peritoneo parietale, il
quale va a formare il cosiddetto sacco erniario, che è il rivestimento che generalmente ha l’ernia: esso è molto
importante perchè è essenziale nel trattamento dell’ernia e nella comprensione di quasi tutte le complicanze
erniarie. EVOLUZIONE l’ernia nasce sempre come una lesione molto piccola che va incontro a un
progressivo ingrandimento nel tempo. Ciò può non avvenire esclusivamente per piccole ernie congenite, che
possono regredire spontaneamente: stiamo parlando di ernie ombelicali del neonato, che si manifestano durante
il pianto del bambino perché la parete non è perfettamente chiusa ma poi scompaiono perché la parete finisce di
formarsi. Per tutte le altre ernie l’evoluzione consiste però nel continuo ingrandimento, che rappresenta dunque
il primo problema dell’ernia, perché le dimensioni dell’ernia possono portare a gravi complicanze.
COMPLICANZE a dispetto della patologia, che non viene considerata tra quelle molto gravi, le sue
complicanze non sono da sottovalutare, perchè talvolta possono necessitare un trattamento di urgenza o di
emergenza. La maggior parte delle complicanze trovano il primum movens nel colletto erniario. Esse sono:
- Strozzamento (va trattato dal chirurgo).
- L’intasamento (deve essere saputa trattare anche in guardia medica).
- L’irriducibilità (deve essere saputa trattare anche in guardia medica).
- Complicanze flogistiche.
- Complicanze traumatiche.
Lo strozzamento. Complicanza dovuta alla presenza di un orletto troppo stretto. Infatti parliamo di strozzamento
quando c’è una costrizione serrata dell’intestino o anche dell’epiploon o di un altro viscere nel sacco erniario.
Questo è clinicamente caratterizzato da:
• Ostruzione del transito. Questa è la caratteristica essenziale dello strozzamento: se c’è un‘ansa
intestinale chiusa nel colletto erniario la prima cosa che succede è l’impossibilità al transito intestinale,
tanto è vero che lo strozzamento erniario è una delle cause più frequenti di ileo meccanico, cioè di
arresto meccanico al movimento del contenuto intestinale.
• Disturbi circolatori del viscere strozzato. Il viscere porta con se il suo peduncolo vascolare, il quale se
rimane incarcerato nel colletto determina per prima cosa un edema dell’ansa erniata o della porzione
erniata (l’edema è dovuto al fatto che la struttura vascolare che per prima soffre dello strozzamento è la
struttura venosa, poiché ha una parete morbida e quindi più facilmente collassabile, per cui prima di
tutto si ha un ingorgo venoso con edema a valle), dopodiché quest’edema determina una costrizione
sempre più serrata del peduncolo vascolare e quindi una sofferenza questa volta arteriosa, secondaria
all’edema, che comporta il secondo problema: la necrosi ischemica del tessuto erniato, con conseguente
gangrena ischemica che può essere causa di peritonite, perché con la gangrena l’intestino necrotico si
perfora e viene emesso all’esterno il suo contenuto, per cui la peritonite è la logica conseguenza di
questa patologia.
Lo strozzamento può essere di due tipi: il più frequente è lo strozzamento dell’ansa
libera (a), cioè dell’ansa solo all’interno del sacco erniario. Esiste però anche uno
strozzamento, detto retrogrado (b). Questo può aversi quando l’ernia è molto
voluminosa, per cui son presenti delle anse migrate nel sacco erniario e delle anse
all’interno della parete addominale, ma col peduncolo vascolare incarcerato nella
porta erniaria: ciò causerà uno strozzamento retrogrado con immediata peritonite,
perché questo viscere si perfora direttamente all’interno della cavità peritoneale, per
cui è evidente che la peritonite in questo caso è più precoce.
L’ernie di piccole dimensione vanno più facilmente incontro allo strozzamento perché
il colletto è più piccolo. Queste ernie sono soprattutto quelle crurali, perché fisicamente il colletto è più piccolo
e perché c’è meno spazio affinchè l’ernia si ingrandisca, per cui c’è poco passaggio di viscere ed è molto più
probabile che esso (solitamente intestino tenue o epiploon – detto anche borsa omentale, non è altro che un
ripiegamento del peritoneo -, raramente il colon che è molto più grande), vada incontro a strozzamento.
I sintomi immediati di questa situazione sono l’irriducibilità (l’ernia è riducibile quando il paziente la rimette
dentro da solo oppure essa rientra in sede da sola quando il paziente si sdraia) e il dolore locale. L’irriducibilità
può aversi anche quando ancora l’ernia non è strozzata, ma si sta intasando e quindi si blocca: il fatto che l’ernia
non si riduce è il primo segno di una complicanza, e se noi riusciamo in qualche modo a risolverlo eviteremo le
successive complicanze. Il dolore è la conseguenza della irriducibilità ed è irradiato in epigastrio.
L’evoluzione di questa situazione si caratterizza inizialmente per la presenza di crisi sub occlusive (cioè il
paziente va di corpo con difficoltà rispetto alla sua routine) e in seguito per la peritonite (per le cause già dette).
Un particolare tipo di complicanza dello strozzamento è l’ernia di Richter, frequente nelle ernie crurali della
donna. In questo caso non è tutto il viscere a migrare all’interno dell’ernia ma solamente la porzione esterna
della parete mesenterica dell’intestino, che viene pizzicata nel colletto erniario (cioè l’ansa è risucchiata

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all’interno del colletto e poi “pinzata”). Alla fine di questo processo si formerà un ematoma della parete, piccolo
all’inizio ma via via sempre più importante, che può portare alla necrosi ischemica del tessuto erniato e
conseguente perforazione. Nell’ernia di Richter non c’è occlusione franca perché il canale intestinale è tutto
sommato libero visto che solo una piccola parte della parete è interessata dall’ernia, perciò l’evoluzione è
subdola, cioè il paziente può non presentare sintomi occlusivi per molto tempo o addirittura può anche avere un
transito aumentato, con crisi diarroiche per sofferenza peritoneale.
L’intasamento. È una fase più precoce rispetto allo strozzamento: il contenuto del viscere (soprattutto feci) si
blocca all’interno dell’ernia e non riesce ad andare ne avanti ne indietro, per cui il paziente inizia ad avere delle
crisi sub occlusive, ma può arrivare anche all’occlusione franca. L’ernia si ingrandisce e non è più riducibile, il
transito alimentare si blocca e l’evoluzione comporta, se non trattata, perforazione con successiva peritonite. In
questo caso a essere interessate sono le ernie ombelicali più voluminose, perché per fare intasare il viscere
occorre che ci sia abbastanza matassa intestinale all’interno dell’ernia. Tutti i sifoni che si formano in questa
erniazione ovviamente sono una delle cause o la principale dell’intasamento stesso. Se un paziente è già stitico
oppure abusa di lassativi è più probabile che l’intasamento si verifichi perché il transito è già di per se rallentato.
Ad andare incontro a questi fenomeni sono le ernie inguinali o ombelicali più voluminose. Fattori predisponenti
sono: stipsi cronica, uso di lassativi, sesso maschile e età avanzata.
Da questa fase di intasamento si passa all’incarceramento del viscere, che precede lo strozzamento e se ne
distingue solo per il fatto che nell’incarceramento non c’è ischemia, presente nello strozzamento.
Irriducibilità. In questa situazione, al contrario di quanto avveniva inizialmente, il paziente prova dolore e non
riesce più a ridurre l’ernia, che si è fatta più voluminosa. Sebbene non sia riducibile clinicamente, il medico può
comunque ridurla con manovre attente che un qualsiasi medico, non solo chirurgo, dovrebbe saper fare. L’ernia
può essere ridotta con delicatezza (non troppa se no non rientrerà mai) e precisione allo stesso tempo.
Fondamentale è fare un’analgesia al paziente (che ha già dolori di suo e quindi non sopporterebbe la manovra) e
dargli anche qualcosa che gli consenta di essere rilassato anche dal punto di vista muscolare (benzodiazepine per
esempio). Poi si esegue la manovra: il paziente va posto sdraiato su un supporto rigido (lettino) con le gambe
flesse, possibilmente appoggiate; a questo punto l’ernia va ridotta partendo dal colletto, mantenendola serrata
nella mani in modo che non scappi, perché comunque è una cosa abbastanza morbida, cercando di premere
innanzitutto la parte che sta più vicina al colletto perché se si preme dal fondo dell’ernia si determina
un’incarcerazione sempre più difficile da ridurre. Generalmente quando l’ernia inizia a rientrare si riesce a
ridurla tutta, il problema sta nel far passare il primo pezzo mentre quando si sblocca poi si riesce a farla passare
tranquillamente. È ovvio che questa manovra ha delle complicanze: peggiora la situazione se l’ernia non si
riduce, e soprattutto può peggiorarla se la manovra è irruenta perché il viscere, già in tensione, si può perforare.
Una volta ridotta l’ernia il paziente viene portato in sala operatoria dove l’intervento deve essere immediato, sia
che il paziente sia cardiopatico o scompensato, ecc.. Quanto detto vale per le ernie non riducibili dal paziente
stesso, mentre se son riducibili non c’è urgenza di intervento chirurgico.
L’irriducibilità è più frequente nelle ernie inguinali, mentre in quelle ombelicali è più rara ma può aversi nei
pazienti che non hanno una semplice ernia ombelicale ma hanno un’ernia ombelicale dovuta ad ascite
importante: questo perché la pressione addominale è talmente importante che non si riesce effettivamente a
ridurre l’ernia; si tratta spesso di ernie inveterate, in cui c’è solitamente un meccanismo flogistico, dovuto al
continuo passaggio del viscere attraverso la porta erniaria, che porta a ridimensionamento del calibro della porta
erniaria, che a sua volta determina un blocco dell’ernia all’esterno dell’addome (si dice che le anse o il
contenuto dell’ernia hanno perso il diritto di domicilio in addome, cioè non riescono più a rientrare in addome).
Altre ernie a rischio di irriducibilità sono quelle di vecchia data.
Se l’ernia è molto voluminosa la sua riduzione in termini molto brevi può portare a dei disturbi respiratori,
perché appena i visceri tornano in addome il diaframma si solleva e perde la sua capacità di escursione,
causando anche disturbi respiratori importanti. Inoltre si può determinare una compressione sui vasi, soprattutto
sulla vena cava, con conseguente ridotto ritorno venoso al cuore e tutto ciò che ne consegue.
Comparsa di flogosi: può essere dovuta, come già detto, al continuo passaggio del viscere attraverso la porta
erniaria, oppure può essere dovuta all’uso del cinto erniario, una imbragatura usata 50 anni fa per tenere l’ernia
ridotta, obbiettivo che persegue comprimendo l’ernia e tenendola chiusa all’interno dell’addome stesso tenendo
tappato l’orifizio da cui l’ernia fuoriesce: questo però causa un traumatismo continuo della parete addominale
con conseguente flogosi e conseguente formazione di aderenze (il paziente trattato con cinto è uno dei più
difficili da operare – soprattutto nei soggetti anziani, anche di 110 anni, documentati, o di soggetti con problemi
cardiologici, dato che l’intervento richiede solo un’anestesia locale ed è molto semplice - perché a causa delle
aderenze non si capisce nulla della sua patologia, essendo l’anatomia dell’ernia completamente alterata). La
flogosi, quale che sia la causa, può portare a epiploite, cioè infiammazione dell’epiploon, visto che non solo le
anse ma anche l’omento può migrare attraverso la porta erniaria per poi andare incontro a flogosi con
formazione di aderenze e, talvolta, ascessualizzazione, che comunque è molto rara perché generalmente il
contenuto è sterile a meno che non ci sia una perforazione. Altra complicanza flogistica è la peritonite erniaria,
solitamente dovuta o alla perforazione del viscere oppure a casi in cui a essere migrati insieme all’ernia sono
l’appendice o il diverticolo di Meckel, residuo embrionale del sacco vitellino che si forma a una distanza
compresa tra 20 e 80 cm dalla valvola ileociecale e dall’intestino tenue: questo è un diverticolo vero che può

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presentare al suo interno delle isole di mucosa gastrica con produzione di acido cloridrico che sulla parete
dell’intestino tenue adiacente può determinare ulcera e quindi perforazione: per cui causa, rara ma possibile, di
peritonite del sacco erniario può essere la perforazione del diverticolo di Meckel.
Altre complicanze, ovvie, sono quelle traumatiche: se un viscere è ricoperto solo da cute e va incontro a trauma
(stradale, di gioco) è evidente che verrà direttamente sottoposto a una forza che può determinare la rottura e
quindi la progressione verso la peritonite.

ERNIE INGUINALI
CENNI DI ANATOMIA La regione inguinale, triangolare, è delimitata dal margine laterale del m. retto
dell’addome, da una linea orizzontale immaginaria tesa tra spina iliaca e margine laterale del retto dell’addome
e, in basso, da una linea obliqua tesa tra il tubercolo pubico e la spina iliaca anterosuperiore. Questa linea
proietta sulla cute la struttura anatomica che corrisponde al legamento inguinale, fondamentale, perché sulla
base di essa si possono distinguere le ernie: infatti traccia il confine tra la regione inguinale, addominale, e
un'area inferiore, alla radice della coscia, che prende il nome di regione crurale, sede, a sua volta, di una porta
responsabile della formazione delle ernie crurali (ricorda che per distinguere un’ernia inguinale da un’ernia
crurale bisogna vedere se la porta erniaria si trova al di sopra o al di sotto della linea di Malgaigne, che
congiunge idealmente spina iliaca anteriore e tubercolo pubico: per fare ciò bisogna esplorare più
profondamente perché può capitare che un’ernia che sembra essere crurale, in realtà si dimostri inguinale perché
all’esplorazione la porta erniaria è al di sopra della linea di Malgaigne).
I legamento inguinale è importante perché può essere responsabile di particolari ernie: intorno al settimo mese
assume la sua forma definitiva e consente al testicolo, fino al quel momento contenuto all'interno della cavità
addominale, la discesa in basso e verso l'esterno, nello scroto. Nel corso di questa migrazione il testicolo spinge
davanti a sè il peritoneo che forma una estroflessione, il dotto peritoneo vaginale, che percorre il canale
inguinale. In questo momento, pertanto, esiste una comunicazione tra cavità addominale e scroto. Una volta
completata la discesa del testicolo il dotto, che non ha più ragione di esistere, va incontro a obliterazione e
scompare mentre la sua parte distale, quella attorno al testicolo, rimane fornendogli la tonaca vaginale propria.
Se alla nascita la obliterazione è assente o incompleta il dotto resta pervio e rappresenta la soluzione di continuo
nella quale possono penetrare i visceri mobili dando luogo alla formazione delle ernie inguinali congenite.
Altro aspetto fondamentale da sapere è che nella regione inguinale passa il canale inguinale, parallelo al
decorso del legamento inguinale; il canale inguinale non è altro che un tunnel muscolo-aponeurotico che
attraversa la regione inguinale con direzione obliqua, in basso e anteromedialmente e dall’interno verso
l’esterno. Esso nell’uomo ospita il funicolo spermatico, costituito dal dotto deferente e dal fascio vascolare
spermatico, mentre nella donna ospita il legamento rotondo: questa differenza è fondamentale dal punto di vista
chirurgico poiché mentre si deve prestare grande attenzione a non lesionare queste strutture nell’intervento di
ernia nel maschio, nel soggetto femminile non ha nessuna importanza, anzi talvolta la prima cosa che si fa è
sezionare il legamento rotondo per ampliare il campo e rendere più agevole l’intervento (altre strutture che
passano nel canale sono: arteria deferenziale, arteria spermatica interna, arteria spermatica esterna, sistema
venoso posteriore, sistema venoso anteriore, sistema linfatico del testicolo, e rami genitali di nervo ileo-
ipogastrico, ileo-inguinale e genito-femorale).
Il canale inguinale è formato da quattro pareti e due orifizi:
• parete anteriore: è costituita dal muscolo obliquo esterno e dalla sua aponevrosi.
• parete inferiore: è formata dalla faccia superiore del legamento inguinale.
• parete superiore: è formata dal margine inferiore del muscolo obliquo interno e del muscolo trasverso
fusi insieme a formare il tendine congiunto.
• parete posteriore: è costituita dalla fascia transversalis rinforzata:
o lateralmente dal legamento interfoveolare di Hesselbach
o medialmente dal tendine congiunto e dal legamento riflesso del Colles
o in basso dal legamento di Henle, che a sua volta è fuso con il legamento di Cooper
I due orifizi:
• orifizio interno o anello inguinale profondo: è localizzato più o meno a metà del legamento inguinale
ed è costituito da un’apertura ovalare della fascia trasversalis rinforzata medialmente dal legamento di
Hesselbach;
• orifizio esterno o anello inguinale superficiale:è localizzato lateralmente al tubercolo pubico ed è
limitato da tre pilastri (due anteriori e uno posteriore, dovuti alle inserzioni dell’aponeurosi del muscolo
grande obliquo sul tubercolo pubico).
Per capire le ernie inguinali è fondamentale immaginare la parete addominale anche dall’interno.
Dall’ombelico partono tre strutture importanti: i vasi epigastrici (arteria epigastrica destra e sinistra, che dal
basso si portano in alto e lateralmente, verso l’ombelico), il residuo dell’arteria ombelicale(detto legamento
ombelicale laterale, che sale dalle regioni laterali della vescica verso l’ombelico) e il residuo dell’uraco (detto
legamento ombelicale medio). Queste tre strutture formano tre avvallamenti, chiamate fossette peritoneali, che
hanno una grande importanza perché rappresentano delle aree di debolezza nelle quale è più facile che si formi
l’ernia, che a seconda delle fossette saranno di varietà diversa. Le fossette sono:

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• fossetta interna posta tra il legamento ombelicale mediano ed il legamento ombelicale laterale. Essa
corrisponde all’orifizio inguinale interno ed è la sede più frequente di ernie. L’ernia che si fa strada in
questo punto è detta ernia obliqua esterna.
• fossetta mediana posta tra il legamento ombelicale laterale e l'arteria epigastrica inferiore. Essa
corrisponde a quella zona della parete posteriore del canale inguinale che essendo costituita solo dalla
fascia trasversale è più debole. È sede dell’ernia diretta.
• fossetta laterale posta lateralmente alla arteria epigastrica. Vi si forma l’ernia obliqua interna, più rara.
EPIDEMIOLOGIA le ernie che si estrinsecano nella regione inguinale sono le ernie più frequenti,
rappresentando il 90% di tutte le ernie che giungono all’osservazione del medico. Hanno due picchi particolari
di incidenza: uno, relativamente basso, in età pediatrica, e l’altro, più importante, in età avanzata. In realtà sono
però presenti in maniera abbastanza ben distribuita lungo tutto l’età adulta, ma col deteriorarsi delle strutture
muscolari dovuto all’avanzare dell’età, nell’anziano diventano più frequenti. Sono inoltre più frequenti nel sesso
maschile (di 5 volte rispetto al sesso femminile).
EZIOLOGIA le ernie possono essere di due tipi:
• Congenite: abbiamo detto che la funzione del canale inguinale è quella di permettere la migrazione
delle gonadi, che si formano in addome, verso lo scroto. Questa migrazione avviene attraverso il dotto
peritoneo vaginale, il rivestimento peritoneale che consente al testicolo di migrare e che poi, a ridosso
del testicolo stesso, forma la tonaca vaginale mentre il resto si oblitera. Se questa obliterazione non
avviene il dotto rimane pervio e quindi rimane una comunicazione tra l’interno dell’addome e lo scroto
(che può essere completa o parziale a seconda del grado di obliterazione del dotto). Se quindi c’è questa
comunicazione evidentemente si potrà formare un’ernia, che è congenita perché dovuta a un difetto
congenito del soggetto. Questa ernia è quella che usualmente si trova nel bambino (ernie acquisite non
sono invece presenti nel bambino, e vedremo il perché) anche se, è da ricordare, non è esclusiva del
bambino poiché il difetto può manifestarsi anche in età avanzata. L’ernia inguinale congenita è sempre
di tipo obliquo esterno, cioè origina sempre dalla fossetta esterna. Raramente recidiva.
• Acquisite:compaiono in età adulta e non sono dovute a un difetto di tipo congenito, anche se possono
essere comunque di tipo obliquo esterno. Si individuano fattori predisponenti:
1. Anatomici: sono dovuti alla debolezza intrinseca della parete muscolare.
2. Aumento della pressione endoaddominale, che spinge in qualche modo verso l’esterno,
attraverso zone di debolezza, i visceri endoaddominali (di solito il grande omento e anse
intestinali, raramente altre strutture – mai il pancreas). L’aumento della pressione
endoaddominale può essere dovuta allo sforzo (sollevando una pietra o spostando un mobile)
unito alla flaccidità dei muscoli, a un trauma della parete addominale che può causare
debolezza, a tosse cronica (in un soggetto enfisematoso che sta sempre a tossire può
determinarsi un improvviso aumento della pressione endoaddominale, che può sfiancare le zone
di debolezza congenite e quindi infine causare formazione di ernie), a disturbi gastrointestinali,
soprattutto stipsi cronica (se un paziente si sforza tanto per spingere all’esterno le feci e
soprattutto se questo sforzo avviene in maniera sbagliato, cioè scaricando le forze non sul
perineo ma sulla parete addominale anteriore, si favorisce la formazione di ernie).
Infine una caratteristica tipica delle acquisite è la presenza del sacco erniario, il quale si forma perché,
attraverso l’orifizio erniario, il peritoneo parietale viene spinto verso l’esterno, dando luogo a questa
struttura sacciforme che contiene l’ernia stessa. Questa è tipica delle acquisite, mentre le congenite
invece non lo presentano e la comunicazione tra interno dell’addome e la sede dove si forma l’ernia è
diretta: vi si trova solo un pseudosacco formato dal dotto peritoneo-vaginale (talvolta nelle acquisite il
sacco è incompleto ma questo non ci interessa).
CLASSIFICAZIONE come accennato, esistono tre diversi tipi di ernia, obliqua esterna, ernia diretta e obliqua
interna, distinte fra loro in base al punto di impegno del viscere nel canale inguinale.
• Ernia obliqua esterna: si estrinseca a livello della fossetta inguinale esterna. Rappresenta il 60% delle ernie
inguinali. Più frequenti nel sesso maschile, possono essere congenite e acquisite.
Le possiamo anche distinguere in base a quanto impegnano il canale inguinale in:
- Punta d’ernia: variante più modesta che si ha quando il viscere si impegna nel canale inguinale ma
non lo percorre. È valutabile solo attraverso l’esame clinico del paziente (mentre l’ernia inguino-
scrotale si diagnostica alla semplice ispezione del paziente.
- L’ernia interstiziale: l’ernia percorre il canale inguinale ma non fuoriesce dal canale orifiziale.
- Ernia inguino-pubica: c’è impegno completo di tutto il canale inguinale fino a emergere
dall’orifizio esterno o superficiale
- Ernia inguino-scrotale: sono quelle ernie enormi, di cui abbiamo finora parlato, che impegnano il
canale inguinale fino al sacco scrotale. Questo si può ingrandire notevolmente verso il basso (ci
sono casi documentati di uomini con ernie che protrudevano in basso, sotto lo scroto, per più di
mezzo metro).
• Diretta: è dovuta a uno sfondamento diretto della parete posteriore del canale inguinale attraverso la
fossetta intermedia. Rappresenta il 20% delle ernie inguinali, è più frequente nel sesso maschile ed è

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spesso bilaterale perché è la classica ernia da sforzo o la classica ernia da debolezza della parete
muscolare. Talvolta, ma è più comune nell’obliqua interna, a sua volta molto rara, può contenere un
pezzo della vescica.
• Obliqua interna: si forma a livello della fossetta inguinale interna. È rara e quasi esclusiva del sesso
maschile. In genere unilaterale e di difficile riducibilità perché la porta erniaria è molto piccola.
CLINICA le ernie possono essere sintomatiche o asintomatiche (anche se in realtà questa è una divisione
scolastica perché completamente asintomatiche non è facile che lo siano visto che comunque c’è un
interessamento viscerale e un coinvolgimento muscolare, per cui generalmente almeno un senso di tensione e di
peso lo danno). Quando danno manifestazioni cliniche importanti si manifestano con:
- Dolore locale muscolare: il paziente presenta dolore con senso di peso e di trazione. Il tutto è dovuto
all’allargamento della porta erniaria, alla trazione sul meso, al passaggio temporaneo di un organo
intraperitoneale nel sacco erniario e quindi a trazione improvvisa che genera dolore.
- Dolore epigastrico o paraombelicale: che è un dolore viscerale irradiato, causato per trazione dei mesi in
una regione che apparentemente è lontana dell’ernia stessa.
- Dolore irradiato: l’irradiazione è al testicolo ipsilaterale nella variante obliqua esterna mentre è sopra e
retropubica nell’ernia diretta (perché può interessare la vescica).
Esame obiettivo. All’ispezione si può osservare in ortostatismo una tumefazione della regione inguinale o
inguino-scrotale spontanea o indotta con colpi di tosse o con aumento della pressione endoaddominale, difatti a
volte il paziente dice che ha dolore ma in quel momento l’ernia non è protrusa quindi bisogna invitarlo a tossire
o a fare una manovra del Valsava che, aumentando la pressione endoaddominale, fa fuoriuscire l’ernia.
La palpazione è fondamentale, soprattutto per capire qual è il contenuto erniario: se c’è gorgoglio è evidente che
c’è un’ansa intestinale all’interno dell’ernia, se non c’è gorgoglio è più probabile ci sia omento. Altro aspetto in
cui è importantissima la palpazione è la valutazione dell’irriducibilità. Alle volte la riducibilità può essere
spontanea, ovvero il paziente sta in piedi e tossisce e l’ernia viene fuori, si sdraia e spontaneamente l’ernia si
riduce in addome, oppure può essere necessario ridurla con manovra di taxis, cioè spremendo l’ernia all’interno
del canale inguinale e quindi dell’addome, e infine può essere irriducibile ( situazione d’urgenza in cui se non si
riesce a ridurla bisogna farlo chirurgicamente).
Fa parte dell’esame obiettivo anche l’esplorazione digitale. Si vede la proiezione del legamento inguinale (linea
di Malgaigne) e si può osservare che la porta erniaria è al di sopra del legamento inguinale (ricorda: porta al di
sopra = ernia inguinale; porta al di sotto del legamento = ernia crurale). Con il dito esploratore si percorre dalla
radice dello scroto il canale inguinale e invitando il paziente a effettuare dei colpi di tosse se sentiamo l’impulso
dell’ansa intestinale che spinge contro il dito, è evidente che siamo davanti alla porta erniaria e allora possiamo
distinguere se l’ernia è oblique esterna o diretta. Quello che ci permette di discernere l’una dall’altra sono le 3
strutture già elencate: residuo dell’uraco, l’arteria ombelicale obliterata e i vasi epigastrici. Se trovo la porta
erniaria e sento i vasi epigastrici pulsare lateralmente rispetto al mio dito allora sono davanti a un’ernia diretta,
invece se sento i vasi pulsare medialmente c’è un’ernia obliqua esterna.
TERAPIA Per prima cosa è bene ricordare che si deve evitare il cinto erniario, perché può determinare
flogosi, complicanze e aderenze. L’obbiettivo della terapia è ridurre l’ernia, cioè far tornare il contenuto in
addome, e evitare che l’ernia si riformi, rinforzando la parete posteriore del canale inguinale. In sostanza i due
tempi fondamentali del trattamento dell’ernia sono:
1. Trattamento del sacco erniario e del suo contenuto
2. Plastica del difetto di parete
Esistono varie tecniche. Alcune sono su sutura diretta, ricreando la parete posteriore con tessuto autologo
(tecnica di Bassini, Shouldice, Postempsky) e altre sono endoprotesiche (t. di Lichtenstein, Trabucco, Stoppa).
Queste ultime attualmente sono le più usate a parte nel bambino o nel giovanissimo dove si usano le suture
dirette. Non ci interessano le tecniche, vedremo solo la più usata, quella di Trabucco (insegnata a Sassari da
Trabucco stesso alla fine degli anni ’90), che ha cambiato la storia del trattamento delle ernie.
La tecnica di Trabucco consiste nella riparazione del difetto fasciale senza ricostruzione di muscoli e quindi
senza avvicinarli o distorcere l’anatomia locale e senza creare tensione (perciò questo tipo di tecniche è detto
tension free) a carico delle strutture aponeurotiche. Questo impedisce l’insorgenza di dolore a breve termine, e a
lunga scadenza impedisce le recidive. Il tutto è favorito da particolari protesi: delle placche che ricostruiscono il
muro della parete posteriore del canale inguinale.
Indicazioni: ernie recidive, voluminose, bilaterali, età avanzata e tutte le ernie tranne quelle del bambino.
Ha come vantaggi quelli di ridurre le recidive e le complicanze e di essere di facile esecuzione. Le
caratteristiche delle protesi sono quelle di essere altamente compatibili, non riassorbibili, con facile
sterilizzabilità, sono capaci di stimolare la deposizione del collagene, hanno trama intrecciata a maglie larghe,
sono sufficientemente rigide, a basso costo e di facile impiego. Le più frequenti sono a forma di scudo o di
ferro da stiro con un buco al centro per far passare il funicolo spermatico. Una delle più usate è la rete di
Marlex.
Complicanze: molti ne sconsigliano l’uso perché si sono osservati casi in cui la protesi ha perforato l’intestino
(ma si parla di un caso ogni 1.000.000!) Sempre rari sono il sieroma (siero + liquido sulla ferita: può essere
facilmente aspirato ma si riassorbe anche da solo), gli ematomi e le recidive. Più comune è invece l’edema

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inguinoscrotale, perché il trauma pelvico causa quasi sempre un po’ di edema. La più importante tra le
complicanze è però la suppurazione della ferita: se l’infezione si estende alla protesi la situazione si fa grave
perche la protesi infetta non tende a guarire, essendo un materiale estraneo e essendo un materiale dove
antibiotico non ne arriva perché nella protesi non circola sangue per cui il problema si trascina dietro per sempre
(a Sassari c’è un paziente con protesi infetta seguito da 15 anni: deve fare lavaggi 2 volte a settimana perché la
protesi è praticamente impossibile da espiantare).
La parte chirurgica che precede la tecnica di Trabucco è quella che segue. Nel trattamento dell’ernia il nostro
obbiettivo è ridurre il sacco e riparare il canale inguinale. Sia che l’ernia sia grande o che sia piccola, l’incisione
è sempre la stessa, si fa 1-1,5 cm al di sopra del legamento inguinale, la dimensione del taglio è tra gli 8-10 cm,
si sezionano i tessuti sottocutanei sino al raggiungimento alla faccia del muscolo obliquo esterno, al di sotto
della quale si vede il cremastere (che contiene dotto deferente e vasi spermatici). Per riparare la parete posteriore
bisogna aprire quella anteriore e sollevare il funicolo spermatico, così da accedere al pavimento. In alcuni
soggetti si deve incidere il cremastere. Una volta aperto il cremastere si vede l’ernia, si sposta il funicolo
spermatico e si lavora sull’ernia. Per riparare la parete posteriore bisogna aprire la parete anteriore prendere il
funicolo spermatico, sollevarlo e separarlo dal sacco erniario, che poi va ridotto: nelle ernie dirette si riduce il
sacco tutto insieme all’interno dell’addome, nelle ernie oblique interne invece si apre il sacco, ci si infila un dito
e si mette un punto tranfisso alla base, cioè si chiude il sacco alla base. Dopodiché si taglia mezzo cm più su e lo
si elimina (ovviamente prima di fare questo bisogna essere certi che in mezzo non ci siano strutture mobili). A
questo punto siamo pronti a ricostruire la parte posteriore con una protesi. Il funicolo spermatico non va
incarcerato. Normalmente molti chirurghi ricuciscono il muscolo obliquo esterno sopra la rete e fanno passare il
funicolo all’esterno del muscolo in modo da evitare che si possano creare aderenze o trazioni e sfregamenti sul
funicolo ma secondo alcuni non è una operazione così necessaria. Usualmente non si mettono drenaggi. Alla
fine di tutto si sutura.
Altra metodica di riparazione è quella della sutura diretta, che abbiamo già detto si fa soprattutto nel bambino
o nel giovane. In questo caso, piuttosto che mettere la protesi, è meglio fare una ricostruzione della parete
posteriore del canale. Ciò comporta un rischio maggiore di recidiva e di aderenze ma, cosa importante, non c’è
protesi. Si può fare in più strati di sutura, di solito in 3 strati, suturando tutti i muscoli che troviamo: la
trasversalis, il trasversale, obliquo interno e obliquo esterno. tutti sono suturati sul legamento inguinale.

ERNIE CRURALI
ANATOMIA La regione crurale è da considerarsi come una lacuna semilunare,
che si trova tra il legamento inguinale (o la linea di Malgaigne), in alto, e la
concavità del pube in basso. Le ernie si hanno in una regione detta anello crurale,
spazio delimitato superiormente dal legamento inguinale, inferiormente dal margine
superiore del pube, che è ricoperto dal legamento di Cooper, medialmente dal
legamento lacunare di Gimbernat e lateralmente dalla benderella ileopettinea che
separa la lacuna vasorum dalla lacuna muscolorum che ospita il muscolo ileopsoas e
il nervo femorale. Da passaggio (in senso latero-mediale) all’arteria femorale, alla
vena femorale, ai linfatici inguinali profondi e al linfonodo di Cloquet.
EPIDEMIOLOGIA e DATI GENERALI questa regione è la seconda sede di ernie
per frequenza dopo la regione inguinale. Esse compaiono dopo la terza decade di
vita e la loro incidenza aumenta con l’età. Interessano quasi esclusivamente il sesso femminile, sono di piccole
dimensioni (quanto una nocciolina) e sono frequentemente irriducibili perché la dimensione della porta erniaria
è talmente piccola che spesso l’ernia si incastra. Più frequentemente vanno incontro a una complicanza: lo
strangolamento, mentre raramente determinano occlusione intestinale. L’ernia crurale è solitamente vuota,
tranne qualche raro caso in cui può contenere epiploon (il cui pinza mento causa un dolore intenso che ci porta
facilmente alla diagnosi) e, ancora più raramente, intestino o visceri.
CLASSIFICAZIONE Le ernie crurali si classificano in relazione ai loro rapporti coi vasi femorali, pertanto
distinguiamo tre tipi di ernia crurale (più quella di Laugier, rarissima).
• Laterale: è rara. Si trova lateralmente all’arteria femorale, in una zona estremamente piccola e rigida.
• Ernia intravasale: si trova tra la vena e l’arteria femorale
• Ernia lacunare linfatica: è la più frequente ed è medialmente alla vena femorale. Qui le ernie sono frequenti
perché questa è la zona più cedevole di questo anello è rappresentata proprio dalla lacuna linfatica, visto
che qui i tessuti sono più lassi. Quindi queste sono strutture estremamente delicate che possono essere
lesionate facilmente durante l’intervento, ragion per cui bisogna prestare molta attenzione, infatti
lacerare la vena femorale che porta tutto il sangue dagli arti inferiori comporta una situazione
abbastanza difficile da gestire.
CLINICA Qualche volta le ernie crurali possono essere asintomatiche, cioè non dare alcun fastidio, ed
essendo molto piccole è difficile diagnosticarle. Nella maggior parte dei casi però sono sintomatiche e il dolore
è di solito localizzato alla radice della coscia, con una accentuazione che si ha ogni qual volta si ha estensione
dell’arto. Inoltre è presente sola tumefazione, il che può ingannarci facendoci credere che si tratti di
linfadenopatia (inoltre la consistenza, estremamente variabile in relazione al contenuto, non ci aiuta a

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distinguere l’ernia da un linfonodo), spesso presente in questa zona (ma la mancanza di dolore depone per la
linfadenopatia neoplastica); la tumefazione è di piccole dimensioni e si localizza di solito nella parte superiore
del triangolo di Scarpa (situato sotto la linea di Malgaigne).
EVOLUZIONE l’ernia può andare incontro a pinzamento, può andare incontro alla cosiddetta ernia di Richter,
oppure può andare incontro a strangolamento erniario con dolore particolarmente intenso sia che ci sia dentro
epiploon sia che ci sia dentro il tenue (che abbiamo visto è molto difficile si trovi in un’ernia crurale, ma quando
c’è va quasi sempre incontro a ernia di Richter).
TERAPIA generalmente troppo piccola per ridurla e per essere compressa dal cinto erniario, l’unica terapia, se
l’ernia è dolorosa, è la chirurgia. Solitamente 3-4 cm di incisione verticale sono più che sufficienti e la cicatrice
sarà estetica dato che sarà nascosto dal costume. Il fulcro dell’operazione è individuare la porta erniaria,
asportare l’ernia e risocostruire tramite plastica diretta, quando possibile, la parete da dove si è formata.
Solitamente bastano 2-3 punti staccati per risolvere tutto. Si preferisce quella a punti staccati perché se molla un
punto non fa niente mentre nella continua sarebbe un problema. Le tecniche possono essere tradizionali o con
protesi, come quelle inguinali.

ERNIE OMBELICALI
Relativamente frequenti (ma molto meno delle inguinali). Le distinguiamo in:
• Congenite le ritroviamo soprattutto nel bambino, dove si manifestano nei primi giorni o settimane di vita
in conseguenza della mancata chiusura dell’anello ombelicale. Si rendono evidenti specialmente quando
il bambino piange, a meno che l’ernia non sia particolarmente grande e allora si vedono in condizioni
normali. Sono molto piccole e solitamente sono riducibili spontaneamente, oppure possono guarire
tenendole ridotte e cercando di non far piangere il bambino. Le complicanze sono eccezionali e solo nel
caso in cui l’anello non si chiuda potrebbe essere necessaria una plastica erniaria, che deve essere
sempre diretta, cioè senza protesi.
• Acquisite sono solitamente piccole, compaiono in età adulta e sono le ernie più frequenti dopo le inguinali
e le crurali. Più facilmente insorgono nelle donne e in soggetti obesi, oppure in soggetti con ascite o
gravidanza. Infatti la distensione addominale può provocare un cedimento nei punti di maggiore tensione
e nei punti più deboli come l’ombelico. Una delle cause può essere anche la distasi (diastasi significa
allontanamento di organi) dei muscoli retti che si allontanano tra di loro tendendo maggiormente la
fascia muscolare che c’è in mezzo e quindi facilitando la comparsa di ernia. Di solito a questi pazienti
alla plastica dell’orifizio erniario si fa seguire anche una plastica di avvicinamento dei muscoli retti
ovviamente con una incisione leggermente più grande ma con uno scollamento maggiore. La fascia si
pinza con punti staccati e si risolve non solo l’ernia ma anche l’estetica della distasi che provoca quella
pancetta che non è molto gradita. Talvolta nell’ascitico le ernie ombelicali (che si riconoscono perché è
presente uno schiarimento della cicatrice ombelicale) possono raggiungere anche dimensioni di arance e
le complicanze in questi pazienti sono le recidive, dato che spesso non si può curare la causa dell’ascite
e c’è frequente irriducibilità dovuta ad aderenze cicatriziali conseguenti a processi infiammatori
(epiploiti). Nel paziente con ascite non si può drenare tutto il liquido assieme perché l’ascite ha
provocato una determinata pressione in addome andando a comprimere strutture quali anche la vena
cava e drenandolo tutto assieme si crea una ipovolemia relativa da riduzione del ritorno venoso che può
portare ad arresto cardiaco, perciò bisogna subito compensare somministrando colloidi o albumina in
modo tale da richiamare acqua in circolo. Le ernie ombelicali contengono solitamente epiploon o
intestino e possono essere e sono per lo più dirette.

ERNIE EPIGASTRICHE
Si formano generalmente sulla linea mediana, al di sopra dell’ombelico, quindi in quella che è la regione
epigastrica. Sono dovute a difetti di saldamento o lacerazioni vascolari (vasi perforati possono a loro volta
perforare la fascia). Rappresentano il 5% del totale delle ernie addominali, non sono particolarmente frequenti
ma neanche così improbabili, spesso sono multiple e di piccole dimensioni, ma questo non è vero in assoluto
(alcune possono raggiungere dimensioni enormi, per esempio in seguito a diastasi della linea alba). Il contenuto
di solito è il grasso preperitoneale (per cui nei soggetti obesi è difficile trovarle perché l’addome presenta tutto
la stessa consistenza alla palpazione), raramente ci può essere il grande omento, mentre molto frequentemente
sono vuote. La terapia e delle ernie epigastriche è la stessa delle ernie ombelicali: in primis si fa una piccola
incisione della porta erniaria (a volte in alcuni istituti di chirurgia plastica fanno una incisione molto più grande
a livello sovrapubico e staccano tutta la parete addominale per arrivare alla porta erniaria -però ci sono
complicanze gravi e frequenti-); a questo punto va isolata la porta erniaria, che è l’aspetto più importante perché
le plastiche di solito sono dirette, quindi avere in mano bene i margini della porta erniaria significa poterli
chiudere bene (questo vale per le ernie piccole, mentre per le ernie molto voluminose ovviamente la plastica
diretta non è indicata e si mettono delle protesi sintetiche).

LAPAROCELE
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È un particolare tipo di ernia che si forma sulla cicatrice chirurgica e su una fascia muscolare addominale. Può
essere dovuta a complicanza post operatoria di tipo infettivo che mina la cicatrizzazione corretta oppure ad un
errore tecnico del chirurgo (sutura annodata male o punto troppo staccati tra loro nel caso di sutura a salti),
oppure ancora ad obesità (la distensione addominale espone a cedimento della sutura), defedazione, età avanzata
e malattie sistemiche come diabete (c’è difficoltà generale alla cicatrizzazione) e BPCO (il paziente che tossisce
molto nel post operatorio espone la sutura a un trauma continuo). Ha una incidenza del 2% negli interventi
chirurgici addominali, aumenta con l’età (oltre 10% di chirurgia maggiore sull’anziano) ed è maggiormente
frequente nelle donne. Per prevenire i laparoceli bisogna sempre consigliare la paziente l’utilizzo di una fascia
elastica contenitiva postoperatoria. La terapia consiste nella riduzione in cavità dei visceri erniati, ricostruzione
della parete e plastiche con lembi di rotazione o per scorrimento, oppure per apposizione di protesi. Si scolla il
tessuto sotto cutaneo, si ritrovano i margini della porta erniaria una volta che si è dissecata l’ernia, si sollevano e
si suturano. L’esubero cutaneo dopo asportazione di un’ernia può essere davvero tanto e deve assolutamente
essere asportato.

ERNIA DIAFRAMMATICHE
Con ernia diaframmatica intendiamo una forma di ernia caratterizzata dalla fuoriuscita di uno o più visceri dalla
cavità addominale all'interno della cavità toracica, attraverso il diaframma. Si distinguono in congenite,
acquisite, traumatiche.
Ernie diaframmatiche congenite
La dislocazione nel torace di visceri addominali avviene attraverso un difetto di chiusura del canale
pleuroperitoneale postero-laterale, destro o sinistro. Questa malformazione ha un incidenza: 1/3000-5000 nati
vivi e in Sardegna: 2-4 casi/anno, senza predilezione di sesso.
I visceri erniati nel torace (stomaco, milza, intestino tenue e crasso, lobo epatico sx), comprimono il polmone
causando un alterato sviluppo del parenchima polmonare (ipoplasia polmonare). Il difetto diaframmatico è quasi
sempre a sinistra (80%), e la rarità dell’EDC destra è presumibilmente legata alla presenza del fegato che
impedisce l’erniazione del viscere.
Questa malformazione da solitamente segno di sé già alla nascita o poco dopo con distress respiratorio
rapidamente ingravescente: il neonato è tachipnoico e cianotico, ha bradipnea, bradicardia, assenza di rumori
respiratori da un lato, battito cardiaco spostato dal lato opposto, addome piatto. In qualche caso l’affezione è
asintomatica e viene scoperta solo occasionalmente.
Tra le ernie congenite vanno distinte in particolare:
1)Le ernie di Bochdalek (o postero-laterali): interessa la porzione postero-laterale del diaframma, soprattutto sul
lato sinistro. Essa risale attraverso il cavo pleuroperitoneale e, se di grandi dimensioni, viene riscontrata subito,
mentre se ha piccole dimensioni può permanere fino all’età adulta, determinando una dispnea via via
ingravescente per via dela quantità maggiore di viscere che ernia nel tempo.
2)Le ernie di Morgagni-Larrey (antero-laterale): generalmente provviste di sacco peritoneale.
L’EDC può essere diagnostica già in utero mediante ecografia che mostra i visceri in cavità toracica. Alla
nascita la diagnosi viene confermata dalla radiografia diretta del torace e dell’addome, che mostra la presenza di
anse intestinali nell’emitorace sinistro, il mediastino ed il cuore dislocati a destra e scarsa presenza di aria
nell’ambito addominale.
L’intervento chirurgico va iniziato solo dopo aver corretto quanto possibile il distress respiratorio e lo shunt dx-
sx, cioè solo quando il neonato ha raggiunto una stabilità cardiorespiratoria, per cui non ha carattere d’urgenza.
Può essere eseguito per via addominale o toracica (la prima è preferita).
Ernie diaframmatiche acquisite
Le ernie acquisite sono dovute alla dislocazione in torace di visceri addominali, attraverso fori o passaggi
normalmente presenti nel diaframma. Tali Ernie possono essere classificate, in base alla frequenza come:
- Ernie Eccezionali: dello iato aortico o del forame della vena cava inferiore.
- Ernie Iatali (dello Iato esofageo), a loro volta divise in Ernie Iatali di I tipo (Brachiesofago), II tipo
(Rotolamento) e III tipo (Scivolamento). Vedi capitolo ernia iatale.
Ernie diaframmatiche traumatiche
Sono dovute alla dislocazione di uno o più visceri attraverso una soluzione di continuo del diaframma
conseguente ad un evento traumatico. La soluzione di continuo può verificarsi in qualsiasi punto ma
generalmente la sede più frequente è quella postero-laterale, più spesso a sinistra per un’azione protettiva del
fegato.
L’ernia diaframmatica è talora un reperto intraoperatorio incidentale nel caso in cui il traumatizzato venga
operato per una lesione di un altro organo; in alternativa questa patologia può rimanere misconosciuta finchè
non insorgano sintomi rappresentati più frequentemente dal dolore posprandiale o dall’occlusione intestinale.
Nei pazienti asintomatici il riscontro può essere casuale inseguito a un rx torace.
Qualunque organo addominale può dislocarsi attraverso un’ernia diaframmatica, e questa dislocazione è dovuta
alla pressione negativa esistente in torace. Le complicanze dell’ernia sono rappresentate dall’ostruzione o dalla
distorsione dell’organo erniato; se si tratta di un organo cavo, temibile è un infarto conseguente al volvolo.

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Normalmente c’è un progressivo ingrandimento della soluzione di continuo con dislocazione sempre maggiore
di organi addominali o parte di essi in cavità toracica, perciò è sempre necessario l’intervento chirurgico

ESOFAGO
L’esofago è un organo tubulare, lungo 25 cm, che si estende dalla VI vertebra cervicale sino alla stomaco e che
mette in comunicazione quest’ultimo con la faringe. La componente muscolare, costituita da fibre striate
volontarie nel terzo craniale e da fibre lisce involontarie nei due terzi caudali dell’organo, è molto sviluppata, in
accordo con la sua funzione prettamente propulsiva, ha infatti il compito di spingere il bolo alimentare dalla
faringe allo stomaco. Lo sfintere esofageo superiore (SES o UES) è costituito dal muscolo cricofaringeo che,
partendo dalla cartilagine cricoide forma un anello orizzontale intorno alla parete posteriore dell’esofago, invece
lo sfintere esofageo inferiore (SEI o LES), situato nella porzione caudale dell’esofago, non è costituito da un
apparato muscolare vero e proprio, per questo motivo si preferisce parlare di sfintere funzionale. Lo sfintere
esofageo inferiore ha due funzioni principali: in primo luogo, lascia passare il materiale che ha transitato per
l’esofago (saliva e bolo) affinché possa raggiungere lo stomaco; in secondo luogo, previene il reflusso gastro-
esofageo, opponendosi alla risalita di materiale gastrico.
In condizioni di riposo la pressione basale del corpo dell’esofago è negativa e lo sfintere prossimale e distale
sono chiusi.
FISIOLOGIA DELLA DEGLUTIZIONE La deglutizione è un atto motorio complesso che richiede la
coordinata attività contrattile dei muscoli della cavità orale, della faringe e dell’esofago, pertanto la deglutizione
consta di tre fasi: fase orale, fase faringea e fase esofagea. Solo la fase orale viene promossa dalla contrazione
volontaria dei muscoli della lingua che spostano il bolo alimentare indietro verso l’orofaringe (il passaggio nella
rino-faringe viene impedito dallo spostamento verso l’alto del palato molle indotto dal passaggio del bolo
stesso). Tale evento da avvio ad una contrazione involontaria della muscolatura del faringe, che, grazie
all’azione peristaltica, determina la propulsione del bolo fino allo sfintere esofageo superiore. L’arrivo dell’onda
peristaltica causa una temporanea apertura dello sfintere che consente l’ingresso del bolo nell’esofago e segna
l’inizio della successiva fase esofagea. Nel corso della fase esofagea della deglutizione, la peristalsi dell’esofago
(che può essere: primaria, normalmente presente, secondaria, indotta dalla stimolazione dei meccanocettori,
terziaria, sono invece patologiche) causa la propulsione del bolo fino allo sfintere esofageo inferiore, il cui
rilasciamento consente il passaggio nello stomaco.

PATOLOGIA INFIAMMATORIA DELL’ESOFAGO


La patologia infiammatoria dell'esofago è estremamente diffusa con prevalenza del 5% nei paesi occidentali.
Può essere lieve, se è presente una alterazione rilevabile solo a livello microscopico, erosiva (con eritema,
ulcerazioni, sanguinamento) o stenotica (con parziale occlusione del lume per fibrosi della sottomucosa).
Le principali cause di esofagite sono: il GERD, le infezioni e gli agenti fisici e chimici.
Le esofagiti infettive possono essere causate da herpes simplex, CMV, Candida albicans, batteri o agenti
micotici; le esofagiti fisiche possono essere causate dall’ingestione di alimenti troppo caldi o troppo freddi; le
esofagiti chimiche possono essere invece causate dall’ingestione di caustici, sia basici (che determinano una
necrosi colliquativa), sia acidi (che causano una necrosi coagulativa). Le forme più frequenti di esofagiti sono
però quelle causate da GERD.

MALATTIA DA REFLUSSO GASTROESOFAGEO (GERD o MRGE)


È la causa più comune di esofagite ed è caratterizzata da un complesso di sintomi dovuti al reflusso patologico
del contenuto gastrico in esofago. Anche nei soggetti normali è presente un certo reflusso fisiologico, specie
post-prandiale o raramente notturno, ma comunque di breve durata e del tutto asintomatico. Si parla di reflusso
patologico quando questo aumenta di entità e frequenza associandosi a sintomatologia manifesta e, in alcuni
casi, a lesioni esofagee evidenti.
EZIOPATOGENESIIn condizioni fisiologiche la p intratoracica è -5mm Hg, mentre nell’addome è +5 mmHg,
perciò tra torace ed addome è presente un gradiente di 10 mmHg che tenderebbe a causare un’aspirazione del
succo gastrico in esofago se non fosse presente il LES, cioè una zona ad alta pressione (25 mmHg) che si
oppone al flusso.
Nel GERD il compenso pressorio del LES viene meno a causa di diversi meccanismi patogenetici:
• Alterazione dei meccanismi di difesa esofagei: alterazione dei meccanismi di clearance esofagea (forza
di gravità, attività peristaltica e azione tamponante della saliva); alterazione della barriera mucosale
esofagea (spessore della mucosa, giunzioni intercellulari, turnover cellulare e muco ricco di bicarbonato
prodotto dalle ghiandole salivari).
• Fattori che favoriscono l'aumento del materiale refluito dallo stomaco all'esofago: discinesie esofagee
e/o gastriche; ridotta funzionalità del LES; ernia iatale (soprattutto ernie da scivolamento); beanza
cardiale; sclerodermia.
L’esposizione della mucosa esofagea al contenuto acido dello stomaco provoca sintomi che possono
compromettere la qualità della vita dei pazienti, indipendentemente dalla formazione di lesioni della mucosa.
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CLINICA sintomi tipici della patologia sono la pirosi retrosternale e il rigurgito (presenti nell'80-90% dei
casi), mentre meno frequenti sono disfagia, odinofagia (dolore alla deglutizione) e dolore toracico simil-
anginoso. Talvolta possono essere presenti manifestazioni extraesofagee come tosse cronica, scialorrea, otite
media, erosioni dentali, raucedine, laringite cronica, asma, bronchite e polmonite ab ingestis.
Caratteristico sintomo è soprattutto la pirosi, o bruciore retro sternale, cioè una sensazione urente, di solito
localizzata nel terzo inferiore dello sterno, conseguente all’azione lesiva del succo gastrico sulla mucosa
esofagea.
COMPLICANZE la più frequente complicanza del GERD è l’esofagite da reflusso, la quale non è presente in
tutti i pazienti affetti da MRGE, infatti la malattia è classificabile in non erosiva (NERD, not erosive refluss
disease) in cui anche se presente il quadro sintomatologico non vi sono lesioni documentabili, ed erosiva
(ERD), in cui accanto ai sintomi da reflusso sono rilevabili all'endoscopia lesioni erosive/ulcerative. L’esofagite
da reflusso si può distinguere in 4 stadi: i primi 3 sono reversibili, mentre il 4° è caratterizzato da lesioni
importanti come ulcere, stenosi, esofago di Barret ed emorragie). Una forma a parte di MRGE è quella data da
ipersensibilità esofagea nella quale, alla presenza di sintomatologia tipica, non si associano nè lesioni
all'endoscopia, nè presenza di valori patologici alla pH-metria, nè risposta alla terapia con IPP, e in tal caso è
data da una ipersensibilità della mucosa per la presenza di terminazioni nervose molto superficiali. Le principali
complicanze dell'esofagite da reflusso (presenti nel 20% degli affetti) sono quindi le ulcerazioni, il
sanguinamento, la formazione di stenosi e lo sviluppo di esofago di Barrett.
La complicanza più importante è l’esofago di Barrett, che insorge in circa l'11% degli affetti, ed è caratterizzato
dalla sostituzione dell'epitelio squamoso esofageo con epitelio metaplastico colonnare, simile a quello
intestinale. La sua importanza sta nel fatto che gli affetti presentano un rischio di 30-40 volte superiore al
normale di insorgenza di adenocarcinoma esofageo. Questa metaplasia sembra dovuta al fatto che la prolungata
esposizione agli acidi provochi ulcerazione dell'epitelio squamoso che guarisce mediante riepitelizzazione da
parte di staminali che, proliferando in un ambiente a basso pH, si differenziano in cellule di tipo cilindrico e
caliciforme muciparo. Molto importante, per valutare il rischio di progressione verso l'adenocarcinoma, è la
ricerca di displasia, oggi definita NiN (neoplasia non invasiva).
DIAGNOSIla diagnosi di MRGE è prevalentemente clinica e può essere confermata attraverso un test di
risposta alla terapia farmacologica con IPP a pieno dosaggio. Una buona risposta al cosiddetto “testo ai IPP”
rappresenta il miglior test, con un buon rapporto costo/benefici, da eseguire al paziente sintomatico.
Gli esami strumentali vengono eseguiti soltanto per confermare o escludere la malattia, qualora ci sia un dubbio
diagnostico, oppure quando si sospettano complicanze. Gli esami che vengono richiesti sono:
- esofago-gastro-duodenoscopia (EGDS): permette di osservare la presenza di erosioni o ulcere nella mucosa
esofagea che, quando sono presenti, confermano la diagnosi. Però il 50% dei pazienti non presenta lesioni
mucose (NERD), perciò la negatività dell’esame endoscopico non esclude la diagnosi. Durante l’esame
endoscopico possono essere eseguite delle biopsie, che sono utili per fare diagnosi differenziale tra lesioni di
natura flogistica o neoplastica.
- pH-metria esofagea delle 24 ore: rappresenta l’esame di riferimento per la diagnosi di MRGE. Si esegue
inserendo in esofago in sondino dotato di elettrodi, posizionati sopra il LES, in grado di rilevare il pH esofageo
nell’arco delle 24 ore.
- impedenziometria: rappresenta il più recente sviluppo nello studio della malattia e consente di studiare le
variazioni di impedenza elettrica tra due elettrodi, presenti in una sonda posizionata a livello esofageo, quando
questi sono attraversati dal materiale che refluisce risalendo il lume dell’esofago.
- radiografia: può essere utile nelle forme stenotiche
- manometria esofagea: utile per misurare la pressione del LES.
TERAPIAconsiste prevalentemente nella variazione dello stile di vita, riducendo il peso corporeo, non
fumando (perché il fumo riduce la pressione del LES e riduce la motilità esofagea), evitando gli abiti stretti e
l’attività fisica dopo i pasti. In secondo luogo è bene apportare cambiamenti dietetici evitndo tutti quegli
alimenti che favoriscono il GERD: dolci, caffè, grassi, fritti, pomodoro, brodo di carne, ecc..
La terapia medica si basa sull’utilizzo degli IPP i quali hanno sostituiti gli antistaminici (perché l’istamina
stimola la secrezione gastrica) che venivano prima utilizzati. La terapia chirurgica antireflusso consiste nella
fundoplicatio secondo Nissen, che consiste nell’avvolgere con il fondo gastrico la porzione addominale
dell’esofago. Dei trattamenti possono essere eseguiti anche per via endoscopica: uso di radiofrequenze per
aumentare la continenza del LES, iniezione di sostanze inerti a livello della giunzione esofago-gastrica per
creare una barriera al reflusso.

ACALASIA ESOFAGEA
È una alterazione motoria caratterizzata da mancato rilasciamento del LES in risposta all'atto di deglutizione e
dalla discinesia ed incoordinazione o assenza della peristalsi esofagea. È il disordine più comune e più noto tra
le alterazioni delle motilità esofagea. Dal momento che le funzioni del faringe e dello sfintere superiore sono
normali, il bolo viene introdotto normalmente in esofago ma, mancando la coordinazione tra onda peristaltica e
l’apertura del LES, il bolo si arresta a livello della giunzione cardiale che rimane chiusa. Con il progredire dello

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stadio di malattia, l’intero esofago si dilata e si allunga sino ad assumere negli stadi avanzati un aspetto a fiasco,
fusiforme o sigmoideo.
L’incidenza della malattia a una leggera prevalenza nel sesso maschie e colpisce soprattutto tra i 20 e i 60 anni.
CLINICAI sintomi principali sono la disfagia, il rigurgito, il calo ponderale e il dolore toracico. La disfagia è
comune sia per i liquidi che per i solidi; inizialmente è occasionale e di lieve entità e per agevolare la
deglutizione dei cibi solidi il paziente deve bere dei liquidi, deve compiere ripetuti atti di deglutizione, deve
adottare particolari manovre, come quella di Valsava, oppure deve trattenere il respiro, ecc. Queste manovre
aumentano la pressione intraesofagea e di conseguenza aiutano il superamento della resistenza a livello
gastroesofageo. All’esordio della malattia, quando la dilatazione dell’esofago è minima, la disfagia è
accompagnata da odinofagia e da episodi di intenso dolore toracico, che possono simulare una angina pectoris.
Successivamente, con l’instaurarsi di una maggiore dilatazione esofagea, sia la disfagia che il dolore toracico
compaiono più raramente, mentre i sintomi più frequenti sono l’alitosi, le eruttazioni ed il rigurgito. Nelle fasi
avanzate della malattia, quando si è configurato un megaesofago, il quadro clinico è caratterizzato da disfagia
grave e persistente, episodi frequenti di rigurgito, calo ponderale, anemia e segni importanti di compromissione
respiratoria (polmonite ab ingestis, ascesso polmonare, bronchi ectasie).
COMPLICANZEL’infiammazione cronica della mucosa, determinata dal ristagno, predispone a lungo termine
(dopo 20 anni o più) all’epitelioma squamoso, che si sviluppa nel tratto dilatato con una incidenza 8 volte
maggiore che nella popolazione generale.
DIAGNOSI è fatta con l’esame radiologico con pasto baritato che rileva una stenosi regolare a coda di topo
della porzione addominale dell'esofago e la progressiva dilatazione del tratto a monte che può arrivare, nelle fasi
più avanzate, anche a oltre 6 cm di diametro assumendo decorso tortuoso e allungandosi (megaesofago) con
dislocazione delle strutture circostanti e ingrandimento del mediastino. Poiché, a causa della occlusione, l’aria
rimane in esofago, caratteristico segno è la mancanza della bolla gastica.
L’indagine endoscopica spesso rileva un’esofagite con lesioni erosive della mucosa, conseguente alla stasi e alla
proliferazione batterica, inoltre può rilevare anche la presenza di una stenosi peptica o un carcinoma
nell’esofago distale o nel cardias, che determinano un aspetto radiologico dell’esofago simile a quello
dell’acalasia. Lo studio del transito esofageo con radionuclidi (liquidi o solidi) mostra un tempo di transito
aumentato a causa dell’assenza della peristalsi.
TERAPIA è utile fare dei pasti piccoli, lenti e frazionati. Il trattamento d’elezione consiste nella dilatazione
della giunzione esofago-gastrica per via endoscopica o la miotomia extramucosa per via chirurgica. Oggi si
preferisce eseguire la dilatazione (attraverso appositi palloncini gonfiati quando sono posizionati a livello
giunzione), perché comporta un minor rischio di GERD dopo l’intervento.

ERNIA IATALE
Con questo termine si intende la dislocazione di una parte più o meno grande dello stomaco dall'addome al
torace, attraverso lo hiatus esofageo. Secondo Akerlund si dividono in:
• Da scivolamento: rappresentano il 75% delle ernie iatali e si hanno per risalita di parte dello stomaco
nel mediastino posteriore attraverso lo hiatus slargato, con conseguente dislocazione della giunzione
esofago-gastrica in torace. Questa condizione è caratterizzata da scomparsa dell'angolo di His. In questi
pazienti il reflusso e l’esofagite sono frequentemente presenti, perché, non essendo il LES posizionato a
livello dell’anello diaframmatico, viene meno la sua tenuta.
• Paraesofagee: differiscono dalle precedenti in quanto vi è la conservazione dell'angolo di His (per
questo manca il reflusso, infatti questo assieme al LES è uno dei meccanismi anti-reflusso), la tasca
erniaria, costituita dal fondo gastrico, è situata al lato dell'esofago e non si riduce in stazione eretta. Col
tempo l’ernia paraesofagea può determinare un allargamento dello iato con migrazione della giunzione
esofago-gastrica, si viene quindi a determinare una ernia mista.
• Da esofago corto (brachiesofago): sono le ernie meno comuni, possono essere congenite o acquisite. In
questo caso il reflusso e l’esofagite sono costantemente presenti. L'esofago appare complessivamente
accorciato, ristretto nel tratto distale e la tasca erniaria è ben apprezzabile e non riducibile.
EZIOLOGIANella gran parte dei casi è sconosciuta, ma viene ipotizzato un ruolo importante della dieta
occidentale, povera di scorie, che determinerebbe la formazione di feci dure con aumento della pressione
endoaddominale.
CLINICAle ernie da scivolamento possono essere asintomatiche, oppure possono manifestarsi con sintomi
aspecifici come senso di ingombro epigastrico, dolore simil-anginoso, disturbi del ritmo. Qualora coesista
un’esofagite da reflusso può essere presente tosse, pirosi, asma, dolore simil-anginoso, eruttazioni, rigurgito.
Le ernie paraesofagee invece possono essere asintomatiche o possono presentare dispepsia di vario grado e
taluni presentano dolore improvviso e lancinante in sede epigastrica o retro sternale, in genere dopo un pasto
abbondante.
COMPLICANZErare sono le complicanze nelle piccole ernie, mentre più frequenti sono nel caso di ernie di
grosse dimensioni, che possono comportare problemi di tipo meccanico, come una disfagia da compressione
esofagea, ma possibili sono anche le emorragie con ematemesi e melena, conseguenti ad un’ulcera gastrica (più
spesso localizzata nella zona di passaggio trans iatale della parete gastrica) o a ischemia della mucosa
68
conseguentemente alla compressione. Raro, ma temibile è il volvolo, che si produce per rotazione dello stomaco
lungo l’asse longitudinale, con conseguente ostruzione completa di una porzione gastrica e gravi alterazioni
vascolari.
DIAGNOSI oltre all’esame radiografico con pasto baritato anche l'endoscopia è utile nel dimostrare l'ernia
iatale anche se è meno sensibile, ma permette di effettuare anche una biopsia utile per valutare l’eventuale
presenza di complicanze.
TERAPIAl’ernia iatale da scivolamento, in assenza di una patologia da reflusso o di altre complicanze, non
richiede alcun trattamento, mentre l’ernia da scivolamento sintomatica o complicata deve essere ridotta e deve
essere eseguita una procedura antireflusso (es.fundoplicatio secondo Nissen). La maggior parte delle ernie
paraesofagee non complicate può essere aggredita per via laparoscopica, e una volta ridotta, deve esser riparato
lo hiatus esofageo con una sutura e la giunzione gastro-esofagea viene fissata al di sotto del diaframma dopo
aver ricostruito l’angolo di His.

DIVERTICOLI
I diverticoli esofagei sono delle estroflessioni della parete esofagea, che si distinguono in diverticoli veri, se
interessano tutta la parete, e in diverticoli falsi, se l’erniazione interessa soltanto la mucosa e la sottomucosa che
si estroflettono attraverso la muscolare. I diverticoli esofagei possono essere congeniti o acquisiti: quelli
congeniti sono molto rari, mentre quelli acquisiti si distinguono a loro volta in diverticoli da pulsione e
diverticoli da trazione.
I diverticoli da pulsione sono dovuti ad una graduale estroflessione, attraverso un’area di debolezza della parete,
in seguito ad un aumento della pressione intraluminale, mentre i diverticoli da trazione sono dovuti
all’attrazione esercitata sulla parete, da parte di una retrazione cicatriziale che si forma in seguito a un processo
infiammatorio contiguo alla parete del viscere, ad esempio in seguito a linfoadenopatie tacheo-bronchiali.
I diverticoli si distinguono in base alla localizzazione in:
- diverticoli faringo-esofagei (o di Zenker): sono quelli di più frequente riscontro. Sono diverticoli da
pulsione, generalmente secondari ad una incoordinazione faringo-esofagea o ad un disordine della motilità. Si
presentano come una estroflessione lungo la linea mediana della parete posteriore, a livello della giunzione
faringo-esofagea, dove è presente un triangolo di minore resistenza tra i fasci obliqui del muscolo costrittore
inferiore della faringe e i fasci trasversali del muscolo crico-faringeo. Dal momento che la protrusione posteriore
è limitata dalla colonna vertebrale, il diverticolo ingrandendosi si posiziona al lato della linea mediana. Il
diverticolo aumentando di dimensioni disloca l’esofago anteriormente e la tasca viene ad allinearsi con il
faringe, perciò il cibo ingerito penetra più facilmente nel diverticolo che nel lume esofageo.
Questo diverticolo è 3 volte più frequente nel sesso maschile e insorge generalmente in età media ed avanzata.
Clinicamente si manifesta con una disfagia, cioè la sensazione di arresto della progressione del bolo durante la
deglutizione (deve essere distinta dall’odinofagia che è indica invece il dolore alla deglutizione) che, con
l’ingrandirsi della tasca, si fa sempre più grave, accompagnata da attacchi di tosse, rigurgito, faringiti, alitosi,
raucedine ed anoressia.
La diagnosi viene fatta con l’esame radiografico con bario, mentre l’esofagoscopia è controindicata per il rischio
di perforazione. Gli interventi chirurgici che si possono effettuare sono: la miotomia cricofaringea senza
resezione del diverticolo; la diverticolectomia, spesso associata a miotomia; la diverticolopessi (sospensione
della sacca in posizione antideclive); diverticolotomia sotto guida ecografica.
- diverticoli medio-esofagei: rappresentano il 15% di tutti i diverticoli e sono spesso asintomatici. Possono
essere di tre tipi: congeniti (sono rari. Si manifestano in età adulta e sono probabilmente correlati ad un
meccanismo di trazione), da trazione (sono i più frequenti e sono spesso piccoli e multipli. Sono conseguenti
alla formazione di aderenze fibrose che si creano tra la parete dell’esofago e i linfonodi sclerotici per un
precedente processo infiammatorio ad eziologia prevalentemente tubercolare. Sono asintomatici perché l’apice
della sacca è rivolto verso l’alto perciò il cibo non si accumula all’interno), da pulsione (sono secondari a
disordini della motilità esofagea con conseguente aumento della P intraluminale ed erniazione della parete).
I diverticoli medio-esofagei sintomatici devono essere trattati tramite toracotomia destra con resezione del
diverticolo e sutura della parete.
- diverticoli epifrenici: sono così chiamati i diverticoli posizionati negli ultimi 10 cm dell’esofago toracico.
Non sono molto frequenti. Sono diverticoli da pulsione che si formano in seguito a disordini della motilità
esofagea o a ernia iatale con reflusso gastro-esofageo. Possono essere del tutto asintomatici o possono
manifestarsi con pirosi, digestione difficile, singhiozzo, e solo successivamente con alitosi, disfagia, dolore
toracico, rigurgito e pirosi.
Il trattamento è quello del disordine motorio primario, infatti se il diverticolo è piccolo si ha regressione,
altrimenti si deve intervenire eseguendo una resezione.

TUMORI ESOFAGEI
TUMORI BENIGNI
Sono rari e rappresentano solo il 3% dei tumori esofagei. Si possono distinguere in:

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- tumori di origine epiteliale, rappresentati dall’adenoma, ma soprattutto dal papilloma, il quale può avere
localizzazione prossimale (secondario a infezione da HPV) o distale (secondario a GERD).
- tumori di origine mesenchimale: sono i più comuni, ma comunque rari. Il più frequente è il leiomioma
(neoplasia benigna dei muscoli lisci), che rappresenta anche la neoplasia benigna più frequente dell’esofago e
che si localizza più speso nella parte più distale.
TUMORI MALIGNI
Le forme non epiteliali sono rare (rappresentate soprattutto da linfomi, melanomi e leiomiosarcomi), mentre le
forme epiteliali rappresentano oltre il 90% delle neoplasie esofagee e circa il 6% di quelle del tratto
gastroenterico con alti tassi di mortalità. Le forme epiteliali sono rappresentate dal carcinoma squamoso e
dall'adenocarcinoma: il primo rappresenta, a livello mondiale, l'istotipo più diffuso, anche se nei paesi
industrializzati la prevalenza delle due neoplasie è ormai equivalente, perchè, in questi paesi, l'incidenza del
principale fattore di rischio dell'adenocarcinoma (la MRGE) è in costante aumento mentre sono in calo fumo e
alcool che favoriscono l'insorgenza del carcinoma squamoso.
Carcinoma squamoso o epidermoide
É una neoplasia maligna derivante dall'epitelio squamoso pluristratificato non cheratinizzato dell'esofago. È
l'istotipo più comune nel mondo, con un’incidenza di 4-5 casi ogni 100.000 abitanti l'anno, maggiore in Cina,
Iran e in Sud Africa. Il sesso più colpito è il maschile (9:1) soprattutto tra i 50 e i 60 anni, con maggiore
incidenza nei neri.
EZIOPATOGENESI multifattoriale, risultano implicati:
• Fattori ambientali: in primis fumo di sigaretta e alcool soprattutto in Europa e Stati Uniti, il loro
potenziale cancerogenico è potenziato da diete povere di frutta e verdura, cibi piccanti e ingestione di
cibi o bevande troppo caldi o freddi. Altro fattore importante è l'ingestione di cibi contenenti alte
concentrazioni di nitrati cancerogeni, responsabili dell'alta incidenza di K squamocellulare in Cina.
• Fattori predisponenti: esofagite cronica in pazienti con reflusso o determinata da agenti ambientali,
acalasia, infezione da HPV, irradiazione dell’esofago
• Condizioni di rischio: gastroresezione.
ANATOMIA PATOLOGICA il K squamocellulare inizia come una lesione in situ macroscopicamente non
apprezzabile localizzata nel 50% dei casi nel 3° medio, soprattutto al limite con quello inferiore, nel 30% dei
casi nel 3° distale e nel 20% in quello cervicale. Nelle forme avanzate la neoplasia cresce di dimensioni
rimanendo asintomatica fino a diametri di circa 5 cm e si può manifestare in forma esofitica, ulcerosa o
diffusamente infiltrativa.
Il tumore tende a infiltrare in profondità e ad estendersi in senso longitudinale. Molto precoci sono le metastasi
linfonodali e anche l’invasione delle strutture contigue (trachea, rachide, bronchi) avviene precocemente, mentre
le metastasi ematiche sono molto tardive e riguardano soprattutto fegato, polmone e ossa.
CLINICA l’esordio è tardivo, infatti i sintomi si manifestano solo quando il lume esofageo residuo è ridotto
sotto 1 cm. Si avrà quindi disfagia, prima intermittente e solo per cibi solidi e poi persistente fino a rendere
impossibile l'alimentazione, rigurgito, dolori retrosternali irradiati al collo o al dorso per invasione del plesso
periesofageo, scialorrea per incapacità di deglutire la saliva e disfonia in seguito a compressione di uno o
entrambi i ricorrenti nei tumori del 3° superiore. La difficoltà ad alimentarsi conduce quindi a uno stato di
dimagrimento e astenia fino alla cachessia.
Adenocarcinoma
È una neoplasia epiteliale maligna a differenziazione ghiandolare che insorge soprattutto nel 3° distale
dell'organo in sede di esofago di Barrett. La sua incidenza è in costante aumento nei paesi industrializzati, dove
ha incidenza pari o maggiore a quella del K squamoso. Colpisce soprattutto uomini (7:1), di razza bianca, sopra
i 40 anni.
EZIOPATOGENESI la quasi totalità di essi insorge nel contesto della metaplasia presente nell'esofago di
Barrett che ne è quindi il principale fattore di rischio.
ANATOMIA PATOLOGICA la neoplasia si trova in quasi tutti i casi nell'esofago distale nel contesto di
Barrett ad alto grado, e può estendersi anche al cardias e allo stomaco prossimale ponendo problemi di diagnosi
differenziale, nelle fasi avanzate, con l'adenocarcinoma gastrico. Inizialmente il tumore è poco evidente e si
rileva solo una piccola area di mucosa leggermente rilevata o depressa, mentre nelle fasi avanzate le dimensioni
possono raggiungere anche i 5 cm e formare ulcere o, più raramente, avere aspetto vegetante nel lume. Come
per il k squamoso le metastasi per via linfatica e per contiguità sono frequenti e precoci, mentre la
metastatizzazione per via ematica è tardiva.
CLINICA è la stessa del K squamoso e nella metà dei casi si rilevano i sintomi tipici della MRGE.
PROGNOSI è sfavorevole con una sopravvivenza a 5 anni inferiore al 30% ma che può aumentare, in caso di
resezione precoce e adeguata, fino all'80%.
TERAPIA K SQUAMOSO E ADENOCARCINOMA la terapia dipende dallo stadio della malattia e dalle
condizioni generali del paziente. Può essere eseguita una resezione chirurgica curativa o palliativa, oppure radio
e chemioterapia o trattamenti combinati. Generalmente il 30-40% dei tumori esofagei sono resecabili.
L’intervento chirurgico comporta una fase demolitiva (esofagectomia + mediastinectomia posteriore +
linfadenectomia) e una fase ricostruttiva nella quale viene ripristinata la continuità alimentare. L’esofagectomia

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deve essere eseguita resecanso almeno 6 cm di tessuto sano a monte della neoplasia. La sostituzione
dell’esofago e quindi la ricostruzione della via alimentare può avvenire utilizzando: lo stomaco (esofago
gastroplastica), il digiuno (esofagodigiunoplastica) o il colon (esofagocolonplstica).

STOMACO E DUODENO
ULCERA PEPTICA
L´ulcera peptica è una lesione focale che interessa la mucosa dell´apparato digerente esposta all´azione del
secreto acidopeptico. Essa si presenta come una lesione per lo più solitaria, che può approfondirsi nella parete
gastrica o duodenale oltre la muscularis mucosae, raggiungendo e spesso superando la tonaca muscolare (ciò
distingue le ulcere dalle semplici erosioni, caratterizzata da rapida e completa restitutio ad integrum, che invece
qui non può aversi per la maggior profondità della lesione. La localizzazione più frequente dell´ulcera è a livello
gastrico e duodenale, ma essa può comparire anche a livello esofageo (in caso di reflusso acido o alcalino), a
livello digiunale (dopo gastro-enteroanastomosi e nella sindrome di Zollinger-Ellison), e talora anche
nel diverticolo di Meckel, per la presenza di mucosa gastrica ectopica. 
Gli uomini sono colpiti più frequentemente delle donne, con un rapporto di 3:1. La localizzazione duodenale è
quella più frequente, tranne che nelle casistiche giapponesi, in cui prevale l´ulcera gastrica. Il 5-15% dei pazienti
presenta contemporaneamente ulcera gastrica e duodenale. Negli uomini la comparsa dell´ulcera peptica è rara
prima dei 20 anni, ma la sua incidenza cresce nel corso delle decadi successive fino a raggiungere un plateau in
corrispondenza dei 50 anni. L´insorgenza dell´ulcera nelle donne è poco frequente in età premenopausale; ciò
suggerisce un possibile ruolo protettivo esercitato da fattori ormonali.
La secrezione gastrica di HCl e pepsina svolge un ruolo fondamentale nella patogenesi dell´ulcera; è dimostrato
infatti che l´ulcera peptica non insorge in caso di acloridria.
La mucosa gastro-duodenale in condizioni normali è assai resistente all´azione del secreto acido-peptico; l
´insorgenza dell´ulcera nello stomaco e nel duodeno viene quindi considerata la risultante di uno squilibrio tra i
fattori aggressivi per la mucosa (HCl e pepsina, sostanze gastrolesive, batteri, ecc.) e quelli difensivi (secrezione
di muco e bicarbonato, flusso ematico intramucoso, turnover cellulare) che concorrono alla costituzione della
cosiddetta "barriera mucosa".
La mucosa degli altri tratti dell´apparato digerente risulta invece particolarmente vulnerabile alle secrezioni
gastriche: il reflusso acido nel terzo inferiore dell´esofago nei soggetti con incontinenza cardiale, e il passaggio
di chimo acido nelle anse digiunali in seguito a gastro-enteroanastomosi possono infatti indurre l´insorgenza di
ulcere peptiche. Tuttavia, in considerazione della bassa incidenza di queste due ultime forme, con il termine di
ulcera peptica si indica comunemente la patologia ulcerosa gastro-duodenale, che rappresenta il 98% dell´intera
patologia ulcerosa.
L´eziopatogenesi, il quadro clinico e la strategia terapeutica dell´ulcera gastrica sono per molti aspetti diversi da
quelli dell´ulcera duodenale; le due patologie vengono perciò illustrate separatamente.
ULCERA GASTRICA
EPIDEMIOLOGIA la sua massima incidenza si verifica in età compresa tra i 50 e i 60 anni, cioè un’età media
di circa 10 anni superiore a quella dei pazienti affetti da ulcera duodenale. L´ulcera gastrica compare con
maggior frequenza nelle classi sociali più basse, ma non è chiaro se ciò sia legato a particolari fattori alimentari
e psico-sociali o a comportamenti a rischio, quali fumo,assunzione di caffè, stress emotivi, impiego di farmaci
antinfiammatori non steroidei (FANS).
EZIOPATOGENESI  non è completamente nota, tuttavia sono stati identificati numerosi fattori patogenetici
tra i quali i più importanti sono l´infezione da Helicobacter pylori e i FANS.
I pazienti portatori di ulcera gastrica presentano in genere una produzione di acidità gastrica
normale o lievemente inferiore alla norma; per questo motivo l´ipotesi patogenetica più accreditata è quella di
una diminuzione della resistenza della barriera mucosa gastrica all´azione aggressiva del secreto acido-
peptico. L´azione protettiva del muco, ricco di bicarbonati, si esplica mantenendo a livello della mucosa un
valore di pH più elevato rispetto a quello del secreto gastrico; si costituisce così una barriera che impedisce la
retrodiffusione degli ioni idrogeno secreti nel lume. La componente glicoproteica del muco contribuisce inoltre
a neutralizzare le pepsine.Il rapido turnover delle cellule epiteliali dello stomaco garantisce la rapida riparazione
delle eventuali lesioni dovute all´azione aggressiva del succo gastrico.
• Nello stomaco dei pazienti affetti da ulcera gastrica sono costantemente riscontrabili alterazioni di tipo
gastritico.
Studi accurati hanno dimostrato che la comparsa della gastrite precede quella dell´ulcera e che le
mucose coinvolte dal processo gastritico presentano una ridotta capacità di secrezione di bicarbonato nel
muco; il conseguente aumento locale della retrodiffusione degli idrogenioni potrebbe spiegare l
´insorgenza dell´ulcera. La gastrite cronica antrale è forse la condizione gastritica le cui correlazioni con
l´insorgenza dell´ulcera gastrica sono state meglio approfondite; essa consegue spesso alla presenza di
H. pylori e di reflusso duodeno-gastrico. 
Le gastriti sono patologie caratterizzate dalla documentazione istologica di cellule infiammatorie nella mucosa
gastrica. Pssono essere causate da una vasta gamma di agenti: infettivi (H. pylori), endogeni (uremia, shock,
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reflusso biliare, amiloidosi, ecc), esogeni (FANS, fumo, alcol, chemioterapici, assunzione di acidi o alcali,
gastrectomia distale, intubazione nasogastrica, ecc). Tutti causano alterazioni della barriera mucosale gastrica
così che la parete dello stomaco è più sensibile all'azione acida dello stomaco che può o meno essere aumentata.
Esse vengono classificate in base all’eziologia:
---Gastrite da H. pylori: è il più importante agente eziologico delle gastriti che si possono definire, per il quadro
clinico, come croniche. La presenza dell'infezione si rileva nel 90% delle gastriti antrali, in quanto il batterio
predilige le aree a più alta acidità dello stomaco. Nei paesi del terzo mondo l'infezione raggiunge prevalenze del
90% perdurando per decenni in maniera asintomatica, in Occidente la sua incidenza è in costante diminuzione.
L'infezione, soprattutto se comporta atrofia, è un importante fattore di rischio per l'insorgenza di ulcera peptica e
di cancro gastrico. L'infezione da HP si associa a un ricco infiltrato granulocitario (indice di gastrite attiva,
normalmente associato a forme acute ma non in questo caso). e può causare due tipi di gastrite:
o Gastrite non atrofica antro predominante. Questa forma è la più frequente in Africa e in Occidente.
o Gastrite atrofica multifocale o pangastrite atrofica: in cui l'atrofia si estende rapidamente dall'antro alla
mucosa ossintica. Questa forma è più comune in Asia.
---Gastrite da agenti chimici: si associa a erosioni e ulcere con scarso infiltrato infiammatorio (definite infatti
anche gastropatie) e scarsa tendenza all'atrofia. La causa più comune è l'assunzione di FANS (anti-COX1), altre
sono l'abuso di alcol, il reflusso duodenale e l'assunzione di caustici che porta a quadri acuti e ampie lesioni.
---Gastrite autoimmune: rappresenta il 10% delle forme ad andamento clinico cronico ed è dovuta alla presenza
di autoanticorpi contro le cellule parietali ed il fattore intrinseco a cui consegue distruzione delle ghiandole e
atrofia della mucosa con perdita della produzione acida e di fattore intrinseco (anemia perniciosa presente nel
10% dei pazienti) e aumento di quella della gastrina.
• La nota capacità degli acidi organici deboli, tra cui gli acidi biliari, di ridurre la secrezione di
bicarbonato a livello gastrico depone per il possibile ruolo patogenetico del reflusso duodeno-gastrico
nell´insorgenza dell´ulcera. Nei pazienti con ulcera gastrica che presentano iposecrezione acida, i livelli
di gastrina nel siero sono spesso aumentati. Ciò potrebbe conseguire alla ridotta acidità gastrica, oppure
ad un rilascio di gastrina indotto in via riflessa dalla distensione gastrica, condizione di frequente
riscontro in questi pazienti. In ogni caso l´azione della gastrina non sembra influenzare l´insorgenza
dell´ulcera incrementando la produzione acida, bensì inibendo il tono dello sfintere pilorico e quindi
favorendo il reflusso duodeno-gastrico. 
• Nel 50-65% dei pazienti portatori di ulcera gastrica vi è la presenza dell´Helicobacter pylori, che è in
grado di indurre una reazione infiammatoria locale con attivazione del complemento e lesione delle
cellule epiteliali, rappresentando quindi il principale fattore causale dell´ulcera. 
• Numerosi fattori iatrogeni e dietetico-comportamentali possono facilitare l´insorgenza dell´ulcera
gastrica. I farmaci antinfiammatori non steroidei (FANS) riducono la concentrazione di bicarbonato nel
muco ed inibiscono la sintesi delle prostaglandine, alcune delle quali esercitano azione protettiva sulla
mucosa gastrica. Anche il cortisone esercita azione gastrolesiva, probabilmente alterando l´entità del
flusso ematico mucoso.
• Le amine simpatico-mimetiche e le metilxantine, in particolare la caffeina, possono incrementare
drasticamente la produzione acida gastrica, mentre le cere contenute nel caffè posso interferire con le
capacità di difesa della mucosa gastrica. Anche gli acidi grassi della dieta sono in grado di diminuire la
resistenza della mucosa all´aggressione acida, probabilmente deprimendo la secrezione di bicarbonato
nel muco.
• Il fumo di sigaretta rallenta lo svuotamento dello stomaco e incrementa il reflusso duodeno-gastrico,
oltre a ridurre la secrezione di bicarbonato.
• Numerose osservazioni hanno evidenziato una predisposizione genetica per lo sviluppo dell´ulcera
gastrica: una maggiore incidenza della malattia si riscontra nei soggetti di gruppo sanguigno 0, nei
portatori di aplotipo HLA-B5 e nei soggetti che non secernono antigeni del sistema AB0 nei liquidi
organici (non secretori). 
• Anche i fattori di tipo psico-sociale sembrano giocare un ruolo significativo nella comparsa di ulcera
gastrica: individui con personalità fragile e dipendente, o esposti a situazioni di elevata conflittualità o
competizione, sviluppano l´ulcera gastrica con frequenza più elevata. È possibile che la comparsa dell
´ulcera consegua anche ad un aumentato rilascio di mediatori adrenergici, ACTH e ormoni
glicocorticoidi, oppure ad una esasperata stimolazione vagale. È anche possibile che l´aumento di
frequenza dell´ulcera peptica sia il risultato di abitudini alimentari e di vita a rischio, quali l´abuso di
fumo e caffè, e i disordini dietetici.
ANATOMIA PATOLOGICA l´85% delle ulcere è localizzato lungo la piccola curvatura, mentre il restante
15% si distribuisce sulla parete anteriore e posteriore e lungo la grande curvatura. Molto frequente è la presenza
concomitante di gastrite antrale (con l´eccezione delle ulcere indotte dai FANS), che può estendersi talvolta all
´intero stomaco. L´aspetto macroscopico dell´ulcera gastrica benigna è quello di una lesione escavata, che
insorge su mucosa edematosa ed iperemica a causa del processo gastritico. Il fondo dell´ulcera appare di solito
liscio e deterso per digestione dell´essudato; talvolta si evidenzia un vivace tessuto di granulazione, nel contesto
del quale si possono individuare vasi trombosati o segni di sanguinamento in corso. La profondità dell´ulcera è
variabile; può superare appena la muscularis mucosae oppure può arrivare alla sierosa ed anche superarla,
causando una perforazione libera in cavità peritoneale o approfondendosi entro organi contigui (per es. fegato,
72
pancreas). L´ispessimento e la nodularità dei margini si osservano raramente nell´ulcera peptica; simili reperti
devono far sorgere il sospetto che si tratti di un´ulcera neoplastica maligna. Peraltro, all´ispezione endoscopica
non esistono segni distintivi che consentano di discriminare con precisione tra ulcera benigna e neoplastica.
CLINICAalcuni pazienti con ulcera gastrica sono asintomatici. Quando la presenza dell´ulcera gastrica
diviene clinicamente evidente, il sintomo d´esordio è comunemente rappresentato dal dolore epigastrico, di
intensità variabile, insorgente tipicamente entro i primi 30 minuti dopo il pasto (dolore postprandiale precoce).
La possibile coesistenza di spasmo funzionale del piloro può causare episodi di distensione gastrica, con nausea
e vomito di contenuto gastrico. La comparsa di stenosi cicatriziale del piloro si manifesta invece con ripetuti e
frequentissimi episodi di vomito alimentare. La comparsa di dolore epigastrico improvviso, seguito da segni e
sintomi di addome acuto, deve far sospettare la possibile perforazione dell´ulcera. Il 40% degli affetti da ulcera
gastrica riferisce un calo ponderale di entità variabile, legato all´anoressia ed all´avversione per il cibo indotta
dai disturbi. Si può manifestare anemia sideropenica, di grado variabile, legata allo stillicidio ematico cronico.
Un aggravamento della sintomatologia può presentarsi anche in conseguenza di brusche modificazioni delle
abitudini alimentari o lavorative, o dopo periodi di stress psico-fisico o emotivo. La presenza di dolore non
periodico o di brusche modificazioni della sintomatologia devono far supporre l´insorgenza di complicanze o la
natura non peptica (neoplastica) dell´ulcera. L´esordio sintomatologico può essere legato all´insorgenza di
complicanze ab initio; tra queste il sanguinamento e la perforazione rappresentano le evenienze più frequenti.
L´esame obiettivo dell´addome, in assenza di complicanze, permette di rilevare, anche se incostantemente,
dolorabilità alla palpazione in epigastrio ed ipocondrio sinistro, talvolta accompagnata da iperestesia cutanea. 
DIAGNOSI la conferma della presenza di ulcera è endoscopica e radiologica.
L´esame endoscopico va considerato l´approccio diagnostico di prima scelta; la visualizzazione diretta dell
´ulcera permette infatti di valutarne le dimensioni e le caratteristiche morfologiche salienti, nonché di eseguire
prelievi bioptici. Su tali biopsie si può eseguire, oltre all´esame istologico, anche la ricerca dell´Helicobacter
pylori. L´esame endoscopico è inoltre l´esame d´elezione per valutare l´avvenuta guarigione dell´ulcera o la
comparsa di recidive.
All´esame radiologico con pasto baritato il segno diretto della presenza di ulcera gastrica è la nicchia ulcerosa,
visibile come immagine di plus (se vista lateralmente) o di cratere (in visione frontale), dai contorni regolari e
non rilevati, che si proiettano all´esterno del profilo ideale dello stomaco. I segni radiologici di malignità
dell’ulcera sono:  
o la sede diversa dalla piccola curvatura;
o il diametro > 2 cm;
o i contorni irregolari e rilevati;
o la proiezione della nicchia ulcerosa all´interno del profilo ideale dello stomaco.
Data però la possibile natura maligna anche di ulcere dall´aspetto radiologico benigno, è sempre necessario far
seguire all´individuazione radiologica di un´ulcera l´esame endoscopico con prelievi bioptici multipli.
Raramente si rende necessario lo studio della secrezione acida; vi si fa ricorso nei casi in cui si sospetti
acloridria o sdr di Zollinger-Ellison. 
ULCERA DUODENALE
EPIDEMIOLOGIAl´ulcera duodenale è 4-10 volte più frequente dell´ulcera gastrica. Può comparire a
qualunque età, ma il picco di massima incidenza si riscontra nella III e IV decade di vita.
EZIOPATOGENESI non è completamente nota. In circa 2/3 dei soggetti affetti da ulcera duodenale i valori di
BAO e MAO risultano circa doppi di quelli dei soggetti normali.
• Il fattore patogenetico principale dell´ulcera duodenale sarebbe l´ipersecrezione acida, dovuta a:
• aumento numerico delle cellule acido-secernenti della mucosa gastrica (forse per fattori genetici
o iperstimolazione gastrinica che causa iperplasia);
• aumento della risposta gastrica agli stimoli secretori (una maggior risposta agli stimoli ormonali
causa iperplasia);
• alterata capacità di inibizione del rilascio di gastrina (in questi soggetti la gastrinemia a digiuno
è paragonabile a quella dei soggetti sani, mentre gli aumenti postprandiali risultano più marcati
e più protratti nel tempo).
• Anche una stimolazione vagale particolarmente intensa indurrebbe una ipersecrezione acida.
• Molti pazienti con ulcera duodenale presentano alterazioni dello svuotamento gastrico. In questi casi, se
il passaggio di chimo acido in duodeno avviene troppo rapidamente, la capacità tamponante locale può
venire superata e la mucosa duodenale risulta esposta eccessivamente all´acido. Ciò è aggravato dal
fatto che nei pazienti con ulcera duodenale la secrezione di bicarbonato nel muco duodenale e nelle
secrezioni pancreatiche risulta notevolmente ridotta.
• I farmaci simpatico-mimetici, la caffeina e le altre xantine contenute negli alimenti possono facilitare l
´insorgenza di lesioni ulcerose del duodeno, per la loro capacità di incrementare la produzione acida
gastrica.
• Nell´induzione di ulcere duodenali possono giocare un ruolo importante i FANS e i cortisonici, con
meccanismo non ancora perfettamente conosciuto.

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• Il fumo di sigaretta si associa non solo ad una maggiore incidenza di ulcera duodenale, ma anche ad una
ridotta risposta alla terapia, ad un maggiore numero di recidive e ad una mortalità più elevata in caso di
complicanze.
• L´importanza dei fattori psico-sociali è controversa; sembra comunque che le personalità conflittuali e
ansiose siano maggiormente esposte al rischio di ulcera anche a livello duodenale.
• Il ruolo della predisposizione familiare appare particolarmente importante nella comparsa di ulcera
duodenale. Questa si manifesta con frequenza tripla nei parenti di primo grado di soggetti ulcerosi
rispetto alla popolazione generale. Come per l’ulcera gastrica, più esposti sono i soggetti di gruppo
sanguigno 0, i "non secretori" di antigeni del sistema AB0 nei liquidi organici e i portatori di aplotipo
HLA-B5 e HLA-B22. È stato dimostrato che i pazienti con ulcera duodenale presentano livelli elevati
di pepsinogeno I (PGI) nel siero. Poiché si è visto che tali valori elevati vengono ereditati con carattere
autosomico dominante, la determinazione del PGI potrebbe in futuro rappresentare un marker genetico
di predisposizione allo sviluppo di ulcera duodenale. 
• Gastrite e duodenite da Helicobacter pylori si riscontrano in oltre l´85% dei soggetti affetti da ulcera
duodenale. Le alterazioni flogistiche indotte dall´H. pylori potrebbero rendere la mucosa duodenale più
sensibile all´insulto acido, e quindi predisporrebbero all´insorgenza dell´ulcera. Alcuni autori hanno
identificato nei pazienti con ulcera duodenale la presenza di anticorpi anti-IgA secretorie; ciò potrebbe
correlarsi ad una maggiore suscettibilità della mucosa all´azione di agenti esogeni dietetici o batterici,
con maggiore possibilità di insorgenza del danno peptico.
ANATOMIA PATOLOGICA il 95% delle ulcere duodenali si localizza nel bulbo duodenale, entro 3 cm dal
piloro. La parete anteriore del bulbo è la sede più frequentemente interessata; seguono in ordine di frequenza la
parete posteriore e i margini superiori e inferiore del bulbo. Il diametro medio delle ulcere duodenali è di circa 1
cm, ma è possibile riscontrare ulcere giganti del diametro di oltre 3 cm, che possono occupare praticamente la
maggior parte del bulbo. I caratteri morfologici delle ulcere duodenali sono simili a quelli dell´ulcera gastrica.
Le complicanze dell´ulcera duodenale sono l´emorragia, la perforazione e la stenosi; la possibilità di
cancerizzazione sembrerebbe esclusa.
Data la sottigliezza della parete duodenale, le ulcere della parete anteriore del bulbo vanno incontro a
perforazione con una certa facilità. Le ulcere della parete posteriore del bulbo tendono invece a penetrare nella
testa del pancreas, e possono portare allo sviluppo di reazioni sclero-infiammatorie del pancreas, di fistole
duodenobilari o di pancreatite acuta. Le complicanze emorragiche dell´ulcera duodenale possono essere fatali,
perché l´approfondirsi dell´ulcera può comportare l´erosione di rami arteriosi importanti, quali l´arteria
pancreatico-duodenale superiore e l´arteria gastroepiploica destra.
Le ulcere peptiche postbulbari, piuttosto rare, deve indirizzare verso il sospetto di sindrome di Zollinger-Ellison
o di una neoformazione maligna ulcerata.
CLINICA benché alcuni pazienti con ulcera duodenale attiva siano asintomatici, solitamente è caratteristica la
presenza di dolore epigastrico, talvolta riferito come senso di fastidio o di fame, ma più spesso definito come
sordo, costrittivo. In alcuni casi si localizza a destra, e può irradiarsi alla spalla destra o alla regione dorso-
lombare.
Quest´ultima irradiazione è spesso segno dell´approfondirsi dell´ulcera nella testa del pancreas.
Il dolore compare tipicamente da 1 ora e mezza a 3 ore dopo il pasto (postprandiale tardivo), e in più della metà
dei casi è causa di risveglio notturno del paziente. L´assunzione di cibo e antiacidi comporta la risoluzione del
dolore in breve tempo. Episodi di nausea e vomito possono essere indotti da spasmo riflesso del piloro, atonia
gastrica riflessa, discinesie del bulbo, oppure possono conseguire alla presenza di stenosi cicatriziale del piloro e
del bulbo duodenale. La sintomatologia tende ad essere episodica e ricorrente. Tipica è la recrudescenza
stagionale in primavera e autunno. Periodi sintomatici della durata di alcuni giorni o settimane si alternano a
remissioni anche di mesi o anni.
L´esame obiettivo dell´addome, in assenza di complicanze, può essere negativo, oppure può rivelare la
comparsa di dolore alla palpazione lungo la linea xifo-ombelicale e nel triangolo pancreatico-coledocico di
Chauffard-Rivet. I pazienti con ulcera del canale pilorico, o portatori contemporaneamente di ulcera gastrica e
duodenale, presentano solitamente una sintomatologia prevalentemente riferibile a quella dell´ulcera duodenale. 
DIAGNOSIla conferma della presenza di ulcera viene fornita dall´endoscopia o dalla radiologia.  
COMPLICANZE DELL’ULCERA PEPTICA
Perforazione
La perforazione avviene in genere per l´erosione lenta della parete gastrica o duodenale in seguito alla
penetrazione progressiva dell´ulcera. Quando compare una perforazione libera nel cavo peritoneale, la sede della
perforazione, in caso di ulcera gastrica, è normalmente rappresentata dalla piccola curvatura o dalla parete
anteriore dello stomaco in regione antrale. La maggior parte delle ulcere duodenali perforate si localizza sulla
parete anteriore del duodeno. La maggior frequenza di perforazione anziché di sanguinamento in corrispondenza
delle pareti anteriori è spiegabile con la minore possibilità di formazione di aderenze viscerali e con l´assenza di
vasi ematici di diametro maggiore in tali sedi. Se invece si creano aderenze di tessuti contigui prima che la
perforazione abbia luogo, si svilupperà la cosiddetta perforazione coperta.

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Il quadro clinico della perforazione di ulcera è quello della peritonite acuta. Inizialmente la peritonite è di natura
chimica irritativa, ma si trasforma entro 12-24 ore in peritonite purulenta per la proliferazione dei batteri
fuoriusciti nel cavo peritoneale. Nel caso dell´ulcera perforata coperta il quadro clinico è spesso rappresentato
dalla peritonite saccata, che evolve verso la formazione di un ascesso localizzato.
La sintomatologia è caratterizzata da esordio acuto, con improvviso dolore intensissimo, spesso descritto come
"una pugnalata", insorgente in epigastrio o in ipocondrio destro, di tipo continuo. Al dolore si possono associare
ripetuti conati di vomito. Il dolore tende in seguito ad irradiarsi a tutti i quadranti addominali, al dorso ed alle
regioni sovraclaveari. Nel caso di una perforazione coperta la sintomatologia dolorosa può attenuarsi per
qualche tempo, senza però recedere mai del tutto; si acuisce in seguito per la comparsa del quadro peritonitico.
Febbre e leucocitosi compaiono entro poche ore. Il paziente assume spontaneamente una posizione
raggomitolata, al fine di detendere la contrattura addominale che segue pressoché subito l´insorgenza del dolore,
per ottenere così un effetto antalgico. Il paziente presenta spesso i sintomi e i segni dello shock: la cute è pallida,
fredda e sudata, il polso è frequente e filiforme, la pressione arteriosa diminuita.
L´esame obiettivo dell´addome rivela la presenza di una vivace reazione di difesa, che ostacola o impedisce del
tutto le manovre palpatorie (addome "ligneo" o "a tavola"). La cute dell´addome presenta spesso estese aree di
iperestesia. Alla percussione dell´addome e del torace la scomparsa dell´area di ottusità epatica costituisce la
conferma clinica dell´avvenuta perforazione. La peristalsi intestinale è assente, vi è chiusura dell´alvo alle feci
e ai gas, e compare meteorismo diffuso; ciò configura il quadro dell´ileo paralitico. 
La diagnosi generica di perforazione di viscere addominale viene posta in base all´anamnesi (talvolta muta per
quanto riguarda segni e sintomi di ulcera), all´esame obiettivo e al riscontro, all´esame radiologico diretto dell
´addome, di aria subfrenica. Quando il paziente giunge all´osservazione, dopo le necessarie manovre
rianimatorie, bisogna procedere allo svuotamento dello stomaco con un sondino naso-gastrico di grosso calibro,
per arrestare lo spandimento del contenuto gastro-duodenale nel cavo peritoneale e preparare il paziente all
´intervento. Vanno inoltre tempestivamente attuate una profilassi antibiotica ad ampio spettro e la
somministrazione di farmaci anti-H2-recettori. Il paziente va subito preparato per l´intervento chirurgico. La
scelta del tipo di intervento viene effettuata in relazione alle condizioni del paziente; se queste sono critiche per
la presenza di grave shock settico o di insufficienze d´organo, si ricorre abitualmente alla semplice raffia dell
´ulcera. Nella maggior parte dei casi la raffia, unitamente alla terapia antiacida e con anti-H 2-recettori, è in grado
di risolvere la complicanza. Raramente è necessaria l´esecuzione di una gastroresezione, o si può eseguire l
´exeresi dell´ulcera, con vagotomia e piloroplastica, per prevenire la recidiva ulcerosa e per favorire lo
svuotamento gastrico.
Emorragia
Nel 45% dei casi di sanguinamento del primo tratto del tubo digerente la causa è rappresentata da ulcera peptica,
la quale porta a emorragia nel 15-20% dei casi, causando circa la metà dei decessi imputabili alla malattia
ulcerosa. In molti casi la presenza dell´ulcera è già documentata in precedenza, tuttavia l´emorragia può
costituire il sintomo d´esordio della malattia, ed allora chiarisce l´origine di disturbi minori e spesso
sottovalutati.
Il rischio di ricomparsa del sanguinamento è massimo nei primi 2 giorni dal primo episodio. Il maggior rischio
di recidiva si riscontra in presenza dei seguenti fattori: esordio con ematemesi, età > 60 anni, valori di Hb < 8
g/dl al momento dell´osservazione, sanguinamento da ulcera gigante ed evidenza all´esame endoscopico di vasi
beanti nel fondo dell´ulcera.
Le ulcere gastriche e quelle duodenali presentano una frequenza di sanguinamento pressoché sovrapponibile. La
recidiva di sanguinamento è però circa 3 volte più frequente nell´ulcera gastrica. Inoltre le emorragie ad origine
gastrica sono in genere più gravi e nel 10% dei casi si associano alla perforazione. L´elevata mortalità può
essere contenuta solo con una terapia trasfusionale tempestiva e adeguata e con il ricorso precoce all´intervento
chirurgico nei pazienti per i quali la terapia medica sia inefficace. 
Un´emorragia acuta si manifesta generalmente con ipotensione, anemizzazione acuta e melena. Se l´emorragia è
copiosa, ai segni di anemizzazione fa seguito la comparsa di ematemesi; la melena compare di solito a distanza
di qualche ora, ma l´emissione di scariche diarroiche commiste a sangue può essere quasi contemporanea all
´ematemesi se i movimenti peristaltici intestinali risultano aumentati in conseguenza del passaggio di sangue
nell´intestino. In assenza di perforazione, l´esame obiettivo dell´addome è raramente significativo. Dopo le
manovre rianimatorie è indispensabile procedere all´accertamento della sede e della natura del sanguinamento,
tramite l´esecuzione dell´esame endoscopico, che evidenzia l´origine dell´emorragia in oltre l´80% dei casi. L
´esame radiologico con pasto baritato in corso di sanguinamento è in genere di scarso ausilio.
In circa 3/4 dei pazienti con sanguinamento da ulcera peptica il trattamento medico è sufficiente ad arrestare il
sanguinamento e a stabilizzare le condizioni. Il posizionamento di un sondino naso-gastrico di grosso calibro
permette il lavaggio dello stomaco, la rimozione di sangue e coaguli e il monitoraggio dell´eventuale ripresa del
sanguinamento. Si inizia quindi la somministrazione di farmaci antiacidi e procoagulanti (eventualmente
instillati localmente tramite il sondino naso-gastrico) e di farmaci anti-H 2-recettori a dosaggio pieno. Il 25% dei
pazienti affetti da ulcera peptica sanguinante in modo acuto richiede comunque il ricorso all´intervento
chirurgico d´urgenza. Per i pazienti che, nonostante il temporaneo arresto dell´emorragia, presentino un rischio

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elevato di recidive e mostrino refrattarietà al trattamento medico, si deve programmare l´intervento chirurgico in
condizioni di elezione.
Stenosi
È una complicanza abbastanza frequente nel caso di localizzazione iuxtapilorica dell´ulcera. Inizialmente il
quadro è quello di stenosi funzionale del piloro, sensibile alla terapia antispastica, indotta dalla vicinanza della
lesione ulcerosa. La stenosi organica compare quando la flogosi perilesionale raggiunge ed infiltra l´anello
pilorico e ne provoca la sclerosi. 
Se la stenosi è modesta, lo stomaco riesce a svuotarsi, seppure con lentezza, ed il paziente è in grado di
sopportare la situazione dispeptica che ne consegue, caratterizzata da senso di peso e distensione epigastrica.
Alla difficoltà di svuotamento dello stomaco corrisponde generalmente un aumento della peristalsi gastrica, con
progressiva ipertrofia della tunica muscolare. In seguito però compaiono ipotonia e gastrectasia imponente. Nei
casi di stenosi serrata il vomito alimentare si fa sempre più frequente e talvolta viene provocato dal paziente
stesso per alleviare lo stato di distensione gastrica. In poco tempo dall´insorgenza della stenosi, in conseguenza
del ridotto assorbimento e del diminuito apporto alimentare che il paziente si impone per evitare l´insorgenza
del vomito, si instaurano un calo ponderale cospicuo e una condizione di mal nutrizione; a questa si associano
disidratazione e alterazioni elettrolitiche in conseguenza del vomito (alcalosi ipocloremica).
La terapia della stenosi pilorica serrata consiste inizialmente nella correzione degli eventuali squilibri idro-
elettrolitici e dell´equilibrio acido-base e quindi nella gastroresezione distale con gastro-enteroanastomosi,
oppure nel bypass della stenosi mediante gastro-enterostomia a monte della stessa.
Cancerizzazione
La possibilità di trasformazione maligna di un´ulcera peptica gastrica è bassissima. Si ritiene che la quasi totalità
delle ulcere neoplastiche gastriche insorgano come tali fin dall´inizio.
TERAPIA DELL’ULCERA PEPTICA
Terapia medica
Comporta in primo luogo la rimozione dei fattori che riducono la resistenza delle barriere mucose e che
incrementano la produzione acida. Si deve quindi porre attenzione nell´utilizzo di farmaci gastrolesivi (FANS),
che devono essere sospesi quando possibile; è consigliabile sospendere il fumo. Anche se i provvedimenti
dietetici non ottengono da soli effetti significativi sulla cicatrizzazione dell´ulcera, è consigliabile ridurre l
´assunzione di alimenti contenenti xantine (caffè, tè, coca-cola) e gli alcolici. Il paziente deve essere invitato ad
avere un´alimentazione regolare con spuntini leggeri negli intervalli tra i pasti. Nella maggior parte dei casi l
´ulcera peptica guarisce dopo terapie con farmaci che tamponano od inibiscono la secrezione acida gastrica
(antiacidi, antagonisti dei recettori H 2 istaminici, inibitori della pompa protonica) o con farmaci ad attività
protettiva diretta sulla mucosa (per es. sucralfato, tricitrato di potassio bismuto). 
Sebbene le ulcere possano cicatrizzare rapidamente grazie all´efficacia dei farmaci sopra citati, la recidiva
ulcerosa è frequente se si interrompe la terapia; si osserva circa l´80% di recidive ad un anno dall´interruzione
del trattamento. 
Nel tentativo di prevenire le recidive ulcerose, in un passato relativamente recente i pazienti sono stati sottoposti
a terapie di mantenimento con farmaci inibitori della secrezione acida gastrica (H 2-antagonisti ed inibitori della
pompa protonica): bassi dosaggi di questi farmaci, assunti in modo continuativo, si sono dimostrati efficaci nel
ridurre la frequenza di recidive e l´incidenza di complicanze. La scoperta dell´importanza clinica dell´infezione
gastrica da H. pylori, per la sua alta prevalenza nei pazienti affetti da malattia ulcerosa, ha fornito l´opportunità
di modificare la storia naturale della malattia. Molti studi concordano nell´affermare che quando l´infezione
da H. pylori viene eradicata, la recidiva di ulcera, sia duodenale sia gastrica, è inferiore al 2% a distanza di un
anno. L´eradicazione dell´H. pylori riduce contemporaneamente anche le complicanze della patologia peptica,
compresa l´emorragia.
Terapia chirurgica
L´intervento chirurgico è indicato in presenza di: 
- ulcere refrattarie alla terapia, specialmente se insorte nello stomaco, o recidivanti, che comportano grave
sintomatologia dolorosa e limitano fortemente la qualità di vita del paziente;
- sospetto di natura maligna dell´ulcera, anche in caso di negatività dei reperti istologici;
- scarsa accettazione del trattamento medico da parte del paziente. 
Le finalità della chirurgia sono: asportare l´ulcera resecando lo stomaco distale e il bulbo duodenale e/o ridurre
la secrezione acida gastrica recidendo i rami gastrici del nervo vago. 
Gli interventi sono:
-Vagotomia: abolendo gli stimoli vagali che giungono alla porzione acido-secernente dello stomaco e all´antro
gastrico, la vagotomia mira ad ottenere la riduzione della secrezione acida gastrica e del rilascio di gastrina
indotto dalla stimolazione nervosa. Tali effetti della vagotomia sono confermati dalla risposta alla stimolazione
pentagastrinica, che nei soggetti vagotomizzati è pari solo al 25-30% di quella dei soggetti sani. La percentuale
di recidive ulcerose dopo vagotomia è abbastanza elevata: mediamente del 10%. Dopo l´avvento dei farmaci
bloccanti H2-recettori, la vagotomia viene eseguita assai raramente per il trattamento dell´ulcera peptica. 
La vagotomia tronculare consiste nella resezione di 2-3 cm dei nervi vaghi al loro ingresso nell´addome, nella
porzione adiacente al tratto sottodiaframmatico dell´esofago. La tecnica comporta una totale denervazione dello
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stomaco e causa stasi gastrica per atonia della parete e mancata inibizione della contrazione pilorica; ciò si
verifica fino alla ripresa spontanea dell´attività peristaltica in seguito alla comparsa di un´attività nervosa
autonoma da parte del plesso di Auerbach, che avviene a distanza di parecchie settimane dall´intervento. Tali
effetti collaterali impongono di associare alla vagotomia tronculare la piloroplastica (sezione e ampliamento
dello sfintere pilorico), oppure un´anastomosi gastro-enterica, per evitare problemi di svuotamento dello
stomaco.
Per evitare l´insorgenza di una sindrome postvagotomica e la necessità di associare interventi di drenaggio
gastrico, si può eseguire la vagotomia selettiva distale, che consiste nella sezione dei nervi vaghi poco sotto la
biforcazione in ramo gastrico e ramo extragastrico. È così possibile preservare il ramo epatico del vago di
sinistra e quello celiaco del vago di destra; tale intervento viene di regola eseguito in associazione con l
´antrectomia o con una gastroresezione. 
Con la vagotomia selettiva prossimale, o superselettiva, vengono sezionati in prossimità della parete gastrica
solo i rami nervosi destinati ai 2/3 prossimali dello stomaco; si ottiene così la denervazione della porzione
acido-secernente dello stomaco, conservando invece l´innervazione dell´antro e del piloro. Lo svuotamento
gastrico risulta quindi normale e non è necessario eseguire la piloroplastica.
La vagotomia non risulta efficace nella sindrome di Zollinger-Ellison e nelle altre condizioni di ipergastrinemia,
perché in tal caso l´ipercloridria è totalmente indipendente dal controllo vagale. 
-Antrectomia con vagotomia: nei pazienti che presentano una produzione acida molto elevata in risposta allo
stimolo pentagastrinico può essere utile procedere all´asportazione dell´antro gastrico, del piloro e del duodeno
prossimale riducendo il volume dello stomaco del 30-50%, ed eseguire contemporaneamente la vagotomia. Ciò
evita i disturbi connessi con le resezioni maggiori dello stomaco e riduce l´incidenza delle recidive ulcerose. L
´intervento combinato presenta infatti una percentuale di recidive dell´1-2%. Il ripristino della continuità del
canale alimentare avviene solitamente tramite gastro-duodenostomia termino-terminale o termino-laterale
(intervento secondo Billroth I), o gastro-digiunostomia (intervento secondo Billroth II). 
-Duodeno-gastroresezione: consiste nella resezione di circa i 2/3 distali dello stomaco e della porzione
prossimale del duodeno, seguita da una ricostruzione tipo Billroth II o da gastro-digiunoanastomosi su ansa
digiunale a Y secondo Roux. La duodenogastroresezione offre il vantaggio di rimuovere, oltre all´antro gastrico,
anche una notevole porzione della mucosa acido-secernente. La frequenza di ulcere recidive è dell´1-5%. Per il
trattamento del sanguinamento incontrollabile di ulcere peptiche antrali o del bulbo duodenale si esegue d
´urgenza la duodeno-gastroresezione. 
-Gastrectomia totale: può rendersi necessaria nel caso di ulcere in regione sottocardiale, oppure associate alla
sindrome di Zollinger-Ellison refrattarie alla terapia, o nella gastrite acuta emorragica. L´asportazione completa
dello stomaco è seguita da esofago-digiunostomia per la ricostruzione della continuità del tubo digerente.
COMPLICANZE DOPO INTERVENTI PER ULCERA PEPTICA
Le complicanze più frequenti nel periodo postoperatorio precoce sono:
• deiscenza delle suture anastomotiche dello stomaco (1-4%);
• deiscenza della sutura del moncone duodenale dopo interventi di tipo Billroth II (2%);
• emorragia (2%);
• sviluppo di pancreatite acuta (1,5%).
Le complicanze tardive  possono manifestarsi anche dopo parecchie settimane o anni dall´intervento. Esse sono:
Recidiva ulcerosa: è più frequente dopo vagotomia che dopo intervento di resezione gastrica e si segnala con
la ripresa della sintomatologia dolorosa. Essa insorge generalmente in prossimità dell´anastomosi. La causa
della recidiva è rappresentata spesso dall´esecuzione di un intervento che si rivela insufficiente a controllare la
produzione acida, oppure dalla tecnica chirurgica imperfetta. L´ulcera recidiva può anche essere espressione di
una sindrome di Zollinger-Ellison o di iperparatiroidismo.
Fistole gastro-digiuno-coliche e gastro-coliche: le ulcere anastomotiche recidive possono erodere la parete
digiunale e aprirsi nel lume del colon trasverso, adeso per processi perivisceritici, dando luogo ad una fistola
gastro-digiuno-colica. Una fistolizzazione diretta tra lo stomaco e il colon è più rara.
Gastrite da reflusso biliare: il reflusso del contenuto duodenale nello stomaco è un evento comune dopo
interventi che alterano la funzionalità del piloro. In alcuni casi ciò può causare una gastrite del moncone, rilevata
clinicamente dalla comparsa di dolore epigastrico postprandiale.
Sindrome postvagotomica: la denervazione splancnica che consegue alla vagotomia tronculare induce con una
certa frequenza discinesie biliari e disturbi motori e secretori del tenue e del colon. Tali disturbi possono
persistere per un periodo di tempo non prevedibile fino a configurare una vera e propria sindrome
postvagotomica caratterizzata da cardiospasmo, reflussogastro-esofageo, ristagno biliare da atonia colecistica
con formazione di fango biliare, reflusso duodeno-biliare per atonia dello sfintere di Oddi, riduzione della
secrezione pancreatica esocrina, diarrea. La diarrea è il disturbo più frequente nei pazienti sottoposti a
vagotomia tronculare; 2/3 circa di essi lamentano un aumento di frequenza dell´evacuazione dell´alvo, ma ciò
non si ripercuote seriamente sulla qualità di vita. In presenza di una grave sindrome postvagotomica, se il
trattamento sintomatico con antidiarroici non riesce ad attenuare il disturbo, può rendersi necessario il ricorso all

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´intervento chirurgico, che consiste nell´interposizione di un breve tratto di digiuno in senso antiperistaltico a
circa 1 metro di distanza dal legamento di Treitz.
Dumping syndrome: complicanza poco frequente, che si può presentare nei pazienti sottoposti a piloroplastica,
ad antrectomia, o a gastroresezione, oppure in presenza di anastomosi gastro-digiunale. Tutte situazioni che
causano rapido svuotamento del bolo alimentare per perdita della funzione pilorica e di quella gastrica con
arrivo al piccolo intestino di un abbondante carico osmotico e conseguente sintomatologia caratterizzata da:
sensazione di tensione epigastrica e dolore, diarrea frequentemente esplosiva, vertigini, palpitazioni per
tachicardia, ipoglicemia dopo i pasti. Si evita facendo piccoli pasti, soprattutto di proteine e fibre, e in posizione
clinostatica.
Sindrome dell´ansa afferente: compare dopo gli interventi secondo Billroth II, quando nell´ansa afferente all
´anastomosi gastro-digiunale ristagnano bile, succo pancreatico, succo enterico ed ingesti. La sovradistensione
passiva dell´ansa afferente è spesso segnalata dalla comparsa di epigastralgie; si verifica quindi lo svuotamento
rapido ed improvviso dell´ansa nello stomaco, con la comparsa di nausea e vomito biliare, cui s aggiungono i
sintomi della dumping syndrome.
Cancro del moncone gastrico: c’è un aumento di incidenza dell´adenocarcinoma gastrico dopo resezione
gastrica. Ciò sembra in rapporto con la elevata frequenza di condizioni predisponenti all´insorgenza di neoplasia
gastrica, come la gastrite atrofica, la metaplasia intestinale e la gastrite da reflusso, che insorgono a livello della
mucosa gastrica residua. 

TUMORI DELLO STOMACO


TUMORI BENIGNI
Non hanno una gran rilevanza e consistono in: lipomi, schwannomi, emangiomi, linfangiomi, fibromi ecc..
Inoltre anche nello stomaco, seppur meno frequentemente rispetto ad altri organi come per esempio il colon, si
ha la possibilità di riscontrare lesioni benigne quali il polipo, che può degenerare verso una neoplasia maligna.
I polipi sono lesioni aggettanti nel lume gastrico di origine epiteliale (anche se è da ricordare che i tumori
epiteliali benigni possono presentarsi anche come adenomi piatti). Possono essere adenomatosi o non
adenomatosi.
Quelli non adenomatosi possono essere:
• Amartomatosi. Sono i meno frequenti. Il loro nome viene da amartia, che indica un disturbo della
crescita tissutale di un organo ove alcune parti proprie dell'organo hanno una presenza maggiore. Gli
amartomi si differenziano dalle neoplasie in quanto l'attività mitotica è normale e il tessuto è maturo.
Essi sono semplicemente dovuti ad anomalie di crescita, per lo più dovute ad alterazione dello spazio
tra muscolaris mucosae e lamina propria che non appare lineare (come dovrebbe essere) ma presenta un
certo grado di confusione, per cui la muscolaris mucosae si sfilaccia e tende a infiltrarsi nella lamina
propria: questa alterazione determina una leggera estroflessione della mucosa. L'azione delle forze
cinetiche peristaltiche su questa lieve massa sporgente nel lume tende con gli anni a spingerla verso il
basso trascinandosi dietro la sottomucosa fino a creare una lesione con l’aspetto di un polipo. Questo
tipo di polipo comunque, essendo dovuto solo a una alterazione strutturale e possedendo cellule mature
e normali, non evolve verso neoplasia.
• Iperplastici. Sono i più frequenti in assoluto, anche più degli adenomatosi. Sono dovuti a iperplasia
temporanea della mucosa che forma un’estroflessione, le cui dimensioni non superano però mai i 5mm.
Al microscopio si nota un aumento di volume e numero delle ghiandole, che però sono del tutto
normali, ed esaltata muco secrezione. Questi polipi non evolvono in carcinoma e non hanno grande
rilevanza clinica anche se a volte convivono con polipi neoplastici e/o carcinomi. Talvolta possono
presentare alcuni foci di atipia citologica così da assimilarsi, clinicamente e biologicamente, ai polipi
adenomatosi.
• Carcinoide. Raro a livello dello stomaco ma, poiché può presentarsi con aspetto polipoide, deve essere
tenuto presente per la diagnosi differenziale. Raramente da la tipica sindrome se insorge a livello dello
stomaco.
• Infiammatori: sono qui molto rari, si formano in seguito a infiammazioni e non destano problemi.
Quelli adenomatosi rappresentano il 25% di tutti i polipi e devono essere differenziati dai tipi sopraelencati
perché possono progredire in neoplasia maligna. Istologicamente rispondono alla stessa classificazione fatta per
i polipi del colon, e possono quindi essere classificati in tubulari, papillari (o villosi) e tubulo-papillari. Queste
caratteristiche ci indicano il grado di differenziazione della lesione e ci dicono quale è la possibilità di
evoluzione in carcinoma e si comprendono guardando la superficie della testa del polipo (che è formato da testa,
corpo e base): se questa è liscia siamo ancora in una condizione di buona differenziazione (adenoma tubulare),
mentre se è fronzuta, possiamo ipotizzare che la differenziazione sia altamente deficitaria così che le strutture
cellulari non si concretizzino in ghiandole ma solo in strutture vegetanti nel lume intestinale (adenoma villoso).
La percentuale di villosità del polipo è quindi un indice fedele del fatto che questo sia un carcinoma; fino a un
massimo del 25% di villosità un adenoma si può considerare tubulare, oltre diventa tubulo-villoso (o tubulo

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papillare) e se è completamente indifferenziato si parla di polipo villoso. Se queste caratteristiche ci danno
indicazioni sulla differenziazione, quelle macroscopiche ce le danno sulla proliferazione: il polipo può
presentarsi infatti in forma sessile o in forma peduncolata.
--Il polipo peduncolato è molto simile a quello amartomatoso: ha quindi una testa e un corpo lungo, per cui il
carcinoma che origina da questo tipo di peduncolo richiede più tempo prima che riesca a dare dei problemi.
Originando a livello della testa deve infatti percorrere tutto il peduncolo prima di arrivare alla parete e poter
superare la lamina propria, invadere i tessuti contigui e dare metastasi. Perciò i polipi di questo tipo vanno
analizzati a tre livelli: testa, collo e base. Vedere un polipo peduncolato è quindi sinonimo di crescita lenta che
da il tempo all'energia cinetica delle peristalsi di agire su di esso, dandogli l'aspetto simile a quello
amartomatoso.
--Il polipo sessile cresce invece attaccato all'epitelio e ha una larga base di impianto. In questo caso
l'asportazione completa del polipo è molto più difficile, soprattutto se per via endoscopica, e richiede la
chirurgia tradizionale. Essendo adeso alla parete, il carcinoma che origina da questo tipo di polipo invade
rapidamente la parete potendo così dare metastasi. Il polipo sessile è indice di una replicazione rapida che riesce
a vincere la forza delle peristalsi che spinge verso la conformazione peduncolata. Quindi le lesioni con più forte
spinta proliferativa hanno forma sessile o al massimo peduncolata (peduncolo comunque corto), con testa molto
grossa in quanto la proliferazione inizialmente era lenta, e quindi il polipo si è peduncolato, ma poi si è fatta più
rapida ingrossando la testa in cui avviene. C'è quindi una regola: quando l'endoscopista vede un polipo per
prima cosa gli deve misurare la testa, fino ai 2-2,5 cm la statistica ci dice che il polipo, sebbene neoplastico, non
ha ancora avuto trasformazione carcinomatosa; tra i 2,5 e i 4 cm probabilmente si è già avuta la trasformazione,
anche se probabilmente non va oltre il collo, e sopra i 4 cm questa è invece certa e dobbiamo sperare non abbia
già raggiunto la base.
I polipi possono essere unici, e allora prediligono la zona antro pilorica, oppure possono essere multipli, e allora
si localizzano principalmente nel fondo gastrico. Spesso l’adenomatosi gastrica è associata a poliposi del basso
tratto digerente: per esempio nel 30% degli affetti da poliposi retto-colica familiare o nella sdr di Gardner
(malattia genetica rara caratterizzata da poliposi, osteomi e tumori dei tessuti molli)
Dal punto di vista clinico i polipi gastrici non danno grossi segni di se. Essi sono pertanto reperti occasionali di
indagini eseguite per altra patologia o per gastroscopia eseguita su pazienti dispeptici. L’erosione e l’ulcerazione
di un polipo di dimensioni cospicue può portare a sanguinamento cronico, causa di anemia sideropenica, mentre
vomito e dolore sono quadri estremamente rari. La diagnosi si fa con tecniche endoscopiche e radiologiche.
• Tumori mesenchimali: GIST
GIST (gastrointestinal stromal tumor), è un acronimo che significa tumori stromali-mesenchimali del tratto
gastrointestinale. Questi tumori possono riscontrarsi anche in intestino tenue, colon, mesentere e esofago (in
ordine di frequenza), ma l’incidenza è di gran lunga più alta a livello dello stomaco (il 60% dei GIST è
localizzato nello stomaco, il 20-30% nel piccolo intestino, con maggiore incidenza nel digiuno), dove è
interessato soprattutto il fondo. Le cellule neoplastiche sembra abbiano origine da elementi progenitori delle
cellule interstiziali di Cajal (ICC) del plesso mioenetrico, responsabili del controllo della motilità intestinale.  A
differenza degli altri tumori stromali, hanno peculiari caratteristiche molecolari, ossia: mutazioni dell’oncogene
c-KIT e del gene PDGFRA. Normalmente le ICC formano una rete cellulare nel contesto della parete GI, con
l’obiettivo di svolgere la funzione di pace-maker della motilità del tubo digerente. Importante per lo sviluppo e
l’attività di queste cellule è l’espressione del recettore tirosin-chinasico KIT. Se questo va incontro a mutazioni
(delezioni e inserzioni) si ha il GIST.
L'incidenza di tali neoplasie è di circa 1,5 casi per 100.000 abitanti/anno. Esse rappresentano dunque le più
comuni neoplasie non epiteliali dell’apprato gastroenterico e l’1% di tutti quelli dell’apparato digerente. La loro
incidenza si presume sia però molto più alta, infatti in uno studio giapponese si è visto che su 100 stomaci
asportati per k gastrico erano presenti 50 GIST microscopici, a significare che solo una piccola percentuale dei
tumori presenti a uno stadio microscopico possa accrescersi ed evolvere in forme clinicamente manifeste.L'età
media, in cui la malattia si manifesta, è intorno ai 55 e i 65 anni. Tuttavia esistono anche casi sporadici in età
infantile e giovanile (GIST infantile). Gli uomini hanno un'incidenza superiore a quella delle donne.
Dal punto di vista istopatologico questi tumori si distinguono in tre tipi: a cellule fusiformi (70%), a cellule
epitelioidi (20%) e di tipo misto (10%). Non si è ancora concordi sul ritenere che la prognosi sia influenzata
dall’istotipo, ma si sa con certezza che è influenzata dalla cellularità.
Il comportamento biologico del tumore dipende da molte variabili: dimensioni del tumore, indice mitotico, sito
di origine e caratteristiche radiologiche. Perciò alcuni tumori sono quasi benigni (in realtà il GIST non può mai
essere definito realmente benigno), mentre altri nel tempo possono andare incontro a trasformazione maligna. In
particolare: elevato indice mitotico e dimensioni maggiori di 10 cm sono fattori che incidono negativamente sul
rischio di metastasi e sul rischio di ricorrenza, mentre dimensioni minori di 2 cm indicano un rischio molto
basso. La metastatizzazione, quando avviene , rimane confinata per lo più in cavità addominale o al fegato,
mentre meno frequente è l’interessamento linfonodale, polmonare o in altre sede extra-addominali.
Dal punto di vista clinico questi tumori sono spesso asintomatici, e vengono scoperti accidentalmente nel corso
di esami ecografici e radiologici eseguiti con mezzo di contrasto. In altri casi la sintomatologia può essere
blanda e sfumata e caratterizzata da sintomi aspecifici (sazietà precoce, distensione addominale), oppure vi può

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essere ulcerazione e sanguinamento o crescita tale da indurre dolore o sintomatologia occlusiva, in definitiva i
sintomi più comuni sono: sanguinamento gastrointestinale, massa addominale e dolore addominale. Potendo
insorgere in vari distretti comunque, la sintomatologia varierà: nell’esofago si ha odinofagia, disfagia, calo
ponderale, dolore retro sternale; nello stomaco sanguinamento, dolore, dispepsia; nel tenue dolore e sintomi
occlusivi o subocculisivi; nel colon-retto si ha sanguinamento e alterazioni dell’alvo.
La diagnosi si fa con la clinica e con gli esami strumentali. Tra questi: eco endoscopia (esame più accurato), TC,
RMN, PET, inoltre può essere eseguita un esame citologico, immunoistochimico e PCR per rilevare la presenza
della mutazione del gene KIT, spesso associata a questa malattia.
Il trattamento di elezione per i tumori potenzialmente resecabili è la chirurgia (esofagectomia totale o subototale
nel caso di interessamento dell’esofago, resezione segmentaria dell’organo colpito in caso di GIST gastrici,
digiuno-ileali o colon rettali), quasi mai accompagnata da linfoadenectomia (abbia visto che è raro
l’interessamento dei linfonodi).
Il trattamento medico prevede l'impiego di imatinib, inibitore competitivo di una famiglia di molecole,
tirosonchinasi, legate al recettore c-KIT o PDGFalfa. Esso è usato anche dopo l’intervento chirurgico nella
malattia avanzata non completamente resecata, dopo la chirurgia radicale nei tumori a rischio elevato, e come
terapia primaria nella malattia inoperabile o metastatica.

TUMORI MALIGNI
La maggior parte dei tumori gastrici sono maligni e il 95% dei tumori maligni è rappresentato dagli
adenocarcinomi, il 4% è rappresentato dai linfomi e lo 0,8% dai sarcomi. Ancora più rari sono angiosarcoma,
carcinosarcoma e metastasi di altri tumori.

IL CARCINOMA GASTRICO
L’adenocarcinoma è un tumore altamente aggressivo su cui il chirurgo è l’unico che può intervenire
efficacemente, sempre che la lesione sia stata trovata in una fase non troppo avanzata. Nel 30% dei pazienti il
tumore è però inoperabile perchè già disseminato al momento della diagnosi, questo perché nella gran parte dei
casi esso rimane silente per lungo tempo e dà segni si se quando sono già presenti le metastasi.
EPIDEMIOLOGIA è una delle 5 neoplasie più diffuse al mondo e la seconda nell’apparato digerente sia per
incidenza generale sia per causa di decessi. In occidente la mortalità si aggira intorno ai 6 morti ogni 100mila
abitanti. Il paese in cui è maggiormente diffuso è il Giappone, che infatti ha una cultura maggiore su questo
carcinoma anche se, nonostante i progressi e un importante calo rispetto al passato, la mortalità rimane tuttora
altissima, intorno ai 60 casi su 100mila. Altri paesi ad alto rischio sono: la Cina, l’Islanda, Paesi del centro e del
sud America e dell’est europeo. In Italia l’incidenza è di 20/100mila, con punte più alte in Toscana, Emilia
Romagna e Marche e un notevole gradiente nord-sud (maggiore al nord), questo perché urbanizzazione e
alimentazione hanno ruolo importante nell’eziologia. L’età media di insorgenza del tumore è circa 60 anni e il
rapporto tra uomini e donne varia in relazione con l’età: sotto i 35 anni l’incidenza è uguale, tra i 55 e i 59 anni
rapporto di 2:1, sopra i 60 anni rapporto di 1,5:1.
FATTORI PREDISPONENTI
• Esiste una correlazione significativa tra il fumo di sigaretta e il cancro gastrico, infatti i cataboliti che si
liberano dalla combustione del tabacco e delle altre sostanze contenute nella sigaretta sono dannosi non
solo per il polmone ma anche per altri organi come esofago e, appunto, stomaco.
• Importanti sono i fattori dietetici ed ambientali: si è osservata una diminuzione dell’incidenza della
malattia in giapponesi emigrati in USA già dopo una generazione, e questo perchè cambiano non solo i
fattori ambientali, ma anche i fattori dietetici e in particolare le modalità di assunzione degli alimenti.
L’aumento del rischio del K gastrico è infatti correlato con l’assunzione di cibi sottosale, affumicati
(carni affumicate), con aggiunta di conservanti come i nitrati che vengono trasformati dalla flora
batterica in nitrosamine e in nitrosamidi, che sono sostanze altamente cancerogene perché hanno
un’azione mutagena sul DNA delle cellule. Questo fenomeno è favorito dalla ipoacidità (quindi
ipocloridria) gastrica, che favorisce la trasformazione in sostanze cancerogene e quindi favorisce la loro
azione mutagena, perciò l’assunzione di IPP predispone. Anche la scarsa assunzione di fibre alimentari
grezze, vitamina C, E e di caroteni, sono importanti fattori di rischio.
• Predisposizione genetica: sono più colpiti i soggetti maschi. Inoltre si ha una familiarità nei soggetti di
gruppo sanguigno di tipo 0 o A+ (perché in questi soggetti viene a mancare un mucopolisaccaride
responsabile della protezione della parete gastrica dall’acidità).
• La gastrite cronica atrofica (GCA) e metaplasia intestinale . La GCA è la principale condizione
precancerosa, aumentando il rischio neoplastico da 3 a 10 volte nei pazienti affetti. Addirittura il 95%
dei pazienti operati per k gastrico hanno GCA. Questa malattia presenta una atrofia della componente
ghiandolare, associata a infiltrazione linfocitaria e plasmacellulare. Esistono due forme di GCA. Nella
A i soggetti hanno atrofia delle cellule del fondo gastrico (dovuta soprattutto a un processo
autoimmune), mentre nella B sono atrofiche quelle della mucosa antrale: la principale causa di
quest’ultimo è l’’infezione da H.P (pertanto anche questo è da nominare tra i fattori di rischio del k
gastrico). A questa atrofia può aggiungersi in seguito una metaplasia intestinale, cioè un processo di
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intestinalizzazione dell’epitelio ghiandolare gastrico, che è correlata con lo sviluppo di un carcinoma
gastrico di tipo intestinale (classificazione secondo Lauren).
• Poliposi gastrica (i polipi adenomatosi possono andare incontro a trasformazione neoplastica e il 30% di
essi presentano già dall’origine focolai carcinomatosi), l’acloridria (come detto, favorisce l’azione della
flora batterica sugli alimenti), l’anemia perniciosa.
• Pregressa gastroresezione: il moncone gastrico dopo 10-15 anni può andare incontro a un rischio di
sviluppo del tumore per vari motivi: perché si crea una condizione di acloridria, perché si verifica
un’atrofia della mucosa acido secernente, perché si sviluppa un reflusso alcalino (duodeno-bilio-
pancreatico) e perché per via dei fattori precedenti si ha la moltiplicazione della flora batterica esogena
ed endogena che determina la deconiugazione degli acidi biliari con conseguente aumento degli acidi
gastrolesivi e mutageni.
• Malattia di Menetrier: detta anche gastropatia ipertrofica, è una malattia rara dello stomaco
caratterizzato da gigantismo plicale e perdita cronica delle proteine nel succo gastrico.
• Esofago di Barrett: aumenta il rischio di insorgenza di tumori della giunzione gastro-esofagea.
Infine da ricordare che la lesione precancerosa per eccellenza è la displasia, cioè un’alterazione citoistologica
caratterizzata da atipia cellulare, anomala differenziazione e disorganizzazione strutturale. La displasia si può
manifestare in 3 gradi:
• a grado lieve: presenta un basso grado di atipia cellulare con tendenza al polimorfismo ed alterazioni
del rapporto nucleo/citoplasma
• a grado moderato: intermedio
• a grado severo: presenta un epitelio cilindrico metaplasico, con nuclei atipici e pluristratificati,
numerose mitosi e anisocariosi (distribuzione anomala della cromatina).
CLASSIFICAZIONE esistono diverse classificazioni che si correlano tra loro.
La classificazione dell’OMS si basa sui caratteri strutturali, architettonici e citologici delle lesioni distinguendo:
• adenocarcinomi a struttura tubulare, papillare o solida;
• carcinomi mucinosi con accumulo extracellulare di mucina;
• carcinomi diffusi con cellule ad anello con castone: son da ricordare perché sono i più gravi, infatti
quando arrivano sino alla parete dello stomaco esfoliano, le cellule neoplastiche cadono e vanno ad
impiantarsi nel peritoneo o negli altri organi.
Un’altra classificazione è quella di Lauren, complementare a quella dell’OMS: Distingue i tumori in:
- forma intestinale: la lesione è organizzata in strutture ghiandolari tubulari.
- forma diffusa: la lesione presenta agglomerati epiteliali solidi o singole cellule infiltranti. Ha
infiltrazione precoce.
Infine un’altra classificazione tiene conto della profondità di invasione del tumore. Si distingue una forma
precoce (detta early gastric cancer), in cui la lesione è confinata a mucosa e sottomucosa, indipendentemente
dalla presenza di metastasi ai linfonodi epigastrici, e una avanzata, in cui la neoplasia è estesa alla muscolare o
oltre, potendo infiltrare tutta la parete e le strutture vicine. Nelle forme precoci, che sono soprattutto di tipo
intestinale, a 5 anni sopravvive il 95% dei pazienti, mentre nelle forme avanzate meno del 10%.
Altra classificazione, valida soprattutto per la forma precoce, è quella macroscopica di Borrmann, che distingue:
TIPO I aspetto polipoide
TIPO II ulcerato
TIPO III ulcerato e infiltrativo (cioè il tumore va oltre la regione dell’ulcera)
TIPO IV  diffuso
LOCALIZZAZIONE è più colpito l’antro (porzione pre-pilorica), in seconda battuta corpo, cardias e fondo.
CLINICAla sintomatologia è caratterizzata da:
-anoressia (in più del 95% dei casi); -calo ponderale; -anemia ed astenia; -melena; -epigastralgia spesso
modesta; -dispepsia;
Sintomi e segni tipici della fase avanzata sono: nausea e vomito per occlusione del piloro, disfagia per stenosi e
occlusione del cardias, ematemesi massiva (rara- si presenta quando il tumore si ulcera e sanguina), massa
addominale (quando il tumore è di grosse dimensioni), sintomi legati alle metastasi e segno clinico della fase
avanzata e segno di metastasi diffuse è il segno di Troisier, cioè l’ingrossamento del linfonodo di Wirchow che
si può sentire alla palpazione della fossa sovraclaveare sinistra.
VIE DI DIFFUSIONEla diffusione può avvenire attraverso varie vie:
- ematogena: tramite questa via il tumore può metastatizzare a fegato, polmone, ossa e cervello.
- disseminazione peritoneale: le cellule neoplastiche possono andare incontro a esfoliazione, andando a
impiantarsi nel peritoneo e causando la carcinosi peritoneale. È tipica dei tumori con cellule a castone.
- infiltrazione diretta nei tessuti perigastrici: dipende dalla localizzazione del tumore. Se questo è posto nella
regione pre-pilorica o antrale andrà a interessare la testa del pancreas, la via biliare, il colon o la fessura epatica.
Se invece il tumore è localizzato nella parte posteriore del corpo gastrico andrà a infiltrare la coda pancreatica e
la milza.

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- linfatica: a essere interessati sono i linfonodi che drenano queste zone e possono quindi metastatizzare. Quelli
più interessati sono i linfonodi perigastrici, i pre-aortici e la milza; frequentemente è anche interessato il dotto
toracico, con conseguente positività del linfonodo di Wirchow (che appare quindi ingrossato alla palpazione).
Uno studioso giapponese per studiare le vie di drenaggio linfatico ha utilizzato delle particelle di carbone attivo
che ha introdotto a livello della lesione neoplastica dello stomaco e ha osservato che il deflusso delle articelle
radio-attive aveva una diffusione diversa a seconda della localizzazione del tumore. I tumori della grande curva
distale drenano nei linfonodi infrapilorici (6- del primo livello), celiaci (9- del secondo livello) e paraaortici (16-
del terzo livello). I tumori della grande curva prossimale invece interessano: i linfonodi splenici (10-11 del I
livello), i linfonodi celiaci e i linfonodi par aortici. Il tumore che è ubicato nella piccola curva interessa: i
linfonodi dell’arteria gastrica sinistra (7-I livello), i linfonodi celiaci e par aortici. I tumori cardiali hanno due
vie di drenaggio, interessando contemporaneamente sia i linfonodi dell’arteria gastrica sinistra e quelli celiaci,
sia i linfonodi splenici e paraaortici.
I linfonodi si distinguono in linfonodi di I, II e III livello. I linfonodi di I livello sono quelli più strettamente in
rapporto con lo stomaco, lungo l’arteria gastro-epiploica destra e sinistra. Quelli di II livello sono leggermente
più lontani e ancora più in lontani sono quelli di III livello (il linfonodo di Wirchow fa parte di questi).
STADIAZIONEtutti i tumori vengono stadiati con la classificazione TNM:
T- tumore primitivo: T X non definibile, T 0 non evidenziabile, Tis intraepiteliale senza invasione della lamina
propria, T1 ha invaso lamina propria e sottomucosa, T2a ha invaso la sola parte iniziale della muscolare, T2b ha
invaso tutta la muscolare, T3 ha invaso la sierosa senza invasione strutture adiacenti, T4 ha infiltrato le strutture
adiacenti.
N-linfonodi regionali: NX non valutabili, N0 liberi da metastasi, N1 c’è interessamento di linfonodi a una
distanza inferiore di 3 cm. dal tumore, N2 i linfonodi interessati sono posti a distanza superiore a 3 cm dal
tumore, N3 sono interessati i linfonodi del III livello (secondo alcuni è già M1, cioè una metastasi a distanza).
C’è una correlazione tra T e percentuale di interessamento linfonodale (anche se ci sono casi in cui può
presentarsi un T2 senza linfonodi interessati): T1dal 0,4 al 10 %; T2dal 20 al 25%; T3dal 48-55 %; T4
oltre 60%
M-metastasi a distanza: MX non accertabili, M0 assenti, M1presenti.
In funzione del TNM è possibile stadiare l’adenocarcinoma gastrico in vari stadi: stadio 0, IA-IB, II, IIIA-IIIB,
IV.
Lo stadio I può essere T1 o T2, N0 o N1 ma solo M0. Questo è lo stadio in cui la neoplasia si trova allo stadio
iniziale e non intacca la muscolare, per cui si parla di early gastric cancer, intendendo un tumore che non da
metastasi, che interessa solo la sottomucosa (non tutta, perché essa è divisa in tre parti) ma può avere un
interessamento linfonodale. Meno il tumore è infiltrante, maggiori sono le possibilità del non interessamento
linfonodale, ma non è una legge assoluta,infatti mentre nel IA non c’è interessamento linfonodale, nell’IB,
sebbene sia sempre uno stadio iniziale, può esserci N1.
Nello stadio II l’infiltrazione arriva fino alla muscolare.
Nello stadio III arriva alla sierosa.
Nello stadio IV c’è infiltrazione delle strutture adiacenti.
DIAGNOSI
• Laboratorio: si ricerca il sangue occulto nelle feci o si fanno gli esami del sangue per vedere se il
paziente ha anemia sideropenica o perniciosa; nel sangue si ricercano anche due marker sierologici: il
GICA è altamente specifico e ci aiuta soprattutto per il follow up, perché quando si fa un intervento
chirurgico i suoi valori crollano, per cui se dopo risalgono siamo di fronte a una riaccensione del
focolaio; il CEA è poco specifico.
• L’esofagogastroduodenoscopia permette di osservare la mucosa e di effettuare prelievi bioptici (per
l’istologico, fondamentale perché solo con la sua positività si può operare) e brushing (il brushing si fa
con uno scopolino che sfrega sulla neoplasia raccogliendo le cellule che cadono e sono utilizzate per il
citologico).
• Rx digerente: è sensibile ma non molto specifico.
• Endoscopia.
Per effettuare una stadiazione pre-operatoria si usano anche: eco addome (per la valutazione dell’interessamento
linfonodale o di eventuali metastasi epatiche), la TC (per la valutazione del TNM), la laparoscopia esplorativa,
che consiste nell’inserire una telecamera che consente di vedere dentro la cavità addominale.
PROGNOSI Il 70-90% dei pazienti è operabile al momento della diagnosi quindi, a meno che il tumore non
venga diagnosticato in uno stadio molto avanzato, di solito è possibile operare. Se il tumore non viene trattato il
paziente va incontro a deperimento e cachessia e ad una serie di complicanze come emorragie, perforazioni,
fenomeni occlusivi meccanici e funzionali. L’intervento chirurgico quando il tumore è resecabile è indicato
anche a scopo palliativo.
TERAPIA La terapia chirurgica, nonostante i progressi maturati dalla chemioterapia (verso cui questi tumori
hanno ancora forte resistenza) rappresenta oggi il cardine terapeutico del trattamento del k gastrico, cioè la
prognosi dipende dalla possibilità di resecare o meno il tumore. Per poter ottenere dei buoni risultati è

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necessario eseguire interventi chirurgici con obiettivo R0, dove R significa residualità, cioè i residui di malattia
devono essere pari allo zero.
La scelta del tipo di intervento chirurgico da attuare dipende da vari fattori: localizzazione, estensione,
profondità d’infiltrazione, tipo istologico, presenza di metastasi, quadro clinico e anatomico, fattori di rischio
generali. La terapia chirurgica ha l’obiettivo di asportare la massa (in maniera più radicale possibile) e tutte le
stazioni linfonodali satelliti.
Si può effettuare quindi una gastrectomia totale con asportazione dell’omento gastrocolico (perché è
sull’omento che si esfoliano le cellule), linfoadenectomia D2 (cioè asportazione dei linfonodi di I e II livello,
lasciando quelli di III livello), e talvolta splenectomia (se c’è una via di drenaggio del tumore diretta sulla
milza). La gastrectomia totale garantisce, nei pazienti operabili, una resezione accurata e sicura e rappresenta la
tecnica di scelta per il carcinoma dello stomaco. Il paziente gastroresecato che segue un adeguato regime
dietetico, con pasti piccoli e frequenti, ha una buona qualità di vita e non manifesta calo ponderale
Altra possibilità terapeutica è la resezione gastroduodenale, in cui è asportata una parte dello stomaco più o
meno estesa a seconda della sede e dell’interessamento duodenale, associata a linfoadenectomia D2 (che qui è
più complicata rispetto alla gastrectomia totale dove asportando tutto l’organo si portano via anche i linfonodi
posti attorno: nella resezione invece una parte d’organo è mantenuta e quindi bisogna andare a cercare
tutt’attorno i linfonodi da asportare). Successivamente si ricostruisce il transito intestinale con un’ansa
defunzionalizzata, detta ansa alla Roux: questo determina il venir meno della funzione di serbatoio dello
stomaco, per cui la digestione avverrà comunque ma con nuovi meccanismi, altrettanto validi, ch permettono ai
pazienti di vivere anche 100 anni.
A ciò deve associarsi una linfoadenectomia D2. [E’definita linfoadenectomia D1 quella in cui si ha l’asportazione dei
soli linfonodi di I livello (è un trattamento palliativo, non curativo), D2 quella che con asportazione dei linfonodi di I e II
livello, D3 quella in cui si ha asportazione anche dei linfonodi del III livello, e D0 se non sono asportati neanche tutti i
linfonodi di I livello].
PREVENZIONE PRIMARIAeradicazione dell’H. pylori.

TUMORI DEL DUODENO


I tumori del duodeno sono gli stessi che si possono riscontrare a livello del intestino tenue mesenteriale, a cui si
aggiungono però anche i tumori delle vie biliari (vedi dopo) e i tumori della papilla.
TUMORI DELLA PAPILLA
In questo gruppo di tumori sono comprese sia le neoplasie proprie della papilla di Vater, sia quelle dell’ampolla,
aventi origine a livello della confluenza del coledoco con il dotto di Wirsung. Tale area corrisponde ad una zona
di transizione, dove si incontrano la mucosa coledocica, duodenale e di Wirsung.
L’adenocarcinoma della papilla di Vater rappresenta il 10% circa dei processi neoplastici ostruenti la via biliare
principale. Questo tumore cresce lentamente e metastatizza tardivamente. I sintomi sono molto simili a quelli
del k cefalico del pancreas, sebbene il dolore e la perdita di peso sono meno marcati. L’ittero ostruttivo è
ingravescente e compare precocemente, perciò questo tumore viene diagnosticato precocemente, quando è un
intervento chirurgico può essere ancora risolutivo. Le feci contengono spesso sangue occulto e spesso è presente
steatorrea, perché l’ostruzione interessa non solo il coledoco, ma anche il Wirsung, impedendo quindi l’afflusso
regolare nel duodeno delle secrezioni pancreatiche. La diagnosi viene fatta soprattutto con eco endoscopia o con
una radiografia con pasto baritato.
Il trattamento di scelta consiste in una duodeno-cefalo-pancreasectomia, se però la lesione è piccola e non ha
invaso il pancreas si può fare una ampullectomia per via trans duodenale.

INTESTINO TENUE, COLON, RETTO ED ANO


APPENDICITE
L’appendicite è un’infiammazione della appendice che riveste grande importanza per la sua alta frequenza e per
la complicanza più importante che causa: la peritonite, ossia la diffusione dell’infiammazione alla cavità
peritoneale.
EPIDEMIOLOGIA e ANATOMIA TOPOGRAFICA rappresenta l’emergenza chirurgica addominale più
frequente, avendo un’incidenza del 7 - 12% della popolazione. È più frequente nella 2°-3° decade di vita, età in
cui rappresenta perciò la causa più frequente di dolore addominale persistente.
Il dolore cambierà di sede a seconda della porzione dell’appendice, la quale non si trova infatti sempre nella
stessa posizione: nel 65% dei casi l’appendice è retro cecale, cioè a livello della fossa iliaca destra, nel 30% casi
l’appendice è totalmente o parzialmente pelvica, nel 5% casi è extraperitoneale. Più raramente si può avere
un’appendice in ipocondrio destro, per via di una mal rotazione intestinale, oppure ancora in fossa iliaca destra
per via di un situs viscerum inversus.
PATOGENESI è in genere ostruttiva, legata nel 60% dei casi a follicoli linfatici di dimensioni aumentate per
l’iperplasia conseguente a reazioni a molte noxe patogene susseguitesi nel tempo, nel 35% a stasi fecale o
coproliti (palline fecali molto dure) che si accumulano nell’appendice, e nel 5% dei casi a corpi estranei, tumori

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o stenosi di altra natura. Questa ostruzione, quale che ne sia la causa, inibisce i normali movimenti peristaltici di
cui anche l’appendice è sede, nonostante il suo lume sia praticamente virtuale, e che servono per espellere una
flora microbica di origine alimentare che li normalmente si accumula. Perciò i germi, rimasti segregati, possono
moltiplicarsi e virulentarsi dando luogo ad una infezione locale che evoca, da parte dell'organismo, una risposta
infiammatoria, che si sviluppa in tre fasi:
1. Fase catarrale. I tessuti diventano edematosi e congesti e il lume si riempie di secrezioni mucose.
L'infezione è circoscritta, per cui non è coinvolto il peritoneo. L'appendice è rossa, tumefatta, con vasi
arteriosi dilatati e visibili.
2. Fase flemmonosa. La pressione esercitata sulle pareti dall’edema provoca la trombosi dei vasi in esse
contenuti con formazione di micro erosioni e piccole aree di necrosi attraverso le quali l'infezione si fa
strada raggiungendo lo strato esterno sieroso. L'organo si presenta molto congesto, di colorito violaceo,
spesso con la punta ingrossata, ricoperta di un essudato grigiastro. Il coinvolgimento peritoneale è
testimoniato da un essudato siero-purulento.
3. Fase gangrenosa. Fase più avanzata della malattia in cui l'appendice assume un colorito grigio verdastro
e presenta ampie aree necrotiche e frequentemente perforate con fuoruscita di materiale purulento e
fecaloide. La perforazione interviene mediamente 24-36 ore dall’inizio del processo. Il peritoneo
circostante che ha perduto il suo colorito roseo e la sua normale lucentezza appare coperto di essudato
denso maleodorante e di membrane fibrinose: si sviluppa in questo modo la peritonite (questa è la
principale causa di peritonite acuta secondaria, mentre le altre sono colecistite acuta, diverticolite,
ascesso epatico, salpingite acuta). La peritonite è solitamente circoscritta e può esitare in un ascesso
appendicolare, mentre è generalizzata in soggetti immunocompromessi o nelle perforazioni molto
precoci.
Queste tre fasi non hanno tempi di evoluzione certi e non è raro vedere che un'appendicite acuta esordisce
direttamente con un quadro perforativo: appendicite acuta fulminante.
CLINICA si distinguono dei segni soggettivi e dei segni obiettivi.
Tra i sintomi soggettivi il più importante è il dolore, che è di origine viscerale ed è presente nel 97-100% dei
casi. Esso inizia in epigastrio o nella zona periombelicale, è spesso mal delimitabile ed ha una intensità discreta.
Successivamente si localizza in fossa iliaca destra con comparsa dei segni di irritazione peritoneale.
Nell’anziano e nell’immunodepreso si può localizzare lateralmente sin dall’insorgenza rendendo più difficile e
tradiva una corretta diagnosi. Se l’appendice è in sede retro cecale il dolore sarà localizzato lateralmente ed in
regione lombare destra con caratteristiche sovrapponibili alla flogosi urinaria. Se l’appendice è pelvica il dolore
è invece localizzato alla parete anteriore dell’addome in regione sovrapubica ed associato frequentemente a
tenesmo rettale\vescicale (in questo caso bisogna fare d.d. con la patologia ginecologica). Se l’appendicite è in
sede mesoceliaca può provocare la paralisi della ase intestinali circostanti, presentandosi con un quadro di ileo
adinamico associato a febbre. Infine se è in sede sottoepatica simula la clnica della colecistite acuta, con
difficoltà a differenziare le due patologie. Importante in questa fase è NON somministrare farmaci analgesici
che possono mascherare l’evoluzione del quadro clinico, ma solo antispastici (che sono miorilassanti, come il
diazepam, utili nella colica renale ma non nell’appendicite e che quindi ci permettono di fare d.d. con questa).
Altri sintomi sono la nausea e il vomito. In particolare questi pazienti presentano nel 95% dei casi 1-2 episodi di
vomito alimentare\biliare che si presentano alcune ore dopo l’insorgenza del dolore spesso determinando
regressione della nausea.
Spesso è presente stipsi caratterizzata dal persistente stimolo all’evacuazione che non viene soddisfatto dalla
scarica alvina. Alle volte, al contrario, può essere presente diarrea (ma è più rara).
Tra i segni obiettivi:
-iperpiressia: inizialmente si febbricola (TC<38°C), che si trasforma nella peritonite conclamata in una febbre
elevata fino a 39-40°C; nel paziente anziano\immunodepresso può mancare anche tardivamente.
- manovra di Blumberg. Consiste nel poggiare delicatamente le dita della mano sulla parete addominale del
paziente affondandola gradualmente (prima fase) e sollevandola poi di colpo (seconda fase). È positiva se il
dolore che il paziente avverte durante la prima fase della manovra è modesto, mentre nella seconda fase
aumenta di intensità diventando violento.
-manovra di Rovsing. Con le dita e il palmo della mano si esercita una pressione sull'addome a livello della
fossa iliaca sinistra. Quindi la mano viene spostata progressivamente verso l'alto a comprimere il colon
discendente. Se la manovra evoca dolore nella fossa iliaca destra si dice positiva ed è un segno, incostante, di
appendicite acuta.
-manovra dello psoas. In questo caso la pressione viene esercitata in corrispondenza della fossa iliaca destra
mentre contemporaneamente viene sollevato l'arto del paziente, a ginocchio rigido. Questa manovra comporta la
contrazione del muscolo psoas che a sua volta preme sul cieco e sull'appendice. Se l'organo è infiammato la
manovra suscita dolore.
-pressione su punti specifici. La pressione in corrispondenza del punto di McBurney è dolorosa in caso di
appendicite acuta. Quella nello scavo del Douglas, raggiungibile nella donna con una esplorazione vaginale e
nel maschio con quella rettale, suscita dolore vivo in caso di peritonite.

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Altri segni sono l’ipomobilità agli atti respiratori e aumento del dolore soggettivo all’impulso della tosse.
DIAGNOSI i primi esami da fare, dopo aver analizzato i dati clinici, sono quelli di laboratorio, che mostrano
nel 90% dei casi una leucocitosi (bianchi maggiori di 10000/mm 3), in particolar modo sono aumentati i
neutrofili.
A questo punto bisogna eseguire:
-Rx addome a vuoto: utile per la diagnosi differenziale perché coi indica il livello aereo dell’ultima ansa e del
ceco, facendo così diagnosi differenziale con un pneumoperitoneo, ci fa fare d.d. con una colica renale
radiopaca, ecc..
-clisma opaco: poco usato, può dimostrare la mancata opacizzazione, e quindi l’incompleto riempimento, del
verme appendicolare, il che significa che è presente ostruzione. Dà però molti falsi negativi.
- ecografia addome: è il più usato, avendo specificità e sensibilità vicine al 90%. Ci permette di vedere un
versamento libero in addome, di valutare il diametro appendicolare se maggiore di 7mm e di identificare gli
ascessi. Inoltre è utile per fare diagnosi differenziale. Ha come unico limite la reazione di difesa del paziente, la
cui contrattura può impedire la visione ecografica.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE
L’appendicite acuta entra in dd con:
-per quanto riguarda la patologia ginecologica: scoppio di follicolo ovarico a destra, torsione di cisti ovarica a
destra, gravidanza ectopica, annessite a destra;
-per quanto riguarda la patologia urinaria: calcolosi ureterale a destra, cistite, pielonefrite;
-per quanto riguarda la patologia digerente: colecistite acuta, ulcera duodenale, diverticolo di Meckel, morbo di
Crohn, cancro del colon o dell’appendice (rari, sono soprattutto carcinoidi e linfomi), diverticolite, occlusione
intestinale, invaginazione intestinale, infarto intestinale, linfadenite mesenterica acuta.
TERAPIA quella medica si avvale di antibiotici in fase preoperatoria per ridurre la carica batterica e farmaci
per ripristinare l’equilibrio idro-elettrolitico. La terapia vera e propria è pero solo quella chirurgica, che consiste
nell’appendicectomia, con detersione della cavità addominale e drenaggio dell’ascesso. L’appendicectomia può
essere svolta anche per via laparoscopica, soprattutto nel caso in cui la donna sia gravida.

VOLVOLO
È una torsione assiale di un segmento intestinale su sé stesso o sul proprio mesentere che produce un’ostruzione
sia prossimale che distale del lume. Rappresenta infatti il 5% dei casi di occlusione intestinale. Può manifestarsi
con caratteri subacuti, oppure quando a torsione strangoli i vasi mesenterici, con un quadro acuto o fulminante.
Nelle forme acute l’ansa che rimane incarcerata si distende enormemente e le pareti diventano pallide ed
edematose e presto sopraggiungono le conseguenze dell’ischemia acuta, cioè la gangrena e la perforazione. Nel
colon il volvolo interessa più frequentemente il sigma (55% dei casi) e il segmento ileo cecale (40%), ma può
prodursi anche a livello del trasverso o della flessura splenica. La torsione può avvenire sia in senso orario che
antiorario e può variare da 180° a più di 360°.
EZIOLOGIA non si conosce bene le cause del volvolo, ma le situazioni più frequentemente associate a
volvolo sono:
- presenza di un’ansa molto allungata con punti di fissazione prossimale e distale molto ravvicinati
- accolla mento incompleto al peritoneo parietale,
- meso troppo lungo o, al contrario, assente
Tuttavia queste situazioni sono molto più frequenti di quanto lo sia il volvolo, perciò si suppone la necessaria
presenza di altri fattori favorenti, come la stipsi cronica, le briglie aderenziali e altri.
CLINICA il quadro clinico varia a seconda della sede del volvolo: nel volvolo del tenue il dolore è molto
intenso e persistente e si associa una reazione di difesa muscolare della parete addominale e deve essere fatta
una d.d. con l’ischemia intestinale acuta, il volvolo ileo-cecale produce invece un dolore di tipo colico,
localizzato soprattutto in fossa iliaca destra, e un’asimmetria dell’addome, conseguentemente alla presenza del
segmento intestinale enormemente disteso. Se l’occlusione è completa l’alvo è chiuso a feci e gas e, con il
progredire degli eventi, compaiono i segni e i sintomi dell’occlusione con strangolamento: sintomatologia più
intensa con dolore addominale acuto, vomito, rigidità della parete e stato di shock, conseguenti all’evoluzione
verso l’ischemia e la necrosi con rischio di perforazione.
DIAGNOSIla conferma del sospetto diagnostico, che si può formulare in base alla sintomatologia, si ottiene
con l’esame radiologico diretto dell’addome che mostra solitamente la presenza di un cieco grandemente disteso
da gas, un grosso livello idroaereo a livello cecale e la distensione delle anse prossimali al volvolo. Attraverso il
clisma opaco si dimostra l’interruzione della progressione del bario, con aspetto a becco di uccello.
Il volvolo del sigma, soprattutto nell’anziano, può presentarsi come un quadro di progressiva sub occlusione,
perciò il quadro è solitamente più favorevole, invece nel giovane si manifesta più frequentemente con una forma
acuta o fulminante, caratterizzato da una improvvisa occlusione completa con evoluzione rapida verso lo
strozzamento e quindi la gangrena.
TERAPIAgli obietti della terapia sono: la derotazione dell’ansa volvolata, la prevenzione della recidiva e il
trattamento delle complicanze. Se non c’è sospetto di strangolamento la derotazione si esegue per via rettale con

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colonscopio, ma nel caso di insuccesso, di recidive o in presenza di pareti ischemiche è necessario eseguire un
intervento chirurgico con resezione del sigma e anastomosi colo rettale.

MALATTIE INFIAMMATORIE CRONICHE INTESTINALI (IBD)


Sono malattie infiammatorie croniche recidivanti a eziologia ignota caratterizzate da inappropriata e persistente
attivazione del sistema immunitario della mucosa intestinale, trattate prevalentemente con terapia medica, per
cui sono prevalentemente patologie di tipo internistico. Possono però talvolta giungere all’osservazione del
chirurgo e in tal caso spesso questi pazienti devono affrontare anche interventi molto demolitivi.
Quando si parla di IBD si intendendo fondamentalmente due patologie: la retto colite ulcerosa o colite ulcerosa,
ma sarebbe più giusto parlare di retto colite ulcero emorragica perché il sanguinamento rettale è caratteristico di
questa patologia (RCU), e la malattia di Crohn o morbo di Crohn o malattia segmentaria (MC). Pur avendo
molti aspetti in comune, queste patologie presentano alcune caratteristiche che le differenziano.
DEFINIZIONE
RCU
È una malattia ulcero-infiammatoria cronica di superficie, perchè confinata solo alla mucosa. A differenza del
Crohn, che interessa praticamente tutto il tratto digerente, questa malattia è confinata al colon, in cui il
principale bersaglio è il retto, che è sempre coinvolto per definizione. Questo è molto importante sul piano
clinico, infatti, se si vuole fare diagnosi di retto colite ulcerosa, è sufficiente eseguire una semplice rettoscopia
con prelievi sulla mucosa rettale e fare biopsia: se è positiva il paziente ha la RCU, se invece è negativa si può
escludere questa patologia senza ulteriori indagini. Caratteristica tipica di questa patologia è che la sua
estensione avviene in maniera continua, cioè non alternata a tratti sani, al contrario del MC, che è invece
segmentaria.
La localizzazione iniziale è quindi costantemente il retto (si parla di proctite) e da qui la malattia si estende
prossimalmente in modo variabile. Nel 45% dei casi rimane limitata al retto e al sigma ( proctosigmoidite), nel
20% si estende al colon sinistro (colite sinistra) e nel 20-60% dei casi a tutto il colon (pancolite). Nella
pancolite le lesioni si fermano bruscamente alla valvola ileociecale anche se, nel 10-20% dei casi, si può avere
una estensione all'ileo terminale (backwash ileitis) che comunque, rispetto alla MC, è di breve estensione e
caratterizzata da una flogosi lieve e non trans murale: in tal caso si parla di ileite da reflusso, perché è come se
la malattia refluisse attraverso la valvola nell’ultima ansa, per cui trovare l’ultima ansa ileale infiammata non
deve sempre indirizzarci verso il MC, soprattutto se è una lesione in continuità con il colon. Indipendentemente
dalla sede della malattia l'appendice è interessata nel 50% dei casi.
MC
È una malattia infiammatoria cronica, granulomatosa (perché le caratteristiche istologiche tipiche sono i
granulomi) ad evoluzione sclero-cicatriziale, transumarale, cioè interessa tutti gli strati della parete colica, anche
quelli più profondi. È definita come una malattia stenosante e fistolizzante, infatti l’evoluzione del Crohn è
verso la stenosi perché la parete interessata dal processo sclero-cicatriziale tende a diventare fibrotica, ad
irrigidirsi e quindi determina una riduzione del diametro del lume. Inoltre, poiché il processo infiammatorio
interessa anche la sierosa questa patologia tende ad estendersi anche all’esterno del viscere formando delle
fistole, cioè delle comunicazioni tra un’ansa e un’altra o tra un’ansa e un organo (es.vescica, cute, ..). A
differenza della RCU, questa malattia colpisce segmentariamente, cioè non in maniera continua ma con
l’alternanza di tratti affetti e di tratti sani, e colpisce tutto il tratto alimentare, dalla bocca all’ano (possono
essere interessati esofago, duodeno, quasi mai lo stomaco, tenue, colon, canale anale, ecc.. Per questa ragione la
rettoscopia non è sufficiente per fare diagnosi, perché il fatto che il retto sia sano non esclude la presenza di
malattia in altri tratti del canale alimentare. Le lesioni si localizzano più frequentemente nell’ilo terminale, tanto
che questa malattia è anche definita impropriamente ileite terminale, impropriamente perché può colpire anche
altri tratti dell’intestino.
La localizzazione del MC può essere, come detto, in tutto il tratto gastroenterico con una frequenza diversa:
maggiore nel colon destro e nell’ultima ansa ileale, più raro nel retto, dove ha comunque un interessamento più
frequente di quello del tratto digestivo superiore. Nel 5% dei casi può essere interessato solo l’ano.
EPIDEMIOLOGIA Più frequenti nei paesi industrializzati e pressoché sconosciute in Sud America, Africa e
Asia, queste malattie possono insorgere in qualsiasi fascia d’età, ma più frequente è l’insorgenza tra la II e la IV
decade di vita, per cui sono patologie dei giovani. La loro frequenza è in aumento. Le donne sono più colpite
degli uomini (soprattutto da RCU) e i bianchi, soprattutto ebrei, più dei neri. Entrambe le patologie presentano
familiarità (10% per la RCU e 4% per la MC). L’incidenza della RCU è stimata intorno a 10-15 casi ogni
100.000 abitanti, quella della MC in 7 casi ogni 100.000 abitanti. In Italia, così come nel resto del mondo,
quest’incidenza sta aumentando, probabilmente soprattutto per via delle migliori capacità diagnostiche, infatti
per poter diagnosticare il MC è necessario fare biopsie nell’ileo terminale, oggi favorite da nuove tecniche come
la videocapsula.
EZIOPATOGENESI e FATTORI DI RISCHIO le IBD sono malattie idiopatiche, nelle quali non è nota la
causa eziologica, però sono state proposte diverse ipotesi patogenetiche, che convergono nell’individuare una
interazione tra fattori congeniti e fattori acquisiti legati all’ambiente. Perciò tra le cause individuiamo:

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- appare certo è che le IBD siano il risultato di un’anomala risposta immunitaria contro microrganismi
intestinali commensali in soggetti geneticamente predisposti. L’esagerata risposta immunitaria consegue
probabilmente a un’eccessiva attivazione dei linfociti T (soprattutto CD4+) e a uno scarso controllo dei T
suppressor. Il coinvolgimento del sistema immunitario è provato anche dal fatto che questi pazienti presentino
anche altre patologie legate al sistema immunitario;
- predisposizione genetica: si ha un aumentato rischio nei parenti di pazienti affetti rispetto alla popolazione
generale. Le IBD hanno una complessa ereditarietà multi genica che non segue vie di trasmissione mendeliana.
Recentemente è stata riscontrata un’associazione del morbo di Crohn con l’alterazione di un gene detto NOD2
che codifica per una proteina che modula la risposta immunitaria nei confronti di batteri intestinali. La
mutazione del gene determina riduzione della proteina con conseguente persistenza intracellulare dei microbi e
risposta immunitaria incontrollata e prolungata;
- l’alimentazione: predispone una dieta povera in fibre grezze e ricca in carboidrati;
- ruolo della flora batterica intestinale: difetti del funzionamento di barriera dell’epitelio intestinale potrebbero
permettere l’accesso al tessuto linfoide da parte della flora del lume intestinale, con conseguente innesco di una
risposta immunitaria. Secondo alcune ipotesi nell’eziologia del MC entrerebbe in gioco il Mycobacterium
tuberculosis, germe che si può trovare nel nostro organismo come saprofita e che in particolari condizioni
(predisposizione genica e alterazioni della risposta immunitaria), può assumere un aspetto patogeno ed evocare
una risposta immunitaria; invece nell’eziologia della RCU sono stati presi in causa altri agenti infettivi, come E.
coli, M. kansasii e C. difficile, in quanto si rilevano anticorpi rivolti contro di essi che possono cross reagire con
le cellule caliciformi mucipare, ma a riguardo non ci sono ancora prove conclusive;
- la personalità del paziente e lo stress sembrano essere un fattore di rischio importante, soprattutto nella RCU e
soprattutto nelle riattivazioni più che nell’insorgenza, ad esempio si sono verificati casi di RCU in seguito a
lutti, cioè persone che stavano benissimo e che in coincidenza col lutto, anche la sera stessa, hanno cominciato a
sanguinare per via di una RCU severa. Inoltre in generale questa è una patologia tipica dei soggetti stressati;
- il fumo di sigaretta è un fattore di rischio per il MC, mentre è un fattore protettivo per la RC. Infatti nella RC
sembra predisponente anche un’alterazione della composizione chimica del muco: è probabile in questi pazienti
la presenza di mucine anomale ed è dimostrata una diminuzione delle sulfomucine. Il fumo è un fattore
protettivo proprio perché aumenta le glicoproteine delle mucine.
----Tra le teorie patogenetiche la più suggestiva per i MC ritiene che le le strutture colpite dalla malattia siano le placche del Peyer. Esse
sono infatti disposte segmentariamente, separate dal normale epitelio intestinale, assenti nello stomaco e la loro frequenza aumenta
progressivamente dal duodeno fino all'ileo terminale dove raggiungono la massima densità. Inoltre anche anche in altri organi esistono
equivalenti delle placche del Peyer (come gli ammassi linfatici nel colon, l'anello di Waldeyer orofaringeo e l'anello linfatico anale) ed è
per questo che si può avere estensione della malattia anche al colon, alle tonsille orofaringee e a quella anale. A livello di queste placche
si formano inizialmente ulcere (dette aftoidi perché hanno l’aspetto che ricorda le afte), che poi si approfondano per azione della risposta
infiammatoria sostenuta da granulociti, determinando la fistolizzazione. La fistola determina una via alternativa di facile percorrenza per
il materiale ingerito così che siano shuntate anche parti molto grosse di intestino con conseguente malassorbimento importante e se il
collegamento si ha tra parti prossimali e quelle molto distali, si ha una possibile azione antigenica dei cataboliti intermedi che si sono
formati dopo un primo trattamento denaturante non portato a termine dalle parti di intestino saltate. Quindi il paziente non avrà solo
problemi di malassorbimento ma anche immunitari perché risponderà a cataboliti intermedi proteici che vengono assorbiti. Le fistole si
possono formare non solo tra anse intestinali ma, in caso siano colpiti segmenti molto bassi, anche con parte posteriore della vagina, della
vescica, dell'osso ileo, del perineo e della parete addominale (soprattutto in sede periombelicale e in corrispondenza di cicatrici). La
flogosi caratteristica della patologia si accompagna sempre a edema che diffonderà maggiormente nella sottomucosa (perché la
muscolare rappresenta una barriera difficilmente superabile) rigonfiando la mucosa sovrastante. Quindi tra le ulcere avrò una mucosa
rigonfiata circondata dalle fissurazioni che assume un peculiare aspetto ad acciottolato presente però solo nel 25% dei casi. Col tempo si
ha la distruzione delle placche di Payer, che porta infine a una fibrosi dove prima esse erano presenti, con quindi riduzione del flusso
linfatico e, di conseguenza, edema duro che porta a problemi di transito intestinale. Questa subocclusione è sempre più marcata andando
dall'ileo prossimale a quello distale, in cui potremo rilevare, con un clisma opaco, la corda di Cantor: invece di avere un lume irregolare e
normale rileverò un filino sottile, indice di passaggio alla fase cronica.
----Nella RCU invece ad essere colpito non è il tessuto linfatico, come nella MC, ma solo ed esclusivamente l'epitelio mucoso del colon,
che è formata da una sola fila di cellule mucinose cilindriche intervallate da qualche cellula caliciforme mucipare, che costituiscono sia
l'epitelio superficiale che quello delle cripte, sul fondo delle quali si rilevano anche cellule endocrine (rare, infatti rari sono i carcinoidi) e
di riserva. Il muco prodotto ha funzione batteriostatica, così che i batteri che arrivano con le feci non possano moltiplicarsi, e di
facilitazione della progressione del materiale fecale che diventa sempre più solido lungo il percorso nel colon grazie al riassorbimento di
acqua. In caso di RCU avrò una iperproduzione di muco dovuta a una iperstimolazione autonoma scatenata da una causa sconosciuta. Il
lume della ghiandola apparirà quindi zaffato di muco e nella sottomucosa si avrà una dilatazione vascolare. Il continuo iperstimolo alla
secrezione porta però a un esaurimento funzionale delle ghiandole, che appariranno quindi prive di muco nel lume, così che venga meno
la normale azione batteriostatica e favorente la progressione che ha normalmente il muco. La mancanza dell'azione batteriostatica del
muco fa in modo che i batteri proliferino e precipitino nelle cripte ghiandolari La distruzione ghiandolare porta alla formazione di ulcere
piane che, a differenza della MC, non vanno mai oltre la muscolaris mucosae in quanto il processo flogistico è limitato alla sola
ghiandola. Essendo il decorso della malattia a pussèes, a questa fase di acuzie se ne alternano altre di remissione durante i quali la
sintomatologia e le lesioni possono regredire. Se le ulcere sono piccole si può avere che residui della cripta di due ghiandole ai lati della
lesione si possano mettere in comune per rigenerare la ghiandola. Questa rigenerazione, sufficiente a dare il periodo di remissione, è però
parziale e da origine a una ghiandola più bassa dell'originale e con doppio cul di sacco. Questa conformazione ci permetterà facilmente di
distinguere aree di mucosa non lesa da quelle rigenerate che appariranno appiattite, assottigliate e composte da ghiandole con doppio cul
di sacco. Se invece la grandezza della lesione ulcerosa è molto ampia i bordi rigenerano ma non riescono ad unirsi e quindi avrò la
formazione di tessuto di granulazione (vasi proliferanti, linfociti e fibroblasti) che talvolta è talmente esuberante che si solleva a formare
pseudopolipi (detti pseudo perché i polipi sono rivestiti da epitelio mentre questi sono fatti solo da tessuto di granulazione) senza
tendenza a diventare neoplasia a differenza di altri polipi. Il tessuto di granulazione evolve poi in cicatrice con fenomeni di retrazione
(che porta ad accorciamento dell'intestino) fibrosi (con irrigidimento della parete) e perdita della normale mucosa (con perdita della
capacità dell'assorbimento)..

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CLINICAi sintomi sono variabili ma entrambe le malattie in genere sono caratterizzate principalmente da una
combinazione di: diarrea e dolore addominale, a cui, nella RCU, sia aggiunge l’emorragia.
Nel MC le manifestazioni sono altamente variabili: in genere l'esordio si ha con modesti attacchi intermittenti di
diarrea (o comunque alterazioni dell’alvo, dovute al fatto che il colon infiammato non riesce a svolgere le sue
normali funzioni di assorbimento), febbre e dolori addominali (causati da coliche conseguenti alle stenosi che il
Crohn può comportare), intervallati da periodi di completo benessere. In circa 1/5 dei pazienti l'esordio è invece
brusco con dolore acuto al quadrante addominale inferiore destro, febbre e diarrea. Il decorso della malattia è
quindi caratterizzato da attacchi di diarrea con perdita di acqua ed elettroliti, calo ponderale e spossatezza.
L'interessamento diffuso del tenue può portare a massiccia perdita di albumina, malassorbimento generalizzato
(vitamina B12 con anemia perniciosa e sali biliari con steatorrea).
Nella RCU le prime manifestazioni cliniche sono costituite da diarrea ematica con muco filante che, essendo
interessato soprattutto il retto, prende nome di rettorragia: essa è dovuta al sangue generato dalle ulcere, che
risulta ben visibile qui e non nel Crohn proprio per la maggior vicinanza all’orifizio anale. Alla rettorragia si
aggiunge dolore nei quadranti addominali inferiori alleviato dalla defecazione e febbre. In caso di
interessamento esclusivamente rettale non si ha diarrea (il riassorbimento avviene lungo il colon) ma anzi
frequentemente stipsi, ematochezia (sangue rosso rutilante nelle feci), tenesmo rettale e fastidio emorroidi-like.
Nella RCU il quadro clinico ci permette di classificare ogni paziente in tre gradi secondo Truelove e Witts:
• Lieve: diarrea lieve (<4 scariche al giorno), piccola quantità di sangue nelle feci, no febbre, no
tachicardia e VES non oltre i 30.
• Moderato: quadro intermedio.
• Grave: diarrea grave (>6 scariche al giorno), sangue abbondante nelle feci, febbre, tachicardia e VES
oltre i 30.
STORIA NATURALE DELLE IBD Sia per la RCU che per la MC la storia naturale è caratterizzata da
riacutizzazioni e recidive post-operatorie. Queste due malattie presentano quindi un andamento clinico
abbastanza caratteristico, in cui si susseguono periodi di riattivazione, col paziente che sta anche molto male, a
periodi in cui il paziente è assolutamente asintomatico. Qualora il paziente giunga per una complicanza
all’osservazione del chirurgo e venga operato, inevitabilmente svilupperà delle recidive, cioè se si reseca un
tratto di intestino affetto il paziente è comunque destinato ad andare incontro ad una ripresa della malattia a
distanza di tempo. Non è possibile quindi guarire chirurgicamente la malattia. L’unico trattamento che può
essere fatto nella RCU per far guarire il paziente è l’asportazione di tutto il colon, mentre se si asporta solo una
parte di colon è la malattia si presenterà inevitabilmente nella porzione rimanente.
DIAGNOSI è legata essenzialmente agli esami radiologici ed endoscopici eseguiti con ordine variabile in base
al sospetto clinico. Se il paziente inizia all’improvviso a presentare rettorragia, mucorrea e diarrea ci si orienta
prevalentemente verso una RCU perciò l’esame che si effettuerà all’inizio sarà l’esame endoscopico.
Se invece prevale una sintomatologia simil appendicolare con dolore in fossa iliaca destra, alterazioni dell’alvo
con prevalenza di diarrea e la sensazione di una massa palpabile allora è più probabile che il paziente abbia il
Crohn e come primo esame in genere si effettua un ecografia dell’addome e se il sospetto è confermato si può
effettuare o un clisma a doppio contrasto o una entero TC e successivamente un esame endoscopico. Infine deve
essere eseguito l’esame istologico, fondamentale nelle IBD perché queste malattie richiedono un trattamento
farmacologico a vita e i farmaci utilizzati, prevalentemente la mesalazina, possono essere gastro-lesivi perché
sono dei derivati dell’acido acetilsalicilico, per cui è importante che la diagnosi sia certa.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE TRA RCU E MC la si fa in base all’esame endoscopico, infatti ciascuna
patologia presenta un quadro patognomonico, tanto che si può fare diagnosi anche solo all’esame endoscopico.
Nella RCU il retto è sempre interessato, quindi se all’ingresso dello strumento si trova il retto infiammato si può
iniziare a pensare che si tratti di una RCU, a maggior ragione se l’ infiammazione prosegue verso l’alto, sigma e
colon discendente, in maniera continua. Inoltre, mentre normalmente all’esame endoscopico si vede la trama
vascolare della sottomucosa, in questi pazienti non è possibile vederla per via di una iperemia diffusa. La
mucosa poi, assume un aspetto granulare, non è più liscia, lucida ed è talmente fragile (perché infiammata) che
anche il solo passaggio dello strumento la fa sanguinare. Talvolta sono presenti delle erosioni o anche delle
ulcerazioni. Quindi il quadro classico presenta: mucosa iperemica, edematosa, friabile e con ulcere (simili a
delle afte).
Nel MORBO DI CROHN il retto invece spesso è normale, visto che le lesioni possono interessare qualsiasi
tratto del canale alimentare. Le lesioni sono asimmetriche e discontinue, cioè sono presenti dei tratti sani e dei
tratti infiammati, anche in questo caso possono essere presenti delle ulcere aftoidi o, a volte, con aspetto
serpiginoso (cioè ulcerazioni allungate, così dette a lama di coltello, profonde, perché la malattia interessa tutti
gli strati della parete). La fragilità mucosa è più rara. La mucosa a volte assume un aspetto così detto ad
acciottolato, perché nelle aree interposte tra le ulcere la mucosa edematosa ed infiammata si sviluppa come a
formare un acciottolato. Talvolta in questi pazienti si possono riscontrare delle lesioni anali, sebbene le lesioni
siano localizzate nel tenue e il retto è normale tuttavia nella regione anale possono essere presenti fistole ed
ascessi.

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Quadri endoscopici: mucosa infiammata con aree finemente granulari che sono delle erosioni, altre volte la
mucosa si dispone a formare dei pseudo-polipi, cioè cresce e forma delle rilevatezze che non sono veri polipi,
non sono adenomi, perciò si chiamano pseudo-polipi.
DIAGNOSI DIFFERENZIALE va posta con alcune patologie che possono mimare le IBD:
- colite infettiva (batterica, virale o parassitaria): presenta spesso l’esordio simile, sia da un punto di vista
clinico che endoscopico, tanto che anche gli anatomopatologi consigliano nei referti di prendere in
considerazione la possibilità che il paziente possa avere una colite infettiva sebbene il quadro sia compatibile
con una IBD. Le coliti infettive in genere hanno un esordio acuto, infatti dopo 24h compaiono numerosi episodi
di diarrea (con numero di evacuazioni superiori a 10 già all’esordio), la febbre elevata è quasi sempre presente,
dolore, vomito e spesso all’anamnesi compare il dato di una viaggio all’estero o di particolari eventi legati
all’alimentazione. Nelle IBD invece l’esordio spesso è più lento (sebbene talvolta possano insorgere anche in
maniera acuta), con sintomi che solitamente peggiorano nei giorni successivi, la febbre è quasi sempre assente o
può comparire solo tardivamente, il numero di evacuazioni in genere non è mai molto elevato (5-6 al giorno),
spesso accompagnato dalla presenza di sangue nelle feci (soprattutto nella RCU). Bisogna quindi chiedere
sempre al paziente il numero di scariche perché è un dato fondamentale per orientarsi verso una colite infettiva o
una IBD.
- coliti che possono insorgere dopo assunzione di antibiotici.
- pazienti immunodepressi o con HIV sviluppano delle coliti che simulano le IBD.
- la proctite da radiazioni o attiniche, infatti nei pazienti che fanno terapia radiante, ad esempio in seguito a
chirurgia per cancro del retto, si può verificare una infiammazione che macroscopicamente ricorda le IBD
- le diverticoliti: danno d sintomi simili alla RCU però sono più caratteristiche dell’anziano.
- la colite ischemica: è la conseguenza di una mancata vascolarizzazione del colon (vascolarizzato dall’arteria
mesenterica superiore e inferiore) causata da un’occlusione su base aterosclerotica o trombo flebitica che
determina la chiusura di una ramo dell’arteria mesenterica tale che ad un certo tratto di intestino all’improvviso
non arriva più sangue, per cui esso va incontro ad ischemia e sviluppa un aspetto anche endoscopico che ricorda
quello dell’infiammazione cronica con ulcere, secrezione di muco e sanguinamento. È quindi una possibilità da
sospettare nei pazienti ateriopatici o nei pazienti fibrillanti nei quali c’è il rischio che possa partire un trombo.
COMPLICANZE Le IBD possono dare complicanze sia intestinali che extra-intestinali.
Tra le manifestazioni sistemiche le principali sono quelle su base autoimmune, come l’eritema nodoso, il
pioderma gangrenoso, l’uveite, le iridocicliti, le artriti (a livello dell’apparato osteoarticolare si può avere anche
osteoporosi, oltre che spondiliti anchilosanti, sacro-ileiti, poliarteriti). Più rare sono le manifestazioni
epatobiliari, come steatosi e colangite sclerosante, quelle urinarie, come la litiasi renale (dovuta a perforazione
dell’apparato urinario) e le alterazioni ematologiche (anemia, iposideremia). Le complicanze sistemiche son
importanti da conoscere, tanto che a volte si arriva alla diagnosi partendo da lesioni in altri distretti, ad esempio
un paziente giovane con artrite può essere indagato nel sospetto che possa avere il MC.
Tra le complicanze intestinali distinguiamo quelle dovute a MC da quelle dovute a RCU.
Complicanze da MC. Poiché l’evoluzione del MC è sclero-cicatriziale e interessa tutta la parete, le più comuni
complicanze sono la perforazione, la stenosi e l’occlusione. Il tenue, che è il tratto d’intestino più
frequentemente coinvolto e che ha un diametro ridotto rispetto al colon, viene interessato da un processo
patologico ad evoluzione sclero-cicatriziale, quindi quasi inevitabilmente svilupperà un restringimento, una
stenosi, che può manifestarsi o come riduzione del lume, e quindi con un quadro sub-occlusivo, o addirittura
come un occlusione intestinale: quando i pazienti arrivano a questo punto devono essere mandati da chirurgo,
che li opererà d’urgenza (quindi le complicanze sono la ragione per cui le IBD passano dall’essere patologie di
interesse internistico a patologie di interesse chirurgico. Abbiamo detto che il MC interessa tutta la parete
arrivando sino alla sierosa: si forma quindi una perforazione, ma raramente il paziente sviluppa una peritonite
(che si ha se c’è riversamento del materiale enterico nel peritoneo), perché la perforazione avviene più spesso
non nel peritoneo ma in un altro organo vicino, difatti l’infiammazione prolungata per mesi e mesi porta a far si
che le anse infiammate si uniscano le une alle altre, formando dei pacchetti di anse, per cui la perforazione si
apre in un’altra ansa adiacente o in organi vicini come vescica, vagina ecc…Si avrà così una fistola che collega
organi vicini. Altra complicanza è la formazione di ascessi, cioè la perforazione fa si che si produca una
secrezione all’esterno dell’ansa che determina la formazione di una raccolta che si infetta, ma comunque questa
raccolta è sempre circoscritta perché c’è un quadro infiammatorio e quando c’è un’infiammazione l’organismo
cerca sempre di proteggersi unendo le strutture le une alle altre e quindi delimitando il processo.
Ricapitolando, le complicanze del MC sono: steno-occlusione, perforazioni, fistole e ascessi. Più rare sono le
lesioni perianali, che sono le fistole o gli ascessi perianali. Può comparire emorragia massiva. Il megacolon è
raro nel Crohn ma è molto più frequente nella RCU così come la degenerazione neoplastica.
Complicanze da RCU. Sono distinguibili in minori e maggiori. Tra i minori si annoverano emorroidi, pseudo
polipi, fessurazioni anali, fistole anali e ascessi perianali.
Le complicanze maggiori sono delle complicanze severe ed importanti che vanno riconosciute e trattate
precocemente. La principale di queste è il megacolon tossico. La RCU è una malattia di superficie perché
colpisce la mucosa, talvolta però la malattia non risponde al trattamento farmacologico, fatta con mesalazina,
cortisone e immunosoppressori, e prosegue nella sua evoluzione sino a che il processo infiammatorio coinvolge

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anche gli strati profondi determinando una sorta di paralisi della tonaca muscolare, cioè la tonaca muscolare e i
plessi deputati all’innervazione della parete stessa vanno incontro a una sorta di sofferenza tale che il colon si
dilata, raggiungendo anche il diametro di 5-6-7 cm. È detto megacolon tossico perché è legato alla tossicità dei
fattori dell’infiammazione sulla componente nervosa e muscolare della parete colica stessa. Se il megacolon non
è trattato comporta la perforazione, perché una dilatazione improvvisa su una mucosa infiammata determina una
perforazione. Questa è quindi l’evenienza più temibile che si può sviluppare in questi pazienti. La stenosi del
colon è invece molto più rara,: dovrebbe infatti esserci un’evoluzione di tipo sclero-cicatriziale affinché si arrivi
a questa. L’emorragia è una complicanza frequente ed importante. Ma la complicanza più grave è l’aumentato
rischio di degenerazione neoplastica. La RCU è infatti una condizione di rischio per il carcinoma del colon-retto
perciò questi pazienti devono necessariamente sottoporsi ad un follow-up, cioè a dei controlli endoscopici
(anche se . talvolta il k insorge su una mucosa piatta, displasica e quindi all’endoscopie non sempre si trovano
delle evidenti formazioni vegetanti), non solo per controllare la malattia ma per controllare nel tempo
l’eventuale presenza di aree di neoformazione o di displasia, che vengono individuate effettuando prelievi
random in più segmenti secondo alcuni parametri (4 prelievi ogni 5 cm) partendo dal cieco e tornando indietro,
sino ad ottenere una quarantina di campioni: questo perché talvolta il paziente sviluppa più focolai neoplastici
contemporaneamente in diversi distretti. Il rischio di degenerazione neoplastica in un paziente con RCU dopo
15-20 anni dalla diagnosi è di 1,7-4,4% è quindi una frequenza tutto sommato bassa, però in ogni anno che
passa questo rischio aumenta di circa 1 punto percentuale, quindi un paziente con 40 anni di malattia ha un
rischio significativo, tanto che dopo 30 anni dalla diagnosi il rischio è di circa il 15%, per cui capita, soprattutto
se il paziente ha avuto l’insorgenza della RCU in giovane età, che sviluppi anche il K rettale in relativa giovane
età.
Ricapitolando, fanno parte delle complicanze maggiori: megacolon tossico, perforazione del colon, stenosi del
colon, emorragia massiva e degenerazione neoplastica.
TERAPIA FARMACOLOGICA si basa essenzialmente sulla mesalazina, somministrata solitamente in di
2,4g al giorno (diluiti in 3 dosi) e 4 gr nelle forme acute. Le mesalazine, di cui esistono diverse formulazioni che
si differenziano a seconda del PH, sono presenti sia in compresse che e in clismi, cioè clisteri che si prendono
dall’ano soprattutto nelle proctiti ulcerose. Esistono anche sotto forma di supposte per i pazienti con
localizzazioni basse.
Altri farmaci usati sono i cortisonici, che possono essere dati in compresse, in fiale per uso endovenoso o in
clisteri. Il paziente con una forma acuta di proctite ulcerosa se prende subito la mesalazina in compresse e i
clisteri di cortisone nel giro di 2-3 giorni sta bene. Esistono poi tutta una serie di farmaci utili come anticorpi
monoclonali e immunosoppressori. Sono utili anche antibiotici, probiotici (integratori della flora batterica
intestinale) e farmaci sintomatici come l’alloperamide (anti-diarroico: il comune imodium).
TERAPIA CHIRURGICA
L’intervento chirurgico nelle IBD può essere effettuato in urgenza o in elezione. Ricorda: le situazioni patologiche
suscettibili di terapia chirurgica che non mettono a rischio immediato vita o funzioni organiche del paziente rientrano
nell'ambito della chirurgia di elezione. Dove "elezione" indica la possibilità di "scegliere" o "programmare" il momento
dell'intervento,(anche dopo settimane o mesi dalla diagnosi)i. In alternativa, se le condizioni del paziente o lo stadio della
patologia non consentono ritardi, l'atto chirurgico si definisce "d'urgenza", deve, cioè essere effettuato tassativamente
entro poche ore. Infine le situazioni che richiedono un intervento immediato, in pochi minuti, pena il decesso o lesioni
gravi irreversibili, si definiscono "d'emergenza"
Le indicazioni assolute all’intervento per la RCU, cioè quelle in cui è sempre necessario eseguirlo, sono: il
megacolon tossico (soprattutto se il diametro del lume supera i 6 cm), la perforazione e l’emorragia intestinale
inarrestabile (ma è raro che si ricorra a intervento per questa). Esistono però anche situazioni nelle quali si può
discutere sull’opportunità o meno di eseguire un intervento, in cui quindi si dice che l’indicazione è relativa; essi
sono i casi difficili, cioè quelli che non si riesce a trattare farmacologicamente, i casi che continuano ad avere
delle riattivazioni a breve termine nonostante la risposta alla terapia sia efficace, e i casi in cui nei pazienti si
verifica una cortico-dipendenza (cioè questi pazienti stanno bene solo tramite terapia cortisonica che però non
può essere attuata per molto tempo perché alla lunga determina dei problemi su altri distretti).
Per quanto riguarda il MC, le indicazioni assolute all’intervento chirurgico sono: il megacolon tossico (che
però è raro nel MC), la perforazione intestinale, l’occlusione intestinale e gli ascessi. Le indicazioni relative
invece sono: le sub-occlusioni ( i pazienti alternano periodi con dolori colici legati ad alterazioni del transito a
periodi normali in cui avviene lo svuotamento perché la pressione è tale da vincere le resistenze), fistole interne
(cioè entero-vescicali, entero-vaginali, entero-cutanee), cortico-dipendenza e malattia refrattaria al trattamento.
Trattamento chirurgico in corso di RCU.
Le condizioni che richiedono un intervento d’urgenza sono:
- la colite acuta severa (nel 70%). I pazienti con colite acuta severa sono quelli che non si riesce a trattare
farmacologicamente e presentano più di 5-6 scariche di diarrea muco-sanguinolenta, anemia, leucocitosi,
tachicardia ecc.. in questi casi il paziente viene ricoverato e sottoposto ad una terapia cortisonica endovenosa ad
alte dosi, si fa una terapia elettrolitica per riequilibrare le perdite con la diarrea profusa, si corregge l’anemia
facendo delle trasfusioni e, soprattutto, l’intestino viene messo a riposo effettuando una nutrizione parenterale
totale tramite un accesso venoso, solitamente tramite la vena succlavia, per fare in modo che l’intestino non
venga interessato dai processi digestivi.
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Con questo approccio in circa il 60% dei casi si ottiene una risoluzione, nel restante 40% si dovrà effettuare
terapia con immunosoppressori, in particolare con la ciclosporina A, Di questo 40% circa la metà andrà incontro
a risoluzione, mentre l’altra metà non risponde alla terapia per cui è necessario ricorrere alla chirurgia. Il quadro
clinico che ci fa capire che probabilmente il paziente non risponderà alla terapia e arriverà dal chirurgo è
rappresentato da: febbre, scariche diarroiche superiori a 10 nelle 24h, anemia, ipoalbuminemia, rettorragia
persistente e segni addominali.
- il megacolon tossico. Un diametro del colon maggiore di 6cm è considerato un parametro per la chirurgia,
anche perché, secondo la legge di La Place, più aumenta il lume più aumenta la pressione all’interno del
condotto e quindi il colon è destinato inevitabilmente ad aumentare ulteriormente di dimensioni se non si
interviene, perché c’è uno sfiancamento della componente muscolare tale che la parete colica non presenta più
un tono e quindi il colon tende a dilatarsi progressivamente sino a perforarsi.
- la perforazione: in questo caso l’intervento deve essere d’urgenza perche la perforazione può causare
peritonite, che ha una mortalità del 40%.
- l’emorragia. È un’indicazione più rara all’intervento, perché spesso si riesce a correggere questi quadri anche
con delle trasfusioni e difficilmente il paziente arriva all’intervento solo perché sanguina.
Tipi di interventi: se il paziente ha una RCU e quindi presenta un colon infiammato, l’unico intervento è la
colectomia totale e successivamente bisogna permettere al paziente di andare di corpo, bisogna cioè effettuare
una ileo-stomia: si prende cioè un’ansa ileale (che non è infiammata nella RCU) e la si abbocca nella cute. Il
retto deve essere resecato il più possibile perché è il bersaglio principe della malattia, però se lo si reseca
completamente il paziente sarà destinato per tutta la vita a portare la stomia (ricordare che sono pazienti
giovani), perciò si può tentare di ridare una continenza al paziente resecando il retto ma lasciando un moncone
rettale che dopo 4-6 mesi dall’intervento in urgenza, quando l’infiammazione è passata, si ricollega facendo un
anastomosi tra l’ileo e il moncone rettale, mentre l’anastomosi è fatta tra l’ileo e il canale anale se il retto è stato
completamente asportato.
È molto difficile che durante l’intervento in urgenza si riesca a fare direttamente l’anastomosi perché la stessa
infiammazione fa si che la sutura non tenga, perciò quando si opera in urgenza è preferibile fare una stomia
temporanea, far passare il processo infiammatorio e successivamente fare un’anastomosi.
Il trattamento chirurgico può essere effettuato anche in elezione, ad esempio nei pazienti che sono refrattari alla
terapia medica, o in forme invalidanti nei bambini, oppure nei pazienti in cui si è sviluppata una degenerazione
neoplastica.
Il trattamento in elezione può essere variabile:
--si può effettuare la proctocolectomia totale con ileostomia definitiva, in cui cioè si tolgono colon e retto e si fa
una ileostomia definitiva;
-può essere fatta una colectomia totale con ileoretto anastomosi, cioè come l’intervento di appena visto ma
l’anastomosi la si effettua subito visto che non ci sono condizioni locali tali da sconsigliarla.
--l’intervento più funzionale, più moderno e più efficace è la procto-colectomia restaurativa, così chiamata
perché si restaura, o meglio si ricostruisce, il retto utilizzando l’ileo, il quale viene quindi chiamato ileo pouch
(sacca), perché viene conformato in modo da diventare un nuovo retto che normalmente funge da serbatoio.
L’ileo pouch però non può sostituire in tutto e per tutto il nuovo retto perché il retto è innervato e ha delle
funzioni insostituibili: per esempio grazie a dei pressocettori può capire quale è la pressione al suo interno e
regolare la sua contrazione in funzione dello svuotamento o della continenza, inoltre il retto presenta anche
recettori in grado di discriminare se all’interno del tubo sia presente aria, feci liquide o solide. Nell’ileo tutto
questo non può più ricrearsi, però tramite una forma di riabilitazione si può dare una sorta di continenza, seppur
diversa da quella che ha il soggetto col retto normale. È quindi una possibilità di migliorare la qualità della vita
rispetto ad un paziente che ha l’ileo anastomizzato al canale anale e che quindi non ha alcun tipo di serbatoio di
contenzione. L’intervento prevede prima una fase demolitiva dove vengono tolti tutto il colon e il retto, poi si
effettua la ricostruzione: per formare le pouch l’ileo viene piegato ad “S” o ad “H” o a “J”; per far ciò ci sono
vari modi: quello più semplice è quello a J, in cui con una suturatrice vengono messi in comunicazione i due
lumi dell’ileo in modo da avere dall’unione di due lumi piccoli un lume più grande, a questo punto si ha
l’anastomosi tra la pouch e il canale anale tramite una sutura manuale. Per almeno un mese il paziente dovrà
avere una stomia tramite la quale espelle le feci, in modo tale da proteggere la sutura, infatti se per caso dovesse
verificarsi il distacco di uno o più punti non succede nulla perché le feci sono espulse tramite l’ileostomia,
quindi la sutura ha il tempo per guarire, se invece nella sutura continuano ad arrivare le feci, queste possono
passare negli spazi perirettali e il paziente svilupperà degli ascessi e non guarisce, quindi l’ileostomia in questo
caso è di protezione. Una volta cicatrizzata la sutura, l’ileostomia si chiude, l’ansa viene spinta dentro con un
nuovo intervento e il paziente può riprendere ad andare di corpo dall’ano.
Collegare l’ileo al canale anale non è semplice, ma si può lasciare una porzione di retto, anche perché bisogna
preservare l’apparato sfinterico, perché se viene lesionato lo sfintere il paziente non potrà mai più controllare le
feci. Perciò talvolta è preferibile lasciare un monconcino di retto, di 2-3 cm, di cui però è necessario fare la
mucosectomia, cioè osservando il retto dalla parte anale, prima di fare l’anastomosi, si deve togliere la mucosa
del retto in modo tale che venga meno il bersglio della malattia però rimanga il retto con la sua componente

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sfinteriale, così che la malattia non possa ripartire; successivamente si fa una anastomosi a mano o con delle
suturatrici meccaniche.
Le pouch nel 95% dei casi riescono ad avere una evacuazione spontanea e la frequenza dell’alvo dopo 6 mesi è
di 3-6 emissioni al giorno, che consentono al paziente una buona continenza e una buona qualità di vita, anche
se rispetto alla normalità sono tante, perché comunque la pouch non può mai completamente sostituire il retto.
Questi pazienti sono sottoposti ad un ciclo di riabilitazione per riottenere una continenza: si gonfia un palloncino
nella pauch in modo da ottenere lo stimolo e il paziente guardando nel computer vede che quando aumenta la
pressione lui sente lo stimolo e quindi lo si invita a fare dei movimenti particolari con il perineo in maniera da
controllare questo stimolo e sul monitor vedrà che l’onda delle pressioni che riesce a generare cambiano a
seconda di come lui cambia la postura del corpo. Questa forma di ginnastica è in grado di migliorare la qualità
della vita di questi pazienti.
Trattamento chirurgico in corso di MC. In questo caso la chirurgia è meno demolitiva perché spesso questi
pazienti vengono operati per infiammazioni acute con stenosi o sub-stenosi di un tratto di ansa intestinale. Gli
interventi sono in genere di tipo resettivo: di solito vengono resecati tratti di intestino più o meno lunghi, sempre
nell’ordine di alcune decine di cm ( tenendo conto che il tenue è lungo alcuni metri si capisce che non sono
interventi che comportano gravi conseguenze). Le resezioni intestinali si effettuano con delle suturatrici o con
dei bisturi ad ultrasuoni o a radiofrequenze e successivamente si collega il tratto a monte con il tratto a valle per
ricostituire la continuità intestinale. Talvolta non è neanche necessario effettuare delle resezioni perché se si
hanno delle stenosi segmentarie molto piccole il quadro si può risolvere con interventi detti stricturoplastica,
cioè in presenza di una stenosi si effettua un incisione lungo l’asse maggiore dell’ansa e successivamente viene
invece fatta una sutura in senso trasversale, in modo che il diametro dell’ansa aumenti.
Talvolta si fanno anche altri tipi di interventi, per esempio se sono presenti due tratti stenotici vicini è possibile
piegare l’ansa in modo da ravvicinare i due tratti i e mettere in comunicazione i due lumi ristretti formandone
uno più ampio.

ISCHEMIA INTESTINALE
ISCHEMIA ACUTA
L’ischemia indica una diminuzione dell’apporto di sangue tale da comportare conseguenze fisiopatologiche e
cliniche. Le conseguenze dell’ischemia dipendono dall’anossia tissutale; dopo un periodo variabile, dipendente
dal grado di ischemia e dal metabolismo tissutale, si ha una lesione parietale irreversibile con morte dei tessuti:
è questa la fase dell’infarto. L'ischemia intestinale evolve con notevole frequenza verso l'infarto intestinale e
comporta una notevolissima mortalità.
L'aspecificità dei sintomi e la povertà del quadro obiettivo addominale nelle prime fasi fanno si che la diagnosi
sia posta spesso in ritardo, quando l'intestino e' già sede di lesioni irreversibili e così estese da rendere
problematica la sopravvivenza del paziente.
CENNI DI ANATOMIA i visceri addominali sono vascolarizzati da tre tronchi principali:
1 - il tripode celiaco (CT),
2 - l'arteria mesenterica superiore (SMA)
3- l'arteria mesenterica inferiore (IMA).
Il circolo collaterale tra questi tre vasi è molto efficiente e il diametro relativo dei tre vasi è in proporzione
inversa: se la SMA è molto grossa l'IMA e il CT possono essere di diametro inferiore. Viceversa se la SMA è di
diametro modesto l'IMA e il CT presentano una dimensione maggiore. I vasi collaterali sono: arteria pancreatica
dorsale; arcata di Kirk; arcata di Riolano; arcata pancreaticoduodenale posteriore; arcata pancreatico duodenale
superiore; arcata di Rio Branco; arcata di Buhler; arcata di Drumond; tronco duodenopancreatico inferiore;
arcata di Villemin.
EPIDEMIOLOGIA è un’affezione relativamente rara: l’incidenza è di 1 ogni 100000 abitanti. Nel 70% dei
casi si verifica in individui di età compresa tra i 60 ed i 90 anni, mentre è raro al di sotto dei 50 anni. Ha una
mortalità che oscilla tra il 70 e il 90% per le forme da ostruzione arteriosa e superiore al 50% per quelle da
ostruzione venosa.
EZIOPATOGENESI l'ischemia intestinale propriamente detta comprende le forme determinate da ostruzioni
primitive dei vasi mesenterici superiori, arteriosi e venosi. Non sono comprese ostruzioni secondarie (volvoli,
strozzamenti ecc.).
Le ischemie mesenteriche acute di più frequente riscontro sono quelle indotte da ostruzioni arteriose emboliche
o trombotiche, da trombosi venose o da ischemie non occlusive dovute a cause funzionali.
1)L'embolia,in particolare quella dell’AMS, è causa frequente di occlusione acuta, sopratutto in pazienti
cardiopatici con disturbi del ritmo (FA in primis) o con alterazioni della cinesi per infarto o alterazioni valvolari
reumatiche. Più raramente si hanno emboli da mixomi, endocardite settica, protesi valvolari, aneurismi
dell’aorta sopra-celiaca o embolie paradosse (in presenza di comunicazione inteatriale). L'embolo si arresta
spesso laddove il calibro dell’AMS subisce una brusca riduzione di calibro (dopo l'origine dell'arteria colica
media).

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2)La trombosi acuta si verifica su una lesione preesistente aterosclerotica; la sede più frequentemente interessata
e' l'origine dell'arteria mesenterica superiore, nel suo primo tratto, mentre più raro è l’interessamento della
mesenterica inferiore.
3)Le trombosi venose sono di solito associate a condizioni patologiche preesistenti, come l'ipertensione portale,
le infiammazioni e la sepsi (peritoniti, pancreatiti), interventi chirurgici, stati di ipercoagulabilità, tromboflebiti
e flebotrombosi (tromboflebite migrante, tromboflebite profonda). La più importante è senz'altro la cirrosi, che
comporta un ostacolo al flusso mesenterico-portale.
4) Le forme non occlusive si verificano in assenza di significative lesioni ostruenti arteriose o venose e vengono
definite funzionale o da bassa portata.
Il fattore piu' importante è un grave decremento del flusso mesenterico determinato da :
a) insufficienza cardiaca (secondaria ad aritmie, infarto, scompenso)
b) dalla riduzione della volemia (per emorragia , ustioni, disidratazione).
Queste situazioni si conclamano con il quadro dello shock cardiogeno ed ipovolemico, che comportano una
ridistribuzione del flusso arterioso, con impoverimento del flusso mesenterico, mediato dalle catecolamine e da
altre sostanze vasoattive.
In queste forme l'asse vascolare principale e' pervio ed e' il vasospasmo il meccanismo patogenetico
fondamentale di tali ischemie non occlusive.
FISIOPATOLOGIA qualunque sia la causa dell'ischemia mesenterica, la alterazioni della parete intestinale
sono sostanzialmente sovrapponibili. Alterazioni significative delle cellule della mucosa sono distinguibili già
pochi minuti dopo l'occlusione dell’AMS; ciò e' dovuto al fatto che delle tonache dell'intestino, la mucosa è
quella con fabbisogno maggiore di ossigeno, date le molteplici funzioni cui è deputata: tra queste, la sintesi del
muco che svolge una funzione di protezione nei confronti del materiale endoluminale. Nell'ischemia
l'alterazione del muco comporta l'aggressione degli enzimi proteolitici, ed al danno ischemico si aggiunge quello
chimico-enzimatico che accelera i processi necrotici.
La tonaca muscolare presenta, ab initio, solo alterazioni funzionali, in una prima fase di tipo irritativo, con
accentuazione della peristalsi, e successivamente fenomeni paralitici. Solo tardivamente si verificano le
alterazioni della muscolare e della sierosa tipiche dell'infarto transmurale.
Le lesioni ischemiche comportano anche conseguenze di tipo tossico e settico con esito finale in shock
irreversibile. Tali complicanze non sono elevate solo nella fase ischemica, ma anche dopo eventuale
rivascolarizzazione, allorché il territorio mesenterico dapprima escluso rimette in circolo massicce quantità di
cataboliti, batteri e tossine, causando un notevole accumulo di acidi che determina spiccata acidosi metabolica.
La mucosa intestinale non solo non riassorbe i liquidi in essa presente, ma provoca perdite di plasma e liquidi
nel suo interno con ipovolemia e inspissatio sanguinis, che accentuano a loro volta l'ischemia e l'acidosi.
Infine, la liberazione di sostanze attivanti la coagulazione, originatesi dal materiale trombotico o
dall'endotossine batteriche, possono innescare la C.I.D., con ulteriore compromissione della circolazione sia
distrettuale che sistemica.
CLINICA la povertà del quadro clinico iniziale, in contrasto con la gravità del processo patologico, è la
caratteristica principale. Nelle fasi iniziali l'unico elemento indicativo è il dolore addominale insorgente in modo
acuto e che non tende a recedere. Le condizioni generali del paziente si mantengono in buon equilibrio. Il
dolore, pur persistendo, può attenuarsi dando l'impressione che la patologia in atto tenda a risolversi
spontaneamente; la situazione, invece , improvvisamente precipita ed il quadro clinico si conclama in tutta la
sua gravità.
Il quadro clinico subdolo nella fase pre-infartuale, rende ragione della necessità di valutare correttamente i
sintomi precoci che, pur essendo aspecifici, assumono particolare rilevanza quando compaiano in pazienti a
rischio. A complicare ulteriormente la diagnosi vi è la caratteristica delle trombosi venose di instaurare un
quadro clinico più sfumato, un esordio meno acuto, dolore intermittente nelle prime fasi. A fini didattici la
sintomatologia dell'IMA può essere schematizzata in tre stadi clinici successivi, i quali corrispondono, a grandi
linee, all'evoluzione della malattia:
1)stadio spastico (1-3 h)
Questo quadro nelle embolie insorge sempre improvvisamente, con violento dolore addominale, mesogastrico o
diffuso. Ad indicare una convulsa e disordinata cinetica intestinale compaiono vomito e diarrea, sintomi che
possono essere fugaci o persistere per diverse ore. Se non è presente shock cardiogeno o ipovolemico, le
condizioni generali del paziente si presentano buone. L'addome non è disteso, trattabile e la dolorabilità è
accentuata dalla palpazione ma la difesa è minima o del tutto assente. La peristalsi è presente e spesso iperattiva.
2)stadio paralitico (> 24 h)
Il dolore è persistente, anche dopo la terapia antispastica. L'alvo col trascorrere delle ore si chiude a feci e gas.
L'addome è disteso e, pur essendo ancora trattabile, è diffusamente dolente alla palpazione. Aree di timpanismo
possono svelarsi alla percussione, anche se tale reperto può essere incostante per la presenza di liquido
sequestrato nel lume intestinale. La peristalsi è ridotta o assente. La presenza di feci commiste a sangue può
essere svelata dall'esplorazione rettale. A questo stadio clinico corrispondono ancora lesioni ischemiche
reversibili, per quanto estese, per cui al medico compete l'esatta valutazione del quadro clinico, al fine di
scongiurare il passaggio al terzo stadio con lesioni ormai irreversibili. Pur di evitare tale evoluzione non vanno

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escluse l'attuazione di esami diagnostici invasivi, quali l'arteriografia, necessaria per il conseguimento della
diagnosi esatta.
3)stadio peritonitico
Il quadro peritonitico franco è l'espressione di un esteso infarto di gran parte o di tutto l'intestino tenue e talora
anche del colon ascendente. Il paziente si trova in shock conclamato, con grave sofferenza, oliguria o anuria.
L'addome è disteso, contratto, resistente e dolente alla palpazione.
DIAGNOSI elementi di importante significato diagnostico possono essere:
-età: l'ischemia mesenterica acuta si verifica in pazienti con età media di 70 aa., almeno per quelle di origine
arteriosa;
-malattie cardiache preesistenti (valvulopatie, FA, scompenso, infarto) sono condizioni patologiche di frequente
riscontro;
-segni di sofferenza arteriosa periferica devono far pensare alla possibile concomitanza di lesioni alle arterie
viscerali, che possono essersi manifestate precedentemente come insufficienza celiaco-mesenterica di tipo
cronico;
-shock cardiogeno od ipovolemico con ipotensione protratta comportano un elevato rischio di ischemia non
ostruttiva;
Gli esami di laboratorio possono svelare emoconcetrazione con Ht (ematocrito) elevato, per la grande quantità
di liquidi sequestrati nel lume intestinale. Tale segno è assente, ovviamente, nell'ischemia funzionale dovuta a
shock emorragico. La leucocitosi neutrofila (20-40.000) è altro elemento presente, anche se non costante.
L'acidosi metabolica è un segno precoce di ipossia mucosa e si evidenzia già nelle prime 6-8 h. Tale segno e'
importante per la diagnosi differenziale, quando questo squilibrio metabolico non e' concomitante ad uno stato
di shock, infatti nell'addome acuto non ischemico l'acidosi è sempre secondaria allo shock, mentre nell' ischemia
intestinale ostruttiva è già presente, quando le condizioni emodinamiche del paziente sono ancora buone.
I fosfati inorganici sono elevati nel sangue periferico solo quando hanno superato la soglia di clearance epatica e
perciò presenti nelle fasi tardive. Più precoce e' la positivizzazione di tale valore in caso di trombosi venose.
L’Rx ha scarsa utilità nelle fasi iniziali, risultando spesso negativo. Piu' tardivamente si evidenziano i segni
radiologici del danno parietale: alterazioni del contorno mucoso, scomparsa delle valvolae conniventes,
ispessimento della parete intestinale con riduzione del lume, aspetto rigido delle anse con bruschi
inginocchiamenti, presenza di gas nel contesto della parete delle anse (sicuro indice di necrosi intestinale),
incostante il rilievo di livelli idroaerei. Altresì l'esame radiologico è importante per escludere l'esistenza di
quadri patologici che possono presentarsi con segni clinici sovrapponibili, quali pancreatite, perforazioni,
volvoli.
Molti autori hanno dimostrato l'importanza dell’arteriografia mesenterica nella diagnosi tempestiva
dell'ischemia mesenterica acuta e successivamente per le possibilità terapeutiche, con l'infusione di
vasodilatatori nell'albero mesenterico. Tale esame è l'unico in grado di svelare, nella fase preinfartuale,
l'ischemia mesenterica. L'esame arteriografico trova indicazioni nei seguenti casi: età > 50 aa; namnesi: malattie
cardiache, valvolari, ischemiche, scompenso in trattamento con digitalici, aritmie cardiache, infarto miocardico
recente.
TERAPIA CHIRURGICA in fase preliminare non è possibile formulare un giudizio definitivo sulla vitalità
dell'intestino ischemico; ciò potrà avvenire solo dopo la rivascolarizzazione con ripristino della circolazione
mesenterica.
1. In presenza di embolia, la tecnica operatoria è l'embolectomia mesenterica, con arteriotomia
sottomesocolica e disostruzione con catetere di Fogarty, prima del settore distale dell'arteria e poi del
settore prossimale.
2. Nella trombosi acuta i problemi tecnici sono maggiori: il ripristino di un flusso ottimale richiede
l'attuazione di una tromboendoarteriectomia associata ad angioplastica mediante toppa, o di un by-pass
aorto-mesenterico o di un reimpianto dell'arteria mesenterica sull'aorta. Risolto il problema vascolare,
arterioso o venoso, si procede alla verifica della vitalità dell'intestino rivascolarizzato. Le anse che non
hanno subito lesioni irreversibili riprendono immediatamente il loro colore roseo e la peristalsi, altre
possono avere una ripresa più lenta ma evidente. Qualora la ripresa di una normale vitalità non si
evidenzi, si dovrà provvedere alla resezione delle anse infartuate.

ISCHEMIA CRONICA (INSUFFICIENZA CELIACO MESENTERICA CRONICA)


La riduzione dell’apporto arterioso al distretto splancnico, che si rende manifesta nei momenti di maggior
richiesta energetica, cioè durante la digestione, induce una sindrome che viene indicata con il termine di
insufficienza celiaco mesenterica cronica. In tale condizione l’intestino diviene sede di ripetute crisi ischemiche
che non evolvono all’infarto, ma si rivelano con una sintomatologia dolorosa definita claudicatio abdominis o
angina addominale
EPIDEMIOLOGIA più colpite le femmine (rapporto M:F 1:3) in età compresa tra i 40 ed i 70 anni (età media
59 anni).

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EZIOPATOGENESI nella grande maggioranza dei casi l’ischemia intestinale cronica è dovuta a lesioni
stenobliterative di tipo arteriosclerotico, che interessano soprattutto gli osti ed i primi tratti dei tre principali
tronchi arteriosi (tripode celiaco, arteria mesenterica superiore ed inferiore) deputati all’irrorazione splancnica.
In un ristretto numero di casi (di regola pazienti in giovane età), la ridotta perfusione del tripode è dovuta ad
anomalie anatomiche che esercitano una compressione estrinseca sull’arteria. L’effetto che ne deriva è una
progressiva riduzione del calibro del vaso che può giungere all’ostruzione completa.
CLINICA il dolore (angina abdominis), principale sintomo, compare a breve distanza dai pasti (tra il 15° ed il
60° minuto) e perdura per 1-3 ore; è crampiforme e predilige l’epigastrio o la regione periombelicale, ma può
estendersi alla maggior parte dell’addome. La sua intensità è, di regola, correlata con la quantità degli ingesti
assunti. È dovuto ad una discrepanza tra l’apporto e le richieste d’ossigeno da parte dell’intestino in attività. Il
ridotto flusso ematico è sufficiente, infatti, ad assicurare la vitalità delle anse intestinali, ma le possibilità di un
incremento della perfusione sono limitate, e comunque insufficienti a sopperire alle maggiori richieste
metaboliche che si verificano durante la digestione (esaltato assorbimento e secrezione, aumento della
peristalsi). Per la conseguente ipossia, il metabolismo diviene anaerobico e si instaura acidosi con liberazione di
sostanze in grado di stimolare i nocicettori.
Altri sintomi sono i disturbi della canalizzazione, che consistono in meteorismo, stipsi e diarrea. Di questi, il
primo è solitamente il più precoce; ad esso si aggiunge il secondo con l’aggravarsi dell’insufficienza arteriosa.
La diarrea è l’espressione di un grado di ischemia ancora più avanzato.
Il dimagrimento può condurre in breve tempo all’emaciazione per malassorbimento, soprattutto perché il
paziente è costretto dalle crisi dolorose postprandiali ad assumere quantità minori di cibo.
L’esame obiettivo del paziente non permette rilievi peculiari, se si eccettua la possibile presenza di un soffio
arterioso in regione epigastrica od in altri distretti vascolari.
DIAGNOSI è spesso posta per esclusione di altre più frequenti affezioni dell’apparato gastroenterico. La
diagnosi differenziale va posta soprattutto nei confronti delle neoplasie maligne dello stomaco e del pancreas,
ma si deve vagliare anche la più remota possibilità dei tumori del piccolo intestino. Il primo approccio
diagnostico al paziente con dolore epi-mesogastrico e dimagrimento avviene spesso tramite indagini
endoscopiche e tomografiche e solo in un secondo tempo si ricorre alla valutazione angiografica.
PROGNOSI l’evoluzione di un’ischemia cronica intestinale può variare in rapporto sia con la progressione,
più o meno rapida, dell’ostruzione vasale agli imbocchi dell’arteria celiaca e delle arterie mesenteriche
(soprattutto della superiore), sia con la varia estensione del processo arteriosclerotico (o tromboangiolitico) negli
altri distretti dell’organismo.
TERAPIA vengono trattate solo le lesioni sintomatiche, con una sola e importante eccezione: quando si decide
di rivascolarizzare l’asse aortoiliaco o le renali e sono presenti, nelle tre principali arterie viscerali addominali,
processi arteriosclerotici in grado di ridurre significativamente la perfusione splancnica.
Le tecniche di rivascolarizzazione più frequentemente usate sono la tromboendoarteriectomia (TEA), il bypass
in vena o tessuto protesico, l’angioplastica transluminale (PTA) e l’impiego di stent espandibili.

PATOLOGIA MALFORMATIVA
ATRESIA DELL'ESOFAGO
E' l'anomalia dell'esofago più frequente ed è caratterizzata dalla mancata formazione di un tratto di esofago,
associata o meno a fistola tracheoesofagea (FTE). A seconda del tratto interessato si distinguono diverse forme:
a)atresia esofagea pura (6-8%): la distanza tra il moncone distale e il prossimale è almeno di 3-4 vertebre per
definizione.
b)atresia esofagea con FTE prossimale (2%)
c)atresia esofagea con FTE distale (85%)
d)atresia esofagea con FTE prossimale e distale (3-5%)
Colpisce ogni 1000-2000 neonati senza predilezione di sesso ma con forte predisposizione genetica.
Frequente è il reperto di polidramnios in corso di gravidanza e altre anomalie nel 50% dei casi come le
malformazioni del digerente (atresia duodenale o anorettale). I primi sintomi compaiono già dalla nascita e si
fanno più evidenti durante l'alimentazione, tanto che al tentativo di ogni poppata compaiono rigurgito e sintomi
respiratori ab ingestis preoccupanti. Si manifesta con scialorrea, dispnea, tosse, crisi di soffocamento per il
passaggio di saliva dal moncone esofageo prossimale in trachea.
Nelle forme con FTE il passaggio di aria attraverso la fistola ad ogni atto respiratorio provoca distensione
gastrica e conseguente reflusso acido nell'albero bronchiale e polmonite ab ingestis con ulteriore aggravamento
del distress respiratorio, invece un bambino con atresia ma senza fistola non rischia una broncopolmonite ab
ingestis.
La diagnosi può essere fatta anche durante la vita fetale nel caso di atresia senza fistola, infatti in questo caso lo
stomaco non riceve nulla e di conseguenza è molto piccolo.
Alla nascita a tutti i neonati deve essere introdotto un sondino naso gastrico. Questa manovra non presenta
difficoltà, tuttavia in presenza di un’atresia esofagea il sondino può arrotolarsi nel cul di sacco superiore dando
così la falsa sensazione di essere giunti nello stomaco. Il mancato passaggio nello stomaco del sondino naso-

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gastrico radiopaco è sufficiente a porre la diagnosi che viene poi confermata da un radiogramma in posizione
eretta che comprenda il torace e l’addome: in questo modo si evidenzia: 1)la posizione del sondino e quindi
dell'altezza del moncone prossimale, 2) la presenza o meno di aria nello stomaco e intestino (atresia con o senza
fistola), 3)eventuali lesioni polmonari, 4) malformazioni associate.
TERAPIA nell’atresia esofagea con fistola l’intervento deve essere eseguito alla nascita e consiste nella
chiusura della fistola e nell'abboccare il moncone superiore con l'inferiore mediante anastomosi primaria
termino-terminale, invece nell’atresia esofagea senza fistola è assente il rischio di broncopolmonite, ma in
queste forme la distanza tra i monconi è generalmente maggiore che nelle forme con fistola, tanto da non
riuscire ad anastomizzare i monconi. La correzione deve quindi avvenire in due tempi: alla nascita si pratica una
gastrostomia per alimentarlo e si utilizza un sondino naso gastrico per aspirare la saliva dal moncone superiore.
Dopo 4-5 mesi o comunque entro un anno si programma la ricostruzione esofagea.
COMPLICANZE POST-OPERATORIA
1) filtraggio dell’anastomosi: avviene per lo più nelle anastomosi sotto tensione, o per necrosi ischemica del
moncone distale. Deiscenze di modesta entità guariscono per lo più spontaneamente;
2) stenosi dell’anastomosi: si risolve di solito con poche dilatazioni strumentali e raramente richiede un altro
intervento;
3) recidiva della fistola tracheo-esofagea;
4) reflusso gastroesofageo: è spesso presente. Sembra sia più frequente nei casi trattati con la gastrostomia
preliminare. Talora può rendersi necessario l’intervento di plastica antireflusso.

OCCLUSIONI INTESTINALI NEL NEONATO


Le occlusioni intestinali costituiscono il capitolo più importante della patologia chirurgica neonatale e sono nella
gran parte conseguenza di anomalie dello sviluppo. Alcune di esse danno obbligatoriamente segno di sé alla
nascita (es. atresie intestinali -atresia pilorica, duodenale, ileale, coliche – anorettali), altre invece possono
rimanere asintomatiche o manifestarsi più avanti (es. malrotazioni, megacolon congenito), ma nella maggior
parte dei casi si rendono evidenti in età neonatale. I sintomi cardine sono tre:
- vomito: è il sintomo più importante ed è sempre biliare (nel neonato sano è assolutamente eccezionale) tranne
in quei rari casi in cui l'ostruzione è al di sopra della papilla di Vater. L’insorgenza è precoce, di solito nel primo
giorno di vita, indipendentemente dall’altezza dell'ostruzione.
- distensione addominale: è più o meno marcata a seconda del livello dell’occlusione. Se pilorica o duodenale è
pressoché assente o cmq limitata all’addome superiore. Se ileale o colica si ha un importante distensione
addominale.
- mancata emissione di meconio nelle prime 24 ore di vita (materiale contenuto nell'intestino del feto):
l'emissione tuttavia può verificarsi in modestissima quantità se l’ostruzione intestinale non è completa o se la
malformazione occludente l'intestino è avvenuta dopo il III-IV mese di vita fetale (quando cioè il meconio si è
già formato).

ATRESIA PILORICA
Anomalia autosomica recessiva con incidenza di 1/ 300.000 nati e con frequente associazione con epidermolisi
bollosa.
L’ostruzione del piloro può essere dovuta alla presenza di un cordone fibroso che unisce il piloro e il duodeno
(atresia vera), oppure può essere dovuto alla presenza di un diaframma o per discontinuità completa del piloro
dal duodeno (aplasia). Nel caso della membrana l’intervento chirurgico consiste nell'asportazione della stessa
con eventuale piloroplastica, ripristinando la pervietà. Nel caso dell'atresia vera si taglia a monte e a valle del
cordone fibroso per poi procedere con l'anastomosi gastro-duodenale, il bambino però avrà reflusso per tutta la
vita a differenza della membrana. Anche nell'aplasia si esegue una gastro-duodenostomia. Le Complicanze a
lungo termine della piloroplastica e della gastroduodenostomia sono rappresentate da reflusso e gastrite alcalina.
Nell’atresia pilorica tipo “cordone solido” se lo strato muscolare é conservato, se pure ipoplastico, si può
eseguire una ricostruzione dello sfintere pilorico, eseguendo una ricanalizzazione mediante trasposizione di
mucosa gastrica e duodenale (tecnica sec. Dessanti) le quali vengono avvicinate l'un l'altra, anastomizzate e
suturate. Questa tecnica permette di alimentare il piccolo pz già dopo 10-15 giorni senza disturbi dello
svuotamento gastrico e senza reflusso bilio-gastrico.

ATRESIA DUODENALE
L’atresia del duodeno è solitamente localizzata al di sotto della papilla di Vater ed è la conseguenza della
mancata ricanalizzazione del lume duodenale dopo la fase solida dello sviluppo intestinale. Si manifesta con una
mancata comunicazione tra la porzione prossimale e quella distale del duodeno che sono separate talvolta anche
semplicemente da una bendarella o da una membrana. Comune è il reperto di polidramnios (troppo liquido
amniotico), così come in tutte le atresie. Si associa frequentemente ad altre malformazioni fra cui l’atresia
dell’esofago ed il pancreas anulare. Caratteristica è soprattutto l’associazione con la sindrome di Down (30% dei
casi). Il quadro clinico è caratterizzato da:

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- addome piatto: manca la distensione addominale e inoltre l’epigastrio può essere attraversato da sx a dx da
vigorose onde peristaltiche gastriche.
- vomito gastrico o biliare: più frequentemente il vomito è biliare, sovente a getto. Nelle rare forme
sovrapapillari il vomito è incolore, però anche in questi casi talora il vomito può essere biliare per la presenza di
dotti biliari accessori.
Per la diagnosi fondamentale risulta l'Rx che permette di visualizzare la caratteristica “doppia bolla” idroaerea
(la normale bolla gastrica e una bolla duodenale) e l’assenza di aria nel restante ambito addominale. Se è
presente una membrana si possono osservare delle bollicine sotto la bolla duodenale poiché spesso la membrana
presenta dei forellini.
La terapia è chirurgica e consiste nel ristabilire la continuità mediante duodeno-duodenostomia: si incide il
duodeno prossimale trasversalmente e quello distale longitudinalmente e si congiungono con un anastomosi a
diamante.

ATRESIA ILEALE
Insieme a quella duodenale rappresenta una delle più comuni cause di ostruzione intestinale nel neonato. Per lo
più è unica, raramente è multipla. La patogenesi non è legata alla mancata ricanalizzazione come per l’atresia
duodenale ma all’insufficienza vascolare avvenuta in utero. La diagnosi si basa sui reperti classici di occlusione
intestinale: vomito biliare, distensione addominale (per lo più imponente, specie se l’atresia è a carico del tratto
distale dell’ileo), mancata emissione di meconio. La parte dilatata è sempre il moncone prossimale.
Il tenue è ipoplasico perché prende sangue dal colon mentre il digiuno è ancora irrorato dalle sue arterie.
La terapia consiste nella resezione del segmento prossimale dilatato e nel ristabilire la continuità intestinale
mediante anastomosi dei due monconi intestinali (ileo-digiunale e ileo-colica). Poiché ileo e colon hanno
differente calibro per poter eseguire un’anastomosi il tratto ileale viene in parte inciso longitudinalmente per
aumentarne il calibro.

MALROTAZIONE INTESTINALE
L’intestino primitivo viene diviso in 3 parti: Superiore (duodeno-digiuno), Medio (ileo-colon ascendente),
Inferiore (colon trasverso–retto). L’intestino medio si porta fuori dall’orifizio ombelicale (quindi al di fuori della
cavità addominale) formando un’ansa, la quale intorno alla 5° - 10° settimana di vita embrionale rientra nella
cavità compiendo contemporaneamente una rotazione antioraria di 180°: l’angolo duodeno-digiunale si pone a
sx e il cieco scende nella fossa iliaca dx e si fissa alla parete laterale dell’addome. Quando è malrotato i rischi
sono vari come l'appendicite acuta (l’appendice per la malrotazione si trova a sx e non a dx), attorcigliamento
intestinale (perché il mesentere non si fissa e quindi l’intestino medio si viene a trovare appeso), volvolo
intestinale (torsione di una parte dell’intestino medio, infatti la totale libertà dell'ileo può portare il cieco in zona
ileale) il quale è responsabile non solo dell'occlusione intestinale ma anche dell'ostruzione della mesenterica con
conseguente ischemia e necrosi.
La mal rotazione può essere del tutto asintomatica e venire scoperta accidentalmente, spesso però è responsabile
di dolori addominali ricorrenti ed aspecifici. Nel neonato e nel lattante in genere si mette in evidenza con il
quadro dell’occlusione intestinale. In genere l’occlusione è intestinale e la sintomatologia ricalca quella
dell’atresia. In presenza di volvolo il bambino è sofferente ed il vomito è insistente.
L’intervento non presenta difficoltà, infatti è necessario soltanto riportare il cieco a sx lasciando le anse ileali
terminali libere. Questa patologia rappresenta comunque un’urgenza e se la diagnosi viene fatta tardivamente
l'unico rimedio è il trapianto di intestino o la nutrizione parenterale.

MEGACOLON CONGENITO
Il megacolon congenito agangliare (o Malattia di Hirschsprung) è una patologia congenita caratterizzata dalla
mancanza delle cellule gangliari intramurali (plessi di Auerbach e di Meissner) nella parte distale dell’intestino.
L’incidenza della malattia di Hirschsprung è di circa 1:5000 bambini, maschi nell’80% dei casi. In una
significativa percentuale di pazienti è presente familiarità. La aganglia interessa quasi sempre il retto o il retto-
sigma, raramente anche il colon a monte ed eccezionalmente l’intero tenue. Questi gangli innervano il tratto
digerente dalla bocca all'ano e in maniera non segmentale ma continua dall'alto verso il basso per cui se
mancano a livello duodenale non ci sono neanche sotto!
Nel tratto agangliare la peristalsi è assente ed il tono muscolare è aumentato per il prevalere dell’attività
simpatica. Ne consegue uno stato di ostruzione funzionale. L’intestino a monte della zona aganglica, che è
normalmente provvisto di gangli, va progressivamente incontro a dilatazione ed ipertrofia, nel tentativo di
spingere il contenuto intestinale attraverso il segmento agangliare. L’area di transizione fra i due segmenti ha
aspetto conico “ad imbuto”. 
E’ stata recentemente identificata, in associazione con la malattia di Hirschsprung o anche da sola, una nuova
entità patologica a carico del sistema nervoso enterico, definita “displasia intestinale neuronale”.
In questa malattia i plessi gangliari sottomucosi non sono assenti, come nella malattia di Hirschsprung, bensì
alterati ed ipofunzionanti (disganglionosi): ne risulta un quadro clinico di costipazione cronica analogo a quello
della malattia di Hirschsprung, ma più sfumato e quasi mai tale da richiedere una correzione chirurgica.

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CLINICAil quadro clinico si rende evidente già alla nascita o nei primi giorni di vita, talora in maniera
subdola, talaltra invece con i segni dell’addome acuto. Nella maggior parte dei casi tuttavia esordisce con il
quadro di occlusione intestinale (vomito biliare, distensione dell’addome). Un sintomo praticamente costante è
il ritardo nell’emissione del meconio (dopo le 24 ore). L’esplorazione rettale e/o l’introduzione di una sonda nel
retto è per lo più seguita da una “esplosione” di gas e di meconio: l’addome si detende, il vomito cessa e la
sintomatologia regredisce per ripresentarsi dopo qualche ora o qualche giorno.
A volte invece il quadro clinico è meno drammatico ed al ritardo nell’emissione del meconio fa seguito nei
giorni e nei mesi successivi uno stato di stipsi, intervallato a volte da crisi subocclusive, che si risolvono con
l’introduzione della sonda nel retto. Con il passare del tempo tali episodi si diradano ed il sintomo preminente è
la stipsi sempre più ostinata , l’alvo può rimanere chiuso alle feci per giorni o addirittura per settimane.
L’emissione di gas è fortemente maleodorante. 
COMPLICANZA Una complicazione temibile e spesso letale, in particolare nel periodo di vita neonatale, è
l’enterocolite ischemica: l’addome improvvisamente si distende, compare vomito insistente, diarrea imponente
con passaggio di materiale fortemente maleodorante e talora emorragico, disidratazione, sepsi. Non sono rare la
necrosi e la perforazione della parete intestinale. L’eziologia di tale complicanza è tuttora scarsamente
compresa, tanto più che paradossalmente l’enterocolite ischemica può presentarsi anche nei pazienti già
sottoposti a correzione chirurgica. Si presume che in questi casi esista una qualche alterazione nella produzione
delle mucine glicoproteiche che costituiscono la barriera mucosa del colon.
DIAGNOSI La diagnosi di malattia di Hirschsprung non è difficile purché si abbia sempre presente che è una
malattia caratteristica del neonato e dei primi mesi di vita. La diagnosi differenziale è posta soprattutto con la
stipsi ostinata. Nella malattia di Hirschsprung il bambino non sporca le mutandine e all’esplorazione rettale
l’ampolla è vuota, invece nella stipsi il bambino sporca le mutandine ed all’esplorazione rettale l’ampolla è
stipata di feci e spesso completamente occupata da un fecaloma.
La conferma diagnostica è data dal clisma opaco che presenta un quadro caratteristico: la colonna baritata nel
progredire verso l’alto visualizza prima il segmento colico distale agangliare di dimensioni normali o lievemente
ridotte e poi il colon normalmente provvisto di gangli che appare invece dilatato in maniera più o meno
cospicua; fra i due segmenti è visibile la zona di transizione ad imbuto.
La biopsia rettale mostra assenza delle cellule gangliari ed aumento dell’acetilcolinesterasi e dell’alfa-
naftilesterasi nella mucosa e nella muscularis mucosae. 
La manometria anorettale rivela che la distensione del retto non è seguita da rilasciamento dello sfintere anale
interno.
TERAPIA resezione del segmento agangliare e anastomosi del colon a monte, normalmente provvisto di
gangli, al margine anale. L’intervento in alcuni casi viene preceduto dalla detensione del segmento intestinale
dilatato, ottenuta mediante colostomia o l’uso sistematico di lavaggi rettali con sonda (nursing- rischio di
perforazione della parete intestinale). Per evitare la colostomia, la tendenza negli ultimi anni è stata quella di
anticipare progressivamente l’età della correzione chirurgica definitiva alle prime settimane se non ai primi
giorni di vita.
Gli interventi chirurgici che possono essere eseguiti sono:
• Swenson: resezione del tratto agangliare e anastomosi diretta tra il moncone a valle e quello a monte.
• Duhamel: resezione del tratto agangliare, conservazione del retto e anastomosi.
• Soave: asportazione della sola mucosa del tratto agangliare (mucosectomia) mentre del gangliare si
asporta la sola muscolare,dopodichè si anastomizza.
• Dessanti: si basa sul concetto che una minore porzione di colon corrisponde ad una maggiore quantità
di liquidi, perciò si preferisce lasciare un pezzo di colon agangliare che fa da freno alla peristalsi e che
permette conseguentemente una buona qualità di vita.
La mortalità globale non supera il 2-3%, con punte del 10%-15% nel caso di enterocolite neonatale o di aganglia
totale estesa sino all’ileo. I risultati della correzione chirurgica sono nel complesso soddisfacenti.

STENOSI IPERTROFICA DEL PILORO


E’ la più comune affezione di interesse chirurgico della prima infanzia. È caratterizzata da ostruzione
ingravescente del piloro secondaria ad ipertrofia ed iperplasia della parete muscolare, apprezzabile come una
tumefazione di forma ovoidale (“oliva pilorica”) che comprime ed occupa il canale pilorico ostacolandone il
transito.
La sua frequenza è di 1:200-900 neonati di cui l’80% maschi ed il 33% primogeniti. Non è una malattia
congenita ma talora presente familiarità (è 4 volte più comune nei figli di madre affetta) e ha carattere evolutivo,
infatti il bambino nasce sano e poi compare l'ipertrofia che ostacola lo svuotamento.
La patogenesi è sconosciuta, tuttavia le ipotesi più accreditate sono:
- ipertrofia muscolare primitiva legata ad alterazioni degli ormoni gastrici;
- incoordinazione della peristalsi che determina spasmo muscolare ed ipertrofia del muscolo pilorico.
L'esordio è intorno alla 3-4 settimana o poco più tardi (nel prematuro può iniziare anche nei primi giorni di vita).
Il sintomo cardine è il vomito, inizialmente saltuario, ma che ben presto compare dopo ogni pasto ed assume
carattere a getto. Il materiale vomitato è mucoso, di colore bianco,“mai biliare”. Talvolta il vomito può
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determinare lesioni capillari con comparsa di poco sangue coagulato, perciò il vomito è detto“a posa di caffè”.
Dopo aver vomitato il bambino accetta avidamente una nuova poppata. Ben presto compaiono disidratazione
ingravescente, stipsi, feci scarse e di colore verdastro (“da fame”), perdita di peso, oliguria, ipoproteinemia,
alterazioni idroelettrolitiche (alcalosi metabolica, iperazotemia etc) e se non si interviene subito il pz va incontro
a morte (in Africa tra le prime cause di morte).
La diagnosi si fa con l’ecografia che consente di accertare la presenza o meno dell’oliva pilorica e valutarne le
dimensioni. In caso di dubbio trova indicazione l’esame radiologico con mdc: il classico quadro “a coda di
topo” o della “doppia parentesi”ed il ristagno del mdc nello stomaco a distanza di oltre 3 h dall’assunzione
confermano la diagnosi.
TERAPIA è chirurgica e consiste nella piloromiotomia extramucosa (operazione di Ramstedt). L’oliva
pilorica viene incisa longitudinalmente in un’area avascolare con sezione delle fibre muscolari fino a che la
mucosa protrude all’esterno. E' semplice ma cmq pericolosa. Si lasciano separati i lembi e dopo due mesi
l'ipertrofia regredisce e i lembi muscolari si riuniscono. In linea teorica potremo anche non operare perchè il
piloro con il tempo si ristabilisce da solo, però questo avviene solo nel 70% dei casi. 12-24 ore prima
dell’intervento chirurgico il bambino va reidratato.

INVAGINAZIONE INTESTINALE
L’invaginazione intestinale consiste nella penetrazione di un segmento di intestino (invaginato) in quello
immediatamente distale contiguo (invaginante) e può verificarsi in qualunque tratto dell’intestino.
Rappresenta il 0.3% di tutte le urgenze e il 67 % delle urgenze nel 1° anno di vita, con un rapporto
maschi/Femmine: 2/1.
L’invaginato può progredire fino ad arrivare al retto e fuoriuscire persino dall’ano e mano a mano che
l’invaginato avanza trascina con sé il mesentere i cui vasi vengono pertanto stirati e compressi a livello del
colletto di invaginazione, con conseguente ostacolo al ritorno venoso: a livello dell’invaginato si ha pertanto
stasi, rottura dei capillari, iperproduzione di muco (“gelatina di lampone”), infarcimento emorragico cui fanno
seguito gangrena e peritonite. L’affezione può essere:
- idiopatica: è pressoché esclusiva dell’infanzia nei primi due anni di vita (maggiore incidenza al 6° mese). È
stata avanzata l’ipotesi che sia conseguente ad alterazioni della motilità intestinale correlate allo svezzamento o
ad infezioni respiratorie e/o gastrointestinali.
- sintomatica: è secondaria alla presenza nel lume intestinale di una struttura (diverticolo di Meckel, polipi o
duplicazione intestinale) che, agendo come corpo estraneo, stimola la peristalsi e viene quindi spinta in avanti
trascinando anche la parete intestinale.
Esistono diverse forme anatomiche: invaginazione unica (costituita solo da 3 cilindri), doppia (5 cilindri), tripla
(7cilindri). La forma di più comune riscontro è quella ileo-cecale, seguita da quella ileo-colica. Queste due
forme costituiscono il 60-80% dei casi. Le forme miste (ileo-cieco-coliche) rappresentano invece il 20% dei
casi.
l’esordio della malattia è acuto e si manifesta con: crisi dolorose di breve durata durante le quali il bambino
piange molto, intervallata da periodi di remissione, vomito alimentare e poi biliare, rettorragia (emissione di feci
con tracce di sangue rosso vivo o tipo “gelatina di lampone”), compromissione stato generale (disidratazione,
letargia). All’esame obiettivo l’addome non è molto disteso ma nella zona interessata (++fossa iliaca dx) è
presente una tumefazione oblunga (budino d’invaginazione). Talora l’invaginato può addirittura fuoriuscire
dall’ano simulando il prolasso rettale. L’esplorazione rettale spesso evidenzia la presenza di sangue frammisto a
muco (gelatina di lampone).
La diagnosi si fa principalmente con l'eco che mette in evidenza più pareti sovrapposte e con il clisma opaco,
utilizzato anche nel tentativo di trattamento, infatti la pressione del clistere talvolta può risolvere l'invaginazione
(soprattutto se recente, di qualche ora).
TERAPIAPuò essere incruenta se le condizioni generali sono buone, la sintomatologia data da meno di 24 ore
e non sono evidenti segni di peritonite. Essa consiste nella riduzione dell’invaginazione mediante clisma opaco
sotto controllo fluoroscopico. L’invaginazione si deve considerare ridotta solo dopo aver accertato che il mezzo
di contrasto refluisce sicuramente nell’ileo. Se con il clisma opaco non si è ottenuta una riduzione
dell’invaginazione o se clinicamente esiste il sospetto clinico che sia già presente una importante
compromissione dell’ansa invaginata (necrosi – perforazione con peritonite diffusa), si ricorre alla terapia
chirurgica.

ENTERO-COLITE NECROTIZZANTE (NEC)


E' la più comune causa di addome acuto non ostruttivo nel neonato. La sua frequenza è aumentata di pari passo
all’affinarsi delle tecniche di rianimazione neonatale che hanno consentito la sopravvivenza di prematuri di peso
sempre minore. Essa è infatti una patologia che colpisce quasi esclusivamente il prematuro. L’incidenza è di 1
su 1000 nati. L’età gestazionale media dei bambini con NEC è di circa 31 settimane e il peso medio alla nascita
di 1500 g.

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La NEC colpisce l’ileo terminale ed il colon. Il tratto colpito è dilatato, edematoso, friabile e presenta lesioni di
vario grado da insufficienza vascolare fino ad arrivare alla necrosi. La superficie dell’intestino presenta qua e là
aree di essudato fibrinoso e quadri di pneumatosi intestinale e nelle fasi più avanzate della malattia la
perforazione è la regola. Infatti l’ischemia determina lesioni della mucosa e la flora batterica, inizialmente
confinata entro il lume intestinale, passa nel contesto della parete, determinando ulcerazione con sviluppo di
pneumatosi intestinale (bolle nere) ed infine necrosi, perforazione, peritonite e morte.
EZIOPATOGENESI Tra le cause si ipotizza lo stress neonatale spesso correlato o conseguente a procedure
rianimatorie (exsanguinotrasfusione, inserzione di catetere ombelicale), infezioni batteriche o virali. È stato
osservato che spesso la malattia compare con l’inizio dell'alimentazione con latte artificiale.
CLINICAla malattia esordisce improvvisamente nelle primissime settimane di vita con letargia, anoressia,
vomito biliare, distensione addominale per paralisi intestinale (improvvisa e senza peristalsi), sangue occulto
nelle feci (NEC sospetta). Più tardi compaiono edema della parete addominale, bradicardia e bradipnea,
ipotensione, acidosi e shock (NEC certa). Nei casi non adeguatamente trattati sarà presente: collasso
cardiovascolare, coagulazione intravascolare disseminata (CID), rettorragia massiva, perforazione intestinale
con pneumoperitoneo (NEC avanzata); è un’URGENZA!
DIAGNOSI gli esami di laboratorio evidenziano piastrinopenia, anemia, leucopenia (in caso di sepsi da G
negativi), acidosi e assenza di febbre. La diagnosi viene confermata sulla base di radiografie dirette in
ortostatismo dell’addome, ripetute a distanza di ore così da controllare l’evoluzione della malattia. In particolare
sono aspetti radiologici tipici della NEC la distensione addominale ingravescente, l’ansa dilatata persistente, la
pneumatosi intestinale, il gas nella vena porta, il pneumoperitoneo, il liquido libero in peritoneo.
TERAPIA la terapia medica nelle forme non complicate consiste in: digiuno assoluto, aspirazione
nasogastrica, trasfusioni di plasma e sangue. Nelle forme complicate (shock, CID, acidosi, perforazione) e in
quelle non responsive alla terapia medica è necessaria la chirurgia che si esegue in due tempi chirurgici: nel 1°
tempo si reseca ma non si anastomizza subito perché la flogosi è molto intensa, bensì si fa un enterostomia. Nel
2° tempo, quando la flogosi è cessata, si anastomizzano i monconi che separavano la parte malata e si effettua
così la ricanalizzazione dell'intestino.

ONFALOCELE
Si caratterizza per la presenza di contenuto addominale (tenue, colon, stomaco, fegato o milza) al di fuori
dell’anello ombelicale, racchiuso in un sacco translucido (per cui il contenuto spesso si intravede) ed avascolare
costituito esternamente da amnios ed internamente da peritoneo, con interposta gelatina di Wharton (sostanza
gelatinosa del cordone ombelicale che serve a proteggere e isolare i vasi ombelicali). È conseguente al mancato
fisiologico rientro dell’intestino medio primitivo nell’addome. La frequenza è di 1/2000 nascite con maggiore
frequenza nel maschio e sopratutto nei bambini nati da parto prematuro. Si associa spesso ad altre
malformazioni. L’ecografia in corso di gravidanza consente una diagnosi prenatale, che permette di
programmare la nascita in un centro idoneo al trattamento della malformazione.
Il trattamento consiste nella chiusura primaria che si pratica senza particolari problemi quando le dimensioni
dell’onfalocele sono relativamente piccole ed il volume dei visceri erniati non crea difficoltà nella loro
riposizione in addome, quando invece il difetto è ampio ed il volume dei visceri erniati è notevole (superiore
alla capacità del cavo peritoneale) è possibile ricorrere al “silo” (metodo di Schuster), che consiste nel ricoprire
l’onfalocele con un involucro di materiale sintetico il cui apice verrà poi progressivamente compresso per
favorire il rientro in addome dei visceri. Il trattamento conservativo consiste nel mantenere sterile e ben protetta
la superficie del sacco onde evitarne l’infezione e la rottura fino a che non se ne completi la epitelizzazione
spontanea (in genere in qualche mese).

GASTROSCHISI
È un’erniazione prenatale dell’intestino attraverso un difetto della parete addominale posto immediatamente a
destra del cordone ombelicale normalmente inserito e da cui è separato da un ponte cutaneo. Il difetto è per lo
più di modeste dimensioni. Le anse intestinali eviscerate sono prive di sacco e penzolano all’esterno e per il
prolungato contatto con il liquido amniotico appaiono intensamente edematose, ispessite e ricoperte da fibrina.
L'eziologia è sconosciuta ma si ipotizza possa essere secondaria ad insufficienza vascolare per prematura
regressione di una delle due arterie onfalomesenteriche: questo fatto determinerebbe danni ischemici a carico
della parete addominale. La terapia è identica a quella dell’onfalocele, però nella gastroschisi le condizioni
dell’intestino sono molto più compromesse.

ATRESIA DELLE VIE BILIARI (AVB)


L’atresia delle vie biliari è una affezione obliterante di parte o tutte le vie biliari extraepatiche, che vengono
totalmente o in parte sostituite da un denso tessuto connettivo fibroso. L’AVB è impropriamente definita
“atresia”, in quanto non è una malformazione congenita ma un processo infiammatorio dall’eziologia ignota.
Questa patologia rappresenta la causa extraepatica più comune di ittero colestatico neonatale persistente, ma

100
anche di cirrosi biliare progressiva, ipertensione portale ed insufficienza epatica. Se non adeguatamente trattata
porta a morte entri 3 anni.
La sua incidenza è stata calcolata intorno a 1 caso su 10.000-20.000 nati vivi con lieve preponderanza per il
sesso femminile e per le popolazioni asiatiche. Sono stati segnalati casi sporadici ad incidenza familiare.
La più frequente tra le anomalie mal formative associate all’AVB è la sindrome della polisplenia caratterizzata
dalla presenza di una o più delle seguenti anomalie: polisplenia, situs viscerum inversus parziale o completo,
agenesia della vena cava inferiore, vena porta pre-duodenale, levo-isomerismo (fegato mediano, levocardia,
polmoni bilobati), anomalie della vascolarizzazione arteriosa dei lobi epatici.
EZIOPATOGENESILa causa dell’AVB è tuttora sconosciuta, ma sono state proposte diverse ipotesi:
- Fattori genetici: sembrano avere un ruolo solo nei casi associati alla sindrome della polisplenia.
- Fattori malformativi: arresto di sviluppo nel periodo embrionario.
- Insulti ischemici: la scarsa vascolarizzazione arteriosa può causare una ipoplasia
- Infezione virale: soprattutto da parte di rotavirus, CMV, EBV, papillomavirus, reovirus di tipo 3.
ANATOMIA PATOLOGICANelle prime settimane di vita, alle lesioni dovute alla noxa primitiva, si
sovrappongono e sono già osservabili i danni legati alla colestasi, causati dalla primitiva obliterazione dei dotti
extraepatici. L’albero biliare extraepatico può essere coinvolto dal processo patologico nella sua totalità oppure
solo in parte, configurando così 3 differenti quadri: Tipo 1: limitata al coledoco; Tipo 2: interessa il coledoco,
cistico ed epatico comune; Tipo 3: interessa anche il dotto epatico destro e sinistro.
CLINICA colpisce più frequentemente i neonati a termine e di peso appropriato, in buone condizioni generali.
L’ittero compare solitamente nelle prime 2 settimane di vita (talvolta anche dopo 6-8 settimane) e rappresenta
l’unico e costante sintomo d’esordio. L’ittero è conseguente all’aumento dei livelli di bilirubina diretta nel
sangue.
La bilirubina deriva dal catabolismo dell'eme ed è presente nel corpo umano in due forme: forma indiretta, veicolata
dall'albumina plasmatica; forma diretta, coniugata a livello del fegato con l'acido glucuronico.
L’ittero si manifesta con la comparsa di una ipo-acolia delle feci entro le prime due settimane di vita (talvolta le
feci possono erroneamente apparire colorate dalla urine ipercromiche), prurito per deposito sottocutaneo dei
Sali biliari e ittero sclero-cutaneo che è sempre presente ed è caratterizzato da una sfumatura verdinica-
giallastra di pelle e sclere.
Nelle fasi avanzate della malattia compare ipertensione portale, ascite e varici esofagee. Il mancato passaggio
della bile nell’intestino non consente l’assorbimento dei grassi e delle vitamine liposolubili con conseguente
comparsa di turbe trofiche della mucosa, rachitismo, emorragie. Nonostante tutto le condizioni generali si
mantengono soddisfacenti per un lungo periodo, poi, con l’instaurarsi dell’insufficienza epatica, si assiste ad un
rapido e progressivo deterioramento.
DIAGNOSI la diagnosi differenziale va posta con tutte le cause di ittero neonatale: cause infettive,
metaboliche (fibrosi cistica, deficit alfa 1 antitripsina, ecc..). Gli esami di laboratorio non sono molto utili
perché non esiste un pattern ematochimico patognomonico dell’AVB, sebbene ci può dare informazioni sulla
presenza di ittero (bilirubina > 5 mg/dl).
Anche l’ecografia, principale metodica strumentale non invasiva, fornisce elementi utili ma non conclusivi ai
fini diagnostici: area iperecogena a livello dell’ilo epatico corrispondente ai dotti biliari extraepatici sostituiti da
una massa fibrosa densa, colecisti ipoplasia, aumento di volume del fegato con ecostruttura disomogenea e
iperecogena, polisplenia.
Altre indagini strumentali (TC, RMN, scintigrafia epatica con HIDA) non aumentano la sensibilità diagnostica.
Il sospetto di AVB, sostenuto dall’insieme dei dati anamnestici, clinici, ematochimici ed ecografici è sufficiente
per porre l’indicazione ad una tempestiva esplorazione chirurgica (laparotomia) che deve essere eseguita entro
i 60 giorni di vita, perché le probabilità di successo di un intervento sono maggiori se questo viene eseguito
precocemente, prima cioè che il processo sclerotico obliterante divenga totale ed irreversibile.
TERAPIASe l’AVB è “correggibile” (ostruzione delle sole vie biliari distali) si esegue una anastomosi tra
dotto epatico comune ed intestino, se invece l’AVB è “non correggibile” (ostruzione dei dotto epatici destro e
sinistro) si esegue un drenaggio dei dotti biliari residui mediante portoenterostomia.
La complicanza più comune dell’intervento è la colangite “ascendente” per stasi biliare intraepatica e
contaminazione ascendente. L’AVB e le successive colangiti comportano ricomparsa di acolia fecale e ittero in
circa il 60% dei pazienti operati con successo, cosicché la percentuale di pazienti anitterici a distanza di oltre 10
anni dall’intervento risulta essere poco superiore al 20%. Per tutti i casi con insufficienza epatica l’unica
opzione terapeutica è il trapianto di fegato, di cui l’AVB costituisce l’indicazione di gran lunga più frequente in
età pediatrica.

MALATTIA DIVERTICOLARE DEL COLON


Tra i diversi segmenti del canale alimentare, il colon è, senza dubbio, quello più predisposto alla formazione di
diverticoli. In assenza di complicanze la condizione viene definita "diverticolosi", mentre l´espressione "malattia
diverticolare" definisce comunemente il complesso dei sintomi ad essa correlati; quando invece interviene un
processo infiammatorio si usa il termine di "diverticolite".

101
EPIDEMIOLOGIA la frequenza globale della malattia è assai elevata, oggi, nel mondo occidentale, con un
picco di incidenza (fino al 50%) dopo la VI decade di vita. Secondo una teoria diffusamente condivisa, il
cambiamento delle abitudini alimentari verificatosi proprio in Occidente, nel corso dell´ultimo secolo, con il
passaggio da una dieta ricca ad una dieta povera di scorie, è il vero responsabile del reale, notevole aumento di
questa patologia in epoca recente.
ANATOMIA PATOLOGICA i diverticoli del colon sono generalmente di tipo acquisito, si realizzano per
"pulsione" e sono pertanto costituiti, a differenza di quelli congeniti, soltanto da due dei tre strati parietali: la
mucosa e la sierosa.
Il sigma ne è il più colpito, isolatamente nel 65% dei casi ed in associazione con altri distretti nel 30%; soltanto
nel 6-7% dei rilievi esso non risulta coinvolto; assai rare sono invece le localizzazioni rettali ed
appendicolari. La maggior parte dei diverticoli ha un diametro inferiore al centimetro; è però possibile anche il
riscontro di singole formazioni giganti (6-27 cm di diametro). Il loro aspetto macroscopico è quello di numerose
estroflessioni sacculari, spesso mascherate dal grasso pericolico e dalle appendici epiploiche normalmente
disposte nell´area compresa tra la tenia mesenterica e quelle antimesenteriche. È a questo livello, infatti, che la
parete del colon risulta indebolita dall´ingresso dei vasi retti provenienti dall´arteria marginale.
EZIOPATOGENESI
Diverticolosi: il diverticolo colico costituisce il risultato di una erniazione della mucosa in corrispondenza dei
punti deboli della parete del viscere, in seguito all´aumento della pressione endoluminale che si instaura per la
possibile partecipazione di più fattori concomitanti.
Alterata motilità del colon: i pazienti con diverticolosi mostrano valori pressori endoluminali superiori a quelli
riscontrati nei soggetti normali di controllo. Non è tuttavia costante l´associazione tra i disordini della motilità e
la formazione dei diverticoli (per es. è possibile documentare la loro assenza nella sindrome del colon irritabile).
Segmentazione: l´attività motoria del colon è rappresentata da due principali onde di contrazione, propulsive e
non propulsive. Mentre le prime esercitano un´azione di spinta sul contenuto intestinale fino alla sua
eliminazione (movimento di massa), quelle non propulsive agiscono circonferenzialmente e tendono ad isolare,
sotto il profilo funzionale, dei segmenti colici, istituendo così un processo che viene definito di
"segmentazione", ad alta pressione (Fig. 18.8). L´intervento di un´onda propulsiva su un segmento così escluso
determina un ulteriore aumento pressorio endoluminale che raggiunge peraltro i valori più elevati in quei
distretti a diametro minore (discendente e sigma) che sono quindi maggiormente predisposti alla formazione dei
diverticoli. La dieta occidentale, povera di scorie (low residue diet), favorirebbe la comparsa di questa patologia
in quanto la condizione di iperpressione verrebbe accentuata per il persistere del fenomeno della segmentazione,
in assenza della propulsione del contenuto fecale, scarsamente rappresentato.
Riduzione della forza di tensione della parete colica: nella diverticolosi è stato anche dimostrato un
indebolimento della forza di tensione parietale che sembrerebbe in relazione ad alterazioni strutturali secondarie
all´invecchiamento (incremento del collagene, dell´elastina e del tessuto reticolare).
Diverticolite: si riteneva, in passato, che il momento eziopatogenetico della diverticolite fosse identificabile nell
´ostruzione del diverticolo da parte del materiale fecale cui conseguirebbero stasi, infiammazione della mucosa e
successiva diffusione del processo fino ai tessuti pericolici. Attualmente pare invece più accreditata l´ipotesi che
la diverticolite sia il risultato di una microperforazione del diverticolo, su base ischemica (per compressione dell
´arteria nutritizia a livello del colletto), con contaminazione dei tessuti pericolici. La gravità della flogosi è
correlata all´entità della contaminazione: se questa è modesta, il fenomeno viene circoscritto a livello
peridiverticolare ad opera dei meccanismi di difesa locali e tende quindi a risolversi spontaneamente; se la
contaminazione è maggiore si formano, invece, delle raccolte purulente (ascessi peridiverticolari). È inoltre
possibile che la perforazione del diverticolo avvenga nella cavità peritoneale libera e si stabilisca così
una peritonite fecale diffusa. Il sommarsi di multipli episodi di microperforazione può determinare una stenosi
flogistica del segmento colico interessato.
CLINICA
Diverticolosi: nella maggior parte dei casi la diverticolosi rimane asintomatica; talora può causare dolori
addominali vaghi e mal definibili localizzati specialmente in fossa iliaca sinistra, flatulenza e lievi alterazioni
dell´alvo, generalmente inquadrati nella cosiddetta sindrome da "colon irritabile".
Diverticolite: il sintomo principale è il dolore addominale; generalmente riferito alla fossa iliaca sinistra o in
regione sovrapubica, tende ad essere costante piuttosto che di tipo colico ed è di intensità variabile in base all
´estensione della flogosi; nella maggior parte dei casi dura alcuni giorni per poi scomparire completamente fino
alla eventuale riesacerbazione della malattia. Comuni sono le alterazioni dell´alvo, rappresentate dalla diarrea
intermittente o dall´alternanza stipsi-diarrea; in presenza di stenosi la stipsi diventa il sintomo prevalente,
accompagnato da distensione addominale. Meno frequenti sono nausea e vomito. Un modesto rialzo termico è
usualmente rilevabile, anche se in caso di peritonite o ascesso si instaura iperpiressia di grado elevato. Possono
essere presenti disturbi urinari, da attribuire alla compressione esercitata dal colon infiammato sulla parete
vescicale oppure al diretto coinvolgimento di questa da parte del processo flogistico, per contiguità. L´evidenza
di pneumaturia o fecaluria indica la presenza di una fistola colo-vescicale.
L´obiettività mostra una dolorabilità in fossa iliaca sinistra e nei quadranti addominali inferiori che può variare
da un senso di fastidio alla palpazione profonda fino ad evidenti segni di peritonismo.

102
DIAGNOSI l´indagine più diffusamente adottata e, peraltro, la più accurata è l´esame radiologico mediante
clisma opaco che consente la diagnosi differenziale tra malattia diverticolare (Fig. 18.9) e disturbi della motilità
(il cosiddetto "stato prediverticolare"). In fase di flogosi (diverticolite) la diagnosi si basa fondamentalmente sui
rilievi clinici ed anamnestici; la radiologia consente, comunque, in questi casi, di documentare la presenza di
eventuali complicanze quali fistole o cavità ascessuali; in questa condizione però l´esame deve essere condotto
con cautela, dato il rischio di perforazione.
Il problema maggiore per il radiologo, in presenza di diverticolite, è la differenziazione tra questa ed
il carcinoma: il rilievo di una mucosa intatta, di una stenosi lunga, e, naturalmente, la presenza dei diverticoli,
sono elementi suggestivi di diverticolite (Fig. 18.10); la stenosi neoplastica è invece, in genere, piuttosto corta e
con mucosa alterata. 
L´endoscopia a fibre ottiche può fornire importanti informazioni ai fini diagnostici differenziali ma non è
trascurabile il rischio di provocare una perforazione, in condizioni di flogosi acuta.
L´ecografia e la TC possono mostrarsi utili per la valutazione dell´infiammazione pericolica e, soprattutto, per
individuare eventuali raccolte ascessuali; per il resto, esse hanno valore limitato.
È opportuno ricordare a questo punto che altre patologie sono in grado di mimare la diverticolite e ricordiamo,
tra queste:
• la malattia di Crohn, che si differenzia per il frequente coinvolgimento rettale, la presenza, a livello
mucoso, di lesioni ulcerative e granulomatose ed il possibile riscontro di lesioni perianali e di
manifestazioni extraintestinali;
• la colite ulcerosa, nella quale la mucosa rettale, all´esame endoscopico, mostra, assai di frequente,
alterazioni tipiche.
COMPLICANZE
Perforazione: la perforazione di un diverticolo nella cavità peritoneale libera è evento infrequente ma
estremamente grave. Insorge, in genere, spontaneamente anche se può essere, talora, la conseguenza di un
´indagine strumentale (colonscopia, clisma opaco). Esordisce con un dolore acuto, usualmente riferito ai
quadranti inferiori, ma con la tendenza a diffondersi rapidamente a tutto l´addome; compare quindi marcata
distensione della cavità (da pneumoperitoneo) e successivamente contrattura parietale. Si manifesta pertanto un
quadro da occlusione dinamica, di tipo paralitico.
L´esame radiologico diretto dell´addome rivela la presenza di aria libera in peritoneo e, in prosieguo, livelli
idroaerei.
Ascesso: è la complicanza più frequente e consegue alla perforazione, anche microscopica, di un diverticolo, in
condizioni che favoriscono la localizzazione del processo: perforazione nel mesentere, presenza di pregresse
aderenze nella cavità peritoneale, tamponamento da parte dell´omento. Il dolore è circoscritto, quasi sempre ai
quadranti inferiori, ed alla palpazione, non di rado, è possibile apprezzare una massa, generalmente in fossa
iliaca sinistra; a volte questo reperto è però mascherato dalla reazione di difesa da irritazione peritoneale. Sono
sempre presenti iperpiressia, di tipo settico, e leucocitosi; occasionalmente compaiono nausea e vomito. Ai fini
diagnostici possono rivelarsi utili l´ecografia e/o la TC.
Fistolizzazione: la fistolizzazione è il risultato del drenaggio di un ascesso, di origine diverticolare, negli organi
cavi circostanti (fistole colo-vescicali, colo-coliche, ecc.) o verso l´esterno, attraverso la parete addominale
(fistole colo-cutanee). Le più frequenti sono quelle colo-vescicali che si manifestano con episodi cistitici
ricorrenti, pneumaturia ed occasionalmente fecaluria, preceduti da un quadro clinico di diverticolite. Meno
comuni sono le fistole colo-vaginali che si palesano con perdita, attraverso la vagina, di feci, sangue, pus, muco
o gas.L´esame radiologico mediante clisma opaco è in grado di identificare, molto spesso, il tramite fistoloso; l
´orifizio vaginale di questo può essere reperito anche all´esame clinico. Le fistole colo-cutanee, colo-ileali, colo-
coliche risultano ancor più rare.
Occlusione intestinale: consegue alla stenosi infiammatoria del segmento interessato oppure a fenomeni
aderenziali che, iniziandosi da questo, coinvolgono le anse intestinali adiacenti.
Emorragia: di facile riscontro, è da riferire alla stretta relazione esistente tra diverticolo e ramo perforante dell
´arteria marginale del colon; si presenta come una perdita, per via rettale, di sangue rosso scuro, che tende, nella
maggior parte dei casi, ad autolimitarsi, anche se sono usuali le recidive. Può talora porre problemi diagnostici
differenziali, per quanto concerne la sua genesi, con il carcinoma, la rettocolite ulcerosa, l´angiodisplasia del
colon e l´emorragia gastro-intestinale alta massiva, anche se, per ognuna di queste lesioni, esistono elementi
orientativi direttamente correlati alla singola patologia. L´emorragia massiva, tale da richiedere un intervento
chirurgico, è piuttosto rara; stabilizzate comunque le condizioni del paziente è senza dubbio opportuno eseguire
una colonscopia alla ricerca del focus emorragico; se questa dovesse risultare infruttuosa e se il sanguinamento
dovesse continuare con una perdita superiore a 0,5 ml/min, può essere utile ricorrere all´angiografia mesenterica
selettiva con l´intento di evidenziare la sorgente emorragica ed attuare, in pari tempo, eventuali trattamenti locali
(vasopressina, embolizzazione).
L´intervento chirurgico, che consiste nell’asportazione del segmento responsabile, trova indicazione allorché: è
necessario trasfondere 1500-2000 ml di sangue per ripristinare un equilibrio emodinamico; il sanguinamento,
significativo, persiste per più di 72 ore; una nuova emorragia si ripresenta a breve distanza (7-10 giorni) dalla
precedente.

103
TERAPIA
Diverticolosi: nella diverticolosi semplice, asintomatica, sono indicate diete ad alto contenuto di fibre vegetali,
supplementate eventualmente con crusca o colloidi idrofili (per es. metilcellulosa): la loro efficacia in senso
profilattico non è però stata ancora verificata.Nelle forme sintomatiche, invece, le diete ad alto contenuto di
scorie esercitano certamente un notevole beneficio: risulta infatti documentata una progressiva riduzione della
pressione endoluminale del colon, man mano che aumenta il contenuto in fibre della dieta. L´uso degli
antispastici sembra indicato, specialmente in condizione di ipertonicità colica. La somministrazione per via
orale di antibiotici non riassorbibili diminuisce il rischio di complicanze settiche, riducendo la carica batterica
fecale.
Diverticolite: gli stati flogistici di lieve o modesta entità si risolvono con trattamento medico: digiuno ed
antibiotici per via orale o sistemica. La condizione all’intervento chirurgico si ha dopo più episodi
diverticolitici. Inoltre, allorquando la terapia medica fallisce ed il processo infiammatorio evolve fino a
sviluppare un ascesso o una peritonite generalizzata, da perforazione, l´intervento chirurgico d´urgenza diventa
indispensabile. Ttre sono le procedure realizzate: 
a)intervento in tre tempi, oggi meno adottato rispetto al passato: 1) colostomia e drenaggio; 2) resezione-
anastomosi; 3) chiusura della colostomia; 
b) intervento in due tempi: 1) resezione e doppia colostomia oppure resezione, colostomia terminale e chiusura
del moncone rettale (intervento di Hartmann), oppure resezione-anastomosi e colostomia di protezione; 2)
chiusura della colostomia con eventuale ricanalizzazione; questo è quello eseguito più frequentemente.
c) intervento in tempo unico: resezione-anastomosi senza colostomia. 

TUMORI DEL TENUE


L´incidenza annua delle neoplasie primitive del tenue mesenteriale è pari a 1,5 pazienti per 100.000 abitanti e
rappresenta il 2% dei tumori del tratto gastro-enterico, con predominanza nel sesso maschile. Tale patologia
risulta assai rara se si pensa alla vasta estensione della superficie in esame rispetto ad altri tratti del canale
alimentare (colon-stomaco). Questa bassa incidenza sembra dovuta alle caratteristiche chimico-fisiche del
contenuto endoluminale, che in questo tratto è più fluido ed alcalino, e quindi produce minor insulto
infiammatorio sulla superficie mucosa; la più bassa densità di batteri e la relativa scarsità di anaerobi determina
una minor produzione di cataboliti potenzialmente dannosi; il ridotto tempo di transito abbrevia il contatto tra
mucosa e cancero-geni luminali, ed ancora, il rapido turnover e l´efficace attività metabolica degli enterociti nei
confronti di numerose sostanze cancerogene (per es. benzipirene). 
Il tessuto linfatico, molto ben rappresentato nel digiuno-ileo, sembra svolgere attraverso un´azione di
immunosorveglianza un effetto protettivo sull´insorgenza della malattia neoplastica. A conferma di questo, vi è l
´evidenza di un incremento del rischio tumorale in soggetti affetti da disfunzioni immunitarie o stati flogistici
cronici (AIDS e Crohn, per esempio, sono associati ad aumentata incidenza di adenocarcinoma e linfomi
intestinali. Altre condizioni predisponenti sono rappresentate da patologie a carattere eredo-familiare quali la
FAP (Familiary Adenomatosis Poliposis), la HNPCC(Hereditary Non-Poliposis Colorectal Cancer) o sindrome
di Lynch, la sindrome di Peutz-Jeghers (patologia autosomica dominante (il gene responsabile sta nel
cromosoma 19), che si manifesta in 2 o 3° decade con una poliposi amartomatosa dell’intestino accompagnata
da pigmentazione melanica muco-cutanea (già presente alla nascita), soprattutto in bocca, viso e mucosa peri-
anale. I polipi sono frequenti soprattutto in digiuno e ileo, ma possono insorgere in qualsiasi tratto del tubo
digerente. I polipi della sindrome di Peutz-Jeghers possono evolvere verso un carcinoma o un leiomiosarcoma:
il rischio per questi pazienti, di sviluppare nel corso della vita una neoplasia del tratto gastro-enterico, è stimato
come 18 volte quello della popolazione generale. Nei pazienti adulti si è riscontrata associazione significativa
con i tumori ovarici (5% delle giovani donne) e con altre neoplasie extradigestive (polmone, mammella, tiroide,
cervice, ecc.)), la neurofibromatosi di von Recklinghausen, le MEN di tipo 1. 

TUMORI BENIGNI
La scarsa conoscenza epidemiologica di questi tumori è dovuta al fatto che rappresentano nella maggior parte
dei casi un reperto autoptico oppure un riscontro occasionale in corso di indagini o intervento chirurgico per
altra patologia, restando per lo più asintomatici. La clinica, quando presente, consiste nei sintomi e nei segni dell
´occlusione intestinale acuta o in episodi subocclusivi recidivanti, determinati spesso dall´invaginazione del
polipo nel segmento successivo, oppure si presenta con un sanguinamento, occulto o massivo in forma di
melena, dovuto all´erosione o al distacco del peduncolo. Si distinguono:
-adenoma: può essere tubulare, villoso o tubulo-villoso, con rischio di degenerazione neoplastica, correlato
soprattutto alla percentuale della parte villosa. Possono essere singoli o multipli, sessili o peduncolati,
presentarsi isolati o nel contesto di una poliposi adenomatosa familiare. Sono solitamente asintomatici. 
-leiomioma: costituisce la lesione neoplastica benigna più frequente del tenue mesenteriale, si localizza
prevalentemente a livello digiunale e può raggiungere diametro tale da rendersi palpabile come massa
addominale mobile.La crescita avviene generalmente con sviluppo sottosieroso ma può anche aggettarsi nel
lume assumendo una forma polipoide.Più frequentemente dell´adenoma è sintomatico, causando occlusione

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intestinale, nei tumori a sviluppo endoluminale, oppure sanguinamento da ulcera ischemica mucosale o dolore
addominale da necrosi intratumorale. L´indicazione terapeutica è sempre chirurgica; è descritta, infatti, la
possibilità della trasformazione maligna del leiomioma in leiomiosarcoma.
-tumori neurogeni: sono neoformazioni stromali originate da cellule nervose o gliali; si distinguono:
ganglioneuromi, neurofibromi, neurinomi. 
-pancreas ectopico, lipomi, emangiomi, linfangiomi, forme angiodisplastiche (queste sono teleangectasie,
malformazioni arterovenose, ectasie vascolari, ecc.., spesso indifferenziabili dagli emangiomi).

TUMORI MALIGNI
Tra i tumori maligni del tenue mesenteriale si osserva una netta prevalenza dei carcinoidi, seguiti da
adenocarcinomi, sarcomi e linfomi maligni. I tumori metastatici sono più rari e provengono soprattutto da
mammella, rene e polmoni e cute per via ematogena, e per contiguità da fegato, ovaio, colon, ecc... Spesso l
´aspetto macroscopico è poco distinguibile da quello di una lesione benigna, tuttavia la presenza di
manifestazioni cliniche, quali dolore addominale, nausea, vomito, sanguinamento, calo ponderale, subocclusioni
recidivanti, si associa nel 75% dei casi alla malignità della lesione.
Carcinoidi: i tumori carcinoidi appartengono a un gruppo di neoplasie che originano dal sistema endocrino
diffuso cosiddetto APUD (Amine Precursor Uptake and/or Decarboxilation) costituito da cellule di origine
neuro-ectodermica in grado di produrre e secernere ormoni, polipeptidi e/o ammine biogene (adrenalina,
noradrenalina, dopamina e serotonina). Il 75% di tali neoplasie si sviluppa a livello del tratto gastroenterico con
più frequenza nell´appendice, quindi nel piccolo intestino e nel colon-retto. Nell´87% dei casi i tumori
carcinoidi si trovano nell´ileo, in particolare nei 60 cm a monte della valvola ileo-cecale, non è raro il riscontro
di multicentralità (20%). L´incidenza varia da 1,2 a 6,5 casi su 1.000.000 a seconda delle casistiche, anche se
studi autoptici dimostrano una frequenza maggiore di carcinoidi in forma asintomatica. L´età media al momento
della diagnosi è di 60 anni. I carcinoidi sono neoplasie maligne anche se a lento decorso, la frequenza di
metastasi varia in relazione alle dimensioni del tumore al momento della diagnosi: 6% se la neoplasia ha
diametro inferiore al centimetro, 80% se superiore a 2 cm. Per i carcinoidi non c´è uno specifico sistema di
stadiazione, la maggior parte degli Autori descrive tali tumori in relazione alle dimensioni, all´invasione della
parete addominale, alla presenza o meno di metastasi linfonodali o alla distanza.
Adenocarcinomi: sono due volte più frequenti nel sesso maschile e preferenzialmente localizzati al digiuno
prossimale. La localizzazione ileale si riscontra maggiormente in associazione con la malattia di Crohn,
condizione che porta il rischio neoplastico a 40-100 volte quello della popolazione generale dopo circa 15 anni
di malattia. Occasionalmente l´adenocarcinoma può svilupparsi dopo lungo tempo (> 20 anni) dalla confezione
di una ileostomia, a livello della giunzione mucocutanea. La sequenza da adenoma a carcinoma sembra essere,
come nel colon-retto, nel 50% dei casi circa accompagnata dalla mutazione dell´oncogene K-ras.
GIST: vedi stomaco.
Leiomiosarcomi: si sviluppano dalle fibrocellule muscolari lisce della parete intestinale e raggiungono spesso
grandi dimensioni prima della diagnosi. Si localizzano indifferentemente nel digiuno o nell´ileo.
Linfomi: sono più frequentemente localizzati nell´ileo per una maggior presenza di tessuto linfoide associato,
presentano lieve predominanza nel sesso maschile ed hanno un picco di incidenza tra la V e la VI decade di vita
(Fig. 16.17). La diagnosi di linfoma primitivo dell´intestino (Tab. 16.1), la più frequente forma extranodale di
linfoma, si pone escludendo linfoadenopatie palpabili, adenopatie mediastiniche e alterazioni cellulari sul
sangue periferico o alla biopsia midollare. Sono nella maggior parte linfomi non-Hodgkin a cellule B del
MALT (Mucosa Associated Lymphoid Tissue) ad alto grado di malignità. Il rischio di linfoma è aumentato in
pazienti con storia clinica di malassorbimento e in particolare con malattia celiaca (in cui sono per lo più linfomi
tipo T), enterite regionale, deficit immunitari (terapie immunosoppressive, AIDS, immunodeficienza congenita).
Macroscopicamente si distinguono quattro forme: infiltrante, la più frequente, con il coinvolgimento
segmentario più o meno esteso dell´intestino; ulcerosa, con lesioni a margini mal definiti localizzate
superficialmente alla massa neoplastica; polipoide, con vegetazioni endoluminali spesso ulcerate; poliposa
multipla, varietà corrispondente all´istotipo centrocitico a piccole cellule, con plurime formazioni polipoidi
disseminate soprattutto nella regione ileo-cecale.
CLINICA il paziente affetto da una neoplasia del tenue presenta spesso una storia clinica più o meno lunga di
sintomi aspecifici o trascurati, fino all´insorgenza di una sintomatologia acuta, manifestazione di complicanza in
atto. Possono essere presenti anche da mesi irregolarità dell´alvo, tipicamente diarrea postprandiale, con
meteorismo intestinale e alterazione delle caratteristiche delle feci (semiliquide, untuose o con presenza di
sangue, muco, pus), dispepsia con senso di peso epigastrico, dolenzia addominale vaga crampiforme.
Frequentemente si riscontra insorgenza recente di calo ponderale, importante soprattutto nei sarcomi, anoressia,
astenia da anemia sideropenica per lo stillicidio ematico cronico dal tumore (presenza di sangue occulto nelle
feci). Le neoplasie di dimensioni rilevanti possono essere palpabili e dolorabili. L´evoluzione tumorale molto
spesso si complica con un episodio acuto quale l´occlusione intestinale, l´enterorragia massiva, la peritonite
secondaria a perforazione, rilevando la patologia di base sino a quel momento non diagnosticata. L´occlusione
intestinale compare in circa la metà dei pazienti con neoplasia digiuno-ileale; per il contenuto pressoché liquido
del tenue, essa si verifica quando il tumore ostruisce quasi completamente il lume, o, più raramente, per
105
invaginazione intestinale o per torsione di un´ansa causata da aderenze secondarie a processi perienteritici.  L
´enterorragia massiva complica il 25% dei casi. La necrosi della massa neoplastica o la sua ulcerazione possono
causare la perforazione del viscere con conseguente peritonite diffusa o localizzata; questa complicanza è più
rara e più associata ai linfomi.
Quadro clinico caratteristico è quello che si ha in corso di carcinoide, con la sdr da carcinoide, che è in
relazione con
le capacità del tumore di secernere un grosso quantitativo di serotonina. Tale sostanza infatti viene
metabolizzata a livello del fegato ad acido 5-idrossindolacetico ed escreta con le urine. Un tumore ileale può
quindi originare la sindrome solo se voluminoso e funzionalmente attivo. La sindrome da carcinoide è presente
circa nel 6% dei casi di tumore non metastatizzato e nel 45% nelle forme con metastasi epatiche. La classica
sindrome vasomotoria da carcinoide comprende episodi acuti di flushing cutaneo, diarrea, crisi asmatica. Il
flushing cutaneo si manifesta come un eritema rosso o violaceo a insorgenza improvvisa che interessa la parte
superiore del corpo, in particolare testa e collo; la crisi può essere spontanea o scatenata da stimoli come lo
stress, l´alcol, alcuni cibi e farmaci. Manifestazioni croniche della sindrome sono rappresentate da teleangectasie
facciali e talora endocardite fibrotica del cuore destro. 
Altre sindromi, anche se più rare, possono essere causate dai tumori carcinoidi in relazione alle sostanze che tali
neoplasie secernono: sindrome da gastronoma, da insulinoma, da somatostatinoma, da produzione di VIP, ecc.
DIAGNOSI circa il 25% dei tumori del digiuno-ileo viene diagnosticato in corso di intervento chirurgico per
una complicanza o per altra patologia, tale percentuale è persino superiore nel caso di linfoma intestinale. La
sintomatologia, vaga ed aspecifica, difficilmente porta ad eseguire indagini mirate allo studio del piccolo
intestino.
Gli esami bioumorali da eseguire in presenza di sintomi attribuibili ad una neoplasia del tratto gastro-enterico
comprendono la ricerca di un´eventuale anemizzazione e, quindi, di sangue occulto fecale, e il dosaggio dei
marcatori tumorali, che può evidenziare un tasso sierico elevato di antigene carcino-embrionario (CEA),
indicativa per un adenocarcinoma, o la presenza di IgA fecali da malattia linfomatosa. Nel sospetto di carcinoide
si esegue il dosaggio dell´acido 5 idrossindolacetico nelle urine.
Le maggiori informazioni ci sono però fornite dalla diagnostica per immagini:
-l’Rx è l´indagine di primo livello in condizioni di urgenza, consente di evidenziare l´eventuale presenza di
livelli idroaerei, utili per la diagnosi e la localizzazione di un´occlusione intestinale, e permette di riconoscere
una perforazione viscerale dimostrando aria libera in peritoneo (falce sottodiaframmatica), quest´ultima può
formarsi, però, tardivamente in caso di perforazione del tenue (anche oltre le 36 ore).
-in elezione il clisma del tenue risulta l´indagine più affidabile (sensibilità 90%), riuscendo a dimostrare nella
maggior parte dei casi difetti di riempimento, segmenti stenotici con dilatazione dei tratti a monte, dislocazione
e compressione delle anse. L´aspetto stesso di una stenosi può dare indicazioni sulla sua natura: se delimita un
lume eccentrico, a profilo irregolare e mammellonato con rigidità della parete, se scompaiono la peristalsi e il
normale disegno mucoso in sua corrispondenza, la malignità della lesione è assai probabile (Fig.16.18).
-l´angiografia selettiva dell´arteria mesenterica superiore è di grande utilità in caso di sanguinamento massivo
-la TC e l’eco sono utili soprattutto per le neoplasie connettivali e per la stadiazione.
PROGNOSI la sopravvivenza a 5 anni, dopo chirurgia, è del 25%. La prognosi peggiore è quella
dell’adenocarcinoma (20% a 5 anni se interessati i ln e 70% se non interessati), nei carcinoidi la sopravvivenza è
del 65%. Nei linfomi del 70%.
TERAPIAil trattamento delle neoplasie del tenue mesenteriale è chirurgico. Nel caso di piccola neoplasia
benigna a base d´impianto sul versante antimesenterico dell´intestino, può essere sufficiente l´exeresi a losanga
del tratto di parete dove ha sede il tumore. La resezione segmentaria è invece indicata in presenza di neoplasia
benigna di grosse dimensioni o localizzata in prossimità del lato mesenterico dell´intestino; nel caso di neoplasia
maligna possono essere associate a tale resezione anche l´asportazione a cuneo del mesentere e la
linfoadenectomia loco-regionale (Fig.16.19). Frequentemente l´intervento chirurgico curativo non è possibile
per lo stato avanzato della neoplasia; anche in questo caso è indicata la resezione allo scopo di prevenire le
complicanze cliniche. Se non risulta eseguibile si dovrebbe comunque procedere alla confezione di un bypass
del segmento intestinale coinvolto.

CARCINOMA DEL COLON-RETTO (CCR)


È il secondo tumore come incidenza nell’uomo e il terzo nella donna. Frequente nei paesi industrializzati,
colpisce maggiormente in età avanzata, tra la 5° e la 7° decade di vita, ma non si possono escludere a priori tutte
le altre fasce d’età, infatti oggi vengono operati di tumore del colon anche soggetti più giovani (ci sono casi
persino a 30 anni). In Italia la media di incidenza è di 40 casi per 100.000 abitanti e l’incidenza nella provincia
di Sassari è di circa 27,5 casi su 100.000 abitanti, quindi mediamente si osserva in una città come Sassari un
caso alla settimana.
Le sedi più colpite sono retto (40% del totale) e sigma(25%), ma possono essere interessate anche tutte le altre
porzioni del viscere, in particolare il cieco (10 %), mentre nelle altre l’incidenza è minore.
Quando si parla di CCR ci si riferisce ai tumori epiteliali, difatti esistono anche tumori non epiteliali, quali
linfomi, leiomiosarcomi e carcinoidi (i quali possono trovarsi lungo tutto il canale intestinale, soprattutto tenue,
106
e son composti da cellule argentaffini o non argentaffini), ma sono molto rari. I tumori epiteliali rappresentano
invece la stragrande maggioranza dei tumori del colon e comprendono: adenok e adenok mucinoso, che sono i
più frequenti, e altri istotipi più rari: k squamoso, adenok con cellule ad anello con castone, k adenosquamoso e
k indifferenziato.
EZIOLOGIAl’eziologia è in gran parte sconosciuta, ma si conoscono alcuni fattori di rischio:
-fattori dietetici: una dieta ricca di grassi e povera di fibre incrementerebbe il rischio di tumori del colon,
perché le fibre aumentano normalmente la velocità di svuotamento intestinale e legano le sostanze
potenzialmente cancerogene, perciò un ridotto apporto di fibre comporta un rallentato transito intestinale che
espone la mucosa intestinale a una maggiore attività di sostanze potenzialmente cancerogene. Inoltre i grassi,
come alcuni derivati del colesterolo, sembrano essere responsabili di un danno genetico sulle cellule della
mucosa intestinale (questo sembra essere un fattore inducente il cancro), e il loro aumentato consumo aumenta
le secrezioni di acidi biliari, con conseguente aumento della proliferazione cellulare.
- fattori genetici: sono rappresentati da malattie a trasmissione autosomica che, anche se non frequenti, sono
responsabili di sviluppo del carcinoma del colon: poliposi familiare, sindrome di Gardner e la sindrome di
Peutz-Jeghers. I pazienti affetti da queste sindromi hanno una poliposi multipla, tanto che in 2 cm di mucosa del
colon si possono contare decine di polipi e in totale centinaia di migliaia di polipi in tutto il colon, che possono
degenerare.
- familiarità: è stato documentato un maggior rischio nei parenti di primo grado di pazienti affetti da CCR di
sviluppare anch’essi la malattia, tanto che l’incidenza è 2-3 volte maggiore rispetto alla popolazione generale.
La familiarità è legata alla presenza di alcuni geni che hanno una penetranza genetica non completa e quindi non
riferibile ad un’ereditarietà di tipo mendeliano, come invece avviene per le sindromi ereditarie prima nominate.
L’ereditarietà è stata dimostrata anche nelle sindrome di Linch 1 e 2, che hanno una penetranza genetica
incompleta e quindi non mendeliana. Il dato della familiarità è oggi importante per l’attuazione dei programmi
di screening, infatti non solo i parenti di primo grado di pazienti affetti hanno un aumentato rischio di sviluppare
la malattia, ma solitamente lo sviluppano più precocemente. Perciò le persone con familiarità per CCR devono
necessariamente effettuare un esame di screening (la colonscopia) a 40 anni, anziché a 50 anni come la
popolazione generale.
- irradiazione della regione pelvica.
- patologie pre-esistenti: esse sono le IBD, soprattutto RCU e meno il MC, che hanno un rischio molto alto di
andare incontro a K colon rettale dopo 40 anni dalla diagnosi. Altre patologie preesistenti importanti sono: la
pregressa presenza di un carcinoma del colon retto, che determina quindi un maggior rischio di sviluppare un
altro carcinoma del colon retto, e i polipi adenomatosi, già visti anche a livello dello stomaco.

POLIPI ADENOMATOSI
Sono considerati precursori del carcinoma colon rettale.
Dal punto di vista istologico si possono differenziare in:
- adenomi tubulari (che rappresentano il 75% )
- adenomi villosi (10%)
- adenomi tubulo-villosi, che presentano entrambe le caratteristiche istologiche in varie proporzioni (15%)
L’incidenza di polipi del colon è elevatissima, sono infatti presenti in circa il 5-10% della popolazione di qualsiasi età (ma
sono rarissimi sotto i 20 anni, a meno che non sia presente una sdr familiare di quelle viste).
La varietà tubulare, che è la più comune, è quella che meno frequentemente va incontro a cancerizzazione. La
cancerizzazione è infatti più frequente nei tumori villosi e tubulo-villosi, nelle lesioni di maggiori dimensioni e nelle forme
multiple.
Dal punto di vista macroscopico possono essere di due forme:
- forma sessile, cioè ad ampia base di impianto
- forma peduncolata, caratterizzata da una testa, che rappresenta l’adenoma vero e proprio, e da un peduncolo, che è
costituito invece da mucosa sana, trazionata dal peso del polipo stesso.
L’evoluzione dell’adenoma verso il carcinoma è oggi ampiamente dimostrata e unanimemente accettata e su questo
principio si basano le campagne di screening: secondo la letteratura il 70% dei piccoli polipi possono trasformarsi in grossi
tumori, dunque la loro rimozione endoscopica previene la progressione dell’adenoma in carcinoma.
SCREENING Lo screening è rivolto a tutta la popolazione superiore ai 50 anni d’età, ma per i parenti di pazienti affetti
scende a 40 anni. In Sardegna è presente una campagna di screening che, secondo il protocollo, prevede prima la ricerca
del sangue occulto nelle feci e, successivamente, qualora questo fosse positiva, la colonscopia. È però ampiamente
dimostrato che il sangue occulto non è un esame attendibile (ma è poco costoso, quindi considerato esame di screening),
per cui l’esame di screening vero e proprio è la colonscopia. Medico o paziente possono comunque richiedere la
colonscopia (che deve essere eseguita gratuitamente perché proposto e finanziata dal sistema sanitario regionale) anche
senza a il sangue occulto positivo.
Lo scopo dello screening è quello di trovare il polipo, cioè trovare una lesione adenomatosa che non presenti ancora foci di
carcinoma. Quindi l’obbiettivo è quello di fare una prevenzione primaria, che consiste nell’asportare il fattore di rischio
(polipectomia), e non di fare una diagnosi precoce, perché il paziente non ha ancora il tumore. Lo screening endoscopico
prevede l’osservazione di tutto il colon sino al cieco, infatti sebbene il 65% dei tumori originano nel retto e nel sigma, un
10% originano anche nel cieco, perciò l’endoscopista deve necessariamente sempre raggiungerlo (infatti l’endoscopista è
ammesso alle campagne di screening solo se è in grado di arrivare sino al cieco nel 90% delle colonscopie). La prevenzione

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primaria permette una riduzione dell’incidenza del CCR solo del 50%, questo perché esiste una grande varietà di polipi che
sono difficili da osservare alla colonscopia e quindi, non essendo individuati, possono evolvere verso il carcinoma.
CLASSIFICAZIONEUna ricerca giapponese ha classificato i polipi in due forme:
- forme esofitiche comprendono:
• i polipi peduncolati (forme ben evidenti, grosse e facili da asportare),
• i polipi semipeduncolati (che sono anch’essi esofitici ma un po’ più schiacciati)
• i polipi sessili.
- forme piatte sono invece delle forme che sono difficili da vedere all’endoscopia. Possono essere:
• rilevati (pochissimo rilevati e di colore molto simile a quello della mucosa normale. Bastano pochi residui fecali o
basta che lo strumento scivoli un po’ più avanti o un po’ più indietro che non lo si individua)
• piatti,
• depressi,
• ulcerati,
• misti (rilevati e depressi al centro oppure depressi con margini rilevati).
I polipi piatti sono molto più difficili da diagnosticare e sfuggono allo screening, inoltre sono le lesioni che più
frequentemente vanno incontro a cancerizzazione. Per questo motivo la colonscopia da sola non è sufficiente nello
screening del CCR. Ad essa si possono associare altre moderne metodiche:
- endoscopia con utilizzo di coloranti vitali, di contrasto e reattivi, allo scopo di evidenziare maggiormente la presenza di
polipi piatti
- endoscopi ad alta risoluzione
- endoscopi a magnificazione che permettono di evidenziare meglio le lesioni piatte e le “lateral spreeding”( lesioni che
sono diffuse sulla superficie della mucosa in un’area più o meno ampia). L’endoscopia a magnificazione consente una
visione ingrandita del polipo, con conseguente migliore valutazione della superficie della mucosa e classificazione del
pattern mucoso. Non consentono una diagnosi istologica ma solo una diagnosi di presunzione in base alle caratteristiche
morfologiche. Questi strumenti non sono però ancora molto diffusi a causa degli alti costi.
Esistono strumenti ancora più sofisticati, come la biopsia ottica che utilizza la microscopia confocale con ingrandimento
sino a 1000ampere, oppure con imaging a banda stretta. Sono tutte tecniche di ingrandimento e magnificazione che
consentono di fare una diagnosi istologica senza la rimozione del polipo.
I giapponesi, oltre alla classificazione morfologica, hanno studiato anche i pattern delle lesioni classificandoli in:
- pattern di tipo 1 e 2: sono i polipi non neoplastici, costituiti da mucosa normale che si è organizzata in forma polipoide
ma non sono adenomatosi, perciò non preoccupano perché non c’è rischio di evoluzione neoplastica.
- pattern di tipo 3: sono gli adenomi tubulari che hanno un bassissimo rischio di trasformazione carcinomatosa,
- pattern di tipo 4: sono lesioni che hanno un maggior rischio carcinomatoso
- pattern di tipo 5: sono lesioni già carcinomatose.
Il rischio di infiltrazione (quindi l’indice di malignità), è dello 0% per i primi due gradi, del 4% nel terzo e quarto tipo, e
arriva al 40% nel quinto tipo. Questa distinzione è fattibile, nei centri dotati di macchinari altamente specializzati, già solo
all’endoscopia Non si conosce quanto tempo impieghi un polipo adenomatoso per trasformarsi prima in polipo cancerizzato
e poi in carcinoma infiltrante, infatti sono state dimostrate sequenze adenoma- carcinoma che variano dai 2 ai 30 anni.
I polipi cancerizzati, che quindi presentano al loro interno dei foci carcinomatosi, sono detti EARLY COLORECTAL
CANCER (ECC). Essi sono tumori limitati alla mucosa, che al massimo infiltrano la sottomucosa, con caratteristiche
istologiche che sono comunque favorevoli e possono essere trattati anche solo endoscopicamente. Rappresentano circa il
20% dei CCR, sono asintomatici, perché possono essere anche molto piccoli, e sono diagnosticati solitamente in corso di
screening o durante esami endoscopici eseguiti per altri motivi. L’estensione alla mucosa e alla sottomucosa è l’unico
aspetto considerato nella definizione dell’ECC, che quindi non identifica l’eventuale interessamento linfonodale. È stato
perciò necessario individuare dei parametri che permettano di evidenziare l’eventuale presenza di infiltrazione linfonodale,
che rappresenta un fattore prognostico sfavorevole: si è stato dimostrato che nel polipo cancerizzato senza fattori di rischio
aggiuntivi (senza interessamento linfonodale) dopo polipectomia la sopravvivenza a 5 anni è del 97%, mentre per quelli
con fattori di rischio aggiuntivi (interessamento linfonodale) la sopravvivenza è solo del 40%. Gli ECC sono polipi che
pongono anche un problema terapeutico, perché mentre in presenza di un polipo adenomatoso si interviene sempre con
polipectomia endoscopica e nel CCR vero e proprio si interviene con resezione, laparoscopica o open, in questo caso di ha
il dubbio se intervenire endoscopicamente o con resezione. Per poter decidere la tecnica ci si deve affidare ad ulteriori
parametri:
- le dimensioni: se il polipo è piccolo (<1cm) si ha una scarsa possibilità che siano presenti foci di carcinoma (<1%), se il
polipo è di 1-2 cm si ha una probabilità del 10% di avere foci di carcinoma, mentre se il polipo ha dimensioni superiori ai 2
cm la possibilità è del 46%. Quindi è assodato che più grande è il polipo maggiore è il rischio che ci sia dentro il cancro.
- l’istologia: gli adenomi tubulari raramente hanno un cancro in situ o invasivo, mentre gli adenomi villosi spesso (30%)
hanno un k in situ e talvolta (tra il 2 e il 4%), hanno anche un carcinoma invasivo. Quindi la presenza di componente villosa
o tubulo-villosa rappresenta un aspetto prognostico importante; inoltre la componente villosa aumenta all’aumentare delle
dimensioni.
- il grading (misura il grado di displasia dei polipi): all’aumentare della componente villosa aumenta il grado di displasia e
all’aumentare del grado di displasia aumenta la possibilità che nel polipo siano presenti foci di neoplasia maligna.
- l’invasione della sottomucosa: quest’informazione si può avere solo dopo asportazione ed esame istologico del polipo.
Se l’anatomopatologo informa che il tumore infiltra la Sm1 (primo strato della sottomucosa) non è necessario fare altri
interventi perché la polipectomia è stata sufficiente all’asportazione del tumore e quindi si deve solo continuare con lo
screening. Se invece il tumore infiltrava il secondo o il terzo strato della sottomucosa la prognosi è più sfavorevole ed è
necessario effettuare subito un intervento chirurgico di resezione, infatti la probabilità di interessamento dei linfonodi è
molto più elevata in caso di infiltrazione di Sm3, perché i vasi linfatici si trovano negli strati più profondi della

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sottomucosa. Gli Sm1 hanno un rischio di interessamento linfonodale del 3,2%, mentre gli Sm2 e 3 hanno un rischio del
22%.
Le metastasi linfonodali possono essere presenti anche nei polipi peduncolati, però con una minore probabilità: se ad essere
infiltrata è solo la testa e il colletto del polipo la probabilità è molto bassa, se è interessato il peduncolo dove sono presenti
anche i vasi linfatici ed ematici la probabilità di metastasi linfonodali è maggiore e ancor più (37% dei casi) se è interessata
anche la parete colica. Queste informazioni le otteniamo solo dopo asportazione del polipo, ma sarebbe fondamentale
saperlo prima. Questo è fattibile nel retto, dove si verificano il 39% di tutte le lesioni neoplastiche, tramite
l’endosonografia, una ecografia transrettale che ci permette di capire quanto sia infiltrata la sottomucosa o se addirittura ci
sia interessamento della muscolare. L’endosonografia però non è utile per lo studio dei linfonodi del mesoretto (struttura
adiposa che avvolge il retto), mentre a questo scopo è molto più attendibile la RNM con bobina endorettale, che ha
un’attendibilità di circa l’85%.
Fattore sfavorevole all’evoluzione verso il CCR è la presenza di un scarso margine di resezione, che determina un alto
rischio di lasciare cellule neoplastiche nel colon, perciò in tal caso non ci si può accontentare della sola asportazione
endoscopica.
TECNICA DI ASPORTAZIONE DEI POLIPI è diversa a seconda del tipo di polipo.
L’asportazione di un polipo peduncolato è semplice: si mette un’ansa attorno al collo del peduncolo e poi si effettua una
resezione somministrando corrente elettrica, che taglia e coagula il peduncolo del polipo.
La tecnica della polipectomia per un polipo sessile è invece un po’ più complessa. Questi polipi non possono essere
asportati come quelli peduncolati posizionando un laccio intorno al peduncolo e poi sezionando, perché con questa tecnica
si rischierebbe di tagliare il tumore a metà e in tal caso l’anatomopatologo non potrebbe osservare quanto è infiltrante il
tumore. Perciò oggi si utilizza, per asportare le lesioni sessili, piatte o depresse, una tecnica particolare che permette di
trasformare il polipo piatto in peduncolato o semipeduncolato: attraverso il canale operativo dell’endoscopio si infiltra con
un aghetto la base d’impianto, tra muscolo e sottomucosa, con una soluzione (ad esempio soluzione salina con adrenalina)
che crea un cuscinetto che solleva il polipo. La sostanza iniettata deve essere trasparente (altrimenti altera tutto), deve
essere permanente (perché deve dare il tempo all’endoscopista di togliere il polipo), deve essere emostatica (perché
scollando una vasta area di tessuto il rischio di emorragia è elevato), e deve essere poco costosa. A questo punto si infila
l’ansa (strumento costituito da un sottile filamento metallico collegato ad un elettrobisturi, mediante il quale, con un’ azione
di taglio e coagulo, è possibile l’ asportazione di tessuto patologico) e si reseca il polipo, che viene inviato all’anatomo
patologo con mucosa e sottomucosa, senza la muscolare, infatti l’eventuale interessamento dello strato muscolare può
essere evidenziato già dal chirurgo perché se la muscolare è interessata, una volta iniettata la soluzione salina, il polipo non
si solleva (perché non c’è piano di scollamento tra sottomucosa e muscolare).
Esistono altre metodiche per asportare i polipi sessili che però non sono alla portata di tutti i centri di endoscopia, ad
esempio si può aspirare il polipo dentro il cappuccio del colonscopio per poi resecarlo alla base, oppure un’altra variante
prevede l’utilizzo di colonscopi particolari che hanno due canali operativi, da uno si può inserire una pinza per sollevare il
polipo, dall’altro si può inserire l’ansa diatermica per tagliare il polipo.
In presenza di un polipo molto grande non è sempre possibile asportare tutto il polipo con una sola ansata, ad esempio
quando il polipo occupa 2/3 della circonferenza. L’asportazione in tal caso avviene tramite più fasi: in una prima fase si
deve sollevare il polipo grazie all’infiltrazione con soluzione fisiologica e adrenalina, a questo punto si può mettere l’ansa
iniziando da uno dei margini e somministrando corrente si effettua una prima resezione, successivamente si prende un’altra
porzione di polipo esattamente adiacente alla zona asportata precedentemente, e così via sino ad asportare tutto il polipo
(questa tecnica è detta mucosectomia). Ovviamente le probabilità di perforare l’intestino sono più elevate, ma comunque
questa tecnica viene effettuata perchè l’alternativa per asportare un tale polipo sarebbe la chirurgia. Mediamente un 10%
dei grossi polipi asportati endoscopicamente residua o recidiva, ma comunque la mucosectomia endoscopica è una
metodica assolutamente fattibile ed efficace. Possibili complicanze sono: perforazione, sanguinamento (che può essere
risolto con l’applicazione di un laccio emostatico alla base del polipo stesso o con altri presidi a basso costo come delle
clips, cioè delle graffettine metalliche che applicate alla base della fonte di sanguinamento con un endoscopio possono
bloccare la fuoriuscita) e sdr post polipectomia.
Dopo la polipectomia bisogna avvisare il paziente che se la sera o il giorno dopo l’intervento presenta febbre o mal di
pancia, nel 90% dei casi è perforato e quindi deve essere operato d’urgenza, però talvolta dolore alla pancia, febbre e
globuli bianchi aumentati (20000) possono aversi senza che ci sia perforazione (4%) ma per la sdr post polipectomia, molto
simile alla perforazione. Con la TC possiamo vedere se il paziente è perforato (ci sarà aria libera in addome). L’esame è
obbligatorio perché capita che ci siano microperforazioni che dopo qualche giorno causano una peritonite che può anche
portare a morte.
MORFOLOGIAa seconda dell’aspetto si distinguono varie forme:
- forma vegetante: ha forma somigliante al polipo ma con dimensioni che di solito, ma non necessariamente
(possono esserci tumori in piccole lesioni), sono maggiori. È quindi una neoformazione protrudente nel lume
intestinale, con una mucosa che ha superficie irregolare, al contrario degli adenomi dove la mucosa è regolare.
- forma ulcerata: è costituita da una ulcerazione cosiddetta maligna per distinguerla dalle ulcere del canale
alimentare non neoplastiche, ha fondo sanioso (cioè con materiale maleodorante costituito da siero mescolato a
sangue e pus) e margini sollevati, irregolari ed eversi, di forma circolare o ovoidale.
- forma infiltrante: caratterizzata da un’ulcerazione centrale e un diffuso ispessimento della parete. Può essere
l’evoluzione di una forma ulcerata o di una forma vegetante.
- forma stenosante: è quella più frequente in alcune sedi anatomiche, è estesa a tutta o a quasi tutta la
circonferenza della parete, dove può causare un restringimento del lume. Ha una superficie fortemente irregolare
con tendenza all’ulcerazione e al sanguinamento.
GRADING Il grading istologico è un indice importante di aggressività del tumore ed è quindi un importante
indice prognostico.
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- grado 1: nel disordine cellulare di una malattia maligna è mantenuta ancora una struttura tubulo-ghiandolare,
non c’è grande pleomorfismo cellulare e ci sono poche mitosi. È quindi un tumore abbastanza differenziato che
quindi ha un’aggressività ridotta.
- grado 2: è una situazione intermedia tipica dei tumori che hanno ancora una struttura ghiandolare conservata,
ma con cellule assiepate disordinatamente in più strati e con numerose mitosi.
- grado 3: la struttura ghiandolare è completamente sovvertita, ha masse irregolari di cellule e tantissime mitosi.
STADIAZIONE Attualmente tutti i tumori sono classificati con il sistema TNM ma per i tumori del colon la
sua introduzione si è avuta solo recentemente. Sino a qualche anno fa essi erano infatti valutati con la
classificazione di Dukes, che classifica il tumore in base alla sua infiltrazione, al coinvolgimento linfonodale o
alle metastasi a distanza e che comunque è stata precursore di quei concetti che con il sistema TNM sono visti
più estesamente. È bene conoscerla perché in alcuni centri è ancora usata. Secondo questa classificazione il
tumore è diviso in:
A: neoplasia confinata a mucosa e sottomucosa
B1: neoplasia che invade la muscolare propria ma non si estende oltre
B2: neoplasia che si estende oltre la muscolaris propria del viscere
C1: come B1 ma con metastasi linfonodali
C2: come B2 ma con metastasi linfonodali
Esisteva anche uno stadio D che indicava la presenza di metastasi a distanza.
Oggi si utilizza la stadiazione TNM, più accurata, che permette di definire molto meglio lo stadio del tumore:
T: Tx: tumore primitivo non definibile (di cui non si hanno tracce); T0: tumore primitivo non evidenziabile (es.
in seguito a remissione di un tumore T2 grazie a terapia non adiuvante-radio o chemioterapia); Tis: carcinoma in
situ, cioè intraepiteliale; T1: tumore che invade la sottomucosa senza andare oltre; T2: tumore che invade la
muscolare propria; T3: tumore che invade la sottosierosa o i tessuti pericolici o perirettali non ricoperti dal
peritoneo (infatti il retto è la porzione di intestino extra peritoneale); T4: tumore che invade gli organi adiacenti
o che perfora il peritoneo viscerale.
N: Nx: linfonodi regionali non valutabili (perché magari il chirurgo ha asportato solo il tumore quindi l’N è
ignoto); N0: tutti i linfonodi regionali liberi da metastasi (evenienza molto rara); N1: ci sono metastasi in 1-3
linfonodi regionali; N2: metastasi in 4 o più linfonodi regionali;
M: Mx: metastasi non accertabili; M0: c’è dimostrazione di assenza di metastasi; M1: presenza di metastasi. È
quindi uno stadio di malattia estremamente avanzata.
MODALITA’ DI DIFFUSIONE DEL TUMOREil tumore può diffondere per:
- continuità: cioè con estensione lungo l’asse trasversale e longitudinale della parete intestinale;
- contiguità: verso il grasso pericolico e gli organi e strutture adiacenti. Ad esempio il tumore del colon
trasverso può infiltrare lo stomaco.
- disseminazione esfoliativa: responsabile della carcinosi peritoneale. Il tumore del colon che ha oltrepassato la
parete intestinale, arrivando sino alla sierosa e superandola, può disseminare metastasi tramite esfoliazione di
cellule neoplastiche all’interno del peritoneo, creando quindi foci multipli di tumore disseminati in tutto il
peritoneo (solitamente nel grande omento, nell’intestino tenue e nello stomaco). È una situazione drammatica
che si può osservare solo alla chirurgia. Solitamente la carcinosi peritoneale si manifesta con ascite (liquido in
peritoneo), perché i noduli neoplastici alterano il riassorbimento del liquido peritoneale e di conseguenza il
paziente va incontro ad ascite neoplastica, che può essere differenziata dall’ascite da ipertensione portale
tramite una puntura evacuativa che dimostra la presenza di cellule neoplastiche nel liquido drenato.
- attraverso i vasi linfatici presenti nella sottomucosa: da qui c’è invasione progressiva dei linfonodi pericolici
(attorno alla parete del colon), paracolici (più distanti dal colon), intermedi e principali (satelliti dei vasi
principali del colon stesso e delle arterie mesenteriche, situati nella “ascella intestinale”, cioè la radice delle
mesenteriche).
- attraverso i vasi ematici: raggiunge nel 50-60% dei casi il fegato e da qui il circolo sistemico, dando
metastasi anche in altri organi come polmone, ossa, cervello ecc..
SINTOMATOLOGIA è abbastanza vaga e tardiva e inoltre è differente a seconda dell’istotipo tumorale e a
seconda della localizzazione.
I tumori del colon destro hanno una sintomatologia caratterizzata principalmente da:
- anemia sideropenica, perché sono lesioni che possono sanguinare, perciò l’anemia è causata da una cronica
perdita ematica, apprezzabile macroscopicamente nelle feci nel 20% dei casi.
- dolore addominale: solitamente gravativo e sub-continuo, di media intensità, al quadrante addominale destro
e talvolta all’epigastrio.
- astenia
- massa palpabile in fossa iliaca destra quando le lesioni di grosse dimensioni.
- anoressia e dimagrimento.
Il lume del cieco e del colon destro è molto ampio e inoltre le feci in questo tratto sono ancora molto fluide e
acquose (perché l’assorbimento avviene nel colon), perciò queste passano facilmente anche in aree con lume
ristretto, quindi il paziente continua ad andare di corpo normalmente. Essendo la lesione molto lontana dall’ano,

110
anche se c’è sanguinamento il sangue si mescola alle feci e viene espulso all’esterno in maniera non evidente,
perciò il paziente non vede il sangue nelle feci ma sviluppa anemia cronica sideropenica.
Nel colon sinistro invece è presente un lume ridotto rispetto a quello destro, le neoplasie sono solitamente
anulari (quindi occupano buona parte o tutta la circonferenza) e le feci in questo tratto hanno una consistenza
maggiore.
La sintomatologia sarà quindi caratterizzata da:
- modificazioni dell’alvo, con alternanza di stipsi e diarrea e con crisi sub-occlusive o occlusive (la crisi sub
occlusiva è caratterizzata dal fatto che il paziente per qualche giorno non va di corpo e successivamente si libera
spontaneamente con emissione di feci liquide). Questo sintomo deve insospettire se è comparso
improvvisamente.
- presenza di sangue nelle feci: in tal caso il tumore è molto più vicino all’ano, quindi il sangue è ben visibile
nelle feci e spesso è commisto ad esse, perché queste vengono ancora rimescolate nel colon sinistro. Spesso vi è
anche muco.
- dolore addominale: di intensità variabile, spesso intermittente, spesso coincide con le crisi sub occlusive. Può
essere localizzato ai quadranti addominali di sinistra oppure può essere diffuso a tutto l’addome.
Se la lesione tumorale è localizzata nel retto la sintomatologia va differenziata a seconda che si trovi:
- nella porzione sopra-ampollare: sintomatologia molto simile a quella del colon di sinistra
- nella porzione ampollare, caratterizzata da sintomi quali: tenesmo (sensazione di dover evacuare in maniera
imminente -per tensione dei recettori muscolari- senza riuscire a defecare), rettorragia (fuoriuscita di sangue
rosso vivo o coaguli dall’ano senza o con poche feci), mucorrea (emissione di una grossa quantità di muco con
le feci)
- nella porzione sotto-ampollare i sintomi sono: dolore perianale e perineale (per trazione dei nocicettori
muco-cutanei), emissione di feci nastriformi o caprine (perché il tumore rende stenotica questa regione quindi le
feci si modificano nella loro emissione all’esterno), tenesmo imponente ( perché il pavimento pelvico è sempre
stirato e quindi si ha sempre la sensazione di dover andare di corpo).
In questo caso il paziente espelle coaguli di sangue ben visibili, perché il sangue non può più mescolarsi alle
feci, qui ormai solide, quindi non è commisto ma è sulle feci. Può aversi anche verniciatura di sangue sulle
pareti rettali.
COMPLICANZEle complicanze importanti di questi tumori sono:
- il sanguinamento importante, cioè l’emorragia massiva: non è frequentissima.
- l’ileo meccanico (occlusione meccanica dell’intestino a causa della massa): si presenta con sintomi come la
distensione addominale, l’iperperistaltismo da parte dell’intestino che tenta di superare l’occlusione spingendo il
materiale fecale, con conseguente formazione di rumori di tipo metallico all’auscultazione (perché il contenuto è
molto acquoso e il lume è molto ampio), dolore colico intermittente (si ha dolore quando c’è la spinta del
materiale fecale contro la stenosi, quando invece l’intestino si rilassa il dolore si attenua), vomito e alvo chiuso
negli stadi più avanzati dell’occlusione intestinale.
- la perforazione: può avvenire a livello della neoplasia per necrosi della neoplasia stessa, che quindi si perfora,
oppure a livello dei segmenti colici a monte della neoplasia per eccessiva distensione. La perforazione avviene
più frequentemente a livello ciecale con conseguente peritonite localizzata (molto piccola, di solito viene
circoscritta dal tessuto infiammatorio nella zona dove si è manifestata) o diffusa (quando c’è diffusione delle
feci e dell’infezione a tutto il peritoneo). Ultimamente si sta iniziando a vedere anche un’altra causa importante
di perforazione: in un paziente in stadio avanzato l’obiettivo principale è quello di ricanalizzarlo, cioè dargli la
possibilità di poter defecare e non morire a causa dell’occlusione, così da poter fare una chemioterapia,
neoadiuvante o palliativa. Per ricanalizzarlo si può mettere una protesi all’interno del colon in modo da allargare
la stenosi (ciò può essere fatto endoscopicamente o radiologicamente o, meglio ancora, con le due tecniche
associate). Mettere la protesi significa però distendere una massa rigida che quindi si può lacerare e può dare
luogo ad una perforazione, inoltre una massa compressa e dilatata dalla presenza dell’endoprotesi in corso di
chemioterapia andrà imaggiormente e massivamente incontro a necrosi, sia perché è ischemica dalla
compressione, sia perché è distesa, sia per l’azione della chemioterapia. Quindi in questi casi è probabile una
perforazione.
DIAGNOSI. La diagnosi deve essere primariamente clinica, perché le caratteristiche sintomatologiche
orientano già verso alcuni tipi di tumore piuttosto che verso altri. La prima cosa da fare quando ci si trova di
fronte ad un paziente con rettorragia o con sospetto di tumore al retto è l’esplorazione rettale, che è un indagine
semplice ad invasività limitata, che permette di documentare la presenza di tumori solo se a una distanza
inferiore a 5-6 cm dal margine anale, ma è bene ricordare che il 39% dei tumori si trovano nel retto.
L’esplorazione rettale quindi consente di conoscere, in caso di positività, la sede del tumore (anteriore,
posteriore, laterale), le dimensioni, se sanguina (estraendo il dito si osserva se questo è sporco di sangue), se è
mobile sui piani superficiali o profondi (cioè se è un piccolo polipo o se è un grosso tumore che sta infiltrando
ed è quindi ancorato e non si muove) e il rapporto con le strutture contigue (utero, prostata, vescica).
L’esplorazione rettale può essere effettuata in posizione genu-pettorale (si guadagna qualche cm ma è meno
confortevole per il paziente), o in decubito laterale sinistro.

111
L’esame fondamentale per la diagnosi di CCR è la retto-sigmoido-colonscopia. Essa ha un’alta sensibilità e
specificità e un’accuratezza diagnostica vicina al 100% (ma non del 100% perché possono esserci lesioni piatte
o depresse che sfuggono perché ci sono delle feci cospicue nel lume, magari perché il paziente non ha fatto bene
la preparazione). Viene condotta in decubito laterale sinistro. È sempre opportuno fare una colonscopia anche
quando il tumore si trova nella parte distale del retto perché una certa percentuale di pazienti ha più di un tumore
lungo il colon oppure ha un tumore associato ad una lesione polipoide che può evolvere nel tempo verso un
carcinoma e che quindi va asportato. Talvolta però il lume è talmente stenotico che non è superabile dallo
strumento, perciò si rende necessario studiare il resto del colon con un Rx con clisma opaco, che sempre più
raramente viene usato per la prima diagnosi di tumore, ma comunque rappresenta un’indagine complementare e
talora alternativa alla colonscopia e permette un’accurata analisi della morfologia del colon-retto.
Radiologicamente il carcinoma del colon si presenta con un aspetto a torsolo di mela, con un difetto di
riempimento di grado variabile.
Altri esami che sono utili per la diagnosi e per la stadi azione sono:
- TC total body o ecografia addome, che permettono di scoprire se il paziente ha metastasi epatiche (le più
frequenti) ed è quindi operabile
- l’ecoendoscopia
- la RNM
-importante è anche il dosaggio del CEA
TERAPIA
• chirurgica: può essere curativa (con rimozione del tumore e dei linfonodi satelliti) o palliativa (per
ricanalizzare il paziente, ma non si può fare altro)
• chemioterapia: può essere adiuvante (dopo l’intervento chirurgico) o neoadiuvante (prima
dell’intervento, proprio per favorilo).
• radioterapia: importante per i tumori del retto mentre non ha alcun significato per gli altri tumori
• trattamento endoscopico: può essere curativo nell’early colo-rectal cancer o può essere palliativo nel
posizionamento delle protesi.
È molto probabile che il paziente con carcinoma necessiti di tutte queste tecniche terapeutiche.
L’approccio in prima istanza è quello chirurgico, con rimozione del tratto di intestino che contiene il tumore
(non si asporta il tumore ma il tessuto che lo contiene) e dei linfonodi satelliti di quell’area.
Le terapie neoadiuvanti nei casi più fortunati consentono di operare tumori che altrimenti non sarebbe stato
possibile asportare, offrono quindi la possibilità di effettuare interventi radicali anche meno demolitivi.
Lo staging pre-operatorio è indispensabile per decidere l’intervento, infatti la possibilità di resecare
radicalmente la neoplasia è in relazione a diversi fattori:
- estensione locale: se è presente l’infiltrazione di strutture od organi contigui bisogna asportare tutto in blocco;
se è presente carcinosi peritoneale è esclusa qualsiasi potenzialità curativa.
- estensione regionale: la diffusione al sistema linfatico condiziona la prognosi. Alla TC però si possono avere
solo dei criteri dimensionali sullo studio dei linfonodi, vengono perciò considerati sospetti quelli con diametro
maggiore di 1cm.
- metastatizzazione a distanza;
L’operazione chirurgica consiste nell’asportazione della porzione d’intestino dove c’è il tumore con un margine
di tessuto sano sia prossimalmente, con una porzione che può essere anche molto ampia (5-6-10 cm), sia
distalmente, con una porzione variabile a seconda della localizzazione del tumore. Se il tumore si trova nel
sigma non si ha difficoltà ad avere un margine di 6-8 cm anche distalmente, invece in un tumore molto distale si
prospetta la possibilità di asportare anche l’ano con i tessuti circostanti per effettuare poi una stomia definitiva.
Si è visto che le cellule neoplastiche non hanno la possibilità di diffondere per più di 1-2 cm dal margine
macroscopico della lesione, ciò significa che nel retto si può evitare di asportare 4-5-6 cm sotto il tumore, ma
sono sufficienti 2-3cm. La linfoadenectomia estesa è indispensabile per una corretta stadiazione ed ha valore
curativo; l’interessamento dei linfonodi inter aorto-cavali viene comunque considerato indice di malattia
generalizzata.
Gli interventi standardizzati di chirurgia colon rettale comprendono:
Emicolectomia dx: rappresenta l’intervento standard se il tumore si trova nel cieco, nel colon ascendente, nella
flessura epatica o nel trasverso prossimale. Consiste nell’asportazione del cieco, del colon dx, di una parte del
trasverso, di un’ansa ileale e del mesocolon (piega peritoneale che avvolge il colon), con la possibilità di
asportare anche i linfonodi satelliti delle arterie. La continuità intestinale viene poi stabilita mediante anastomosi
tra l’ileo terminale e il colon trasverso, però non può essere eseguita una anastomosi diretta, perché c’è una
enorme disparità di calibro tra le due sezioni (colon 4-5 cm, ileo 1,5-2cm), per cui si interviene affiancando i
due monconi ed eseguendo una anastomosi latero-laterale.
Emicolectomia sx: rappresenta l’intervento standard per tumori localizzati nel trasverso distale, nella flessura
splenica o nel colon discendente. Talvolta può essere eseguita anche per i carcinomi del sigma, sebbene in
questi casi si cerchi sempre di risparmiare la flessura splenica, sezionando nel punto di passaggio tra il terzo
medio e il terzo superiore del colon. L’intervento consiste nella resezione della metà distale del trasverso e di
tutto il colon sinistro, fino alla giunzione retto-sigmoidea. Successivamente, per la ricanalizzazione, si esegue

112
una anastomosi colorettale. [Un sistema inventato molti anni fa e che oggi non si utilizza quasi più è il BAR, cioè le
anastomosi con anello bioframmentabile, che consiste nell’utilizzo di uno strumento a doppio anello, manovrato con una
pinza: una parte di intestino viene bloccata attorno al primo anello, mentre il secondo anello si introduce nell’altro
moncone di intestino. La BAR mantiene vicini i due monconi per il tempo necessario a far agire i meccanismi di
riparazione e permettendo ai due monconi di ri-allargarsi portando così a termine l’anastomosi. Senza questo meccanismo
l’anastomosi si sbragherebbe].
Resezione anteriore: rappresenta l’intervento standard per i tumori della giunzione sigmoido-rettale, del retto
superiore e del retto medio. L’intervento consiste nell’exeresi della metà distale del colon discendente, del
sigma e di una ampia porzione del retto (dopo averli scollati e mobilizzati dalla loro posizione) associato anche
alla resezione del mesocolon (o mesoretto) e delle arterie tributarie per asportare i linfonodi. Per ripristinare la
canalizzazione viene eseguita un’anastomosi colorettale bassa, che è più complicata perchè il retto ha una
porzione intraperitoneale, ma soprattutto perché ha una porzione sottoperitoneale, sotto il cavo di Douglas,
all’interno del bacino. Proprio per la scarsa mobilità del monconi è difficile usare la BAR, perciò si usano le
suturatrici meccaniche. Il mesoretto lo possiamo scollare o con le dita o con particolari strumenti come bisturi
ad ultrasuoni. Una volta scollato tutto possiamo inserire all’interno dello scalpo pelvico la nostra suturatrice, che
è capace di resecare trasversalmente il colon all’interno dello scalpo stesso cliccando semplicemente un
grilletto. La resezione distale viene fatta a livello dei muscoli elevatori dell’ano (limite estremo del pavimento
pelvico). Attenzione perché durante l’intervento può essere importante andare ad isolare gli ureteri a livello
dell’incrocio con l’arteria iliaca e sospenderli perché una delle complicanze molto gravi di questa chirurgia è
proprio quella di comprendere l’uretere nella resezione con danno iatrogeno molto importante. Ad ogni modo
una volta resecato il pezzo da asportare rimangono i 2 monconi: in quello prossimale inseriamo la testa della
nostra suturatrice circolare ed effettuiamo una sutura a “borsa di tabacco” (cucitura intorno al bordo di
un'apertura circolare che viene chiusa tirando e annodando il filo), grazie anche a un rastrello che serve per
tenere chiuso il viscere attorno alla suturatrice e per evitare che ci sia perdita di feci, anche se minima, dato che
il paziente è stato sottoposto al trattamento preoperatorio.
Il passaggio finale è l’anastomosi tra il monconcino di retto e il colon prossimale: questo si fa inserendo la
suturatrice attraverso il retto. Il colon, dopo che abbiamo resecato la porzione da asportare e il mesoretto
(tessuto cellulare adiposo che sta attorno al retto extra peritoneale che circonda il retto e che contiene i
linfonodi), si trova stirato verso l’alto. Il pezzo prossimale viene avvicinato alla pelvi e all’altro moncone e poi
dopo avere effettuato una doppia sparata di punti una lama circolare reseca i 2 lembi di tessuto che abbiamo
messo uno nella borsa di tabacco e uno che avevamo chiuso dalla prima suturatrice che avevamo messo nel
retto. All’interno della suturatrice rimangono 2 anelli. L’anastomosi ha solitamente un calibro di 28-30 mm.
L’anello più distale deve essere mandato all’anatomia patologica perché se nel moncone distale noi potevamo
asportare quanto volevamo e quindi siamo sicuri che non ci sia tumore, nel moncone distale oltre un certo tanto
non possiamo andare. Se nell’anello non viene riscontrato tumore allora l’intervento è sufficiente, in caso
contrario l’intervento che noi abbiamo fatto non basta e dobbiamo asportare ulteriormente.
Questo tipo di chirurgia spesso comportava perdita dell’erezione nel maschio per lesione del nervo pudendo e
qualche volta anche difficoltà alla continenza vescicale. Ora la tecnica garantisce l’integrità dei nervi.
Amputazione addomino-perineale secondo Miles: quando il tumore si trova molto basso o comunque molto
vicino alla linea pettinata non ci sono i 2 cm che permettono di fare la chirurgia sopra descritta, con resezione e
anastomosi; allora per garantire l’asportazione di tutto il tumore e non rischiare bisogna asportare tutto il
pavimento pelvico fino al perineo. La chirurgia di Miles viene effettuata per tumori del retto inferiore (a meno
di 5 cm dal margine anale) e consiste nell’asportazione del colon discendente distale, del sigma, del retto e
dell’ano nella sua interezza (canale anale con la cute circostante, apparato sfinteriale, muscoli elevatori e tessuto
cellulo-adiposo delle fosse ischio-rettali e pelvi-rettali); avvenuta questa, si effettua la colostomia definitiva in
fossa iliaca sinistra. La stomia consiste nell’abboccamento definitivo di una porzione di intestino alla cute,
solitamente si fa a mano però a volte esistono dei sistemi meccanici che ci permettono di farla. La chirurgia
inizia con il paziente in posizione ginecologica, si incide la cute attorno all’ano a scudo e si asporta la acute e
l’apparato sfinterico. Dopodiché va realizzata la stomia tra intestino e parete addominale.
A volte il tumore può insorgere (a meno di 2 cm dalla linea pettinata) su una poliposi familiare: in questo caso è
necessario asportare tutto il colon, un’ansa ileale e anche il pavimento pelvico e il paziente non avrà una
colostomia ma una ileostomia. La gestione di questo paziente è molto più complessa perché, a differenza delle
feci del colon che sono disidratate e il paziente ha una continenza, seppur minima, le feci dell’ileo vengono fuori
continuamente e il paziente ha una perdita elettrolitica continua e complessa. La qualità della vita di questo
paziente è molto scarsa.
La colonstomia invece si può “educare”grazie a delle irrigazioni (tipo clistere) ogni 2-3 gg e si vede che nel
giro di poche sedute il colon si abitua a svuotarsi solo dopo irrigazione e sotto volontà dal paziente ogni 2-3 gg.
La chirurgia colon-rettale per molti centri è solo di tipo laparotomico però molte volte si può fare la chirurgia
laparoscopica (raramente quella robotica).Per la chirurgia laparoscopica qui a SS fanno una piccola incisione
semilunare a livello del tubercolo pubico che poi non si vedrà neanche col costume da bagno.
La microchirurgia endoscopica trans anale (M.E.T.): permette di trattare “localmente” lesioni neoplastiche
benigne non asportabili endoscopicamente o lesioni maligne in stadio iniziale. Attraverso un rettoscopio

113
operatore del calibro di 4 cm si possono asportare localmente le masse con un’accuratezza (resezione e
asportazione linfonodi) pari all’intervento chirurgico. Ovviamente questo si può fare per T1, sempre se abbia
N0. Se il linfonodi sono positivi non si può fare. Questo intervento è nato con l’intento di evitare le Miles.
Consiste nell’andare a individuare la lesione, grazie all’endoscopio operatore, e di operarla con intervento
radicale. Può essere usato come terapia radicale in: adenomi: polipi a larga base d’impianto, non asportabili
endoscopicamente, adenocarcinomi - stadio A o pT1, bene o moderatamente differenziati, ulcere rettali
croniche, tumori carcinoidi, endometriosi rettale
Metodiche di palliazione con stent autoespandibili: in passato si cercava di ristabilire la canalizzazione del
colon anche senza asportarlo, se questo non era resecabile, e realizzare una stomia in modo tale da permettere di
andare di corpo. Oggi si cerca di evitare la chirurgia posizionando delle endoprotesi (tubo in maglia auto
espandibile).
FOLLOW UP Nei pazienti affetti da adenoma i controlli si fanno ogni 6 mesi nel primo anno e in seguito
annualmente con: esame clinico, ecografia endorettale ed esame endoscopico.
Nei pazienti affetti da adenocarcinoma il follow upo si esegue ogni 3 mesi nei primi due anni e in seguito
semestralmente con: esame clinico, ecografia endorettale, eco addome, esame endoscopico e markers tumorali.

PATOLOGIA ANO-RETTALE
ASCESSI e FISTOLE ANALI
L'ascesso anale è una cavità ripiena di pus posta in prossimità dell'ano o del retto. La fistola anale, quasi sempre
la conseguenza di un ascesso, è un piccolo tunnel che connette una ghiandola anale con la cute.
Mentre l’ascesso rappresenta lo stadio acuto dell’infezione, mentre la fistola ne rappresenta la cronicizzazione.
Nel 90% dei casi l’ascesso è dovuto a infezione acuta per l'ingresso di batteri o materiale estraneo nella
ghiandola, mentre occasionalmente l’ascesso può essere secondario ad altre patologie come AIDS, malattia di
Crohn, infiammazione pelvica, neoplasia rettale o anale, pregressa chirurgia anorettale.
Nella maggior parte dei casi il processo infiammatorio dallo spazio intersfinterico, dove sono localizzate le
ghiandole anali, si estende verso la cute (ascesso perianale) o attraversa lo sfintere esterno per dare origine ad un
ascesso ischio rettale. Più raramente l’infezione rimane localizzata nello spazio intersfinterico (ascesso
intersfinterico) o si propaga cranialmente, oltre i muscoli elevatori, producendo un ascesso pelvi-rettale
La sintomatologia è caratterizzata dalla comparsa di una tumefazione dolente della cute perianale (ascesso
perianale) o della regione glutea (ascesso ischio-rettale). Questa tumefazione è coperta da cute tesa, lucida e
arrossata.
Il dolore causato dall’ascesso è lancinante, pulsante e ingravescente, e si esacerba alla defecazione. In fase più
avanzata può drenare spontaneamente materiale purulento dall’ano o dalla cute.
L’ascesso intersfinterico non si manifesta con una tumefazione esterna, ma la sua presenza può essere sospettata
per la presenza di dolore e confermata dall’esplorazione rettale, qualora l’intenso dolore ne permetta
l’esecuzione. Nel caso dell’ascesso pelvi-rettale invece il dolore è profondo, irradiato ai glutei e associato a
disuria.
La terapia dell’ascesso consiste nella incisione cutanea, previa anestesia locale, e nel drenaggio.
La fistola anale nella maggior parte dei casi rappresenta l’evoluzione cronica di un ascesso anale drenatosi
verso l’esterno in maniera spontanea o chirurgica, mentre altre possibili cause sono le stesse degli ascessi. La
fistola è costituita da un orifizio interno, generalmente localizzato in corrispondenza dello sbocco del dotto della
ghiandola interessata dal processo flogistico, da uno o più tragitti fistolosi e da uno o più orifizi esterni.
In base ai rapporti con l’apparato sfinteriale si distinguono 4 tipi principali di fistole anali:
- intersfinterica (70%): se si fa strada tra lo sfintere interno e quello esterno e si apre nella cute in prossimità del
margine anale.
- tran sfinterica (25%): se attraversa lo sfintere esterno
- soprasfinterica (<5%): il processo flogistico percorre lo spazio intersfinterico in senso craniale e si dirige verso
la cute attraversando la cute attraversando la fossa ichio-rettale
- extrasfinterica (<2%): quando gli orifizi e il tragitto fistoloso attraversa i muscoli elevatori dell’ano senza
rapporto con gli sfinteri anali.
I sintomi più frequenti sono l’intermittente escrezione dall’orifizio esterno di materiale purulento misto a tracce
di sangue e la sensazione di fastidio doloroso durante l’evacuazione. L’orifizio esterno è quasi sempre visibile
ed è spesso circondato da cute iperemica, mentre spesso, ma non sempre, l’esplorazione rettale e l’anoscopia
consentono di apprezzare l’orifizio interno come una piccola area di depressione della mucosa.
Per il corretto trattamento della fistola anale è indispensabile conoscere l’esatta definizione anatomica e
identificare l’orifizio interno. A questo scopo, oltre all’esame obiettivo può essere molto utile l’ecografia
endoanale che permette di individuare nella maggior parte dei casi l’orifizio interno, soprattutto se si inietta
acqua ossigenata attraverso l’orifizio esterno, con conseguente sua diffusione attraverso la fistola, sino
all’orifizio interno dove funge da m.d.c. ecografico.
Il trattamento ha il triplice compito di drenare il focolaio infettivo, prevenire le recidive e preservare la funzione
sfinteriale. Nelle fistole intersfinteriche o tran sfinteriche basse, in presenza di un apparato sfinteriale

114
normofunzionante, si può eseguire una sezione dei tessuti e delle fibre muscolari lungo l’intero tragitto fistoloso,
il quale, una volta aperto, è lasciato guarire per seconda intenzione dalla profondità verso la superficie
(fistulotomia o messa a piatto). Nel caso in cui l’interessamento dell’apparato sfinteriale sia significativo e ogni
qualvolta si ritiene che una sezione muscolare possa compromettere la continenza anale, si posiziona un setone
(filo di seta o di altro materiale) che garantisc un drenaggio prolungato del processo nfettivo e determina la
contemporanea formazione di fenomeni fibrotici che, al momento della messa a piatto (eseguita dopo settimane
o mesi), riducono il rischio di un’eccessiva retrazione delle fibre muscolari sfinteriali. Nel caso delle fistole
soprasfinteriche ed extrasfinteriche possono essere trattate con lembi ano-rettali posizionati in modo da coprire
la sede dell’orifizio interno e nello stesso intervento si amplia l’orifizio esterno in modo da favorire il drenaggio
della fistola. Un’ulteriore possibilità è quella di obliterare il tragitto fistoloso con collanti biologici (es.colla di
fibrina) iniettati nel tramite attraverso l’orifizio esterno.

MALATTIA EMORROIDARIE
Le emorroidi sono cuscinetti morbidi e molto vascolarizzati, costituiti da mucosa, sottomucosa e tessuto
vascolare, situati nella parte terminale del retto, i quali, grazie alla loro protrusione spugnosa nel lume viscerale,
contribuiscono al mantenimento della continenza e alla protezione dell’apparato sfinteriale nel corso della
defecazione. Fisiologicamente si possono distinguere delle emorroidi interne, situate nel canale anale e delle
emorroidi esterne, presenti nella giunzione muco-cutanea dell’ano. Nel linguaggio corrente tuttavia con il
termine emorroidi ci si riferisce alla malattie emorroidaria che è conseguente al deterioramento della normale
struttura anatomica. Rappresentano la condizione patologica ano-rettale benigna più frequentemente
diagnosticata, tanto che si valuta che, nei paesi industrializzati, più del 60% delle persone oltre i 40 anni, senza
differenza di sesso, ha avuto almeno una volta nella vita sintomi riferibili alle emorroidi.
EZIOLOGIANonostante si tratti di una patologia molto comune, i fattori eziologici e i meccanismi con cui si
giunge al deterioramento anatomo-funzionale non è completo chiarito, tuttavia sono ritenute situazioni favorenti
tutte quelle condizioni nelle quali si verifica una eccessiva pressione sulle strutture pelviche, come la stipsi
associata a sforzo defecatorio, la presenza di masse endopelviche, la gravidanza e soprattutto il parto. Data però
la grande diffusione delle emorroidi è molto probabile che un ruolo importante sia svolto anche dalla familiarità,
dalla scorretta alimentazione (carenza di acque e fibre), dalla sedentarietà (maggior rischio per gli autisti) e
dall’abuso di alcool e fumo.
PATOGENESIla malattia emorroidaria è una patologia evolutiva, caratterizzata da un progressivo
deterioramento delle strutture anatomiche normali. A carico delle emorroidi interne, probabilmente a causa di un
aumento di pressione, si verifica la progressiva congestione delle vene emorroidarie con conseguente loro
dilatazione e trasformazione in vene varicose (simili alle vene varicose delle gambe) e dall’ipertrofia del
cuscinetto stesso. In base alle caratteristiche proliferative si possono distinguere forme nelle quali si ha
un’eccedenza di mucosa e altre nelle quali si ha un’eccedenza di tessuto vascolare. Queste formazioni aumentate
di volume vanno quindi incontro a prolasso, con dislocamento in basso della mucosa retto anale. Anche il plesso
esterno può tumefarsi, per congestione proprio, ma più probabilmente come conseguenza della discesa della
mucosa del canale anale che causa un ingorgo del plesso emorroidario esterno con ostacolo al ritorno venoso e
conseguente tumefazione, edema, ed eventualmente anche trombosi del plesso venoso emorroidario. Come esito
di questa situazione possono residuare pliche muco-cutanee ridondanti e flaccide, chiamate marische.
CLASSIFICAZIONE le emorroidi interne, ricoperte da epitelio colonnare e situate prossimalmente alla linea
dentata o pettinata (rilievo dell’ampolla rettale), subiscono un deterioramento progressivo a cui corrispondo 4
gradi evolutivi:
- I grado: le emorroidi restano nel canale anale
- II grado: prolassano dall’ano in seguito allo sforzo defecatorio, ma si riposizione spontaneamente
- III grado: prolassano dall’ano e devono essere riportate manualmente all’interno
- IV grado: le emorroidi sono stabilmente prolassate all’esterno e non possono essere ridotte nel canale anale
CLINICAla malattia emorroidaria generalmente ha un lungo decorso, inizialmente con lunghi intervalli
asintomatici, che diventano via via sempre più brevi con il progredire della malattia.
Il sintomo più frequente è la proctorragia (o rettorragia), cioè la perdita di sangue rosso vivo dall’ano, spesso
molto abbondante, al momento della defecazione, dopo il passaggio delle feci. L’emorragia si arresta
spontaneamente e in breve tempo. Altri sintomi sono: sensazione di fastidio o di peso anale a causa della
congestione del plesso esterno, perdita di muco e/ o sierosità per la discesa di mucosa retto-anale secernente (si
parla infatti di ano umido), prurito, lesioni da grattamento, che favoriscono le infezioni fungine o parassitarie.
Le emorroidi di per sé non causano dolore, se non quando sono complicate da edema e trombosi.
I pazienti affetti spesso lamentano anche disturbi funzionali, quali la sensazione di ostacolo, di incompleto
svuotamento, di frequente necessità di evacuare quantità minime di feci o di falso stimolo.
DIAGNOSIsi esegue attraverso l’anamnesi, l’esame obiettivo ano-rettale completo, che quindi comprende
anche la proctoscopia (esame endoscopico di ano e retto, comunemente esteso anche al sigma) utile per
escludere una patologia infiammatoria o neoplastica.
TERAPIAin assenza di sintomi si consiglia esclusivamente l’aumento di fibre nella dieta in modo da
migliorare eventuali condizioni di stipsi e di sforzo defecatorio, invece nelle emorroidi sintomatiche di gruppo I
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si fa una terapia conservativa con semplice regime igienico-dietetico, mentre, in caso di frequente emorragia o
nelle emorroidi di II grado o di III grado iniziale, si esegue una legatura elastica che consiste nel posizionamento
di uno o più gruppi emorroidari che vanno incontro a necrosi, cadono e vengono eliminati. In quella sede si crea
una cicatrice che favorisce la solidarizzazione della mucosa. Altre metodiche sono anche la fotocoagulazione ad
infrarossi o le iniezioni sclerosanti.
Le emorroidi di III e IV grado necessitano di chirurgia con emorroidectomia, che consiste nell’asportazione di
gruppi emorroidari e l’emorroidopessi, che non reseca le emorroidi ma le riposiziona nel canale anale.

RAGADI ANALI
Sono soluzioni di continuo nell’epitelio squamoso del canale anale, situate poco al di sopra della giunzione
muco-cutanea, più frequentemente a livello della linea mediana posteriore. La ragade tipica è idiopatica, cioè
non associata ad altre patologie ano-rettali, mentre molto meno frequentemente sono secondarie ad altre
patologie, come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, la TBC, la sifilide, neoplasie o patologie HIV correlate. La
ragade idiopatica è un problema proctologico molto comune che clinicamente si manifesta con una sensazione
dolorosa scatenata dalla defecazione e che perdura per alcune ore a causa di uno stato di spasticità dello sfintere
interno, che rappresenta il pavimento della ragade.
EZIOLOGIAL’insorgenza della ragade anale è spesso correlabile con episodi di particolare difficoltà
nell’evacuare feci di consistenza aumentata o, al contrario di diarrea. La grande propensione a sviluppare in sede
mediana posteriore è attribuita alla debolezza strutturale, o ad alterazioni nell’innervazione e nella
vascolarizzazione, o ad una non uniforme distribuzione delle forza esercitate nella defecazione a carico di quella
sede. Lo sfintere interno, che per la presenza della ragade risulta scoperto dalla protezione dell’epitelio del
canale anale, in seguito a particolari stimoli, come il passaggio delle feci o l’esplorazione digitale, entra in uno
stato spastico che si traduce in un ipertono doloroso. Lo stato di contrattura dello sfintere interno, sostenuto dal
persistere dello stato irritativo, determina la continua trazione sui margini della ferita, ostacolandone la
guarigione.
CLINICA il paziente tipico, spesso un giovane adulto, riferisce una sensazione dolorosa anale durante la
defecazione, la cui intensità aumenta al termine della defecazione, accompagnata dalla sensazione di avvertire
come un taglio al passaggio delle feci. La sensazione dolorosa si protrae per alcune ore manifestandosi con una
sensazione di trafittura, come se tanti spilli fossero inseriti nella ferita. È frequente il rilievo di una minima
emissione di sangue.
DIAGNOSI può essere posta con l’anamnesi e può essere confermata con l’esame proctologico, eseguito con
delicatezza, che mette in evidenza la ragade, la cui localizzazione può essere talvolta indicata dalla presenza, in
sede più esterna, di una plica muco cutanea esuberante, detta appunto emorroide sentinella. Con l’esplorazione
digitale è poi possibile riscontrare uno stato di ipertono, a volte così marcato da non consentire l’esecuzione
stessa dell’esame.
TERAPIAle ragadi di recente insorgenza rispondono bene alla terapia conservativa, la quale consiste in
misure di igiene locale e nell’assunzione di integratori alimentari con attività idratante fecale (fibre, crusca) e, se
la sintomatologia dolorosa lo consente, nell’impiego di dilatatori anali o di pomate a base di nitroglicerina o di
calcio antagonisti, associate o meno ad anestetici, che sono però in grado di ridurre solo temporaneamente il
tono basale dello sfintere interno. Il trattamento più efficace nei casi gravi e recidivanti è però la sfinteretomia
interna, che consiste nella sezione della parte più distale dello sfintere interno.

FEGATO E VIE BILIARI


CALCOLOSI BILIARE (o colelitiasi)
La litiasi biliari è una patologia caratterizzata dalla presenza di uno o più calcoli nelle vie biliari. Nella
stragrande maggioranza dei casi (85-90%) i calcoli sono presenti solo nella colecisti. La presenza di calcoli
anche nella via biliare principale (VBP o coledocolitiasi) si verifica in circa il 10-15% delle calcolosi della
colecisti e si tratta in genere di calcoli migrati attraverso il cistico nel corso di una colica biliare. La possibilità
che si formino primitivamente nella via biliare principale, in assenza di colelitiasi è invece molto rara. Molto
rara è invece la calcolosi intraepatica, condizione caratterizzata cioè dalla presenza di calcoli a livello delle vie
biliari intraepatiche, che si presente più frequentemente come evoluzione di una litiasi biliare comune, mentre
molto eccezionali sono i casi di calcolosi intraepatica primitiva.
E’una delle principali cause di morbilità nei paesi occidentali. La prevalenza della litiasi biliare aumenta con
l’età infatti passa dal 5% intorno ai 30 anni, sino a più del 25% oltre i 60 anni. Tuttavia in corso di malattie
emolitiche i calcoli biliari possono formarsi anche nei bambini. È più frequente nel sesso femminile a causa
dell’azione degli ormoni sessuali che aumentano l’escrezione di colesterolo e riducono la contrattilità della
cistifellea. È stato dimostrato inoltre che l’assunzione di contraccettivi orali ad alto dosaggio aumenta
l’incidenza di calcolosi biliare.
EZIOLOGIAFattori di rischio per l’insorgenza di litiasi biliare sono:
- la razza: maggiore incidenza nei messicani e negli indiani americani

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- familiarità
- numero delle gravidanze: si ha un aumento del rischio all’aumentare del numero delle gravidanze
- ridotta nutrizione orale o prolungata nutrizione parenterale
- obesità: per aumento dei trigliceridi e del colesterolo
- diete ipercaloriche
- infezione della via biliare: soprattutto da parte di batteri produttori di βglucuronidasi, come E.Coli
- emolisi, cirrosi e resezione intestinale
- diabete mellito: perché la neuropatie determina una ipomobilità della colecisti con conseguente formazione
della sabbia biliare.
Fattori protettivi sembrano essere invece: vitamina C, caffè, alcol (in quantità moderata), fibre.
PATOGENESI I calcoli sono delle strutture cristalline che derivano dall’aggregazione dei costituenti della
bile che possono essere presenti in quantitativo normale o aumentato. Macroscopicamente il calcolo è costituito
da un porzione centrale, detta nucleo, costituita da colesterolo e una parte periferica, con disposizione lamellare,
costituita da pigmenti e concrezioni di sali di palmitato di calcio.
La formazione dei calcoli avviene quando, in presenza di una sovra saturazione biliare del colesterolo, a causa di
una maggiore secrezione (come avviene nell’obesità, nel diabete, ecc..), o una ridotta conversione epatica in
acidi biliari, il colesterolo precipita formando cristalli che, a loro volta, costituiscono il primo nucleo per la
formazione dei calcoli. Non tutti i pazienti con sovra saturazione biliare svilupperanno calcoli, infatti si sviluppa
più facilmente nei pazienti che presentano anche una iposecrezione degli acidi biliari, i quali normalmente
hanno funzione detergente e di assorbimento dei grassi. La nucleazione del colesterolo può essere favorita da un
eccesso dei fattori pronucleanti (principalmente le glicoproteine mucose) o per un difetto delle sostanze che
inibiscono la nucleazione (lecitina, apoproteina A1 e A2). Un precursore dei calcoli è la sabbia biliare (o fango
biliare), una miscela di colesterolo, bicarbonato calcico e gel mucino, che si forma quando si ha un rallentato
svuotamento della cistifellea a causa della sua ipomobilità, che si può verificare in seguito ad interventi
chirurgici, digiuno prolungato e gravidanza.
CLASSIFICAZIONESi distinguono tre tipi di calcoli: calcoli di colesterolo, calcoli misti e calcoli pigmentari.
La litiasi di più frequente riscontro è quella caratterizzata da calcoli misti (80%), costituiti per il 70% da
colesterolo e inoltre sono presenti pigmenti biliari, sali di calcio, proteine e acidi grassi. Sono più frequenti ne
paesi occidentali, si formano nel lume della colecisti e la presenza di calcio li rende radiopachi.
I calcoli puri di colesterolo sono più rari (15%) e sono spesso unici, biancastri e radiopachi. Si formano
soprattutto per aumento assoluto o relativo del colesterolo biliare rispetto alla concentrazione di fosfolipidi e sali
biliari, in presenza di alterazioni della motilità della colecisti.
I calcoli pigmentari sono formati da bilirubina e calcio, sono neri o bruni, più piccoli e friabili. Si formano a
livello colecistico a causa di un eccesso di bilirubina all’interno della bile, che si polimerizza in bilirubinato di
calcio, pertanto sono caratteristici dei pazienti con anemie emolitiche, cirrosi alcolica e anziani.
CLINICAl’esordio della colelitiasi è molto variabile, infatti può essere: asintomatica; paucisintomatica o
sintomatica.
La maggior parte dei pazienti è asintomatica e la colelitiasi può essere diagnosticata solo occasionalmente, nel
corso di un’ecografia all’addome fatta per altri motivi. Di regola, il paziente asintomatico non deve essere
sottoposto a intervento chirurgico, che è indicato solo in presenza di sintomi. La colelitiasi è paucisintomatica
quando si manifesta con sintomi sfumati, ad esempio il paziente può avere dispepsia, fastidio o dolenzia a
livello dell’epigastrio e dell’ipocondrio destro ecc.. Se la litiasi è sintomatica, il paziente può presentare coliche
biliari, massa palpabile, vomito, febbre, dispepsia, ittero, pancreatite (si verifica quando i calcoli ostruiscono
anche il dotto pancreatico maggiore di Wirsung).
La colica biliare è un dolore localizzato in ipocondrio destro, o in epigastrio, con irradiazione alla regione sotto-
scapolare destra, che si verifica spesso in concomitanza con l’ingestione di pasti ad alto contenuto lipidico. La
definizione abitualmente usata di colica biliare è in realtà impropria, è infatti più corretto parlare di dolore
biliare, perché il termine colica designa un dolore intermittente (crampiforme), mentre il dolore biliare è un
dolore continuo, violento, descritto come penetrante o opprimente, che insorge improvvisamente e può protrarsi
per un periodo variabile (da 15 minuti ad alcune ore), per poi risolversi spontaneamente.
Spesso, associati al dolore, sono presenti anche nausea, vomito, meteorismo addominale ed eruttazioni.
Nella calcolosi della colecisti il dolore è scatenato dalla contrazione improvvisa e violenta che la colecisti mette
in atto quando un calcolo biliare si posiziona all’imbocco del dotto cistico e lo ostruisce, impedendo lo
svuotamento dell’organo. In seguito all’ostruzione la colecisti può andare incontro a dilatazione e divenire
apprezzabile alla palpazione.Nelle fasi più avanzate della malattia si può avere un’infiammazione persistente e
ricorrente della colecisti, con conseguente colecistite cronica litiasica, caratterizzata da un dolore molto più
intenso.
Nella calcolosi della VBP (coledoco litiasi),più frequentemente asintomatica, i sintomi compaiono quando un
calcolo ostruisce il lume della VBP e ciò si verifica più frequentemente nell’ampolla di Vater, che rappresenta il
segmento duttale più ristretto. L’ostruzione a questo livello determina un aumento di pressione all’interno del
sistema biliare con distensione delle pareti duttali, che causa dolore. In questo caso, se l’ostruzione è stabile può

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comparire un ittero colestatico, una colangite o una pancreatite, mentre se l’ostruzione è intermittente non si ha
ittero e la sintomatologia dolorosa è intermittente e recidivante.
DIAGNOSIall’esame obiettivo, con la palpazione, è possibile valutare la positività del segno di Murphy
(arresto doloroso della inspirazione di un paziente invitato a inspirare profondamente, se con la mano a piatto
viene esercitata una pressione sul punto cistico), che tuttavia, non è sempre positivo nei pazienti con colelitiasi
mentre lo è sempre in quelli che hanno una colecistite acuta. Gli esami di laboratorio mostrano l’aumento di
parametri (ALT, AST, bilirubina, fosfatasi alcalina) piuttosto aspecifici. Gli esami strumentali utili per la
calcolosi della colecisti sono invece:
- ecografia: è l’esame di scelta, infatti può evidenziare tutti i tipi di calcolo e può rilevare anche la presenza, in
un paziente non litiasico, la presenza di fango biliare sul fondo della colecisti.
- radiografia: può vedere solo i calcoli radiopachi, perciò non mostra i calcoli colesterinici puri.
Per la calcolosi del coledoco un esame utile sia a scopo diagnostico che terapeutico è la ERCP.
COMPLICANZEle complicanze della litiasi del coledoco possono essere: ittero (a causa della colestasi),
pancreatite acuta (per migrazione dei calcoli a livello papillare), la colangite. Le complicanze della litiasi della
cistifellea sono le stesse di quelle del coledoco, a cui si aggiunge il rischio stesso di coledoco litiasi, la
colecistite (infiammazione acuta della colecisti che può portare a perforazione e a formazione di un ascesso),
l’ileo biliare (per passaggio di calcoli nell’intestino attraverso fistole bilio-digestive che si formano per la
presenza protratta del calcolo nella colecisti) e il carcinoma della colecisti.
TERAPIA in caso di calcoli colesterinici e di piccole dimensioni, si può eseguire una terapia medica, basata
sull’uso di farmaci litodissolventi (acido urso desossicolico), ovviamente associato ad una dieta adeguata. Un
altro trattamento conservativo è rappresentato dalla litotrissia extracorporea, che consiste nell’emissione di onde
d’urto che colpiscono e frantumano il calcolo. Tuttavia queste due opzioni terapeutiche sembrano associate,
oltre che al rischio di recidive, anche ad un rischio di pancreatite acuta per ostruzione della papilla. Perciò la
principale opzione terapeutica per la colelitiasi è la rimozione della colecisti (colecistectomia), che è eseguita
più frequentemente per via laparoscopica (video-laparocolecistectomia -VLC), se non sono presenti
controindicazioni, in caso contrario si esegue per via laparotomia (indicata in presenza di coagulopatie non
controllate, gravi patologie polmonari o cardiache, obesità grave, pregressa chirurgia sovramesocolica).

PATOLOGIA FLOGISTICA
COLECISTITE ACUTA
È una patologia flogistica della parete della colecisti. Nel 90% dei casi è su base litiasica, cioè è conseguente ad
una calcolosi biliare, mentre le forme alitiasiche possono insorge in pazienti politraumatizzati, ustionati, dopo
una prolungata nutrizione parenterale o dopo interventi chirurgici. I fattori di rischio della colecistite sono gli
stessi della colelitiasi, a cui si aggiunge l’età, infatti si ha un maggior rischio negli anziani, e il sesso, infatti si ha
maggiore incidenza nelle donne.
PATOGENESILa forma litiasica è innescata dall’incuneamento di un calcolo nel dotto cistico o
nell’infundibolo della colecisti, con conseguente distensione del viscere e aumento della pressione all’interno, a
cui segue la formazione di edema ed infiammazione, che possono condurre all’infarto e alla gangrena della
colecisti con conseguente perforazione e peritonite. Un’azione tossica può essere favorita anche dalla
proliferazione batterica che, oltre ad esaltare la risposta infiammatoria attraverso la de coniugazione dei Sali
biliari in acidi biliari tossici, predispone alla comparsa di complicanze suppurative (empiema).
La patogenesi della colecistite alitiasica invece non è ben conosciuta, potrebbe essere legata alla ritenzione di
bile concentrata (estremamente tossica), che si può formare in seguito a un prolungato digiuno, oppure per
atonia della colecisti o spasmo dello sfintere di Oddi, a cui può conseguire una proliferazione batterica, una
modificazione della perfusione tissutale e un alterato metabolismo cellulare.
CLINICA è caratterizzata da dolore, sopratutto in ipocondrio destro, che insorge improvvisamente in piena
notte o al mattino presto, talvolta dopo una cena abbondante, più duraturo delle normali coliche biliari e
localizzato all’ipocondrio o all’epigastrio, con irradiazione al di sotto dell’angolo della scapola destra. La
sintomatologia dolorosa è conseguente alla stimolazione del nervo frenico e degli ultimi 6 nervi intercostali che
innervano il peritoneo diaframmatico, e alla distensione della colecisti secondaria all’ostruzione del dotto
cistico. A differenza dei pazienti con colica biliare, il paziente con colecistite acuta giace immobile,
raggomitolato sul letto,perché i movimenti, la tosse e l’inspirazione profonda sono causa di esacerbazione del
dolore. Oltre al dolore sono presenti anche nausea, vomito e febbre (con valori sempre superiori a 38°).
L’intensità dei sintomi è comunque sempre correlata all’intensità del processo infiammatorio o infettivo, alla
presenza o meno di litiasi biliare e allo stato generale del paziente.
DIAGNOSIcon la palpazione dell’ipocondrio destro si ha accentuazione del dolore e segno di Murphy
positivo.
Gli esami ematochimici evidenziano leucocitosi, talvolta iperbilirubinemia associata a elevazione degli enzimi
epatici. Nei casi in cui i livelli bilirubine mici indichino la presenza di ittero, questo, oltre che all’ingresso del
calcolo nella via biliare, può essere dovuto alla compressione della via biliare principale da parte della colecisti
distesa.

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Gli esami strumentali che possono essere eseguiti sono: Rx addome, che può documentare la presenza di litiasi
biliare radiopaca, la presenza di aria nelle vie biliari e di gas nella colecisti, ed ecografia, che permette di fornire
informazioni sulle caratteristiche della parete colecistica e sul tipo di contenuto, pur non potendo fornire molte
informazioni sullo stadio patologico e sul rischio di perforazione.
TERAPIAil trattamento iniziale consiste nel digiuno, nell’idratazione per infusione endovenosa, nella
somministrazione di antibiotici e nella terapia antalgica. Il trattamento chirurgico deve essere eseguito quando il
paziente va incontro a un miglioramento della sintomatologia, cioè quando è in grado di affrontare l’intervento
di colecistectomia che può essere eseguito per via laparotomica o laparoscopica.

COLECISTITE CRONICA
L’infiammazione cronica della colecisti è solitamente legata alla presenza di una litiasi, anche se talvolta può
presentarsi in assenza di essa. Pertanto si distinguono una colecistite cronica litiasica e una alitiasica.
Colecistite cronica litiasica
È la più frequente affezione della colecisti e, sebbene non sia abbia la dimostrazione, si crede segua la
formazione dei calcoli e non la preceda, come qualcuno ipotizza, essendo dovuta ad un ristagno della bile sovra
satura di colesterolo all’interno del lume della colecisti, con conseguente produzione di muco e di batteri e
richiamo di cellule infiammatorie (si parla in questo caso di colecistite cronica primitiva). Spesso la flogosi
cronica è conseguenza di un episodio infiammatorio acuto il cui stadio tardivo ha portato alla comparsa di una
colecistite cronica secondaria, la quale può evolvere a sua volta, col tempo, in una forma sclero-atrofica, verso
cui può evolvere anche la colecistite cronica primitiva, sebbene il mancato rinvenimento di questa forma non
debba farci escludere la presenza di calcoli perché non è la regola. La forma sclero-atrofica si caratterizza per la
completa scomparsa degli elementi muscolari parietali, che sono sostituiti da tessuto fibrocicatriziale, con
piccoli focolai di infiltrazione infiammatoria e di ascessi. Anche la struttura della mucosa è completamente
sovvertita, fino alla sua totale atrofia, non infrequente, nella forma sclero-atrofica, è la formazione di una fistola
biliodigestiva postfolgistica, con perforazione della colecsti in un viscere circostante a cui era adesa per via dei
fenomeni infiammatori pericolecstici. La conseguenza di tale fistola, e il conseguente passaggio nel lume del
viscere del contenuto colecistico, può causare un ileo biliare per occlusione del lume dell’ileo terminale da parte
di un calcolo voluminoso.
Colecistite cronica alitiasica
EZIOPATOGENESI si riconoscono due cause:
1. Colecistosi iperplastiche
Affezioni degenerative-proliferative della parete colecistica, spesso associate a calcolosi seppur non loro
conseguenza. Si caratterizza soprattutto per un aumento del numero degli elementi tissutali, più che per un loro
aumento di volume, la cui causa sembra essere l’azione di stimoli metabolici o endocrini su certi tessuti.
Rientrano in questa categoria varie forme: neuromatosi, elastosi, lipomatosi, fibromatosi e ialino calcinosi. La
quelle più importanti sono la colesterolosi e l’adenomiomatosi.
Col termine colesterolosi si intendono modificazioni della parete colecistica caratterizzate da accumuli di esterni
di colesterolo e lipidi nella sottomucosa e, più raramente, a livello intraepiteliale. La colecisti assume il tipico
aspetto a fragola. A ciò si associata l’ipertrofia dei villi e degli elementi muscolari, oltre alla presenza di
adenomatosi e adenomiomatosi (vedi dopo). le forme localizzate si caratterizzano per dei veri e propri polipi di
colesterina. La patogenesi di questa forma sembra legata agli alti livelli di colesterolo biliare e non di quello
ematico ma i meccanismi non sono stati ancora chiariti.
Col termine adenomiomatosi si intende la presenza di caratteristiche protrusioni della mucosa attraverso la
tonaca muscolare, che possono rimanere superficiali o approfondirsi nella sierosa e che prendono il nome, nelle
fasi avanzate, di seni di Rokitansky-Aschoff. La caratteristica principale è quindi l’ipertrofia muscolare, spesso
accompagnata, a monte della lesione, da un restringimento del lume colecistico. Non sono solitamente presenti
segni di infiammazione. Quando la lesione si trova nel fondo della colecisti prende il nome di adenomioma,
anche se forse questo è di origine amartomatosa e non iperplastica-degenerativa.
2. Colecistopatie neuroendocrine
Sono patologie legate a disfunzione dei sistemi che normalmente regolano l’attività della colecisti:
colecistochinica (CCK), che favorisce la contrazione della colecisti dopo i pasti, ma anche motilina, bombesina,
gastrina (tutte stimolanti) e VIP e somatostatina, che hanno invece attività inibitoria. Alterazioni di questi
sistemi, così come disturbi del SNC o di quello neurovegetativo, sono alla base di distonie colecisti che
(ipertonia e ipotonia) e discinesie (ipocinesia – che a sua volta causa ristagno e colecistite – e ipercinesia).
CLINICA si manifesta il più delle volte con attacchi ricorrenti di dolore nei quadranti addominali superiori (è
riferito in epigastrio), anche se numerosi pazienti rimangono asintomatici anche per anni. Il dolore è solitamente
notturno, spesso a seguito di un pasto copioso, è continuo e di intensità costante, spesso irradiato alla regione
scapolare destra. Talora l’episodio doloroso è accompagnato da nausea e vomito (soprattutto nausea, mentre è
più raro il vomito, spesso associato a pasti grassi), mentre non si hanno febbre e ittero. Questo dolore (dispepsia)
regredisce tipicamente temporaneamente dopo eruttazioni acide. Più rare sono le modificazioni dell’alvo,
caratterizzato dall’alternanza di stipsi e diarrea.

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All’esame obiettivo la clecisti non è papabile e talora c’è positività al segno di Murphy.
DIAGNOSI l’Rx è utile per segnalare la presenza di calcoli ma l’esame più importante è l’ecotomografia, che
vede i calcoli e ci dà informazioni anche sulla parete colecistica (adenomatosi per esempio). Nelle forme
alitiasiche può essere utile anche l’esame microscopico della bile.
TERAPIA quella medica si limita al controllo degli episodi dolorosi che, se continui, richiedono infine
l’intervento chirurgico con colecistectomia per via laparoscopica o laparotomica.

COLANGITE ACUTA
È una infezione delle vie biliari che si sviluppa come complicanza di un’ostruzione biliare benigna o maligna.
I batteri più frequentemente responsabili sono di origine intestinale, come E.Coli, streptococco faecalis,
Klebsiella, enterobacter,ecc., che raggiungono la via biliare attraverso una batteriemia portale.
La principale causa di colangite è la coledoco litiasi, sebbene frequenti cause sono anche gli interventi
chirurgici, il posizionamento di protesi o metodiche iatrogene invasive. Altre cause più rare sono le stenosi delle
vie biliare, i tumori, le cisti del coledoco e la litiasi intraepatica. La manifestazione clinica caratteristica della
malattia è rappresentata dalla triade di Charcot (febbre, dolore in ipocondrio destro e ittero), che ha un esordio
brusco, con brividi squassanti, un rapido picco febbrile a 39°-40° che dura per alcune ore.
La sindrome può ulteriormente aggravarsi quando le tossine batteriche determinano lesioni cerebrali e renali,
con un quadro caratterizzato anche da ipotensione e alterazioni dello stato mentale, la così detta pentade di
Reynolds.
L’indagine strumentale di scelta è rappresentato dall’ecografia.
La terapia si basa su antibiotici a largo spettro (penicillina e cefalosporine di seconda generazione), ma nei casi
più severi è necessario un drenaggio endoscopico o chirurgico per favorire una decompressione della via biliare.

COLANGITE SCLEROSANTE PRIMITIVA


È un disordine cronico, progressivo e ad eziologia sconosciuta caratterizzato da infiammazione, fibrosi e stenosi
dei dotti biliari intra ed extraepatici, spesso associata a colite ulcerosa. La maggior parte dei pazienti è
asintomatica, ma talvolta si può presentare con affaticabilità, prurito, sudorazione notturna, dolore in ipocondrio
destro e ittero, ma quest'ultimo solo in caso di malattia avanzata; può complicarsi in colangite, colelitiasi,
colangiocarcinoma e cancro del colon. È sempre da sospettare in pazienti con rettocolite ulcerosa, aumento delle
transaminasi e/o della FA e in chi, ai test di laboratorio, presenta alti livelli di p-ANCA e
ipergammaglobulinemia. La diagnosi è confermata dalla dimostrazione della presenza di stenosi duttali tramite
colangiografia, ecografia o RMN. La terapia si effettua con acido ursodesossicolico.

PATOLOGIA TUMORALE DELLE VIE BILIARI


Con la definizione”tumori biliari” vengono comunemente indicati sia i tumori della via biliare propriamente
detta che i tumori della colecisti.
TUMORI BENIGNI
Sono estremamente rari. I più frequenti sono gli adenomi, cioè tumori epiteliali benigni che nella colecisti
costituiscono spesso un reperto occasionale dopo colecistectomia e possono essere diagnosticati all’esame
ecografico come delle lesioni sessili o peduncolate a partenza dalla parete della colecisti. Gli adenomi della via
biliare principale, sono ancora meno comuni di quelli della colecisti e si presentano spesso con una
sintomatologia di tipo ostruttivo. Altri tumori benigni, anche più rari, sono gli emangiomi, i lipomi, i leiomiomi,
ecc..
TUMORI MALIGNI
Sono relativamente poco frequenti rispetto alle altre neoplasie digestive: il k della colecisti è al 5° posto tra i
tumori del tratto gastrointestinale, mentre i tumori delle vie biliari sono più rare. La maggiore incidenza si ha tra
la 6° e la 7° decade di vita e il k della colecisti è più frequente nelle donne mentre i k delle vie biliari negli
uomini.
Caratteristica di questi tumori è la difficoltà nella diagnosi, perciò la guarigione si ha solo in un numero limitato
di casi.
Colangiocarcinoma
Rappresenta il 10-20% dei tumori maligni epatici ed è il peggiore di essi. È un adenocarcinoma che origina dalle
cellule di riserva differenziate in senso duttale biliare. L’incidenza è più alta nelle nelle zone a basso rischio di
epatocarcinoma.
I fattori di rischio per il colangiocarcinoma sono:
- dilatazione cistica della via biliare: infatti l’anomala confluenza tra via biliare e dotto di Wirsung, con
formazione di un lungo canale comune, sarebbe responsabile di uno stato di flogosi cronica che porta
all’insorgenza del colangiocarcinoma
- la litiasi intraepatica: a causa della stasi biliare, delle infezioni biliari e delle dilatazioni cistiche dell’albero
biliare intraepatico che ne può conseguire

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- retto colite ulcerosa: infatti questa malattia è spesso associata a colangite sclerosante, che può evolvere in
carcinoma
- parassitosi tipiche dell’oriente: esempio da clonorchis sinensis
- thorotrast: mezzo di contrasto impiegato negli anni 30-40, che è una sicura causa di neoplasie epatiche e
biliari
In base ad un criterio anatomico si distinguono:
• Neoplasie del terzo superiore: comprendono l’epatico comune e la via biliare principale (tumore di
Klatskin)
• Neoplasie del terzo medio: dalla giunzione epatocistica sino al bordo superiore del duodeno
• Neoplasie del terzo inferiore: dal bordo superiore del duodeno alla papilla di Vater
Più frequentemente la neoplasia si localizza nel terzo superiore.
Il colangiocarcinoma è un adenocarcinoma e si può presentare con diverse varianti morfologiche: papillare,
sclerosante, nodulare o diffuso. Generalmente la varietà papillare è più frequente a livello del terzo inferiore, le
varietà sclerosante e nodulare sono più frequenti a livello dl terzo medio, mentre la forma diffusa è difficilmente
distinguibile dalla colangite sclerosante.
Neoplasie della colecisti
Si localizzano nel 55% dei casi a livello del fondo della colecisti, nel 30% a livello del corpo e nel 15% a livello
dell’infundibolo, presentandosi macroscopicamente come infiltranti, più raramente come papillari. L’istotipo

più frequente è l’adenocarcinoma, che solitamente è ben differenziato, mentre altri tipi istologici sono: k
squamo cellulare, k a grandi cellule, k indifferenziati, k misti adeno-epiteliali e carcinoidi. I fattori di rischio
sono rappresentati, così come per il colangiocarcinoma da: litiasi biliare (associata nel 75-90% dei casi),
anomalie congenite, cisti coledociche, colangite sclerosante.
CLINICAle neoplasie biliari si manifestano con il quadro clinico dell’ostruzione biliare, a esordio subdolo e
senza particolari sintomi. Talora si può assistere ad una fase prodromica caratterizzata da astenia, anoressia,
nausea, oltre a una sintomatologia dolorosa di lieve entità. Quando la malattie è conclamata il sintomo
principale è rappresentato dall’ittero, presente nel 90% dei casi, seguito dal prurito, dal dolore e dalla febbre.
All’esame obiettivo è spesso rilevabile epatomegalia e la colecisti può apparire distesa se l’ostruzione è a valle
della confluenza del dotto cistico. Il dolore, localizzato in ipocondrio destro e irradiato posteriormente, ha
caratteristiche simili a quelle da colelitiasi.
DIAGNOSIagli esami ematochimici si può rilevare un’elevazione del livelli di bilirubina totale sierica,
soprattutto della forma coniugata e degli enzimi epatici. Tra gli esami strumentali, il primo che deve essere
eseguito in caso di sospetto, è l’ecografia che è in grado di rilevare la presenza di dilatazione delle vie biliari,
indice di ostruzione, e a seconda della localizzazione è in grado di valutare anche la natura dell’ostruzione. La
TC integra e completa le informazioni ottenute con l’ecografia. Un altro esame è la ERCP che tralatro permette
di differenziare i tumori della via biliare inferiore con quelli della test del pancreas.
TERAPIAper le neoplasie del terzo distale delle vie biliari è possibile eseguire una duodeno-cefalo-
pancresectomia, che trova indicazione anche per i tumori del terzo medio, più complesso è invece l’intervento
per i tumori del terzo superiore, che a seconda della diffusione della neoplasia può richiedere anche una
resezione epatica.
Per quanto riguarda i tumori della colecisti è indicata una colecistectomia allargata, cioè con resezione del letto
epatico della colecisti e la linfadenectoma del peduncolo epatico.
PROGNOSIla prognosi è infausta per i pazienti con k del terzo superiore e della colecisti, anche se sono stati
sottoposti con successo a un intervento di resezione curativa, infatti hanno solitamente una sopravvivenza di
circa 20 mesi. I pazienti con neoplasia del terzo medio e distale la sopravvivenza a 5 anni è invece del 33%.

ASCESSO EPATICO
Sono dovuti nella maggior parte dei casi ad infezioni da germi piogeni, e in un 20% ad infezione amebica.
ASCESSI DA PIOGENI
Insorgono generalmente in pazienti di età superiore ai 40 anni e con malattie che compromettono gravemente le
condizioni generali. È una patologia grave , con una mortalità pare al 40%. Le raccolte ascessuali possono
essere singole o multiple e di varia grandezza.
A livello epatico non sempre insorge come lesione primitiva, ma può essere conseguenza di una cisti di
echinococco, di ematomi intraepatici o di aree necrotiche all’interno di lesioni neoplastiche. Quando invece non
è identificato nessun fatto settico precedente l’insorgenza dell’ascesso, questo è detto criptogenetico; la
patogenesi di questi ultimi è da ascriversi all’infezione di focolai microinfartuali del fegato conseguenti a
trombo embolia di provenienza splancnica.
L’insorgenza degli ascessi epatici può correlarsi anche con un deficit del sistema immunitario, come dimostrato
dalla maggior incidenza nei soggetti affetti da granulomatosi cronica, leucemia, diabete mellito, AIDS.

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In passato la maggior parte degli ascessi era dovuta all’embolizzazione epatica di piogeni provenienti con il
sangue portale da focolai settici addominali. Attualmente il più comune meccanismo di infezione epatica da
piogeni è rappresentato dalla colangite suppurativa associata all’ostruzione delle vie biliari indotta da neoplasie.
I microorganismi più frequentemente isolati sono: escherichia coli (30%), streptococchi Gram+ (20%),
staphylococcus aureus (20%); infezioni polimicrobiche con presenza di anaerobi nei restanti casi.
Sono di identico riscontro fra maschi e femmine e attualmente l’età di massima incidenza è intorno alla VI-VII
decade di vita.
I germi piogeni possono raggiungere il fegato con diversi meccanismi:
• Per diffusione diretta da focolai settici contigui, come linfadeniti suppurative dell’ilo epatico,
l’empiema pleurico destro, l’ascesso perirenale destro, ecc.;
• Per via ascendente lungo le vie biliari, in corso di colangite suppurativa;
• Per diffusione ematogena attraverso l’arteria epatica, in corso di endocardite batterica, ascessi
polmonari, batteriemie e setticemie conseguenti alla presenza di altri focolai suppurativi;
• Per diffusione con il sangue portale, in pazienti con appendicite acuta flemmonosa, colecistite acuta
suppurativa, enterite regionale, peritonite da perforazione gastrica o colica, diverticoliti acute;
• Da contaminazione esterna per ferite penetranti del fegato o in conseguenza di traumi;
• Per infezione del cordone ombelicale nel neonato
L’ascesso quando è unico si localizza preferenzialmente nel lobo destro a livello del segmento postero-superiore
(VII) in stretta vicinanza del diaframma.
DIAGNOSI E CLINICA STRUMENTALE
La sintomatologia caratteristica comprende febbre di tipo settico (remittente o continua), episodi di brivido
scuotente, anoressia, dolore in ipocondrio destro irradiato alla spalla destra; vi è, spesso, grave alterazione delle
condizioni generali. All’esame obiettivo è frequente il riscontro di aggravamento del dolore alla palpazione in
ipocondrio destro con presenza di reazione di difesa della parete addominale, di epatomegalia e talora
splenomegalia. La comparsa di un versamento pleurico e di segni clinici di colestasi e di insufficienza epatica
possono precedere l’insorgenza della sintomatologia dolorosa.
Talvolta però la sintomatologia può essere più sfumata; in questi casi l’accurata raccolta dell’anamnesi può
fornire utili indizi: una storia di recenti infezioni endoaddominali, di colangite, di traumi addominali, di malattie
croniche debilitanti o neoplastiche può costituire un indice di sospetto.
L’ascesso può essere anche all’origine di una febbre misconosciuta.
Le indagini di laboratorio dimostrano la presenza di leucocitosi in 1/3 dei casi; ma l’assenza di questa non deve
escludere la diagnosi di ascesso epatico. L’innalzamento dei valori di transaminasi, delle γ-GT e della fosfatasi
alcalina, una ipoalbuminemia ed iperbilirubinemia sono talvolta presenti, soprattutto se la causa è data da una
ostruzione delle vie biliari.
L’emocultura può fornire utili suggerimenti sia diagnostici che terapeutici e devono essere eseguite in
corrispondenza degli episodi batteriemici (brivido).
L’Rx del torace può evidenziare atelettasia basale destra, sopraelevazione e ridotta mobilità dell’emidiaframma
di destra, e l’eventuale presenza di versamento pleuico.
L’Rx dell’addome superiore può evidenziare un epatomegalia e, talvolta, la presenza di un immagine di livello
idroareo nel contesto del parenchima epatico.
All’ecografia gli ascessi epatici appaiono come lesioni ipoecogene, di aspetto disomogeneo, dai margini
irregolari e mal definiti.
L’esame TC è utile per precisare la localizzazione e le dimensioni dell’ascesso e valutare la presenza di altre
lesioni eventualmente associate.
La cavità ascessuale può essere facilmente evidenziata con la scintigrafia epatica eseguita con isotopi del gallio
o del tecnezio.
Le complicanze dell’ascesso epatico sono legate alla possibilità di contrarre estese aderenze con organi
contigui, infatti possono infiltrare diaframma, pleura, colon ascendente, rene destro; e possono comprimere le
vie biliari. La fistolizzazione è rara. La complicanza più temibile è comunque lo scompenso emodinamico con
evoluzione in shock settico.
TERAPIA
La terapia dell’ascesso epatico è rappresentata dal drenaggio chirurgico e dalla terapia antibiotica. Il drenaggio
percutaneo può essere eseguito per ascessi di dimensioni <3 cm. È estremamente difficile il trattamento
chirurgico di paziento con ascessi multipli e di piccole dimensioni.

ASCESSO AMEBICO
È una patologia che si sviluppa in pazienti affetti da infezione da Entamoeba histolytica, ameba che può
parassitare l’intestino umano. L’incidenza dell’entemoeba varia a seconda delle zone geografiche e delle
condizioni di vita dei pazienti (condizioni igieniche scadute, superaffollamento).
EZIOPATOGENESI

122
L’ascesso è più frequente nella terza-quinta decade di vita, ed è più frequente nei maschi. L’infezione avviene
tramite ingestione di cisti amebiche, i trofozoiti, che sono la forma attiva del parassita, raggiungono il fegato
attraverso il sangue portale, e solitamente vanno incontro a distruzione, non appena raggiungono la rete capillare
epatica, quindi per aversi la formazione dell’ascesso deve esserci un bombardamento continuo di trofozoiti, che
nelle più fini diramazioni portali causano una occlusione trombotica con necrosi della parete e disseminazione
intraepatica dei trofozoiti.
ISTOPATOLOGIA
È una lesione sferoidale circondata da una capsula, più frequentemente si localizza nel lobo epatico di destra, il
contenuto può apparire relativamente fluido o gelatinoso.
DIAGNOSI CLINICA E STRUMENTALE
L’esordio clinico può essere drammatico oppure insidioso, i sintomi possono insorgere acutamente ed essere
presenti da pochi giorni al momento della diagnosi, oppure persistere in maniera sfumata da qualche mese.
Formulare il sospetto diagnostico può essere difficile: infatti, benché la diagnosi debba talvolta essere posta
senza l’evidenza del processo infettivo primario. Inoltre la ricerca di cisti amebiche e trofozoiti nelle feci può
risultare positiva solo nel 15% dei soggetti con localizzazioni epatiche del parassita, rendendo ulteriormente
difficile la diagnosi.
Il dolore in ipocondrio o epigastrio, la perdita di peso, la febbre e la compromissione delle condizioni generali
sono le manifestazioni cliniche più frequenti. Il dolore, che può essere molto intenso ed è in genere esacerbato
dalla palpazione dell’addome, è l’elemento più comune, ed è presente in oltre il 90% dei pazienti; è di tipo
continuo solitamente avvertito in ipocondrio destro, in caso di localizzazione al lobo di destra, o in epigastrio, se
l’ascesso si localizza al lobo di sinistra.
Negli ascessi del lobo destro localizzati in prossimità della cupola epatica è frequente l’irradiazione all’arcata
costale, alla spalla di destra ed alla regione laterale destra del collo. Talvolta queste irradiazioni del dolore
possono comparire anche in assenza di dolore in ipocondrio. Il dolore in questi casi può assumere anche un
connotato “pleurico”, cioè localizzarsi alla base del torace e risultare esacerbato dagli atti della respirazione.
Una tosse non produttiva è presente nel 50% dei casi. La febbre può risultare elevata (40°C) ed accompagnarsi
occasionalmente a brivido.
La sintomatologia gastrointestinale, dominata da nausea e vomito, è presente nel 15% circa dei casi.
All’esame obiettivo dell’addome il fegato risulta ingrossato nella metà dei casi. Talvolta alla palpazione si
possono apprezzare in ipocondrio o in epigastrio masse solidali con il fegato.
La sopraelevazione e la ridotta mobilità dell’emidiaframma possono comportare una mancata espansione dei
lobi polmonari inferiori, con evidenza all’esame obiettivo di ridotta escursione delle basi polmonari e di
riduzione dei rumori respiratori fisiologici. L’ittero, poco frequente, compare praticamente solo in caso di
compressione delle vie biliari da parte di una grossa massa ascessuale localizzata sulla superficie inferiore del
fegato in corrispondenza dell’ilo epatico.
Una spiccata leucocitosi è presente nel 75% dei casi. Anemia e ipoalbuminemia compaiono nel 50%.
Iperbilirubinemia compare nel 10% dei pazienti con ascesso amebico, ma gli indici di funzionalità epatica
appaiono alterati, seppure di poco, almeno nel 25% dei casi.
La diagnosi viene fatta anche tramite test sierologici per la ricerca di anticorpi contro l’Entamoeba histolytica;
l’aspirazione di materiale necrotico color cioccolato e privo di batteri, anche nel casi risulti impossibile
identificare il parassita nel suo contesto, viene ritenuto sufficiente per la diagnosi di ascesso amebico.
L’ecografia e la TC ci permettono di individuare l’ascesso ma non di distinguerlo da un ascesso piogeno o una
metastasi colliquata.
Nel caso di sospetto diagnostico la ricerca del parassita nelle feci deve essere eseguita più volte dato l’elevato
numero di falsi negativi.
Le complicanze dell’ascesso sono frequentemente letali. Se non trattato l’ascesso continua a espandersi
concentricamente fino a raggiungere la superficie del fegato ed a rompersi nella cavità peritoneale, oppure
estendersi per contiguità agli organi vicini. Le complicanze più frequenti sono quelle pleuropolmonari, e
conseguono alla rottura trans diaframmatica dell’ascesso all’interno del cavo pleurico o addirittura dell’albero
bronchiale. La rottura dell’ascesso nel peritoneo si instaura di solito acutamente, con comparsa di addome acuto
e shock.
Gli ascessi cerebrali insorgono inseguito alla diffusione ematogena del parassita da un ascesso epatico, si tratta
di una complicanza gravata da altissima mortalità e priva di segni e sintomi distintivi.
TERAPIA
Il trattamento verte normalmente su tre principi:
1. Utilizzo di farmaci amebicidi
2. In caso si renda necessaria l’evacuazione dell’ascesso, il drenaggio chiuso rappresenta la tecnica di
elezione
3. Il drenaggio aperto (in laparotomia) va riservato ai casi di superinfezione

LE CISTI EPATICHE
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Le cisti epatiche sono neoformazioni benigne contenenti liquido e dotate di capsula propria, che le separa
nettamente dal parenchima epatico circostante. Esse possono essere di derivazione disontogenetica o
parassitaria.

PSEUDOCISTI
Sono lesioni che si trovano solitamente in sede sottocapsulare e costituiscono quasi sempre l’esito di pregressi
traumi epatici occorsi anche molti anni prima. Si presentano come cavità sferoidali o lenticolari, di consistenza
molle e con contenuto liquido o gelatinoso, di colore variabile dal citrino al bruno. Si ritiene che queste
formazioni derivino dall’evoluzione di ematomi, di aree di colliquazione3 tissutale o di stravasi biliari post-
traumatici. Si diagnosticano con ecografia o TC e possono essere confuse con metastasi epatiche, da cui si
differenziano perché non mostrano un aumento di densità dopo infusione endovenosa di mezzo di contrasto.

CISTI SIEROSE
Si riscontrano in circa l’1% della popolazione. Sono solitamente lesioni asintomatiche, uniloculari, di diametro
variabile da pochi mm a parecchi cm, ma quasi mai tali da divenire palpabili e causare comparsa di sensazione
di peso e dolore in ipocondrio destro. Se però raggiungono dimensioni maggiori possono comprimere le vie
biliari e causare ittero col estatico. Microscopicamente appaiono delimitate da un epitelio cilindrico
monostratificato e macroscopicamente bianco-bluastre e di consistenza molle. All’interno presentano liquido di
colore variabile dal citrono al marrone scuro acellulare, con composizione simile a linfa o bile. Raramente
questo liquido va incontro a liberazione per rottura intraperitoneale, così come rare sono le emorragie
intracistiche, anche perché non vanno quasi mai introno a volume nel tempo, per cui sono lesioni stabili
(sebbene qualcuna, come detto, raggiunga dimensioni anche notevoli per ragioni non ben note).
DIAGNOSI gli esami di funzionalità epatica non sono alterati, anche nei pazienti con cisti di grosse
dimensioni. E visto che anche la sintomatologia non è, come visto, pronunciata, anzi è per lo più assente, le cisti
vengono spesso individuate occasionalmente nel corso di un esame ecografico (in cui appaiono come strutture
anecogene, con contorni regolari e ben definiti, di forma sferoidale) o una TC addome ( in cui appaiono come
lesioni dai contorni regolari ipodense) richiesto per altri motivi.
La diagnosi differenziale deve essere fatta con cisti idatidee, malattia policistica epatica, cistoadenoma,
cistoadenosarcoma, pseudocisti e metastasi epatiche (melanoma tumori carcinoid e dell’ovaio possono dare
metastasi di natura cistiche, che convivono con altre di natura solida). Ci aiuta nella dd, oltre a TC e ECO, che
spesso sono sufficienti, il fatto che, come le pseudocisti, rimangono immodificate dopo somministrazione di
mdc.
TERAPIA non aiuta molto l’evacuazione, con ago sotto guida ecografica, del liquido cistico, perché quasi
sempre si riforma. Le cisti di piccole dimensioni devono solo essere controllate, quelle più grosse o sintomatiche
devono essere asportate chirurgicamente con marsupializzazione. Quasi mai è necessaria la resezione epatica.

MALATTIA POLICISTICA DEL FEGATO


Malattia a carattere ereditario (può essere sia a trasmissione autosomico dominante che recessiva), che si
presenta sempre associata a una delle seguenti lesioni: microamartomi, fibrosi epatica congenita, coledococele.
Nel 50% dei casi è inoltre associata a una policistosi renale, e spesso a lesioni cistiche di altri organi: pancreas,
polmone, milza e ovaio. La prognosi è di solito buona e dipende dalla gravità delle lesioni.
Le dimensioni delle cisti epatiche variano da pochi mm a qualche cm, e possono coinvolgere diffusamente il
parenchima epatico, oppure limitarsi a settori di esso. Esistono però anche cisti di diametro maggiore, fino a 10
cm, che sembrano il risultato della confluenza di più cisti più piccole per rottura dei setti che le dividono. Il
contenuto della cisti è liquido, di colore variabile dal chiaro al bruno, e la composizione è simile a quelle della
bile.
CLINICA in molti pazienti il decorso è asintomatico, in altri si manifesta con gradazioni diverse. Le forme
autosomiche recessive si manifestano già alla nascita o nella prima infanzia; in questi casi la prognosi è legata
alla gravità della fibrosi epatica e all’interessamento renale, sempre presenti in questa forma. Nelle forme aut
osmiche dominanti, la sintomatologia insorge di solito nella IV-V decade di vita, ed è rappresentato da dolore e
senso di peso in ipocondrio destro, talvolta associati a dispepsia. Raramente c’è ittero per compressione delle vie
biliari.
L’esame obiettivo mostra alla palpazione un fegato normale o, talora, aumentato di volume, con superficie
irregolare.
DIAGNOSI si sospetta, dopo la clinica e l’esame obiettivo, in presenza di familiarità. La conferma è
ecografica.
TERAPIA il drenaggio della cisti può dare sollievo al paziente, anche se raramente esse raggiungono
dimensioni tali da giustificarne il drenaggio. L’intervento chirurgico si fa solo per le cisti maggiori di 10 cm,
sintomatiche e facilmente accessibili per il chirurgo. Se la malattia interessa tutto il fegato si asporta tutto e
trapianta (ma è una situazione rara).

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CISTI DA ECHINOCOCCO
Soprattutto all’infezione da echinococco multiloculare, più diffusa nel centroeuropea, consegue la formazione di
cisti multiple tendenti ad invadere il parenchima epatico e ad erodere l’albero biliare ed i vasi sanguigni, tramite
i quali può diffondere a distanza. Più raramente ciò avviene in seguito all’infezione da echinococco granuloso,
perché i meccanismi di difesa appaiono in grado di contrastare efficacemente la crescita del parassita, e lo
sviluppo delle cisti è lento; di solito lo sviluppo si arresta in seguito alla morte del parassita ed alla
calcificazione della parete della cisti: ciò si verifica in presenza di necrosi asettica o sovrinfezione batterica. Se
le cisti continuano a crescere possono raggiungere dimensioni cospicue (maggiori rispetto a quelle del multi
oculare), fino a 25 cm.
CLINICA il 25 dei pazienti è asintomatico. Talvolta l’idatide è palpabile direttamente in ipocondrio destro, e
spesso si sviluppa spingendo verso il basso il fegato, il cui margine deborda dall’arcata costale.
I pazienti riferiscono dolore persistente e sensazione di peso in ipocondrio destro o alla porzione inferiore
dell’emitorace destro. In una piccola percentuale di casi la malattia esordisce con una sintomatologia allergica:
prurito generalizzato, rush, episodi di asma, shock anafilattico conseguente alla rottura della cisti. Rara è la
presenza di ittero, a meno che non ci sia la compressione delle vie biliari da parte di una cisti di grandi
dimensioni, oppure non ci siano complicanze.
DIAGNOSI alla clinica e anamnesi (importante sapere la provenienza geografica del paziente) , si aggiungo
degli esami. Quelli del sangue consistono nella ricerca della presenza di eosinofilia, non molto accurata
(eosinofilia si ha nel 40% dei casi), ma soprattutto in ELISA e RAST, che però possono risultare negativi se il
parassita è morto.
Gli esami strumentali sono: Rx addome (ci fa vedere la presenza di calcificazioni nel caso di cisti di vecchia
data a parete calcifica), eco addome e TC (sono gli esami più importanti). Infine, se si sospetta il
coinvolgimento della rete vasale epatica, bisogna fare un’angiografia.
COMPLICANZE in seguito a traumi toraco-addominali, le cisti, soprattutto quelle adiacenti alla superficie del
fegato, possono rompersi direttamente nella cavità peritoneale, causando gravi reazioni anafilattiche e la
disseminazione della malattia all’intera cavità sierosa. Analoghi effetti possono aversi in seguito allo
spandimento del liquido idatideo in corso di laparotomia o puntura esplorativa della cisti. Se ci sono cisti
localizzate in sede sottodiaframmatica, esse possono erodere la struttura muscolare e la pleura, obliterata in
seguito alla reazione infiammatoria, e rompersi all’interno di un bronco; a ciò segue sempre la formazione di
una cisti bronco biliare. Più frequente è però la rottura della cisti nell’albero biliare, segnalata dalla comparsa di
colica biliare ed ittero. In seguito a ciò si ha colonizzazione batterica della cisti e formazione di un ascesso
epatico. Infine da dire che gli antigeni idatidei che si formano in corso di questa patologia possono essere
responsabili dello sviluppo di una glomerulonefrite, se si depositano a livello renale.
TERAPIA se la cisti epatica si trova in profondità nel parenchima epatico si attua un atteggiamento
conservativo, e anche le cisti calcificate non richiedono l’intervento chirurgico se non sintomatiche. Dal punto
di vista medico sono utili i benzimidazlici, che migliorano i sintomi. L’intervento chirurgico è necessario per le
cisti sottocapsulari o molto voluminose. Il più utilizzato è la pericistectomia. La resezione epatica è necessaria
se le cisti sono più numerose e diffuse (in seguito a infezione dell’echinococco multiloculare).

TUMORI EPATICI
TUMORI BENIGNI DEL FEGATO
I tumori benigni del fegato sono meno frequenti rispetto alle neoplasie maligne e spesso sono asintomatici,
rendendosi evidenti solo quando raggiungono masse notevoli. Solitamente non si manifestano con dolore (che
eventualmente sarebbe sordo), ma con emoperitoneo, per rottura della lesione all’interno del peritoneo. Di solito
il riscontro di queste lesioni è occasionale, in seguito ad esami ecografici o chirurgici eseguiti per altri motivi.
Le neoformazioni benigne del fegato possono assumere forma cistica (es. cisti semplici, cisti idatidee, malattia
policistica epatorenale..) o solida (es. l’adenoma, l’iperplasia nodulare focale, l’angioma).

ADENOMA EPATOCELLULARE
È una neoplasia benigna rara, con incidenza 40 volte inferiore rispetto a quella dell’epatocarcinoma. Colpisce
quasi esclusivamente il sesso femminile, in età compresa tra i 15 - 45 anni e con una maggiore incidenza nella
III e IV decade. La sua incidenza è andata aumentando negli ultimi anni a causa del maggior uso di
contraccettivi orali estroprogestinici.
Macroscopicamente il tumore si presenta come una lesione rotondeggiante, circoscritta, spesso circondata da
capsula, a superficie liscia, frequentemente localizzata nel lobo epatico destro, in sede sottocapsulare. Può
misurare da pochi cm fino a oltre 30 cm, ha consistenza parenchimatoso-molle, di colore chiaro o giallastro e
può presentare un aspetto variegato (lobulato) per la presenza di fenomeni emorragici o di necrosi. Talvolta
sporgono dalla glissoniana e possono essere peduncolati. Nel 30% dei casi è presente una multifocalità (quando
le lesioni sono superiori a 10 si parla di “adenomatosi epatica”). Microscopicamente la neoplasia è costituita da
epatociti maturi e ben differenziati, con scarse atipie e mitosi, organizzati in strutture cordoniformi o in pseudo
rosette, prive di spazi portali e di vene epatiche terminali.

125
La vascolarizzazione arteriosa della lesione è abbondante, le arterie decorrono lungo la superficie della lesione,
entro la capsula, inoltre è frequente la presenza di un’ampia dilatazione sinusoidale. Le vene efferenti sono
incostanti. Questa architettura vascolare espone al rischio di fenomeni emorragici e trombotici all’interno della
massa. La presenza di aree necrotiche può porre problemi di d.d. con l’adenocarcinoma, ma in quest’ultimo la
vascolarizzazione è solo superficiale e inoltre nell’adenoma non c’è infiltrazione neoplastica dei vasi sanguigni.
A differenza degli adenomi del colon, che a lungo andare si trasformano in tumori maligni in questo tumore non
si è vista trasformazione.
FATTORI DI RISCHIO contraccettivi orali, ormoni steroidei e androgeni, glicogenosi e galattosemia, diabete
mellito, tumori ovarici o sindrome dell’ovaio policistico. L’adenomatosi multipla è presente nel 50-80% dei
bambini affetti da glicogenosi di tipoI e III, con uguale frequenza nei due sessi e non sembra essere correlata
all’uso di contraccettivi orali.
CLINICA circa 1/3 dei pazienti sono asintomatici, invece i pazienti sintomatici riferiscono di solito dolore
vago al quadrante addominale superiore di destra, accompagnato talvolta da epatomegalia e/o massa palpabile.
Nel 33% dei casi la sintomatologia insorge in maniera acuta, secondaria ad un episodio infartuale o emorragico
intratumorale. La successiva rottura del tumore può causare ematoma sottocapsulare (se avviene sotto la
glissoniana), emoperitoneo (se si rompe all’interno del peritoneo) e grave shock emorragico (mortalità 6% dei
casi).
DIAGNOSIla diagnosi è generalmente occasionale nei pazienti asintomatici e viene generalmente posta con:
- test di funzionalità epatica: sono generalmente normali, tranne che in presenza di necrosi tumorale o
emorragia, che possono accompagnarsi ad aumento della fosfatasi alcalina e delle transaminasi, invece i valori
della alfa fetoproteina sono nella norma.
- ecografia: l’aspetto ecografico varia a seconda delle dimensioni, iso-ipoecogeno lesioni piccole; disomogeneo
con ampie aree iperecogene quando è presente necrosi e/o sanguinamento
- l’eco-color-doppler: si evidenziano per lo più vasi venosi all’interno della lesione; i vasi arteriosi circondano
la massa
- TC: ipodenso (talora disomogeneo) all’esame di base e a causa della ricca vascolarizzazione, mostra marcato
aumento della densità in seguito a somministrazione di m.d.c.
- angiografia: masse ben delimitate, ipervascolarizzate in fase arteriosa, nella fase capillare aree avascolari
- scintigrafia: ipo- o assenza di captazione (nella FNH captazione)
La diagnosi per imaging non è sempre sicura per cui si fa l’ agobiopsia che permette di stabilire in alta
percentuale di casi la natura benigna della lesione.
TERAPIA nei casi asintomatici, piccoli, con diagnosi sicura e in trattamento con estroprogestinici (che vanno
sospesi), non è necessario intervenire, purchè si effettuino continui controlli ecografici nel tempo. L’indicazione
chirurgica è ovvia nei casi complicati da emoperitoneo, o sintomatici per dolore.

IPERPLASIA NODULARE FOCALE (F.N.H.)


Lesione generalmente solitaria, di piccole dimensioni (3-4 cm), con iperplasia epatocitaria e duttulare biliare, e
contenente cellule di Kupffer. Insorge generalmente su un fegato normale. Questa patologia può insorgere a
qualsiasi età, ma un picco di incidenza si ha tra i 20 e 50 anni. Le donne sono colpite il doppio rispetto agli
uomini. E’ la lesione epiteliale benigna più frequente nei bambini (15% in età inferiore ai 15 aa). La
correlazione con l’uso dei contraccettivi orali è meno evidente (soltanto il 58% delle donne con FNH aveva
assunto contraccettivi, contro l’89% delle donne con adenoma epatico). Macroscopicamente l’FNH si presenta
come un nodulo generalmente solitario (nell’80% dei casi) a margini netti, di dimensioni variabili, ma
generalmente inferiore ai 5 cm, privo di capsula ma i tessuti circostanti risultano compressi. Ha un colore
generalmente rosso brunastro, talora bianco-grigiastro e al taglio appare una cicatrice centrale stellariforme
(60%) dalla quale si dipartono a raggiera setti fibrosi. Al centro della cicatrice è presente una abbondante
componente vascolare di tipo arterioso, ed il flusso ematico a differenza dell’adenoma è centrifugo. La
vascolarizzazione in superficie è prominente. Microscopicamente gli epatociti hanno aspetto normale, non sono
presenti aspetti displastici, e sono organizzati in lamine bicellulari separate da lacune sinusoidali.
L’origine presunta è quella di un’area di iperplasia secondaria ad una malformazione vascolare preesistente
(origine congenita, sulla quale fattori favorenti la crescita, quali gli ormoni sessuali femminili, agirebbero in
senso proliferativo). L’origine malformativa avrebbe conferma da alcuni casi in cui si è evidenziata
l’associazione con emangiomi ed altre anomalie a livello polmonare e cerebrale. L’esatta natura e l’eziologia
della FNH non sono conosciute, ma oggi è stato ipotizzato che possa trattarsi di un amartoma o di un fatto
ripartivo conseguente ad un’anomalia vascolare.
CLINICA  La maggior parte dei casi è asintomatico, perciò sono diagnosticati casualmente nel corso di esami
strumentali eseguiti per altri motivi. I pazienti sintomatici riferiscono solitamente: dolenzia addominale
aspecifica, epatomegalia, massa addominale. A differenza dell’adenoma, sanguinamento e infarto sono poco
frequenti. Gli esami di laboratorio sono normali.
DIAGNOSI
- Ecografia: di solito la lesione ha ecostruttura omogenea perciò l’esame ecografico può non rilevarne la
presenza

126
- Eco-color doppler: mette in evidenza la componente vascolare arteriosa nella cicatrice centrale, con vasi che
si dipartono a “ruota di carro”.
- TC: all’esame diretto è ipodensa (30-71%) o isodensa. La cicatrice è dimostrabile nel 14%. Con m.d.c. la
lesione risulta isodensa o lievemente iperdensa.
- R.M.N.: isointensa sia in T1 che in T2 (Spin Echo), oppure ipointensa in T1 e iperintensa in T2 (cicatrice)
- Angiografia: ipervascolarizzata in fase arteriosa (90%), in fase capillare la lesione è densa e omogenea nella
maggior parte dei casi (89%)
- Scintigrafia: iso- o iperattiva nel 60-70% in funzione del numero delle cellule di Kuppfer presenti
TERAPIAla FNH non necessita di terapia, perché si tratta di una lesione priva di potenzialità maligna.
L’intervento chirurgico è indicato solo nei pazienti sintomatici gravi con lesioni di grosse dimensioni.

EMANGIOMA CAVERNOSO
È la neoformazione epatica benigna di più frequente riscontro. È 6 volte più frequente nelle donne rispetto agli
uomini. Solitamente si tratta di lesioni nodulari, singole o multiple, di consistenza molle, del diametro di 1-3 cm,
taluni possono assumere grosse dimensioni. Il colore è variabile dal rosso, al bluastro, al grigio in rapporto alla
quantità di connettivo presente. Secondo alcuni autori rappresenta un’anomalia congenita. L’aumento di volume
nel tempo avviene sostanzialmente per dilatazione degli spazi vascolari esistenti, per cui quelli di vecchia data
assumono un aspetto cavernoso. Nella maggior parte dei casi sono asintomatici, ma nei casi di lesioni di più
grosse dimensioni possono determinare la comparsa di dolore, sensazione di peso, accompagnati dalla presenza
di massa palpabile.
All’ecografia appaiono come aree iperecogene irregolari, ben delimitate rispetto al parenchima circostante.
All’esame TC appaiono invece come lesioni ipodense, con aumento della densità dopo iniezione del mdc. La
prognosi è benigna e non è stata dimostrata la possibilità di trasformazione maligna.

TUMORI EPATICI MALIGNI


Le neoplasie maligne epatiche rappresentano una delle neoplasie di più frequente riscontro nel mondo e inoltre
rappresentano la prima causa di morte per neoplasia in alcune aree geografiche dell’Asia e dell’Europa, mentre
sono relativamente rare in Europa e nel Nord America. Sono molto più frequenti rispetto a quelle benigne,
soprattutto per via dell’alta frequenza di metastasi, infatti il fegato è l’organo bersaglio di tantissimi tumori
gastro-intestinali ed extraintestinali, come per esempio il tumore della mammella.
La sopravvivenza di questi pazienti, sino a 20 anni fa, raramente superava i 2-3 mesi dal momento della
diagnosi, tuttavia il miglioramento delle tecniche diagnostiche a basso costo, come ECO e TC, permettono oggi
una diagnosi precoce della neoplasia e quindi un intervento chirurgico conservativo, con riduzione della
morbilità e mortalità. Il miglioramento della prognosi non è solo legato alle migliori tecniche diagnostiche, ma
anche alla riduzione dei principali fattori di rischio, quali l’epatite cronica da virus B e la cirrosi epatica. Queste
due malattie croniche del fegato sono infatti associate al 90% degli epatocarcinomi.
I tumori maligni primitivi originano dalle cellule di riserva presenti nel dotto di Hering, che si possono
differenziare sia verso le cellule epatiche che verso quelle biliari. Il carcinoma epatocellulare rappresenta quello
di più frequente riscontro (80%); il colangiocarcinoma (vedi vie biliari) e i tumori mesenchimali sono più rari,
ma hanno prognosi peggiore.

CARCINOMA EPATOCELLULARE
Il K epatocellulare è la prima causa di morte per cancro in alcune aree geografiche dell’Asia e dell’Africa,
mentre è raro in Europa e nel Nordamerica, dove ha un’incidenza di circa 1 caso ogni 100.000 abitanti l’anno e
rappresenta circa il 2% di tutti i tumori maligni. I principali fattori di rischio sono:
- la razza: l’incidenza della neoplasia è infatti drammaticamente alta nella razza nera, con una incidenza in
alcuni paesi di 100 casi ogni 100.000 abitanti l’anno
- il sesso: nei maschi l’incidenza è nettamente superiore alle femmine, con un rapporto che varia da 3:1 sino a
8:1
- l’età: l’età di insorgenza varia a seconda delle zone di rischio: oltre i 60anni nei Paesi a bassa incidenza; oltre
i 40anni nei Paesi ad alta incidenza.
EZIOPATOGENESInumerosi sono i fattori di rischio implicati nella patogenesi dell’epatocarcinoma:
malnutrizione, sostanze carcinogene presenti negli alimenti, infezioni da parassiti, tossine, cirrosi epatica di
varia natura, tabacco, alcool, ormoni sessuali, arsenico, ecc.. tuttavia il maggiore fattore di rischio è sicuramente
rappresentato dall’infezione cronica da virus dell’epatite B. La coesistenza di infezione virale e di cirrosi è
presente nel 90% dei pazienti affetti. Per questo l’obbligatorietà della vaccinazione da virus B, partita nel 1991,
con vaccinazione alla nascita e a 12 anni, ha permesso una riduzione dei casi di epatite cronica e di
epatocarcinoma.
ISTOPATOLOGIA Macroscopicamente l’aspetto del tumore può variare notevolmente, da una massa singola
di grosse dimensioni, che può essere ben circoscritta o infiltrante, a una forma multicentrica, multi nodulare (più
tipica dei fegati cirrotici). La consistenza è soffice e talvolta può andare incontro a rottura. All’interno del
tumore si possono riscontrare aree di necrosi e di emorragia, specialmente nelle lesioni di grosse dimensioni. La
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struttura microscopica ricorda quella del fegato normale, infatti il parenchima è organizzato in strutture
trabecolari, mentre altre varianti istologiche sono quelle con struttura pseudo ghiandolare, solida o scirrosa. In
base alle caratteristiche cellulari si possono inoltre distinguere diverse varianti: carcinomi a cell. chiare; a cell.
giganti; a cell. grassose; a citoplasma con inclusioni ialine; a produzione di bile; a pleiomorfismo cellulare.
GRADINGDal punto di vista della differenziazione si possono distinguere 3 gradi: G1 ben differenziato, G2
moderatamente differenziato e G3 scarsamente differenziato.
CLINICA l’epatocarcinoma si può presentare con aspetti clinici differenti, dovuti alle caratteristiche
biologiche diverse tra aree ad alta e bassa incidenza e alla presenza di un gran numero di fenomeni
paraneoplastici. L’esordio clinico del carcinoma epatocellulare è insidioso, infatti la malattia decorre silente nei
primi stadi rendendo difficile una diagnosi precoce. L’assenza di sintomi e di segni patognomonici, la posizione
profonda del fegato sotto l’arcata costale, che lo rende inaccessibile all’esame manuale, e l’aspecificità dei test
biochimici di funzionalità epatica, contribuiscono a rendere la diagnosi tardiva. Spesso il tumore è quindi in fase
già avanzata quando il paziente giunge dal medico, ciò fa si che la prognosi sia molto severa.
I sintomi più comuni sono: dolore sordo, profondo e ingravescente in ipocondrio destro e in epigastrio, febbre,
malessere generale, anoressia, senso di ripienezza post-prandiale, calo ponderale. Altri sintomi meno frequenti
sono: ittero, se la neoplasia comprime le vie biliari principali; forti dolori addominali, se c’è distensione della
capsula glissoniana o se la neoplasia si rompe in peritoneo; sintomi respiratori, se la neoplasia si localizza in
sede sottodiaframmatica.
L’epatomegalia è il segno clinico di più frequente riscontro e talvolta la massa può essere apprezzata come una
tumefazione al di sotto dell’arcata costale, di consistenza dura e più o meno dolente alla palpazione, in relazione
a possibili reazioni infiammatorie concomitanti. L’epatocarcinoma è inoltre capace di provocare un gran numero
di fenomeni paraneoplastici, conseguente alla produzione da parte del tumore di differenti ormoni.
EVOLUZIONEgli epatocarcinomi tendono ad invadere precocemente le strutture venose portali dando origine
a trombi neoplastici retrogradi responsabili di metastasi intraparenchimali diffuse. Le metastasi
extraparenchimali diffondono per via ematica nel 50% dei casi e si localizzano, in ordine di frequenza, al
polmone, alla surrene, all’intestino, alle ossa, alla milza, al cuore e al rene. Le metastasi per via linfatica si
localizzano all’ilo epatico, ai linfonodi peripancreatici, al retro peritoneo, al mediastino ed ai linfonodi par
aortici.
DIAGNOSI principalmente fatta attraverso ecografia, che costa poco, non è invasiva e ha una certezza
diagnostica superiore della TC in questa patologia. Il K epatocellulare all’esame ecografico si presenta
generalmente iperecogeno, con aree di necrosi (ipo-anaecogene). All’esame con ultrasuoni si possono avere
diversi quadri:
• Lesioni nodulari: aree iperecogene epatiche, solitarie o multiple, con aree ipoecogene centrali legate alla
presenza di necrosi ed emorragie.
• Lesioni diffuse: è presente epatomegalia con aree multiple di iperecogenicità in un parenchima
disomogeneo, senza la possibilità di poter localizzare una massa distinta (cancrocirrosi).
• Quadro misto: combinazione del tipo nodulare e diffuso. È caratterizzato da una grande massa
iperecogena nel contesto di una malattia epatica diffusa (epatocarcinoma su cirrosi).
All’esame ecografico è inoltre possibile valutare i rapporti della neoplasia con le strutture venose portali e sovra
epatiche, inoltre identifica l’eventuale presenza di ascite e di linfoadenopatie.
La TC permette di ottenere delle immagini anatomiche particolarmente utili al chirurgo per la programmazione
dell’intervento. Nelle scansioni senza contrasto la neoplasia può essere ipodensa o isodensa rispetto al tessuto
epatico normale. La somministrazione di mezzo di contrasto da luogo ad un aumento di densità diffusa in tutto il
contesto del tessuto neoplastico a causa della ricca vascolarizzazione. Il m.d.c. è utile per identificare i tumori
isodensi e per valutare l’interessamento della vena porta, delle vene sovra epatiche e della vena cava inferiore.
Sotto guida TC o ecografia è possibile eseguire biopsie epatiche mirate con ago tranciante.
L’ecocolordoppler ci permette di studiare la vascolarizzazione che in questi casi è principalmente arteriosa.
Tutt’oggi angiografia e RMN sono quasi totalmente sostituiti da Eco e TC.
MARKER TUMORALI  gli esami sierologici di funzionalità epatica non sono specifici. L’unico marker
sierologico attendibile è l’α-fetoproteina, che si trova nel 40-80% dei casi in quantità superiori alla norma. Altri
marker tumorali, come CA19-9 e CEA, non sono presenti nell’epatocarcinoma, mentre i loro valori sierici sono
usualmente elevati nelle metastasi epatiche da carcinoma dell’intestino e nel colangiocarcinoma (per cui devono
essere richiesti se si sospettano metastasi); se si sospetta metastasi da k mammario si richiede il Ca15.3.
TERAPIAla resezione chirurgica rappresenta il trattamento di scelta del carcinoma epatocellulare e la
percentuale di resecabilità alla diagnosi è possibile nel 20-30% dei pazienti.
PROGNOSIDopo resezione radicale il 70% dei pazienti sopravvive ad 1 anno, il 35% a 3 e il 21% a 5. La
mortalità chirurgica è mediamente alta (tra 2 e 30%): i pazienti possono andare incontro a complicanze intra o
post operatorie gravi come sanguinamento, infezioni e insufficienza epatica postoperatoria. Importantissimo è il
follow-up!

CARCINOMA FIBROLAMELLARE

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È una variante del carcinoma epatocellulare con caratteristiche cliniche e istologiche nettamente differenti.
Rappresenta solo l’1% dei carcinomi epatici e insorge su fegati non cirrotici o affetti da HBV. Non c’è
differenza di sesso tra uomini e donne e colpisce per lo più soggetti giovani sotto i 35anni. Macroscopicamente
si presenta come una massa solida unica, ben definita e capsulata, al cui interno sono presenti setti fibrosi
raggiati verso la periferia. Caratteristiche del k fibrolamellare, assenti nel k epatocecellulare, sono la presenza di
fibrosi cospicua e di calcificazioni nel contesto della massa tumorale, rilevate con rx dell’addome. Le cellule
neoplastiche presentano un citoplasma eosinofilo. La sintomatologia clinica è molto sfumata e spesso la
neoplasia raggiunge grosse dimensioni prima della diagnosi. L’α-fetoproteina è elevata solo nel 10% dei casi,
mentre si può riscontrare una elevazione del CEA. Sono presenti calcificazioni intralesionarie date da necrosi
del tessuto. L’aspetto della neoplasia all’ecografia e alla TC non è molto differente da quello dell’epatocellulare,
se non per la presenza di una cicatrice centrale raggiata, simile a quella riscontrabile nella FNH. La neoplasia è
resecabile nel 50-75% dei casi (contro il 20% dell’epatocarcinoma), e la sopravvivenza è di 3-6 anni nei non
operabili, contro i 2-6 mesi dell’epatocellulare ed è superiore anche in quelli resecati.

TUMORI METASTATICI SECONDARI


Sono le lesioni maligne più frequenti nel fegato e rappresentano la più frequente causa di morte di pazienti con
tumore addominale o mammario. Il fegato è l’organo più interessato da metastasi a distanza, se si escludono le
metastasi linfonodali. La sopravvivenza è del 3-5% per i pazienti non trattati, mentre è del 30% per quelli
sottoposti a chirurgia.
L’80% dei tumori nel fegato sono metastatici, quindi prima di pensare a un tumore primitivo del fegato bisogna
pensare a una metastasi di un altro tumore anche se poi non si riesce a scoprire la sede della neoplasia primitiva,
infatti è molto comune trovare metastasi prima ancora di trovare il tumore primitivo e questo ci può
erroneamente portare a diagnosticare come primitiva la metastasi. Nel 50-75% dei casi il fegato è il primo filtro
di metastasi provenienti da neoplasie primitive di organi tributari del circolo portale, quali stomaco, pancreas,
intestino tenue e crasso (il principale), ma anche organi non tributari possono avere la sede preferenziale di
metastasi nel fegato, ad esempio mammella, polmone, testicolo, prostata, ossa…
Frequenti sono le metastasi epatiche di carcinoidi del tubo digerente, che originano per lo più dalle cellule
argentaffini (che precipitano i sali di argento in maniere diretta) o dalle arginofile ( che necessitano, per
precipitare i sali d’argento, di una sostanza riducente), che si possono riscontrare casualmente, ancor prima che
determinino la sindrome da carcinoide.
La diagnosi di metastasi è solitamente semplice perché si tratta si lesioni multiple, più frequentemente
localizzate nell’emifegato destro, che si presentano caratteristicamente come tanti noduli biancastri con necrosi
centrale (ombelicate al centro) sulla capsula glissoniana epatica. La presenza di necrosi centrale è
patognomonica di tumore metastatico.
CLINICAle metastasi epatiche sono di solito completamente asintomatiche e possono dare una sintomatologia
caratteristica di insufficienza epatica solo in uno stadio avanzato. Solo metastasi di grosse dimensioni vengono
apprezzate alla palpazione. Gli indici di funzionalità epatica si modificano in maniera aspecifica a seconda della
quantità di parenchima interessato: aumento dei valori di fosfatasi alcalina, delle gamma GT, e di lattico
deidrogenasi.
Talvolta la diagnosi viene posta occasionalmente durante l’esecuzione di esami strumentali effettuati per altre
ragioni.

TERAPIA DEI CARCINOMI DEL FEGATO


Il trattamento di prima scelta sia per l’epatocarcinoma che per gli altri tumori maligni primitivi del fegato è la
resezione chirurgica totale. Ogni paziente deve essere attentamente valutato, non solo da un punto di vista della
massa (estensione, multicentricità, invasione venosa e biliare, metastasi a distanza), ma soprattutto dal punto di
vista della funzionalità epatica, infatti la maggior parte degli epatocarcinomi insorge su una malattia epatica
cronica, evidente o latente (sono fegati cirrotici), per cui il fegato residuo dopo resezione potrebbe non essere in
grado di attivare la sua riserva funzionale o un proficuo processo di rigenerazione, con conseguente evoluzione
verso uno stato di insufficienza epatica postoperatoria irreversibile. La riserva epatica viene valutata osservando
tutta una serie di parametri, tra cui: fattori della coagulazione, albuminemia, protidemia e poi ovviamente
l’aspetto ecografico.
Poiché il fegato è un organo molto vascolarizzato, per eseguire la resezione è necessario clampare il peduncolo
epatico (vena porta e arteria) per un tempo massimo di 20 minuti, per evitare il rischio di necrosi del parenchima
epatico. Questa manovra è detta manovra di Pringle.
L’intervento chirurgico si avvale quindi di un processo multistep: si sezionano i legamenti, viene posto un laccio
emostatico intorno al peduncolo epatico, si effettua una incisione della glissoniana con bisturi elettrico. Se il
paziente sanguina molto si clampa il peduncolo ricordandoci di declamparlo dopo 20 min (max 22 minuti), si
può mantenerlo pervio per 3 minuti e poi eventualmente si può rieffettuare la manovra.
Successivamente si utilizza un bisturi ad ultrasuoni che consente di tagliare e coagulare contemporaneamente il
tessuto.

129
In alcune scuole asiatiche usano la tecnica di rompere il parenchima epatico semplicemente schiacciandolo fra le
dita (perdita di tantissimo sangue) oppure con delle pinze, successivamente il parenchima viene tagliato con le
forbici.
Come ultimo step le vene maggiori vengono suturate e se necessario vengono usate colle biologiche.
Gli interventi chirurgici possono prevedere: epatectomia destra (vengono asportati i segmenti 5-6-7-8),
epatectomia sinistra (asportati i segmenti 4-3-2-1), epatectomia destra allargata o resezioni cuneiformi o atipiche
quando le lesioni sono bilaterali per cui non si può asportare tutto il fegato.
Nella gran parte dei casi non operabili è possibile effettuare una tecnica di ipertermia con radiofrequenza, che
consiste nella distruzione della neoplasia mediante necrosi coagulativa indotta dal calore prodotto dal passaggio
delle onde elettromagnetiche, emesse da un generatore di radiofrequenze, attraverso la massa tumorale. Questa
metodica può essere eseguita per via percutanea, in laparotomia o per via laparoscopica. L’efficacia, la scarsa
invasività e la bassa percentuale di complicanze, hanno comportato una rapida diffusione di questa metodica in
caso di trattamento primario non radicale o in caso di malattia recidiva, applicabile anche al trattamento delle
metastasi. Possibili complicanze sono:versamento pleurico dx, febbre, dolore, ascessualizzazione, emotorace,
emobilia, emorragia, colecistite o sepsi.
Altre tecniche sono:
- embolizzazione dell’arteria epatica con microsfere biodegradabili che provocano una microembolizzazione
dei piccoli vasi arteriosi intratumorali con conseguente necrosi di estese aree tumorali.
- l’alcolizzazione percutanea, che consiste nella somministrazione, sotto guida ecografica, all’interno della
lesione tumorale, di alcool etilico che determina una necrosi coagulativa. La chemioterapia sistemica o loco
regionale è risultata invece inefficace.
- la crioterapia: consiste nell’inserimento di sonde, in laparotomia, laparoscopia o per via transcutanea, che
veicolano nitrogeno liquido, che determina la formazione di cristalli di ghiaccio e conseguente morte cellulare.
La chemioterapia sistemica o loco regionale non è invece utile nel migliorare la sopravvivenza e la qualità della
vita.
Il carcinoma epatocellulare in passato era una delle indicazioni per il trapianto di fegato, tuttavia le varie
statistiche hanno dimostrato che la sopravvivenza dei pazienti dopo il trapianto è estremamente ridotta: circa il
50% dei pazienti trapiantati presentava una recidiva tumorale a distanza (polmone) o nel fegato trapiantato, ad
un anno dall’intervento.
L’indicazione per il trapianto di fegato si ha negli adulti in presenza di: tumori maligni non resecabili, k
secondari neuroendocrini, tumori benigni con sintomi gravi.
Le indicazioni nei bambini sono invece: epatoblastoma, epatocarcinoma e colangiocarcinoma
Controindicazioni assolute sono: stadio avanzato, alcolismo, tossicodipendenza, AIDS, infezioni sistemiche,
trombosi della vena porta o della vena splenica e mesenterica.

PANCREAS
Il pancreas è una grossa ghiandola posizionata nello spazio retro peritoneale, a livello di T12-L3, composta da
tre parti: testa, corpo e coda. La testa si incunea nella C duodenale, il corpo ha rapporti con lo stomaco e con i
grossi vasi, la coda contrae rapporti con milza e rene sinistro. È circondato da strutture molto mobili, come
intestino e stomaco, per cui può anche aumentare notevolmente di volume senza causare grossi disturbi, e questa
è una delle ragioni per cui è difficile diagnosticare k pancreatico in una fase iniziale.
Si possono distinguere nel contesto del parenchima pancreatico due componenti: una componente esocrina (che
produce gli enzimi digestivi e costituisce l’80-85% del pancreas) e una componente endocrina (rappresenta circa
l’1-2% dell’organo) formata da circa un milione di gruppi cellulari, le isole di Langherans, che secernono
insulina, glucagone, somatostatina e il polipeptide pancreatico. La restante parte del parenchima è costituito da
connettivo, vasi e dotti.
Il dotto principale della ghiandola è il dotto di Wirsung, che sbocca nel duodeno, mentre quello accessorio è il
dotto di Santorini che può sfociare nel Wirsung stesso oppure direttamente nel duodeno, separatamente al dotto
principale.
A causa della sua posizione, profonda e retro peritoneale, quest’organo è difficile da raggiungere sia dal punto
di vista diagnostico che dal punto di vista chirurgico, ma anche per ottenere delle biopsie per via percutanea
senza correre il rischio di perforare un altro viscere: ad esso si può accedere attraverso la cavità degli epiploon
(detta anche borsa omentale, si trova dietro lo stomaco e davanti al pancreas). Per una sua accurata ispezione e
palpazione sono necessarie tre fondamentali manovre chirurgiche, che permettono di vedere testa, corpo e coda
del pancreas:
- manovra di Kocher: dopo aver sezionato il peritoneo si mobilizza la flessura epatica del colon verso il basso
e medialmente. A questo punto si dissociano la C duodenale e la testa del pancreas dalle strutture posteriori: ciò
permette di rene dx, vena renale dx e vena cava sx e, soprattutto, consente di palpare la testa del pancreas.
- sezionamento della parte avascolare del piccolo omento e retrazione verso il basso della piccola curvatura
gastrica: in tal modo è possibile visualizzare la parte superore del corpo pancreatico e il tronco celiaco.

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- retrazione verso il basso e medialmente della convessità splenica, che consente quindi di visualizzare e
eseguire un’accurata palpazione della porzione più distale della ghiandola.
COMPONENTE ESOCRINA. Ogni giorno il pancreas produce 1,5-3 l di un liquido alcalino (ph 8), isosmotico,
ricco di bicarbonati, cationi (Na, K, Mg), anioni (HCO 3, Cl, SO4, HPO4 ) ed enzimi digestivi. Gli enzimi
digestivi si distinguono in: amilolitici (amilasi), lipolitici (lipasi- prodotti esclusivamente dal pancreas, perciò un
loro aumento è significativo di una lesione pancreatica), proteolitici [–Endopeptidasi (tripsina,
chimotripsina),Esopeptidasi (carbossipeptidasi,aminopeptidasi), Elastasi (responsabili della maggior parte dei
danni con le peptidasi)].
La secrezione del succo pancreatico è regolata da diversi stimoli:
- Secretina e Colecistochinina: sono secreti in duodeno-digiuno attraverso la via vagale e, per effetto ormonale,
stimolano la secrezione del succo pancreatico;
- Sali biliari: aumentano la secrezione pancreatica;
- Nitrossido: importante neurotrasmettitore che interviene nella regolazione della secrezione pancreatica
- Somatostatina: inibisce la secrezione [Di Bella in passato promuoveva la somatostatina come fattore per
bloccare la crescita di tumori]. Bloccando la secrezione pancreatica, ma anche riducendo di molto il flusso
splancnico, è un ormone sintetico utilizzato nella profilassi dei danni pre e post operatori del pancreas.
In generale il pancreas esocrino secerne i suoi prodotti come proenzimi inerti (come il tripsinogeno, il
chimotripsinogeno…), sia per prevenire l’auto-digestione, sia per utilizzare gli enzimi in modo efficiente solo
all’interno del lume duodenale. I proenzimi rimangono inattivi fino a quando non raggiungono il lume
duodenale, dove l’enteropeptidasi (un sistema enzimatico localizzato a livello dell’orletto a spazzola) attiva il
tripsinogeno in tripsina, la quale ha un ruolo chiave nel catalizzare il clivaggio degli altri proenzimi producendo
le forme attive. Solo gli enzimi amilasi e lipasi prodotti dal pancreas non necessitano di un’attivazione mediata
dalla tripsina perché vengono secreti direttamente in forma attiva. Nelle pancreatiti o nelle altre lesioni del
pancreas quando gli enzimi vengono liberati nel retro peritoneo, possono causare dei danni notevoli per
digestione delle strutture retro peritoneali.
COMPONENTE ENDOCRINA. Le isole di Langherans son composte da 4 tipi di cellule: le cellule A (alfa)
sintetizzano e secernono glucagone; le cellule B (beta) sintetizzano insulina; le cellule D (delta) producono la
somatostatina e la gastrina; le cellule D1 sono il tipo cellulare più raro e secernono polipeptidi, VIP, PP.

PANCREATITI
Sono patologie caratterizzate da un processo infiammatorio del pancreas. Le manifestazioni cliniche possono
variare da forme di lieve entità, autolimitantisi, a processi infiammatori acuti potenzialmente fatali. Per
definizione nella pancreatite acuta la ghiandola può tornare alla normalità dopo la rimozione della causa
scatenante, al contrario la pancreatite cronica è caratterizzata da distruzione parenchimale irreversibile a carico
del pancreas esocrino.

PANCREATITE ACUTA
E’una malattia infiammatoria dovuta a un processo di auto digestione del parenchima pancreatico innescato da
una prematura fuoriuscita dal sistema duttale di enzimi pancreatici attivati, il che comporta elevazione del
livello degli enzimi sia nel siero che nelle urine (gli esami di laboratorio mostrano un marcato aumento
dell’amilasi sierica nelle prime 24 ore,seguito entro 72-96 ore da un aumento delle concentrazioni sieriche della
lipasi) e determina una più o meno diffusa distruzione della ghiandola. A seconda della gravità delle lesioni la
malattia si presenterà clinicamente in forma lieve o grave. Se è lieve si avrà edema interstiziale e necrosi focale,
se grave si avrà una estesa necrosi parenchimale emorragica.
Questa patologia è relativamente frequente, con un incidenza di 10-20 casi/100 mila abitanti, con maggiore
frequenza negli adulti, tra i 35 e i 55 anni, e la mortalità è del 5% circa.
EZIOLOGIALe cause di pancreatite acuta sono:
- La calcolosi biliare: è di gran lunga la prima causa di pancreatite.
- L’abuso di alcool: è una delle cause principali. Il meccanismo patogenetico sembra correlato alla stimolazione
vagale che l’alcool determina con modificazioni e alterazioni della motilità duttale e della contrattilità dello
sfintere di Oddi; a questo segue un aumento della sintesi di enzimi digestivi, che vanno ad accumularsi
all’interno dei dotti e duttili pancreatici formando dei tappi che vanno poi incontro a calcificazione occludendo
infine il lume.
- L’ipertrigliceridemia è un’altra delle più frequenti cause. È più comune nei bambini che hanno disordini
ereditari del metabolismo delle lipoproteine. Altre cause di natura metabolica son l’obesità, il diabete mellito,
l’ipotiroidismo.
- L’ipercalcemia: l’eccessiva concentrazione di calcio nel succo pancreatico può, da un lato, favorire la sua
precipitazione sotto forma di calcoli intraduttali (con evoluzione in pancreatite cronica), dall’altro, sembra che i
calcio ioni possano attivare precocemente i proenzimi pancreatici.
- Le forme iatrogene: dovute a effetti idiosincrasici o allergiche dei farmaci, oppure la pancreatite può
conseguire a interventi chirurgici recenti, per la possibile insorgenza di edema reattivo peripancreatico che ha
un’azione compressiva e ischemizzante sulla ghiandola.
131
- Le cause genetiche ricordiamo la pancreatite ereditaria (forma autosomica dominante) in cui i soggetti affetti
sviluppano la patologia prima dei 20 anni. Consiste in una alterazione nel braccio lungo del cromosoma 7 che
comporta a sua volta l’alterazione di un gene che dovrebbe inattivare il tripsinogeno per cui la mancata
inattivazione del tripsinogeno (e quindi della tripsina) comporta la malattia.
PATOGENESIi meccanismi che portano all’attivazione degli enzimi pancreatici non sono ancora
completamente chiari, esistono tuttavia prove a favore di tre possibili spiegazioni:
- ostruzione del dotto pancreatico: la presenza di un calcolo o della sabbia biliare nella regione dell’ampolla di
Vater determina l’aumento della pressione duttale intrapancreatica. Il blocco del flusso duttale favorisce
l’accumulo di un fluido interstiziale ricco di enzimi per cui, visto che la lipasi è un enzima secreto in forma
attiva, può determinare una steatonecrosi locale. Inoltre, visto che prima di sbucare nel duodeno il dotto
pancreatico si unisce al dotto biliare comune, si determina anche un reflusso della bile, la cui mescolanza coi
succhi pancreatici determinerebbe l’attivazione di proenzimi che danneggerebbero ulteriormente il pancreas. A
questo punto i tessuti danneggiati, i mio-fibroblasti periacinari e i leucociti rilasciano citochine pro
infiammatorie promuovendo una reazione infiammatoria locale e determinando la comparsa di edema
interstiziale tramite l’aumento della permeabilità dei vasi. Secondo una ipotesi, l’edema comprometterebbe
ulteriormente il flusso ematico locale, causando insufficienza vascolare e un conseguente danno ischemico a
carico delle cellule acinari.
- danno primario alle cellule acinari: soprattutto causati da virus, farmaci o traumi pancreatici, che può
determinare il rilascio dei proenzimi intracellulari e di idrolasi lisosomiali che ne determinano l’attivazione
- alterazione del trasporto intracellulare dei proenzimi: queste alterazioni, di cui non si conosce la causa,
farebbero in modo che i proenzimi pancreatici vengano liberati all’interno di un compartimento intracellulare
contenente idrolasi lisosomiali. Questo evento porta all’attivazione dei proenzimi, la rottura dei lisosomi e il
rilascio locale di enzimi attivati.
CLINICA i segni e i sintomi, nella maggior parte dei casi, sono in relazione alla gravità della malattia.
Il sintomo tipico è il dolore addominale, che si presenta nel 90% dei casi, più frequentemente dopo un pasto
abbondante o dopo l’assunzione abbondante di latte freddo o alcolici. Questo dolore è costante, inizia in
epigastrio e nel 50% dei casi si irradia al dorso, è insensibile agli analgesici, anzi i derivati della morfina,
accentuando il tono dello sfintere di Oddi, lo accentuano, mentre è sensibile ai salicilati. Nei casi di pancreatite
lieve il dolore addominale è modesto, del tutto simile a quello di una gastrite, e può risolversi spontaneamente in
2 o 3 giorni, mentre nelle forme gravi, con necrosi e manifestazioni emorragiche, la sintomatologia è imponente,
simulando un addome acuto chirurgico (perforazione di ulcera gastroduodenale o infarto mesenterico) e perdura
per ore o giorni, spesso accompagnato da grave compromissione delle condizioni generali. Oltre al dolore
addominale possono essere presenti: nausea, vomito (si manifesta sin dall’inizio dell’attacco, con intensità
tanto maggiore quanto più grave è lo stadio evolutivo ed è da prima alimentare e poi biliare. Può portare a
rapida disidratazione con ipovolemia e shock), anoressia, distensione addominale, riduzione della motilità fino
a ileo paralitico, febbre (sempre presente ma in genere non supera i 38°), tachicardia, ipotensione,
disidratazione, oliguria, sino a un quadro di shock. Nel 30% dei casi è presente ittero che, se non è espressione
di calcolo ostruente l’ampolla di Vater, è indicativo di compressione esercitata sul coledoco terminale dalla testa
del pancreas rigonfia per edema o infarcimento emorragico.
La pancreatite può presentarsi non solo con forme iperacute, ma anche attenuate che pongono difficoltà nella
diagnosi.
ESAME OBIETTIVOall’ispezione si possono riscontrare segni caratteristici, come lesioni ecchimotiche, dette
segni di Grey Turner (localizzate in sede peri ombelicale) e di Cullen (nel fianco sinistro), segno di stravaso
ematico retro peritoneale. Alla palpazione si rileva una dolorabilità diffusa, maggiore in sede epigastrica. Se
l’eziologia è alcolica si ha epatosplenomegalia e liquido ascitico. All’auscultazione la peristalsi è lenta o
assente.
MORFOLOGIA la pancreatite acuta, una volta instauratasi, evolve nell’arco di poche ore. La sua evoluzione
passa per alcuni stadi: 1) Stadio iniziale dell’edema, raramente apprezzabile proprio per la rapida evoluzione
della malattia;
2) infarcimento emorragico, a causa della distruzione dei vasi sanguigni; 3) steatonecrosi, rappresenta
l’alterazione istologica più caratteristica, è dovuta alla necrosi del tessuto adiposo intra- e retroperitoneale
causata dagli enzimi lipolitici e si manifesta con lesioni così dette a chiazze di cera; 4) sovrainfezione
batterica.
COMPLICANZE i focolai di necrosi parenchimale e di steatonecrosi di piccole dimensioni regrediscono
spontaneamente, mentre le principali complicanze dei focolai più grandi sono rappresentate da: formazione di
ascessi e psudocisti, raccolta di liquidi infiammatori che si può estendere nella cavità retro peritoneale e
formazione di vaste aree necrotiche, che possono anche essere infette. Complicanze meno frequenti sono invece:
la tetania (per ipocalcemia, conseguente al sequestro di calcio per saponificazione dei grassi), diabete mellito,
emorragie gastrointestinali, ecc..
DIAGNOSIESAMI DI LABORATORIO: Amilasemia: si eleva rapidamente, indice diretto di danno
pancreatico; Lipasi: si elevano più tardivamente; Amilasuria: compare dopo l’innalzamento dell’amilasi sierica;
Calcemia:<8 mg/dl.

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ESAMI STRUMENTALI:Rx diretta addome: fornisce segni indiretti dell’interessamento pancreatico
(distensione gassosa del colon trasverso, talvolta fino alla flessura destra e all’ascendente, mentre il discendente
appare vuoto di gas (segno del “colon escluso”) e segni pleuropolmonari come falde di versamento pleurico nel
seno costofrenico di sinistra e a volte bilateralmente); ECO addome: spesso non utile a causa del meteorismo e
per la posisione retroperitoneale del pancreas, possiamo considerarla come esame di prima istanza soprattutto
perché di rapida esecuzione e perché attuabile al letto del paziente. Il pancreas appare edematoso, con echi
interni disomogenei (per necrosi ed emorragie)e inoltre permette di rilevare la presenza di calcoli; TC: è l’esame
che fornisce maggiori informazioni perché consente di rilevare le variazioni di dimensioni della ghiandola e la
disomogeneità della sua struttura.
TERAPIAnella fase iniziale è di pertinenza medica e si basa sul posizionamento del sondino naso-gastrico
per aspirare le secrezioni gastriche e diminuire la pressione esercitata dallo stomaco sul pancreas. Il paziente
deve rimanere digiuno per almeno 7 giorno e pertanto si ricorre alla nutrizione parenterale totale. Altrettanto
importante è il ripristino dell’equilibrio idroelettrolitico e dell’ipovolemia. In caso di ipocalcemia bisogna
eseguire una somministrazione di calcio e allo scopo di ridurre la secrezione pancreatica si somministra
somatostatina. Poi per il dolore si fa una terapia antalgica.
La terapia chirurgica deve essere eseguita precocemente nel caso di litiasi biliari e consiste in una
colecistectomia. Durante l’intervento in laparotomia, oltre alla colecistectomia può essere eseguito anche un
lavaggio peritoneale tramite posizionamento di tubi di drenaggio, in modo tale da ridurre il rischio di recidive,
una colangiografia intraoperatoria,e a seconda della gravità della malattia, si esegue anche una pancreasectomia
totale o parziale.

PANCREATITE CRONICA
È una patologia infiammatoria persistente, ad andamento progressivo ed irreversibile, contraddistinta da diffusa
atrofia del parenchima esocrino e, negli stadi avanzati, anche di quello endocrino (con diabete). Queste continue
manifestazioni infiammatorie portano infine a una totale sostituzione fibrosa del parenchima ghiandolare. La
malattia è focale (mentre l’acuta è diffusa), irregolare e l’infiammazione è data da infiltrato di cellule
mononucleate con fibrosi della ghiandola. Può rimanere asintomatica per lunghi periodi presentandosi
direttamente con l’insufficienza pancreatica. Gli enzimi pancreatici potrebbero essere alterati ma anche rimanere
nei limiti della norma. Nonostante la pancreatite cronica possa presentarsi con crisi ripetute di pancreatite acuta,
ma c’è una differenza sostanziale tra la forma acuta e la forma cronica: nella cronica c’è un deterioramento
irreversibile della funzione pancreatica. L’incidenza oscilla tra lo 0,04 e il 5%.
EZIOLOGIALa causa più frequente è l’etilismo cronico, altre cause meno comuni sono:
- l’ostruzione cronica del dotto pancreatico da pseudo cisti, calcoli, neoplasie ecc..
- malnutrizione: sembra correlata con la pancreatite tropicale, diffusa in Africa e Asia
- mutazioni genetiche: causano la pancreatite ereditaria
Esistono poi pancreatiti idiopatiche. Proprio seguendo i fattori patogenetici la classificazione più valida
distingue semplicemente pancreatiti alcoliche (80% del totale) e pancreatiti non alcoliche.
PATOGENESIla patogenesi non è ben definita; quattro sono le ipotesi proposte:
- ostruzioni duttali da concrezioni, conseguenti ad aumento della concentrazione proteica nel succo
pancreatico dovuto ad agenti scatenanti come l’alcool, possono portare alla formazione di tappi
- delle tossine (come l’alcool o i suoi derivati) possono esercitare un effetto tossico diretto sulle cellule
acinari, che può portare all’accumulo di lipidi nelle cellule acinari, alla perdita delle cellule
stesse e alla fibrosi parenchimali.
- lo stress ossidativo alcool indotto può generare radicali liberi nelle cellule acinari
- necrosi- fibrosi: si ipotizza che la pancreatite acuta possa innescare una sequenza caratterizzata da
fibrosi perilobulare, distorsione duttale e alterazioni della secrezione pancreatica; Col passare
del tempo ciò può portare alla perdita del parenchima pancreatico e alla fibrosi.
CLINICA i principali sintomi sono: il dolore addominale, che però potrebbe anche essere assente o
comunque molto più lieve rispetto alla pancreatite acuta. La malattia può essere completamente silente fino allo
sviluppo di insufficienza pancreatica e del diabete mellito, quest’ultimo causato dalla concomitante distruzione
delle isole di Langherans. A volte vi si associano nausea e vomito.
Le crisi possono essere scatenate dall’abuso di alcool, da pasti molto abbondanti (che causano un aumento della
richiesta funzionale al pancreas), o dall’uso di oppiacei o altri farmaci che aumentano il tono dello sfintere di
Oddi. L’insufficienza pancreatica si manifesta una volta che è persa il 90% della funzionalità pancreatica
(questo significa che il pancreas presenta una grossa riserva per quanto riguarda la funzionalità).
I segni tipici in questo caso sono: steatorrea (grassi nelle feci) con feci giallastre, untuose, schiumose e
maleodoranti. Si ha minor assorbimento delle vitamine liposolubili: A, B, E, K. Ci può essere anche calo
ponderale e malnutrizione che possono essere dovuti a due ragioni: mangiando il paziente acuisce il dolore
perciò cala l’introito di cibo, oppure il calo degli enzimi digestivi fa si che non si riescano ad assorbire gli
alimenti.
MORFOLOGIA la pancreatite cronica è caratterizzata da fibrosi parenchimale e ingrandimento della
ghiandola, ma a volte, quando l’atrofia è diffusa, la ghiandola ha dimensioni ridotte, per riduzione del numero e

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delle dimensioni degli acini con relativo risparmio delle isole di Langherans. Queste alterazioni in genere sono
accompagnate da un infiltrato infiammatorio cronico che circonda dotti e lobuli. Le isole di Langherans
risparmiate rimangono intrappolate nel tessuto sclerotico e possono fondersi e apparire ingrandite e alla fine
anch’esse scompaiono. Macroscopicamente il pancreas ha una consistenza dura, talvolta con dotti estremamente
dilatati ed evidenti concrezioni calcifiche.
COMPLICANZEla complicanza più frequente è la formazione di pseudo cisti, ma è stata anche dimostrata
una maggiore incidenza di k pancreatico nei pazienti affetti da pancreatite cronica familiare.
DIAGNOSIcome per la pancreatite acuta si basa sull’esecuzione di esami di laboratorio (amilasemia e
amilasuria, indici di funzionalità epatica, glicemia) e strumentali (Rx, TC, ECO ed ERCP che permette di fare,
con elevata accuratezza, la d.d. tra pancreatite cronica, cisti, pseudo cisti e neoplasie).
TERAPIAla pancreatite cronica non è considerata come una malattia di interesse chirurgico, infatti è
importante soprattutto un adeguato supporto nutrizionale e una terapia sostitutiva per il trattamento
dell’insufficienza pancreatica. Gli interventi chirurgici si eseguono soprattutto per la risoluzione di gravi
sindromi dolorose.

PSEUDO CISTI PANCREATICA


È una raccolta contenente succo pancreatico, materiale necrotico e sangue, le cui pareti sono prive di epitelio
proprio, ma sono costituite da materiale fibroso post infiammatorio. Si differenziano dalle cisti vere cge invece
sono provviste di parete epiteliale propria. Più frequentemente si localizzano nel pancreas stesso o nelle sue
vicinanze, ma talvolta anche nella pelvi o nel mediastino. Nella maggior parte dei casi la pseudo cisti è singola e
insorge come complicanza della pancreatite acuta. Qualora ci sia una infezione della raccolta, che normalmente
è sterile, si forma un ascesso. Le pseudo cisti che non sono correlate ad una pancreatite pregressa, si formano
più frequentemente in soggetti alcolisti o in seguito ad un trauma, infatti questi meccanismi patogenetici
possono portare a ostruzione di un dotto pancreatico, con conseguente formazione di una raccolta cistica, che
con il tempo tendo ad ingrandirsi e a perdere il suo rivestimento epteliale.
Clinicamente le pseudo cisti si possono distinguere in acute e croniche: le acute sono quelle che compaiono
precocemente nel corso della malattia e possono risolversi spontaneamente o comunque hanno migliori risultati
dopo intervento chirurgico, le croniche sono solitamente asintomatiche e spesso non correlate ad un episodio di
pancreatite.
Si manifestano con la comparsa di massa palpabile in epigastrio, accompagnata da dolore. Alcuni pazienti
presentano ittero per compressione del coledoco da parte della pseudo cisti.
Complicanze a cui può andare incontro la pseudo cisti sono: suppurazione (porta a comparsa di febbre e
accentuazione della sintomatologia dolorosa), fessurazione (può causare un’ascite pancreatica), rottura (se la
rottura avviene nel cavo peritoneale si genera una peritonite, se avviene nella cavità toracica si genera un
ascesso mediastinico, mentre se si viene a formare una fistola a livello colico, dove è presente la flora batterica,
è necessario chiudere la fistola per evitare la sovra infezione della raccolta) e emorragia intracistica.
La pseudo cisti non deve essere tratta per almeno 6 settimane perché spesso va incontro a risoluzione spontanea,
ma se questo non avviene si può effettuare un drenaggio, una resezione della pseudo cisti o talvolta una
resezione pancreatica.

ASCESSO PANCREATICO
Sono delle formazioni suppurative che si formano per infezioni delle raccolte necrotiche che si formano nella
pancreatite acute. Queste raccolte, normalmente sterili, possono andare incontro a riassorbimento spontaneo,
oppure possono evolvere a formare una pseudo cisti o un ascesso se si infettano.
Queste formazioni, contenenti materiale purulento misto a sangue, possono essere uniche o multiple, se sono
multiple possono fondersi tra di loro, oppure possono rompersi o penetrare nei tessuti circostanti.
Non è ben chiaro il meccanismo di contaminazione di queste raccolte, ma il più probabile sembra essere la
diffusione diretta per via linfatica di batteri provenienti dall’ilelo e dal colon. I batteri più frequentemente
responsabili sono i gram-.
Si manifestano con febbre intermittente, ileo paralitico, dolori addominali diffusi, ipotensione e ipocalcemia,
deterioramento delle condizioni generali. È necessario eseguire un accurato drenaggio, per via laparatomica,
dell’ascesso, perché altrimenti si possono verificare ulteriori complicanze che possono portare a morte.

TUMORI PANCREATICI
NEOPLASIE DELLA COMPONENTE ENDOCRINA
Sono tumori che originano dalle cellule endocrino secernenti appartenenti al sistema APUD. Sono neoplasie
relativamente rare e rappresentano solo l’1-2% dei tumori pancreatici, la loro frequenza è però difficilmente
valutabile, perché molti di questi non si manifestano clinicamente o vengono misconosciuti.
- insulinoma: è quello relativamente più frequente (1/250000), caratterizzato da iperproduzione di insulina da
parte delle cellule B, che risultano staccate da ogni feedback glicemico. Colpisce in tutte le età, senza prevalenza
di sesso, ed è solitamente benigno. Si manifesta con una sintomatologia varia comprendente disturbi maggiori e
minori. I più caratteristici sono: astenia, che si ha al minimo sforzo, tremori alle estremità, vertigini, bisogno
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spasmodico, spesso notturno, di mangiare, instabilità emotiva (spesso questi soggetti vengono trattati come
pazienti psichiatrici per via dei loro comportamenti bizzarri), crisi convulsive similepilettiche, possibili deficit
motori. Temibile è l’insorgenza del coma ipoglicemico, a cui si rimedia con la somministrazione per os di
zuccheri a rapida assimilazione. La diagnosi si fa con la dimostrazione di bassi livelli di glucosio e alti livelli di
insulina. Il dosaggio della proinsulina (insulina + peptide C) è utile per la diagnosi di precisione: normalmente
non supera il 25% del totale, in questi casi si aggira tra il 50 e il 75%.
- vipoma: colpisce soprattutto donne tra 30 e 40 anni. È solitamente maligno (da metastasi in oltre il 50% dei
casi) e localizzato nella coda del pancreas. Il VIP, prodotto da pancreas e duodeno, ha diversi ruoli: stimola la
produzione di acqua ed elettroliti (per es. bicarbonato nel pancreas), favorisce la vasodilatazione e altri. I
sintomi sono quindi correlati a un eccesso di queste funzioni: modificazioni del trasporto idroelettrolitico con
ipersecrezione di acqua nel lume intestinale, inibizione della secrezione gastrica acida, vasodilatazione, aumento
della secrezione di acqua e bicarbonati. Tutto questo causa diarrea profusa, alterazioni elettrolitiche:
l’ipopotassemia può causare aritmie cardiache, crampi muscolari, astenia, dolori addominali diffusi; la
ipomagnesemia concomitante può causare comparsa di turbe psichiche; si può andare poi incontro a acidosi
metabolica e insufficienza renale. L’aspetto del paziente è disidratato e cachettico.
- gastronoma o sdr di Zollnger-Ellison: origina dalle cellule G secernenti gastrina, la quale agisce poi sulle
cellule parietali gastriche favorendo la produzione di HCl. La malattia infatti, che colpisce 1/500000 persone e
ha alta invasività locale al momento della diagnosi, si presenta con sintomi correlati all’iperacidità gastrica:
dispepsia e sanguinamenti episodici del primo tratto gastrointestinale. Talvolta si ha anche diarrea, mentre più
rari sono pirosi e disfagia. I reperti tipici della patologia sono erosioni e ulcere multiple della parete
gastroenterica, con ispessimento e iperplasia delle cellule parietali. La diagnosi la si fa con
esofagogastroduodenoscopia, rx con pasto baritato, ma soprattutto dosaggio della gastrinemia.
- glucagonoma: è un tumore rarissimo, quasi sempre maligno, che origina dalle cellule α, deputate alla
secrezione di glucagone. Clinicamente si manifesta con la sindrome cutaneo-mucosa che comprende: cheilite
angolare (lesioni agli angoli della bocca), distrofie ungueali e degli annessi piliferi, eritema necrotico migrante,
ecc..
Al momento della diagnosi spesso il tumore ha già dato metastasi.
- somatostatinoma: origina dalle cellule ɤ. Nella maggior parte dei casi è maligno e sono presenti già metastasi
epatiche alla diagnosi.

NEOPLASIE DELLA COMPONENTE ESOCRINA


Sono neoplasie epiteliali (rarissimi sono i tumori non epiteliali come sarcomi e linfomi) e rappresentano la
maggior parte dei casi di neoplasie pancreatiche. Le neoplasie epiteliali possono essere di natura cistica o di
natura solida.
Quelli cistici rappresentano l’1% delle neoplasie epiteliali, possono essere benigni (cistoadenomi), che sono la
maggior parte, o maligni (cistoadenocarcinomi) e la comparsa di metastasi si verifica nel 25% dei
casi. Un’exeresi completa consente una sopravvivenza a 5 anni del 70% dei casi.
Le neoplasie solide (k pancreatico) rappresentano invece il 99% dei casi di tumori epiteliali.

IL CARCINOMA PANCREATICO
Comprende un gran numero di tumori, distinti dal punto di vista anatomopatologico a seconda che origino dalle
cellule duttali, da quelle acinose o abbiano origine incerta:
- k ad origine dalle cellule duttali: è la variante più frequente e comprende il k a cellule giganti, il k
adenosquamoso, il microadenocarcinoma, il carcinoma mucinoso, il cistoadenocarcinoma e, soprattutto,
l’adenocarcinoma duttale, che rappresenta il 75% di tutti i casi;
- k ad origine dalle cellule acinari: comprende l’adenocarcinoma acinoso
- k ad istogenesi incerta: blastoma pancreatico, tumore cistico papillare e tumore misto acinoso, papillare e
insulare.
EPIDEMIOLOGIA L’incidenza generale è inferiore a quelle di diverse altre neoplasie, ma l’elevata mortalità
(sopravvivenza a 5 anni inferiore al 5%) lo fa risalire al 5° posto come causa di morte per neoplasia nei paesi
occidentali, sia negli uomini che nelle donne. In Italia la mortalità per carcinoma pancreatico è di 5,2 casi per
100.000 abitanti maschi e di 2,5 per le femmine, è infatti leggermente più prevalente nel sesso maschile e l’80%
dei casi è compreso tra i 60 e gli 80 anni, mentre è raro prima dei 45 anni. È più frequente nei paesi
industrializzati.
FATTORI DI RISCHIO non si conoscono i fattori predisponenti, perciò non è possibile individuare i soggetti
a rischio per il k del pancreas e non è possibile effettuare una prevenzione primaria. L’unico fattore sicuramente
correlato allo sviluppo di carcinoma è il fumo di sigaretta. Possibili correlazioni col suo sviluppo potrebbero
avere:
- la dieta: è favorente un’alimentazione ricca di grassi animali e protettiva una ricca di vegetali e frutta,
- dismetabolismi lipidici,
- la pancreatite cronica (soprattutto quella su base genetico ereditaria),

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- abuso di caffé decaffeinato (l’estrazione della caffeina si avvale del tricloroetilene che è un agente
cancerogeno),
- ambiente di lavoro (tricloroetilene nelle tintorie),
- alterazioni geniche (gene K-Ras e p53).
Non sembra essere invece associato al carcinoma il diabete.
LOCALIZZAZIONE Il K pancreatico si localizza a livello cefalico nel 60-80% dei casi, nel 15% nel corpo e
nel restante 10% nella coda. Questo permette di suddividere i pazienti dal punto di vista chirurgico e clinico
perché presentano dei sintomi differenti.
CLINICAil carcinoma localizzato nella coda e nel corpo rimane silente a lungo e si rende evidente solo
quando di grosse dimensioni. Perdita di peso (nel 100% dei casi), astenia, anoressia, dispepsia, nausea, vomito,
deperimento e dolore insopportabile, localizzato in ipocondrio sinistro e posteriormente (per infiltrazione dei
rami del plesso mesenterico e celiaco) sono sintomi comuni negli stadi avanzati. Nel 7-8% dei casi si può avere
anche ittero, ma soltanto nelle fasi molto avanzate ed è solitamente correlato alla presenza d metastasi multiple.
Se il carcinoma infiltra tutta la ghiandola si può avere insufficienza esocrina con diarrea, steatorrea e creatorrea
(emissione di feci cretacee- biancastre- per eliminazione eccessiva di proteine nelle feci) ed insufficienza
endocrina con diabete.
Il carcinoma localizzato nella testa del pancreas (questa localizzazione è la più frequente, essendo così nel 60-
70% dei casi) oltre a ostruire i dotti pancreatici causando pancreatite cronica ostruttiva, può causare prima una
compressione estrinseca e successivamente un’infiltrazione del coledoco con conseguente insorgenza di ittero
(presente nell’80% dei casi), ragion per cui il tumore con questa localizzazione è diagnosticato più
precocemente, (anche se i vantaggi prognostici sono comunque nulli). Oltre all’ittero il k della testa può causare
compromissione delle condizioni generali del paziente, con calo ponderale, febbricola, dolore addominale (nel
70-80% dei casi- gravativo, continuo o parossistico, in rapporto con i pasti o indipendente da essi, localizzato in
epigastrico, in ipocondrio destro e sinistro o in regione dorso-lombare), nausea, astenia, prurito, colorito
giallastro delle sclere, feci ipo-acoliche e urine ipercromiche. Caratteristico segno del k della testa del pancreas è
il segno di Courvasier-Terrier (distensione della colecisti conseguente al ristagno di bile. L’aumento di volume
della colecisti dà luogo ad una tumefazione palpabile al di sotto del margine costale destro). Altro sintomo
frequente, soprattutto in pazienti anziani, è il diabete, che deve porre il sospetto quando insorge in pazienti con
anamnesi negativa per dismetabolismo glucidico.
I pazienti muoiono solitamente per ittero ostruttivo che causa danno funzionale epatico.
DIAGNOSI la diagnosi si basa, oltre che sul quadro clinico, sugli aspetti bioumorali e radiologici.
I markers neoplastici non sono importantissimi nella diagnosi del K però possono porre il sospetto: ad esempio
il medico deve allarmarsi quando i markers Ca19-9 (l’antigene carboidratico, che aumenta anche in tutti i tumori
gastro-enterici) e CEA (antigene carcinoembrionario) sono molto elevati, in assenza di segni clinici evidenti, in
tal caso è necessario sottoporre immediatamente il paziente ad un esame ecografico.
Per fare diagnosi di k del pancreas infatti è necessario un’indagine con gli esami strumentali: TC, ERCP ed
ecografia.
• ECO: ha un buon potere risolutivo a livello della testa del pancreas, permettendo la visualizzazione
della neoplasia. Utili informazioni si possono ottenere anche con l’eco-
endoscopia che viene eseguita inserendo una sonda duodenale strettamente in
contatto con la testa del pancreas, attraverso la parete della C duodenale.
A differenza dell’ecografia trancutanea l’ecografia transduodenale è un esame più complesso e più
invasivo, che deve essere eseguito in anestesia, perché gli stessi conati del vomito non permetterebbero
uno studio appropriato, ed è eseguito solo in pochi centri.
• TC: permette di osservare la sede della neoformazione tumorale o di una lesione cistica, anche a livello
del corpo e della coda del pancreas, la dilatazione della colecisti, l’irregolarità
dei dotti e la distensione dei dotti intra ed extraepatici, sebbene quest’ultimi si
vedano meglio all’ecografia. L’angio-TC permette di valutare anche
l’infiltrazione neoplastica delle strutture vascolari. La TC ha quindi un potere
diagnostico più elevato rispetto all’ecografia, perché non risente del
meteorismo o dell’obesità, ed è perciò l’indagine di prima scelta.
• ERCP (Colangio-pancreatografia-retrograda-endoscopica): consiste nell’introdurre un
duodenoscopio dalla bocca sino al duodeno, dove sboccano, unite in un unico
dotto, le vie biliari provenienti dal fegato e le vie escretrici del pancreas.
Attraverso una sonda introdotta dentro questo dotto, viene iniettata una
sostanza opaca ai raggi X che, refluendo a ritroso lungo le vie biliari e le vie
escretrici pancreatiche, ne consente la visualizzazione radiografica, in modo
tale da osservare l’eventuale presenza di irregolarità. Questa tecnica è utile
sia da un punto di vista diagnostico che terapeutico: per quanto concerne la
diagnosi infatti oltre ad opacizzare i dotti è possibile effettuare un brushing
delle vie biliari, utile per valutare l’eventuale presenza di cellule
neoplastiche; da un punto di vista terapeutico è utile perché attraverso esso è

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possibile inserire, all’interno della via biliare stessa, dei cateteri a palloncino
che hanno il compito di dilatare il dotto biliare prima di posizionare un’endo-
protesi, favorendo il flusso della bile e riducendo l’ittero. È importante
ridurre l’ittero in un paziente con k del pancreas perché se il tumore è
inoperabile gran parte dei sintomi legati all’ittero si risolvono o perché, se il
tumore è operabile, è stato dimostrato che riducendo l’ittero il paziente
giunge in sala operatoria in condizioni metaboliche migliori, quindi con una
maggiore possibilità di sopravvivenza, visto che l’ittero causa gravi
alterazione della funzionalità epatica. Le protesi che possono essere
posizionate sono 3: endoprotesi in plastica, endoprotesi a pig tail (a coda di
maiale), stent auto espandibili (utilizzati anche nel k del colon). Dopo il
posizionamento degli stent la bilirubinemia si dimezza nel giro di 24-48h per
cui si ha un importantissimo beneficio per i pazienti.
STADIAZIONEla più importante è quella TNM:
I tumori in stadio I e II sono tumori resecabili
I tumori in stadio III sono tumori resecabili ma senza criteri di radicalità (cioè senza poter essere certi di
andare verso l’assenza, micro e macroscopica, di tumore residuo.
Stadio IV: Tumore incurabile, non resecabile.
Quindi solo I e II stadio di neoplasia sono operabili e la radicalità si può ottenere solo nel 5-10% dei tumori. Ciò
significa che, al momento della diagnosi, oltre il 90% dei pazienti ha già un tumore inoperabile (stadio IV).
TERAPIA è esclusivamente chirurgica. La complessità della vascolarizzazione, i suoi stretti rapporti con il
duodeno e la vicinanza alla milza fanno si che la chirurgia pancreatica sia una chirurgia complessa.
Gli interventi che si possono effettuare in presenza di uno stadio I e II sono:
- duodenocefalopancreasectomia, definito anche chirurgia di Wipple: eseguito in presenza di un k della testa
del pancreas. Consiste nell’asportazione della colecisti, della via biliare principale, della testa del duodeno e
della C duodenale insieme, del terzo distale dello stomaco e del maggior numero di linfonodi. Alla fine
dell’intervento è necessario realizzare 3 anastomosi: un’ansa deve essere abboccata allo stomaco (anastomosi
digestiva), un’ansa deve essere abboccata alla via biliare principale e una al corpo duodenale in modo che il
succo pancreatico e il contenuto gastrico finisca nell’intestino. Di queste anastomosi quella a maggiore stabilità
è quella gastro intestinale (che è la stessa che si fa nei K dello stomaco), invece quella a minor resistenza è la
sutura pancreatica, perché gli enzimi pancreatici riescono a digerire i fili della sutura per cui spesso questi
pazienti hanno una deiscenza parziale della sutura, con conseguente fistolizzazione che può portare anche a
morte il paziente. È gestita con drenaggi in maniera eccellente.
- pancreasectomia totale: si asporta tutto il pancreas, con conseguenze metaboliche come diabete e
malassorbimento. Usata in corso di carcinomi multicentrici. Alla fine dell’intervento bisogna eseguire solo
un’anastomosi gastro-duodenale.
- splenopancreasectomia distale, definito anche pancreasectomia sinistra. Viene eseguito in presenza di tumori
del corpo e della coda del pancreas. Consiste nell’asportazione del tumore, della milza e dei linfonodi splenici. È
un intervento più semplice e con minori complicanze postoperatorie. Spesso anche i tumori operabili hanno
infiltrazione della lamina posteriore del pancreas che li condanna nel giro di pochi anni al rischio di metastasi.
Nel caso degli stadi III e IV si può agire con:
- interventi palliativi di derivazione bilio-digestiva, allo scopo di salvaguardare il transito alimentare e biliare
- posizionamento di drenaggi percutanei o stent per il controllo dell’ittero
- analgesia peridurale per controllo del dolore
Controindicazioni assolute all’intervento radicale: interessamento di tripode celiaco e arteria mesenterica
superiore.
Controindicazioni relative sono: metastasi e infiltrazione delle vene porta e mesenterica superiore. Se la
metastasi è unica si può tentare di resecarla, se sono infiltrate vena porta e mesenterica superiore si possono
resecare e sostituire.
EVOLUZIONE e METASTASIIl tumore del pancreas diffonde soprattutto localmente, tramite via
endocanalicolare, per cui tende ad invadere il pancreas stesso e ad accrescersi sempre di più. Dopodiché, per
contiguità, invade le strutture adiacenti, soprattutto la via biliare, ma anche il duodeno, lo stomaco (che è posto
davanti), il mesentere, il colon trasverso e poi anche peduncolo epatico, milza, v. splenica, v. porta, v.
mesenteriche, plesso celiaco. Metastasi a distanza si possono avere a fegato, polmoni e peritoneo: la
carcinomatosi peritoneale rappresenta una controindicazione all’intervento. linfonodi interessati sono: quelli del
tripode celiaco, i retro pilorici, dell’ileo splenico e quelli pancreatico-duodenali e pancreatico-lienale. Il k della
testa del pancreas, per via ematica, metastatizza prevalentemente al fegato. Il k del corpo e della coda
metastatizzano per via ematica invece soprattutto al polmone, ma anche al fegato e alle ossa. L’interessamento
della vena e dell’arteria mesenterica superiore e della vena porta sono abbastanza frequenti, ed è evidente che
saranno infiltrate prima le vene delle arterie perché hanno una parete molto più delicata.
SOPRAVVIVENZA L’unico trattamento potenzialmente curativo è, come detto, la resezione chirurgica. La
sopravvivenza a 5 anni nei pazienti operati con intento radicale è del 15-25% dei casi (alla diagnosi solo il 10%

137
è al I stadio), la sopravvivenza dei pazienti non operati a 5 anni è del 2% e la sopravvivenza media di 9 mesi. La
mortalità peri-peratoria è passata negli ultimi anni dal 20% al 3%, grazie alle migliori tecniche chirurgiche e
soprattutto grazie ai migliori controlli post chirurgici, perché frequentemente questi pazienti tendono ad
evolvere verso una fistole pancreatica.

TUMORI CISTICI
Si presentano clinicamente con sintomi del tutto simili a quelli del k pancreatico: dolore addominale, ittero da
compressione del coledoco, tumefazione palpabile.
- cistoadenomi: possono essere classificati in micro cistici, o cistoadenomi sierosi, e macrocistici, o
cistoadenomi mucinosi. I tumori micro cistici sono lesioni cistiche multiloculari, capsulate e di dimensioni
ridotte. Sono rivestite da tessuto epiteliale piatto o cubico, disposto in un unico strato e privo di potenzialità
maligna. Il trattamento consiste nella enucleazione o nella resezione pancreatiche; nei casi inn cui l’intervento è
sconsigliato, queste lesioni possono essere lasciate in situ, visto che le complicanze, come la rottura, sono molto
rare.
I tumori macrocistici, più frequenti nel sesso femminile, sono lesioni uniloculari o multiloculari, hanno
dimensioni maggiori e sono rivestiti da una parete con multiple vegetazioni che sporgono nel lume cistico.
L’epitelio che riveste la cavità è composto da cellule globose, ricche di muco, intercalate a cellule cilindriche.
La maggior parte dei cistoadenomi mucinosi evolve in cistoadenocarcinoma, perciò è d’obbligo la l’escissione.
- cistoadenocarcinomi: sono l’evoluzione di un cistoadenoma mucinoso all’interno del quale si riscontrano
aree di degenerazione neoplastica. Al momento della diagnosi hanno solitamente dimensioni di 10-20 cm e
l’exeresi completa porta ad una sopravvivenza di 5 anni.

MILZA
La milza è un organo alloggiato nell’ipocondrio sinistro, lateralmente allo stomaco, fissato al diaframma
superiormente e lateralmente. Ha una consistenza fragile e facilmente si lacera sotto la pressione delle dita e di
modesti traumi addominali o toracici. È rivestita in superficie da due tonache: una esterna, detta tonaca sierosa
(corrispondente l peritoneo) e una interna, detta capsula o tonaca albuginea, dalla cui superficie interna si
dipartono numerose trabecole che costituiscono l’impalcatura di sostegno della milza. Il parenchima è formato
da una sostanza di colore rosso vinoso e di consistenza molle, detta polpa rossa, in seno alla quale si trovano
numerosi corpuscoli rotondeggianti di colore bianco-grigiastro, chimati noduli linfatici lienali, o corpuscoli del
Malpighi, che nell’insieme formano la polpa bianca.

TRAUMI
La milza è l’organo più frequentemente leso nei traumi toraco-addominali, sebbene sia situato in sede profonda
e sia relativamente ben protetto dalle ultime coste dell’emitorace sinistro. I traumi splenici possono essere diretti
o indiretti, in quest’ultimo caso sono dovuti a stiramento violento del peduncolo o dei legamenti.
La vulnerabilità della milza è determinata dalla sua fragilità, dalla sua ricca vascolarizzazione e dalla
connessione ai vari legamenti che le trasmettono le sollecitazioni provenienti da altri organi e dalla presenza di
un lungo peduncolo vascolare (arteria e vena lienale). Le lesioni spleniche possono essere non solo traumatiche
ma anche iatrogene o spontanee.
Le cause più comuni di lesioni traumatiche sono gli incdenti stradali, seguono con minor frequenza gli incidenti
sul lavoro e quindi quelli sportivi, domestici e bellici. Le cause più comuni di lesioni iatrogene sono gli
interventi chirurgici dell’addome superiore, più spesso per azione diretta di divaricatori o retrattori sull’organo.
Le lesioni traumatiche spontanee avvengono invece in presenza di condizioni patologiche che le possono
favorire: splenomegalie, mononucleosi infettiva, leucemia, linfomi.
La mortalità per rottura splenica è elevata (10-20%) quando è associata a lesione di altri organi, mentre è solo
del 4% quando è limitata solo alla milza. Tutti i traumi della milza, indipendentemente dall’origine, necessitano
nella maggior parte dei casi di un intervento di splenectomia.

TUMORI
Si distinguono in primitivi e metastatici. I tumori metastatici a livello splenico sono rarissimi e nella maggior
parte dei casi si tratta di metastasi da carcinomi polmonari (microcitomi), ovarici, mammari e melanomi. I
tumori primitivi si possono invece suddividere in benigni e maligni: tra i tumori benigni ricordiamo gli
amartomi, gli emangiomi, i linfangiomi, i lipomi, i fibromi e i condromi, mentre tra i tumori maligni ci sono i
linfomi e gli angiosarcomi.
Gli amartomi sono tumori benigni a carico della polpa rossa, di natura disontogenetica (cioè che insorgono
durante lo sviluppo embrionale), che possono presentare una struttura abbastanza simile alla milza. Possono
essere singoli o miltipli e le dimensioni sono variabili, potendo anche raggiungere dimensioni e peso cospicui.

138
Gli emangiomi si manifestano come lesioni vascolari di aspetto cavernoso o raramente ad aspetto capillare, che
possono raggiungere anche dimensioni cospicue. Si riscontrano a tutte le età. Raramente sono multipli, sono più
frequentemente localizzati in sede sottocapsulare, pertanto presentano il rischio di rottura anche spontanea con
emoperitoneo.
I linfangiomi sono rari, possono essere cistici o solidi, sono generalmente sottocapsulari e colpiscono più
frequentemente l’età infantile.
I fibromi e i condromi sono anch’esse neoplasie rare. Talora sono l’espressione di una risposta dell’organo a
lesioni vascolari, avendo quindi più un significato ripartivo che neoplastico.
I linfomi primitivi della milza sono rari, mentre più frequente è il coinvolgimento della milza in corso di malattie
linfoproliferative. Sono più frequenti nell’adulto maschio, con età madia di 60 anni. Si possono distinguere due
forme: la miliari forme, caratterizzata da noduli piccoli e distribuiti su tutta la milza, e multi nodulare,
caratterizzata da noduli di maggiori dimensioni con distribuzione casuale.
L’angiosarcoma è un tumore primitivo maligno molto raro, generalmente a rapido accrescimento, con tendenza
alla rottura e alla diffusione metastatica precoce, soprattutto al polmone.
La splenectomia è la terapia d’elezione di ogni neoformazione splenica.
CISTI SPLENICHE
Così come i tumori, sono molto rare:
- cisti parassitarie: rappresentate quasi esclusivamente dalle cisti da echinococco
- cisti non parassitarie: si distinguono a loro volta in cisti vere (o primarie), dotate di parete propria epiteliale e
in pseudo cisti, sprovviste di parete propria epiteliale.
Le pseudo cisti sono le più frequenti e sono probabilmente dovute a colliquazione di vecchi ematomi post-
traumatici intraparenchimali, di aree infartuali o di ascessi splenici. Le cisti vere sono eccezionali e
comprendono: le cisti epidermoidi, gli emangiomi e i linfangiomi.
Le neoformazioni cistiche sono generalmente asintomatici o possono manifestarsi con una sintomatologia vaga,
legata ad effetti meccanici.

SURRENE
La ghiandole surrenaliche sono ghiandole endocrine di forma piramidale, presenti bilateralmente a destra e a
sinistra. Sono costituite da una zona più esterna (zona corticale), che produce aldosterone, cortisolo e ormoni
sessuali e da una più interna (zona midollare), che invece produce adrenalina e noradrenalina.
Alterazioni della funzionalità del surrene si possono avere sia nel caso in cui funzionino troppo o troppo poco:
• Ipofunzione corticale
Si va incontro ad una condizione, detta sindrome di Addison, in cui vi è una riduzione della produzione di
cortisolo, aldosterone e deidroepiandrosterone (precursore degli androgeni), tutti ormoni che devono quindi
essere dosati quando si sospetta la diagnosi. I pazienti con questo quadro hanno un parenchima in gran parte
distrutto, cosa che avviene nel’80% dei casi per l’azione di autoanticorpi (mentre sono più rare cause quali la
disseminazione ematica tubercolare, le metastasi – soprattutto da polmone e melanoma -, gli episodi emorragici
acuti in seguito a chirurgia o a terapia anticoagulante, la trombosi della vena surrenalica, i processi
granulomatosi ), mentre rarissima è l’evenienza in cui il quadro clinico si presenta come conseguenza di
un’ipoplasia surrenalica congenita o una resistenza all’ACTH o ai glicocorticoidi. Dal punto di vista clinico
l’insorgenza si ha quando il parenchima è distrutto per più del 90% (solo quando si verifica una rapida
distruzione della ghiandola, come in caso di emorragie o infarti bilaterali, insorge l'insufficienza
corticosurrenalica acuta - crisi addisoniana - che è in genere drammatica manifestandosi con nausea vomito,
diarrea, dolori epigastrici e anoressia, talora febbre, astenia e grave prostrazione a cui subentra una grave
ipotensione che può portare a perdita di coscienza, shock ipovolemico, coma e, se non vi è un intervento
immediato, morte). Il quadro clinico presenta sintomi dovuti alla carenza di glicocorticoidi (astenia, debolezza
muscolare, nausea, vomito e calo ponderale e ipoglicemia soprattutto nel bambino) e a quella di
mineralcorticoidi (ipotensione, iperkaliemia, iponatriemia e disidratazione). Il deficit di androgeni nell'uomo da
grossi segni a parte una possibile calo della libido, nella donna si possono invece avere alterazioni del ciclo
sessuale e perdita dei peli ascellari e pubici. Vi è inoltre iperpigmentazione cutanea soprattutto nelle aree
esposte al sole o a pressione (mani, viso, ginocchia, ascelle, gomiti), ma anche a livello delle mucose (da questo
ce ne accorgiamo nei neri), del letto ungueale, dei capezzoli e delle aree perianali e perivaginali.
L'iperpigmentazione è dovuta alla mancanza di feedback negativo sull'ACTH che in realtà è secreto sotto forma
di propiomelanocortina (POMC) in associazione con l'ormone melanocita stimolante. Nei pazienti con la forma
autoimmune si possono riscontrare vitiligine e alopecia oltre alle altre patologie autoimmuni sopra citate. La
diagnosi si fa dosando gli ormoni prodotti dal surrene, che saranno ridotti, e l’ACTH, che sarà invece molto
aumentato per la mancanza del feedback sull’ipofisi. Ciò non è vero se la causa è di origine centrale: nel tal caso
ci sarà la positività allo stimolo con ACTH, cioè quegli ormoni innalzeranno i loro valori se viene somministrato
ACTH. La terapia si fa somministrando corticosteroidi e NaCl isotonico.
• Iperfunzione corticale totale

139
Si manifesta con la sindrome di Cushing, situazione caratterizzata da iperfunzione corticosurrenalica,
soprattutto con prevalenza di glucocorticoidi. Può essere determinata da iperplasia diffusa o nodulare, adenoma
o, raramente, carcinoma surrenalico. Rari ma possibili sono anche i casi di ipercortsolismo per produzione
ectopica di cortisolo o ACTH. Infine la causa può essere centrale, con iperpdoruzione di ACTH da parte
dell’ipofisi. Si manifesta clinicamente con obesità addominale, cui consegue spesso iperglicemia, per resistenza
periferica all’insulina, e glicosuria, arti sottili, faccia lunare, presenza di smagliature rosse sull’addome,
ipertensione arteriosa e astenia. La diagnosi si fa con il dosaggio degli ormoni, che risulteranno notevolmente
aumentati, stimolazione con desametasone e con ACTH (da cui sono completamente slegati). Infine si fa un
ECO addome che mostrerà la presenza di un surrene aumentato di dimensioni. Meglio ancora TC e RM. La
terapia varia seconda delle cause
Cause di interesse chirurgico.
-L’iperplasia, che può essere congenita o acuisita, è solitamente bilaterale, con entrambi i surreni aumentati di
peso e ingranditi. L’ipertrofia interessa soprattutto la zona fascicolata (zona intermedia producente
glucocorticoidi) ed è diffusa, ma può anche essere multi nodulare e interessare altri distretti. Caratteristica è la
situazione congenita con deficit enzimatico che può riguardare vari enzimi ma nel 95% dei casi interessa la 21
idrossilasi. Esso è responsabile della sindrome adrenogenitale, importante causa di pseudoermafroditismi che si
caratterizza per la presenza di segni di virilizzazione dei genitali esterni, oppure con forme più attenuate, che
non causano pseudoermafroditismo ma solo un isolato irsutismo alla nascita o alla pubertà. Il deficit di 21
idrossilasi causa iperandrogenismo in questo modo: la riduzione della sintesi di glucocorticoidi dovuta al deficit
enzimatico, determina aumento della produzione di ACTH che, a sua volta, causa ipersecrezione di 17 idrossi
progesterone, precursore degli androgeni surrenalici; in pratica tutti gli intermedi vengono trasferiti sulla linea
androgenetica.
-L’adenoma surrenale è un tumore benigno, molto più frequente del carcinoma, che si presenta come una massa
producente ormoni delle dimensioni di 2-3 cm, ben capsulata e vascolarizzata, di solito monolaterale. Colpisce
solitamente dai 30 ai 50 anni. Iperproduce glucocorticoidi, più raramente mineralcorticoidi ed estrogeni, e si
manifesta con la sindrome di Cushing con segni di virilizzazione (molto comuni) e segni comuni della presenza
di neoplasia: dolori addominali, dimagrimento e linfoadenomegalia. Spesso questi adenomi non si manifestano
clinicamente. La terapia consiste nella surrenectomia; se però non ci sono sintomi non deve essere fatto nessun
trattamento.
-carcinoma surrenale: quello primitivo è rarissimo (1/1 milione), mentre nella maggior parte dei casi il tumore
maligno è dovuto a metastasi di k polmonari e melanomi.
• Iperfunzione corticale parziale (iperaldosteronismo)
Può essere dovuta a una produzione aumentata ed autonoma di aldosterone (primitivo) oppure dalla
iperstimolazione da parte della angiotensina II (secondario).
Iperaldosteronismo primitivo: si riscontra in circa il 2% dei pazienti ipertesi, compare soprattutto nella 3 a-5a
decade. Esso è conseguente ad adenoma monolaterale (sindrome di Conn), a carcinoma o a iperplasia bilaterale
micro o macronodulare; le cause più comuni sono l'adenoma e l'iperplasia, interessanti la zona fascicolare della
corteccia. L'eccesso di aldosterone causa riassorbimento di Na + a livello del tubulo renale distale che diventa
quindi più elettronegativo con passaggio nelle urine di H + e K+ con conseguente ipokaliemia e alcalosi.
All'aumento del riassorbimento di sodio corrisponde anche un aumento del volume idrico extracellulare che
inibisce la secrezione di renina che può consentire, inizialmente un escape dall'azione dei mineralcorticoidi. La
persistenza dell'iperaldosteronismo causa ipertensione per aumento del volume circolante e vasocostrizione
periferica. Questo quadro è più marcato nell'adenoma e meno nell'iperplasia e nell'iperaldosteronismo legato
all'ACTH che è sopprimibile con glicocorticoidi, questa è un'affezione genetica in cui l'aldosterone sintetasi è
espresso a livello della zona fascicolata che è controllata dall'ACTH. I pazienti si presentano quindi con più o
meno grave ipertensione e ipokaliemia. I sintomi principali sono cefalea, debolezza, parestesie, crampi e se
l'ipokaliemia è particolarmente marcata anche paralisi flaccida, poliuria e nicturia. L'ipertensione severa può
condurre a cardiomegalia, ipertrofia ventricolare sinistra, aritmie e retinopatia. La diagnosi si basa sulla
dimostrazione della ipertensione, ipokaliemia e iperaldosteronismo. Infine si dimostra la presenza della massa
(ECO, TC e RM). La terapia dell'adenoma è la surrenectomia monolaterale dopo aver normalizzato la kaliemia
e l'ipertensione. In caso di iperplasia bilaterale la terapia di prima scelta è quella medica con spironolattone, che
normalizza la kaliemia, e i bloccanti dei canali del calcio che riducono la pressione e riducono il rilascio di
aldosterone.
Iperaldosteronismo secondario: è dovuto a stimolazione della zona glomerulare da parte di fattori
extrasurrenalici, può essere di due tipi: 1) associato ad ipertensione arteriosa: ipertensione nefrovascolare e
ipertensione maligna; 2) non associato a ipertensione arteriosa: si per aumento dell'aldosterone in seguito a
ipovolemia o a tubulopatie renali, diarrea o vomito protratti e abuso di diuretici. Tipica è la sindrome di Bartter
causata da iperplasia delle cellule dell'apparato iuxtaglomerulare e insensibilità dei vasi all'angiotensina II.
• Iperfunzione midollare
La causa principale è il feocromocitoma, una neoformazione a partenza dalle cellule cromaffini che secernono
catecolamine. Nell’80% dei casi è monolaterale, nel 10% bilaterale. Più frequentemente origina dalla midollare
del surrene, ma si può sviluppare anche in sede extrasurrenalica, a livello dei paragangli (per questo motivo

140
vengono anche definiti paragangliomi). Se ne distinguono 2 forme: sporadica (90%), in tal caso si presenta
come una neoplasia unica, o familiare (10% ) con neoplasie multiple e piccole che si sviluppano soprattutto nei
giovani di età di 20 anni, in sede extra surrenalica. In genere il tumore è piccolo, non raggiungendo i 10 cm.
Spesso si riscontra in una MEN.
La sintomatologia, grave, e talora mortale, è legata all’eccessiva produzione di catecolamine (adrenalina,
noradrenalina, dopamina e altre sostanze) che causano: l’ipertensione improvvisa e ingravescente (arriva fino a
240 mmHg), associata a cefalea, palpitazioni, pallore ed estremità fredde, ansietà, sudorazione profusa, talvolta
anche nausea e vomito. L’ipertensione invece manca quando il tumore secerne prevalentemente dopamina. La
sintomatologia descritta può essere persistente se l’adenoma secerne di continuo elevate quantità di
catecolammine, oppure parossistico se ci sono intervalli di mancata secrezione. Complicanze sono la retinopatia
e la nefropatia su base ipertensiva, miocarditi, cardiopatia ischemica, aritmie e insufficienza renale; va ricordato
che in gravidanza da grave rischio di vita sia per la madre che per il feto.
La diagnosi si effettua attraverso il dosaggio delle catecolamine e dei loro metaboliti (metanefrine e
acidovanilmandelico) nelle urine, il dosaggio delle catecolamine plasmatiche, test di soppressione (alla
clonidina, alla fentolamina o alla prazosina) e test di stimolazione (raramente eseguiti perché pericolosi). Per
localizzare esattamente il tumore si usano la TC e la RM, meglio quest'ultima perché il mezzo di contrasto della
TC può dare crisi ipertensiva; esiste anche la scintigrafia surrenalica con MIBG che viene captato dalle cellule
cromaffini. Il trattamento è quindi chirurgico anche se risulta molto importante la terapia medica che prima
dell'operazione ha lo scopo di controllare i sintomi e ridurre la pressione arteriosa mentre dopo.
Altro tumore che può originare a livello della midollare surrenalica è il neuroblastoma, tipico dei bambini e
originante dalle cellule della cresta neurale. La maggior parte dei casi sono sporadici ma esistono forme
familiari autosomiche dominanti con interessamento surrenale bilaterale o extrasurrenale multiplo. Se ne
conoscono 3 forme: ganglioneuroma (benigno, anche se può presentare al so interno foci di neuroblastoma),
ganglioneuroblastoma (intermedio), neuroblastoma propriamente detto (altamente maligno, con prognosi
infausta in più del 50% dei casi). È di solito presente alla nascita ma da segno di se intorno ai 2-3 anni. È quasi
sempre asintomatico o si presenta con sintomi aspecifici come febbricola, malessere, anemia, e dolore osseo,
oppure con sintomi più specifici, dipendenti dalla localizzazione e al loro effetto meccanico sugli altri organi.

MEN
Con questo acronimo si intendono le neoplasie endocrine multiple, situazioni in cui si trova in uno stesso
paziente l’associazione di più neoplasie endocrine.
MEN1
La Neoplasia Endocrina multipla di tipo 1 (MEN) è una patologia sporadica, ma più frequentemente familiare,
che interessa più ghiandole endocrine: paratiroidi, pancreas e ipofisi anteriore. La trasmissione ereditaria è di
tipo autosomico dominante. E' anche indicata come adenomatosi endocrina multipla familiare o sindrome di
Wermer.
La MEN 1 è un disordine piuttosto raro, con una prevalenza di circa 3-20/100.000 individui. Le ghiandole
endocrine interessate diventano iperattive aumentando la concentrazione degli ormoni normalmente prodotti.
Inoltre, è comune per soggetti affetti da tale sindrome, avere più di una ghiandola endocrina iperfunzionante allo
stesso tempo, con conseguenti complicanze che possono variare molto da un individuo ad un altro.
MEN2
La Neoplasia Endocrina Multipla di tipo 2 (MEN 2) è un disordine ereditario che induce la formazione di
neoplasie in alcune ghiandole endocrine, la tiroide, le ghiandole surrenali e le paratiroidi, con carcinoma
midollare della tiroide (CMT), feocromocitomi (FEO) e adenomi delle paratiroidi. Questa malattia genetica è
abbastanza rara e si presenta con una prevalenza di 10 persone ogni 100.000. La trasmissione ereditaria è di tipo
autosomico dominante. Le alterazioni patologiche di una ghiandola endocrina possono portare
fondamentalmente a 2 diversi tipi di manifestazione clinica: sindromi legate alla presenza della massa tumorale
di per sé, sindromi da eccesso di produzione ormonale. Spesso questi disturbi sono fra loro combinati (massa
tumorale di una ghiandola endocrina con iperincrezione ormonale). Nella MEN 2 la presenza di iperfunzione
contemporanea di più ghiandole endocrine può rendere complicata (ma tipica) la sindrome clinica risultante. La
malattia comunque non colpisce altre parti del corpo oltre le 3 ghiandole descritte e un individuo affetto da
questo disordine genetico è normale da ogni altro punto di vista.
Classificazione dei fenotipi MEN 2 
MEN2A: famiglie con CMT, FEO e/o iperparatiroidismo
MEN2A (1): famiglie con CMT, FEO e/o iperparatiroidismo
MEN2A (2): famiglie con CMT, FEO in almeno 1 individuo ma evidenze cliniche per l'assenza di FEO in tutti
gli affetti e gli individui a rischio
MEN2A (3): famiglie con CMT, FEO in almeno 1 individuo ma evidenze cliniche per l'assenza di FEO in tutti
gli affetti e gli individui a rischio
MEN2B: famiglie con CMT, FEO con anomalie cliniche (habitus marfanoide, neuromi mucosi e altro),
solitamente senza iperparatiroidismo.
141
FMTC: famiglie con almeno 4 affetti ed evidenze cliniche per l'assenza di FEO e ipertiroidismo in tutti i
soggetti a rischio.

CHIRURGIA VASCOLARE
TROMBOSI VENOSA PROFONDA (TVP)
Le trombosi delle vene degli arti sono classificate in superficiali e profonde, a seconda che vengano interessati i
sistemi venosi superficiali (più frequenti negli arti inferiori), oppure il sistema venoso profondo (localizzato al di
sotto delle fasce muscolari), oppure ancora le vene addominali quali le iliache, le ipogastriche o la stessa cava.
Il termine tromboflebite, spesso usato come sinonimo di trombosi venosa, è invece una sua particolare forma,
causata da un agente eziologico flogistico o settico.
La trombosi venosa profonda è una patologia vascolare assai diffusa, caratterizzata dalla coagulazione
intravasale di segmenti venosi profondi con conseguente formazione di un trombo. Questo trombo può essere a
sua volta occludente, oppure parzialmente occludente, oppure flottante, e perciò essere causa di mortalità (per
embolia polmonare, nel caso di trombi flottanti) e invalidità (per sindrome postflebitica).
Le trombosi possono interessare qualsiasi distretto del circolo venoso profondo ma soprattutto si localizza agli
arti inferiori. Se avvengono nel distretto tibio-surale vengono dette distali, mentre se sono a livello degli assi
popliteo-femoro-iliaci sono definite prossimali. Più è prossimale la sede e maggiore è il rischio di embolia
polmonare. La TVP colpisce più l’arto inferiore sinistro. In particolare molto colpite sono le vene gemellari e
poplitee.
EPIDEMIOLOGIA i dati sulla diffusione della TVP sono molto variabili e dipendenti dal test diagnostico
utilizzato, dalla popolazione studiata e dall’applicazione della profilassi antibiotica. Si calcola comunque che i
casi siano circa 1 ogni 1000 abitanti, con una leggerissima prevalenza nei maschi, e che la prevalenza della
embolia polmonare (EP), sua complicanza più grave, si aggiri intorno ai 0,5 casi su 1000 abitanti: ciò significa
che circa il 50% dei pazienti con TVP, soprattutto se prossimale, embolizzerebbe, anche se solo l’il2% di questi
manifesta sintomi e solo l’1% muore (ciò significa che i trombi sono piccolissimi nella maggior parte dei casi).
PATOGENESI non è ben nota ma sembra che, affinchè si possa sviluppare una TVP, sia necessaria la
presenza di tre difetti (sebbene talvolta sia sufficiente uno solo di questi per determinarla), che prendono il nome
di triade di Wirchow:
1. alterazioni endoteliali;
2. alterazioni del flusso ematico: stasi;
3. ipercoagulabilità:
Il trombo ha origine per lo più nelle tasche valvolari, dove il flusso laminare subisce turbolenze, o nelle porzioni
dove il diametro è maggiore in cui i flussi possono subire rallentamenti. L’evoluzione spontanea consiste in un
aumento in lunghezza e larghezza per successiva apposizione di aggregati fibrinopiastrinici: infatti la stasi
produce turbolenze con conseguente deposito di piastrine, emazie e leucociti e accumulo dei fattori della
coagulazione attivati (il tutto è favorito anche dalla presenza di danni endoteliali che favoriscono l’esposizione
di particolari strutture che danno il via al meccanismo coagulativo) e queste sostanze si aggregano innescando
un ulteriore rallentamento del flusso che estende l’interessamento al circolo a monte e che facilita
l’ampliamento del circolo sovraesposto. A ciò si aggiunge la presenza di una ipercoagulabilità, che può essere
congenita (dovuta cioè a deficit congeniti dei fattori coagulativi quali antitrombina III, proteina S e proteina C),
o acquisita (immobilità forzata e allettamento prolungato - spesso a seguito di interventi chirurgici -, malattie
neoplastiche, insufficienza cardiaca, età avanzata, obesità, contraccettivi orali e gravidanza e puerperio - perciò
le donne sono sino a 40 anni più colpite degli uomini -).
Gli aggregati piastrinici formatisi contribuiscono in modo importante alla costituzione del trombo in fase di
accrescimento. All’inizio vi è una deposizione di strati successivi di coaguli sul nucleo primitivo, con
propagazione progressiva verso il letto circolatorio. Superato il margine della valvola, dove abbiamo detto inizia
lo sviluppo il più delle volte a causa del flusso turbolento che qui si viene a creare, ha inizio una stratificazione
trombotica che può culminare con l’occlusione completa del lume. I trombi freschi sono adesi alla parete venosa
inizialmente solo nel punto di origine e sono fluttuanti nel lume perciò possono in questa fase facilmente
distaccarsi e embolizzare nel distretto polmonare. A partite dal 3°-4° giorno dopo la formazione del trombo
comincia la retrazione del coagulo, che lo rende compatto e poco friabile, e inizia l’invasione fibroblastica a
partire dal punto di adesione iniziale che consolida il trombo all’endotelio. Perciò dopo 7-10 giorni il trombo è
stabile e embolizza più difficilmente.
FATTORI DI RISCHIO possono essere congeniti o acquisiti.
Tra i congeniti, detti anche trombofilici: deficit di antritrombina, o di proteina C o S, mutazione del fattore V o
del fattore II, difetti del fibrinogeno.

142
Tra gli acquisiti: precedenti TVP, età avanzate, terapia estrogenica, gravidanza e post-partum (per via
dell’allettamento e della ipercoagulabilità che ne segue), immobilizzazione protratta (più di 3 gg), interventi
chirurgici (ortopedici, neurologici e oncologici addominali), traumi agli arti inferiori, scompenso cardiaco,
tumori, obesità grave, policitemia e malattie mieloproliferative, LES, sindrome da anticorpi anti fosfolipidi.
Non è sicuro invece il ruolo di altri fattori quali: iperomocisteinemia ed elevati livelli di fattore VIII, IX e XI.
Se ancor prima che si sviluppo uno stato di TVP sono presenti fattori di rischio che rendono alta la probabilità di
sviluppo di trombosi, allora si parla di stato pretrombotico.
Se la TVP si presenta in un soggetto con età inferiore a 45 anni senza nessuno dei fattori di rischio elencati, si
parla di trombosi venose idiopatiche. In questi soggetti, soprattutto se presente anche una storia familiare di
TVP, o sono presenti TVP ricorrenti e in sedi inusuali, o magari si associano ad un aborto spontaneo, si deve
fare uno screening per trombofilia, ricercando mutazioni della protrombina e del fattore V, dosando il fattore
VIII e l’omocisteinemia, ricercando l’anticorpo contro l’anticoagulante lupico.
CLINICA solo in presenza di un quadro clinico conclamato la diagnosi è semplice, ma questo capita in
pochissimi casi. Per esempio nei pazienti allettati non ci sono mai grossi sintomi premonitori, e nella maggior
parte dei casi l’esordio della TVP avviene direttamente con l’embolia polmonare.
La clinica dunque è scarsamente affidabile, sebbene siano stati evidenziati alcuni segni e sintomi più comuni
che possono indirizzarci verso la diagnosi: tachicardia, febbre, aumento della temperatura locale dell’arto,
comparsa di edema localizzato, tumefazione dell’intero arto e dolore. Quest’ultimo è spesso il primo sintomo
accusato dal paziente: può essere spontaneo, e in questo caso è accentuato dalla posizione eretta, o provocato da
manovre di flesso-estensione articolare o compressione delle masse muscolari. Grazie a queste manovre si
identificano i segni principali che sono:
- segno di Homans: dolore al polpaccio alla dorsi flessione del piede
- segno di Bauer: ipersensibilità o dolore alla palpazione del polpaccio
- segno di Sigg: l’iperestensione della gamba sulla coscia causa dolore nella parte profonda dell’articolazione
del ginocchio
- segno di Lowemberg: dolore alla pressione di un manicotto pneumatico a pressione inferiore a 150 mmHg
altro segno importante è la vena sentinella di Pratt: dilatazione delle vene pretibiali dovuto al fatto che la grave
ostruzione del circolo profondo devia parte del flusso nel circolo superficiale, che quindi diviene più evidente.
Infine all’esame obiettivo è utile l’ispezione, che può mostrare aspetti esterni strettamente correlati con quelli
anatomopatologici:
1. Se c’è una trombosi venosa dei rami principali, ma il sistema collaterale è libero si ha la phlegmasia
alba dolens.
2. Se le vie collaterali sono inglobate nel processo trombotico si ha la phlegmasia caerulea dolens.
3. Se la trombosi ingloba alcune vene periferiche si ha una zona di necrosi periferica localizzata.
4. Se la trombosi prende la totalità del territorio venoso si ha la gangrena.
Raccolti i dati clinici e anamnestici, si può stilare lo score di Wells, un algoritmo che, integrando e combinando
questi dati ci consente di individuare (tra tutti coloro che presentano un sospetto di TVP) quelli che più
probabilmente ne siano affetti.
DIAGNOSI per confermare il sospetto clinico, la metodica di prima scelta è ultrasonografia, ossia
l’ecocolordopler, che ha il vantaggio di essere molto accurato, pratico e semplice da usare, economico, innocuo
(infatti è l’unico esame che si può fare nelle donne in gravidanza, in cui la TVP è frequente) e facilmente
ripetibile. Esso ci da informazioni sia sulla morfologia che sulla funzionalità del vaso, potendo coniugare
all’aspetto anche lo studio della flussimetria (in realtà spesso è sufficiente la morfologia, e quindi la semplice
ecografia vasale, per diagnosticare la presenza di un trombo). In particolare la TVP si indaga con test di
compressione (CUS), eseguito studiando la vena in sezione trasversale e comprimendo con la sonda sulla vena:
se questa non collassa sotto la pressione della sonda vuol dire che il suo lume e occupato da un trombo.
L’affidabilità di questa metodica si riduce via via che si passa dai distretti venosi distali a quelli prossimali, dove
la specificità cala al 30%. Meno usati sono altri esami come la TC spirale e l’angio –RM. In più se il trombo si
estende a livello addominale bisogna fare un’angio-TC per verificare l’eventuale coinvolgimento della vena
cava. Altro importante esame strumentale è la flebografia (radiografia che permette di vedere tramite mdc
l’interno delle vene), il quale è il gold standard per la diagnosi di TVP, soprattutto a livello del polpaccio. Esso
è però poco usato per via della sua invasività, per l’elevata percentuale di insuccessi dovuti alla difficoltà di
incanalare la vena nel piede e per le complicanze frequenti (radiazioni, agenti di contrasto iodati, ecc..).
Tra gli esami ematochimici è importantissimo il dosaggio del D-dimero, che è un prodotto di degradazione della
fibrina stabilizzata e che quindi può trovarsi in circolo per molte cause (ematomi, ferite, infiammazioni, ustioni).
Il trombo venoso è solo una delle possibili fonti. È utilizzato soprattutto per il suo alto valore predittivo negativo
(cioè se non è presente è quasi sicuramente non c’è TVP).
TERAPIA è soprattutto farmacologica e ha lo scopo di bloccare il processo trombotico favorendo l’adesione
del trombo alle pareti e la successiva ricanalizzazione, così da prevenire embolia polmonare e sindrome
postflebitica. Essa viene fatta con anticoagulanti e antitrombotici. Se invece si vuole ottenere la lisi del trombo
si usano i trombo litici.

143
Il primo approccio nella TVP acuta consiste nella somministrazione di anticoagulanti orali eparinici: eparina
non frazionata e a basso peso molecolare, che devono essere dati per e.v per s.c. con dosi regolate a seconda del
tempo di tromboplastina parziale attivato ( da non dare in caso di gravi episodi emorragici o comunque
predisposizione alle emorragie per deficit congeniti o acquisiti, recenti interventi chirurgici, e da valutare in
ipertensione grave, insuff, renale o epatica, ecc..).
Questo trattamento, della durata di 7 giorni circa, deve essere seguito da uno di lungo periodo con
somministrazione di coagulanti orali dicumarolici, che sono farmaci anti vitamina K. Il prototipo di questi
farmaci è il warfarin, che deve essere assito per 5 giorni insieme all’eparina per dare maggior protezione. Questa
terapia si protrae, a seconda della gravità, per 5-6 mesi minimo, o per un tempo indeterminato.
Se si vuole fare la terapia trombolitica si usano: streptochinasi, urochinasi o rt-PA (attivatore ricombinante
tissutale del plasminogeno - più attivo e al tempo stesso purificato così da non dare allergie né altri problemi.
Questa terapia è da fare in caso di condizioni gravi, in pazienti di giovani età, se c’è controindicazione assoluta
alla terapia eparinica e sono assenti fattori di rischio emorragici. Le controindicazioni di questi farmaci sono:
pazienti con grosso rischio emorragico, con accidenti cerebrali recenti (entro i 30 giorni), con patologie
intracraniche, in gravidanza o periodo mestruale, con ipertensione non controllata farmacologicamente, con
endocarditi, allergie, insufficienza epatica grave, occlusione, protesi vascolare infetta, ischemia iperacuta degli
arti.
La terapia chirurgica è raramente utilizzata nella TVP e consiste in:
-Filtri e clips cavali: dispositivi meccanici posizionati sulle vene, al di sotto delle renali, che impediscono la
migrazione nel letto vascolare polmonare di emboli staccatisi da un trombo venoso. Possono essere temporanei
o permanenti.
-Trombectomia chirugica: trova indicazione nella phlegmasia cerulea dolens sempre e in quella alba dolens solo
se il trombo è fresco (5-7 gg) e il paziente è giovane e sano.
-Terapia fisica: consiste in elastocompressione (è stato dimostrato che la precoce applicazione della
compressione elastica contribuisce a ridurre la comparsa della sindrome post-trombotica, attraverso lo sviluppo
di vene collaterali, la riduzione della filtrazione capillare e la riattivazione della capacità fibrinolitica. La
riduzione della filtrazione capillare contribuisce a ridurre l’edema e quindi la compressione capillare e la
costrizione ischemica), deambulazione attiva, presso terapia e fisiochinesiterapia.
COMPLICANZE sono fondamentalmente due: l’embolia polmonare e la sindrome postflebitica.
Embolia polmonare (EP)
Evento patologico causato dall’ostruzione dell’albero arterioso polmonare da parte di trombi migrati dal sistema
venoso. Il quadro clinico varia a seconda dell’estensione dell’ostruzione: si va una microembolia a una embolia
massiva. L’EP rappresenta una delle principali cause di mortalità (è causa del 5-10% dei decessi ospedalieri) e
morbilità ospedaliera. Nonostante i miglioramenti nella conoscenza di patogenesi diagnosi e terapia. La sua
frequenza è comunque sottostimata perché in molti casi gli emboli non creano problemi al circolo polmonare.
Tra quelli che si palesano sono fatali gli emboli con più di 1 cm di diametro e 5 cm di lunghezza.
Eziopatogenesi: nel 90% dei casi è conseguente a una TVP, soprattutto degli arti inferiori o della regione
pelvica. L’embolo, arrivato nel circolo polmonare, causa riduzione del letto vascolare con modificazioni
respiratorie e ipossiemia: ciò causa aumento delle resistenze periferiche e ipertensione polmonare, la quale
favorisce anche un edema alveolare e una conseguente emorragia polmonare che può portare all’infarto
polmonare e alla morte.
Clinica: come detto, i sintomi sono aspecifici e variabili a seconda del numero e del volume degli emboli. La
condizione più grave, in cui l’embolo interessa il tronco dell’arteria polmonare, si manifesta più frequentemente
con: dispnea, dolore toracico, emottisi e ipotensione.
Diagnosi: il gold standard è l’angiografia, oggi completamente sostituito dall’angio-TC, che è meno invasiva e
ugualmente specifica. Altri esami sono: emogasanalisi per studiare la funzionalità respiratoria, D-dimenro,
modificazione dell’ECG, ecocardiogramma, Rx torace, scintigrafia polmonare perfusionale e ventilatoria.
Terapia: quella acuta deve essere fata con eparina o anche chirurgicamente. Per il resto è uguale alla TVP.
Sindrome postflebitica (SPF) o posttrombotica
Comprende tutte le sequele a lungo termine della TVP. La sua incidenza è compresa tra il 6 e il 21% dei pazienti
con TVP.
Eziopatogenesi: la SPF è causata da uno stato di ipertensione venosa cronica sviluppatosi come conseguenza o
del processo di ricanalizzazione dei trombi delle vene principali, che conduce a un danneggiamento delle
valvole, o a una ostruzione venosa permanente da parte del trombo. L’ipertensione che ne segue si trasmette alle
vene perforanti che diventano incompetenti, favorendo l’inversione del flusso venoso dal circolo profondo a
quello superficiale e quindi causando un sovraccarico di quest’ultimo, che porta a sofferenza tissutale e allo
sviluppo di lesioni distrofiche cutanee.
Clinica: caratterizzata da edema, alterazioni cutanee (soprattutto pigmentazione, cute sottile e lucente) e varici
postflebitiche. Questi segni si presentano soprattutto a livello della caviglia. La sintomatologia aumenta in
stazione eretta.
Diagnosi: si basa sulla clinica e sul riscontro anamnestico di una precedente TVP.

144
Terapia: in primis contenzione elastica per ridurre l’ipertensione venosa, poi cura dell’ulcera. Il tutto associato
alla cura della TVP.

ISCHEMIA DEGLI ARTI


ISCHEMIA ACUTA
È definita come un’improvvisa e marcata interruzione del flusso ematico che tale da non consentire un
sufficiente metabolismo cellulare, con conseguente elevato rischio di perdita dell’arto. Importante è quindi il
rapido riconoscimento ed intervento subito dopo l’insorgenza dell’ischemia, infatti spesso l’amputazione
dell’arto non è dovuta tanto ad errori nella terapia quanto al troppo tempo intercorso tra l’insorgenza di questa e
l’inizio della cura.
EPIDEMIOLOGIA è una patologia che interessa quasi esclusivamente gli arti inferiori (meno di 1/5 di tutti i
casi di ischemia acuta interessano gli arti superiori). Con 14 casi su 100000 l’anno rappresenta l’intervento
chirurgico più frequente delle unità di chirurgia vascolare (circa il 12%).
EZIOLOGIA si distinguono cause emboliche e trombotiche. Negli arti inferiori le trombosi sono responsabili
per il 41%, e le embolie per il 38%; negli arti superiori le embolie per il 75% e le trombosi per il 20%.
Le cause emboliche possono essere a loro volta:
-le cause di origine cardiaca sono le più comuni, rappresentando negli arti superiori il 74% dei casi, quasi tutti
da addebitarsi ad aritmie (81%), in particolare la fibrillazione atriale, a cardiopatie ischemiche o reumatiche, a
valvulopatie, a endocarditi batteriche, a embolia paradossa (l’embolo a partenza dalle vene passa dal circolo
destro al sinistro per un difetto di chiusura del setto interatriale o interventricolare);
-le cause di origine non cardiaca possono avvenire su arterie sane (rare) e in questo caso sono dovute soprattutto
a traumi o embolie neonatali, oppure su arterie malate, e in questo caso sono da ricondursi a sacche
aneurismatiche e a placche ulcerate. Cause più rare sono le cisti di echinococco, i tumori di varia origine e i
corpi estranei.
-le cause iatrogene sono dovute a post-cateterismo o a infusione intra-arteriosa di farmaci.
Le cause trombotiche sono divisibili in tre classi:
1)trombosi su arterie sane. A loro volta queste possono essere conseguenza di:
a. disturbi coagulativi: un paziente può avere una occlusione distale di un’arteria per un deficit congenito
di proteina C, S AT-III, oppure per alterazioni genomiche;
b. malattie mieloproliferative: policitemia vera e trombocitopenia essenziale, per esempio, sono malattie
caratterizzate da un aumento della porzione corpuscolata rispetto alla porzione liquida;
c. stati di ipercoagulabilità: è spesso conseguenza di una riduzione della velocità di circolazione del
sangue. Il sangue può circolare più lentamente in patologie neoplastiche, infettive, per disidratazione,
per sindrome da bassa gittata o per shock;
d. compressione estrinseca: il lume arterioso può essere ridotto o completamente chiuso per la presenza di
cisti sinoviali, tumori ossei, sindrome e da intrappolamento dell’arteria poplitea.
e. Ostacolato deflusso.
2)trombosi su arterie malate. Può avvenire:
a. su placca ateromasica: l’ateroma cresce in modo tale da andare ad occludere il 70% del lume e se a
questo si associa una bassa gittata o disturbi della crasi ematica - cioè del rapporto tra i vari elementi
del sangue -, in corrispondenza della stenosi si sviluppa una trombosi;
b. su lesione traumatica: un trauma della parete intimale causa esposizione di fattori favorenti la
coagulazione;
c. su lesione disseccativa: tutte le volte che si ha alterazione della tonaca a causa, per esempio, di una
collagenopatia, si sviluppa una trombosi;
d. per sacca aneurismatica: nella sacca c’è una maggior ristagno di sangue e conseguentemente è più
frequente l’embolizzazione o la trombizzazione.
3)trombosi post-traumatiche. Sono conseguenti a traumi diretti o indiretti. Il primo gruppo comprende traumi
penetranti. In cui la lesione viscerale interessa le diverse tonache, e quelli non penetranti, in cui l’agente lesivo
determina iperdistensione della parete, causandone la discontinuità a partire dall’intima. Nei traumi indiretti
l’azione si esplica sui tessuti e le strutture circostanti, che a loro volta provocano lesione sui vasi. Di solito la
trombosi è conseguenza della contusione o compressione vasale e i distretti maggiormente coinvolti sono quello
femorale, il popliteo e l’omerale. Infine tra queste trombosi possono essere ascritte anche quelle iatrogene,
dovute all’impiego di metodiche diagnostiche o terapeutiche che richiedono un cateterismo arterioso.
PATOGENESI E FISIOPATOLOGIA DEL DANNO
La sindrome ischemica può essere divisa, a seconda dei suoi aspetti metabolici, in tre grandi fasi:
1. Ischemia
Tutti i tessuti sopportano l’assenza di perfusione per un tempo limitato. Negli arti il tessuto principale è quello
muscolare, che può sopportare l’ischemia per 4-6 ore mediamente (questo è l’arco di tempo in cui bisogna porre
la diagnosi e fare la terapia), periodo oltre il quale l’eventuale ulteriore sopportazione dipende dal paziente: un
giovane, che ha una maggiore massa muscolare, sopporta peggio di un anziano lo stato di ischemia. In queste 6
145
ore il tessuto va avanti con un metabolismo di tipo anaerobio: in mancanza di ossigeno si utilizza la glicolisi,
con formazione di lattati e piruvati, con conseguente instaurarsi di un’acidosi metabolica, che si unisce alla
riduzione della PO2 e causa aumenta della PCO 2. L’acidosi metabolica a sua volta, oltre ad essere responsabile
della sintomatologia che si instaura (il dolore ischemico acuto è dato dall’accumulo di acido lattico), porta la
cellula alla morte (rabdomiolisi) con conseguente liberazione di tutte le sostanze contenute dentro essa: K +,
mioglobina, enzimi muscolari (CPK, LDH). Queste sostanze liberate vanno in circolo creando seri danni, ragion
per cui, in presenza di una loro troppo alta concentrazione, che porterebbe il paziente a morte istantanea, è
preferibile non fare la rivascolarizzazione ma amputare direttamente l’arto. In particolare l’amputazione deve
essere fatta se il Ph è sceso sotto il 7,2, mentre se è superiore si può ancora pensare alla rivascolarizzazione.
Altri dati che possono orientarci verso l’amputazione sono: aumento eccessivo di LDH e CPK e concentrazione
di K+ superiore a 6mEq/l (se inferiore si può ancora riva scolarizzare).
Infine è da dire che l’episodio ischemico è sempre accompagnato, nel tempo, da una trombosi secondaria che
tende a estendersi progressivamente, a monte e a valle, ai distretti più periferici e di minor calibro. Questo
fenomeno è condizionato da fattori aggravanti di ordine generale e locale.
Tra quelli generali rientrano: le patologie che riducono la gittata cardiaca e la pressione di perfusione e le
patologie che modificano l’equilibrio emocoagulatorio, come per esempio una ipercoagulabilità transitoria.
Tra quelle locali il più importante è la sede dell’ostruzione: la localizzazione alla biforcazione aortica, femorale
e poplitea riduce la possibilità di un compenso periferico. Nelle arterie con aterosclerosi si hanno di solito circoli
collaterali preformati che se occlusi possono causare un’estesa trombosi secondaria. Nelle arterie sane possono
invece aversi spasmi che riducono l’efficienza dei circoli collaterale favorendo la trombosi secondaria.
2. Riperfusione
Dopo un’idonea rivascolarizzazione dell’arto, nel nostro organismo può determinerà una tossiemia sistemica
dovuta all’entrata in circolo di tutti i metaboliti tossici prodotti dai tessuti ischemici. Si avrà quindi: acidosi
metabolica, iperpotassiemia, mioglobinuria, riduzione da consumo dei fattori della coagulazione. Questi 4 fattori
possono causare gravi complicanze sistemiche come la sindrome da distress respiratorio acuto, l’IRA (la
mioglobina può occludere i glomeruli con conseguente impossibilità nel smaltire le tossine), aritmie refrattarie
(causate da acidosi metabolica e iperpotassiemia), o anche sindrome emorragica (per alterazione dei fattori della
coagulazione).
3. Sindrome compartimentale
Legata alla riperfusione di una parte del microcircolo che non era stata perfusa per ore e che quindi si trovava
con pareti danneggiate, più permeabili e incapaci di reggere il nuovo improvviso afflusso di sangue, con
conseguente formazione di edema, il quale può peggiorare ulteriormente il danno, vanificando quanto fatto con
la perfusione: ciò perché gli arti sono dei compartimenti stagni chiusi da delle guaine muscolari rigide, che non
possono accettare tutto il liquido che fuoriesce dagli arti stessi, per cui oltre un certo limite (con pressione
compartimentali tra 20 e 40 mmHg), il liquido comprimerà i vasi venosi e arteriosi causando un’ischemia
irreversibile e compromettendo il lavoro fatto fino a quel punto.
Il paziente con sindrome compartimentale presenterà dolore, edema duro e spiccatamente dolente alla
palpazione e alterazioni neurologiche sensitivo-motorie dovute alla compressione dei nervi da parte dell’edema.
L’unico modo per curare questa sindrome è con la fasciotomia, che consiste in grossi e netti tagli (causa di
infezioni, per cui bisogna stare attenti alla sterilità) ai muscoli e alle guaine, in modo da permettere
l’evacuazione dei liquidi. Se la fasciotomia viene fatta troppo tardi l’arto si può salvare ma rimanere plegico se
il tessuto neurologico era irreversibilmente danneggiato.
CLINICA il paziente si presenta con i classici segni di Pratt, ricordati come “le P di Pratt”:
-il dolore (PAIN) è di tipo acuto e profondo;
-la prostrazione (PROSTRATION) si unisce al dolore: il paziente è agitato e non riesce a stare in una posizione
antalgica;
-pallore (PALLOR): l’arto si presenta bianco e freddo, quasi cadaverico nell’ischemia totale, un po’ meno nella
parziale;
-parestesia (PARESTHESIA) dell’arto;
-paralisi (PARALYSIS);
-assenza di battito (PULSLESSNESS) nell’arto ischemico. Le arterie che dobbiamo controllare a livello
dell’arto inferiore sono: arteria femorale comune a livello inguinale, arteria poplitea a livello della losanga
poplitea, arteria tibiale anteriore a livello del piede, arteria tibiale posteriore sul malleolo interno. A seconda
della regione interessata dall’ischemia l’arto può mancare di tutti i polsi oppure solo degli ultimi due.
Altri segni importanti, non compresi nelle P di Pratt, sono: ipotermia, presenza di una striatura cianotica
sull’arto (marezzatura), presenza di lento o assente riempimento capillare (in questo caso l’arto sarà incavato al
posto di avere in evidenza le tipiche vene superficiali) e lento o assente svuotamento venoso.
Tra i segni detti la presenza di paralisi, la marezzatura e l’assenza di riempimento capillare sono indice di un
quadro clinico grave, per cui difficilmente si riuscirà a salvare l’arto al paziente.
DIAGNOSIla si fa essenzialmente con le indagini cliniche che abbiamo visto: anamnesi per sapere che tipo di
dolore è, in che circostanze è insorto, se ci sono fattori di rischio, ecc..; esame obiettivo per accertarsi delle
caratteristiche cliniche (pallore, parestesia, assenza di battito, ecc..). A questo punto devono essere svolte le

146
indagini strumentali, ma quando il paziente arriva dal chirurgo che è ischemico ormai da troppe ore, questa
tappa diagnostica viene saltata, o al massimo si fa solo l’angiografia durante l’intervento.
Quando invece le condizioni non sono critiche, cioè il paziente non è ad alto rischio di amputazione dell’arto, si
ricorre alla diagnosi strumentale, che ci indica bene la sede, l’estensione e la causa dell’ischemia.
L’esame di prima scelta è l’eco-color-doppler, poiché è il meno invasivo, è facilmente riproducibile, si può
eseguire più di una volta, non costa molto, e non è dannoso per il paziente. Esso ci può dire se è presente un
aneurisma dell’arteria poplitea che si è trombizzato, e ci dà informazioni sulla morfologia del letto a valle del
trombo.
Altro esame fondamentale è l’angiografia, che è un esame fondamentale pur essendo molto invasivo ed essendo
dannoso per il paziente, visto che si usa del mezzo di contrasto (perciò l’esame è da evitare nel caso in cui il
paziente abbia un’insufficienza renale, perché potremmo mandarlo noi in IRA). L’angiografia fatta prima
dell’intervento ci permette di avere un quadro panoramico, mentre se è fatta dopo l’intervento ci dice se il nostro
intervento è stato efficace o meno.
Altre indagini aggiuntive che possono essere fatte, sempre che ci sia tempo, sono: screening per la trombofilia
se si sospetta una trombofilia ereditaria, ECG se si crede che la causa dell’ischemia sia cardiaca e
ecocardiogramma transtoracico e trans esofageo per la stessa ragione.
TERAPIA può essere medica o chirurgica.
Terapia medica
Appena abbiamo il paziente davanti dobbiamo fare tutto il possibile per ridurre il dolore. Ciò si fa con la terapia
antalgica, la quale riduce anche il rischio di morte per dolore (dovuta a un eccessivo rilascio di catecolammine e
quindi infarto); nel caso dell’interessamento degli arti inferiori è molto utile fare una peridurale, che non solo
permette di abbassare il dolore, ma dilata anche il circolo. A ciò bisogna aggiungere una terapia che miri a
diminuire il rischio di trombosi del microcircolo: questa deve essere fatta con eparina. Questi due interventi,
ossia la terapia eparinica (anticoagulante) e quella antalgica, sono detti terapia medica di prima istanza. Quella
vasodilatatrice (peridurale), non è invece sempre fattibile. Per quanto riguarda la terapia trombolitica, essa può
essere fatta solo quando il trombo non si è ancora consolidato: in tal caso i farmaci trombolitici più utilizzati
sono quelli visti nella TVP: streptochinasi e urochinasi (entrambi derivati animali che tendono quindi a dare
allergie), sostituiti oggi da farmaci sintetici come l’rt-PA.
Terapia chirurgica
Si divide in tradizionale ed endovascolare.
Tra le procedure tradizionali:
-embolecotmia mediante catetere di Fogarty: è l’intervento più classico. Consiste nel fare un incisione
nell’arteria pulsatile a monte del trombo che ha causato l’ischemia, introdurre da questa incisione il catetere con
annesso un palloncino che si fa andare oltre il trombo; a questo punto si gonfia e retrae indietro, in modo tale da
portare via pure il trombo. Quest’intervento si può fare se il vaso è ancora integro, altrimenti si farà uno degli
altri interventi;
-la TEA (tromboendoarterectomia)+PATCH: asportazione della placca ateromasica stenosante o ostruente
l’arteria insieme alla tonaca intima con successiva ricostruzione della tonaca stessa (PATCH);
-innesti protesici: si distinguono bypass e sostituzioni. Le sostituzione consistono in protesi che si applicano
dopo rimozione parziale o totale del vaso ammalato in modo da ripristinare la continuità del circolo; il bypass
consiste nell’insermiento di una protesi a ponte tra due distretti vascolari, uno distale e uno prossimale rispetto
alla zona colpita dal processo morboso, mentre il vaso primitivo viene lasciato in sede ed è solo la sua funzione
ad essere sostituita.
-fasciotomia.
Tra le endovascolari:
-PTA: procedura mini invasiva che consiste nella dilatazione dei segmenti stenotici grazie al posizionamento
nella lesione di un catetere a palloncino in grado di ricostruire, gonfiandosi, il lume arterioso;
-stent: sono delle molle (in acciaio o altre leghe), che vengono posizionate in corrispondenza di segmenti
arteriosi o venosi per prevenire le restenosi o altre complicanze della PTA (per es. la dissezione intimale);
-endoprotesi: sono una sorta di pypass endocoronoarici, che uniscono il vantaggio delle protesi vascolari con
quello degli stenti, permettendo così di agire anche su di una patologia occlusiva molto estesa.
Nei casi più gravi è utile eseguire il wash out (lavaggio) del sangue refluo mediante flebotomia con circolazione
extracorporea o, meglio, con plasmaferesi regionale.

ISCHEMIA CRONICA
Patologia caratterizzata da progressiva riduzione del flusso ematico, in cui quindi il paziente ha la possibilità di
adattarsi e il medico ha più tempo per intervenire rispetto all’acuta. Attualmente si riconoscono due distinti
quadri clinici: l’ischemia da sforzo, detta comunemente claudicatio intermittens, e l’ischemia critica. Questi due
tipi di ischemie si riscontrano anche nella classificazione che tiene conto del quadro clinico. Si distinguono:
1. Stadio I: pazienti asintomatici;
2. Stadio II: pazienti con claudicatio inermittens, ossia con dolore che compare ogni qualvolta il soggetto
compie uno sforzo che supera una certa soglia;
147
3. Stadio III: stadio avanzato di ischemia cronica in cui le condizioni dell’arto diventano critiche per un
suo recupero anche se l’arto è ancora recuperabile. Si ritiene oggigiorno che un paziente sia in ischemia
critica quando si verifica almeno una delle seguenti condizioni: dolore a riposo ricorrente, che necessita
dell’impiego costante di analgesici da più di due settimane, e pressione sistolica alla caviglia < 50
mmHg, o pressione sistolica digitale < 30 mmHg, o concomitanza di entrambi questi valori. Talora
possono riscontrarsi ulcerazioni o gangrena al piede o alle dita associate ai valori pressori strumentali
prima esposti. In particolare si distinguono due livelli:
a. A basso rischio (l’ischemia è detta subcritica): al dolore a riposo si associa una pressione alla
caviglia maggiore di 40 mmHg;
b. Ad alto rischio: al dolore a riposo si associa una pressione alla caviglia minore di 40 mmHg e la
presenza di lesioni trofiche;
4. Stadio IV: è la condizione più avanzata della malattia, caratterizzata dalla necrosi tissutale, localizzata
soprattutto a livello del metatarso (punta delle dita). In questi casi l’amputazione è l’unica soluzione.
EPIDEMIOLOGIA colpisce prevalentemente gli arti inferiori, con un’incidenza che varia tra lo 0,9% e il 7%
della popolazione con età superiore ai 50 anni.
EZIOLOGIA la causa principale di arteriopatia cronica degli arti inferiori è la presenza di placche
aterosclerotiche, che spiegano anche la discrepanza tra la frequenza negli arti superiori e inferiori: l’aterosclerosi
ha infatti incidenza ridotta negli arti superiori per via del miglior flusso e i danni eventuali sono minori per via
della miglior collateralità. Essa è infatti responsabile del 95% dei casi, mentre l’altro 5% è da suddividersi tra
vasculiti (tromboangioite obliterante – tipica dei fumatori), le displasie muscolari e i quadri malformativi
(coartazione aortica).
L’aterosclerosi degli arti inferiori interessa o il distretto aorto-iliaco, o quello femoro-popliteo-tibiale
(quest’interessamento è tipico dei soggetti con diabete). In entrambi i casi, perché l’ischemia sia di un certo
grado, è importante il tipo di occlusione (stenosi singola inferiore a 3 cm, oppure maggiore di 3 cm; presenza di
due stenosi unilaterali; presenza di stenosi bilaterali; presenza di multiple stenosi unilaterali – questa divisione
vale per le iliache mentre è più complessa per l’asse femoro-popliteo -), e la possibilità di formare dei circoli
collaterali da parte del nostro organismo:
-in caso di occlusione aorto-iliaca i circoli collaterali principali sono: quello epigastrico, quello lobare, quello
mesenterico (è il principale e si avvale di: mesenterica superiore--> mesenterica inferiore--> emorroidaria
superiore--> emorroidaria inferiore--> iliaca interna), quello ilio-femorale (aa.circonflesse femorali) e quello
iliaco-iliaco (tra i rami dell’iliaca interna destra e sinistra). Se quindi l’occlusione interessa la biforcazione iliaca
e l’origine della mesenterica inferiore, impedendo così la funzionalità dei circoli collaterali più importanti,
l’ischemia è molto pronunciata; se invece l’occlusione è segmentaria e interessa solo l’iliaca comune, la
tolleranza è maggiore per la possibilità dei circoli di formarsi.
-in caso di occlusione femoro-poplitea i circoli collaterali sono più difficili da classificare ma il più importante è
sicuramente quello formato dalla femorale profonda, la quale è frequentemente risparmiata nel caso di
arteropatia grave per cui può, tramite i suoi collegamenti con la poplitea, che avvengono attraverso le arterie
perforanti, permettere un valido circolo di supplenza. Altro sistema collaterale importante è costituito dalla rete
articolare del ginocchio. Oltre che dall’efficienza dei circoli collaterali, la prognosi, ossia la possibilità di una
buona rivascolarizzazione, dipende, come detto, dal numero di arterie andate incontro a occlusione: in questo
caso è migliore se è colpito un solo vaso, è peggiore se sono colpiti tutti e tre (tibiale anteriore, posteriore e
peroniera).
PATOGENESI E FISIOPATOLOGIA DEL DANNO la stenosi provoca sintomatologia ischemica solo
quando il calibro vasale è ridotto di almeno il 75%, perché in questo caso si determina un gradiente pressorio
(ΔP) a monte e a valle della lesione, con una riduzione del flusso (Q), dato che Q e ΔP sono inversamente
proporzionali. La riduzione del Q dipende anche dalla presenza di resistenze, che sono dovute sia alle stenosi sia
ai circoli collaterali. Quando la riduzione del flusso è eccessiva si ha prima un’ischemia con conseguente
attivazione del metabolismo anaerobio, poi necrosi tissutale con anche la formazione di gangrene.
CLINICA il paziente con claudicatio intermittens lamenta una sintomatologia dolorosa che insorge dopo un
po’ di tragitto (100-200 metri) di una camminata a piedi. Il dolore è simile ad un crampo e dura fino a quando il
soggetto non si ferma (talvolta è talmente intenso da indurre il paziente a bloccarsi per forza). Dopo 2 o 3 minuti
di riposo il dolore passa. Il percorso che il paziente riesce a fare varia da pianura a salita, e questo ci fa capire
che il paziente ha una riserva vascolare ridotta, cioè la placca ateromasica occlude il lume vasale in modo tale da
permettere un livello di perfusione che è sufficiente per camminare 200 metri in piano e, per esempio, solo 50 in
salita. Da quanto detto si evince che la soglia ischemica si può capire dall’autonomia di marcia del paziente,
mentre la riserva vascolare del soggetto ci è indicata dal tempo di recupero. Infine se il paziente localizza con
precisione il dolore possiamo anche capire, già dall’esame clinico, quale è il distretto interessato: se il dolore va
dalla coscia al gluteo si tratta solitamente di un problema aorto iliaco; se il dolore interessa il polpaccio il
problema è periferico e normalmente nasce dalla femorale; infine se il dolore interessa la muscolatura
metatarsale il problema è a livello del circolo tibiale.
I pazienti con ischemia critica presentano dolore a riposo che spesso impedisce il sonno. Più spesso è
localizzato al piede (testa dei metatarsi) ed è tale da indurre il paziente nelle ore notturne a cercare sollievo

148
tenendo la gamba in verticale al di fuori del piano del letto, provocando in tal modo un edema da stasi che
peggiora ulteriormente la perfusione distrettuale. Nella fasi più avanzate si va incontro allo sviluppo di un’ulcera
ischemica o di una vera e propria gangrena. L’ulcera ischemica è molto dolorosa, poco irrorata, con un fondo
torpido, spesso infetto. Nella gangrena, infine, se è secca la parte di cute diviene più dura, compatta, assume
aspetto verde o nerastro per la diffusione e decomposizione dell’Hb; se è umida si ha putrefazione (dovuta ai
batteri), tumefazione e pelle bronzina.
All’esame obiettivo, fondamentale, si ricercano ulteriori informazioni:
-i polsi periferici sono assenti o, se presenti nettamente ridotti di ampiezza (si distingue un grado 4 con polso
assente, un grado 3 con parcata iposfigmia, cioè difficoltà a rilevarlo, un grado 2 con iposfigmia e un grado 1
con polso valido);
-essendo il paziente di solito aterosclerotico, andando ad ascultare i vasi principali si possono sentire dei soffi
vascolari;
-la muscolatura della regione interessata è spesso ipotrofica perché si è dovuta adattare allo scarso apporti di
ossigeno;
-spesso è presente un edema da stasi;
-talora è presente parestesia (formicolii e addormentamento) perché anche i nervi soffrono l’ischemia.
DIAGNOSI al contrario di quanto avviene nell’ischemia acuta, in questo caso, dopo anamnesi ed esame
obiettivo, deve essere posta la diagnosi strumentale. Gli esami più utilizzati sono quelli non invasivi, perciò
usati in prima istanza: eco-color-doppler e doppler CW (detto anche ad onda continua)+ indici di Winsor (detto
anche indice caviglia braccio o ICB). Quest’ultimo è un esame che misura con una manicotto quanta è la
pressione dell’arteria radiale e quella della gamba. La pressione sistolica degli arti è leggermente superiore di
quella degli arti superiori di 10-20 mmHg, per cui queste due pressioni in rapporto danno un numero di poco
superiore all’1. Se l’ICB è tra 0,8 e 0,5 c’è claudicatio, mentre se è sotto i 0,5 c’è ischemia critica. Infine sotto
0,3 la prognosi è sfavorevole (arto amputato).
Altri esami che possono essere fatti sono: angiografia e angio-TC o angio-RM.
TERAPIA
Claudicatio: è molto più importante la terapia medica rispetto a quella chirurgica. In questi casi infatti è poco
utile operare un paziente se non si sono eliminati i fattori di rischio, che sono perciò il target della terapia: fumo,
ipertensione, aterosclerosi, ipercolesterolemia, diabete mellito, obesità, sedentarietà. Alla prevenzione e cura di
questi fattori si associa poi la terapia con antiaggreganti piastrinici (aspirina) e vasodilatatori (prostanoidi). La
terapia chirurgica è la stessa dell’ischemia acuta e si pratica nel 5% dei casi, solo quando il paziente ha una
claudicatio invalidante, cioè che gli riduce la qualità di vita.
Ischemia critica: la terapia medica consiste anche qui nel trattamento dei fattori di rischio, antiaggreganti
piastrinici, vasodilatatori, farmaci contro il dolore (FANS, oppiacei) e trattamento dell’ulcera e del focolaio
infettivo se presente (disinfezione, antibiotici locali e sistemici). La terapia chirurgica è endovascolare (PTA,
stent) o tradizionale (TEA+PATCH e innesti protesici). I pazienti affetti da ischemia critica, pur sottoposti
ad una terapia chirurgica nel 60 – 90% dei casi, vanno comunque incontro ad un’amputazione maggiore
nel 50% dei casi. La mortalità cumulativa a 5 anni è del 70%.

ANEURSMI ARTERIOSI
L’aneurisma è una dilatazione patologica, circoscritta e permanente di un’arteria, che superi il diametro
dell’arteria stessa almeno della sua metà: quindi in un’aorta di 2 cm di diametro, per esempio, si può
parlare di aneurisma solo per una dilatazione che superi i 3 cm; in caso contrario saremmo di fronte
ad una semplice ectasia. In particolare si distinguono un aneurisma vero e un aneurisma falso. Il primo è una
dilatazione aneurismatica nella cui parete è sempre reperibile la presenza di almeno una delle tre tuniche vasali
(intima, media, avventizia). Il secondo è una dilatazione aneurismatica nella cui parete non è mai individuabile
alcuna tunica vasale (sono denominati anche ematomi pulsanti o pseudoaneurismi): consiste in pratica in una
cavità in continuazione con un’arteria la quale ha pareti normali; è di solito di origine traumatica o secondaria a
inserimento di protesi.
CLASSIFICAZIONE ne esistono numerose.
Dal punto di vista morfologico si classificano in:
-sacciformi: interessano solo parte della circonferenza del vaso per un breve tratto e sono a forma di sacco. Sono
i più frequenti dell’aorta;
-fusiformi: interessano l’intera circonferenza del vaso e si estendono lungo l’asse longitudinale per un breve
tratto (se interessano un tratto più lungo son detti cilindrici): raramente gli aneurismi aortici lombari (che sono i
più frequenti e che approfondiremo) si presentano così, cioè concentrici, perché l’aorta è libera a sinistra ma è a
contatto con la colonna vertebrale a destra per cui questa parte non si dilaterà e l’altra si.
-misti: a metà tra le prime due forme viste;
-a bacca: stanno nei punti di biforcazione delle arterie cerebrali. Sono molto piccoli e multipli. Non ci
interessano;
-dissecanti: interessano quasi sempre l’aorta e consistono in uno scollamento (o dissecazione) della tonaca
media con conseguente formazione di un nuovo lume all’interno della parete del vaso. Solitamente è
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conseguente ad una lacerazione dell’intima, che crea una breccia di entrata per il sangue, a cui segue la
dissecazione della media. A ciò può seguire la formazione di una breccia di uscita che sarà diversa a seconda
che si formi nell’intima (e in questo caso il sangue rientrerà dal lume parallelo a quello originale) o
nell’avventizia (e in questo caso si avrà una rottura del vaso). Interessa soprattutto aorta ascendente e
discendente toracica.
A seconda della localizzazione, si è fatta una classificazione topografica, che distingue:
-aneurismi centrali: 70% del totale, soprattutto in aorta e arterie iliache. Nella maggior parte dei casi (80%), si
localizza nell’aorta sotorenale e nelle iliache comuni, nel 12 % dei casi nell’aorta toracica discendente, nel 5%
nell’aorta ascendente e nell’arco aortico, nel 3% dei casi nell’aorta toraco-addominale. Sono quelle che
prenderemo in considerazione.
-aneurismi periferici: 30% dei casi, soprattutto negli arti. Nel 70-75% dei casi interessa la poplitea, nel 25% la
femorale, nel 20% la succlavia e raramente omerale, radiale, ulnare o tibiale.
-aneurismi viscerali (rari):
-aneurismi carotidei (rari):
Infine tenendo conto delle caratteristiche cliniche si possono distinguere:
-aneurismi asintomatici: lo sono tutti fino a che un qualche evento precipitante non li renda sintomatici;
-aneurismi sintomatici: sono quegli aneurismi che si manifestano clinicamente, di solito in seguito a rottura, o
embolia, o trombosi, o compressione di una struttura vicina all’aneurisma.
la principale classificazione è però quella eziopatogenetica,che distingue:
-congeniti: di rara osservazione, sono determinati da congenite distrofie e ipoplasie della tunica media
(sindrome di Marfan, di Ehlers-Danlos, Medionecrosi cistica, ecc.) e colpiscono in particolare i vasi del circolo
cerebrale.
-aterosclerotici: sono i più frequenti, rappresentando l’80-90% di tutti gli aneurismi arteriosi. Ad influenzare la
progressiva formazione di una dilatazione aneurismatica su base aterosclerotica esistono ben determinati fattori
di rischio: familiarità, invecchiamento, sesso maschile, ipertensione arteriosa, fumo di sigaretta, BPCO.
-infiammatori: rappresentano oramai una ben distinta entità clinica caratterizzata da una dilatazione
aneurismatica con una insolita parete notevolmente inspessita (1-3 cm), a cui si associa una intensa fibrosi
perianeurismatica dal colore bianco lucente e da un tenace processo aderenziale con le adiacenti strutture
retroperitoneali (duodeno, cava, ureteri, radice mesentere, ecc.).
-infettivi: sono da correlarsi ad un processo infettivo acuto (focolai intra o extra-vasali che determinano
batteriemie o setticemie) o cronico (infezioni specifiche da sifilide o tubercolosi). Benché nel determinismo
della sacca aneurismatica risulti rara l’infezione primitiva della parete vasale, spesso tale processo espansivo è
influenzato negativamente da infezioni secondarie in pareti già aneurismatiche (da ricordare che non è
infrequente individuare microorganismi della placca ateromasica, ad es. Clamidia Pneumonie). Altri agenti
infettivi maggiormente coinvolti sono: Stafilococco, Streptococco, Salmonella, Escherichia coli, Micobatterio,
Miceti.
-post-stenotici: dovuti a stenosi arteriosa da cause intrinseche (placca ateromasica, ecc.) od estrinseche
(intrappolamento, anomalie dello stretto toracico superiore, ecc.). Tali stenosi emodinamicamente significative
(> 70%) determinano a valle un flusso turbolento con aumento della tensione parietale secondo la legge di
Bernoulli: Et = Ep + Ec = K, essendo Ep = si estrinseca in gran parte come Tensione parietale; Ec =
rappresenta in gran parte la velocità di scorrimento ematico
-traumatici.
-iatrogeni.
A prescindere dal fattore eziologico, la perdita del normale parallelismo della parete vasale è legata a molteplici
fattori, sia congeniti (strutturali), che acquisiti (anatomici, emodinamici, umorali). Si viene a determinare quindi
un’alterazione di quell’equilibrio che regola parte della tensione sviluppata dalla parete (T) e dall’atra la
pressione endoluminale (P) secondo la legge di Laplace: T=Pxr/s.
È oramai indubbio che vi siano molteplici fattori genetici coinvolti nel determinismo dei comuni quadri di
aneurisma arterioso. Tali convinzioni derivano innanzitutto da una evidente familiarità con un’incidenza del 15-
20% e da un rischio quadruplicato tra fratelli di pazienti affetti da aneurisma ed è stato visto che anche3 alcuni
difetti genetici, in particolare alterazioni del braccio lungo del chr.16, possono favorire la formazione di
aneurismi. Inoltre l’elemento fisiopatogenetico principale è da riferirsi ad una DEGENERAZIONE DELLA
MEDIA causata da complessi meccanismi biologici: eccessiva attività enzimatica proteolitica (collagenasi,
elastasi, metalloproteasi), aumento della migrazione e deplezione di cellule muscolari lisce, che producono
elevati valori di attivatori del plasminogeno, con rimodellamento fibroso della matrice extracellulare; abnorme
accumulo di macrofagi ed elevati valori di citochine che determinano un processo infiammatorio, disregolazione
dei geni coinvolti nello stress ossidativo (EME ossigenasi, ecc.) e dei geni antiossidanti (superossido
dismutasi,ecc.).

ANEURISMA DELL’AORTA ADDOMINALE


Il diametro dell’aorta addominale è normalmente compreso tra 2 e 2,4 cm. Si parla di aneurisma quando supera i
3-3,5 cm.
150
EPIDEMIOLOGIA rappresenta la forma più comune di aneurisma arterioso. Colpisce il sesso maschile di età
superiore ai 60 aa (rapporto 5/1). La prevalenza, in rapporto all’invecchiamento, oscilla mediamente tra il 4-8%
dell’intera popolazione sopra i 60 aa; in generale colpisce circa il 2% dell’intera popolazione adulta
occidentale. In alcuni studi si è osservato che la prevalenza degli AAA nei soggetti tra i 45-54 aa è bassa (1.3%
nei maschi e 0% nelle femmine), mentre nei soggetti tra i 75-84 aa aumenta considerevolmente (12,5% nei
maschi e 5,2% nelle femmine).
TOPOGRAFIA e MORFOLOGIA colpisce prevalentemente il distretto sottorenale (90% dei casi), con
frequente coinvolgimento delle art. iliache comuni: solo nel 10% dei casi interessa la zona sovra renale e
pararenale. Spesso si presenta con aneurismi di altri distretti associati, soprattutto delle arterie iliache comuni,
della ipogastrica destra e dell’arteria splenica. Solitamente come detto, nella maggior parte dei casi gli aneurismi
sono di tipo sacciforme, anche se possono riscontrarsene di tipo fusiforme nelle zone in cui l’aorta è meno adesa
alla colonna vertebrale.
EZIOPATOGENESI è quella vista nella classificazione generale (degenerativi, congeniti, micotici, traumatici,
infiammatori..). In particolare nell’aorta il 90% hanno origine degenerativa (aterosclerosi, fibrodisplasi), con gli
sutdi istologici che mostrano riduzione dello sviluppo parietale, lesione ateromasiche nella tonaca intima e
riduzione o assenza di fibre elastiche e infiltrato linfomonoplasmacellulare. La seconda causa di aneurismi
aortici è quella infiammatoria, seguono tutti gli altri.
STORIA NATURALE l’aneurisma va incontro a un progressivo aumento delle dimensioni del diametro,
mediamente di circa 0,4 cm l’anno, fino a che non avviene la rottura dell’aneurisma. La rottura avviene nella
maggior parte dei pazienti sopra i 5,5 cm (è praticamente certa quando l’aneurisma supera i 7 cm, è del 35%
quando supera i 6 e del 25% quando supera i 5 cm), ma ci sono casi di rotture tra i 4 e i 5,5 cm e addirittura tra i
3 e i 3,9 (rarissimi, rappresentano lo0,9% dei casi). La rottura è l’evento fondamentale della storia
dell’aneurisma, avendo una mortalità globale, cioè sia postintervento, che intraoperatoria che postoperatoria,
dell’88%. La mortalità sale al 92% nei pazienti tra 80 e 85 ani ed è del 100% sopra gli 85 anni. I fattori che la
favoriscono sono: l’elevata pressione arteriosa media, il fumo di sigaretta, l’insufficienza respiratoria e la
morfologia (la fusiforme predispone più della sacciforme).
CLINICA come detto, l’aneurisma è spesso asintomatico fino alla sua rottura. Talvolta può però manifestarsi
anche prima con un dolore epigastrico o lombare, spesso dovuto alla compressione dell’aneurisma sulle vie
urinarie (ureteri), o sul tubo gastroenterico (duodeno, anse digiunali, mesentere, colon), oppure ancora sulla
colonna vertebrale o su altri vasi viscerali o la vena cava.; talvolta invece i sintomi sono dovuti ad un’ischemia
acuta periferica dovuta al distacco di emboli che si staccando da trombi, la cui formazione è molto più frequente
a livello delle sacche aneurismatiche per via del flusso diverso e della stasi che si determina a questo livello.
Altro sintomo che può caratterizzare il paziente è la sensazione di massa pulsante in addome. Nella maggior
parte dei casi l’aneurisma da segno di sé però solo al momento della rottura, che può avvenire:
- in sede retro peritoneale (se è posteriore): in questo caso si avrà shock accompagnato da dolore addomino-
lombare;
-in cavità libera peritoneale (se è anteriore);
- in un organo cavo: si ha nel caso di fistole. Se la fistola è aorto-enterica (con duodeno, digiuno ileo o altro) si
avrà shock accompagnato da sanguinamento intestinale; se la fistola è aorto-cavale c’è edema agli arti inferiori e
scompenso cardiaco.
DIAGNOSI dopo l’anamnesi e la clinica (l’esame obiettivo mostra la massa pulsante in addome, l’anemia se
c’è stata rottura, ecc..) si passa agli esami strumentali, che hanno lo scopo di definire l’eventuale presenza
dell’aneurisma e, se presente, definirne diametri, morfologia, estensione e rapporti con le strutture circostanti.
Gli esami utilizzati sono:
-eco-color-doppler: esame di prima scelta che, oltre ad individuare la dilatazione aortica e valutarne le
dimensioni, definisce anche la presenza di trombi parietali, aree ulcerate e calcficazioni.
- RM e angio-TC spirale: quest’ultima, eseguita sia con che senza mdc, è la metodica più accurata per misurare i
diametri, ma ha un limite nell’incapacità di valutare tortuosità e angolazione dei vasi.
-angiografia: è il gold standard anche se si preferisce usarlo poco per la sua invaisività.
TERAPIA è chirurgica. Il trattamento:
-è sconsigliato se l’aneurisma non è complicato e ha diametro inferiore ai 5 cm: in questo caso è sufficiente il
controllo dei fattori di rischioe un periodico follow up;
-è consigliato se l’aneurisma ha dimensioni maggiori di 5 cm ed è asintomatico;
-è indicato se l’aneurisma è maggiore di 5,5 cm ed è sintomatico o complicato o con caratteristiche
morfologiche che lo rendono ad alto rischio di rottura (accrescimento rapido, sacciforme, con dissecazione o
trombo, ecc..).
La terapia chirurgica può essere tradizionale o endovascolare.
La chirurgia tradizionale viene fatta con un tromboendoaneurismectomia+ sostituzione protesica.
La chirurgia endovascolare, che può essere fatta solo nel 10-25% dei casi, consiste in una esclusione
aneurismatica mediante endoprotesi.

151
I risultati variano a seconda della situazione in cui si è fatto l’intervento: se è fatto in elezione la sopravvivenza a
5 anni è maggiore del 60% e la mortalità intraoperatoria minore del 3%; se fatta in urgenza la sopravivenza a 5
anni è più bassa, ma soprattutto la mortalità intraoperatoria è medaiemnte del 50%.

IPERTENSIONE ATERIOSA
Si parla di ipertensione quando vi è un aumento della pressione arteriosa oltre i 90 per la minima e oltre i 140
per la massima. In particolare l’ipertensione è definita lieve o di 1° grado nel caso in cui i suoi valori oscillino
tra 90-99 per la minima e 140-159 per la massima; è definita di 2° grado quando la minima sta tra 100-109 e la
massima tra 160-179; è definita grave quando i suoi valori sono superiori a 110 e a 180.
EZIOPATOGENESI
1. nel 90% dei casi l’ipertensione non riconosce nessuna causa: si parla perciò di ipertensione essenziale;
2. nel 10% si riconoscono delle cause organiche di ipertensione, che pertanto viene definita secondaria. Ne
fanno parte l’ipertensione renale (nefro-parenchimale e nefro-vascolare), e l’ipertensione da forme
endocrine (Cushing, femocromocitoma, iperaldosteronismo). Queste sono quelle che approfondiremo
perché la loro risoluzione avviene spesso attraverso la chirurgia.
3. cause minori: dovute a utilizzo di spray nasali, pillola estrogenica, liquirizia, corticosteroidi. Sono
temporanee.
CLINICA solitamente la sintomatologia è molto sfumata o assente, anche se può farsi più importante con
l’aumento dei livelli pressori, manifestandosi con: cefalea, acufeni e scotomi scintillanti.
DIAGNOSI dopo aver escluso le cause minori, bisogna accertarsi se il paziente abbia familiarità ipertensiva
(quindi se ci sono consanguinei di 1° grado ipertesi) e cominciare l’esame obiettivo, utile non tanto per
riconoscere la causa dell’ipertensione, quanto per individuare le possibili complicanze. Si analizza quindi:
l’apparato cardiovascolare (toni cardiaci, soffi aortici –l’ipertensione sembra favorire lo sviluppo di aneurismi -,
ecc..), il fondo della retina (emorragie ed essudati sono tipici dei pazienti con ipertensione grave o prolungata).
Dopodiché si eseguono esami più approfonditi per risalire alle cause. I principali sono:
-esame urine per escludere la forma nefro-parenchimale (se è lei responsabile ci sarà ematuria e proteinuria,
altrimenti no);
-creatininemia: serve anch’essa per vedere se il rene sta funzionando bene. Un suo aumento pone il sospetto di
ipertensione nefro-parenchimale;
-potassio plasmatico: se è basso ci orienta verso un iperaldosteronismo primario, o anche secondario se dovuto
a danno nefro-vascolare.
-glicemia: è alta nella sindrome di Cushing e nel diabete (spesso associati).
Se questi esami sono negativi ci si orienta solitamente verso un’ipertensione essenziale, mentre se sono positivi
si fanno degli esami più specifici per cercare la lesione organica che ha determinato l’ipertensione (vedi capitolo
successivo).
TERAPIA nell’ipertensione essenziale è farmacologica: diuretici, β-bloccanti, ace inibitori, calcio antagonisti,
sartanici. Per l’ipertensione secondaria vedi dopo.

IPERTENSIONI SECONDARIE
Approfondiamo queste perché sono comprese tre tipi di interesse chirugico: la nefro-vascolare, che è la più
importante, il morbo di Conn e il feocromocitoma. Come detto, ne fanno parte la maggior parte delle forme di
tipo secondario per cui, soprattutto in passato, la risoluzione era di tipo chirurgico, sebbene oggi sia più che altro
di tipo endovascolare.
EPIDEMIOLOGIA questa forma rappresenta il 10% dei casi di ipertensione.
EZIOPATOGENESI le cause sono principalmente due: ipertensione renale e ipertensione da forme endocrine.
1. Ipertensione renale
Può essere a sua volta di tipo nefro-parenchimale (3%) o nefro-vascolare (detta INV – ipertensione nefro-
vascolare -2%) a seconda che origini da una disfunzione del parenchima renale o da un problema vascolare
arterioso.
La forma nefro-parenchimale è dovuta a un danno del parenchima, normalmente indispensabile per l’equilibrio
idro-salino e per regolare la pressione arteriosa, perché impedisce l’eccessivo aumento di volume e l’accumulo
di sodio eliminandolo. Per questa ragione tutte le patologie che causano alterazioni della funzione “emuntoria”
renale, come glomerulosclerosi, nefrosclerosi, glomerulonefrite cronica, ecc.., causano ipertensione arteriosa.
Nella forma nefro-vascolare invece, che è quella più prettamente di interesse chirurgico, il problema nasce
nelle arterie renali e nei loro rami, che vanno incontro ad una stenosi e quindi a una riduzione del flusso. Essa è
considerata una forma di interesse chirurgico perché per la prima volta la risoluzione di questa ipertensione
avvenne con una tromboendoarterectomia delle arterie interessate. Questa metodica è stata la principale per
molti anni ma è stata oggi sostituita da una metodica di tipo endovascolare (fatta con angiografia quindi, e on
con chirurgia), perciò non è più realmente di interesse chirurgico. La sua incidenza è più alta soprattutto negli
estremi: prime decadi di vita, in cui è frequente nei soggetti con familiarità con ipercolesterolemia e quindi
aterosclerosi precoce, e oltre i 60 anni, dove è frequente la presenza di ateromi o calcificazioni arteriose che

152
possono ostruire i vasi a livello renale. La causa principale di INV sono l’aterosclerosi e la displasia
fibromusclare (accumulo di collagene subintimale con conseguente stenosi concentrica), che si presentano già in
soggetti giovani e che possono causare una riduzione del flusso ematico renale (meno comuni sono le altre
cause di ostruzione del flusso renale: dilatazione aneurismatica, trombo embolia, arteriti, traumi fistole artero-
venose, neoplasie e fibrosi peritoneale – queste ultime due agenti dall’esterno, mentre tutte le altre dall’interno
del vaso). Diminuendo il flusso ematico viene attivato l’apparato iuxtaglomerulare (trasduttore meccano-
chimico posto vicino al glomerulo, a diretto contatto con la biforcazione dell’arteriola afferente), il quale
produce renina, un enzima che attiva l’angiotensinogeno epatico tagliandone un pezzo e creando così
l’angiotensina 1, la quale una volta in circolo è trasformata nel polmone in angiotensina 2 dall’enzima ACE, che
stacca un’altra parte della molecola proteica. L’angiotensina è responsabile dell’effetto ipertensivo perché:
1)agisce sulle cellule muscolari lisce dei vasi causando vasocostrizione, quindi maggior resistenza dei vasi e
quindi aumento di pressione; 2)agisce sulla corticale surrenale facendo aumentare la sintesi di aldosterone, il
quale trattiene sali (soprattutto Na +, su cui esplica la sua azione) e acqua, così da espandere il volume circolante,
aumentare la portata cardiaca e quindi la pressione.
2. Forme endocrine
Sono comprese: feocromocitoma, iperaldosternoismo e sindrome di Cushing (vedi tutte nel capitolo sul
surrene).
Nell’iperaldosternosimo primitivo vi è una iperproduzione di mineralcorticoidi, soprattutto aldosterone, con
conseguente aumento del Na+ trattenuto e quindi del volume ematico circolante: ciò causa ipertensione arteriosa.
Nella sindrome di Cushing sono iperprodotti i glucocorticoidi, che hanno anch’essi azione mineralcorticoidea,
seppur meno spiccata rispetto a quella dell’aldosterone, e quindi causano ritenzione di Na + e acqua.
Sempre a livello del surrene può essere interessata la midollare col feocromocitoma, tumore iperproducente
catecolammine, che sono sostanze vasoattive che agiscono anch’esse sulla pressione.
CLINICA il primo sospetto diagnostico si ha soprattutto con la clinica: l’iperaldosteronismo causa soltanto
ipertensione arteriosa, che sebbene normalmente sia per lo più asintomatica, qui si presenta con i sintomi
dell’ipopotassiemia (perché la ritenzione di sodio dovuta agli alti livelli di aldosterone si accompagna a
deplezione di potassio), ossia crampi e astenia; nella sindrome di Cushing sono presenti molti altri sintomi legati
ai glucocorticoidi, come obesità androide, strie rubre, aumento peluria, facies lunare, spesso diabete, ecc..; nel
feocromocitoma i sintomi legati all’ipertensione sono molto più pronunciati e accompagnati da agitazione
psicomotoria, palpitazioni, calore e cefalea per via dell’aumento della liberazione delle catecolammine. Altri
dati che possono orientarci verso la diagnosi si ricavano dall’anamnesi: quando l’ipertensione insorge da giovani
o oltre i 70 anni, difficilmente si tratta di ipertensione essenziale, perché questa è tipicamente degli adulti tra i
30 e i 50 anni, dato che è un’ipertensione su base genetica associata a fattori ambientali. Perciò se un giovane di
10-15 anni è iperteso la forma essenziale è esclusa, mentre è più probabile si tratti di una forma endocrina. Allo
stesso modo un anziano normoteso sino a 70 anni che poi sviluppa ipertensione ha sicuramente una forma
secondaria, nella maggior parte delle volte di tipo nefro-vascolare, dovuta a placca aterosclerotica nelle arterie
renali. Questi pazienti non hanno altri sintomi caratteristici, se non una elevazione improvvisa della pressione
arteriosa talora associata a edema polmonare acuto.
DIAGNOSI i primi esami da fare sono quelli di screening visti nella parte generale. Se son negativi c’è
ipertensione essenziale; se invece da questi esami risulta qualche anomalia, procediamo con esami più specifici
per indagare il sospetto cercando le cause secondarie.
Tra gli esami di laboratorio: per escludere la forma nefro-parenchimale si fa l’esame urine; per escludere quella
nefro-vascolare si valuta l’attività plasmatica della renina (PRA) e l’aldosterone; molto importante è il dosaggio
di renina, angiotensina e aldosterone anche per distinguere la forma nefro-vascolare da un iperaldosteronismo
primitivo: infatti se troviamo aldosterone aumentato e non la renina dobbiamo pensare a un iperaldosternismo
primitivo, in cui infatti la renina non aumenta, ma addirittura è diminuita perché il flusso renale è aumentato;
invece, se la renina è aumentata, insieme agli altri enzimi della sua catena, allora è presente una forma nefro-
vascolare; infine per indagare il sospetto di femocromocitmoma, deve essere dosato l’acido vanilmandelico, il
quale è un sottoprodotto del catabolismo delle catecolammine, e tende ad aumentare dopo le crisi.
Tra gli esami strumentali: nel caso si sospetti la presenza di una massa surrenalica è indicato in prima istanza
l’ECO addome, seguito da TC e RM (che vedono anche meglio ma sono più costosi). Il feocromocitoma può
però trovarsi anche al di fuori delle surrenali, ovunque sia presente tessuto cromaffine, e quindi non trovarsi
all’ecografia, perciò oltre al dosaggio dell’acido vanilmandelico, già di per se molto indicativo, deve essere fatta
una scintigrafia total body con una sostanza marcata con iodio (MIBG – metaiodobenzilguanidina), che si fissa
dove c’è il feocromocitoma e che si manifesta quindi come area ipercaptante. Nel caso dell’ipertensione nefro-
vascolare, invece, bisogna fare: eco-color-doppler (poco invasivo e abbastanza accurato, avendo una specificità
del 90%), angio-RM, angio TC spirale e angiografia, ancora ggi considerata il gold standard per la coferma di
lesioni steno-occlusive delle arterie renali, sebbene sia poco utilizzata e solo nei pazienti in cui si sia già posta
l’indicazione alla rivascolarizzazione endovascolare.
TERAPIA consiste nell’asportazione della massa surrenalica nel caso in cui l’origine sia endocrina, e
nell’angioplastica seguita da apposizione di stent nel caso in cui sia di origine nefro-vascolare.

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