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Stefano Ballerio

Narratologia
Dispensa per il corso di Critica e teoria della letteratura I-Z, a.a. 2021-2022
Sommario

1. PERSONAGGI 3
1.1. IL PERSONAGGIO: INDIVIDUALITÀ, CARATTERIZZAZIONE ED ESEMPLARITÀ 3
1.1.1. Individualità del personaggio 3
1.1.2. Caratterizzazione del personaggio 6
1.1.3. Esemplarità del personaggio 13
1.2. RAPPRESENTAZIONI DELLA PAROLA 16
1.2.1. Il discorso dei personaggi 16
1.2.2. La raffigurazione della parola nel romanzo 24
1.3. RAPPRESENTAZIONI DELL’INTERIORITÀ 30
1.3.1. Il romanzo e la rappresentazione dell’interiorità 30
1.3.2. La psiconarrazione 31
1.3.3. Il monologo interiore 37
1.3.4. Il monologo narrato 41
1.4. PROSPETTIVA, FOCALIZZAZIONE E POLIFONIA 44
1.4.1. Prospettiva e focalizzazione 44
1.4.2. Polifonia e dialogismo 49
2. INTRECCIO 55
2.1. L’INTRECCIO COME COMPOSIZIONE DELL’AZIONE 55
2.2. TEMPO DELLA STORIA E TEMPO DEL RACCONTO 58
2.2.1. Ordine 59
2.2.2. Durata 61
2.2.3. Frequenza 65
2.3. L’INTRECCIO COME CONFIGURAZIONE 66
INTERMEZZO: ANALISI NARRATOLOGICA DI PASSIONE, DI ALICE MUNRO 73
3. LE FIGURE DELLA NARRAZIONE 86
3.1. IL NARRATORE E IL NARRATARIO 86
3.1.1. Il narratore: concetto e tipi 86
3.1.2. Il narratario e il modello della comunicazione narrativa 93
3.2. DESCRIVERE I NARRATORI 95
3.2.1. Funzioni e visibilità 95
3.2.2. Narratori inattendibili 101
3.3. AUTORE IMPLICITO E LETTORE IMPLICITO 104
3.3.1. L’autore implicito 104
3.3.2. Il lettore implicito 109
3.4. LE INFRAZIONI DEL MODELLO DELLA COMUNICAZIONE NARRATIVA 110
3.4.1. Le infrazioni del modello 110
3.4.2. Il lettore e le infrazioni del modello 111
3.5. L’ATTO NARRATIVO 114
3.6. SUL CONCETTO DEL NARRATORE: FONDAMENTI E TEORIE ALTERNATIVE 119
3.6.1. La teoria strutturalista e il narratore 119
3.6.2. Una prospettiva ermeneutica 123
INTERMEZZO: LA PRESA DEL PONTE DI THABOR IN GUERRA E PACE 134
4. UN’IDEA DI NARRAZIONE 143
BIBLIOGRAFIA 150
1. Personaggi

1.1. Il personaggio: individualità, caratterizzazione ed esemplarità


Il nostro percorso narratologico inizierà con alcune riflessioni sui personaggi letterari. Da
una parte, infatti, tutte le narrazioni letterarie (intendiamo con questo i testi narrativi let-
terari; nel seguito definiremo una diversa accezione del termine narrazione), e quindi
romanzi, racconti, novelle e testi di altri generi, presentano dei personaggi, o, appunto,
narrano di personaggi; dall’altra, i personaggi hanno indubbiamente un ruolo preminente
nella nostra esperienza di lettura di narratizioni letterarie. Dunque non sarà improprio
cominciare dai personaggi.

1.1.1. Individualità del personaggio


Consideriamo l’esordio del Topo Brigante (2011), un
picturebook di Julia Donaldson (l’autrice del testo) e
Axel Scheffler (l’illustratore): innanzitutto, il perso-
naggio protagonista è introdotto mediante una descri-
zione definita, e cioè mediante un sintagma nominale
composto da un articolo determinativo e da un’espres-
sione che indica una proprietà. Nella scrittura come
nell’oralità, una descrizione definita può essere usata
per fare riferimento all’unico individuo dell’universo
del discorso che presenti la proprietà indicata nella de-
scrizione. Nel caso del Topo Brigante, l’espressione
descrittiva è composta dai due nomi topo e brigante e
la descrizione, complessivamente, fa riferimento a
quell’unico personaggio della storia – lo vediamo raf-
figurato sotto il testo (fig. 1) – che sia un topo e inoltre
un brigante. Di seguito, il testo enumera una serie di
altre proprietà che caratterizzano il personaggio iden-
tificato e dunque ci informa che questi è «un poco di
Fig. 1 – Il topo brigante
buono», «roba da forca» e «un gran malandrino» e che
«[s]paventa, deruba […] / e poi, soddisfatto, si gusta il bottino» (per i nostri scopi, pos-
siamo riferirci alla traduzione italiana del testo).
In qualsiasi narrazione, le descrizioni definite non sono usate solo per il personaggio
protagonista, né si incontrano solo nell’incipit. Al contrario, esse si succedono tipica-
mente per tutto lo svolgimento del testo e sono usate per fare riferimento a entità di vario
genere. Arrivati a un qualche punto del Topo Brigante, per esempio, potremmo imbatterci
in espressioni come il cavallo del Topo Brigante o il covo del Topo Brigante. In questo
modo, l’universo del discorso del testo si espanderebbe per comprendere due nuove en-
tità: il cavallo e il covo del Topo Brigante. In una narrazione, le descrizioni definite ci
consentono di espandere l’universo del discorso introducendo entità che esse designano
in virtù delle proprietà che le caratterizzano (il Topo Brigante) e delle relazioni che queste
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nuove entità intrattengono con altre entità dello stesso universo (il covo del Topo Bri-
gante). Questa è la funzione primaria che le descrizioni definite svolgono in un testo,
narrativo o di altro genere. Andrea Bonomi (che usa anche il concetto di espressione
anaforica, ovvero di espressione che svolga la propria funzione referenziale attraverso
un’altra espressione, compresa nello stesso testo, alla quale l’espressione anaforica ri-
mandi per condividerne poi il referente) scrive:

Nell’universo di discorso che viene via via associato a un testo gli individui che lo popolano
risultano collegati sistematicamente dall’insieme delle proprietà e relazioni che il testo at-
tribuisce loro. Questo insieme di relazioni è reso possibile dalla presenza di espressioni
anaforiche. Tali espressioni, infatti, prolungano da un segmento di testo all’altro il riferi-
mento agli individui rilevanti. Esse permettono quindi di connettere organicamente mo-
menti diversi dell’espansione dell’universo di discorso. Si è così potuto parlare, più gene-
ralmente, di uno spazio anaforico, all’interno del quale un’entità viene designata in virtù
delle proprietà che possiede e delle relazioni che intrattiene con altre entità del dominio.
Un tipo di designazione, questa, che viene effettuata da una classe privilegiata di termini:
le cosiddette descrizioni definite. (63)

Le descrizioni definite, abbiamo detto, non introducono solo personaggi (ma anche
luoghi, oggetti, eventi o altro). Inversamente, i personaggi possono essere introdotti anche
tramite espressioni di altro tipo: innanzitutto, tramite nomi propri. Si legga, per esempio,
l’incipit di L’Ojo Silva (2001), di Roberto Bolaño, dove il primo riferimento al personag-
gio protagonista e dunque la sua introduzione sono mediati appunto da un nome proprio
(in filosofia del linguaggio, nomi propri e descrizioni definite sono termini singolari, e
cioè termini con i quali i parlanti fanno riferimento a singole entità dell’universo del di-
scorso):

Così vanno le cose, Mauricio Silva, detto l’Ojo, aveva sempre cercato di fuggire la violenza
anche a rischio di essere considerato un vigliacco, ma la violenza, la vera violenza, non si
può fuggire, o almeno non possiamo farlo noi, nati in America latina negli anni Cinquanta,
noi che avevamo una ventina d’anni quando morì Salvador Allende. (Puttane assassine 13)

Qui il personaggio viene introdotto con il suo nome – Mauricio Silva –, dopodiché, come
nel caso del Topo Brigante, il testo procede a caratterizzarlo mediante l’attribuzione di
alcune proprietà: che fosse «detto l’Ojo», che «avesse sempre cercato di fuggire la vio-
lenza» e così via.
Tipicamente, allorché viene usato per introdurre un personaggio, un nome proprio non
comporta di per sé una caratterizzazione di quel personaggio, come avviene invece con
le descrizioni definite. Tuttavia, anche il nome proprio avvisa dell’esistenza di un perso-
naggio, ovvero di un individuo inteso nella sua singolarità e che nel seguito del testo potrà
essere caratterizzato mediante l’ascrizione di proprietà. Ciò significa che l’uso iniziale di
un nome proprio in relazione a un personaggio sarà tipicamente «vuoto», ma «con una
promessa di riempimento» (Bonomi 97).

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Una narrazione, dunque, dispone davanti al lettore un insieme di personaggi ed entità


di vario tipo, ne indica alcune proprietà e li mette in relazione tra loro. Questa considera-
zione, di nuovo, potrebbe essere riferita anche a testi di altro genere e potrebbe essere
riformulata in relazione all’interpretazione del lettore, come propone ancora Bonomi:

Il primo, essenziale, passo nell’interpretazione di un testo (quale che sia la sua natura)
comporta l’approntamento di un modello di rappresentazione. Si tratta di una scena o si-
tuazione astratta in cui certi individui schematici sono fra loro collegati da certe relazioni
e proprietà. (136)

Gregory Currie ha formalizzato questa idea in termini di logica dei predicati, sugge-
rendo che un testo narrativo possa essere pensato in questa forma:

(1) $x1 … $xn[F(x1 … xn)]

La formula (1) significa in sostanza che c’è un qualche x1 e c’è un qualche x2 e c’è un
qualche x3 ecc. e x1 è così e così, x2 è così e così, x3 è così e così ecc. (così e così sono le
proprietà di x1, x2, x3 ecc., le quali comprendono anche le relazioni tra x1, x2 e x3; un
qualche sta per il quantificatore esistenziale $). «Se (1) rappresenta il contenuto della
storia, i nomi finzionali che appaiono nel testo originale sono sostituiti da variabili vin-
colate da quantificatori esistenziali e il contenuto della storia è questo: ci sono n individui
che hanno certe proprietà e stanno in certe relazioni gli uni con gli altri» (Currie 150; trad.
mia).
Questa formulazione copre anche quei casi in cui un personaggio non sia introdotto né
con un nome proprio, né con una descrizione definita. Si consideri, per esempio, l’incipit
del Medico di campagna (1833), di Honoré de Balzac:

Nel 1829, in una bella mattina di primavera, un uomo di circa cinquant’anni [un homme
âgé d’environ cinquante ans] procedeva a cavallo lungo un sentiero di montagna che con-
duce a un grosso borgo vicino alla Grande Certosa. (Balzac, Le Médecin de campagne 385;
trad. mia)

O si pensi a un’espressione come il principe Andréj – l’espressione usata più spesso,


in Guerra e pace (1865-69), per fare riferimento al personaggio –, che unisce al nome
proprio Andréj la descrizione definita il principe. E ancora in altri casi il nome proprio di
un personaggio sarà in realtà una specie di soprannome, ovvero un’espressione ibrida tra
nome proprio e descrizione definita, e costituirà già un primo elemento di caratterizza-
zione. In Rosso Malpelo (1878), di Giovanni Verga, Malpelo è appunto un soprannome
che deriva da un’espressione descrittiva (come spiega lo stesso incipit del racconto) e che
quindi presenta il personaggio nella luce di quella descrizione:

Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva i capelli rossi perché era
un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior di birbone. (Verga, Tutte
le novelle I 163)

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In Quer pasticciaccio brutto de via Merulana (1946-57), di Carlo Emilio Gadda, il


nome don Ciccio sembra unire al rispetto del titolo don la familiarità vagamente canzo-
natoria del diniminutivo Ciccio, alludendo così all’atteggiamento degli altri personaggi
verso il protagonista:

Tutti ormai lo chiamavano don Ciccio. Era il dottor Francesco Ingravallo comandato alla
mobile: uno dei più giovani e, non si sa perché, invidiati funzionari della sezione investi-
gativa: ubiquo ai casi, onnipresente su gli affari tenebrosi. (15)

E in Queenie (2001), di Alice Munro, il soprannome Queenie, che per la sorella della
stessa Queenie funziona ormai come un nome senza implicazioni semantiche, è invece
rifiutato dal marito Stan per le connotazioni che egli, al contrario, vi ravvisa:

– Forse dovresti smetterla di chiamarmi così, – disse Queenie quando ci incontrammo alla
Union Station.
E io: – Così come? Queenie?
– A Stan non piace, – disse. – Dice che gli fa venire in mente un cavallo. (Munro, Nemico,
amico, amante… 237)

Anche per questi casi, complessivamente, possiamo far valere l’idea di Currie e di
Bonomi, la quale, al di là del formalismo logico, ci suggerisce di vedere il testo come
qualcosa che, da lettori, interpretiamo per rappresentarci progressivamente un insieme di
individui particolari – i personaggi – e altre entità che ci appaiono in certi modi e in certe
relazioni.1

1.1.2. Caratterizzazione del personaggio


Le considerazioni precedenti ci hanno anche mostrato che al personaggio sono attribuite
delle proprietà e per questo abbiamo parlato di caratterizzazione (dall’inglese characteri-

1
Aggiungiamo un’ultima precisazione: abbiamo detto che nomi propri e descrizioni definite, che
sono termini singolari, fanno riferimento a un individuo che si presume unico (l’unico, nell’uni-
verso del discorso, a rispondere a quel nome, o l’unico al quale si applichi veridicamente quella
descrizione). Anche l’espressione un uomo di circa cinquant’anni sembra essere usata, nel testo
di Balzac, per fare riferimento a un particolare uomo di circa cinquant’anni (riferimento identifi-
cante) e non a qualsiasi uomo che abbia cinquant’anni (riferimento generico: come quando di-
cessimo che «dobbiamo trovare un uomo di circa cinquant’anni per chiedergli come fossero gli
anni settanta per un bambino»). La riformulazione di Currie, tuttavia, non sembra rendere conto
di questo aspetto del funzionamento del racconto, poiché il significato del quantificatore esisten-
ziale è che esista almeno un x (e quindi, potenzialmente, anche più di uno) che ecc. Nondimeno,
anche quando l’unicità di x non sia esplicitamente o indirettamente asserita dal testo, il lettore
interpreterà il testo in questo modo – nel nostro caso, presumendo che ci sia un solo uomo di circa
cinquant’anni che proceda a cavallo lungo la strada ecc. Il lettore assume cioè che il narratore
racconti una storia di individui particolari e questo assunto accomuna la ricezione dei testi narra-
tivi letterari finzionali e quella dei testi narrativi non finzionali e non letterari.
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zation), che ora possiamo definire sommariamente come il processo di costruzione del per-
sonaggio e cioè di elaborazione progressiva, nel testo soggetto all’interpretazione del let-
tore, della sua fisionomia.
Abbiamo inoltre cominciato a vedere che le proprietà attribuite a un personaggio pos-
sono essere le più disparate. In questo passo di Post and Beam (2000) di Alice Munro,
per esempio, viene descritto, attraverso la percezione della protagonista Lorna, l’aspetto
fisico di sua cugina Polly:

Certe cose dell’aspetto fisico di Polly, Lorna le aveva dimenticate. Quanto fosse alta, ad
esempio, e che avesse il collo lunghissimo e la vita stretta, e il seno quasi del tutto piatto.
Mento piccolo e irregolare, bocca sottile. Carnagione pallida, capelli castani tagliati corti,
fini come piume. (Nemico, amico, amante… 191-192)

Nelle prime battute di Caro vecchio neon (2001), di David Foster Wallace, invece, il
personaggio narratore si attribuisce dei tratti caratteriali e morali:

Per tutta la vita sono stato un impostore. E non esagero. Ho praticamente passato tutto il
mio tempo a creare un’immagine di me da offrire agli altri. Più che altro per piacere o per
essere ammirato. Forse è un po’ più complicato di così. Ma se andiamo a stringere il succo
è quello: piacere, essere amati. Ammirati, approvati, applauditi, fa’ un po’ tu. Ci siamo
capiti. (Oblio 169)

Nel passo che segue, da The Bear Came Over the Mountain (2001; anch’esso di Alice
Munro, da Nemico, amico, amante…), i genitori della protagonista Fiona sono variamente
caratterizzati in termini fisici (la madre), ideologici e caratteriali (la madre e il padre) e
sociologici (il padre):

La madre di Fiona era islandese: una donna possente con una spuma di capelli bianchi e
indignate idee di estrema sinistra. Il padre era un insigne cardiologo, riverito nell’ambiente
ospedaliero, ma lieto di mostrarsi sottomesso tra le pareti domestiche dove spesso gli capi-
tava di ascoltare con un sorriso distratto lunghe invettive bizzarre. (268)

Il passo, d’altra parte, mostra anche come spesso certe distinzioni tra tipi di proprietà –
per esempio, tra proprietà fisiche e caratteriali – siano quanto meno sfumate, o come i
diversi aspetti della caratterizzazione si compenetrino: così la «spuma di capelli bianchi»
della madre di Fiona è un tratto del suo aspetto che sembra già prolungarsi nelle succes-
sive «indignate idee di estrema sinistra». Analogamente, la descrizione di Terry Schmidt
che troviamo nel passo che segue, da Mister Squishy (2000), ancora di Wallace, unisce la
caratterizzazione sociologica, in quanto informa sulla professione del personaggio e sulle
sue implicazioni, e quella caratteriale, poiché i comportamenti e gli atteggiamenti legati
alla professione diventano habitus e infine carattere:

Il coordinatore del Focus Group, addestrato dalle esigenze di quella che sembrava essere
diventata la sua professione a comportarsi come se interagisse in modo attivo e spontaneo,
ma restando di fatto dentro di sé un osservatore distaccato e quasi cinico, possedeva anche

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un occhio naturale per i particolari comportamentali capaci spesso di rivelare vere chicche
di importanza statistica fra la sovrabbondanza grossolana e grezza di fatti casuali. (Oblio 10)

Da un punto di vista logico, il fatto che le proprietà ascritte al personaggio siano fisi-
che, morali, sociologiche o di altro genere (anche un verbo come corre, da un punto di
vista logico, è un predicato che attribuisce una proprietà) è ininfluente (il modello di Cur-
rie e di Bonomi, infatti, non prevede distinzioni in questo senso e tratta le proprietà, sem-
plicemente, come proprietà, specificando al massimo che alcune di queste proprietà pos-
sono essere relazionali); da un punto di vista ermeneutico, al contrario, il fatto che i per-
sonaggi siano caratterizzati fisicamente, moralmente, sociologicamente o in altro modo
non è irrilevante: quale tipo di immagine costruiremo di un dato personaggio dipenderà
anche da questo, così come in questo, anche, si manifesterà l’appartenenza di un testo a
un dato genere letterario o a una data epoca (la caratterizzazione sociologica, per esempio,
è molto più diffusa e rilevante nel romanzo realista del primo Ottocento, che nel romanzo
gotico del secondo Settecento o nella fiaba).
Ancora, bisogna precisare che il fatto che la caratterizzazione non sia data una volta
per tutte, ma proceda con la narrazione, implica che i personaggi possano cambiare. Si
legga questo passo di Nemico, amico, amante…, di Alice Munro (2001):

Com’era cambiata Sabitha in sole tre settimane; per tutto quel tempo Edith aveva lavorato
in bottega mentre sua madre si riprendeva dall’operazione. Sabitha aveva la pelle di un
appetitoso color biscotto, si era fatta i capelli più corti e li portava vaporosi intorno al viso.
Glieli avevano tagliati le sue cugine che poi le avevano fatto la permanente. Indossava una
specie di tuta con i calzoncini trasformati in gonna abbottonata davanti e con i fiocchi sulle
spalle di un bell’azzurro che le donava. Si era fatta più in carne e, chinandosi per raccogliere
il bicchiere di caffè freddo che stava a terra, mostrò un lieve incavo morbido e liscio.
Aveva il seno. Doveva aver cominciato a crescerle prima che partisse, ma Edith non se
n’era accorta. O magari succedeva che una mattina uno si svegliava e aveva il seno. O non
ce l’aveva. (Nemico, amico, amante… 36)

Lo sguardo di Edith rileva il cambiamento dell’amica. E si leggano questi due altri passi,
da Giorni del 1978 (2001), di Bolaño:

Quando resta solo, B pensa che U non gli sembra più né così alto né così robusto come alla
festa, in realtà è solo un po’ più alto di lui. L’immagine della moglie, al contrario, è cre-
sciuta e ha toccato livelli insospettati di splendore. […]
Per la prima volta U apre bocca e dice che è da molto che non va al cinema. Al contrario
di quanto B si sarebbe aspettato, il suo timbro di voce è perfettamente normale. (Bolaño,
Puttane assassine 71-72 e 77)

Nel primo, U appare a B diverso da come gli era apparso, ma non perché U sia cambiato,
bensì perché è cambiato l’atteggiamento di B, che quindi lo percepisce diversamente (e
lo stesso vale per la diversa percezione della moglie di U); nel secondo, il timbro della
voce di U contraddice le aspettative di B e quindi, almeno in parte, la rappresentazione di
U che egli si era formato in precedenza. Le caratterizzazioni successive di uno stesso
personaggio possono anche entrare in conflitto.
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I passi considerati suggeriscono anche un’altra osservazione sulla caratterizzazione:


l’attribuzione di proprietà a un personaggio può essere dovuta a soggetti diversi. Il passo
di Caro vecchio neon citato sopra è un caso di caratterizzazione del personaggio da parte
del personaggio stesso, che è anche il narratore del racconto (almeno per un tratto).
Quando poi lo stesso personaggio dice di Fern, sua sorella, che «[e]ra un po’ la classica
adolescente irrequieta» (Wallace, Oblio 179), abbiamo un caso di caratterizzazione di un
personaggio da parte di un altro personaggio. Qualcosa di simile troviamo nei passi di
Post and beam e di Nemico, amico, amante…, dove la caratterizzazione di Polly, nel
primo, e di Sabitha, nel secondo, è dovuta a Lorna e a Edith rispettivamente. I due passi
differiscono però da quello su Fern di Caro vecchio neon poiché in essi l’enunciazione
narrativa pertiene a un narratore eterodiegetico (il quale cioè non è un personaggio della
storia, come vedremo più avanti), ma in una complessiva figuralità – in un regime narra-
tivo, vale a dire, in cui gli eventi sono presentati nella prospettiva di un personaggio,
sebbene siano raccontati da un narratore che non è un personaggio – per la quale la rap-
presentazione del personaggio che viene proposta è infine quella elaborata dall’altro per-
sonaggio che lo osserva. Analogo a questi è il caso di Giorni del 1978, quindi, dove però
la distinzione tra narratore e personaggio è a tratti problematica, o dove la figuralità della
narrazione è ancora più radicale. Diverso è invece il caso del Topo Brigante, dove la
caratterizzazione risale al narratore eterodiegetico. È questo narratore, infatti, che ci dice
che il Topo è «un poco di buono».
Dire che la caratterizzazione dei personaggi può dipendere da soggetti diversi in passi
diversi del testo significa dire che l’identità dei personaggi, come l’identità umana, si
definisce in una dimensione relazionale (anche un nome proprio può essere pensato non
come segno di un’identità concepita in isolamento, ma come tramite di un possibile ap-
pello, o di un’apostrofe, e quindi come segno della natura relazionale dell’identità umana)
e che è molteplice anche per la molteplicità delle relazioni in cui ogni personaggio – come
ogni persona – si trova impegnato.
A comporre questa molteplicità di proprietà, relazioni e immagini – comporre non
necessariamente nel senso di una coerenza – sarà il lettore, che inoltre aggiungerà ancora
altri elementi di caratterizzazione sulla base delle azioni, delle parole e dei pensieri dei
personaggi. Alla caratterizzazione diretta, che si ha dove il testo attribuisce esplicita-
mente delle proprietà a un personaggio, si unisce infatti una caratterizzazione indiretta,
che è quella operata dal lettore che interpreta il testo al di là di ciò che in esso si dice
esplicitamente. Si consideri questo passo di Nemico, amico, amante…:

L’impiegato delle ferrovie avrebbe dichiarato senza pensarci su che conosceva tutti in
paese. Il che voleva dire che conosceva circa metà della gente. Per lo più lo zoccolo duro
della popolazione, quelli che si consideravano davvero «del posto», nel senso che non erano
arrivati il giorno prima e non intendevano trasferirsi l’indomani. Non conosceva la donna
in partenza per il Saskatchewan, perché non era un membro della loro chiesa, non era l’in-
segnante dei suoi figli e non lavorava in nessun negozio, ufficio o ristorante che lui fre-
quentasse. (Nemico, amico, amante… 6)

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Leggendo e dunque interpretando questo passo, il lettore potrebbe essere portato a carat-
terizzare l’impiegato delle ferrovie come una persona chiusa in una dimensione egocen-
trica e provinciale, anche se il narratore non usa nessuna di queste parole, né altre analo-
ghe, per descriverlo. In effetti, mentre leggiamo di ciò che i personaggi fanno, dicono o
pensano, procediamo costantemente alla loro caratterizzazione indiretta, nel modo esem-
plificato tramite il passo di Munro. E anche in un caso come quello di Caro vecchio neon,
dove la caratterizzazione del personaggio come impostore è diretta e risale al personaggio
stesso, il lettore è indotto a problematizzarla da ciò che legge nel seguito (davvero il per-
sonaggio può essere descritto come un impostore? Proprio la sua ammissione della pro-
pria impostura potrebbe indurre un lettore a riconoscerlo come sincero, annullando la
proprietà auto-ascritta della mendacità; mentre un altro lettore potrebbe considerare que-
sta ammissione come una forma di astuzia e quindi confermare, ma sulla base delle pro-
prie osservazioni invece che della parola del personaggio narratore, l’immagine di men-
dacità che il personaggio stesso aveva suggerito). Come abbiamo detto, la caratterizza-
zione dei personaggi dipende da ciò che si dice nel testo, ma il testo è sempre soggetto
all’interpretazione del lettore.
Ora, quali proprietà cercherà di determinare, il lettore, al di là di ciò che il testo dice
esplicitamente? E quali criteri applicherà, o quali principi seguirà? Innanzitutto, possiamo
osservare che tipicamente i lettori applicano, in modo più o meno consapevole, un prin-
cipio di salienza: tendono cioè a sviluppare la caratterizzazione in direzioni che sembrino
rilevanti per l’interpretazione del personaggio e dell’opera. Stabilire se i capelli di Lady
Macbeth siano in numero pari o dispari, per esempio, non sembra troppo rilevante per
un’interpretazione di Macbeth (circa 1606); stabilire se Lady Macbeth abbia dei figli vi-
venti, invece, e quanti, in considerazione di ciò che ella dice per vincere i tentennamenti
del marito, nella settima scena del primo atto («[…] Io ho allattato e so / com’è tenero
amare il bimbo che succhia: eppure» [I, VII, 54-55; trad. mia]), potrebbe essere più rile-
vante.2 In secondo luogo, potremmo pensare, con Kendall Walton, che i lettori applichino
un principio di realtà e un principio di mutua credenza (Walton 144-145 e 150): il primo
dice che, in assenza di indicazioni testuali in contrario, il lettore assumerà che per i per-
sonaggi e per il mondo narrativo in generale valga ciò che vale per le persone e il mondo
reali. In assenza di indicazioni testuali in contrario, per esempio, il lettore assumerà che
Lady Macbeth abbia due gambe, che abbia partorito i propri figli e che possa essere ten-
tata dal potere, perché ciò vale per le persone, tipicamente, nel mondo reale. D’altra parte,
che cosa valga nel mondo reale non è ovvio – il principio di realtà non porta a integrazioni
univoche e necessarie della caratterizzazione, quindi – e, soprattutto, non è ovvio che ciò
che vale – tipicamente, di nuovo, e ammesso che si possa stabilire almeno una tipicità –
per un lettore del XXI secolo valga per un autore del XVI-XVII secolo e per il pubblico
dei suoi contemporanei. I lettori odierni non credono ai fantasmi, tipicamente, ma lo
stesso valeva, senza ulteriori precisazioni, per gli uomini del XVI-XVII secolo? Quando
Macbeth vede il fantasma di Banquo, che cosa dobbiamo pensare di quella visione e
dell’equilibrio mentale del protagonista? Che egli sia vittima di un’allucinazione, perché
i fantasmi non esistono, e che quindi il suo equilibrio mentale vacilli? Se applichiamo il

2
Facciamo riferimento a un testo drammaturgico, invece che a un testo narrativo, poiché, per il
discorso che stiamo svolgendo, la differenza non è rilevante.
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principio di realtà, potremmo giungere a questa conclusione. Se però consideriamo le


credenze dell’epoca di Shakespeare, per le quali i fantasmi, forse, potevano esistere, po-
tremmo concludere che Macbeth veda un fantasma realmente esistente, nel suo mondo, e
che quindi sia ancora in sé, per quanto sconvolto. Avremmo allora applicato il principio
di mutua credenza, che consiste nell’integrare le indicazioni testuali esplicite confor-
mando personaggi e mondo narrativo secondo ciò che era verosimile per la cultura
dell’autore. A un principio fondato su un’istanza di verosimiglianza si aggiunge così un
principio che risponde a un’istanza di storicizzazione.
Anche questa combinazione dei due principi, d’altra parte, non risolve interamente la
questione (come nota lo stesso Walton). Innanzitutto, non sempre sembra opportuno af-
fermare un’istanza di verosimiglianza. Interi generi narrativi, come la fantascienza e il
fantasy, si sottraggono in vario modo ai vincoli del verosimile e lo stesso vale per specifici
aspetti di altri generi letterari o artistici, come il linguaggio dei personaggi nella tragedia
elisabettiana (e magari le apparizioni di fantasmi) o la gestualità dei personaggi nell’opera
lirica dell’Ottocento. Spesso, cioè, il lettore (o spettatore) integrerà le informazioni espli-
cite secondo la propria conoscenza del genere a cui l’opera sembra appartenere. E com-
plessivamente converrà osservare, di nuovo, che la caratterizzazione indiretta, come in
generale la rappresentazione del mondo narrativo al di là delle indicazioni esplicite del
testo, è un’operazione interpretativa, nella quale il lettore, per usare un’espressione pro-
pria della filosofia ermeneutica, mette in dialogo il proprio orizzonte – visione ed espe-
rienza del mondo, conoscenza del passato, idee e aspettative sulla letteratura in generale
e sui suoi diversi generi in particolare… – con quello dell’opera.
Dire che il lettore procede a interpretare da un proprio orizzonte significa anche dire
che l’interpretazione non inizia mai da una tabula rasa. Scrive Hans Georg Gadamer (sulla
scorta di Martin Heidegger):

Chi si mette a interpretare un testo attua sempre un progetto. Sulla base del più immediato
senso che il testo gli esibisce, egli abbozza preliminarmente un significato del tutto. E anche
il senso più immediato il testo lo esibisce solo in quanto lo si legge con attese determinate.
(Gadamer 553)

L’interpretazione, secondo l’ermeneutica filosofica, è una forma della comprensione,


o un suo sviluppo, e la comprensione inizia da una precomprensione che precede l’inizio
della lettura. Leggiamo cioè sulla base di una conoscenza pregressa del genere al quale
pensiamo che l’opera appartenga, di un’idea del suo tema, che avremo maturato tramite
altre opere, la cultura o la nostra esperienza di vita, di determinate aspettative relative alla
letteratura e al suo linguaggio e così via: di orizzonti di attesa – per usare un’espressione
di Hans Robert Jauss – storicamente determinati. Tutto ciò precede l’incontro con il testo.
Dopodiché, con il processo caratteristico del circolo ermeneutico, la precomprensione si
trasforma attraverso la lettura: «La comprensione di ciò che si dà da comprendere – pro-
segue Gadamer (553) – consiste tutta nella elaborazione di questo progetto preliminare,
che ovviamente viene continuamente riveduto in base a ciò che risulta dall’ulteriore pe-
netrazione del testo». Se la caratterizzazione è interpretazione, dunque, anche l’elabora-
zione della fisionomia di un personaggio muoverà da una precomprensione (per Lady
Macbeth, per esempio, di che cosa siano un personaggio tragico, la regalità, la tentazione
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del potere, il delitto, forse la maternità e così via) che attraverso la lettura del testo si
riarticolerà progressivamente.
Tornando ai principi che sembrano regolare la caratterizzazione, quindi, possiamo os-
servare che essa, proprio in quanto ha carattere interpretativo, seguirà, come si è detto, un
principio di salienza e quindi non sarà diretta a una caratterizzazione logicamente com-
pleta del personaggio: per quante proprietà possiamo arrivare ad attribuire a un personag-
gio per via diretta o indiretta, cioè, il personaggio resterà sempre indeterminato rispetto
ad altre proprietà (la conoscenza che ne abbiamo sarà sempre incompleta). Dove ha pran-
zato Pierre Bezuchov in un giorno di cui il narratore di Guerra e pace non ci racconta
nulla? Quanto sono lunghe le dita delle mani di Emma Bovary? Saperlo non è importante
e per infinite proprietà, d’altra parte, non è nemmeno possibile: la caratterizzazione dei
personaggi è incompleta non solo di fatto, ma anche in linea teorica, e questo segna una
differenza tra personaggi finzionali e persone reali. Anche delle persone reali, infatti, non
sappiamo dire se possiedano determinate proprietà (se si applichino loro i predicati cor-
rispondenti), ma assumiamo che qualsiasi persona reale, al di là di ciò che ne sappiamo,
sia determinata rispetto a qualsiasi proprietà. Non saprò mai dove fosse all’ora di pranzo
l’uomo che incrocio per la strada o quanto siano lunghe le sue dita, ma è certo che fosse
da qualche parte e che le sue dita abbiano una lunghezza determinata e, in linea teorica,
si potrebbero scoprire entrambe le cose. Ciò però non vale per i personaggi delle narra-
zioni finzionali (determinare Pierre ed Emma rispetto alle due proprietà indicate è impos-
sibile in linea teorica, non solo di fatto), la cui caratterizzazione, infine, è costitutivamente
incompleta.3
Anche così appare la diversità dello statuto di realtà dei personaggi finzionali rispetto
a quello delle persone reali. Arriviamo cioè alla questione dello statuto di esistenza dei
personaggi finzionali. Essa è stata affrontata in una molteplicità di prospettive teoriche e
in particolare, dagli anni ottanta in avanti, attraverso l’apparato teorico dei mondi possi-
bili (ma il fatto che gli enti finzionali, come i personaggi, siano indeterminati mostra che
i mondi finzionali non sono mondi possibili nel senso dei logici e dei filosofi del linguag-
gio, per i quali un mondo possibile è sempre completamente determinato). Noi però non
ce ne occuperemo, se non per formulare poche osservazioni. La prima è che, intuitiva-
mente, i personaggi finzionali sono creature della nostra immaginazione: appartengono
all’esperienza immaginativa che viviamo attraverso la lettura e non ci aspettiamo di in-
contrarli per la strada. La seconda è che linguisticamente, tuttavia, facciamo riferimento
ai personaggi finzionali, per certi aspetti, come a persone reali: usiamo termini singolari
per gli uni come per le altre e per gli uni come per le altre, come osserva Franco Brioschi

3
Non è difficile intravedere alcuni casi problematici: come dovremmo intendere il Napoleone di
Guerra e pace? E i personaggi ovvero le persone della non fiction? I personaggi di una narrazione
non finzionale in senso stretto, quale potrebbe essere L’avversario (2000), di Emmanuel Carrère,
sono innanzitutto persone, che preesistono al testo in cui appaiono e sono quindi determinate
rispetto a qualsiasi proprietà: sono persone e, dal momento in cui l’autore scrive di loro, perso-
naggi letterari, ma non finzionali. Per i personaggi storici che figurino in narrazioni finzionali,
tipicamente romanzesche, come il Napoleone di Guerra e pace, di Lev Tolstoj, o l’Abraham Lin-
coln di Lincoln in the Bardo (2017), di George Saunders, non è generalmente possibile una sem-
plice identificazione con la persona storica.
12
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(209), formuliamo asserzioni controfattuali – «Ah, se Renzo fosse rimasto in convento!»


–, che sembrano postulare un’esistenza al di là di ciò che dice il testo (e cioè che sembrano
implicare, ancora in termini filosofico-linguistici, la possibilità di un riferimento identifi-
cante). La terza è che la caratterizzazione, in quanto è il portato di un’operazione erme-
neutica, come abbiamo osservato, non è solo un processo di definizione della fisionomia
di un’entità del mondo narrativo: il personaggio non ha solo un aspetto mimetico (mime-
tic), per usare la terminologia di James Phelan (Reading People, Reading Plots), ma an-
che un aspetto sintetico (synthetic) e un aspetto tematico (thematic): non è solo un’entità
immaginaria che abita un mondo narrativo ed è simile alle persone del mondo reale, ma
anche un artefatto testuale, che quindi deve essere compreso in relazione a codici e tradi-
zioni, e, ancora, un modo per elaborare un tema.4

1.1.3. Esemplarità del personaggio


L’ultima osservazione proposta ci porta a rilevare che in molti personaggi l’individualità
– quella particolarità che si manifesta nell’uso di termini singolari e nella caratterizza-
zione – convive con una funzione, o con un effetto, di esemplarità (riprendiamo questo
concetto, ma rielaborandolo per il caso specifico del personaggio e per gli scopi del nostro
discorso, da Nelson Goodman, I linguaggi dell’arte). Oltre a essere un individuo caratte-
rizzato in un certo modo, cioè, un personaggio può rappresentare un gruppo di persone
variamente definito, un modo di essere, una condizione umana, un’idea morale o altro
(non parliamo quindi di esemplarità nel senso della proposta di un modello da imitare: è
anche vero che molti personaggi letterari sono stati proposti come modelli in questa ac-
cezione – si pensi al Goffredo di Buglione di Torquato Tasso –, ma non è di questo che
stiamo parlando ora, anche perché non è questo che tipicamente accade nella modernità).
Si consideri, per esempio, ciò che scrive Balzac nell’«Avant-propos» alla Comédie
humaine del 1842:

La società non fa dell’uomo, a seconda degli ambienti in cui si dispiega la sua azione, tanti
uomini diversi quante sono le specie in zoologia? Le differenze tra un soldato, un operaio,
un amministratore, un avvocato, un ozioso, un sapiente, un uomo di stato, un commer-
ciante, un marinaio, un poeta, un povero, un prete, benché siano più difficili da afferrare,
non sono meno notevoli di quelle che distinguono il lupo, il leone, l’asino, il corvo, lo
squalo, la foca, la pecora ecc. E dunque, così come ci sono delle Specie Animali, sono
sempre esistite e sempre esisteranno delle Specie Sociali. (8)

Questa visione della società, secondo la quale gli individui sono anche membri di specie
sociali, suggerisce che un personaggio letterario possa essere pensato come rappresen-
tante di una di queste specie, ovvero, come scrive Balzac nella sua prefazione a Une té-
nébreuse affaire (1842), come tipo:

4
L’ultimo rilievo vale, in modi diversi, sia per i personaggi finzionali (Pierre Bezuchov), sia per
i personaggi non finzionali (Napoleone, Jean-Claude Romand).
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Un tipo […] è un personaggio che riassume in se stesso i tratti caratteristici di tutti coloro
che più o meno gli assomigliano, egli è il modello del genere. Così si troveranno delle
analogie tra questo tipo [un personaggio di La Paix du ménage e di Une élection en Cham-
pagne. N.d.R.] e molti personaggi del tempo presente […]. (492-493)

Questa concezione del personaggio romanzesco come individuo tipico, che riassume
in sé i tratti di un gruppo storico-sociale, è stata ripresa nella concezione marxista del
realismo narrativo. Nei suoi Saggi sul realismo (1948), György Lukács scrive:

La categoria centrale, il criterio fondamentale della concezione letteraria realistica è il tipo,


ossia quella particolare sintesi che, tanto nel campo dei caratteri, che in quello delle situa-
zioni, unisce organicamente il generico e l’individuale. Il tipo diventa tipo […] per il fatto
che in esso confluiscono e si fondono tutti i momenti determinanti, umanamente e social-
mente essenziali, d’un periodo storico; per il fatto che esso presenta questi momenti nel
loro massimo sviluppo, nella piena realizzazione delle loro possibilità immanenti, in
un’estrema raffigurazione di estremi, che concreta sia i vertici che i limiti della completezza
dell’uomo e dell’epoca. (15)

Ciò non implica, peraltro, che solo il romanzo realista corrisponda a questa idea di
tipicità del personaggio: il «giovin signore» del Giorno (1763-65) pariniano, per esempio,
è un personaggio immaginario, che non rappresenta alcuna singola persona storicamente
esistita, ma che esemplifica il tipo del giovane aristocratico ozioso, fatuo, ignorante e
presuntuoso (secondo una voce ripetuta ancora da Ugo Foscolo, il principe Alberico di
Belgiojoso si sarebbe sentito personalmente colpito dal poemetto: se la voce fosse stata
vera, il principe avrebbe avuto torto a sentirsi colpito personalmente, ma avrebbe potuto
legittimamente sentirsi colpito in quanto giovane aristocratico ozioso, fatuo, ignorante e
presuntuoso, ovvero in quanto appartenente al gruppo esemplificato dal personaggio pa-
riniano e per suo tramite satireggiato).
L’esemplarità, d’altra parte, non deve essere intesa necessariamente come tipicità:
«L’idea che i romanzi debbano rappresentare storie e personaggi tipici – scrive Guido
Mazzoni – è solo una delle tante poetiche possibili; con argomenti altrettanto buoni si
potrebbe difendere una poetica contraria, aperta alla mimesi dell’insolito» (137). E certo
sulla base di un’idea di tipicità sarebbe difficile rendere conto di molti personaggi dostoe-
vskijani, per esempio. Per questo conviene parlare, in generale, di esemplarità.
Inoltre, l’esemplarità di un personaggio può definirsi anche in altro modo che in rela-
zione a un gruppo storico-sociale. Un personaggio, per esempio, può esemplificare un
tipo morale. È il caso del misantropo di Molière, o del suo avaro, e di tanti personaggi
della satira e della commedia. Questi personaggi mostrano talvolta come un personaggio
possa essere un tipo anche nel senso (concettualmente diverso, però, da quello discusso
finora) di essere riconoscibile come quel tipo di personaggio, proprio magari di quel ge-
nere: il servo astuto, il soldato vanaglorioso, l’innamorato triste, il detective dalla straor-
dinarie capacità analitiche, il guerriero indomito, la femme fatale… Un personaggio in
certo modo stereotipo per le proprietà che lo caratterizzano e per le situazioni, dramma-
tiche o narrative, nelle quali si trova. Anche questi personaggi stereotipi o di genere pos-
sono esemplificare tipi morali o sociali e la loro importanza per numerosi generi narrativi
e drammatici non dovrebbe essere sottovalutata.
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Ancora, un personaggio può esemplificare una filosofia, o un atteggiamento. In Tempi


difficili (Hard Times; 1854), di Charles Dickens, Mr. Gradgrind è un’incarnazione della
filosofia utilitarista e di un’ossessione per i fatti di matrice positivista. E si consideri il
personaggio del barone Meir Faygel, che Amos Oz tratteggia in un suo breve scritto inti-
tolato L’eredità del barone (2016):

È risaputo che nel kibbutz tutte le persone sono uguali. Ma Meir Faygel non era proprio
uguale a tutti gli altri: lui era diverso perché veniva da Vienna e perché era barone. Di
baroni non c’era traccia in nessun kibbutz e men che meno a Hulda, anche se io spero e
credo che nel kibbutz del futuro tutti saranno baroni. Presto capirete perché dico questo. […]
[A]nche quando era tutto sporco e grigio, con gli abiti da lavoro spiegazzati proprio come
la faccia, anche allora Meir non era per noi un Faygel qualunque, ma un Von Faygel. Non
perché fosse superbo […]. Né superbo né dispotico né altezzoso. In compenso preciso e
scrupoloso e serio in tutto quello che faceva. […]
Meir Faygel era esattamente l’opposto della persona acida e scorbutica: era un uomo dolce.
Cordiale. Affabile. Gentile. […] Meir non amava soltanto l’umanità ma – cosa piuttosto rara
tra coloro che si professano amanti dell’umanità – voleva anche bene alle persone. […]
Meir Faygel se la spassava. Proprio così. [...] Barone che non sei altro! Invece di spaccare
capelli in quattro, lui sfruttava il poco tempo libero che aveva per godersi la vita! [...]
Anche di questo è fatta l’eredità del barone Meir Faygel, il suo baronesco contributo alla
serissima eredità del movimento laburista sionista, del socialismo israeliano e dei fondatori
del kibbutz di Hulda.
Sarebbe ora raccomandabile usare un po’ di questa eredità, per il bene del kibbutz, per il bene
della nazione, per il bene del socialismo e anche per il bene degli eredi in questione. (90-91)

Meir Faygel esemplifica un atteggiamento verso la vita fatto di dedizione, scrupolo, at-
tenzione e amore per il prossimo e volontà di godersi la vita. Il finale del testo, dove il
narratore suggerisce che l’eredità del suo esempio dovrebbe essere raccolta per il bene
del kibbutz, della nazione e del socialismo, suggerisce appunto che Meir dovrebbe essere
inteso come rappresentazione di una possibilità dell’esistenza che secondo il narratore
non dovrebbe restare senza eredi (e in questo senso nel testo di Oz torna a profilarsi anche
l’altra accezione del concetto di esemplarità – come proposta di un modello da imitare –
di cui dicevamo).
Questa, infine, è l’idea del personaggio letterario alla quale siamo portati dalle rifles-
sioni svolte su individualità, caratterizzazione ed esemplarità: una possibilità dell’esi-
stenza che il lettore incontra ed elabora attraverso l’interpretazione del testo.5

5
Avendo raggiunto questa formulazione, potremmo anche tornare su ciò che abbiamo detto della
caratterizzazione e chiederci questo: parlare dell’elaborazione della fisionomia del personaggio
come se esso fosse un oggetto, per quanto immaginario, al quale si attribuiscono proprietà, non
significa sottovalutare la relazione che lo unisce al lettore? Non implichiamo un’ontologia del
personaggio inadeguata proprio in quanto non assume innanzitutto questa dimensione relazionale
che emerge prima nell’interpretazione e poi nell’idea che il personaggio rappresenti per il lettore
una possibilità dell’esistenza? Sulla scorta di Martin Heidegger, a questa domanda potremmo
rispondere positivamente. Giovanni Bottiroli scrive: «Gli esseri umani non sono enti “proprie-
tari”, cioè non sono definibili in maniera adeguata mediante un elenco più o meno ampio di pro-
prietà. La loro identità dipende principalmente dalle relazioni e dai modi. Per Heidegger, gli esseri
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1.2. Rappresentazioni della parola


1.2.1. Il discorso dei personaggi
Torniamo alla caratterizzazione. Nelle sue Lezioni di letteratura, discutendo di Mansfield
Park (1814), di Jane Austen, Vladimir Nabokov afferma che Austen usa «quattro diversi
metodi» per caratterizzare i personaggi: «la descrizione diretta, con piccole scintille d’iro-
nia da parte dell’autrice», «la citazione diretta del discorso», «i discorsi riferiti» e, infine,
l’imitazione del «modo di parlare di un personaggio quando si parla di lui» (43-44). La
rappresentazione del discorso dei personaggi, nelle sue diverse forme, è dunque parte
della loro caratterizzazione. Si consideri il seguente passo dei Promessi sposi (1840-42),
di Alessandro Manzoni, nel quale si riferisce il dialogo fra Renzo e Don Abbondio in cui
il curato, che è stato minacciato dai bravi di Don Rodrigo, accampa pretesti per non cele-
brare il matrimonio del giovane con Lucia:

– Sapete voi quanti siano gl’impedimenti dirimenti?


– Che vuol ch’io sappia d’impedimenti?
– Error, conditio, votum, cognatio, crimen, / Cultus disparitas, vis, ordo, ligamen, hone-
stas, / Si sis affinis,… – cominciava Don Abbondio, contando sulla punta delle dita.
– Si piglia gioco di me? – interruppe il giovine. – Che vuol ch’io faccia del suo latinorum?
– Dunque, se non sapete le cose, abbiate pazienza, e rimettetevi a chi le sa.
– Orsù!...
– Via, caro Renzo, non andate in collera, che sono pronto a fare… tutto quello che dipende
da me. Io, io vorrei vedervi contento; vi voglio bene io. Eh!... quando penso che stavate
così bene; cosa vi mancava? V’è saltato il grillo di maritarvi…
– Che discorsi son questi, signor mio? – proruppe Renzo, con un volto tra l’attonito e l’adi-
rato. (22)

Le battute brevi e secche di Renzo, trapunte di interiezioni e domande indignate, manife-


stano il suo carattere focoso, mentre la semplicità del lessico e della sintassi sembrano
coerenti con la sua condizione di uomo del popolo. Il curato, in contrappunto, esibisce
con il suo «latinorum» e i suoi termini tecnici la propria istruzione e la propria posizione,
ma ricade subito dopo in una fraseologia di luoghi comuni e tradisce la propria viltà nelle
aposiopesi e nella reticenza complessiva del discorso. La caratterizzazione di un perso-
naggio, in generale, passa anche dalla resa dei suoi discorsi, poiché lessico, sintassi, fra-
seologia, pronuncia e altri tratti linguistici formano il suo idioletto – il suo particolare uso
della lingua –, che si definisce in relazione al suo carattere, alla sua cultura, alla sua pro-
fessione e ad altri aspetti della sua identità.
Il discorso dei personaggi, tuttavia, può essere rappresentato in modi diversi, che ora
dobbiamo osservare. Se quindi torniamo al passo dei Promessi sposi citato sopra, ve-
diamo che la prima battuta di Don Abbondio e quella successiva di Renzo sono in di-
scorso diretto libero: le parole dei personaggi sono citate, e cioè riferite letteralmente e

umani vanno pensati dal punto di vista delle possibilità. Ritengo che questa sia una tesi irrinun-
ciabile, che va estesa senza dubbio alla letteratura: le identità che incontriamo nelle opere lette-
rarie appartenenti al tempo grande sono interpretazioni di possibilità esistenziali» (30; trad.
dell’autore). Riprenderemo la questione più avanti.
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poste tra virgolette, senza essere accompagnate da verba dicendi. Le battute successive
dell’uno e dell’altro sono invece riferite in discorso diretto legato: le parole dei perso-
naggi sono citate, di nuovo, ma in questo caso sono anche accompagnate da verba dicendi
(in questo caso, «cominciava» e «interruppe»).
Nel discorso diretto legato la mediazione narratoriale è più pronunciata che nel di-
scorso diretto libero. Qualificando l’atto linguistico del personaggio con parole come
disse, rispose, affermò, obiettò, ironizzò, esclamò e così via, infatti, il narratore può sug-
gerirne una lettura o un’interpretazione e caratterizzare il personaggio mediante la descri-
zione del suo comportamento verbale. La qualifica dell’atto linguistico, inoltre, può pre-
cisarsi nei complementi e nelle proposizioni subordinate che accompagnano il verbum
dicendi. Riferendo l’ultima battuta di Renzo citata sopra, per esempio, il narratore precisa
che il giovane «proruppe […] con un volto tra l’attonito e l’adirato» e con queste parole
ci dice qualcosa sul suo atteggiamento rispetto alla situazione presente e sul suo carattere.
Consideriamo un altro esempio, da The Bear Came Over the Mountain:

– Non mi fraintenda, – disse. – Non parlo di Fiona. Fiona è una signora.


Sì, d’accordo, e Aubrey? aveva voglia di chiedere Grant. Poi si ricordò che Aubrey era su
una sedia a rotelle.
– Lei è una vera signora, – disse Kristy, in tono talmente deciso e rassicurante che Grant si
allarmò. Non riusciva a togliersi dalla mente l’immagine di Fiona con addosso una delle
sue camicie da notte lunghe, abbottonate e infiocchettate d’azzurro, nell’atto di sollevare
maliziosamente le lenzuola del letto di un vecchio.
– Be’, certe volte però mi chiedo… – disse.
E Kristy lo interruppe bruscamente: – Si chiede che cosa? (Nemico, amico, amante… 286-
287)

In questo passo, la prima battuta di Kristy e quella di Grant, in discorso diretto legato,
sono accompagnate solo da «disse», ma la seconda e la terza di Kristy sono qualificate
rispetto al tono e al modo in cui sono pronunciate: «in tono talmente deciso e rassicu-
rante…» e «lo interruppe bruscamente». Analogo è il caso dell’ultima battuta di Alfrida
in quest’altro passo di Munro, da Mobili di famiglia (2001; da Nemico, amico, amante…)

– E per divertirti che fai, invece?


Al momento un teatro di Toronto aveva in cartellone Un tram che si chiama desiderio; le
dissi che avevo preso un treno insieme a un paio di amiche per andare a vederlo.
Alfrida lasciò cadere rumorosamente coltello e forchetta sul piatto.
– Quella porcheria, – esclamò. La sua faccia, segnata dal disgusto, pareva sul punto di assa-
lirmi. Quando parlò il tono era più calmo, ma la disapprovazione ancora violenta. (104)

Questo passo mostra anche un altro modo di riferire il discorso dei personaggi, e cioè il
discorso indiretto legato. La risposta della narratrice alla domanda di Alfrida, infatti, non
è riferita in forma di citazione. La narratrice non ripete le parole con le quali ha risposto
ad Alfrida, ma riformula la risposta premettendo un verbum dicendi: «le dissi che avevo
preso un treno insieme a un paio di amiche per andare a vederlo». Rispetto al discorso
diretto, libero o legato, vi è quindi una più forte mediazione narratoriale. Riferendo in

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forma indiretta il discorso del personaggio, infatti, il narratore deve almeno modificarne
i tempi e le persone verbali e inoltre i riferimenti deittici.
Per chiarire questo punto, ipotizziamo di dovere riformulare in discorso indiretto le-
gato due battute di dialogo (pseudo-proustiano, sulla scorta di Gérard Genette) che, in
discorso diretto legato, suonerebbero così:

Marcel disse: «Devo sposare la mia fidanzata Albertine oggi stesso!».


Sua madre rispose: «Io non avrei tutta questa fretta. E poi sei sicuro che lei ti voglia spo-
sare?».

In discorso indiretto legato il dialogo sarebbe così riformulato (i corsivi evidenziano i


cambiamenti che conseguono dal passaggio al discorso indiretto legato):

Marcel disse che doveva sposare la sua fidanzata Albertine quel giorno stesso.
Sua madre rispose che lei non avrebbe avuto tutta quella fretta e gli chiese se inoltre fosse
sicuro che lei lo volesse sposare.

Rispetto al discorso diretto (libero o legato), il discorso indiretto legato comporta un


grado maggiore di mediazione narratoriale anche per altre ragioni. Consideriamo un altro
esempio, da Ortiche (2001; da Nemico, amico, amante…), di Munro:

Mi raccontò com’era morto suo padre. Era rimasto ucciso in un incidente stradale, di ritorno
da un lavoro nei pressi di Bancroft.
– I tuoi sono ancora vivi?
Dissi che mia madre era morta e che mio padre si era risposato.
A un certo punto gli dissi che mi ero separata da mio marito, e che stavo a Toronto. Dissi
che le bambine erano state per un po’ con me, ma adesso erano in vacanza con il padre.
Lui mi disse che abitava a Kingston, ma non da molto. Aveva conosciuto Johnston di re-
cente, sul lavoro. Erano tutti e due ingegneri civili. Sua moglie era un’irlandese, proprio
nata in Irlanda, anche se lui l’aveva conosciuta in Canada, dove lavorava come infermiera.
Attualmente era tornata in Irlanda, nella County Clare, per far visita ai suoi. Aveva portato
anche i figli.
– Quanti sono?
– Tre. (169)

Tra le battute in discorso diretto libero – una della narratrice, all’inizio del passo, e poi
ancora una sua e una dell’altro personaggio, Mike, alla fine – si succedono tre turni di
parola in discorso indiretto legato (ma sarà necessaria una precisazione, che faremo a
breve) – due di lei e uno di lui: «Dissi che mia madre…», «gli dissi che mi ero separata…»
e «Lui mi disse che…» – o almeno tre frammenti di conversazione riferiti in discorso
indiretto legato. La riformulazione del discorso da parte della narratrice, infatti, non ci
consente di stabilire con certezza se a ciascun verbum dicendi corrisponda un turno di
parola e in quale misura lo svolgimento del discorso quale lo riferisce la narratrice corri-
sponda allo svolgimento del discorso quale è stato pronunciato dai personaggi: durante la
conversazione lei dice solo che si è separata dal marito, che sta a Toronto e che le bambine
prima stavano con lei e poi con il marito? O dice anche altro che, narrando, non riferisce?
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Nella conversazione dice di essersi separata dal marito o di averlo lasciato? Qualifica
Toronto in qualche modo, magari spiegando perché vi risieda, o da narratrice non lo dice
perché non ne ha parlato nemmeno originariamente durante la conversazione? In breve,
quanto è profonda la riformulazione del discorso da parte del narratore, in un brano di
discorso indiretto legato? Rispondere univocamente per qualsiasi caso di discorso indi-
retto legato non è possibile. Converrà piuttosto osservare come la riformulazione possa
essere, in casi diversi, più o meno profonda e pervasiva: in alcuni casi, ci sembrerà che il
narratore si limiti a introdurre un verbum dicendi e a modificare il tempo e la persona
verbali e le espressioni deittiche, conservando invece il lessico e la sintassi del discorso
originario; in altri, che intervenga più radicalmente. Un esempio della prima possibilità è
offerto da questo passo di Munro, da Il ponte galleggiante (2001; ancora da Nemico,
amico, amante…):

Jinny aveva detto a Neal che almeno un computer poteva tenerlo, nella stanza da letto. Ma
lui non aveva voluto saperne. Non lo disse, ma Jinny capì che non credeva che avrebbe
avuto il tempo di usarlo. (57)6

Ciò che Jinny dice a Neal, sulla possibilità di tenere un computer in camera, è riferito in
discorso indiretto legato, ma in un modo che sembra ricalcare strettamente il discorso del
personaggio: l’anticipazione di «almeno» e la dislocazione a sinistra di «computer», poi
ripreso dal pronome clitico in «tenerlo», sono infatti forme di topicalizzazione caratteri-
stiche della lingua parlata, che quindi suggeriscono che in discorso indiretto legato si
renda comunque la sintassi del discorso del personaggio.
D’altra parte, il discorso indiretto legato può allontanarsi più sensibilmente dalle forme
(presunte) del discorso del personaggio, fino a diventare, eventualmente, discorso narra-
tivizzato, come in questo passo di Nemico, amico, amante…:

anziché avviarsi nella solita direzione e salutare la gente scambiando due parole con tutti,
[il signor McCauley. N.d.R.] sentì un bisogno impellente di sfogarsi. Bastava che chiunque
gli chiedesse «Come va stamattina?» perché, in modo assolutamente non abituale, quasi
impudente, lui desse la stura a tutti i suoi lamenti, ma, come la cameriera, la gente aveva
da fare, perciò tutti annuivano frettolosi e inventavano scuse per allontanarsi. (23)

I dialoghi tra il signor McCauley e i suoi interlocutori occasionali non sono nemmeno
riferiti in forma indiretta: ciò che lui dice, o tenta di dire, è qualificato come sfogo e
lamentela, senza che le sue parole siano riferite in alcun modo, e lo stesso vale per le
risposte dei suoi interlocutori, qualificate come atti linguistici di un certo tipo – «scuse
per allontanarsi» –, ma non riferite dal narratore. Qualcosa di simile troviamo anche in
questo passo di L’anima non è una fucina (2003; da Oblio):

6
Il testo originale dice: «Jinny had said to Neal that he could keep one computer, at least, in the
bedroom» (Munro, Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage, pos. 930).
19
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Stando al parere professionale fornito dal dottor Biron-Maint, lo psicologo della scuola, io
avevo assistito a tutto ma ero rimasto troppo traumatizzato (affetto da shock post-trauma-
tico, questa la dicitura ufficiale che usò; i genitori di ciascun alunno ricevettero una copia
della sua perizia) per riuscire ad accettarne il ricordo. (102)

Il narratore riferisce il discorso dello psicologo – un discorso scritto, in questo caso – qua-
lificandolo come un’azione verbale di un certo tipo – un «parere professionale» – e riferen-
done sinteticamente la tesi fondamentale – che il personaggio narratore abbia assistito agli
eventi, ma sia rimasto traumatizzato –, senza renderne però la forma originaria, se non per
l’espressione «affetto da shock post-traumatico».
Se il discorso diretto libero è la forma di referto del discorso dei personaggi in cui la
mediazione narratoriale è più debole, il discorso narrativizzato è il caso in cui la media-
zione è più forte. Il discorso diretto legato e il discorso indiretto legato si collocano in
posizione intermedia. Rispetto alla questione della caratterizzazione dei personaggi dalla
quale abbiamo preso le mosse, valutare il grado della mediazione narratoriale è impor-
tante in quanto significa chiarire a chi siano dovute l’attribuzione di proprietà relative al
comportamento verbale dei personaggi e le informazioni relative a quello stesso compor-
tamento verbale a partire dalle quali il lettore procede a ulteriori attribuzioni di proprietà
e quindi a elaborare una fisionomia del personaggio. Come abbiamo detto, alla caratte-
rizzazione del personaggio possono concorrere figure diverse – il personaggio stesso, altri
personaggi, il narratore e (interpretando) il lettore – ed essa può delinearsi anche come
composizione, o stratificazione, o conflitto di immagini diverse. Ciò significa che il let-
tore, leggendo, deve correlare ogni possibile contributo alla caratterizzazione di un per-
sonaggio alla figura che propone quel contributo e ciò vale anche per quella parte della
caratterizzazione che interessa i discorsi dei personaggi riferiti dal narratore.
Nella progressione di forme di referto del discorso dei personaggi che quindi si deli-
nea, tuttavia, sembra mancare qualcosa: se riconosciamo un discorso diretto libero, oltre
che un discorso diretto legato, non dovremmo riconoscere anche un discorso indiretto
libero, oltre che un discorso indiretto legato? Si legga questo passo di Nemico, amico,
amante…:

«Si amavano proprio, non pensavano ad altro giorno e notte, – disse Sabitha. Si strinse al
petto un cuscino. – Non si può farne a meno quando si è innamorati».
Una delle cugine l’aveva già fatto con un ragazzo. Lui era un aiuto-giardiniere nel villaggio
turistico sullo stradone. L’aveva caricata in barca e aveva minacciato di spingerla in acqua
se non ci stava. Perciò lei non aveva colpa. (37)7

Dapprima le parole di Sabitha sono riferite in discorso diretto legato. Poi si passa a ciò
che appunto chiamiamo discorso indiretto libero e che potremmo cominciare a descrivere
come un discorso indiretto legato a cui sia stato sottratto il verbum dicendi. Il passo di

7
«“They really loved each other, they were at it day and night,” said Sabitha. She hugged a cush-
ion to her chest. “People can’t help it when they’re in love like that.” / One of the cousins had
already done it with a boy. He was one of the summer help in the gardens of the resort down the
road. He took her out in a boat and threatened to push her out until she agreed to let him do it. So
it wasn’t her fault» (Munro, Hateship, Friendship, Courtship, Loveship, Marriage, pos. 597).
20
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discorso indiretto libero citato sopra potrebbe infatti essere trasposto in discorso indiretto
legato mediante l’aggiunta di verbi come raccontò, disse, spiegò o concluse:

Raccontò che una delle cugine l’aveva già fatto con un ragazzo. Disse che lui era un aiuto-
giardiniere nel villaggio turistico sullo stradone. Spiegò che l’aveva caricata in barca e
aveva minacciato di spingerla in acqua se non ci fosse stata. Concluse che perciò lei non
aveva colpa.

D’altra parte, questo stesso passo di Munro (l’originale, non la trasposizione) mostra an-
che come il discorso indiretto libero si caratterizzi per l’emergenza del linguaggio e della
prospettiva del personaggio: «l’aveva già fatto» è un’espressione che esibisce il linguaggio
di Sabitha – un linguaggio diverso da quello che il narratore ha usato fino a quel momento
– e «nel villaggio turistico sullo stradone» è un’espressione che fa riferimento al luogo dove
lavora il ragazzo in un modo che presuppone una conoscenza dei luoghi evocati e un con-
testo discorsivo che sono di Sabitha, di nuovo, e delle sue interlocutrici («Quale stradone?»,
potrebbe chiedere il lettore, ma la risposta sarebbe ovvia: quello a cui pensano Sabitha e le
sue interlocutrici, in quel contesto, quando dicono «lo stradone»). Ancora, sembrano essere
di Sabitha l’idea, sottesa all’inferenza di «Perciò lei non aveva colpa», che un rapporto
sessuale sia qualcosa di cui una donna, in generale, debba discolparsi e insieme la superfi-
cialità con la quale si trascura di osservare che l’episodio raccontato, se il racconto fosse
attendibile, costituirebbe un caso di violenza sessuale.
Alcune forme di deissi, solitamente, si presentano come sintomi abbastanza evidenti
del discorso indiretto libero. Riconsideriamo il passo di Ortiche citato sopra, da «Dissi
che mia madre era morta e che mio padre si era risposato»: la prima battuta della protago-
nista è in discorso indiretto legato e così l’inizio della seconda. L’avversativa che segue «le
bambine erano state per un po’ con me» – «ma adesso erano in vacanza con il padre»
– esibisce però un fenomeno della deissi temporale caratteristico del discorso indiretto li-
bero, il now in the past: il verbo – «erano [were]» – è al passato, ma l’avverbio – «adesso
[now]» – fa riferimento al presente. Lo stesso accade con lo sviluppo della risposta dell’al-
tro personaggio: «Attualmente [now] era tornata [was back] in Irlanda». Questa contraddi-
zione apparente si comprende osservando che abbiamo due centri deittici: il primo è il nar-
ratore, rispetto a cui gli eventi sono passati e in relazione al quale si determina, di conse-
guenza, il tempo passato dei verbi; il secondo è il personaggio, rispetto a cui gli stessi eventi
sono presenti e in relazione al quale si determina, invece, la deissi avverbiale. Il discorso
indiretto libero, in breve, può essere inteso come un’enunciazione del narratore, che quindi
costituisce un primo centro deittico e che usa il proprio linguaggio, nella quale però il per-
sonaggio si profila come secondo centro deittico, intreccia il proprio linguaggio a quello
del narratore ed emerge come soggetto che si rappresenta le cose in un certo modo e come
soggetto di un’esperienza che può tradursi, per esempio, in interiezioni o in proposizioni
interrogative dirette.8

8
Secondo Ann Banfield, tuttavia, il discorso indiretto libero non dovrebbe essere inteso come un
tipo di enunciazione in cui si intreccino due soggettività, del personaggio e del narratore, perché
solo il personaggio si potrebbe profilare, secondo Banfield, con la propria soggettività, laddove
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Queste considerazioni suggeriscono che, nella progressione da un minimo a un massimo


di mediazione narratoriale, il discorso indiretto libero si collochi tra il discorso diretto legato
e il discorso indiretto legato.9 Possiamo quindi proporre uno schema riassuntivo:

Tipo Esempio
Discorso diretto libero «Una delle mie cugine l’ha già fatto con un ragazzo».
Discorso diretto legato Disse: «Una delle mie cugine l’ha già fatto con un ragazzo».
Discorso indiretto libero Una delle sue cugine l’aveva già fatto con un ragazzo.
Discorso indiretto legato Disse che una delle sue cugine aveva già fatto l’amore con un ra-
gazzo.
Discorso narrativizzato Raccontò di come una delle sue cugine avesse già avuto rapporti
sessuali con un ragazzo.

Le stesse varietà e la stessa gradazione si possono avere anche quando, in narrazione


omodiegetica, il narratore e il personaggio di cui il narratore riferisce il discorso sono la
stessa persona:

Tipo Esempio
Discorso diretto libero «Una delle mie cugine l’ha già fatto con un ragazzo».
Discorso diretto legato Dissi: «Una delle mie cugine l’ha già fatto con un ragazzo».
Discorso indiretto li- Una delle mie cugine l’aveva già fatto con un ragazzo.
bero
Discorso indiretto le- Dissi che una delle mie cugine aveva già fatto l’amore con un ra-
gato gazzo.
Discorso narrativizzato Raccontai di come una delle mie cugine avesse già avuto rapporti
sessuali con un ragazzo.

Inoltre, alcuni passi possono esibire forme ambigue o di transizione tra un tipo di di-
scorso e l’altro. Si consideri per esempio questo passo di Ortiche:

– Attento a non esagerare, – rispose il padre. Ma lui ribatté, D’accordo, soltanto cinque
minuti, e uscimmo tutti fuori a guardare il cielo. Cercammo la Stella Pilota, vicinissima
alla seconda stella del manico del Grande Carro. Se riuscivi a vederla, disse Johnston, allora
avevi la vista abbastanza buona da farti prendere in aviazione, o perlomeno così funzionava
durante la seconda guerra mondiale. (Nemico, amico, amante… 170-171)

La prima battuta del padre è riferita in discorso diretto legato, ma già la risposta del figlio
suscita qualche perplessità, perché anch’essa ha i tratti del discorso diretto legato, ma

all’altra figura implicata – narratore o autore – sarebbe riservata un’azione solo scritturale, per così
dire, sullo stile dell’enunciazione.
9
Il gradiente della mediazione, che peraltro dovrà essere verificata caso per caso, non deve essere
interpretato come gradiente inverso di mimesi. Maggiore mediazione, cioè, non significa neces-
sariamente minore mimesi della realtà linguistica, così come minore mediazione non significa
necessariamente maggiore mimesi. Anche il discorso diretto è infatti formulato in modi che di-
pendono non solo da un’osservazione della realtà, ma anche da convenzioni sociali o letterarie.
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mancano le virgolette. Nel seguito, inoltre, troviamo un passo – «Se riuscivi a vederla,
disse Johnston, allora avevi la vista abbastanza buona da farti prendere in aviazione, o
perlomeno così funzionava durante la seconda guerra mondiale» – che sembra di discorso
indiretto libero, per tratti linguistici come l’uso della seconda persona e «perlomeno così
funzionava», ma in cui è stato inserito un verbum dicendi – «disse Johnston» – che spo-
sterebbe la classificazione sul discorso indiretto legato, se esso non fosse inserito come
inciso e quindi senza la continuità sintattica propria del discorso indiretto legato in senso
stretto (non troviamo, cioè, «Johnston disse che, se riuscivi a vederla, allora…»).
Ancora, si consideri l’inizio di Nemico, amico, amante…:

– Mobili? – disse, come se nessuno avesse mai avuto prima un’idea simile. – Dunque,
vediamo. Di che genere di mobili stiamo parlando?
Un tavolo da pranzo con sei sedie. Una camera da letto completa, un divano, un tavolo
basso, alcuni tavolini, una lampada a stelo. E anche una cristalliera e una credenza.
– Accidenti, una casa intera. (Nemico, amico, amante… 3)

Le battute del bigliettaio sono in discorso diretto legato, la prima, e in discorso diretto
libero, la seconda. In mezzo, la battuta di Johanna sembra essere in discorso indiretto
libero – non troviamo verba dicendi, infatti, e nemmeno abbiamo la citazione delle parole
del personaggio –, ma sembra anche molto vicina al discorso diretto libero, o quanto meno
sembra un discorso indiretto libero che ricalca molto fedelmente la risposta probabil-
mente laconica ed elencatoria di Johanna al bigliettaio.
Al di là di come valutiamo i passi citati, è evidente che la classificazione proposta
individua solo dei poli tra i quali potranno darsi casi intermedi. Alcuni studiosi, pertanto,
hanno suggerito di raffinare la classificazione definendo altri tipi di referto del discorso.
Brian McHale, per esempio, ha proposto una classificazione che prevede sette tipi di re-
ferto del discorso:

Tpi di McHale Tipi fondamentali


Diegetic summary
Discorso narrativizzato
Less purely diegetic summary
Indirect content-paraphrase
Discorso indiretto legato
Indirect discourse
Free indirect discourse Discorso indiretto libero
Direct discourse Discorso diretto legato
Free direct discourse Discorso diretto libero

Anche se adottassimo la classificazione di McHale, tuttavia, resterebbero casi ambigui


o di transizione e dunque continueremo a usare quella fondamentale a cinque tipi, ricor-
dando che in qualsiasi pagina di narrativa potremo trovare passi chiaramente corrispon-
denti ai tipi fondamentali, passi ambigui o di transizione e passi che mescolano tipi di-
versi, come in questa pagina di Dentista (2001), di Roberto Bolaño, che unisce discorso
indiretto legato, discorso narrativizzato e discorso indiretto libero:

23
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Dissi che mi sembrava strano che il ragazzo vivesse lì, non c’erano case, solo buio e forse
la sagoma di una collina, in fondo, appena ritagliata dalla luna. Proposi di accompagnarlo
per un tratto. Il mio amico (senza guardarmi, con le mani sul volante e un atteggiamento
stanco e calmo) replicò che non potevamo accompagnarlo, che non mi preoccupassi, il
ragazzo conosceva benissimo la strada. (Puttane assassine 187)

O come quest’altra pagina di Mister Squishy, dove troviamo più o meno tutti i tipi di
referto del discorso:

Britton disse che i fattori di stress degli esperimenti segreti avrebbero, come sempre in
natura e nella scienza rigorosa, determinato la sopravvivenza. L’idoneità. Nel senso di chi
è idoneo alla nuova impostazione. In opposizione a chi faceva troppo la differenza, capito,
e dove, al momento della verità lì in camera di consiglio. Quelle erano tutte stronzate in-
gannevoli. Britton fece dei buchi incandescenti nell’aria sopra la scrivania. Per vedere, era
questo che intendeva, disse, come reagivano i coordinatori agli stimoli imprevisti, come
rispondevano alle reazioni dei loro stessi Focus Group. Avevano solo bisogno di fattori di
stress. Stimoli annidati dal forte impatto. Scuotili. Agita la gabbia, disse, e poi guarda che
cosa viene fuori. Era esattamente questo che si intendeva nel gioco con «darsi la zappa sui
piedi». L’omaccione si appoggiò allo schienale, il sorriso allo stesso tempo caloroso e vi-
gile. Invitava il Ragazzo al quale aveva scelto di fare da mentore a unirsi a lui in un brain-
storming su alcuni possibili fattori di stress lì su due piedi. Cioè con lo stesso Britton, a
rimpolpare i test necessari. Non c’era momento migliore di quello. (Oblio 79)

Alla luce di queste osservazioni, dunque, continueremo a usare la classificazione a


cinque tipi proposta, riservandoci di descrivere più analiticamente quei passi che non fos-
sero semplicemente riconducibili all’uno o all’altro tipo. Nel seguito, inoltre, aggiunge-
remo a queste osservazioni analitiche e tassonomiche alcune riflessioni più propriamente
teoriche che Michail Bachtin propone ancora sulle forme di rappresentazione del di-
scorso, o di «raffigurazione della parola», nella scrittura romanzesca.

1.2.2. La raffigurazione della parola nel romanzo


Nel suo saggio su La parola nel romanzo (1934-35), Bachtin esordisce affermando che
scopo della sua ricerca è il «superamento del distacco tra il “formalismo” astratto e
l’astratto “ideologismo” nello studio della parola artistica», poiché «[l]a forma e il conte-
nuto fanno tutt’uno nella parola intesa come fenomeno sociale» (67): non si può parlare
di un contenuto del testo o del discorso a prescindere o al di là della sua forma verbale,
né si può discutere di una forma verbale come se essa non significasse qualcosa (come se
essa non fosse sempre già anche contenuto, in un certo senso che diventerà più chiaro nel
seguito).10 Inoltre, Bachtin suggerisce che lo stile non possa essere inteso solo come stile

10
La critica bachtiniana di un’idea semplicistica della distinzione tra forma e contenuto – il con-
tenuto ‘dentro’, la forma ‘fuori’ o ‘intorno’ – richiama quella condotta pochi anni prima dai for-
malisti russi. Nella Teoria della prosa, per esempio, Viktor Šklovskij scriveva: «esaminando
un’opera letteraria e guardando alla sua cosiddetta forma come a una specie di tegumento attra-
verso il quale bisogna penetrare, il teorico contemporaneo della letteratura lo salta alla cavallina,
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individuale – di un autore – o di corrente: esso deve invece essere inteso come stile di un
genere – nel caso in esame, del romanzo – e nel suo tono sociale. Di conseguenza, egli
vuole arrivare a una visione dello stile che sia filosofica e sociologica e che sappia rendere
conto dei «grandi destini storici della parola artistica» (67), i quali si legano al genere
letterario, prima che all’individualità di un autore o di una corrente.
Bachtin si concentra allora sul romanzo in quanto genere e scrive che «[i]l romanzo
come totalità è un fenomeno pluristilistico, pluridiscorsivo, plurivoco» (La parola 69).
Un’osservazione anche sommaria o preliminare mostra infatti che nel romanzo si com-
pongono unità stilistiche eterogenee (discorsi eterogenei, potremmo anche dire):
• la narrazione artistico-letteraria diretta dell’autore, ovvero l’enunciazione narrativa
che possiamo attribuire direttamente all’autore o a un narratore autoriale (nei casi
che chiameremo di narrazione extra- eterodiegetica, Bachtin identifica il narratore
con l’autore);
• lo skaz, come stilizzazione delle varie forme della narrazione orale: in altre parole,
l’uso, nell’enunciazione narrativa, di forme lessicali e sintattiche e di un’intona-
zione che simulano la narrazione orale (sullo skaz torneremo più avanti);
• i discorsi stilisticamente individualizzati dei personaggi;
• la narrazione semiletteraria privata: diario, lettera e altri tipi di testo analoghi, che
possono essere ricreati o ricompresi entro il testo di un romanzo o comporlo intera-
mente, come nel caso del romanzo epistolare;
• le varie forme del discorso letterario extra-artistico dell’autore: scienza, oratoria e
simili (in un romanzo come Les Bienveillantes [2006] di Jonathan Littell, per esem-
pio, l’enunciazione narrativa assume spesso tratti storiografici o saggistici).
Torniamo così alle questioni di cui ci stavamo occupando, ovvero alle diverse forme
di rappresentazione della parola dei personaggi e all’enunciazione narrativa. La prima
osservazione di Bachtin riguarda il loro comporsi e stratificarsi nel testo del romanzo in
quanto genere e ci consente subito di osservare come il romanzo possa integrare forme e
generi testuali e discorsivi che rimandano sia all’oralità – il discorso dei personaggi, lo
skaz –, sia alla scrittura – la narrazione semiletteraria privata, il discorso letterario extra-
artistico. Se il romanzo flaubertiano o modernista è innanzitutto scritturale (per il di-
scorso indiretto libero, il cui uso costituisce un tratto caratteristico di questa narrativa,
Banfield parla di unspeakable sentences: frasi, o forme, estranee all’oralità), altra narra-
tiva ottocentesca sembra invece esibire una matrice formale orale (secondo Èjchenbaum,
per esempio, la diffusione dello skaz in autori di fine Ottocento testimonierebbe di un
ritorno della narrazione romanzesca alla parola viva, dopo l’apogeo di scritture romanze-
sche più legate alle forme scritte della parola). Bachtin però non guarda alla prevalenza,
volta per volta, della tendenza scritturale o della matrice orale, ma insiste sulla compre-
senza, nel romanzo in quanto genere, di diverse unità stilistiche: nel romanzo, dice Bach-
tin, appare la stratificazione interna di una lingua in un suo momento storico.
Questa insistenza sul carattere pluristilistico, pluridiscorsivo e plurivoco del romanzo
si comprende in relazione a una visione della storia linguistica, che Bachtin intende anche

ricadendo dall’altra parte» (271). Ed Èjchenbaum: «i formalisti […] si liberavano dalla tradizio-
nale correlazione “forma-contenuto” e della concezione della forma come di un involucro – un
vaso in cui versare il liquido (il contenuto)» (La teoria del «metodo formale» 42).
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come storia culturale e sociale, quale risultante dell’azione contrapposta di forze centri-
pete e forze centrifughe. Le prime sono intese da Bachtin come le «forze storiche […]
dell’unificazione e della centralizzazione del mondo ideologico-verbale» (La parola 78).
Queste forze contrastano la pluridiscorsività centrifuga del corpo sociale e linguistico con
un’azione di normalizzazione la quale è insieme linguistica, culturale, sociale e politica.
Si pensi per esempio – esempi non bachtiniani – alle Prose della volgar lingua (1525) di
Pietro Bembo, che indicano il modello petrarchesco per la scrittura poetica e quello boc-
cacciano per la scrittura prosastica e censurano l’adozione di modelli diversi; o all’editto
con il quale Francesco I, nel 1539, stabilisce che il franciano diverrà la lingua ufficiale
del regno di Francia, riducendo a una condizione di marginalità politica gli altri dialetti
del regno; o all’autarchia linguistica del fascismo, che cerca di eliminare le parole stra-
niere dall’italiano, inventando forme italiane alternative (autorimessa per garage) e arri-
vando a imporre ai sudtirolesi di lingua tedesca il cambiamento dei propri cognomi: in
tutti questi casi, riconosciamo sforzi di centralizzazione linguistica, ovvero di riduzione
delle possibilità comprese nella realtà linguistica a una norma estetica o politica. Nono-
stante queste forze, però, la pluridiscorsività centrifuga persiste: le forze centripete agi-
scono in un ambiente di effettiva pluridiscorsività, poiché ogni lingua, in ogni momento
della sua storia, si stratifica in dialetti e varianti regionali e, soprattutto, «lingue ideolo-
gico-sociali» di gruppi professionali, strati sociali, scuole artistiche, orientamenti reli-
giosi, generazioni e altri sottoinsiemi del corpo sociale: «accanto alle forze centripete si
svolge l’incessante lavoro delle forze centrifughe della lingua, accanto alla centralizza-
zione e unificazione ideologico-verbale avvengono ininterrottamente processi di decen-
tralizzazione e disunificazione» (La parola 80). Le due tendenze contrapposte alla mol-
tiplicazione e all’unità agiscono quindi contemporaneamente e arrivano spesso a compe-
netrarsi in ogni enunciazione individuale. Nella genesi dei generi letterari, tuttavia, è l’una
o l’altra tendenza a prevalere. I generi poetici tradizionali, in particolare, sono nati secondo
Bachtin nell’alveo delle forze centripete, mentre «il romanzo e i generi artistico-prosastici
che gli gravitavano attorno si sono formati nell’alveo delle forze centrifughe» (81). Anzi,

[i]l romanzo è l’espressione della coscienza linguistica galileiana che ha rinunciato all’as-
solutismo di una lingua unica e unitaria, non accettando più la propria lingua come solo
centro semantico-verbale del mondo ideologico e riconoscendo la pluralità delle lingue na-
zionali e soprattutto sociali. (Bachtin, La parola 174)

Il romanzo non può nascere e prosperare a meno che i romanzieri e il loro pubblico non
escano dal chiuso della lingua di un solo gruppo sociale, eventualmente dominante, per
riconoscere che la pluridiscorsività è essenziale al linguaggio e alla società, e a meno che
non accolgano nell’opera questa pluridiscorsività (invece di dividere la rappresentazione
delle lingue sociali tra generi diversi gerarchicamente ordinati). Inoltre, è necessario che la
cultura nazionale non si isoli e che prenda coscienza di sé tra le altre culture e le altre lingue.
In questo modo, la lingua si svincola dalla cultura e dal mito nazionali. Non è un caso,
sostiene Bachtin, che il romanzo (alessandrino, medievale, moderno) fiorisca quando si
disgregano imperi e culture. E non è un caso, potremmo aggiungere, che la sua ascesa a
genere dominante della modernità (dominante per numero di opere prodotte e di capolavori,

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dimensioni del suo pubblico e influenza sugli altri generi letterari) segni la fine del para-
digma letterario della società di antico regime, che prevedeva una divisione degli stili –
nobile, medio e umile –, una gerarchia di valori – con lo stile nobile in posizione superiore
e lo stile umile in posizione inferiore – e una loro correlazione a generi – lo stile nobile per
la tragedia, quello umile per la commedia – e temi ordinati in gerarchie corrispondenti –
personaggi nobili per la tragedia, personaggi umili per la commedia.
Nel romanzo, continua Bachtin, trovano infatti rappresentazione i diversi domini di
stratificazione di una lingua. Abbiamo detto che orizzonti semantico-oggettuali ed espres-
sivi specifici sono legati ai gruppi professionali, agli strati sociali, alle scuole artistiche,
agli orientamenti religiosi, alle generazioni, ai livelli di istruzione, alle singole famiglie,
alle epoche storiche. A ogni strato corrispondono differenze linguistiche in senso stretto
(lessico, sintassi, forme dell’interpretazione), ma, soprattutto, diverse visioni del mondo:
non esiste una parola neutra, che sia solo parola e non, anche, frammento di una visione
del mondo di colui che la usa. Si consideri questo passo di Mister Squishy (che è un
racconto, non un romanzo, ma illustra ugualmente l’idea che stiamo discutendo):

Quello che Terry Schmidt stava abbozzando a memoria per il Focus Group tutto maschile
era un piccolo vortice o una corrente contraria nel flusso che gli operatori del mercato chia-
mavano SCM – erano conosciuti come Controtendenze, o a volte Mercati Ombra. Nell’area
degli snack industriali, finse di spiegare Schmidt, c’erano due modi basilari in cui un nuovo
prodotto poteva collocarsi su un mercato statunitense per il quale salute, fitness, nutrizione
e i relativi conflitti tra autoindulgenza e disciplina avevano raggiunto un livello metastatico.
(Oblio 41)

Il passo esibisce il linguaggio degli uomini di marketing e la loro visione della società,
non solo in quanto alcuni termini tecnici di quel linguaggio sono usati e perfino spiegati,
ma anche in quanto caratterizza la spiegazione di Schmidt come finzione, correlata a una
specifica relazione tra quegli uomini di marketing e il pubblico dei consumatori (e già a
questo modo di fare riferimento alle persone – consumatori – è sottesa una visione). Con
Bachtin, potremmo dire che Wallace qui non usi il linguaggio del marketing, ma che lo
raffiguri, mostrandone l’azione tra i diversi personaggi del racconto e facendolo intera-
gire, per esempio, con il diverso linguaggio che alcuni degli stessi personaggi usano, a
tratti, intimamente.
Nel romanzo, secondo Bachtin, i diversi strati del linguaggio vivono in un organismo
pluridiscorsivo con il quale il romanziere rappresenta la pluralità delle visioni del mondo:
«tutte le lingue della pluridiscorsività, qualunque sia il principio che sta alla base della
loro individuazione, sono specifici punti di vista sul mondo, forme della sua interpreta-
zione verbale, particolari orizzonti semantico-oggettuali e assiologici» (La parola 99). Il
romanziere realizza le proprie intenzioni artistiche attraverso parole abitate da intenzioni
altrui: per cogliere la parola d’altri non come corpo morto, ma come parola viva, occorre
infatti riconoscerle un orientamento, un tendere che discenda da una soggettività vivente.
«La plurivocità e la pluridiscorsività entrano nel romanzo e organizzano in esso un armo-
nioso sistema artistico» (La parola 108).
Bachtin afferma pertanto che «[l]’oggetto principale, “specificante” del genere roman-
zesco, quello che crea la sua originalità stilistica, è l’uomo parlante e la sua parola» (La
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parola 140). Nel romanzo, la parola non è solo trasmessa, è invece raffigurata artistica-
mente. Inoltre l’uomo è sempre «uomo sociale, storicamente concreto e determinato, e la
sua parola è lingua sociale»: egli «è sempre in vario grado un ideologo e la sua parola»
esprime un’ideologia (141). Nel romanzo, ancora, l’uomo sociale agisce, non meno che
nel dramma, ma la sua azione è sempre illuminata ideologicamente e associata alla parola.
Il romanzo, ancora in altre parole, ci offre un’immagine dell’uomo attraverso la sua lingua
o, più precisamente, un’immagine degli uomini attraverso le loro lingue e le visioni del
mondo che esse implicano. Il romanziere riprende la parola altrui, ma non per usarla in
vista di uno scopo pratico, bensì per raffigurarla.
Da questo insieme di riflessioni, Bachtin deriva quindi un’implicazione metodologica:
«[i]l problema centrale della stilistica romanzesca può essere formulato come problema
della raffigurazione artistica della lingua» (La parola 144). Egli pertanto riflette sui pro-
cedimenti di creazione dell’immagine della lingua nel romanzo e suggerisce che essi pos-
sano essere ricondotti a tre categorie principali: l’ibridazione, l’interrelazione dialogiz-
zata delle lingue e i dialoghi puri.
Con ibridazione, Bachtin intende «la mescolanza di due lingue sociali all’interno di
una sola enunciazione, l’incontro di due diverse coscienze linguistiche» (La parola 166).
Nella scrittura romanzesca, l’ibridazione è usata per relativizzare e mettere in dialogo due
coscienze linguistiche individualizzate. L’ibrido artistico voluto è semantico, ideologico.
Consideriamo, per esempio, questo passo di Madame Bovary (1856), di Gustave Flaubert,
dove si racconta del deterioramento della relazione tra Léon ed Emma:

Come s’annoiava, adesso, quando Emma attaccava di colpo a singhiozzargli sul petto; il suo
cuore, come capita a chi non può sopportare più d’una certa dose di musica, s’assopiva d’in-
differenza nel trambusto di un amore di cui non distingueva più le delicatezze.
Ormai si conoscevan troppo per provare quello stupore del possesso che ne centuplica la
gioia. Lei era disgustata di lui quanto lui era stanco di lei. Emma ritrovava nell’adulterio tutte
le meschinità del matrimonio.
Ma come farla finita? Poi, lei aveva un bel sentirsi umiliata dalla bassezza d’un simile
piacere: vi era attaccata per abitudine o per vizio, anzi vi s’accaniva sempre più di giorno
in giorno, rovinando ogni possibilità di gioia con l’esagerazione del desiderio. (234-235)

Nella frase che dice che «Emma ritrovava nell’adulterio tutte le meschinità del matrimo-
nio», e in particolare nella parola meschinità (platitudes), troviamo espressa linguistica-
mente sia la visione di Emma, che intende la meschinità del suo matrimonio come povertà
piccolo-borghese ed estraneità a certe sue idee romanzesche sull’amore, nonché al co-
stume alto-borghese o nobiliare che si immagina e desidera, sia quella che il testo, diver-
samente, può suggerire e per la quale le meschinità del matrimonio di Emma sono ancora
povertà piccolo-borghese, ma in quanto distinta, forse, da una diversa spiritualità alla
quale Emma non aspira perché non la concepisce nemmeno. La categoria bachtiniana
dell’ibridazione ci aiuta a mettere a fuoco questa duplicità di visioni espressa nell’enun-
ciazione.
Passiamo ora all’interrelazione dialogizzata: una lingua è data alla luce di un’altra
lingua; una raffigura, l’altra è raffigurata. Un caso tipico è quello della stilizzazione (che

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non introduce materiale linguistico eterogeneo nella lingua stilizzata, ma la raffigura se-
lezionandone alcuni elementi secondo il proprio punto di vista); un altro, affine ma por-
tato a sconfinare nell’ibridazione, è quello della variazione (che introduce materiale lin-
guistico eterogeneo nella lingua stilizzata). Si legga questo passo di L’anima non è una
fucina, di Wallace:

A essere onesti, l’opinione generale era che il dottor Biron-Maint ci fece prendere una
strizza peggio del maestro Johnson, anche se è ovvio che assistere a un simile spettacolo
sarebbe stato traumatico per chiunque, specialmente per un bambino. (Oblio 102)

Nella prima parte, il lessico – «ci fece prendere una strizza [gave us the willies]» – e l’uso
del pronome di prima persona mostrano che il personaggio parla secondo la prospettiva
del bambino che è stato; nella seconda parte, il cambiamento del lessico – «un simile
spettacolo»; «traumatico» – e l’uso di una terza persona generica – «per chiunque, spe-
cialmente per un bambino» – mostrano invece come egli assuma poi la prospettiva del
mondo adulto degli insegnanti, dei genitori, degli psicologi, dei media e delle forze
dell’ordine che si sono appropriati della sua storia. Questa seconda prospettiva emerge
come secondo linguaggio dato entro il linguaggio del personaggio narratore e in questo
senso possiamo parlare di interrelazione dialogizzata.
E veniamo infine al dialogo: esso non è solo scambio di battute che sospinge la storia
raccontata, ma si comprende come dialogo tra coscienze linguistiche. Si legga questo
passo di Non è un paese per vecchi (2005), di Cormac McCarthy, nel quale Anton Chi-
gurh, sicario psicopatico, dialoga con il proprietario di un distributore di benzina (man-
cano le virgolette, ma si tratta nondimeno di discorso diretto, per lo più libero):

Tu abiti in quella casa lì dietro? [Questa battuta è di Chigurh. N.d.R.]


Sì.
Ci abiti da quando sei nato?
Il proprietario del distributore ci mise un po’ a rispondere. Era la casa di mio suocero, disse.
In origine.
Sposandoti, te la sei presa tu.
Abbiamo vissuto a Temple per tanti anni. Abbiamo messo su famiglia laggiù. A Temple,
sempre in Texas. Poi siamo venuti qui, più o meno quattro anni fa.
Sposandoti, te la sei presa tu.
Se vuole metterla in questo modo.
Non c’è un modo particolare in cui metterla. È così e basta. (45)

Sono poche battute, ma emerge chiaramente la distanza tra i mondi ideologici, per usare
l’espressione di Bachtin, dei due personaggi: per il proprietario del distributore, la vita si
svolge ovviamente entro certi ambiti familiari e secondo un decorso scandito da matri-
monio, figli, case e relazioni di parentela; per Chigurh, l’appropriazione e la sopraffazione
sono ovunque («Sposandoti, te la sei presa tu») e non ci sono visioni alternative alla sua
(la ripetizione di «Sposandoti, te la sei presa tu»; «È così e basta»).
Rispetto all’analisi del testo narrativo, in conclusione, i concetti di Bachtin aiutano ad
andare oltre la mera classificazione delle forme di rappresentazione del discorso dei per-

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sonaggi e verso una comprensione dei mondi ideologici rappresentati, ovvero del linguag-
gio nelle sue dimensioni semantica e pragmatica. La riflessione sul linguaggio del ro-
manzo, più in generale, si palesa come riflessione sugli uomini rappresentati nella loro
identità storico-sociale e in questo senso ci rimanda ancora alla questione della caratte-
rizzazione dei personaggi, ovvero dell’elaborazione della loro fisionomia. Questo, peraltro,
non equivale a dire che per la scrittura romanzesca la più tradizionale nozione di stile della
critica stilistica, che Bachtin giudica inadeguata, non valga in alcun modo. Si può indub-
biamente parlare dello stile di un romanziere o indicare i tratti stilistici salienti di correnti
come il realismo o il modernismo. È vero però che questa nozione di stile, più tradizionale,
non si lega a ciò che è specifico della narrativa. È invece una nozione di stile valida per la
scrittura letteraria in generale e quindi, senza negare che essa sia rilevante anche per lo
studio dei testi narrativi, dobbiamo osservare che, nel contesto di una riflessione narratolo-
gica, che si concentra su ciò che è proprio della narrazione in quanto tale, essa sembra
meno pertinente della nozione bachtiniana, la quale cerca invece di correlare un più ge-
nerale concetto di stile a elementi specifici delle narrazioni quali i personaggi o il narra-
tore.

1.3. Rappresentazioni dell’interiorità


1.3.1. Il romanzo e la rappresentazione dell’interiorità
Un’altra parte fondamentale della caratterizzazione dei personaggi è quella che possiamo
descrivere come rappresentazione della loro interiorità, ovvero come rappresentazione
nel testo dei loro pensieri, emozioni, sentimenti o stati d’animo. L’importanza che la rap-
presentazione dell’interiorità dei personaggi ha per la narrativa letteraria è nota a ogni
lettore. Alcuni narratologi, ma soprattutto alcune narratologhe, hanno anzi suggerito che
la rappresentazione diretta dell’interiorità dei personaggi sia proprio ciò che caratterizza
le narrazioni letterarie finzionali rispetto ad altre forme non finzionali quali la biografia
o la storiografia: i pensieri del generale russo Michail Illarionovič Kutuzov, per esempio,
possono essere rappresentati in un romanzo storico come Guerra e pace, ma non in un
saggio storiografico, o non nello stesso modo. Uno storico delle campagne napoleoniche
non parlerà infatti dei pensieri di Kutuzov, ai quali non può avere accesso, se non in
quanto essi siano eventualmente testimoniati da diari o altre fonti che allora dovranno
essere presentate e discusse. La rappresentazione ‘diretta’ e non documentata dell’inte-
riorità dei personaggi è appannaggio della narrazione letteraria finzionale.
Una delle studiose che hanno sostenuto questa tesi è Dorrit Cohn, che nel suo Trans-
parent Minds (1978) ne offre anche una declinazione storica: il romanzo realista potrebbe
essere descritto come quella fiction letteraria che unisce un intento di rappresentazione
verosimile della realtà alla rappresentazione caratteristicamente finzionale dell’interiorità
dei personaggi. Successivamente, la inward turn del romanzo modernista, e cioè la sua
svolta verso una maggiore concentrazione sull’interiorità dei personaggi, porterebbe a
compiuta espressione ciò che di nuovo sarebbe il tratto distintivo del romanzo: la rappre-
sentazione dell’interiorità. Quanto la prospettiva di Cohn e delle altre narratologhe che in
vario modo l’hanno assunta – Käte Hamburger e Monika Fludernik – sia influenzata dalla
poetica del modernismo, in effetti, si coglie anche attraverso la sua consonanza con alcune
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riflessioni di poetica degli stessi scrittori modernisti. Edward M. Forster, per esempio, in
una serie di lezioni sul romanzo tenute nel 1927, afferma che «[l]a caratteristica peculiare
del romanzo è che l’autore possa parlare dei propri personaggi non solo attraverso i per-
sonaggi stessi, ma anche facendo in modo che noi possiamo ascoltarli mentre discorrono
tra sé e sé» (92). A caratterizzare il romanzo, in altre parole, sarebbe la rappresentazione
della vita interiore dei personaggi, quella «vita segreta» (91) che non si manifesta, o non
compiutamente e non perspicuamente, nelle azioni, nei gesti e nelle parole.
Evidentemente, pensare i personaggi come portatori di un’interiorità significa legitti-
mare la possibilità di discuterne la psicologia, come avviene normalmente in certa critica
letteraria, e insistere sulla loro similarità, più in generale, con le persone reali, come fanno
quei narratologi cognitivisti (per esempio Alan Palmer, in Fictional Minds) che affron-
tano il personaggio con i concetti delle scienze cognitive (i quali sono stati sviluppati in
relazione ai processi cognitivi delle persone reali, non finzionali). Contro questo orienta-
mento, che si lega a un’istanza mimetica e verosimilistica, i teorici strutturalisti – Roland
Barthes, Gérard Genette, Philippe Hamon – avevano insistito sulla natura di artefatti ver-
bali dei personaggi: i personaggi non sono persone, dicono gli strutturalisti, non hanno
una psiche o magari un inconscio che si prestino a interpretazioni psicologiche o psicoa-
nalitiche e le loro azioni non dovrebbero essere intese come conseguenze verosimili o
inverosimili dei loro stati mentali ed emotivi; a definirli e a governare la loro partecipa-
zione alla storia sono i codici della letteratura e del linguaggio; fare della psicologia si-
gnifica cedere a un’illusione, dimenticando la natura di artefatto del testo letterario.
Abbiamo già osservato che non tutto, in una narrazione, può essere ricondotto a
un’istanza verosimilistica e che la componente mimetica non è l’unica che definisca il
personaggio. Nondimeno, è spesso il testo stesso a proporci una caratterizzazione psico-
logica dei personaggi e dunque sarà proprio l’attenzione al testo a suggerirci di osservare
le forme della rappresentazione della loro interiorità. Procederemo quindi in questo senso,
senza però impegnarci per una visione sempre verosimilistica, o psicologistica, della nar-
rativa letteraria e senza assumere necessariamente la proposta di caratterizzazione del
romanzo come genere, nel senso della rappresentazione diretta dell’interiorità, di cui di-
cevamo. Più semplicemente, osserveremo le forme di questa rappresentazione dell’inte-
riorità come parte dell’elaborazione di concetti utili per l’analisi del testo narrativo e, in
particolare, per lo studio della caratterizzazione. Introdurremo quindi i concetti proposti
da Cohn, rilevandone sinteticamente le possibili applicazioni per una tipologia e per una
storia delle forme e aggiungendo alcune considerazioni sulla scorta di Palmer, che in anni
più recenti, come si è detto, è tornato, in una prospettiva cognitivista, sulla questione della
rappresentazione della mente nella narrativa letteraria.

1.3.2. La psiconarrazione
Consideriamo questo passo di Delitto e castigo… (1866), di Fëdor Dostoevskij:

Egli [Raskòl’nikov, il protagonista del romanzo. N.d.R.] sentiva in tutto il suo essere un
terribile scompiglio. Temeva di non potersi dominare. Cercava di aggrapparsi a qualcosa e

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di pensare ad altro, a cose perfettamente estranee, ma ciò non gli riusciva affatto. Il segre-
tario però lo interessava molto: avrebbe voluto indovinare, decifrare qualcosa della sua
faccia. (117)

Il narratore rappresenta l’interiorità del personaggio qualificandone sentimenti, pensieri


e desideri. Il passo esemplifica ciò che Cohn chiama psiconarrazione (psychonarration):
«il discorso del narratore sulla coscienza [consciousness] di un personaggio» (Transpa-
rent Minds 14; trad. mia; più che di coscienza o consciousness, tuttavia, noi parleremo di
interiorità, per includere anche ciò che esula dalla coscienza e che pure rientra nel di-
scorso di Cohn e in ciò che trova rappresentazione nella narrazione). Cohn parla di con-
testi in terza persona, ovvero di situazioni in cui un narratore diverso dal personaggio – e
sia esso un narratore omodiegetico (che è anche un personaggio della storia, cioè; ci tor-
neremo) o più spesso eterodiegetico (che non è un personaggio della storia) – dice qual-
cosa sull’interiorità di quel personaggio. Consideriamo un altro esempio, da Mister
Squishy:

Laleman nutriva un’immagine di sé seduto a una scrivania molto grande e costosa con
Chloe Jaswat alle spalle che gli massaggiava i muscoli del trapezio, mentre un’enorme noce
di macadamia in una seggiolina davanti alla scrivania implorava una liquidazione che gli
permettesse di sopravvivere. A volte, nelle rare occasioni in cui si masturbava, le fantasie
di Laleman includevano un’immagine di se stesso, senza camicia e decorato con i colori di
guerra, in piedi con lo stivale sul petto di vari uomini supini mentre ululava in direzione di
qualcosa situata all’esterno della cornice della fantasia e che probabilmente era la luna. (77)

Anche in questo passo, come si vede, i movimenti dell’interiorità del personaggio sono
qualificati esplicitamente dal narratore come «immagini» che il personaggio elabora e
come «fantasie» delle quali il narratore riferisce lo sviluppo. Al lettore è offerto un ac-
cesso a quelle immagini e a quelle fantasie.
Come si è detto, Cohn unisce ai rilievi tipologici alcune considerazioni storico-lette-
rarie. Della psiconarrazione nei contesti in terza persona, in particolare, Cohn osserva la
rarità iniziale (iniziale rispetto alla storia del romanzo moderno) e il progressivo sviluppo
nel corso dell’Ottocento. I romanzieri del Settecento preferiscono la narrazione dei di-
scorsi e delle azioni dei propri personaggi, come si vede in questo passo da Tom Jones
(1749), di Henry Fielding:

Un sospiro delicato sfuggì a Sophia a seguito di queste parole, che forse contribuirono a
generare un sogno non troppo piacevole; ma, poiché lei non rivelò mai a nessuno questo
sogno, il lettore non può aspettarsi che esso sia raccontato qui. (libro XI, cap. 8; cit. in
Cohn, Transparent Minds 22; trad. mia)

Quando poi l’uso della psiconarrazione in contesti in terza persona comincia ad affer-
marsi, nel corso dell’Ottocento, alla resa dell’interiorità dei personaggi i romanzieri uni-
scono tipicamente giudizi intellettuali o morali o verità generali sull’uomo. A questo pro-
posito, possiamo citare un passo di Papà Goriot (1835), di Balzac:

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L’indomani Rastignac si vestì con grande eleganza e verso le tre del pomeriggio si recò
dalla contessa de Restaud, abbandonandosi durante il tragitto a quelle speranze sconside-
ratamente folli che rendono la vita dei giovani così ricca di emozioni. In tal modo essi non
tengono conto né degli ostacoli né dei pericoli, vedono dappertutto il successo, idealizzano
la loro esistenza giocando semplicemente con l’immaginazione e diventano infelici o tristi
perché crollano progetti che esistevano solo nei loro desideri sfrenati. Se non fossero timidi
e ignoranti, la vita di società sarebbe impossibile. Eugène camminava con mille precauzioni
per non infangarsi, ma nel camminare pensava a ciò che avrebbe detto alla signora de Re-
staud… (50)

Dopo Flaubert e il modernismo, la psiconarrazione si realizza principalmente mediante


due strategie narrative: la prima prevede un narratore non appariscente, che tende a fon-
dersi con il personaggio (è la tecnica privilegiata da Flaubert e da Henry James; ci torne-
remo); la seconda, un narratore più visibile e chiaramente distinto dal personaggio del
quale rappresenta l’interiorità, ma privo del potere di autenticazione e di giudizio dei nar-
ratori autoriali (che cioè rappresentano l’autore, in breve; ma anche su questo torneremo)
del primo Ottocento.
La prima strategia, per la quale Cohn parla di psiconarrazione consonante, può essere
esemplificata da questo passo del Ritratto dell’artista da giovane (A Portrait of the Artist
as a Young Man; 1916) di Joyce, dove il narratore rappresenta la mobile interiorità del
protagonista senza profilarsi come soggettività distinta e senza giudicare:

Scacciò il suono dalle orecchie scuotendo rabbiosamente la testa e si affrettò incespicando


tra il pattume putrescente, il cuore già roso da una pena di disgusto e amarezza. Il fischio
di suo padre, i brontolii di sua madre, l’urlo stridulo di una pazza invisibile erano per lui
ora altrettante voci che offendevano e minacciavano di umiliare l’orgoglio della sua gio-
ventù. Spinse anche i loro echi fuori dal cuore con un’imprecazione; ma mentre camminava
lungo il viale e sentiva la luce grigia del mattino cadere su di lui attraverso gli alberi goc-
ciolanti e annusava lo strano odore selvatico delle foglie e della corteccia bagnate, l’anima
fu liberata dalle sue miserie. (Ritratto dell’artista da giovane 208-209)

La seconda strategia – psiconarrazione dissonante – può invece essere esemplificata


da un passo di La morte a Venezia (1912; il passo include anche altre forme di rappresen-
tazione dell’interiorità, delle quali diremo a breve):

Troppo tardi! pensò in quel momento. Troppo tardi! Ma era davvero troppo tardi? Quel
passo che aveva mancato molto probabilmente avrebbe condotto a qualcosa di buono, leg-
gero e gioioso, a un terapeutico tornare sobrio. Ma la verità era per l’appunto, probabil-
mente, che l’uomo in declino non voleva tornare sobrio, che l’ebbrezza gli era troppo pre-
ziosa. Chi sa decifrare l’essenza e il carattere dell’esistenza artistica! Chi può comprendere
la profonda e istintiva fusione di disciplina e sfrenatezza su cui essa riposa? Poiché non
essere in grado di desiderare un terapeutico tornare sobrio significa sfrenatezza. Aschen-
bach ormai non era più in vena di autocritica; il gusto, la disposizione spirituale della sua
età, la sua stima di sé, la sua maturità e tarda semplicità lo rendevano poco incline ad ana-
lizzare i moventi e a decidere se fosse stata la coscienza, oppure la dissolutezza e la debo-

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lezza a impedirgli di attuare il suo proposito. Era confuso, temeva che qualcuno, fosse an-
che solo il guardiano della spiaggia, potesse aver osservato la sua corsa, la sua sconfitta,
temeva molto il ridicolo. (La morte a Venezia 167)

Come nota Cohn, Mann è uno dei narratori del ventesimo secolo (altri sono D. H.
Lawrence, André Gide, Robert Musil e Hermann Broch) che reintroducono un narratore
udibile nella narrazione in terza persona, ma per metterlo al servizio della psicologia in-
dividuale.
La psiconarrazione dispone di una flessibilità temporale illimitata, in quanto può es-
sere usata per sintetizzare le lunghe durate della vita interiore come anche per espanderne
i passaggi più istantanei. I romanzieri realisti usano la psiconarrazione, tipicamente, su un
lungo arco temporale, come si vede in questo passo da Emma (1815), di Jane Austen:

Emma continuò a non dubitare di essere innamorata. Le sue sensazioni variavano solo su
quanto lo fosse. All’inizio pensò di esserlo parecchio; in seguito, solo un poco. Provava
grande piacere nel sentir parlare di Frank Churchill e, per causa sua, ancor più piacere del
solito nel frequentare i coniugi Weston; si scopriva spesso a pensare a lui e stava in ansia
in attesa di una lettera per sapere come stava, di che umore era, come stava sua zia, e quante
speranze ci fossero che tornasse a Randalls in primavera. D’altra parte, però, non poteva
dire a se stessa di sentirsi infelice e neppure, superata la prima mattinata, di essere meno
disposta del solito a darsi da fare; era, come sempre, affaccendata e allegra; e per quanto
affascinante egli fosse, continuava a vedergli dei difetti; non solo, sebbene pensasse tanto
a lui e, mentre sedeva a disegnare o a fare qualche lavoretto, si immaginasse mille piacevoli
scene sullo sviluppo e sulla conclusione del loro amore, costruendosi in testa interessanti
dialoghi e inventando lettere eleganti, la risposta finale a ogni fantasticata dichiarazione
d’amore era, da parte sua, un rifiuto. Il loro sentimento doveva comunque trasformarsi in
amicizia. La loro separazione avrebbe avuto il segno della tenerezza e del romanticismo;
eppure dovevano separarsi. Quando si rese conto che questo era il contenuto delle sue fan-
tasticherie, pensò anche, colpita, che non poteva essere molto innamorata. Perché, per
quanti propositi avesse fatto di non lasciare mai suo padre per sposarsi, un sentimento più
forte certo avrebbe prodotto una lotta ben più dura di quella che si prospettava guardandosi
dentro. (286-287)

Il passo proustiano che segue, da Alla ricerca del tempo perduto (À la recherche du
temps perdu, 1913-27), esemplifica invece l’uso più analitico, espansivo, della psiconar-
razione:

Allora, all’improvviso, si domandò se tutto questo non significasse appunto “mantenerla”,


(come se, in realtà, quella nozione del mantenere potesse emergere da elementi non miste-
riosi e perversi, ma appartenenti al fondo quotidiano e privato della sua vita, come un certo
biglietto da mille franchi, domestico e familiare, strappato e rincollato, che il suo cameriere,
dopo aver regolato i conti del mese e pagato l’affitto, aveva riposto nel cassetto del vecchio
scrittorio dove Swann l’aveva ripreso per inviarlo, con altri quattro, a Odette) e se non si
potesse applicare a Odette, da quanto la conosceva (giacché non sospettò neppure per un
attimo che avesse potuto ricevere del denaro da qualcuno prima che da lui), quel termine,
ch’egli aveva creduto così inconciliabile con lei, di “mantenuta”. Non poté approfondire

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questo concetto perché un accesso di quella pigrizia mentale che era in lui congenita, in-
termittente e provvidenziale, giunse in quel momento a spegnere ogni lume del suo intel-
letto, con la stessa repentinità con la quale, più tardi, quando si installò dappertutto l’illu-
minazione elettrica, divenne possibile interrompere la corrente all’interno di una casa. Per
un istante il suo pensiero brancolò nel buio; si tolse gli occhiali, ne pulì le lenti, si passò
una mano sugli occhi e non rivide la luce che quando fu in presenza di un pensiero tutt’af-
fatto diverso, e cioè che il mese successivo avrebbe dovuto cercare di mandare a Odette sei
o settemila franchi anziché cinque, in considerazione della sorpresa e della gioia che un
simile gesto le avrebbe procurato. (I 325-326)

La psiconarrazione, inoltre, può essere usata per rendere gli stati mentali inconsci o
non verbalizzati del personaggio – assumiamo di trovarci di fronte a una narrazione per
la quale sembri legittimo pensare a una ricerca di verosimiglianza psicologica in questo
senso – o per articolarli verbalmente in forme che trascendono il suo linguaggio. D’altra
parte, poiché gli strati preconsci, subconsci o inconsci della psiche sono per definizione
inaccessibili alla coscienza e al linguaggio del soggetto, per rappresentare tali stati del
personaggio in modo verosimile – ammettendo ancora che la narrazione tenda a questo
tipo di verosimiglianza –, il narratore dovrà necessariamente ricorrere alla propria visione
e al proprio linguaggio e quindi alla psiconarrazione. Un esempio di uso della psiconar-
razione per rendere immagini mentali non verbali è offerto da quest’altro passo della
Morte a Venezia, dove sono rappresentate le percezioni immaginarie del personaggio:

Egli vide […] un paesaggio, una palude tropicale sotto un cielo greve di vapore, umida,
lussureggiante e sconfinata, una sorta di natura selvaggia primordiale […] vide ergersi da
felci esuberanti e lussureggianti […] tronchi pelosi di palme, vide alberi fantasticamente
deformi […] e sentì battere il suo cuore per il terrore e per un enigmatico desiderio. Poi la
visione svanì. (57-59)

D’altra parte, la psiconarrazione può essere usata anche da un narratore omodiegetico


che racconti della propria vita interiore. In questo caso, Cohn parla di self-narration, ma
per semplicità noi parleremo, forzando leggermente la terminologia di Cohn, di psiconar-
razione (in prima persona). Un esempio è offerto da questo passo di Dentista, di Roberto
Bolaño:

Alla reception la segretaria non c’era più. Volevo prendere il telefono e fare una chiamata,
ma fu un impulso completamente automatico, perché chi potevo chiamare in una città dove
non conoscevo nessuno? Mi pentii mille volte di essere andato a Irapuato, maledissi la mia
sensibilità atrofizzata, mi ripromisi, appena tornato dal DF, di trovarmi una donna bella e
intelligente, ma soprattutto pratica, con la quale mi sarei sposato dopo un fidanzamento
breve, privo di eccessi. Mi accomodai sulla sedia della segretaria e cercai di calmarmi. (Put-
tane assassine 189)

Cohn osserva che anche in un contesto in prima persona la psiconarrazione può essere
dissonante o consonante. Si ha dissonanza quando il narratore esibisce una lucidità mag-
giore di se stesso come personaggio, o una più profonda esperienza acquisita nel tempo
intercorso tra il momento degli eventi vissuti e quello successivo della loro narrazione, o

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ancora un giudizio che esprime una prospettiva diversa da quella del personaggio. Nel
passo di Bolaño citato sopra, per esempio, cogliamo una lucidità a posteriori – «ma fu un
impulso completamente automatico» – e una vena di ironia che segnano una leggera dis-
sonanza tra l’io narrante e l’io narrato.
Un’alternativa alla psiconarrazione in prima persona dissonante è offerta, ovviamente,
dalla psiconarrazione in prima persona consonante, che troviamo per esempio in questo
passo di Fame (1890), di Knut Hamsun:

Accavallai le gambe e stetti a osservarli pacatamente [insetti che si posano sulla pagina.
N.d.R.], finché il suono di un clarinetto dal Giardino dello studente, laggiù, mi raggiunse e
diede una scossa ai miei pensieri. Seccato di non poter comporre il mio articolo, mi misi in
tasca carta e matita e mi appoggiai alla spalliera della panchina. In quel momento la mia
mente era così lucida che potevo fare i ragionamenti più sottili senza stancarmi. Mentre,
semisdraiato, facevo scorrere lo sguardo lungo il petto fino alle gambe osservai i piccoli
scatti che il mio piede faceva a ogni pulsazione. Mi rizzai, mi guardai i piedi e provai una
sensazione fantastica, ignota: un fremito strano, sottile, mi vibrava nei nervi come un bri-
vido di luce. Guardandomi le scarpe ebbi l’impressione di aver ritrovato dei cari conoscenti
e di aver riconquistato una parte di me stesso che mi era stata sottratta. Un senso di ricono-
scimento mi tremò nell’anima, gli occhi mi si empirono di lagrime e le mie scarpe manda-
rono quasi un sommesso bisbiglio. Debolezza! dissi aspramente fra me e, stringendo i pu-
gni, ripetei: Debolezza. Cominciai a infuriarmi contro me stesso per quelle sensazioni ridi-
cole da cui mi ero lasciato consapevolmente sopraffare. Parlavo con asprezza, e stringevo
le palpebre con forza per liberarmi delle lagrime. (25-26)

In questo passo il narratore non esibisce alcun privilegio cognitivo rispetto al personag-
gio, ma ne adotta interamente la prospettiva, annullando la distanza tra i due sé.
Come si vede, queste considerazioni e le altre analoghe che le hanno precedeute ci
riportano anche a ciò che dicevamo sulla molteplicità di immagini identitarie che un testo
narrativo può offrire di uno stesso personaggio. Tale molteplicità, cioè, riguarda anche la
rappresentazione dell’interiorità dei personaggi.
Dopo Cohn, Alan Palmer (fra gli altri) è tornato sulla questione della rappresentazione
della mente dei personaggi finzionali nel contesto della narratologia cognitivista e ha ri-
levato tra l’altro, a proposito della psiconarrazione (che Palmer però chiama thought re-
port) come essa sia fondamentale per la sua linking function tra la mente e l’ambiente
fisico e sociale in cui la mente è situata, o per rappresentare la mente nelle sue dimensioni
di intenzionalità e di socialità. Le nostre menti, nota Palmer, sono pubbliche e sociali nel
senso che il comportamento manifesta intenzioni, emozioni e pensieri in modi che spesso
ne rendono possibile una comprensione accurata. Una visione esternalista della mente ne
rileva cioè il carattere situato e sociale, che dipende inoltre dal fatto che la mente funzioni
anche in virtù di un insieme di mediational tools, il più importante dei quali sarebbe il
linguaggio. Palmer esorta quindi a riconoscere il carattere fisicamente e socialmente si-
tuato dei processi cognitivi e della mente, così come il loro funzionamento distribuito in
sistemi di dispositivi, e afferma che la narratologia ha sempre studiato la mente, al con-
trario, come interiorità che non appare. Il modo in cui Cohn tratta della psiconarrazione,
in effetti, sembra prestarsi ai rilievi di Palmer, che tuttavia possiamo accogliere non tanto
come una confutazione di ciò che Cohn ha scritto, quanto come un’integrazione.
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Un primo modo per integrare il discorso di Cohn sulla psiconarrazione, quindi, è rilevare
la sua linking function, notando come essa consenta di rappresentare la vita mentale sog-
giacente all’azione e cioè intenzioni, ragioni e motivazioni dei personaggi. Lo vediamo, per
esempio, in questo passo del capitolo VI di Pinocchio (1881-83):

Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la fame era più forte della
paura: motivo per cui accostò l’uscio di casa, e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò
fino al paese, colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia. (47)

Oppure, si legga questo passo da Nemico, amico, amante…:


La macchinetta era tutta nera all’interno. Johanna cercò di lavarla come meglio poté, e mise
su l’acqua a bollire. Poi andò a lavarsi e a darsi una rinfrescata, domandandosi che cosa
potesse dargli da mangiare per colazione. In dispensa c’era una scatola di preparato per
biscotti. In un primo tempo temette di doverli impastare con l’acqua, ma poi trovò anche
una confezione di latte in polvere. Mentre il caffè saliva, aveva già infornato una teglia di
biscotti. (46)

I passaggi di psiconarrazione – «domandandosi…»; «temette…» – si prolungano nella


rappresentazione di un’azione – cercare nella dispensa, lavare la macchinetta per il caffè
– della quale cogliamo più agevolmente intenzioni e motivazioni proprio in virtù del col-
legamento con l’interiorità del personaggio offerto da quei passi (tra l’interiorità rappre-
sentata mediante psiconarrazione e ciò che emerge dall’azione, peraltro, può anche darsi
contraddizione o incoerenza: un personaggio, come una persona, può vivere una situa-
zione di dissidio).
A questo, come abbiamo detto, si aggiunge ciò che appartiene a un’interiorità, per così
dire, più nascosta: percezioni, sensazioni e immagini visuali; emozioni; attenzione, tono
e umore; stati latenti della mente quali atteggiamenti, giudizi, valutazioni, convinzioni,
abilità, conoscenze e desideri; interpretazioni, analisi e giudizi; conoscenze assenti (ciò
che il personaggio non sa, anche di se stesso); tratti della personalità.

1.3.3. Il monologo interiore


Dopo la psiconarrazione, un secondo modo per rappresentare l’interiorità dei personaggi
è il monologo interiore (quoted monologue), che Cohn definisce come «il discorso men-
tale di un personaggio» nel contesto di una narrazione in terza persona (Transparent
Minds 14; vedremo poi che anche per il monologo interiore esiste un corrispettivo in
prima persona). Consideriamo un breve esempio da Nemico, amico, amante…:

– Come va? Posso dare un’occhiata?


Da’ pure tutte le occhiate che vuoi, pensò Johanna, tanto è il classico caso di perle ai porci,
vedrai.
La donna provò a osservare da un lato, poi dall’altro. (9)

Dopo la domanda della negoziante, in discorso diretto libero, il narratore riferisce i pen-
sieri verbalizzati di Johanna: la frase che Johanna pronuncia mentalmente. Non ci sono

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virgolette né corsivi, a segnalare che si tratta di pensieri verbali citati, ma il linguaggio,


per l’uso della seconda persona verbale e per la fraseologia, suggerisce che leggiamo le
parole che Johanna pensa. È ciò che, sulla scorta di Cohn, chiamaremo monologo inte-
riore.11
Secondo Cohn, fino alla metà dell’Ottocento i personaggi dei romanzi monologano
raramente e i loro monologhi sono introdotti dall’autore e sono spesso, soprattutto, ad alta
voce. È il caso di Tom Jones, di Fielding, o di La piccola Dorrit (Little Dorrit; 1857), di
Charles Dickens. Con i romanzieri realisti, il fenomeno psicologico del monologo inte-
riore è un fatto acquisito. Successivamente, la tecnica evolve e il monologo interiore cessa
di costituirsi in lunghi passi isolati per frammentarsi e intrecciarsi più minutamente ai
discorsi e alle azioni dei personaggi. Con Ulysses (1922), di James Joyce, i passaggi di
monologo interiore non sono più segnalati da verbi come pensò e da segni grafici come
le virgolette di citazione.
Il monologo interiore si presenta sempre entro un contesto narrativo e questo contesto
agisce sull’interpretazione del monologo da parte del lettore. Il narratore, per esempio,
può commentare i pensieri del personaggio, come in questo passo di Il rosso e il nero:

«[P]rima del mio viaggio, io le prendevo la mano e lei la ritirava; oggi ritiro la mani e lei
la prende e me la stringe. È una buona occasione per renderle tutto il disprezzo che ha avuto
per me. Dio sa quanti amanti deve avere avuto! Forse non ha deciso a mio favore se non
per la facilità con cui possiamo incontrarci».
Tale è la rovina, ahimè, di un’eccessiva civilizzazione! A vent’anni, l’educazione di un
giovane, se egli ha ricevuto una qualche educazione, è a mille miglia da quel lasciar correre
senza il quale l’amore spesso non è che il più noioso dei doveri. (Cit. in Cohn, Transparent
Minds 67; trad. mia)

In questo passo il narratore interviene con giudizi e generalizzazioni; altre volte trove-
remo passaggi di psiconarrazione, come per esempio – esempio contemporaneo – in que-
sto passo di Ultimi crepuscoli sulla terra (2001), ancora di Roberto Bolaño:

B allora si ricorda di una volta, prima che se ne andasse in Cile, in cui suo padre gli aveva
detto «tu sei un artista e io sono un lavoratore». Che cosa aveva voluto dire?, pensa. La
porta del bagno si riapre e ricompare la puttana vestita di bianco, stavolta con le scarpe
immacolate, e attraversa il locale avvicinandosi al tavolo dove giocano a carte e lì si ferma,
in piedi, accanto a uno degli sconosciuti. Perché dobbiamo andarcene?, dice B. La donna
lo guarda con la coda dell’occhio e non risponde. Ci sono cose che si possono raccontare,
pensa B, e ci sono cose che non si possono raccontare. Chiude gli occhi.
Come in sogno, torna nel cortile sul retro del bar. La donna tinta di biondo lo conduce sul
retro del bar. Questo l’ho già fatto, pensa B, sono ubriaco, non uscirò mai più da qui. (Puttane
assassine 65)

Alcuni pensieri verbalizzati di B sono riferiti in forma di monologo interiore – «Che cosa
aveva voluto dire?»; «Ci sono cose che si possono raccontare…» –, mentre altri momenti

11
Una traduzione letterale di quoted monologue sarebbe monologo citato, mentre la traduzione
più usata è monologo interiore diretto. Noi useremo monologo interiore per brevità.
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della sua interiorità – «B allora si ricorda di una volta» – sono resi mediante psiconarra-
zione. Le diverse forme di rappresentazione dell’interiorità, come le diverse forme di rap-
presentazione del discorso, possono essere variamente intrecciate in uno stesso passo.
Abbiamo detto sopra che nessuno nega che dentro di noi si svolga occasionalmente un
discorso interiore. Resta però da stabilire, tra psicologi e filosofi, in quale misura il pen-
siero sia verbalizzato. Se la filosofia del Novecento ha talvolta insistito sulla linguisticità
radicale delle nostre rappresentazioni della realtà, le scienze cognitive contemporanee
tendono invece a pensare il linguaggio come una facoltà cognitiva tra le altre e come un
dispositivo di rappresentazione e condivisione della realtà integrato in altri dispositivi
cognitivi. Analogamente, alcuni scrittori, come Joyce, usano il monologo interiore in
modi per cui mostrano di confidare che il discorso possa esaurire il pensiero; altri, come
Proust, suggeriscono che non tutto ciò che è del pensiero sia verbalizzato.
Il monologo interiore può assumere anche la forma del flusso di coscienza (traduzione
dell’espressione inglese stream of consciousness, introdotta dallo psicologo americano
William James nei suoi Principi di psicologia, del 1890), che rappresenta un pensiero non
discorsivamente articolato, ma verbalizzato. Il primo saggio di un uso narrativo sistema-
tico della tecnica si deve a Édouard Dujardin, autore di Les Lauriers sont coupés (1887)
– sebbene già il monologo interiore dei capp. 27-29, parte VII, di Anna Karenina (1877)
tenda al flusso di coscienza –, ma sono i modernisti anglosassoni a perferzionarla: Virgi-
nia Woolf, William Faulkner e soprattutto James Joyce:

Costeggiando grossi furgoni sulla Riva Sir John Rogerson, Mr Bloom camminò posata-
mente oltre Windmill lane, la ditta Leask, produttrice d’olio di semi, l’ufficio delle poste e
telegrafi. Avrei potuto dare quell’indirizzo, anche. E oltre la casa di riposo dei marinai. Si
staccò dai rumori mattutini del lungo fiume e imboccò Lime street. Presso le case popolari
di Brady un garzone di conceria indugiava, con la secchia dei cascami al braccio, fumando
una cicca masticata. Una bambinetta coi segni di un eczema sulla fronte lo occhieggiava
reggendo incurante il suo malconcio cerchione di botte. Dirgli che se fuma non crescerà.
Ma fumi pure! La sua vita non è poi un letto di rose! Aspettare fuori dalle osterie per riportare
papà a casa. Torna a casa da mamma, papà. Ora morta; non ci sarà molta gente. (Ulisse 71)

Nel suo svolgersi disarticolato, incondito e associativo, il flusso di coscienza può evo-
care dinamiche inconsce, che agiscono cioè al di sotto della coscienza e che non si espri-
mono verbalmente in modo diretto, ma che nel flusso di coscienza verbalizzato si mani-
festano sintomaticamente, e inoltre percezioni che il personaggio potrebbe non avere ver-
balizzato nemmeno tacitamente. In questo senso, il flusso di coscienza differisce dal mo-
nologo interiore, che rappresenta solo ciò che il personaggio articola verbalmente dentro
di sé e dunque pensieri dei quali il personaggio è pienamente consapevole. «Il flusso di
coscienza – scrivono Scholes, Phelan e Kellogg (185; trad. mia) – segue dei pattern di
tipo psicologico. Il monologo interiore, tradizionalmente, ha favorito l’uso di forme reto-
riche». Peraltro, anche il linguaggio dei monologhi interiori, dopo le sue prime manife-
stazioni nel romanzo dell’Ottocento, tende ad aderire mimeticamente al linguaggio dei
personaggi implicati. Dall’inizio della tradizione realista al romanzo del Novecento, in
altre parole, il linguaggio del monologo interiore è mutato complessivamente in modo

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non dissimile da quello del dialogo, andando verso una maggiore informalità e sponta-
neità e integrando particolarità e idiosincrasie culturali, sociali e individuali.
Il monologo presenta però alcune proprietà che lo distinguono dal dialogo: la prima è
una libera alternanza dei pronomi di prima e seconda persona in riferimento allo stesso
soggetto, come in questo esempio da La morte di Ivan Il’ič (1886), di Tolstoj, dove inoltre
si vede come il monologo interiore diretto possa esibire una retorica di autoallocuzione e
quindi di rimprovero, giudizio o interrogazione:

Poi tacque, smise non solo di piangere, smise di respirare e divenne tutto quanto attenzione:
come se stesse prestando orecchio non a una voce che gli parlasse con dei suoni, ma alla
voce della sua anima, alla corrente dei pensieri che si levavano dentro di lui.
«Che cosa vuoi?» fu il primo concetto chiaro, possente, espresso a parole che egli sentì.
«Che cosa vuoi? Che cosa vuoi?» si ripeté. «Che cosa? Non soffrire. Vivere» rispose.
E di nuovo ascoltò con attenzione così tesa che nemmeno il dolore lo distraeva.
«Vivere? Come vivere?» domandò la voce interiore.
«Sì, vivere come vivevo prima: bene, piacevolmente».
«Come vivevi prima, bene, piacevolmente?» domandò la voce. (64)

La seconda proprietà caratteristica del linguaggio monologico è la sua discontinuità:


interruzioni, esclamazioni, allocuzioni in direzioni diverse e frasi o periodi sospesi, con
effetti di scorciatura sintattica e opacità lessicale.
Concludiamo con poche note sul self-quoted monologue, ovvero sul monologo inte-
riore (il discorso mentale di un personaggio, dunque) in contesti in prima persona. Cita-
zioni occasionali di pensieri passati – introdotte tipicamente da mi dissi o espressioni si-
mili – sono una componente comune delle narrazioni in prima persona tradizionali. Tal-
volta, queste citazioni assumono la forma di discorsi retoricamente strutturati e segnalati
dal narratore, come in questo passo di Adolphe (1816), di Benjamin Constant:

«Mi accusa continuamente – dicevo – di essere duro, di essere ingrato, di non avere pietà.
Ah, se il cielo mi avesse concesso una donna che le convenienze sociali mi avessero per-
messo di riconoscere […]. Quanto sarei riconoscente verso il cielo e benevolo con gli uo-
mini!». (Cit. in Cohn, Transparent Minds 161, trad. mia)

La verosimiglianza di passi come questo però non è ovvia e alcuni narratori possono ri-
levarlo e discuterne esplicitamente, magari dicendo che quelli riferiti sono «più o meno»
i pensieri pensati allora, o qualcosa di simile. Altri narratori invece sfruttano deliberata-
mente l’ambiguità creata dall’autocitazione nelle narrazioni in prima persona. Omettendo
le indicazioni esplicite di citazione, riproducono contemporaneamente i pensieri dell’io
narrato e quelli dell’io narrante, suggerendo che essi di fatto coincidano. Un esempio è
offerto da Caduta libera (Free Fall, 1959), di William Golding:

Alzai le ginocchia contro il mento e incrociai le braccia dinanzi al viso. […]


Occhi che non vedono nulla presto si stancano di quel nulla. Inventano sagome proprie,
galleggianti sotto le palpebre. Gli occhi chiusi sono privi di difesa. Allora? Che fare? Si
aprirono contro la mia volontà e di nuovo le tenebre si distesero con l’inconsistenza della
gelatina. Avevo la bocca aperta e arida. (184-185; corsivi di Cohn)
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A questo punto possiamo osservare che psiconarrazione e monologo interiore sem-


brano istituire una polarità di forme caratterizzate da maggiore o minore mediazione nar-
ratoriale, come accadeva con il discorso indiretto legato o narrativizzato, da una parte, e
il discorso diretto, libero o legato, dall’altra. E, così come in quel caso si inseriva la forma
intermedia del discorso indiretto libero, in questo caso, tra psiconarrazione e monologo
interiore, si può collocare il monologo narrato.

1.3.4. Il monologo narrato


Consideriamo ancora un passo di The Bear Came Over the Mountain: il protagonista del
racconto, Grant, visita la moglie Fiona, ricoverata da poco in una casa di cura perché ha
manifestato i primi sintomi di una forma di demenza, e si trova a chiedersi se davvero lei
non lo riconosca o se invece stia solo «scherzando»:

Non riusciva a capire. Poteva darsi che stesse scherzando. Sarebbe stato da lei. Si era tradita
alla fine, con quella battuta, quando gli aveva parlato come se l’avesse scambiato per un
eventuale nuovo residente.
Sempre che di messinscena si trattasse. Sempre che fingesse.
Ma in quel caso non gli sarebbe corsa dietro ridendo di lui, una volta finito lo scherzo? Di
sicuro, non sarebbe tornata al tavolo da gioco, fingendo di scordarsi della sua presenza.
Così era troppo crudele. (284)

Questo passo esemplifica ciò che Cohn chiama monologo narrato, definendolo inizial-
mente come «la tecnica per rendere il pensiero di un personaggio nel suo stesso linguag-
gio [idiom], mantenendo tuttavia i riferimenti in terza persona e il tempo verbale di base
della narrazione» (Transparent Minds 100). Linguisticamente, il monologo narrato si di-
stingue dal monologo interiore per tempo verbale e persona; dalla psiconarrazione, per
l’assenza di verbi mentali:

• monologo interiore: «(He thought:) I am late»; «(Pensò:) Sono in ritardo»;


• monologo narrato: «He was late»; «Era in ritardo»;
• psiconarrazione: «He knew he was late»; «Sapeva che era in ritardo» («Sapeva di
essere in ritardo»).

Gli stessi rilievi valgono se consideriamo le forme interrogative corrispondenti:

• monologo interiore: «(He asked himself:) Am I late?»; «(Si chiese:) Sono in


ritardo?»;
• monologo narrato: «Was he late?»; «Era in ritardo?»;
• psiconarrazione: «He wondered if he were late»; «Si chiedeva se fosse in ritardo».

Come dicevamo, il monologo narrato può essere visto in analogia con il discorso in-
diretto libero. Anche nel monologo narrato, inoltre, il linguaggio (idiom; idioletto, po-
tremmo anche tradurre) del personaggio emerge nell’enunciazione narrativa in quanto

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emerge, del personaggio, la soggettività, in senso percettivo, cognitivo, emotivo e quindi


linguistico. Si legga questo passo da Conforto (2001), di Alice Munro (da Nemico, amico,
amante…), in cui si racconta di come Nina, tornata a casa da una partita di tennis, trovi il
marito Lewis morto suicida:

I farmaci dovevano averlo addormentato, interrompendo di nascosto ogni contatto, cosic-


ché il corpo non presentava lo sguardo fisso né l’espressione contratta di un morto. La
bocca era socchiusa, ma asciutta. Negli ultimi due mesi era cambiato parecchio: soltanto
adesso se ne rendeva conto fino in fondo. […]
Niente. Più niente. Adesso, a un paio d’ore dalla morte (perché doveva essersi dato da fare
non appena lei era uscita, non volendo rischiare di prolungare la faccenda fino al suo ri-
torno), adesso era evidente che sfinimento e devastazione avevano avuto la meglio e che la
sua faccia si era ridotta ai minimi termini. Era sigillata, distante, puerile e vecchissima,
forse come quella di un bambino nato morto. (120)

Innanzitutto si nota che, se il tempo passato dei verbi dipende dal centro deittico costituito
dal narratore, la deissi temporale è più spesso correlata a Nina: parole ed espressioni come
«negli ultimi due mesi» e «adesso» (usato tre volte) sono riferite al presente di Nina.
Inoltre, il «dovevano» iniziale esprime una congettura della stessa Nina (come anche «do-
veva essersi dato da fare…», tra parentesi), della quale dunque il passo racconta i pensieri
nel loro sviluppo sulla scena. Infine, la descrizione del volto di Lewis è propriamente il
referto delle percezioni di Nina (si parla talvolta di percezione indiretta libera): a lei è
«evidente» come la malattia abbia infine «avuto la meglio», a lei deve essere riferito il
sentimento di distanza espresso nel seguito e sua è la conoscenza del volto di Lewis prima
della malattia che questa percezione presuppone in quanto percezione di una decadenza
da una precedente, diversa condizione.
Analogamente, nel passo di The Bear Came Over the Mountain citato sopra si leggono
le ipotesi – «Poteva darsi che stesse scherzando» –, i dubbi – «Sempre che di messinscena
si trattasse. Sempre che fingesse» – e i sentimenti – «Così era troppo crudele» – di Grant,
che non capisce, o non vuole capire, se Fiona davvero non lo riconosca più.
Alle movenze dell’interiorità del personaggio e al suo linguaggio, d’altra parte, può
essere intrecciato più o meno percettibilmente il diverso linguaggio del narratore. Si con-
sideri ancora il passo di Madame Bovary citato sopra:

Come s’annoiava, adesso, quando Emma attaccava di colpo a singhiozzargli sul petto; il suo
cuore, come capita a chi non può sopportare più d’una certa dose di musica, s’assopiva d’in-
differenza nel trambusto di un amore di cui non distingueva più le delicatezze.
Ormai si conoscevan troppo per provare quello stupore del possesso che ne centuplica la
gioia. Lei era disgustata di lui quanto lui era stanco di lei. Emma ritrovava nell’adulterio tutte
le meschinità del matrimonio.
Ma come farla finita? Poi, lei aveva un bel sentirsi umiliata dalla bassezza d’un simile
piacere: vi era attaccata per abitudine o per vizio, anzi vi s’accaniva sempre più di giorno
in giorno, rovinando ogni possibilità di gioia con l’esagerazione del desiderio. (234-235)

L’inizio del passo unisce il passato verbale di «s’annoiava», che rimanda alla posizione
temporale ulteriore del narratore, all’avverbio «adesso», che fa riferimento al presente di
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Léon (alla sua esperienza presente di quella noia). Ancora a Léon, inoltre, risale l’intona-
zione esclamativa di «Come s’annoiava, adesso». Nel seguito, però, la similitudine che
descrive l’ottundimento emotivo del personaggio – «come capita a chi non può sopportare
più d’una certa dose di musica» – e la successiva elaborazione formale del passo – con la
struttura chiastica di «Lei era disgustata di lui quanto lui era stanco di lei» –, che trascen-
dono le scarse risorse stilistiche dei personaggi interessati, pertengono palesemente al nar-
ratore. Abbiamo quindi due centri deittici o prospettici e due linguaggi che possono in-
trecciarsi nello stesso passo.
Potremmo essere tentati di dire che abbiamo due soggettività, allora, ma questa ulte-
riore affermazione sarebbe problematica: Ann Banfield, come già notavamo a proposito
del discorso indiretto libero, ha osservato con validi argomenti che a essere rappresentata,
nel monologo narrato, è solo la soggettività del personaggio, poiché il narratore può pro-
filarsi, in varia misura, come centro deittico e per il suo linguaggio, ma non come sogget-
tività che esprima pienamente un vissuto. In effetti, Banfield non parla del narratore ma
dell’autore, di cui rileva quindi il contributo scritturale. Qui non possiamo discutere la
teoria di Banfield, né quindi spiegare perché Banfield parli dell’autore e non del narratore
(su questo specifico problema, tuttavia, torneremo più avanti), ma averla richiamata ci
serve per avvisare che volta per volta occorrerà osservare in che senso e in che modi si
rappresenti l’interiorità del personaggio e come, congiuntamente, si profili il narratore. Il
fatto che nel monologo narrato l’interiorità del personaggio possa essere rappresentata in
modi diversi, tra l’altro, suggerisce che lo stesso termine monologo narrato possa essere
inadeguato, in quanto rimanda a una dimensione verbale – di monologo, appunto
– dell’interiorità rappresentata anche quando a essere rappresentate siano le percezioni o
le emozioni non verbalizzate, nemmeno intimamente, del personaggio. In effetti, Banfield
parla piuttosto di represented speech and thought (dove tra l’altro si preferisce l’idea di
una rappresentazione a quella di una narrazione dell’interiorità) e Alan Palmer di free
indirect thought. Nel seguito, continueremo a usare monologo narrato per semplicità, ma
ricordando l’avviso sulla varietà dei modi di questa forma di rappresentazione dell’inte-
riorità.
Il monologo narrato può alternarsi variamente con le altre forme di rappresentazione
dell’interiorità che abbiamo osservato. Un caso frequente, per esempio, è quello della
combinazione di psiconarrazione e monologo narrato, come in questo passo da Nemico,
amico, amante…:

Era il genere di complimento di cui Johanna di solito si sarebbe sentita in dovere di ridere,
non fosse stato che in quel momento le parve sincero. Non aveva occhi grandi e, se le
avessero chiesto di che colore erano, avrebbe risposto: «Ma, più o meno marroni, direi».
Però adesso parevano proprio di un marrone intenso, morbido e luminoso.
Non che si fosse improvvisamente messa in testa di essere bella, o roba del genere. Era solo
che gli occhi avevano un bel colore, se fossero stati un pezzo di stoffa. (10)

L’attacco è una psiconarrazione delle impressioni di Johanna rispetto al complimento


della negoziante e del suo atteggiamento rispetto ai complimenti in generale, ma il se-
guito, almeno da «Però adesso parevano», con il suo now in the past, è monologo narrato.

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Questa considerazione suggerisce anche un confronto tra le diverse forme di rappre-


sentazione dell’interiorità, in particolare della loro rispettiva capacità di renderne i diversi
livelli di profondità. Cohn osserva infatti che, se la psiconarrazione può essere usata per
rappresentare gli strati consci come quelli inconsci dell’interiorità, il monologo interiore
consente di accedere solo a ciò di cui il personaggio è cosciente (diverso è il caso del
flusso di coscienza, come abbiamo detto), dal momento che si tratta di ciò che il perso-
naggio stesso è in grado di formulare linguisticamente. Il monologo narrato, di nuovo, si
colloca in una posizione intermedia, poiché consente di raccontare sia ciò che il perso-
naggio stesso pensa consapevolmente, sia quelle emozioni e percezioni che magari il per-
sonaggio non saprebbe articolare o che, sulla soglia incerta della verbalizzazione, non
articola ancora.
Concludiamo il nostro discorso sul monologo narrato osservando che anch’esso, come
la psiconarrazione e il monologo interiore, può essere usato in un contesto in prima per-
sona, ovvero, in una narrazione omodiegetica, da un narratore che racconti di sé in quanto
personaggio della storia. Seguendo ancora Cohn, possiamo quindi parlare di self-narrated
monologue o, più semplicemente, di monologo narrato in prima persona. Consideriamo
solo un esempio da Mobili di famiglia:

Ora, due cose sapevo per certo. Primo, che mio padre era nato nel 1902, e che Alfrida aveva
più o meno la stessa età. Perciò era assai più probabile che stessero tornando dal liceo e
non che giocassero nei campi, ed era stranissimo che non ci avessi mai fatto caso prima.
Forse avevano detto che si trovavano nei campi per dire che tornavano a casa passando dai
campi. Forse non avevano mai pronunciato il verbo «giocare».
Secondo, che la mite cordialità, la benevolenza che avevo sentito poc’anzi in quella donna,
adesso non c’era più.
Dissi: – Le cose cambiano aspetto a volte.
– È vero, – disse la donna. – È la gente a cambiarle. (114)

La narratrice riproduce il corso dei propri pensieri nel momento di cui racconta – la riva-
lutazione degli eventi, che porta all’ammissione che fosse «assai più probabile» che il
padre e Alfrida fossero al liceo, è del personaggio (dell’io narrato), non della narratrice
(dell’io narrante), la quale ha già acquisito la verità del racconto dell’altra donna –, assu-
mendo inoltre come centro deittico se stessa in quanto personaggio – «poc’anzi… adesso
non c’era più».

1.4. Prospettiva, focalizzazione e polifonia


1.4.1. Prospettiva e focalizzazione
Le nostre riflessioni iniziali sulla molteplicità delle fonti della caratterizzazione, unita-
mente con quelle sulle forme della rappresentazione del discorso e dell’interiorità dei
personaggi e con quelle bachtiniane sui linguaggi come «punti di vista sul mondo», ci
hanno mostrato come nell’enunciazione narrativa possano emergere le prospettive dei

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personaggi.12 Soffermiamoci sulla questione e consideriamo questo passo tratto da Il ca-


nale del dolore (2004; dalla raccolta Oblio), di David Foster Wallace:

Il salotto era angusto e soffocante e verniciato prevalentemente di verde e di un marrone


sciroppo d’acero che dava sul fulvo. Era completamente ricoperto di una spessa moquette.
Il divano, le sedie e i tavolini erano stati chiaramente acquistati in blocco. Un uccello sbu-
cava a intervalli regolari da un orologio dozzinale; un quadretto ricamato sopra il camino
augurava i classici buoni auspici alla casa e ai suoi occupanti. Il tè freddo era dolce da fare
schifo. Una strana chiazza o alone lasciato dall’acqua deturpava la parete orientale della
stanza che, dedusse Atwater, doveva essere il muro portante che i Moltke condividevano
con l’altra porzione della bifamiliare. (296)

La descrizione della stanza riflette lo sguardo di Atwater allorché egli vi si trova per la
prima volta e insieme le sue impressioni – «era angusto e soffocante» –, i suoi giudizi –
«un orologio dozzinale» – e le sue deduzioni – «erano stati chiaramente acquistati in
blocco» (corsivi miei). Per alcune osservazioni – «Il tè freddo era dolce da fare schifo» –
potremmo anche parlare di percezione indiretta libera. Complessivamente, il testo ci pre-
senta la situazione secondo la prospettiva di Atwater.
Il termine prospettiva, narratologicamente, non deve essere inteso solo nel senso della
visione o della percezione. Come mostra il passo di Wallace citato, infatti, e come ave-
vamo già osservato, l’enunciazione narrativa può essere condotta nella prospettiva di un
personaggio anche in senso latamente esperienziale o cognitivo (e ciò significa anche
morale, o ideologico). Si legga, per esempio, questo passo della Certosa di Parma (La
Chartreuse de Parme, 1839), di Stendhal:

Non riusciva a consolarsi. Appoggiò la schiena contro un salice, si mise a piangere. Stava
disfacendo uno dopo l’altro tutti quei bei sogni di sublime amicizia cavalleresca come nella
Gerusalemme Liberata. Sarebbe stato niente, morire con intorno amici eroici e affettuosi,
nobili amici che ti stringono la mano al momento dell’ultimo respiro! Ma dove va a finire
l’entusiasmo, se ci si trova in mezzo a una banda di mascalzoni? (41)

L’enunciazione lascia emergere la prospettiva emotiva e morale del personaggio, affranto


e indignato per ciò che gli accaduto.
Se allarghiamo il concetto di prospettiva fino a intendere la visione che il personaggio
ha, complessivamente, della storia in cui è coinvolto e del mondo che in essa si presenta,
possiamo parlare, secondo Marie-Laure Ryan, di embedded narrative, o narrazione in-
castonata:

Le narrazioni incastonate […] sono i costrutti in forma di storia che troviamo nei mondi
privati dei personaggi. Questi costrutti includono non solo i sogni, le finzioni e le fantasti-
cherie che i personaggi nascondono o rivelano, ma anche ogni altro genere di rappresenta-
zione relativa a stati di cose ed eventi passati o futuri: progetti, proiezioni passive, desideri,

12
Parlerò di prospettiva e non di punto di vista per un’esigenza di stabilità terminologica e non
per suggerire una distinzione concettuale. In narratologia, di fatto, i due termini sono usati con
una certa libertà, o almeno il loro uso non è governato da criteri distintivi condivisi da tutti.
45
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credenze relative alla storia del TAW [il Textual Actual World, ovvero il mondo finzionale
che per i personaggi della finzione costituisce la realtà. N.d.R.] e ancora credenze relative
alle rappresentazioni private degli altri personaggi. Tra queste narrazioni incastonate, al-
cune rispecchiano gli eventi della realtà fattuale, mentre altre delineano possibilità non at-
tualizzate. (Possible Worlds, Artificial Intelligence, and Narrative Theory 156; trad. mia)

La narrazione incastonata di un personaggio è dunque la storia quale si costituisce


nella sua particolare prospettiva, dove le rappresentazioni della realtà (degli stati di cose
che per il personaggio sono fattuali) si stratificano con rappresentazioni che hanno per il
personaggio stesso un diverso statuto: sogni, ipotesi, progetti, fantasticherie e altro an-
cora. Ogni personaggio conosce una parte del mondo narrativo, la comprende entro una
propria prospettiva e analogamente vede e comprende entro una propria prospettiva la
storia di cui è parte.
Naturalmente, momenti diversi dell’enunciazione – o luoghi diversi del testo – po-
tranno essere improntati a diverse prospettive di diversi personaggi e in questo caso par-
leremo di multiprospettivismo. Un esempio è offerto dal romanzo epistolare, quando a
scrivere siano diversi personaggi che, come nelle Relazioni pericolose (1782), di Pierre
Choderlos de Laclos, raccontino ciascuno nella propria prospettiva; un altro, dai Detective
selvaggi (1998), di Roberto Bolaño, dove il duello tra Arturo Belano e il critico Iñaki
Echavarne è raccontato secondo diverse prospettive da diversi personaggi che vi hanno
assistito.
Ancora, alle prospettive dei personaggi potrà aggiungersi – o sostituirsi, o intrecciarsi
– quella del narratore. Un narratore omodiegetico, in particolare, essendo anche un per-
sonaggio del mondo narrato, potrà avere una prospettiva spaziotemporale e percettiva
sugli eventi che racconta, nonché una prospettiva in senso esperienziale o cognitivo. Un
narratore eterodiegetico, non essendo un personaggio del mondo narrato, non potrà avere
una prospettiva in senso spaziotemporale e percettivo, ma potrà avere una prospettiva
esperienziale o cognitiva. Il passo di Stendhal citato sopra continua così: «Fabrizio stava
esagerando, come capita a chi è in preda all’indignazione» (41). Il narratore, dopo avere
assunto la prospettiva di Fabrizio, si distanzia dal suo dolore e dalla sua indignazione e ci
offre un diverso sguardo, bonariamente ironico, sull’accaduto.
Ora, per quest’ultimo caso, l’appropriatezza del termine prospettiva potrebbe essere
messa in dubbio: possiamo davvero parlare di prospettiva in relazione a un soggetto – il
narratore eterodiegetico – che non può averne una in senso stretto, non essendo un perso-
naggio del mondo narrato e non avendo quindi, in esso, una posizione spaziotemporale
determinata, dalla quale anche percepire gli eventi? Per molti testi narrativi, inoltre, o per
molti passi di testi narrativi, non sarebbe facile indicare una prospettiva alla quale sembri
essere informato il racconto degli eventi. Anche per queste ragioni, Gérard Genette, in
Figure III (1972), ha preferito al termine prospettiva il termine focalizzazione e ha ride-
finito il concetto spostandone l’accento sulla quantità di informazione che il testo offre al
lettore. Non si tratta più, per Genette, di capire se l’enunciazione narrativa assuma la pro-
spettiva di un personaggio e come, ma di stabilire quanta informazione, rispetto a quella
presumibilmente posseduta dal personaggio di cui si narra, sia presentata dal testo.
Genette individua quindi tre forme di focalizzazione: interna, zero ed esterna.

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Si ha focalizzazione interna quando il narratore dice degli eventi tanto quanto ne sa


uno dei personaggi. Il passo del Canale del dolore citato sopra è un esempio di focaliz-
zazione interna e, tendenzialmente, potremo parlare di focalizzazione interna ogni volta
che l’enunciazione narrativa assuma la prospettiva di un personaggio. D’altra parte, non
ogni caso di focalizzazione interna è un caso di assunzione della prospettiva del perso-
naggio. Si consideri questo passo di Papà Goriot:

Il suo pensiero errabondo si stava ripromettendo con tale forza le gioie future da credersi
vicino alla signora de Restaud, quando un sospiro simile a un ansito turbò il silenzio della
notte, risuonò nel cuore del giovane come se fosse il rantolo di un moribondo. Aprì piano
la porta, e quando fu nel corridoio scorse una striscia di luce sotto la porta di papà Goriot.
Temendo che il suo vicino si sentisse male, Eugène accostò l’occhio alla serratura, guardò
nella camera e vide il vecchio intento a lavori che gli parvero troppo delittuosi per non
sentirsi in dovere nei confronti della società di esaminare attentamente ciò che il sedicente
pastaio macchinava nottetempo. (34)

Qui l’informazione che il testo offre coincide con quella di Rastignac, ma non si può dire
che l’enunciazione assuma la prospettiva del personaggio, che è invece compreso in ciò
che è rappresentato e le cui reazioni sono descritte con un’ironia che non gli appartiene.
Il concetto di prospettiva, come si vede, è legato a quello di personaggio, laddove quello
di focalizzazione insiste sul testo e sull’informazione che esso presenta.13
La focalizzazione interna, inoltre, sarà fissa qualora resti legata per tutto il testo allo
stesso personaggio, come in Ciò che sapeva Maisie (1897), di Henry James; sarà variabile
qualora si sposti da un personaggio a un altro, come in Mrs. Dalloway; e sarà infine mul-
tipla qualora si sposti da un personaggio a un altro, di nuovo, ma per lo stesso evento
della storia, che cioè sarà raccontato ripetutamente ma secondo diverse focalizzazioni,
ciascuna relativa a un diverso personaggio, come nei romanzi epistolari ricordati sopra
(un esempio cinematografico, invece, è offerto da Rashomon [1950], di Akira Kurosawa,
dove il crimine che costituisce l’episodio principale della storia è raccontato da diversi
personaggi).
Si ha invece focalizzazione zero, o racconto non focalizzato, quando il narratore dice più
di ciò che sanno i personaggi. La focalizzazione zero è frequente nei romanzi dell’Otto-
cento, ma è presente anche nella narrativa contemporanea. Un esempio è offerto dall’esor-
dio dei Promessi sposi: il narratore prima si diffonde in una descrizione del paesaggio
intorno a «[q]uel ramo del lago di Como, che volge a mezzogiorno», la quale comprende
note sui toponimi, tra l’altro, e precisazioni su che cosa vedrebbe chi si trovasse «su le
mura di Milano che guardano a settentrione» (7);14 poi fornisce informazioni sulla Lecco

13
La narratologia strutturalista, alla quale appartiene il lavoro di Genette, è una narratologia del
testo, che non assume il personaggio come elemento strutturale. In questo senso, avremmo potuto
introdurre il concetto di focalizzazione altrove, discutendo della mediazione narrativa, ma esso
mira a mettere a fuoco anche i fenomeni testuali che evocano quello di prospettiva e per questo
si è preferito trattarne qui.
14
Per passi come questo, dove il narratore dice che cosa percepirebbe chi si trovasse in una certa
situazione, David Herman ha proposto di parlare di hypothetical focalization (Story Logic 309-
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di «oggi» e su quella dei «tempi a cui accaddero i fatti che prendiamo a raccontare» (8);
quindi ironizza sui benefici che l’occupazione spagnola comportava per la popolazione;
di seguito torna alla descrizione del paesaggio, ma rilevandone la bellezza e la spettaco-
larità; e infine – infine rispetto all’esordio – ci dice che su una delle «stradicciole» di
quella regione tornava don Abbondio, curato, e come questi leggesse il breviario, lo te-
nesse in un certo modo, si guardasse intorno, giungesse a un passo della strada dove si
incontrava un tabernacolo decorato con figure che tra l’altro, «nell’intenzion dell’artista,
e agli occhi degli abitanti del vicinato, volevano dir fiamme» e, «voltata la stradetta, e
dirizzando, com’era solito, lo sguardo al tabernacolo, vedesse una cosa che non s’aspet-
tava, e che non avrebbe voluto vedere» (9-10). La rappresentazione narrativa degli eventi
non è vincolate dai limiti di informazione dei personaggi.
La focalizzazione esterna, infine, si ha quando il narratore dice meno di quanto sap-
piano, verosimilmente, i personaggi. La si trova in una narrativa che è stata detta com-
portamentista in quanto il narratore, eterodiegetico, descrive solo i comportamenti osser-
vabili dei personaggi e non espone la loro interiorità. È il caso, per esempio, di Colline
come elefanti bianchi (1927), di Ernest Hemingway, dove il narratore riferisce le battute
di dialogo e descrive i gesti di una coppia di americani in attesa di un treno presso una
stazione spagnola, senza aggiungere informazioni su ciò che essi pensano o sui precedenti
della situazione:

«Cosa prendiamo?» domandò la ragazza. Si era tolto il cappello e l’aveva messo sul tavolo.
«Fa molto caldo» disse l’uomo.
«Prendiamo una birra».
«Dos cervezas» ordinò l’uomo attraverso la tenda.
«Grandi?» chiese una donna dalla soglia.
«Sì. Due grandi».
La donna portò due bicchieri di birra e due sottocoppe di panno. Pose le sottocoppe e i
bicchieri di birra sul tavolino e guardò l’uomo e la ragazza. Questa stava guardando lon-
tano, attraverso le colline. Erano bianche nel sole e la campagna era arsa e bruciata.
«Sembrano degli elefanti bianchi» ella disse.
«Non ne ho mai visti». L’uomo bevve la sua birra. (I quarantanove racconti II 17-18)

Anche la focalizzazione può cambiare nel corso del testo – si parla allora di polimo-
dalità –, cosicché essa dovrebbe essere definita in relazione a passi o sequenze, più che
per il testo nella sua interezza e una volta per tutte (i sottotipi della focalizzazione interna,
d’altra parte, implicano un confronto tra passi diversi del testo).
Possiamo invece parlare di alterazioni quando riscontriamo un’anomalia in un tessuto
altrimenti uniforme. Le restrizioni del punto di vista, in particolare, saranno dette paral-
lissi. Un esempio è offerto dal passo di Papà Goriot citato sopra, dove, per un breve tratto,
si passa dalla focalizzazione zero che caratterizza complessivamente il testo alla focaliz-
zazione interna in Rastignac (così il narratore mantiene il lettore nello stesso stato di in-
certezza, sulle azioni di papà Goriot, nel quale si trova Eugène, preservando la suspense).

330). L’esempio manzoniano, d’altra parte, suggerisce che la focalizzazione ipotetica possa es-
sere descritta come possibilità della focalizzazione zero.
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Il caso inverso, di ampliamento della focalizzazione, è detto parallessi. Un esempio


storicamente rilevante è offerto da Madame Bovary, dove si passa dalla focalizzazione
interna delle prime pagine alla focalizzazione zero del seguito del romanzo:

Eravamo in aula di studio, ed entrò il rettore, dietro gli venivano un nuovo ancora in panni
borghesi e un bidello che trascinava un banco. Quelli che dormivano si svegliarono, ci
tirammo su tutti, con l’aria di esser stati sorpresi nel fervore dell’attività.
Il rettore fece segno che ci rimettessimo a sedere; poi si rivolse al prefetto:
«Signor Roger», gli disse a mezza voce, «vi affido questo allievo, entra in quinta. Se il suo
profitto e la sua condotta saranno buoni, lo passeremo tra i grandi come vuole la sua età». […]
Suo padre, Charles-Denis-Bartholomé Bovary, già aiuto chirurgo militare, compromesso
verso il 1812 in certi imbrogli amministrativi al distretto e costretto a dar le dimissioni,
aveva approfittato della propria bella presenza per arraffare al volo una dote di sessantamila
franchi nella persona della figlia di un merciaio pronta ad accendersi d’amore. (3, 5)

Il testo prosegue poi in focalizzazione zero fino alla fine, cosicché retrospettivamente
l’anomalia sembra essere la focalizzazione interna iniziale.
Complessivamente, i concetti di prospettiva e di focalizzazione sono distinti e converrà
non tanto scegliere l’uno o l’altro, quanto usarli entrambi, volta per volta, in relazione al
testo e all’analisi che se ne vuole dare.

1.4.2. Polifonia e dialogismo


A complemento delle osservazioni proposte su personaggi, prospettiva e focalizzazione,
possiamo ora richiamare un altro saggio bachtiniano – Dostoevskij. Poetica e stilistica
(1963) –, nel quale il teorico russo si concentra sull’opera romanzesca di Fëdor Dostoev-
skij per elaborare dei concetti mediante i quali possiamo riflettere, più ampiamente, sui
modi e sul senso della rappresentazione dei personaggi. Più precisamente, Bachtin ela-
bora il concetto di polifonia e afferma che «[l]a pluralità delle voci e delle coscienze
indipendenti e disgiunte, l’autentica polifonia delle voci pienamente autonome costituisce
effettivamente la caratteristica fondamentale dei romanzi di Dostoevskij» (12). I perso-
naggi di Dostoevskij, secondo Bachtin, sono coscienze che nei suoi romanzi si incontrano
portando con sé i propri mondi irriducibilmente diversi e restando sempre soggetti della
propria parola; non riducendosi mai, cioè, a meri oggetti di una parola autoriale. Il perso-
naggio «interessa a Dostoevskij non come un elemento della realtà», o non in quanto
risponda alla domanda «chi è?», ma «come particolare punto di vista sul mondo e su se
stesso. Per Dostoevskij è importante non quello che il suo personaggio è nel mondo, ma
ciò che il mondo è per il personaggio e ciò che egli è per se stesso» (Dostoevskij 64).
Dostoevskij dunque non mira a caratterizzare la figura del personaggio come oggetto,15

15
Anche noi, dove abbiamo parlato del personaggio come di una possibilità dell’esistenza, ab-
biamo rilevato l’insufficienza di una concezione del personaggio come oggetto, a partire dalla
considerazione della relazione tra lettore e personaggio. Qui il rilievo viene dalla prospettiva delle
relazioni tra i personaggi, sulla cui importanza abbiamo ugualmente insistito trattando della ca-
ratterizzazione.
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ma a rendere la sua coscienza e la sua autocoscienza e a dare «l’ultima parola del perso-
naggio su se stesso e sul suo mondo» (65).
I personaggi di Dostoevskij, secondo Bachtin, sono ideologi: parlano non solo di sé e
del proprio mondo, ma del mondo in generale, sul quale enunciano verità che non sono
separabili dalle loro persone e che tuttavia conservano la propria validità. Nei romanzi
monologici – quei romanzi, cioè, nei quali la visione e la parola dell’autore, anche per il
tramite eventuale di un narratore autoriale (che rappresenti cioè la visione dell’autore),
dominano la narrazione – le idee figurano diversamente da come figurano nei romanzi di
Dostoevskij: se sono legate al personaggio nella sua individualità, perdono significatività
come idee; se conservano il proprio valore, al contrario, perdono il proprio legame vitale
con l’individualità del personaggio. Esse devono rientrare nell’orizzonte intellettuale
dell’autore, in altre parole, o perdere validità. Nel romanzo polifonico di Dostoevskij,
invece, l’idea è raffigurata come idea del personaggio, che inversamente si definisce come
«uomo d’idea» (Dostoevskij 112). L’unità ultima e indivisibile, per Dostoevskij, non è il
singolo pensiero dialogizzato, ma l’intera prospettiva, l’intera voce, l’intera personalità
nella quale l’idea vive. L’idea del personaggio conserva la propria validità mentre resta
sua in senso stretto, è compresa e sentita come sua, radicata nella sua identità e nella sua
situazione nel mondo, e l’autore conserva la propria distanza da essa, non la confonde né
la subordina alla propria ideologia. Dostoevskij sapeva ascoltare il dialogo delle idee del
suo tempo, dice Bachtin, e sapeva renderlo nei suoi personaggi come uomini d’idea. E
perfino le idee che lo stesso Dostoevskij personalmente condivideva e che nei suoi saggi
e scritti giornalistici egli affermava monologicamente diventano nei suoi romanzi idee
raffigurate e dialogizzate alla pari con le altre.
L’idea del personaggio dostoevskijano, inoltre, vive nel dialogismo: non chiusa nella
coscienza individuale di colui che la pensa e la sente, ma espressa nel punto di contatto
tra le diverse coscienze dei diversi personaggi. Alla coscienza onnicomprensiva di ogni
personaggio – onnicomprensiva in quanto è un orizzonte che comprende il mondo e il
personaggio stesso – Dostoevskij contrappone quindi le altre coscienze analoghe degli
altri personaggi. Da ciò nasce la forma polifonica, con la quale Dostoevskij «afferma
l’autonomia, l’interiore libertà, l’indefinitezza e l’incompiutezza del personaggio» (Do-
stoevskij 85-86) e, per suo tramite, dell’uomo. Questo modo di rappresentare il personag-
gio rifiutando di oggettivarlo discende pertanto dal riconoscimento, da parte di Dostoev-
skij, dell’esservi sempre nell’uomo «qualcosa di interiormente indefinito» (80) che potrà
essere reso non attraverso una rappresentazione oggettivante, ma solo mediante una «pe-
netrazione dialogica» (81). Naturalmente il personaggio è creato dall’autore, ma Dostoe-
vskij sceglie l’autocoscienza come «dominante della raffigurazione» (88) e conseguente-
mente è vincolato da quella dominante a creare il personaggio dialogicamente: «la libertà
del personaggio è un momento del disegno dell’autore» (89). La parola del personaggio
esce dal monologismo dell’autore, non dal suo disegno, in virtù del quale Dostoevskij
appare come «il creatore del romanzo polifonico» (13): certo vi sono precedenti nel ro-
manzo europeo, concede Bachtin, ma egli per primo lo ha elaborato compiutamente; egli
per primo ha concepito compiutamente la forma artistica di un romanzo che rifiuta sia di
subordinare le voci dei personaggi al monologismo dell’autore (come accadeva, secondo
Bachtin, nel romanzo romantico), sia di ridurle a oggetti della sua visione complessiva
(come accadeva, per esempio, in Balzac). La sua opera è radicalmente dialogica, non nel
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senso più ristretto del dialogo come forma testuale, ma in quello più ampio del dialogismo
come forma dei rapporti umani in generale, come incontro di istanze sul mondo che inte-
ragiscono senza ridursi a una. Bachtin riconosce quindi la novità dell’opera di Dostoev-
skij nella sua forma e afferma che «[l]a forma artistica […] non organizza un contenuto
già trovato e pronto, ma per la prima volta permette di trovarlo e di vederlo» (62). Ciò
che la forma di Dostoevskij avrebbe consentito di vedere sarebbe il dialogismo irriduci-
bile della condizione umana.16
Così, in sintesi, Bachtin caratterizza il romanzo dostoevskijano ed elabora il proprio
concetto di dialogismo. Aggiungiamo ora qualche considerazione storico-letteraria, a par-
tire dall’osservazione di Bachtin secondo la quale l’orientamento di Dostoevskij alla poli-
fonia sarebbe legato allo spirito del suo tempo. Bachtin cita una prefazione di Nikolaj
Černiyševskij a un suo romanzo incompiuto nella quale lo scrittore e rivoluzionario russo
manifesta la propria volontà di scrivere un romanzo in cui l’autore non domini la narra-
zione con le proprie inclinazioni e richiama l’esempio di Shakespeare. Bachtin afferma
che il limite del discorso di Černiyševskij è nel caratterizzare l’idea della polifonia solo
negativamente, «come assenza della solita soggettività dell’autore» (Dostoevskij 92), in-
vece che positivamente, come dialogismo dei personaggi. E, a proposito della forma
drammatica – non di Shakespeare in particolare, ma il discorso deve valere anche per lui
–, osserva che essa, rispetto al romanzo, esercita inevitabilmente una maggiore pressione
sulla parola dei personaggi. Nella polifonia dostoevskijana si coglie dunque lo spirito del
tempo, dice Bachtin, ma la sua novità resta radicale.
Se però citiamo un altro passo che Bachtin dedica al confronto con Černiyševskij, pos-
siamo situare meglio, storicamente, l’opera di Dostoevskij quale è descritta da Bachtin.
Sviluppando l’osservazione sull’accezione puramente negativa del progetto di Černiyše-
vskij, infatti, Bachtin scrive: «All’autore del romanzo polifonico si richiede non di rinun-
ciare a se stesso e alla sua coscienza, ma di allargare, di approfondire e riformare straor-
dinariamente questa coscienza […] affinché essa possa accogliere coscienze altrui dotate
di pieni diritti» (Dostoevskij 93). Questo passo richiama da vicino un passo di una lettera
che Flaubert scrive il 12 dicembre del 1857 a una sua lettrice e corrispondente, Mademoi-
selle Leroyer de Chantepie, e nella quale il rapporto tra presenza autoriale e rappresenta-
zione dei personaggi viene elaborato in termini simili:

Ebbene, io credo che finora si sia parlato degli altri molto poco. Il romanzo non è stato che
l’esposizione della personalità dell’autore, anzi, tutta la letteratura in generale, esclusi forse
due o tre uomini. Dunque è necessario che le scienze morali prendano un’altra strada e che
procedano come le scienze naturali, mediante l’imparzialità. Il poeta oggi deve provare
simpatia per tutto e tutti, allo scopo di comprenderli e di descriverli. (Correspondance II
785-786; trad. mia)

16
Riflettendo sulla concezione moderna, post-settecentesca, della formazione dell’identità perso-
nale, il filosofo Charles Taylor scrive che «non esiste una generazione interiore monologicamente
intesa»: «un aspetto cruciale della condizione umana […] è il suo carattere fondamentalmente
dialogico», per cui «il fatto che sia io a scoprire la mia identità non significa che io la costruisca
stando isolato: signifca che la negozio attraverso un dialogo, in parte esterno e in parte interiore,
con altre persone» (Le politiche del riconoscimento 16-17 e 19).
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L’idea polifonica bachtiniana sembra quindi avvicinare l’opera di Dostoevskij a quelle


tendenze del romanzo europeo che attraversano l’opera di Flaubert e quindi il moderni-
smo. Commentando un passo di Gita al faro (1927), di Virginia Woolf, e concentrandosi
sull’uso della focalizzazione interna variabile e sui modi complessivamente figurali che lo
caratterizzano, Erich Auerbach osserva che «[l]’autore, quale narratore di fatti obiettivi,
passa quasi completamente in secondo piano; quasi tutto ciò che è detto, è il riflesso nella
coscienza dei personaggi» (Mimesis II 317). Non troviamo in queste pagine di Woolf e
di altri autori suoi contemporanei, continua Auerbach, una narrazione autoriale che si
offra come rappresentazione di una realtà oggettiva, ma una composizione o una stratifi-
cazione di visioni soggettive: qualcosa di simile a ciò che Bachtin osserva in Dostoevskij.
E un riscontro ulteriore nel romanzo europeo tra la metà dell’Ottocento e l’inizio del No-
vecento si ritrova, per l’idea della polifonia come scelta di lasciare che i personaggi in-
treccino il proprio dialogo da soggetti della propria parola, in alcune pagine che Thomas
Mann, nelle Considerazioni di un impolitico (1918-22), dedica alla propria idea di esteta.
Mann cita Friedrich Schiller, Flaubert, Tolstoj, Arthur Schopenhauer e Johan Strindberg
e afferma che l’esteta è l’opposto del politico perché rappresenta posizioni invece di
prendere posizione. Così agisce Flaubert, scrive Mann, quando rappresenta la discussione
tra Homais e Bournisien presso Emma morente, in Madame Bovary: non prende posi-
zione, ma rappresenta le posizioni contrapposte del sacerdote e del farmacista (e poi, po-
tremmo aggiungere, contrappone il loro atteggiamento verso Emma a quello del marito
Charles). Di seguito, inoltre, Mann cita una pagina di Schopenhauer che, a questo propo-
sito, propone un rilievo il quale di nuovo richiama Flaubert: «La natura si comporta come
Shakespeare e Goethe, nelle cui opere ogni personaggio, fosse il diavolo stesso, quand’è
in primo piano e parla, ha ragione lui, perché è concepito in modo così oggettivo che noi
ci sentiamo attratti da lui e costretti a una personale compartecipazione» (Considerazioni
238; il passo di Schopenhauer è tratto dagli Aforismi sulla saggezza del vivere, del 1851).
La polifonia di Dostoevskij sembra dunque rimandare agli orizzonti del romanzo eu-
ropeo dei suoi anni e degli anni successivi. Ciò non riduce l’originalità e la grandezza
della sua opera, naturalmente, né sminuisce l’interesse dei concetti bachtiniani di polifo-
nia e dialogismo. Essi, al contrario, ci aiutano a unire le riflessioni più tecniche sulla
prospettiva che abbiamo svolto al discorso sulla voce dal quale abbiamo preso le mosse
e insieme a riflettere su come una forma letteraria – in questo caso, la forma polifonica
teorizzata da Bachtin – possa essere figura di qualcosa che contrassegna, al di là del testo,
la condizione umana.
Resta da mettere a fuoco il rapporto che il saggio di Bachtin su Dostoevskij intrattiene
con l’altro suo lavoro che abbiamo ripercorso, La parola nel romanzo. Le analogie e le
consonanze dovrebbero essere evidenti: comuni sono le idee che il linguaggio sia visione
del mondo, che esistano una pluralità di linguaggi e di visioni, che essi interagiscano nella
società e nella rappresentazione artistica e che l’altro da sé, sia esso linguaggio o prospet-
tiva, non possa essere ridotto a oggetto della parola propria (o che possa non esserlo). Nel
saggio su Dostoevskij, tuttavia, il discorso differisce da quello della Parola del romanzo
in due sensi: in primo luogo, Bachtin attribuisce la piena rappresentazione delle forme
molteplici del linguaggio e delle visioni implicate in queste forme, o il pieno riconosci-
mento dell’altrui essere soggetto di parola, non a tutto il genere del romanzo in modo

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indifferenziato, ma a Dostoevskij, alla sua opera e alla sua poetica in particolare. La scrit-
tura di romanzieri come Balzac, diversamente, sembra essere monologica come quella
dei generi poetici. Più in generale, per i romanzieri prima di Dostoevskij sembra valere,
secondo il Bachtin del Dostoevskij, ciò che nella Parola è detto dei poeti: essi fanno della
parola altrui un oggetto della parola propria, autoriale, o un elemento del proprio sistema.
In secondo luogo, nel Dostoevskij il discorso trova il proprio centro nei personaggi, co-
sicché Bachtin usa la metafora della polifonia, che rimanda a quella di voce e quindi,
mediatamente, all’idea di un soggetto parlante, e non le idee di pluridiscorsivismo, pluri-
stilismo e plurivocità.
Invece di privilegiare l’una o l’altra versione della riflessione bachtiniana, in ogni caso,
conviene assumerle entrambe e parlare volta a volta, in relazione all’opera che si studia,
di pluridiscorsivismo, pluristilismo, plurivocità o polifonia. Conviene cioè tenere tutte le
diverse idee di Bachtin per osservare e comprendere i linguaggi, gli orizzonti e i perso-
naggi di una narrazione (si richiamino i passi di Flaubert e di Wallace letti sopra alla luce
dei concetti della Parola e si provi a rileggerli alla luce del concetto di polifonia).
Inoltre, possiamo osservare che in entrambi i saggi che abbiamo considerato Bachtin
elabora l’idea del dialogismo della parola. Nel Dostoevskij, il dialogismo è la relazione
in cui vivono le diverse coscienze dei personaggi e quindi le diverse visioni che compon-
gono la polifonia del testo. Nella Parola, il dialogismo nasce dal fatto che tra la parola e
il suo oggetto, secondo Bachtin, si interponga sempre il medium vivo, teso, sociale, ani-
mato, dialogico della parola altrui, con tutte le sue implicazioni ideologico-sociali:

Ogni parola concreta (enunciazione) […] trova il suo oggetto, verso il quale tende, sempre,
per così dire, già nominato, discusso, valutato, avvolto in una foschia che lo oscura oppure,
al contrario, nella luce delle parole già dette su di esso. Esso è avviluppato e penetrato da
pensieri generali, da punti di vista, da valutazioni e accenti altrui. […]
L’atto con cui la parola concepisce il suo oggetto è dialogico. (La parola 84, 87)

Ogni enunciazione acquisisce il proprio senso attuale in questa dimensione pluridiscor-


siva, fuori della quale essa ha solo ciò che si può chiamare il suo significato linguistico
sullo sfondo della lingua.17
Il dialogismo che deriva dall’essere ogni oggetto sempre già avvolto dalle parole altrui,
inoltre, ha un secondo versante nel fatto che la parola comprenda sempre in sé una rispo-
sta: non solo retoricamente e sul piano della composizione, ovvero nel riferimento a un
uditorio che potrebbe essere passivo o nel dialogo come forma testuale, ma anche e so-
prattutto intimamente, nel suo senso attuale come senso che essa acquista in relazione alle
altre prospettive, opinioni, valutazioni ed enunciazioni che l’hanno preceduta (per ragioni
non linguistiche, potremmo dire, ma ideologico-sociali). Nella comunicazione linguistica
effettiva, la comprensione è determinata dalla risposta: comprendiamo la parola altrui in
17
Ed è questa una distinzione – aggiungiamo – che richiama la distinzione corrente in linguistica
tra significato linguistico e significato del parlante (senza però coincidere con essa) e ancora, ma
per diverse ragioni, l’idea wittgensteiniana di un linguaggio che «gira a vuoto» in certe astrazioni
esemplificative usate dai filosofi (Wittgenstein § 132, 71) e del quale invece possiamo compren-
dere il funzionamento solo nel vivo del suo uso e delle forme di vita in cui è implicato e che esso
stesso costituisce.
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relazione alla risposta che dovremo dare e dunque portandola nel nostro orizzonte, dialo-
gicamente; e, inversamente, «[i]l parlante cerca di orientare la sua parola, col suo oriz-
zonte che la determina, all’interno dell’orizzonte altrui del comprendente ed entra in un
rapporto dialogico coi momenti di questo orizzonte» (La parola 90).
Il rapporto dialogico con la parola altrui, complessivamente, si stabilisce sia in rela-
zione all’oggetto (alla pluridiscorsività che lo avvolge), sia in relazione alla risposta attesa
dell’ascoltatore (dove la risposta deve essere intesa non solo come enunciazione, ma an-
che, per esempio, come azione). Il dialogismo della scrittura romanzesca appare infine
radicato nel dialogismo costitutivo della parola. E i personaggi letterari, ai quali abbiamo
dedicato questa prima parte del nostro percorso narratologico, ci appaiono ancora nella
molteplicità delle relazioni di cui vivono nella mediazione del linguaggio.

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2. Intreccio

2.1. L’intreccio come composizione dell’azione


Possiamo pensare i personaggi di una narrazione anche come generatori di intreccio.1
Consideriamo Passione (2004; compreso nella raccolta In fuga), di Alice Munro: il corso
della storia, fino al suo esito, è determinato dall’interazione di tutti i personaggi. Ciascuno
di loro ha una prospettiva parziale e soggettiva sugli eventi e sugli altri personaggi, come
abbiamo detto, agisce secondo intenzioni proprie e contribuisce infine a una conclusione
che trascende le previsioni e le intenzioni di ciascuno e che tuttavia dipende da tutti. Il
fatto che Grace si separi dalla famiglia Travers, rompendo il fidanzamento con Maury ma
potendo iniziare la vita che desiderava, contraddice le aspettative che tutti, e temporanea-
mente lei stessa, avevano maturato e tuttavia consegue non solo dalle azioni di Grace, ma
anche da quelle di Neil, Mrs. Travers e Maury. L’intreccio può quindi essere pensato
come composizione dell’azione in questo senso: i diversi corsi di azione dei personaggi
si intrecciano e concorrono alla determinazione degli eventi, o si compongono in un in-
treccio complessivo. E anche per il personaggio che agisce, in quanto la sua azione sarà
propriamente interazione con gli altri personaggi, varrà il dialogismo che, sulla scorta di
Bachtin, abbiamo visto contrassegnare l’identità dei personaggi e delle persone: non
meno della sua parola, anche la sua azione si esplicherà e si comprenderà dialogicamente,
in relazione all’azione degli altri personaggi. La fuga di Grace con Neil, per esempio, è
anche una risposta alla visione del loro futuro matrimonio che Maury le prospetta e alla
sua decisione di non avere rapporti sessuali prima del matrimonio, in quanto si comprende
in relazione a quella visione e a quella decisione, dialogicamente.
Dopo esserci apparsi innanzitutto come soggetti di esperienza e portatori di una pro-
spettiva sugli eventi della storia, quindi, i personaggi ci appaiono ora come agenti. Di-
verse teorie del personaggio hanno volta a volta insistito sull’uno o sull’altro di questi
due versanti, ma essi non sono davvero distinti, o quanto meno è possibile coglierne la
continuità. Sopra abbiamo parlato di narrazione incastonata per rilevare come ogni per-
sonaggio conosca una parte del mondo narrativo, la comprenda entro una propria pro-
spettiva e analogamente veda e comprenda entro una propria prospettiva la storia di cui è
parte. Ciò vale, di nuovo, anche rispetto all’azione: l’azione del personaggio, cioè, si
esplica nella sua prospettiva, o nel mondo quale egli lo comprende. Inoltre, il personaggio
agisce secondo intenzioni e motivazioni proprie, le quali sono una componente del suo
mondo interiore. Intenzionalità e motivazione si determinano per ogni personaggio in re-
lazione alla sua esperienza e alla sua prospettiva sugli eventi, ma insieme introducono
alla dimensione dell’azione che in modo più evidente determina l’intreccio (si ricordi ciò
che diceva Palmer sulla necessità di comprendere la mente, dei personaggi come delle
persone, non solo come interiorità, ma anche nell’azione). Quando descriviamo l’intrec-
cio come composizione dell’azione, quindi, dobbiamo pensare alle azioni dei personaggi
in continuità con i loro mondi interiori, ai quali esse si legano, non all’azione nell’acce-

1
In questo capitolo riprenderò sparsamente Ballerio, Nello stomaco dell’inghiottone.
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zione ristretta di comportamento osservabile. Questo modo di pensare l’azione del perso-
naggio e l’intreccio, tra l’altro, risulta essere l’unico appropriato per quella narrativa che
si concentra sull’interiorità dei personaggi e sul suo divenire più che sull’azione in acce-
zione ristretta (per la narrativa modernista, per esempio, ma non solo). Paul Ricoeur sug-
gerisce quindi di parlare dell’intreccio come del «principio formale di composizione [che]
presiede all’assemblaggio dei cambiamenti in grado di segnare esseri simili a noi» (II 24).
Se però questa formulazione sembra troppo vaga e se, d’altra parte, l’espressione compo-
sizione dell’azione sembra troppo stretta, si potrà parlare di integrazione delle narrazioni
incastonate, seguendo Ryan, o di composizione delle vicende dei personaggi, usando la
parola vicende, che qui appare utilmente generica, per fare riferimento ai corsi di azione
come alla più ampia esperienza soggettiva dei personaggi coinvolti negli eventi.
Avendo chiarito questa prima idea dell’intreccio come composizione dell’azione o
delle vicende dei personaggi, possiamo aggiungere una precisazione e due osservazioni.
La precisazione è di ordine terminologico: spesso l’intreccio (o suzjet, o plot, o intrigue)
è distinto dalla storia (o trama, o fabula) e a essa contrapposto: la storia sarebbe il com-
plesso degli eventi raccontati presi nel loro ordine cronologico, mentre l’intreccio sarebbe
il modo in cui quegli eventi sono presentati nel testo, dove l’ordine, in particolare, po-
trebbe differire, come si è detto, da quello cronologico (autori diversi, d’altra parte, de-
clinano questa distinzione e definiscono la relativa terminologia in modi diversi). Finora
abbiamo usato la parola storia, per lo più, per fare riferimento agli eventi raccontati, a
prescindere dal loro ordinamento. Anche quando parleremo dell’intreccio come compo-
sizione dell’azione prescinderemo da eventuali interventi sulla cronologia che siano com-
piuti nella narrazione, ma il concetto si distinguerà da quello di storia perché con quello
di intreccio rileveremo appunto la composizione di corsi di azione (o vicende, o narra-
zioni incastonate) di personaggi diversi, laddove il concetto di storia rileva innanzitutto
la successione degli eventi. Quando poi parleremo dell’intreccio come configurazione, a
questa differenza di accento si aggiungeranno considerazioni sulla cronologia e sulla
forma che costituiranno ulteriori elementi di differenziazione rispetto al concetto di storia.
Per semplicità, eviteremo ulteriori distinzioni terminologiche.
Ciò detto, passiamo alla prima osservazione: le vicende dei personaggi si compongono
a formare l’intreccio e alla varietà dei personaggi e delle loro vicende corrisponde neces-
sariamente la varietà degli intrecci. Sebbene i narratologi abbiano spesso sostenuto che
gli intrecci narrativi siano riconducibili a uno schema ricorrente, infatti, è evidente che la
molteplicità innumerevole delle narrazioni letterarie resiste ai tentativi di riduzione a un
unico schema. Lo schema che si propone di consueto è questo (lo diamo nella versione
proposta da Boris Tomaševskij, esponente del formalismo russo, in un suo saggio del
1925 intitolato La costruzione dell’intreccio): inizialmente si ha una situazione di equili-
brio (Renzo e Lucia, per esempio, si vogliono sposare); segue però una complicazione
(Don Rodrigo desidera Lucia e decide di impedire il suo matrimonio con Renzo); dalla
complicazione derivano un intrigo, e cioè dei conflitti tra parti diverse (Don Rodrigo,
Gertrude e l’Innominato, almeno fino alla sua conversione, contro fra Cristoforo e il car-
dinale Borromeo), e delle peripezie, ovvero dei passaggi di situazione (Lucia, dalla pri-
gionia alla libertà; Renzo, in fuga; l’Innominato, dalla colpa alla fede); e poi tutto si ri-
solve in un equilibrio finale (Don Rodrigo muore, mentre Renzo e Lucia si sposano). Ora,

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questo schema – del quale sono state proposte molteplici versioni, tra formalismo e strut-
turalismo, ma tutte riconducibili a una sequenza di equilibrio iniziale, rottura dell’equili-
brio ed equilibrio finale – può certo essere proposto per molti romanzi e racconti (e fiabe
e altri generi narrativi), ma è ovvio che molti altri non saranno riconducibili a esso: quale
sarebbe la complicazione iniziale della Recherche proustiana? E l’equilibrio finale di
Caro vecchio neon, di Wallace, o di 2666 (2004), di Bolaño? Lo schema sembra interes-
sante non tanto come schema di ogni possibile intreccio, in effetti, quanto perché mette
in luce come spesso le narrazioni si concentrino sulle azioni e sugli eventi che violano le
regole o la norma, sui conflitti e sulle tensioni tra gli individui, o tra individui e società,
e sulla ricerca generata dal bisogno o dal desiderio. Più che di una sequenza obbligata,
quindi, converrà parlare, con Jerome Bruner, di una dialettica di «canonicity and breach»
(norma e violazione) che anima la storia e ne determina la «tellability» (dicibilità, inte-
resse, raccontabilità) (11).
Il concetto di tellability risale agli studi di William Labov (cfr. Labov e Waletzky) sulla
narrativa orale. Chi racconta una storia, notava Labov, ne rileva tipicamente l’interesse, o
spiega quale interesse la storia possa avere per i suoi ascoltatori e perché quindi convenga
raccontarla. Anche nella narrativa letteraria, d’altra parte, accade che il narratore rilevi la
tellability della propria storia. Nell’Ojo Silva, dopo avere introdotto l’Ojo e avere anticipato
che «la vera violenza […] non si può fuggire», il narratore aggiunge che «[i]l caso dell’Ojo
è paradigmatico ed esemplare e forse non è male ricordarlo, soprattutto adesso che sono
passati tanti anni» (13); afferma cioè che la storia dell’Ojo merita di essere raccontata per
la sua esemplarità. Ed Emmanuel Carrère, analogamente, scrive che nella «vita romanze-
sca» di Eduard Limonov si intravede qualcosa «della storia di noi tutti dopo la fine della
seconda guerra mondiale. Qualcosa, d’accordo, ma che cosa? Comincio questo libro per
scoprirlo» (29). La scrittura mira a scoprire che cosa renda la storia di Limonov interes-
sante per l’autore e per i lettori e, conseguentemente, degna di essere narrata. La tellability
di una storia, quindi, può legarsi alla sua possibile esemplarità, come in questi casi, o
invece alla sua eccezionalità, o ad altro.
Tornando invece alla tesi della riducibilità degli intrecci ad archetipi o schemi ricor-
renti, possiamo aggiungere che una sua diversa interpretazione consiste nel correlare que-
sti schemi a forme o caratteri salienti dell’esperienza umana. Secondo Patrick Colm Hogan,
in questo senso, si possono individuare schemi di intreccio ricorrenti in culture ed epoche
diverse e ciascuno di questi schemi può essere correlato a un’emozione e a corsi d’azione
in cui tipicamente si è indotti per effetto di quell’emozione. Lo schema romantico, per
esempio, soggiacerebbe alle numerose storie nelle quali fra due giovani nasce l’amore, i
genitori o la società oppongono ostacoli alla loro unione, da questi ostacoli deriva una se-
parazione e la separazione si conclude (nella versione fortunata, o da commedia) con un
ricongiungimento. L’idea è che una determinata emozione – il sentimento amoroso nelle
sue diverse manifestazioni, in questo caso – interessi tipicamente certi oggetti (oggetti in
senso lato, e quindi anche persone) e motivi tipicamente a certe azioni, che possono com-
porsi in schemi di intreccio ricorrenti. Anche in questo caso, più che convenire o meno sulla
riducibilità di tutti gli intrecci a un insieme ristretto di schemi così intesi, si potrà apprezzare
come la teoria concentri l’attenzione sulle relazioni fra emozioni, motivazione, azione e
intreccio (si provi quindi ad applicarla a Passione).

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Passiamo quindi alla seconda osservazione: variabile, da un intreccio all’altro, è anche


il grado di complessità. Generi narrativi come il poliziesco o la spy story sono caratteriz-
zati proprio dall’elevata complessità degli intrecci: romanzi come quelli di Friedrich Dür-
renmatt – Il giudice e il suo boia (1952), per esempio – o di Robert Ludlum – la serie di
Jason Bourne, dalla quale sono stati ricavati al cinema i blockbusters di Doug Liman e
Paul Greengrass – suscitano la percezione, da parte del lettore, di uno sviluppo rigorosa-
mente conseguente, come per effetto di un congegno narrativo predisposto dall’autore.
Per molta narrativa romanzesca dal modernismo in avanti, d’altra parte, dobbiamo rico-
noscere al contrario una certa debolezza dell’intreccio,2 che però non deve essere intesa
come portato di un’incapacità dell’autore, ma come scelta compositiva o di poetica. In
una lettera a Louise Colet del 25 giugno 1853, Flaubert riflette su Madame Bovary, che
sta scrivendo, e nota come il suo intreccio manchi strutturalmente di drammaticità: gli
eventi non sono serrati l’uno all’altro come nei romanzi di Balzac, ma si succedono in
una dimensione di abitudine. Ciò non gioverà al coinvolgimento dei lettori, osserva Flau-
bert, ma così deve essere per un’esigenza di veridicità: «mi pare che la vita in se stessa –
conclude infatti – sia un po’ così» (Correspondance II 361). O si leggano ancora queste
considerazioni che Nikolaj Leskov premette a Le luci vaganti (1875):

In molti romanzi contemporanei si incontrano sparpagliate storie simili alle mie – e forse
nel senso dell’interesse per la novità io non racconterò niente di così nuovo che il lettore
non sappia o persino non abbia visto; tuttavia racconterò tutto ciò non come viene raccon-
tato nei romanzi, e ciò mi pare possa rappresentare un qualche interesse e persino, forse,
una novità, e financo un ammaestramento. Io non mi metterò a troncare alcuni eventi e a
gonfiare il significato di altri: a questo non mi costringe la forma artificiale e innaturale del
romanzo, che richiede l’arrotondamento della fabula e la concentrazione del tutto intorno
al centro principale. Questo nella vita non accade. La vita dell’uomo procede come una
pergamena che si svolge da un rotulo, ed io così semplicemente la svolgerò dal nastro negli
appunti da me proposti. (cit. in Sini 67)

Siamo così portati a riconoscere che l’intreccio, oltre che composizione più o meno
complessa delle vicende dei personaggi, è anche forma che l’autore definisce come modo
dell’opera di significare. Questo ci porta al concetto di configurazione. Per elaborarlo,
però, conviene che preliminarmente consideriamo i modi in cui l’autore può elaborare nel
testo il tempo della storia, poiché essi contribuiscono in modo rilevante all’intreccio come
configurazione. Di seguito, quindi, considereremo questi modi del trattamento del tempo
e poi svilupperemo il concetto di intreccio come configurazione.

2.2. Tempo della storia e tempo del racconto


Per l’analisi dei rapporti fra tempo della storia e tempo del racconto ripercorreremo le
proposte che Genette formula in Figure III. Genette distingue tra storia (come complesso

2
Debolmente strutturati, o costruiti per lo più mediante infilzamento di episodi successivi, sono anche gli
intrecci di molti romanzi picareschi del Seicento, come il Simplicissimus di Hans Jakob Grimmelshausen
(1668), e del Settecento, come Moll Flanders (1722), di Daniel Defoe.
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degli eventi narrati), racconto (il testo, pensato come prodotto della narrazione, che rife-
risce gli eventi della storia) e narrazione (l’atto che produce il racconto) (Figure III 75)
e descrive i rapporti fra tempo della storia e tempo del racconto mediante tre concetti, o
da tre punti di vista: ordine, durata e frequenza.

2.2.1. Ordine
Consideriamo innanzitutto l’ordine: in quale ordine sono raccontati gli eventi della storia?
Essi infatti possono essere raccontati in un ordine diverso da quello in cui si suppone che
siano accaduti. Non si tratta di un procedimento artificioso, ma di un fenomeno assai
comune. Se ci concentriamo sulla narrazione letteraria, quanto meno, vediamo che l’al-
terazione dell’ordine degli eventi, dalla storia al racconto, si incontra fin dai primi versi
dell’Iliade (come nota ancora Genette in Figure III; cfr. fig. 2). Chiamiamo queste altera-
zioni, o modifiche, anacronie.
L’individuazione delle anacronie e la ricostruzione dell’ordine degli eventi nella storia
sono operazioni che il lettore compie a partire dall’analisi del racconto stesso. Come os-
serva Genette sulla scorta di Nelson Goodman (The Telling and the Told), cioè, le ana-
cronie sono tipicamente segnalate come tali dal testo stesso («La contessa […] soprav-
visse solo pochissimo tempo a Fabrizio, che ella adorava e che visse appena un anno nella
sua Certosa»), o sono «implicite ma evidenti, data la nostra conoscenza del processo cau-
sale in generale (capitolo n: la contessa muore di crepacuore; capitolo n + 1: Fabrizio
muore nella Certosa)» (Racconto di finzione, racconto fattuale 60). Se poi il testo, ecce-
zionalmente, non dà al lettore alcuna informazione per determinare l’ordine degli eventi,
si dovrà concludere che il racconto ha carattere acronico.
Per precisare il concetto di anacronia, torniamo su Passione: qui troviamo un’anacro-
nia dove la narrazione, dalla ricerca di Grace di cui si dice nell’incipit, risale agli eventi
e agli anni della sua giovinezza. Abbiamo cioè un’anacronia retrospettiva o analessi (nel
cinema si parla spesso di flashback). E ne troviamo altre, nel seguito, quando si racconta
dell’ultimo anno di scuola di Grace e poi del primo matrimonio di Mrs. Travers. In gene-
rale, le analessi hanno una portata (quanto risalgono indietro nel tempo) e un’ampiezza

Fig. 2 – A sinistra, l’ordine degli eventi nella storia; a destra, l’ordine degli eventi nel racconto.

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(quanto dura il pezzo di storia raccontato nell’analessi). Le analessi inoltre possono essere
interne (se non risalgono a un tempo anteriore rispetto al momento dell’inizio della storia
principale), esterne (se risalgono oltre quel momento iniziale e la storia che vi si racconta
termina prima di quel momento) o miste (se risalgono oltre il momento iniziale ma tor-
nano poi a superarlo); eterodiegetiche, se sviluppano una parte della storia che non fa
parte del filone principale della storia, o omodiegetiche, se la parte di storia che svilup-
pano fa parte del filone principale; completive, se vi si raccontano fatti che non sono già
stati raccontati, o ripetitive, se vi si raccontano fatti che sono già stati raccontati.
L’anacronia che porta avanti nel tempo, e cioè a un tempo posteriore al presente della
narrazione, è detta invece prolessi (o, per il cinema, flashforward). In Quello che si ri-
corda (da Nemico, amico, amante…; 2001) troviamo una prolessi dove il narratore dice
che Meriel prevede che il suo matrimonio con Pierre durerà e il narratore conferma che
così sarebbe accaduto:

Si aggrappava a due previsioni, la prima confortante e la seconda relativamente facile da


accettare al momento, anche se destinata senz’altro a farsi più scomoda in futuro.
Il suo matrimonio con Pierre avrebbe retto, sarebbe durato.
Non avrebbe più rivisto Asher.
Entrambe le previsioni risultarono corrette. (231)

Il passo costituisce una prolessi perché il narratore informa che quelle che inizialmente
erano previsioni di Meriel, suscettibili di essere confermate o smentite dai fatti a venire,
sarebbero state effettivamente confermate (si noti anche il cambiamento dei tempi ver-
bali, da «avrebbe retto, sarebbe durato» e «Non avrebbe più rivisto» a «risultarono»).
Anche per le prolessi possiamo definire portata e ampiezza; se siano interne, esterne o
miste; se siano eterodiegetiche o omodiegetiche; e se siano completive o ripetitive.
Se le anacronie superano una certa soglia di complessità, diventa difficile determinare
chiaramente alcuni aspetti della temporalità del racconto. Al limite, come si è detto, si
può arrivare a strutture acroniche, nelle quali cioè l’ordinamento degli episodi o di deter-
minate sequenze di episodi si svincola interamente dalla cronologia. Gli episodi (o le
sequenze) saranno allora ordinati secondo criteri diversi, come nella Coscienza di Zeno
(1923), di Italo Svevo, con i suoi capitoli tematici, o in Finnegans Wake (1939) di James
Joyce, dove la fine si ricongiunge all’inizio e non è ovvio come si possano ricondurre gli
eventi raccontati a una qualche evidente successione cronologica, per quanto complessa.
Secondo Nelson Goodman, le alterazioni dell’ordine della storia possono arrivare a
compromettere la narratività del testo: «qualsiasi narrazione potrà sopportare qualche al-
terazione della cronologia e alcune narrazioni potranno sopportare qualsiasi alterazione
della cronologia, ma non tutte le narrazioni sopporteranno qualsiasi alterazione. Alcune
storie, subendo certe alterazioni, non saranno più storie, ma studi» (Twisted Tales 115;
trad. mia). Uno psichiatra potrebbe scrivere la storia clinica di un suo paziente, per esem-
pio, o al contrario raggruppare gli episodi che la compongono secondo i diversi aspetti
della sua patologia che essi illustrano (claustrofobia, agorafobia, depressione e così via)
e in questo caso non produrrebbe più un racconto, ma uno studio. L’impossibilità di rico-
noscere una storia attraverso il testo, secondo Goodman, determina la perdita della narra-

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tività. Condizione essenziale della narratività, in altre parole, sarebbe la possibilità di ri-
conoscere una storia attraverso il testo, che solo allora potrebbe essere propriamente chia-
mato narrativo (ma su questo torneremo più avanti).

2.2.2. Durata
Passiamo ora alla durata e consideriamo una narrazione orale non letteraria: l’intervento
della giornalista Janine di Giovanni a TEDxWomen 2012.

Fig. 3 – Janine di Giovanni, What I saw in the war

Nelle prime battute del suo intervento, di Giovanni racconta una storia risalente alla
guerra della ex-Jugoslavia. In questa storia (per la quale si rimanda al video dell’inter-
vento), possiamo individuare quattro episodi e misurare la durata della narrazione di cia-
scuno. I risultati sono presentati nella tabella che segue, dove è indicata anche la durata
di ciascun episodio nella storia (che in questo caso appartiene alla realtà storica, o alla
storia in altro senso):

Episodio Durata nella storia Durata della narrazione


Verso il lavoro: il carro armato Pochi minuti 59 secondi
Tra l’attacco e lo sfollamento Alcune settimane - (0 secondi)
Il figlio messo in salvo Pochi minuti 32 secondi
L’assedio Tre anni e mezzo 16 secondi

Due osservazioni quasi scontate sono queste: la durata di un dato episodio nella storia
non coincide necessariamente con la durata della sua narrazione; il rapporto tra le durate
di due episodi nella storia non coincide necessariamente con il rapporto tra le durate degli
stessi episodi nella narrazione. Prima di sviluppare queste osservazioni, però, poniamo
una domanda diversa (ricordando la distinzione genettiana tra storia, racconto e narra-
zione): possiamo dire che la durata del racconto di ciascuna parte della storia coincide
con quella della sua narrazione? L’ipotesi potrebbe forse reggere proprio in quanto il caso

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in esame è un caso di narrazione orale non finzionale; ma che cosa accade, se conside-
riamo invece un caso di narrazione scritta e finzionale, come Papà Goriot o qualsiasi altro
romanzo? In questo caso, tipicamente, non possiamo definire una durata della narrazione,
se non, forse, per particolari casi di narratori intradiegetici (per esempio, il Marlow di
Cuore di tenebra [1899], di Joseph Conrad), il cui atto narrativo sia cioè raccontato nel
racconto principale, né possiamo riferirci alla durata della lettura, perché letture diverse
avranno durate diverse e perché la durata della lettura è appunto della lettura, non della
narrazione. Inoltre, spostare il discorso sul racconto, e cioè sul testo, e interrogarci non
sulla durata della narrazione, ma sulla durata del testo, è una mossa che non offre solu-
zioni ovvie, perché un testo, di per sé, non ha una durata. Per una narrazione scritta e
finzionale, dunque, la situazione è questa: in primo luogo, la narrazione ha quasi sempre
una durata indefinita; in secondo luogo, gli eventi della storia hanno una durata più o
meno definita – immaginaria, poiché si tratta di eventi immaginari, ma che possiamo
pensare: nel caso di un romanzo epistolare, per esempio, useremo le date delle lettere per
definire la durata dell’intervallo di tempo in cui si svolgono gli eventi narrati; in terzo
luogo, il testo, in quanto testo, non ha una durata. Che cosa possiamo dire sulla durata, a
questo punto?
Innanzitutto, possiamo concentrarci su quei passi che, in molti testi narrativi, riferi-
scono il discorso dei personaggi (ne abbiamo parlato). Osserva Genette che, quando il
testo ha la forma del dialogo, ovvero è linguaggio che riproduce altro linguaggio, si ha
un’omologia che consente forse di parlare di uguale durata della storia e del racconto.
L’omologia, cioè, fonda l’isocronia, che però sarà un’isocronia convenzionale: non l’ef-
fettiva coincidenza di due durate misurate, ma una situazione di corrispondenza che pos-
siamo assumere come caso fondamentale per ordinare poi una tipologia. In altre parole,
il caso del dialogo, ovvero della scena, può essere assunto convenzionalmente come caso
fondamentale per confrontare durata della storia e durata del racconto. Sulla base del caso
della scena potremo poi definire altri casi, per vedere come diversi racconti presentino
variazioni di velocità, intese come variazioni del rapporto tra durata degli eventi nella
storia e ‘durata’, o estensione, del racconto corrispondente: se il racconto rappresenta in
poche parole eventi che si svolgono in una lunga durata, diremo che il racconto procede
velocemente e che la durata del racconto è minore della durata della storia; se al contrario
il racconto dedica molte parole o molte pagine a eventi che si svolgono in pochi minuti,
diremo che il racconto procede lentamente e che la durata del racconto è superiore alla
durata della storia. I confronti che potremo fare resteranno fondati su un’assunzione ini-
ziale in certo modo arbitraria o convenzionale – quella che nel dialogo vi sia isocronia di
storia e racconto –, ma consentiranno comunque di mettere a fuoco alcuni aspetti dei testi
narrativi.
Diciamo dunque che la scena è il caso in cui il tempo del racconto equivale al tempo
della storia. Un esempio è offerto dal dialogo che segue, da Passione:

– Ti riferisci al bere? Perché bevo? – Intanto svitava il tappo di nuovo. – Perché non me lo
chiedi?
– Perché so già che cosa diresti.
– E cioè? Che cosa direi?
– Diresti, che altro c’è da fare? O qualcosa di simile.
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– È vero, – ribatté lui. – Direi più o meno così. Be’, e a quel punto tu cercheresti di spie-
garmi perché sbaglio.
– No, – disse Grace. – No. Non lo farei. (In fuga 178)

In generale, la scena è un modo della drammaticità del racconto. Abbiamo già osser-
vato, d’altra parte, che il discorso diretto libero e il discorso diretto legato sono i tipi di
referto del discorso dei personaggi che implicano la più debole mediazione narratoriale.
Si legga quindi ciò che scrive Balzac, che della scena, ovvero del dialogo, faceva largo
uso, a proposito di Walter Scott:

Walter Scott ha usato raramente le forme narrative [formes narratives]. È tramite un dialogo
vigoroso e drammatico che egli stabilisce il carattere dei suoi personaggi; in questo modo,
la mano che li fa muovere non si percepisce mai. Il loro modo di parlare è semplice, naturale,
e non risente mai del lavorìo dell’autore. (Écrits sur le roman 39-40; trad. mia)

Balzac elogia la tecnica di Scott e usa la scena in modo analogo, perché la rappresenta-
zione sia drammatica e vigorosa e perché i personaggi appaiano al lettore come in una
loro autonoma evidenza, nonché per mantenere il ritmo e la tensione del racconto.
Il secondo caso è quello del sommario, nel quale il tempo del racconto è inferiore al
tempo della storia. All’inizio di L’Ojo Silva, per esempio, il narratore riferisce in poche
parole gli spostamenti di Mauricio Silva in America Latina dopo il colpo di stato di Pi-
nochet:

Nel gennaio del 1974, quattro mesi dopo il colpo di Stato, l’Ojo Silva se ne andò dal Cile.
Prima si fermò a Buenos Aires, poi la brutta aria che tirava nella vicina repubblica lo spinse
in Messico, dove visse un paio d’anni e dove lo conobbi io. (13)

Il sommario è caratteristico del romanzo dell’Ottocento ed è più raro nel romanzo del
Novecento, o quanto meno è caratteristico del romanzo dell’Ottocento, più che di quello
del Novecento, l’uso di lunghi passi in forma di sommario per introdurre situazioni o
personaggi nuovi (un esempio di quest’uso del sommario è offerto ancora da Balzac, che
all’inizio di Papà Goriot introduce il personaggio eponimo con un lungo sommario della
sua carriera e della sua vita fino al momento in cui la storia ha inizio).
Il terzo caso è quello dell’ellissi, che si ha quando il narratore omette di narrare qual-
cosa. Possiamo dire, allora, che la durata del racconto è nulla (poiché non si racconta
qualcosa), mentre la storia ha una sua durata (c’è qualcosa che non viene raccontato ma
che avrà una sua durata, sebbene immaginaria). In Nemico, amico, amante… si ha un’el-
lissi dopo che Johanna ha raggiunto Ken e prima della morte del signor McCauley:

Dopo la signora Willets, il cuore le si era infeltrito, e aveva creduto che potesse restare così
per sempre. E invece, quanta emozione, quanto subbuglio d’amore.
Il signor McCauley morì circa due anni dopo la partenza di Johanna. (52)

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L’ellissi porta il racconto, con un balzo, alle conseguenze ultime delle manovre di Edith
e Sabitha (i due personaggi che hanno ordito l’incontro fra Johanna e Ken), le quali para-
dossalmente si rivelano impreviste innanzitutto per loro, e così accentua l’effetto di sor-
presa generato dall’esito degli eventi.
L’ellissi, d’altra parte, può svolgere funzioni diverse. In Balzac, la si comprende tipi-
camente come portato di una selezione complessiva nella materia della storia: oggetto di
ellissi, vale a dire, è ciò che non appare significativo e questa è presumibilmente la ra-
gione più frequente delle ellissi che incontriamo nei testi narrativi. Del tutto diverso, però,
è un caso come il passo dei Promessi sposi in cui Gertrude cede alla seduzione di Egidio:

Egidio […] avendo veduta Gertrude qualche volta passare o girandolar lì, per ozio, allettato
anzi che atterrito dai pericoli e dall’empietà dell’impresa, un giorno osò rivolgerle il di-
scorso. La sventurata rispose.
In que’ primi momenti, provò una contentezza, non schietta al certo, ma viva. Nel vòto
uggioso dell’animo suo s’era venuta a infondere un’occupazione forte, continua e, direi
quasi, una vita potente; ma quella contentezza era simile alla bevanda ristorativa che la
crudeltà ingegnosa degli antichi mesceva al condannato, per dargli forza a sostenere i tor-
menti. (185)

Qui l’ellissi sembra avere un significato morale: il narratore non racconta il male che il
lettore può immaginare da sé, ma ciò non implica che esso sia irrilevante per lo sviluppo
della storia. Il silenzio che lo copre, anzi, sembra confermarne in negativo l’importanza.
Il caso inverso a quello dell’ellissi, rispetto alla durata, è quello della pausa: nulla
accade, e dunque la durata della storia è nulla, ma il testo continua e quindi ha una sua
durata. Si legga questo passo da L’anima non è una fucina:

La classe di educazione civica della R. B. Hayes era formata da sei file di cinque banchi. I
banchi corredati di sedie erano fissati saldamente fra loro e al pavimento e avevano un
ripiano che si sollevava ruotando su un cardine, proprio come tutti gli altri banchi delle
scuole elementari in quell’epoca antecedente zaini e zainetti. (82)

Dove però figure umane sono comprese nella scena descritta, l’immobilità è raramente
completa: la descrizione comprende cioè facilmente il rilievo di azioni o atteggiamenti
che implicano una qualche durata, come in questo passo da L’Ojo Silva:

Un pomeriggio, il pomeriggio in cui arrivò in città, andò a vedere il bordello in cui castra-
vano i bambini. Le stanze erano diventate abitazioni in cui si ammassavano intere famiglie.
I corridoi che ricordava solitari e funebri ora pullulavano di bambini che sapevano appena
camminare e vecchi che non potevano più muoversi e si trascinavano. Gli parve un’imma-
gine del paradiso. (27)

I bambini che pullulavano, i vecchi che si trascinavano e l’Ojo che ricorda imprimono un
movimento temporale e una durata nella descrizione dell’ambiente. La mediazione della
prospettiva del personaggio, con la percezione indiretta libera di «I corridoi che ricordava
solitari e funebri ora pullulavano…», fa sì che la descrizione non corrisponda tanto a

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un’interruzione dello scorrere del tempo, quanto a un suo estremo rallentamento, o alla
durata interiore della percezione.
Infine, abbiamo l’estensione, in cui la durata del racconto è maggiore di quella della
storia, che però non è nulla. Questa categoria è aggiunta da Seymour Chatman a quelle
proposte da Genette e si ha per esempio dove dialogo, racconto di eventi e descrizione si
combinano in una stessa sequenza testuale, come in questo passo di Passione:

Era Maury. Le disse: – Mi chiedevo se avessi voglia di uscire con me, uno di questi giorni.
Grace non alzò lo sguardo, continuando a sparare posate al loro posto. Disse: – Cos’è que-
sta, una scommessa? – perché la voce di Maury era stridula e nervosa, e lui se ne stava lì
impalato, come se lo obbligassero. Ed era risaputo che ogni tanto un gruppo di giovanotti
della zona delle villette ne sfidava un altro a invitare fuori una cameriera. (151-152)

Invece di parlare di estensione, quindi, potremmo dire che si hanno scena e pausa in-
tercalate, ma la categoria sembra avere una sua ragione e la possiamo aggiungere alle
altre. Abbiamo così cinque casi, per quanto riguarda i rapporti tra durata della storia e
durata del racconto: ellissi, sommario, scena, estensione e pausa. Li possiamo riassumere
così (TS sta per tempo della storia; TR sta per tempo del racconto):

Ellissi Sommario Scena Estensione Pausa


TR = 0 TR < TS TR = TS TR > TS TS = 0
TS > 0 TR ≠ 0 TR ≠ 0; TS ≠ 0 TS ≠ 0 TR > 0

2.2.3. Frequenza
La terza categoria per l’analisi dei rapporti fra tempo della storia e tempo del racconto è
quella della frequenza. Quante volte sono raccontati i diversi episodi della storia? Si
danno, secondo Genette, quattro casi.
Il primo è il caso singolativo: un episodio che accade una volta nella storia è raccontato
una volta. L’invito a uscire di Maury, in Passione, è un esempio di racconto singolativo:
l’episodio accade una sola volta nella storia e viene raccontato una sola volta.
Il secondo caso è quello del racconto singolativo multiplo, che si ha quando n episodi
dello stesso tipo sono raccontati n volte: quando dieci pranzi del sabato in famiglia, per
esempio, sono raccontati dieci volte, una per ciascuno; o quando in 2666, di Bolaño, i
ritrovamenti delle vittime di femminicidio di Santa Teresa sono raccontati uno per uno.
Un tipo interessante è quello delle ripetizioni, spesso ternarie, delle fiabe.
Il terzo caso è quello del racconto ripetitivo, che si ha quando uno stesso episodio è
raccontato più volte. È il caso del racconto del ritorno a casa del padre della narratrice e
di Alfrida in Mobili di famiglia.
Il quarto caso è quello del racconto iterativo, che si ha quando una serie di episodi
analoghi è raccontata sinteticamente, in un racconto unico. Un esempio è offerto
dall’esordio di Vergogna (Disgrace; 1999), di J.M. Coetzee:

Per un uomo della sua età, cinquantadue anni, divorziato, gli sembra di avere risolto il
problema del sesso piuttosto bene. Il giovedì pomeriggio va in macchina a Green Point.
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Alle due in punto preme il campanello all’ingresso di Windsor Mansions, dice il suo nome
ed entra. Sulla porta del n. 113 lo aspetta Soraya. David attraversa la camera, che profuma
di buono e ha una luce soffusa, e si spoglia. Soraya esce dal bagno […]. Nel deserto della
settimana, il giovedì è diventato un’oasi di luxe et volupté. […]
Poi un sabato mattina tutto cambia. (3, 8)

Il racconto ci informa sugli incontri abituali del protagonista e di Soraya ed è su questo


sfondo che interviene la complicazione del sabato mattina in cui «tutto cambia».
Nella prima metà dell’Ottocento – con Balzac, per esempio – sembra che i romanzieri
privilegino largamente il racconto singolativo. Quanto meno, questa è l’impressione che
abbiamo se confrontiamo le loro opere con quella di Proust, dove la rappresentazione di
eventi ricorrenti – la dimensione dell’abitudine, del ritorno – è un tratto essenziale del
racconto («A lungo mi sono coricato di buonora»: così inizia il romanzo proustiano).
Scrive Genette in Figure III:

È quindi come se, nel racconto proustiano, si sostituisse la forma sintetica di narrazione
costituita, nel romanzo classico, dal racconto sommario (assente […] dalla Recherche) con
l’altra forma sintetica costituita dall’iterativo: sintesi, non più per accelerazione, ma per
assimilazione e astrazione. (192)

Tra Balzac e Proust possiamo collocare Flaubert, che per primo intraprende con deci-
sione la rappresentazione del tempo uniforme dell’esistenza. Più profondamente, po-
tremmo dire, è forse cambiato il tempo della nostra vita, sempre più fatta, almeno nella
rappresentazione romanzesca, di ripetizione e abitudine. Questo ci porta anche a notare,
in termini ancora proustiani, che lo stile è un fatto di visione. Lo stile narrativo, vale a
dire, manifesta una visione della realtà. Le scelte che un autore compie in modo sistema-
tico rispetto al trattamento del tempo nella propria scrittura narrativa, per esempio, sono
un aspetto del suo stile e possono manifestare una certa visione del tempo e della vita
degli uomini. Da un punto di vista metodologico, inoltre, emerge ancora come le catego-
rie analitiche della narratologia servano non solo ad analizzare e descrivere il testo, ma
anche e soprattutto a interpretarlo, e come esse possano anche contribuire a una storia
della letteratura intesa come storia delle forme.

2.3. L’intreccio come configurazione


Cerchiamo ora di mettere a fuoco il concetto di intreccio come configurazione. Il tratta-
mento del tempo da parte dell’autore, come definizione delle relazioni di ordine, durata e
frequenza tra storia e racconto, è già parte della configurazione che le vicende dei perso-
naggi assumono nel racconto. Per chiarire meglio l’idea, però, leggiamo A Radically Con-
densed History of Postindustrial Life; 1998; poi compreso nella raccolta Brief Interviews
with Hideous Men), di David Foster Wallace:

When they were introduced, he made a witticism, hoping to be liked. She laughed ex-
tremely hard, hoping to be liked. Then each drove home alone, staring straight ahead, with
the very same twist to their faces.
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The man who’d introduced them didn’t much like either of them, though he acted as if he
did, anxious as he was to preserve good relations at all times. One never knew, after all,
now did one now did one now did one. (Brief Interviews with Hideous Men 0)3

Il primo capoverso intreccia le vicende di lui e di lei, facendo riferimento dapprima a


entrambi congiuntamente e poi a lui e a lei in successione: lui fece una battuta, «hoping
to be liked», e lei rise, «hoping to be liked». La ripetizione dell’espressione, che in en-
trambi i casi è preceduta da una proposizione principale con verbo al simple past, che
dice che cosa abbia fatto il personaggio nella speranza di piacere («he made a witticism»;
«She laughed extremely hard»), crea tra le due azioni un parallelismo che potrebbe signi-
ficare corrispondenza, o risultare in sintonia. L’uso della forma passiva senza agente «to
be liked», tuttavia, insinua il sospetto che la speranza di piacere non sia speranza di pia-
cere a lui o a lei in particolare e che ciascuno, dopotutto, sia per l’altro inessenziale. Lei
non è l’oggetto ultimo del desiderio di lui, come lui non è l’oggetto ultimo del desiderio
di lei. Così ciascuno torna a casa solo com’era venuto: il terzo e ultimo periodo del capo-
verso – «Then each drove home alone, staring straight ahead, with the very same twist to
their faces» – ripete la sequenza di verbo di modo definito e verbo di modo indefinito dei
due precedenti. Di nuovo il verbo di modo definito denota l’azione compiuta da ciascuno
dei due – «drove», come prima «made» e «laughed» – e di nuovo il verbo di modo inde-
finito rende la condizione spirituale di entrambi – «staring straight ahead», come prima
«hoping». Viene meno però l’apertura al futuro di «hoping», poiché in questo «staring
straight ahead» lo sguardo non si spinge oltre la mera percezione della strada da percor-
rere. Il riferimento congiunto a entrambi mediante il distributivo «each» e la precisazione
di «alone» confermano quindi che ciò che poteva sembrare corrispondenza o sintonia non
è che il parallelismo di due movimenti che non si incontreranno. Entrambi i personaggi
tornano verso casa con un’espressione – «the very same twist» – che nessuno può vedere.
Ciò che li accomuna senza unirli, infine, è la solitudine ed è proprio questo che rappre-
senta la riunione delle loro azioni nella chiusa del capoverso.
Passiamo quindi al secondo capoverso: esso si apre facendo riferimento a colui che li
aveva presentati (ma si noti che, nel primo capoverso, «they were introduced» restava
senza agente, come «to be liked»: l’ingresso del terzo personaggio e della sua linea
d’azione era già predisposto, ma anche già compromesso dall’indifferenza suggerita,
sulla scorta del successivo «to be liked», dalla mancanza dell’agente). Il past perfect, che
indica anteriorità rispetto al simple past dei verbi precedenti, suggerisce un movimento
retrogrado verso un tempo precedente al presente narrativo, giunto ormai all’epilogo della
serata. Apprendiamo che questo terzo personaggio non provava una spiccata simpatia né
per lui né per lei, i quali dunque sono nuovamente accomunati dall’indifferenza di cui
sono oggetto e che probabilmente riservano all’altro, e nondimeno cercava di mantenere

3
«Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle,
sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo sguardo
fisso davanti a sé, la stessa identica smorfia sul viso. / A quello che li aveva presentati nessuno
dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di sì visto che ci teneva tanto a mantenere sempre
buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai, in fondo, o invece sì, o invece sì» (Brevi interviste con
uomini schifosi 3).
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anche con loro «good relations». Si crea così una seconda corrispondenza, ma sterile
anch’essa, tra questo desiderio di buoni rapporti e la speranza di piacere di lui e di lei:
entrambi rivolti su altri inessenziali, entrambi generati da un disagio che nel secondo caso
– «anxious as he was» – è dichiarato. La chiusa riunisce quindi i tre personaggi in un
breve passaggio di narrazione figurale – «One never knew, after all» – che porta a una
ripetizione triplice di dubbio e, con le question tags, desiderio di conferma: «now did one
now did one now did one». Per effetto di questa figuralità e del movimento retrogrado
con cui era iniziato il secondo capoverso, siamo quindi ricondotti a una condizione di
incertezza che precede, cronologicamente, gli eventi ultimi della storia e, ermeneutica-
mente, la smentita che il racconto in certo modo infligge alla cautela ansiosa del terzo
personaggio e alle speranze degli altri due, poiché abbiamo già appreso a quale infelicità
e a quale solitudine riescano l’una e le altre. Su questa condizione si chiude il racconto.
Queste osservazioni sul racconto di Wallace mostrano che le vicende dei personaggi
non sono solo composte, o intrecciate, nel senso che sopra abbiamo messo a fuoco, ma
anche configurate mediante ulteriori dispositivi. Alla loro configurazione contribuiscono
il trattamento del tempo della storia e inoltre parallelismi, simmetrie, antitesi o riprese più
o meno variate di parti dell’intreccio. Con il passaggio dalla composizione alla configu-
razione, quindi, ci spostiamo dal terreno del referto e della comprensione dell’azione a un
terreno formale. Prima leggevamo di un’azione di un personaggio e la comprendevamo
mediante quei concetti – azione, fine, motivo, agente, circostanze, interazione, esito –
che, nota Ricoeur, formano il dispositivo concettuale dell’azione, il cui dominio corri-
sponde alla competenza della comprensione pratica. La comprensione dell’intreccio
come composizione dell’azione, in altre parole, si mostrava «radicata in una pre-com-
prensione del mondo dell’azione» (Ricoeur I 94). Quando invece passiamo all’intreccio
come configurazione, emergono relazioni formali per la cui interpretazione dobbiamo
esprimere una competenza ermeneutica ulteriore, che corrisponda alla dimensione lingui-
stica del testo.4 La configurazione dell’azione si definisce quindi come mediazione tra la
composizione dell’azione e la forma del racconto in senso lato, alla quale contribuiranno
ancora altre proprietà formali (relative alla sintassi o al lessico, per esempio).
Restiamo però sulla configurazione: tra le relazioni che concorrono a determinarla,
certamente rilevanti sono quelle che legano la fine a ciò che la precede. In particolare, si
potrebbe pensare alla fine come al momento o al luogo decisivo della narrazione (intesa
di nuovo come testo narrativo, non come atto narrativo), dove le sue diverse fila si riuni-
scono e sono illuminate retrospettivamente nel loro significato più profondo. Passione,
per esempio, sembra confermare almeno in parte questa idea: l’immagine di Grace che
riceve l’assegno da Mr. Travers e può iniziare una nuova vita, ma per sempre divisa dalla
famiglia che l’aveva accolta, sembra illuminare tutto il corso precedente degli eventi.
La fine, dunque, illumina retrospettivamente gli eventi che la precedono e sul suo po-
tere di determinazione retroattiva del significato insistono diverse teorie dell’intreccio.
Peter Brooks, per esempio, scrive che «soltanto la fine può determinare il significato con-
clusivo» di una narrazione (24) e che pertanto la lettura di qualsiasi testo narrativo sarà

4
Parliamo di una competenza ermeneutica ulteriore perché già la comprensione dell’azione, an-
che al di fuori del racconto, può essere intesa come un’operazione ermeneutica (cfr. Taylor, In-
terpretation and the Sciences of Man).
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guidata da una anticipazione della retrospezione: quando leggiamo una narrazione, vale
a dire, ci aspettiamo già dall’inizio che l’intreccio pervenga a una fine alla luce della quale
potremo riconsiderare e reinterpretare gli eventi occorsi. E Frank Kermode richiama il
modello biblico dell’Apocalisse, che determinerà a posteriori il senso degli eventi che
saranno stati, e afferma che «il tempo si organizza in funzione della fine, una durata che
dà significato all’intervallo fra il tick e il tock, perché umanamente non vogliamo che
quello tra il tick della nascita e il tock della morte sia un intervallo indeterminato» (52).
Ne deriva, tra l’altro, un secondo elemento ricorrente nelle teorie dell’intreccio, e cioè
l’idea di una spinta verso la fine, o di una propulsione: gli intrecci, scrive Brooks, «non
sono […] solo strutture ordinatrici, sono anche intenzionali, tesi a una meta precisa e
animati da spinte propulsive» (12-13; con modifiche della traduzione).
Ora, la fine è senza dubbio un momento importante per la comprensione di una narra-
zione, ma l’importanza che queste teorie le attribuiscono è forse eccessiva o, quanto
meno, non sembra convincente l’idea che il significato di una narrazione sia determinato
univocamente dalla fine. Consideriamo ancora il finale di Passione: la situazione finale
di Grace si comprende in relazione a ciò che è stato raccontato prima non meno di quanto
ciò che è stato raccontato prima sia ricompreso a posteriori alla luce di quella situazione,
non solo nel senso ovvio dell’impossibilità di comprendere come si arrivi a quella situa-
zione senza avere letto ciò che la precede, ma anche in quello, forse meno ovvio, della
necessità di interpretarla alla luce di ciò che si è già letto (a cominciare dalla sequenza
iniziale, che nel tempo della storia appartiene al futuro, e dall’interrogazione morale re-
trospettiva che essa comprende). «Quando leggiamo seguendo la progressione del rac-
conto, – afferma James Phelan – esperiamo la fine come determinata dall’inizio e dal
mezzo, anche se la fine, in quanto conferisce completezza [completeness] e chiusura [clo-
sure], ha il potenziale di trasformare la nostra esperienza di lettura dell’inizio e del
mezzo» (Reading People, Reading Plots 111; trad. mia).5 Per quanto la fine possa essere
importante, insomma, non dobbiamo pensare a una determinazione univoca del signifi-
cato di tutto da parte della fine.
Identificare la fine, tra l’altro, non è sempre un’operazione scontata: in primo luogo,
perché un’anacronia, come ormai dovrebbe essere evidente, può situare alla fine del rac-
conto un evento che cronologicamente non è l’ultimo; in secondo luogo, perché può ac-
cadere che l’evento che viene per ultimo nella cronologia, e che magari è raccontato per
ultimo, non sembri così rilevante come altri che lo precedono: alla fine di Madame Bovary
leggiamo dell’attribuzione della legion d’onore a Homais e questo evento viene dopo le
morti di Emma e di Charles, ma possiamo considerarlo come più rilevante di quelle morti
e quindi come fine della storia? Alla prima difficoltà si può forse ovviare ragionando
proprio sull’ordine e distinguendo la fine della storia, o dell’intreccio come composizione
dell’azione, dalla chiusa come parte ultima del racconto, ma la seconda difficoltà ci porta
necessariamente sul terreno dell’interpretazione, dove niente può essere deciso meccani-
camente: non possiamo assumere a priori, in altre parole, che ciò che viene prima sia
determinato univocamente da ciò che viene dopo. Dunque la fine e la chiusa sono senza

5
Closure è per Phelan il modo in cui il racconto segnala la propria fine; completeness, il grado di risolu-
zione che si accompagna alla closure. Altri usano closure (in inglese, ovviamente) anche per la risoluzione.
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dubbio rilevanti per il significato del racconto, ma la configurazione consiste in un in-


sieme più complesso di relazioni.
Ora, abbiamo detto che questo insieme di relazioni si offre all’interpretazione e che la
configurazione, in questo senso, è forma che l’autore definisce, e che il lettore interpreta,
come modo dell’opera di significare. A conclusione delle nostre riflessioni sull’intreccio,
tuttavia, dobbiamo precisare che a relazioni formali come quelle di parallelismo, simme-
tria, antitesi o ripresa con variazione, che concorrono alla determinazione dell’intreccio
in quanto configurazione, si potrà talvolta attribuire una funzione che diremo estetica, ma
non una funzione mimetica o, più in generale, di significazione (più in generale se inten-
diamo la mimesi come una forma di significazione).
Consideriamo, per esempio, il racconto illustrato per bambini The Day Louis Got Ea-
ten (2011), di John Fardell: il piccolo Louis e sua sorella Sarah sono in giro per il bosco,
lei in bicicletta e lui in monopattino, quando un inghiottone dei boschi irrompe sul sen-
tiero, inghiotte Louis e scappa. Decisa a salvare il fratello, Sarah si lancia all’insegui-
mento del mostro. Lo ha quasi raggiunto, quando uno gnammete alato scende in picchiata,
si pappa l’inghiottone e vola via sul mare. Sarah prontamente adatta la sua bicicletta alla
navigazione, montando eliche e galleggianti, e insegue lo gnammete che vola verso il suo
nido su un pinnacolo roccioso – e lo raggiunge, ma un acchiappone marino si mangia lo
gnammete tutto intero e nuota via. Sarah lo insegue, poi insegue lo slurpante spinato che
lo divora e infine insegue lo zompone dai denti a sciabola che ingurgita lo slurpante.
Mentre lo zompone, ultimo mostro, dorme nella sua tana, Sarah entra nelle sue fauci e
raggiunge il suo stomaco, dove trova lo slurpante… Mostro dopo mostro, Sarah rag-
giunge il fratello che la attendeva nello stomaco dell’inghiottone. Allora libera la rana
singhiozzina, che aveva raccolto nel bosco prima di inseguire l’inghiottone, e la rana pro-
voca una catena di mostruosi rutti e singulti, che portano all’espulsione successiva di tutti
i mostri, l’uno dall’altro, e infine di Louis e Sarah. Ma ora i mostri sono affamati e guar-
dano Sarah leccandosi i baffi: tocca quindi a Louis metterli in fuga con la sua ira per
salvare a sua volta la sorella e riprendere con lei, finalmente, la strada di casa.
Come si vede, la ripetizione della sequenza di inghiottimento e inseguimento, il cam-
mino a ritroso di Sarah dentro i mostri, dall’ultimo al primo, e la conseguente, chiastica
espulsione dell’uno dall’altro, fino al doppio rovesciamento delle parti nel finale, con
Louis che terrorizza i mostri e salva Sarah, costituiscono un insieme di relazioni formali
che sembrano intese non tanto a significare qualcosa sulle vicende dei personaggi (come
invece accadeva con i dispositivi formali che abbiamo rilevato nel racconto di Wallace,
dove il parallelismo sintattico, per esempio, rappresentava il parallelismo – analogia e
solitudine – delle condizioni dei due personaggi), quanto a offrire al bambino lettore il
piacere della simmetria e della ripetizione variata e il divertimento generato dalla dina-
mica di aspettativa, conferma e riso che deriva dalla serie degli inghiottimenti. Nel ro-
manzo dell’Ottocento e del Novecento, procedimenti costruttivi del genere appena de-
scritto sono rari, ma Viktor Šklovskij ha mostrato come essi non siano infrequenti nella

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produzione novellistica e in generale narrativa di epoche precedenti6 e l’esempio di Far-


dell è uno dei tanti che si potrebbero fare osservando la letteratura per l’infanzia contem-
poranea.
Secondo Šklovskij, dinamiche di configurazione come quelle appena descritte mostre-
rebbero come i racconti non siano improntati, in generale, a una ricerca di verosimi-
glianza, o di mimesi della realtà (questa posizione è variamente condivisa da altri teorici
formalisti e strutturalisti: si veda per esempio Genette, Verosimiglianza e motivazione).
In questo senso, la sua tesi confligge con ciò che Aristotele sostiene nella Poetica, dove
all’intreccio di una tragedia o di un poema si chiede di soddisfare allo stesso tempo esi-
genze mimetiche, o di verosimiglianza, e di esteticità. Aristotele afferma dapprima che

compito del poeta è di dire non le cose accadute, ma quelle che potrebbero accadere e le
possibili secondo verosimiglianza e necessità. […] E perciò la poesia è cosa più nobile e
più filosofica della storia, perché la poesia tratta piuttosto dell’universale, mentre la storia
del particolare. L’universale poi è questo: quali specie di cose a quali specie di persona
capiti di dire o di fare secondo verosimiglianza o necessità. (77)

Cercando il verosimile e non l’accaduto, sostiene Aristotele, la rappresentazione letteraria


(poeta qui non deve essere inteso nel senso che oggi attribuiamo alla parola, e quindi
pensando innanzitutto alla lirica e alla versificazione, ma come autore di tragedie, poemi
e altre opere di finzione che oggi diremmo letterarie e in vario modo narrative) supera i
limiti del particolare e assurge a una dimensione di astrazione o universalità che la rende
simile alla filosofia. Come si vede, però, Aristotele invoca non solo la verosimiglianza,
ma anche la necessità, e riferisce entrambe alla questione del mythos, ovvero dell’intrec-
cio, che a suo giudizio è la parte più importante della tragedia («la parte più importante
di tutte è la composizione delle azioni»; 69). Si manifesta così un’esigenza di coesione, o
di organicità, che assume inoltre un valore propriamente estetico, in quanto ordinamento
armonioso e misurato delle parti:

Occorre […] che […] anche l’intreccio, poiché è imitazione di un’azione, lo sia di
un’azione sola e per di più tale da costituire un tutto concluso, ed occorre che le parti dei
fatti siano connesse assieme in modo tale che, se qualcuna se ne sposti o sopprima, ne risulti
dislocato e rotto il tutto […]. […]
[C]iò che è bello, sia un animale sia ogni altra cosa costituita da parti, deve avere non
soltanto queste parti ordinate al loro posto, ma anche una grandezza che non sia casuale; il
bello infatti sta nella grandezza e nell’ordinata disposizione delle parti […]. […]
[L]’intreccio, rispetto alla grandezza, tanto più è bello quanto più è lungo, a condizione
però che riesca chiaro nell’assieme. Ma, per definire la cosa in generale, quella grandezza
in cui, svolgendosi di seguito gli eventi secondo verosimiglianza o necessità, sia dato di
passare dalla sfortuna alla fortuna o dalla fortuna alla sfortuna, è il limite giusto della gran-
dezza. (77, 73 e 75; con modifiche)

6
Cfr. i saggi di Teoria della prosa (1925) e in particolare Il legame tra i procedimenti di composizione
dell’intreccio e i procedimenti generali dello stile e La struttura della novella e del romanzo.
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Nella riflessione di Aristotele, dunque, agiscono concetti diversi, che però non appro-
fondiremo ulteriormente. Ci basta avere osservato come egli affermi che l’intreccio debba
e possa rispondere contemporaneamente a requisiti di verosimiglianza e di bellezza for-
male, e cioè come debba e possa svolgere contemporaneamente una funzione estetica e
una funzione mimetica o, più in generale, di significazione. Tra questa posizione, che
vorrebbe sempre unire le due funzioni, e quella di Šklovskij, che tende a privilegiare
l’istanza estetica a detrimento di quella mimetica o di significazione, possiamo conclu-
dere semplicemente, anche alla luce degli esempi eterogenei di Munro, Wallace e Fardell
e delle considerazioni di Flaubert e di Leskov che abbiamo citato, che le relazioni che
determinano l’intreccio come configurazione svolgeranno l’una o l’altra funzione – este-
tica o di significazione –, o magari entrambe. Volta per volta, o narrazione per narrazione,
ci interrogheremo poi su quali effettivamente siano svolte.

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Intermezzo: analisi narratologica di Passione, di Alice Munro

Nelle prossime pagine ripercorreremo Passione, di Alice Munro, formulando alcune os-
servazioni narratologiche. Lo scopo è provare più sistematicamente i concetti presentati
fino a ora, mostrando come essi possano essere usati per dare una lettura di un testo nar-
rativo – un racconto, in questo caso – che ne faccia emergere alcuni aspetti salienti e che
quindi possa prolungarsi in una più ampia e approfondita interpretazione.
Il racconto inizia nella prospettiva di Grace, soffermandosi sull’apparenza delle cose,
come se esse fossero visitate da uno sguardo che le osserva e riflette su ciò che vede
(«Alcuni di essi erano chiaramente seconde case […]. Molti altri però avevano tutto
l’aspetto di residenze regolari» [148]), e presentando gli elementi del paesaggio in un
ordine che sembra dipendere dai movimenti di qualcuno che si muova in quello spazio;
ciò che appare è continuamente confrontato con ciò che Grace ricorda; e il now in the
past segnala la figuralità del racconto («Adesso era sorto un paese» [148]). Dunque se-
guiamo lo sguardo e le riflessioni di Grace che torna in questi luoghi, in una giornata di
settembre, a quarant’anni di distanza da quando li aveva conosciuti. Grace è anziana, ora,
e dopo si dirà, obliquamente, che il tempo l’ha segnata («In perfetto stato di conserva-
zione, un passato intatto, mentre lo stesso certo non si può dire di lei» [150]) e che la vita
l’ha portata lontano (è stata in Australia). Ora torna su questi luoghi del suo passato e
l’incipit del racconto, quale ulteriore elemento per definirne la prospettiva temporale, pre-
senta la narrazione come di poco posteriore alla visita di Grace: «Non molto tempo fa
Grace è tornata alla Ottawa Valley a cercare la casa estiva dei Travers» (148). L’interro-
gazione finale legata a quel ritorno, dunque, deve essere ancora aperta: «Che cosa cercava
di preciso Grace quando aveva intrapreso quella spedizione?» (150). E che cosa sperava
di trovare? Apparentemente, la ricerca non è scevra dal timore, più che dalla speranza, di
trovare qualcosa: Grace sembra pronta a «tornare indietro» (149) – a rinunciare – e il suo
disagio è dichiarato nelle interrogazioni finali che rivolge a se stessa, o nelle riflessioni
dubitative che ci vengono rese in monologo narrato e poi in una forma affine al monologo
interiore (con un tu generico, che però nella traduzione è accentuato troppo). In queste
riflessioni si profilano tre possibilità: ritrovare tutto intatto, ritrovare le cose ormai in ro-
vina e irrilevanti o infine non ritrovare niente, se tutto è scomparso. La prima possibilità
sembra essere la più temibile; la seconda appare più rassicurante; la terza, per quanto
possa essere difficile riconoscerlo, è forse quella in cui Grace spera davvero, quella che
porterebbe con sé un’assoluzione di fatto, come per prescrizione: «perplessità e doveri»
(150) («confusions or obligations» [Runaway 161]), infatti, sarebbero spazzati via dal
mero trascorrere del tempo. Dunque Grace è tornata mossa da un rovello morale legato a
eventi accaduti quarant’anni prima e però irrisolto.
La sequenza successiva introduce la famiglia Travers: il racconto torna a quei qua-
rant’anni prima con un movimento che dapprima potremmo essere portati a definire di
analessi, ma che in realtà è un movimento verso l’epoca su cui si soffermerà tutto il rac-
conto successivo, cosicché forse conviene parlare di un incipit in prolessi, dopo il quale
si passa al tempo base. Nella prima sequenza in questo tempo base si definisce la compo-
sizione del nucleo familiare dei Travers, si accenna al precedente matrimonio di Mrs.
Travers e si confrontano diverse rappresentazioni del passato di Mrs. Travers da parte di
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lei e di Mr. Travers. Il marito appare come una persona affettuosa e protettiva, ma anche
poco sensibile, o quanto meno incapace di vedere il passato di Mrs. Travers con la sensi-
bilità e l’umorismo che lei dimostra nel raccontarlo e che il narratore, assumendo la pro-
spettiva di Grace, caratterizza subito letterariamente, attraverso il confronto con «le storie
di Thurber che Grace aveva letto nell’Anthology of American Humor» (151): nella com-
prensione del passato di Mrs. Travers – che è parte della caratterizzazione del personaggio
–, Grace sembra già in sintonia con la stessa Mrs. Travers, anche più del marito. La con-
versazione di Mr. Travers pare più noiosa di quella della moglie, un po’ pedante, e sembra
che fare qualcosa per lei sia per lui anche un modo per occuparsi, o per giustificarsi (ma
ciò non è detto né dal narratore, né da altri personaggi: potremmo quindi parlare di carat-
terizzazione indiretta).
L’incontro tra Grace e i Travers avviene però nel ristorante dell’albergo dove Grace,
«quell’estate» (151), lavora come cameriera. Maury la invita a uscire e lei, dopo la diffi-
denza iniziale, accetta, o dà una risposta genericamente positiva che lui accoglie come un
incoraggiamento. Questo è un passo che già rivela qualcosa della relazione che si creerà
tra Grace e Maury: lei «non è sicurissima» di che cosa intenda dicendo «Va bene», se «va
bene, calmati, ho capito che non è una scommessa, ho capito che non faresti mai una cosa
del genere» o «va bene, esco con te» (152), e in questa incertezza già rivela la mancanza
di convinzione o le riserve tacite, rispetto a Maury, che poi dimostrerà rompendo con lui
quando Maury parlerà già di matrimonio. Maury, invece, manifesta quella determina-
zione poco percettiva – non coglie davvero la perplessità di Grace – che sembrava essere
anche di suo padre. Questo intreccio di prospettive e incomprensioni, qui e nel seguito
della sequenza, è reso tramite una combinazione di psiconarrazione («Le parve di vedere
ogni cosa di lui» [152]; «Grace lo trovò insopportabile» [152]; «Grace non sapeva spie-
gare neache del tutto a se stessa in che senso non fosse invidia quella che provava» [152];
«Maury stimò profondamente il suo parere sul film» [153]) e monologo narrato («Perciò
una ragazza doveva essere messa proprio male per accettare una vergogna simile» [152]),
per i pensieri e le percezioni dei personaggi, e di discorso diretto legato («Disse: – Cos’è
questa, una scommessa?» [152]), discorso indiretto libero («Gli uomini – la gente, tutti –
si aspettavano che fossero così» [153]) e discorso narrativizzato («Inveiva furente su tutto
questo» [153]), per le loro parole. Tale combinazione consente di rendere congiuntamente
i pensieri espressi e quelli inespressi dei personaggi, ciò che essi comprendono e ciò che
fraintendono e infine ciò di cui sono consapevoli e ciò di cui non lo sono. Ciò si vede
anche nella sensazione di Grace di avere immediatamente conseguito una comprensione
totale di Maury: «Grace dovette alzare gli occhi e guardarlo. Le parve di vedere ogni cosa
di lui, in quell’istante; l’intera persona di Maury. Spaventato, impulsivo, ingenuo, deter-
minato» (152) («[…] It seemed to her that she saw the whole of him in that moment, the
true Maury. Scared, fierce, innocent, determined» [163]) (e qualcosa di simile – la stessa
sensazione, da parte di Grace, di avere visto in un uomo in profondità – avverrà anche
con Neil, verso la fine del racconto). Consapevolezza e inconsapevolezza, comprensione
e fraintendimento si mescolano.
Maury comunque porta Grace al cinema a vedere Il padre della sposa ed è inizialmente
sconcertato dalla reazione rabbiosa di lei. In un passo che, come abbiamo detto, unisce
forme diverse di rappresentazione del discorso e dell’interiorità, apprendiamo che Grace
non prova tanto invidia per chi ha ciò che lei non può avere, quanto rabbia per il fatto che
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si dia per scontato che lei lo desideri e che le donne, in generale, non desiderino altro. In
un certo senso, sta già rifiutando ciò che Mr. Travers ha offerto a Mrs. Travers e che
Maury certamente vorrebbe offrire a lei. Maury però non sembra rendersi conto di che
cosa implichi questo rifiuto: inizialmente sembra condividere certi luoghi comuni («lo
credette anche Maury, per l’appunto» [153]), poi rivede la propria interpretazione della
reazione di Grace ed è ancora più affascinato da lei, che dichiara essere «speciale» (153)
– cosa che peraltro conferma il luogo comune: non è che le ragazze, per «la maggior
parte» (153), non siano come si pensa, è che lei è eccezionale –; complessivamente, però,
non coglie fino in fondo le implicazioni del suo rifiuto del modello di Kay Dunstan (non
coglie, cioè, che sta già rifiutando la vita matrimoniale che lui le offrirà). D’altra parte,
nemmeno Grace è del tutto lucida. Non riesce a chiarire fino in fondo le ragioni della sua
reazione: «Non riuscì a chiarire bene quale fosse, il punto» (1), dice il narratore, e «Grace
non sapeva spiegare neanche del tutto a se stessa in che senso non fosse invidia quella
che provava, bensì furia» (152-153).
L’ultimo passo suscita una domanda: è un narratore onnisciente, a dire che «Grace non
sapeva spiegare…», o è ancora una narrazione figurale in cui però la prospettiva diventa
localmente, e con effettiva parallessi, quella della Grace adulta, di molti anni dopo? Per
questa seconda ipotesi depone ciò che leggiamo dopo sull’accento di Grace: «che Grace
fosse povera [Maury] doveva averlo capito non solo dal lavoro che faceva, ma anche dal
forte accento dell’Ottawa Valley, del quale lei era ancora inconsapevole» (153). Questo
passo mostra che la narrazione non è onnisciente («doveva averlo capito» [153]: è una
congettura – e il testo originale, che dice «he would have known» [164], offre la stessa
indicazione) e suggerisce che la maggiore consapevolezza che vi si coglie sia dovuta a un
tempo trascorso: «del quale lei era ancora inconsapevole» (sarebbe quindi un caso di
psiconarrazione dissonante). E possiamo anche notare che il linguaggio, in modi che ri-
chiamano Bachtin, appare spesso, nel racconto, come sintomo di appartenenza di classe,
livello di istruzione e sensibilità: qui è l’accento di Grace, prima erano «il ruvido francese
e l’inglese stentato» (151) del padrone di casa di Mrs. Travers, che lei sapeva imitare
abilmente, dopo saranno la conversazione e ancora il lessico e la creatività verbale dimo-
strati nel gioco. Subito dopo, inoltre, emerge in modo manifesto la prospettiva ulteriore
di Grace – «Grace ricordò per sempre che cosa aveva addosso quella sera» (153) –, a
partire dalla quale si rileva la sua incoerenza: «C’era un’evidente incoerenza, in effetti,
tra il modo in cui si presentava e quello in cui voleva essere giudicata» (153). Infine, la
limitata lucidità di Grace si mostra anche nella poca attenzione che lei sembra riservare a
Maury, concentrata com’è su se stessa: un altro elemento che tornerà nel seguito, quando
Grace se ne andrà con Neil.
Il breve passo isolato che segue il racconto di questa prima serata sancisce l’asimmetria
dei sentimenti di Grace e Maury: Grace «si innamorò di Mrs. Travers, più o meno quanto
Maury si era innamorato di lei» (154; il fatto che le parole di Mrs. Travers siano riferite
in discorso diretto legato, laddove il discorso di Maury è narrativizzato, è un’anticipa-
zione della maggiore attenzione che Grace riserverà alla madre rispetto al fidanzato?).
L’incontro tra Grace e Maury comincia così a profilarsi come possibile complicazione, o
come esposto a complicazioni: i due personaggi si rivelano infatti mossi da intenzioni, o
motivazioni, o sentimenti divergenti, al di là o anzi nella relazione che stabiliscono, e ciò
prefigura la possibilità di tensioni e conflitti.
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L’osservazione successiva, intanto, che però non fosse nella natura di Grace mostrarsi
«imbambolata e adorante» (154) – caratterizzazione negativa, potremmo dire –, apre alla
sequenza successiva, in cui si risale, in analessi, al passato di Grace. In poche righe, ci
viene presentata la sua situazione familiare, dalla nascita al momento della partenza per
Bailey’s Falls, attraverso la perdita dei genitori. Apprendiamo che per gli zii – di cui ci
viene detto che non erano inclini alla conversazione: «they were not given to conversa-
tion» (165) («non si perdevano di certo in chiacchiere» [154]) – dovrebbe trattarsi di
un’esperienza temporanea, dopo la quale Grace sarebbe dovuta tornare nel solco già trac-
ciato per lei: «erano entrambi convinti che le facesse bene assaggiare la vita, prima di
sistemarsi» (154). E lo stesso pensa il preside che le trova l’impiego come cameriera:
anche lui parla di «assaggiare la vita» (155) («a taste of life» [167]), espressione che
Grace, evidentemente, non lascia passare. Il preside le propone l’impiego dopo averle
chiesto perché abbia sostenuto tutti quegli esami, in una conversazione riferita in discorso
indiretto legato, discorso indiretto libero e discorso diretto legato (o quasi legato: è un
caso ambiguo):

Ma il preside l’aveva convocata dicendole che tutto ciò non la portava da nessuna parte
perché non aveva i mezzi necessari per iscriversi al college, e comunque nessun corso uni-
versitario avrebbe richiesto un simile en plein. Perché lo faceva? Aveva in mente qualcosa?
No, rispose Grace, voleva solo imparare tutto quello che lo Stato offriva gratis. Prima di
darsi alla carriera di impagliatore di sedie. (155)

La particolarità di Grace è diffusamente rilevata, per lo più nella forma della perples-
sità o della disapprovazione accondiscendente. I desideri di Grace sono percepiti come
una rottura della normalità – ed effettivamente la porteranno a rompere le norme morali
della società –, che il preside e gli zii cercano di sanare concedendo la possibilità di una
rottura temporanea, nella speranza che quindi Grace torni alla normalità. Ma il racconto
smentisce subito questa speranza: mentre tutti dicono che Grace deve essere proprio
matta, infatti, Mrs. Travers comprende le ragioni di Grace perché anche lei ha vissuto una
situazione simile alla sua (non è la sola analogia che dovremo riscontrare tra Grace e Mrs.
Travers) e «ora invece – così sosteneva – avrebbe dato qualunque cosa per essersi farcita
la testa esclusivamente, o prima di tutto, di nozioni inutili» (155). Così dice «staremo a
vedere» (155), perché, sebbene comprenda anche le ragioni degli zii di Grace e del pre-
side, vuole lasciare una porta aperta, ma subito il testo prosegue – si noti la modalità come
di argomentazione e controargomentazione secondo cui esso si svolge: vediamo, bachti-
nianamente, il confronto delle diverse idee sulla questione del guadagnarsi da vivere e
sulla parte che dovrebbe toccare a Grace in quanto donna di una certa classe sociale –, in
monologo narrato: «Vedere cosa? Grace non aveva affatto voglia di guardare avanti. Vo-
leva che la vita continuasse proprio come adesso» (155).
E infatti la vita procede, con Grace che sottrae tempo a Maury per dedicarlo alla sua
famiglia e che in queste ore passate con la famiglia di lui vive un tempo che si incide più
profondamente nella sua memoria delle ore trascorse con lui in macchina (155). Nei modi
dell’iterativo, apprendiamo di alcune abitudini dei Travers e di quelli che potremmo de-
finire i costumi della famiglia in quanto famiglia di una certa classe sociale. La descri-
zione di questi costumi, infatti, è seguita da un confronto con quelli, assai diversi, della
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famiglia di Grace. Ciò suggerisce che la rappresentazione di questi costumi sia mediata
ancora dalla percezione, ovvero dalla prospettiva, di Grace, che infatti è nominata in un
a parte, tra parentesi, che attacca in prolessi: «Grace è un’abile conversatrice da tanti di
quegli anni ormai che le riesce difficile ricordare l’enorme novità di quei discorsi, al
tempo» (157). Così apprendiamo che Grace, al momento del ritorno a Little Sabot Lake
e della narrazione, ha acquisito da tempo i costumi della classe sociale dei Travers: obli-
quamente, cioè, e per le implicazioni sociologiche dell’uso linguistico di cui dicevamo,
apprendiamo che il suo allontanamento dall’ambiente sociale della sua famiglia sarà de-
finitivo; che non tornerà indietro come invece si aspettavano gli zii e il preside e che anzi
verrà un tempo in cui sarà molto al di là delle impressioni e dei desideri che aveva provato
allora per quel diverso ambiente sociale. La versione originale del passo, infatti, com-
prende una precisazione che nella traduzione si è persa (forse per una banale svista):
«Grace has been an engaging talker for so long now that she sometimes gets sick of her-
self, and it’s hard for her to remember how novel these dinner conversations once seemed
to her» (168; corsivo mio). È una precisazione che conferma un tratto del personaggio
– la sua tensione, o la sua insoddisfazione, che la porterà anche oltre ciò che avrà conqui-
stato da quel tempo – e che si riconnette alla resistenza iniziale a confrontarsi con il pas-
sato e i propri debiti morali – cose con cui ora, forse, comincia a non sentire più lo stesso
legame, o cose che non sente più come del tutto sue, mentre contraddittoriamente sente
di doverle affrontare.
Il linguaggio appare come luogo di promozione sociale anche nel seguito del racconto,
dove apprendiamo che Grace si inserisce subito perfettamente nei giochi con le parole
della famiglia Travers, cosa per cui Maury manifesta il suo entusiasmo («She’s smart»
[169]: una signature word di Alice Munro, si potrebbe dire), con commenti che infastidi-
scono proprio lei, e che invece non riesce all’altra donna entrata in famiglia come sposa
di uno dei figli di Mrs. Travers: Mavis, la moglie di Neil, che dirà polemicamente di non
essere all’altezza degli altri con un’espressione, nel testo originale, che rimanda alla di-
mensione anche sociale del confronto: «I guess I’m just outclassed by you people» (170).
Prima, però, Mavis viene presentata come «una donna sottile e abbronzata, in abito viola,
con i capelli scuri raccolti da un’alta fascia dello stesso colore. Bella, ma con piccole
pieghe di noia e disapprovazione che le appesantivano gli angoli della bocca. Lasciò quasi
tutto nel piatto, spiegando di essere allergica al curry» (158). In questa descrizione pos-
siamo notare innanzitutto il dettaglio cromatico del viola, che tornerà nella carrozzeria
dell’automobile di Neil e che rimanda al vino e forse ai paramenti funebri, e poi il tratto
della noia e della disapprovazione: a che cosa sono dovute? Nella chiusa della descrizione
si fa riferimento al curry, ma è chiaro che non è quello il motivo dell’atteggiamento di
Mavis: la sua noia e la sua disapprovazione non sono solo contingenti; e nemmeno sembra
che il motivo sia la maternità, dei cui disagi Mavis stessa si lamenta poco dopo, o le
fatiche dell’educazione, come cerca di suggerire Mrs. Travers («– Be’, insomma. Non ha
vita facile, – disse Mrs Travers. – Con due bambini piccoli» [159]), forse per rassicurarsi.
Il battibecco sul gioco, invece, suggerisce che il motivo sia Neil, onde il risentimento di
Mavis verso la famiglia di lui, e il seguito del racconto lo confermerà. Il primo riferimento
a Mavis, d’altra parte, diceva così (conviene leggere ancora l’originale): «The only time
there was a problem of anyone’s being unhappy with a game was when Mavis, who was

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married to Mrs. Travers’s son Neil, came to dinner» (159). Scontenta, o infelice (un-
happy), e sposata a Neil: ecco le prime cose che vengono dette, insieme, di Mavis.
Il tema dell’infelicità matrimoniale, con quello della passione che dà il titolo al rac-
conto, torna esplicitamente anche nella sequenza successiva, dove si racconta di come
Grace cominci a passare del tempo a casa dei Travers da sola o con Mrs. Travers, leg-
gendo (Maury, notiamo di passaggio, è fuori a lavorare sulla statale 7, quella che Grace
percorre all’inizio, o quarant’anni dopo, scoprendo che è cambiata). Per esemplificare il
modo di parlare di letteratura di Mrs. Travers, infatti, il narratore ci propone ciò che Mrs.
Travers dice di Anna Karenina, racconto di infelicità coniugale e di suicidio: che prima
si identificava con Kitty, poi con Anna e infine con Dolly. E poi: «immagino che sia solo
uno spostamento di simpatie dovuto agli anni. La passione perde terreno e scivola dietro
al problema delle vasche» (160) («Passion gets pushed behind the washtubs» [172]). Sarà
questa la condizione di Grace, quando tornerà su questi luoghi, quarant’anni dopo? E si
ricorderà di questo avviso di Mrs. Travers? Certamente, ora non sembra prestare troppa
attenzione: Mrs. Travers, che a posteriori avrà parlato da oracolo, in questo passo, depo-
tenzia la propria premonizione dicendo «Ma tu non devi fare caso a me. Lo sai, no?». E
Grace risponde di non essere sicura «di fare molto caso a nessuno», stupendosi di se
stessa, chiedendosi se non sia sembrata «presuntuosa e immatura» e aggiungendo infine
che però le piace ascoltare Mrs. Travers. Infine Mrs. Travers le dà una risposta – «Anch’io
mi ascolto volentieri» (160) – che riconferma l’affinità delle due donne e suggerisce che
per Grace, in qualche modo, possa ripetersi la vicenda vissuta da Mrs. Travers, nonostante
il monito, inascoltato, della stessa Mrs. Travers.
Subito dopo, apprendiamo che Maury comincia a parlare di matrimonio (la progres-
sione del racconto, in questo caso, è chiaramente improntata all’elaborazione del tema
del matrimonio). Questi discorsi di Maury sono riferiti in un misto di discorso indiretto
libero («Una volta sposati, avrebbero avuto casa su Little Sabot Lake» [160]), discorso
narrativizzato («Maury continuava a chiederle che cosa avesse raccontato di lui agli zii»
[160]) e forme ibride, che si situano fra il discorso narrativizzato, il discorso indiretto
legato e il discorso diretto legato («Quando saremo sposati, diceva, e anziché fare do-
mande o contraddirlo, lei lo ascoltava incuriosita» [160]). A emergere, più che i discorsi
di Maury, è la percezione di Grace di quei discorsi. Non per caso le espressioni e il modo
di parlare di Maury sono a tratti tematizzati per la perplessità più o meno scettica con cui
Grace li accoglie: «Maury ne parlava come di un evento che anche Grace dovesse dare
per scontato. […] A Grace piaceva tanto l’idea di quei viaggi, assai più di ciò che, con
severo orgoglio, lui definiva casa nostra. […] Perfino il suo uso disinvolto di quel con-
cetto – casa tua – sembrava a Grace un po’ fuori registro, anche se lei stessa doveva
averlo utilizzato» (160-161). Grace, in realtà, non ha nessuna intenzione di sposare
Maury. Semmai, vorrebbe fare sesso con lui, ma qui è lui a non seguirla. In psiconarra-
zione, apprendiamo delle fantasticherie di lei sul corteggiamento e sul sesso: «Grace pen-
sava che un giorno sarebbe successo, e proprio così […]. […] [E]ra convinta che tanta
disponibilità da parte sua dovesse condurre ai piaceri che aveva conosciuto, in solitudine
e con la fantasia» (161). Forse Grace comprende Maury più di quanto lui non comprenda
lei, ma nemmeno lei sembra davvero lucida: «Lei stessa non capiva quanto risultasse
fredda» (161; di nuovo la psiconarrazione è usata per rendere ciò di cui il personaggio
non ha chiara coscienza). Maury comunque non riesce a modificare la propria idea di
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Grace, o così pensa lei quando si dice che anche lui deve provare un certo sollievo, tor-
nando a casa da solo, la sera: «E riteneva dovesse sentirsi sollevato anche Maury, solo al
volante della sua automobile sulla statale, intento a risistemare il mosaico delle impres-
sioni sulla sua Grace allo scopo di poterne essere di nuovo incondizionatamente innamo-
rato» (161). Grace gli imputa di volersi ingannare, idealizzandola, e comunque l’intimità
erotica, tra loro, è un continuo fallimento. Il tema della passione, ancora una volta, torna
in forma negativa: «Quei lunghi assedi lasciavano entrambi turbati e in preda a un misto
di vaga collera e vergogna, così che non riuscivano più a smettere di baciarsi, di avvin-
ghiarsi, di scambiarsi parole appassionate, di rassicurarsi a vicenda mentre si davano la
buona notte» (161). Sempre più manifestamente, la relazione tra Grace e Maury soffre di
un’assenza di corrispondenza, o di affinità.
Nondimeno, entrambi sembrano persistere nel progetto di matrimonio. Grace «[n]e
parlava, gli faceva promesse, senza alcuna fatica. Ma ci credeva, sperava, addirittura, che
accadesse?» (162). In forma di monologo narrato, ci vengono rappresentate le perplessità
di Grace, che si chiede se davvero sposare Maury sia ciò che desidera. L’impressione che
ne deriva è che Grace resti a Bailey’s Falls soprattutto per non tornare a casa dagli zii
(l’assaggio della vita non è più un assaggio, evidentemente, ma un’altra vita: quella dalla
quale tornerà su questi luoghi). E di seguito, ancora una volta, troviamo un passaggio di
discorso diretto legato in cui Mrs. Travers confronta Maury con Neil e, pur riconoscendo
che Maury è un ragazzo in gamba, manifesta la sua predilezione per Neil, che definisce
«profondo». Cita quindi un verso dell’Elegy Written in a Country Churchyard (1750) di
Thomas Gray, ma sostituendo «dark» con «deep» e modificando la flessione dell’agget-
tivo successivo: «The dark unfathom’d caves of ocean bear» (v. 53) diventa «deep unfa-
thomable caves of ocean bear». Il verso precedente della poesia è «Full many a gem of
purest ray serene» (v. 54). Così Mrs. Travers, con una nuova citazione letteraria e nuova-
mente depotenziando le proprie parole – «ma che sto dicendo» (162) («what am I talking
about» [174]) – in un modo che sembra sollecitare un’interrogazione tematica –, sembra
suggerire a Grace di guardare a Neil, più che a Maury, e insieme introduce l’immagine di
acque buie che tornerà nella metafora della passione concepita dalla stessa Grace, come
vedremo, ed evoca il tema della morte, che è il tema fondamentale dell’Elegy di Gray. La
conclusione del suo discorso, d’altra parte, è esplicita: «Neil mi preoccupa un po’, Maury
molto meno. E Gretchen per niente. Perché una donna riesce comunque a trovare qualcosa
per tirare avanti [to keep them going], giusto? Un uomo no, invece» (162-163). Neil non
ci riuscirà, infatti; Grace, sì.
La stessa Mrs. Travers, d’altra parte, non sembra tirare avanti troppo bene. Nella se-
quenza successiva, infatti, apprendiamo che improvvisamente è tornata a Ottawa con il
marito perché aveva bisogno di cure psichiatriche. Grace, sconcertata – e lo sconcerto
rivela ancora la sua limitata lucidità –, interroga Maury, che minimizza e dice che forse
c’entra il primo marito, morto suicida, o forse sono «[g]rane femminili dell’età» (163)
(ma l’originale non è così brutale: «Problems women have around her age» [176]). Per
Maury, il problema è un problema medico, forse fisiologico, e non qualcosa da compren-
dere. I medici, o i farmaci, la rimetteranno in sesto.
Il giorno del Ringraziamento, effettivamente, Mrs. Travers sembra avere ritrovato la
salute e tutta la famiglia, Grace compresa, si riunisce per il pranzo della domenica. Subito
però si capisce che Mrs. Travers non è del tutto in sé: scompiglia il puzzle di Dana, non
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segue facilmente la conversazione ed esibisce un «cambiamento fisico» per il quale


Grace, quando se ne accorge, si sente «avvilita» (168). Anche l’accoglienza calorosa che
riserva a Grace sembra un po’ stonata, o sintomatica di qualcosa. Ma la complicazione
arriva quando Grace porta le bambine sull’altalena, si rompe un laccio dei sandali (sandali
economici, forse) e finisce per andare in altalena a sua volta senza sandali, con il risultato
di ferirsi un piede con una conchiglia lasciata per terra da Dana. Proprio in quel momento
arriva Neil, su una «decappottabile color vino» (166) che manovra silenziosamente nel
parcheggio. L’arrivo di Neil sembra provvidenziale, o fortunato – «al momento giusto»
(166), dice Mrs. Travers –, e ciò che accade sembra banale – un piccolo incidente curato
dal dottore casualmente presente –, ma l’arrivo di Neil è propriamente fatale e l’incidente,
per quanto banale, prepara l’esito tragico della vicenda. Da questo momento, fra l’altro,
il tempo narrativo cambia drasticamente: mentre nelle sezioni precedenti la narrazione
usava diffusamente l’iterativo, il sommario e l’ellissi, dopo l’incidente, e fino al rientro
di Grace a Bailey’s Falls, le ellissi e l’iterativo recedono e la scena – tempo drammatico
– predomina.
Soffermiamoci però sull’arrivo di Neil. Innanzitutto, la sua automobile è del colore del
vino e subito dopo si dice che Grace gli riconosce addosso l’odore di alcol e menta. Evi-
dentemente, Neil non si è trattenuto per fare delle telefonate, come era stato detto, ma ha
tardato per andare a bere. Tutti lo rappresentano come dottore, in altre parole, ma Neil,
sebbene curi Grace egregiamente, appare subito anche come alcolista. Questa sua condi-
zione resta però taciuta, sebbene Grace la individui prontamente e Mavis ne sia ovvia-
mente consapevole. Quando Gretchen commenta l’automobile nuova di Neil, anzi, e Neil
parla di «[u]na pazzia» (166), il bambino si sveglia e lei si allontana «con un sospiro di
generica condanna» (166) («folly» e «accusation», nell’originale [179]): pazzia e con-
danna sono elementi caratteristici della tragedia. Quando Grace e Neil si allontanano,
inoltre, Mrs. Travers le dice esplicitamente di «tenerlo lontano dal bere» (168). Ci sono
quindi una normalità apparente e una condizione tragica, o potenzialmente tragica, che
sta subito dietro, in ombra, e che però Grace percepisce. Guardando Neil per la prima
volta, tra l’altro, Grace percepisce «impazienza, o appetito, o dolore» (168). Ciò però non
sembra metterla davvero in guardia: quando Mrs. Travers la prega di tenere Neil lontano
dall’alcol, infatti, Grace ancora una volta non presta attenzione a quella che a posteriori
sembrerà una profezia, l’ennesimo monito forse inconsapevole, depotenziato e certo ina-
scoltato di Mrs. Travers: «Grace udì le parole ma quasi non vi fece caso» (168) («Grace
heard these words, but gave them hardly any thought» [181]). D’altra parte, la stessa
Grace aveva ammesso di non prestare attenzione a nessuno. Ora però questa sua tendenza
richiama la fatale incapacità dell’eroe tragico per eccellenza, Edipo, di comprendere gli
oracoli che lo avvisano del suo destino. E si noti che Edipo significa dai piedi gonfi e che
Grace si è ferita a un piede; che Grace significa grace, appunto, grazia, che Mrs. Travers
le dice «sei un angelo mandato dal cielo» (168) («you are a godsend» [181]) e che siamo
nel Thanksgiving, che in francese – e il Canada è anche un paese francofono – si chiama
Action de grâce; e che infine il nome Neil può essere letto anche come nihil, la parola
latina per nulla. La sequenza non può essere compresa solo come momento di composi-
zione dell’azione, quindi, e deve essere anche riconosciuta come momento della configu-
razione del racconto, per l’aura di fatalità che evoca tacitamente (ed è importante che lo

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faccia tacitamente, perché le premonizioni, nella tragedia, restano inascoltate, o quanto


meno non valgono a scongiurare il compiersi del destino).
Non per caso, sentendo che l’automobile quasi vola per la velocità, sulla strada per
l’ospedale, Grace pensa che, «comunque, non poteva farci nulla» (169). E dopo, quando
Maury arriva all’ospedale per riprenderla e Neil fa in modo che non li trovi e le dice «Tu
non avevi ancora voglia di tornare a casa, giusto?» (169), lei risponde di no «come se
leggesse la risposta sul muro davanti a sé» (169): come se la risposta non fosse sua, cioè,
ma subìta o ricevuta e accettata inevitabilmente. Ormai è chiaro che il corso degli eventi
è irreversibile e che ci saranno delle conseguenze. Ciò che dice Neil dell’antitetanica
sembra ancora un altro avviso (tra parentesi, come è caratteristico di Munro e di questo
racconto in particolare): «Non ti farà niente, adesso, ma potrebbe darti un po’ di fastidio
[hurt] più tardi» (169). E comunque, all’uscita dall’ospedale e risalendo in automobile,
Grace sa che quella è la svolta:

Sapeva che non avrebbero incontrato Maury. A lui, non occorreva pensare. E ancor meno
a Mavis.
Descrivendo in seguito quel passaggio, quel cambiamento nella sua vita, Grace avrebbe
potuto dire – anzi, così in effetti diceva – che le era parso di sentirsi chiudere rumorosa-
mente un cancello alle spalle. Ma allora non percepì alcun clangore, solo un’onda lieve di
acquiescenza che le percorreva le vene, cancellando con dolcezza i diritti di chi era rimasto
indietro.
Il ricordo di quel giorno rimase nitido e preciso, anche se di volta in volta mutavano i
dettagli su cui si soffermava.
E su alcuni di essi molto probabilmente si sbagliava. (169-170)

Torniamo così sulla statale 7, quella a cui Maury aveva lavorato e che percorreva da
solo, la sera, dopo l’imbarazzo e le incomprensioni dei suoi incontri con Grace. Ora la
«fuga» sembra a Grace «perfetta, non frenetica ma miracolosa, serena» (170), se non
forse per il ricordo vagamente inquietante dell’ultimo messaggio di Mrs. Travers, ricor-
dato in forma di monologo interiore di Grace e di cui ora appare tutta l’oracolare ambi-
valenza: «Tu saprai come fare» (170). Grace si lascia trasportare dal desiderio che le
attraversa la carne come «un flusso» e nelle sue memorie, leggiamo, ciò che accade sarà
«a stento separabile dalla sua idea, dalle sue fantasie di allora riguardo a come dovesse
essere il sesso» (170). Grace si abbandona «come una prigioniera» (170) a ciò che aveva
atteso, o al corso di eventi che scambia per ciò che aveva atteso. Neil la porta in un bar –
dove Maury si era sempre rifiutato di portarla – e beve un bicchiere di whisky. Poi ripar-
tono, lasciando la statale 7, e le cose cominciano a prendere una piega inattesa.
Neil manda segnali ambivalenti, o manifestamente incoerenti. Le dice che ha bisogno
della sua compagnia, le lecca una mano e gliela lascia cadere e poi la rassicura dicendole
che è «al sicuro come all’oratorio» (172), diversamente da come sarebbe stato in passato.
Grace invece è tormentata dal desiderio: risponde che «[n]on sempre si è al sicuro all’ora-
torio» (172), che non è la cognata di Neil e che non lo sarà. Sulle intenzioni e sui senti-
menti di Neil non apprendiamo niente di certo, perché il narratore non ce li rappresenta,
ma di Grace, in psiconarrazione, ci viene detto che la voce di lui e la sua lingua sulla pelle
«esercitarono […] un tale effetto che, pur udendo le parole, non capì il senso di quello

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che le stava dicendo. Sentiva cento, mille lingue guizzarle sulla pelle in una danza di
supplica» (172). Ma Neil cambia di nuovo voce, si mette in cerca di un posto e decide di
insegnarle a guidare. Alla fine della lezione di guida, quando lei cerca ancora di mostrarsi
sicura e, «pur tremando come una foglia», gli dice di sentirsi bene (174), lui si limita ad
accarezzarle il braccio tra la spalla e il gomito. Quando poi Neil riprende il volante e
ritrova la strada, comprendiamo che aveva altri pensieri: dice che la lezione di guida lo
ha «calmato» (175) e Grace ne è sorpresa. A occuparlo, evidentemente, era il bisogno di
alcol, non il desiderio di lei. Ne avremo la conferma al ritorno, quando lui sembrerà avere
superato un momento di malessere e le prenderà la mano con un gesto «amichevole»
(178). Ora, però, raggiunto il posto che cercava, lascia Grace in automobile ed entra.
Sola in automobile, Grace si chiede che cosa stia facendo Neil e si annoia. Si mette a
contare i mattoni e finisce per dirsi non «M’ama, non m’ama», pensando che sarebbe
«sguaiataggine» (176) («not with any words so blatant as He loves me, he loves me not»
[189]), ma «Fortuna. Sfortuna. Fortuna. Sfortuna» (176) («Lucky. Not. Lucky. Not»
[189]): comincia a capire che non sarà romanzo rosa, ma tragedia? Certamente capisce
che Neil deve essere andato da un contrabbandiere e pensa a un altro contrabbandiere che
abita vicino a casa sua, aggiungendo una riflessione che ci viene rappresentata in forma
di monologo narrato:

Non che avesse mai messo piede in casa di un contrabbandiere, ma dove abitava lei erano
ben sottili le pareti divisorie tra i logori stili di vita considerati rispettabili e quelli che non
lo erano. Grace [she] sapeva come stavano le cose.
Che strano aver pensato di sposare Maury. Sarebbe stato una specie di tradimento. Di se
stessa. Non lo era invece viaggiare con Neil, perché anche lui sapeva come stavano le cose,
almeno alcune. E lei, di momento in momento, lo conosceva di più. (176)

Poi Grace scivola nel sonno e sogna lo zio, sentendo di essersene andata e che il legame
è interrotto per sempre, e si sveglia quando Neil è tornato e sono già ripartiti. Neil ha
bevuto e sta meglio. Le chiede di raccontargli di lei e lei comincia, ma poi gli dice che a
interessarle è lui. Lui sfila la mano. Lei insiste e cerca di fare colpo e così finiscono per
parlare del suo alcolismo:

– Ti riferisci al bere? Perché bevo? – Intanto svitava il tappo di nuovo. – Perché non me lo
chiedi?
– Perché so già che cosa diresti.
– E cioè? Che cosa direi?
– Diresti, che altro c’è da fare? O qualcosa di simile.
– È vero, – ribatté lui. – Direi più o meno così. Be’, e a quel punto tu cercheresti di spie-
garmi perché sbaglio.
– No, – disse Grace. – No. Non lo farei.
Dopo aver pronunciato quel no, sentì freddo. Aveva creduto di parlare sul serio, ma ora
capiva che stava solo cercando di fare colpo con quelle risposte, di mostrarsi vissuta quanto
lo era lui, ma che di punto in bianco si era imbattuta in quella verità fondamentale. Quel
vuoto di speranza: sincero, logico, irrevocabile [This lack of hope—genuine, reasonable,
and everlasting].
Neil disse: – Non lo faresti? No. Hai ragione. Che sollievo. Sei un sollievo, Grace. (178)

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Le ultime parole di Neil richiamano quelle di Mrs. Travers, ma a posteriori è difficile


non chiedersi se Grace non avrebbe potuto provare a trattenerlo – un esercizio con il
controfattuale: abbiamo detto che i personaggi letterari si prestano anche a questo – e
invece lo abbia lasciato andare verso il suicidio mostrando di pensare anche lei che non
ci fosse alcuna speranza. Ma quel «vuoto di speranza» era di lui, qualcosa in cui lei si era
semplicemente, inconsapevolmente, «imbattuta». Le loro sorti dovranno dividersi.
La sorte infatti riappare nel nome del centro abitato – Fortune – presso il quale si fer-
mano perché Neil possa dormire un momento. Lei scende dall’automobile, mentre lui
dorme, e si siede sull’altalena. Lì accanto, un cartello che vieta atti osceni e turpiloquio
ricorda le norme che hanno violato. Grace si abbandona nuovamente alla proprie rifles-
sioni, ancora riferite in monologo narrato:

Aveva pensato che fosse questione di tatto. Labbra, lingue, pelle, corpi, ossa che premono
contro altre ossa. Un incendio. Passione. Ma non era questo che era toccato a lei e a Neil.
A confronto di ciò che sapeva di lui, delle profondità in cui aveva guardato [how far she’d
seen into him], quello sarebbe stato un gioco puerile.
Ciò che aveva visto era definitivo. Come se si trovasse al margine di uno sconfinato spec-
chio d’acqua buia. Di fredda acqua ferma [Cold, level water]. E come se non ci fosse altro
al mondo che quell’acqua fredda, ferma e buia [dark, cold, level water].
Non era l’alcol il responsabile. Quell’unica cosa stava in attesa, a dispetto di tutto, senza
soluzione di continuità. Bere, aver bisogno di bere, era solo una specie di distrazione, come
tutto il resto. (179)

Grace pensa di comprendere la tragedia di Neil e che questa comprensione, non la pas-
sione erotica che si era immaginata, sia ciò che condivideranno. Le fantasie di fuoco e
carne cedono alla visione di acque fredde, ferme e buie. Questa sarà la passione che
avranno conosciuto insieme.
Avendo preso coscienza di ciò, Grace scende dall’altalena: se la discesa dalla prima
altalena, nel giardino dei Travers, aveva innescato la sequenza della fuga, questa seconda
sembra sancirne la conclusione, configurandola come un passaggio identitario che ha rag-
giunto il proprio compimento. Grace cerca di svegliare Neil e non ci riesce. Allora si dice
che intorno a loro esiste ancora un mondo, dopotutto – quel mondo che durante la fuga le
sembrava scomparire alle loro spalle –, e che deve rientrare a Bailey’s Falls. Si rimette al
volante e arriva fino alla fine del viaggio. Nei momenti di difficoltà pensa di non potere
fare altro che «andare avanti, come le aveva insegnato lui. Va’ avanti» (180). L’espres-
sione («keep going» [194]) ripete le parole usate da Neil quando le insegnava a guidare
(«Avanti, va’ avanti» [174]; «Keep going, keep going» [187]), ma richiama anche ciò che
aveva detto Mrs. Travers, sul fatto che le donne trovino qualcosa per andare avanti e gli
uomini no. Ecco che Grace riesce a tirare avanti, mentre lui consapevolmente resta indie-
tro, dopo averle detto di andare sempre avanti. Grace ha accettato che le loro sorti si
dividano.
All’arrivo, però, quando si salutano, i sentimenti di Grace verso Neil, o forse i segnali
di Neil, sono ancora contraddittori. A distanza di tempo, i ricordi di Grace continueranno
a essere incerti. Al momento, lui le sembra «esigente e cedevole al tempo stesso», come

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se volesse dirle che non dovrebbe rinunciare a lui e insieme che ha ragione a farlo, «per-
ché lui voleva solo apporre il proprio marchio su di lei e sparire» (181). Ma non è ciò che
ha fatto, o che sta per fare?
Nella sequenza successiva, infatti, apprendiamo con Grace del suicidio di Neil: evento
tragico, che avviene ‘fuori scena’ – a raccontarlo, la mattina seguente, sono due perso-
naggi minori – ed esito insieme sorprendente e necessario, come deve essere il finale di
una tragedia, per lo spettatore, secondo Aristotele (nella Poetica). Grace ne è scossa –
«Adesso il braccio le faceva male come se avesse avuto un brutto livido. Non riusciva a
tenere il vassoio in equilibrio e doveva portarlo davanti a sé con tutte e due le mani» (182)
–, ma nasconde il proprio turbamento. Quanto a Maury, le scrive perché vorrebbe sentirle
dire che Neil l’aveva costretta contro la sua volontà (vorrebbe ancora poter rifiutare ciò
che Grace è davvero per continuare a idealizzarla e ad amarla), ma lei gli risponde di
essere andata perché lo voleva. Non scrive Mi dispiace.
Perché la vicenda sia davvero conclusa, però, non bastano le poche parole che lei e
Maury si scambiano. Mr. Travers, infatti, la raggiunge per «rimettere le cose a posto»
(182). Ora Mr. Travers è nel proprio ruolo e interpreta l’accaduto a modo suo: la causa di
tutto, tremenda, è l’alcolismo – ma Grace aveva già riflettuto sul fatto che invece non
fosse l’alcol «il responsabile» – e lui porterà Mrs. Travers in «vacanza in un posto caldo»
(182), appena potrà. Non ci sono altre profondità da sondare o enigmi da comprendere.
C’è solo da consegnare a Grace la busta con la quale i Travers la mettono alla porta e
insieme compiono un ultimo gesto per aiutarla. La parte di Mrs. Travers è stata quanto
meno ambivalente, infatti, e l’assegno è un gesto di entrambi, come dice Mr. Travers.
Grace, che coglie innanzitutto il senso di allontanamento del gesto, anche con le sue im-
plicazioni di classe, è tentata di rifiutarlo «e certe volte le capita ancora adesso di pensare
che sarebbe stato un gesto grandioso. Ma alla fine, naturalmente, non ne fu capace. Ai
tempi, con quella cifra, si poteva avviare una vita» (182). Così il finale sancisce definiti-
vamente la separazione dei destini di Grace e di Neil e, congiuntamente, ci riporta all’ini-
zio, perché quest’ultima scena è vista infine nella prospettiva temporale di Grace adulta,
ovvero della Grace che quarant’anni dopo tornerà sui luoghi della tragedia. Dopo la con-
centrazione tragica della sequenza della fuga, dunque, la temporalità ritrova una profon-
dità più specificamente narrativa.
Complessivamente, nell’intreccio del racconto troviamo gli elementi che, secondo Jo-
nathan Franzen, caratterizzano le storie di Munro. I suoi racconti, scrive Franzen recen-
sendo In fuga (la raccolta in cui è compreso Passione),1 variano tipicamente su questa
vicenda archetipica:

una ragazza brillante, sessualmente intraprendente, cresce nell’Ontario rurale, con pochi
soldi, la madre malata o morta, il padre insegnante risposato con una seconda moglie pro-
blematica, e alla prima occasione se ne va grazie a una borsa di studio o a qualche azione
compiuta nel proprio interesse. Si sposa giovane, si trasferisce nella British Columbia, ha
dei bambini e non è senza colpe nella fine del proprio matrimonio. Può avere successo

1
La recensione di Franzen è stata usata anche come introduzione nell’edizione americana di Ru-
naway, per Vintage, e quindi ricompresa nella seconda raccolta di saggi di Franzen, Farther Away
(2012), apparsa in italiano per Einaudi come Più lontano ancora.
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come attrice, o come scrittrice, o come personalità della televisione; vive qualche avventura
romantica. Quando, inevitabilmente, ritorna in Ontario, scopre che il paesaggio della sua
giovinezza è cambiato in modo disturbante. Sebbene sia stata lei ad andarsene, è un grande
colpo per il suo narcisismo che nessuno la accolga calorosamente; che il mondo della sua
giovinezza, con i suoi modi e i suoi costumi antiquati, ora si erga a giudice delle scelte più
moderne che lei ha compiuto. Semplicemente per avere cercato di sopravvivere e di difen-
dere la propria integrità e la propria indipendenza, è incorsa in perdite e sconvolgimenti
dolorosi; e ha causato dolore.

Anche il ritorno di Grace sul luogo della tragedia, a decenni di distanza, potrebbe essere
legato al pensiero del dolore causato, o di ciò che aveva dovuto (dovuto?) fare per iniziare
la propria vita.

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3. Le figure della narrazione

3.1. Il narratore e il narratario


3.1.1. Il narratore: concetto e tipi
Abbiamo usato ripetutamente il termine narratore per fare riferimento alla figura a cui è
attribuita l’enunciazione narrativa – colui o colei che racconta –, ma non abbiamo ancora
chiarito né discusso lo statuto di questa figura. Lo faremo nelle pagine che seguono.
Cominciamo con una citazione da Marc Bloch, La società feudale (1939-40):

A una data che non possiamo precisare, forse verso l’890, una piccola nave saracena, pro-
veniente dalla Spagna, fu gettata dai venti sulla costa provenzale, agli approdi dell’attuale
borgo di Saint-Tropez. (34)

A chi dobbiamo attribuire la narrazione dello sbarco saraceno che leggiamo? La risposta
è ovvia: allo storico Marc Bloch, autore dell’opera. In questo saggio di storiografia, o
racconto di fatti storici, l’enunciazione narrativa è prodotta dall’autore.
Ora leggiamo l’esordio del primo capitolo dell’«Epoca prima – Puerizia» della Vita
(1803) di Vittorio Alfieri:

Nella città d’Asti in Piemonte, il dì 17 di gennaio dell’anno 1749, io nacqui di nobili, agiati,
ed onesti parenti. E queste tre loro qualità ho espressamente individuate, e a gran ventura
mia le ascrivo per le seguenti ragioni. Il nascere della classe dei nobili, mi giovò appunto
moltissimo per poter poi, senza la taccia d’invidioso e di vile, dispregiare la nobiltà per sé
sola, svelarne le ridicolezze, gli abusi, ed i vizi; ma nel tempo stesso mi giovò non poco la
utile e sana influenza di essa, per non contaminare poi mai in nulla la nobiltà dell’arte ch’io
professava. (9)

Possiamo ripetere la nostra domanda narratologica: chi racconta? Di nuovo, la risposta


sembra ovvia: racconta Vittorio Alfieri, autore dell’opera. Nell’autobiografia, racconto
della vita dell’autore quale si è svolta storicamente (prescindiamo, per ora, da considera-
zioni più approfondite su eventuali intenti autoapologetici, limiti dell’autocoscienza, di-
namiche della memoria, forze della scrittura o altro), la voce che narra è (per definizione,
saremmo portati a dire) quella dell’autore.
Passiamo a Taccuino siriano (2012), di Jonathan Littell:

Sono arrivato a Beirut venerdì 13 gennaio. Mani mi ha raggiunto il 14 e ha subito comin-


ciato a telefonare ai suoi contatti siriani per preparare il nostro trasferimento in Siria. Abu
Brahim, un dignitario religioso del quartiere di al-Bayada, che aveva ospitato Mani in no-
vembre, ha chiesto ai suoi contatti all’interno dell’Esercito siriano libero (Esl) di organiz-
zarci le varie tappe. (3)

Anche in questo reportage, racconto di fatti storici della contemporaneità (della guerra
civile in Siria), a raccontare è l’autore, Jonathan Littell.
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I tre testi citati sono narrazioni fattuali o referenziali e cioè narrazioni, come abbiamo
accennato altrove, che riferiscono fatti realmente accaduti e parlano di persone, luoghi e
cose storicamente esistenti o esistiti. Nelle narrazioni fattuali, la voce che racconta, se
non è quella di un testimone introdotto dall’autore, è in generale quella dell’autore.
Consideriamo ora le narrazioni finzionali, che provvisoriamente possiamo intendere
come quei testi nei quali si narri di eventi, persone, cose o luoghi immaginari. Per esem-
pio, leggiamo l’esordio di Mobili di famiglia, di Alice Munro:

Alfrida. Mio padre la chiamava Freddie. Erano cugini e avevano abitato in due fattorie
vicine, poi, per un certo periodo, nella stessa. Una volta erano fuori, in un campo di stoppie,
a giocare con il cane di mio padre, che si chiamava Mack. Il sole, quel giorno, non riusciva
a sciogliere il ghiaccio in mezzo ai solchi. Loro due lo pestavano per sentire il bel rumore
che faceva sotto i piedi. (84)

Chi racconta di questa Alfrida, di suo cugino e del suo cane Mack? A quale figura, a quale
‘voce’ dobbiamo attribuire il racconto che leggiamo? La risposta sembra ovvia, di nuovo:
a narrare è un personaggio della storia, che parla del proprio padre e di sua cugina Alfrida.
Il seguito del testo confermerà questa interpretazione: la narratrice è la protagonista (o
co-protagonista, con Alfrida) del racconto. Il caso dunque differisce dai tre precedenti
perché la narratrice è una figura finzionale, immaginaria, un personaggio letterario e non
una persona reale come Bloch, Alfieri o Littell. Rispetto a Bloch, inoltre, possiamo notare
una seconda differenza: nel racconto di Munro, come si è detto, la narratrice è un perso-
naggio della storia; nella narrazione storiografica di Bloch, Bloch non ha alcuna parte
negli eventi del Medioevo che, da storico, riferisce.
Di fronte a una narrazione finzionale, tuttavia, non è sempre possibile rispondere alla
domanda «chi racconta?» affermando che a raccontare è un personaggio. Riconsideriamo
infatti Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale, di David Foster Wallace (in
italiano, questa volta):

Quando vennero presentati, lui fece una battuta, sperando di piacere. Lei rise a crepapelle,
sperando di piacere. Poi se ne tornarono a casa in macchina, ognuno per conto suo, lo
sguardo fisso davanti a sé, la stessa identica smorfia sul viso.
A quello che li aveva presentati nessuno dei due piaceva troppo, anche se faceva finta di
sì, visto che ci teneva tanto a mantenere sempre buoni rapporti con tutti. Sai, non si sa mai,
in fondo, o invece sì, o invece sì. (3)

Qui i personaggi sono «lui», «lei» e «quello che li aveva presentati». Chi racconta si
riferisce a tutti come a persone altre da sé e non sembra essere parte della storia o del
mondo narrativo. Dobbiamo pensare che si tratti dell’autore, come nei racconti fattuali
citati sopra? Nel testo di questo racconto, però, non troviamo niente che rimandi a David
Foster Wallace: nessuna parola, nessuna espressione sembra fare riferimento a lui. E dun-
que per quali ragioni dovremmo attribuirgli l’enunciazione narrativa di Una storia ridotta
all’osso della vita postindustriale? I narratologi strutturalisti, che per primi hanno cercato
una risposta sistematica alla domanda «chi racconta?», affermano che in un caso come
questo, se anche non si può attribuire il racconto a un personaggio, si deve comunque
parlare di un narratore distinto dall’autore. Come scrive Gérard Genette in Figure III,
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attribuire il racconto all’autore, in un racconto finzionale, significherebbe confondere due


istanze ontologicamente distinte:

si identifica l’istanza narrativa con l’istanza di «scrittura», il narratore con l’autore, e il


destinatario del racconto col lettore dell’opera. Confusione forse reale nel caso di un rac-
conto storico o di una vera autobiografia, ma non quando si tratta di un racconto di finzione,
dove il narratore ricopre a sua volta un ruolo fittizio […] e dove la situazione narrativa im-
maginata può essere molto diversa dall’atto di scrittura (o dal dettato) che ad essa fa riferi-
mento. (260-261)

Nelle narrazioni finzionali, che sono tipicamente narrazioni letterarie, l’enunciazione


narrativa è attribuita a un narratore che non è l’autore e che deve essere inteso come una
figura testuale, generata dal testo. Questa tesi non è del solo Genette, ma dei narratologi
e dei teorici della letteratura in generale, strutturalisti e non solo (con alcune eccezioni di
cui diremo nel seguito). Nel suo saggio del 1968 su La morte dell’autore, Roland Barthes
scrive:

Nella sua novella Sarrasine Balzac, parlando di un castrato travestito da donna, scrive que-
sta frase: «Era la donna, con le sue paure improvvise, i suoi capricci irragionevoli, i suoi
turbamenti istintivi, le sue audacie immotivate, le sue bravate e la sua deliziosa finezza di
sentimenti». Chi parla in questo modo? È forse l’eroe della novella, interessato a ignorare
il castrato che si nasconde sotto la donna? È l’individuo Balzac, che l’esperienza ha munito
di una sua filosofia della donna? È l’autore Balzac, che professa idee «letterarie» sulla
femminilità? È la saggezza universale? La psicologia romantica?
Non lo sapremo mai, per la semplice ragione che la scrittura è distruzione di ogni voce, di
ogni origine. La scrittura è quel dato neutro, composito, obliquo in cui si rifugia il nostro
soggetto, il nero-su-bianco in cui si perde ogni identità, a cominciare da quella stessa del
corpo che scrive.
È stato senza dubbio sempre così: non appena un fatto è raccontato, per fini intransitivi, e
non più per agire direttamente sul reale – cioè, in ultima istanza, al di fuori di ogni funzione
che non sia l’esercizio stesso del simbolo –, avviene questo distacco, la voce perde la sua
origine, l’autore entra nella propria morte, la scrittura comincia. (51)

In questo passo Barthes si riferisce al testo narrativo letterario e finzionale, come si com-
prende dalla precisazione secondo la quale il racconto in discussione è quello «per fini in-
transitivi», che non «agisce direttamente sul reale» e che consiste infine «nell’esercizio
stesso del simbolo»: non un testo che svolga una funzione pragmatica – che cioè sia fun-
zionale a qualche scopo pratico – o referenziale – che cioè si riferisca a entità storicamente
esistenti o esistite –, come potrebbero essere una direttiva ministeriale, una memoria difen-
siva, una lettera di raccomandazioni o una lista della spesa, ma un testo che esprima solo la
funzione simbolica del linguaggio. In un testo di questo genere, dice Barthes, la voce che
racconta non è quella dell’autore, poiché il legame tra testo e autore è interrotto. L’enun-
ciazione narrativa sarà quindi attribuita, in tutti i casi di narrazione finzionale, alla figura
testuale di un narratore.

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In Figure III, anche sistematizzando il lavoro precedente o parallelo di altri studiosi


(Barthes, Tzvetan Todorov e altri), Genette sviluppa la riflessione sul narratore classifi-
candone innanzitutto le varietà e le funzioni. Consideriamo di nuovo l’inizio di L’anima
non è una fucina, di David Foster Wallace:

Questa è la storia di come io, Frank Caldwell, Chris DeMatteis e Mandy Blemm diven-
tammo, per dirla con i quotidiani locali, i 4 ostaggi involontari, e di come la nostra alleanza
strana e tutta particolare e il trauma che ne stava all’origine abbiano influito sulla nostra
vita e le nostre professioni da adulti. (Oblio 81)

Il caso è analogo a quello di Mobili di famiglia. Leggendo questo esordio, qualsiasi lettore
comprende che a raccontare la storia è un suo personaggio. Per questi casi, Genette sug-
gerisce di parlare più precisamente di narratori appartenenti alla diegesi, ovvero alla storia
e quindi al mondo narrativo (che i narratologi post-classici chiameranno storyworld) in
cui essa si svolge, e di definirli pertanto omodiegetici. Altri esempi di narratori omodie-
getici sono Dante nella Commedia, Ishmael in Moby Dick (1851) e Marcel nella Recher-
che di Proust.
La categoria complementare a quella dei narratori omodiegetici è quella dei narratori
eterodiegetici, che cioè non sono personaggi della storia che raccontano. È il caso di Una
storia ridotta all’osso della vita postindustriale, dove la voce che raccontava di lui e lei
che cercano di piacersi e del terzo che li aveva fatti incontrare non appartiene a un quarto
personaggio, ma resta in qualche modo disincarnata, fuori della storia, o anche di In fuga,
di Alice Munro. Si costituisce così una prima dicotomia funzionale alla classificazione
dei narratori: narratori omodiegetici e narratori eterodiegetici.
Nella categoria dei narratori omodiegetici, inoltre, Genette distingue gli autodiegetici,
che sono in particolare i protagonisti delle storie che raccontano, dagli allodiegetici, che
non sono i protagonisti delle storie che raccontano. Esempi di narratori omodiegetici au-
todiegetici sono Dante nella Commedia, Ishmael in Moby Dick e il narratore di L’anima
non è una fucina; allodiegetici sono invece Watson, che nei racconti di Arthur Conan
Doyle racconta storie il cui protagonista è Sherlock Holmes, e – secondo la teoria narra-
tologica che stiamo esponendo – il narratore dell’Ojo Silva, di Roberto Bolaño, dove il
protagonista è appunto «Mauricio Silva, detto l’Ojo» (13).
Queste prime distinzioni ammettono casi intermedi. Consideriamo l’esordio di Papà
Goriot, di Balzac:

La signora Vauquer, nata de Conflans, è una donna anziana che da quarant’anni tiene a
Parigi una pensione familiare situata in rue Neuve-Sainte-Geneviève, tra il quartiere latino
e il fauburg Saint-Marceau. La pensione, nota come Casa Vauquer, accetta sia uomini che
donne, giovani e vecchi, senza che i costumi di questa rispettabile istituzione abbiano mai
prestato il fianco alla maldicenza. Ma è anche vero che da trent’anni non vi si è mai vista
una fanciulla e perché un giovane vi alloggi deve ricevere ben pochi soldi dalla famiglia.
Ciò nonostante, nel 1819, anno in cui ha inizio il nostro dramma, vi si trovava una povera
ragazza. Per quanto screditato, il termine dramma di cui è stata prodiga in maniera abusiva
e persecutoria la lacrimevole letteratura dei nostri tempi nel nostro caso è necessario usarlo:
non che questa storia sia drammatica nel vero senso della parola, ma alla fine dell’opera
forse qualche lacrima sarà versata intra muros e extra. La capiranno fuori di Parigi? È lecito
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dubitarne. Le particolarità di una vicenda ricca di osservazioni e di colore locale non possono
essere apprezzate se non tra le colline di Montmartre e le alture di Montrouge, nell’illustre
vallata di calcinacci sempre sul punto di cadere e di rigagnoli neri di fango; vallata piena
di sofferenze reali, di gioie spesso ingannevoli, e così frenetica che occorre un qualcosa di
esorbitante per crearvi una sensazione di una certa durata. Capita però che ci si imbatta in
dolori che il coacervo di vizi e di virtù rende grandi e solenni: alla loro vista, gli egoismi,
gli interessi, si arrestano, s’impietosiscono, ma l’impressione che ne ricevono è come di un
frutto saporito subito divorato. Il carro della civiltà, simile a quello dell’idolo di Jagernatt,
spezza rapidamente anche un cuore meno fragile degli altri che tenti di frenarlo e di incep-
parne la ruota, e continua il suo cammino glorioso. Così farete voi, voi che tenete questo
libro con una bianca mano, voi che vi sprofondate in una morbida poltrona dicendo: “forse
mi divertirà”. Dopo aver letto le segrete sventure di papà Goriot, cenerete con appetito met-
tendo la vostra insensibilità sul conto dell’autore, tacciandolo di esagerazione, accusandolo
di fare poesia. Ah! sappiatelo: questo dramma non è una finzione, né un romanzo. All is
true, è così vero che ciascuno può riconoscerne gli elementi intorno a sé, forse nel proprio
cuore. (5-6)

Innanzitutto, ripetiamo che, secondo la narratologia strutturalista, la voce che in questo


esordio ci introduce alla pensione Vauquer e alla storia che leggeremo è la voce di un
narratore e non dell’autore (sebbene si faccia riferimento proprio all’autore). Più precisa-
mente, è la voce di un narratore eterodiegetico, in quanto non appartiene a un personaggio
del mondo narrativo, come risulta dalla lettura del romanzo. Tuttavia, la voce presenta
anche alcuni tratti di omodiegeticità: in particolare, il narratore si riferisce a Parigi come
se vi abitasse e parla del tempo della vicenda come dei «nostri tempi». In qualche modo,
cioè, suggerisce di appartenere ai luoghi e ai tempi della storia e quindi di non essere
estraneo al mondo narrativo. Siccome però non appare nella storia come personaggio,
non possiamo parlare di un narratore omodiegetico e converrà pensare, come si diceva, a
un caso intermedio: un narratore eterodiegetico con alcuni tratti da narratore omodiege-
tico. È un caso, come nota Genette, che nel romanzo dell’Ottocento appare abbastanza
diffuso (lo si trova in Balzac, appunto, ma anche in Scott, in Stendhal, in Dostoevskij e
in altri romanzieri), ma che può apparire anche in altri momenti della storia della narrativa
letteraria. Si legga, per esempio, questo passo di un racconto di Gao Xingjian, L’incidente
(1983), dove un narratore che non è un personaggio della storia, e che quindi dovremmo
dire eterodiegetico, formula tuttavia alcune considerazioni che lo collocano nei luoghi e
nei tempi degli eventi narrati:

Ma chi era il morto? In questa città di svariati milioni di abitanti, lo possono sapere solo i suoi
familiari e gli amici, e non è neppur detto che adesso siano già al corrente, soprattutto se il
morto non portava con sé alcun documento che potesse consentirne l’identificazione. (40)

Come già per Papà Goriot, anche qui possiamo parlare di un narratore eterodiegetico che
presenta però alcuni tratti di omodiegeticità.
Anche la distinzione tra narratori omo- autodiegetici e omo- allodiegetici ammette casi
ambivalenti: in Mobili di famiglia, per esempio, possiamo identificare la protagonista del
racconto nella narratrice, che allora sarebbe autodiegetica, o in Alfrida, e allora la narra-

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trice sarebbe allodiegetica. In effetti potremmo parlare di un racconto con una protagoni-
sta e una deuteragonista (entrambi i personaggi possono essere intesi in ciascuno dei due
ruoli) e quindi, rispetto alla distinzione tra auto- e allodiegetico, di un caso ambivalente.
Queste prime indicazioni sul narratore mostrano anche perché Genette non parli, come
pure è consueto fare (così faceva Dorrit Cohn, per esempio), di narrazione in prima o in
terza persona. Pensiamo ad Ariosto e all’esordio dell’Orlando furioso: «Le donne, i ca-
vallier, l’arme, gli amori, / le cortesie, l’audaci imprese io canto» (I, I, 1-2; corsivo mio).
In questo esordio la persona grammaticale è la prima, ma la narrazione viene poi condotta
in terza persona, nel senso che il narratore non racconta di sé, ma di altri. Invece, nel De
bello Gallico, Giulio Cesare narra di sé usando la terza persona. La categoria della per-
sona, dice Genette, è confusiva e non rende conto dell’appartenenza o meno del narratore
alla diegesi (in terza persona sarebbero sia il narratore eterodiegetico di Nemico, amico,
amante…, sia il narratore omo- allodiegetico Watson dove parla di Sherlock Holmes),
che è invece il fatto rilevante.1
Alla dicotomia di etero- e omodiegetico Genette aggiunge la distinzione tra livelli di
narrazione. In un testo narrativo possiamo infatti incontrare narrazioni incassate, come
per esempio in Cuore di tenebra, dove uno dei personaggi che all’inizio del racconto sono
a bordo della Nellie, all’ancora sul Tamigi, racconta (primo livello di narrazione) che a
un certo punto Marlow, un altro personaggio, prende la parola e comincia a raccontare
una storia (secondo livello di narrazione):

Il sole tramontò; l’oscurità scese sul fiume, e sulle rive apparvero le prime luci. Brillava
intenso il faro di Chapman, una costruzione a tre gambe eretta su una distesa di fango. Luci
di navi si muovevano sul tratto navigabile – un grande trambusto di luci che andavano e
venivano. E più a occidente, sulle parti a monte del fiume, il luogo della città mostruosa
era ancora sinistramente segnato in cielo – foschia incombente alla luce del sole, livido
bagliore sotto le stelle.
«E anche questo», disse Marlow all’improvviso, «è stato uno dei luoghi bui della terra». (7-8)

I livelli della narrazione, dice allora Genette, si possono distinguere in extradiegetico


e intradiegetici (o diegetici o metadiegetici); i livelli della storia, corrispondentemente,
in diegetico (o intradiegetico), metadiegetico, metametadiegetico ecc. Noi, più semplice-
mente, diremo che il primo livello di narrazione è il livello extradiegetico; il secondo e i
successivi, se ci sono, sono intradiegetici, di secondo livello, terzo livello ecc.
In Orano, lingua morta (1996, dalla raccolta Nel cuore della notte algerina, del 1997),
di Assia Djebar, la narrazione di primo livello è condotta dalla protagonista, che quindi
agisce da narratrice omodiegetica extradiegetica, ma il racconto della notte in cui furono
sepolti i suoi genitori è delegato alla sua zia materna, che quindi agisce da narratrice
omodiegetica intradiegetica:

1
Seguiremo Genette, ma aggiungiamo che la questione della persona non è del tutto irrilevante
per l’analisi narratologica di un testo. In prospettiva critica, cioè, non è irrilevante che un dato
narratore usi l’io, il tu, l’egli (o ella), il noi, il voi, l’essi o magari una forma impersonale. Brian
Richardson ne offre un’ampia esemplificazione in Unnatural Voices (cfr. in partic. il cap. 4).
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Molto tempo dopo – non avevo più di dieci, ma dodici, quattordici anni, non ricordo bene
– trovò il coraggio di raccontarmi quella notte al cimitero.
«Siamo entrate dalla porta in alto. La notte era chiara, la luna al terzo quarto…». (14)

Quanti livelli possiamo avere? Nel racconto Menelaide di John Barth (compreso nella
sua raccolta del 1968 La casa dell’allegria) si arriva a otto livelli di narrazione incassati
l’uno dentro l’altro, cosicché la risposta di Elena a Menelao, che le chiedeva perché lo
avesse sposato, è contenuta in una serie di virgolette di citazione che gettano più di
un’ombra di dubbio sulla sua attendibilità: «««««««Love!»»»»»»».
Quali relazioni sussistono tra una narrazione intradiegetica e la narrazione di livello
superiore? Seguendo Genette, possiamo enumerare sei relazioni funzionali:2
1. funzione esplicativa: è il caso di Ulisse che racconta ai Feaci e li ragguaglia sulle
vicende che lo hanno portato fino a loro;
2. funzione predittiva: è il caso di una prolessi intradiegetica che indichi le conse-
guenze ulteriori della situazione diegetica: si ha per esempio con i sogni premoni-
tori, i racconti profetici ecc. Si pensi alla profezia delle streghe in Macbeth;
3. funzione tematica pura: è il caso di L’anima non è una fucina, se consideriamo il
racconto immaginario del protagonista bambino come una narrazione incassata;
4. funzione tematica e drammatica: si ha quando la narrazione incassata, oltre a essere
in relazione tematica con la situazione diegetica, retroagisce sul narratario e quindi
sulla situazione diegetica stessa (perché il narratario apprende certe cose, ne capisce
altre ecc.). È il caso del racconto di Alfrida alla narratrice in Mobili di famiglia;
5. funzione distrattiva: è il caso dei racconti dei giovani del Decameron, dove l’atto
della narrazione conta per sé (a prescindere dal suo tema) e ha lo scopo di svagare
o far passare il tempo;
6. funzione ostruttiva: è il caso dei racconti di Sherazade nelle Mille e una notte, dove
l’atto della narrazione conta per sé (a prescindere dal suo tema) e ha lo scopo di
guadagnare tempo.
Alla specificazione delle ultime due funzioni – distrattiva e ostruttiva – si potrebbe
rivolgere questa obiezione: se ciò che le qualifica è il fatto che la narrazione conti per sé,
le due funzioni dovrebbero essere unite in un unico tipo (così faceva Genette in Figure
III, in effetti); se invece contano l’effetto di distrazione o di ostruzione che esse realiz-
zano, allora si tratta di due sottotipi della funzione drammatica. Con questa riserva, pos-
siamo comunque accogliere la tipologia di Genette.
Introduciamo quindi un’ultima categoria relativa alla distinzione tra extra- e intradie-
gesi, quella della pseudodiegesi: si tratta della situazione in cui un narratore di primo
livello (o di livello n) riferisce il racconto di un narratore di secondo livello (o di livello
n + 1) non cedendogli la parola, e cioè citando le sue parole, ma riformulandone il rac-
conto. Un esempio è offerto ancora da L’Ojo Silva.
Se ora combiniamo le due distinzioni genettiane (etero-/omodiegetico ed extra-/intra-
diegetico), abbiamo quattro tipi fondamentali di narratore:

2
Genette indica tre relazioni in Figure III e sei nel successivo Nuovo discorso del racconto, dove
considera alcune proposte di John Barth e amplia la tipologia originaria. Noi seguiremo il Nuovo
discorso del racconto.
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Livello Extradiegetico Intradiegetico


Rapporto
Eterodiegetico Il narratore primo dell’Odissea e quello di Una Sherazade, i giovani del
storia ridotta all’osso della vita postindustriale Decameron
Omodiegetico Dante, Ishmael e Marcel (autodiegetici); Wa- Ulisse, Marlow (auto-
tson (allodiegetico); la narratrice di Mobili di diegetici)
famiglia (caso intermedio rispetto all’auto- o
allodiegesi)

Infine, possiamo osservare che, in un racconto con più narratori, questi narratori pos-
sono situarsi a livelli diversi, nel caso di narrazioni incassate, o a uno stesso livello, come
nel Decameron o in qualsiasi romanzo epistolare in cui diversi personaggi si costituiscano
come narratori attraverso il racconto che conducono, a turno, con le proprie lettere. E altri
casi sono ugualmente possibili: per esempio, in Non è un paese per vecchi, di Cormac
McCarthy, lo sceriffo Bell, narratore extra- omodiegetico, si alterna a un narratore extra-
eterodiegetico.

3.1.2. Il narratario e il modello della comunicazione narrativa


I narratologi strutturalisti affermano che, così come il narratore deve essere distinto
dall’autore, i lettori reali devono essere distinti dai destinatari del narratore. In un suo
articolo del 1973, Introduction a l’étude du narrataire, Gerald Prince scrive:

ogni narrazione presuppone non solo (almeno) un narratore, ma anche (almeno) un narra-
tario, e cioè qualcuno a cui il narratore si rivolge. In una narrazione finzionale – in un
racconto, un’epopea, un romanzo – il narratore è una creatura finzionale, come il suo nar-
ratario. (178; trad. mia)

Prince considera il caso di Papà Goriot e afferma:

Questo «voi» dalle mani bianche che il narratore accusa di egoismo, e di durezza, è il suo
narratario. È chiaro che questo narratario sarà alquanto diverso da molti lettori del Père
Goriot e che dunque non si potrà identificare il narratario del romanzo con il suo lettore:
questi forse non avrà le mani bianche, ma rosse o nere, leggerà il romanzo nel suo letto e
non in poltrona, perderà l’appetito prendendo coscienza delle sventure del vecchio com-
merciante. Il lettore di una finzione in prosa o in versi e il narratario che sta dentro questa
finzione non devono essere confusi. (179-180; trad. mia)

Al narratario rimandano ancora, secondo Prince, tutte le domande esplicite o implicite


sui personaggi e sugli eventi, nonché le conoscenze implicitamente invocate dal narratore,
per esempio dove egli osserva che le lacrime di Rastignac sulla tomba di papà Goriot
sono di quelle che salgono al cielo (il narratario, vale a dire, dovrebbe sapere quali siano
tali lacrime).
Anche per il narratario possiamo proporre le stesse dicotomie fondamentali che ab-
biamo definito per il narratore: etero- o omodiegetico ed extra- o intradiegetico. Papà

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Goriot offre un esempio di narratario extra- eterodiegetico (con qualche tratto di omodie-
geticità, come già notavamo per il narratore); Orano, lingua morta offre invece un esem-
pio di narratario intra- omodiegetico: dove la zia racconta alla narratrice (extra- omodie-
getica) bambina, infatti, la narratrice bambina diventa narratario intra- omodiegetico. Ge-
neralmente, a un narratore eterodiegetico corrisponderà un narratario eterodiegetico: è il
caso del racconto breve di Wallace Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale
e di Nemico, amico, amante… di Munro. D’altra parte, i controesempi non mancano:
nell’esordio di Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), di Italo Calvino, un narra-
tore extra- eterodiegetico si rivolge al personaggio protagonista, che quindi risulta essere
il suo narratario omodiegetico (ci torneremo); e lo stesso accade, ma in regime di figura-
lità, nel romanzo di Jay McInerney Le mille luci di New York (1984). A un narratore extra-
omodiegetico, invece, corrisponderà spesso un narratario extra- eterodiegetico (è il caso
della Recherche di Proust).
A questo punto è opportuna una considerazione metodologica: classificare i narratori
e i narratari di un racconto non significa solo attribuire un’etichetta; si tratta invece di
compiere un’operazione ermeneutica. Si pensi a L’anima non è una fucina: qui abbiamo
sicuramente un narratore extra- omo- autodiegetico. Ma che cosa possiamo dire del pro-
tagonista bambino, mentre immagina la storia alla finestra? Possiamo vederlo come un
narratore intradiegetico di secondo livello, ma di che tipo? A rigore, eterodiegetico, per-
ché non è tra i personaggi della storia che immagina; d’altra parte, leggendo quella storia
troviamo numerosi riferimenti alla sua situazione familiare e notiamo che egli stesso as-
somiglia alla protagonista Ruth Simmons; siamo quindi portati a pensarlo come narratore
intra- omodiegetico. Se poi ci rivolgiamo al versante del narratario, troviamo che il posto
resta sostanzialmente vuoto per il narratore di primo livello (il protagonista adulto); per
il narratore bambino, possiamo dire, analogamente, che il posto resta vuoto o, diversa-
mente, che il bambino racconta la storia a se stesso e che quindi egli è anche il narratario
(intradiegetico) del proprio racconto. Interrogarci sulla classificazione dei narratori e dei
narratari del racconto ci porta cioè a riflettere sul significato di ciò che fa il protagonista.
Dopo questa breve considerazione, possiamo dire che siamo arrivati a una prima ver-
sione di quello che i narratologi spesso chiamano il modello della comunicazione narra-
tiva, ovvero il modello che raccoglie le figure implicate nella narrazione:

Narratore Narratario
Autore Testo Lettore
(vari livelli) (vari livelli)

Il modello si presta a due osservazioni. La prima è che tra autore reale e lettore reale, in
quanto essi sono distinti dalle figure testuali di narratore e narratario, non si dà alcuna
comunicazione diretta all’interno del testo. La seconda è che parlare di comunicazione
narrativa potrebbe suggerire due visioni della narrativa letteraria che, per così dire, non
vanno da sé. La prima potrebbe essere caratterizzata nel senso del concetto di discourse
di Benveniste: si potrebbe cioè pensare al racconto secondo il modello della narrazione
orale e quindi come a un testo prodotto da un parlante che si rivolge a un ascoltatore in
una situazione comunicativa più o meno determinata. Questo modello può essere perti-
nente per casi come quelli di Papà Goriot o dei Promessi sposi, ma non sembra esserlo
altrettanto per narrazioni figurali quali, spesso, i racconti di Alice Munro, dove narratore
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e narratario non assumono alcuna fisionomia (per questo Banfield insisteva sull’aspetto
scritturale della narrazione). La seconda visione della narrativa letteraria che potrebbe
essere suggerita dall’idea di un modello della comunicazione narrativa è quella effettiva-
mente propugnata dal rhetorical approach alla narrativa: «Questo approccio concepisce
la narrativa come un atto di comunicazione, relativo a personaggi ed eventi, di tipo inten-
zionale: qualcuno racconta a qualcun altro, in una certa occasione e per determinati scopi,
che qualcosa è accaduto» (Scholes, Phelan e Kellogg 297; trad. mia). È una prospettiva
interessante, in quanto rileva la dimensione etica e propriamente retorica della narrazione,
ma che richiede innanzitutto di precisare se la comunicazione sia quella che avverrebbe
nel testo tra narratore e narratario, qualora il testo si presti a essere descritto in questo
modo, o quella che avverrebbe fuori del testo tra autore e lettore reali. Nel primo caso,
siamo rimandati alle funzioni dell’enunciazione narrativa (ne parleremo a breve) ed even-
tualmente a quelle più specifiche della narrazione incassata (ne abbiamo parlato); nel se-
condo caso, siamo invece rimandati a una riflessione sulla poetica e sull’esperienza della
lettura. Gli studiosi che hanno coltivato questo approccio, però, hanno fatto ricorso anche
ai concetti di autore implicito e di lettore implicito, dei quali dunque dovremo parlare;
così come parleremo, nel seguito, dei diversi gradi di visibilità di narratori e narratari.

3.2. Descrivere i narratori


I narratori che incontriamo nelle narrazioni letterarie differiscono tipicamente non solo
per il fatto di essere omo- o eterodiegetici ed extra- o intradiegetici, ma anche per le fun-
zioni che svolgono con la propria enunciazione narrativa, per la loro visibilità – ovvero
per quanto è rilevata la loro fisionomia e per quanto ne percepiamo la voce e la media-
zione – e per la loro attendibilità. Nelle prossime pagine, quindi, daremo alcune indica-
zioni per descrivere questa varietà.

3.2.1. Funzioni e visibilità


Mediante l’enunciazione narrativa, un narratore può svolgere diverse funzioni. Genette
ne indica cinque:
1. narrativa: è relativa alla storia e consiste nel riferire i fatti;
2. di regia: è relativa al racconto ed è esemplificata da passi come quello di Giorni del
1978, di Roberto Bolaño, in cui il narratore dice: «È qui che dovrebbe finire questo
racconto, ma la vita è un po’ più dura della letteratura» (81);
3. di comunicazione: si definisce rispetto al destinatario ed è quella che incontriamo
nella Commedia allorché Dante avvisa i lettori «in piccioletta barca»: «Non vi met-
tete in pelago…» (Par. II 1-18);
4. testimoniale, o di attestazione: è relativa al ruolo testimoniale del narratore stesso
ed è quella che svolgono Dante, di nuovo, e il Barney Panofsky della Versione di
Barney (1997) di Mordecai Richler, che dice di essere stato costretto a raccontare
la vera storia della sua vita dalle calunnie di un altro personaggio, Terry McIver;
5. ideologica: si manifesta dove il narratore espone la propria ideologia (in senso lato),
come spesso accade nei romanzi di Balzac.
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Ovviamente, si possono proporre anche altre classificazioni delle funzioni del narra-
tore. In Living to Tell about It (2005), per esempio, James Phelan scrive che i narratori
svolgono tre funzioni principali: riferiscono la storia (funzione referenziale o narrativa,
potremmo dire), la interpretano (funzione interpretativa) e formulano giudizi di carattere
morale (funzione valutativa).3 La prospettiva di Phelan è interessante, ma forse è più ap-
propriata alla narrazione orale (quella studiata da Labov e Waletzky, che abbiamo ricor-
dato in relazione alla tellability) o alla narrativa letteraria che sembra ricrearne la matrice,
più che alla narrativa letteraria in generale. Anche in questo caso, quindi, considereremo
innanzitutto la classificazione di Genette e osserveremo che, anche in relazione alla di-
versa importanza che queste funzioni possono avere nella sua enunciazione, un narratore
potrà risultare, per così dire, più o meno visibile.
Ci sono racconti, innanzitutto, per i quali potremmo dire che un narratore non c’è. Si
consideri per esempio il racconto I detective (1997), di Bolaño. Il testo si compone solo
delle battute di dialogo, riferite in discorso diretto libero, di due personaggi:

«Che armi ti piacciono?».


«Tutte, ma non le armi bianche».
«Vuoi dire coltelli, navaja, daghe, corvos, pugnali, temperini, cose di questo tipo?».
«Più o meno».
«Cosa, più o meno?».
«È un modo di dire, coglione». (Chiamate telefoniche 153)

Per un caso come questo potremmo parlare di assenza del narratore (il testo è molto simile
a quello di un copione teatrale, d’altra parte, e si potrebbe addirittura discutere la sua
qualifica come racconto) o invece di un narratore extra- eterodiegetico che si limita al
referto delle battute dei personaggi. D’altra parte, sembra improbabile che un lettore, leg-
gendo il racconto, si figuri un narratore. Lo si comprende meglio, forse, se si confronta il
testo con quello di un altro racconto di Bolaño, Puttane assassine (2001):

«Ti ho visto alla televisione, Max, e mi sono detta questo è il mio tipo.
«(Il tipo scuote ostinatamente la testa, cerca di prender fiato, non ci riesce).
«Ti ho visto col tuo gruppo. Lo chiami così? […].
«(Il tipo scuote la testa da sinistra a destra. Insiste a cercare di prender fiato, suda). (Puttane
assassine 116-117)

Qui le battute che uno dei due personaggi vorrebbe pronunciare non sono citate, perché
egli è imbavagliato e non può parlare, e in loro vece leggiamo parole che non possiamo
che attribuire a un narratore extra- eterodiegetico. Il caso, quindi, differisce da quello dei
Detective, per il quale potremmo infine parlare di un testo narrativo (narrativo in quanto
presenta una storia) senza narratore.
In generale, siamo indotti a pensare a un narratore, in prima approssimazione, non
appena riconosciamo la voce che racconta come la voce di un personaggio e quindi di un
narratore omodiegetico; oppure, anche se non riconosciamo un narratore omodiegetico,
non appena le parole che incontriamo nel testo cessano di essere leggibili come citazioni
3
O ancora si veda Ryan, The Narratorial Functions.
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di parole pronunciate da un personaggio. In questo secondo caso saremo in un regime di


narrazione eterodiegetica e la presenza del narratore potrà essere più o meno manifesta.
La questione del vario grado di visibilità del narratore, dunque, si pone innanzitutto
(non solo, ma innanzitutto) per i narratori extra- eterodiegetici. In vario grado il testo po-
trà suggerire al lettore la rappresentazione di una fisionomia di narratore o di un atto
narrativo. La riformulazione delle parole di un personaggio implica infatti la presenza di
un narratore (e forme diverse di referto del discorso comportano un diverso grado di me-
diazione narratoriale, come abbiamo visto), ma può suggerirne la fisionomia solo debol-
mente. Un narratore extra- eterodiegetico si profila più chiaramente, invece, quando un
personaggio è oggetto di osservazioni o giudizi che eventualmente si prolunghino in ge-
neralizzazioni e riflessioni sociologiche, morali, estetiche o di altro genere. È il caso di
due passi, tratti rispettivamente da Papà Goriot e da La morte a Venezia, che abbiamo
già citato:

L’indomani Rastignac si vestì con grande eleganza e verso le tre del pomeriggio si recò
dalla contessa de Restaud, abbandonandosi durante il tragitto a quelle speranze sconside-
ratamente folli che rendono la vita dei giovani così ricca di emozioni. In tal modo essi non
tengono conto né degli ostacoli né dei pericoli, vedono dappertutto il successo, idealizzano
la loro esistenza giocando semplicemente con l’immaginazione e diventano infelici o tristi
perché crollano progetti che esistevano solo nei loro desideri sfrenati. Se non fossero timidi
e ignoranti, la vita di società sarebbe impossibile. Eugène camminava con mille precauzioni
per non infangarsi, ma nel camminare pensava a ciò che avrebbe detto alla signora de Restaud
[…]. (Balzac, Papà Goriot 50)

Troppo tardi! pensò in quel momento. Troppo tardi! Ma era davvero troppo tardi? Quel
passo che aveva mancato molto probabilmente avrebbe condotto a qualcosa di buono, leg-
gero e gioioso, a un terapeutico tornare sobrio. Ma la verità era per l’appunto, probabil-
mente, che l’uomo in declino non voleva tornare sobrio, che l’ebbrezza gli era troppo pre-
ziosa. Chi sa decifrare l’essenza e il carattere dell’esistenza artistica! Chi può comprendere
la profonda e istintiva fusione di disciplina e sfrenatezza su cui essa riposa? Poiché non
essere in grado di desiderare un terapeutico tornare sobrio significa sfrenatezza. Aschen-
bach ormai non era più in vena di autocritica; il gusto, la disposizione spirituale della sua
età, la sua stima di sé, la sua maturità e tarda semplicità lo rendevano poco incline ad ana-
lizzare i moventi e a decidere se fosse stata la coscienza, oppure la dissolutezza e la debo-
lezza a impedirgli di attuare il suo proposito. Era confuso, temeva che qualcuno, fosse an-
che solo il guardiano della spiaggia, potesse aver osservato la sua corsa, la sua sconfitta,
temeva molto il ridicolo. (Mann, La morte a Venezia 167)

La visibilità del narratore o del suo atto narrativo è accresciuta anche da eventuali
commenti metanarrativi, ovvero dalle riflessioni che il narratore può proporre sul proprio
racconto. Queste riflessioni, infatti, attraggono inevitabilmente l’attenzione del lettore sul
farsi di quel racconto. Si legga, per esempio, questo passo di un racconto di John Barth,
Perso nella Casa dell’Allegria (1968), dove l’irruzione del discorso metanarrativo esibi-
sce i tratti caratteristici dell’ironia postmoderna:

In viaggio per Ocean City, egli sedeva sul sedile posteriore dell’automobile di famiglia
insieme a suo fratello Peter, di qundici anni, e a Magda G***, di quattordici, una graziosa
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bambina, una squisita signorinella, che abitava non lontano da loro in B*** Street, nella
cittadina di D***, nel Maryland. Spesso si usavano iniziali seguite da asterischi o altro,
nella narrativa dell’Ottocento, in luogo di nomi propri, allo scopo di rafforzare l’illusione
della realtà. Era come se l’autore ritenesse necessario sottacere certi nomi per discrezione
o per cautela legale. È interessante notare che, come pure per quel che riguarda tanti altri
aspetti del realismo, è proprio un’illusione a essere rafforzata, con mezzi puramente artifi-
ciali. È credibile, oppure ciò viola i canoni della verosimiglianza, che un ragazzo di tredici
anni possa fare un’osservazione così smaliziata? (La Casa dell’Allegria 101)

Infine, eventuali riferimenti del narratore a se stesso e allocuzioni al narratario non


possono che richiamare l’attenzione del lettore sul narratore e sul suo atto narrativo. Come
esempio di questa eventualità possiamo citare un noto passo dei Promessi sposi:

«Ma quando io avrò durata l’eroica fatica di trascriver questa storia da questo dilavato e
graffiato autografo, e l’avrò data, come si suol dire, alla luce, si troverà poi chi duri la fatica
di leggerla?»
Questa riflessione dubitativa, nata nel travaglio del decifrare uno scarabocchio che veniva
dopo accidenti, mi fece sospender la copia, e pensar più seriamente a quello che convenisse
fare. (4)

In sintesi, un narratore extra- eterodiegetico può essere più o meno visibile e questa
visibilità è correlata alla frequenza di interventi come quelli considerati.
A una decisa visibilità del narratore contribuisce anche il fenomeno dello skaz, al quale
abbiamo fatto riferimento attraverso Bachtin e che Boris Èjchenbaum definisce come
«quella forma di prosa narrativa che nel suo lessico, nella sua sintassi e selezione di into-
nazioni manifesta un orientamento verso il discorso orale del narratore» (cit. in Sini 65).
L’enunciazione narrativa è condotta cioè come se il narratore stesse raccontando oral-
mente e ciò rileva sia l’atto narrativo come atto discorsivo, sia la fisionomia del narratore
come persona che racconta in un certo modo. Come esempio di skaz si cita tipicamente il
racconto Il cappotto (1842) di Nikolaj Gogol’ e la forma è certo ricorrente nella narrativa
russa dell’Ottocento (ancora Èjchenbaum la osserva in Leskov), ma se ne trovano esempi
anche nel Novecento e oltre e in diverse letterature. Si consideri l’esordio di Un altro
pioniere, di Wallace:

Tuttavia, signori, l’unico esempio che temo di aver sentito raccontare dalla viva voce di
qualcuno viene dal conoscente di un caro amico che sosteneva di aver sentito a sua volta
questo exemplum a bordo di un volo commerciale ad alta quota durante una specie di
viaggio d’affari, rivestendo evidentemente questo tizio una posizione commerciale che
presupponeva frequenti spostamenti aerei. Alcuni dettagli contestuali chiave rimangono
oscuri. Né, mi affretto a riconoscere, la variante o exemplum contiene alcuna Annunciazione
formale in quanto tale, né alcun comme on dit Periodo di Prova o Aiuto Soprannaturale,
Figure di Briccone, Resurrezione archetipica, né alcuno degli altri elementi ufficiali del ciclo;
tuttavia, signori, lascio a voi giudicare come ovviamente ciascuno di voi a turno ha lasciato
giudicare a noialtri. (Oblio 141)

Qui non possiamo parlare semplicemente di sintassi che mima l’oralità, né troviamo una
resa della pronuncia, ma l’attacco in medias res, le allocuzioni ai «signori» che a quanto
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pare ascoltano, i riferimenti a una trasmissione orale del racconto da un narratore all’altro
e ancora lo sviluppo discorsivo per accumuli e precisazioni suggeriscono una fisionomia
di narratore intento a raccontare una storia in un certo modo (verboso, cerimonioso, eru-
dito, forse ironico), e in questo senso il testo si presta a essere descritto mediante il con-
cetto di skaz.
Gli interventi che contrassegnano la visibilità dei narratori, in congiunzione con altri
elementi, caratterizzano anche il tipo del narratore onnisciente, che produce tipicamente
un racconto con focalizzazione zero (essendo onnisciente, sa – e dice – più di ciò che sanno
i personaggi). Il narratore onnisciente, più precisamente, formula enunciati narrativi at-
tendibili per definizione (su questo torneremo a breve) e inoltre può esporre i pensieri dei
personaggi e in generale rappresentarne l’interiorità, condurre la narrazione muovendosi
nel tempo e nello spazio della storia (conosce i precedenti, anticipa le conseguenze, rende
conto di sviluppi paralleli dell’azione, formula ipotesi controfattuali) e magari avanzare
asserzioni metanarrative. Proprio in quanto la narrazione onnisciente può caratterizzarsi
per questi diversi aspetti, d’altra parte, l’utilità della categoria stessa del narratore onni-
sciente è stata contestata: invece di dire genericamente che un dato narratore è onni-
sciente, non converrebbe specificare quali dei tratti indicati lo caratterizzino? Paul Daw-
son, discutendo la questione, ammette la pertinenza della critica formulata, ma sostiene
che la categoria della narrazione onnisciente non perda comunque la propria utilità: nella
misura in cui può essere confusiva, essa consente anche di alludere sinteticamente a fe-
nomeni distinti e in questo senso può essere conservata.
Il diverso grado di visibilità dei narratori può essere considerato anche nella prospettiva
delle dicotomie di diegesi e mimesi o di showing e telling. La prima – diegesi e mimesi–
risale a Platone, che nel libro III della Repubblica distingueva i modi mimetici e i modi
diegetici della poesia. Il poeta, dice Platone esemplificando con Omero, può fingere che
a raccontare sia un personaggio e dunque riferire le sue parole, o parlare a proprio nome
e dunque riformulare il discorso del personaggio.4 Nel primo caso parleremo di mimesi e
riconosceremo una tendenza al modello drammatico; nel secondo caso parleremo di die-
gesi e riconosceremo un’insistenza più pronunciata sul carattere di narrazione dell’opera.
Il riferimento ai generi drammatici o narrativi diventa più esplicito con Aristotele, che
nella Poetica ripensa la distinzione platonica di diegesi e mimesi come distinzione tra forme
diverse della mimesi intesa come rappresentazione. Aristotele discute quindi della tragedia,
genere mimetico, e dell’epopea, genere diegetico, nel quadro di un’idea più comprensiva
di arte come mimesi (anche nella Repubblica di Platone si discute della mimesi poetica
non solo nel senso della distinzione tecnica indicata, ma ora non possiamo soffermarci
sulla questione).
Secoli dopo, tra Ottocento e Novecento, la dicotomia diventa un cardine della rifles-
sione poetica anglosassone, a partire da Henry James e Percy Lubbock (che non era ro-
manziere, ma critico letterario e studioso di narrativa), come dicotomia di showing e tel-
ling. Essa però si specifica rispetto al romanzo, in quanto showing e telling ora sono intesi
come modi della scrittura romanzesca, che può esibire il proprio carattere narrativo (tel-
ling) o tendere invece – preferibilmente – al modello drammatico (showing). Al di là della

4
Platone non usa la categoria del narratore o altre equivalenti, non sorprendentemente, e attribui-
sce l’enunciazione narrativa all’autore, se a parlare non è un personaggio.
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terminologia, d’altra parte, questa dicotomia, con il giudizio di valore che la accompagna,
risale, prima che a James, a Gustave Flaubert. In una lettera a Louise Colet del 9 dicembre
1852 Flaubert scrive:

Le riflessioni dell’autrice [Flaubert parla della Capanna dello zio Tom. N.d.R.] mi hanno
causato un continuo fastidio. Che bisogno c’è di fare delle riflessioni sullo schiavismo?
Mostratelo, ecco tutto. […] Balzac non è sfuggito a questo difetto, è legittimista, cattolico,
aristocratico. – L’autore, nella sua opera, deve essere come Dio nell’universo, presente
dappertutto e visibile da nessuna parte. Essendo l’arte una seconda natura, il creatore di
questa natura deve agire con dei procedimenti analoghi: si deve sentire in ogni atomo, per
ogni aspetto, un’impassibilità nascosta e infinita. (Correspondance II 204; trad. mia)

L’idea che l’autore5 mostri, astenendosi invece dall’esprimersi nella propria opera in
forme dichiarative – astenendosi innanzitutto, vale a dire, da quegli interventi per i quali
si può parlare di narratori molto visibili, o intrusivi, o vocali (calco dell’inglese vocal) –,
si lega all’intenzione di pervenire a una comprensione più profonda e a una rappresenta-
zione più autentica delle diverse identità dei personaggi e degli uomini. Come si ricorderà,
infatti, in un altro luogo della propria corrispondenza (nella lettera a Mademoiselle Le-
royer de Chantepie che abbiamo citato parlando del concetto di polifonia), Flaubert sug-
geriva di oscurare l’identità dell’autore perché le diverse identità dei personaggi fossero
illuminate.
L’inclinazione flaubertiana a non apparire dichiarativamente nella propria opera sarà poi
di Henry James, come abbiamo detto, e di altri romanzieri modernisti, a cominciare da
James Joyce e Virginia Woolf. «L’artista, come il Dio della creazione, rimane all’interno o
dietro o oltre o sopra la sua opera, invisibile, sublimatosi al di là dell’esistenza, indifferente,
intento a limarsi le unghie»: così scrive Joyce nel Portrait of the Artist As a Young Man
(209; trad. mia; 1916). E Woolf, avendo letto alcuni passi di Arnold Bennett, da Hilda
Lessways (1911), afferma con fastidio, in un suo saggio del 1924, che «non sentiamo la
voce della madre, né la voce di Hilda; sentiamo soltanto la voce di Bennett che ci racconta
di affitti e proprietà e tasse» (Bennett e la signora Brown 130).
Questo orientamento, quindi, può essere collegato a una tendenza di lungo periodo
della cultura europea. Scholes, Phelan e Kellogg, per esempio, scrivono:

Nella cultura occidentale, dal Rinascimento a oggi, tutto il movimento del pensiero – quel
movimento che ha generato il romanzo e che lo ha portato a essere la forma letteraria do-
minante – è stato un movimento di allontanamento dal dogma, dalla certezza, dalla fissità
e da ogni tipo di assoluto in metafisica, nell’etica e nell’epistemologia. Il nuovo realismo
filosofico, così strettamente collegato con l’ascesa del romanzo […], ha portato inevitabil-
mente a un clima culturale per il quale possiamo parlare di relativismo. […] Se teniamo
presente questa grande tendenza culturale, comprendiamo anche come il monismo autori-
tario della narrazione assolutamente onnisciente sia diventato sempre meno sostenibile
nella modernità […]. Per i lettori moderni, il narratore deve essere non tanto drammatizzato

5
Anche Flaubert, nei casi in cui la narratologia strutturalista parlerebbe di un narratore extra-
eterodiegetico, attribuisce l’enunciazione narrativa all’autore (il narratore è l’autore), tendenzial-
mente. Ne discuteremo più avanti.
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[L’osservazione è relativa a Henry James, che insisteva sull’uso di personaggi riflettori e


quindi su una drammatizzazione dell’enunciazione narrativa. N.d.R.], quanto relativizzato.
(276-277; trad. mia)

L’ultima osservazione, che insiste sulla relativizzazione più che sulla drammatizzazione,
vale a comprendere nel discorso anche casi come il narratore della Recherche o il Marlow
di Conrad, presenti o intrusivi nel proprio racconto ma non meno moderni dei narratori
woolfiani o jamesiani, perché ciò che dicono non assume mai lo statuto di pretese verità
assolute (si ricordi ciò che diceva Cohn sulla psiconarrazione dissonante da Flaubert in
avanti).
Quanto a ciò che accade dopo il modernismo, diremo solo che nella letteratura postmo-
derna i narratori tornano a essere spesso più visibili (si ricordi il passo di Barth citato sopra)
e che Dawson, per il romanzo contemporaneo, parla di un ritorno della narrazione onni-
sciente, che egli attribuisce ad autori impegnati a contrastare il «declino dell’autorità cul-
turale del romanzo» (45) con un’enunciazione narrativa che si sviluppi in continuità con
le posizioni da loro assunte, in generi discorsivi non finzionali quali il saggio o l’intervi-
sta, «nel contesto pubblico o extradiegetico in cui si colloca il lettore» (49). La definizione
del grado di visibilità del narratore, in breve, continua a essere sintomatica di questioni di
poetica su cui gli scrittori non hanno smesso di riflettere. In anni recenti, Emmanuel Car-
rère ha scritto:

sino a pochi anni fa mi sembravano di una imperdonabile e piatta volgarità la presenza


invadente di Balzac nei suoi libri, i suoi commenti, le sue opinioni su tutto – spesso biz-
zarre, qualche volta idiote – e la sua petulante presunzione. Invece in questo momento […]
trovo piatti e – in un modo loro caratteristico, più velato e di conseguenza più imperdona-
bile – volgari gli illustri scrittori di stretta obbedienza flaubertiana, ossessionati dall’imper-
sonalità e dalla perfezione formale di libri che si reggono solo sulla forza dello stile. (Due
mesi a leggere Balzac 99)

3.2.2. Narratori inattendibili


Un altro concetto utile per descrivere i diversi narratori è quello di attendibilità. Sulla scorta
di Wayne Booth, cioè, possiamo distinguere tra narratori attendibili e narratori inattendibili.
Un primo esempio di narratore inattendibile è offerto dal narratore dei Malavoglia
(1881) di Giovanni Verga e in particolare dal passo in cui la Longa contrae il colera:

A Catania c’era il colèra […]. La Longa una volta, mentre tornava da Aci Castello, col
paniere al braccio, si sentì così stanca che le gambe le tremavano, e sembrava fossero di
piombo. Allora si lasciò vincere dalla tentazione di riposare due minuti su quelle quattro
pietre lisce messe in fila all’ombra del caprifico che c’è accanto alla cappelletta, prima
d’entrare nel paese; e non si accorse, ma ci pensò dopo, che uno sconosciuto, il quale pareva
stanco anche lui, poveraccio, c’era stato seduto pochi momenti prima, e aveva lasciato sui
sassi delle gocce di una certa sudiceria che sembrava olio. Insomma ci cascò anche lei;
prese il colèra e tornò a casa che non ne poteva più […]. (226-227)

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Come osserva Paolo Giovannetti (254), il narratore appare inattendibile per come inter-
preta i fatti, in quanto avvalora la credenza popolare che il colera sia diffuso dagli untori:
lo «sconosciuto» che lascia «sui sassi delle gocce di certa sudiceria» sarebbe cioè un un-
tore e alla sua azione si dovrebbe il contagio della Longa. Ciò che leggiamo nel testo,
tuttavia, ci consente di mettere in dubbio questa spiegazione: il fatto che la Longa si senta
esausta già prima dell’incontro con lo sconosciuto suggerisce infatti che ella abbia già
contratto la malattia e che quindi lo sconosciuto non sia affatto un untore, nonostante ciò
che il narratore suggerisce. Abbiamo così un narratore inattendibile, almeno in questo
passo, e notiamo come la sua inattendibilità sia dovuta all’emergenza del pensiero della
comunità di Aci Trezza, della quale il narratore media la visione del mondo e degli eventi.
Un caso analogo, in questo senso, è quello del narratore di Rosso Malpelo, di cui ab-
biamo già citato l’incipit: «Malpelo si chiamava così perché aveva i capelli rossi; ed aveva
i capelli rossi perché era un ragazzo malizioso e cattivo, che prometteva di riescire un fior
di birbone» (163). Qui possiamo parlare di un’inattendibilità morale del narratore, nel
senso che difficilmente possiamo condividere la sua idea di un legame tra capelli rossi e
immoralità. Il narratore invece afferma questo legame in quanto manifesta la visione e la
cultura della comunità, con i suoi pregiudizi verso i capelli rossi e il giovane Malpelo.
Proviamo a fare qualche considerazione generale sull’inattendibilità. In primo luogo,
seguendo James Phelan (Estranging Unreliability, Bonding Unreliability, and the Ethics
of Lolita), possiamo parlare di inattendibilità rispetto ai fatti, alle interpretazioni e ai giu-
dizi. Nel primo caso, non è attendibile il referto dei fatti che il narratore propone: il lettore
è portato a pensare che gli eventi si siano svolti diversamente da come il narratore li rac-
conta. Nel secondo caso, non è attendibile la sua interpretazione degli eventi (è il caso
della Longa e del colera). Nel terzo caso, non è attendibile il giudizio (morale, per esem-
pio) del narratore (è il caso di Rosso Malpelo).6
In secondo luogo, ancora seguendo Phelan, non dobbiamo dare per scontato che l’ef-
fetto dell’inattendibilità, una volta che il lettore l’abbia percepita, sia di allontanare il
narratore dal lettore: in alcuni casi il lettore sarà effettivamente indotto ad assumere una
distanza critica dal narratore (è il caso di Verga); in altri, però, l’inattendibilità sarà cor-
relata dal lettore alla specifica condizione del narratore e in questo senso potrà portare a
un sentimento simpatetico del lettore nei suoi confronti: potrebbe essere il caso dei nar-
ratori di L’anima non è una fucina o di Caro vecchio neon, di Wallace.
In terzo luogo, seguendo Greta Olson (Reconsidering Unreliability: Fallible and Un-
trustworthy Narrators), converrà distinguere tra narratori fallibili (fallible) e narratori
inaffidabili (untrustworthy): i primi sono soggetti a sbagliare per i loro limiti o per la
situazione in cui si trovano: è il caso dell’Ojo Silva, del racconto di Roberto Bolaño, in
quanto narratore (intra- omodiegetico); i secondi esibiscono invece una disposizione a
ingannare o fuorviare il lettore: è il caso dello Zeno di Italo Svevo. In alcuni casi, inoltre,
potremmo essere incerti se qualificare il narratore come fallibile o come inaffidabile: la
narratrice di Mobili di famiglia, per esempio, quale tipo esemplifica? Ancora in questo
caso, la scelta di una categoria o dell’altra si lega all’interpretazione che diamo del rac-
conto.

6
La distinzione tra referto, interpretazione e giudizio, d’altra parte, è spesso problematica.
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In quarto luogo, ciò che abbiamo detto sul modo in cui il manifestarsi della visione
della comunità di Aci Trezza agisce sull’attendibilità del narratore, riducendola, suggeri-
sce che l’inattendibilità sia più spesso correlata alla narrazione omodiegetica che non alla
narrazione eterodiegetica. Come nota Lubomír Doležel in Heterocosmica, «le entità in-
trodotte nel discorso del narratore anonimo in terza persona sono eo ipso autenticate come
fatti finzionali [nel mondo della finzione, esse sono fatti. N.d.R.], mentre quelle introdotte
nei discorsi dei personaggi finzionali non lo sono» (149). Se, per esempio, il narratore
(eterodiegetico e anonimo) di Una storia ridotta all’osso della vita postindustriale ci dice
che lui e lei si incontrarono e che «lui fece una battuta», ciò che dice non è soggetto a
dubbio: è vero proprio perché a dirlo è un narratore di quel tipo. Se invece la narratrice
(omodiegetica) di Ortiche, di Alice Munro, ci racconta un fatto della vita di un altro per-
sonaggio o ne descrive il carattere, ciò che dice non è vero per il semplice fatto che sia
lei a dirlo: è possibile che la narratrice si riveli inattendibile. Ciò vale in generale, ma non
necessariamente: lo stesso Doležel osserva infatti che la capacità di autenticazione del
narratore extra- eterodiegetico anonimo può indebolirsi nella misura in cui la prospettiva
dei personaggi interferisce con la sua (come nel caso già ricordato dei Malavoglia); inol-
tre, abbiamo detto che dei giudizi e delle riflessioni di certi narratori extra- eterodiegetici
del romanzo dopo Flaubert (era il caso del narratore di La morte a Venezia, di Thomas
Mann) il lettore può legittimamente dubitare.
In quinto luogo, dobbiamo chiederci come arrivi il lettore a un giudizio di inattendibi-
lità: un’ipotesi è che il lettore confronti passi o aspetti diversi del testo e rilevi incoerenze
o luoghi sospetti che lo inducono a formulare un giudizio di inattendibilità della narra-
zione; un’altra, che rilevi una discordanza tra il narratore e l’autore implicito. Sul concetto
di autore implicito, proposto anch’esso da Booth, ci sofferemeremo a breve. Per ora, li-
mitiamoci a caratterizzare l’autore implicito come l’idea dell’autore che il lettore elabora
leggendo il testo. Secondo Booth (e con lui stanno Cohn e altri), il lettore ricostruisce la
versione dell’autore implicito, nota che quella del narratore è diversa e conclude che il
narratore è inattendibile (il narratore, insomma, è inattendibile perché l’autore implicito
mostra di pensarla diversamente). Altri narratologi sostengono invece che il lettore ragioni
sul testo – la nostra prima ipotesi –, rilevandone le incoerenze o i luoghi sospetti e senza
necessariamente appellarsi all’autore implicito (si provi a ragionare sui racconti di Wallace
e di Munro citati per valutare le due diverse proposte). Hansen, tra l’altro, osserva che
spesso il lettore giudica un narratore inattendibile perché rileva una contraddizione tra ciò
che il narratore racconta e il modo in cui si comporta – agiscono cioè le idee del lettore sul
significato dei comportamenti – o tra ciò che il narratore racconta e il mondo quale il lettore
se lo rappresenta anche a prescindere dalla conoscenza che ne offre il testo (Hansen parla
di American Psycho, di Bret Easton Ellis, e di ciò che il lettore sa di Huey Lewis, del quale
il narratore parlerebbe in modo, appunto, inattendibile). Il lettore ragionerebbe sul testo,
dunque, ma alla luce di una propria conoscenza della realtà.
In sesto luogo, occorre ricordare che il giudizio di inattendibilità può essere contro-
verso, soprattutto quando il narratore sia un narratore extra- eterodiegetico la cui visione
non sia facilmente distinguibile da quella dell’autore (ammesso che vogliamo distin-
guerli). In questi casi, secondo Cohn (Discordant Narration), il lettore può dissentire non
dai fatti, ma dalla visione degli eventi suggerita dal narratore (si ha ciò che Cohn chiama

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discordant narration), e però dubitare che l’autore intendesse quella visione come inat-
tendibile: narratore inattendibile, dunque, o visione dell’autore discutibile? Molto spesso,
secondo Cohn, la ricezione di una narrazione in regime extra- eterodiegetico comincia
con una diffusa accettazione dell’attendibilità del narratore, alla quale segue una seconda
fase di discordant narration ed eventualmente una terza fase in cui i lettori più accorti
sono consapevoli della necessità di interpretare anche questo aspetto dell’opera e di muo-
versi nell’ambivalenza.
Infine, osserviamo che il concetto di narratore inattendibile è proposto non come parte
di una narratologia strutturalista, ma nel contesto di un approccio retorico alla narrativa.
La diversità di questo concetto rispetto a quelli di narratore eterodiegetico, omodiegetico,
extradiegetico e intradiegetico dovrebbe essere evidente: laddove questi insistono su
aspetti della storia e del racconto, il concetto di narratore inattendibile dispone il narratore
in una prospettiva psicologistica e relazionale e considera la risposta del lettore al testo,
rimandando all’accezione retorica del concetto di ethos.

3.3. Autore implicito e lettore implicito


3.3.1. L’autore implicito
All’approccio retorico alla narrativa, come abbiamo detto, si deve anche il concetto di
autore implicito, che ora dobbiamo discutere. Innanzitutto, però, osserviamo che, se ag-
giungiamo l’autore implicito e inoltre il lettore implicito, il modello della comunicazione
narrativa si presenta in questo modo:

Autore Narratore Lettore


Autore Narratario Lettore
implicito (vari li- Testo impli-
reale (vari livelli) reale
velli) cito

Consideriamo la prima delle due figure aggiunte, quella dell’autore implicito (implied
author). Essa viene introdotta da Wayne Booth, come abbiamo ricordato sopra, in un
saggio del 1961 intitolato Retorica della narrativa.7 In questo saggio Booth si confronta
con il New Criticism e con la tesi, che a Booth sembra ormai essersi ridotta a dogma
critico ereditato dall’estetica modernista (ne abbiamo parlato), secondo la quale un autore
dovrebbe essere impersonale, impassibile, indifferente. Booth al contrario studia i modi
in cui l’autore sembra intervenire nel proprio testo per guidare il lettore nell’interpreta-
zione, per esempio formulando giudizi morali sui personaggi o descrivendo la propria
poetica. Booth non è uno strutturalista – le sue ricerche, come abbiamo detto sopra e come
dice il titolo del saggio al quale ci riferiamo, possono essere descritte nei termini di una
retorica della narrativa – e, quando tratta di romanzi con narratore extra- eterodiegetico,
attribuisce la voce che racconta, tipicamente, all’autore. Leggiamo questo passo di Henry
Fielding, da Amelia (1751):

7
Prima di Booth, categorie analoghe erano state proposte e discusse nell’ambito del formalismo
russo (cfr. Schmid, Implied Author).
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Le angosce da essi patite furono talvolta così acute, e gli incidenti che le causarono così
straordinari, che sembravano essere il prodotto della più grande malvagità, ma anche della
più grande fantasia inventiva che la superstizione abbia mai attribuito alla Fortuna. (Cit. in
Booth 75)

In passi come questo, secondo Booth, l’enunciazione deve essere attribuita all’autore, al
quale dunque si dovrà attribuire anche la retorica che la informa (giudizi morali, idee
estetiche, riflessioni filosofiche, indicazioni ermeneutiche, allocuzioni al lettore e altro
ancora che troviamo nel testo). Per rendere conto di questa retorica senza ricadere nel bio-
grafismo o in un’idea ingenua di autore, però, Booth propone la figura dell’autore impli-
cito: è a questo autore, e non all’autore reale, che si dovranno attribuire quel ruolo enun-
ciativo e quella retorica. Ogni autore di narrativa, scrive infatti Booth, elabora per cia-
scuna sua opera «una versione implicita di se stesso, diversa dagli autori impliciti che
incontriamo nelle opere scritte da altri» (73). Si rilegga l’esordio di Papà Goriot: l’autore
implicito, secondo Booth, sarà quella figura, creata da Balzac, alla quale risalgono i giudizi
sulla letteratura del suo tempo, le riflessioni sul corso della società, l’intonazione accorata
del discorso e l’allocuzione ai lettori in poltrona.
La proposta sembra interessante e sembra trovare riscontro nel pensiero e nell’espe-
rienza di alcuni romanzieri. In un saggio intitolato I livelli di realtà nella letteratura
(1978), per esempio, Calvino osserva che gli scrittori, in un secolo ricco di «metalettera-
tura» quale è il Novecento (388), non vogliono che il lettore dimentichi di trovarsi di
fronte a un artefatto e che

[l]a condizione preliminare di qualsiasi opera letteraria è questa: la persona che scrive deve
inventare quel primo personaggio che è l’autore dell’opera. […] Scrivere presuppone ogni
volta la scelta d’un atteggiamento psicologico, d’un rapporto col mondo, d’un’impostazione
di voce, d’un insieme omogeneo di mezzi linguistici e di dati dell’esperienza e di fantasmi
dell’immaginazione, insomma di uno stile. (389-390)

Gustave Flaubert autore di tutte le sue opere – l’esempio è di Calvino – genera Gustave
Flaubert autore di Madame Bovary, che genera il personaggio di Emma Bovary, che ge-
nera un’immagine di sé quale vorrebbe essere. Ciascun elemento retroagisce sul prece-
dente e l’ultimo è in contatto con il primo. L’analisi degli strati che compongono l’io
dell’autore mostra quanti di essi siano non suoi individuali, ma della cultura, dell’epoca
o della specie. «Il punto di partenza della catena, – conclude Calvino – il vero primo
soggetto dello scrivere ci appare sempre più lontano, più rarefatto, più indistinto: forse è
un io-fantasma, un luogo vuoto, un’assenza» (391). Quest’ultima idea rimanda alla critica
strutturalista e poi decostruzionista dell’idea di soggetto come sostanza, presenza e ori-
gine e il discorso di Calvino, nel suo complesso, è legato alla postmodernità letteraria,
più che agli orizzonti teorici e letterari di Booth, ma una certa consonanza è innegabile.
Dunque il concetto di autore implicito sembra pertinente per una modellizzazione della
scrittura e della lettura di narrativa. Dobbiamo inserirlo nel modello della comunicazione
narrativa?
Occorre dire che il concetto di autore implicito presenta qualche problema. Un primo
rilievo che possiamo fare è che non è chiaro se l’autore implicito, secondo Booth, sia una

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creazione dell’autore o del lettore. Nella definizione del concetto che abbiamo riportato
sopra, Booth attribuiva la creazione dell’autore implicito all’autore reale (e lo stesso si
può forse dire di Calvino). Altrove, però, Booth suggerisce che l’autore implicito sia an-
che una creazione del lettore: «L’autore implicito seleziona, consciamente o inconscia-
mente, ciò che verrà letto; il lettore interpreta la sua personalità come una versione lette-
raria […] della persona reale in quanto somma delle proprie scelte» (77). Forse l’idea è
che il lettore di un testo narrativo – Papà Goriot, per esempio – si farà una qualche idea
del suo autore e che questa idea discenderà da ciò che l’autore ha scritto. La fisionomia
dell’autore implicito, insomma, dipende sia dalla scrittura dell’autore, sia dall’interpreta-
zione del lettore. Inoltre, il concetto sembra ora giustificarsi non solo in relazione a una
fenomenologia della scrittura – in relazione al fatto che l’autore, per ragioni artistiche o
personali, voglia apparire in un certo modo –, ma anche in relazione a una fenomenologia
della lettura – in relazione al fatto che, quando per esempio leggiamo un romanzo, ci
facciamo una certa idea del suo autore. Per ricordarci che l’idea che ci facciamo non
corrisponde necessariamente a quella che ci faremmo dell’autore se lo incontrassimo
fuori del dominio della letteratura – al supermercato, o a cena da qualcuno –, e cioè qua-
lora incontrassimo l’autore reale, parliamo allora di un autore implicito.
Il concetto sembra ancora legittimo, ma c’è un problema: non è ovvio, dalla trattazione
di Booth (la cui ricerca, come abbiamo ricordato, non appartiene alla narratologia strut-
turalista), come la figura dell’autore implicito possa coesistere con quella del narratore o
distinguersi da essa. Si ripensi al precedente passo di Fielding e si legga quest’altro passo
di Booth:

se ho ragione nell’affermare che la neutralità è impossibile, anche il commento più stretta-


mente neutrale rivela una certa dose di coinvolgimento.
«C’era una volta a Berlino, Germania, un uomo chiamato Albinus. Era ricco, rispet-
tabile, felice; un giorno egli abbandonò sua moglie per la sua giovane amante;
amava; non era amato; e la sua vita finì in un disastro.
La storia è tutta qui, e potremmo averla lasciata così se non vi fosse utilità e piacere
nel raccontarla; e, benché vi sia abbastanza spazio su una lapide per contenere, in-
corniciata nel muschio, la versione ridotta della vita di un uomo, i particolari sono
sempre ben accetti». (Nabokov, Laughter in the Dark 1)
Può darsi che Nabokov abbia esentato la sua voce di narratore da ogni traccia di coinvol-
gimento, salvo una, fondamentale; egli crede, infatti, nell’interesse ironico – e, come risul-
terà poi, nella tragicità – di un uomo destinato all’autodistruzione. Sempre con lo stesso
tono distaccato, l’autore può intervenire ogni volta che vuole, senza costringere il lettore a
dubitare della sua assoluta neutralità. (80)

Si potrebbe dire che non è chiaro chi parli, secondo Booth: l’autore reale (Nabokov) o
l’autore implicito (creato da Nabokov)? Ma ammettiamo pure che si tratti dell’autore im-
plicito, al quale Booth per brevità si riferisce con il nome di Nabokov, perché dopotutto
si parla della sua «voce di narratore». Resta il fatto che qui un narratologo che usi il
concetto di narratore in senso strutturalista – e la maggioranza dei narratologi, come si è
detto, attribuisce sempre la narrazione a un narratore così inteso – dovrà attribuire la voce

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che racconta al narratore, non all’autore implicito. Che cosa resta allora dell’autore im-
plicito? E come si concilia la proposta di Booth con l’idea strutturalista del narratore?
In effetti, Genette sostiene che complessivamente la narratologia possa fare a meno
dell’autore implicito (Nuovo discorso del racconto, 116 ss.) e noi potremmo dire che, se
la voce che racconta è attribuita al narratore e non all’autore, reale o implicito che sia,
nella massima parte dei casi il lettore non si rappresenterà alcun autore implicito (contro
ciò che diceva Booth sulla fenomenologia della lettura e che provvisoriamente avevamo
accettato): quale autore o quale autrice dovremmo rappresentarci, ancora una volta, leg-
gendo Nemico, amico, amante…, Mobili di famiglia, Giorni del 1978 o Un altro pioniere?
Certo mi figuro i personaggi e, in varia misura, un narratore, ma posso dire che mi imma-
gini l’autore o l’autrice? E, per cominciare, sarebbe maschio o femmina, appunto? E per-
ché l’uno o l’altra? Se si usa il concetto di narratore, la fenomenologia della lettura che il
concetto di autore implicito presuppone appare quanto meno dubbia.
Genette ammette solo tre casi in cui sarebbe ragionevole parlare di un autore implicito,
perché si potrebbe identificare una figura di autore sicuramente distinta sia da quella
dell’autore reale, sia da quella del narratore: un apocrifo perfetto, un libro scritto da un
ghost writer e un libro con più autori (come i romanzi dei fratelli Goncourt) dei quali il
lettore non sappia (il lettore crede cioè che il libro abbia un solo autore). In questi tre casi
il lettore si figurerà un autore che differirà dall’autore reale e che quindi potremmo dire
implicito. Si tratta però di casi marginali, quanto meno numericamente, e dunque il con-
cetto di autore implicito, se si accoglie quello di narratore, ha utilità limitata e non è un
concetto narratologico in senso stretto: anche nei tre casi per i quali l’abbiamo ammesso,
infatti, il lettore non si figura l’autore implicito sulla base di ciò che legge nel testo, ma
perché è ingannato dall’attribuzione apocrifa (nel caso dell’apocrifo) o nominale (nel caso
del ghost writer) o perché non è informato (nel caso dei due autori). Per l’analisi del testo
narrativo, in effetti, possiamo fare a meno dell’autore implicito.
Se si usa il concetto di narratore, quello di autore implicito sembra complessivamente
superfluo o fuorviante. Nondimeno, alcuni narratologi li usano entrambi. Seymour Chat-
man, per esempio, ha proposto di conservare la figura dell’autore implicito specificando
per essa un’accezione che pure è presente nel discorso di Booth: l’autore implicito come
«core of norms and choices» del testo, ovvero come depositario della poetica che deter-
mina il testo. Chatman cerca cioè di privare il concetto di ciò che esso ha di antropomorfo,
anche per distinguerlo meglio da quello di narratore, e di renderlo più propriamente se-
miotico: l’autore implicito, scrive Chatman,

[n]on è il narratore, ma piuttosto il principio che ha inventato il narratore insieme a tutto il


resto della narrazione, che ha sistemato le carte in un certo modo, ha fatto succedere queste
cose a questi personaggi, in queste parole o in queste immagini. A differenza del narratore,
l’autore implicito non può dirci niente. Egli, o meglio esso, non ha voce, non ha mezzi
diretti di comunicazione. Ci istruisce in silenzio, attraverso il disegno del tutto, con tutte le
voci, con tutti i mezzi che ha scelto per farci apprendere. (155-156)

L’operazione però non è del tutto coerente: in che senso l’autore implicito inventa («ha
inventato») e istruisce («Ci istruisce»), se si tratta di un principio o comunque di un con-
cetto non antropomorfo? David Herman propone una critica non dissimile dove scrive
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che al concetto di autore implicito è indebitamente attribuita una «capacità operativa»,


cosicché «un’entità originariamente intesa a uno scopo euristico viene reificata» e usata
impropriamente come fondamento per l’interpretazione (Herman, Phelan, Rabinowitz,
Richardson e Warhol 49; trad. mia).
In generale, i narratologi che continuano a usare il concetto di autore implicito lo fanno
in accezioni diverse, ma tutte riconducibili a queste di Booth e Chatman che abbiamo con-
siderato e tutte, dunque, problematiche. Se Shlomith Rimmon-Kenan definisce l’autore im-
plicito come «la coscienza ordinatrice dell’opera nel suo complesso, la fonte delle norme
incarnate nell’opera» (89; trad. mia), James Phelan parla di una «una versione semplifi-
cata dell’autore reale, un sottoinsieme effettivo o presunto delle capacità, dei tratti, degli
atteggiamenti, delle credenze e dei valori dell’autore reale, nonché di quelle sue proprietà
che svolgono un ruolo attivo nella costruzione di un particolare testo» (Living to Tell
about it 45; trad. mia). Nella Routledge Encyclopedia of Narrative Theory, alla voce im-
plied author, si legge: «Non c’è […] alcun accordo generale su che cosa sia effettiva-
mente denotato da questo termine» (239; trad. mia).
A questo punto ci si può chiedere per quali ragioni dovremmo continuare a usare il
concetto di autore implicito: per descrivere la poetica dell’autore (dando seguito alla pro-
posta di Chatman, vale a dire, in modo più rigoroso di quanto faccia egli stesso)? Ma
abbiamo proprio il concetto di poetica, per questo, e non si capisce quale vantaggio rica-
veremmo da una sua antropomorfizzazione. Dovremmo usarlo, allora, per descrivere il
portatore di quella poetica? Ma quello è l’autore reale. Inoltre, qualificare l’autore nel
testo come implicito e contrapporlo all’autore fuori del testo come reale significa affer-
mare una visione semplicistica dell’identità personale e del rapporto tra identità personale
e letteratura. L’idea che si suggerisce, cioè, è che possiamo distinguere nettamente tra
un’identità reale, che si manifesterebbe nella vita al di là della letteratura e che sarebbe
quella dell’autore reale, e un’identità artefatta, che si manifesterebbe nella letteratura.
Questa idea, però, è appunto semplicistica: anche la vita fuori della letteratura comprende
una parte di rappresentazione – l’idea che l’autore che incontriamo al supermercato ci si
offrirebbe in una manifestazione spontanea e perfettamente autentica di un’identità sus-
sistente in una sua oggettività, vale a dire, è semplicistica – e la letteratura, inversamente,
non è semplicemente finzione consapevole di sé. Nel suo saggio Contre Sainte-Beuve
Marcel Proust scrive che la verità più profonda di un autore, anche in senso identitario, è
quella che egli manifesta nella propria opera, non quella che potremmo conoscere con-
versando con lui. Dunque continueremo a parlare semplicemente dell’autore, invece che
dell’autore implicito, e del narratore, ma ricordando che l’identità personale è un feno-
meno (e un problema filosofico) quanto meno complesso, che la letteratura non è il luogo
della sua manifestazione più irriflessa e trasparente e che forse un luogo siffatto non esiste
nemmeno («Trasparenza su che cosa?», domanderebbero forse Roland Barthes e Jacques
Derrida). J.M. Coetzee scrive:

Il sé, per come lo intendiamo oggi, non è l’unità a cui si fa riferimento nel razionalismo
classico. Al contrario, è molteplice e molteplicemente suddiviso contro se stesso. Per par-
lare in modo figurato, è uno zoo in cui risiede una moltitudine di animali, sui quali il guar-

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diano ansioso della razionalità, oppresso da un eccesso di lavoro, esercita un controllo al-
quanto limitato. Di notte, il guardiano dorme e gli animali vagano liberamente, facendo il
proprio onirico lavoro. (Giving Offense 37; trad. mia)

3.3.2. Il lettore implicito


Considerazioni analoghe a quelle proposte sopra possono valere anche per la seconda
delle due figure che alcuni narratologi aggiungono al modello della comunicazione nar-
rativa: quella del lettore implicito. Anche in questo caso infatti abbiamo accezioni diverse
del concetto e inoltre concetti più o meno chiaramente distinti, ai quali poi si uniscono
variazioni terminologiche per cui studiosi diversi, in diverse lingue, parlano volta a volta
di implied reader, implizit Leser, abstrakter Leser, lettore implicito, lettore modello e così
via. Sintetizzando, diremo che questa varietà si ordina intorno a due accezioni fondamen-
tali: quella del lettore implicito come controparte dell’autore implicito nella comunica-
zione narrativa e quella dell’autore implicito come figura delle competenze ermeneutiche
presupposte dal testo. Anche in questo caso, dunque, abbiamo un concetto più antropo-
morfo, che può essere inteso a modellizzare una rappresentazione di ‘qualcuno’ che sta
sul lato della lettura da parte di ‘qualcuno’ che sta sul lato della scrittura (simmetrica-
mente al modo in cui il concetto di autore implicito poteva essere inteso anche come
modellizzazione di una rappresentazione dell’autore da parte del lettore), e un concetto
non antropomorfo, che coglie ciò che potrebbe corrispondere, sul lato della lettura, a ciò
che sul lato della scrittura era la poetica. La prima accezione è esemplificata ancora da
Booth, allorché l’autore implicito è da lui descritto come «target audience» dell’autore
implicito (così David Herman, nel suo Basic Elements of Narrative, caratterizza l’idea di
lettore implicito di Booth). Per la seconda accezione si può invece ricordare la definizione
di implizit Leser di Wolfgang Iser, secondo il quale l’implizit Leser

include tutte quelle predisposizioni necessarie all’opera letteraria per esercitare i suoi effetti
– predisposizioni progettate non mediante una realtà empirica esterna, ma mediante il testo
stesso. Conseguentemente, il concetto del lettore implicito ha le sue radici saldamente pian-
tate nella struttura del testo; esso è una costruzione e in nessun modo può essere identificato
con un lettore reale. (73)

Anche il concetto di lettore implicito – sul quale non ci diffonderemo – presenta alcuni
problemi che abbiamo già riscontrato per quello di autore implicito: antropomorfizza-
zione di ciò che non è antropomorfo; sovrapposizione con altre categorie più perspicue;
dubbia utilità fenomenologica ed ermeneutica.8 Di conseguenza, resteremo al modello
della comunicazione narrativa formato da autore reale, lettore reale, narratore e narratario.

8
Wolf Schmid afferma però che «[l]a relazione tra autore implicito e lettore implicito non è sim-
metrica, perché non c’è alcuna simmetria nei modi in cui le due entità sono costituite. Il lettore
implicito, in ultima analisi, è uno degli attributi dell’autore implicito ricostruito dal lettore reale»
(Implied Reader; trad. mia). Schmid, vale a dire, ne imputa la definizione al lettore reale.
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3.4. Le infrazioni del modello della comunicazione narrativa


3.4.1. Le infrazioni del modello
Torniamo ora al modello della comunicazione narrativa. Esso può essere destabilizzato o
violato in modi diversi. Consideriamo l’esordio di Se una notte d’inverno un viaggiatore
(1979), di Italo Calvino:

Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di
Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo
che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televi-
sione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se
no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito,
con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo
di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace. (3)

In queste prime righe del romanzo incontriamo il fenomeno della metalessi, ovvero un’in-
frazione delle distinzioni tra mondi o livelli diegetici. Il «lettore» al quale il narratore si
rivolge in queste prime battute, infatti, è un personaggio della storia, ovvero appartiene
al mondo narrativo (alla diegesi, nella terminologia di Genette). Il narratore extradiege-
tico che a lui si rivolge, invece, è eterodiegetico. L’apostrofe del narratore al personaggio
del lettore è quindi una comunicazione che attraversa, violandolo, il confine tra il mondo
narrativo e la situazione a esso estranea della narrazione: un caso, appunto, di metalessi.
La metalessi non si incontra solo nella narrativa lettera-
ria: nella Rosa purpurea del Cairo (1985), di Woody Allen,
la protagonista Cecilia sta guardando un film, quando il
protagonista di quel film, che si offre allo spettatore come
narrazione intradiegetica, esce dallo schermo e comincia a
parlare con lei. È così violata la distinzione tra livello extra-
diegetico e livello intradiegetico. In letteratura la metalessi è
frequente soprattutto nella narrativa postmoderna, che
spesso esibisce la propria finzionalità ludicamente o con
l’intento di richiamare l’attenzione del lettore sulle conven-
zioni entro le quali si dispiega il racconto letterario: violare
Fig. 4 – Diego Velázquez, Las Me- un confine come quello tra livelli narrativi può anche essere
ninas (1656). un modo per farlo percepire e problematizzarlo.
La metalessi si accompagna spesso alla mise en abyme (il termine è di André Gide),
ovvero alla rappresentazione della rappresentazione entro se stessa. Un esempio pittorico
di mise en abyme è offerto da Las Meninas (1656) di Diego Velázquez, che rappresenta
il pittore intento a dipingere un quadro che rappresenterà la scena intorno a lui (fig. 4).
Un esempio letterario è offerto invece da Amleto (1600 ca.), dove Amleto chiede a una
compagnia di attori di mettere in scena la vicenda di un delitto analogo a quello di cui suo
padre è stato vittima: abbiamo cioè una rappresentazione teatrale incastonata entro la rap-
presentazione teatrale principale e la rappresentazione incastonata riprende un episodio
della rappresentazione principale. La mise en abyme non costituisce, di per sé, una viola-
zione dei confini tra livelli narrativi, ma ne crea i presupposti in quanto genera possibilità
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di corrispondenza, tra elementi omologhi dei due livelli, che possono facilmente tradursi
in comunicazioni attraverso il confine, vale a dire in metalessi.
Un altro genere di infrazione del modello della comunicazione narrativa si ha quando
il narratore è instabile. Non si tratta di quei casi in cui il ruolo di narratore, non proble-
maticamente, è assunto in successione da personaggi diversi – come nel Decameron
(1350 ca.) di Boccaccio o nei Detective selvaggi (1997) di Bolaño – o da figure collocate
a diversi livelli narrativi – come quando Ulisse, nell’Odissea, prende la parola e diventa
narratore omodiegetico autodiegetico –, ma di quei casi in cui la voce narrante passa da
una figura a un’altra senza che il testo o la situazione narrativa segnalino o giustifichino
la transizione. Nel passo di Se una notte d’inverno un viaggiatore citato di seguito, per
esempio, si hanno delle transizioni non segnalate, né spiegate in alcun modo, dal narratore
dell’esordio, che racconta ciò che il personaggio del lettore-narratario sta leggendo, a un
diverso narratore che è anche un personaggio della storia che lo stesso lettore-narratario sta
leggendo, e viceversa:

Le stazioni si somigliano tutte; poco importa se le luci non riescono a rischiarare più in là
del loro alone sbavato, tanto questo è un ambiente che tu conosci a memoria, con l’odore
di treno che resta anche dopo che tutti i treni sono partiti, l’odore speciale delle stazioni
dopo che è partito l’ultimo treno. Le luci della stazione e le frasi che stai leggendo sembra
abbiano il compito di indicare le cose affioranti da un velo di buio e di nebbia. Io sono
sbarcato in questa stazione stasera per la prima volta in vita mia e già mi sembra d’averci
passato una vita, entrando e uscendo da questo bar, passando dall’odore della pensilina
all’odore di segatura bagnata dei gabinetti, tutto mescolato in un unico odore che è quello
dell’attesa, l’odore delle cabine telefoniche quando non resta che recuperare i gettoni per-
ché il numero chiamato non dà segno di vita.
Io sono l’uomo che va e viene tra il bar e la cabina telefonica. Ossia: quell’uomo si chiama
“io” e non sai altro di lui, così come questa stazione si chiama soltanto “stazione” e al di
fuori di essa non esiste altro che il segnale senza risposta di un telefono che suona in una
stanza buia d’una città lontana. Riattacco il ricevitore… (11-12; le sottolineature, che non
sono del testo originale, evidenziano le transizioni)

Un esempio analogo è offerto da Mister Squishy, di David Foster Wallace, dove il


narratore sembra essere a tratti un narratore omodiegetico («Io ero uno degli uomini nella
sala» [16]), a tratti un narratore eterodiegetico che vede anche ciò che accade fuori della
sala dove il narratore omodiegetico diceva di trovarsi e che più in generale tende a esibire
una conoscenza degli eventi e dell’interiorità dei personaggi superiore a quella che po-
trebbe avere verosimilmente un personaggio che raccontasse come narratore omodiege-
tico (in questo senso si potrebbe anche parlare di parallessi, ma i modi complessivi della
narrazione suggeriscono decisamente il profilarsi di un narratore eterodiegetico in ag-
giunta a quello omodiegetico evocato dal passo citato sopra).

3.4.2. Il lettore e le infrazioni del modello


Gli artifici che abbiamo descritto possono agire sul lettore in modo destabilizzante. In
Altre inquisizioni (1952), a proposito della mise en abyme, Jorge Luis Borges scrive:

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Perché ci inquieta che don Chisciotte sia lettore del Don Chisciotte, e Amleto, spettatore
dell’Amleto? Credo di aver trovato la causa: tali inversioni suggeriscono che se i personaggi
di una finzione possono essere lettori o spettatori, noi, loro lettori o spettatori, possiamo
essere fittizî. (73)

Più in generale, di fronte a queste violazioni del modello e di aspettative di lettura


derivanti soprattutto dall’esperienza della narrativa realista, il lettore ha due possibilità,
che possiamo descrivere mediante la nozione di naturalizzazione elaborata da Jonathan
Culler sulla scorta di alcune riflessioni di Barthes e di altri teorici dello strutturalismo.
Culler sviluppa la riflessione strutturalista sulla verosimiglianza come processo di cor-
relazione di un testo a un altro testo che lo renda intelligibile (cfr. Culler, Structuralist
Poetics 131-160). Il primo testo, nel nostro caso, è il testo letterario; il secondo testo,
invece, può non essere un testo in senso stretto: secondo gli strutturalisti, infatti, ‘testi’ ai
quali correliamo il testo letterario per costituirlo come verosimile sono il reale (ciò che in
una cultura è ritenuto tale al di là delle determinazioni culturali, perché così sarebbe il
mondo: il fatto che gli esseri umani parlino, o che i corpi cadano), la cultura (dai pregiu-
dizi alle conoscenze condivise: l’idea che le donne siano più inclini degli uomini al ma-
trimonio), i modelli di genere (nel senso di genere letterario: nel poliziesco, abbiamo
certe attese rispetto ai personaggi e all’intreccio), il convenzionalmente naturale (lo si ha
dove uno scrittore rivendica il proprio allontanamento dalle convenzioni come mossa
verso una più specifica verosimiglianza) e la parodia o l’ironia (che presuppongono con-
venzioni di genere). Nel fatto che gli strutturalisti usino il concetto di testo per parlare,
tra l’altro, del reale o di conoscenze diffuse, osserviamo come il linguaggio sia per loro
una dimensione pervasiva dell’esperienza e della conoscenza. Ciò che noi conosciamo
non sarebbe dunque una realtà oggettiva, ma rappresentazioni della realtà determinate
dalla nostra cultura e in particolare costituite entro un linguaggio. In questo senso, anche
ciò che chiamiamo la realtà avrebbe natura testuale o linguistica e l’idea generale, tor-
nando alla nozione di naturalizzazione, è che leggiamo i testi letterari correlandoli con
altri testi (nell’accezione estesa esposta ora) in vario modo noti.
Vi sono però alcuni testi che più difficilmente possiamo costituire come verosimili. In
un saggio intitolato Il piacere del testo (1973), in particolare, Barthes contrappone i testi
leggibili (lisibles), che sappiamo come leggere e la cui lettura ci dà piacere (textes de
plaisir), ai testi scrivibili (scriptibles), che si scrivono ma che (ancora) non sappiamo
come leggere e che ci offrono un diverso godimento (textes de jouissance). Non do-
vremmo però intendere questa dicotomia come una divisione dei testi letterari in due in-
siemi distinti. Essa piuttosto suggerisce che in ogni testo possiamo riconoscere funzioni
di conferma e funzioni di rottura delle attese e delle convenzioni, o tratti leggibili e tratti
scrivibili, o ancora tratti che sappiamo come leggere e altri che mettono in crisi le nostre
aspettative e le nostre competenze. Sarà poi vero che alcuni testi tenderanno più decisa-
mente al polo del leggibile, mentre altri tenderanno al polo dello scrivibile. Esempi di
testi per lo più leggibili potrebbero essere i romanzi del realismo ottocentesco: Balzac,
Dickens, Manzoni. Esempi di testi più scrivibili sono offerti dalla narrativa postmoderna
o dei nouveaux romanciers di metà Novecento, o ancora da autori contemporanei come
David Foster Wallace.

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Di fronte a un testo più scrivibile che leggibile, il lettore tenterà strategie di naturaliz-
zazione che gli consentano di ristabilire la rispondenza del testo a convenzioni note e
dunque la sua verosimiglianza: per esempio, leggendo enunciati contraddittori o confron-
tandosi con narrazioni lacunose e incoerenti, come accade con i romanzi di Alain Robbe-
Grillet, il lettore potrà ipotizzare che il narratore si trovi in uno stato allucinatorio, che
soffra di amnesie o che stia esponendo un sogno: «Attribuire una fisionomia al narratore
– osserva ancora Culler – è uno dei modi principali per naturalizzare la fiction» (Structu-
ralist Poetics 200). Qualora poi il tentativo fallisse, il lettore potrebbe formulare altre
ipotesi (cfr. Yacobi), fino a imputare all’autore un errore o a pensare a un guasto della
tradizione del testo (qualcosa di simile accade con alcune incoerenze del testo della Re-
cherche, che sembrano derivare non dal fatto che Proust volesse comporre un testo con-
traddittorio e in questo senso scrivibile, ma dal fatto che egli sia morto prima di terminare
la revisione finale del romanzo, ovvero prima di arrivare a eliminare quelle incoerenze).
Vi sono però testi che resistono a ogni tentativo di naturalizzazione: «le opere più ra-
dicali fanno sì che questo tipo di recupero [Mediante ipotesi sullo stato del narratore, per
esempio. N.d.R.] si configuri come un’imposizione di senso arbitraria» (Culler, Structu-
ralist Poetics 200). È il caso di testi come Mister Squishy, per esempio, a proposito del
quale abbiamo detto come risulti impossibile identificare una voce narrante o una logica
verosimile delle sue trasformazioni, ciò che contraddice le attese di lettura, maturate ma-
gari tramite la frequentazione della narrativa realista, con le quali la maggior parte dei
lettori affronta il testo; e situazioni simili si verificano in altri racconti della raccolta, come
Caro vecchio neon e Oblio. Per quanto possiamo spiegare alcuni tratti sorprendenti della
narrazione mediante la condizione anomala dei narratori rispettivi, alcuni nodi resteranno
tali e ci costringeranno a interrogarci non su come scioglierli – non su come naturalizzare
il racconto come racconto di un’anima defunta (Caro vecchio neon) o di un uomo o di
una donna che forse stanno sognando (Oblio) –, ma su come interpretarli. Oppure, si
consideri la Montagna dell’anima, di Gao Xingjian: la narrazione alterna la prima persona
della narrazione extra- omo- autodiegetica di alcuni capitoli alla seconda persona della
narrazione apparentemente extra- eterodiegetica di altri. Si alternano cioè un io narratore
e un tu narratario di un altro narratore, dai quali poi emergono una lei e un lui, che pro-
gressivamente si intrecciano senza che possiamo semplicemente identificarli come per-
sonaggi distinti di una stessa storia. Siamo così sollecitati a interpretare le forme narrative
del testo come significanti non di una realtà esteriore, della storia o del mondo narrativo,
ma di una realtà interiore (nel senso che il testo stesso perviene a suggerire nel cap. 52).
Di fronte a un testo scrivibile, più in generale, dobbiamo ammettere il carattere non ve-
rosimile e in certo modo sovversivo di ciò che leggiamo e interrogarci sul suo significato.
Alcuni narratologi, in anni recenti, hanno quindi parlato di unnatural narratives, met-
tendo in discussione l’idea, caratteristica dei narratologi cognitivisti, che nella lettura di
testi narrativi usiamo categorie ‘naturali’, le stesse cioè che usiamo nella vita quotidiana,
nella comunicazione linguistica non letteraria e nella narrazione orale spontanea (idea
elaborata per esempio da Monika Fludernik nel suo Towards a ‘Natural’ Narratology).
Brian Richardson scrive: «I racconti innaturali possono essere descritti come testi che
violano le convenzioni mimetiche proponendo serie di eventi fantasiosamente improba-
bili o sorprendentemente impossibili; narrazioni non, semplicemente, non realistiche, ma
anti-realistiche» (95; trad. mia). La narrativa postmoderna offre numerosi esempi, come
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si è detto, ma Richardson suggerisce che altri se ne possano trovare in epoche e generi


diversi, da Aristofane a Rabelais ad Alice in Wonderland.
Come si vede, questa tradizione innaturale, che sarebbe stata marginalizzata dalla vi-
sione prevalentemente mimetica della fiction narrativa che da Aristotele arriva fino a Flu-
dernik, comprende non solo quei testi narrativi che con Barthes potremmo dire scrivibili,
ma anche narrazioni fantastiche o antirealistiche per le storie che raccontano e però prive
di tratti formali antimimetici. Tra i narratologi unnatural, pertanto, si discute se la cate-
goria delle unnatural narratives debba essere intesa in questa accezione estesa o in un’al-
tra più ristretta, che comprenda quei racconti che sfidano la logica formale del racconto
(Wallace, di nuovo), ma non quelli che tendono al fantastico restando in forme più cano-
niche (Il barone rampante di Italo Calvino, per esempio). In questa accezione ristretta, la
categoria di unnatural narrative si riavvicina a quella barthesiana di testo scrivibile, se
non per un’ultima differenza: laddove gli strutturalisti criticavano il concetto stesso di
naturale, o almeno volevano mostrare l’origine tipicamente culturale o ideologica di ciò
che chiamiamo naturale, i narratologi unnatural si limitano a sostenere che molta narra-
tiva non possa essere compresa invocando l’uso di categorie naturali, senza però mettere
in discussione l’idea stessa di categorie naturali. Anche qui, dove pure le due narratologie
sembrano incontrarsi, è possibile riconoscere la diversità dei loro orientamenti di fondo.

3.5. L’atto narrativo


Consideriamo ora l’atto narrativo, ovvero l’atto linguistico che produce il racconto. Ra-
gionando sull’intervento di Janine di Giovanni a TED – un caso di racconto fattuale orale,
dicevamo –, avevamo osservato che era possibile collocare nel tempo storico non solo gli
eventi narrati, ma anche la narrazione, della quale inoltre potevamo definire la durata. A
queste determinazioni, quanto meno in linea di principio, potremmo arrivare in modi di-
versi: non solo, ovviamente, assistendo all’intervento, ma anche seguendone una ripro-
duzione (quella disponibile sul sito di TED, per esempio), o interrogando in proposito
persone che vi abbiano assistito. Nel caso di una narrazione fattuale orale come questa,
cioè, alla temporalità dell’atto narrativo possiamo accedere mediante fonti di informa-
zione diverse da quella costituita dal racconto prodotto da quell’atto. I racconti letterari,
in quanto tipicamente scritti e finzionali, differiscono dal caso considerato in questo
senso: che sulla temporalità dell’atto narrativo non abbiamo fonti diverse dal racconto
stesso. Questo implica che quella temporalità, di norma, possa essere determinata solo
parzialmente. Consideriamo per esempio Una storia ridotta all’osso della vita postindu-
striale. Che cosa possiamo dire del momento in cui avverrebbe la narrazione? Solo che il
tempo verbale usato per il racconto degli eventi – il simple past nel testo originale in
inglese; il passato remoto e l’imperfetto in italiano – suggerisce una posteriorità della
narrazione rispetto agli eventi stessi. Non è però possibile determinare date assolute,
neanche entro il tempo del mondo della finzione – neanche date finzionali, cioè, relative
agli eventi finzionali narrati –, né misurare più precisamente la distanza temporale tra
eventi e narrazione, né dire alcunché della durata della narrazione (che pure, in quanto
atto, dovrebbe averne una). Come si è detto, possiamo determinare la temporalità della
narrazione solo nella misura in cui il testo ci fornisce informazioni utili a questo scopo.
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Il tempo verbale è uno degli aspetti del testo che ci forniscono informazioni sulla tem-
poralità della narrazione, ma ciò non implica che possiamo stabilire semplici equazioni
tra determinati tempi verbali e determinate relazioni di anteriorità, posteriorità o contem-
poraneità della narrazione rispetto agli eventi. Per esempio Quello che si ricorda, di Alice
Munro (da Nemico, amico, amante…), inizia con una sequenza nella quale i verbi sono al
presente, ma non sembra che per questo dobbiamo pensare a una narrazione contempo-
ranea agli eventi. Troviamo espressioni come «a quel tempo» e dalla sequenza successiva
si passa a verbi al passato, cosicché il presente della prima sequenza assume un senso
come di fotografia, o di affioramento memoriale, come scena che diviene presente alla
coscienza, di eventi del passato. Come si è detto, non si possono stabilire semplici equa-
zioni tra determinati tempi verbali e determinate relazioni temporali tra storia e narra-
zione, ma resta vero che il tempo verbale contribuisce a definire la temporalità della nar-
razione. Altri elementi che contribuiscono a questa stessa definizione sono i riferimenti a
date ed eventi temporalmente determinati nella storia (per esempio: «Il giorno dopo la
battaglia di Prestonpans…») e i deittici temporali (prima, poi, successivamente e così
via). Nelle narrazioni finzionali, tipicamente, questi elementi ci consentono di determi-
nare non tanto una posizione temporale assoluta dell’atto narrativo, quanto la sua posi-
zione relativa rispetto agli eventi della storia: se cioè l’atto narrativo sia successivo, pre-
cedente, contemporaneo o intervallato agli eventi della storia.
I racconti di Wallace e di Munro appena richiamati esemplificano il caso della narra-
zione successiva, ovvero il tipo che Genette chiama racconto ulteriore: la narrazione si
svolge quando i fatti sono già accaduti (ovvero si immagina che essa si svolga quando i
fatti sono già accaduti). È il tipo più frequente di rapporto tra tempo della narrazione e
tempo della storia ed è caratterizzato tipicamente dall’uso del passato (in italiano, in par-
ticolare, dall’uso del passato remoto e dell’imperfetto), ma a rivelare una posizione ulte-
riore dell’atto narrativo possono concorrere anche elementi diversi dal passato verbale.
Arthur Danto, per esempio, ha osservato che esiste una classe di proposizioni che si rife-
riscono «a due eventi distinti e temporalmente separati» e che «descrivono il primo degli
eventi» a cui si riferiscono, ma nei termini del secondo (208). Una proposizione come La
Guerra dei Trent’Anni cominciò nel 1618, per esempio, è un’affermazione su ciò che
accadde nel 1618 fatta alla luce di ciò che sarebbe accaduto nei trent’anni successivi
(prima, infatti, non era possibile parlare di Guerra dei Trent’Anni). E, come si vede, ciò
sarebbe vero anche se uno storico dovesse scrivere, al presente storico, che «La Guerra
dei Trent’Anni comincia nel 1618». L’eventuale posizione ulteriore dell’atto narrativo,
dunque, può essere rivelata da tratti diversi del testo, non solo dal passato verbale.
Il racconto ulteriore è stato oggetto di una proposta teorica alternativa da parte di Käte
Hamburger, che nella sua Logica della letteratura (1955-77) ha sostenuto che il «preterito
epico», ovvero il tempo verbale passato delle narrazioni finzionali in terza persona, sa-
rebbe un contrassegno di finzionalità e non un indice di posteriorità della narrazione ri-
spetto agli eventi narrati: «il praeteritum – scrive Hamburger – perde la sua funzione
grammaticale di designare tutto ciò che è passato» e questo «mutamento di significato
[…] rivela […] il carattere di finzione della narrazione stessa» (91). Qui non discuteremo
analiticamente la proposta di Hamburger, ma diremo che, dagli anni cinquanta a oggi,
numerosi narratologi (Stanzel, Cohn, Fludernik, Banfield, McHale e altri) hanno discusso
e precisato le diverse questioni sollevate dal discorso di Hamburger, dall’uso dei tempi
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verbali alla figuralità,9 e complessivamente hanno lasciato cadere l’idea di una riseman-
tizzazione del passato verbale nel racconto finzionale: «il preterito dà l’impressione di
essere finzionale – scrive Monika Fludernik – perché si presenta in un testo che è palese-
mente finzionale» (An Introduction to Narratology 51; trad. mia). E conclusioni analoghe
sono state raggiunte da quei filosofi che si sono occupati di narrativa: secondo Paul Ri-
coeur, per esempio, «dire che il passato segna semplicemente l’entrata nel racconto senza
alcuna significazione temporale non sembra plausibile»; appare più convincente «l’idea
che il racconto abbia a che fare con qualcosa come un passato di finzione» (III 292) – e
naturalmente questo passato sarà tale rispetto al momento della narrazione.
Un secondo tipo di relazione tra tempo della narrazione e tempo della storia è quello
del racconto anteriore, ovvero del racconto profetico o oracolare, che si svolge (che si
immagina che si svolga) prima che i fatti eventualmente si compiano. In letteratura è un
caso abbastanza marginale (un esempio è offerto dall’esordio e da altri passi di A Very
Private Life, del 1968, di Michael Frayn). Se però ampliamo lo sguardo oltre il dominio
del racconto finzionale letterario, possiamo ricordare l’Apocalisse di Giovanni o la Storia
della mia morte (1931), di Lauro De Bosis, che si conclude così:

Dopo aver sorvolato a quattromila metri la Corsica e l’isola di Montecristo, arriverò a Roma
verso le otto, facendo gli ultimi venti chilometri a motore spento. Sebbene non abbia, per
tutta esperienza, che sette ore e mezzo di volo, se cado non sarà per errore di pilotaggio. Il
mio aeroplano non fa che centocinquanta chilometri all’ora, quelli di Mussolini ne fanno
trecento. Egli ne ha novecento, e han tutti ricevuto l’ordine di abbattere a ogni costo con le
loro mitragliatrici qualunque aeroplano sospetto. Per poco che mi conoscano, devon sapere
che, dopo il primo tentativo, non posso aver abbandonato l’impresa. Se il mio amico Balbo
ha fatto il suo dovere, essi sono ora là ad attendermi. Tanto meglio: varrò più morto che
vivo. (98-99)

Un terzo tipo è costituito dal racconto simultaneo, dove sembra che la narrazione, al
presente, si svolga contemporaneamente all’azione. Se di nuovo usciamo dal dominio del
racconto finzionale letterario, troviamo il tipo del racconto simultaneo esemplificato dalle
telecronache o radiocronache di eventi, sportivi o di altro genere, nelle quali un cronista
riferisce al pubblico gli eventi mentre essi si svolgono. Nel dominio della narrativa lette-
raria, invece, un esempio potrebbe essere offerto da Con tanta di quell’acqua a due passi
da casa, di Raymond Carver (dalla raccolta Di cosa parliamo quando parliamo d’amore;
1974), di cui possiamo citare l’esordio:

Mio marito mangia di buona lena. Ma secondo me non ha veramente appetito. Mastica, tiene
le braccia sul tavolo e fissa qualcosa dall’altra parte della stanza. Mi guarda un attimo, ma

9
Secondo Fludernik, «Stanzel’s major insight […] concerns the further specification that Hamburger’s epic
preterite correlates with the representation of figural consciousness. In contrast to Hamburger, Stanzel also
claims that the past tense in third-person novels is a deictic past, but is deictic in relation to the present of
the discourse of the authorial narrator rather than to the empirical author. Only in figural contexts does the
deictic centre shift to a protagonist’s psyche. […] / The epic preterite proper (as defined by Hamburger
and Stanzel), i.e. the simultaneity of here-and-now deixis and the preterite tense, can occur in either first-
or third-person contexts, but the phenomenon is confined to those passages that have incipient reflector-
mode properties» (Chronology, Time, Tense and Experientiality in Narrative 122-123).
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poi distoglie subito lo sguardo. Si pulisce la bocca col tovagliolo. Alza le spalle e si rimette
a mangiare.
“Perché mi guardi così?”, mi chiede. “Che c’è?”, dice, e posa la forchetta sul tavolo.
“Perché, ti stavo guardando?”, dico, io, scuotendo la testa.
Squilla il telefono. (78)

Il passo suggerisce un’idea di simultaneità della narrazione perché azioni e parole sono
riferite al presente e nella loro successione cronologica, ma è anche evidente che non
possiamo parlare di simultaneità della narrazione rispetto agli eventi proprio nel senso in
cui ne parliamo per una radiocronaca: il racconto, infatti, non rappresenta un atto narra-
tivo che la narratrice omodiegetica compia, in quanto personaggio, mentre vive gli eventi
che narra, ma un’enunciazione narrativa che assume i tratti di simultaneità indicati (suc-
cessione cronologica e presente verbale). Per questa ragione Cohn, a proposito di quei
romanzi e racconti che, come questo di Carver, presentano un narratore omodiegetico e
un uso sistematico del presente verbale, ha scritto che la loro innovatività consisterebbe
nel fatto di

emancipare la narrazione finzionale in prima persona dai vincoli del mimetismo formale,
garantendole lo stesso grado (anche se non lo stesso tipo) di libertà discorsiva che diamo
per scontato nella narrativa in terza persona: la licenza di raccontare una storia con un tipo
di discorso che non corrisponda ad alcun discorso naturale, del mondo reale. (The Distinc-
tion of Fiction 104-105; trad. mia)

La narrazione simultanea in prima persona è spesso una forma narrativa antimimetica


(rispetto alle forme della narrazione non finzionale), dunque, e
la narrazione simultanea, non solo in prima persona, è tipica-
mente simultanea non nel senso di una rappresentazione di un
atto narrativo che si compia come azione tra le azioni dei perso-
naggi, ma di una narrazione che usa il presente verbale e riferisce
gli eventi nel loro ordine cronologico. Consideriamo un esempio
di racconto simultaneo in terza persona, o con narratore extra-
eterodiegetico: Pimpa e il fungo sognatore (2011), di Francesco
Tullio Altan (nella letteratura per l’infanzia il presente verbale è
Fig. 5 – Pimpa e Armando usato con una certa frequenza):

La Pimpa si sveglia e dice all’Armando: «Sai dove andrò oggi?»


«No, dove?»
«Prova a indovinare».
Armando ci pensa e dice: «Secondo me andrai nel bosco».
«Uffa!» protesta la Pimpa. «Come fai a saperlo?»
«Ho indovinato» risponde lui. (n.n.)

L’Armando sa sempre tutto. Ciò detto, si vede come anche in questo caso al lettore sia
offerta non la rappresentazione di un atto narrativo che abbia luogo mentre ha luogo il
dialogo tra Pimpa e Armando, ma un’enunciazione narrativa che riferisce le battute del
dialogo seguendone l’ordine cronologico e usando il presente verbale.
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Come ancora nota Cohn, il presente verbale deve spesso essere interpretato non nel
senso di una simultaneità di storia e narrazione, ma come forma funzionale alla figuralità
del racconto, ovvero come forma che rende la prospettiva del personaggio o dei perso-
naggi mentre vivono gli eventi. Leggiamo l’incipit di Giorni del 1978:

Una volta B assiste a una festa di cileni esuli in Europa. B è appena arrivato dal Messico e
non conosce gran parte dei presenti. È una festa, contrariamente alle aspettative di B, di
tipo familiare: gli invitati sono uniti non solo da legami di amicizia ma anche da legami di
parentela. I fratelli ballano con le cugine, le zie con i nipoti, il vino scorre in abbondanza.
A un certo momento, con tutta probabilità all’alba, un giovane se la prende con B ricor-
rendo a un pretesto qualsiasi. La discussione è penosa e inevitabile. Il giovane, U, sfoggia
una bibliografia demenziale: confonde Marx con Feuerbach, il Che con Frantz Fanon, Rodó
con Mariátegui, Mariátegui con Gramsci. L’ora della discussione, peraltro, non è la mi-
gliore, le prime luci di Barcellona spesso fanno impazzire qualche nottambulo, ad altri
danno una freddezza da sicario. Questo non lo dico io, questo lo pensa B e di conseguenza
le sue risposte sono gelide, sarcastiche, un casus belli più che sufficiente per la voglia di
azzuffarsi che ha U. (68)

Il presente è funzionale alla figuralità del racconto, ovvero alla resa degli eventi come li
esperisce B e non come essi potrebbero essere raccontati da un narratore che faccia valere
una propria posizione ulteriore nel tempo. Il fatto però che il narratore si collochi in una
posizione ulteriore, sebbene usi il presente, emerge verso la fine del racconto, dove leg-
giamo (è un passo che abbiamo già citato) che «[è] qui che dovrebbe finire questo rac-
conto, ma la vita è un po’ più dura della letteratura» (81), poiché questa affermazione
implica che il narratore conosca l’esito degli eventi prima di raccontarlo e che quindi
quell’esito si sia già verificato quando egli si accinge a terminare il suo racconto. Egli
dunque è in una posizione ulteriore, almeno per l’informazione implicata dal suo discorso,
ma usa il presente per rendere l’esperienza degli eventi del personaggio mentre li vive.
Alla funzione deittica del presente verbale, ovvero alla funzione che esso ha tipica-
mente di indicare la simultaneità di azione ed enunciazione, possono quindi aggiungersi
o sostituirsi altre funzioni: di resa figurale degli eventi; gnomica (il presente può cioè
essere usato per enunciare verità di ordine morale che restano tali nel tempo, come nel
celebre esordio di Anna Karenina: «Tutte le famiglie felici si assomigliano fra loro, ogni
famiglia infelice è infelice a suo modo» [9]) e dunque in qualche senso di esemplarità o
atemporalità; o di presente storico, a contrassegnare l’inizio o il climax di un episodio in
un racconto che usi prevalentemente il passato.
Consideriamo infine l’ultimo tipo di relazione tra tempo della narrazione e tempo della
storia, ovvero il racconto intercalato: è il tipo del racconto diaristico e del racconto epi-
stolare, dove la narrazione e gli avvenimenti narrati si alternano ed eventualmente si in-
fluenzano reciprocamente, come nelle Ultime lettere di Jacopo Ortis (1802), di Ugo Fo-
scolo, in Pamela (1740), di Samuel Richardson, nei Dolori del giovane Werther (1774),
di Johann Wolfgang Goethe, e così via.
Avendo delineato e discusso una tassonomia dei rapporti tra tempo della storia e tempo
della narrazione, possiamo ora tornare sul concetto del narratore, per discuterne i presup-
posti teorici e le implicazioni.

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3.6. Sul concetto del narratore: fondamenti e teorie alternative


3.6.1. La teoria strutturalista e il narratore
Abbiamo detto che i narratologi strutturalisti attribuiscono l’enunciazione narrativa a un
narratore inteso come figura testuale, distinta quindi dalla persona storica dell’autore, per
qualsiasi racconto letterario finzionale. Quasi tutti i narratologi successivi accolgono que-
sta idea. Nelle prossime pagine cercheremo di riconsiderare criticamente il concetto strut-
turalista del narratore, mettendo a fuoco la teoria sulla quale esso si fonda e discutendone
la validità, per poi considerare alcune ipotesi alternative. Questa revisione critica è coe-
rente con la fisionomia ancipite della teoria letteraria, che è insieme riflessione teorica ed
elaborazione di strumenti analitici, ed è resa necessaria dalla pretesa di validità universale
che accompagna la proposta di questo specifico concetto: come si fonda l’affermazione
secondo la quale per qualsiasi racconto letterario finzionale dobbiamo distinguere il nar-
ratore come figura testuale dalla persona storica dell’autore?
Una prima indicazione è offerta ancora da Barthes, che nella sua Introduzione all’ana-
lisi strutturale dei racconti (1966), fondamentale per lo sviluppo successivo della narra-
tologia strutturalista, scrive:

Molti commentatori […] non riescono […] a rassegnarsi a liberare l’analisi letteraria dal
modello delle scienze sperimentali: essi chiedono intrepidamente che si applichi alla nar-
razione un metodo sperimentale puramente induttivo e che si cominci con lo studiare tutti
i racconti d’un genere, d’un’epoca, d’una società, per passare poi all’abbozzo di un modello
generale. Questa prospettiva di buon senso è utopica. La stessa linguistica, che ha solo
3.000 lingue circa da padroneggiare, non vi riesce […]. Che dire allora dell’analisi narra-
tiva, posta di fronte a milioni di racconti? (8-9)

Costruire la narratologia attraverso il confronto sistematico con i testi narrativi che la


storia letteraria ci propone è impossibile, sostiene Barthes, perché i testi sono troppi e
l’elaborazione della teoria non perverrebbe mai al suo esito. Dunque occorre procedere
diversamente:

L’analisi narrativa […] è forzatamente condannata ad una procedura deduttiva; è obbligata


prima a concepire un modello ipotetico di descrizione […] e a scendere poi, a poco a poco,
a partire da questo modello, verso i generi che a un tempo vi partecipano e se ne discostano:
è solo al livello di questa conformità e di questi scarti che potrà ritrovare, munita d’uno
strumento unico di descrizione, la pluralità dei racconti. (Barthes, Introduzione all’analisi
strutturale dei racconti 9)

Cominciamo a comprendere come i narratologi strutturalisti possano rivendicare, per


la teoria del narratore, una validità universale: essa non deriva, secondo il chiarimento di
Barthes, dall’esame di una molteplicità di testi sulla base dei quali, mediante un procedi-
mento induttivo, si formulino asserzioni generali – in questo caso, sullo statuto del narra-
tore –, ma da un «modello ipotetico di descrizione» – un modello teorico, potremmo dire
– elaborato a priori e rispetto al quale le innumerevoli opere letterarie – narrative, in par-
ticolare – alle quali il modello si riferisce non saranno altrettante occasioni di verifica e
potenzialmente di confutazione, ma casi particolari da descrivere comunque mediante il
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modello. Il fondamento del concetto del narratore, con la sua pretesa di validità univer-
sale, non dovrà quindi essere cercato in un corpus di testi sottoposti ad analisi e assunti
come base di induzione, ma nella teoria strutturalista. Ciò che allora dobbiamo chiarire è
perché questa teoria, elaborata a priori nel senso indicato da Barthes, preveda proprio un
narratore distinto dall’autore.
La ragione principale si ritrova nella concezione strutturalista delle relazioni tra autore,
opera e linguaggio. Innanzitutto, possiamo dire che l’autore, secondo gli strutturalisti, non
può più essere pensato come colui che, con un atto creativo, genera l’opera traducendo in
essa il proprio pensiero e la propria esperienza di vita. E tuttavia proprio questa, secondo
Barthes, è l’idea di autore che la tradizione, critica e letteraria, ci invita ad accogliere:

L’Autore, finché ci si crede, è sempre visto come il passato del suo stesso libro: il libro e
l’Autore si dispongono da soli su una medesima linea, organizzata come un prima e un
dopo: all’Autore è riconosciuto il compito di nutrire il libro, in quanto lo precede, pensa,
soffre, vive per esso; con la propria opera intrattiene lo stesso rapporto di antecedenza che
un padre ha con il figlio. (La morte dell’autore 54)

È l’idea che troviamo nel prologo del Don Chisciotte, per esempio, dove Cervantes
scrive:

Lettore mio, che non hai nulla di meglio da fare, senza che io te lo giuri puoi credermi che
questo libro, come figlio dell’intelletto, avrei voluto che fosse il più bello, il più robusto e
il più intelligente che si potesse immaginare. Ma non mi è stato possibile contravvenire
all’ordine della natura, nella quale ogni cosa genera il suo simile. E dunque, che cosa poteva
generare mai lo sterile e incolto mio ingegno se non la storia di un figlio secco, ossuto e
fantastico, con certe strane fissazioni che non verrebbero in mente a nessuno, ben proprie
di chi è nato al fondo di un carcere, dove ogni scomodità è di casa e i più tristi allarmi vi
hanno stabile dimora? (5)

Ed è un’idea che sembra essere condivisa anche da alcuni scrittori contemporanei. Gao
Xingjian, per esempio, sembra pensare che lo scrittore possa derivare dalla propria espe-
rienza di vita uno sguardo consapevole sull’uomo e afferma che «[d]ietro l’espressione
letteraria si trova l’esperienza di vita dell’autore» (Ideologia e letteratura 17). L’autore
sarebbe così il garante dell’umanità, o dell’autenticità, dell’arte. Altri scrittori, d’altra
parte, sembrano più inclini agli argomenti degli strutturalisti: Wallace, per esempio, e
prima di lui Calvino.
Barthes e gli strutturalisti, ad ogni modo, rifiutano questa idea dell’autore e del suo
rapporto con l’opera, in quanto contestano, a monte, l’idea che il soggetto umano si defi-
nisca innanzitutto per la propria autocoscienza e per la propria capacità deliberante. René
Descartes, scrivendo: «Cogito, ergo sum» o «Je pense, donc je suis», aveva espresso que-
sta idea che il soggetto si definisca ed esista in quanto soggetto pensante e consapevole
di pensare, ma l’idea contrassegna più ampiamente una lunga tradizione di pensiero uma-
nistico. Rispetto ai rapporti tra soggetto e linguaggio, essa induce a pensare che il soggetto
esista anche a priori del linguaggio e che del linguaggio egli disponga come di uno stru-
mento per comunicare i pensieri che forma e domina nella propria coscienza. Gli struttu-
ralisti, tuttavia, contestano questa idea. Si legga ancora Barthes:
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Dunque, io sono prima del mio linguaggio? Chi sarebbe questo io, proprietario di ciò che
precisamente lo fa essere? Come posso vivere il mio linguaggio come un semplice attributo
della mia persona? Come credere che se parlo, è perché sono? Fuori della letteratura, è
forse possibile conservare queste illusioni; ma la letteratura è precisamente ciò che non lo
permette. […]
[I]l soggetto non è una pienezza individuale che si ha il diritto di evacuare o meno nel
linguaggio. (Critica e verità 32 e 57)

Per gli strutturalisti – Barthes, Foucault, Lacan, Lévi-Strauss –, il soggetto umano è


invece la risultante di strutture che lo precedono e lo trascendono: strutture linguistiche,
antropologiche, psicologiche, sociali, economiche, strutture che egli non controlla nella
propria coscienza e che agiscono in lui al di là delle sue deliberazioni. Un esempio di
carattere linguistico è offerto dal sistema fonologico: tutti i parlanti italiani distinguono
le parole pane e cane in quanto distinguono i fonemi /p/ e /k/. Non è necessario che essi
abbiano studiato la fonologia o che riflettano in qualche modo sulla relazione tra suoni e
significato. Crescendo in una comunità linguistica italofona, si apprende a distinguere tra
parole in questo modo. Soprattutto, una volta acquisita la fonologia della lingua, i parlanti
non possono che distinguere le parole secondo il sistema di opposizioni che definisce
quella fonologia: non possiamo non percepire la distinzione tra pane e cane in quanto non
possiamo non percepire la distinzione tra /p/ e /k/. L’azione del sistema fonologico, una
volta che siamo cresciuti come parlanti italiani, è al di là del nostro controllo. Le strutture
fonologiche, potremmo dire, ci precedono e agiscono in noi al di là della nostra consape-
volezza e della nostra volontà. E nessuno le può cambiare: nessun singolo parlante, nes-
sun gruppo di parlanti, nessuna istituzione può effettivamente modificare con una deci-
sione il sistema fonologico dell’italiano.
Ciò che vale innanzitutto per le strutture linguistiche, dicono gli strutturalisti, vale an-
che per altre strutture, non solo linguistiche: Claude Lévi-Strauss, antropologo e figura
eminente dello strutturalismo, diceva di non essere interessato a come gli uomini pensas-
sero nei miti, ma a come i miti si pensassero negli uomini, a loro insaputa. E si legga
ancora Barthes:

c’è forse una facoltà di letteratura, una energia di parola, che non ha niente a che vedere
con il «genio», in quanto è fatta di regole sedimentate molto al di là dell’autore, anziché di
ispirazioni o di volontà personali. La voce mitica della Musa non infonde allo scrittore
immagini, idee o versi, ma la grande logica dei simboli, le grandi forme vuote che permet-
tono di parlare e di operare. (Critica e verità 50)

L’autore non è la vera origine dell’opera, non è colui che preesiste all’opera e in essa
si esprime. Pertanto, Barthes propone una diversa idea di scrittore:

l’autore non è mai nient’altro che colui che scrive, proprio come io non è altri che chi dice
io: il linguaggio conosce un «soggetto», non una «persona», e tale soggetto, vuoto al di fuori
dell’enunciazione stessa che lo definisce, è sufficiente a far «tenere» il linguaggio […]. […]
Lo «scrittore» moderno – il soggetto della scrittura – nasce invece contemporaneamente al
proprio testo; non è in alcun modo dotato di un essere che precederebbe o travalicherebbe
la sua scrittura, non è affatto il soggetto di un libro che ne costituirebbe il predicato; non
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esiste altro tempo se non quello dell’enunciazione, e ogni testo è scritto per sempre qui e
ora. […]
[S]uccessore dell’Autore, lo «scrittore» non ha più in sé passioni, umori, sentimenti, im-
pressioni, ma quell’immenso dizionario cui attinge una scrittura che non può conoscere
pause […]. (La morte dell’autore 53, 54, 55)

L’idea che l’opera sia espressione di un autore, in breve, è rifiutata. Le idee stesse di
autore e di opera, in effetti, cominciano ad apparire congiuntamente sospette, perché
l’idea di opera, come ormai dovrebbe essere chiaro e come scrive Barthes, è indissolubil-
mente legata a quella di un autore inteso come «il padre e il proprietario della sua opera»
(Dall’opera al testo 61). E analogamente Michel Foucault, in Che cos’è un autore?
(1969), osserva che un autore è qualcuno che ha scritto delle opere e che, inversamente,
la qualifica di un corpus di scritti come corpus di opere determina l’attribuzione dello
statuto di autore a chi li ha composti. Pertanto, concludono Barthes e Foucault, non basta
prescrivere, come facevano prima gli stessi strutturalisti, di abbandonare l’autore per con-
centrarsi sull’opera, perché le idee di opera e di autore sono indissolubilmente legate.
Occorre disfarsi di entrambe le idee congiuntamente.
Per il racconto letterario finzionale, deriva da questa visione un’implicazione che or-
mai non dovrebbe sorprendere: il soggetto dell’enunciazione narrativa dovrà essere indi-
viduato non nell’autore, ma in una figura testuale, in un soggetto inteso come mero sog-
getto linguistico. A raccontare sarà non l’autore, ma un narratore costituito come tale dal
testo. Ancora Foucault scrive:

Si sa bene che in un romanzo che si presenta come il racconto di un narratore, il pronome


in prima persona, il presente indicativo, i segni della localizzazione non rinviano mai esat-
tamente allo scrittore, né al momento in cui egli scrive né al gesto stesso della scrittura; ma
ad un alter ego la cui distanza nei riguardi dello scrittore può essere più o meno grande
[…]. […] [L]a funzione-autore si effettua nella scissione stessa – in questa divisione e a
questa distanza. (Che cos’è un autore? 13)

La prima ragione per la quale la teoria strutturalista prevede un narratore distinto


dall’autore è quindi una ragione teorica, che si lega innanzitutto a una certa visione delle
relazioni tra scrittore, invece che autore, testo, invece che opera, e linguaggio.
La seconda ragione, che possiamo delineare citando ancora l’Introduzione all’analisi
strutturale dei racconti di Barthes e un saggio più tardo, Finzione e dizione (1991), di
Genette, ha invece a che fare con il concetto di finzione:

‘Ciò che succede’ nel racconto, dal punto di vista referenziale (reale), è alla lettera: niente;
‘ciò che avviene’ è solo il linguaggio, l’avventura del linguaggio il cui avvento non cessa
mai d’essere festeggiato. (Barthes, Introduzione all’analisi strutturale dei racconti 45)

Il testo di finzione non conduce ad alcuna realtà extratestuale, ogni elemento che mutua
(costantemente) dalla realtà («Sherlock Holmes abitava al 221 B di Baker Street», «Gil-
berte Swann aveva gli occhi neri» ecc.) si trasforma in elemento di finzione, come Napo-
leone in Guerra e Pace o Rouen in Madame Bovary. (Genette, Finzione e dizione 32)

122
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La narrazione finzionale è narrazione non referenziale: il testo non fa riferimento a


niente che sia realmente accaduto e i suoi confini, o i confini del linguaggio, non sono
mai valicati. Quando anche potrebbe sembrare che il testo faccia riferimento a persone,
eventi o luoghi storici – a Rouen, per esempio, o a Napoleone –, ciò che realmente accade,
come scrive Genette, è che questi enti storici siano finzionalizzati: la finzione attrae la
realtà nel proprio statuto. Si ricordi l’esordio di Papà Goriot: la figura che racconta, che
potremmo essere portati a identificare con l’autore in quanto parla di persone che leggono
e di ciò che queste metterebbero «sul conto dell’autore», si riferisce ai personaggi e ai
luoghi della storia – di Rastignac e della pensione Vauquer, per esempio – come a entità
esistenti nel suo mondo. Siccome però Rastignac, la pensione Vauquer e tutti gli altri
personaggi della storia sono finzionali – non sono mai esistiti –, anche la figura che rac-
conta, secondo l’idea di finzione di Genette, deve essere finzionale.
L’idea che niente accada realmente, in un racconto di finzione, e che il nome di Rasti-
gnac non faccia riferimento a nessuna persona storica – l’idea sulla quale insiste Barthes
nel passo appena citato – dovrebbe essere facilmente comprensibile. Meno evidente è
l’idea che la finzione, come suggerisce Genette, attragga la realtà nel proprio statuto. Per
chiarirla, potremmo dire così: un lettore contemporaneo, del secondo Novecento o dei
primi anni duemila, se volesse informarsi sulla realtà storica o fattuale, non si rivolge-
rebbe a un romanzo, ovvero a un’opera di finzione, ma leggerebbe un saggio di storia o
un altro testo referenziale, documentario o cronachistico. Un lettore contemporaneo che
voglia informarsi sulle campagne napoleoniche non leggerà Guerra e pace, ma un saggio
di uno storico, perché Guerra e pace è invenzione (Pierre Bezuchov non è mai esistito) e
niente garantisce della verità storica, fattuale, di ciò che vi si legge (come possiamo dire
che il generale russo Kutuzov e Napoleone, due personaggi storici che appaiono nel ro-
manzo, pensassero davvero i pensieri che Tolstoj attribuisce loro?). Dunque tutto diventa
finzione nel senso che tutto è letto come finzione romanzesca.
Complessivamente, tra le due ragioni addotte – scissione del testo dal suo autore e
finzionalità –, decisiva per il concetto del narratore sembra essere la prima; la seconda
acquisisce maggiore importanza nel tempo, quando lo strutturalismo cessa di essere il
paradigma filosofico dominante nelle scienze umane, e infatti la ritroviamo in Genette in
un saggio più tardo e inoltre in studiosi non riconducibili allo strutturalismo.
Ora che abbiamo raggiunto una maggiore chiarezza sui fondamenti teorici dell’idea
strutturalista del narratore, ad ogni modo, possiamo interrogarci sulla sua validità e sulla
possibilità di teorie alternative.

3.6.2. Una prospettiva ermeneutica


Torniamo ancora sull’esordio di Papà Goriot:

Così farete voi, voi che tenete questo libro con una bianca mano, voi che vi sprofondate in
una morbida poltrona dicendo: “forse mi divertirà”. Dopo aver letto le segrete sventure di
papà Goriot, cenerete con appetito mettendo la vostra insensibilità sul conto dell’autore, tac-
ciandolo di esagerazione, accusandolo di fare poesia. Ah! sappiatelo: questo dramma non è
una finzione, né un romanzo. All is true, è così vero che ciascuno può riconoscerne gli
elementi intorno a sé, forse nel proprio cuore. (5-6)
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Come abbiamo già osservato, la teoria narratologica standard, di matrice strutturalista,


dice che, sebbene si dica di «Voi che tenete questo libro» e di un «autore», non dobbiamo
interpretare il passo come allocuzione dell’autore ai suoi lettori, ma come allocuzione di
un narratore ai suoi narratari. In questo senso, il caso non sarebbe troppo dissimile da
quello dell’esordio di Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979), di Italo Calvino:

Stai per cominciare a leggere il nuovo romanzo Se una notte d’inverno un viaggiatore di
Italo Calvino. Rilassati. Raccogliti. Allontana da te ogni altro pensiero. Lascia che il mondo
che ti circonda sfumi nell’indistinto. La porta è meglio chiuderla; di là c’è sempre la televi-
sione accesa. Dillo subito, agli altri: «No, non voglio vedere la televisione!» Alza la voce, se
no non ti sentono: «Sto leggendo! Non voglio essere disturbato!» Forse non ti hanno sentito,
con tutto quel chiasso; dillo più forte, grida: «Sto cominciando a leggere il nuovo romanzo
di Italo Calvino!» O se non vuoi non dirlo; speriamo che ti lascino in pace. (3)

Ma i due esordi di Balzac e di Calvino sono davvero simili, da un punto di vista nar-
ratologico? E che cosa implica, per l’interpretazione, il riconoscimento di strutture narra-
tive analoghe nell’esordio di Balzac, e cioè di un romanzo realista della prima metà
dell’Ottocento, e in quello di Calvino, e cioè di un romanzo della tarda postmodernità?
Per il romanzo di Calvino sembra sensato – sembra coerente con le interpretazioni pre-
valenti del romanzo e con un’idea generale della postmodernità letteraria – pensare a una
messa in scena ludica e metafinzionale delle forme del racconto e quindi a quel lettore
che si accinge alla lettura come a una figura ficta, testuale, e a colui che gli parla come a
un’altra figura ficta, testuale. Ma possiamo suggerire la stessa interpretazione per il ro-
manzo di Balzac? Possiamo pensare che il romanzo di Balzac, che leghiamo a una poetica
realista e magari all’idea di un’illusione referenziale e che è scritto per un pubblico di
lettrici e di lettori non ancora troppo usi alle forme del genere e difficilmente capaci di
un’ironia metafinzionale, esibisca tuttavia strutture narrative analoghe a quelle di Se una
notte d’inverno un viaggiatore? Questa è la conclusione alla quale siamo portati, in certo
modo, se seguiamo le indicazioni dei narratologi strutturalisti e attribuiamo la narrazione,
anche in questo caso, a un narratore come figura testuale. Ma è una conclusione convin-
cente? È convincente, in generale, la tesi secondo la quale in tutti i racconti letterari fin-
zionali la voce che racconta è di un narratore e non dell’autore?
Per approfondire la questione, proviamo a formulare una domanda diversa ma corre-
lata: che cosa si pensava di questo problema narratologico, prima dello strutturalismo?
Balzac e i lettori suoi contemporanei, in particolare, a chi attribuivano la narrazione di
Papà Goriot? All’autore o a un narratore?
La maggior parte dei narratologi, non solo strutturalisti, ha trascurato la questione, ma
almeno Dorrit Cohn e Monika Fludernik riconoscono di passaggio che autori e lettori del
Settecento e dell’Ottocento, nei casi che dopo la narratologia strutturalista si descrivono
come casi di narrazione extra- eterodiegetica, pensavano tipicamente all’autore (cfr.
Cohn, The Distinction of Fiction 126; Fludernik, Towards a ‘Natural’ Narratology 164).
In casi come quello di Papà Goriot, Balzac e i lettori suoi contemporanei pensavano

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all’autore.10 D’altra parte, né Cohn né Fludernik ritengono che la teoria standard debba
per questo essere messa in discussione. Conviene quindi approfondire la questione e in-
nanzitutto stabilire se davvero autori e lettori sette-ottocenteschi pensassero a una narra-
zione condotta direttamente dall’autore.
Leggiamo, per cominciare, ciò che Balzac scrive in un lungo saggio dedicato alla Cer-
tosa di Parma di Stendhal, pubblicato sulla «Revue parisienne» del 25 settembre 1840
(Études sur M. Beyle (Frédéric Stendalh) [sic]):

L’autore dipinge da par suo, mediante piccoli episodi che hanno l’eloquenza dell’azione
shakespeariana, i progressi dell’amore tra queste due nobili creature [Fabrizio e Clelia a
Napoli. N.d.R.] minacciate dal pericolo di una morte imminente per avvelenamento. […]
Esso [il desiderio di vendetta di Gina. N.d.R.] non è morale, ma l’autore ve l’ha detto e se
ne lava le mani come fa Tacito con i crimini di Tiberio. «Sono portato a pensare – dice –
che la felicità immorale che in Italia si prova nel vendicarsi abbia a che fare con la forza
dell’immaginazione di questo popolo; gli altri popoli non perdonano, ma dimenticano».
Così il moralista spiega questo popolo energico. […]
«È allora – dice l’autore – che la duchessa si abbandona a un’azione non solo orribile agli
occhi della morale, ma anche funesta per la tranquillità della sua vita». (Balzac, Écrits sur
le roman 238, 251, 253)

Come si vede, la narrazione è descritta come qualcosa che avviene fra autore e lettori,
senza la mediazione di altre figure, e le parole che formano il racconto sono attribuite
direttamente all’autore («ma l’autore ve l’ha detto»; «dice l’autore»).
È un caso isolato? No, è la norma: lo conferma un esame più esteso di saggi, prefazioni,
recensioni e altri scritti di Balzac e su Balzac e di altri scrittori coevi e su di loro. Citiamo,
come saggio di questo esame più esteso che potremmo condurre,11 solo tre passi relativi
a Walter Scott, il quale rappresenta un caso rilevante perché all’inizio dell’Ottocento era
forse il romanziere europeo di maggiore successo. Il primo passo è tratto dalla «General
Preface» che Scott scrive nel 1829 per le proprie opere narrative:

Il numero di coincidenze necessariamente esistenti tra le storie narrate, le forme


dell’espressione e le opinioni manifestate in questi racconti e quelle normalmente esibite
dal loro autore nel commercio della vita privata era inevitabilmente troppo elevato perché
coloro che mi erano più intimi potessero dubitare dell’identità tra il loro amico e l’Autore
di Waverley; e penso che tutti ne fossero intimamente convinti. (Scott, Waverley 529)

Questo passo dice che colui che racconta, nei romanzi scottiani, è l’autore, tanto che la
lettura dei testi, per coloro che lo conoscono, non può che portare alla sua identificazione.
Caratteristici di Walter Scott, e inequivocabilmente caratteristici per chiunque lo conosca,

10
Si è detto che il narratore di Papà Goriot presenta anche tratti di omodiegeticità: sono però tratti
appena accennati (nonostante i quali, cioè, il narratore resta più vicino al polo dell’eterodiegeticità
che a quello dell’omodiegeticità) e che potevano essere ascritti veridicamente anche all’autore.
11
Cfr. Ballerio, Sul conto dell’autore, che nel seguito riprenderò diffusamente.
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sarebbero in particolare i fatti raccontati, lo stile e le opinioni espresse, che coincidereb-


bero con ciò che di lui è noto non dalla sua precedente produzione poetica o saggistica,
ma dalla sua vita privata.
Anche la conoscenza delle precedenti opere di Scott, peraltro, doveva bastare per il
riconoscimento. La scrittrice Maria Edgeworth, per esempio, dovette basarsi su questa
conoscenza, allorché scrisse all’autore di Waverley tramite il suo editore James Ballan-
tyne, il 23 ottobre 1814, e antepose alla lettera il motto «Aut Scotus, aut Diabolus». Ma
della lettera di Edgeworth è più interessante rilevare, tra i numerosi elogi espressi per
l’opera di Scott (o del diavolo), l’unico elemento oggetto di critica:

Eravamo così presi dall’illusione che tutta la storia e i suoi personaggi fossero veri, che
non potevamo sopportare le occasionali allocuzioni dell’autore al lettore [addresses from
the author to the reader]. Sono come in Fielding; ma proprio per questo non potevamo sop-
portarle, perché non possiamo sopportare che un autore di così grande talento, dotato di un
genio così originale, debba abbassarsi a imitare, anche solo per un momento. (Hayden 75)

Edgeworth deplora le allocuzioni dell’«autore» al «lettore» perché sembrano fatte a imi-


tazione di Fielding e perché rompono l’illusione di realtà creata dal racconto. E le deplora,
appunto, in quanto allocuzioni dell’autore al lettore.
Questa visione narratologica – se così vogliamo chiamarla – è ovvia anche per altri
lettori. Sulla «Edinburgh Review», per esempio, Francis Jeffrey censura senza mezzi ter-
mini, per il loro stile meno che mediocre (a suo giudizio), «i passaggi in cui l’autore parla
in persona propria [the author speaks in his own person]» (Hayden 84), mentre Samuel
Taylor Coleridge, in una lettera a Thomas Allsoap dell’8 aprile 1820, include tra le mo-
tivazioni secondarie del successo e del fascino dei romanzi di Scott il fatto che «l’autore,
parlando, riflettendo e perorando in persona propria [in his own person]» resti sempre
abbastanza stretto al suo soggetto (Hayden 180).
Dunque romanzieri e lettori sette-ottocenteschi,12 nei casi per cui i narratologi, dallo
strutturalismo in avanti, parleranno di un narratore extra- eterodiegetico, pensavano in-
vece all’autore; e non ai suoi narratari, ma ai suoi lettori (ripetiamo che il caso della nar-
razione omodiegetica, condotta da un personaggio della storia, non è invece in discus-
sione). Nondimeno, i narratologi strutturalisti affermano che la narrazione deve essere
attribuita a un narratore distinto dall’autore in tutti i casi, perché formulano la propria tesi
non sulla base di una lettura dei testi, né in relazione al pensiero di autori e lettori di altre

12
Fludernik inoltre ricorda il caso seicentesco di Aphra Behn e noi potremmo ancora aggiungere
un esempio settecentesco: Montesquieu pubblica le sue Lettere persiane (1721) anonime. Nella
prefazione, dove scrive in quanto autore, anche se anonimo, spiega di averlo fatto per timore
dell’accusa di leggerezza che gli si sarebbe potuta muovere (ma, non detto, c’è anche il timore
della censura) e di seguito aggiunge: «I Persiani che qui scrivono abitavano con me; trascorre-
vamo insieme il nostro tempo» (13). I persiani di cui scrive sono personaggi immaginari del ro-
manzo, che Montesquieu in quanto autore, fingendo, dice di avere conosciuto. Oppure dovremmo
parlare di un narratore omodiegetico che appare nella prefazione solo per descriversi come autore
e poi sparire – ipotesi quanto meno curiosa.
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epoche – esibiscono anzi un atteggiamento antistoricista e non ermeneutico –, ma per de-


rivazione da un modello teorico a priori, o come parte di una filosofia che interessa, come
abbiamo visto, i rapporti tra autore (anzi, scrittore), opera (anzi, testo) e linguaggio.
Un discorso analogo vale per la distinzione tra narrazione finzionale e narrazione fat-
tuale, dalla quale gli strutturalisti derivavano un secondo argomento a favore della distin-
zione tra autore e narratore. Questo secondo argomento, come abbiamo detto, assume
maggiore importanza dopo l’apogeo dello strutturalismo e infatti è ritenuto decisivo an-
che da studiosi che scrivono in anni più recenti e al di fuori di quel paradigma. In The
Distinction of Fiction (1999), per esempio, Cohn afferma che, mentre nella narrazione
storica, fattuale, il soggetto dell’enunciazione narrativa è la persona reale dello storico
che scrive il testo, nella narrazione finzionale il soggetto dell’enunciazione narrativa non
può essere una persona reale. Soggetto di un’enunciazione finzionale, secondo Cohn, può
essere solo un soggetto finzionale.
Ora, abbiamo già mostrato come la finzionalità del discorso, per gli autori e i lettori di
almeno due secoli, non implichi necessariamente la finzionalità del soggetto dell’enun-
ciazione. E chiunque può raccontare una barzelletta, e cioè produrre un racconto finzio-
nale, senza per questo trasformarsi in un’entità finzionale. A questo possiamo aggiungere,
con un procedimento parallelo a quello seguito sopra per la distinzione tra autore e nar-
ratore, che, per gli autori e i lettori di cui abbiamo già parlato, la finzionalità di alcune
parti di un racconto non implica la finzionalizzazione dell’intero racconto, diversamente
da ciò che sostenevano Barthes e Genette.
Concentriamoci, per brevità, su Walter Scott e sui suoi lettori. Per loro, un romanzo
storico è indubbiamente un’opera di finzione, ma, dove parla di personaggi o fatti storici,
se lo fa veridicamente, esso può essere attendibile come un saggio di storiografia. Una
prima citazione, da un saggio sul romance scritto da Scott per l’Encyclopedia Britannica,
ci mostra che per l’autore di Waverley il romanzo è finzione:

Saremmo […] propensi a descrivere il romance come «una narrazione finzionale [fictitious
narrative] in prosa o in versi, il cui interesse deriva da eventi meravigliosi e fuori del co-
mune» e che in ciò si oppone al tipo affine del novel, che Johnson ha descritto come «un
racconto scorrevole, generalmente d’amore», ma che noi definiremmo invece «narrazione
finzionale [fictitious narrative], che differisce dal romance perché gli eventi sono conformi
al corso ordinario delle cose umane e allo stato della società moderna». (cit. in Williams 1;
trad. mia)

D’altra parte, il dominio del romanzo non appare a Scott indifferenziato, rispetto al
rapporto che le singole opere intrattengono con la storia. Nella lettera premessa a Ivanhoe,
Scott scrive infatti di temere che il suo romanzo sia accomunato dagli storici ai romances
e alle narrazioni oziose che sono di moda presso il pubblico (Ivanhoe 521), implicando
con ciò che esso se ne distingua, e di seguito discute la questione della mescolanza di
storia e finzione che vi si può trovare. Dapprima ammette che una certa alterazione della
storia, rispetto alla lingua, ai costumi e alla cronologia, fosse necessaria per rendere la
materia comprensibile e interessante per i lettori privi di erudizione storica; poi osserva
che la rappresentazione del passato non si compone solo di elementi che al passato ap-

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partengano in modo esclusivo, ma anche di elementi, relativi ancora alla lingua e ai co-
stumi e inoltre alle passioni umane, che si ritrovano inalterati nel presente. In effetti, la
sola regola che l’autore di un romanzo storico non dovrà mai violare sarà quella di non
introdurre elementi incompatibili con i costumi del passato rappresentato (perché esclu-
sivi del presente o di altre epoche passate). Così, basta arrivare al terzo capitolo per leggere
che la tecnica usata per il pavimento della sala da pranzo di Cedric il Sassone è la stessa
che ancora ai tempi dell’autore è in uso per i granai (31), o che l’impazienza del personag-
gio è quella degli aldermen di ogni tempo (32). Proprio le passioni del cuore sembrano
mostrare la maggiore indifferenza al divenire storico ed è su queste passioni «comuni agli
uomini in tutti gli stadi della società», come Scott scrive in Waverley, che si concentra la
sua opera («la forza del mio racconto»; 35). Contemporaneamente, Scott non trascura di
calare quelle passioni nelle forme sociali dell’epoca rappresentata e questa determina-
zione storico-sociale, congiuntamente con l’attenzione alla lingua e ai costumi di cui si
diceva, determina il realismo storicista della sua opera. Come scriveva Lukács, infatti,
Scott compone Waverley proprio nel tempo in cui in Europa si forma una cultura storicista
e di questa cultura la sua opera è profondamente intrisa (Il romanzo storico 25 ss.).
Se quindi è vero che per Scott il romanzo è finzione, è anche vero che egli non ritiene
che all’autore di romanzi storici sia a priori preclusa la rivendicazione di una sostanziale
veridicità della sua rappresentazione del passato. Casi diversi ammettono giudizi diversi
e proprio Scott, in una recensione anonima che egli stesso dedica ai primi Tales of My
Landlord, suggerisce quale giudizio possa meritare il suo:

se […] le caratteristiche di un’epoca passata possono essere rievocate tramite una rappre-
sentazione che voglia essere fedele e colpire allo stesso tempo, la conclusione legittima in
effetti è quella contraria [Scott considerava la possibilità dell’incredulità del lettore.
N.d.R.]: l’opera stessa si trova a essere elevata e migliorata da ogni punto di vista; e l’au-
tore, lasciando la compagnia leggera e frivola a cui un osservatore superficiale sarebbe
portato ad associarlo, prende il suo posto vicino agli storici del suo tempo e del suo paese.
(Williams 256; trad. mia)

Che cosa pensavano gli storici di queste idee di Scott? Augustin Thierry, eminente
storico liberale, in un suo articolo del 1820, apparso sul «Censeur Européen» del 29 mag-
gio e intitolato Sur la conquête de l’Angleterre par les Normands, à propos du roman
d’Ivanhoe, scrisse:

Un uomo di genio, Walter Scott, ci offre ora una rappresentazione reale di questi avveni-
menti così alterati dalla terminologia moderna; e, cosa singolare, ma che non sorprenderà
affatto chi abbia letto le sue opere precedenti, è in un romanzo che egli si è impegnato a
chiarire questo momento storico così importante, e a mostrarci nuda, al vivo, questa con-
quista normanna che i narratori filosofi del secolo scorso, più falsi dei cronisti analfabeti
del medioevo, hanno tutti seppellito sotto le formule banali della successione, del governo,
dell’azione dello stato, delle cospirazioni represse, del potere e della sottomissione sociale.
(132)

Thierry ammirava l’abilità di Scott nella resa del colore locale delle società del passato
e riteneva che tale abilità sarebbe dovuta appartenere anche agli storici, tra i quali peraltro
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non era il solo a subire l’influenza del romanziere scozzese: anche Jules Michelet e il gio-
vane Leopold von Ranke lo lessero con entusiasmo e in generale la storiografia della prima
metà dell’Ottocento ebbe per la sua opera una rispettosa considerazione.
Senza estendere ulteriormente il discorso, possiamo concludere che la distinzione tra
narrazione finzionale, da una parte, e narrazione fattuale (la quale include la narrazione
storiografica), dall’altra, all’inizio dell’Ottocento non era netta come per i lettori del se-
condo Novecento a cui sembrano rimandare Barthes, Genette e Cohn. Anche da questo
punto di vista, cioè, gli orizzonti culturali di quegli autori e di quei lettori divergono da
quelli dei lettori del secondo Novecento, formatisi, rispetto alla questione in discussione,
anche a seguito del superamento della storiografia romantica – quella di Thierry, che am-
mette l’immaginazione come facoltà e strumento dello storico, oltre che del romanziere
– e dell’emergere della storiografia scientifica, positivista, del secondo Ottocento.
Consideriamo ora due implicazioni di queste conclusioni. In primo luogo, vediamo
che il sistema dei generi discorsivi cambia nel tempo: all’altezza di Scott, il romanzo
storico può ancora svolgere funzioni di rappresentazione della storia che nel Novecento
competono in modo più esclusivo alla storiografia. In altre parole, la funzione referenziale
della scrittura, rispetto alla realtà storica, è condivisa dai due generi, sebbene in diverso
grado, all’inizio dell’Ottocento, ma nel Novecento tende a polarizzarsi verso la storiogra-
fia. Inversamente, la storiografia perde altre funzioni che prima condivideva in certa mi-
sura con scritture più spiccatamente letterarie, cessando per esempio di rivendicare qual-
siasi esemplarità morale: ormai, l’idea classica della storia maestra di vita appartiene al
passato.13 Ciò chiarisce in che senso il sistema dei generi discorsivi sia appunto un sistema
e non un insieme di elementi – i generi – irrelati: i cambiamenti di un genere sono nor-
malmente correlati ad altri cambiamenti di altri generi. In questo caso, alcune funzioni
della scrittura, prima condivise da generi diversi, si polarizzano nell’uno o nell’altro.
In secondo luogo, possiamo cercare di distinguere nettamente i concetti di finzionale
e di fattuale, ma dobbiamo constatare che una data narrazione poteva essere interpretata
come fattuale per certi aspetti e finzionale per altri. Balzac, Scott e i lettori loro contem-
poranei riconoscevano la finzionalità di Rastignac e di Waverley e tuttavia accoglievano
i due romanzi – Papà Goriot e Waverley – come rappresentazioni veridiche di certi aspetti
di Parigi o della storia britannica. La loro esperienza della finzione narrativa comportava
quindi un blending di realtà e finzione:14 un amalgama di rappresentazioni della realtà
storica emergenti dai due racconti e dalla loro conoscenza pregressa di quella realtà (della

13
Nel Don Chisciotte (1605-15) la storia è descritta come «madre» della «verità [..] emula del
tempo, deposito delle azioni, testimone del passato, esempio e notizia del presente, avviso dell’av-
venire» (I, X). Ma nel Pierre Menard di Borges, a metà del Novecento, questo diventa «un mero
elogio retorico della storia», che Pierre Menard reinterpreta come idea che la verità sia creata, e
non riconosciuta, dalla storia (Borges, Finzioni 44-45). In una poesia di Satura (1971), La storia,
Eugenio Montale finirà per scrivere che «La storia non è magistra / di niente che ci riguardi» (323,
vv. 24-25).
14
La teoria del conceptual blending è stata sviluppata da Gilles Fauconnier e Mark Turner. Nel
Nuovo discorso del racconto, peraltro, anche Genette ammette che «la finzione è raramente pura»
(68-69). Non è ovvio come dovrebbero conciliarsi questa tesi e quella di Finzione e dizione ri-
chiamata sopra.
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Parigi del 1820, o dell’insurrezione giacobita del 1745) e di altre rappresentazioni appar-
tenenti al dominio dell’immaginario emergente dal racconto (Eugène de Rastignac che
passeggia per Parigi, o Edward Waverley a Prestonpans). E queste rappresentazioni blen-
ded potevano retroagire sulle loro rappresentazioni della realtà.
Ora, ciò non vale solo per i lettori dell’Ottocento. Anche i lettori di oggi mostrano di
pensare che un racconto finzionale possa comprendere anche rappresentazioni riferibili a
eventi, luoghi o persone della realtà contemporanea. I lettori di 2666, per esempio, sanno
che l’opera è un romanzo e cioè un racconto finzionale, ma nella quarta parte del romanzo
– «La parte dei delitti» –, dietro i femminicidi che si ripetono nella città immaginaria di
Santa Teresa, leggono una rappresentazione dei femminicidi reali di Ciudad Juárez:
«Santa Teresa is supposedly modeled on Juarez – scrive un lettore in una recensione on-
line (da Amazon.co.uk) – where there are 340 maguiladoras operating». Un altro lettore
nota che «[t]he murderous events depicted in 2666 actually occurred in Ciudad Juarez,
where more than 400 women have been the victims of sexual homicides» (si noti come
nell’affermazione che degli eventi finzionali siano realmente – «actually» – accaduti in
un luogo reale emerga chiaramente ciò che abbiamo chiamato blending). E un terzo let-
tore (su Goodreads) afferma che «[t]he main evil is epitomized by a large number of
murders and rapes of women in the fictional town of Santa Teresa in northern Mexico,
which is modeled after a real epidemic in Juarez starting around 1993». Questi lettori
sanno bene che 2666 non è una narrazione fattuale: la distinguono, per statuto di verità,
da un reportage narrativo come Ossa nel deserto (2002), di Sergío Gonzalez Rodríguez,
o da un report come Mexico. Intolerable Killings (2003), di Amnesty International. Allo
stesso tempo, però, accolgono la narrazione dei femminicidi dell’immaginaria città di
Santa Teresa come rappresentazione narrativa in qualche senso riferibile a ciò che dagli
anni novanta sta realmente accadendo a Ciudad Juárez. Realizzano un blending, non di-
versamente dai lettori di Scott e Balzac.
Queste osservazioni richiederebbero approfondimenti teorici, sul concetto di finzione
e sulla questione del riferimento, che di nuovo dobbiamo rimandare. Nondimeno, esse
mostrano che l’insistenza di Barthes, Cohn e Genette sulla radicale alterità della finzione,
se è coerente con il pensiero strutturalista, con la cultura letteraria della postmodernità o
con una certa visione fenomenologica (nel caso di Cohn), non rende conto davvero di ciò
che i lettori hanno fatto e detto della narrativa di invenzione in epoche diverse.
Provvisoriamente, quindi, concluderemo dicendo che una narrazione è finzionale, per
i lettori di Scott o di Balzac come per noi, se comprende personaggi, eventi, luoghi o altri
enti immaginari; e che nondimeno una narrazione finzionale può essere accolta come
rappresentazione veridica di certi aspetti della realtà fattuale. Per quanto riguarda la que-
stione del narratore, inoltre, diremo che nessuno dei tre elementi che fondano la proposta
strutturalista – la scelta metodologica di elaborare un modello teorico a priori, la rescis-
sione dei legami tra autore e opera e la netta distinzione tra finzione e realtà – è inattac-
cabile o privo di alternative, sebbene la maggior parte dei narratologi, ancora oggi, ritenga
quella proposta valida o perfino ovvia.15

15
Desta perplessità, tuttavia, il fatto che il modello sia spesso adottato senza essere problematiz-
zato, sebbene la sua possibile problematicità apparisse già allo stesso Genette. Quanto meno, Ge-
nette ammette casi di attenuazione della distinzione tra autore e narratore che arrivano a metterne
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Una teoria alternativa potrebbe quindi tenere conto di problemi ermeneutici come
quello posto dagli esordi dei romanzi di Balzac e di Calvino e della diversità del pensiero
sulla letteratura di autori e lettori di epoche diverse. Potremmo cioè pensare a una narra-
tologia fondata ermeneuticamente, che non applichi un modello teorico elaborato a priori
e a partire da una visione dei rapporti tra autore, opera (o testo) e linguaggio analoga a
quella proposta dallo strutturalismo, ma si definisca in relazione a un’interpretazione dei
testi narrativi intesa a comprenderne gli orizzonti e a entrare in dialogo con essi. Della
distinzione o coincidenza tra narratore e autore decideremo nel contesto di un’interpreta-
zione complessiva e per romanzi come quelli di Scott o di Balzac potremo anche attribuire
l’enunciazione narrativa all’autore, il quale potrà avere il proprio interlocutore non in un
narratario inteso come figura testuale, ma nei lettori (e il senso di questa interpretazione
non sarà che Balzac, Scott e i loro lettori pensavano così e che quindi pensiamo così anche
noi, ma che noi elaboriamo questa interpretazione mettendoci in dialogo con quei testi.
Per comprendere meglio questo punto, d’altra parte, sarebbe necessario addentrarsi
nell’ermeneutica filosofica, cosa che qui non possiamo fare).
Né sarà solo questione di distanza storica: l’attribuzione dell’enunciazione narrativa,
in una prospettiva ermeneutica, diventa una questione che si pone anche per le opere di
scrittori contemporanei, proprio in quanto tale questione è parte dell’interpretazione e
anche le opere dei nostri contemporanei richiedono interpretazione. Si considerino, per
esempio, L’Ojo Silva, di Bolaño, e Orano, lingua morta, di Djebar: in entrambi i racconti,
l’atto narrativo si configura in qualche modo come atto di scrittura – la narratrice del
racconto di Djebar afferma: «Non voglio più dire nulla: soltanto scrivere» (33) – e ciò
induce a pensare quel narratore e quella narratrice come scrittori, se non a identificarli
con Bolaño e con Djebar, e a interrogarci sul significato e sulla funzione – di testimo-
nianza, di elaborazione e presa di coscienza… – della scrittura letteraria.
L’autore al quale possiamo attribuire l’enunciazione narrativa, quindi, non è l’autore
nelle sue determinazioni biografiche, ma l’autore in quanto soggetto che scrive: qualcuno

in dubbio la validità generale. In Nuovo discorso del racconto scrive: «È assolutamente legittimo
distinguere in linea teorica il narratario dal lettore, ma bisogna anche tener conto dei casi di sin-
cresi. Analogamente, è ovvio, il narratore extradiegetico si confonde totalmente con l’autore –
non dirò, come si fa esageratamente, “implicito”, ma, chiaro e tondo, esplicito e proclamato. Non
dico neanche “reale”; ma a volte (di rado) reale, come, tanto per dire, il Giono di Noé, riconosci-
bile dalla sua vestaglia “ricavata da una coperta da cavallo tutta rossa”, e da altri particolari auto-
biografici; a volte fittizio (Robinson Crusoe); a volte bizzarro ibrido fra i due, come l’autore-
narratore di Tom Jones, che non “è” Fielding, e che nondimeno piange la sua defunta Charlotte»
(113-114). Sull’autore implicito, cfr. sopra. In seguito, in Racconto di finzione, racconto fattuale,
la posizione di Genette sembrerà mutata: «ciò che definisce l’identità narrativa, ricordo, non è
l’identità agli occhi dello stato civile, ma l’adesione seria dell’autore a un racconto di cui assume
la veridicità» (70). La dissociazione tra autore e narratore, cioè, sarebbe «funzionale» più che
ontologica e sarebbe la stessa che si riscontra in tutti gli enunciati «non seri» (70). Qui si potrebbe
obiettare che, sulle loro osservazioni gnomiche, storiche o sociologiche, Balzac e Scott narratori
sono spesso serissimi, ma Genette pensa innanzitutto agli enunciati narrativi relativi ai personaggi
finzionali e, in questo senso, la teoria alla quale infine sembra approdare non è dissimile da quella
che si propone: la finzionalità può essere messa a carico del discorso (dell’enunciazione narrativa,
in particolare, senza che ciò implichi la finzionalità di chi lo produce (del narratore).
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che in un contesto storico-sociale reale propone una narrazione, anche finzionale; che può
essere autore anche di altre narrazioni e altri discorsi non solo narrativi e non solo finzio-
nali, quali saggi, articoli o recensioni (non è cioè, volta per volta, l’autore solo di questa
o di quell’opera, come l’autore implicito di Booth, ma l’autore reale di tutte le proprie
opere); e che scrive all’interno di una tradizione letteraria, con tutto ciò che ne deriva
(come linguaggi, dispositivi, stili, temi e altro ancora) e nella quale potrà essere inserito
in pacifica continuità come in conflitto aperto.
Ciò significa che, nei casi in cui dovessimo identificare il narratore con l’autore, anche
l’atto narrativo non dovrebbe essere identificato semplicemente con l’atto di scrittura (o
con gli atti di scrittura) all’origine (quanto meno materiale) del testo. Consideriamo an-
cora una volta l’esordio di Papà Goriot: come si ricorderà, esso propone una determina-
zione delle circostanze della narrazione che ne consente la collocazione in un certo torno
d’anni della Parigi del primo Ottocento e quindi entro un certo orizzonte storico. E con-
siderazioni analoghe valgono per tanti narratori un po’ etero- e un po’ omodiegetici del
romanzo ottocentesco (narratori «contemporanei-concittadini», li chiamava Genette). Si
legga, ancora, questo passo preso dalle prime pagine di Waverley, di Walter Scott:

Fissando dunque il tempo della mia storia sessant’anni prima del presente 1 novembre
1805, vorrei suggerire ai miei lettori che nelle prossime pagine non troveranno né un ro-
manzo cavalleresco né un moderno racconto di costume. (34; trad. mia)

L’autore che racconta si situa storicamente nei primi anni del 1805 e inscena gli eventi
anche finzionali della propria storia negli anni dell’insurrezione giacobita – abbiamo par-
lato di blending –, delineando due orizzonti storici con i quali il lettore deve entrare in
dialogo. Attribuire l’atto narrativo all’autore reale, ancora una volta, non significa con-
fondere gli accertamenti filologici e le informazioni biografiche con l’interpretazione, né
dimenticare la finzionalità del racconto, ma individuare degli orizzonti storici per l’inter-
pretazione. L’autore, insomma, può essere identificato con il narratore a condizione che
lo pensiamo come soggetto di scrittura e che problematizziamo adeguatamente questa
scrittura.
Proprio in questa prospettiva, diversi narratologi, in anni recenti, hanno formulato altre
proposte alternative a quella della narratologia strutturalista. Una è quella di Ann Ban-
field, che abbiamo già incontrato: in Unspeakable Sentences (1982), basandosi su alcuni
concetti della linguistica generativa e concentrandosi sul romanzo modernista, nonché
sviluppando alcune idee di Käte Hamburger, Banfield ha sostenuto, come abbiamo ac-
cennato sopra, che nella narrativa finzionale appaiano alcuni tipi di enunciato che non
appaiono invece nell’oralità e che non possono essere intesi come enunciati pronunciati
da un narratore, se per narratore si intende uno speaker che parli in prima persona. Questi
enunciati «unspeakable» (non dicibili nell’oralità) sono quelli in discorso indiretto libero
e quelli di pura histoire nel senso di Benveniste («Tornarono a casa a tarda sera»: enun-
ciati narrativi che non contengono riferimenti a colui che li formula, ai suoi interlocutori
e al contesto dell’enunciazione e che quindi non rientrano nella categoria del discourse
di Benveniste). Gli enunciati di queste due classi, conclude Banfield, hanno un autore che
li ha scritti e che in questo senso ha rappresentato un mondo tramite il linguaggio, ma
non un narratore che li pronunci e che quindi, propriamente, narri.
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Un’altra no-narrator theory – così sono chiamate, talvolta, queste teorie che mettono
in discussione il concetto di narratore – è stata proposta da Richard Walsh, il quale af-
ferma che l’invenzione è una facoltà dell’autore, non del narratore, e che pertanto, dove
il testo media informazioni che non possono derivare da referto narratoriale (nella Re-
cherche di Proust, per esempio, dove un narratore omodiegetico riferisce i pensieri di altri
personaggi, o nelle Avventure di Huckleberry Finn [1884], di Mark Twain), si devono
riconoscere l’invenzione e quindi la voce dell’autore. Nei testi narrativi, pertanto, a rac-
contare saranno l’autore o i personaggi; il narratore sarà al più, in qualche caso, un effetto
locale del testo.
Più affine alla proposta delineata sopra è invece quella di Paul Dawson (Il ritorno
dell’onniscienza nella narrativa contemporanea), che si concentra sul romanzo contem-
poraneo, soprattutto anglosassone – Salman Rushdie, Jonathan Franzen, David Foster
Wallace, Zadie Smith –, e osserva come la narrazione onnisciente, che sembrava essere
scomparsa, sia tornata a diffondersi. In queste voci narranti onniscienti, tuttavia, Dawson
riconosce non dei narratori finzionali, ma gli autori stessi dei romanzi. Essi parlerebbero
nei propri romanzi con la propria voce e in continuità con i discorsi non finzionali svolti
in altri contesti e in altre forme di scrittura, per esempio saggistica o giornalistica, per
affermare l’autorevolezza del discorso narrativo, la sua rilevanza nella sfera del dibattito
sociale e la sua continuità con altre forme di discorso pubblico.
La proposta di Dawson è affine a quella delineata sopra in quanto deriva da una rifles-
sione sulle relazioni tra narrazione romanzesca e altre forme di discorso, non solo finzio-
nali, in un determinato momento storico. Essa è inoltre interessante perché sembra inter-
secare un fenomeno caratteristico della contemporaneità, ovvero il ritorno di rappresen-
tazioni narrative che, rispetto alla dicotomia di finzionalità e referenzialità, sembrano
avere, nella coscienza del pubblico, uno statuto ibrido: i biopics, la docufiction, l’autofi-
ction e certa non-fiction.
In tutti i casi, l’analisi narratologica mostra il proprio fondamento nella teoria e le
proprie implicazioni per l’interpretazione.

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Intermezzo: la presa del ponte di Thabor in Guerra e pace

Il capitolo XII della parte II del libro I di Guerra e pace (1865-69) racconta la presa del
ponte di Thabor, a Vienna, da parte dell’esercito francese. Il fatto accadde storicamente
il 14 novembre del 1805, durante la Guerra della terza coalizione, e dunque non è un’in-
venzione di Tolstoj, ma in Guerra e pace è raccontato in relazione alla storia del principe
Andréj Bolkonskij, personaggio finzionale tra i protagonisti del romanzo.

Terminate le sue visite, verso le cinque di sera, il principe Andréj tornava a casa da Bilíbin,
combinando mentalmente una lettera al padre intorno alla battaglia e al suo arrivo a Brünn.
All’entrata della casa occupata da Bilíbin stava ferma una carrozza mezzo piena di bagagli,
e Franz, il servo di Bilíbin, trascinando a fatica una valigia, usciva dalla porta.
Prima di andare da Bilíbin, il principe Andréj era entrato da un libraio a fornirsi di libri per
la campagna di guerra, ed era rimasto molto tempo nella bottega.
– Che c’è? – domandò Bolkonskij.
– Ach, Erlaucht! – disse Franz, che spingeva faticosamente la valigia nella carrozza. – Wir
ziehen noch weiter. Der Bösewicht ist schon wieder hinter uns her.1
– Come? Che? – domandò il principe Andréj.
Bilíbin uscì incontro a Bolkonskij. Sul viso sempre calmo di Bilíbin c’era dell’agitazione.
– Non, non, avouez que c’est charmant, – diceva, – cette histoire du pont de Thabor (un
ponte di Vienna). Ils l’ont passé sans coup férir.
Il principe Andréj non capiva nulla.
– Ma di dove venite, come non sapete quel che sanno tutti i cocchieri della città?
– Vengo dall’arciduchessa. Là non ho sentito nulla.
– E non avete visto che da per tutto si fanno le valige?
– Non ho visto… Ma di che si tratta? – domandò con impazienza il principe Andréj.
– Di che si tratta? Si tratta di questo, che i francesi hanno passato il ponte che difendeva
Auersperg, e il ponte non l’hanno fatto saltare, sicché Murat adesso corre sulla strada di
Brünn e oggi o domani saranno qui.
– Come qui? E perché non hanno fatto saltare il ponte, se era stato minato?
– È quel che domando a voi. Questo non lo sa nessuno, e nemmeno Bonaparte.
Bolkonskij si strinse nelle spalle.
– Ma se il ponte è stato passato, vuol dire che l’armata è perduta: sarà tagliata fuori, – disse.
– Qui sta il bello, – rispose Bilíbin. – Ascoltate. I francesi entrano a Vienna, come vi ho
detto. Va tutto benissimo. Il giorno dopo, cioè ieri, i signori marescialli Murat, Lannes e
Belliard montano in sella e si dirigono verso il ponte. (Notate che sono tutti e tre guasconi.)
«Signori», dice uno, «voi sapete che il ponte di Thabor è minato e controminato, che da-
vanti ci sono una minacciosa tête de pont e quindicimila uomini con l’ordine di far saltare
il ponte e di non lasciarci passare. Ma al nostro sovrano, l’imperatore Napoleone, farà pia-
cere se prenderemo questo ponte. Andiamo noi tre e prendiamolo». «Andiamo», dicono gli
altri; ed essi vanno e prendono il ponte, lo traversano, e ora sono da questa parte del Danu-
bio con tutto l’esercito e si dirigono su noi, su voi e sulle vostre linee di comunicazione.
– Smettete di scherzare, – disse il principe Andréj serio e triste. Questa notizia faceva
tutt’insieme piacere e dispiacere al principe Andréj.

1
«Ah, Eccellenza! Ce ne andiamo più lontano. Lo scellerato ci è già di nuovo dietro».
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Appena apprese che l’armata russa si trovava in una situazione così disperata, gli venne in
mente che proprio a lui fosse riservato di togliere l’armata russa da quella situazione e che
quella era per lui la Tolone che lo avrebbe fatto uscire dalle file degli ufficiali oscuri e gli
avrebbe aperto la strada della gloria. Ascoltando Bilíbin, egli calcolava già come, raggiunta
l’armata, avrebbe espresso in consiglio di guerra il parere che solo poteva salvare l’armata
e come a lui solo sarebbe stata affidata l’esecuzione di questo piano.
– Smettete di scherzare, – disse.
– Io non scherzo, – continuò Bilíbin, – niente è più vero e più triste. Questi signori arrivano
sul ponte soli e alzano dei fazzoletti bianchi; assicurano che c’è un armistizio e che loro, i
marescialli, vengono per intavolare delle trattative col principe Auersperg. L’ufficiale di
servizio li lascia entrare nella tête de pont. Essi gli raccontano mille sciocchezze da gua-
sconi: dicono che la guerra è finita, che l’imperatore Francesco ha fissato un incontro con
Bonaparte, che desiderano vedere il principe Auersperg e tante altre guasconate. L’ufficiale
manda a cercare Auersperg; questi signori abbracciano gli ufficiali, scherzano, si mettono
a sedere sui cannoni; e intanto un battaglione francese, inosservato, sale sul ponte, getta in
acqua i sacchi di materie infiammabili e si avvicina alla tête de pont. Finalmente appare lo
stesso tenente generale, il nostro caro principe Auersperg von Mautern. «Caro nemico!
Fiore dell’esercito austriaco, eroe delle guerre turche! L’inimicizia è finita, possiamo darci
la mano l’un l’altro… l’imperatore Napoleone arde dal desiderio di conoscere il principe
Auersperg». In una parola, questi signori, che non per nulla sono guasconi, colmano tal-
mente Auersperg di belle parole, egli è talmente lusingato dall’intimità che così presto si è
stabilita fra lui e i marescialli francesi, è così accecato dalla vista del mantello e delle penne
di struzzo di Murat, qu’il n’y voit que du feu et oublie celui qu’il devait faire sur l’ennemi
–. (Nonostante la vivacità del suo discorso, Bilíbin non dimenticò di fermarsi dopo questo
mot, per dare il tempo di apprezzarlo.) Il battaglione francese corre alla tête de pont, in-
chioda i cannoni e il ponte è preso. Ma il più bello si è, – proseguì, mentre si calmava sotto
il fascino del proprio racconto, – si è che il sergente addetto al cannone che doveva dare il
segnale di accendere le mine e far saltare il ponte, questo sergente dunque, vedendo che le
truppe francesi correvano sul ponte, voleva già sparare, ma Lannes gli fece deviare la mano.
Il sergente, che, a quanto pare, era più intelligente del suo generale, si avvicina ad Auer-
sperg e dice: «Principe, v’ingannano: ecco i francesi!» Murat vede che l’affare è perduto
se si lascia parlare il sergente. Con finta meraviglia (da vero guascone!) si rivolge ad Auer-
sperg: «Non riconosco la disciplina austriaca, tanto vantata nel mondo», dice. «E voi per-
mettete a un sottufficiale di parlare così con voi». C’est génial. Le prince Auersperg se
pique d’honneur et fait mettre le sergent aux arrêts. Non, mais avouez que c’est charmant,
toute cette histoire du pont de Thabor. C’est n’est ni bêtise, ni lâcheté…
– C’est trahison, peut-être, – disse il principe Andréj, immaginandosi al vivo i cappotti
grigi, le ferite, il fumo della polvere, il rumore della fucileria e la gloria che lo aspettava.
– Non plus. Cela met la Cour dans de trop mauvais draps, – continuò Bilíbin. – Ce n’est
ni trahison, ni lâcheté, ni bêtise; c’est comme à Ulm… – Egli parve riflettere, cercando
un’espressione: – C’est… c’est du Mack. Nous sommes «mackés», – concluse, sentendo di
aver detto un mot, e un mot fresco fresco, un mot che sarebbe stato ripetuto. Le pieghe che
fino a quel momento gli si erano raccolte sulla fronte si distesero rapidamente in segno di
soddisfazione, e, sorridendo un poco, egli prese a considerarsi le unghie.
– Dove andate? – disse a un tratto, rivolgendosi al principe Andréj, che si era alzato e si
dirigeva verso la sua camera.
– Me ne vado.
– Dove?
– A raggiungere l’armata.
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– Ma voi volevate restare ancora due giorni.


– E ora me ne vado subito –. E il principe Andréj, date le disposizioni per la partenza, si
ritirò nella sua camera.
– Sapete che c’è, mio caro? – disse Bilíbin entrando da lui. – Ho pensato a voi. Perché ve
ne andate? – E per provare l’indiscutibilità del suo argomento, tutte le grinze gli sparirono
dal viso.
Il principe Andréj guardò interrogativamente il suo interlocutore e non rispose nulla.
– Perché ve ne andate? Lo so, voi pensate che il vostro dovere sia di correre all’armata, ora
che l’armata è in pericolo. Capisco, mon chère, c’est de l’héroïsme.
– Niente affatto, – disse il principe Andréj.
– Ma voi siete un philosophe: siatelo interamente, guardate le cose da un altro lato, e ve-
drete che il vostro dovere, al contrario, è di conservarvi. Lasciate questo agli altri che non
sono più buoni a nulla… Non vi è stato ordinato di tornare indietro, e qui non vi hanno dato
congedo; per conseguenza potete rimanere e venir con noi, dove ci condurrà la nostra infe-
lice sorte. Dicono che si vada a Olmütz. E Olmütz è una città molto simpatica. Voi ed io
ce ne andremo tranquillamente nella mia carrozza.
– Smettete di scherzare, Bilíbin, – disse Bolkonskij.
– Io vi parlo sinceramente e da amico. Ragionate. Dove e perché ve ne volete andare ora,
quando potete rimaner qui? Vi aspetta una di queste due cose, – (egli raggrinzò la pelle
sulla tempia sinistra): – o non raggiungerete l’armata e la pace sarà conclusa, o vi toccherà
la disfatta e la vergogna insieme con tutta l’armata di Kutúzov –. E Bilíbin spianò la pelle
del viso, sentendo che il suo dilemma era inattaccabile.
– Non posso ragionare a questo riguardo, – disse freddamente il principe Andréj e pensò:
«Vado per salvare l’armata».
– Mon cher, vous êtes un héros, – disse Bilíbin. (Tolstoj, Guerra e pace 183-187)

Innanzitutto, riepiloghiamo ciò che accade nel capitolo, individuandone i momenti prin-
cipali a partire da quando il principe Andréj, essendo stato ricevuto dall’imperatore d’Au-
stria Francesco II e avendo incontrato altri membri della corte austriaca, rientra dalle sue
visite e da un successivo passaggio in libreria. Sulla porta della casa occupata da Bilíbin,
dove anch’egli è alloggiato, il principe incontra Franz, che gli dà la notizia del tutto inat-
tesa che i francesi sono nuovamente su di loro. Appare Bilíbin, che informa il principe
Andréj della presa del ponte da parte delle truppe napoleoniche e si stupisce del suo stu-
pore. Il principe pensa subito alla minaccia per l’armata russa. Bilíbin fornisce un secondo
racconto dell’evento. Il principe lo invita a non scherzare e Bilíbin fornisce un terzo rac-
conto. I due discutono di come possa spiegarsi l’accaduto, dopodiché il principe dichiara
di volere partire e inizia i preparativi. Bilíbin cerca di convincerlo a restare, ma il principe
Andréj persevera nella propria decisione.
Ora ripercorriamo più approfonditamente il racconto del capitolo, formulando qualche
rilievo narratologico ed ermeneutico. Innanzitutto, abbiamo detto, leggiamo del rientro
del principe Andréj. La narrazione è extra- eterodiegetica (il regime narrativo fondamen-
tale del romanzo tolstojano, per il quale, a seconda del nostro orientamento teorico, pos-
siamo intendere il narratore come figura testuale o invece come l’autore, Lev Tolstoj, che
narra; scegliendo questa seconda possibilità, e per essere più esplicito, nel seguito parlerò
dell’autore) e procede come narrazione delle azioni del principe e dei suoi pensieri, o
almeno del dettato mentale della lettera al padre. Quindi, dalla narrazione delle azioni si
passa a una sezione di dialogo: il principe scambia alcune battute, riferite in discorso
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diretto libero e legato, con Franz e con Bilíbin. Mediante questo scambio di battute ap-
prendiamo dapprima, da Franz, che Napoleone sta avanzando e poi che i francesi hanno
preso il ponte di Thabor. A concludere questa sezione di dialogo è il primo, brevissimo
racconto di Bilíbin, che informa il principe di come i francesi abbiano preso il ponte senza
che gli austriaci lo facessero saltare e stiano quindi sopraggiungendo, guidati da Murat.
Costantemente il dialogo ci mostra il principe Andréj sorpreso e sconcertato dagli eventi:
Bilíbin gli chiede come possa non sapere «quel che sanno tutti i cocchieri della città» e
l’autore insiste sul domandare del principe – «domandò… domandò… domandò con im-
pazienza» – e, in psiconarrazione, sul fatto che egli non capisse che cosa stesse accadendo
– «Il principe Andréj non capiva nulla» (184).
Sollecitato dal principe, dunque, Bilíbin diventa narratore intra- omodiegetico. Egli
infatti non è un personaggio della storia che racconta, ma il mondo di cui racconta è il
suo ed egli è direttamente interessato dalle conseguenze degli eventi riferiti, sicché pos-
siamo descriverlo anche come un narratore omodiegetico allodiegetico.
Come abbiamo già ricordato, innanzitutto Bilíbin fornisce una brevissima narrazione
che offre al principe un primo ragguaglio e gli chiarisce quale sia il pericolo imminente:
«Di che si tratta? Si tratta di questo, che i francesi hanno passato il ponte che difendeva
Auersperg, e il ponte non l’hanno fatto saltare, sicché Murat adesso corre sulla strada di
Brünn e oggi o domani saranno qui» (184).
Questo racconto così conciso suscita però una nuova domanda del principe: egli non
capisce perché gli austriaci non abbiano fatto saltare il ponte e lo domanda. Bilíbin allora
dice che nessuno lo sa, «nemmeno Bonaparte», ed è un’aggiunta che dichiara ignoranza,
ma che insieme anticipa un’interpretazione dell’accaduto: il ponte non è stato preso per
un’abile manovra di Napoleone; più in generale, non è questione di intelligenza o di stra-
tegia. Poiché allora il principe osserva che «l’armata è perduta», dal momento che «sarà
tagliata fuori» (184), Bilíbin procede a un secondo e più ampio racconto.
Questo secondo racconto si compone di tre parti: nella prima, Bilíbin ricorda l’ante-
fatto: «I francesi entrano a Vienna» (184); nella seconda, egli riferisce i discorsi mediante
i quali i marescialli francesi si dispongono a prendere il ponte; nella terza, dice di come
abbiano effettivamente preso il ponte e di come ora, di conseguenza, «si dirigano su noi,
su voi e sulle vostre linee di comunicazione» (185). Se però si osservano le tre parti più
analiticamente, si vede che anche questo racconto non è davvero informativo. L’ultima
parte si limita a presentare la presa del ponte nel suo compimento. Non dice come i fran-
cesi abbiano cercato di prendere il ponte e come quindi siano riusciti nel proprio intento.
Non scompone l’azione, non la dettaglia, non la interpreta, ma la presenta come già com-
puta: sono andati e l’hanno fatto. Ma come l’hanno fatto? La domanda non riceve risposta.
Né l’antefatto offre chiarimenti di alcun genere, poiché il fatto che i francesi avessero
raggiunto Vienna era già noto. E i discorsi dei marescialli francesi, infine, sono palese-
mente un’invenzione di Bilíbin, poiché egli non può sapere che cosa essi si siano detti
avvicinandosi al ponte di Thabor e poiché questi discorsi, per come sono immaginati da
Bilíbin, non concertano un piano come necessariamente dovevano avere fatto i mare-
scialli francesi. In questo senso, egli agisce qui da narratore inattendibile, o più precisa-
mente inaffidabile. Ciò che fa Bilíbin è inventare un discorso che rappresenti i tre mare-
scialli come «guasconi». Bilíbin, in altre parole, sta raccontando un aneddoto di astuzia
guascona: «Notate che sono tre guasconi» (184). E, quando inizialmente dice «Qui sta il
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bello… Ascoltate» (184), sta già disponendo il suo interlocutore all’ascolto di un racconto
comico, o quanto meno piacevole. Il secondo racconto di Bilíbin, dunque, esercita la fun-
zione narrativa in modo solo apparente, o quasi, nel senso di una narrazione non referen-
ziale, o di dubbia attendibilità dal punto di vista referenziale (abbiamo detto che egli è un
narratore inaffidabile); la funzione di comunicazione, dove esorta il principe ad ascoltare;
e la funzione ideologica, obliquamente ma in modo preminente, in quanto suggerisce che
il fatto sia sorprendente, o che possa essere apprezzato come tale – «Qui sta il bello» –, e
che la presa del ponte sia stata un’astuzia da guasconi. Se poi consideriamo il racconto in
quanto racconto incassato, possiamo parlare di una funzione drammatica, in quanto esso
suscita una reazione e un corso di azioni conseguenti da parte del principe Andréj. Si noti
infatti come al termine del racconto il principe, che all’inizio dell’episodio appariva tran-
quillo, cominci ad agitarsi, laddove Bilíbin, che era entrato in scena insolitamente agitato,
cominci a calmarsi. Questa dinamica incrociata procederà fino alla fine dell’episodio.
Ma restiamo alla reazione del principe Andréj. Dicendo «Smettete di scherzare» (185),
egli qualifica il primo racconto di Bilíbin come un certo atto linguistico – uno scherzo –
e mostra di avere compreso l’intonazione della narrazione e la caratterizzazione comica
del fatto. Questa intonazione e questa caratterizzazione, tuttavia, al principe sembrano
inopportune. Egli pertanto invita il suo interlocutore a smettere di scherzare. Per questo
sorprende ciò che l’autore dice poi in psiconarrazione, e cioè che la «notizia faceva
tutt’insieme piacere e dispiacere al principe Andréj» (185). Perché «piacere», oltre che
«dispiacere»? Ma subito segue la spiegazione: nelle possibili conseguenze dell’evento, il
principe scorge la possibilità della gloria. Di questo desiderio di gloria del principe era-
vamo già stati avvisati nel cap. VIII dello stesso libro I, parte I, quando egli dolorosamente
aveva detto a Pierre che con le donne e il matrimonio un uomo rinuncia alla possibilità
della grandezza:

Non ti ammogliare mai, mai, caro amico; eccoti il mio consiglio: non ti ammogliare, finché
tu non ti sia detto di aver fatto tutto ciò che potevi fare e finché tu non abbia cessato di
amare la donna che hai scelta, finché tu non l’abbia veduta com’è: se no ti ingannerai cru-
delmente e irrimediabilmente. Ammogliati quando sarai un vecchio buono a nulla… Se no
tutto quello che c’è in te di buono e di alto sarà perduto. Si sprecherà tutto in piccolezze.
Sì, sì, sì! Non mi guardare con tanta meraviglia. Se aspetti qualcosa da te stesso nell’avve-
nire, sentirai ad ogni passo che per te tutto è finito, tutto è chiuso, fuorché i salotti, dove
starai come un domestico o un idiota… (33)

Nel nostro passo, la psiconarrazione che svela il desiderio di gloria del principe Andréj,
compresa com’è tra le due ripetizioni della battuta rivolta a Bilíbin, rileva anche il con-
trasto tra esteriorità e interiorità. Anche nel seguito l’autore interverrà in modo analogo,
rispetto al principe e rispetto a Bilíbin, sfruttando una potenzialità qualificante del rac-
conto romanzesco ed elaborando un tema fondamentale di Guerra e pace, quello del con-
trasto tra autenticità e menzogna, o tra verità interiore e finzione sociale.

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Fig. 6 – Guillaume Guillon-Lethière (1760-1832), La surprise du pont du Danube, 14 novembre 1805, primo
quarto del XIX secolo, olio su tela, 5,28 x 3,6 m, reggia di Versailles. Si vedono Joachim Murat, a cavallo al
centro, Jean Lannes, a sinistra, e Henri Gatien Bertrand.

Bilíbin, ad ogni modo, nega di scherzare e afferma al contrario che «niente è più vero
e più triste» (185). Quindi procede a un terzo e più lungo racconto, che differisce dal
secondo in vario modo: innanzitutto, le azioni dei francesi e degli austriaci sono presen-
tate in modo più analitico. La presa del ponte, cioè, non è più raccontata come una singola
azione che semplicemente si compie, ma come l’esito di una serie di azioni e reazioni dei
francesi e dei loro avversari. La funzione narrativa, qui, è svolta in modo autenticamente
referenziale. Nel mondo del romanzo – per il principe Andréj, potremmo anche dire –
questo terzo racconto di Bilíbin è a tutti gli effetti una narrazione fattuale: referto di fatti
realmente accaduti che il narratore propone come attendibile. E ci possiamo chiedere, di
seguito, se il racconto di Bilíbin possa avere questo valore anche per noi. Osserviamo La
surprise du pont du Danube, 14 novembre 1805, dipinto di Guillaume Guillon-Lethière
(fig. 6): si vedono Murat, Lannes e, invece che Belliard, il conte Bertrand. Inoltre si vede
Lannes compiere proprio il gesto descritto da Bilíbin. Come notavamo, riconoscere lo
statuto finzionale di una narrazione – in questo caso, di Guerra e pace – non risolve sem-
plicemente il problema del riferimento, o dei rapporti fra testo e realtà storico-fattuale.
Torniamo quindi al terzo racconto di Bilíbin. Egli non riferisce più i discorsi che i
marescialli francesi intrattengono tra loro prima dell’impresa, ma le parole dette nei di-
versi momenti dell’episodio sono riportate in vario modo: dapprima, mediante discorso
narrativizzato («Essi gli raccontano mille sciocchezze da guasconi» [185]) e discorso in-
diretto legato («dicono […] che l’imperatore Francesco ha fissato un incontro con Bona-
parte» [185]); quindi, con un discorso diretto libero che però ha carattere chiaramente
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parafrastico e che manifestamente rende l’idea della guasconeria. Anche in questo terzo
racconto, infatti, Bilíbin insiste sul tema dell’astuzia guascona, nonché, più di prima, su
quello complementare della stupidità austriaca (è di nuovo la funzione ideologica che
notavamo). Bilíbin arriva qui a usare la psiconarrazione per rappresentare la vanagloria e
la conseguente ingenuità di Auersperg, incantato come un idiota dalle penne di struzzo di
Murat. E, avendo ripreso così l’intonazione comica del secondo racconto, comincia anche
a compiacersi della propria abilità di narratore. A dircelo, tra parentesi, è l’autore, che
osserva come Bilíbin, avendo pronunciato un mot, lasci al principe «il tempo di apprez-
zarlo» e come poi egli «si calmi sotto il fascino del proprio racconto» (185). Potremmo
parlare di narcisismo narrativo, per questa disposizione a lasciarsi incantare dalle proprie
parole, e possiamo notare come Bilíbin, nonostante le sue proteste di prima – «niente è
più vero e più triste» (185): funzione di regia – continui a non sentire la gravità della
situazione, o a non preoccuparsi delle sue conseguenze effettive. La presa del ponte è per
lui materia di racconto, un’occasione per dimostrare il proprio spirito brillante. Nel modo
di condurre il racconto, il personaggio manifesta il proprio ethos.
La reazione del principe, che parla di tradimento, è invece in sintonia con i sentimenti
eroici che egli prova ascoltando il racconto. Bilíbin nega la sua spiegazione e ne offre una
in sintonia con il suo sguardo cinico e con la sua propensione a ridurre l’accaduto a com-
media: con un nuovo mot – «Nous sommes “mackés”», – riconduce il fatto alla stupidità
austriaca, che non è che l’inverso della furberia guascona. Il suo sentimento di soddisfa-
zione – le rughe distese, le unghie, il sorriso, la qualifica esplicita dell’autore – mostra
come la sua interpretazione dei fatti sia coerente con il suo atteggiamento verso quei fatti,
dal quale ancora seguiranno azioni coerenti: starne fuori, a distanza, al sicuro, nella fidu-
cia di potersi sottrarre alle conseguenze e nella convinzione che l’eroismo sia inutile.
Nelle ultime battute del capitolo, infatti, assistiamo al confronto tra i due personaggi
rispetto ai fatti raccontati e alle implicazioni che essi hanno o potrebbero, o dovrebbero,
avere. Proprio attraverso il confronto, le loro diverse fisionomie morali sono delineate più
chiaramente. Da una parte, come dicevamo, sta il cinismo ragionatore e beffardo del di-
plomatico – ripetutamente l’autore lo caratterizza per il formarsi e distendersi delle rughe,
che segue le dinamiche del ragionamento e della soddisfazione di sé –, il quale si atteggia
a philosophe per conservarsi ed esorta il principe a fare lo stesso, mentre riconosce il suo
eroismo in un modo che appare al contempo sincero e canzonatorio; dall’altra, sta l’eroi-
smo o il desiderio di gloria del principe Andréj, che rifiuta di trovare divertente l’acca-
duto, ne coglie le implicazioni tragiche e rifiuta di ragionare: «Non posso ragionare a
questo riguardo» (187). La razionalità calcolatrice soffoca ogni slancio glorioso – Leo-
pardi scrive nello Zibaldone che «la ragione è nemica d’ogni grandezza» (I, 17) – e per-
tanto il principe Andréj, che sente di essere coinvolto e di dovere agire per cogliere l’oc-
casione di gloria a lungo attesa, rifiuta di ragionare al modo di Bilíbin.
Gli eventi successivi, d’altra parte, mostreranno come l’ultimo pensiero del principe
Andréj – «Vado per salvare l’armata» (187): monologo interiore – non sia poi troppo
sincero, o, più precisamente, come per lui il desiderio di gloria prevalesse sul desiderio
di salvare i propri compagni in pericolo. La motivazione del principe, in altre parole, si
rivelerà anch’essa narcisistica, sebbene di un narcisismo diverso da quello di Bilíbin, e a
reinterpretare questa motivazione sarà il principe stesso. Nel seguito del romanzo, egli si
ricongiunge a Kutúzov, comandante in capo delle forse russe presso il quale il principe
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Andréj funge da attendente, e chiede e ottiene di essere mandato con Bagratiòn, un altro
generale russo, e un distaccamento a tentare di ritardare l’avanzata dei francesi. Il tenta-
tivo è disperato, perché è prevedibile che Bagratiòn e i suoi subiranno gravi perdite, ma
forse raggiungerà lo scopo e consentirà al grosso dell’armata russa di riposizionarsi. E il
tentativo riesce per un errore di Murat, per l’abilità di Bagratiòn e, nel romanzo, per il
coraggio di un gruppo di artiglieri russi che tengono la posizione anche quando tutto sem-
bra perduto (e il principe Andréj è l’unico a riconoscere i loro meriti e a difenderli pub-
blicamente quando la loro condotta è messa in discussione). Poi il principe torna presso
Kutúzov con Bagratiòn e i suoi e partecipa alla battaglia di Austerlitz, che secondo gli
storici è uno dei capolavori tattici di Napoleone.
Ad Austerlitz, Andréj si trova presso le prime linee quando i francesi appaiono all’im-
provviso davanti a russi e austriaci, sorprendendoli e mettendoli in rotta (libro I, parte III,
cap. XVI). La battaglia sembrava non essere ancora cominciata e invece era già perduta.
Gli uomini scappano davanti a lui. Kutúzov piange di rabbia impotente di fronte alla rotta
dei suoi. Cade uno stendardo ed ecco che il principe Andréj sente che il suo momento è
giunto. Mosso da un insieme di rabbia, vergogna e desiderio di gloria, raccoglie la ban-
diera e si butta avanti chiamando i suoi. Vedendo la bandiera, i russi si arrestano, si vol-
tano e tornano a lanciarsi verso il nemico al seguito del principe. Davanti a loro, i francesi
cominciano a sparare. Improvvisamente, il principe si sente cadere. Non capisce, all’ini-
zio, ma poi si trova disteso, ferito e incapace di muoversi. Non vede più altro che il «cielo
alto, infinito» sopra di sé e, prima di perdere conoscenza, si chiede:

Come non lo vedevo prima, questo cielo così alto? E come son felice di averlo finalmente
conosciuto. Sì! Tutto è vuoto, tutto è inganno, fuori che questo cielo infinito. Non c’è
niente, niente all’infuori di esso. Ma anch’esso non esiste, non c’è nulla all’infuori del si-
lenzio e della tranquillità. E Dio ne sia lodato!... (325)

Si risveglia alcune ore dopo, proprio nel momento in cui Napoleone, osservando il
campo dopo la battaglia, passa accanto a lui (libro I, parte III, cap. XIX). Napoleone lo
vede e, pensando che sia morto, commenta: «Voilà une belle mort» (337). Ironia roman-
zesca: proprio il suo idolo, Napoleone, gli concede quel riconoscimento del suo eroismo
che sarebbe la via verso la gloria ricercata, ma solo quando il principe è prossimo alla
morte e, soprattutto, solo quando della gloria non gli importa più niente:

Egli sapeva che quell’uomo era Napoleone, il suo eroe, ma in quel momento Napoleone gli
pareva un uomo così piccolo e insignificante a paragone di ciò che ora accadeva fra la sua
anima e quell’alto cielo infinito su cui correvano le nuvole! In quel momento tutto gli era
indifferente, chiunque gli fosse vicino e qualunque cosa dicesse di lui; era contento unica-
mente che qualcuno gli si fosse fermato accanto e desiderava unicamente che quella gente
lo aiutasse e lo restituisse alla vita che gli sembrava così bella, perché ora la capiva in modo
tanto diverso da prima. (337)

Napoleone però si accorge che il principe è ancora vivo e lo fa soccorrere. Andréj ha


l’occasione di parlargli, ma lo trova ormai così insignificante e i pensieri da cui ora è
preso gli sembrano così più importanti, che non si degna nemmeno di rispondergli,

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quando Napoleone gli rivolge la parola. Ad ogni modo viene curato da Larrey, il medico
personale dell’imperatore, e poi «affidato alle cure degli abitanti del paese» (340).
Contro le aspettative dello stesso Larrey, il principe sopravvive e torna a casa in tempo
per il parto della moglie, la quale però muore proprio partorendo. E così l’uomo che Pierre
Bezuchov, altro protagonista del romanzo e grande amico del principe Andréj, ritrova
nella sua tenuta di Bogučarovo è un uomo profondamente mutato, che gli dichiara la va-
nità della gloria (libro II, parte II, cap. XI):

Io ho vissuto per la gloria. (E che è poi la gloria? È lo stesso amore verso gli altri, il desi-
derio di far qualcosa per loro, il desiderio delle loro lodi). Così ho vissuto per gli altri e non
ho quasi rovinato, ma rovinato totalmente la mia vita. E sono qui tranquillo da quando vivo
per me solo. (446)

La riflessione del principe non è lucida: la gloria che cercava, anche se non era solo desi-
derio di lode, non era un vivere per gli altri nel senso altruistico inteso da Pierre. In quel
senso, è molto più un vivere per gli altri la vita che Andréj conduce ora, dedicandosi al
figlio, al padre, alla sorella e ai contadini. Ma certo il desiderio di gloria è trascorso, i
pensieri del principe sono rivolti a quelle cose più alte e complesse e sfuggenti che il cielo
simboleggiava e il suo atteggiamento verso la vita è mutato. La sua vicenda, d’altra parte,
conoscerà ancora altre svolte e lo costringerà ancora ad altre riflessioni, che ora però non
possiamo ripercorrere.

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4. Un’idea di narrazione

Avendo discusso di narrazione finzionale e narrazione fattuale, e per concludere il nostro


percorso narratologico, ci concentreremo ora sul concetto di narrazione, intesa come
forma di rappresentazione ed esperienza della realtà. A interessarci non è la narrazione in
generale, ma la narrazione letteraria, tipicamente, ma non sempre, finzionale. La precisa-
zione è dovuta al fatto che negli ultimi anni, in quella che talvolta è definita una narrative
turn, si sia parlato di narrazione in contesti molto diversi: politica, sociologia, economia,
giurisprudenza, medicina… Sono tutti contesti nei quali la narrazione svolge una parte
più o meno importante e che certamente possono essere compresi nel campo di osserva-
zione di una narratologia allargata, ma a noi interessa la narrazione letteraria. In partico-
lare, ci interessa mettere a fuoco la componente della narratività, quale tipicamente si
presenta in congiunzione con le altre due componenti della letterarietà e, per lo più, della
finzionalità. Nelle prossime pagine, quindi, ragioneremo su ciò che finora abbiamo detto
in una prospettiva di analisi e interpretazione, per derivarne alcune riflessioni di ordine
teorico. Il nostro discorso si è sviluppato in tre parti, relative rispettivamente ai personaggi
rappresentati, all’intreccio e alle figure della narrazione. Le riprenderemo nell’ordine in
cui le abbiamo affrontate.
Siamo partiti dall’osservazione del fatto che i testi narrativi presentino dei personaggi,
ovvero degli individui. Le narrazioni rappresentano cioè la realtà umana nella sua molte-
plice particolarità. Non ci presentano l’uomo nella sua generalità – o come concetto, idea,
astrazione –, ma gli uomini: individui, appunto, o ancora personaggi. In questo senso, la
narrativa è un dominio del particolare e rappresenta un mondo la cui sostanza concettuale
è la stessa che caratterizza il mondo della nostra esperienza quotidiana, fatta anch’essa di
individui particolari. Conosciamo gli altri innanzitutto come individui, persone che sono
per noi irriducibilmente diverse le une dalle altre, per quanto poco possiamo conoscerle
e per quanto poco ci possa importare di loro, e pensiamo noi stessi, analogamente, come
individui irriducibilmente particolari. La narrazione assume questa visione della realtà (la
sua precomprensione del mondo, come dice Guido Mazzoni [43-46], sembra essere la
stessa della nostra esperienza quotidiana). D’altra parte, attraverso il concetto di esem-
plarità, abbiamo anche osservato che i personaggi, senza perdere la propria particolarità,
possono rappresentare gruppi umani variamente definiti, per esempio in senso morale o
storico-sociale. Riprendendo Aristotele (con qualche libertà), possiamo dire perciò che la
capacità della narrazione di rappresentare la realtà umana non si ferma alla mera imita-
zione del particolare: le rappresentazioni dei personaggi che incontriamo nelle narrazioni
letterarie si rivelano valide anche per altri individui che incontriamo nella nostra espe-
rienza della realtà, secondo una logica esemplificazionale per la quale la narrazione di-
venta una forma di conoscenza della realtà umana oltre i confini del dominio della lette-
ratura.
Ci potremmo anche domandare, d’altra parte, se questa capacità della narrazione di
rappresentare la realtà sia limitata alla realtà umana, come abbiamo suggerito finora, o se
invece debba essere intesa in senso generale. La prima tesi è sostenuta, tra gli altri, da
Jerome Bruner: quando parla di «narrative construction of reality», la realtà alla quale
Bruner pensa, in una visione modulare della conoscenza, è, specificamente, la realtà
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umana: «the rich and messy domain of human interaction» (4). David Herman, al contra-
rio, afferma che la narrazione è uno strumento cognitivo – «a tool for thinking» – a do-
minio generico, mediante il quale, cioè, possiamo sviluppare abilità di problem solving
valide non solo per il dominio specifico della realtà umana o sociale (Stories as a Tool
for Thinking). Secondo Herman, per esempio, mediante la lettura di testi narrativi svilup-
piamo la nostra capacità di segmentare il flusso del tempo in unità discrete e poi di colle-
gare queste unità istituendo relazioni di causa ed effetto. Come si vede, tuttavia, l’osser-
vazione di Herman sposta la questione da ciò che è rappresentato nella narrazione alle
funzioni cognitive della narrazione. Diremo quindi che, per quanto riguarda ciò che è
rappresentato, la narrazione sembra concentrarsi sulla realtà umana e che a essere alimen-
tata dalla lettura di testi narrativi è la nostra conoscenza della realtà umana. Tuttavia, ciò
non esclude che la lettura di testi narrativi consenta di coltivare ancora altre facoltà o
competenze di problem solving e le scienze cognitive potranno forse dirci quali e in che
misura.
Dire che la narrazione rappresenta la realtà umana e che lo fa rappresentando individui
– i personaggi – non è però sufficiente. Ancora, dobbiamo ricordare che di questi perso-
naggi la narrazione letteraria rappresenta tipicamente l’esperienza. È una questione di cui
abbiamo già trattato, ricordando come alcune narratologhe – Cohn, innanzitutto, ma an-
che Hamburger – abbiano colto proprio nella rappresentazione diretta dell’esperienza in-
teriore il contrassegno della narrativa letteraria finzionale. Ragionando più ampiamente
sulla narratività – non solo letteraria e finzionale – e sulla parte che in essa compete
all’esperienzialità, Monika Fludernik è arrivata ad affermare che «narrativity is a function
of narrative texts and centres on experientiality of an anthropomorphic nature» (Towards
a ‘Natural’ Narratology 26)1 e che l’esperienzialità, non l’azione o una storia, sarebbe il
contrassegno della narrazione letteraria: «action belongs to narrative as a consequence of
the fact that experience is imaged as typically human and therefore involves the presence
of existents who act; […] existence takes priority over action parameters» (Towards a
‘Natural’ Narratology 27). La storiografia, in questo senso, rappresenterebbe una sorta
di grado zero della narratività, per come si concentra sulle azioni pubbliche degli uomini
e sulle loro conseguenze sociali, invece di rappresentarne l’interiorità, e il romanzo mo-
dernista, con la sua inward turn, sarebbe la più compiuta espressione del genere.
Ora, la posizione di Fludernik è quanto meno discutibile, perché ci porta ad attribuire
una maggiore narratività a una poesia lirica come L’infinito leopardiano (1818-19) – «e
il naufragar m’è dolce in questo mare» non è la rappresentazione di un’esperienza inte-
riore? – che a una narrazione storiografica. Se però la concentrazione sull’esperienza sog-
gettiva mette da una parte le narrazioni finzionali e la poesia lirica e dall’altra la storio-
grafia, non dovremmo concludere che essa è un tratto o un sintomo del letterario, più che
del narrativo? E diciamo del letterario, invece che del finzionale, perché la si ritrova tipi-
camente anche in quelle narrazioni fattuali che leggiamo come letterarie. Si legga ciò che

1
La formula della «experientiality of an anthropomorphic nature» serve a comprendere anche
quei personaggi che non hanno figura umana – dagli animali delle favole a certe cose dei racconti
fantastici o fantascientifici (si pensi all’anello di Sauron nel Signore degli anelli) –, ma che rive-
lano tratti antropomorfi o contano per come altri personaggi, umani, interagiscono con essi, onde
siamo ricondotti a un’orizzonte di esperienzialità.
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scrive Svetlana Aleksievič nel capitolo «Intervista dell’autrice a se stessa sulla storia man-
cata» del suo Preghiera per Černobyl’ (1997):

A interessarmi non era l’avvenimento in sé, vale a dire cos’era successo, per colpa di chi,
quante tonnellate di sabbia e cemento c’erano volute per costruire il sarcofago che richiu-
desse quel buco del diavolo, bensì le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toc-
cato con mano l’ignoto. […] La ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti. (33)

Naturalmente Aleksievič non può offrire una rappresentazione diretta e, per dirla con
Cohn, in terza persona dell’interiorità delle persone di cui scrive: cede loro la parola,
invece, e lascia che siano esse stesse a raccontarsi, per poi riflettere su ciò che hanno
detto, eventualmente, e sulla loro condizione. Ma il suo racconto degli eventi – racconto,
polifonico, testimoniale e non finzionale – appartiene al dominio della letteratura, prima
che a quello della storiografia, anche e innanzitutto in quanto tende alla «ricostruzione
non degli avvenimenti, ma dei sentimenti». In conclusione, se la narrazione si concentra
sulla rappresentazione dell’esperienza soggettiva, o dell’interiorità, lo fa in quanto è let-
teraria e non in quanto narrazione o, eventualmente, in quanto finzionale (anche se poi
certi modi di rappresentare l’interiorità possono essere caratteristici della finzione, come
abbiamo visto; e sebbene ciò non significhi che la letteratura sia sempre o innanzitutto
rappresentazione dell’interiorità).
Ciò che abbiamo detto sul referto del discorso dei personaggi, sulla rappresentazione
della loro interiorità e sulla prospettiva costituisce in fondo l’elaborazione di questa idea
– che la narrazione (finzionale) letteraria sia rappresentazione della realtà umana e, in
particolare, di individui con una propria esperienza – in termini di categorie e concetti per
l’analisi del testo. Ma alla stessa idea si lega anche il riconoscimento del ruolo di agenti
dei personaggi, o della loro parte nell’intreccio: anche nell’azione, infatti, i personaggi
sono individui, la cui particolarità si definisce anche come particolarità della vicenda che
vivono. E d’altra parte abbiamo detto che interiorità e azione sono due versanti di uno
stesso mondo del personaggio (e che il concetto di narrazione incastonata, con il ricono-
scimento del carattere intenzionale dell’azione, ci aiuta a cogliere questa unità).
Rivolgendoci ora all’intreccio, inoltre, possiamo cogliere un’altra caratteristica essen-
ziale della narrazione, ovvero il fatto che essa riferisca eventi che si succedono nel tempo
e costituiscono una storia: eventi non irrelati, dunque, ma legati nel tempo dalle azioni e
dal ruolo che in essi svolgono i personaggi. È qui, nel fatto che la narrazione presenti una
storia, che cogliamo ciò che lo distingue da altre scritture letterarie che pure rappresen-
tano la realtà umana individuale nella sua dimensione esperienziale: la poesia lirica (ci-
tavamo L’infinito) non è anche questo? Le narrazioni però presentano storie, diversa-
mente dalla lirica.2 I personaggi narrativi sono individui agenti, presi in vicende partico-
lari, e la loro esperienza interiore, che la narrazione ci rappresenta, è un’esperienza nel
tempo, legata a quelle vicende.

2
Anche una poesia lirica può riferire una storia, naturalmente, ma certo non è questo che tipica-
mente e principalmente fa la lirica. La questione è complessa e ci limiteremo a dare un suggeri-
mento sulla scorta di Jonathan Culler: se nella narrativa prevale la dimensione mimetica o rappre-
sentazionale, nella lirica prevale l’elemento ritualistico. Scrive Culler: «Insofar as lyrics offer not
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Per quanto riguarda la rappresentazione, questa è l’idea di narrazione letteraria (per lo


più, ma non solo) finzionale che emerge dalle riflessioni che abbiamo condotto: persone,
individui particolari coinvolti in una storia e portatori di un’esperienza legata a quella
storia. Tuttavia, per caratterizzare la narrazione rispetto ad altre forme narrative quali il
teatro o il cinema, che pure rappresentano una storia con dei personaggi, manca ancora
un elemento: la mediazione narrativa. La narrazione, abbiamo detto, presuppone un nar-
ratore: un personaggio più o meno immerso negli eventi, un narratore inteso come figura
testuale più o meno caratterizzata, o ancora l’autore stesso; qualcuno, in ogni caso, che
racconti.3 La nostra conoscenza degli eventi è sempre mediata in vario grado da un nar-
ratore che, per come definisce la propria enunciazione, offre di quegli eventi una visione.
Nella narrazione letteraria non incontriamo una realtà oggettiva e per sé data, ma una
rappresentazione che si determina innanzitutto nelle forme dell’enunciazione narrativa.
Da ciò deriva l’esigenza, per l’interpretazione, di descrivere le forme dell’enunciazione
narrativa (è ciò che abbiamo fatto riflettendo sul narratore e sulle altre figure della narra-
zione). Ancora più profondamente – ma a questo discorso accenniamo soltanto –, il fatto
della mediazione narrativa, o la natura necessariamente diegetica della narrazione, e più
precisamente il darsi della storia nel linguaggio, ovvero in una materia costitutivamente
significante, agisce per un’imposizione di significatività agli eventi e per la loro trasfor-
mazione, da mero accadere, in significato (a ciò contribuisce anche l’intreccio come com-
posizione e configurazione dell’azione, in quanto tende a eliminare la casualità intesa
come rumore nel senso della teoria dell’informazione). Tutto nella narrazione può essere
significante e dunque materia per l’interpretazione e, inversamente, ovunque l’interpre-
tazione deve mediare l’accesso a ciò che viene narrato e all’esperienza che il lettore può
vivere nella narrazione.
Soffermiamoci brevemente su questa idea che la narrazione sia per il lettore occasione
di esperienza. L’esperienzialità della lettura di narrativa si manifesta innanzitutto nelle
relazioni che i lettori intrattengono con i personaggi: giustamente Hans Robert Jauss,
nella sua Apologia dell’esperienza estetica, ha insistito sul carattere propriamente rela-
zionale, di impegno etico ed emotivo anche da parte del lettore, che contraddistingue l’at-
teggiamento dei lettori verso i personaggi letterari. Da lettori non ci limitiamo a osservare
con distacco le vicende di Grace, Maury e Neil, di Rastignac o di Emma Bovary: piutto-
sto, proviamo per loro simpatia, compassione, disprezzo, ammirazione o qualsiasi senti-
mento che altre volte proviamo per le persone reali. L’esteticità dell’esperienza, la me-
diazione della scrittura e la finzionalità eventuale della narrazione incidono sul modo in
cui viviamo e dopo interpretiamo quei sentimenti, ma non implicano in alcun modo che

representations of speeches by fictional characters but memorable writing to be received, reac-


tivated, and repeated by readers, they partake of what I have broadly called the ritualistic»; anche
i tratti formali delle poesie liriche «contribute to their ritualistic as opposed to fictional aspect,
making them texts composed for reperformance» (Theory of the Lyric 37).
3
Nei casi rari in cui questa mediazione sembra mancare – I detective di Bolaño – la narratività
della rappresentazione si conserva, come abbiamo detto, ma forse il testo cessa di essere un rac-
conto, o si situa al confine con altri tipi di testo, come il copione teatrale.
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non li viviamo.4 Per caratterizzare compiutamente la narrazione sul versante del lettore,
dunque, il concetto di rappresentazione si rivela insufficiente. I personaggi, per comin-
ciare, non sono solo rappresentazioni di individui dotate eventualmente di esemplarità,
ma anche termini di una relazione e di un’esperienza del lettore. Scrive Bachtin (per il
romanzo polifonico dostoevskijano, ma il suo rilievo sembra avere una validità più gene-
rale):

Ogni vero lettore di Dostoevskij, che recepisca i suoi romanzi non sul piano monologico,
ma sapendo elevarsi alla nuova posizione attribuita all’autore da Dostoevskij, sente questo
particolare allargamento attivo della sua coscienza, ma non solo nel senso di acquisizione
di nuovi oggetti (tipi umani, caratteri, fenomeni naturali e sociali), ma anzitutto nel senso
di una particolare relazione dialogica, mai sperimentata prima, con coscienze altrui dotate
di pieni diritti, e di una attiva penetrazione dialogica nelle infinite profondità dell’uomo.
(Dostoevskij 93)

Ritroviamo così il concetto del dialogismo e l’idea, di cui scriveva Taylor, che l’identità
si sviluppi dialogicamente. Il personaggio letterario, in quanto termine di questo dialogi-
smo, si ripresenta così, per il lettore, come possibilità dell’esistenza. Ciò che il lettore
conosce nel personaggio non è solo un altro e magari l’immagine di possibili altri, ma
anche e più profondamente una possibilità di se stesso.
Un discorso analogo vale per la temporalità della narrazione. L’analisi del tempo ge-
nettiana concepisce il tempo narrativo come tempo di una rappresentazione: come tempo
degli eventi della storia, elaborazione di quel tempo nel racconto e relazioni con quel
tempo dell’atto narrativo che si immagina all’origine del racconto. D’altra parte, se si
riflette sul significato del trattamento del tempo in un qualsiasi racconto, si comprende
subito come durata, ordine e frequenza siano correlate anche ai personaggi (come ab-
biamo detto sopra, parlando di esperienzialità) e al lettore in un senso che ancora mostra
la natura esperienziale della lettura di narrativa. Torniamo alla chiusa di Una storia ri-
dotta all’osso della vita postindustriale: quando siamo ricondotti alla condizione di in-
certezza che vi si rappresenta e che, come abbiamo detto, precede la fine della storia
cronologicamente ed ermeneuticamente, siamo anche ricondotti alla sua temporalità e
cioè alla sua durata e alla sua incerta apertura sul futuro. Dobbiamo stare nell’incertezza
espressa dalla chiusa per tutta la durata di quella triplice domanda – «now did one now
did one now did one» – anche se sappiamo già che no, non si riescono a mantenere «good
relations» con tutti, né la speranza di piacere è sempre soddisfatta e anzi si torna a casa
da soli con la propria ansia e il proprio dolore. Il momento della storia al quale torniamo
nella chiusa – momento peraltro disperso nelle tre linee d’azione dei tre personaggi e
composto nel loro intreccio – ha una propria durata e una propria apertura. Il lettore deve
ricreare quella durata e quell’apertura nella propria esperienza di lettura e lo stesso vale
per gli altri momenti della storia: la temporalità dei corsi d’azione dei tre personaggi deve

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Naturalmente il lettore vive anche alcuni stati mentali caratteristici della lettura e cioè specifici
della sua condizione di lettore e osservatore di un mondo immaginario: la curiosità e la sorpresa,
per esempio, e inoltre la suspense, ovvero l’incertezza rispetto a come evolverà una situazione
incerta della quale egli prefiguri alcuni possibili esiti.
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essere ripercorsa nel suo svolgimento dalla speranza di piacere alla sua delusione al ri-
torno a casa in solitudine e ciò significa stare dentro quella temporalità, senza forzarla in
direzione della fine e facendone esperienza. Nell’introduzione a una silloge dei suoi rac-
conti pubblicata nel 1996, Alice Munro scrive:

A story is not like a road to follow, […] it’s more like a house. You go inside and stay there
for a while, wandering back and forth and settling where you like and discovering how the
room and corridors relate to each other, how the world outside is altered by being viewed
from these windows. And you, the visitor, the reader, are altered as well by being in this
enclosed space, whether it is ample and easy or full of crooked turns, or sparsely or opu-
lently furnished. You can go back again and again, and the house, the story, always contains
more than you saw the last time. (Selected Stories xvi-xvii)

La narrativa, dunque, offre ai suoi lettori delle occasioni di esperienza e forse è qui la
funzione principale che essa svolge, o la ragione per la quale le persone leggono romanzi
e racconti. A essere in gioco, in fondo, sono i lettori stessi, non diversamente da ciò che
accade in altre forme di scrittura letteraria. In un saggio intitolato Che cos’è la poesia?
(1933-34), Roman Jakobson scriveva:

La percentuale dei cittadini della Cecoslovacchia che abbiano letto, per esempio, i versi di
Nezval non è grande. Se li hanno letti e accettati, senza volerlo avranno un modo un po’
diverso di scherzare con l’amico o di litigare con l’avversario, di dare il tono alle loro emo-
zioni, di dichiarare e vivere l’amore o di far politica. (53-54)

Certo, se per narrazione intendiamo ogni discorso narrativo, non solo letterario e non
solo finzionale, le funzioni della narrazione sono molteplici: la narrazione di un testi-
mone, durante un processo, serve all’accertamento dei fatti e delle responsabilità; la nar-
razione di un paziente, nell’anamnesi, serve alla formulazione della diagnosi; la narra-
zione di un cronista serve a informare sui fatti accaduti; la narrazione di un evento storico
tragico ha valore di testimonianza, o di restituzione della verità e di memoria delle vit-
time; la narrazione di una barzelletta serve a farci ridere. Ma la la narrazione letteraria
non sembra svolgere funzioni pragmatiche e, se può assumere anche un valore testimo-
niale, sembra innanzitutto offrirsi come occasione di esperienza.
Si potrebbe obiettare che nella cultura europea, dall’antichità alla prima modernità la
la narrazione letteraria ha avuto spesso una funzione esemplare o di istruzione. Pensando
alla narrazione nelle culture premoderne, Walter Benjamin scrive che essa «implica, aper-
tamente o meno, un utile, un vantaggio», e che «[t]ale utile può consistere una volta in
una morale, un’altra in un’istruzione di carattere pratico, una terza in un proverbio o in
una norma di vita» (250). Ed è certo vero che la la narrazione è stata illustrazione, apo-
logo, exemplum atto a illustrare una verità formulata in un discorso non narrativo (è il
caso della narratio nel discorso retorico). In questo, la la narrazione letteraria era affine
a forme narrative non artistiche, o ai limiti dell’artisticità, come la parabola biblica o,
come si è detto, la narratio retorica. Nella modernità, però, e soprattutto a partire (ancora
una volta) da Flaubert, gli scrittori non pensano ai propri romanzi e racconti come ad
apologhi intesi a illustrare una morale o una verità che si definiscano altrove. Quale verità

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dovrebbe illustrare, o quale morale avvalorare, Madame Bovary? Che la piccola borghe-
sia francese di provincia è ipocrita e infelice? Che il romanticismo è un inganno o una
chimera? Che è meglio non sposarsi? O che alla fine prevalgono gli idioti? Flaubert non
ne avrebbe sottoscritta nessuna come traduzione del proprio romanzo, perché Madame
Bovary è appunto un romanzo e non un apologo illustrativo di una verità o di una morale
traducibili in forma di asserzione. E si legga, per un esempio contemporaneo, ciò che
scrive Gao Xingjian in un passo della Montagna dell’anima, dove il narratore si rivolge
a un narratario che è anche una figura del narratore stesso (abbiamo già alluso alla com-
plessità delle persone in questo romanzo), dopo che questi ha raccontato una storia, e
dice:

Tu non sei uno storico, non coltivi ambizioni politiche, non vuoi atteggiarti a intellettuale
di vecchio stampo, né tantomeno vuoi fare propaganda religiosa, non vuoi diventare un
modello di virtù e saggezza per nessuno. Quello che ti affascina è la storia in sé. In realtà
non ne deriva necessariamente una morale.
Il tuo unico intento è di ridar vita alla storia attraverso il linguaggio. (368-369)

Anche quando sembra che il testo proponga una morale della favola, d’altra parte, non
è scontato che questa possa essere accolta senz’altro come sua verità ultima. Si pensi ai
Promessi sposi e al passo noto del «sugo di tutta la storia»:

Dopo un lungo dibattere e cercare insieme, conclusero che i guai vengono bensì spesso,
perché ci si è dato cagione; ma che la condotta più cauta e più innocente non basta a tenerli
lontani; e che quando vengono, o per colpa o senza colpa, la fiducia in Dio li raddolcisce,
e li rende utili per una vita migliore. Questa conclusione, benché trovata da povera gente,
c’è parsa così giusta, che abbiam pensato di metterla qui, come il sugo di tutta la storia. (668)

Dovremmo pensare che ciò determini univocamente il significato e la funzione del ro-
manzo, riducendolo a esemplificazione della massima secondo la quale «i guai vengono
bensì spesso» ecc.? Se così fosse, Manzoni avrebbe potuto limitarsi a enunciare quella
massima, senza scrivere l’intero romanzo, né i suoi lettori ne avrebbero discusso il signi-
ficato per oltre un secolo. Nella modernità, come si è detto, la la narrazione letteraria non
è un exemplum offerto per comunicare, insegnare o avvalorare una verità che si potrebbe
presentare in forma di asserzione e che magari si sia costituita originariamente in un altro
discorso, filosofico, religioso o di altro genere. La la narrazione letteraria si offre invece
ai lettori come occasione di esperienza e attribuisce loro la responsabilità dell’interpreta-
zione, nonché di ricavarne, eventualmente, una qualche verità. Arriviamo così all’idea
ermenutica dell’interpretazione come articolazione di una comprensione, la quale consi-
ste innanzitutto nell’esperienza della lettura. I concetti e le teorie della narratologia, in
questo senso, sono strumenti che possiamo usare per questo lavoro di articolazione di-
scorsiva della nostra esperienza di lettori.

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