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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 1 - ELEMENTI DI SOCIOLINGUISTICA

1a Lezione - Linguistica e Sociolinguistica: questioni preliminari

La linguistica si propone di definire le caratteristiche del linguaggio attraverso l’analisi delle


strutture delle lingue del mondo. L’intento della disciplina è quello di cercare di comprendere
come funzionano e come si articolano i linguaggi. Chiariamo preliminarmente che questo
modulo, considerata la sua collocazione all’interno di un percorso sulla mediazione
interculturale, dedicherà un’attenzione specifica alla sociolinguistica. L’interesse sarà orientato
non genericamente sulla linguistica generale ma sulla relazione, articolata e complessa, che si
stabilisce tra linguaggio e società e che finisce per condizionare in modo inequivocabile i
processi di mediazione culturale. Proveremo da subito, quindi, a tracciare un itinerario di
approfondimento che, partendo sempre dalla linguistica, abbia comunque la sociolinguistica
come punto efficace di osservazione, proprio perché in tal modo è possibile esaminare con uno
sguardo privilegiato le connessioni tra lingua, società e cultura. Conoscere le strutture di una
lingua equivale del resto a conoscere le strutture identitarie di un popolo, esplorarne, quasi con
metodo etnografico, le diverse dimensioni, le varietà, le questioni più profonde.
Questa prima lezione fornisce due esempi delle basi storiche della sociolinguistica su scala
globale: la scuola della sociologia del linguaggio di Fishman e la scuola della linguistica sociale
di Hymes.
J. A. Fishman (1970) propone un tipo di sociolinguistica più strettamente correlato alla
sociolinguistica su scala globale, per il quale la sociologia del linguaggio si divide in due parti:
la «sociologia descrittiva delle lingue» e la «sociologia dinamica delle lingue».
La parte prima si interessa alla descrizione dell’organizzazione sociale generalmente accettata
dell’uso linguistico nell’ambito di una comunità e il suo obiettivo è quello di portare alla luce
le norme dell’uso linguistico.
La parte dinamica cerca di rispondere alla domanda: «Quale spiegazione si può fornire al
variare della velocità del cambiamento nell’organizzazione sociale dell’uso linguistico e nel
comportamento nei confronti della lingua?».
La linguistica sociale è un altro tipo di sociolinguistica, diffuso da Hymes (1972): si tratta di un
approccio culturale e comunicativo, piuttosto che eminentemente linguistico.

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Hymes enuclea tre scopi della sociolinguistica:
1. Il sociale e il linguistico. Riguarda i problemi sociali e l’uso linguistico.
2. Una linguistica socialmente realistica. Implica l’acquisizione di dati dalla comunità dei
parlanti.
3. Una linguistica socialmente costituita. Implica l’immersione della forma linguistica
nella funzione sociale.
La pianificazione linguistica può essere divisa in tre categorie:
 Pianificazione del corpus. Per pianificazione del corpus linguistico si intende
l’intervento prescrittivo di una lingua nel complesso delle sue forme espressive. Ciò si
può ottenere creando o modificando parole o espressioni nuove. La pianificazione del
corpus mira a sviluppare le risorse di una lingua in modo che essa divenga un mezzo
appropriato di comunicazione per argomenti e forme di discorso moderne.
 Pianificazione dello status. La pianificazione dello status linguistico si riferisce agli
sforzi deliberati di allocare le funzioni delle lingue e delle alfabetizzazioni all’interno
di una comunità linguistica.
 Pianificazione dell’acquisizione. La pianificazione dell’acquisizione riguarda
l’insegnamento e l’apprendimento di lingue nazionali, seconde lingue o lingue straniere.
Essa è direttamente collegata alla diffusione linguistica.
La pianificazione linguistica può essere vista anche su scala globale, cioè in quanto orientata in
senso linguistico, sociale o politico. Essa rappresenta il cambiamento e lo sviluppo, ma anche
il superamento dei problemi linguistici, sociali, politici che impediscono il mutamento e lo
sviluppo desiderati.
Di seguito si esemplificano tre definizioni, ciascuna caratterizzata da un preciso orientamento:
linguistico, sociale e politico:
1. La definizione orientata in senso linguistico è quella di Kloss (1967):
Il «termine Ausbausprache può essere definito come “lingua per lo sviluppo”. Le lingue
appartenenti a questa categoria sono riconosciute tali perché sono state conformate o ri-formate,
plasmate o ri-plasmate – a seconda dei casi – per far sì che divenissero strumenti standardizzati
di espressione letteraria».
2. La definizione orientata in senso sociale è quella di Fishman (1987):
«Secondo me, la pianificazione linguistica rimane la sede più autorevole di locazione delle
risorse, per il raggiungimento degli scopi che pertengono allo status e ai corpora di una lingua,
sia in relazione alle nuove funzioni cui si aspira, sia in relazione a vecchie funzioni da assolversi
in modo più adeguato».

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3. La definizione orientata in senso politico è quella di Abou (1987):
«L’oggetto di qualsiasi cambiamento linguistico pianificato è la riduzione della competizione
tra le lingue o tra le varietà linguistiche, nonché la strutturazione razionale della loro coesistenza
in seno ad una società».
Kloss considera la lingua come uno strumento scritto della società moderna. La pianificazione
linguistica è orientata allo scopo per quel che riguarda la forma della lingua (standard), che
dovrebbe anche essere un riflesso della sua funzione. Nella definizione di Fishman si fa
menzione sia degli obiettivi connessi allo status, che di quelli connessi al corpus, e tutti vengono
collegati a funzioni sociali specifiche. La definizione di Abou allude alla risoluzione di
problemi di tipo politico e sottolinea un’allocazione funzionale di tutte le lingue nell’ambito di
un ordinamento sociopolitico.
La pianificazione linguistica come processo è stata descritta in letteratura da Haugen (1966),
Fishman (1974), Jernudd (1971) ed altri. Più volte, Haugen (1966; 1983; 1987) ha proposto il
proprio modello di pianificazione linguistica “a quattro stadi”:
1. Selezione della norma, delle regole generali.
2. Codificazione della norma: si cerca una corrispondenza coerente tra fonemi e grafemi e
di migliorare e anche cambiare la norma scelta. Si creano delle regole grammaticali
fisse, un’ortografia e un lessico di base.
3. Elaborazione delle funzioni: si cerca di inserire la norma nella vita quotidiana dei
parlanti, in modo tale che tutti i parlanti la possano usare. Si cerca di sviluppare e
ampliare il lessico e le forme grammaticali, creare neologismi, creare linguaggi
settoriali e terminologie.
4. Accettazione della comunità: tutti i passi precedenti sono futili se quest’ultimo non
andrà in porto. Non è possibile creare una norma scritta per una comunità linguistica
che non la usa, presupposto che la comunità abbia l’interesse di scrivere e continuare a
parlare la lingua. Inoltre dovrebbero accettare la norma in sé e le innovazioni, i libri
scritti e così via.
Negli anni successivi, Haugen, Kloss e Fishman perfezionarono questo modello che Haugen
ripresentò come il suo Revised Model of Language Planning (1987). La base di questo modello
“esteso” rimarranno ovviamente i quattro punti elencati sopra. Nel nuovo modello, le fasi o i
singoli processi di pianificazione succedono quasi sempre contemporaneamente e i punti
elencati si possono sovrapporre.
L’ambito di competenza della pianificazione linguistica è prevalentemente quello della tutela e
della rivitalizzazione o rafforzamento di lingue meno favorite, come le lingue di minoranza

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(minoranze linguistiche) o le lingue indigene della popolazione in stati in cui la lingua ufficiale
sia una grande lingua di colonizzazione (inglese, francese, spagnolo e così via).
Le lingue oggetto di pianificazione linguistica sono generalmente più deboli, spesso in
minoranza sul territorio e perciò particolarmente soggette a perdere funzioni e uso a favore di
quelle dominanti nell’area, in un processo di «deriva linguistica» (Fishman 1991; 2001). Una
delle più importanti operazioni della pianificazione linguistica è proprio quella di invertire la
deriva linguistica. Questo processo, articolato in studi e interventi diversi, prevede il
coinvolgimento attivo della comunità parlante.

Cenni sul territorio italiano


Status
La legislazione linguistica in Italia si articola su tre livelli:
 la Costituzione;
 l’apparato legislativo comune;
 le leggi e i regolamenti regionali o provinciali.
La Costituzione si occupa di questioni linguistiche all’art. 3 “Tutti i cittadini hanno pari dignità
sociali e sono uguali davanti alla legge senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di
religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali” e all’art. 6 “La Repubblica
tutela con apposite norme le minoranze linguistiche”. Dall’art. 6 nasce la legge del 15 dicembre
1999 n. 482 che istituisce la protezione di una serie di lingue di minoranza (art. 2: «La
Repubblica tutela la lingua e la cultura delle popolazioni albanesi, catalane, germaniche,
greche, slovene e croate e di quelle parlanti il francese, il franco-provenzale, il friulano, il
ladino, l’occitano e il sardo»). Oltre a ciò, numerose regioni italiane si sono dotate di proprie
leggi di tutela e valorizzazione delle alloglossie interne. Il dibattito legislativo si incentra su una
serie di possibili inclusioni di altre varietà nel novero di quelle tutelate, fra cui quelle delle
lingue delle minoranze non territoriali (rom e sinti) e delle nuove minoranze derivate
dall’immigrazione.
Corpus
Molte minoranze hanno come lingua “tetto” una lingua internazionale dotata di norma standard
ufficiale: questa è talora accettata come standard dalle minoranze in territorio italiano (francese,
tedesco in Alto Adige, sloveno nella Venezia Giulia, catalano); in altri casi la lingua standard
esterna non è sentita come propria dalla minoranza, che preferisce avvalersi di sue forme locali.
Ci sono poi comunità prive di lingua tetto internazionale: i ladini e i sardi hanno tentato la strada

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della creazione di una propria varietà di lingua amministrativa ad hoc.
Acquisition
Le minoranze nazionali già tutelate prima della legge 482/99 hanno in genere un sistema
scolastico che prevede l’insegnamento bilingue e una certa presenza della lingua tutelata nei
mezzi di informazione (per es., nella RAI regionale).

La pianificazione linguistica: strumento politico


La decisione di usare o di promuovere una lingua, o più lingue, in un Paese, non è affatto una
questione tecnica che si limita alla valutazione dei costi e della facilità di realizzazione. Essa è
sempre dettata dalla volontà di alcuni gruppi, maggioranze etniche o classi sociali, o entrambe
le cose, che aspirano ad estendere e a rafforzare la lingua che usano, a spese della/e lingua/e
degli altri. Per questo, politica e pianificazione linguistica sono, piuttosto, sinonimi tra loro, e
la pianificazione linguistica non è altro che la pianificazione e lo sviluppo di una cultura invece
di un’altra (di altre), sia essa la cultura dominante che prevale su quella dominata, sia essa la
cultura emergente che prevale su quella più vecchia e declinante.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 1 - ELEMENTI DI SOCIOLINGUISTICA

2a Lezione - La struttura sociale della lingua

La connessione tra lingua e struttura sociale può essere posta in quattro modi:
1. Il comportamento linguistico riflette la struttura sociale;
2. Il comportamento linguistico può condizionare il comportamento sociale;
3. La struttura sociale può determinare il comportamento linguistico;
4. Il comportamento linguistico ed il comportamento sociale stanno in rapporto dialettico.
Alla luce di queste quattro possibilità tenteremo di trarre alcune conclusioni sul comportamento
linguistico nel contesto sociale.
Il comportamento linguistico riflette la struttura sociale
La maggioranza delle ricerche sul comportamento linguistico considerano la struttura sociale
come variabile indipendente e il comportamento linguistico come variabile dipendente. Il
comportamento linguistico rispecchia le categorie che stanno alla base della struttura sociale.
Daremo un quadro d’insieme delle categorie più utilizzate, riferendoci alle variabili età,
stratificazione sociale, differenziazione etnica e sesso.
Età. In base alle sue ricerche linguistiche a New York, Labov (1963) distingue sei stadi
nell’acquisizione dell’inglese parlato, che si rifanno ai risultati della messa in correlazione di
variabili fonologiche con variabili dell’età, in rapporto alla classe sociale:
1. La grammatica di base
I bambini imparano, nei loro primi anni, le parole e le regole grammaticali fondamentali, in
modo da poter comunicare a chi li circonda i loro bisogni più importanti (Bloom, 1970). Questo
stadio sta sotto l’influsso dei genitori.
2. Dialetto regionale
Il secondo stadio è quello decisivo, dal punto di vista dello sviluppo della lingua. Nell’età tra i
5 e i 12 anni i bambini imparano, con i loro amici, il dialetto regionale, che mina l’influsso
linguistico dei genitori e parzialmente lo abbatte. Durante questo periodo il bambino impara
anche a leggere, a scuola.
3. Sorgere della coscienza sociale
Tra i 12 e i 15 anni il bambino, per il suo crescente contatto con il mondo esterno (adulti,

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autorità, ecc.), diventa sempre più conscio del significato sociale del proprio uso linguistico.
4. Variazione stilistica
A questo stadio il ragazzo comincia a modificare il suo comportamento linguistico in direzione
della norma di prestigio (standard). Una simile tendenza è accelerata se il bambino frequenta
una scuola superiore o entra in contatto con contesti sociali diversi.
5. Uso stabile della varietà standard
Un gran numero di parlanti non è in grado di usare coerentemente lo standard per lunghi periodi
di tempo. Un uso linguistico stabile, che tende a deviare dallo standard soltanto in poche
occasioni, si ritrova di regola solo nel ceto medio.
6. Piena estensione del repertorio stilistico
I parlanti del ceto medio presentano in parte un repertorio stilistico adatto a differenti situazioni
e occasioni, che si esprime specialmente in coloro che hanno un particolare interesse a
sviluppare il loro comportamento linguistico (es. studenti). La piena estensione del repertorio
stilistico rimane limitata a un numero di parlanti relativamente scarso. Per i parlanti dei ceti
bassi il registro tipico resta il dialetto regionale.
Stratificazione sociale. Nelle ricerche sul comportamento linguistico condotte nelle grandi città
è emerso che i tratti linguistici presentano una stratificazione stabilmente collegata ai parametri
cultura, educazione ed entrate. Nelle ricerche americane è particolarmente documentato il
fenomeno dell’ipercorrettismo, che caratterizza i parlanti del ceto medio-basso, i quali, per
poter salire più in fretta nella scala sociale, usano le forme di prestigio proprie dei ceti più
elevati correggendo anche talune espressioni del loro registro originale.
Differenziazione etnica. Le generazioni di immigrati negli Stati Uniti tradiscono diversi accenti
stranieri, che le fanno riconoscere come non-americane. Tra i due tipi di diversificazione c’è
una connessione funzionale. Gli afro-americani, che sono il gruppo etnico degli Stati Uniti che
è esposto alle peggiori condizioni di vita e che soffre la maggiore oppressione, presentano la
deviazione più grande e più stabile dall’inglese standard, il che si spiega con il loro isolamento
nei ghetti e con la diversità dei loro valori sociali. Nei gruppi degli immigrati europei in
America, che si sono integrati facilmente nella società, i parlanti della seconda generazione
hanno adottato quasi completamente l’inglese standard (Labov, 1971).
Sesso. Su questo sono concordi i risultati di quasi tutte le ricerche: le donne si adeguano più
degli uomini alle forme di prestigio dominanti. Le donne del ceto medio tollerano le forme non-
standard e le parole tabù molto meno degli uomini. La variazione stilistica delle donne assume
talvolta valori estremi. Il giudizio di Labov (1971, 207 ss.) sul comportamento linguistico delle
donne del ceto medio e del ceto basso caratterizza la situazione americana:

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«Molte donne del ceto medio disapprovano il modo di parlare del loro marito ed hanno
difficoltà a riconoscere la necessità funzionale di schemi linguistici meno curati, nello svolgere
gli affari di tutti i giorni. Questa differenza tra i sessi non sembra esistere nelle campagne o nei
ceti bassi delle città».
Il comportamento linguistico può condizionare il comportamento sociale
Alcuni antropologi sostengono che l’apprendimento sociale della lingua condizioni il
comportamento sociale, e quindi la percezione sociale.
Secondo il sociologo inglese Basil Bernstein, il successo sociale e l’acquisizione di privilegi,
per i membri di una determinata società, dipendono in modo decisivo dal grado di buona
organizzazione dei loro usi linguistici.
Da un lato, Bernstein osserva che le abitudini linguistiche di determinati gruppi sociali, e cioè
di quelli che hanno entrate finanziarie limitate e scarsa influenza (il ceto basso, nella
terminologia sociologica), si differenziano, tanto dal punto di vista sintattico quanto da quello
semantico, da quelle di altri gruppi, che, grazie ai loro privilegi materiali ed intellettuali,
detengono saldamente le posizioni di potere e di influenza (nella terminologia sociologica, il
ceto medio). Dall’altro lato, Bernstein ritiene che le differenze nel comportamento espressivo
di questi due ceti non vengano valutate in modo neutrale, ma secondo le rispettive posizioni
sociali; è in questo senso, secondo Bernstein, che i ceti bassi sono danneggiati dall’insufficienza
della loro lingua, che è limitata, a paragone di quella dei ceti medi e alti.
La buona organizzazione dell’uso linguistico è dunque definita dal successo sociale dei suoi
utenti, gli appartenenti al ceto medio.
La struttura sociale può determinare il comportamento linguistico
Autori come Gumperz e Fishman sostengono che la scelta del repertorio linguistico verbale
dipenda dai valori sociali della comunità di parlanti e dalla situazione linguistica socialmente
definita.
Il principio fondamentale è che la scelta di uno stile dipenda dalle caratteristiche del parlante e
dell’ambiente o da diversi fattori sociali in gioco che rappresentano restrizioni variabili del
comportamento linguistico. Grimshaw (1966) ha così mostrato che la presenza di ascoltatori,
durante un dialogo, può avere effetti considerevoli sulla scelta dello stile e del tema di
conversazione. Ad esempio, se un professore (condizione sociale elevata) e un portinaio
(condizione sociale bassa) interagiscono l’uno con l’altro, la scelta stilistica del primo dipende
dalle caratteristiche dell’ascoltatore e dalla capacità di assumere un ruolo. Se il professore non
è capace di assumere un ruolo flessibile, la coscienza della propria posizione diviene il fattore
determinante del suo comportamento linguistico; gli si presentano tre possibilità:

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 Impiegare lo stile che lui ritiene proprio del portinaio;
 Ottimizzare la comunicazione semplificando la sua complessità sintattica;
 Rifugiarsi in un comportamento linguistico spersonalizzato.
Il comportamento linguistico è quindi, un prodotto di norme sociali e situazionali. Le
spiegazioni di comportamenti linguistici differenti si esauriscono e si perdono nella circolarità
dell’effetto reciproco di situazioni sociali e norme sociali (o meglio culturali).
Azione reciproca di comportamento linguistico e comportamento sociale
Il comportamento linguistico e il comportamento sociale stanno in rapporto di interazione
continua. Si può ipotizzare che il livello sintattico della lingua sia quello meno direttamente
toccato dal comportamento sociale; d’altra parte la valutazione della lingua è l’anello di
congiunzione decisivo con il comportamento sociale, il quale, a sua volta, con o senza
mediazioni, è legato alle condizioni materiali di vita.

Conclusioni
I due tipi di ricerca più importanti della sociolinguistica americana sono gli studi correlativi e
gli studi funzionali.
Gli studi correlativi mettono in correlazione variabili significative dal punto di vista sociale con
parametri sociali, gli studi funzionali rifiutano il parallelo tra misure sociali e fisiche,
sostenendo che la misura sociologica implica sempre la percezione delle categorie da misurare.
Lo scopo comune è quello di illustrare i valori e le norme sociali mediante le loro manifestazioni
nel comportamento linguistico. Le differenze che si è riusciti a determinare vengono
interpretate in base ai concetti di diversità culturale.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 1 - ELEMENTI DI SOCIOLINGUISTICA

3a Lezione - Fare sociolinguistica

Dopo questa carrellata sull’universo dei fatti su cui si riflettono in vario modo i rapporti fra la
lingua, i comportamenti linguistici e la società, e dopo il viaggio che abbiamo compiuto fra le
cose che interessano il sociolinguista, possiamo passare ora a una definizione più precisa della
disciplina.
La sociolinguistica, per molti aspetti, si configura come una specie di linguistica di secondo
livello, che presuppone la linguistica, presuppone cioè che sappiamo come sono fatte e come
funzionano le strutture interne del linguaggio e interviene ad analizzare e spiegare che cosa
succede a queste strutture quando le vediamo calate nella società e nelle concrete situazioni
comunicative. In altre parole, fare sociolinguistica significa aggiungere allo studio a tavolino
delle unità, delle strutture e delle regole della lingua, astratte dalla loro realizzazione concreta,
lo studio (possibilmente sul campo) dei comportamenti dei parlanti che queste unità, regole e
strutture adoperano nella quotidiana vita comunicativa. Lo studio di che cosa succede alla
lingua quando è considerata non come sistema astratto, bensì come strumento di concreti
comportamenti comunicativi, può peraltro illuminare aspetti della struttura e del funzionamento
della lingua che altrimenti passerebbero inosservati: la lingua è sì un sistema costruito secondo
i propri principi, ma risente anche delle caratteristiche degli utenti e delle situazioni d’uso.
La sociolinguistica si presenta da un lato come una linguistica socialmente realistica, che
permette di avere una chiave d’interpretazione del funzionamento della lingua più attenta ai
condizionamenti che la società vi favorisce o vi impone. Non va a questo proposito dimenticato
che certi aspetti della variazione linguistica sono essi stessi fattori in grado di creare o
modificare una situazione sociale: il rimando e l’interazione fra linguaggio e società non sono
infatti unicamente unidirezionali, dalla società verso la lingua, come a prima vista verrebbe di
pensare, ma possono andare anche nel senso opposto: la scelta di una certa varietà di lingua
nell’interazione, o il passaggio da una varietà ad un’altra è per esempio anche un modo per
creare una situazione sociale e comunicativa particolare o per modificarla.
Dall’altro lato, la sociolinguistica in quanto “linguistica realistica” si presenta come una
linguistica incentrata sui concreti parlanti, sulle produzioni in situazione e non sulle strutture

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astratte, sul sistema linguistico in quanto tale.
Una delle principali tematiche che coagulandosi con altre portò alla nascita di un’area di ricerca
come la sociolinguistica fu negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso il dibattito sulla
‘teoria dei due codici’ e sulla cosiddetta ‘deprivazione verbale’ (di cui parleremo in seguito),
legata al nome del sociologo inglese dell’educazione Basil Bernstein, con la scoperta del fatto
che molti dei problemi educativi dei bambini provenienti dalle classi sociali svantaggiate, e il
loro stesso insuccesso scolastico, dipendevano da problemi inerenti al linguaggio. Secondo
Bernstein (v. Bernstein 1973; una rassegna critica della questione si trova in Berruto 1977)
infatti i bambini delle classi operaie avrebbero avuto a disposizione soltanto un ‘codice
ristretto’, cioè un modo di utilizzare la lingua fortemente legato al contesto situazionale
specifico e poco capace di elaborazione astratta, che confliggeva con il ‘codice elaborato’ tipico
della cultura ufficiale e dell’istituzione scolastica ed impediva loro di impadronirsi dei contenuti
con questo veicolati.
Nel formarsi della sociolinguistica, nella seconda metà degli anni Sessanta, sono confluite,
assieme alle problematiche relative ai rapporti fra linguaggio e sociologia dell’educazione, le
ricerche americane di William Labov, John Gumperz, Joshua Fishman. A Labov si devono la
scoperta di quella che è stata chiamata l’ordinata eterogeneità dei comportamenti linguistici e
le prime analisi specifiche dell’importanza della variazione nella lingua, del suo significato e
della sua sistematicità. Mentre i lavori di Bernstein si occupavano del rapporto simbolico fra
modi di realizzazione dei sistemi linguistici, attitudini cognitive e società, quindi a un livello
generale, e le ricerche di Labov avevano come campo i piccoli comportamenti linguistici dei
parlanti, indagati nelle più dettagliate variazioni di pronuncia, gli spunti di Gumperz e di Dell
Hymes muovevano da un’altra direzione ancora, incentrata questa sull’interazione verbale e
sull’analisi degli eventi comunicativi nelle diverse società e culture, e quindi strettamente
imparentata con gli interessi dell’etnografia e dell’antropologia culturale (Gumperz, 1977;
Hymes, 1980).
Su un piano più sociologico, confluivano verso la nascente sociolinguistica i lavori di Fishman
sui problemi dei rapporti fra le lingue nei paesi plurilingue e sulle vicende sociali delle lingue
che inauguravano la ‘sociologia del linguaggio’.
In Europa, e in particolare in Italia, la sociolinguistica, trovò un fertile terreno di aggancio con
la rinomata tradizione preesistente di studi dialettologici. La dialettologia, dopo aver esplorato
l’articolazione dialettale del mondo germanico e romanzo e aver studiato a fondo l’evoluzione
storica dei dialetti e i rapporti fra le parole e le cose, aveva finito per scoprire, per esempio con
i lavori di Benvenuto Terracini in Italia o di Karl Jaberg e Jakob Jud in Svizzera, l’importanza

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della dimensione sociale e della caratterizzazione della posizione dei singoli individui parlanti
per la comprensione dei fatti di lingua. Oggi, la sociolinguistica ha un suo posto ben definito
nel quadro delle scienze del linguaggio, come un prolungamento della linguistica verso la realtà
concreta e verso il sociale, una ‘linguistica di complemento’ da un lato molto utile perché colma
un vuoto descrittivo, il vuoto esistente fra la generale facoltà del linguaggio, innata e specie-
specifica dell’uomo, il sistema linguistico in astratto, e i concreti individui parlanti e le effettive
situazioni comunicative; e dall’altro ricca di ricadute interessanti per la stessa migliore
comprensione teorica del funzionamento del linguaggio verbale umano e delle possibilità e
risorse insite nello strumento comunicativo lingua.
La sociolinguistica si può anche configurare come uno strumento molto utile per capire meglio
i problemi socio-comunicativi, a tutti i livelli a cui questi si riscontrano, dall’interazione faccia
a faccia alle politiche culturali e linguistiche di organismi complessi.
Oggi la sociolinguistica è un’area di studio e ricerca largamente praticata in tutto il mondo, e
che ricopre anche settori fra loro piuttosto eterogenei, sia nella metodologia che nelle questioni
sostanziali affrontate.
I tratti comuni che unificano i vari approcci sono sicuramente da un lato l’attenzione a chiarire
problemi linguistici attraverso il riferimento alla dimensione sociale e a spiegare
l’interrelazione fra linguaggio e società; e dall’altro il riferimento continuo a dati empirici
‘oggettivi’, o raccolti sul campo.
Nella sociolinguistica dobbiamo riconoscere due fondamentali correnti:
 La sociolinguistica variazionista o correlazionale. Essa si collega direttamente
all’insegnamento di Labov e mette in evidenza principalmente i rapporti fra i fattori
sociali, visti come variabile indipendente, e i comportamenti linguistici e i fenomeni di
variazione ai diversi livelli del sistema linguistico, visti come variabile dipendente.
 La sociolinguistica interpretativa o interazionale. Essa si rifà principalmente
all’insegnamento di Gumperz e mette invece in evidenza l’attività discorsiva dei
parlanti, vista come ‘costruzione di significato’ mediante la cooperazione dei
partecipanti all’interazione; e cerca di interpretare le loro strategie e scelte linguistiche
come un modo per strutturare la società e le situazioni comunicative.
Il criterio fondamentale che distingue le due impostazioni sta nella direzione causale che esse
pongono nella relazione tra i fatti sociali e i fatti linguistici: mentre nella sociolinguistica
variazionista la direzione è dai fatti sociali ai fatti linguistici, che vengono descritti e spiegati
in termini di correlazione con variabili sociali, nella sociolinguistica interpretativa la direzione
è opposta, dai fatti linguistici a quelli sociali: il comportamento verbale viene considerato esso

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stesso una fonte e una causa, almeno parziale, dei rapporti e fatti sociali, un certo numero dei
quali vengono visti come creati, prodotti, ‘costruiti’ dal comportamento linguistico stesso.

La teoria dei due codici di Bernstein. Fu elaborata e resa nota in Italia tra gli anni ‘60 e ‘70.
Secondo questa teoria, le differenze socioeconomiche influiscono in modo determinante sul
linguaggio e sul rendimento scolastico. Attraverso la tecnica dell’intervista e l’applicazione di
una serie di test a gruppi diversi di ragazzi, Bernstein trovò infatti che «il successo scolastico
dipende in larga misura dalla capacità verbale, a sua volta correlata positivamente con lo status
sociale medio e alto». La ragione di questa correlazione sta nelle abitudini linguistiche e sociali
delle diverse classi e tali abitudini si originano nel momento stesso dell’apprendimento della
lingua da parte del bambino, nel suo rapporto privilegiato con la madre e nel ruolo di ciascun
membro occupato nell’ambito familiare. La famiglia di classe media è una famiglia orientata
sulla persona, che tende cioè a sviluppare la personalità di ogni suo membro e in cui i rapporti
interpersonali sono mediati continuamente attraverso il linguaggio: fin dall’inizio il bambino è
esposto ad una vasta gamma di possibilità e scelte linguistiche, in grado di accompagnare,
descrivere, commentare le più diverse esperienze e situazioni. Questo tipo di linguaggio viene
definito da Bernstein ‘codice elaborato’.
Un linguaggio di questo tipo presenterà un alto grado di imprevedibilità perché saranno presenti
in misura elevata le scelte e le modificazioni individuali, e inoltre sarà reso del tutto esplicito,
in quanto non riferibile ad una base comune di esperienze codificate; al contrario, la stessa
esperienza verrà organizzata in una complessa gerarchia intellettuale, ed elaborata
soggettivamente con una particolare sensibilità alle separazioni e alle distinzioni. Un linguaggio
di questo tipo è funzionale alla scuola e garantisce buone possibilità di successo a chi lo
possiede. La lingua delle classi basse è al contrario una lingua poco adatta alla scuola, e anche
qui le origini del divorzio vanno cercate lontano, nelle prime e fondamentali esperienze
linguistiche del bambino nell’ambito familiare. La famiglia operaia e contadina è in genere una
famiglia posizionale, orientata non sulla persona ma sulle ‘parti’, cioè sui ruoli ricoperti da
ciascun membro al suo interno: l’individuo non vale per sé stesso, ma come ‘padre’, o ‘madre’,
o ‘moglie’, o ‘figlio’ ecc. è legato ad un ruolo fisso, ad una parte prestabilita non suscettibile di
modificazioni. Questo ‘codice ristretto’, si caratterizza per la scarsità degli elementi formali che
concorrono alla sua organizzazione, per la rigidità e la prevedibilità della sua struttura. Il suo
contenuto sarà piuttosto concreto e descrittivo che analitico e astratto e, proprio per il fatto che
gli interlocutori condividono già il modo di essere, di pensare e di agire, parte del significato
trasmesso resterà implicito e il discorso presenterà salti logici.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 1 - ELEMENTI DI SOCIOLINGUISTICA

4a Lezione - Il processo di socializzazione secondo Bernstein

«Impiego il concetto di socializzazione per indicare il processo tramite il quale un bambino


consegue una particolare identità culturale e anche le sue reazioni nei confronti di questa
identità. ‘Socializzazione’ si riferisce al processo mediante il quale un essere biologico si
trasforma in uno specifico essere culturale. Da ciò deriva che il processo di socializzazione
rappresenta un complesso di controlli, che fa sorgere nel bambino la coscienza di uno speciale
ordinamento morale, cognitivo ed affettivo e dà a quest’ordinamento contenuto e forma»
(Bernstein, 1971).
Il processo di socializzazione del bambino avviene sotto il controllo dei seguenti agenti:
famiglia, gruppo dei pari, scuola e ambiente professionale, che attraverso il loro influsso
autoritario (premio o castigo) esercitano una pressione verso un adattamento.
Con il primo ricorso al canale verbale, il bambino, se proviene dal ceto medio, sperimenta i
vantaggi del codice linguistico ‘elaborato’: egli impara a disporre di un mezzo con cui possono
essere esplicitati conflitti e problemi, con cui sono rappresentabili relazioni tra oggetti e
individui. A ciò si aggiunge, secondo Bernstein, che un primo orientamento verso un parlare
‘elaborato’ favorisce il pensiero logico, in quanto mediante un modello di lingua organizzato
in maniera complessa si possono comprendere ed elaborare connessioni interne ed esterne.
Così, con un parlare bene organizzato, si formano strategie che favoriscono la comprensione di
nessi astratti. Oltre a ciò, il disporre facilmente delle strutture linguistiche sembra condurre ad
una più alta motivazione all’apprendimento.
Secondo Bernstein, la socializzazione nel ceto basso ha luogo mediante pochi enunciati, brevi
e rigidi; predomina il tipo di enunciato autoritario dell’ordine, che non permette di motivare
razionalmente l’azione, ma solo di fondarla sull’autorità. Gli ordini ostacolano ogni intuizione
delle connessioni causali, che invece sono sempre esplicitamente trasmesse nella pratica
educativa del ceto medio. D’altro lato, nel ceto basso i significati intenzionali ed emozionali
sono comunicati prevalentemente tramite il canale extraverbale. Ciò significa che essi sono
mediati da un inventario di segni poco esplicito; di conseguenza, secondo Bernstein, anche lo
spazio lasciato all’interpretazione, e perciò la possibilità di fraintendimenti, è maggiore. Al

14
contrario del ceto medio, che socializza tramite i segni astratti della lingua, il ceto basso si
orienta piuttosto verso i segni extralinguistici concreti, che hanno precisi valori emozionali e di
solidarietà.
Dell’orientamento verso un comportamento verbale o non verbale sono responsabili una serie
di fattori, che guidano il decorso della socializzazione. Bernstein mette in rilievo il ruolo
sociale, la famiglia e il ceto.
La famiglia può essere considerata come una comunità interagente, che conduce a precise
costellazioni di ruoli. Analogamente ai ruoli sociali rivestiti dai suoi membri, i suoi tipi di
comunicazione si fondano su modi regolari che risultano dalla costellazione interna alla
famiglia, hanno origine nel temperamento psichico dei suoi membri e si formano tramite il
condizionamento del contesto sociale e dei suoi valori.
Secondo i vari ambienti sociali le strutture familiari possono essere sistematicamente assimilate
o essere distinte, nella ripartizione dei diritti e dei doveri, nell’attribuzione dei ruoli e nel tipo
delle interazioni. Spesso questi elementi variano con la condizione socioeconomica e col grado
di cultura. Secondo Bernstein, assieme a queste due variabili variano essenzialmente le pratiche
di socializzazione. La ‘condizione socioeconomica’ rimanda alla posizione materiale della
famiglia nella gerarchia sociale, il ‘grado di cultura’ al livello in cui essa può disporre delle
strategie intellettuali che stanno alla base delle pratiche educative. In base ai criteri della
condizione socioeconomica e del grado di cultura le famiglie possono essere assegnate al ceto
medio o al ceto basso. Sebbene consideri i ruoli come l’istanza sociale della mediazione del
codice linguistico ‘ristretto’ e del codice linguistico ‘elaborato’, Bernstein attribuisce al ceto
l’influsso predominante sul parlare.
«Dal punto di vista sociologico, è l’appartenenza all’uno o all’altro ceto che esercita il maggior
influsso sul processo di socializzazione» (Bernstein, 1971).
Ai fini analitici, Bernstein (1971) distingue quattro contesti in cui si compie il processo di
socializzazione, che sono la condizione essenziale dei modi di parlare che possono svilupparsi.
Questi contesti sono:
1. Il contesto regolativo (rapporti di autorità, tramite i quali il bambino diviene cosciente
delle regole morali e dei loro diversi retroterra);
2. Il contesto dell’apprendimento (il bambino apprende la natura oggettiva delle cose e
delle persone e acquista capacità di vario genere);
3. Il contesto immaginativo o innovativo (il bambino viene incoraggiato a compiere
esperimenti e a ricrearsi il suo mondo in base alle proprie rappresentazioni e a modo
suo);

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4. Il contesto interpersonale (il bambino diventa cosciente delle condizioni affettive –
delle proprie come delle altrui).
Gli effetti di questi contesti si manifestano nelle caratteristiche linguistiche della
comunicazione.

Lingua e ruolo sociale


Bernstein, nei suoi ultimi articoli, assegna al ruolo sociale una funzione sempre più importante.
Da un lato esso è l’unità sociale più piccola che media i differenti codici linguistici, dall’altro
sono i codici linguistici a generare i ruoli sociali:
«Non appena qualcuno impara a sottomettere il suo comportamento ad un codice linguistico,
che è espressione del suo ruolo, diventa anche in grado di percepire diverse relazioni d’ordine.
Il complesso di significati trasmessi da un sistema di ruoli trova corrispondenza nello sviluppo
di un individuo, plasmando il suo comportamento generale. Secondo questa concezione la
trasformazione linguistica dei ruoli è il più importante veicolo di significati; mediante uno
specifico codice linguistico si crea rilievo, si imprime all’esperienza una determinata direzione
e si ottiene l’identità sociale» (Bernstein, 1967, 127).
Il ruolo viene definito come «attività complessa di codificazione», «che controlla la produzione
e l’organizzazione di specifici significati e le condizioni della loro trasmissione e ricezione»
(Bernstein, 1972, 474). Il ruolo può essere stabilmente coordinato a modi di parlare manifesti.
Esso si acquisisce col processo sociale dell’apprendimento, è mediato dai significati lessicali
rilevanti in una determinata struttura sociale e dalle loro combinazioni in schemi sintattici.
Analogamente alla distinzione tra codice linguistico ‘elaborato’ e codice linguistico ‘ristretto’,
secondo Bernstein (1971), i significati possono essere suddivisi in universalistici e
particolaristici.
I significati universalistici si formano mediante operazioni che sono esplicitamente linguistiche,
e che non sono legati a contesti concreti.
I significati particolaristici sono in larga misura legati al contesto, dato che non sono afferrabili
sulla base della struttura linguistica esplicita, ma soltanto ricorrendo al contesto extraverbale;
in essi si riflette una certa limitazione di chi li impiega, dovuta all’ambiente e alla struttura
sociale.

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Lingua e scuola
Secondo Bernstein, il comportamento comunicativo è un fattore decisivo delle disuguaglianze
sociali, in quanto la tendenza a servirsi di un codice linguistico ‘ristretto’ o ‘elaborato’ ha come
conseguenza nella scuola (agenzia di socializzazione secondaria) selezioni che spesso si
risolvono negativamente per i bambini del ceto basso. Questi bambini hanno capacità verbali
ridotte e minori motivazioni di apprendimento, e sono inferiori ai bambini del ceto medio, che
parlano ‘elaboratamente’; infatti le norme scolastiche sono costruite per questi ultimi, e gli
insegnanti, che sono socializzati secondo le norme del ceto medio, si comportano
sostanzialmente in base ai suoi valori.
Il modo in cui generalmente si insegna sembra premiare i bambini ‘elaborati’, e cioè i bambini
del ceto medio, mentre sembra implicitamente punire i parlanti ‘ristretti’. Sorgono così, in un
certo senso, disuguaglianze nelle possibilità di istruirsi.
Da ciò è nata una discussione che ha condotto a riflessioni e a proposte che da un lato mirano
ad un mutamento della formazione degli insegnanti e del loro modo di insegnare, mentre
dall’altro tendono a basare sull’insegnamento linguistico i programmi della scuola elementare
per i bambini del ceto basso.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 1 - ELEMENTI DI SOCIOLINGUISTICA

5a Lezione - La ricerca sociolinguistica

Il primo passo da svolgere per poter iniziare una ricerca sociolinguistica è quello di scegliere il
tema, l’argomento o problema su cui svolgere l’indagine. Tutti i temi che in qualche modo
possono rivelare qualcosa circa i rapporti fra linguaggio verbale e società, che possono
mostrarci significati sociali dell’uso e del comportamento linguistico, o che possono dare
conoscenze sul modo in cui la società influisce sulla lingua, sono ovviamente temi che rientrano
a pieno diritto nella sociolinguistica: dallo studio del rapporto fra le dominazioni scientifiche
all’interazione verbale nei rifugi alpini, alla presenza del dialetto napoletano a Milano, agli
scambi gergali fra i pastori di Isili (Sardegna), ecc. Anche se potenzialmente tutti gli argomenti
pensabili sono oggetti degni di ricerca sociolinguistica, purché rispettino la premessa di essere
connessi con il rapporto fra lingua e società, la scelta di un tema specifico dovrà tuttavia tener
conto di quelli che sono gli aspetti e i problemi cruciali nella situazione linguistica e sociale di
un determinato momento storico in un certo paese. Ad esempio, potremmo scegliere come tema
di una ricerca sociolinguistica l’utilizzazione di italiano e dialetto nella conversazione
quotidiana in Italia.
Il passo successivo è quello di scegliere se pensare a una ricerca ‘ad alta scala’, utile per fornire
un quadro molto generale, e generico, della situazione oppure una ricerca su scala ridotta, che
voglia analizzare in tutti i principali risvolti la presenza delle due varietà linguistiche nel parlato
quotidiano e i modi in cui questa si manifesta. Quindi, dobbiamo scegliere se ci accontentiamo
di sapere all’incirca quali sono i caratteri dei parlanti e le proprietà delle situazioni comunicative
che fanno emergere l’uso del dialetto e rispettivamente della lingua nazionale, e in quali ambiti
e con quali funzioni l’uno e l’altra vengono abitualmente impiegati; o se invece vogliamo
addentrarci nella descrizione e interpretazione dei modi in cui il dialetto e la lingua nazionale
vengono adoperati nelle diverse circostanze della vita quotidiana e dei fenomeni che in essi si
vengono a verificare. Per la prima direzione di ricerca, sarà consigliabile un’inchiesta con
questionari che richiedano autodichiarazioni di comportamento linguistico. Dato però che i
lineamenti di grana grossa, in Italia, si possono considerare acquisiti, sarà più interessante
orientare la ricerca in direzione sociolinguistica stretta, con la raccolta di produzioni

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linguistiche concrete.
La differenza fra lingua e dialetto è una differenza di natura sociale; o meglio, è una differenza
di carattere, appunto, sociolinguistico. Solo quando li vediamo calati in un concreto repertorio
di una comunità parlante e ne constatiamo la posizione e le funzioni al suo interno possiamo
differenziarli e dire che un idioma che ha questa posizione e queste funzioni presso la comunità
parlante è una lingua, un idioma che ha quest’altra posizione e queste altre funzioni è invece un
dialetto. Ciò che differenzia il concetto di ‘lingua’ dal concetto di ‘dialetto’ sono le
caratteristiche del loro uso presso la comunità parlante; caratteristiche che normalmente si
riscontrano in un certo momento temporale come conseguenza di una determinata evoluzione
storica.
Una lingua, ha diffusione geografica più ampia ed è più elaborata, cioè presenta una maggiore
quantità di risorse linguistico-strutturali effettive.
Un dialetto ha diffusione geografica ridotta, ha carattere locale e ha un lessico meno esteso.
Dopo aver posto le premesse di inquadramento generale della ricerca, occorre affrontare
questioni strettamente metodologiche, di raccolta dei dati.
L’obiettivo generale della ricerca impone che i dati primari debbano essere interazioni verbali
autentiche, conversazioni in diversi domini situazionali e fra diversi parlanti. In linea di
principio, la gamma più disparata possibile di domini situazionali diversi e un campione di
parlanti il più ampio possibile. Per rendere però praticamente percorribile la ricerca occorre
scegliere dei tipi di situazione e dei tipi di parlanti da considerare specialmente rappresentativi
per il genere di problemi che ci interessa.
Quanto alla tecnica materiale di raccolta dei dati, si impone la registrazione su nastro (cassette)
o su altro supporto digitale.
Per rendere poi utilizzabile il materiale raccolto bisogna procedere ad una trascrizione delle
registrazioni effettuate, parziale o completa. Il lavoro di trascrizione è una parte molto
importante della ricerca sul campo, in quanto oltre ad essere la premessa necessaria per rendere
analizzabile il materiale raccolto consente anche al ricercatore un primo contatto con i dati
grezzi, gli dà la possibilità di farsi una prima idea dello stato delle cose, e gli permette
eventualmente di scoprire nuove piste di indagine.
È giunto il momento di cimentarsi con il materiale raccolto, di analizzare i dati. Esaminando le
trascrizioni devono essere isolati i casi di commutazione di codice, cioè di passaggio da lingua
a dialetto, o viceversa, nel corso dell’interazione verbale.
Dalla ricerca è emerso che, nel complesso, la ricorrenza di certi termini provenienti dalla lingua
standard dà indubbiamente una patina italiana al parlato dialettale: per questo si parla di

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‘italianizzazione dei dialetti’, di un processo di annacquamento delle strutture tradizionalmente
tipiche del dialetto sotto l’influenza della lingua standard, con l’ingresso di numerosi
italianismi. Ma non va dimenticato che tale italianizzazione riguarda e ha toccato in misura
vistosa il lessico, e in misura molto minore la fonetica e la morfosintassi; se è col tempo
notevolmente aumentato l’apporto lessicale dell’italiano ai dialetti, la vistosità attuale del
fenomeno sembra tuttavia dipendere da fatti totalmente extralinguistici, e cioè dal moltiplicarsi
di sfere lessicali (tutte quelle della società, tecnologia ed economia moderne) per le quali i
dialetti non avevano risorse lessicali adatte e in cui dipendono quindi da prestiti dall’italiano (a
sua volta spesso debitore dell’inglese). Ma il lessico, da questo punto di vista, è la ‘buccia’ del
sistema linguistico, lo strato e quello, quindi, a più diretto contatto con l’extralinguistico, e in
fondo meno significativo per quel che riguarda le strutture interne della lingua.

Le variazioni sociolinguistiche
Vengono riconosciute tre dimensioni fondamentali di variazione, ciascuna delle quali dà luogo
a varietà di lingua marcate per valori su quella dimensione di variazione. Ogni dimensione di
variazione può essere considerata l’esplicitazione di un assunto basilare concernente la
manifestazione della variazione sociolinguistica. Un primo assunto può essere: ‘la lingua varia
attraverso la stratificazione sociale’. I modi di manifestazione e realizzazione della lingua
presso i parlanti risentono della divisione del lavoro e della gerarchizzazione della società in
strati, in classi sociali, in gruppi, in reti sociali, sulla base di molteplici fattori che hanno
maggiore o minore rilevanza a seconda delle comunità che prendiamo in considerazione. Fra
tutti i fattori latamente dovuti alla strutturazione della società correlanti col comportamento
linguistico dei parlanti ha acquistato sempre più rilevanza, in effetti, la rete sociale (o anche
‘reticolo’; social network, v. Vietti 2002) in cui ogni parlante è inserito.
Una rete sociale è l’insieme strutturato e dinamico di relazioni sociali e comunicative che gli
individui, in quanto agenti di interazione, intessono fra loro; a seconda della posizione che
occupa all’interno di una determinata rete sociale (costituita da diversi strati, in rapporto alla
densità delle interazioni che avvengono fra l’individuo di riferimento e le altre persone facenti
parte di quella rete), un parlante è più o meno esposto e sensibile a questo o quel modello di
comportamento linguistico.
La nozione di rete sociale, sviluppata dalla sociologia dell’interazione, si è rivelata importante
in sociolinguistica per spiegare sia la variazione interna a una lingua, sia diversi fatti del
comportamento plurilingue.

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C’è, comunque, un tipo di variazione che riflette la stratificazione sociale, nel senso più ampio;
e ci sono quindi delle varianti di variabili sociolinguistiche che sono associate alla
stratificazione sociale. Tale variazione è detta ‘variazione diastratica’. Gli insiemi di quelle
varianti che hanno analoga distribuzione lungo la dimensione diastratica, che assumono gli
stessi valori, e che sono tra loro quindi linguisticamente congruenti, costituiscono le varietà
diastratiche di lingua.
La dimensione diastratica di variazione può essere concepita come un asse verticale che va
dalle varianti e dagli insiemi di varianti più ‘in alto’ nella scala sociale (le forme ricorrenti
nell’italiano usato da parlanti colti con buona padronanza della lingua standard) a quelle ‘più
in basso’ (le forme ricorrenti presso i parlanti incolti, appunto.). Le forme verso l’alto dell’asse
diastratico sono socialmente accettate, e dotate di prestigio, le forme verso il basso sono
socialmente riprovate, non hanno prestigio, e possono essere fonte di discriminazione sociale.
L’italiano popolare è la tipica varietà ‘bassa’ dell’italiano (vd. Berruto 1987 e Berruto 2004).

21
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 1 - ELEMENTI DI SOCIOLINGUISTICA

6a Lezione - Gli studi di Bernstein e Henderson

Bernstein considera il sistema dei ruoli all’interno della famiglia come responsabile delle più
scarse prestazioni verbali e intellettuali dei bambini del ceto basso a paragone di quelli del ceto
medio.
Al centro degli studi sulla socializzazione linguistica sta l’ipotesi madre-bambino, che risale
alle formulazioni di Bernstein ed è stata formulata, negli ultimi anni, da una serie di
sociopsicologi (Hess/Shipman, 1965 e 1967; Bernstein/Henderson, 1969; Henderson, 1970;
Olim, 1970). Gli argomenti di questi autori sono così riassunti da Olim:
«Il comportamento che conduce alla povertà sociale, economica e di istruzione si apprende;
esso è socializzato nella prima infanzia. Questa socializzazione avviene in larga misura per
mezzo del linguaggio. Giacché la madre, nella maggior parte dei casi, è l’agente primario della
socializzazione, l’apprendimento ha luogo nel contesto del sistema di comunicazione tra madre
e figlio. La privazione che conduce alla povertà è la mancanza di significato cognitivo e di
elaborazione cognitiva e linguistica all’interno di questo sistema. Il sistema di controllo in una
famiglia che soffre di privazioni sociali è quello in cui predominano richiami allo status e al
ruolo; questo tipo di sistema, presentando al bambino soluzioni predeterminate e un campo
ristretto di alternative di pensiero e di azione, ne limita il comportamento cognitivo» (Olim,
1970, 212).
Le madri del ceto basso, dunque, elaborano la loro lingua meno di quelle del ceto medio,
determinano notevolmente il comportamento del bambino mediante richiami allo status e
forniscono pochi impulsi per uno sviluppo razionale e cognitivo del suo pensiero.
Una ricerca condotta per verificare l’ipotesi madre-bambino è rappresentata dal lavoro di
Bernstein e Henderson (1969), che vuole esaminare quale rilievo assegnino all’uso linguistico,
rispettivamente, le madri del ceto basso e quelle del ceto medio in situazioni ipoteticamente
assunte come diverse.
A 50 madri del ceto basso e a 50 del ceto medio fu mostrata una lista di 11 proposizioni
riguardanti diversi aspetti della socializzazione, presentata da un intervistatore con la domanda:
«Se voi genitori non poteste parlare, quanto più difficile sarebbe, a vostro parere, fare queste

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cose con bambini che non vanno ancora a scuola?». Le madri dovevano assegnare un grado di
difficoltà a ciascuna proposizione, immaginando di essere ‘genitori muti’ nelle situazioni di
volta in volta proposte (avevano a disposizione una scala di 6 punti, così suddivisa:
difficilissimo, molto difficile, difficile, non troppo difficile, abbastanza facile, facile).
Riportiamo qui le più importanti delle 11 proposizioni, con il dominio psicologico cui ciascuna
di esse si riferisce, secondo Bernstein e Henderson:
1. Insegnare ogni giorno al bambino operazioni come vestirsi e usare un coltello o una forchetta
(Abilità motoria);
2. Aiutarlo a fabbricare qualcosa (Abilità costruttiva);
3. Attirare la sua attenzione a forme diverse (Abilità percettiva);
5. Mostrargli cos’è giusto e cos’è sbagliato (Princìpi morali);
7. Mostrargli come funzionano le cose (Capacità cognitiva);
9. Disciplinarlo (Controllo);
11. Intrattenerlo nei momenti di sconforto (Affetto per i bambini)
(Bernstein/Henderson, 1969, 2).
Quattro proposizioni riguardano la trasmissione di abilità (proposizioni relative ad abilità),
cinque si riferiscono ad aspetti del controllo sociale (proposizioni relative a persone).
Di seguito, le tre ipotesi riprese da Bernstein (1972), da verificare:
1. Ceto basso e ceto medio assegnano entrambi un valore più grande alla lingua negli
aspetti interpersonali della socializzazione che nel campo dell’addestramento alle abilità
fondamentali.
2. Il ceto medio, a paragone del ceto basso, pone l’accento molto di più sull’uso della
lingua nei rapporti interpersonali che nella trasmissione di abilità.
3. Per quanto riguarda le abilità, il ceto medio dà più importanza alla lingua nella
trasmissione dei princìpi.
Queste ipotesi sono state pienamente confermate, secondo Bernstein e Henderson, dalla
classificazione delle proposizioni in base al loro grado di difficoltà compiuta dalle madri.
I risultati si possono riassumere così:
 Tutte le madri, indipendentemente dal ceto di appartenenza, ritengono più difficile fare
a meno del linguaggio in situazioni di interazione interpersonale, che non quando si
debbano istruire i bambini in una determinata abilità.
 Per quanto riguarda i rapporti interpersonali, le madri del ceto medio assegnano maggior
valore al linguaggio di quelle del ceto basso.
 Per quanto riguarda la trasmissione di abilità, le madri del ceto basso considerano il

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linguaggio più importante che non quelle del ceto medio.
La spiegazione dei risultati coincide completamente con le premesse di Bernstein: il controllo
sociale è esercitato, nelle famiglie del ceto basso, mediante il parlare ‘ristretto’; di conseguenza
i bambini imparano poche alternative di ruoli e scarsa è la loro autonomia e distanza dai ruoli
stessi.
Questa spiegazione, però, non risulta adeguata rispetto al piano e all’attuazione della ricerca.
Ci limitiamo a due considerazioni.
La prima riguarda la superficialità con cui i due autori, dal comportamento delle madri durante
il test, traggono conclusioni sul loro comportamento effettivo nella socializzazione. Le madri
dovevano socializzare i bambini senza il linguaggio, quindi dovevano immaginarsi una
situazione che non ha nulla a che fare con la realtà di tutti i giorni. Le loro reazioni alle
proposizioni possono rispecchiare tutt’altro che il loro comportamento nelle situazioni
quotidiane della socializzazione.
In secondo luogo deve essere giudicato inammissibile trarre conclusioni, in base alle reazioni
delle madri in questo test, sulla stimolazione verbale e intellettuale che i bambini provano
durante la socializzazione. Dato che il comportamento dei bambini non è stato esaminato in
diretta connessione con quello delle madri, da questa ricerca non si può assolutamente trarre
alcuna conclusione sul loro sviluppo cognitivo.
I risultati di questo studio sono stati ripresi in un’altra, più fruttuosa ricerca di Henderson (1970)
sul comportamento madre-bambino; ma anche in essa, come in quella del 1969, non viene
spiegato in quale rapporto stia il comportamento dell’una con lo sviluppo cognitivo dell’altro.
Oltre a ciò, i dati sull’interazione madre-bambino sono stati raccolti mediante questionari che,
come ha dimostrato dettagliatamente Garfinkel (1967; 1972), sono un mezzo inadeguato per
ottenere informazioni sul comportamento naturale.
Ma è corretta la deduzione secondo la quale la ristrettezza del codice del ceto basso
determinerebbe secondo un nesso causale una insufficienza nelle capacità logiche?
Brown chiarisce che se una struttura linguistica può privilegiare particolari categorie mentali,
non per questo essa determina l’incapacità di formare categorie non utilizzate abitualmente.
Egli sottolinea che l’analisi categoriale indica alcune interessanti continuità fra la lingua e la
psicologia generale delle conoscenze, ma propone che le differenze cognitive suggerite dai dati
dei linguisti antropologi possano essere differenze di semplici disponibilità di categorie: una
categoria non disponibile o meno disponibile non è una categoria che non siamo capaci di
formare, bensì è semplicemente una categoria che convenzionalmente non utilizziamo. In
definitiva, le ricerche interculturali mostrano, sì, che vi sono diversi modelli di sviluppo

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cognitivo in relazione a diversi contesti socioculturali, ma non sembrano portare alla
conclusione che tali differenze siano da mettere in relazione con quella che si definisce
“intelligenza”.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 2 - CETO SOCIALE, INTELLIGENZA E COMPORTAMENTO


LINGUISTICO

1a Lezione - Le differenze linguistiche secondo Bernstein, Gray/Klaus

Bernstein
Una delle idee fondamentali di Bernstein è che le differenze linguistiche dovute
all’appartenenza all’uno o all’altro ceto sono indipendenti dalla misura dell’intelligenza non
verbale. Le differenze linguistiche non sono quindi dovute ad una diversità di attitudini
genetiche, ma sono mediate dalla struttura sociale.
Per dimostrare questo legame, Bernstein (1960) ritiene di poter prevedere che in un’analisi
empirica i risultati di un test linguistico, per il ceto operaio, saranno considerevolmente inferiori
a quelli di un test non-linguistico.
Come campo di ricerca furono scelti due gruppi di giovani provenienti da due ambienti sociali
diversi:
1. Gruppo del ceto operaio: 61 giovani tra i 15 e i 16 anni, simili per livello di cultura,
provenienza sociale, impiego (si trattava di fattorini), dello stesso sesso e domicilio.
2. Gruppo del ceto medio o della «public school»: 45 studenti, coetanei e dello stesso sesso
dei giovani di 1, che frequentavano una delle sei maggiori «public school» di Londra.
Entrambi i gruppi furono esaminati in base al test sull’intelligenza non verbale e al test
sull’ampiezza del patrimonio lessicale.
Nei punteggi si hanno queste differenze tra i due gruppi: considerando per entrambi i gruppi
un’età media di 16 anni, le differenze assommano a circa 8-10 punti per il test non-linguistico
delle matrici, a 23-24, invece, per il test del patrimonio lessicale.
Secondo Bernstein, questo indica chiaramente una differenza nelle prestazioni linguistiche
dovuta specificamente al ceto; nella soluzione del test non-verbale, ceto operaio e medio
mostrano identiche capacità, mentre il calo del Gruppo-O (gruppo del ceto operaio) nelle
prestazioni verbali prova che esso non è in grado di risolvere adeguatamente i problemi
linguistici. «Non ci può essere alcun dubbio che ci sia un diverso rapporto tra le misurazioni
dell’intelligenza verbale e non-verbale nei due gruppi sociali».
Bernstein interpreta il fatto che i membri del Gruppo-O non possono raggiungere i valori più

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alti del test linguistico come una prova che essi dispongono dei princìpi che stanno alla base
dei concetti e delle regole linguistiche in misura minore che gli appartenenti al Gruppo-PS
(gruppo della “public school”). La maggiore stima delle prestazioni verbali traspare
chiaramente dalla sua più alta valutazione del test verbale:
«Un punteggio più alto nel test delle matrici non può significare altro che questo risultato; ma
un punteggio in un test verbale ci serve spesso come guida e indicatore per il rendimento nello
studio e nella professione» (Bernstein, 1960).
L’interpretazione di un test avviene qui in base ad una norma sociale di rendimento bella e data:
ai fini della «professione» l’intelligenza linguistica riveste un ruolo più importante
dell’intelligenza non-linguistica.
Per ‘spiegare’ la circostanza che il Gruppo-O è inferiore al Gruppo-PS nelle prestazioni verbali,
Bernstein si trova davanti a due possibilità alternative:
1. la minore capacità di espressione verbale nel gruppo del ceto operaio è una funzione
della loro peggiore istruzione (quindi del loro peggiore ambiente di apprendimento);
2. le minori prestazioni sono da ricondurre ad una peggiore predisposizione ereditaria delle
capacità linguistiche.
La ricerca di Bernstein ha portato a un nuovo stadio la discussione sull’esistenza di due
differenti codici linguistici: essi sono indipendenti dal quoziente di intelligenza non-verbale e
sono quindi funzione dei processi di socializzazione. Ciò significa che sono una conseguenza
di ambienti di apprendimento differenti.
Che tra i ceti sociali ci siano differenze nella misura dell’intelligenza, non è assolutamente una
scoperta nuova nelle ricerche di psicologia sociale. Già nel 1942 McNemar aveva potuto
mostrare una correlazione tra il tipo di impiego dei genitori e l’intelligenza dei bambini.
Bambini del ceto medio dai due ai cinque anni mostrarono in media 20 punti in più dei coetanei
del ceto operaio nel quoziente di intelligenza (la misurazione fu compiuta in base al «test
d’intelligenza Stanford-Binet»). Una discrepanza di analoga grandezza, dovuta
all’appartenenza all’uno o all’altro ceto, si ebbe per i giovani in età compresa fra i 15 e i 18
anni.
Lo studio di Bernstein conferma dunque il punto di vista che le differenze tra i ceti sono da
localizzare soprattutto nell’uso linguistico.
Sulla base di questa ricerca è bene fare delle osservazioni:
1. la valutazione dei test si basa sull’assunto che la parte linguistica è più significativa di
quella non-linguistica. Se questo vale come assunto generale per il test d’intelligenza,
dobbiamo obiettare, con Eels e altri (1951), che già in questa decisione preliminare si

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cela uno scorretto pregiudizio a danno dei bambini del ceto basso.
2. Bernstein fa presente che le differenze riconducono a differenti ambienti di
apprendimento; ma in questo modo non risponde alla domanda se esse siano da
considerare come differenze nelle capacità linguistiche dei parlanti.
3. I risultati dei test riproducono proprietà dei gruppi, senza che si possa sapere niente sul
modo in cui le prestazioni dei singoli individui hanno contribuito a determinare i valori
dei gruppi stessi. Ad esempio, una cattiva prestazione, al di sotto della media del gruppo,
può distorcere considerevolmente il valore complessivo del gruppo.
In conclusione, anche se non possiamo esaminare adeguatamente il rendimento generale dei
test d’ intelligenza, è evidente che la testimonianza sulle capacità dei bambini del ceto basso
fornita dalla misurazione dell’intelligenza verbale e non verbale non è chiara.

Gray/Klaus
Il lavoro di Gray e Klaus (1958), il cui obiettivo è l’educazione compensativa, si basa
sull’assunto che i bambini del ceto basso soffrono di vari deficit.
Essi condussero la loro ricerca nel Tennessee, dove si trovano numerose città con quartieri
poveri, miseria e basso grado di istruzione. Furono esaminati soltanto bambini di famiglie nere,
che vivevano in case malsane e cadenti, e i cui genitori erano lavoratori non qualificati o con
preparazione generica, con entrate estremamente basse e scarsa istruzione. Gli autori
descrivono così il deficit di quei bambini nella percezione e nella formazione dei concetti:
«Quando esaminammo i bambini, dell’età di 4 anni, ci parvero gravemente handicappati in tutte
e tre le aree (percezione, formazione dei concetti e lingua). Ciò è facilmente comprensibile, se
si tiene presente che qualsiasi tipo di stimolo sensorio trasmesso in una famiglia dove si
patiscono privazioni è non-strutturato e non-ordinato. Nelle case da cui provenivano i nostri
bambini, disorganizzate spazialmente e temporalmente, piene di ogni genere di rumori, l’unico
modo di cavarsela immediatamente disponibile era il ‘tuning out’. L’esplorazione della qualità
degli oggetti e degli eventi è ardua per il bambino che vive in una di queste case. Non è soltanto
la disorganizzazione a condurre a ciò, ma anche gli schemi di rafforzamento all’interno della
casa, il ritrarsi e il comportamento passivo sono certamente più adatti ad essere rafforzati che
non il comportamento attivamente esplorativo. Un tal genere di esplorazione è essenziale per
lo sviluppo di una percezione adeguata» (Gray/Klaus, 1968).
I bambini presentano scarsa attività percettiva e non sono capaci di operare le distinzioni più
semplici: così, può accadere che non riconoscano nessuna differenza tra diversi colori

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fondamentali o tra diverse figure geometriche. Nel loro modo di formare i concetti si rispecchia
il loro pensiero concreto; essi rispondono in maniera emotiva e lasciano trasparire l’assenza di
qualsiasi genere di astrazioni. L’incapacità di una percezione differenziata dell’ambiente
determinano, secondo Gray e Klaus, il fallimento scolastico dei bambini svantaggiati. In base
a queste considerazioni, i due ricercatori concludono che è necessario un programma di
compensazione.
Molti sostenitori dei programmi di compensazione si basano sull’assunto che i bambini del ceto
basso non acquistano affatto, nelle loro famiglie, le capacità necessarie per avere successo a
scuola (Blank, 1970, 63 ss.). Essi cercano di spiegare l’insufficiente stimolazione e il ritardo
dei bambini con l’ipotesi madre-bambino. Delle restrizioni cui è sottoposto il bambino sono
responsabili la madre, in senso stretto, e la famiglia, in senso lato. Lo scopo dei programmi di
compensazione è quello di «integrare mediante un’assistenza pianificata la scarsità di stimoli e
di esperienze dovuta all’ambiente circostante» (Deutsch, 1970).

29
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 2 - CETO SOCIALE, INTELLIGENZA E COMPORTAMENTO


LINGUISTICO

2a Lezione - L’educazione compensativa

L’idea fondamentale dell’educazione compensativa non consiste nel rendere responsabile della
miseria del ceto basso il sistema sociale, con le sue norme e i suoi princìpi della ripartizione
ineguale di povertà e ricchezza, ma nel fare di questa stessa miseria il capro espiatorio del
fallimento del ceto. Gli apporti preventivi di un lavoro compensativo sono quindi la prova
dell’incapacità del ceto basso e della pochezza delle sue prestazioni.
Una volta fornita tale prova, si può dare il via a interventi (di compensazione) finanziati dallo
Stato, come misure caritative, tese a creare un’uguaglianza di possibilità: il loro scopo è
l’adattamento del ceto basso alle norme del ceto medio in modo da assicurare le condizioni per
una mobilitazione di manodopera, divenuta necessaria nel processo produttivo.

Programma di compensazione di Bereiter / Engelmann


Bereiter ed Engelmann si basano sulla tesi di Bereiter che soltanto una lingua elaborata permette
un’ascesa sociale ai bambini del ceto basso. Presupposto implicito del loro programma è che
un uso linguistico complesso rende possibile automaticamente un’apprensione più differenziata
dell’ambiente sociale.
Essi vedono riflessa la debolezza delle prestazioni intellettuali dei bambini neri appartenenti al
ceto basso nel loro insufficiente uso linguistico; i tratti essenziali del loro comportamento
linguistico sono i seguenti:
a) Alle domande i bambini rispondono con una frase incompleta o soltanto con un
lapidario «sì» o «no». Secondo gli autori, questo mostra, nel primo caso, che essi non
sanno costruire una frase completa, nel secondo che, presumibilmente, non hanno capito
correttamente il contenuto della domanda.
b) Negli enunciati dei bambini, mancano spesso le preposizioni, le congiunzioni e
soprattutto la copula «be». Secondo Bereiter / Engelmann, questi sono mezzi linguistici
essenziali per costruire relazioni logiche; se i bambini si limitano solo a poche

30
preposizioni / congiunzioni, questo si ripercuote in una scarsa capacità di analisi logica.
Effetti ancora più gravi sembra avere la mancanza della copula «be». La copula è
necessaria, secondo gli autori, per istituire il rapporto della frase con la realtà.

In base a queste osservazioni Bereiter / Engelmann tracciano un triste quadro delle capacità
linguistiche dei bambini del ceto basso:
 essi sono indifferenti nei confronti del contenuto degli enunciati verbali;
 non hanno sperimentato nel loro ambiente sociale (famiglia) gli stimoli linguistici
necessari per potere, tout court, usare la lingua in modo sensato;
 manca loro la capacità di afferrare adeguatamente e di rappresentare in modo linguistico
connessioni, processi, ecc.;
 il loro ritardato sviluppo si riconduce a una «dissociazione» tra lingua e azione, come si
presume nel caso dei bambini mentalmente ritardati o affetti da disturbi psichici
(Bereiter, Engelmann, 1966, 37 ss.).
Alla luce di queste affermazioni, Bereiter ed Engelmann giungono alla conclusione che i
bambini del ceto basso «sono incapaci tout court di utilizzare la lingua come veicolo per la
ricezione e la riproduzione di informazioni. Per loro la lingua è ingombrante e non molto utile».
Nell’ottica di Bereiter ed Engelmann niente può elevare l’autocoscienza del bambino
sottoprivilegiato quanto una riproduzione corretta delle norme linguistiche del ceto medio. Tra
le conseguenze di questa impostazione c’è il fatto che questa riproduzione deve essere
conseguita mediante un addestramento linguistico puramente comportamentistico.
Bereiter ed Engelmann formulano 15 richieste minimali, che pongono a un programma di
compensazione linguistica; di esse riproduciamo i punti da 1 a 9, 12 e 14, che indicano i fini
dell’addestramento linguistico dei bambini:
1. Capacità di usare enunciati tanto affermativi quanto negativi in risposta a domande
del tipo: «Che cos’è? – Questa è una palla. Questa non è una matita».
2. Capacità di usare proposizioni tanto affermative quanto negative in risposta all’ordine
«Parlami di questo… (pallone, matita, ecc.). Questa matita è rossa. Questa matita non
è blu».
3. Capacità di maneggiare opposti polari per almeno quattro coppie di concetti, es.
«grande-piccolo», «su-giù», «lungo-corto», «grasso-magro».
4. Capacità di usare correttamente le seguenti preposizioni in enunciati che descrivono
disposizioni di oggetti «su», «tra», «in», «sotto». «Dov’è la matita? – La matita è sotto

31
il libro.».
5. Capacità di citare esempi positivi o negativi per almeno quattro classi, arnesi, armi,
oggetti d’arredamento, animali selvatici, animali domestici e veicoli. Il bambino deve
anche essere capace di applicare questi concetti di classe a nomi con cui ha familiarità,
es. «Dimmi qualcosa che sia un’arma. – Un fucile è un’arma. – Dimmi qualcosa che
non sia un’arma. – Una mucca non è un’arma. – La matita è un pezzo di mobilio? –
No, la matita non è un pezzo di mobilio. È una cosa con cui si scrive».
6. Capacità di compiere semplici deduzioni del tipo se-allora. Al bambino è presentato
un diagramma contenente quadrati piccoli e quadrati grandi. Tutti i quadrati grandi
sono rossi, ma i quadrati piccoli sono di vari altri colori. «Se il quadrato è grande, che
cosa sai su di esso? – È rosso».
7. Capacità di usare la negazione nelle deduzioni. «Se il quadrato è piccolo, che altro sai
su di esso? – Non è rosso».
8. Capacità di usare la disgiunzione in semplici deduzioni. «Se il quadrato è piccolo,
allora non è rosso. Che altro sai su di esso? – È blu o giallo».
9. Capacità di menzionare i colori fondamentali, più bianco, nero e marrone.
12. Capacità di riconoscere e menzionare le vocali e almeno 15 consonanti.
14. Capacità di costruire rime, in modo tale da produrre una parola che fa rima con
un’altra data, dire se due parole fanno o non fanno rima, completare schemi di rima
sconosciuti come «Avevo un cane e si chiamava Abel; lo trovai nascosto sotto il…».
Punti nodali di queste richieste minimali sono la risposta corretta alle interrogazioni mediante
una frase completa, la formazione corretta della negazione nell’inglese standard, l’uso corretto
di determinate preposizioni, l’esercizio nell’uso dei nessi se-allora, la conoscenza delle vocali
e delle consonanti dell’inglese standard e la formazione di semplici rime. L’addestramento
linguistico è condotto in base al principio dialogico dei giochi «a domanda, risposta». Come
risposte alle domande sono accettabili solo frasi complete.
L’insegnamento grammaticale deve condurre alla precisione logica nelle espressioni, mentre
gli esercizi di differenziazione nella modificazione e nella qualificazione linguistica devono
causare modifiche nell’apparato cognitivo.

Critiche mosse da Labov sulle richieste minimali di Bereiter ed Engelmann


In una dettagliata analisi dell’inglese non-standard compiuta da Labov (et al., 1968) è stato
mostrato con quanti errori Bereiter ed Engelmann presentino le capacità verbali dei bambini

32
del ceto basso.
Labov dimostra che i bambini del ceto basso parlano un altro inglese, che si distacca sotto molti
aspetti da quello del ceto medio con sistematicità e regolarità. I suoi dati linguistici sull’uso
dell’inglese non-standard dimostrano esattamente il contrario della diagnosi linguistica di
Bereiter e di Engelmann: i bambini del ceto basso vivono in una «sottocultura verbalmente
ricca, in cui il bambino è immerso dal mattino alla sera nella stimolazione linguistica» (Labov,
et al., 1968); essi producono e ascoltano frasi ben formate; non ci sono cause linguistiche che
ostacolino la formazione delle capacità di analisi logica nei bambini.
Gli enunciati linguistici, secondo Labov, devono essere osservati all’interno dell’ambiente
sociale dei parlanti, in situazioni naturali, e devono essere ricondotti ai loro bisogni
comunicativi e alla loro attività sociale. Contrariamente a questi princìpi, Bereiter ed
Engelmann hanno esaminato bambini dei ghetti in situazioni che erano loro completamente
estranee, in cui non potevano avere la minima motivazione a parlare con naturalezza.
L’intervistatore era un bianco adulto, nei cui confronti i bambini si trovavano in una situazione
completamente asimmetrica: alle domande dell’intervistatore rispondevano con la coscienza di
essere più deboli. In questa situazione i bambini rispondevano soltanto «sì» o «no», e quando
si trattava di parlare, mostravano quel comportamento che Bereiter ed Engelmann definiscono
come «mancanza totale di capacità di usare la lingua». Il comportamento difensivo del
bambino, fatto di monosillabi, si mostra come una sua reazione immediata alla situazione in cui
viene condotto il test: «Se uno crea una situazione estranea e minacciosa, i bambini reagiranno
di conseguenza» (Labov et al., 1968).
Le osservazioni di Bereiter e Engelmann sul comportamento linguistico dei bambini del ceto
basso sono completamente inutilizzabili, in quanto si riferiscono a situazioni innaturali e non
dicono assolutamente nulla sulla capacità verbale del bambino.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 2 - CETO SOCIALE, INTELLIGENZA E COMPORTAMENTO


LINGUISTICO

3a Lezione - I quattro miti sul test d’intelligenza

In questa lezione esamineremo la critica rivolta agli assunti teorici dell’ipotesi del deficit dal
punto di vista, strettamente scientifico, di singole discipline.
La discussione più recente sulla dimensione psicologica dell’ipotesi del deficit è stata avviata
da Ginsburg (1972).
Funzione e rendimento del test d’intelligenza sono sottoposti da Ginsburg ad un’accurata
analisi, con l’aiuto di una grande quantità di dati; quest’analisi lo conduce alla formulazione di
quattro miti sul test di intelligenza, che riportiamo di seguito, tenendo conto anche di ulteriori
argomenti, secondo il modello «giustificazione di una tesi».

«IL PRIMO MITO È CHE IL TEST DI INTELLIGENZA FORNISCA LA MISURA DI UNA


CAPACITÀ INTELLETTUALE UNITARIA».
È sempre più diffusa l’opinione che esista una capacità fondamentale chiamata “intelligenza”,
che domina tutto il complesso delle capacità intellettuali e che è diversa nei vari individui nella
misura in cui si manifestano differenze nei “quozienti di intelligenza” loro assegnati.
Questa opinione non si accorge che il test di intelligenza misura diverse operazioni mentali, ma
non un’unità chiusa “intelligenza”, come si può mostrare con il semplice esempio di quando
l’intervistatore, invitando un soggetto a risolvere un problema di identificazione, gli dice:
«scegli questo o quell’oggetto». L’individuo deve essere capace, anzitutto, di comprendere il
significato delle singole parole, e poi quello dell’intera frase; deve percepire l’oggetto nella sua
forma e nel suo colore ed associarlo alla categoria linguistica corrispondente. Anche per la
risoluzione di problemi semplici sono spesso necessarie operazioni mentali già complesse:
prestazioni percettive, intellettuali e mnemoniche.
Se si tiene presente questo fatto fondamentale, se ne deduce che un determinato quoziente
d’intelligenza è difficile da interpretare, in quanto può costituirsi in maniere molto differenti,
secondo il numero delle operazioni mentali necessarie.

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«IL SECONDO MITO È CHE LE DIFFERENZE NEI QUOZIENTI DI INTELLIGENZA
INDICHINO DIFFERENZE INTELLETTUALI FONDAMENTALI».
Si crede che differenze nel quoziente di intelligenza rispecchino le capacità intellettuali
fondamentali. Anche questo è un errore.
Primo: il test di intelligenza non misura affatto la creatività. Getzel e Jackson (1962) hanno
scoperto che i quozienti di intelligenza non presentano alcuna correlazione con i test di
creatività.
Secondo: il punto cruciale dei test è costituito dalle verbalizzazioni. Ma nei problemi di
verbalizzazione si richiedono, in massima parte, soltanto conoscenze linguistiche passive; in
ogni caso rimane completamente inosservata la creatività linguistica.
Terzo: le differenze nei quozienti di intelligenza sostengono che i bambini del ceto basso e
quelli del ceto medio sono diversi sotto molti aspetti. Ma così non ci si rende conto che essi
divergono proprio nei punti in cui le capacità fondamentali sono simili. Esistono universali
cognitivi di cui tutti i bambini dispongono, indipendentemente dal ceto cui appartengono.
Ne consegue che le differenze di 10-20 punti nel quoziente di intelligenza, che di solito sono
considerate rilevanti, assumono un significato piuttosto scarso.

«IL TERZO MITO È CHE IL QUOZIENTE DI INTELLIGENZA FORNISCA UNA


MISURA DELLA COMPETENZA INTELLETTUALE».
Dato che la prestazione nel test di intelligenza dipende principalmente dalla motivazione che si
ha a risolvere i problemi, diversa secondo il ceto di appartenenza, il test di intelligenza non
misura la competenza in base a presupposti identici. I bambini del ceto basso sono sempre
svantaggiati nei test formali, dato che i problemi, nei test di intelligenza, sono costruiti in base
a valori del ceto medio che svolgono soltanto un ruolo limitato nella socializzazione del ceto
basso; quindi i bambini di questo ceto hanno scarsa motivazione ad affrontare problemi che
sono loro estranei.
L’impostazione borghese del test di intelligenza è esaminata in ogni dettaglio da Eels (1953).
Eels (292 ss.) cita tre criteri, che devono essere soddisfatti se si vuol liberare il test da una simile
impostazione:

« a) il test deve comporsi di capitoli che riguardano materiale comune alle varie sotto-culture
in cui deve essere utilizzato; b) il test deve essere formulato in una lingua ed in altri sistemi
simbolici che siano ugualmente familiari a bambini cresciuti in differenti sotto-culture, e c)
deve essere organizzato e condotto in modo tale da suscitare un ugual grado di interesse e di
motivazione in tutti i bambini, da qualsiasi sotto-cultura provengano».

35
Eels conclude: «Nella misura in cui un test di intelligenza non soddisfa queste tre esigenze, non
si può dire che sia un test culturalmente ‘corretto’». Ginsburg dimostra mediante ricerche
empiriche che i test di intelligenza non misurano la competenza dei bambini del ceto basso.

«IL QUARTO MITO È CHE IL TEST DI INTELLIGENZA MISURI UNA CAPACITÀ


INNATA CHE RIMANE RELATIVAMENTE NON TOCCATA DALL’ESPERIENZA».
È diffusa l’idea che l’intelligenza del bambino sia innata e che le successive influenze
dell’ambiente esercitino soltanto uno scarso influsso sul quoziente di intelligenza. Tranne che
in casi straordinari, l’intelligenza non può essere né accresciuta né diminuita. Quest’opinione è
errata. Il livello di intelligenza non è già determinato alla nascita. Tutti i bambini, in modo
relativamente indipendente dall’ambiente e dal ceto sociale, hanno in comune, nel loro
sviluppo, determinati universali cognitivi (Piaget). Oltre a questi universali di fondo ci sono
alcune differenze determinate dalle esperienze del mondo circostante. Ad oggi, sulla
problematica delle capacità innate ed acquisite, si può dire soltanto che disposizione ereditaria
e ambiente interagiscono continuamente l’uno con l’altro.
Un esempio di come sia ancora largamente diffusa la credenza nell’ereditarietà dell’intelligenza
è dato da Arthur Jensen. In base a numerose misurazioni di intelligenza Jensen (1969) cerca di
dare le prove che i neri americani sono inferiori per motivi genetici. Il dibattito sulla sua
concezione, nelle riviste scientifiche e sulla stampa in genere, mostra con quale serietà sono
stati accolti i suoi risultati. Il rispetto per il test di intelligenza sembra avere radici ancora così
profonde che a nessuno è venuta l’idea di contestarlo, come uno strumento di misurazione
inadeguato.
I quattro miti sul test di intelligenza dimostrano che esso non è in grado di misurare le capacità
intellettuali dei bambini del ceto basso; tutt’al più, può indicare che sono meno dotati in alcune
abilità caratteristiche del ceto medio, favorite dalla scuola.
Nelle lezioni precedenti, parlando dell’ipotesi madre-bambino, avevamo già detto che non si sa
molto sull’influsso che il comportamento dell’una esercita sullo sviluppo cognitivo dell’altro.
Non è chiara neppure l’influenza della componente verbale rispetto a quella della componente
non verbale. Non sappiamo, infine, quale sia esattamente il ruolo svolto dal gruppo dei pari nel
processo di apprendimento del bambino. A quanto sostenuto dall’ipotesi madre-bambino
bisogna obiettare che il bambino è esso stesso parte attiva nel suo sviluppo cognitivo. Su questo
argomento, rimandiamo soprattutto agli studi di Piaget e Lenneberg (1967). Questa ipotesi è
stata corroborata da una ricerca empirica di Ginsburg, Wheeler e Tulis (1971). In una cosiddetta

36
«classe aperta» (stile di insegnamento antiautoritario) gli autori hanno insegnato a leggere e a
scrivere, in un modo del tutto anticonvenzionale, a bambini di 5-6 anni, appartenenti al ceto
medio e al ceto basso. I bambini, nell’apprendere queste capacità, sono stati guidati soltanto
dalla loro iniziativa. Passato un anno, sono stati per lo più lasciati da soli, ripartiti in piccoli
gruppi. Il loro processo di autoapprendimento e la loro personale attività creativa sono stati
entusiasmanti. I risultati della ricerca di Ginsburg, Wheeler e Tulis mostrano che i bambini,
nell’imparare a leggere e scrivere, non hanno rivelato nessuna specifica differenza di ceto.
Questo fatto è da spiegare, da un lato, con la loro motivazione ad imparare, dall’altro con la
loro personale attività creativa.

37
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 2 - CETO SOCIALE, INTELLIGENZA E COMPORTAMENTO


LINGUISTICO

4a Lezione - Il rifiuto della «teoria della privazione verbale» di Labov

Possiamo riassumere in sei punti le osservazioni che spingono Labov a rifiutare la «teoria della
privazione verbale», e perciò anche i tentativi di compensazione linguistica che chiariscono il
passaggio dalla sfera scientifica a quella politica e sociale:
1. La reazione verbale del bambino del ceto basso ad una situazione formale e minacciosa
è utilizzata per dimostrare la sua scarsità di capacità verbali o il suo deficit verbale.
2. Questo deficit verbale è contrabbandato come causa principale delle sue cattive
prestazioni scolastiche.
3. Dato che i bambini del ceto medio sono più bravi a scuola, si considera necessario
apprendere le abitudini linguistiche di questo ceto.
4. Forme grammaticali differenti, secondo il gruppo etnico o la classe cui si appartiene,
sono identificate con differenze nella capacità di analisi logica.
5. Insegnare al bambino a imitare determinati modelli linguistici formali, che sono poi
quelli degli insegnanti appartenenti al ceto medio, è considerato come un istruirlo nel
pensiero logico.
6. I bambini che imparano questi modelli linguistici formali devono quindi pensare
logicamente, e si presuppone che negli anni che seguiranno avranno un profitto molto
più alto in aritmetica e in lettura (Labov, 1970, 26).
Paradossalmente, la concezione teorica che era nata per promuovere la parità di possibilità nei
bambini vittime di privazioni, per la sua ignoranza dei fatti linguistici ha causato proprio
l’effetto contrario, sia per i suoi pregiudizi teorici, sia per le conseguenze che si traggono dai
tentativi di compensazione.

Pregiudizi teorici
Sostenendo che i bambini «non dispongono di nessuna lingua» (questo è il risultato di test svolti
in situazioni non naturali) ed esigendo un addestramento compensativo alla lingua standard,
etichettano la loro prima lingua come non funzionale e cattiva. Si fornisce così «una pronta base

38
teorica» (Labov, 1970, 27) al pregiudizio che gli insegnanti più o meno hanno già nei confronti
dei bambini del ceto basso. Il bambino viene quindi discriminato, a causa della sua lingua, tanto
nella scuola che nella società: appena lui apre la bocca, l’insegnante sente e identifica «la
mentalità primitiva dello spirito selvaggio».
Ci troviamo di fronte a quella assegnazione di ruoli descritta da Rosenthal/Jacobson (1968) nel
loro articolo sulle «profezie scolastiche si autoadempiono». Se i bambini sono caratterizzati
come «schiappe intellettuali» e «la loro lingua di tutti i giorni viene tout court stigmatizzata
come ‘non lingua’ e come ‘priva di possibilità per il pensiero logico’, gli effetti di tali marchi
si ripetono più volte per ogni giorno dell’anno scolastico» (Rosenthal/Jacobson 1968, 26 ss.).
I pregiudizi teorici dell’ipotesi del deficit si mostrano anche nel modo in cui essa valuta il ruolo
del «peer group» nell’insuccesso scolastico dei bambini. Il «peer group» viene interpretato
come «indennizzo» dell’insufficiente prestazione del bambino.
Bisogna sottolineare, invece, che l’ambiente familiare e la scuola rappresentano per il bambino
domini sociali completamente differenti, ognuno con proprie regole di premio e di castigo, che
implicano differenti sistemi di valori (28 ss.). Questo è provato dal fatto che i «bambini respinti
dal ‘peer group’ hanno con forte probabilità successo a scuola», mentre falliscono su «tutta la
linea» proprio i ragazzi che sono sani, attivi, intelligenti e integrati nel «peer group».
A giudizio di Labov (86) «dal punto di vista linguistico» il «peer group» esercita sul
comportamento del bambino un influsso maggiore che non la famiglia.
Viene così a vacillare anche la tesi di Bernstein secondo cui il comportamento linguistico del
bambino è determinato principalmente dalla famiglia. È comunque inaccettabile l’idea dei
teorici del deficit di ricondurre l’insuccesso scolastico del bambino ai suoi difetti personali,
all’influsso dannoso del «peer group»:
«Di solito si spiega l’insuccesso scolastico del bambino con la sua insufficienza; ma quando
l’insuccesso raggiunge proporzioni così massicce, ci sembra necessario esaminare gli ostacoli
sociali e culturali all’apprendimento, e l’incapacità della scuola di adeguarsi alla situazione
sociale. L’operazione Headstart (un programma di compensazione potentemente finanziato) ha
come fine il riadattamento del bambino, e non della scuola; nella misura in cui si basa su questa
logica capovolta, è destinato a fallire» (Labov, 1970, 28).
Secondo Labov, nei bambini del ceto basso non c’è niente da «riadattare» o da compensare; si
tratta piuttosto di cambiare la scuola in modo tale che essa possa offrire identiche possibilità di
istruzione anche ai bambini del ceto basso.

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Conseguenze sociali dell’ipotesi di deficit
Gli scienziati che hanno elaborato la concezione teorica dei programmi di compensazione sono
gli stessi che ne valutano i risultati; essi considerano responsabili dell’insuccesso l’incapacità
dei bambini. Così sono state finora elencate tre cause del fallimento dei programmi di
compensazione:
1. Le buone prestazioni ottenute inizialmente sono andate perdute a causa del successivo
«cattivo» insegnamento scolastico.
2. I bambini sono rovinati dal loro ambiente già così presto, che il «progetto Headstart»
non poteva più essere loro utile.
3. A causa della loro scarsa predisposizione ereditaria, i bambini non possono trarre
profitto dai programmi.
Il punto 3 è l’interpretazione in termini genetici data da Jensen (1969), che cerca di dimostrare
tramite i test di intelligenza l’inferiorità razziale dei neri. Quest’ultima ipotesi mostra a che
punto si è giunti con l’ipotesi del deficit; essa infatti, invece di superare la discriminazione
sociale dei bambini, con una cattiva teoria ha creato la possibilità di discriminarli ancora di più.
Diventa qui ovvia la connessione tra teoria scientifica e conseguenze politiche e sociali.
Insufficienti conoscenze di linguistica hanno condotto ad una teoria sbagliata e negligente, le
cui applicazioni sono destinate al fallimento (Labov, 1970).
Invece di ammettere esplicitamente l’insuccesso della teoria, il suo fallimento non viene
imputato ad essa, ma ai bambini; questo porta ad affermare che questi bambini non potevano
essere in alcun modo aiutati, perché sono «geneticamente inferiori».

Conclusioni
La linguistica deve contestare i presupposti teorici ed i metodi dell’ipotesi del deficit. Uno dei
suoi assunti base è che lo standard e il non-standard sono due sistemi diversi, che hanno stesse
possibilità espressive e sono dotati di una stessa logica.
La linguistica deve, inoltre, descrivere i diversi comportamenti linguistici e mostrare
adeguatamente il rapporto tra valori sociali e ed espressioni linguistiche, mediante interviste e
mediante un esame attento dei soggetti nel loro ambiente familiare e sociale. Soltanto una simile
descrizione funzionale può costituire il presupposto di una modifica della scuola.
L’ipotesi del deficit è inadeguata non soltanto per i suoi falsi presupposti e i suoi difetti
scientifici, ma anche perché non può assolutamente realizzare la necessaria integrazione dei
bambini del ceto basso.

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In Labov, rimane aperta la questione se, in una società capitalistica come quella americana,
l’istituzione scuola possa tout court realizzare una vera emancipazione.
Proprio questa problematica è affrontata dalla critica di stampo marxista all’ipotesi del deficit
che affronteremo dettagliatamente nella lezione successiva.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 2 - CETO SOCIALE, INTELLIGENZA E COMPORTAMENTO


LINGUISTICO

5a Lezione - Critica marxista: analisi delle barriere linguistiche

Negt (1971) vede nelle barriere linguistiche tra ceto operaio e ceto medio delle «contraddizioni
dell’attuale società di classi» ed auspica una «cultura operaia che muti insieme idee e
coscienza» e che determini «programmi scolastici organizzati in modo esemplare» tramite la
«mediazione dialettica tra ‘lingua pubblica e lingua ‘formale’».
Mentre Negt si impegna a valutare in senso positivo per la cultura operaia i risultati della ricerca
sulle barriere linguistiche, Ehlich et al. (1971) sottopongono l’orientamento di Bernstein ad una
critica scientifica e sociopolitica che possiamo riassumere in tre aspetti:
 La sociolinguistica: scienza per borghesi.
 Modello del ceto e teoria dei ruoli.
 Scopo dell’educazione compensativa.

La sociolinguistica: scienza per borghesi


Dobbiamo considerare la sociolinguistica in rapporto alle condizioni sociali della Germania
Federale. Il sistema dell’istruzione scolastica deve essere reso più efficiente a causa del
crescente bisogno di nuove leve nella produzione.
Ciò è documentabile in molte citazione, ma illustriamo un passo di Iben (1971):

«Dalla metà degli anni Sessanta, è stata riscoperta, in Germania Federale, l’educazione
prescolastica, un settore dell’istruzione a lungo trascurato. Questa riscoperta è un frutto tardivo
dell’inquietudine per il fallimento dell’istruzione ed è stata stimolata dai risultati delle ricerche
americane. Soprattutto l’aumento delle conoscenze sui rapporti tra ceto di appartenenza,
comportamento linguistico e successo scolastico, diffuse dai lavori di B. Bernstein, P. M.
Roeder, R. Dahrendorf e U. Oevermann, ha condotto a una discussione sulla possibilità di
un’educazione compensativa. Con la ricerca di riserve di talenti ha assunto importanza anche

42
l’interrogativo sulle possibilità del loro sviluppo».

Per risolvere le contraddizioni dello sviluppo della società in Germania Federale furono
necessarie tre fasi di una coerente politica di razionalizzazione nei campi dell’istruzione e della
ricerca, condotta in questo stesso paese (Hirsch/Leibfried, 1971).
Nella prima fase (dopo il 1945) la politica dell’istruzione in Germania Federale fu orientata ad
un aumento generale di efficienza nell’organizzazione degli studi, che nella seconda fase si
sviluppò come una sorta di «sistema composto», nella terza fase di questo sviluppo sono
diventate necessarie attività statali di pianificazione con il compito di risolvere le diverse
contraddizioni emerse nello sviluppo economico della società capitalistica, «mediante una
‘pianificazione compensativa’ nel senso più ampio».
Secondo Ehlich et al., le ricerche di Bernstein e Oevermann hanno reso un servizio alle forze
produttive dominanti nel momento in cui hanno scoperto ostacoli ad una mobilitazione di
riserve culturali nella classe operaia. Ma poiché queste riserve devono essere attivate, in
applicazione alla ricerca sociolinguistica, attraverso programmi prescolastici, si prepara così
una sottile integrazione della classe operaia nel processo di produzione: con un parlare
differenziato (‘elaborato’) si deve ottenere un pensiero differenziato, e quindi un’azione dei
ruoli flessibile e un adattamento dell’individuo ai rapporti sociali.

«Oevermann e Bernstein propagandano sostanzialmente il collegamento delle prestazioni


intellettuali e linguistiche con l’azione dei ruoli che sta a fondamento dei rapporti piccolo-
borghesi e borghesi, e si trovano così in pieno accordo con una politica dell’istruzione che
unisce al migliore sfruttamento del serbatoio culturale ‘proletariato’ la propaganda e
l’imposizione di obiettivi e di modi di comportamenti borghesi» (Ehlich et al., 1971).

Modello del ceto e teoria dei ruoli


La critica marxista si concentra soprattutto sul modello di ceto e sulla teoria dei ruoli della
‘sociologia borghese’ di Bernstein e Oevermann.
Secondo Ehlich et al., né il concetto di ceto, né quello di ruolo rispecchiano «le vere
differenziazioni e le vere leggi del movimento della società capitalistico-borghese». Così, nel
concetto di «ceto basso» si confondono proletariato e sottoproletariato, mentre il termine «ceto
medio» raccoglie la piccola borghesia e la borghesia. Tuttavia, è inappropriato l’assegnare i
membri di una società ad un determinato ceto in base a criteri come «professione, cultura,

43
carriera, prestigio», nella misura in cui non ha come fine un’«analisi delle classi esistenti nella
società capitalistica». L’appartenenza degli individui ad una determinata classe deve essere
colta in base alla loro «posizione nel processo di produzione» (vedi anche Hahn, 1968).
Oltre al ceto, nell’analisi borghese delle barriere linguistiche, anche i ruoli sociali sono
considerati correlati elementari dei modi di parlare (Oevermann, 1970).
A fondamento della teoria dei ruoli stanno concetti normativi come «ambivalenza dei ruoli»,
«distanza dei ruoli», «identità dell’Io», che sono modellati sul comportamento del ceto medio
e che non possono ambire né ad un’adeguatezza funzionale né ad un’adeguatezza descrittiva.
Con l’aiuto di questi concetti si dovrebbe definire lo spazio di interazione di presunti individui
«liberi», che possono organizzare i loro ruoli in modo «ambivalente» o «distanziato».
Hahn (1968) spiega che nella sociologia borghese i ruoli sono intesi come impronte di
istituzioni sociali, prodotte da norme e regole. Lo sviluppo sociale viene spiegato nella
dimensione degli individui che sono delle variabili, mentre la società è considerata come
costante. Una tale concezione è statica in quanto trascura lo sviluppo sociale dinamico che la
sociologia marxista coglie nella contraddizione dialettica tra la determinazione sociale
dell’individuo e la sua partecipazione attiva alla formazione dei rapporti sociali.
I ruoli sono coniati principalmente dal tipo e dal modo della produzione materiale come
espressione di vita e modo di attività degli individui, e non dalle istituzioni. Un’analisi sensata
dei ruoli è possibile soltanto nel quadro di un’analisi di classe che consideri gli individui nella
loro posizione nel processo di produzione e nel loro rapporto dialettico globale col gruppo e
con la società.
La teoria dei ruoli cerca «di cogliere concettualmente le contraddizioni della società
capitalistica, ma in modo tale che esse vengano interpretate come problemi degli individui e
che la loro soluzione venga ad essi richiesta come una prestazione da fornire individualmente.
La conservazione del sistema diventa il punto di riferimento per valutare la funzionalità o la
non-funzionalità dell’azione dei ruoli» (Ehlich et al., 1971). Quindi la teoria dei ruoli «di fatto
scarica sull’individuo il compito di neutralizzare ‘relativamente’ a sé stesso le contraddizioni
della sua società (società capitalistica)» (Ehlich et al., 1971).

Scopo dell’educazione compensativa


Come accennato nelle precedenti lezioni, l’educazione compensativa è il mezzo, secondo la
propaganda ufficiale, con cui si attua l’emancipazione del ceto basso, ma in realtà non si fa che
adattarlo alle condizioni della produzione capitalistica.

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L’educazione compensativa deve risolvere la contraddizione sociale di povertà e ricchezza
facendo sperare in un’uguaglianza di possibilità «quelli che, a motivo della loro posizione
socio-economica, non hanno possibilità alcuna» (du Bois-Reymond, 1971).
L’educazione compensativa trascura «il fallimento del sistema scolastico esistente, che
minaccia di non essere più funzionale» (Labov) e cerca «la miseria nel sistema di ruoli e di
interazioni familiari».
Bernstein (1970) respinge violentemente l’educazione compensativa e riconduce i suoi compiti
fondamentali ai compiti della scuola: «L’insegnare ai bambini la connessione semantica
universale delle forme di pensiero socialmente diffuse non è ‘educazione compensativa’ è
educazione» (Bernstein, 1972). L’«educazione» deve essere fornita dalla scuola nel senso più
ampio: «la scuola cerca di comunicare sapere, che è sapere socialmente riconosciuto». Questo
«sapere socialmente riconosciuto», che è comunicato dalla scuola, è detto da Bernstein
«universale». L’emancipazione deve compiersi nel quadro delle istituzioni esistenti, in modo
che tutti abbiano diritto ad acquisire quel sapere che è «socialmente riconosciuto».
In conclusione, l’ipotesi del deficit è mal fondata dal punto di vista scientifico e considera
semplicisticamente il sistema della società; essa non è in grado di realizzare l’integrazione della
classe operaia nei rapporti sociali di produzione dominanti; per questo la discussione si è
spostata sulla scuola, con il cui aiuto dovrebbe crearsi una sorta di «potenziale di mutamento»
(Bernstein, 1972).
Dunque non c’è nulla da compensare in bambini che dispongono di capacità pienamente
sviluppate; bisogna invece rivolgere ogni sforzo a renderli coscienti di queste capacità.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 2 - CETO SOCIALE, INTELLIGENZA E COMPORTAMENTO


LINGUISTICO

6a Lezione - Il ruolo del sapere sociale nella conversazione

I tre settori che hanno compiuto incursioni significative sui fattori sociali nel parlato sono:
 L’etnografia della comunicazione;
 La pragmatica linguistica;
 La sociologia dell’interazione verbale o etnometodologia.

L’etnografia della comunicazione


L’obiettivo esplicito dell’etnografia della comunicazione possiamo esemplificarlo con le parole
di Hymes, il quale sostiene che il fine di questo filone di ricerca sia quello di «colmare lo spazio
vuoto tra ciò che si include di solito nell’etnografia e ciò che si include di solito nella
grammatica». Le nozioni teoriche elaborate dall’etnografia della comunicazione sono
principalmente finalizzate a guidare la ricerca di dati descrittivi. Poiché l’analisi grammaticale
tradizionale non fornisce informazione sufficiente sui modelli reali dell’uso linguistico, gli
etnografi della comunicazione richiamano l’attenzione su ciò che essi definiscono “gli
strumenti per parlare”, cioè la totalità dei modi in cui il significato sociale viene espresso.
Tra i più importanti “strumenti per parlare” è annoverato il concetto di “repertorio linguistico”
(comportamento linguistico di una comunità descritto nei termini delle varietà, dei dialetti,
ecc.).
Altri “strumenti per parlare” sono i “generi”, o i vari tipi di elaborazione artistica cui la lingua
è soggetta, quali i miti, le storie, le barzellette, con le caratteristiche strutturali e le funzioni
comunicative che li caratterizzano.
Gli “strumenti per parlare” sono correlati a norme culturali nella realizzazione dei singoli eventi
linguistici. Un evento linguistico consiste in una sequenza di atti verbali legati nel tempo e nello
spazio, e realizzati da attori nell’ambito di un particolare gruppo sociale. La partecipazione a
tali eventi è governata da norme di comportamento. Per la descrizione di tali eventi, l’etnografo

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si avvale dei metodi, di matrice antropologica, dell’intervista e dell’osservazione partecipe nella
raccolta dell’informazione sociale, mentre utilizza l’analisi grammaticale nell’individuazione
dei dati linguistici.

La pragmatica linguistica
Il centro d’interesse della pragmatica linguistica è l’effetto del contesto e del sapere sociale
sull’interpretazione del messaggio. Essa si è sviluppata in anni recenti, principalmente a partire
dai primi lavori della semantica generativa. La pragmatica è nata dall’interesse per la teoria
linguistica astratta.
Gli studiosi di pragmatica si rivolgono a ciò che Searle (1973) definisce “significato del
parlante”, piuttosto che al “significato dell’enunciato”.
L’analisi pragmatica, secondo la prassi della grammatica generativa, si concentra su ciò che i
partecipanti alla conversazione devono conoscere per identificare un particolare atto, quale, ad
esempio, una domanda o una risposta, o per distinguere tra atti quali una richiesta o un
suggerimento. Gli studiosi di pragmatica convengono sul fatto che l’identificazione di atti
linguistici specifici implichi sempre presupposizioni riguardanti tanto il sapere grammaticale,
quanto il sapere sociale.
Per quanto gli studiosi di pragmatica linguistica abbiano avuto molto da dire sul contesto e sulla
natura di ciò che chiamiamo “regole conversazionali” (Gordon, Lakoff, 1973), la ricerca in
questo settore si è di fatto concentrata soprattutto su singole frasi o, al massimo, su brevi
frequenze di enunciati, piuttosto che sulla conversazione. Non si è avuto nessun tentativo di
spiegazione del fenomeno della coordinazione tra parlanti. La conoscenza di base dei parlanti,
cui gli studiosi di pragmatica fanno riferimento, è vista in termini puramente cognitivi,
psicologici, cioè in termini di “piani” (plans) o “sceneggiature” (scripts) (Schank, 1975), in
base al presupposto che i parlanti avviino un’interazione essendo consapevoli di ciò che
vogliono dire e del modo in cui dirlo.

L’etnometodologia
L’etnometodologia è stata la prima tradizione di studi che ha considerato la conversazione come
un tentativo di cooperazione. Essa si occupa dell’analisi sociologica dell’interazione verbale.
Nell’ambito di una serie di esperimenti, Harold Garfinkel (1967, 1972) ha dimostrato che il
sapere sociale non può essere descritto adeguatamente sotto forma di categorie astratte

47
statisticamente stimabili, quali punteggi scalari per le caratteristiche del ruolo, dello status, o
della personalità. Egli sottolinea che il sapere sociale si rivela nel processo stesso
dell’interazione. Garfinkel suggerisce, inoltre, che la sociologia dovrebbe concentrarsi sulla
descrizione dei meccanismi mediante i quali ciò si realizza in quelle che egli definisce «attività
naturalmente organizzate», piuttosto che nell’ambito di esperimenti pianificati mediante
interviste.
Harvey Sacks e i suoi collaboratori (Sacks, 1972; Garfinkel, Sacks, 1970; Schlegoff, 1972;
Sacks, Schlegoff, Jefferson, 1974; Turner, 1974) sono stati i primi a tentare di studiare il
processo della cooperazione conversazionale come oggetto di indagine in se stesso,
concentrandosi sistematicamente sulla conversazione in quanto esempio minimo di attività
naturalmente organizzata.
Il lavoro svolto negli ultimi anni dagli etnometodologi nel settore dell’analisi conversazionale
ha dimostrato che tutti i tipi di parlato casuale sono governati da regole.
Molte delle scoperte degli etnometodologi sono molto importanti per lo studio dell’inferenza
conversazionale. Si è ad esempio dimostrato che, se un parlante vuole farsi capire, deve stabilire
parlando la condizione contestuale che rende possibile l’interpretazione desiderata. Così, per
terminare una conversazione, è necessario preparare le basi per una chiusura; in caso contrario,
è probabile che la chiusura venga fraintesa. Per interpretare una risposta, bisogna identificare
la domanda cui tale risposta si correla. Per comprendere un gioco di parole, si deve essere in
grado di riesaminare e reinterpretare qualcosa che è stato detto precedentemente nell’ambito
dell’interazione.
Uno dei contributi più importanti apportati da Sacks all’analisi della conversazione va
individuato nell’esplicito riconoscimento del fatto che i princìpi dell’inferenza conversazionale
sono assolutamente altro rispetto alle regole della grammatica.
Al livello della conversazione sono sempre possibili varie interpretazioni alternative, più
numerose di quante ne esistono al livello della grammatica di frase.
La scelta tra queste interpretazioni è limitata sia da ciò che il parlante intende conseguire in una
particolare interazione, sia dalle aspettative circa le reazioni e le convinzioni dell’altro. Una
volta scelta ed accettata una certa interpretazione, si tende alla coerenza; cioè si tende a
mantenere la medesima strategia interpretativa, fino a quando nella conversazione interviene
qualcosa a rendere consapevole il parlante della necessità di un cambiamento di strategia.
Quindi le interpretazioni possiamo dire che vengono negoziate, piuttosto che trasmesse
unilateralmente.
Per riassumere, gli etnometodologi hanno percorso un buon tratto di strada nella costruzione di

48
una teoria che tratti la conversazione come uno sforzo cooperativo, soggetto a condizionamenti
sistematici. Essi sostengono che una prospettiva sociale sul linguaggio deve essere in grado di
rendere conto delle differenze riscontrabili tra parlanti diversi; tuttavia, fino ad ora, sono stati
affrontati soltanto gli aspetti panculturali dei meccanismi di controllo conversazionale.
Sebbene la sovrapposizione tra parlanti costituisca a tutti gli effetti una parte dell’interazione,
la cooperazione conversazionale richiede che i partecipanti non vengano interrotti a caso.
I processi di inferenza conversazionale coinvolgono parecchi elementi distinti. Da una parte,
troviamo la percezione di indizi prosodici e paralinguistici; dall’altra, c’è il problema di
interpretarli. Dal canto suo, l’interpretazione richiede, prima di tutto, giudizi basati sulle
aspettative e, in secondo luogo, la ricerca di un’interpretazione che si accordi con ciò che si sa
e ciò che si è percepito. Non possiamo mai essere certi del significato ultimo di un qualsiasi
messaggio, ma possiamo procurarci una solida evidenza circa la base sociale delle convenzioni
di contestualizzazione, considerando gli schemi di corrispondenza sistematica tra la percezione
di segnali superficiali e l’interpretazione.
I segnali di contestualizzazione sono ininterpretabili a prescindere dalle situazioni concrete. Al
contrario delle parole o dei morfemi, che, per quanto in ultima analisi anch’essi legati al
contesto, possono comunque essere considerati in isolamento, elencati nei dizionari, i segnali
di contestualizzazione non possono essere descritti in termini astratti. Lo stesso segno può
indicare un normale flusso di informazione in alcune condizioni e può veicolare significati
contrastivi in altre.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 3 - COMUNITÀ ETNOLINGUISTICHE

1a Lezione - Le politiche linguistiche degli Stati europei

Oggi, nel nostro mondo democratico, le scelte linguistiche non dipendono soltanto da valori,
interessi e potenzialità di natura linguistica, ma obbediscono ad un potere politico controllato
da determinati soggetti. In questo momento in cui molte etnie trascurate stanno affermando il
proprio diritto all’esistenza e allo sviluppo, e molti studiosi stanno cercando di contare,
classificare e studiare le migliaia di lingue parlate nel mondo, le scelte nel campo della politica
sono sempre più limitate ad alcune lingue nazionali e ad un numero ancora più esiguo di lingue
di ampia comunicazione, apparentemente sotto la pressione di esigenze tecniche, ma, in realtà,
in accordo con una visione conservatrice di un limitato numero di Stati-nazione indipendenti
che hanno già scelto quali lingue debbano o non debbano essere lingue di Stato.
La lingua può essere vista sia come un mezzo di comunicazione e di informazione, sia come un
insieme culturale caratterizzato da tratti sociopsicologici che alimenta l’identificazione di un
gruppo. Quindi la politica e la pianificazione linguistica possono essere concepite o come una
ricerca finalizzata a favorire la comunicazione in una determinata area, o come il modo per
condurre i popoli a condividere una lealtà ed un’identità simbolica. In quest’ultima prospettiva,
tale costruzione collettiva è perseguita o per raggiungere l’integrazione o per mantenere la
diversità all’interno di una società pluralistica.
Il lento progresso della politica linguistica può essere sintetizzato nella competizione tra due
modelli principali:
 Lo Stato monoetnico e monolingue, apparso nell’era moderna. Si era partiti dallo Stato-
nazione panetnico allo Stato regionale egemonico allo Stato imperiale colonialista per
arrivare, infine, allo Stato territoriale postcoloniale an-etnico.
 Lo Stato multietnico e multilingue. Qui si trova un equilibrio di potere permanente tra
comunità etnolinguistiche.
Dopo la fine del Medioevo, lo Stato-nazione ha costituito un traguardo fortemente sentito in
tutta Europa, basta ricordare lo spettacolare processo dell’unificazione tedesca o di quella
italiana, nell’Ottocento. Oppure la riunificazione della Polonia o il riemergere delle nazioni dei

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Balcani: Grecia; Serbia; Bulgaria; Romania e Albania. Tutte queste nazioni erano all’origine
comunità etniche, con un’unica lingua, che aspiravano a creare uno Stato che coprisse la loro
area linguistica. Tutte queste situazioni mostrano la fondamentale tendenza di qualunque
comunità linguistica ad unirsi e a promuovere la propria lingua come il simbolo della propria
esistenza.
Gli scopi comuni di coloro i quali esercitano il potere legislativo, delle èlites e delle masse,
sono lo sviluppo di un corpus e la conquista di uno status, in una lotta condivisa per il diritto
all’esistenza, all’espressione e all’identità.
L’unità dello Stato-nazione può, però, incontrare alcune difficoltà nelle zone di confine. Basti
ricordare i più antichi tra gli Stati-nazione, ossia la Francia, la Spagna e la Gran Bretagna, che,
dal momento della loro unificazione, hanno combattuto per secoli in difesa della supremazia
della lingua di Stato (il francese, lo spagnolo, l’inglese) su comunità etnolinguistiche
geograficamente marginali – gallese, bretone, catalana, basca ecc. – che si sono viste negare il
diritto di usare la propria lingua negli affari burocratici.
Le minoranze linguistiche sono state trattate come minacce all’unità della nazione, qualsiasi
lingua che non fosse quella dello Stato nazionale veniva condannata alla scomparsa ed era
definita non-esistente.
Questa politica ha avuto un notevole successo contro le piccole comunità linguistiche isolate,
deprivate di ogni possibilità di espressione nella propria lingua. Ad esempio, basti pensare alla
situazione della popolazione di lingua tedesca dell’Alsazia, in Francia, e del Sud-Tirolo, in
Italia. Queste popolazioni hanno dovuto rinunciare alla propria lingua madre, cambiare le
insegne dei negozi e i nomi dei villaggi e delle persone, per apparire pienamente integrate nel
panorama linguistico standard degli Stati-nazione.
Questa stessa politica venne adottata in molti Stati nazionali in tutta Europa, sotto i regimi
democratici, così come sotto quelli comunisti.
Ovunque, la politica linguistica è equivalsa ad una pulizia culturale. L’unica possibilità rimasta
alle popolazioni minoritarie è stata l’assimilazione ufficiale.
Questo modello di politica linguistica venne portato dagli europei oltreoceano. Innanzitutto nei
possedimenti coloniali dove la lingua dei colonizzatori acquistò il diritto di precedenza sulle
lingue indigene. Vi furono delle lievi differenze nel grado di tolleranza verso le culture native.
Ad esempio, i belgi, in Congo, scelsero alcune lingue veicolari, quali il lingala o il kikongo, i
tedeschi usarono i pidgin, invece del tedesco, in Camerun e in Nuova Guinea, o lo swahili
nell’Africa orientale, per agevolare l’amministrazione e la cristianizzazione.
Gli inglesi, in Africa, hanno permesso, in forma indiretta, l’uso delle lingue locali nella scuola

51
di base. Tutte queste scelte non avevano lo scopo di promuovere la cultura nativa, ma erano un
modo per tener fuori le masse native dall’amministrazione, mantenendo lingue ad hoc per
l’esercizio dell’autorità. I poteri coloniali portoghese e francese, soprattutto in Africa, hanno
utilizzato la lingua della madrepatria ed hanno in questo modo formato un piccolo strato di
popolazione assimilata. In India, secondo gli appunti redatti da Macauley nel 1835, gli inglesi
hanno deliberatamente introdotto l’inglese come strumento per ottenere il sostegno degli
amministratori occidentalizzati reclutati sul posto. E gli americani hanno provato a sostituire
l’inglese allo spagnolo nelle Filippine e a Portorico.
Questo modello di politica monolinguistica di unificazione, condotto dagli imperi, ha lasciato
una doppia eredità: nelle Americhe, la politica del melting-pot, che trasforma l’originaria lingua
coloniale nel solo strumento di assimilazione, non soltanto per i nativi, ma anche e soprattutto
per i flussi di immigrati europei provenienti da aree linguistiche differenti: il portoghese in
Brasile, l’inglese negli Stati Uniti, lo spagnolo in venti repubbliche.
In questo modo, ogni Stato americano ha adottato una politica monolingue che gli ha consentito
di mantenere un’identità del tutto originale, quindi la propria unità culturale.
Nell’Africa nera, dopo l’indipendenza, le vecchie lingue coloniali sono state mantenute con
l’obiettivo di promuovere l’unità, non tra gli immigrati, ma all’interno del mosaico delle lingue
etniche native.
Tutti questi Stati territoriali, non etnici, hanno mantenuto intatti i confini loro assegnati dalle
convenzioni tra le potenze europee dopo il Congresso di Berlino (1885). Essi sono divenuti
Stati an-etnici, se non antietnici, poiché non hanno mai rispecchiato effettive aree
etnolinguistiche. La fedeltà etnolinguistica è denunciata come comportamento tribale che mette
a repentaglio l’unità nazionale fondata sulla lingua ufficiale straniera neutra, il portoghese, il
francese, l’inglese.
Ci sono poche eccezioni in cui la lingua nazionale (cioè africana) è associata alla lingua
ufficiale, come accade in Tanzania con lo swahili, in Somalia, in Madagascar, ecc. Questi sono
esempi di Stati-nazione dove la lingua autoctona è sovrastata, nell’uso generale, dalla vecchia
lingua coloniale. In questi casi, la politica linguistica è ambigua poiché celebra le lingue
nazionali e adotta una prospettiva di inerzia totale nei confronti del loro sviluppo.
La pianificazione linguistica ha successo, al massimo, nella promozione dell’uso di alcune
lingue africane rare, nella prospettiva transizionale di accesso alla lingua internazionale di più
ampia comunicazione.
In Africa, lo Stato-nazione endoglottico di matrice europea ha dato origine allo Stato-nazione
esoglottico africano. Entrambi spianano la strada alla formazione dello stesso tipo di Stato

52
strettamente monolingue e favoriscono la promozione di un’unica società monoculturale.
La sopravvivenza della lingua ed il mantenimento della cultura sono ovviamente legati, quindi
è stato corretto che la maggior parte degli stati, temendo il quadro pluralistico della società,
abbia evitato il multilinguismo e lo abbia accettato, il più delle volte, in una prospettiva
transizionale. Ciò per facilitare l’integrazione nel gruppo etnolinguistico e non per preservare,
sul lungo termine, la cultura delle minoranze.

53
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 3 - COMUNITÀ ETNOLINGUISTICHE

2a Lezione - Dinamiche etnolinguistiche e modelli di soluzione politica

La maggior parte degli Stati asiatici si trova nella situazione di Stato-nazione endoglottico,
soprattutto nell’area dell’Asia settentrionale, dove il Giappone, la Corea e la Mongolia non
hanno minoranze autoctone e costituiscono esempi storici di Stati-nazione puri, simili alle
controparti europee.
Gli Stati continentali del Sud-est asiatico (Vietnam, Thailandia, Cambogia, ecc.) sono anch’essi
Stati-nazione, fondati su un unico nucleo etnolinguistico, ma includono tante minoranze interne
o di confine che hanno dovuto affrontare una pressione linguistica assimilazionista.
Anche l’Indonesia e le Filippine tendono ad apparire come Stati-nazione monolingui, con due
lingue i cui nomi sono stati scelti appositamente per esprimere l’ambizione di incarnare la
nazione: indonesiano e filippino.
Tutti gli Stati asiatici sono monolingui, anche in contesti non monoetnici, ad eccezione della
Cina e dell’India che appartengono ciascuna ad una diversa categoria di società multilingue.
Nell’Asia meridionale, paesi come il Nepal, il Bangladesh, lo Sri Lanka, hanno tentato di
investire la propria identità in un’unica lingua nazionale simbolica, per quanto disastrose
potessero essere le conseguenze derivanti dall’esclusione di altre lingue.
Nella parte sud-occidentale, l’Afghanistan è l’unico Stato bilingue; invece l’Iran, la Turchia e
tutti gli Stati arabi sono radicalmente centrati su una sola comunità etnica principale, che non
attribuisce grande importanza alle minoranze, eccetto quando si tratti di adottare una politica di
sradicamento linguistico.
La tradizione degli antichi imperi orientali si è fondata su una tolleranza nei confronti della
molteplicità delle abitudini linguistiche locali delle popolazioni sottomesse.
Poiché la scolarizzazione era privata, non vi era alcun bisogno di una politica linguistica; e non
vi erano nemmeno questioni di pianificazione linguistica poiché la lingua della cancelleria era
una lingua classica.
Questo sistema è durato fino al Novecento, quando è collassato, con l’impero ottomano, a causa
delle rivendicazioni nazionali dei popoli balcanici, del popolo armeno e dei popoli arabi.
La stessa sorte hanno subito gli imperi europei, quello austriaco e quello russo che invece di

54
affrontare con realismo una situazione di multilinguismo e di multietnicità, sono rimasti
attaccati al miraggio della germanizzazione e della russificazione.
La Svizzera è stata, per lungo tempo, l’unico Stato davvero multilingue, l’unico che non abbia
conosciuto ostilità e controversie di natura linguistica. Questa esperienza non è stata capita per
tanti anni ed è stata assunta raramente come modello.
Il secondo esempio pacifico di coabitazione linguistica tra due comunità asimmetriche è quello
della Finlandia: la maggior parte dei finnici, che ha gradualmente superato il 90%, ha
riconosciuto la lingua della minoranza svedese (ex colonizzatori) come avente piena parità di
diritti. In Belgio e in Canada, la coabitazione paritaria tra due lingue è stata più dura e più
difficile da raggiungere; il motivo, simmetrico rispetto all’esempio finlandese, è che, in
entrambi i casi, i gruppi etnici dominanti si sono dimostrati molto riluttanti a considerare in
un’ottica paritaria i gruppi dominati, ed hanno continuamente lottato per mantenerne la lingua
in una posizione minoritaria: l’inglese doveva prevalere sul francese in Canada, il francese
doveva prevalere sul fiammingo in Belgio.
Il pluralismo non è un argomento che riguarda soltanto gli Stati multilingue, ma è un tema
attuale anche degli Stati monolingui tradizionali.
In Gran Bretagna, nonostante il rifiuto al decentramento del potere al Galles e alla Scozia, il
gallese e il gaelico hanno ottenuto un posto ufficiale nelle scuole e nei media. In Spagna, il
nuovo regime costituzionale ha trasformato antiche regioni in comunità aventi diritto al libero
uso e alla promozione della loro lingua, conferendogli autonomia. In Francia, affinché le lingue
minoritarie divenissero tollerate e visibili, ne sono state riconosciute sette, regionali, come
materie di studio scolastico e come lingue di insegnamento nelle scuole materne, così come
sono stati creati diplomi e corsi appropriati. In Olanda e in Germania, anche il frisone ha
ottenuto qualche riconoscimento, così come il lappone della Scandinavia settentrionale. In
Italia, la piena autonomia del Sud Tirolo consente un uso congiunto del tedesco e del ladino.
Nell’Europa orientale la situazione è migliorata dopo la fine dei regimi comunisti. In America,
la questione delle lingue delle comunità linguistiche è diffusa. Il Canada è pervenuto ad un
accordo con gli Inuit e sta procedendo sulla stessa strada con gli Indiani. In Messico e in
Guatemala, le sorti linguistiche delle minoranze rimangono ancora sullo sfondo. In Colombia,
sono state già riconosciute le popolazioni indiane.
Una delle sfide al processo di unificazione europea è costituita dal mantenimento della pluralità
linguistica e culturale a livello nazionale e regionale. Da questo punto di vista, l’unico modello
che potrebbe essere certamente preso in considerazione è quello svizzero.
Gli Stati-nazione sono giunti alla conclusione che ci si debba preoccupare delle popolazioni

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autoctone in quanto tali e che il monopolio della lingua di Stato non risentirà negativamente
dell’emergere delle culture regionali.
Il secondo modello operativo di multilinguismo, per importanza, è rappresentato dall’India con
le sue 18 lingue ufficiali attuali e con i 32 Stati territoriali a carattere linguistico, liberi di
decidere la propria politica linguistica e con una grande esperienza nella pianificazione
linguistica su tre livelli: unione, stati e minoranze. Le controversie che ne sono conseguite
hanno dimostrato che non è possibile consolidare alcun ordinamento linguistico senza il
consenso delle popolazioni coinvolte.
Il continuo equilibrio di potere tra la maggioranza di lingua hindi, le altre 17 comunità principali
e le moltissime altre minoranze locali, esemplifica l’emergere del subcontinente sulla scena
politica, oltre che il suo sviluppo linguistico, in accordo con la volontà delle popolazioni tanto
diverse che lo compongono.
Rimangono, comunque, sempre pochi gli esempi di Paesi in via di sviluppo che adottino un
tipo di politica e di pianificazione linguistica così efficace.
Tra gli altri modelli di soluzione politica alla pluralità etnolinguistica, va ricordato lo Stato
multinazionale di matrice marxista-leninista anche se alla fine si è rivelato un fallimento
politico. Alla fine dell’Ottocento si aprì un dibattito tra i partiti socialisti sulla questione
nazionale, nutrito dalle rivendicazioni linguistiche, culturali e politiche delle tantissime etnie
presenti nell’impero zarista e nell’impero asburgico. I marxisti russi ed austriaci volevano
concedere autonomia ai popoli. I bolscevichi insistevano sull’autonomia territoriale, mentre i
marxisti austriaci rivendicavano l’autonomia culturale personale. Nel 1917-1918, avvenne la
scissione definitiva dell’impero austro-ungarico in Stati-nazione diversi. Soltanto alcune
nazioni, come la Finlandia, i Paesi Baltici e la Polonia poterono difendere la propria
indipendenza, mentre l’Armata Rossa riusciva a recuperare gli altri Stati dissidenti come
l’Ucraina, la Bielorussia, ecc. Il mantenimento territoriale fu reso possibile soltanto perché il
potere centrale sovietico cambiò atteggiamento, infatti furono garantiti il riconoscimento
all’esistenza per tutte le nazionalità su base etnica, la possibilità di sviluppare le proprie lingue
e le proprie culture e la concessione di patrie autonome, in cambio del rientro sotto il controllo
russo.
Così, la Russia sovietica divenne la culla del nuovo Stato multinazionale. Furono disegnate 58
unità territoriali nazionali per collocare all’incirca 100 diverse popolazioni. Fu avviato un
programma di pianificazione linguistica per instaurare l’insegnamento e l’uso delle lingue
etniche come mezzo di comunicazione e per promuovere, attraverso l’alfabetizzazione, quelle
che non erano ancora scritte.

56
In conclusione, 57 popolazioni sovietiche acquisirono un territorio, altre 35 furono ritenute
troppo piccole per poterne usufruire, ed altre 35 ancora furono giudicate popolazioni straniere
(non-sovietiche); a tutte, però, fu riconosciuto il diritto di ricevere l’istruzione nella propria
lingua e tutte le lingue possiedono attualmente una specifica norma grafica.
Questa politica linguistica si rivelò un fallimento, in quanto la maggior parte dei territori non
corrispondeva alle rispettive aree linguistiche; o erano troppo piccoli, e dividevano una
popolazione, oppure erano troppo estesi, rendendo la popolazione locale una minoranza
all’interno della propria patria. Molte aree linguistiche furono divise e/o unite con altre, in
insiemi artificiali.
Praticamente il russo rimase la lingua unica dell’esercito, dell’amministrazione dello Stato,
dell’educazione superiore e dell’avanzamento sociale.

57
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 3 - COMUNITÀ ETNOLINGUISTICHE

3a Lezione - La lingua: espressione e sostegno di una specifica cultura e strumento di


integrazione

La lingua non è solo un semplice mezzo di comunicazione o un mezzo di espressione per


individui e gruppi, ma ogni lingua è innanzitutto l’espressione di una particolare comunità
linguistica ed è portatrice della sua esperienza, del suo sistema di valori e della sua visione del
mondo. Ogni lingua è legata ad una porzione del genere umano, non è un semplice strumento
che chiunque può usare per poco e poi decidere di abbandonare in favore di un altro o per scopi
specifici. Le lingue sono strumenti potenziali di egemonia, dominazione e supremazia dei
popoli gli uni sugli altri.
Ecco perché la politica e la pianificazione linguistica non sono mai esercizi neutrali che
conducono ad opzioni imparziali, quali, ad esempio, la scelta tra diversi sistemi di trasmissione
televisiva.
Ciascuna lingua è un mezzo di comunicazione più o meno valido, e tutte le lingue costituiscono
sistemi di comunicazione su scala regionale o globale. Il fattore determinante per il successo
delle lingue è stato il sostegno che si sono conquistate da parte di Stati, masse, popolazioni e
istituzioni culturali, economiche o militari; il loro successo quindi è dipeso meno dai sistemi di
comunicazione che dai sistemi sociopolitici.

La pianificazione linguistica dell’Unione sovietica


L’apice della pianificazione linguistica artificiale fu raggiunto con la minoranza rumena
dell’Unione Sovietica. Il rumeno parlato nella Repubblica Moldava, fu ribattezzato moldavo;
ai caratteri alfabetici latini furono sostituiti quelli russi e il lessico fu riempito di radici slave e
termini russi; contemporaneamente, venne creata una nazionalità etnica ufficiale moldava,
distinta da quella rumena. Si tentò di fare un lavoro simile di differenziazione artificiale allo
scopo di distinguere il tagico dal persiano del vicino Afghanistan, e il buriat dal mongolo.
Queste lingue e nazionalità artificiali sovietiche avrebbero dovuto convergere
progressivamente verso il russo, nel corso di un processo di avvicinamento tra popolazioni,
l’equivalente del melting-pot americano, che avrebbe condotto alla comparsa del popolo

58
sovietico, ovvero di una nuova realtà etnica studiata a tavolino.
Per quanto il russo fosse la lingua madre di poco più del 50% della popolazione dell’URSS,
esso manteneva ovunque le proprie funzioni privilegiate, e molti territori non avevano altra
lingua ufficiale. Il russo fu designato ad essere la seconda lingua di tutte le altre popolazioni
dell’unione. Il primo passo che fu compiuto fu la russificazione linguistica che avrebbe poi
portato alla russificazione etnica. La differenza tra il primo e il secondo impero stava nella forza
che il nuovo impero aveva in più rispetto al precedente e che consisteva nell’utilizzare le lingue
minoritarie come transizionali verso il russo.
Questo è il motivo per cui ciascuno dei 14 popoli membri dell’unione abbia proclamato la
propria sovranità ed abbia ristabilito o istituito la propria lingua come lingua di Stato, non
appena abbia trovato il momento opportuno per staccarsi dall’impero sovietico.
Ed è anche il motivo per cui tutte le altre popolazioni, costrette a rimanere all’interno della
nuova Federazione Russa, stanno rivendicando uno status più alto rispetto al precedente status
autonomo. Altri chiedono che vengano ridisegnati i loro confini territoriali.

Modello di Stato multinazionale sovietico


Il modello dello Stato multinazionale sovietico è stato esportato anche in Paesi con regime
comunista come la Polonia, l’Ungheria, la Bulgaria, la Germania dell’Est, l’Albania che, pur
essendo rimasti Stati-nazione all’interno del blocco dei Paesi dell’Est, non hanno permesso alle
loro minoranze di trarre benefici da una politica di pianificazione linguistica.
L’ex Cecoslovacchia, dopo il 1968, venne divisa in due repubbliche, dividendosi anche nel
nome, Ceco-Slovacchia, come a sottolineare il rifiuto di fondere le sue due lingue e i suoi due
popoli. Il 1° gennaio 1993, nacque la Repubblica Federale Slovacca costituita da due Stati
sovrani e da due lingue separate.
La ex-Jugoslavia fu l’unico regime comunista europeo ad introdurre il federalismo e la
multinazionalità secondo il modello russo, qui furono progettate sei repubbliche per i cinque
popoli jugoslavi che parlavano tre lingue diverse, più un vasto numero di nazionalità minori
dotate del diritto alla propria lingua.
Questo sistema però è collassato nonostante fosse uno dei più liberali riguardo all’uso
linguistico nelle scuole, ma al tempo stesso, uno tra i più autoritari nella rigidità
dell’ordinamento territoriale. La ragione è che, come in Russia, il regime riconosceva soltanto
sulla carta l’uguaglianza tra i popoli e le lingue, ma poi persistevano le dominazioni della
popolazione maggioritaria, che manteneva il controllo assoluto dei livelli più alti
dell’amministrazione dello Stato, del partito e dell’esercito.

59
Modello di Stato unitario multinazionale cinese
La Repubblica Popolare Cinese, introdusse il modello sovietico divenendo uno Stato
multinazionale unitario. Essa però non si definisce federalista, in quanto questo sistema politico
si basa soltanto alla riconosciuta differenziazione della popolazione in molte nazionalità
(minzu, ufficialmente 56), tra le quali ci sono le non-Han (non-cinesi) che rappresentano meno
del 10% della popolazione totale. Da qui, la decisione di creare numerosi distretti cinesi comuni,
dotati di “autonomia nazionale”.
I confini geografici di queste unità territoriali, non corrispondono alle aree etniche concrete. Ad
esempio, la popolazione tibetana, vede il proprio territorio diviso in più unità, oppure gli
zhuang, che sono la minoranza più ampia, occupano una regione esageratamente ampia.
I gruppi che governano queste unità, sono solitamente a maggioranza cinese.
La pianificazione linguistica, si è mossa per dare un sistema grafico alle lingue minoritarie non
scritte e poi, ha razionalizzato i sistemi di scrittura esistenti, ma questo processo è stato poi
interrotto da Zhou Enlai, nonostante fosse un liberale.
L’unica lingua insegnata nelle scuole è il cinese, anche all’interno dei territori tibetani e coreani.
Le lingue minoritarie non vengono mai utilizzate come mezzo di insegnamento, solo raramente
vengono insegnate come materie di studio.
È evidente che lo scopo e il risultato della pianificazione linguistica sia quello di condurre tutti
all’uso del cinese.

La politica linguistica e i sistemi multilingui


Le lingue sviluppate, di più ampia comunicazione sono circa dieci, ciascuna delle quali, parlata
da poco più di un milione di persone ed estese su più Continenti.
Le lingue nazionali sono circa ottanta e sono impiegate per uso scolastico ed amministrativo,
stesso numero corrisponde alle lingue regionali o autoctone emergenti; e poi ci sono centinaia
di lingue native, la maggior parte delle quali non ancora studiate.
Le politiche linguistiche mirano a favorire le lingue nazionali e a dare una funzione
transizionale alle lingue regionali, autoctone o native locali. Tutto ciò, però, si contraddice al
fatto che ogni lingua è legata ad una cultura e che ogni cultura merita di essere preservata. Si
dovrebbe cercare di preservare l’originalità e di salvaguardare l’eredità culturale delle
popolazioni che parlano una particolare lingua all’interno della loro specifica situazione
ambientale.

60
A tal proposito, è intervenuta la Conferenza di Rio, la quale ha promosso l’idea della difesa
della biodiversità. La lingua è una risorsa umana, ma nonostante ciò, in un’epoca in cui Stati
stanno devastando le risorse del pianeta, è difficile da diffondere l’idea della preziosità delle
lingue.
I linguisti e coloro che si occupano di pianificazione, non dovrebbero essere servitori delle
culture dominanti, ma dovrebbero considerare la possibilità di aiutare le minoranze a mantenere
in vita il proprio sistema di conoscenze e a trovare la propria via allo sviluppo, per preservare
la biodiversità della cultura umana.

61
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 3 - COMUNITÀ ETNOLINGUISTICHE

4a Lezione - Il bilinguismo e la diglossia

Definizione di diglossia
Ferguson definisce la diglossia come la situazione costituita da due lingue stabili in contatto,
dove la varietà-H ha la funzione di lingua superiore, che domina tutti i settori pubblici, e la
varietà-L quella di variante non-codificata, usata in famiglia e con gli amici.
La diglossia è l’esempio della coesistenza di due lingue i cui valori sono complementari:
«Questa scissione si rifletteva nell’uso della lingua superiore (High language) nella sfera
religiosa, scolastica e dell’alta cultura in genere, e nell’impiego, invece, della lingua inferiore
(Low language) nei problemi quotidiani della sfera sentimentale, domestica e del lavoro»
(Fishman, 1971).
Fishman, a differenza di Ferguson, non applica la nozione di «diglossia» soltanto al caso di due
varietà della stessa lingua, ma egli denota qualsiasi situazione in cui ci siano differenze nette
tra sistemi linguistici e classe sociale.
Entrambi sono concordi nel ritenere che la lingua H non viene, normalmente, appresa in
famiglia, come parte dei processi primari di socializzazione, ma è un risultato dell’educazione
scolastica.

Definizione di bilinguismo
Fishman definisce il bilinguismo diverso dalla diglossia per il fatto che le differenze linguistiche
(di qualsiasi tipo) non sono strettamente correlate a distinzioni di classe istituzionalizzate:
«Vediamo così che il bilinguismo è essenzialmente una caratteristica della versatilità linguistica
individuale, mentre la diglossia è una caratterizzazione dell’assegnazione sociale di funzioni a
differenti lingue o varietà» (Fishman, 1971).
Fishman utilizza il termine «lingua» più in senso metaforico che specifico: «In definitiva, la
lingua della scuola e del governo rimpiazza quella di casa e del rione, e precisamente perché
finisce coll’assegnare il rango tanto nel primo ambiente quanto nell’altro» (ivi, 297), qui non si
capisce se il termine «lingua» si riferisca ad una varietà (codice, registro, ecc.) o ad un sistema
di comunicazione grammaticalmente definito. Fishman poi continua: «Molti studi su

62
bilinguismo e intelligenza o su bilinguismo e risultati scolastici sono stati condotti nel contesto
di una situazione di bilinguismo senza diglossia» (ivi, 297), esponendosi alle critiche in cui si
espose Bernstein per la mancanza di chiarezza.

Incontriamo la coesistenza eterogenea di due lingue e la coesistenza della diglossia e del


bilinguismo, in gruppi sociali numerosi. Gli esempi di comunità di parlanti in cui si sono
sviluppati un comportamento linguistico specificamente diglossiale ed un altro specificamente
bilingue, sono pochi. Possiamo ricordare gli Stati Uniti, la Svizzera, il Paraguay e l’India.
Esistono comunità di parlanti in cui le varietà linguistiche si distinguono nelle varianti H e L.
In queste comunità riscontriamo un comportamento in cui prevale l’èlites dominante (varietà-
H), che vive nettamente a distanza dalla massa ed intenzionalmente se ne separa con la lingua.
Questa è la situazione in cui si trova la diglossia senza bilinguismo.
Ci sono, invece, situazioni in cui riscontriamo il bilinguismo, mentre la diglossia è quasi
assente. Il comportamento linguistico bilingue, si presenta in modo differenziato a seconda
della situazione, dei ruoli e dei fini della comunicazione. Il bilinguismo senza diglossia lo
ritroviamo nella maggior parte della società, ma è una situazione instabile, in quanto sottoposta
a improvvisi mutamenti legati a parametri sociali eterogenei (immigrazioni, spostamenti, ecc.).
Una situazione, invece, che sta per estinguersi è quella dell’assenza di bilinguismo e diglossia.
Questa situazione si riscontra in comunità di parlanti che hanno pochi contatti con l’esterno.

Conservazione e perdita di una varietà linguistica


Ciò che determina la stabilità o il cambiamento di una situazione linguistica è la configurazione
di dominanza, relativa alle varie sfere del comportamento sociale.
Dalla configurazione di dominanza possiamo dedurre se una lingua accresce il numero delle
sfere in cui è parlata, o se invece, tende a diminuire, da una sfera all’altra. Ad esempio, una
varietà linguistica che non è usata in famiglia tende a perdersi e non a conservarsi.
Secondo Fishman, il modificarsi di una configurazione di dominanza si svolge in quattro stadi,
come si vede nella tabella in basso, il primo dei quali consiste nell’apprendimento di una nuova
lingua sul posto di lavoro, mentre l’ultimo è costituito dall’uso nella sfera familiare di questa
lingua da poco appresa. Egli prende come esempio l’acculturazione degli immigrati negli Stati
Uniti tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento, presentando il modificarsi di una
configurazione di dominanza, relativamente a sfere dove si parlava esclusivamente una lingua
(sfere a lingue separate) e ad altre in cui entrambe le lingue venivano utilizzate (sfere bilingui).

63
Costellazione linguistica nelle varie sfere di comportamento
sociale
Tipo di parlante bilingue Sfere bilingui Sfere a lingue separate
2. stadio: un maggior Stadio iniziale:
numero di immigranti l’immigrazione impara
padroneggia meglio l’inglese l’inglese con l’aiuto della
e può rivolgersi agli altri sua lingua materna.
nella lingua materna o in L’inglese è utilizzato
inglese (mediato dalla lingua soltanto in quelle sfere in cui
Composto o interdipendente
materna) in alcune sfere del non può essere utilizzata la
comportamento. Interferenza lingua materna (posto di
elevata. lavoro, uffici pubblici).
Interferenza minima.
Soltanto alcuni immigranti
sanno qualcosa di inglese.
3. stadio: le lingue 4. stadio: l’inglese ha
funzionano cacciato la lingua materna da
indipendentemente l’una tutte le sfere, fuorchè da
dall’altra. Il numero dei quella intima. L’interferenza
bilingui è massimo. L’uso diminuisce. Nella maggior
linguistico bilingue che si parte dei casi le due lingue
Coordinato o indipendente interseca nelle sfere è funzionano
massimo. La seconda indipendentemente: negli
generazione è ancora altri la lingua materna è
bambina. Interferenza mediata dall’inglese
stabilizzata. (tendenza inversa rispetto
allo stadio iniziale, ma dello
stesso tipo).

Tipo di parlante bilingue e costellazione linguistica nelle varie sfere, durante i successivi stadi di acculturazione
degli immigranti (da Fishman, 1971, 306)

64
Fishman (1971, 310-24) considera tre tesi sul cambiamento di lingua come generalizzazioni
problematiche:
 La conservazione di una lingua è una funzione dell’integrità o della lealtà di gruppo,
particolarmente di manifestazioni ideologizzate di lealtà di gruppo, per un interesse
nazionalistico.
 La popolazione urbana tende più che la popolazione rurale ad un mutamento di lingua.
 La lingua di prestigio più alto scaccia quella di prestigio più bassa.

65
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 3 - COMUNITÀ ETNOLINGUISTICHE

5a Lezione - Gli atteggiamenti nei confronti delle varietà linguistiche

Possiamo valutare gli atteggiamenti linguistici sulla base di due differenti posizioni teoriche
(cfr. Fishman/Agheyisi, 1970, 138 ss.):
1. La posizione mentalistica
2. La posizione comportamentistica
Fishman/Agheyisi si rifanno a fonti degli anni Trenta-Quaranta per illustrare queste due
posizioni. In base alla concezione mentalistica gli atteggiamenti sono «una situazione della
disponibilità condizionata dal punto di vista psicologico e dal punto di vista nervoso» (138).
Gli atteggiamenti, quindi, non sono direttamente osservabili, ma devono essere dedotti
dall’introspezione dei soggetti esaminati.
La posizione comportamentistica, invece, considera gli atteggiamenti come una variabile
dipendente. «Una posizione rigorosamente comportamentistica colloca gli atteggiamenti nel
comportamento o nelle reazioni effettivamente osservabili. Questo tipo di approccio, dunque,
non incontra problemi al livello dell’analisi, perché gli atteggiamenti sono stati definiti
esclusivamente in termini dei dati osservabili» (138). In base a questa posizione, l’introspezione
viene decisamente esclusa e gli atteggiamenti non possono essere utilizzati per spiegare altre
forme del comportamento.
I mentalisti attribuiscono agli atteggiamenti una «struttura componenziale complessa» (per es.
Lambert), mentre i comportamentisti li considerano come una «componente globale» (per es.
Osgood et al., 1957).
Le concezioni sulla struttura dell’atteggiamento si definiscono multicomponenziale e
unicomponenziale e sono rappresentate nella seguente immagine.

66
Struttura dell’atteggiamento: quattro concezioni teoriche (da Fishman/Agheyisi, 1970, 140).

Lambert sostiene che gli atteggiamenti siano costituiti da tre componenti:


 cognitiva (nozioni coscienti);
 affettiva (valutazione);
 intenzionale (rivolta all’azione).
Secondo Rokeach (1968), sono composti in primo luogo da intenzioni, in base alle quali
possono poi costituirsi tipi di comportamento cognitivo, affettivo e manifesto.
Osgood, invece, menziona soltanto la componente affettiva; poi questa definizione è stata
modificata da Fishbein (1965), secondo cui gli atteggiamenti e le intenzioni possono

67
cristallizzarsi in un oggetto: i primi sono affettivi, mentre le seconde possiedono una
dimensione cognitiva ed una rivolta all’azione (139 ss.).
Fishman (142 ss.), classifica in un ampio grafico, diversi studi empirici legati alle differenti
concezioni teoriche, secondo i metodi impiegati in ciascuno di essi.
I due metodi più importanti sono:
 La misura dell’impegno («commitment measure»);
 La «matched guise technique».

La misura dell’impegno descrive la disponibilità delle persone a comportarsi in un certo modo


senza mostrare apertamente questo comportamento. Oltre a domande a cui si deve rispondere
per iscritto, la misura dell’impegno esamina anche risposte orali, che vengono registrate su
nastro. Le misurazioni sono condotte soprattutto su individui bilingui (Fishman et al., 1968).

La matched guise technique, creata da Lambert et al. (1960) descrive le reazioni valutative di
determinati gruppi nei confronti di singole lingue, rappresentate da enunciati dei loro parlanti.
Le misurazioni sono state condotte per tantissime lingue (per es. francese, arabo, inglese;
dialetti: diversi dialetti americani non-standard). Il metodo consiste nel far valutare a
determinati gruppi di soggetti le caratteristiche della personalità dei parlanti le cui voci sono
registrate su nastro. Queste voci sono di parlanti bilingui. Inoltre si tiene conto, oltre che delle
valutazioni della personalità, di altre variabili come i pregiudizi, il grado di bilinguismo, gli
atteggiamenti, ecc.
La maggior parte delle descrizioni dell’atteggiamento linguistico sono state condotte con la
matched guise technique.

Ricerca di Stewart sulle comunità multilingui


Stewart classifica le comunità multilingui in base a quattro tipi linguistici:
1. Grado di standardizzazione;
2. Grado di autonomia;
3. Tradizione linguistica (storicità);
4. Vitalità (come lingua parlata).
I tipi linguistici, indicati con lettere maiuscole, devono essere specificati secondo funzioni
linguistiche, contrassegnate da lettere minuscole, e a cui vanno ascritti questi attributi: (I)
ufficiale (u), (II) provinciale (p), (III) comunicazione a distanza (l), (IV) internazionale (i),
(V) capitale (c), (VI) gruppo (g), (VIII) materia scolastica (s), (IX) letterario (lt), (X) religione

68
(r). Con l’aiuto di dei tipi linguistici e delle funzioni linguistiche si possono costruire profili di
comunità di parlanti bilingui.
Per ogni tipo linguistico deve essere fornito anche il grado del suo uso, in percentuale.
I gradi d’uso si possono suddividere nelle sei classi seguenti:
 Classe I = 75%
 Classe II = 50%
 Classe III = 25%
 Classe IV = 10%
 Classe V = 5%
 Classe VI = al di sotto del 5%
Possiamo fornire il seguente profilo sociolinguistico per il gruppo delle isole Curaçao (Antille
Olandesi):

Gruppo delle isole Curaçao


Classe I Papiamentu C (diglossia; la varietà-H è
lo spagnolo)
Classe IV Olandese S, u
Inglese S, i, g, s
Classe V Spagnolo S, i, s, cu (diglossia: la
varietà-L è il papiamentu)
Classe VI Ebraico CR, r
Latino CR, r, s
(Da Stewart, 1964)

69
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 3 - COMUNITÀ ETNOLINGUISTICHE

6a Lezione - Il plurilinguismo

Il plurilinguismo è molto diffuso nel mondo, a qualunque livello di comunità linguistica si


faccia riferimento. Situazioni di bi- o plurilinguismo sono ormai da ritenere normali. In effetti,
una qualche esperienza di plurilinguismo fa parte della vita quotidiana di ciascuno di noi, della
comunicazione, anche di chi sia rigidamente monolingue.
Possiamo ritenere che nel nostro paese è diffuso una sorta di bilinguismo, sia pure con caratteri
un po’ particolari rispetto al bilinguismo propriamente detto, che si rifà ai dialetti italo-romanzi.
Inoltre, nelle comunità urbane è sempre più semplice entrare in contatto con le multiformi
lingue dell’immigrazione straniera: inglese, francese, spagnolo, portoghese, romeno, polacco,
arabo, hindi, cinese, tamil, swahili, ecc.
La diffusione della comunicazione mediata dal computer, porta la popolazione ad entrare in
contatto con l’inglese, almeno scritto, lingua di Internet e della globalizzazione. Quindi, il
plurilinguismo rappresenta un’esperienza anche per il nostro paese, il quale era
tradizionalmente considerato un paese monolingue.
Il contatto tra sistemi linguistici è coessenziale col plurilinguismo e può condurre alla
formazione di varietà di contatto o di vere e proprie lingue miste.
Ci sono paesi, soprattutto, in Africa o in Asia, dove i repertori linguistici mostrano un altissimo
grado di plurilinguismo. Il Camerun, ad esempio, che conta 15 milioni di abitanti (2001), ha
più di 200 lingue (un computo attendibile porta a 239 lingue differenti). In cima alla classifica
stanno l’inglese e il francese, lingue della colonizzazione, che sono entrambe lingue ufficiali e
scolastiche, utilizzate nell’amministrazione e nell’educazione a tutti i livelli: «il governo redige
i documenti ufficiali utilizzando entrambe, lasciando che i cittadini scelgano l’una o l’altra nei
contatti ufficiali e scritti con lo stato. Il bilinguismo ufficiale è l’unico ammesso
nell’insegnamento dalla scuola elementare all’ Università» (Turchetta, 1996).
È bene precisare che in Camerun c’è una ripartizione geografia dell’anglofonia e della
francofonia: il francese è diffuso a sud, nelle ex colonie francesi, l’inglese a nord. Poi vi sono
una serie di lingue locali, soprattutto del gruppo bantu, che sono riconosciute come lingue
nazionali, mentre 22 lingue sono lingue radiofoniche, tra queste c’è il WAPE (West African

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Pidgin English). Questa è la più diffusa delle lingue veicolari, cioè quelle lingue che, pur non
essendo lingua materna di nessun gruppo della popolazione, vengono utilizzate come lingua
seconda di intercomunicazione tra i parlanti delle varie etnie e lingue.
Contesti estremamente plurilingui sono il territorio ideale di coltura per la formazione di lingue
di contatto e di lingue miste e per la formazione di lingue pidgin.

Le lingue di contatto
Le lingue di contatto o lingue di collegamento, sono spesso varietà semplificate di una delle
lingue materne dei gruppi che sono in contatto; può succedere, in situazioni sociolinguistiche
speciali, che un contatto intensivo porti a una vera e propria fusione delle grammatiche di due
lingue in contatto, formando una vera e propria lingua mista. Può anche capitare che vi sia un
marcato plurilinguismo senza contatti intensivi, ma con la necessità di uno strumento
comunicativo d’emergenza per la comunicazione elementare, in questo caso si forma il pidgin.
Una lingua di contatto può essere considerata il cosiddetto Fremdarbeiteritalienisch (italiano
dei lavoratori stranieri), rintracciato negli anni ‘80 del ‘900 nelle aree urbane della Svizzera
germanofona. Si tratta di un insieme di varietà di italiano L2, con fenomeni di semplificazione,
interferenza del tedesco, utilizzata in diversi ambienti lavorativi come lingua veicolare fra
lavoratori stranieri immigrati di diversa provenienza (portoghesi, spagnoli, serbi, macedoni,
ecc.) e fra questi e i loro colleghi di origine italiana.
Oggi, la lingua veicolare planetaria per eccellenza è l’inglese. In situazioni speciali di
plurilinguismo e sotto particolari condizioni, possono nascere produzioni linguistiche altamente
devianti. Un esempio è dato dal messaggio sotto riportato. Si tratta di un messaggio di aiuto
scritto a mano dal famoso alpinista altoatesino Reinhold Messner (madrelingua tedesca) in una
situazione di estrema emergenza e di drammatico coinvolgimento emotivo, a causa di un
incidente avvenuto il 2 giugno 1970, quando era di ritorno dalla traversata di un difficile 8000
himalayano, il Nanga Parbat, durante la quale aveva perso il fratello. (Il biglietto è ripreso da
R. Messner, Die weisse Einsamkeit. Mein langer Weg zum Nanga Parbat, Malik, Munchen
2003 «La solitudine bianca. Il mio lungo cammino al Nanga Parbat»).

I am in Diamar e non can go. I have face the first ascension of Nanga Parbat per site Rupal e
ritearn per versant Diamar. Please port me pe elicopter to Faram o. Gilgit. I have the foot
corupt end I finisch in 1 o 2 days. The Leader of the expedition, is strong in bas-camp-Rupal,
Dr. Karl Herrligkoffer, pay all. Please me porter in securitat.

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«Sono sul (versante) Diamir e non posso camminare. Ho fatto la prima ascensione del Nanga
Parbat dal lato Rupal e ritorno per il versante Diamir. Per favoreportatemi in elicottero a Faram
o Gilgit. Ho il piede rotto e muoio in un giorno o due. Il capo della spedizione è fermo al campo
base del versante Rupal, il Dott. Karl Herrligkoffer, paga tutto. Per favore portatemi in
sicurezza».

Da questo messaggio viene fuori un inglese molto rudimentale, quasi incomprensibile,


mescolato con elementi provenienti dall’italiano e dal tedesco (le due lingue di Messner),
possibilmente dal francese, e con neoforme occasionali. Elementi del tutto italiani sono e, non,
o; e sembrano basati sull’italiano face come participio passato di «fare», e port per «portare»,
mentre me porter sarà francese, e versant potrebbe essere sia francese che improntato
all’italiano. Finisch ha grafica tedesca, e corupt è una sovraestensione semantica del
corrispondente termine inglese corrupt. Securitat sembra franco-tedesco con la semantica
dell’inglese security. Infine, ritearn ed end stanno per return ed and.

Le lingue miste
Lingua mista è un termine tecnico che non può essere adoperato per tutti i casi in cui vi sia
passaggio di materiali da una lingua ad un’altra, ma va riservato a quei casi in cui si sia formata
una nuova lingua con la fusione grammaticale e lessicale di due lingue preesistenti (v. Bakker,
Mous 1994; in generale, sulle lingue di contatto v. Sebba 1997).
Un esempio di lingua mista è la Media Lengua (mezza lingua), parlata nell’Ecuador centrale da
un migliaio di parlanti nativi, derivata dalla fusione di spagnolo, lingua coloniale, e quechua,
lingua indigena. Riportiamo il seguente esempio (Muysken 1994):
a) Unu faburta pidingabu binixuni «vengo a chiedere un favore»
b) Shuk faburda manangabu shamuxuni (quechua)
c) Vengo para pedir un favor (spagnolo).
È evidente come in Media Lengua abbiamo radici lessicali dello spagnolo con morfologia e
grammatica quechua. Tutte le radici lessicali delle quattro parole della frase (a) sono prese dallo
spagnolo. Invece la morfologia flessionale e l’ordine dei costituenti sono del quechua.

I pidgin
I pidgin si formano in situazioni di contatto fra parlanti di parecchie lingue diverse e molto
lontane tra loro. I pidgin sono spesso annoverati fra le lingue miste, ma in realtà non sono lingue

72
miste, ma nuove lingue, valide per la comunicazione essenziale e quindi con un certo
ammontare di semplificazione che prendono materiali vari dalle lingue che sono venute in
contatto e le rielaborano attraverso processi di ‘grammaticalizzazione’, creando delle vere e
proprie grammatiche diverse da quelle delle lingue di contatto.
Un pidgin deve essere trasmesso da parlanti non nativi a parlanti non nativi: i parlanti di una
lingua A apprendono il pidgin B sentendolo parlare da parlanti di lingue C e D, che si rivolgono
a loro in B; infatti, solitamente, il pidgin non ha parlanti nativi.

73
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 4 - SOCIOLOGIA APPLICATA ALLA LINGUA:


PIANIFICAZIONE DEL MUTAMENTO SOCIALE E PIANIFICAZIONE DEL
MUTAMENTO LINGUISTICO

1a Lezione - Un laboratorio d’inchiesta: l’isola di Martha’s Vineyard

Guy Lowman, circa trent’anni fa, si recò sull’isola di Martha’s Vineyard, nella contea di Dukes
(Massachusetts), per un’inchiesta sui modelli sociali del mutamento fonetico.
Egli intervistò quattro membri delle vecchie famiglie dell’isola per avere una solida base di
partenza dal punto di vista generazionale.
Per avere un quadro preliminare della situazione, è opportuno osservare la mappa dell’isola e
la tabella in cui sono presenti i dati demografici relativi al censimento del 1960 (US Bureau of
the Census, 1962), sotto illustrate. Per la presente indagine, i rilevamenti sono tratti dall’Atlante
Linguistico del New England (Lane) (Kurath et al., 1941).

Disposizione dei 69 informatori a Martha’s Vineyard

74
L’isola è divisa in due parti: isola alta (up-island) ed isola bassa (down-island). Nell’isola bassa
vivono i tre quarti della popolazione stabilmente residente, mentre l’isola alta è un’area
prevalentemente agricola, con pochi villaggi, paludi, fattorie, ed una grande zona centrale
disabitata occupata da distese di pini.
Procedendo dalla zona alta, si incontra la regione di West Tisbury, dove ci sono le più belle
fattorie e campagne dell’isola, ma adesso sono incolte e spopolate di bestiame. Nella zona di
Chilmark, troviamo tante colline che, da un lato, predominano l’Atlantico, e dall’altro lo stretto
di Vineyard. Qui troviamo lo stagno salato di Chilmark che funge da porto, in quanto comunica
con lo Stretto attraverso un piccolo canale. Infine, all’estremità sud-occidentale dell’isola, si
trova il promontorio di Gay Head e le case dei 103 indiani rimasti a rappresentare l’isola di
Martha’s Vineyard.

Popolazione di Martha’s Vineyard


Isola bassa (aree urbane) 3.846

Edgartown 1.118
Oak Bluffs 1.027
Vineyard Haven 1.701

Isola alta (aree rurali) 1.717

Edgartown 256
Oak Bluffs 292
Tisbury 468
West Tisbury 360
Chilmark 238
Gay Head 103

Totale 5.563

Gli abitanti dell’isola di Martha’s Vineyard si dividono in quattro gruppi etnici endogami. Vi
sono i discendenti delle antiche famiglie inglesi, che per prime colonizzarono l’isola nei secoli
XVII e XVII: i Mayhews, i Norton, gli Hankock, gli Allen, i Tilton, i Vincent, i West, i Poole
– tutti imparentati dopo dieci generazioni di matrimoni misti fra loro. Poi troviamo un grande

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gruppo portoghese, immigrato dalle Azzorre, da Madeira e dalle Isole di Capo Verde. Essi si
trovano lungo tutta la costa sud-orientale del New England, ma a Martha’s Vineyard si trova la
percentuale più alta di tutte le contee del Massachusets. Nel 1960, il totale dei portoghesi di
prima, seconda, terza e quarta generazione raggiunge il 20% della popolazione (US Bureau of
the Census, 1962).
Il terzo gruppo etnico è quello degli indiani nativi di Gay Head. Il quarto gruppo, invece, è
misto perché è formato da soggetti di varia origine: irlandese, tedesca, polacca, inglese, franco-
canadese. Tale gruppo non verrà preso in considerazione nel presente lavoro, in quanto non si
tratta di una forza sociale unitaria vera e propria, sebbene ricopra il 15% della popolazione. Un
altro gruppo è quello del grandissimo numero di residenti estivi (circa 42.000) che affluiscono
sull’isola ogni anno, tra giugno e luglio.

Relitti lessicali inglesi nell’isola di Martha’s Vineyard


L’isola, a causa della lunga colonizzazione inglese durata 320 anni, ha preservato molti tratti
arcaici tipici del New England sud-orientale prima del 1800. L’elemento più radicato è il
mantenimento di /r/ in posizione finale e preconsonantica. Tra i parlanti più anziani, troviamo
largamente diffusa la /o/ breve del New England.
Sono presenti, inoltre, termini tipici del XVII secolo, come ad esempio bannock (dolce fritto di
farina di granturco), studdled (acqua sporca), oltre a parole quali tempest e buttry, registrate nel
Lane.

Strutture sociali e linguistiche


Le informazioni più importanti sono state raccolte nel corso di 69 interviste a parlanti nativi
dell’isola, effettuate in tre periodi: agosto 1961, settembre-ottobre 1961, gennaio 1962.
La campionatura è più proporzionale all’area piuttosto che alla popolazione: 40 soggetti sono
dell’isola alta e 29 sono dell’isola bassa, sebbene più del 70% della popolazione viva nell’isola
bassa. Sono rappresentati i principali gruppi occupazionali: 14 soggetti lavorano nel settore
della pesca, 8 nell’agricoltura, 6 nell’edilizia, 19 nel settore dei servizi, 3 nelle libere
professioni, 5 sono casalinghe e 14 sono studenti. Sono, inoltre, rappresentati i tre principali
gruppi etnici: 42 soggetti sono di origine inglese, 16 di origine portoghese e 9 di origine indiana.
Come risultato di queste 69 interviste sono state ottenute circa 3.500 occorrenze di /ai/ e 1.500
di /au/, che costituiranno gli elementi fondamentali della suddetta indagine.

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Nel seguente diagramma viene rappresentato il grado di centralizzazione per ciascun parlante,
espresso dalla media dei valori numerici relativi ai gradi di centralizzazione di ciascuna
occorrenza elencata. Si può trovare l’indice di centralizzazione medio per ciascun gruppo di
persone calcolando la media dei CI (indice di centralizzazione) dei membri del gruppo. Il
diagramma ci dimostra che la centralizzazione varia con la fascia d’età del parlante.

Indici di centralizzazione per fascia d’età


CI /ai/ CI /au/
Oltre 75 anni 0,25 0,22
61-75 0,35 0,37
46-60 0,62 0,44
31-45 0,81 0,88
14-30 0,37 0,46

La centralizzazione per /ai/ e /au/ mostra un incremento regolare con il progredire dell’età,
raggiungendo un picco nel gruppo 31-45 anni.
Questo schema costituisce la prova di un mutamento storico nell’evoluzione linguistica di
Martha’s Vineyard.
Da quest’indagine, si è giunti alla conclusione che vi sono non meno di 14 variabili fonologiche
che seguono la regola per cui varianti più alte o più chiuse sono caratteristiche dei parlanti nativi
dell’isola alta, mentre varianti più basse e aperte sono caratteristiche dei parlanti dell’isola
bassa, condizionati dall’influsso del continente.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 4 - SOCIOLOGIA APPLICATA ALLA LINGUA:


PIANIFICAZIONE DEL MUTAMENTO SOCIALE E PIANIFICAZIONE DEL
MUTAMENTO LINGUISTICO

2a Lezione - Retroterra sociolinguistici e sociopolitici

Kjolseth (1971, 10) cerca di valutare realisticamente le radici della sociolinguistica applicata:
«Quando fattori socioeconomici sembrano richiedere nuove discipline scientifiche per dare una
risposta a bisogni nascenti, ma non si presenta lo sviluppo intellettuale necessario, difficilmente
si può pensare che si svilupperà un nuovo campo di ricerca».
La sociolinguistica, a partire dagli anni Sessanta, è diventato uno dei rami più significativi delle
scienze sociali negli Stati Uniti, proprio perché i «bisogni» erano grandi.
Kjolseth (1971) conduce una ricerca (i problemi della povertà vengono improvvisamente
«riscoperti»), in cui mette in luce i retroterra del boom della sociolinguistica in America:

(I) «...in società complesse, storiche…molte differenze sociali sono legate alla lingua: la lingua
cioè svolge un ruolo importante nella ripartizione ineguale, all’interno della società, di valori
sociali positivi e negativi, tanto materiali quanto simbolici» (11);
(II) «…assieme alla ‘riscoperta’ della povertà, anche i problemi dell’educazione, come quelli
dello ‘sviluppo’, sono da poco tempo considerati questioni sociali, e come tali divengono
l’oggetto di programmi governativi»;
(III) «…i gruppi svantaggiati, che negli ultimi tempi si sono dati un’organizzazione – come i
neri o i Chicanos (americani di origine messicana) – vedono nella scuola, che considera
l’acquisizione di determinate capacità linguistiche come uno dei punti qualificanti
dell’istruzione, un’importante leva della loro tensione sociale. Si sa, ad esempio, che le scuole
in cui c’è una forte concentrazione di minoranze culturali, linguistiche ed etniche sono
caratterizzate da un «massiccio fallimento in lettura» (Labov, 11)». «…Questo processo di
presa di coscienza di un problema sociale non è rappresentabile senza i moti sociali negli ultimi
tempi originati negli Stati Uniti dalle minoranze linguistiche» (Labov, 12).
(IV) «Recentissimamente, con la creazione di nuove organizzazioni economiche
sovranazionali, è venuto in primo piano il problema del cosiddetto sviluppo, e sembra esserci

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chiara coscienza che molti dei problemi da risolvere sono legati alla lingua. Ciò significa che
si considera una parte importante del programma di sviluppo economico la creazione di una
‘infrastruttura linguistica’…» (Labov, 12).

Sulla base di queste considerazioni, Kjolseth indica che cosa si intende per politica linguistica:
«È compito del governo, naturalmente, mettere alla prova la sua capacità di essere in condizione
di reagire a cose che gruppi importanti dell’elettorato, con cui ha ‘da fare i conti’, definiscono
questioni e problemi sociali» (Labov, 12).
Se dunque la sociolinguistica è «compito del governo», bisognerebbe esaminare i retroterra
politici che rendono necessaria una simile «riscoperta» e non accontentarsi dell’affermazione
che «in determinati periodi viene ‘riscoperta’ la povertà».

Rapporto tra società capitalistica americana e ghettizzazione degli afro-americani


L’elemento decisivo delle ricerche sociolinguistiche è la loro applicazione e il loro successo,
ciò è stato dimostrato dalle critiche che si sono scatenate contro l’ipotesi del deficit dopo il
fallimento dei programmi di compensazione linguistica che essa aveva ispirato (vd. unità
didattica 2. Lezione 4).
Si deve nuovamente richiamare l’attenzione sulle esigenze sociopolitiche che stanno dietro ai
programmi di educazione compensativa per i bambini vittime di privazioni (soprattutto neri
abitanti nei ghetti) – perché esse valgono anche per le ricerche sulla lingua nel contesto sociale.
All’inizio degli anni Sessanta, i 2/5 della popolazione americana, vivevano in condizione di
povertà cronica (duBois-Reymond, 1971, 25).
Nella situazione peggiore si trovano i neri che vivono nei ghetti ed altre minoranze etniche,
come i Portoricani (Fishman et al., 1968), i Chicanos (Stolz/Bills, 1968) e gli Indiani. I gruppi
maggiormente discriminati sul mercato del lavoro sono i neri, soprattutto i giovani:

«Nel 1970 il numero dei giovani disoccupati (dai 16 ai 19 anni) si aggirava sul 15,3% (quota
generale dei disoccupati: 4,9%). La percentuale dei disoccupati afro-americani è doppia rispetto
a quella dei bianchi. Tra i giovani neri, nel 1970 circa il 30% era disoccupato (contro il 13,5%
dei giovani bianchi). Tra il 1968 e il 1980 la manodopera nera sarà cresciuta da 9 a 12 milioni»
(duBois-Reymond, 39, 27).

Inoltre, una percentuale tra il 30% e il 40% dei giovani di tutte le etnie abbandona le scuole

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superiori senza ultimarle. Il 5% non finisce neppure l’ottava classe. Il numero delle professioni,
soprattutto quelle tecniche, è salito a circa il 54% (duBois-Reymond, 38 ss.).
Questi dati, seppur pochi, ci mostrano come è compromessa la stabilità economica e sociale del
paese. Tale situazione ha portato a conflitti razziali, a lotte dei neri per rivendicare i loro diritti,
ed ha indotto il governo e l’industria privata a coalizzarsi per superare la crisi.
A tal proposito, sono state adottate misure a breve termine e misure a lungo termine.
Le misure a breve tempo prevedono la «pacificazione dei ghetti» con l’intervento delle forze
armate, inoltre vengono istituiti dei centri di conflitto.
Le misure a lungo termine prevedono investimenti industriali nei ghetti, creazione di posti di
lavoro e programmi di educazione compensativa per chi soffre di privazioni.
Ma è chiaro come queste misure siano per tenere sotto controllo «la dinamite sociale» (J. B.
Conant, duBois-Reymond, 40) e far sì che gli afro-americani e le altre minoranze si adattino
alle necessità della società capitalistica; quindi bisogna eliminare l’analfabetismo e soddisfare
il bisogno di manodopera qualificata.
Il ruolo del sistema educativo, e soprattutto dell’educazione compensativa, è quello di
smascherare il rapporto sfavorevole all’eguaglianza delle possibilità che è solo un abbellimento
di facciata, la realtà viene nascosta, cioè la concorrenza. È proprio la concorrenza il fondamento
della società capitalistica. Si ignora la diseguaglianza economica e sociale e si riduce
l’insuccesso nell’ascesa sociale a un fallimento individuale.
Kennedy, per motivare la sua richiesta di contributi statali nell’istruzione, si rifà all’aspetto
economico di una nazione industriale basata sulla concorrenza che vuole sfruttare le sue risorse
intellettuali e alla fede degli americani nel diritto fondamentale di ogni individuo al pieno
dispiegamento delle proprie capacità.
La «guerra contro la povertà» che inizia Kennedy nel 1963 e prosegue Johnson, deve essere
valutata in base al seguente richiamo all’uguaglianza delle possibilità: «La cultura guida
l’individuo verso i tesori più belli della nostra società aperta: la forza del sapere; l’istruzione
necessaria per un lavoro produttivo; la saggezza; gli ideali e i piaceri culturali che arricchiscono
la vita; ed una feconda ed autodisciplinata comprensione della società, caratteristica di ogni
buon cittadino in un mondo che continuamente si trasforma». (42).
Per eliminare il sottoprivilegio e la crisi dell’istruzione furono emanate una serie di leggi:
 Civil Rights Act (1964);
 Economic Opportunity Act (1964);
 Elementary and Secondary Education Act (1965);

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 Juvenile Delinquency and Youth Offenses Control Act (1961, completato nel 1965);
 Manpower Development and Training Act (1963);
 Education Professions Development Act (1967)
(Per i particolari cfr. duBois-Reymond, 50 ss.).

In conclusione, il fallimento dei programmi di compensazione, oltre ad essere attribuito alla


provata falsità delle premesse e dei metodi della ricerca (Labov, 1970), viene anche attribuito
al fatto che continua a sussistere la contraddizione fondamentale della società capitalistica e
cioè l’appropriazione privata della ricchezza socialmente prodotta, a svantaggio dei bambini
delle classi povere, in quanto, questo fallimento indica la difficoltà e l’impossibilità di questi
bambini a trarre profitto e ad adattarsi alla business society (società degli affari).

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 4 - SOCIOLOGIA APPLICATA ALLA LINGUA:


PIANIFICAZIONE DEL MUTAMENTO SOCIALE E PIANIFICAZIONE DEL
MUTAMENTO LINGUISTICO

3a Lezione - Nuove proposte per l’educazione dei bambini ghettizzati

La «rivoluzione intellettuale» della sociologia della lingua (Kjolseth, 1971, 14), nata dalla
«guerra contro la povertà» promossa da Kennedy (1963), può essere rappresentata in cinque
fasi:
1. Costituzione della sociolinguistica come conseguenza di interessi governativi; prime
pubblicazioni: 1964.
2. Dal 1964 al 1967: discussione programmatica sullo statuto scientifico della nuova
disciplina.
3. Dal 1966: vasti studi empirici sui neri nei ghetti e sulle minoranze etniche concludono
la discussione programmatica.
4. Dal 1968 al 1972: teorizzazione della sociolinguistica, che comporta l’esame di
problemi strettamente linguistici e di problemi sociologici di più vasta portata (Labov,
1970; Grimshaw, Fishman in Fishman, 1971).
5. Sviluppo di metodi per l’applicazione della ricerca sociolinguistica; questo problema è
strettamente legato all’elaborazione di concetti teorici e, a partire dal 1969, è quello
fondamentale (cfr. Baratz/Shuy, 1969; Fasold/Shuy, 1970, e altri).

Dunque il concetto di «competenza comunicativa» (Hymes) non c’è dubbio che sia stato
elaborato per la mancanza di una teoria linguistica «a cui possa affidarsi la ricerca pratica, con
il solo bisogno di applicarla» (Hymes, 1968, 1; versione rielaborata di una conferenza del 1966).
Sulla base di studi sociolinguistici e di psicologia dell’età evolutiva (Shuy/Wolfram/Riley,
1967; Baratz, 1969; Labov et al., 1968) sono stati formati dei professionisti nell’insegnamento
della lingua e della lettura ai «ragazzi svantaggiati» (cfr. Baratz, 1970, 28).

L’IS (inglese standard) e l’AAVE (inglese vernacolare afro-americano) nei ghetti


Un elemento decisivo per i problemi scolastici e per l’integrazione nella società dei ragazzi neri

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è visto nel loro uso dell’AAVE e nelle difficoltà che ne derivano nell’imparare a leggere. Labov
(et al., 1968, I, 13) a tal proposito scrive: «Il punto fondamentale di questa ricerca, tra quanti
riguardano i problemi dell’istruzione, è costituito dai problemi connessi con la lettura, nei ghetti
urbani» e, da questo punto di vista, «l’insuccesso nella lettura» deve essere inteso come un
conflitto funzionale e strutturale tra IS ed AAVE.
Dal punto di vista del conflitto strutturale, il problema riguarda il se e come deve essere
insegnato l’inglese standard; le posizioni sono tre:
 L’eradication (lo sradicamento) consiste nel sostituire l’AAVE con l’IS attraverso
misure rigorose (correzione, addestramento). - Questo era il metodo tradizionale.
 Il bidialettismo funzionale visto come scopo dell’integrazione. Il bambino deve
imparare a passare da una varietà linguistica all’altra a seconda delle situazioni, quindi
l’insegnamento a scuola dell’IS non deve soppiantare l’uso dell’AAVE a casa.
 Questa posizione vuole abbattere i pregiudizi dei parlanti-IS nei confronti dell’AAVE,
ma mette in dubbio l’efficacia (tempo, sforzo, successo) dei programmi-IS per gli
svantaggiati (Fasold/Shuy, 1970).

La maggior parte degli autori segue la seconda posizione (cfr. Shuy, 1964; Baratz/Shuy, 1969;
Fasold/Shuy, 1970), che di recente è stata propagandata con un’accentuazione politica dalla
Baratz (cfr. Baratz/Baratz, 1970). La Baratz (in Fasold/Shuy, 1970) considera lo sviluppo verso
la standardizzazione, verso la padronanza di una lingua (= uso nei domini essenziali per la
società), come un processo naturale: «L’esistenza dell’inglese standard non è frutto di una
cospirazione sociale per ‘tenere in basso l’uomo nero’. Piuttosto la standardizzazione è un fatto
di vita. Le società sono socialmente stratificate. Una varietà della lingua diventa la varietà
standard» (Fasold/Shuy, 1970, 25).
Con la stessa indifferenza, Fishman (1971) descrive la varietà-H (varietà alta) e la varietà-L
(varietà bassa), sostenendo che sono sempre esistite e che strutturalmente vanno considerate
complementari: «…una lingua H viene impiegata nelle funzioni religiose, a scuola e in altre
manifestazioni dell’alta cultura e una lingua bassa (L) nei problemi familiari di ogni giorno,
nelle faccende domestiche e nella sfera dei lavori più umili».
In questo quadro generale, in cui vi è una concezione idealistica della società, considerata come
qualcosa di naturalmente dato, il bambino afro-americano deve conformarsi e quindi imparare
l’IS, altrimenti «perderà la possibilità di inserirsi nel mainstream, della cultura americana. Dato
che l’inglese standard è la lingua del mainstream, è chiaro che la conoscenza del sistema
mainstream accresce il successo nella cultura mainstream» (Baratz, 1970, 26).

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Quindi l’obiettivo del sistema scolastico è «la produzione di cittadini istruiti che dispongano di
una cultura mainstream e contribuiscano al suo sviluppo» (Baratz, 1970). Per «contributo alla
cultura mainstream» si intende «contributo alla produzione di ricchezza appropriata dai
privati».
Williams, (in Williams, Language and Poverty, Institute for the Research on Poverty of the
University of Wisconsin pursuant to the provision of the Economic Opportunity Act of 1964,
1970, 396), riferendosi alla contraddizione che nell’ideologia della società capitalistica nasce
tra diritto all’uguaglianza delle possibilità e concorrenza, sostiene che:

«Negli Stati Uniti, la stretta correlazione tra possibilità economiche e capacità di essere
funzionale alla ‘mainstream society’ è della massima importanza per la soluzione di questo
problema. A questo proposito possiamo considerare equivalenti, almeno in parte, la capacità di
essere funzionali con quella di aver padronanza della lingua della società. Quando chiediamo
di parlare ad una persona di imparare e di utilizzare un modo di parlare, gli chiediamo nello
stesso tempo di essere funzionale (anche se, talvolta, solo ad un basso livello) a quella società».

La maggior parte degli autori sostengono, nelle loro analisi, che i problemi riguardanti i ragazzi
neri, non si hanno soltanto con le interferenze tra inglese standard e inglese vernacolare afro-
americano, ma riguardano anche i diversi valori culturali e sociali del ceto medio bianco;
«alcune delle nostre scoperte mostrano chiaramente che il problema generale è costituito da un
conflitto culturale, su cui i dati linguistici ci forniscono soltanto un’indicazione» (Labov et al.,
1968, I, 2). Questi valori e queste norme vengono descritti come un’informazione sociotecnica
necessaria per l’elaborazione di nuovo materiale di studio.
Labov et al, (1968, II, 44 ss.) descrivono, di seguito, i valori propri dei peer group-AAVE:

«Desideriamo mettere in chiaro che noi non offriamo ‘spiegazioni’ del comportamento
deviante, né che sosteniamo che questo quadro di riferimento è la causa di atti criminali. E
neppure ci pronunciamo sul fatto se l’esser cattivo sia concepito come essere moralmente
cattivo dal punto di vista dei membri del gruppo… In genere è vero, per quanto riguarda i peer
groups di adolescenti, che essi si ribellano contro l’autorità degli adulti, e che professano valori
che si oppongono ai valori che dominano nella società adulta.
Gli adolescenti della classe operaia ammirano i rapinatori dei treni, i gangsters di quartiere, e i
tipi strafottenti che si ribellano all’insegnante; ma questa contrapposizione di valori tocca anche
molti ragazzi della classe media. Non stiamo sostenendo qui che i valori dell’essere ‘cattivo’

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sono una prerogativa della cultura AAVE. Comunque, si può dire che dovunque queste
contrapposizioni sono fortemente radicate nei peer groups, ci sarà resistenza al sistema
scolastico; e con quanta maggiore forza gli insegnanti e i libri di testo esalteranno la nozione di
essere ‘buono’, tanto più gli adolescenti AAVE tenderanno a respingere sia la forma che il
contenuto dell’istruzione».

Pensando ad una riforma della scuola, Labov (II, 348) dice espressamente che: «le scuole
debbono rimanere fedeli al loro sistema di valori, per dare ai ragazzi dei ghetti una visione
realistica delle norme e delle pratiche della nostra società e trasmettere il valore di una società
regolata da leggi». Egli, come procedimento tattico, propone di collegare l’insegnamento
dell’inglese standard nelle prime classi «direttamente ai valori che sono già dati, per ottenere
successo tout court». Ciò significa che devono adattarsi sia il contenuto dei libri di testo, sia il
comportamento degli insegnanti, se si vuole essere più efficaci ai valori AAVE.

85
MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 4 - SOCIOLOGIA APPLICATA ALLA LINGUA:


PIANIFICAZIONE DEL MUTAMENTO SOCIALE E PIANIFICAZIONE DEL
MUTAMENTO LINGUISTICO

4a Lezione - I conflitti sociali nei peer groups

Labov (II, 32) osserva interessanti differenze tra il modo di comportarsi dei peer group e quello
dei lames (individui isolati). Egli dimostra, con un esempio, che i peer groups hanno il principio
di non assalire mai alle spalle un loro compagno e sottolinea che i neri hanno un comportamento
criminale nei confronti degli altri neri. I lames, invece, si sono uniformati alle norme standard,
hanno successo a scuola, e offrono sotto ogni aspetto, delle prestazioni migliori per ciò che
concerne la cultura mainstream.
Per conformare i peer groups all’inglese standard e ai valori del ceto medio ad esso legati, è
quindi necessario rompere la solidarietà di gruppo che lega i ragazzi dei ghetti.
Gumperz (1970) esamina, invece, in rapporto alla scuola, l’uso linguistico dei neri e dei
Chicanos, con i suoi specifici significati culturali e sociali. Egli osserva che l’incapacità di
apprendere dei bambini avviene in questo modo: i bambini dei ghetti associano il
comportamento dell’insegnante, che per i bambini è normale, con gli interrogatori degli
assistenti sociali, e automaticamente rifiutano ogni tipo di collaborazione. Gumperz giunge alla
conclusione che l’insegnante deve imparare a conoscere gli aspetti linguistici ed etnografici del
comportamento linguistico dei suoi alunni, così come deve pure imparare a conoscerne i valori
culturali, in modo da poter superare, con «metodi adeguati», la loro incapacità di apprendere e
la loro inadattabilità (Gumperz, 142).
Dunque possiamo confermare che i conflitti sociali sono unicamente conflitti di valori, e la
ricerca di Gumpertz ne è una dimostrazione.

Rapporto della duBois-Reymond su un corso di addestramento


Nel 1966, nel quadro di un progetto di interazione scolastica nel quartiere di Riverside, la
duBois-Reymond fa un rapporto su un corso di addestramento, il cui scopo è quello di preparare
gli insegnanti alla «diversità culturale» della popolazione, puntando sulla sensibilizzazione di

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alcuni problemi:

«Concetto di cultura;
evoluzione dell’uomo e della cultura;
l’influsso profondo e onnicondizionante della cultura sulla personalità e il comportamento
umano;
concetto di posizione sociale e di sottocultura oggi, specialmente negli Stati Uniti;
il ruolo della scuola nella trasmissione della ‘cultura generale’ della nostra nazione».
(Preliminary Report and Evaluation of the Riverside, «Service Institute», August 26, 1966; in
duBois-Reymond, 1971, 132).

La duBois-Reymond scrive (133):


«L’addestramento alla comprensione di culture diverse è forse uno dei metodi più ingegnosi
per armonizzare la distanza di valori, materialmente condizionata, tra insegnante del ceto medio
e bambino del ceto basso, e dare inizio così ad un mutamento sociale controllato e rispondente
ai bisogni».
Questo atteggiamento viene confermato da Labov, quando effettua delle osservazioni sui
quattro compiti fondamentali dell’insegnante ausiliario, uno specialista del ghetto (di sesso
maschile) fornito di una particolare preparazione:

«I suoi doveri consistono in quattro funzioni principali:


1. procurare con continuità all’insegnante regolare materiale informativo su avvenimenti
locali e di immediato interesse, da utilizzare come materiale di studio e di lettura;
2. familiarizzare l’insegnante con la struttura del peer groups, che è quella dominante fuori
e dentro la scuola;
3. offrirsi come guida ai giovani e curare la loro disciplina, soprattutto durante gli esercizi
sportivi;
4. tenere contatti coi giovani anche al di fuori della scuola, e scoprire se e quale successo
hanno i programmi scolastici nell’esercitare un influsso sul loro pensiero o nel
modificarlo» (II, Raccomandazioni, 348).

Raccomandazioni per l’integrazione dei ragazzi afro-americani (Labov, II, 346)

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Labov, al fine di favorire l’adattamento dei peer groups allo standard e ai valori della scuola,
fa quattro raccomandazioni:
1. I libri di lettura per gli scolari dei primi anni devono essere scritti in dialetto regionale.
Le forme-AAVE possono essere sostituite da forme-IS passando da un brano di lettura
ad un altro, progressivamente.
2. La diffusa opinione di dover «insegnare l’inglese standard come una lingua straniera»
è sviante ed erronea. L’IS non è una lingua straniera per i parlanti- AAVE. Ciò che si
deve insegnare può essere deciso solo in base alle regole elaborate in questa ricerca.
3. La crisi della scuola deve essere superata facendo studiare agli insegnanti la lingua e la
cultura AAVE. Bisogna poi formare degli insegnanti ausiliari, che devono svolgere i
seguenti compiti (v. sopra). Poiché questo studio dimostra che i ragazzi neri disprezzano
le donne, come insegnanti ausiliari bisognerà formare soltanto uomini.
4. Le scuole devono rimanere fedeli al loro sistema di valori, ma devono assumersi il
compito di socializzare i giovani neri: «…di dare loro una concezione realistica delle
norme e delle abitudini della nostra società; di insegnare piani a lunga scadenza per il
futuro; di dimostrare il valore di una società retta da leggi; e di promuovere scopi
educativi più elevati. Ma ai livelli più bassi l’insegnamento dell’IS deve legarsi
direttamente ai valori esistenti, se vuole avere successo. Le scuole devono dimostrare al
ragazzo AAVE che può imparare l’inglese standard per il suo utile immediato, come un
mezzo per indurre altra gente a fare quello che lui vuole. Dire che l’inglese standard
significa quattrini in banca è facile, ma è difficile da dimostrare in termini di obiettivi a
breve scadenza che siano chiaramente visibili e credibili. Ma non è forzato dire che
l’inglese standard è utile per fare digressioni, discussioni, richieste e anche per lanciare
insulti. La cosa più importante è programmare sistematicamente la rottura
dell’identificazione tra inglese standard e società bianca» (II, 348 ss.).

Gli insulti rituali degli afro-americani


Una caratteristica tipica delle attività verbali dei ragazzi neri sono gli insulti rituali (Labov et
al., 1968, II) tra le quali non bisogna dimenticare i toast, lunghe poesie epiche, che in parte sono
rimaste con eccezionale abilità artistica e presentano un complicato ritmo interno (II, 55-75). Il
canto di canzoni, i toast, gli insulti rituali sono strettamente connessi ai valori sociali degli
abitanti dei ghetti, i più importanti dei quali sono la solidarietà tra membri di uno stesso gruppo
e la violazione delle norme del ceto medio.

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Gli insulti rituali sono atti linguistici in cui i parlanti tentano in ogni modo di offendere, alla
presenza del gruppo, un altro parlante. Si tratta di una sorta di gioco linguistico in cui due
parlanti si scagliano offese violente, mentre gli astanti li stimolano a fare di più con plausi. In
base a determinate regole, perde chi non riesce più a superare l’altro a parole.
Nella maggior parte dei casi, gli insulti rituali sono insulti alla madrelingua dell’altro parlante.
Sono sempre presenti minimo tre partecipanti: l’antagonista A, l’antagonista B e l’ascoltatore.
Labov non sa dare una spiegazione di questi fatti linguistici, tipici dei parlanti AAVE, pertanto
come scienziato che si limita a descrivere, ne prende le distanze dicendo:

«…in questo studio non ci occupiamo di ricercare gli effetti psicologici soggiacenti del
sounding (insulti). Ci occupiamo dello sviluppo di regole di discorso e di standard di eccellenza
in questa attività verbale, che contrastano nettamente col basso livello dei risultati scolastici
ottenuti da questi stessi parlanti» (II, 116).

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 4 - SOCIOLOGIA APPLICATA ALLA LINGUA:


PIANIFICAZIONE DEL MUTAMENTO SOCIALE E PIANIFICAZIONE DEL
MUTAMENTO LINGUISTICO

5a Lezione - Rapporto tra lingue e parlanti in Italia e nel mondo

I comportamenti linguistici sono una parte costitutiva molto importante della vita sociale. Le
persone parlano, scrivono e conversano, quindi sono soggetti attivi, produttori e riceventi di
messaggi linguistici.
Vi è tuttavia un altro genere di fatti che sono dotati di rilevante interesse per ciò che riguarda la
lingua e la società.
Di seguito riportiamo una tabella che rappresenta il linguaggio usato dalle famiglie in alcune
regioni italiane.

Persone di 6 anni e più secondo il linguaggio abitualmente usato in famiglia per regione
Solo o Solo o Sia italiano sia Altra lingua
prevalentemente prevalentemente dialetto
italiano dialetto
Piemonte 58,6 11,4 27,3 2,3
Valle d’Aosta 55,5 12,6 24,4 7,1
Lombardia 58,3 10,7 27,9 2,0
Trentino Alto- 24,3 23,1 15,3 36,4
Adige
Veneto 22,6 42,6 23,7 3,9
Lazio 58,9 8,1 29,8 1,8
Campania 21,5 30,5 46,7 0,5
Puglia 31,6 17,7 49,8 0,4
Sicilia 23,8 32,8 42,5 0,2
Italia 44,1 19,1 32,9 3,0

90
(Istat 2002)

Questi dati statistici, riportati in percentuale, sono tratti da un’inchiesta condotta nel 2000
dall’Istat su un campione di circa 20.000 famiglie, per un totale di 55.000 persone.
Tali dati devono essere interpretati con una certa cautela, in quanto ottenuti con sondaggi in cui
si chiede ai soggetti di riferire come si comportano linguisticamente in determinate situazioni,
e pertanto non sono osservazioni dirette della realtà.
La prima osservazione da fare è quella di notare la forte diversità da una regione all’altra. Il
dialetto è molto meno diffuso nell’Italia del Nord-Ovest, mentre è largamente diffuso nell’Italia
del Nord-Est e lo è ancora di più nell’Italia meridionale.
Un altro elemento che spicca è che un terzo degli italiani usa in famiglia, sia l’italiano che il
dialetto, quindi la popolazione italiana può in un certo senso definirsi bilingue.
Focalizzando l’attenzione sulla Valle d’Aosta, notiamo che mostra una situazione analoga a
quella del Piemonte, con la sola differenza di 7,1% contro 2,3% per «altra lingua».
La Valle d’Aosta è un’area bilingue con lingua minoritaria (italiano/francese), ma in realtà
questa regione ha un repertorio linguistico che si può definire trilingue, in quanto comprende
l’italiano e il francese come lingue ufficiali e il patois francoprovenzale. Oggi il francese in
Valle d’Aosta è essenzialmente lingua scritta, di cultura, utilizzata soprattutto in ambito
politico-amministrativo. Per «dialetto» si intende il francoprovenzale, nella forma dei vari
patois locali, da ritenere molto significativi, tranne che ad Aosta città e nella bassa Valle.
Berruto (2003), prendendo in considerazione la Valle d’Aosta, ha svolto un’indagine nel 2002,
con circa 7250 persone (su una popolazione residente totale di circa 120.000 abitanti)
intervistandole mediante un questionario circa l’uso e gli atteggiamenti riguardo le varietà
linguistiche presenti nella regione.
Di seguito riportiamo la tabella (Berruto 2003):

(F) Secondo lei, in Valle d’Aosta, conoscere il francese è…/ À votre avis, en Vallèe d’Aoste,
connaitre le français est…
(P) Secondo lei, in Valle d’Aosta, conoscere il francoprovenzale (patois) è…/ À votre avis, en
Vallèe d’Aoste, connaitre le francoprovençal (patois) est…

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Fondamentale Molto Abbastanza Poco Del tutto
importante importante importante irrilevante

F P F P F P F P F P
Aosta centro 13,8 6,4 28,6 18,2 36,2 28 9,7 26,7 11,8 20,07
Ayas 9,6 30,9 29,5 37,6 40,6 24,1 16,2 5,6 4,1 1,9
Cogne 18,5 27,6 41,8 44,1 29,7 15,6 8 9,6 2 3
Courmayeur 24,3 16,3 36,6 22,4 32,7 28,7 5,4 19,1 1,1 13,5
Rhemes- 21,1 41,4 22,7 23,5 42,3 23,6 3,9 8,5 10 3
Notre-Dame
Torgnon 30,3 45,2 41,1 27 22,2 19,7 1,8 3,2 4,7 4,8
Verrès 11,1 15,9 27,7 27,9 42 32,7 12,1 9,8 7,1 13,7
Valle d’Aosta 15,9 17 30,6 25,4 36,2 29,5 10 16,1 7,3 11,9

In questa tabella, notiamo che l’importanza del francese nei giudizi dei vari soggetti intervistati,
varia molto da località a località. È molto alta a Torgnon (71,4%), mentre è relativamente bassa
nei comuni di Ayas, di Verrès e di Rheme-notre-Dame.
Un’altra considerazione da fare è sull’importanza attribuita al patois. A Torgnon e a Cogne gli
è assegnata notevole importanza, a Cogne addirittura più del francese.
La località che assegna poca importanza al patois è Aosta centro, ciò a testimonianza di come
la città sia più ostile al dialetto.

Uno sguardo fuori i confini italiani


Di seguito riportiamo una tabella che riguarda il rapporto fra le lingue e i parlanti nel mondo.

Lingue del mondo (da Baker, Eversley 2000, con integrazioni; cifre tra parentesi in milioni).
Per numero Per numero Differenza Numero di
(stimato) di (stimato) di percentuale paesi
nativi parlanti
Cinese mandarino 1. (800) 1. (1000) +25% 16

92
Hindi/urdu 2. (550) 3. (900) +64% 23
Inglese 3. (400) 1. (1000) +150% 105
Spagnolo (400) 4. (450) +12,5% 44
Arabo 5. (200) 6. (250) +25% 30
Bengali 6. (190) (250) +32% 9
Portoghese 7. (180) (250) +39% 34
Russo 8. (170) 5. (320) +88% 31
Malese/indonesiano 9. (165) 9. (190) +15% 8
Giapponese 10. (120) 10. (130) +8% 27
Tedesco 11. (100) 11. (125) +25% 41
Francese 12. (90) (125) +39% 54
Wù 13. (85)
Coreano 17. (75)
Vietnamita (75)
Italiano 19. (70) (75-80?) +7-14%? 30 (4)

Nella prima colonna è rappresentato il numero presumibile dei parlanti che hanno quella lingua
come lingua madre, appresa nella socializzazione primaria.
I primi due posti sono occupati dalle due lingue principali dei paesi più popolosi del mondo,
Cina e India.
Nella seconda colonna sono rappresentati i numeri totali di parlanti fluenti le varie lingue.
Nella terza colonna è espressa la percentuale tra la prima e la seconda colonna.
È da osservare come accrescono sempre più di importanza l’inglese e il russo.
La quarta colonna indica, invece, il numero dei paesi in cui ogni lingua è parlata.
In conclusione, è significativo osservare come nella lista delle grandi lingue del mondo
appaiano tutte le principali lingue europee.

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MODULO 6 - LINGUISTICA

UNITÀ DIDATTICA 4 - SOCIOLOGIA APPLICATA ALLA LINGUA:


PIANIFICAZIONE DEL MUTAMENTO SOCIALE E PIANIFICAZIONE DEL
MUTAMENTO LINGUISTICO

6a Lezione - Le ricerche empiriche

Il problema principale della ricerca empirica è quello di sapere quali informazioni si devono
ricavare, su quale tipo di comportamento linguistico, da parte di quali parlanti e in che modo.
Per trovare una soluzione a questo problema, attualmente i procedimenti sono due:
1. L’impostazione correlativa
2. L’impostazione funzionale

Impostazione correlativa
Nell’impostazione correlativa, la lingua viene usata come uno strumento per comunicare
informazioni sull’ambiente materiale dei soggetti parlanti, infatti i dati vengono raccolti
attraverso questionari e interviste. La relazione tra categorie linguistiche e categorie sociali è
vista come un rapporto tra sistemi strettamente legati, ma indipendenti. La condizione
socioeconomica, il luogo di nascita, il gruppo di appartenenza, sono tutte categorie che valgono
come indizi sociali. Tali categorie sociali vengono trattate come variabili dipendenti.

Impostazione funzionale o etnometodologica


Gumperz (1967), sostiene che l’inadeguatezza della misurazione correlativa è superata
dall’impostazione interazionale (es. Garfinkel, Cicourel), la quale si basa sul principio che le
informazioni sulle categorie sociali devono essere ottenute soltanto per mezzo della lingua.
La misura sociologica, non perde mai di vista le categorie da misurare, sia nell’informante che
nell’intervistatore:

«Come il significato delle parole è determinato dal contesto, le categorie sociali devono essere
interpretate in rapporto a restrizioni situazionali. Concetti come condizione o ruolo non sono

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proprietà permanenti dei parlanti, ma divengono piuttosto simboli comunicativi astratti.
Possono essere isolati in modelli astratti, ma sono sempre percepiti in contesti determinati. Così
si cancella la distinzione tra categorie linguistiche e sociali.» (Gumperz, 1967, 132).

La comunicazione è, quindi, un processo nel corso del quale i parlanti modificano gli stimoli
dell’ambiente esterno secondo il loro retroterra culturale e ne derivano le norme comunicative
per la relativa situazione.
Nell’immagine riportata di seguito vedremo come le norme guidano la selezione dei segnali
verbali attraverso il processo comunicativo spiegato da Gumperz.

Il processo comunicativo secondo Gumperz (1967, 133).

La linea doppia indica la distinzione tra il processo comunicativo e gli stimoli esterni che
vengono trasformati in simboli comunicativi da una categorizzazione cognitiva.
Successivamente, ogni contenuto informativo che un parlante vuole comunicare viene
trasformato da restrizioni sociali (diagramma ad albero). Queste restrizioni condizionano
l’identità sociale del parlante, i suoi diritti e i suoi doveri in determinate situazioni sociali e in
determinati ambienti. Da questo processo deriva, la scelta di una varietà linguistica, che

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determina il tipo di canale comunicativo (scritto, orale, ecc..) e le regole fonologiche e
sintattiche.
Il sociolinguista che mira ad una descrizione dettagliata della variazione linguistica deve
scoprire le regole normative che stanno alla base dell’esecuzione. Questo può avvenire soltanto
con un’osservazione fatta da interviste non precostituite, da protocolli e registrazioni di
conversazioni.
Per ottenere metodicamente dati linguistici validi, il ricercatore deve fare una serie di cose:
scegliere dei parlanti, avere una presa di contatto con loro, disporre di tecniche di registrazione,
definire i parametri sociali e linguistici.
Sulla ricerca linguistica empirica si possono formulare cinque assiomi metodologici (Labov),
fondati sull’attuazione di un progetto di «ricerca sul campo» (Labov, 1966 e 1968):
1. Cambiamento di stile
In base alla situazione sociale e al tema della conversazione i parlanti cambiano i loro stili,
caratterizzati da determinati tratti linguistici.
2. Attenzione
L’«attenzione» è il criterio in base al quale possono essere definiti stili diversi: «…gli stili
possono essere disposti lungo una sola dimensione, misurata in base all’attenzione prestata al
discorso» (Labov). Quest’ipotesi risale all’osservazione che i parlanti, tanto in un discorso
disinvolto quanto in uno dotato di forti coloriture emozionali, impiegano le stesse variabili
linguistiche. Il fattore comune a entrambi i modi di parlare è che al parlare viene prestata
scarsissima attenzione.
3. Dialetto regionale
Dato che il dialetto regionale rappresenta il mezzo di comunicazione naturale dei parlanti ed è
difficilmente sottoposto al loro autocontrollo, esso fornisce una buona base di dati sul
comportamento linguistico naturale.
4. Formalismo
Questo assioma indica il carattere di situazione linguistica formale che è proprio di quella in
cui ha luogo l’intervista. «Qualsiasi osservazione sistematica di un parlante definisce un
contesto formale in cui l’attenzione prestata al discorso è più del minimo indispensabile». Per
quanto la situazione dell’intervista sembri naturale e distesa, bisogna presumere che il parlante
possa disporre anche di un altro stile oltre a quello che si manifesta nell’intervista.
5. Dati utilizzabili
Nonostante varie obiezioni o la presenza di altre possibilità (ad es. sedute di gruppo), l’intervista
individuale e registrata su nastro offre la possibilità più solida per una raccolta sistematica dei

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dati linguistici.
(Dittmar, 1978).
Questi assiomi conducono a un paradosso metodologico, la cui soluzione è molto importante
per la ricerca empirica (Labov, 1970, Fishman, 1971, 170 ss.).
Paradosso dell’osservatore: «Scopo della ricerca linguistica su una comunità di parlanti è
scoprire come la gente parla, quando non è sottoposta ad un’osservazione sistematica; ma solo
con un’osservazione sistematica possiamo raccogliere questi dati» (Labov, 171).

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