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Nicola Spinosi

L'anno dello sbarco sulla Luna


Racconti
Titoli:
La pianista
La vispa Teresa
Una sconosciuta da Hong Kong
Barchette di carta
Una vedova
L'anno dello sbarco sulla Luna
Lathe biosas
La stufa
Una bancherella a Bratislava
Un genere crepuscolare di introspezione
La chiosa

I testi sono riferiti in terza o in prima persona a un


certo Fausto Cosimi, nato dopo la fine della seconda
guerra mondiale. Ogni riferimento a fatti o a
persone della realtà va considerato con scetticismo.
La pianista

Il convalescente Fausto doveva farsi visitare da un


medico legale che avrebbe poi eseguito, per conto
dell'assicurazione del feritore, una perizia allo scopo
di stabilire la percentuale di invalidità da riconoscere
al ferito. L'appartamento del medico si trovava in
una zona della città che Fausto non conosceva
ancora e che quindi attirò la sua attenzione. Arrivato
sul posto in anticipo – era il primo pomeriggio - non
mancò di guardarsi attorno con cura. Prevalevano
alti edifici di colore bianco le cui pareti esterne
consistevano in grandi tessere rettangolari che
qualcuno, nell'occasione Fausto, avrebbe potuto
scambiare per grandi pezzi del Domino. Non
mancavano i “pallini”, tuttavia bianchi. Ampie le
finestre quadrate. L'insieme, realizzato attorno a una
piazza rettangolare quasi nuda e vagamente
“metafisica”, pensò Fausto, era nuovo e perciò
ancora non lavorato dall'uso degli abitanti, del resto
in quel momento non visibili. Individuato il portone
d'ingresso dell'edificio in cui abitava il medico,
Fausto azionò un pulsante nell'apposito pannello
cromato - “Dottor I. Boni - medico legale” - e, dopo
poche decine di secondi, gli venne aperto. L'atrio era
spazioso e rinfrescato da una quantità di piante,
luminoso inoltre, perché il portone d'ingresso
consisteva in un grande cancello vetrato cui
corrispondeva, dalla parte opposta, un cancello
identico. Oltre, Fausto intravide un giardino. Salito in
ascensore al quinto piano, Fausto fu ammesso
nell'appartamento da una donna del tipo casalinga -
cortese ma tacita. Nell'interno, come all'esterno
dell'edificio, prevaleva il colore bianco. Non c'era
un'ombra, quasi, le grandi finestre illuminavano
senza pietà gli ambienti, anzi: l'ambiente. Fausto,
lasciato solo dalla signora, vide che l'appartamento
occupava due livelli: infatti lungo il corridoio
d'ingresso, spazioso, spoglio e però scintillante di
svariati arredi in acciaio, a sinistra c'era una
balaustra e, sotto, un salone arredato con scaffali su
cui largheggiavano poco numerosi libri, con poltrone
in acciaio e cuoio nero; in fondo, un pianoforte a
coda nero, chiuso il coperchio della cassa, era per
metà coperto da spartiti, tanti da formare una
distesa che in disordine continuava sul pavimento.
Alle pareti del salone erano appese foto montate “a
giorno” le cui immagini erano rese impercettibili
dalla distanza e dai riflessi della luce. La non
inelegante modernità dell'arredamento
corrispondeva alla novità dell'edificio e del quartiere,
pensò Fausto, subito distratto dalla comparsa, sulla
soglia di una porta laterale, di un uomo. Basso,
tarchiato ma curvo, larghissimi i pantaloni grigi a
righe nere, pantofole di cuoio marroni, calzini grigi,
giacca e gilet neri, camicia bianca e cravatta nera.
Calvo, gran cranio, avanzò aiutandosi con un
bastone che, guarnito all'estremità bassa di gomma,
faceva presa sul pavimento. Tagliò per così dire la
strada a Fausto volgendo appena la faccia lunga e
larga verso di lui, e lo salutò: 'dunque allora: lei
sarebbe ...' 'Fausto Cosimi', rispose il giovane, 'sono
qui per la visita.' 'E sennò perché?' - chiese l'altro.
Senz'altro non cerimonioso, poteva avere cinquanta
anni come settanta, considerò Fausto. Tese la destra
al medico, che, impegnato con il suo bastone, la
ignorò indicando con la mano sinistra la stanza da
cui era appena uscito. L'arredamento qui era
vecchio: a parte il lettino coperto da un lenzuolo
bianco e l'armadio a vetrina colmo di strumenti del
mestiere, il tavolo, ingombro di ogni genere di
oggetti e di carte, pareva, incluso un lume a due
globi verdi, quello di un avvocato d'altri tempi. Così
una libreria contenente volumi, alcuni inclinati a
destra, altri a sinistra, e fascicoli accatastati. Dietro
il tavolo una grande poltrona di legno imbottita, a
braccioli; davanti una sedia, anch'essa imbottita, ma
priva di braccioli. Sul pavimento un tappeto persiano
i cui primi fruitori dovevano esser defunti da
parecchio tempo. Il dottor Boni si sistemò non senza
fatica dietro il tavolo e fece accomodare Fausto sulla
sedia. 'Vediamo', esordì accogliendo tra le mani i
fogli della documentazione della degenza in ospedale
che Fausto aveva tolto dalla borsa. Data una scorsa
ai numerosi referti annuendo quasi compiaciuto, il
dottor Boni sollevò gli occhi su Fausto, lo guardò per
qualche secondo e fece un gesto che il giovane
interpretò come un invito a parlare. Fausto era stato
investito da un autofurgone mentre transitava in
moto, ecco l'essenziale; con un breve tuffo era finito
contro lo spigolo di un edificio. 'Ho preso una
cantonata', dichiarò allo scopo di far sorridere il
medico, il quale tuttavia non raccolse quel motto di
spirito. Trasportato in ambulanza all'ospedale, dopo
qualche ora Fausto aveva subito un'operazione di
sutura al fegato, ferito dallo spigolo - o cantonata.
La degenza era durata un mese e mezzo. Ora Fausto
aveva davanti la convalescenza. 'L'ho anche dietro',
aggiunse sfacciato, sperando che il medico
manifestasse qualche complicità. Un perito della
società assicuratrice che dovrà liquidarmi diverse
decine di milioni di lire - in base alla percentuale di
invalidità stabilita dalle parti - non sorride, pensò
Fausto mentre il medico gli faceva cenno di svestirsi.
Il giovane si alzò dalla sedia e avvicinandosi al
lettino si tolse golf e camicia. Si distese. La cicatrice,
ancora fresca, era lunghissima, 'cinquantacinque
centimetri' precisò Fausto. Parlò del dimagrimento
che lo aveva 'trasformato in un sosia del digiunatore
kafkiano', altro vano tentativo di sedurre il medico;
parlò della dieta strettissima che stava seguendo e
avrebbe dovuto seguire ancora per mesi. Descrisse
la pena delle prime settimane di degenza, l'insonnia,
il dolore, la fatica. Infine dichiarò che la cicatrice gli
creava dell'imbarazzo e che gliene avrebbe creato
per tutta la vita, specie durante rapporti intimi.
'Certe cose', replicò il medico stiracchiando
finalmente un sorriso, 'si fanno al buio.'
Rivestendosi, Fausto chiese al medico se era lui il
pianista. 'Non mi dica che nell'incidente lei ha
battuto anche il capo', rispose il medico con una
certa vivacità. 'Come pensa che io possa suonare
nelle condizioni in cui mi trovo?' 'No', rispose Fausto,
alquanto ferito dalla battuta del medico, 'la testa
non l'ho battuta. Ho visto il piano, tutto qui. E' la
signora, che lo suona?' Il medico annuì avaro, si
avviò alla porta dello studio, l'aprì e fece segno a
Fausto di uscire. La visita era finita. Accompagnato
alla porta d'ingresso dalla signora, intanto riapparsa,
Fausto le chiese del piano. 'Suonavo', rispose lei,
che nel frattempo aveva indossato un camice da
infermiera, 'ma ultimamente non riesco più a farlo
…' Non ci fu né tempo né modo di scoprire che cosa
ostacolasse il pianismo della signora. La visita era
davvero finita.
La vispa Teresa

Una sera d'estate presi l'auto e salii a Fiesole con


l'intenzione di assistere a un concerto cui ero stato
invitato da una mia conoscente, musicista e membro
dell'orchestra. Contrabbasso. Pensavo di avere
l'ingresso gratuito al Teatro Romano, ossia che la
mia conoscente mi avesse segnalato
all'organizzazione come persona invitata, invece
all'ingresso un addetto mi assicurò che non ero nella
lista e che avrei dovuto pagare 35.000 lire il biglietto
d'ingresso. Contrariato feci dietro front. Dalla piazza
del paese mi si offrì la vista ritagliata di Firenze, in
basso. Pensai che era come a Taormina: al posto del
mare, la città. Scesi dunque, per rifarmi della
delusione patita, a piedi la Via Vecchia Fiesolana e
presto mi trovai in un piccolo amabile spiazzo
panoramico che tuttavia era occupato da diversi cani
e dai loro padroni. I cani scodinzolavano in giro liberi
e, mi accorsi, avevano lasciato diverse tracce della
loro salute sul terreno. Nuova contrarietà. Tra i
padroni vidi tuttavia una giovane che anche troppo
garrula teneva il suo cane al guinzaglio allungabile,
così le rivolsi qualche domanda per sapere la ragione
di quella canizza. Non usai certo questo termine
gergale che mia nonna adoperava al posto di
“casino” e che forse derivava da antiche cacce al
cinghiale in Maremma. Non che mia nonna
cacciasse! 'Dobbiamo pur lasciare le nostre creature
libere, qualche volta', mi rispose, ora un po' in
affanno, la donna. 'Lei però tiene la sua creatura al
guinzaglio', osservai. 'E' perché sto per andarmene',
spiegò lei. Tornammo quindi indietro appaiati su per
la salita e presto raggiungemmo la piazza di Fiesole
non senza che io avessi tentato di produrmi nella
mia trovata: che Firenze era come il mare, e Fiesole
come Taormina. Occupata in modo anche lezioso
con il suo cane, lei mi dette zero spago, per cui al
disappunto provato una mezz'ora prima alla
biglietteria del Teatro Romano mi si aggiunse un
nuovo motivo di scontentezza. 'Voi padroni di cani
siete secondo me una ben sinistra confraternita', le
dissi, intenzionato a raggiungere prima possibile il
parcheggio dove avevo lasciato l'auto. 'In che
senso?' - chiese lei. 'Nel senso', risposi, 'che
considerate le vostre creature, come dice lei, delle
persone che per altro voi tiranneggiate.' 'Ma sono
persone!' - replicò la donna. 'No, non sono persone',
cercai di precisare io, del resto più per polemica che
per convinzione. 'Sono vostri zimbelli, gli date la
parte di persone che al guinzaglio sono costrette ad
ascoltarvi … sa quante volta ho sentito padroni di
cani parlar loro come se potessero capire … cose
come “ora non ti comportare come al solito”, oppure
“ma quante volte la fai stamattina?” … è assurdo!'
'Ma ai cani bisogna parlare!' - replicò lei. Non sapevo
dove fosse diretta, io comunque stavo marciando,
distanziandola, verso il parcheggio. Avevo da fare
una ventina di chilometri fino all'Impruneta, dove
abitavo. 'Ai cani si deve parlare, come ai neonati …
anche se non capiscono le parole che diciamo, loro
sentono la nostra voce … insomma si parla anche
per avere un rapporto, non solo per comunicare
chissà che cosa …' affermò lei. 'I cani non sono
neonati umani', dissi voltandomi di nuovo, 'sono
lenze che in cambio della loro sottomissione vi
sfruttano …' 'Lenze?' - chiese lei perplessa, 'che cosa
vuol dire lenze?' 'Furbacchioni, servi furbacchioni, in
questo caso', spiegai rendendomi conto che lei forse
era troppo giovane per capire certi modi di dire …
'E comunque anche voi padroni', aggiunsi, 'siete
servi dei vostri cani, li tenete al guinzaglio e loro
tengono al guinzaglio voi …' 'Lei vede la cosa in
negativo', disse la donna fermandosi intanto che il
suo cane, di razza spinone, esaminava la base di
uno dei numerosi paletti metallici presenti nella
piazza. La cinofila avrà avuto trent'anni. Non molto
alta, aveva i capelli biondo-rossi, ricci, abbastanza
corti, e ostentava un'aria troppo allegra, almeno in
rapporto al suo cane e beninteso prima di
impegnarsi nel colloquio in salita che ho appena
riportato. Il suo viso non mi convinceva in fatto di
autenticità. Ero sospettoso in genere e spietato
nell'occasione. Comunque era il volto di una rossa,
né le mancavano efelidi. Bella boccuccia. Indossava
un abito leggero color ruggine, scuro, direi
cangiante. E scarpe bianche di tela. 'Le piacerebbe',
rincarai, 'tenere al guinzaglio un uomo così come fa
con il cane … a proposito: come si chiama?' 'Ulisse',
rispose lei con una smorfia … ' … e stare legata al
guinzaglio di lui!' - conclusi. 'Ma che idee!' - replicò
la vittima del mio scontento, che dipendeva dal
curioso tipo di buca che la bassista mi aveva dato.
'Dove le ha prese?' 'Dove le ho prese … dalla mia
esperienza del mondo umano e femminile le ho
prese, diamine!' - mi risentii. Intanto mi ero fermato
anch'io, poco oltre lei e Ulisse. 'Ci sono anche
uomini, tra gli amici dei cani', obbiettò la rossina,
'non “padroni” … come la mettiamo con gli uomini?'
'E' lo stesso, stessa merda!' - spropositai. 'Lo so
benissimo che i cani vi servono per far conoscenza
tra voi, per i vostri flirt … portate fuori il cane magari
per raggiungere qualche altro cinofilo, parlo con
cognizione di causa, per farvelo accarezzare, il
cane ... e se è una cagna, per farvela accarezzare …'
Ci eravamo intanto fermati, io e la Tilde, questo il
nome dell'allegra cinofila, e seduti a un tavolino …
Placido, Ulisse si era accucciato vicino alla sua
padrona … del resto aveva il guinzaglio che lo
obbligava … al bar mi aveva invitato lei.
'Boccaccesco, il nostro, eppure non antipatico come
vorrebbe sembrare', disse la Tilde segnalandomi
senz'altro che aveva capito il senso delle mie parole
… 'Non voglio sembrare antipatico', replicai, 'magari
lo sono, ma non importa, guardi, torniamo al punto
dolente: avete trasformato stasera uno dei balconi
più belli su Firenze in un cesso per cani … addio
romanticismo della panchina in pietra, addio silenzi
…' 'Addio monti sorgenti dall'acque, ed elevati al
cielo', motteggiò la Tilde non senza strapparmi un
ghigno. Tuttavia volli privilegiare un moto di
dispetto, come se la sua presa in giro “manzoniana”
mi avesse messo, contro la mia volontà, a tacere …
Ero già abbastanza anziano, ai tempi, non mi
andava di esser infilzato così da una ragazza …
ebbene, lo riconosco, “addio silenzi” era stato da
parte mia patetico … Volli sfogarmi, le raccontai che
cosa mi aveva fatto scendere fino allo spiazzo dove
lei e i suoi amici erano riuniti per il sabba … le
raccontai che non avevo voluto tirar fuori quelle
35.000 lire per assistere a un concerto che non
m'interessava se non per fare magari due
chiacchiere con la bassista, che mi ero sentito
indignato: ma come? Mi fai venire dall' Impruneta a
Fiesole per ascoltare non so che cosa e non mi
riservi un posto? 'La sua conoscente se ne sarà
dimenticata', mi suggerì crudele la Tilde … 'Se non è
vero che ha invece millantato un credito con
l'organizzazione del concerto, credito che non ha!' -
replicai... 'Millantato un credito! Ma come parla
lei?...' 'Lo dice perché non sa come scrivo!' - risposi
soddisfatto … Ora intendevo separarmene, mi levai
dalla sedia con l'intenzione di pagare il conto delle
nostre sobrie bevute, ma la Tilde mi trattenne …
'Abito a Fiesole', disse … 'E io all' Impruneta',
risposi, 'mina turpe, tu permani!' - aggiunsi … 'E
cosa vorrebbe dire?' - chiese lei … 'E' un doppio
anagramma di “Impruneta” ', risposi … 'Ma va' … ora
controlliamo …' fece lei. Tirò fuori dalla borsa di
stoffa un quadernino e una penna e si mise a
provare i miei anagrammi sulla carta. 'Sì, il gioco
torna … ma “mina” cosa c'entra?' - chiese infine. '
“Mina” sta per insidia, certo è un termine d'altri
tempi*, ma con gli anagrammi bisogna
accontentarsi …' 'E quindi?' - chiese ancora la Tilde,
'che cosa significa che un'insidia turpe permane?'
'Ma non lo so', risposi, 'è un gioco … comunque ora
devo andare … lieto di averla incontrata!' 'Ah, mi
cambia idea allora!' - esclamò credendo di
prendermi in castagna …
'Ma no, lei mi ha colpito subito … e sa perché?
Perché faceva la vispa Teresa con Ulisse … in mezzo
a quei coglioni …' 'La vispa Teresa … sarebbe?' -
chiese . 'Lasciamo perdere', tagliai corto. Pagai il
conto e me ne andai senza voltarmi. Non era un bel
modo di congedarmi, lo sapevo, né immaginavo che
la Tilde mi seguisse … Credeva di aver trovato un
nuovo cane.

* V. il latino minae, che significa minacce.


Una sconosciuta da Hong Kong

Un giorno di Settembre Fausto riceve un messaggio


w.a. il cui esponente fotografico mostra una graziosa
giovane asiatica sconosciuta. Il testo rimarca
nostalgico l'assenza del destinatario, tale Mike, e gli
chiede di farsi vivo. Perché no? - si dice Fausto
considerando la foto. Risponde al messaggio. La
probabile giovane ha scritto di aver incontrato Mike
mesi prima a Venezia, di aver avuto con lui una
piacevole esperienza e di avergli prospettato la
possibilità di guidarlo nella città di Hong Kong, da cui
lei proviene o sostiene di provenire. Fausto chiede
all'interlocutrice il motivo per cui lei è in possesso
del suo numero di cellulare, vecchio di oltre un
ventennio e sparso dunque in ogni dove. Emerge
questo racconto: il menzionato “Mike” avrebbe dato
alla probabile ragazza non il suo numero di cellulare,
ma un altro, quello appunto che corrisponde a
Fausto. 'Non sono Mike', scrive Fausto, 'guarda',
aggiunge riferendosi al proprio esponente fotografico
w.a. La probabile ragazza ammette: 'non ci
conosciamo'. E però non molla la presa, per cui
inizia uno scambio di messaggi. Fausto, senza
valutare che potrebbe essere la sua una mancanza
di tatto, chiede a Li qin, questo il nome della
probabile ragazza, perché lei scriva in lingua
italiana. In effetti piuttosto bene, anche se in certi
casi usa il maschile là dove sarebbe da attendersi il
femminile. Li qin risponde che non scrive bene in
lingua italiana, ma invece usa “un traduttore” (che
potrebbe aver trasformato in “Mike” un Michele).
Fausto allora le chiede se conosce l'inglese, per cui i
due iniziano a scambiarsi qualche messaggio in tale
lingua. Magari lei continuando a servirsi di un
“traduttore”, chissà.
Li qin dichiara di non capire gli italiani ('I don't
understand italian cultural customs'). Si riferisce
forse al supposto mariolo “Mike”, che per togliersela
dai piedi le ha dato, parrebbe, un numero sbagliato.
Tuttavia troppe sono le incognite per concludere la
giustezza di quanto precede. Per dirne una, Li qin
potrebbe lei aver preso in modo erroneo il numero di
“Mike”. Ma è vero che oggi i numeri non si
memorizzano o si scrivono su un foglietto, si
lasciano invece lì per lì tramite un messaggio alla
persona interessata. La storia “Mike” è in
conclusione dubbia, pensa il sospettoso Fausto.
Eppure la grazia sexy dell'immagine di Li qin, se
questo è il nome, lo avvince. Tre sono le foto: una
dovuta al presto cassato w.a. “business”, una al w.a.
personale, una deliberatamente allegata dalla
probabile ragazza. 'A me piace la Cina', scrive
Fausto, 'la sua storia del XX secolo e la sua gente,
che in Italia lavora duro.' 'Io potrei introdurti alla
cultura cinese', scrive Li qin, e noi mettiamo da
parte sconvenienti giochi di parole … Prosegue lo
scambio. A un tratto Li qin chiede qual è la città in
cui vive Fausto, che insospettito decide, e sia pure
con rammarico, di non rispondere. Immagina la
possibilità che la tipa sia un'avventuriera che vuol
lucrare qualcosa da lui. Non sembra astruso
l'allarme che in Fausto suscita la domanda circa la
città di lui. Il sostanziale anonimato
dell'interlocutrice, il suo curiosamente liscio
passaggio da un “Mike” a Fausto, giustificano
qualche prudenza. Anche se a malincuore, lui pensa
di lasciar cadere lo scambio appena cominciato con
Li qin. Che non mantiene, a sua volta, il contatto.
Dopo qualche tempo Fausto diffonde tramite w.a. ad
alcuni dei suoi “contatti” un fotomontaggio derisorio
il cui oggetto è un noto uomo politico italiano e,
senza volere, lo invia anche a Li qin. Non si tratta di
un errore “freudiano”, infatti che cosa dovrebbe mai
indurre Fausto a coinvolgere una probabile ragazza
cinese in uno scherzo concepito chissà da chi ai
danni di un uomo politico italiano? Digitazione
erronea... La mattina seguente Fausto trova
sorpreso un messaggio di Li qin, forse
preconfezionato, di genere ottimistico e luminoso.
Tipo “biscotti della fortuna”. Sembra contenta. Di
aver riagganciato il pollo? Ricomincia lo scambio.
Quando Fausto verso le ore sette di mattina si
sveglia, Li qin si trova a vivere il suo primo
pomeriggio, le ore quattordici. Quando verso le ore
ventitré Fausto va a dormire, Li qin con ogni
probabilità si avvicina al termine della sua nottata.
Essi arrivano comunque a duettare ampiamente.
Fausto non sospetta più che Li qin sia
un'avventuriera, pensa invece a una persona intenta
a vivere la delusione “Mike” ('he cheated on me')
insieme al nuovo amico trovato per caso. Quando gli
viene di nuovo chiesto dove vive, stavolta risponde:
'Florence'. Li qin pone domande. Quanti anni ha
Fausto? Mamma mia! Eppure da una foto - da lei
richiesta – lui ne dimostra, pare, molto meno di
quanti ne ha! A proposito di Firenze Li qin dichiara
di conoscere il marchio “Gucci” … Ciò potrebbe
rientrare nella professione attribuitale da Fausto:
prodotti in pelle, cose così. Come? I primi messaggi
di Li qin sono partiti da un indirizzo w.a. “business”
rinviante – stando a internet - a un marchio di
pelletteria, com'è naturale a Fausto del tutto ignoto.
Dunque: Fausto - senza porre domande
all'interessata - s'immagina che lei lavori negli
“accessori di pregio” e viva, ebbene sì, nella celebre
Hong Kong. (Solo verso la fine di Novembre salterà
fuori che ha - o lavora in - un negozio di
abbigliamento femminile). 'Conosco Gucci', scrive
Fausto, 'ma non è il mio campo'. Saputo che Fausto
ha lavorato invece nell'ambito della psicologia, che è
un pensionato dello Stato, che ormai “ammazza il
tempo” leggendo romanzi e scrivendo brevi testi, Li
qin gliene chiede un assaggio. Bramoso di avere una
lettrice in Cina il non più tanto sospettoso fornisce
alla probabile ragazza le coordinate perché lei legga
certi brevi testi narrativi di cui lui è autore. Li qin,
forse attaccandosi alla trascorsa professione
psicologica di Fausto, gli presenta il suo attuale
disagio. Dichiara di dormire due ore per notte e di
restar sveglia in preda a cattivi pensieri. Fausto
propone che tali cattivi pensieri e l'insonnia
potrebbero essere legati alla delusione patita a
Venezia a causa di “Mike”. La ragazza sembra, nei
limiti della lingua italiana del “traduttore” di cui
dispone (Fausto si dichiara infatti inabile a trattare in
inglese argomenti di una certa complessità),
accogliere tale “diagnosi”. Li qin, scrive Fausto,
dovrebbe intanto pensare a dormire per esempio
assumendo un ansiolitico; quanto ai cattivi pensieri
afferma che le delusioni capitano e serve tempo per
venirne a capo. A Li qin tuttavia non piacciono gli
psicofarmaci, preferisce bere un po' di vino prima di
andare a letto. 'Purché sia buono', risponde Fausto.
Pare che tale supporto psicologico intercontinentale
funzioni. Li qin inalbera un 'my life is fine', insomma
tenta di razionalizzare lo smacco, non senza tentare
di consolarsi con l'ipotesi che “Mike” abbia sbagliato
a scrivere o a digitare il proprio numero. Dichiara
comunque che il tipo un giorno si pentirà di averla
ingannata... Continua intanto a chiedere a Fausto
informazioni personali: dove vive, con chi,
seguitando però a situarlo a Milano: è un tic che
induce Fausto a credere che “Mike” si sia a suo
tempo dichiarato abitante di quella città. Fausto dà
risposte sincere e sopporta lo snobismo della
ragazza, che giudica “messy” e “run down” lo studio
la cui foto lui le ha mandato. E no, lui non ama più
la moglie, c'è solo una certa amicizia... Fausto sa
bene che potrebbe esserne, stando alle tre immagini
di Li qin da lui esaminate, addirittura il nonno, ma è
lo stesso occupato da fantasie che lo vedono
intraprendere un viaggio esplorativo fino a Hong
Kong, distante oltre novemila chilometri aerei da
Firenze - proprio lui che ha sempre viaggiato poco.
Oppure: Li qin arriva a Firenze, comunque in Italia …
invitata … ospitata in un “bell'albergo” … Ciò significa
soltanto che Fausto pensa molto a lei, che intanto gli
ha scritto di aver male alle gengive … 'Prova un
collutorio', risponde Fausto … 'Ho usato il collutorio',
risponde lei il giorno seguente, 'ma non ha
funzionato … ho mal di denti' … 'ti serve un dentista
… oppure dell'aspirina … mi raccomando dopo aver
mangiato qualcosa' … La ragazza teme i farmaci, lo
sappiamo da quando Fausto le ha suggerito un
rimedio contro l'insonnia … anche il collutorio … ha
paura di essere contaminata? - pensa Fausto
facendo intanto ipotesi sul tipo di “transfert” che
manifesta Li qin nei suoi confronti … anziano
“dottore”? … eppure di recente lui le ha chiesto se
conosce “China girl”, una canzone di David Bowie il
cui video non lascia dubbi sul tipo di rapporto tra la
protagonista femminile, asiatica, e l'uomo, un
europeo … molto fisico … nessuna replica da parte di
Li qin … Anziano “scrittore”? “Figura paterna”?
Semplicemente amico? Nei primi giorni dicembrini
l'idillio si rompe quando la probabile ragazza afferma
di voler mettere a fuoco lo “stato mentale” di
Fausto, “pessimistico”. Gli propone alcune domande
che però, riferite ai metri quadrati dell'abitazione di
lui, al tipo di auto, alla presenza in casa di “pets”,
alla disponibilità di un giardino privato eccetera
fanno pensare al nostro che la probabile ragazza
voglia farsi di lui un “profilo” economico-finanziario e
non psicologico. Per cui Fausto conclude con un “No
reply”. Inizia una piccola disputa a distanza durante
la quale Fausto si fa beffe delle conclusioni di Li qin
circa ipotetici rovesci finanziari da cui sarebbe stato
colpito, motivo per cui non possiede “una Mercedes”,
ma invece un'utilitaria, veste casual eccetera. La
probabile ragazza, sospettata ora di nuovo da
Fausto di essere un'avventuriera in cerca del pollo
da spennare, dichiara infine che, dato il conflitto
nascente, la conversazione può fermarsi. Fausto ne
conviene e le augura buona fortuna. Concludendo:
in questa storia di certo abbiamo solo che il numero
telefonico della probabile ragazza corrisponde a
Hong Kong e che le tre foto si riferiscono una
giovane asiatica in carne e ossa. Tutto il resto, a
cominciare dal primo contatto w.a., è discutibile.
Anche i sospetti di Fausto che la probabile ragazza
sia un'avventuriera lo sono. Scrive il nostro: ho
avuto l'impressione che talvolta Li qin non tenga
conto di quanto già le ho scritto, come se sotto quel
nome si trovassero ad agire più persone non molto
informate l'una di quanto scrive l'altra. Che quindi
“Li qin” sia la denominazione di una piccola
abborracciata congrega di operatori cinesi dediditi
all'adescamento progressivo di polli da spennare. A
parte ciò, noto che “lei” ha presto iniziato a umiliare
la mia esteriorità, abbigliamento, arredamento. Poi
ha sparato che la modestia delle cose che possiedo
possa dipendere da investimenti sbagliati. In pratica
mi ha chiesto quanto mi entra al mese. Prodromo
magari a una proposta di occuparsi “lei” delle mie
sostanze. Altro: dopo l'approccio “Mike” “Li qin” ha
tranquillamente accettato che io fossi un altro. Non
è strano? Dopo la pausa, quando per errore “le” ho
mandato il fotomontaggio derisorio di un uomo
politico italiano, “lei” subito ha ripreso a scrivermi …
Sono segni di un probabile interesse a tenermi
agganciato. Le moine, i messaggi tipo “biscotti della
fortuna”, i complimenti per i miei scritti “più
penetranti di missili”, potrebbero rientrare nel suo
manipolarmi. Abile, perché in definitiva umano.
Scrive ancora Fausto: nel corso del tempo, via mail
ho ricevuto una quantità di proposte da parte di
persone sconosciute che, illustrate le proprie attuali
calamità, di solito malattie terminali, mi
descrivevano la vita loro come un susseguirsi di
malefatte che avevano fruttato un certo numero di
milioni in moneta pregiata. Desiderando devolvere
tali capitali a istituzioni benefiche tali persone
divenute prede di pentimenti mi chiedevano di fare
da tramite. Non ho mai dato loro spago, per un po'
ne ho invece stampato e collezionato le strepitose
mail, scritte in inglese o in pessimo italiano, poi ho
smesso. Come queste persone, se erano persone e
non bande di malfattori, avessero il mio indirizzo di
posta elettronica, è di facile congettura, infatti in
due decenni circa potrei aver lasciato l'indirizzo
presso chiunque. In due casi ho avuto, sempre via
mail, a che fare con sedicenti giovani donne, una
ucraina, una francese, non in dichiarato possesso di
milioni, ma invece proponenti grazie fotografiche e
personali storie. L'ucraina, dotatasi dell'incredibile
nome di “Bellezza Ekaterina”, mi fornì alcune foto.
Ritraevano una graziosa slava, naturalmente bionda,
in pose improntate per la verità a una certa
“modestia” (così Alessandro Manzoni su Lucia
Mondella). Mi raccontò inoltre un'affliggente vicenda
familiare di miseria. Pensando che volesse un
qualche mio appoggio per trasferirsi in Italia glielo
negai senza discutere, e anzi domandandole perché
mai mi raccontasse i fatti suoi. Nel ruolo di anziano
protettore di una rampante ragazza dell'est europeo
non mi vedevo proprio... La francese, che ora non
ricordo quale nome avesse scelto, dopo avermi
inviato alcune foto ritraenti una graziosa ragazza sui
trent'anni, s'intrattenne nella sua lingua con me per
un paio di settimane in modo non del tutto
antipatico. Non so più che tipo di professione
affermasse di svolgere. Avevo però capito che
questa probabile ragazza mirava a carpirmi
qualcosa, senza dubbio denaro - cos'altro? Non
aveva dalla sua la storia affliggente della giovane
priva di prospettiva in un Paese ridotto alla fame,
ma solo la grazia fotografica. Un giorno mi avvisò di
un suo viaggio professionale in Costa d'Avorio, per
cui le augurai ogni bene. Presto tuttavia scrisse
disperata che in Costa d'Avorio le avevano rubato
tutto, soldi, documenti e carta di credito,
supplicandomi di mandarle “in prestito”, non ricordo
con quale mezzo, diverse migliaia di euro. Le risposi
ironico, anzi canzonatorio, sfortunatamente
incorrendo in una vergognosa topica dovuta alla mia
misera conoscenza della lingua francese. Derobade
infatti non significa “derubata”, ma qualcosa come
“scarto”, come un “tirarsi indietro”. Ero io che mi
tiravo indietro! Lei non mi corresse, né ci fu alcun
seguito. In confronto - non dico alle cialtronesche
mail delle persone pentite di aver accumulato milioni
di dollari - euro, franchi svizzeri o sterline -
compiendo malefatte di ogni genere, ma a quelle di
“Bellezza Ekaterina” e della viaggiatrice francese – è
ovvio che i messaggi w.a. di “Li qin” sono stati
tutt'altra cosa. Diciamo che la sconosciuta di Hong
Kong ha usato con me uno stile di cottura a fuoco
lento - è vero: con qualche soprassalto sbrigativo.
Tanto che potrei addirittura offrirmi uno spiraglio di
revisione dell'intera storia. In che senso? “Li qin”
potrebbe essere solo una donna che, come l'ucraina
di cui sopra, desidera trasferirsi nel “mondo libero”,
di cui pare che faccia parte l'Italia, e intende a tale
scopo costruirsi un appoggio maschile possibilmente
dotato di “risorse”. Da ciò, se non a causa di
particolarità caratteriali o “culturali”, le sue domande
tendenti a sapere il mio tenore di vita.
Barchette di carta

Tito, mio caro amico e compagno di scuola nella


prima metà degli anni sessanta e poi, dopo un mio
cambio di sede scolastica, pian piano perso di vista,
si sposò giovane con una coetanea. Lo avevo visto
durante una festa privata intrattenersi in modo
inequivocabile con quella bionda non senza provare,
io, una certa invidia. Non solo causata
dall'avvenenza di lei, ma anche dal flirt in sé.
All'inizio degli anni settanta sorprendentemente una
sera fui a cena nella loro bella casa nei dintorni di
Firenze. La bionda, in carriera accademica, mi aveva
chiesto una consulenza in merito al concetto di
“incomunicabilità”, impegno da me assolto in modo,
credo, pochissimo utile. Ancora me ne dolgo!
Nel corso dei decenni io e la moglie del mio amico
divenuto un ricordo dell'adolescenza ci siamo
incontrati per caso diverse volte all'interno della
Biblioteca Nazionale Centrale - e una volta in via del
Corso. Avevamo in comune, certo in parti diseguali,
l'affetto per la stessa persona e potevamo
intrattenerci a chiacchiera qualche minuto.
Un'amicizia piccola, ma solida, direi. Venuto a
mancare troppo presto l'amico, cessate le mie
frequentazioni della BNC, solo in due casi ho
incontrato la vedova, ma senza reciproci segni di
riconoscimento. Nel primo di questi, in via Cavour, io
credo che fu lei, Giorgina, a “fingere di non
vedermi”. Era in compagnia di un uomo e forse non
aveva voglia di procedere alle presentazioni. Nel
secondo caso la scorsi da lontano in via Laura, ma
non le andai incontro per salutarla. Avevamo in
comune una nuova conoscenza a me cara di cui non
mi andava di ciarlare con lei. Ogni tanto le scrivo
mail o vere e proprie lettere. Perché? Giorgina è
un'italianista, per cui, da dilettante quale sono di
narrativa italiana del Novecento, spero di farmi dare
un po' di spago, se non qualche entratura nel mondo
delle lettere. Invano. Una volta però, avendole io
inviato un mio testo su Sorelle Materassi, mi scrisse
che la mia idea circa la riferibilità del titolo del
romanzo di Aldo Palazzeschi a una griffe era
“geniale”. Orbene, di recente le ho scritto una
lettera su Romano Bilenchi e in particolare su gli atti
di un convegno tenutosi circa trenta anni fa, Bilenchi
per noi. Pare - da fonti non “scientifiche” mie trovate
in questi ultimi anni - che lo scrittore, fascista
durante il fascismo, comunista già in tempo di
guerra e negli anni successivi, avesse chiesto alla
moglie dell'amico Berto Ricci - poeta, matematico e
animatore culturale fascista ucciso durante la fase
nord africana della guerra “39-”45 - la restituzione
delle lettere che lui, Bilenchi, aveva scritto a Ricci ai
tempi della comune militanza fascista. Fatto sta,
come risultava da un intervento tenuto durante
l'accennato convegno (1993), che le lettere di
Bilenchi a Ricci erano sparite. Un altro dei relatori, a
proposito di Conservatorio di Santa Teresa, il
romanzo forse migliore tra quelli di Bilenchi che ho
letto - scriveva che l'estrema fragilità del bambino
protagonista, Sergio, confligge con il machismo
dell'epoca fascista - durante la quale il romanzo fu
pubblicato - e che quindi Bilenchi meritava di esser
considerato antifascista già nel 1940. Interessato a
tale interpretazione e nello stesso tempo non
fidandomene, ho esposto a Giorgina l'intera
faccenda dichiarandole infine che lei è l'unica
persona con cui io possa condividere temi del
genere. Giorgina mi ha risposto dopo non molti
giorni con una lettera in cui afferma di non avere
simpatia per Bilenchi; di aver saputo da un medico
di sua conoscenza che lo scrittore, anziano e afflitto
da cattiva salute, tempestava il clinico di missive
inerenti le proprie malattie … ha omesso invece ogni
considerazione del problema da me esposto circa il
probabile desiderio di Bilenchi, divenuto comunista,
di rimuovere certe tracce della sua trascorsa
militanza fascista; ha inoltre ignorato la questione
interpretativa di Conservatorio da me sollevata.
Invece ha bollato la critica letteraria rispecchiata
dall'accennato convegno come “vintage”, o meglio
ha scritto in modo sbrigativo: “la tua critica
letteraria vintage”... Poi aggiungendo che tuttavia
anche io e lei saremmo “vintage”... In merito poi alle
lettere che le scrivo Giorgina ha menzionato un
aneddoto sulla prodigiosa memoria di Dante Alighieri
… il Poeta, interpellato da un concittadino in merito
alle sue preferenze alimentari … mi piace l'uovo,
risponde … dopo un anno, alla stessa persona che gli
chiede come gli piaccia cucinato, subito risponde:
sodo … L'aneddoto, secondo Giorgina falso, ha anche
altre versioni … con il sale ... ma lasciamo perdere …
Io credo che la mia amica abbia voluto rimarcare la
distanza tra l'una e l'altra delle mie lettere … in
effetti le scrivo di rado, come di rado in definitiva
c'incontravamo ai tempi della BNC … Parrebbe qui
che lei suggerisca di non essere dotata della stessa
memoria di Dante... che io sia il curioso concittadino
che distoglie il Poeta dalle sue riflessioni con banali
domande di cui invece il Poeta a distanza di un anno
conserva il filo … ma può darsi che mi sbagli …
Giorgina termina la lettera invitandomi comunque a
mandarle ancora le mie “barchette di carta” …
carezza seduttiva e insieme contropelo
corrispondente al suo piacere di trovare, in mezzo al
“ciarpame” (così lei una volta) che affligge la sua
cassetta della posta, una vera lettera … Mi spiego?
Le chiedo un preciso parere su Bilenchi, sul suo
fascismo e antifascismo, e lei mi risponde solo che le
sta antipatico e che da vecchio era ipocondriaco,
dando inoltre alla critica letteraria cui faccio
riferimento il titolo di “vintage” … poi rimedia alla
gaffe (erano quasi tutti colleghi suoi) con la
precisazione che anche noi due siamo “vintage” …
con la storiella su Dante sembra descrivermi come
un egocentrico cui solo un prodigio come il Poeta
saprebbe dare risposte … infine m'invita a
continuare con le “barchette di carta” … Torniamo
tuttavia alla scena inaugurale del mio interesse per
Giorgina, situabile all'inizio dell'estate “64 o “65,
occorsa di pomeriggio all'interno di un appartamento
sito in piazza della Vittoria durante una festa
organizzata non ricordo da chi. Né so se io avessi
mai visto Giorgina prima. Non era una compagna di
classe, ma di istituto. Lei e il mio amico, che stavo
per perdere come compagno di classe (ipotesi “64)
se già non l'avevo perduto (ipotesi “65), davano le
spalle al rettangolo di una finestra aperta e senza
dubbio flirtavano. Ora, io non solo non avevo una
ragazza, ma ero stato lasciato da qualche anno dalla
mia. Ero alle prese con la digestione della perdita,
digestione che sarebbe durata ancora diversi anni.
Frequentavo l'ambiente di piazza della Vittoria a
causa dell'amicizia con il mio compagno di scuola,
ma restavo un estraneo, ancora di più stavo per
diventarlo (ipotesi “64) o lo ero diventato (ipotesi
”65). Che ci facevo in quella festa? Ben poco, in
definitiva. E lui mi trascurava per flirtare con quella
bionda … Mi trovai a essere insomma geloso sia di
lui sia di lei, e in modo globale del loro flirt.
Voglio dire che all'interno del mio interesse
epistolare per Giorgina potrebbero esserci (stati)
anche motivi diversi da quelli inerenti il suo essere
un'italianista accademica e il mio dilettantismo in
narrativa italiana del Novecento. Io, si potrebbe dire
calcando un po' la mano, sto sporadicamente
corteggiando Giorgina da qualche anno allo scopo di
compensare la ferita che il suo flirt con il mio amico
quella volta mi inflisse. Occhiali “freudiani” farebbero
vedere in questa storia una passione per il
“triangolo” amoroso, un orizzonte di tipo “edipico”,
un che di omosessuale … A parte tali suggestioni,
contemplabili, mi sembra degna di nota anche la
vaga somiglianza tra la storia di Bilenchi con Ricci e
la di lui vedova e la storia mia con l'amico e la sua
vedova. Per fortuna non ho mai scritto al defunto,
Tito, lettere di cui vergognarmi …
Una vedova

Decenni or sono partecipai senza troppo crederci a


una serie di incontri di psicologi e sociologi attratti
nell'orbita di un'associazione umanitaria operante
nel settore dei malanni psichici contigui alla
criminalità. La materia dell'associazione, finanziata
dall'eredità di filantropo, erano i “folli rei”, per dirla
all'antica, e i reclusi nei “manicomi criminali”, o
meglio negli “ospedali psichiatrici giudiziari”,
istituzioni che oggi, a quanto pare, non esistono più.
Agire in vista del minor malessere possibile di un
tizio che magari aveva sanguinariamente ucciso la
fidanzata ed era finito all'o.p.g. , questa, per fare un
esempio banale, la missione dell'associazione. A me,
cui la vita aveva già propinato diversi calci in varie
parti del corpo, e che, in altri termini, avevo una
quarantina d'anni, una moglie, una figlia e
un'occupazione piuttosto impegnativa, una volta
scappò detto, in riunione, che quel tizio dell'esempio
avrebbe dovuto essere rinchiuso e che la chiave
della cella avrebbe dovuto essere buttata via, ma
ciò, terribilmente reazionario, non bastò a disgustare
la presidentessa dell'associazione. Anzi! Seppur di
peso irrilevante ero un “accademico” anch'io.
La presidentessa contava ai tempi già due mariti
defunti, tra i quali il filantropo di cui sopra. Non so
se avesse figli. Doveva avere una decina di annetti
più di me ed era dotata di molto spirito d'iniziativa e
di organizzazione. Perché io, che già avevo il mio da
fare come ricercatore e docente all'università e
marginalmente praticavo la psicoterapia, avessi
aderito al gruppo di colleghi attratti nell'orbita di
quella associazione filantropica che, tra l'altro, si
occupava anche dei carcerati “sani di mente”, non lo
ricordo. Avrò pensato che era qualcosa di nuovo, per
me, e che, se un paio di conoscenti di mia fiducia le
si erano avvicinati, sarebbe potuto uscirne un che di
interessante. Non da fare, beninteso: da scrivere. Mi
era sembrato comunque un carretto su cui salire - e
poi “da cosa nasce cosa”. Non avevo ancora perso
tutte le speranze di “far carriera”! Ah ecco! Il gruppo
di colleghi accademici che davano “lustro”
all'associazione era composto da persone che per
decenni si erano guardate in cagnesco e che ora
invece addirittura collaboravano. Mi pareva che le
vecchie divisioni “politico-scientifiche” fossero in via
di superamento. Ero un opportunista? Può darsi, ma
avevo davanti, come ora so e allora mi limitavo a
sospettare, ancora anni e anni di servizio
universitario e sapevo di aver bisogno di “appoggi” -
almeno per tirare avanti. Insisto: con fini
intellettuali da esplicitare sulla carta. Non sono un
pragmatico, mai stato! Né un riformista! Durante
una riunione successiva a quella in cui avevo
rilasciato il mio parere, scanzonato e viscerale ma
forse “toccante”, la presidentessa disse ai presenti
che entro qualche mese ci sarebbe stato un
congresso internazionale, a Londra, sulla materia
umanitaria che qui sopra ho cercato di tratteggiare.
Lei vi avrebbe partecipato. Rivolgendosi a me -
davanti a tutti, ma come in un”a parte”, quindi con
un che di indiscreto che del resto il tono delle
riunioni, piuttosto informale, permetteva - la
presidentessa mi domandò se ero disposto ad
accompagnarla a Londra, naturalmente spesato
dall'associazione. Accompagnarla e partecipare al
congresso, beninteso. Non ero certo noto come un
insider di Londra. Non ricordo se le dissi di “no”
subito, comunque a Londra con lei non ci sono
andato né so più nulla del congresso. Mi parve che la
proposta della presidentessa avesse aspetti di
natura personale, forse per il modo in definitiva
maldestro in cui me l'aveva fatta; non saprei, è
passato troppo tempo. Mi considerava “un ragazzo”
da “tirar su”? Da “conoscere meglio”? Da “mettere
alla prova”? Le “piacevo”? Mi vidi “a rimorchio” di
quella signora in un ambito di cui, come si è visto,
come al solito m'importava fino a un certo punto;
chiamato a farle il “controcanto” in raggelanti
riunioni cosmopolite, durante colazioni e pranzi di
lavoro, cene e dopo cene, a condividere l'albergo -
ehm ehm, voi capite. Mi vedevo assurdamente nella
veste del “toy boy”? Del “segretario”? Era, la
presidentessa, una “divoratrice” di uomini? Non
saprei: certo era due volte vedova. Il sacro fuoco
della filantropia forse non le bastava. Eseguendo
invisibili scongiuri al pensiero dei due mariti defunti
della signora declinai l'invito. Del resto ero sposato.
Nel giro di pochi mesi mi allontanai dal gruppo e
dall'associazione, né ho più rivisto la signora. Era un
personaggio interessante. Ma non tanto da
“accompagnarla” a Londra.
L'anno dello sbarco sulla Luna

Il 20 Luglio 1969 “l'uomo” sbarcò sulla Luna. Le fasi


dell'impresa furono coperte dalla Rai senza
risparmio. 'Molto bene, è magnifico', esclamò Tito
Stagno, uno dei conduttori della trasmissione tv.
Né molto bene, né magnifico, per Fausto. Aveva
altro per la testa. Un'antipatia piuttosto politicizzata
per gli Usa. Ciò significa che se il contatto fosse
stato sovietico lui avrebbe gioito? Certo di fronte a
una bandierina dell'Urss piantata nel suolo lunare
avrebbe provato un certo piacere - polemico.
Polemica contro e polemica pro, tutto qui?
Transitando qualche settimana dopo la data fatidica
da piazza Viesseux Fausto avrebbe letto su un muro
“Luna: l'imperialismo si espande”. E avrebbe accolto
la sintesi come buona, da conservare tra i ricordi.
Ancora non cultore dei medesimi, ventiduenne.
Diretto in moto verso il quartiere della sua ragazza,
Velia, una rossa la cui avvenenza doveva invero
molto alla gioventù, cavalcava una bicilindrica
italiana. Era passato da una vecchia 250
d'importazione al prodotto nazionale, sempre 250.
Primi di Maggio. La moto aveva già dato diversi
fastidi: un relais dell'impianto elettrico si era rotto la
sera stessa del ritiro della moto dal concessionario.
Luce rossa sempre accesa! Non avrebbe augurato
tale perfidia neppure a un nemico, Fausto. Che poi
qualche volta sotto le cosce guidando s'era visto
spuntare incongrui fuochi: “ritorni di fiamma”.
Bisognava fermarsi, spegnere il motore e il fuoco.
Non era piacevole. C'era da procurarsi presto un
cencio soffocatore, per non arrivare all'estremo: ai
pompieri! Il freno anteriore, a tamburo - significa
non a disco – aveva la malvagia tendenza a bloccare
la ruota con le conseguenze che s'immagina un
cultore della materia. L'assetto della corsa ne veniva
terremotato. Già in primavera, prima di acquistare
l'oggetto, mancando una lezione noiosa eccome ma
allietata dalla presenza di Severina, una compagna
di corso, Fausto era uscito un pomeriggio insieme a
un possessore del tipo di moto qui deprecato. A
bordo lui della propria vecchia monocilindrica
d'importazione. Arrivati poco oltre il pratone
dell'Olmo l'altro scioperato propose a Fausto di
provare la nuovissima trappola. Sì. Scese in
direzione di Molin del Piano. In fondo a un rettilineo
frenò prima di una curva a destra, la ruota anteriore
si bloccò e la moto prese a sbandare. Finì, e per
fortuna, su un terrapieno. Non si fece male, Fausto.
Tornò su verso l'Olmo dove l'altro, in attesa, capì a
distanza che era successo un guaio. Si mise le mani
tra i pochi capelli. La moto non era sfasciata, ma
aveva perso male la verginità. Il tipo fu d'altra parte
elegante. E comprensivo. Ritornarono in città e dal
concessionario Fausto fruì, al posto della lezione
universitaria marinata, di una sintesi pedagogica
fiorentina erogata da un addetto del negozio: “ora
gli sta più fermo!” Né Fausto, pusillo e
scorbacchiato, ebbe di che ribattere, occupato già
allora a far tesoro di pezzi rari di quella parlata da
cui era stato sempre tenuto fuori, prima di iniziare la
carriera motociclistica, a cura della famiglia,
estranea al gergo popolare. Intendeva l'addetto che
ora il caduto avrebbe imparato che cosa non fare
eccetera. Pagati i danni, venduta la vecchia moto a
un altro giovane, Fausto acquisì la bicilindrica de
qua. Non è romanesco. Al termine dell'estate,
scendendo da San Casciano per la via Cassia
insieme a un amico armato di un ben più prestigioso
mezzo, a Fausto si ripropose il blocco della ruota
anteriore e la conseguente caduta, magari a velocità
più bassa che non a Molin del piano, il che lo
convinse a sbarazzarsi della bicilindrica italiana. La
stessa intanto aveva evidenziato un altro difetto: la
saldatura tra il “cannotto di sterzo” e il telaio
mostrava il sintomo (un cretto) di una prossima
clamorosa rottura. Fausto ipotizzò che la celebre
Casa per risparmiare avesse messo in commercio
una moto - nuova e dal motore piuttosto brillante -
dotata però di un telaio adatto a prestazioni più
modeste. Per svuotare il magazzino? Si recò dal
concessionario: il cretto era evidente. Si trattò di
infagottare, ma davvero, la moto e di rispedirla in
fabbrica. Garanzia! Fortuna che da un angolo del
salone della concessionaria una vecchia bicilindrica
500 d'importazione avesse sbattuto le ciglia
all'indirizzo di Fausto. Vista e presa! Logicamente
conguagliando la differenza tra il bidone nazionale e
l'anziano gioiello estero. Il padre di Fausto abbozzò.
Aveva abbozzato anche durante quella primavera,
quando Fausto non una ma due volte nel giro di
poche settimane se n'era andato a Roma. Prima
prendendo in prestito l'auto della madre, poi con il
treno. Lo scopo delle trasferte era recuperare un
legame adolescenziale finito perché lei, Virginia,
aveva preferito alla traballante certezza amorosa di
Fausto, copyrighter della formula, le prospettive più
solide date da un giovane concittadino laureando in
Legge con cui difatti pochi anni dopo si sarebbe
sposata. A proposito di “ritorni di fiamma”: erano
passati sette anni, un'enormità di tempo in relazione
all'età di Fausto e di Virginia, da quell'abbandono. E'
vero però che da un tre anni anche lui si era unito a
una concittadina, la Velia. Anche per questo il padre
aveva solo abbozzato: perché era cosa nota che lui e
la Velia stavano insieme. I due tentativi di
ripescaggio di Virginia, bionda, bellina, molto dotata
di parola, non riuscirono, era troppo fidanzata con
Nino, che per occhiali aveva due culi di bottiglia, né
era disposta a una storia “da quattordicenni”, così
lei. Delle due visite alla capitale poco resta
memorabile, se non che, ospite della nonna di
Virginia, che abitava ai Parioli, Fausto ebbe una
mattina del caffellatte rianimato da “uno schizzo di
Mistral” - liquorino all'anice; e un detto della
signora, una pistoiese dopo trent'anni a Roma
ancora capace di uscite come: “aspettare e non
venire le son cose da morire”. Virginia tardava,
quella domenica: il transito dalla collina Fleming ai
Parioli quant'era lungo! E Fausto a friggere. Virginia
lo guidò alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e
Contemporanea, in Valle Giulia. Fausto dipingeva da
qualche tempo nella soffitta di casa, per cui si
sentiva un artista … ebbe da dire la sua … felice
improntitudine ... Valle Giulia: un anno prima
c'erano stati scontri tra giovani contestatori e
polizia, ma sì, quelli illustrati dalla famigerata poesia
di Pasolini … 'Stanno tutto il giorno a discutere e a
fumare, smunti come sono e con quei loro bastoncini
in mano se le danno coi poliziotti', disse materna
Virginia, piuttosto eccentrica rispetto alla
contestazione studentesca... Da Fausto si era fatta
portare in auto da una sarta dove aveva da ritirare
un abitino primaverile, una “fantasia” in bianco, blu
e rosso … che a lui parve certo poco consono alla
rivoluzione … Virginia condusse l' ospite anche alla
Sapienza, ironia deliberata, dove i due
contemplarono i segni di un intervento della pula a
Lettere … quei “proletari” c'erano andati giù duri.
Che altro? Neppure un bacio, al massimo qualche
briciola caratterialmente seduttiva di Virginia... E sul
portone di casa una sera i due ex innamoratissimi
trovarono il fidanzato di Virginia … una bella
scazzottata? Ma neanche per sogno... freddezza …
Costui anni prima si era tuttavia fatto posto in una
lettera di Virginia, consensuale, tormentata dal
wertherismo di Fausto, e aveva scritto: lascia stare
Virginia, hai capito? Pare che avesse scritto queste
parole, difatti quella lettera Fausto non l'ebbe mai
sotto gli occhi. Intercettata dalla madre, che, dopo
averla letta, l'aveva fatta sparire o distrutta. Di tutte
le calamità capitategli nella vita Fausto considerava,
fino a poche decine di anni fa, questa doppia
intrusione una delle peggiori. Ormai ne parla incallito
e magari cinico. Una serie di dettagli avranno forse
attirato l'attenzione di chi legge sullo stato di
subordinazione di Fausto ai genitori. Era
maggiorenne da più di un anno, eppure doveva, e
non solo per la dipendenza in fatto di soldi, chiedere
il permesso per due week end a Roma!...
Assolutamente senza usare la moto!... E la madre
anni prima si era arrogata il diritto di impadronirsi di
una lettera destinata a Fausto, di aprirla, di leggerla,
e di farla sparire non sappiamo se in modo tombale
(magari in futuro salterà fuori da uno degli scatoloni
colmi di reperti famigliari ammassati in un soppalco
della casa in campagna, chissà a quali occhi
beffardi). Non solo, si era presa la libertà piuttosto
crudele – pedagogica? - di rivelargli il fatto della
postilla vergata dal fidanzato di Virginia. Ma
torniamo al “69: Fausto di fatto è libero di
sperimentare il muro romano del fidanzamento di
quei due … Certo i genitori non sono troppo rigidi …
Se tuttavia Virginia afferma di non essere
interessata alla ripresa di una ”storia da
quattordicenni”, magari non a torto, infatti di anni
ora loro ne hanno ventidue ... e avanza l'idea che lui
si trasferisca a Roma … 'Come faccio a trasferirmi a
Roma?' - pensa lui, immaginandosi a stento la scena
di una sua richiesta al padre di un mantenimento
nella capitale, vitto, alloggio eccetera … Impossibile
… cambiare università … 'non lo farò', pensa … Ma
non solo perché si vergognerebbe: chiedere a suo
padre una cosa enorme così … siamo seri, si vede
bene che Virginia non lo “ama”, che lo subisce
gentilmente, sì, mettendosi anche un po' nei guai
con il fidanzato, Nino … moro, meno basso di
Fausto, non brutto se non fosse per i culi di bottiglia
e la tipologia, come dire? - tra un Manfredi e un
Montesano … Virginia non ama Fausto: mira a
sposarsi ed a uscire dalle grinfie di sua madre … E
intanto la Velia soffre. Il primo transito fatto in auto,
una lagna, era stato alleviato dalla compagnia del
Soldani, un amico fiorentino interessato a Roma.
Fausto lo accompagnò fino a Trastevere. Recrimina
oggi che ai tempi dopotutto lui si muoveva, alla
zoppa magari, ma si muoveva, non aveva paura
della vastità della capitale, di perdersi ... Non era
ancora diventato “odofobico” o meglio itinerofobico,
altra definizione di cui si proclama copyrighter.
Ma il punto è un altro: i due amici chiacchierarono
durante il lungo viaggio; Fausto parlò all'amico
Soldani di quella Virginia irrecuperabile - o
recuperabile … facendo il Soldani forse i suoi conti in
merito alla Velia, che conosceva bene: erano stati,
tutti e tre, compagni negli anni del liceo … 'se tanto
mi dà tanto'. A ritorno dalla seconda trasferta, in
treno, scorbacchiato mica poco, Fausto seguì per
forza di udito le chiacchiere dei presenti, specie le
sciocchezzuole che una giovinetta proclamava circa i
“sociologi” di Trento, futuri estremisti … carina, la
piccola, forse cattolica anche lei, come qualcuno
degli studenti della famigerata facoltà di sociologia
di Trento … Avrà partecipato, Fausto, alle ciarle? O
avrà incamerato secondo il solito suo le medesime in
vista di un futuro lontano? Oggi 2022, son passati
cinquantatré anni e la piccola, se viva, sarà una
mezza befana anche lei … Era contraria ai
“sociologi”, Fausto la etichettò come nemica del
“movimento”, una da “rieducare” ... se ne
innamorò... fino alla stazione di Santa Maria Novella,
dove scese per tornare da mamma e papà... dalla
Velia. Fausto sbandava in quel 1969 non solo alla
ricerca di una moto nuova, ma anche alla ricerca di
una ragazza nuova, di un nuovo amore … Tre moto,
tre fanciulle, sì, la Velia, Virginia, Severina, la
compagna di corso … senza contare l'inclinazione
ferroviaria di poche ore per la piccola oppositrice dei
soci di Renato Curcio, ai tempi ancora non divenuto
pericolo pubblico numero uno. Da un paio di anni
Fausto provava a dipingere, non che non avesse già
una certa “disposizione” - così la nonna – al disegno.
Tentò la tempera, strisce di colore acquoso gli
scivolarono dispettose sulla tela, pian piano imparò
a dosare i gesti poi escogitando impasti di stucco,
colore, acqua e vinavil. Una volta secco il risultato, ci
passava sopra un cencio di lana e traeva da quegli
opachi pastrocchi astratti un che di lucido. Avrebbe
poi tentato l'olio? Non sappiamo, infatti di colpo, era
l'autunno, smise l'opera. Dopo aver lavorato in
tinello aveva chiesto ai genitori il permesso,
accordato, di trasformare in laboratorio di pittura la
soffitta di casa, che offriva, fatti una decina di
gradini, l'accesso a una terrazza. Mai dipinto all'aria
aperta! Era una stanza lunga, abbastanza stretta –
corrispondeva infatti al corridoio d'ingresso
dell'appartamento sottostante, dove abitava la
famiglia di Fausto – e poco illuminata da una larga
fessura aperta all'altezza del soffitto. Imbiancata e
un poco “svolgarizzata” dall'interessato, non sarebbe
mai divenuta un buon posto per dipingere, sostare:
eppure Fausto non mancò di capire che, se non era
una stanza solo per lui, funzionava da rifugio,
misero, dai frastuoni che attraversavano le facoltà
universitarie, le strade, le piazze, le assemblee - non
senza rammaricarsi del proprio disimpegno politico
nascente. I quadri, risultato del lavorìo di Fausto,
moltissimi anni più tardi sarebbero stati buttati tra i
rifiuti, giù in strada, beninteso dallo stesso ex
pittore, esausto e schifato dalle fatiche dello
svuotamento della casa dov'era cresciuto, in vista
della vendita. Come compensazione autopunitiva
dell'oltraggio che Fausto aveva o credeva di aver
perpetrato ai danni dell'arredamento dei genitori,
anzi della madre, da anni vedova. Salvo uno,
recante sul retro la scritta: “il cielo stamattina è
disperato”; che avrebbe retto ancora per qualche
anno. La madre di Fausto lo aveva fatto incorniciare!
Fausto aveva tentato l'astrattismo, ma siamo sicuri,
conoscendone le idee successive - 'l'astrattismo
porta al nulla!' - che avrebbe tentato la figura... già
“il cielo stamattina è disperato”, forse l'ultima sua
cosa, alludeva a una fila di platani … Perché poi
“disperato”? Comunque fosse, una precisa mattina,
verso mezzogiorno per la precisione, mostrando
all'amico Soldani i quadri accumulati nella soffitta …
Erano stati, i due, a parlare giù nell'appartamento …
era ottobre … “autunno caldo”! Scioperi! Fremiti
rivoluzionari? Di rivolta è sicuro! … Avevano
parlato ... Fausto aveva mostrato al Soldani
qualcuno dei libri da lui letti e amati - 'sei una
biblioteca', aveva spropositato ironico il Soldani; poi
erano saliti in soffitta. Alla fine il tutto doveva aver
saziato l'amico ... che interruppe Fausto, di colpo,
con la seguente incongrua domanda: 'te l'ha detto la
Velia che siamo stati a letto insieme?' No, la Velia
non gliel'aveva detto … Da quella mattina la soffitta
rimase deserta e finirono anche i tentativi pittorici ...
Già inospitale, mancante di morbidezza, restò
associata alla rivelazione molesta del Soldani …
Quanto al tradimento della Velia si potrebbe pensare
che “chi la fa l'aspetti”. Lo sbarco Usa sulla Luna era
avvenuto in Luglio, Fausto aveva nei mesi
precedenti cambiato moto, senza fortuna, e tentato
di cambiare, altrettanto infelicemente, la Velia con
Virginia, in altri termini avevano agito in lui fastidi
personali, privati … insieme al suo forte
“antiamericanismo” … il minimo che possiamo
affermare è che Fausto non prese sul serio quella
Luna a stelle e strisce. Non unico, certo, e torna in
mente, vero colpo d'ala, un libro di Guido Ceronetti,
Difesa della Luna (1971). Altro gli era accaduto, di
natura pubblica e anche privata. La Fiorentina in
Giugno aveva vinto il campionato, evento locale e
nazionale insieme che, nonostante avesse sangue
viola, Fausto non si era goduto abbastanza. Anche
qui in parte per motivi ideologici – il tifo calcistico
era “politicamente scorretto”, espressione allora non
in uso – e forse perché nel suo cuore, deluso
dall'esperienza romana, era sbarcata Severina.
L'avvenente compagna di facoltà - bionda come
Virginia ma molto più bella e anche piuttosto tenera
- uscita una mattina di Giugno insieme a Fausto
dall'istituto universitario di via Ghibellina dove si era
appena svolto l'esame relativo al corso dai due
seguito, fino a piazza San Marco era rimasta al suo
fianco... non è un percorso brevissimo … entrambi
parlando di ciò che era appena avvenuto ... Più che
ascoltare le caduche frasi di Severina Fausto ne
sentiva felice la presenza. In piazza si salutarono. La
sera si sarebbero rivisti a cena insieme ad alcuni
compagni di corso e a due docenti … trattoria fuori
città, in riva all'Arno... Severina invitò Fausto a
sedersi a tavola accanto a lei, 'sei l'unico', aggiunse
… Per frutta si ebbero delle ciliege … ignorando la
pesantezza di uno dei docenti, proclamante la
convenienza, a certi scopi, della “camera con
bagno”... Severina si produsse a bassa voce per
Fausto in una breve cantilena birichina sulle ciliege
… carezzevole l'accento … Finita la cena, la collega
del cultore delle camere con bagno si offrì di
riaccompagnare Severina e Fausto in città... aveva
una coupé … due porte … Fausto si strinse dietro …
arrivati che furono dov'era parcheggiata l'auto di lui
la docente maldestra, se non ammaliata a sua volta
da Severina, propose di accompagnarla fino a casa
… insomma la strappò a Fausto, che restò solo: quel
che è peggio senza un indirizzo, un numero di
telefono, niente. In compenso assediato da una
febbre amorosa che sarebbe durata altissima per
giorni e giorni, e dalla certezza di non aver saputo
allungare le mani su quelle ciliege... 'No, lei viene
con me, l'accompagno io', avrebbe rimarcato un
altro. Che importa la Luna a stelle e strisce? Che
importa la Fiorentina campione d'Italia? La vita però
ha più forza di ogni altra cosa. Quell'estate Fausto
andò, su un barcone difficile da scambiare per un
traghetto, stracarico, galleggiante quasi a fior
d'acqua, da Livorno alla Capraia, che ai tempi
ospitava una galera. Tempo magnifico, mare calmo.
La compagnia era formata dalla Velia, dall'amico
Bettoni, dalla sua ragazza, Bruna, e da un'altra,
abbinata a un tipo mai visto prima da Fausto. A
destinazione, i sei giovani carichi di zaini e tende
salirono fino all'abitato, fatiscente più che pittoresco,
poi scesero di nuovo verso il mare e piantarono tre
canadesi su una sorta di terrazza erbosa. Campeggio
libero. Vicino bivaccava un gruppo di livornesi … Il
Bettoni prese le redini economico-organizzative della
vacanza, stabilì i turni del lavoro necessario a non
trasformare il campo in una discarica … s'iniziò a far
vita di mare... la sera i sei salivano in paese ...
scarseggiava l'acqua … si cucinavano le poche cose
che lo sparagnino Bettoni consentiva di acquistare in
una misera bottega … Fausto interiormente se la
rideva di quella micragna … ma partecipava …
Improvvisatore incallito, un giorno eseguì ciò che
avrebbe dovuto l'indomani … l'indomani il tizio mai
visto di cui sopra lo rimproverò di aver fatto il
giorno prima quanto avrebbe dovuto fare il giorno
dopo … 'Eh no, oggi è turno tuo!' - disse …
Iniziarono a dirsene di tutti i colori, ma neanche in
questo caso si ebbe una scazzottata... in effetti la
lite avvenne con i contendenti lontani
reciprocamente una decina di metri … a voce
altissima … echeggiante … Fausto rinfacciò all'altro
di essere un piccolo burocrate! … i livornesi uscirono
dal loro accampamento chiedendo 'che succede?' …
presero poi le parti di Fausto e gratificarono l'altro …
'guappo di cartone', dissero … Fausto - ancora non
aveva capito che nella vita poche volte gli sarebbe
capitato che qualcuno gli desse ragione - godé con
moderazione di quel sostegno … L'acqua era limpida
… il Bettoni, che non sapeva nuotare, si piccava di
pescare certi pescetti con la lenza … le creature, una
volta strappate alla loro vita, venivano scagliate
sullo scoglio … colpo di grazia … vergogna pura …
anche di Fausto … In alto, oppostamente al villaggio
a tratti frequentato da ceffi addetti al carcere che
avrebbero voluto della compagnia femminile a
pagamento … che fare? Denunciarli ai caramba ?...
Oppostamente al villaggio Fausto in quei giorni
imparò a considerare un sentiero che portava
nell'interno dell'isola, traccia di una possibilità … ma
il sole scoraggiava spedizioni … A tratti appariva un
tipo, un solitario privo dell'impostazione ideologica ai
tempi comune ... una volta domandò a Fausto se,
dopo la Capraia, sarebbe andato in campagna 'per
rilassarsi'... 'Io queste cose non le faccio', rispose
con durezza strana Fausto, che in quella presenza
sentiva un rivale … lo era certo, in rapporto alla
Velia, ricca di capelli e di efelidi, ma anche in
rapporto alla concezione della vita che lui, Fausto,
credeva di avere … la politica e il rovello
rivoluzionario al primo posto! Ciò non era affatto
vero … Fausto voleva solo vivere, pensare in grande,
in lungo e in largo, non voleva “rilassarsi” … Peccato
che rinunciasse alle vie che la fortuna pareva
suggerirgli, come quel sentiero tra la vegetazione
bassa, tutto esposto al sole, misterioso come tutto
ciò che ancora non si conosce … Nel concreto aveva
voglia di scorrazzare sulla moto nuova, quel paio di
settimane sull'isola lo avevano ridotto in astinenza …
Andò in Maremma per qualche settimana, unico
periodo, quello, di felice unione con la moto da poco
acquistata e modificata... aveva fatto installare
anche un contagiri! Quanta energia il motociclismo
toglieva a Fausto, quanta ne aveva lui! Persa
Severina, perso il sentiero dei conigli selvatici, persa
l'occasione di gioia viola, irrecuperabile Virginia,
Fausto approdò, venduto il bidone autarchico, a
quella compassata bicilindrica straniera, vedi sopra,
forse più adatta a un quarantenne che a un ragazzo:
erano anni che ne aveva visto un esemplare dal
vivo, in strada. Nera. Bassa, frusciante il suono del
motore come un vento tra il fogliame degli alberi,
non veloce … piuttosto: poderosa … una
cinquecento! Una bicilindrica seria! Meravigliosa,
elegantissima! Quanto al farla correre, ci pensava
Fausto, deriso per altro nell'officina meccanica del
suo quartiere, dove il titolare e gli adepti non
avevano capito che di quella marca entro pochi anni
si sarebbe riempita la città! Tutti a Canossa? Magari!
Entro pochi anni si sarebbe riempito il mondo di
moto giapponesi. Fausto cambiò meccanico, ecco
che cosa cambiò quell'anno! No. Smise anche con la
pittura, era anche quello un cambiamento, smise di
considerare la Velia con fiducia, ecco un altro
cambiamento. In vista della fine dell'anno, il 12
Dicembre alle 16,37, una bomba piazzata all'interno
della Banca dell'Agricoltura, a Milano, piazza
Fontana, esplose e uccise diciassette persone. Ne
ferì ottantotto. I media investirono moltissimo
sull'evento manifestando una fortissima propensione
ad attribuirne la causa all'estremismo di sinistra: in
definitiva Guidò si sentì chiamato in causa.
Bombarolo quanto può esserlo un piccione, patì
l'accusa e gliene conseguì un rifiuto dell'intero
pacchetto confezionato dalla Rai, dai giornali e dal
Sistema, lutto incluso. Tornando alle sue pene
amorose, ai tempi certo aveva intenzioni poco
chiare: da una parte la Velia, dall'altra la Virginia;
subito dopo, nel tempo, Severina. Era giovane e
apribile a esperienze varie. Viveva. Le faccende
motociclistiche in questo quadro, fortune e sfortune
a parte, confermano che Fausto viveva in modo
molteplice. L'acquisto della moto nuova, in Maggio,
ma anche la precedente escursione con quel
compagno motociclista, indicano che l'amore non lo
tiranneggiava. Né la politica, né il calcio, né la Luna.
La mattina in cui doveva ritirare l'agognata 500
bicilindrica, arrivato in anticipo nei pressi del
concessionario si sedette su una panchina nell'area
di un giardinetto. A due passi da dove pochi mesi
prima aveva salutato in modo all'incirca tombale
Severina, rapitagli da quella professoressa; ma
senza pensare affatto a lei. Nulla lo tiranneggiava. E
intanto leggeva i giornali, vedeva la tv, parlava con i
compagni, poi avrebbe pensato per anni a Valpreda,
a Pinelli … Senza contare che mandava avanti gli
studi, e, fino a quella mattina infelice in cui il Soldani
non richiesto gli rivelò la novità penosa, dipingeva.
Gli eventi collettivi, grandi o meno, influiscono sulle
nostre vite che, tuttavia, determinano la nostra
partecipazione agli eventi collettivi. Per dirla in un
altro modo: il 1969 resta prezioso a Fausto per
Severina, per le due trasferte a Roma, per aver lui
smesso di dipingere dopo appena due anni che
aveva iniziato. Poi, chino su quell'anno, trova altro:
l'isola, la lite, il sentiero dei conigli selvatici ... trova
i cambi di moto, le due cadute … E ricorda la Luna,
l'autunno caldo, infine la strage di Piazza Fontana.
Lo scudetto viola! Tutto ciò che lo riporta a Severina.
Lathe biosas

Negli anni, anziano, gli era successo di aver voluto


salutare vecchi compagni riconosciuti in città e, non
trovando alcun riscontro da parte loro, di aver
dovuto presentarsi. Tre casi. All'interno del mercato
di Sant'Ambrogio aveva fermato un coetaneo che
aveva la stessa notevole faccia di una volta. Un po'
da duro, da “bel mascalzone”. Fausto si ricordava di
costui anche a causa del nome, uguale al suo, e del
non comune cognome, James. Per la verità non era
stato un compagno di classe, il James, ma
genericamente d'istituto. Una mattina aveva
ospitato in casa sua, vicino al Giardino di Boboli, il
nostro e altri, a spasso forse a causa di uno sciopero
studentesco, evento ai tempi raro. Il James in
Sant'Ambrogio somigliava ancora all'attore inglese
Patrick Magee. Il nostro scambiò poche parole con il
James, che non poteva riconoscerlo, pur
ammettendo lui di aver frequentato lo stesso liceo
del nostro. Si strinsero la mano e si salutarono.
Tutto qui. Il nostro avrebbe potuto dirsi che il James
era stato in qualche modo un personaggio, e che lui
invece non lo era stato. Non se ne preoccupò. Forse
sentì la non reciprocità del riconoscimento come
cosa scontata. Secondo caso. Una mattina il nostro
piazzò l'auto davanti alla porta di un garage privato
in via Scialoja per parlare con il meccanico che ha lì
accanto l'officina. In breve: un tizio fece notare al
nostro che il parcheggio ostacolava la sua uscita dal
garage. Durante la non del tutto garbata interazione
il nostro riconobbe in quell'automobilista conscio dei
suoi buoni diritti un compagno di classe di ben tre
annate di liceo, un certo Del Giudice: calvo, ma per
il resto identico a quel che era stato tanti decenni
prima. Non parve al nostro lì per lì opportuno farsi
riconoscere, anche perché ai tempi tra lui e il Del
Giudice non era corsa molta simpatia reciproca, per
quanto senza casi spiacevoli degni di essere cercati
nella memoria. Spostò la sua auto e basta. Qualche
anno dopo in via della Pergola incontrò di nuovo il
Del Giudice - era Giugno. In un suo lieto animo il
nostro attirò l'attenzione dell'ex compagno di classe
salutandolo correttamente e chiedendogli poi se lui
era il Del Giudice. Risposta affermativa. Senza
inorgoglirsi a causa della propria “memoria visiva”,
che gli pareva cosa naturale come tale gli era
sembrata nel caso James, il nostro si presentò e
l'altro dette luogo a un veloce processo di
riconoscimento, o almeno lo finse, non senza garbo.
Dopotutto stava andando per i fatti suoi verso il
centro ed era stato fermato da uno “sconosciuto”. I
due rimasero a conversare per qualche minuto,
menzionarono come d'uso i nomi di alcuni compagni
di classe, e addirittura si scambiarono i numeri di
telefono. Il Del Giudice aveva trascorso quattro
decenni facendo il medico ospedaliero e attualmente
era pensionato. Salutò il nostro perfino con un “ciao,
Fausto” - non indifferente. Il nostro aveva ritenuto di
rimarcare che, ai tempi, lui e il Del Giudice non
erano stati amici. L'altro ne convenne. 'Ma siamo
stati compagni di scuola!' - aggiunse il nostro
stringendo il pugno destro, come a dire che quello è
un legame che conta davvero. Avrebbe altre due
volte incontrato il Del Giudice in giro, certo a causa
del fatto che costui abita nella sua stessa zona. Il
bello è che la prima di queste il nostro fu costretto
di nuovo, magari velocemente, a farsi riconoscere.
Ora, il Del Giudice, al contrario del James, non era
stato “un personaggio”, nella classe del nostro, anzi:
se tra i due fosse stato in questione l'esser
personaggi, lo sarebbe stato il nostro, né qui è il
caso di spiegare perché. E allora perché il nostro
aveva dovuto farsi riconoscere? Forse lui era
cambiato di aspetto più dell'altro? Spropositò
interiormente, al contrario, di non essere
riconoscibile dai coetanei ex compagni di scuola a
causa del proprio aspetto, giovanile, troppo
giovanile. Che lo faceva sembrare un non coetaneo!
Veniamo però al terzo caso, gravissimo e
imparagonabile con gli altri due. Nel 1970 o giù di lì
il nostro aveva rotto con tal Giovanni, amico di un
decennio, per motivi di incompatibilità politica. Una
sera tardi, in casa del nostro, Giovanni ne aveva
urtato la sensibilità etichettando i suoi ragionamenti
politici come “uterini”. Da allora i due avevano
smesso di frequentarsi. Una volta però, nell'estate
del 1981 - il nostro insieme a un'amica all'ingresso
di una mostra di pittura - Giovanni s'era avvicinato
e, dopo i saluti, s'era mostrato incline, nonostante
che fosse palesemente di troppo, a visitare anche lui
la mostra. Privo Giovanni di soldi, il nostro gli pagò il
biglietto. Nei circa quattro decenni successivi il
nostro, camminatore accanito, avrebbe scorto
spesso Giovanni in strada – i due abitano non
lontanissimi reciprocamente - riconoscendolo
soprattutto a causa della sua inconfondibile
andatura, insieme vigorosa e sgangherata. Per altro
Giovanni, divenuto piuttosto grasso, si era dotato di
baffoni - bianchi come la folta chioma. Lo avrebbe
poi rivisto, sì, ma mai fermato per un saluto,
godendosi invece la intrinseca coglioneria di
quell'andatura che mimava l'atteggiamento di chi
intenda andare in fretta a dare una lezione a
qualcuno. Una mattina, di nuovo in via della Pergola,
il nostro scorse Giovanni, e lo salutò. Forse di nuovo
aveva agito il suddetto lieto animo, chissà.
Straordinariamente, Giovanni non riconobbe l'amico
di un decennio, davvero amico: di chiacchiere, di
bevute, di biliardo, di cinema, di sigarette fumate di
nascosto da ragazzini, eccetera. 'Ma sono Fausto
Cosimi!' - protestò il nostro, “narcisisticamente”
ferito. Giovanni lo afferrò per gli omeri e lo guardò
bene levandolo dal sole che gli abbagliava la vista.
Dopo un attimo parve riconoscerlo. I due poi
chiacchierarono per una decina di minuti dentro un
bar nei paraggi. Giovanni doveva far colazione.
Incontro e scambio d'informazioni non piacevole,
tanto che, congedatosi, il nostro mormorò rivolto a
se stesso: lathe biosas. Vivi nascosto - pare che lo
raccomandasse Epicuro. E forse è proprio nel “viver
nascosto” del nostro il motivo della sua talvolta
scarsa presa nella memoria altrui. Meglio, nel viver
nascosto dentro sé stesso. Stavolta il nostro aveva
sull'altro il vantaggio di averne negli anni seguito la
– diciamo - evoluzione fisica, da magrissimo a
grassoccio, osservandolo diverse volte in strada
dimenarsi come accennato sopra. Lo stesso restò
ferito dal non riconoscimento di Giovanni, che per
altro nel corso della chiacchierata mostrò di essere
al corrente per sommi capi della “vita” del nostro.
Amicizie comuni. Spifferi. Il nostro, dunque, era ed è
dotato di più memoria (visiva) di altri? Certo anche a
lui succede di intrattenersi con qualcuno di cui
ricorda l'aspetto senza ricordarne nome e cognome.
Il quarto caso è un poco diverso dagli altri. Intanto
perché in questione è una donna, poi perché
stavolta si è trattato di una ex compagna di studi
universitari, che sono, ed erano ai tempi, senza
confronto meno concentrazionari di quelli fatti a
scuola. Cinquanta anni dopo il nostro, intento a
scrivere un'autobiografia, si mise in testa di
rintracciare questa ex compagna, scrisse a un
indirizzo lontano che gli era parso credibile fornendo
le coordinate essenziali e chiedendo notizie alla
destinataria della lettera, scritta su carta. La
signora, così l'aveva apostrofata il nostro nella
lettera, dopo qualche tempo gli telefonò; ma subito -
il nostro aveva appena espresso il suo giubilo - lei
dichiarò che aveva chiamato in nome della
correttezza delle coordinate fornite da lui, non
perché di lui invece si ricordasse. Fu dura da
accettare per il nostro.
Mentre si sottolinea quest'altra differenza decisiva
rispetto ai casi sopra descritti, che l'incontro stavolta
era stato telefonico e deliberato, non casuale,
interrompiamo la trattazione del caso presente
fornendo un altro esempio piuttosto notevole. Una
quindicina di anni fa il nostro, all'incirca
sessantenne, fu chiamato da una signora che come
lui si trovava in fila alla cassa di un negozio. 'Tu sei
il Cosimi', gli disse, presentandosi subito dopo:
“sono l'Anna Turchi”. Si trattava di una compagna
delle medie che con ogni probabilità non aveva più
visto il nostro da oltre quaranta anni. Eppure lo
aveva riconosciuto. Il nostro da parte sua riscontrò
sinceramente nella signora qualcosa della compagna
di un tempo. Questo evento serve a sospendere
l'amarezza della presente trattazione e ad avanzare
l'ipotesi, certo non nuova, che la memoria sia
imprevedibile. Dispettosa. Forse che alle medie il
nostro non aveva dato inizio, ancora, alla sua
pratica sopra ipotizzata del vivere nascosto dentro
sé stesso? Tornando all'amaro caso telefonico: il
nostro avrebbe riconosciuto la signora, se l'avesse
incontrata in strada, in un negozio, o chissà dove?
Non sappiamo. Certe foto internettiche trovate da lui
mostravano la signora sia da ragazzina sia da
ragazza sia da adulta - diciamo sessantenne. Nelle
foto in bianco e nero degli anni sessanta lui l'aveva
subito riconosciuta. Nelle altre, a colori, la signora,
nel contesto di una pagina memoriale curata da un
probabile ammiratore, appariva lei, ma molto
trasformata, com'è logico. L'avrebbe riconosciuta? E
lei avrebbe riconosciuto lui? Forse no. Tuttavia
questo è un gioco sterile, ormai. Diciamo che la
signora aveva dimenticato in tanti anni trascorsi il
nome e cognome del nostro; e anche il resto.
In merito a questo caso, e per concludere, bisogna
ipotizzare che il nostro abbia ai tempi vissuto con
intensità la pur saltuaria “presenza” della donna in
questione, e che lei invece non abbia vissuto con
intensità la “presenza” saltuaria del nostro. Che lei
sia stata importante per il nostro; che, invece, lui
non lo sia stato per lei. A un “pieno” di vissuto può
certo corrispondere un vissuto di scarsa presa.
'Tanto ti ho pensata', potrebbe credere il nostro,
'che mi sembra impossibile non essere stato pensato
da te.' Il nostro, docente universitario per quaranta
anni, è talvolta chiamato, salutato e intrattenuto in
strada da donne e da uomini adulti che lo
riconoscono in quanto sono stati suoi allievi. “Mille”
a uno, il quale talvolta stenta a riconoscere uno di
quei “mille”. Forse il nostro è stato per la signora
uno tra “mille”. Chiudiamo con Borges:
“infinitamente esistette Beatrice per Dante. Dante
pochissimo, forse nulla, per Beatrice.” (Opere, vol.
II, pag. 1305).
La stufa

Avevo una casa in collina dove non andavo più


perché era troppo isolata rispetto al paese e per
arrivarci dalla provinciale si doveva percorrere un
sentiero scosceso che aveva bisogno di essere
aggiustato ogni anno. Peccato, mi dicevo, il posto a
parte i suoi difetti è piacevole. Così presi coraggio e
un giorno mi trovai, dopo aver viaggiato per circa
un'ora, all'imbocco del sentiero. Ora, poiché da
almeno dieci anni nessuno che io sapessi lo aveva
dovuto o voluto percorrere, il sentiero era quasi
scomparso, per cui parcheggiai l'auto e, con lo zaino
in spalla, mi avviai verso la mia casa. Erano poche
centinaia di metri. La casa mi si mostrò immersa nel
suo abbandono. Da ogni parte erbacce, rovi,
cespugli vari. Un albero era caduto. La porta
d'ingresso, l'unica, per miracolo si aprì. Voglio dire
che infilai la chiave nella serratura, la girai due o tre
volte a sinistra, di questo dettaglio mi ricordavo, ed
entrai. L'ultima volta che avevo passato qualche
giorno lì, senza pensare che non ci sarei ritornato
per dieci anni, avevo lasciato ogni cosa in giro. Nella
penombra che regalavano certe fessure delle
imposte e la porta d'ingresso aperta alle mie spalle,
intravidi, dopo aver calpestato diverse buste di carta
marce sparse sul pavimento, una macchinetta per il
caffè: era ammuffita fuori e dentro; le sedie, il
tavolo, la dispensa, lo scaffale, l'acquaio, il divano e
la poltrona, insomma tutto era polveroso e coperto
di ragnatele. Di cacche di topo. Non mi aspettavo di
meno. Raccolsi le buste, la posta, da terra pensando
che mi sarebbero tornate utili per accendere la
stufa. Al piano di sopra, cui arrivai constatando che
la scaletta era ancora in grado di sostenermi, aprii
subito l'unica finestrella ed ecco il letto, il comodino,
il cassettone, l'armadio, i pochi quadretti alle pareti,
la finestra stessa: ogni cosa era coperta da
ragnatele. Non mancavano ragni morti e,
dappertutto, come a pianterreno, mosche morte,
cacche di topo. Dentro l'armadio lenzuola e coperte
erano ingiallite e puzzavano. Avevo lasciato coperte
lenzuola e materasso sul letto. Ero scappato di lì
come una furia. I topi avevano rovinato tutto. A
proposito: di buono c'era che la casa non era stata
visitata da curiosi, non dico ladri, insomma come ho
accennato la porta d'ingresso non sembrava essere
stata forzata e neppure le imposte dovevano essere
state toccate, almeno non da umani. La coppale
naturalmente era quasi tutta scrostata, e il legno era
ingrigito. Nel gabinetto, accanto alla camera, detti
un colpo magistrale al finestrino, come non mi ero
scordato che serviva fare per aprirlo, e cercai di
girare le manopole dei rubinetti, di tirare la catena:
niente. Almeno l'acqua l'avevo chiusa. Gli
asciugamani erano ammuffiti. Tornai di sotto, girai
verso sinistra una leva sotto l'acquaio che mi
ricordavo serviva per aprire l'acqua e poi aprii, con
una torcia in mano, lo sgabuzzino - già dieci anni
prima era una trappola. La porta si apriva male,
doveva essere stata deformata dall'umidità. Però, mi
dissi guardando in un angolo che sapevo, almeno ho
della legna da ardere. A proposito: e la mia bella
stufa a legna con il suo bravo tubo che saliva fino al
soffitto, lo forava e su su svettando verso il tetto
dava calore anche alla camera di sopra? La mia bella
Mourn Warning? Se ne stava lì, in attesa, nera e
coperta di ragnatele. Era l'ora di pranzo, la luce
entrava dai vetri sporchi delle due finestre a
pianterreno e anche su in camera, dopo che le avevo
liberate dalle loro imposte. Non bastava, aprii tutto.
Più tardi mi sarei dedicato all'accensione delle
lampade – a petrolio. Ecco un'altra ragione
dell'abbandono di quella casa in campagna. Se non
era stata la principale. Me ne ero dimenticato, della
luce a petrolio, il trasando generale mi aveva
assalito distraendomi. Ma ne avevo, di petrolio?
Incespicai nello sgabuzzino, trovai la latta del
petrolio, la scossi. Ce n'era. Del resto prima di sera
sarei salito al paese a far rifornimento del
necessario. A parte la mancanza di corrente
elettrica, che a un lettore come sono io è
indispensabile, a parte il sentiero scosceso ogni anno
da rimettere a posto, un difetto della casa che avevo
comprato da giovane era l'umidità, giù nella cucina
sopportabile soltanto in piena estate, quando del
resto parecchio tempo io lo passavo fuori, a
camminare, a leggere, a fare qualcuno dei lavoretti
la cui assenza aveva come risultato la mezza giungla
tutt'intorno. Iniziai a dare una pulita, ma ero già
stanco delle ragnatele, stavo già rompendomi le
scatole. Forse avrei dovuto cercare qualcuno che
facesse pulizia al posto mio, dargli la chiave e
tornare dopo una o due settimane, pensavo
tossendo e starnutendo. In paese, in paese, presto!
- mi dicevo mentre rabbrividivo. Forse dovrei
accendere la stufa, pensai subito dopo. Mi ricordavo
che serve preparare uno strato di carta con sopra
dei "legnetti", accendere il fuoco e poi appoggiarci
sopra dei pezzi di legno più grandi. Di carta ne
avevo poca, quelle buste raccolte da terra -
dov'erano state spinte a cura di qualche postino da
sotto la porta d'ingresso – erano umidissime e
poche, come i giornali vecchi che avevo visto nello
sgabuzzino, detto ai tempi “sgabuzzo”. Comunque la
carta ce l'avevo. Magari in paese avrei poi comprato,
insieme al resto che però in testa lo avevo in stato di
vaghezza deprimente, un paio di giornali e li avrei
fatti a pezzetti. Carta asciutta, insomma. A
proposito: su in camera sopra il comodino c'erano
due libri rimasti lì tutto quel tempo. Avevo cercato
nel cassettone una spazzola per quei due libri, che
del resto facevano pena per quanto mosci erano
diventati a causa dell'umido. Aprire le finestre! Non
avevo trovato nessuna spazzola. Erano: Il
manoscritto di Brodie di J.L.Borges, e un Maigret. I
cassetti si aprivano di colpo e solo sotto sforzo, cosa
che sempre mi aveva messo di cattivo umore.
Dicevo dei "legnetti". Bisognava che uscissi di casa e
facessi un giro per procurarmeli. Ritrovai nello
"sgabuzzo" la cesoia a leve lunghe dono di mia
suocera - funzionava ancora benissimo. Zac zac.
Feci scorta di "legnetti" ficcandoli via via in un sacco
trovato nello "sgabuzzo". Lo "sgabuzzo" era l'unica
presenza propizia della casa, fin lì. Strappai la
cartaccia ingiallita e umida in tanti pezzi, composi
dei pugnetti di questa pessima carta, li sistemai nel
fondo della pancia della Mourn Warning e sopra quel
cuscino di roba giallastra disposi i famosi "legnetti",
che ai tempi erano stati motivo di malumori: chi va
a prendere "legnetti"? Io ci sono già stato, oggi
tocca a te e così via. Senza contare, valutai, che i
"legnetti" devono essere secchi. Sopra i pugnelli di
carta giallastra e i "legnetti", che non erano affatto
secchi, misi pochi pezzi, pochissimi, di legno,
finalmente cavai di tasca l'accendino e detti fuoco
alla base della mia costruzione, fatta a memoria
dopo dieci anni che parevano cinquanta. Ahi, la
fiammella! La carta bruciò senza che la fiamma si
degnasse di dar fuoco ai "legnetti", troppo umidi.
Questa la mia spiegazione. Primo tentativo fallito.
Scoraggiato da questo più che da tutti gli altri
scacchi subiti nella mia iniziativa riparatoria, presi la
decisione di andarmene - non in paese, di tornare in
città. Chiusi le imposte, le finestre, trascinai fuori
quattro sacchi di sporcizia e diciamo rottami
(coperte due, due lenzuola, due cuscini, un
materasso, porcherie varie) che avevo raccolto
tossendo e starnutendo, infine chiusi la porta. Poi la
riaprii, infatti non avevo girato la leva dell'acqua,
che, almeno quella, scorreva. Mi bagnai le mani e la
faccia. Girai a destra la leva sotto l'acquaio. Zaino in
spalla, sacchi in mano, salii fino alla provinciale,
caricai due sacchi, tornai alla casa, presi gli altri due,
li spinsi fino all'auto, infine misi in moto e feci mogio
mogio ritorno in città. Non appena vidi un cassone
mi fermai e con grande soddisfazione ci scagliai
dentro i quattro sacchi. Arrivato, scrissi subito un
elenco di tutto quello che avevo da fare per far
rivivere la casa in collina. Per la verità l'elenco si
trasformò in un testo somigliante a quanto ho scritto
fin qui, per cui ricominciai su un altro foglio il lavoro
di elencazione senza svolazzi. Essenzialmente avrei
dovuto, pensavo, andare prima in paese e solo dopo
sarei tornato giù alla casa. Mi venne in mente che
avrei potuto far rifornimento lì di tutto quello che mi
serviva, e che avrei potuto chiedere “consigli” a
qualcuno, e così via. Era Aprile. Passarono un paio di
mesi prima che trovassi il coraggio di tornare. Con la
stagione buona riuscii a rimettere, da solo, le cose
abbastanza in ordine, feci perfino qualche “doccia”
all'aperto usando un tubo di gomma fissato al
rubinetto dell'acqua, della cui esistenza mi ero
dimenticato. Com'è naturale misi da parte la
questione stufa, non dico che me ne dimenticai.
Anzi, la guardavo spesso, la Mourn Warning, come
un'amica trasformata in nemica. Arrivai a
trascorrere perfino sei sette giorni di seguito in quel
“paradiso”! Non appena però mi ero abituato alla
casa e alle sue scomodità che ora mi urtavano come
non avevano fatto quand'ero giovane - anzi, mi
erano piaciute - ecco che mi prendeva la smania di
andarmene. E me ne andavo. Alla fine dell'estate la
casa era di nuovo abitabile, non dico comoda,
abitabile. Almeno non tossivo né starnutivo. Estate
secca, per fortuna. Preso più o meno lo slancio, in
autunno tornai. La Malaposta, questo il nome del
luogo in questione, si presentava, a chi scendesse il
sentiero - due bravi e cari operai armati di “ruspa” e
spargitori di malta lo avevano restituito allo stato di
percorribilità - si presentava come un qualcosa di
abitabile posto appunto ai margini di un piccolo
“pianoro” di poche centinaia di metri quadrati -
proprio l'insieme che decenni prima me l'aveva reso
desiderabile. Solo che avevo trent'anni. E ora
settanta e più. In autunno tornai e volli com'è
naturale accendere la stufa. Dovevo. Avevo fatto
scorta di "legnetti", di carta, di legna da ardere
tagliata come si deve, di “diavolina”, il veleno
facilitante la fiamma. Avevo tutto sotto mano. Era
giorno, diciamo che mi stavo portando avanti prima
che facesse scuro. Composi gli strati e accesi. In
effetti la fiamma, aiutata dalla “diavolina”, contagiò i
“legnetti”, componente arricchita stavolta da piccole
schegge di legno secco acquistate all'uopo,
cedimento grave rispetto alla ruspanza dei normali e
casuali “legnetti” da raccattare nei paraggi della
casa. I “legnetti” a loro volta contagiarono la legna
da ardere vera e propria, insomma tutto pareva
funzionare. Per qualche minuto mi sentii in pace con
la stufa, con la casa, con il mio presente. E poi
venne il fumo, che invase tutta la stanza a
pianterreno, cucina-pranzo-soggiorno. Fumo, tanto,
e fui costretto ad aprire le finestre, prima quelle a
pianterreno, poi quella su in camera da letto. Infine
il fuoco si spense. Ho detto che era giorno,
mortificato battei di nuovo in ritirata, feci il bagaglio,
chiusi casa, e tornai in città. Durante le settimane
seguenti cercai di non pensare troppo alla Mourn
Warning, ma quel che mi venne in mente fu, in un
momento di lucidità, che il tubo della stufa doveva
essere ostruito. Ma certo! In tutti i decenni chi mai
lo aveva preso in considerazione! E negli ultimi dieci
anni di abbandono poteva certo essere rimasto
occluso. Serviva uno spazzacamino, tutto qui, mi
dissi in quel mio momento di lucidità. Uno
spazzacamino da cercare in paese. Nei paraggi, non
certo in città! Tuttavia trascorsero l'autunno e
l'inverno e non tornai alla Malaposta, né pensai alla
Mourn Warning - quasi. Dicono che la campagna ti
assorbe, ma anche la città ti assorbe. A tratti la mia
disfatta mi tornava in mente, non lo nego, ma l'idea
dello spazzacamino, non distinta da spiritosaggini
tipo 'ci saranno anche spazzacamini femmina, o
sono solo maschi?' - e altre che ometto,
s'indeboliva. Valutai l'ipotesi di far cambiare tutto il
sistema di riscaldamento, già che c'ero; di
interessare un “tecnico” della MW, e non so che
altro. Intanto m'immaginavo che la casa, dopo tanti
mesi di solitudine, l'avrei trovata certo umida, in più
venni spesso visitato da fantasie tremende circa
danni al tetto, un dettaglio di cui non mi ero mai
occupato né ai tempi né da ultimo. Trascorse
l'inverno. Una mattina di Maggio presi e tornai alla
Malaposta, per coglierla per così dire di sorpresa.
Per cogliermi di sorpresa portai con me una scala
pieghevole “professionale”. Sarei salito sul tetto
della Malaposta per la prima volta - a più di
settant'anni! Misi a tacere mia nonna, mia madre,
che dentro di me mi ammonivano, tirai giù dal
portabagagli dell'auto la scala e l'appoggiai, pronto
all'impresa, alla grondaia del tetto. Entrai in casa.
Sì, era freddo, un freddo di mesi, e umido. Di sopra
appena un po' meno. I topi avevano sentito odor di
veleno e si erano tenuti alla larga. Bene, mi dissi,
ora serve solo accendere la stufa e rincuorare l'aria.
Vuotai dai resti del tentativo ultimo fatto la pancia
della stufa e insieme - schifiltosamente – ne tolsi un
grosso bolo annerito che forse anni prima era
appartenuto al regno animale. Un intruso che aveva
fatto un brutta fine. Rifeci tutto come sappiamo –
ormai ero diventato un maestro – presi una zolletta
di “diavolina” con le pinze, l'accesi e detti fuoco alla
cartaccia. La fiamma si propagò sui “legnetti”, e
poco dopo prese anche la legna vera e propria.
Stetti a guardare. Niente fumo! Non si spegneva!
Chiusi le due finestre a pianterreno, salii su e chiusi
l'altra, poi corsi nel gabinetto e mi guardai allo
specchio, esultante; aprii con il solito colpo
magistrale il finestrino per vedermi meglio. Sì,
esultavo. Riscesi, uscii di casa, di corsa mi allontanai
di una decina di metri e guardai: il fumo usciva
placido e sorridente dal comignolo. Per scaramanzia
lasciai la scala “professionale” appoggiata alla
grondaia del tetto. Ero felice di gioia, come diceva
quello.
Una bancherella a Bratislava

La casa editrice Vallecchi di Firenze pubblicò nel


giugno del 1941 Concerto domenicale, di Nicola Lisi,
un libro che raccoglie otto racconti. Nel 1942 una
sua copia venne catalogata con il numero
d'inventario 1152, segnatura XX-119, dalla
Biblioteca Universitaria Slovacca, sezione
d'Italianistica, a Bratislava, città che si trova non
lontana da Vienna, a est. Per motivi che stanno forse
tra la liquidazione della biblioteca, o della sezione
d'Italianistica, chissà, e, più probabilmente, la non
restituzione alla medesima del volume da parte di
un lettore diciamo distratto, una mia amica tedesca
da molti anni residente a Firenze, durante un suo
viaggio, trovò il volume su una bancherella di libri
usati, a Bratislava. Quando? Non ricordo, direi
attorno al 2010, certo in estate. Comunque acquistò
il libro e, tornata a Firenze, me lo donò. Questa
copia di Concerto domenicale, che era passata da
Firenze, viale dei Mille, sede ai tempi e per
moltissimi anni dopo della casa editrice Vallecchi, a
Bratislava, dopo circa settanta anni fece ritorno a
Firenze trovando la sua nuova, forse la terza, ma
chissà, sistemazione nel mio studio, in linea d'aria
distante un chilometro dal viale dei Mille. Il primo
dei racconti a me pare il migliore. S'intitola
“Angiolo”. Narra di un contadino che una notte
sogna di trovarsi innamorato spiritualmente della
sorella di un parroco della zona, Angiola. Angiolo si
sveglia, depreca la vicinanza della moglie e subito
inizia a progettare la realizzazione del suo sogno.
Invia piccioni viaggiatori all'amata. Uno dei biglietti
viene recapitato però a un'altra donna, interessata a
sposarsi anche a causa dell'età non più giovanile.
Costei, intrusa involontaria, scrive, sotto il
messaggio di Angiolo per Angiola, la sorella del
parroco, la sua risposta, la quale dal piccione viene
riportata ad Angiolo, che non fatica certo a prenderla
come un incoraggiamento dell'Angiola. 'Vieni da me,
amore.' In corso d'opera amorosa Angiolo si mette
in mostra nell'ambito della sua comunità con alcune
più o meno lievi mattane che alla fine lo conducono
al manicomio. La mia amica tedesca, cui prestai il
libro che lei mi aveva regalato, pensò di tradurre
nella sua lingua il racconto qui riassunto - ve ne
prego, non tenete conto della mia sintesi: è
bellissimo. Ne mandò poi copia a suo padre, un
letterato che ne restò soddisfatto solo in parte.
Inutile proporre la traduzione a me, da parte
dell'amica: ai tempi ero anche meno pratico in fatto
di tedesco di quanto non lo sia oggi, del resto ancora
incapace di apprezzare lo stile. Tornando al giro
fatto dal volume, in effetti io propendo per l'ipotesi
del fruitore della biblioteca distratto o infedele,
magari per motivi serissimi come la guerra, ma
entro il 1945; rimangono decenni interi a
disposizione. Un lettore prende in prestito un libro,
per qualche motivo non lo restituisce né la biblioteca
può o vuole recuperarlo; il libro entra a far parte
della biblioteca privata di quel lettore, passa il tempo
e lui, o qualcuno dopo di lui, si libera di quel libro,
forse non solo di quello, ma di molti in blocco,
vendendoli. Già ci avviciniamo alla bancherella di
Bratislava.
Un genere crepuscolare di introspezione

Per motivi di famiglia il professor Cosimi portò con


sé all'università, dove quella mattina doveva iniziare
una sessione d'esami, la figlia Marta, una bambina di
circa quattro anni. Entrò nell'atrio dell'edificio con la
piccola sulla schiena a mo' di zainetto. Com'è
naturale il professore attirò l'attenzione dei bidelli
chiusi nella loro portineria a vetri e dei molti studenti
che sostavano nell'atrio. Il professore rispose con
qualche sorriso alle blande manifestazioni di
interesse e di simpatia che gli indirizzavano i
presenti e si diresse verso la porta dell'ascensore.
Salì al secondo piano insieme a qualche studentessa,
uscì dall'ascensore e presto fu davanti alla porta
della sua stanza, dove, contrariamente a quanto
richiesto dalla presidenza e dalla direzione
dipartimentale, avrebbe esaminato i candidati.
S'intenda qui che la presidenza della scuola di
scienze sociali e la direzione del relativo
dipartimento esigevano che gli esami non si
svolgessero nelle stanze, o meglio negli “studi”, dei
docenti, ma invece nelle aule. Che d'altra parte
erano scomode perché non concepite per colloqui
ravvicinati (banchi fissi), ma giustappunto per le
cosiddette lezioni frontali. Del resto il professor
Cosimi non era l'unico trasgressore della detta
pretesa di separazione del piano dipartimentale dal
piano delle aule. Nell'attico la collega Bastoni
prendeva, in estate, il sole. All'affollamento del
primo giorno della sessione estiva di esami, molto
partecipata, nel caso del professor Cosimi si sommò
anche la presenza della piccola Marta, che ben
presto ritenne di averne abbastanza di quella
situazione poco confacente alla sua età e alle sue
esigenze. Mentre l'assistente dottor Mesti faceva
l'appello nel corridoio colmo di studenti, ciò che
costituiva il motivo essenziale della contrarietà della
presidenza della scuola e della direzione
dipartimentale allo svolgimento degli esami nelle
stanze dei docenti, il professor Cosimi dové badare
alla bambina all'interno dello studio, il cui uscio era
rimasto aperto. Aveva sparso pennarelli e fogli in
quantità allo scopo che la bambina si distraesse
disegnando. “Che cosa disegno?” - aveva chiesto
prestissimo Marta. “Mah”, aveva risposto il padre,
memore della propria infanzia, “disegna dei cavalli!”.
“Ma io non so fare i cavalli!” - aveva protestato lei.
“Allora disegna qualche altro animale, un cane, un
gatto, un elefante!” - aveva consigliato il padre
intanto che l'assistente, preso dall'appello, si
produceva in fiacche spiritosaggini e complicate
incomprensioni circa la corretta dizione dei cognomi.
Molti degli iscritti all'esame non si erano presentati,
o magari erano semplicemente in ritardo. Parecchi
iscritti alla scuola di scienze sociali provenivano da
località anche distanti dal capoluogo. “Ma non mi va
di disegnare!” - aveva concluso la bambina. “Allora
ascolta una favola registrata!” - aveva proposto il
padre, che si era attrezzato in fretta predisponendo
solo due generi di passatempo. Il tavolo era grande,
ma non grandissimo, e sarebbe bastato a mala pena
a ospitare il professore, l'assistente e l'esaminando
di turno. A Marta fu proposto un tavolino basso da
cui il professore aveva tolto la cosiddetta stampante.
O meglio, l'intenzione era quella, tuttavia Marta non
manifestava affatto la volontà di farsi sistemare a un
tavolino, pensò il padre. Tra le studentesse e gli
studenti numerosi erano gli stranieri, ciò che
aumentava gli equivoci dell'appello e le tetre
spiritosaggini dell'assistente. Esaurito l'elenco degli
iscritti all'esame – intanto si erano fatte le ore 9,30
– il professore iniziò gli esami. L'assistente dalla
soglia dello studio, aperto, chiamava la persona
interessata e l'esame poteva aver inizio. Qualche
studentessa, qualche studente, aveva chiesto e
ottenuto di assistere agli esami, per cui lo studio si
riempì. Marta comunque non disegnava né ascoltava
favole registrate, invece guardava i presenti e li
intratteneva ottenendone qualche risposta
stiracchiata. Si capisce che il giorno dell'esame non
è quello più adatto per fare la conoscenza della figlia
di quattro anni del professore. Verso le 10,30 il
direttore del dipartimento apparve sulla soglia della
stanza del professor Cosimi e si produsse in una
muta messa in scena della sua disapprovazione: in
effetti il corridoio del dipartimento si era trasformato
nel ponte di una nave di sfollati – studentesse e
studenti, esaurite le non numerose sedie, si erano
seduti sul pavimento. Il professor Cosimi rispose alla
pantomima del collega direttore alzando le spalle,
allargando le braccia e, colpo magistrale, indicando
prima la piccola Marta, che si era addormentata in
braccio a una giunonica studentessa, e poi il proprio
sterno. Il direttore annuì, emise una smorfia di
comprensione, fece ciao con la destra e si ritirò non
senza guardare risentito la fila delle studentesse
accosciate, in qualche caso anche gradevoli da
vedere, e degli accoccolati studenti. Tutto andava a
meraviglia, Marta compresa – almeno fino a quando
non fosse venuto il turno della studentessa
giunonica; gli esami filavano con accettabile lentezza
e con un congruo numero di bocciature mascherate
da “consigli” a ripresentarsi alla prossima sessione,
magari autunnale. Il professor Cosimi era severo e
“cattivello”, si mormorava da anni. Invano qualche
povera anima aveva sperato che la presenza della
bambina potesse ammorbidirlo. Non che il professor
Cosimi prendesse troppo sul serio la propria materia
- psicologia sociale - o se stesso, come facevano
molti suoi colleghi, bensì abbastanza. E
quell'abbastanza era molto più di ciò che sarebbe
piaciuto a studentesse e studenti. Marta attorno alle
ore 11 si riscosse dalla sua comoda posizione in
grembo alla studentessa giunonica giusto nel
momento in cui era arrivato il turno della ragazza.
Venne messa giù e, dopo essersi guardata attorno,
uscì semplicemente nel corridoio, incuriosita da tutti
quei tipi seduti sul pavimento, come riferì
l'assistente, che cauto l'aveva seguita sulla porta
dello studio. La bambina interloquiva con gli studenti
trovando perfino qualcuno che le desse spago. La
studentessa giunonica fu ringraziata dal professor
Cosimi e, dopo poche domande d'esame, consigliata
a ripresentarsi possibilmente nella sessione
successiva. Era una giovane donna di casa; sorrise,
raccolse libri, fotocopie e appunti, infilò il tutto in
una busta, salutò il professore e se ne andò. La
preside della scuola, informata dal direttore del
dipartimento della situazione creatasi attorno allo
studio del professor Cosimi, dove la figlia del
medesimo dormiva in braccio a una studentessa,
aveva “pregato” una bidella di andare a fare un
sopralluogo e possibilmente di occuparsi della
bambina. La bidella dopo circa un'ora salì al piano
del dipartimento e si mise alla ricerca della figlia del
professore, trovandola infine nello studio della
professoressa di statistica, la quale era abituata a
tenere la porta sempre aperta e – meglio – aveva in
un angolo del suo tavolo un vassoietto di caramelle.
Insieme alla assistente, la professoressa di statistica
stava intervistando Marta circa il perché e il per
come una bambina così piccola si trovasse in una
scuola universitaria. Le due donne fingevano di non
sapere che la piccola era figlia del collega Cosimi,
infatti la voce si era rapidamente sparsa da
pianterreno su su fino all'attico dell'edificio - tanto la
noia accademica poteva essere risvegliata da una
simile novità. La bidella salutò la professoressa,
l'assistente, la bambina e riferì dell'incarico avuto
dalla preside. Dal momento però che Marta stava
benone nel regno della statistica e delle caramelle
né mancava di sentirsi importante; dato poi che lo
studio del professor Cosimi distava dallo studio della
professoressa di statistica una quindicina di metri, la
bidella fu consigliata di ritenersi libera di andare a
riferire alla preside che tutto andava per il meglio.
Gli esami di psicologia sociale, sfiorando la “strage”,
procedettero fino alle ore 13, quando il professor
Cosimi uscì nel corridoio e rimandò i profughi rimasti
in attesa alla mattina seguente. Non era
superstizioso, non temeva gli accidenti né la fama di
“cattivello”. Mise in ordine lo studio, raccolse le
carabattole proprie insieme a quelle della bambina,
congedò l'assistente, chiuse a chiave la porta e
passò senz'altro a prendere la figlia sappiamo dove.
L'assistente già l'aveva avvisato da almeno un'ora
del colpo di fulmine esploso tra Marta e le due
studiose di statistica. Andarono anzi tutti e quattro
insieme a pranzo in un vicino ristorante dove la
bambina, lasciando suo padre stupefatto, mangiò
senza far storie. Verso le ore 15 i commensali si
salutarono non senza promettersi prossimi incontri e
interviste reciproche. Infine il padre scortò la figlia a
casa, dove ogni cosa aveva ripreso il suo verso
giusto. La maggior parte degli studenti e delle
studentesse che si presentavano agli esami in
genere e di coloro che il professor Cosimi aveva
interrogato in mattinata erano non frequentanti e
all'incirca ignoti. Tra i noti in quanto frequentanti le
lezioni di psicologia sociale, o almeno presenti a
qualche occasione di cosiddetto ricevimento, quella
mattina il professor Cosimi aveva interrogato
un'allieva speciale. Ne era stato conquistato mesi
prima e aveva stretto con lei, Vanna, una relazione
“non professionale”. Aveva consigliato anche a
Vanna di ripresentarsi nella prossima sessione. Il
programma di studi non era massiccio, ma constava
di libri alquanto difficili da studiare, specie da parte
dei non frequentanti. Vanna aveva frequentato e
aveva studiato, ma, forse ritenendosi privilegiata e
quindi favorita, aveva risposto alle domande del
professor Cosimi in modo abbastanza sciatto e
affrettato. Se n'era andata indispettita forse anche a
causa della presenza dormiente della piccola Marta.
Non che ne ignorasse l'esistenza! All'alba del giorno
dopo il professor Cosimi, sveglio accanto alla moglie
restituita al “tetto coniugale” dopo la bufera che era
stata la causa del primissimo contatto di Marta con
l'università, rifletteva giustappunto sul significato,
per dir così, del suo portar la figlia con sé “in
facoltà”. Come molti altri il professor Cosimi
stentava ad accettare la nuova forma - “scuola” -
per ciò che nel tempo aveva avuto il nome,
dopotutto succulento, di “facoltà”. Ricco di possibili
interpretazioni. “Scuola”, imitando l'inglese, sapeva
di poco e ricordava anche troppo la scuola.
Comunque fosse, lui aveva portato Marta con sé
all'università perché la madre era uscita malamente
di casa, proprio quella mattina degli esami,
sospettando il marito di “un nuovo tradimento”.
Sospetto privo di prove concrete, aveva pensato lui
trascurando il fatto che i sospetti si nutrono di
sfumature. Che una donna come sua moglie non
aveva bisogno di “prove”: non era mica un
poliziotto, un investigatore. E dopotutto aveva
ragione lei: il marito, il professore, stava avendo una
“relazione non professionale” con una ragazza poco
più che ventenne. Con una “bambina”! Nella
penombra della camera il professore fu catturato suo
malgrado dal pensiero che il suo ingresso “in facoltà”
con la figlia sulla schiena, Marta, avesse illustrato in
modo segreto il suo coinvolgimento tutt'altro che
paterno con Vanna. Marta e Vanna si confondevano
nella mente del professore: la bambina sulla schiena
diveniva adesso un “emblema” della sua condizione
di professore “irregolare” in quanto amante di una
studentessa. Portatore di una difformità!
Non che lui credesse di essere il primo o l'unico
fruitore di tale condizione, certo. Da che mondo e
mondo, pensava nella penombra della camera, cose
del genere erano sempre avvenute e chissà quante
volte! Da che mondo è mondo altri docenti avevano
patito le stesse pene che ora toccavano a lui! Patito
e goduto, in un nodo maligno. “Bocciare” Vanna non
era servito a ripristinare la distanza “conforme” tra
un professore e i suoi studenti. Oramai il danno era
fatto. Semmai la bocciatura, insieme alla presenza di
Marta nella stanza dell'esame, poteva aver tolto
coraggio a Vanna, che di coraggio ne aveva
dimostrato, nelle ultime settimane, anche troppo,
allarmando il professor Cosimi e indispettendo la
moglie di quest'ultimo. L'emblema “professore che
reca sulla schiena una bambina” era servito forse a
catturargli qualche simpatia nel pubblico, là
nell'atrio, ma lui sapeva che esso aveva un altro
significato. Marta rappresentava un qualcosa di
segreto: Vanna. La relazione con Vanna, nella
penombra della camera più che alla luce delle
riflessioni, per altro alquanto irrazionali, del
professor Cosimi, ora nell'ambito del significato
segreto dell'emblema – e continuiamo a chiamarlo
così – diveniva un qualcosa di insano a carico
dell'uomo, del marito, del padre, del docente! Come
se, al posto di Marta, fosse stata sulla sua schiena
Vanna. Come se, si riscosse il professor Cosimi nella
penombra della camera, non significa che qualcosa
è, ma che qualcosa sembra qualcos'altro. Il
professore era dunque scivolato in un genere
crepuscolare di introspezione. Si alzò dal letto e
andò a farsi un caffè. Un'altra quantità di esami
quella mattina lo aspettavano.
La chiosa *

Nel cesso dipartimentale, una mattina, a cose fatte


Fausto si accorse che i suoi calzoni erano bagnati,
molto bagnati nella zona del cavallo. Ne scoprì il
motivo nello strato di liquido giallognolo che copriva
il pavimento vicino alla tazza, inondazione
perpetrata da qualcuno, servitosi del tubo spruzza
acqua disposto secondo le nuove „normative
europee“, allo scopo di nettare preventivamente da
microscopiche impurità la ciambella della tazza,
oppure per pulirne al meglio l'interno, o per spregio
contro il dipartimento. Fausto doveva rivestirsi con
quei pantaloni bagnati, per fortuna di colore nero
dissimulante, si accertò, l'alone della macchia, che
su un colore chiaro sarebbe stata visibile, e, peggio,
doveva partecipare a un “consiglio” in programma
per quella stessa ora. Entrò dunque nella sala delle
riunioni come in incognito, quanto alle mutande
ormai umide e ai pantaloni bagnati, e fu costretto a
sedersi insieme, un po’ discosto tuttavia, ai colleghi,
tenendo dentro di sé l'irritazione. Con il passare dei
minuti essa iniziò tuttavia a crescere per quanto
fuoriusciva in forma verbale dalla bocca del nuovo
direttore, professor Braccagni, che impudente
esprimeva critiche, per altro generiche, in merito ai
progetti presentati dai colleghi - costoro, i
prevaricati, tutti rigorosamente taciti e
apparentemente insensibili all’impudenza e
prevaricazione del nuovo direttore, afflitto da una
grave forma di manìa ora espressa anche dal
restringersi della sua voce su un registro
serpentesco. L'irritazione per l'offesa che l'anonimo
adacquatore e, temeva Fausto, pisciatore, o
l'anonima adacquatrice e pisciatrice gli aveva senza
volere inferto nel cesso, insieme a quella causata
dall'obbligo di rimanere nella sala delle riunioni in
quelle malbagnate e malgerarchiche condizioni,
ricevettero forza irresistibile quando il nuovo
direttore iniziò a denigrare le forme, certo non la
sostanza, essendo a ciò il nuovo direttore dell'ufficio
ricerca impari, del progetto presentato da Fausto,
„Kurt Lewin e il concetto di contemporaneità,
paragonato al concetto di sincronicità di Jung“. Roba
da depositare in SIAE. Aveva presentato il progetto
in forma sintetica, Fausto, due righe, riservandosi
come d'uso di illustrarlo a voce, e ora il nuovo
direttore ne segnalava come al culmine del suo sibilo
l’inadeguatezza. Se avesse indossato mutande e
calzoni asciutti, Fausto avrebbe reagito alle parole
del nuovo direttore in modi relativamente morbidi,
ma indossava mutande umide e calzoni bagnati,
quindi tolse la parola al nuovo direttore e difese la
sostanza del suo progetto, segnalandone l'originalità
e nella circostanza risultando patetico, c'è da
sospettare. Andava quindi avanti a difendere il
progetto, a illustrarlo, il nuovo direttore ammutolito,
i colleghi taciti, spiegava, quando il decano,
professor Tarsitano, a sua volta tolse la parola a
Fausto, per rimproverargli con asprezza di occupare
troppo tempo e di interloquire secondo modi
inurbani con un collega - si riferiva al nuovo
direttore. Intimidito dalla perentorietà del decano,
Fausto stentò a riprendere il suo discorso, ma presto
riacquistò coraggio, e si orientò nella sua
perorazione verso gli altri colleghi, allo scopo di
stanarne qualcuno, almeno tra quelli
precedentemente denigrati dal nuovo direttore; usò
quindi l'argomento degli usi e costumi del
dipartimento in merito alla presentazione scritta dei
progetti, negli anni sempre effettuata secondo modi
sintetici; interpellò l’ex direttore, 'racconta tu, Silva,
se le cose non stanno così', prese a dire, ma cavò
solo un timido 'effettivamente sì', da quel don
Abbondio, subito prima di una nuova interruzione
del decano, il quale colpì Fausto affermando che si
vergognava di lui. Dové riprendere la parola, odiava
i colleghi, dichiarò infine, ebbene sì, che avrebbe
ripresentato il progetto in modo circostanziato, e al
decano rinfacciò di avergli tolto e ritolto la parola,
rimarcando che i suoi modi erano „antidemocratici“,
come gli piacque dirgli infine, senza che da quello
fosse espressa alcuna reazione. Dopo pochi minuti,
la riunione procedeva, Fausto si alzò e visibilissimo
uscì dalla sala, non senza essere poi inseguito lungo
il corridoio da una collega, ansiosa di rivelargli che
lui aveva fatto da “capro espiatorio”, che il vero
bersaglio delle denigrazioni non era lui, ma altri, i
cosiddetti assenteisti. Fausto entrò nel suo ufficio
riflettendo sul fatto che il professor Embricato, suo
nemico segreto dal 1977 a causa di un sequestro
studentesco che li aveva colpiti insieme e divisi in
merito alla sua gestione, si era goduto senza parere
tutta la scena, prese lo zaino e si diresse
velocemente verso l'uscita. Il popolo dovrebbe
sapere che i docenti universitari non sono sottoposti
a vincoli veri di orario e fanno all'incirca i comodi
loro. Come Fausto quella mattina lì. Più di tutto gli
premeva arrivare a casa, lavarsi bene e cambiarsi. A
casa corse in bagno, si sfilò i calzoni, la camicia
inumidita dal contatto con il probabile piscio altrui,
infine le mutande, s'infilò nell'acqua calda della
vasca, si strofinò domandandosi se il tutto non
avesse un che di „fobico“, si asciugò e mangiò
qualcosa insieme alla rabbia. Disteso sul letto
nell'ombra della camera cominciò a riflettere, certo
non a dormire, ma intanto scemava un po’ la rabbia
che fino a quel momento aveva pensato al posto suo
impedendo al ridicolo di farsi luce, e si trovò in breve
a porre la cosa che gli era capitata durante la
riunione in rapporto alla cosa che gli era capitata nel
cesso, iniziò a domandarsi se la prima in ordine di
tempo non fosse stata una „chiosa profetica“ della
seconda, se la seconda in ordine di tempo non fosse
stata altro che una laboriosa traduzione della prima.
Perfezionò dunque la convinzione, fin lì negli anni
incompiuta, che quel dipartimento non faceva più
per lui. Peccato però: aveva ancora bisogno dello
stipendio mensile.

* Significa “interpretazione, spiegazione”, ma anche


“macchia”. Nel dizionario Melzi (probabilmente nella edizione
del 1910) se ne trova conferma. Non altrove (Albertoni-
Allodoli, Devoto-Oli, Palazzi).

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