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Nel 1969 gli Usa sbarcarono sulla Luna, mentre in Italia si ebbero avvenimenti pubblici di notevole rilievo come la strage di Milano, 12 dicembre. In mezzo a simili enormità il protagonista di questo libro tentava di ritagliarsi il proprio spazio privato.
Titolo originale
Nicola Spinosi. L'anno dello sbarco sulla Luna.
Nel 1969 gli Usa sbarcarono sulla Luna, mentre in Italia si ebbero avvenimenti pubblici di notevole rilievo come la strage di Milano, 12 dicembre. In mezzo a simili enormità il protagonista di questo libro tentava di ritagliarsi il proprio spazio privato.
Nel 1969 gli Usa sbarcarono sulla Luna, mentre in Italia si ebbero avvenimenti pubblici di notevole rilievo come la strage di Milano, 12 dicembre. In mezzo a simili enormità il protagonista di questo libro tentava di ritagliarsi il proprio spazio privato.
Racconti Titoli: La pianista La vispa Teresa Una sconosciuta da Hong Kong Barchette di carta Una vedova L'anno dello sbarco sulla Luna Lathe biosas La stufa Una bancherella a Bratislava Un genere crepuscolare di introspezione La chiosa
I testi sono riferiti in terza o in prima persona a un
certo Fausto Cosimi, nato dopo la fine della seconda guerra mondiale. Ogni riferimento a fatti o a persone della realtà va considerato con scetticismo. La pianista
Il convalescente Fausto doveva farsi visitare da un
medico legale che avrebbe poi eseguito, per conto dell'assicurazione del feritore, una perizia allo scopo di stabilire la percentuale di invalidità da riconoscere al ferito. L'appartamento del medico si trovava in una zona della città che Fausto non conosceva ancora e che quindi attirò la sua attenzione. Arrivato sul posto in anticipo – era il primo pomeriggio - non mancò di guardarsi attorno con cura. Prevalevano alti edifici di colore bianco le cui pareti esterne consistevano in grandi tessere rettangolari che qualcuno, nell'occasione Fausto, avrebbe potuto scambiare per grandi pezzi del Domino. Non mancavano i “pallini”, tuttavia bianchi. Ampie le finestre quadrate. L'insieme, realizzato attorno a una piazza rettangolare quasi nuda e vagamente “metafisica”, pensò Fausto, era nuovo e perciò ancora non lavorato dall'uso degli abitanti, del resto in quel momento non visibili. Individuato il portone d'ingresso dell'edificio in cui abitava il medico, Fausto azionò un pulsante nell'apposito pannello cromato - “Dottor I. Boni - medico legale” - e, dopo poche decine di secondi, gli venne aperto. L'atrio era spazioso e rinfrescato da una quantità di piante, luminoso inoltre, perché il portone d'ingresso consisteva in un grande cancello vetrato cui corrispondeva, dalla parte opposta, un cancello identico. Oltre, Fausto intravide un giardino. Salito in ascensore al quinto piano, Fausto fu ammesso nell'appartamento da una donna del tipo casalinga - cortese ma tacita. Nell'interno, come all'esterno dell'edificio, prevaleva il colore bianco. Non c'era un'ombra, quasi, le grandi finestre illuminavano senza pietà gli ambienti, anzi: l'ambiente. Fausto, lasciato solo dalla signora, vide che l'appartamento occupava due livelli: infatti lungo il corridoio d'ingresso, spazioso, spoglio e però scintillante di svariati arredi in acciaio, a sinistra c'era una balaustra e, sotto, un salone arredato con scaffali su cui largheggiavano poco numerosi libri, con poltrone in acciaio e cuoio nero; in fondo, un pianoforte a coda nero, chiuso il coperchio della cassa, era per metà coperto da spartiti, tanti da formare una distesa che in disordine continuava sul pavimento. Alle pareti del salone erano appese foto montate “a giorno” le cui immagini erano rese impercettibili dalla distanza e dai riflessi della luce. La non inelegante modernità dell'arredamento corrispondeva alla novità dell'edificio e del quartiere, pensò Fausto, subito distratto dalla comparsa, sulla soglia di una porta laterale, di un uomo. Basso, tarchiato ma curvo, larghissimi i pantaloni grigi a righe nere, pantofole di cuoio marroni, calzini grigi, giacca e gilet neri, camicia bianca e cravatta nera. Calvo, gran cranio, avanzò aiutandosi con un bastone che, guarnito all'estremità bassa di gomma, faceva presa sul pavimento. Tagliò per così dire la strada a Fausto volgendo appena la faccia lunga e larga verso di lui, e lo salutò: 'dunque allora: lei sarebbe ...' 'Fausto Cosimi', rispose il giovane, 'sono qui per la visita.' 'E sennò perché?' - chiese l'altro. Senz'altro non cerimonioso, poteva avere cinquanta anni come settanta, considerò Fausto. Tese la destra al medico, che, impegnato con il suo bastone, la ignorò indicando con la mano sinistra la stanza da cui era appena uscito. L'arredamento qui era vecchio: a parte il lettino coperto da un lenzuolo bianco e l'armadio a vetrina colmo di strumenti del mestiere, il tavolo, ingombro di ogni genere di oggetti e di carte, pareva, incluso un lume a due globi verdi, quello di un avvocato d'altri tempi. Così una libreria contenente volumi, alcuni inclinati a destra, altri a sinistra, e fascicoli accatastati. Dietro il tavolo una grande poltrona di legno imbottita, a braccioli; davanti una sedia, anch'essa imbottita, ma priva di braccioli. Sul pavimento un tappeto persiano i cui primi fruitori dovevano esser defunti da parecchio tempo. Il dottor Boni si sistemò non senza fatica dietro il tavolo e fece accomodare Fausto sulla sedia. 'Vediamo', esordì accogliendo tra le mani i fogli della documentazione della degenza in ospedale che Fausto aveva tolto dalla borsa. Data una scorsa ai numerosi referti annuendo quasi compiaciuto, il dottor Boni sollevò gli occhi su Fausto, lo guardò per qualche secondo e fece un gesto che il giovane interpretò come un invito a parlare. Fausto era stato investito da un autofurgone mentre transitava in moto, ecco l'essenziale; con un breve tuffo era finito contro lo spigolo di un edificio. 'Ho preso una cantonata', dichiarò allo scopo di far sorridere il medico, il quale tuttavia non raccolse quel motto di spirito. Trasportato in ambulanza all'ospedale, dopo qualche ora Fausto aveva subito un'operazione di sutura al fegato, ferito dallo spigolo - o cantonata. La degenza era durata un mese e mezzo. Ora Fausto aveva davanti la convalescenza. 'L'ho anche dietro', aggiunse sfacciato, sperando che il medico manifestasse qualche complicità. Un perito della società assicuratrice che dovrà liquidarmi diverse decine di milioni di lire - in base alla percentuale di invalidità stabilita dalle parti - non sorride, pensò Fausto mentre il medico gli faceva cenno di svestirsi. Il giovane si alzò dalla sedia e avvicinandosi al lettino si tolse golf e camicia. Si distese. La cicatrice, ancora fresca, era lunghissima, 'cinquantacinque centimetri' precisò Fausto. Parlò del dimagrimento che lo aveva 'trasformato in un sosia del digiunatore kafkiano', altro vano tentativo di sedurre il medico; parlò della dieta strettissima che stava seguendo e avrebbe dovuto seguire ancora per mesi. Descrisse la pena delle prime settimane di degenza, l'insonnia, il dolore, la fatica. Infine dichiarò che la cicatrice gli creava dell'imbarazzo e che gliene avrebbe creato per tutta la vita, specie durante rapporti intimi. 'Certe cose', replicò il medico stiracchiando finalmente un sorriso, 'si fanno al buio.' Rivestendosi, Fausto chiese al medico se era lui il pianista. 'Non mi dica che nell'incidente lei ha battuto anche il capo', rispose il medico con una certa vivacità. 'Come pensa che io possa suonare nelle condizioni in cui mi trovo?' 'No', rispose Fausto, alquanto ferito dalla battuta del medico, 'la testa non l'ho battuta. Ho visto il piano, tutto qui. E' la signora, che lo suona?' Il medico annuì avaro, si avviò alla porta dello studio, l'aprì e fece segno a Fausto di uscire. La visita era finita. Accompagnato alla porta d'ingresso dalla signora, intanto riapparsa, Fausto le chiese del piano. 'Suonavo', rispose lei, che nel frattempo aveva indossato un camice da infermiera, 'ma ultimamente non riesco più a farlo …' Non ci fu né tempo né modo di scoprire che cosa ostacolasse il pianismo della signora. La visita era davvero finita. La vispa Teresa
Una sera d'estate presi l'auto e salii a Fiesole con
l'intenzione di assistere a un concerto cui ero stato invitato da una mia conoscente, musicista e membro dell'orchestra. Contrabbasso. Pensavo di avere l'ingresso gratuito al Teatro Romano, ossia che la mia conoscente mi avesse segnalato all'organizzazione come persona invitata, invece all'ingresso un addetto mi assicurò che non ero nella lista e che avrei dovuto pagare 35.000 lire il biglietto d'ingresso. Contrariato feci dietro front. Dalla piazza del paese mi si offrì la vista ritagliata di Firenze, in basso. Pensai che era come a Taormina: al posto del mare, la città. Scesi dunque, per rifarmi della delusione patita, a piedi la Via Vecchia Fiesolana e presto mi trovai in un piccolo amabile spiazzo panoramico che tuttavia era occupato da diversi cani e dai loro padroni. I cani scodinzolavano in giro liberi e, mi accorsi, avevano lasciato diverse tracce della loro salute sul terreno. Nuova contrarietà. Tra i padroni vidi tuttavia una giovane che anche troppo garrula teneva il suo cane al guinzaglio allungabile, così le rivolsi qualche domanda per sapere la ragione di quella canizza. Non usai certo questo termine gergale che mia nonna adoperava al posto di “casino” e che forse derivava da antiche cacce al cinghiale in Maremma. Non che mia nonna cacciasse! 'Dobbiamo pur lasciare le nostre creature libere, qualche volta', mi rispose, ora un po' in affanno, la donna. 'Lei però tiene la sua creatura al guinzaglio', osservai. 'E' perché sto per andarmene', spiegò lei. Tornammo quindi indietro appaiati su per la salita e presto raggiungemmo la piazza di Fiesole non senza che io avessi tentato di produrmi nella mia trovata: che Firenze era come il mare, e Fiesole come Taormina. Occupata in modo anche lezioso con il suo cane, lei mi dette zero spago, per cui al disappunto provato una mezz'ora prima alla biglietteria del Teatro Romano mi si aggiunse un nuovo motivo di scontentezza. 'Voi padroni di cani siete secondo me una ben sinistra confraternita', le dissi, intenzionato a raggiungere prima possibile il parcheggio dove avevo lasciato l'auto. 'In che senso?' - chiese lei. 'Nel senso', risposi, 'che considerate le vostre creature, come dice lei, delle persone che per altro voi tiranneggiate.' 'Ma sono persone!' - replicò la donna. 'No, non sono persone', cercai di precisare io, del resto più per polemica che per convinzione. 'Sono vostri zimbelli, gli date la parte di persone che al guinzaglio sono costrette ad ascoltarvi … sa quante volta ho sentito padroni di cani parlar loro come se potessero capire … cose come “ora non ti comportare come al solito”, oppure “ma quante volte la fai stamattina?” … è assurdo!' 'Ma ai cani bisogna parlare!' - replicò lei. Non sapevo dove fosse diretta, io comunque stavo marciando, distanziandola, verso il parcheggio. Avevo da fare una ventina di chilometri fino all'Impruneta, dove abitavo. 'Ai cani si deve parlare, come ai neonati … anche se non capiscono le parole che diciamo, loro sentono la nostra voce … insomma si parla anche per avere un rapporto, non solo per comunicare chissà che cosa …' affermò lei. 'I cani non sono neonati umani', dissi voltandomi di nuovo, 'sono lenze che in cambio della loro sottomissione vi sfruttano …' 'Lenze?' - chiese lei perplessa, 'che cosa vuol dire lenze?' 'Furbacchioni, servi furbacchioni, in questo caso', spiegai rendendomi conto che lei forse era troppo giovane per capire certi modi di dire … 'E comunque anche voi padroni', aggiunsi, 'siete servi dei vostri cani, li tenete al guinzaglio e loro tengono al guinzaglio voi …' 'Lei vede la cosa in negativo', disse la donna fermandosi intanto che il suo cane, di razza spinone, esaminava la base di uno dei numerosi paletti metallici presenti nella piazza. La cinofila avrà avuto trent'anni. Non molto alta, aveva i capelli biondo-rossi, ricci, abbastanza corti, e ostentava un'aria troppo allegra, almeno in rapporto al suo cane e beninteso prima di impegnarsi nel colloquio in salita che ho appena riportato. Il suo viso non mi convinceva in fatto di autenticità. Ero sospettoso in genere e spietato nell'occasione. Comunque era il volto di una rossa, né le mancavano efelidi. Bella boccuccia. Indossava un abito leggero color ruggine, scuro, direi cangiante. E scarpe bianche di tela. 'Le piacerebbe', rincarai, 'tenere al guinzaglio un uomo così come fa con il cane … a proposito: come si chiama?' 'Ulisse', rispose lei con una smorfia … ' … e stare legata al guinzaglio di lui!' - conclusi. 'Ma che idee!' - replicò la vittima del mio scontento, che dipendeva dal curioso tipo di buca che la bassista mi aveva dato. 'Dove le ha prese?' 'Dove le ho prese … dalla mia esperienza del mondo umano e femminile le ho prese, diamine!' - mi risentii. Intanto mi ero fermato anch'io, poco oltre lei e Ulisse. 'Ci sono anche uomini, tra gli amici dei cani', obbiettò la rossina, 'non “padroni” … come la mettiamo con gli uomini?' 'E' lo stesso, stessa merda!' - spropositai. 'Lo so benissimo che i cani vi servono per far conoscenza tra voi, per i vostri flirt … portate fuori il cane magari per raggiungere qualche altro cinofilo, parlo con cognizione di causa, per farvelo accarezzare, il cane ... e se è una cagna, per farvela accarezzare …' Ci eravamo intanto fermati, io e la Tilde, questo il nome dell'allegra cinofila, e seduti a un tavolino … Placido, Ulisse si era accucciato vicino alla sua padrona … del resto aveva il guinzaglio che lo obbligava … al bar mi aveva invitato lei. 'Boccaccesco, il nostro, eppure non antipatico come vorrebbe sembrare', disse la Tilde segnalandomi senz'altro che aveva capito il senso delle mie parole … 'Non voglio sembrare antipatico', replicai, 'magari lo sono, ma non importa, guardi, torniamo al punto dolente: avete trasformato stasera uno dei balconi più belli su Firenze in un cesso per cani … addio romanticismo della panchina in pietra, addio silenzi …' 'Addio monti sorgenti dall'acque, ed elevati al cielo', motteggiò la Tilde non senza strapparmi un ghigno. Tuttavia volli privilegiare un moto di dispetto, come se la sua presa in giro “manzoniana” mi avesse messo, contro la mia volontà, a tacere … Ero già abbastanza anziano, ai tempi, non mi andava di esser infilzato così da una ragazza … ebbene, lo riconosco, “addio silenzi” era stato da parte mia patetico … Volli sfogarmi, le raccontai che cosa mi aveva fatto scendere fino allo spiazzo dove lei e i suoi amici erano riuniti per il sabba … le raccontai che non avevo voluto tirar fuori quelle 35.000 lire per assistere a un concerto che non m'interessava se non per fare magari due chiacchiere con la bassista, che mi ero sentito indignato: ma come? Mi fai venire dall' Impruneta a Fiesole per ascoltare non so che cosa e non mi riservi un posto? 'La sua conoscente se ne sarà dimenticata', mi suggerì crudele la Tilde … 'Se non è vero che ha invece millantato un credito con l'organizzazione del concerto, credito che non ha!' - replicai... 'Millantato un credito! Ma come parla lei?...' 'Lo dice perché non sa come scrivo!' - risposi soddisfatto … Ora intendevo separarmene, mi levai dalla sedia con l'intenzione di pagare il conto delle nostre sobrie bevute, ma la Tilde mi trattenne … 'Abito a Fiesole', disse … 'E io all' Impruneta', risposi, 'mina turpe, tu permani!' - aggiunsi … 'E cosa vorrebbe dire?' - chiese lei … 'E' un doppio anagramma di “Impruneta” ', risposi … 'Ma va' … ora controlliamo …' fece lei. Tirò fuori dalla borsa di stoffa un quadernino e una penna e si mise a provare i miei anagrammi sulla carta. 'Sì, il gioco torna … ma “mina” cosa c'entra?' - chiese infine. ' “Mina” sta per insidia, certo è un termine d'altri tempi*, ma con gli anagrammi bisogna accontentarsi …' 'E quindi?' - chiese ancora la Tilde, 'che cosa significa che un'insidia turpe permane?' 'Ma non lo so', risposi, 'è un gioco … comunque ora devo andare … lieto di averla incontrata!' 'Ah, mi cambia idea allora!' - esclamò credendo di prendermi in castagna … 'Ma no, lei mi ha colpito subito … e sa perché? Perché faceva la vispa Teresa con Ulisse … in mezzo a quei coglioni …' 'La vispa Teresa … sarebbe?' - chiese . 'Lasciamo perdere', tagliai corto. Pagai il conto e me ne andai senza voltarmi. Non era un bel modo di congedarmi, lo sapevo, né immaginavo che la Tilde mi seguisse … Credeva di aver trovato un nuovo cane.
* V. il latino minae, che significa minacce.
Una sconosciuta da Hong Kong
Un giorno di Settembre Fausto riceve un messaggio
w.a. il cui esponente fotografico mostra una graziosa giovane asiatica sconosciuta. Il testo rimarca nostalgico l'assenza del destinatario, tale Mike, e gli chiede di farsi vivo. Perché no? - si dice Fausto considerando la foto. Risponde al messaggio. La probabile giovane ha scritto di aver incontrato Mike mesi prima a Venezia, di aver avuto con lui una piacevole esperienza e di avergli prospettato la possibilità di guidarlo nella città di Hong Kong, da cui lei proviene o sostiene di provenire. Fausto chiede all'interlocutrice il motivo per cui lei è in possesso del suo numero di cellulare, vecchio di oltre un ventennio e sparso dunque in ogni dove. Emerge questo racconto: il menzionato “Mike” avrebbe dato alla probabile ragazza non il suo numero di cellulare, ma un altro, quello appunto che corrisponde a Fausto. 'Non sono Mike', scrive Fausto, 'guarda', aggiunge riferendosi al proprio esponente fotografico w.a. La probabile ragazza ammette: 'non ci conosciamo'. E però non molla la presa, per cui inizia uno scambio di messaggi. Fausto, senza valutare che potrebbe essere la sua una mancanza di tatto, chiede a Li qin, questo il nome della probabile ragazza, perché lei scriva in lingua italiana. In effetti piuttosto bene, anche se in certi casi usa il maschile là dove sarebbe da attendersi il femminile. Li qin risponde che non scrive bene in lingua italiana, ma invece usa “un traduttore” (che potrebbe aver trasformato in “Mike” un Michele). Fausto allora le chiede se conosce l'inglese, per cui i due iniziano a scambiarsi qualche messaggio in tale lingua. Magari lei continuando a servirsi di un “traduttore”, chissà. Li qin dichiara di non capire gli italiani ('I don't understand italian cultural customs'). Si riferisce forse al supposto mariolo “Mike”, che per togliersela dai piedi le ha dato, parrebbe, un numero sbagliato. Tuttavia troppe sono le incognite per concludere la giustezza di quanto precede. Per dirne una, Li qin potrebbe lei aver preso in modo erroneo il numero di “Mike”. Ma è vero che oggi i numeri non si memorizzano o si scrivono su un foglietto, si lasciano invece lì per lì tramite un messaggio alla persona interessata. La storia “Mike” è in conclusione dubbia, pensa il sospettoso Fausto. Eppure la grazia sexy dell'immagine di Li qin, se questo è il nome, lo avvince. Tre sono le foto: una dovuta al presto cassato w.a. “business”, una al w.a. personale, una deliberatamente allegata dalla probabile ragazza. 'A me piace la Cina', scrive Fausto, 'la sua storia del XX secolo e la sua gente, che in Italia lavora duro.' 'Io potrei introdurti alla cultura cinese', scrive Li qin, e noi mettiamo da parte sconvenienti giochi di parole … Prosegue lo scambio. A un tratto Li qin chiede qual è la città in cui vive Fausto, che insospettito decide, e sia pure con rammarico, di non rispondere. Immagina la possibilità che la tipa sia un'avventuriera che vuol lucrare qualcosa da lui. Non sembra astruso l'allarme che in Fausto suscita la domanda circa la città di lui. Il sostanziale anonimato dell'interlocutrice, il suo curiosamente liscio passaggio da un “Mike” a Fausto, giustificano qualche prudenza. Anche se a malincuore, lui pensa di lasciar cadere lo scambio appena cominciato con Li qin. Che non mantiene, a sua volta, il contatto. Dopo qualche tempo Fausto diffonde tramite w.a. ad alcuni dei suoi “contatti” un fotomontaggio derisorio il cui oggetto è un noto uomo politico italiano e, senza volere, lo invia anche a Li qin. Non si tratta di un errore “freudiano”, infatti che cosa dovrebbe mai indurre Fausto a coinvolgere una probabile ragazza cinese in uno scherzo concepito chissà da chi ai danni di un uomo politico italiano? Digitazione erronea... La mattina seguente Fausto trova sorpreso un messaggio di Li qin, forse preconfezionato, di genere ottimistico e luminoso. Tipo “biscotti della fortuna”. Sembra contenta. Di aver riagganciato il pollo? Ricomincia lo scambio. Quando Fausto verso le ore sette di mattina si sveglia, Li qin si trova a vivere il suo primo pomeriggio, le ore quattordici. Quando verso le ore ventitré Fausto va a dormire, Li qin con ogni probabilità si avvicina al termine della sua nottata. Essi arrivano comunque a duettare ampiamente. Fausto non sospetta più che Li qin sia un'avventuriera, pensa invece a una persona intenta a vivere la delusione “Mike” ('he cheated on me') insieme al nuovo amico trovato per caso. Quando gli viene di nuovo chiesto dove vive, stavolta risponde: 'Florence'. Li qin pone domande. Quanti anni ha Fausto? Mamma mia! Eppure da una foto - da lei richiesta – lui ne dimostra, pare, molto meno di quanti ne ha! A proposito di Firenze Li qin dichiara di conoscere il marchio “Gucci” … Ciò potrebbe rientrare nella professione attribuitale da Fausto: prodotti in pelle, cose così. Come? I primi messaggi di Li qin sono partiti da un indirizzo w.a. “business” rinviante – stando a internet - a un marchio di pelletteria, com'è naturale a Fausto del tutto ignoto. Dunque: Fausto - senza porre domande all'interessata - s'immagina che lei lavori negli “accessori di pregio” e viva, ebbene sì, nella celebre Hong Kong. (Solo verso la fine di Novembre salterà fuori che ha - o lavora in - un negozio di abbigliamento femminile). 'Conosco Gucci', scrive Fausto, 'ma non è il mio campo'. Saputo che Fausto ha lavorato invece nell'ambito della psicologia, che è un pensionato dello Stato, che ormai “ammazza il tempo” leggendo romanzi e scrivendo brevi testi, Li qin gliene chiede un assaggio. Bramoso di avere una lettrice in Cina il non più tanto sospettoso fornisce alla probabile ragazza le coordinate perché lei legga certi brevi testi narrativi di cui lui è autore. Li qin, forse attaccandosi alla trascorsa professione psicologica di Fausto, gli presenta il suo attuale disagio. Dichiara di dormire due ore per notte e di restar sveglia in preda a cattivi pensieri. Fausto propone che tali cattivi pensieri e l'insonnia potrebbero essere legati alla delusione patita a Venezia a causa di “Mike”. La ragazza sembra, nei limiti della lingua italiana del “traduttore” di cui dispone (Fausto si dichiara infatti inabile a trattare in inglese argomenti di una certa complessità), accogliere tale “diagnosi”. Li qin, scrive Fausto, dovrebbe intanto pensare a dormire per esempio assumendo un ansiolitico; quanto ai cattivi pensieri afferma che le delusioni capitano e serve tempo per venirne a capo. A Li qin tuttavia non piacciono gli psicofarmaci, preferisce bere un po' di vino prima di andare a letto. 'Purché sia buono', risponde Fausto. Pare che tale supporto psicologico intercontinentale funzioni. Li qin inalbera un 'my life is fine', insomma tenta di razionalizzare lo smacco, non senza tentare di consolarsi con l'ipotesi che “Mike” abbia sbagliato a scrivere o a digitare il proprio numero. Dichiara comunque che il tipo un giorno si pentirà di averla ingannata... Continua intanto a chiedere a Fausto informazioni personali: dove vive, con chi, seguitando però a situarlo a Milano: è un tic che induce Fausto a credere che “Mike” si sia a suo tempo dichiarato abitante di quella città. Fausto dà risposte sincere e sopporta lo snobismo della ragazza, che giudica “messy” e “run down” lo studio la cui foto lui le ha mandato. E no, lui non ama più la moglie, c'è solo una certa amicizia... Fausto sa bene che potrebbe esserne, stando alle tre immagini di Li qin da lui esaminate, addirittura il nonno, ma è lo stesso occupato da fantasie che lo vedono intraprendere un viaggio esplorativo fino a Hong Kong, distante oltre novemila chilometri aerei da Firenze - proprio lui che ha sempre viaggiato poco. Oppure: Li qin arriva a Firenze, comunque in Italia … invitata … ospitata in un “bell'albergo” … Ciò significa soltanto che Fausto pensa molto a lei, che intanto gli ha scritto di aver male alle gengive … 'Prova un collutorio', risponde Fausto … 'Ho usato il collutorio', risponde lei il giorno seguente, 'ma non ha funzionato … ho mal di denti' … 'ti serve un dentista … oppure dell'aspirina … mi raccomando dopo aver mangiato qualcosa' … La ragazza teme i farmaci, lo sappiamo da quando Fausto le ha suggerito un rimedio contro l'insonnia … anche il collutorio … ha paura di essere contaminata? - pensa Fausto facendo intanto ipotesi sul tipo di “transfert” che manifesta Li qin nei suoi confronti … anziano “dottore”? … eppure di recente lui le ha chiesto se conosce “China girl”, una canzone di David Bowie il cui video non lascia dubbi sul tipo di rapporto tra la protagonista femminile, asiatica, e l'uomo, un europeo … molto fisico … nessuna replica da parte di Li qin … Anziano “scrittore”? “Figura paterna”? Semplicemente amico? Nei primi giorni dicembrini l'idillio si rompe quando la probabile ragazza afferma di voler mettere a fuoco lo “stato mentale” di Fausto, “pessimistico”. Gli propone alcune domande che però, riferite ai metri quadrati dell'abitazione di lui, al tipo di auto, alla presenza in casa di “pets”, alla disponibilità di un giardino privato eccetera fanno pensare al nostro che la probabile ragazza voglia farsi di lui un “profilo” economico-finanziario e non psicologico. Per cui Fausto conclude con un “No reply”. Inizia una piccola disputa a distanza durante la quale Fausto si fa beffe delle conclusioni di Li qin circa ipotetici rovesci finanziari da cui sarebbe stato colpito, motivo per cui non possiede “una Mercedes”, ma invece un'utilitaria, veste casual eccetera. La probabile ragazza, sospettata ora di nuovo da Fausto di essere un'avventuriera in cerca del pollo da spennare, dichiara infine che, dato il conflitto nascente, la conversazione può fermarsi. Fausto ne conviene e le augura buona fortuna. Concludendo: in questa storia di certo abbiamo solo che il numero telefonico della probabile ragazza corrisponde a Hong Kong e che le tre foto si riferiscono una giovane asiatica in carne e ossa. Tutto il resto, a cominciare dal primo contatto w.a., è discutibile. Anche i sospetti di Fausto che la probabile ragazza sia un'avventuriera lo sono. Scrive il nostro: ho avuto l'impressione che talvolta Li qin non tenga conto di quanto già le ho scritto, come se sotto quel nome si trovassero ad agire più persone non molto informate l'una di quanto scrive l'altra. Che quindi “Li qin” sia la denominazione di una piccola abborracciata congrega di operatori cinesi dediditi all'adescamento progressivo di polli da spennare. A parte ciò, noto che “lei” ha presto iniziato a umiliare la mia esteriorità, abbigliamento, arredamento. Poi ha sparato che la modestia delle cose che possiedo possa dipendere da investimenti sbagliati. In pratica mi ha chiesto quanto mi entra al mese. Prodromo magari a una proposta di occuparsi “lei” delle mie sostanze. Altro: dopo l'approccio “Mike” “Li qin” ha tranquillamente accettato che io fossi un altro. Non è strano? Dopo la pausa, quando per errore “le” ho mandato il fotomontaggio derisorio di un uomo politico italiano, “lei” subito ha ripreso a scrivermi … Sono segni di un probabile interesse a tenermi agganciato. Le moine, i messaggi tipo “biscotti della fortuna”, i complimenti per i miei scritti “più penetranti di missili”, potrebbero rientrare nel suo manipolarmi. Abile, perché in definitiva umano. Scrive ancora Fausto: nel corso del tempo, via mail ho ricevuto una quantità di proposte da parte di persone sconosciute che, illustrate le proprie attuali calamità, di solito malattie terminali, mi descrivevano la vita loro come un susseguirsi di malefatte che avevano fruttato un certo numero di milioni in moneta pregiata. Desiderando devolvere tali capitali a istituzioni benefiche tali persone divenute prede di pentimenti mi chiedevano di fare da tramite. Non ho mai dato loro spago, per un po' ne ho invece stampato e collezionato le strepitose mail, scritte in inglese o in pessimo italiano, poi ho smesso. Come queste persone, se erano persone e non bande di malfattori, avessero il mio indirizzo di posta elettronica, è di facile congettura, infatti in due decenni circa potrei aver lasciato l'indirizzo presso chiunque. In due casi ho avuto, sempre via mail, a che fare con sedicenti giovani donne, una ucraina, una francese, non in dichiarato possesso di milioni, ma invece proponenti grazie fotografiche e personali storie. L'ucraina, dotatasi dell'incredibile nome di “Bellezza Ekaterina”, mi fornì alcune foto. Ritraevano una graziosa slava, naturalmente bionda, in pose improntate per la verità a una certa “modestia” (così Alessandro Manzoni su Lucia Mondella). Mi raccontò inoltre un'affliggente vicenda familiare di miseria. Pensando che volesse un qualche mio appoggio per trasferirsi in Italia glielo negai senza discutere, e anzi domandandole perché mai mi raccontasse i fatti suoi. Nel ruolo di anziano protettore di una rampante ragazza dell'est europeo non mi vedevo proprio... La francese, che ora non ricordo quale nome avesse scelto, dopo avermi inviato alcune foto ritraenti una graziosa ragazza sui trent'anni, s'intrattenne nella sua lingua con me per un paio di settimane in modo non del tutto antipatico. Non so più che tipo di professione affermasse di svolgere. Avevo però capito che questa probabile ragazza mirava a carpirmi qualcosa, senza dubbio denaro - cos'altro? Non aveva dalla sua la storia affliggente della giovane priva di prospettiva in un Paese ridotto alla fame, ma solo la grazia fotografica. Un giorno mi avvisò di un suo viaggio professionale in Costa d'Avorio, per cui le augurai ogni bene. Presto tuttavia scrisse disperata che in Costa d'Avorio le avevano rubato tutto, soldi, documenti e carta di credito, supplicandomi di mandarle “in prestito”, non ricordo con quale mezzo, diverse migliaia di euro. Le risposi ironico, anzi canzonatorio, sfortunatamente incorrendo in una vergognosa topica dovuta alla mia misera conoscenza della lingua francese. Derobade infatti non significa “derubata”, ma qualcosa come “scarto”, come un “tirarsi indietro”. Ero io che mi tiravo indietro! Lei non mi corresse, né ci fu alcun seguito. In confronto - non dico alle cialtronesche mail delle persone pentite di aver accumulato milioni di dollari - euro, franchi svizzeri o sterline - compiendo malefatte di ogni genere, ma a quelle di “Bellezza Ekaterina” e della viaggiatrice francese – è ovvio che i messaggi w.a. di “Li qin” sono stati tutt'altra cosa. Diciamo che la sconosciuta di Hong Kong ha usato con me uno stile di cottura a fuoco lento - è vero: con qualche soprassalto sbrigativo. Tanto che potrei addirittura offrirmi uno spiraglio di revisione dell'intera storia. In che senso? “Li qin” potrebbe essere solo una donna che, come l'ucraina di cui sopra, desidera trasferirsi nel “mondo libero”, di cui pare che faccia parte l'Italia, e intende a tale scopo costruirsi un appoggio maschile possibilmente dotato di “risorse”. Da ciò, se non a causa di particolarità caratteriali o “culturali”, le sue domande tendenti a sapere il mio tenore di vita. Barchette di carta
Tito, mio caro amico e compagno di scuola nella
prima metà degli anni sessanta e poi, dopo un mio cambio di sede scolastica, pian piano perso di vista, si sposò giovane con una coetanea. Lo avevo visto durante una festa privata intrattenersi in modo inequivocabile con quella bionda non senza provare, io, una certa invidia. Non solo causata dall'avvenenza di lei, ma anche dal flirt in sé. All'inizio degli anni settanta sorprendentemente una sera fui a cena nella loro bella casa nei dintorni di Firenze. La bionda, in carriera accademica, mi aveva chiesto una consulenza in merito al concetto di “incomunicabilità”, impegno da me assolto in modo, credo, pochissimo utile. Ancora me ne dolgo! Nel corso dei decenni io e la moglie del mio amico divenuto un ricordo dell'adolescenza ci siamo incontrati per caso diverse volte all'interno della Biblioteca Nazionale Centrale - e una volta in via del Corso. Avevamo in comune, certo in parti diseguali, l'affetto per la stessa persona e potevamo intrattenerci a chiacchiera qualche minuto. Un'amicizia piccola, ma solida, direi. Venuto a mancare troppo presto l'amico, cessate le mie frequentazioni della BNC, solo in due casi ho incontrato la vedova, ma senza reciproci segni di riconoscimento. Nel primo di questi, in via Cavour, io credo che fu lei, Giorgina, a “fingere di non vedermi”. Era in compagnia di un uomo e forse non aveva voglia di procedere alle presentazioni. Nel secondo caso la scorsi da lontano in via Laura, ma non le andai incontro per salutarla. Avevamo in comune una nuova conoscenza a me cara di cui non mi andava di ciarlare con lei. Ogni tanto le scrivo mail o vere e proprie lettere. Perché? Giorgina è un'italianista, per cui, da dilettante quale sono di narrativa italiana del Novecento, spero di farmi dare un po' di spago, se non qualche entratura nel mondo delle lettere. Invano. Una volta però, avendole io inviato un mio testo su Sorelle Materassi, mi scrisse che la mia idea circa la riferibilità del titolo del romanzo di Aldo Palazzeschi a una griffe era “geniale”. Orbene, di recente le ho scritto una lettera su Romano Bilenchi e in particolare su gli atti di un convegno tenutosi circa trenta anni fa, Bilenchi per noi. Pare - da fonti non “scientifiche” mie trovate in questi ultimi anni - che lo scrittore, fascista durante il fascismo, comunista già in tempo di guerra e negli anni successivi, avesse chiesto alla moglie dell'amico Berto Ricci - poeta, matematico e animatore culturale fascista ucciso durante la fase nord africana della guerra “39-”45 - la restituzione delle lettere che lui, Bilenchi, aveva scritto a Ricci ai tempi della comune militanza fascista. Fatto sta, come risultava da un intervento tenuto durante l'accennato convegno (1993), che le lettere di Bilenchi a Ricci erano sparite. Un altro dei relatori, a proposito di Conservatorio di Santa Teresa, il romanzo forse migliore tra quelli di Bilenchi che ho letto - scriveva che l'estrema fragilità del bambino protagonista, Sergio, confligge con il machismo dell'epoca fascista - durante la quale il romanzo fu pubblicato - e che quindi Bilenchi meritava di esser considerato antifascista già nel 1940. Interessato a tale interpretazione e nello stesso tempo non fidandomene, ho esposto a Giorgina l'intera faccenda dichiarandole infine che lei è l'unica persona con cui io possa condividere temi del genere. Giorgina mi ha risposto dopo non molti giorni con una lettera in cui afferma di non avere simpatia per Bilenchi; di aver saputo da un medico di sua conoscenza che lo scrittore, anziano e afflitto da cattiva salute, tempestava il clinico di missive inerenti le proprie malattie … ha omesso invece ogni considerazione del problema da me esposto circa il probabile desiderio di Bilenchi, divenuto comunista, di rimuovere certe tracce della sua trascorsa militanza fascista; ha inoltre ignorato la questione interpretativa di Conservatorio da me sollevata. Invece ha bollato la critica letteraria rispecchiata dall'accennato convegno come “vintage”, o meglio ha scritto in modo sbrigativo: “la tua critica letteraria vintage”... Poi aggiungendo che tuttavia anche io e lei saremmo “vintage”... In merito poi alle lettere che le scrivo Giorgina ha menzionato un aneddoto sulla prodigiosa memoria di Dante Alighieri … il Poeta, interpellato da un concittadino in merito alle sue preferenze alimentari … mi piace l'uovo, risponde … dopo un anno, alla stessa persona che gli chiede come gli piaccia cucinato, subito risponde: sodo … L'aneddoto, secondo Giorgina falso, ha anche altre versioni … con il sale ... ma lasciamo perdere … Io credo che la mia amica abbia voluto rimarcare la distanza tra l'una e l'altra delle mie lettere … in effetti le scrivo di rado, come di rado in definitiva c'incontravamo ai tempi della BNC … Parrebbe qui che lei suggerisca di non essere dotata della stessa memoria di Dante... che io sia il curioso concittadino che distoglie il Poeta dalle sue riflessioni con banali domande di cui invece il Poeta a distanza di un anno conserva il filo … ma può darsi che mi sbagli … Giorgina termina la lettera invitandomi comunque a mandarle ancora le mie “barchette di carta” … carezza seduttiva e insieme contropelo corrispondente al suo piacere di trovare, in mezzo al “ciarpame” (così lei una volta) che affligge la sua cassetta della posta, una vera lettera … Mi spiego? Le chiedo un preciso parere su Bilenchi, sul suo fascismo e antifascismo, e lei mi risponde solo che le sta antipatico e che da vecchio era ipocondriaco, dando inoltre alla critica letteraria cui faccio riferimento il titolo di “vintage” … poi rimedia alla gaffe (erano quasi tutti colleghi suoi) con la precisazione che anche noi due siamo “vintage” … con la storiella su Dante sembra descrivermi come un egocentrico cui solo un prodigio come il Poeta saprebbe dare risposte … infine m'invita a continuare con le “barchette di carta” … Torniamo tuttavia alla scena inaugurale del mio interesse per Giorgina, situabile all'inizio dell'estate “64 o “65, occorsa di pomeriggio all'interno di un appartamento sito in piazza della Vittoria durante una festa organizzata non ricordo da chi. Né so se io avessi mai visto Giorgina prima. Non era una compagna di classe, ma di istituto. Lei e il mio amico, che stavo per perdere come compagno di classe (ipotesi “64) se già non l'avevo perduto (ipotesi “65), davano le spalle al rettangolo di una finestra aperta e senza dubbio flirtavano. Ora, io non solo non avevo una ragazza, ma ero stato lasciato da qualche anno dalla mia. Ero alle prese con la digestione della perdita, digestione che sarebbe durata ancora diversi anni. Frequentavo l'ambiente di piazza della Vittoria a causa dell'amicizia con il mio compagno di scuola, ma restavo un estraneo, ancora di più stavo per diventarlo (ipotesi “64) o lo ero diventato (ipotesi ”65). Che ci facevo in quella festa? Ben poco, in definitiva. E lui mi trascurava per flirtare con quella bionda … Mi trovai a essere insomma geloso sia di lui sia di lei, e in modo globale del loro flirt. Voglio dire che all'interno del mio interesse epistolare per Giorgina potrebbero esserci (stati) anche motivi diversi da quelli inerenti il suo essere un'italianista accademica e il mio dilettantismo in narrativa italiana del Novecento. Io, si potrebbe dire calcando un po' la mano, sto sporadicamente corteggiando Giorgina da qualche anno allo scopo di compensare la ferita che il suo flirt con il mio amico quella volta mi inflisse. Occhiali “freudiani” farebbero vedere in questa storia una passione per il “triangolo” amoroso, un orizzonte di tipo “edipico”, un che di omosessuale … A parte tali suggestioni, contemplabili, mi sembra degna di nota anche la vaga somiglianza tra la storia di Bilenchi con Ricci e la di lui vedova e la storia mia con l'amico e la sua vedova. Per fortuna non ho mai scritto al defunto, Tito, lettere di cui vergognarmi … Una vedova
Decenni or sono partecipai senza troppo crederci a
una serie di incontri di psicologi e sociologi attratti nell'orbita di un'associazione umanitaria operante nel settore dei malanni psichici contigui alla criminalità. La materia dell'associazione, finanziata dall'eredità di filantropo, erano i “folli rei”, per dirla all'antica, e i reclusi nei “manicomi criminali”, o meglio negli “ospedali psichiatrici giudiziari”, istituzioni che oggi, a quanto pare, non esistono più. Agire in vista del minor malessere possibile di un tizio che magari aveva sanguinariamente ucciso la fidanzata ed era finito all'o.p.g. , questa, per fare un esempio banale, la missione dell'associazione. A me, cui la vita aveva già propinato diversi calci in varie parti del corpo, e che, in altri termini, avevo una quarantina d'anni, una moglie, una figlia e un'occupazione piuttosto impegnativa, una volta scappò detto, in riunione, che quel tizio dell'esempio avrebbe dovuto essere rinchiuso e che la chiave della cella avrebbe dovuto essere buttata via, ma ciò, terribilmente reazionario, non bastò a disgustare la presidentessa dell'associazione. Anzi! Seppur di peso irrilevante ero un “accademico” anch'io. La presidentessa contava ai tempi già due mariti defunti, tra i quali il filantropo di cui sopra. Non so se avesse figli. Doveva avere una decina di annetti più di me ed era dotata di molto spirito d'iniziativa e di organizzazione. Perché io, che già avevo il mio da fare come ricercatore e docente all'università e marginalmente praticavo la psicoterapia, avessi aderito al gruppo di colleghi attratti nell'orbita di quella associazione filantropica che, tra l'altro, si occupava anche dei carcerati “sani di mente”, non lo ricordo. Avrò pensato che era qualcosa di nuovo, per me, e che, se un paio di conoscenti di mia fiducia le si erano avvicinati, sarebbe potuto uscirne un che di interessante. Non da fare, beninteso: da scrivere. Mi era sembrato comunque un carretto su cui salire - e poi “da cosa nasce cosa”. Non avevo ancora perso tutte le speranze di “far carriera”! Ah ecco! Il gruppo di colleghi accademici che davano “lustro” all'associazione era composto da persone che per decenni si erano guardate in cagnesco e che ora invece addirittura collaboravano. Mi pareva che le vecchie divisioni “politico-scientifiche” fossero in via di superamento. Ero un opportunista? Può darsi, ma avevo davanti, come ora so e allora mi limitavo a sospettare, ancora anni e anni di servizio universitario e sapevo di aver bisogno di “appoggi” - almeno per tirare avanti. Insisto: con fini intellettuali da esplicitare sulla carta. Non sono un pragmatico, mai stato! Né un riformista! Durante una riunione successiva a quella in cui avevo rilasciato il mio parere, scanzonato e viscerale ma forse “toccante”, la presidentessa disse ai presenti che entro qualche mese ci sarebbe stato un congresso internazionale, a Londra, sulla materia umanitaria che qui sopra ho cercato di tratteggiare. Lei vi avrebbe partecipato. Rivolgendosi a me - davanti a tutti, ma come in un”a parte”, quindi con un che di indiscreto che del resto il tono delle riunioni, piuttosto informale, permetteva - la presidentessa mi domandò se ero disposto ad accompagnarla a Londra, naturalmente spesato dall'associazione. Accompagnarla e partecipare al congresso, beninteso. Non ero certo noto come un insider di Londra. Non ricordo se le dissi di “no” subito, comunque a Londra con lei non ci sono andato né so più nulla del congresso. Mi parve che la proposta della presidentessa avesse aspetti di natura personale, forse per il modo in definitiva maldestro in cui me l'aveva fatta; non saprei, è passato troppo tempo. Mi considerava “un ragazzo” da “tirar su”? Da “conoscere meglio”? Da “mettere alla prova”? Le “piacevo”? Mi vidi “a rimorchio” di quella signora in un ambito di cui, come si è visto, come al solito m'importava fino a un certo punto; chiamato a farle il “controcanto” in raggelanti riunioni cosmopolite, durante colazioni e pranzi di lavoro, cene e dopo cene, a condividere l'albergo - ehm ehm, voi capite. Mi vedevo assurdamente nella veste del “toy boy”? Del “segretario”? Era, la presidentessa, una “divoratrice” di uomini? Non saprei: certo era due volte vedova. Il sacro fuoco della filantropia forse non le bastava. Eseguendo invisibili scongiuri al pensiero dei due mariti defunti della signora declinai l'invito. Del resto ero sposato. Nel giro di pochi mesi mi allontanai dal gruppo e dall'associazione, né ho più rivisto la signora. Era un personaggio interessante. Ma non tanto da “accompagnarla” a Londra. L'anno dello sbarco sulla Luna
Il 20 Luglio 1969 “l'uomo” sbarcò sulla Luna. Le fasi
dell'impresa furono coperte dalla Rai senza risparmio. 'Molto bene, è magnifico', esclamò Tito Stagno, uno dei conduttori della trasmissione tv. Né molto bene, né magnifico, per Fausto. Aveva altro per la testa. Un'antipatia piuttosto politicizzata per gli Usa. Ciò significa che se il contatto fosse stato sovietico lui avrebbe gioito? Certo di fronte a una bandierina dell'Urss piantata nel suolo lunare avrebbe provato un certo piacere - polemico. Polemica contro e polemica pro, tutto qui? Transitando qualche settimana dopo la data fatidica da piazza Viesseux Fausto avrebbe letto su un muro “Luna: l'imperialismo si espande”. E avrebbe accolto la sintesi come buona, da conservare tra i ricordi. Ancora non cultore dei medesimi, ventiduenne. Diretto in moto verso il quartiere della sua ragazza, Velia, una rossa la cui avvenenza doveva invero molto alla gioventù, cavalcava una bicilindrica italiana. Era passato da una vecchia 250 d'importazione al prodotto nazionale, sempre 250. Primi di Maggio. La moto aveva già dato diversi fastidi: un relais dell'impianto elettrico si era rotto la sera stessa del ritiro della moto dal concessionario. Luce rossa sempre accesa! Non avrebbe augurato tale perfidia neppure a un nemico, Fausto. Che poi qualche volta sotto le cosce guidando s'era visto spuntare incongrui fuochi: “ritorni di fiamma”. Bisognava fermarsi, spegnere il motore e il fuoco. Non era piacevole. C'era da procurarsi presto un cencio soffocatore, per non arrivare all'estremo: ai pompieri! Il freno anteriore, a tamburo - significa non a disco – aveva la malvagia tendenza a bloccare la ruota con le conseguenze che s'immagina un cultore della materia. L'assetto della corsa ne veniva terremotato. Già in primavera, prima di acquistare l'oggetto, mancando una lezione noiosa eccome ma allietata dalla presenza di Severina, una compagna di corso, Fausto era uscito un pomeriggio insieme a un possessore del tipo di moto qui deprecato. A bordo lui della propria vecchia monocilindrica d'importazione. Arrivati poco oltre il pratone dell'Olmo l'altro scioperato propose a Fausto di provare la nuovissima trappola. Sì. Scese in direzione di Molin del Piano. In fondo a un rettilineo frenò prima di una curva a destra, la ruota anteriore si bloccò e la moto prese a sbandare. Finì, e per fortuna, su un terrapieno. Non si fece male, Fausto. Tornò su verso l'Olmo dove l'altro, in attesa, capì a distanza che era successo un guaio. Si mise le mani tra i pochi capelli. La moto non era sfasciata, ma aveva perso male la verginità. Il tipo fu d'altra parte elegante. E comprensivo. Ritornarono in città e dal concessionario Fausto fruì, al posto della lezione universitaria marinata, di una sintesi pedagogica fiorentina erogata da un addetto del negozio: “ora gli sta più fermo!” Né Fausto, pusillo e scorbacchiato, ebbe di che ribattere, occupato già allora a far tesoro di pezzi rari di quella parlata da cui era stato sempre tenuto fuori, prima di iniziare la carriera motociclistica, a cura della famiglia, estranea al gergo popolare. Intendeva l'addetto che ora il caduto avrebbe imparato che cosa non fare eccetera. Pagati i danni, venduta la vecchia moto a un altro giovane, Fausto acquisì la bicilindrica de qua. Non è romanesco. Al termine dell'estate, scendendo da San Casciano per la via Cassia insieme a un amico armato di un ben più prestigioso mezzo, a Fausto si ripropose il blocco della ruota anteriore e la conseguente caduta, magari a velocità più bassa che non a Molin del piano, il che lo convinse a sbarazzarsi della bicilindrica italiana. La stessa intanto aveva evidenziato un altro difetto: la saldatura tra il “cannotto di sterzo” e il telaio mostrava il sintomo (un cretto) di una prossima clamorosa rottura. Fausto ipotizzò che la celebre Casa per risparmiare avesse messo in commercio una moto - nuova e dal motore piuttosto brillante - dotata però di un telaio adatto a prestazioni più modeste. Per svuotare il magazzino? Si recò dal concessionario: il cretto era evidente. Si trattò di infagottare, ma davvero, la moto e di rispedirla in fabbrica. Garanzia! Fortuna che da un angolo del salone della concessionaria una vecchia bicilindrica 500 d'importazione avesse sbattuto le ciglia all'indirizzo di Fausto. Vista e presa! Logicamente conguagliando la differenza tra il bidone nazionale e l'anziano gioiello estero. Il padre di Fausto abbozzò. Aveva abbozzato anche durante quella primavera, quando Fausto non una ma due volte nel giro di poche settimane se n'era andato a Roma. Prima prendendo in prestito l'auto della madre, poi con il treno. Lo scopo delle trasferte era recuperare un legame adolescenziale finito perché lei, Virginia, aveva preferito alla traballante certezza amorosa di Fausto, copyrighter della formula, le prospettive più solide date da un giovane concittadino laureando in Legge con cui difatti pochi anni dopo si sarebbe sposata. A proposito di “ritorni di fiamma”: erano passati sette anni, un'enormità di tempo in relazione all'età di Fausto e di Virginia, da quell'abbandono. E' vero però che da un tre anni anche lui si era unito a una concittadina, la Velia. Anche per questo il padre aveva solo abbozzato: perché era cosa nota che lui e la Velia stavano insieme. I due tentativi di ripescaggio di Virginia, bionda, bellina, molto dotata di parola, non riuscirono, era troppo fidanzata con Nino, che per occhiali aveva due culi di bottiglia, né era disposta a una storia “da quattordicenni”, così lei. Delle due visite alla capitale poco resta memorabile, se non che, ospite della nonna di Virginia, che abitava ai Parioli, Fausto ebbe una mattina del caffellatte rianimato da “uno schizzo di Mistral” - liquorino all'anice; e un detto della signora, una pistoiese dopo trent'anni a Roma ancora capace di uscite come: “aspettare e non venire le son cose da morire”. Virginia tardava, quella domenica: il transito dalla collina Fleming ai Parioli quant'era lungo! E Fausto a friggere. Virginia lo guidò alla Galleria Nazionale di Arte Moderna e Contemporanea, in Valle Giulia. Fausto dipingeva da qualche tempo nella soffitta di casa, per cui si sentiva un artista … ebbe da dire la sua … felice improntitudine ... Valle Giulia: un anno prima c'erano stati scontri tra giovani contestatori e polizia, ma sì, quelli illustrati dalla famigerata poesia di Pasolini … 'Stanno tutto il giorno a discutere e a fumare, smunti come sono e con quei loro bastoncini in mano se le danno coi poliziotti', disse materna Virginia, piuttosto eccentrica rispetto alla contestazione studentesca... Da Fausto si era fatta portare in auto da una sarta dove aveva da ritirare un abitino primaverile, una “fantasia” in bianco, blu e rosso … che a lui parve certo poco consono alla rivoluzione … Virginia condusse l' ospite anche alla Sapienza, ironia deliberata, dove i due contemplarono i segni di un intervento della pula a Lettere … quei “proletari” c'erano andati giù duri. Che altro? Neppure un bacio, al massimo qualche briciola caratterialmente seduttiva di Virginia... E sul portone di casa una sera i due ex innamoratissimi trovarono il fidanzato di Virginia … una bella scazzottata? Ma neanche per sogno... freddezza … Costui anni prima si era tuttavia fatto posto in una lettera di Virginia, consensuale, tormentata dal wertherismo di Fausto, e aveva scritto: lascia stare Virginia, hai capito? Pare che avesse scritto queste parole, difatti quella lettera Fausto non l'ebbe mai sotto gli occhi. Intercettata dalla madre, che, dopo averla letta, l'aveva fatta sparire o distrutta. Di tutte le calamità capitategli nella vita Fausto considerava, fino a poche decine di anni fa, questa doppia intrusione una delle peggiori. Ormai ne parla incallito e magari cinico. Una serie di dettagli avranno forse attirato l'attenzione di chi legge sullo stato di subordinazione di Fausto ai genitori. Era maggiorenne da più di un anno, eppure doveva, e non solo per la dipendenza in fatto di soldi, chiedere il permesso per due week end a Roma!... Assolutamente senza usare la moto!... E la madre anni prima si era arrogata il diritto di impadronirsi di una lettera destinata a Fausto, di aprirla, di leggerla, e di farla sparire non sappiamo se in modo tombale (magari in futuro salterà fuori da uno degli scatoloni colmi di reperti famigliari ammassati in un soppalco della casa in campagna, chissà a quali occhi beffardi). Non solo, si era presa la libertà piuttosto crudele – pedagogica? - di rivelargli il fatto della postilla vergata dal fidanzato di Virginia. Ma torniamo al “69: Fausto di fatto è libero di sperimentare il muro romano del fidanzamento di quei due … Certo i genitori non sono troppo rigidi … Se tuttavia Virginia afferma di non essere interessata alla ripresa di una ”storia da quattordicenni”, magari non a torto, infatti di anni ora loro ne hanno ventidue ... e avanza l'idea che lui si trasferisca a Roma … 'Come faccio a trasferirmi a Roma?' - pensa lui, immaginandosi a stento la scena di una sua richiesta al padre di un mantenimento nella capitale, vitto, alloggio eccetera … Impossibile … cambiare università … 'non lo farò', pensa … Ma non solo perché si vergognerebbe: chiedere a suo padre una cosa enorme così … siamo seri, si vede bene che Virginia non lo “ama”, che lo subisce gentilmente, sì, mettendosi anche un po' nei guai con il fidanzato, Nino … moro, meno basso di Fausto, non brutto se non fosse per i culi di bottiglia e la tipologia, come dire? - tra un Manfredi e un Montesano … Virginia non ama Fausto: mira a sposarsi ed a uscire dalle grinfie di sua madre … E intanto la Velia soffre. Il primo transito fatto in auto, una lagna, era stato alleviato dalla compagnia del Soldani, un amico fiorentino interessato a Roma. Fausto lo accompagnò fino a Trastevere. Recrimina oggi che ai tempi dopotutto lui si muoveva, alla zoppa magari, ma si muoveva, non aveva paura della vastità della capitale, di perdersi ... Non era ancora diventato “odofobico” o meglio itinerofobico, altra definizione di cui si proclama copyrighter. Ma il punto è un altro: i due amici chiacchierarono durante il lungo viaggio; Fausto parlò all'amico Soldani di quella Virginia irrecuperabile - o recuperabile … facendo il Soldani forse i suoi conti in merito alla Velia, che conosceva bene: erano stati, tutti e tre, compagni negli anni del liceo … 'se tanto mi dà tanto'. A ritorno dalla seconda trasferta, in treno, scorbacchiato mica poco, Fausto seguì per forza di udito le chiacchiere dei presenti, specie le sciocchezzuole che una giovinetta proclamava circa i “sociologi” di Trento, futuri estremisti … carina, la piccola, forse cattolica anche lei, come qualcuno degli studenti della famigerata facoltà di sociologia di Trento … Avrà partecipato, Fausto, alle ciarle? O avrà incamerato secondo il solito suo le medesime in vista di un futuro lontano? Oggi 2022, son passati cinquantatré anni e la piccola, se viva, sarà una mezza befana anche lei … Era contraria ai “sociologi”, Fausto la etichettò come nemica del “movimento”, una da “rieducare” ... se ne innamorò... fino alla stazione di Santa Maria Novella, dove scese per tornare da mamma e papà... dalla Velia. Fausto sbandava in quel 1969 non solo alla ricerca di una moto nuova, ma anche alla ricerca di una ragazza nuova, di un nuovo amore … Tre moto, tre fanciulle, sì, la Velia, Virginia, Severina, la compagna di corso … senza contare l'inclinazione ferroviaria di poche ore per la piccola oppositrice dei soci di Renato Curcio, ai tempi ancora non divenuto pericolo pubblico numero uno. Da un paio di anni Fausto provava a dipingere, non che non avesse già una certa “disposizione” - così la nonna – al disegno. Tentò la tempera, strisce di colore acquoso gli scivolarono dispettose sulla tela, pian piano imparò a dosare i gesti poi escogitando impasti di stucco, colore, acqua e vinavil. Una volta secco il risultato, ci passava sopra un cencio di lana e traeva da quegli opachi pastrocchi astratti un che di lucido. Avrebbe poi tentato l'olio? Non sappiamo, infatti di colpo, era l'autunno, smise l'opera. Dopo aver lavorato in tinello aveva chiesto ai genitori il permesso, accordato, di trasformare in laboratorio di pittura la soffitta di casa, che offriva, fatti una decina di gradini, l'accesso a una terrazza. Mai dipinto all'aria aperta! Era una stanza lunga, abbastanza stretta – corrispondeva infatti al corridoio d'ingresso dell'appartamento sottostante, dove abitava la famiglia di Fausto – e poco illuminata da una larga fessura aperta all'altezza del soffitto. Imbiancata e un poco “svolgarizzata” dall'interessato, non sarebbe mai divenuta un buon posto per dipingere, sostare: eppure Fausto non mancò di capire che, se non era una stanza solo per lui, funzionava da rifugio, misero, dai frastuoni che attraversavano le facoltà universitarie, le strade, le piazze, le assemblee - non senza rammaricarsi del proprio disimpegno politico nascente. I quadri, risultato del lavorìo di Fausto, moltissimi anni più tardi sarebbero stati buttati tra i rifiuti, giù in strada, beninteso dallo stesso ex pittore, esausto e schifato dalle fatiche dello svuotamento della casa dov'era cresciuto, in vista della vendita. Come compensazione autopunitiva dell'oltraggio che Fausto aveva o credeva di aver perpetrato ai danni dell'arredamento dei genitori, anzi della madre, da anni vedova. Salvo uno, recante sul retro la scritta: “il cielo stamattina è disperato”; che avrebbe retto ancora per qualche anno. La madre di Fausto lo aveva fatto incorniciare! Fausto aveva tentato l'astrattismo, ma siamo sicuri, conoscendone le idee successive - 'l'astrattismo porta al nulla!' - che avrebbe tentato la figura... già “il cielo stamattina è disperato”, forse l'ultima sua cosa, alludeva a una fila di platani … Perché poi “disperato”? Comunque fosse, una precisa mattina, verso mezzogiorno per la precisione, mostrando all'amico Soldani i quadri accumulati nella soffitta … Erano stati, i due, a parlare giù nell'appartamento … era ottobre … “autunno caldo”! Scioperi! Fremiti rivoluzionari? Di rivolta è sicuro! … Avevano parlato ... Fausto aveva mostrato al Soldani qualcuno dei libri da lui letti e amati - 'sei una biblioteca', aveva spropositato ironico il Soldani; poi erano saliti in soffitta. Alla fine il tutto doveva aver saziato l'amico ... che interruppe Fausto, di colpo, con la seguente incongrua domanda: 'te l'ha detto la Velia che siamo stati a letto insieme?' No, la Velia non gliel'aveva detto … Da quella mattina la soffitta rimase deserta e finirono anche i tentativi pittorici ... Già inospitale, mancante di morbidezza, restò associata alla rivelazione molesta del Soldani … Quanto al tradimento della Velia si potrebbe pensare che “chi la fa l'aspetti”. Lo sbarco Usa sulla Luna era avvenuto in Luglio, Fausto aveva nei mesi precedenti cambiato moto, senza fortuna, e tentato di cambiare, altrettanto infelicemente, la Velia con Virginia, in altri termini avevano agito in lui fastidi personali, privati … insieme al suo forte “antiamericanismo” … il minimo che possiamo affermare è che Fausto non prese sul serio quella Luna a stelle e strisce. Non unico, certo, e torna in mente, vero colpo d'ala, un libro di Guido Ceronetti, Difesa della Luna (1971). Altro gli era accaduto, di natura pubblica e anche privata. La Fiorentina in Giugno aveva vinto il campionato, evento locale e nazionale insieme che, nonostante avesse sangue viola, Fausto non si era goduto abbastanza. Anche qui in parte per motivi ideologici – il tifo calcistico era “politicamente scorretto”, espressione allora non in uso – e forse perché nel suo cuore, deluso dall'esperienza romana, era sbarcata Severina. L'avvenente compagna di facoltà - bionda come Virginia ma molto più bella e anche piuttosto tenera - uscita una mattina di Giugno insieme a Fausto dall'istituto universitario di via Ghibellina dove si era appena svolto l'esame relativo al corso dai due seguito, fino a piazza San Marco era rimasta al suo fianco... non è un percorso brevissimo … entrambi parlando di ciò che era appena avvenuto ... Più che ascoltare le caduche frasi di Severina Fausto ne sentiva felice la presenza. In piazza si salutarono. La sera si sarebbero rivisti a cena insieme ad alcuni compagni di corso e a due docenti … trattoria fuori città, in riva all'Arno... Severina invitò Fausto a sedersi a tavola accanto a lei, 'sei l'unico', aggiunse … Per frutta si ebbero delle ciliege … ignorando la pesantezza di uno dei docenti, proclamante la convenienza, a certi scopi, della “camera con bagno”... Severina si produsse a bassa voce per Fausto in una breve cantilena birichina sulle ciliege … carezzevole l'accento … Finita la cena, la collega del cultore delle camere con bagno si offrì di riaccompagnare Severina e Fausto in città... aveva una coupé … due porte … Fausto si strinse dietro … arrivati che furono dov'era parcheggiata l'auto di lui la docente maldestra, se non ammaliata a sua volta da Severina, propose di accompagnarla fino a casa … insomma la strappò a Fausto, che restò solo: quel che è peggio senza un indirizzo, un numero di telefono, niente. In compenso assediato da una febbre amorosa che sarebbe durata altissima per giorni e giorni, e dalla certezza di non aver saputo allungare le mani su quelle ciliege... 'No, lei viene con me, l'accompagno io', avrebbe rimarcato un altro. Che importa la Luna a stelle e strisce? Che importa la Fiorentina campione d'Italia? La vita però ha più forza di ogni altra cosa. Quell'estate Fausto andò, su un barcone difficile da scambiare per un traghetto, stracarico, galleggiante quasi a fior d'acqua, da Livorno alla Capraia, che ai tempi ospitava una galera. Tempo magnifico, mare calmo. La compagnia era formata dalla Velia, dall'amico Bettoni, dalla sua ragazza, Bruna, e da un'altra, abbinata a un tipo mai visto prima da Fausto. A destinazione, i sei giovani carichi di zaini e tende salirono fino all'abitato, fatiscente più che pittoresco, poi scesero di nuovo verso il mare e piantarono tre canadesi su una sorta di terrazza erbosa. Campeggio libero. Vicino bivaccava un gruppo di livornesi … Il Bettoni prese le redini economico-organizzative della vacanza, stabilì i turni del lavoro necessario a non trasformare il campo in una discarica … s'iniziò a far vita di mare... la sera i sei salivano in paese ... scarseggiava l'acqua … si cucinavano le poche cose che lo sparagnino Bettoni consentiva di acquistare in una misera bottega … Fausto interiormente se la rideva di quella micragna … ma partecipava … Improvvisatore incallito, un giorno eseguì ciò che avrebbe dovuto l'indomani … l'indomani il tizio mai visto di cui sopra lo rimproverò di aver fatto il giorno prima quanto avrebbe dovuto fare il giorno dopo … 'Eh no, oggi è turno tuo!' - disse … Iniziarono a dirsene di tutti i colori, ma neanche in questo caso si ebbe una scazzottata... in effetti la lite avvenne con i contendenti lontani reciprocamente una decina di metri … a voce altissima … echeggiante … Fausto rinfacciò all'altro di essere un piccolo burocrate! … i livornesi uscirono dal loro accampamento chiedendo 'che succede?' … presero poi le parti di Fausto e gratificarono l'altro … 'guappo di cartone', dissero … Fausto - ancora non aveva capito che nella vita poche volte gli sarebbe capitato che qualcuno gli desse ragione - godé con moderazione di quel sostegno … L'acqua era limpida … il Bettoni, che non sapeva nuotare, si piccava di pescare certi pescetti con la lenza … le creature, una volta strappate alla loro vita, venivano scagliate sullo scoglio … colpo di grazia … vergogna pura … anche di Fausto … In alto, oppostamente al villaggio a tratti frequentato da ceffi addetti al carcere che avrebbero voluto della compagnia femminile a pagamento … che fare? Denunciarli ai caramba ?... Oppostamente al villaggio Fausto in quei giorni imparò a considerare un sentiero che portava nell'interno dell'isola, traccia di una possibilità … ma il sole scoraggiava spedizioni … A tratti appariva un tipo, un solitario privo dell'impostazione ideologica ai tempi comune ... una volta domandò a Fausto se, dopo la Capraia, sarebbe andato in campagna 'per rilassarsi'... 'Io queste cose non le faccio', rispose con durezza strana Fausto, che in quella presenza sentiva un rivale … lo era certo, in rapporto alla Velia, ricca di capelli e di efelidi, ma anche in rapporto alla concezione della vita che lui, Fausto, credeva di avere … la politica e il rovello rivoluzionario al primo posto! Ciò non era affatto vero … Fausto voleva solo vivere, pensare in grande, in lungo e in largo, non voleva “rilassarsi” … Peccato che rinunciasse alle vie che la fortuna pareva suggerirgli, come quel sentiero tra la vegetazione bassa, tutto esposto al sole, misterioso come tutto ciò che ancora non si conosce … Nel concreto aveva voglia di scorrazzare sulla moto nuova, quel paio di settimane sull'isola lo avevano ridotto in astinenza … Andò in Maremma per qualche settimana, unico periodo, quello, di felice unione con la moto da poco acquistata e modificata... aveva fatto installare anche un contagiri! Quanta energia il motociclismo toglieva a Fausto, quanta ne aveva lui! Persa Severina, perso il sentiero dei conigli selvatici, persa l'occasione di gioia viola, irrecuperabile Virginia, Fausto approdò, venduto il bidone autarchico, a quella compassata bicilindrica straniera, vedi sopra, forse più adatta a un quarantenne che a un ragazzo: erano anni che ne aveva visto un esemplare dal vivo, in strada. Nera. Bassa, frusciante il suono del motore come un vento tra il fogliame degli alberi, non veloce … piuttosto: poderosa … una cinquecento! Una bicilindrica seria! Meravigliosa, elegantissima! Quanto al farla correre, ci pensava Fausto, deriso per altro nell'officina meccanica del suo quartiere, dove il titolare e gli adepti non avevano capito che di quella marca entro pochi anni si sarebbe riempita la città! Tutti a Canossa? Magari! Entro pochi anni si sarebbe riempito il mondo di moto giapponesi. Fausto cambiò meccanico, ecco che cosa cambiò quell'anno! No. Smise anche con la pittura, era anche quello un cambiamento, smise di considerare la Velia con fiducia, ecco un altro cambiamento. In vista della fine dell'anno, il 12 Dicembre alle 16,37, una bomba piazzata all'interno della Banca dell'Agricoltura, a Milano, piazza Fontana, esplose e uccise diciassette persone. Ne ferì ottantotto. I media investirono moltissimo sull'evento manifestando una fortissima propensione ad attribuirne la causa all'estremismo di sinistra: in definitiva Guidò si sentì chiamato in causa. Bombarolo quanto può esserlo un piccione, patì l'accusa e gliene conseguì un rifiuto dell'intero pacchetto confezionato dalla Rai, dai giornali e dal Sistema, lutto incluso. Tornando alle sue pene amorose, ai tempi certo aveva intenzioni poco chiare: da una parte la Velia, dall'altra la Virginia; subito dopo, nel tempo, Severina. Era giovane e apribile a esperienze varie. Viveva. Le faccende motociclistiche in questo quadro, fortune e sfortune a parte, confermano che Fausto viveva in modo molteplice. L'acquisto della moto nuova, in Maggio, ma anche la precedente escursione con quel compagno motociclista, indicano che l'amore non lo tiranneggiava. Né la politica, né il calcio, né la Luna. La mattina in cui doveva ritirare l'agognata 500 bicilindrica, arrivato in anticipo nei pressi del concessionario si sedette su una panchina nell'area di un giardinetto. A due passi da dove pochi mesi prima aveva salutato in modo all'incirca tombale Severina, rapitagli da quella professoressa; ma senza pensare affatto a lei. Nulla lo tiranneggiava. E intanto leggeva i giornali, vedeva la tv, parlava con i compagni, poi avrebbe pensato per anni a Valpreda, a Pinelli … Senza contare che mandava avanti gli studi, e, fino a quella mattina infelice in cui il Soldani non richiesto gli rivelò la novità penosa, dipingeva. Gli eventi collettivi, grandi o meno, influiscono sulle nostre vite che, tuttavia, determinano la nostra partecipazione agli eventi collettivi. Per dirla in un altro modo: il 1969 resta prezioso a Fausto per Severina, per le due trasferte a Roma, per aver lui smesso di dipingere dopo appena due anni che aveva iniziato. Poi, chino su quell'anno, trova altro: l'isola, la lite, il sentiero dei conigli selvatici ... trova i cambi di moto, le due cadute … E ricorda la Luna, l'autunno caldo, infine la strage di Piazza Fontana. Lo scudetto viola! Tutto ciò che lo riporta a Severina. Lathe biosas
Negli anni, anziano, gli era successo di aver voluto
salutare vecchi compagni riconosciuti in città e, non trovando alcun riscontro da parte loro, di aver dovuto presentarsi. Tre casi. All'interno del mercato di Sant'Ambrogio aveva fermato un coetaneo che aveva la stessa notevole faccia di una volta. Un po' da duro, da “bel mascalzone”. Fausto si ricordava di costui anche a causa del nome, uguale al suo, e del non comune cognome, James. Per la verità non era stato un compagno di classe, il James, ma genericamente d'istituto. Una mattina aveva ospitato in casa sua, vicino al Giardino di Boboli, il nostro e altri, a spasso forse a causa di uno sciopero studentesco, evento ai tempi raro. Il James in Sant'Ambrogio somigliava ancora all'attore inglese Patrick Magee. Il nostro scambiò poche parole con il James, che non poteva riconoscerlo, pur ammettendo lui di aver frequentato lo stesso liceo del nostro. Si strinsero la mano e si salutarono. Tutto qui. Il nostro avrebbe potuto dirsi che il James era stato in qualche modo un personaggio, e che lui invece non lo era stato. Non se ne preoccupò. Forse sentì la non reciprocità del riconoscimento come cosa scontata. Secondo caso. Una mattina il nostro piazzò l'auto davanti alla porta di un garage privato in via Scialoja per parlare con il meccanico che ha lì accanto l'officina. In breve: un tizio fece notare al nostro che il parcheggio ostacolava la sua uscita dal garage. Durante la non del tutto garbata interazione il nostro riconobbe in quell'automobilista conscio dei suoi buoni diritti un compagno di classe di ben tre annate di liceo, un certo Del Giudice: calvo, ma per il resto identico a quel che era stato tanti decenni prima. Non parve al nostro lì per lì opportuno farsi riconoscere, anche perché ai tempi tra lui e il Del Giudice non era corsa molta simpatia reciproca, per quanto senza casi spiacevoli degni di essere cercati nella memoria. Spostò la sua auto e basta. Qualche anno dopo in via della Pergola incontrò di nuovo il Del Giudice - era Giugno. In un suo lieto animo il nostro attirò l'attenzione dell'ex compagno di classe salutandolo correttamente e chiedendogli poi se lui era il Del Giudice. Risposta affermativa. Senza inorgoglirsi a causa della propria “memoria visiva”, che gli pareva cosa naturale come tale gli era sembrata nel caso James, il nostro si presentò e l'altro dette luogo a un veloce processo di riconoscimento, o almeno lo finse, non senza garbo. Dopotutto stava andando per i fatti suoi verso il centro ed era stato fermato da uno “sconosciuto”. I due rimasero a conversare per qualche minuto, menzionarono come d'uso i nomi di alcuni compagni di classe, e addirittura si scambiarono i numeri di telefono. Il Del Giudice aveva trascorso quattro decenni facendo il medico ospedaliero e attualmente era pensionato. Salutò il nostro perfino con un “ciao, Fausto” - non indifferente. Il nostro aveva ritenuto di rimarcare che, ai tempi, lui e il Del Giudice non erano stati amici. L'altro ne convenne. 'Ma siamo stati compagni di scuola!' - aggiunse il nostro stringendo il pugno destro, come a dire che quello è un legame che conta davvero. Avrebbe altre due volte incontrato il Del Giudice in giro, certo a causa del fatto che costui abita nella sua stessa zona. Il bello è che la prima di queste il nostro fu costretto di nuovo, magari velocemente, a farsi riconoscere. Ora, il Del Giudice, al contrario del James, non era stato “un personaggio”, nella classe del nostro, anzi: se tra i due fosse stato in questione l'esser personaggi, lo sarebbe stato il nostro, né qui è il caso di spiegare perché. E allora perché il nostro aveva dovuto farsi riconoscere? Forse lui era cambiato di aspetto più dell'altro? Spropositò interiormente, al contrario, di non essere riconoscibile dai coetanei ex compagni di scuola a causa del proprio aspetto, giovanile, troppo giovanile. Che lo faceva sembrare un non coetaneo! Veniamo però al terzo caso, gravissimo e imparagonabile con gli altri due. Nel 1970 o giù di lì il nostro aveva rotto con tal Giovanni, amico di un decennio, per motivi di incompatibilità politica. Una sera tardi, in casa del nostro, Giovanni ne aveva urtato la sensibilità etichettando i suoi ragionamenti politici come “uterini”. Da allora i due avevano smesso di frequentarsi. Una volta però, nell'estate del 1981 - il nostro insieme a un'amica all'ingresso di una mostra di pittura - Giovanni s'era avvicinato e, dopo i saluti, s'era mostrato incline, nonostante che fosse palesemente di troppo, a visitare anche lui la mostra. Privo Giovanni di soldi, il nostro gli pagò il biglietto. Nei circa quattro decenni successivi il nostro, camminatore accanito, avrebbe scorto spesso Giovanni in strada – i due abitano non lontanissimi reciprocamente - riconoscendolo soprattutto a causa della sua inconfondibile andatura, insieme vigorosa e sgangherata. Per altro Giovanni, divenuto piuttosto grasso, si era dotato di baffoni - bianchi come la folta chioma. Lo avrebbe poi rivisto, sì, ma mai fermato per un saluto, godendosi invece la intrinseca coglioneria di quell'andatura che mimava l'atteggiamento di chi intenda andare in fretta a dare una lezione a qualcuno. Una mattina, di nuovo in via della Pergola, il nostro scorse Giovanni, e lo salutò. Forse di nuovo aveva agito il suddetto lieto animo, chissà. Straordinariamente, Giovanni non riconobbe l'amico di un decennio, davvero amico: di chiacchiere, di bevute, di biliardo, di cinema, di sigarette fumate di nascosto da ragazzini, eccetera. 'Ma sono Fausto Cosimi!' - protestò il nostro, “narcisisticamente” ferito. Giovanni lo afferrò per gli omeri e lo guardò bene levandolo dal sole che gli abbagliava la vista. Dopo un attimo parve riconoscerlo. I due poi chiacchierarono per una decina di minuti dentro un bar nei paraggi. Giovanni doveva far colazione. Incontro e scambio d'informazioni non piacevole, tanto che, congedatosi, il nostro mormorò rivolto a se stesso: lathe biosas. Vivi nascosto - pare che lo raccomandasse Epicuro. E forse è proprio nel “viver nascosto” del nostro il motivo della sua talvolta scarsa presa nella memoria altrui. Meglio, nel viver nascosto dentro sé stesso. Stavolta il nostro aveva sull'altro il vantaggio di averne negli anni seguito la – diciamo - evoluzione fisica, da magrissimo a grassoccio, osservandolo diverse volte in strada dimenarsi come accennato sopra. Lo stesso restò ferito dal non riconoscimento di Giovanni, che per altro nel corso della chiacchierata mostrò di essere al corrente per sommi capi della “vita” del nostro. Amicizie comuni. Spifferi. Il nostro, dunque, era ed è dotato di più memoria (visiva) di altri? Certo anche a lui succede di intrattenersi con qualcuno di cui ricorda l'aspetto senza ricordarne nome e cognome. Il quarto caso è un poco diverso dagli altri. Intanto perché in questione è una donna, poi perché stavolta si è trattato di una ex compagna di studi universitari, che sono, ed erano ai tempi, senza confronto meno concentrazionari di quelli fatti a scuola. Cinquanta anni dopo il nostro, intento a scrivere un'autobiografia, si mise in testa di rintracciare questa ex compagna, scrisse a un indirizzo lontano che gli era parso credibile fornendo le coordinate essenziali e chiedendo notizie alla destinataria della lettera, scritta su carta. La signora, così l'aveva apostrofata il nostro nella lettera, dopo qualche tempo gli telefonò; ma subito - il nostro aveva appena espresso il suo giubilo - lei dichiarò che aveva chiamato in nome della correttezza delle coordinate fornite da lui, non perché di lui invece si ricordasse. Fu dura da accettare per il nostro. Mentre si sottolinea quest'altra differenza decisiva rispetto ai casi sopra descritti, che l'incontro stavolta era stato telefonico e deliberato, non casuale, interrompiamo la trattazione del caso presente fornendo un altro esempio piuttosto notevole. Una quindicina di anni fa il nostro, all'incirca sessantenne, fu chiamato da una signora che come lui si trovava in fila alla cassa di un negozio. 'Tu sei il Cosimi', gli disse, presentandosi subito dopo: “sono l'Anna Turchi”. Si trattava di una compagna delle medie che con ogni probabilità non aveva più visto il nostro da oltre quaranta anni. Eppure lo aveva riconosciuto. Il nostro da parte sua riscontrò sinceramente nella signora qualcosa della compagna di un tempo. Questo evento serve a sospendere l'amarezza della presente trattazione e ad avanzare l'ipotesi, certo non nuova, che la memoria sia imprevedibile. Dispettosa. Forse che alle medie il nostro non aveva dato inizio, ancora, alla sua pratica sopra ipotizzata del vivere nascosto dentro sé stesso? Tornando all'amaro caso telefonico: il nostro avrebbe riconosciuto la signora, se l'avesse incontrata in strada, in un negozio, o chissà dove? Non sappiamo. Certe foto internettiche trovate da lui mostravano la signora sia da ragazzina sia da ragazza sia da adulta - diciamo sessantenne. Nelle foto in bianco e nero degli anni sessanta lui l'aveva subito riconosciuta. Nelle altre, a colori, la signora, nel contesto di una pagina memoriale curata da un probabile ammiratore, appariva lei, ma molto trasformata, com'è logico. L'avrebbe riconosciuta? E lei avrebbe riconosciuto lui? Forse no. Tuttavia questo è un gioco sterile, ormai. Diciamo che la signora aveva dimenticato in tanti anni trascorsi il nome e cognome del nostro; e anche il resto. In merito a questo caso, e per concludere, bisogna ipotizzare che il nostro abbia ai tempi vissuto con intensità la pur saltuaria “presenza” della donna in questione, e che lei invece non abbia vissuto con intensità la “presenza” saltuaria del nostro. Che lei sia stata importante per il nostro; che, invece, lui non lo sia stato per lei. A un “pieno” di vissuto può certo corrispondere un vissuto di scarsa presa. 'Tanto ti ho pensata', potrebbe credere il nostro, 'che mi sembra impossibile non essere stato pensato da te.' Il nostro, docente universitario per quaranta anni, è talvolta chiamato, salutato e intrattenuto in strada da donne e da uomini adulti che lo riconoscono in quanto sono stati suoi allievi. “Mille” a uno, il quale talvolta stenta a riconoscere uno di quei “mille”. Forse il nostro è stato per la signora uno tra “mille”. Chiudiamo con Borges: “infinitamente esistette Beatrice per Dante. Dante pochissimo, forse nulla, per Beatrice.” (Opere, vol. II, pag. 1305). La stufa
Avevo una casa in collina dove non andavo più
perché era troppo isolata rispetto al paese e per arrivarci dalla provinciale si doveva percorrere un sentiero scosceso che aveva bisogno di essere aggiustato ogni anno. Peccato, mi dicevo, il posto a parte i suoi difetti è piacevole. Così presi coraggio e un giorno mi trovai, dopo aver viaggiato per circa un'ora, all'imbocco del sentiero. Ora, poiché da almeno dieci anni nessuno che io sapessi lo aveva dovuto o voluto percorrere, il sentiero era quasi scomparso, per cui parcheggiai l'auto e, con lo zaino in spalla, mi avviai verso la mia casa. Erano poche centinaia di metri. La casa mi si mostrò immersa nel suo abbandono. Da ogni parte erbacce, rovi, cespugli vari. Un albero era caduto. La porta d'ingresso, l'unica, per miracolo si aprì. Voglio dire che infilai la chiave nella serratura, la girai due o tre volte a sinistra, di questo dettaglio mi ricordavo, ed entrai. L'ultima volta che avevo passato qualche giorno lì, senza pensare che non ci sarei ritornato per dieci anni, avevo lasciato ogni cosa in giro. Nella penombra che regalavano certe fessure delle imposte e la porta d'ingresso aperta alle mie spalle, intravidi, dopo aver calpestato diverse buste di carta marce sparse sul pavimento, una macchinetta per il caffè: era ammuffita fuori e dentro; le sedie, il tavolo, la dispensa, lo scaffale, l'acquaio, il divano e la poltrona, insomma tutto era polveroso e coperto di ragnatele. Di cacche di topo. Non mi aspettavo di meno. Raccolsi le buste, la posta, da terra pensando che mi sarebbero tornate utili per accendere la stufa. Al piano di sopra, cui arrivai constatando che la scaletta era ancora in grado di sostenermi, aprii subito l'unica finestrella ed ecco il letto, il comodino, il cassettone, l'armadio, i pochi quadretti alle pareti, la finestra stessa: ogni cosa era coperta da ragnatele. Non mancavano ragni morti e, dappertutto, come a pianterreno, mosche morte, cacche di topo. Dentro l'armadio lenzuola e coperte erano ingiallite e puzzavano. Avevo lasciato coperte lenzuola e materasso sul letto. Ero scappato di lì come una furia. I topi avevano rovinato tutto. A proposito: di buono c'era che la casa non era stata visitata da curiosi, non dico ladri, insomma come ho accennato la porta d'ingresso non sembrava essere stata forzata e neppure le imposte dovevano essere state toccate, almeno non da umani. La coppale naturalmente era quasi tutta scrostata, e il legno era ingrigito. Nel gabinetto, accanto alla camera, detti un colpo magistrale al finestrino, come non mi ero scordato che serviva fare per aprirlo, e cercai di girare le manopole dei rubinetti, di tirare la catena: niente. Almeno l'acqua l'avevo chiusa. Gli asciugamani erano ammuffiti. Tornai di sotto, girai verso sinistra una leva sotto l'acquaio che mi ricordavo serviva per aprire l'acqua e poi aprii, con una torcia in mano, lo sgabuzzino - già dieci anni prima era una trappola. La porta si apriva male, doveva essere stata deformata dall'umidità. Però, mi dissi guardando in un angolo che sapevo, almeno ho della legna da ardere. A proposito: e la mia bella stufa a legna con il suo bravo tubo che saliva fino al soffitto, lo forava e su su svettando verso il tetto dava calore anche alla camera di sopra? La mia bella Mourn Warning? Se ne stava lì, in attesa, nera e coperta di ragnatele. Era l'ora di pranzo, la luce entrava dai vetri sporchi delle due finestre a pianterreno e anche su in camera, dopo che le avevo liberate dalle loro imposte. Non bastava, aprii tutto. Più tardi mi sarei dedicato all'accensione delle lampade – a petrolio. Ecco un'altra ragione dell'abbandono di quella casa in campagna. Se non era stata la principale. Me ne ero dimenticato, della luce a petrolio, il trasando generale mi aveva assalito distraendomi. Ma ne avevo, di petrolio? Incespicai nello sgabuzzino, trovai la latta del petrolio, la scossi. Ce n'era. Del resto prima di sera sarei salito al paese a far rifornimento del necessario. A parte la mancanza di corrente elettrica, che a un lettore come sono io è indispensabile, a parte il sentiero scosceso ogni anno da rimettere a posto, un difetto della casa che avevo comprato da giovane era l'umidità, giù nella cucina sopportabile soltanto in piena estate, quando del resto parecchio tempo io lo passavo fuori, a camminare, a leggere, a fare qualcuno dei lavoretti la cui assenza aveva come risultato la mezza giungla tutt'intorno. Iniziai a dare una pulita, ma ero già stanco delle ragnatele, stavo già rompendomi le scatole. Forse avrei dovuto cercare qualcuno che facesse pulizia al posto mio, dargli la chiave e tornare dopo una o due settimane, pensavo tossendo e starnutendo. In paese, in paese, presto! - mi dicevo mentre rabbrividivo. Forse dovrei accendere la stufa, pensai subito dopo. Mi ricordavo che serve preparare uno strato di carta con sopra dei "legnetti", accendere il fuoco e poi appoggiarci sopra dei pezzi di legno più grandi. Di carta ne avevo poca, quelle buste raccolte da terra - dov'erano state spinte a cura di qualche postino da sotto la porta d'ingresso – erano umidissime e poche, come i giornali vecchi che avevo visto nello sgabuzzino, detto ai tempi “sgabuzzo”. Comunque la carta ce l'avevo. Magari in paese avrei poi comprato, insieme al resto che però in testa lo avevo in stato di vaghezza deprimente, un paio di giornali e li avrei fatti a pezzetti. Carta asciutta, insomma. A proposito: su in camera sopra il comodino c'erano due libri rimasti lì tutto quel tempo. Avevo cercato nel cassettone una spazzola per quei due libri, che del resto facevano pena per quanto mosci erano diventati a causa dell'umido. Aprire le finestre! Non avevo trovato nessuna spazzola. Erano: Il manoscritto di Brodie di J.L.Borges, e un Maigret. I cassetti si aprivano di colpo e solo sotto sforzo, cosa che sempre mi aveva messo di cattivo umore. Dicevo dei "legnetti". Bisognava che uscissi di casa e facessi un giro per procurarmeli. Ritrovai nello "sgabuzzo" la cesoia a leve lunghe dono di mia suocera - funzionava ancora benissimo. Zac zac. Feci scorta di "legnetti" ficcandoli via via in un sacco trovato nello "sgabuzzo". Lo "sgabuzzo" era l'unica presenza propizia della casa, fin lì. Strappai la cartaccia ingiallita e umida in tanti pezzi, composi dei pugnetti di questa pessima carta, li sistemai nel fondo della pancia della Mourn Warning e sopra quel cuscino di roba giallastra disposi i famosi "legnetti", che ai tempi erano stati motivo di malumori: chi va a prendere "legnetti"? Io ci sono già stato, oggi tocca a te e così via. Senza contare, valutai, che i "legnetti" devono essere secchi. Sopra i pugnelli di carta giallastra e i "legnetti", che non erano affatto secchi, misi pochi pezzi, pochissimi, di legno, finalmente cavai di tasca l'accendino e detti fuoco alla base della mia costruzione, fatta a memoria dopo dieci anni che parevano cinquanta. Ahi, la fiammella! La carta bruciò senza che la fiamma si degnasse di dar fuoco ai "legnetti", troppo umidi. Questa la mia spiegazione. Primo tentativo fallito. Scoraggiato da questo più che da tutti gli altri scacchi subiti nella mia iniziativa riparatoria, presi la decisione di andarmene - non in paese, di tornare in città. Chiusi le imposte, le finestre, trascinai fuori quattro sacchi di sporcizia e diciamo rottami (coperte due, due lenzuola, due cuscini, un materasso, porcherie varie) che avevo raccolto tossendo e starnutendo, infine chiusi la porta. Poi la riaprii, infatti non avevo girato la leva dell'acqua, che, almeno quella, scorreva. Mi bagnai le mani e la faccia. Girai a destra la leva sotto l'acquaio. Zaino in spalla, sacchi in mano, salii fino alla provinciale, caricai due sacchi, tornai alla casa, presi gli altri due, li spinsi fino all'auto, infine misi in moto e feci mogio mogio ritorno in città. Non appena vidi un cassone mi fermai e con grande soddisfazione ci scagliai dentro i quattro sacchi. Arrivato, scrissi subito un elenco di tutto quello che avevo da fare per far rivivere la casa in collina. Per la verità l'elenco si trasformò in un testo somigliante a quanto ho scritto fin qui, per cui ricominciai su un altro foglio il lavoro di elencazione senza svolazzi. Essenzialmente avrei dovuto, pensavo, andare prima in paese e solo dopo sarei tornato giù alla casa. Mi venne in mente che avrei potuto far rifornimento lì di tutto quello che mi serviva, e che avrei potuto chiedere “consigli” a qualcuno, e così via. Era Aprile. Passarono un paio di mesi prima che trovassi il coraggio di tornare. Con la stagione buona riuscii a rimettere, da solo, le cose abbastanza in ordine, feci perfino qualche “doccia” all'aperto usando un tubo di gomma fissato al rubinetto dell'acqua, della cui esistenza mi ero dimenticato. Com'è naturale misi da parte la questione stufa, non dico che me ne dimenticai. Anzi, la guardavo spesso, la Mourn Warning, come un'amica trasformata in nemica. Arrivai a trascorrere perfino sei sette giorni di seguito in quel “paradiso”! Non appena però mi ero abituato alla casa e alle sue scomodità che ora mi urtavano come non avevano fatto quand'ero giovane - anzi, mi erano piaciute - ecco che mi prendeva la smania di andarmene. E me ne andavo. Alla fine dell'estate la casa era di nuovo abitabile, non dico comoda, abitabile. Almeno non tossivo né starnutivo. Estate secca, per fortuna. Preso più o meno lo slancio, in autunno tornai. La Malaposta, questo il nome del luogo in questione, si presentava, a chi scendesse il sentiero - due bravi e cari operai armati di “ruspa” e spargitori di malta lo avevano restituito allo stato di percorribilità - si presentava come un qualcosa di abitabile posto appunto ai margini di un piccolo “pianoro” di poche centinaia di metri quadrati - proprio l'insieme che decenni prima me l'aveva reso desiderabile. Solo che avevo trent'anni. E ora settanta e più. In autunno tornai e volli com'è naturale accendere la stufa. Dovevo. Avevo fatto scorta di "legnetti", di carta, di legna da ardere tagliata come si deve, di “diavolina”, il veleno facilitante la fiamma. Avevo tutto sotto mano. Era giorno, diciamo che mi stavo portando avanti prima che facesse scuro. Composi gli strati e accesi. In effetti la fiamma, aiutata dalla “diavolina”, contagiò i “legnetti”, componente arricchita stavolta da piccole schegge di legno secco acquistate all'uopo, cedimento grave rispetto alla ruspanza dei normali e casuali “legnetti” da raccattare nei paraggi della casa. I “legnetti” a loro volta contagiarono la legna da ardere vera e propria, insomma tutto pareva funzionare. Per qualche minuto mi sentii in pace con la stufa, con la casa, con il mio presente. E poi venne il fumo, che invase tutta la stanza a pianterreno, cucina-pranzo-soggiorno. Fumo, tanto, e fui costretto ad aprire le finestre, prima quelle a pianterreno, poi quella su in camera da letto. Infine il fuoco si spense. Ho detto che era giorno, mortificato battei di nuovo in ritirata, feci il bagaglio, chiusi casa, e tornai in città. Durante le settimane seguenti cercai di non pensare troppo alla Mourn Warning, ma quel che mi venne in mente fu, in un momento di lucidità, che il tubo della stufa doveva essere ostruito. Ma certo! In tutti i decenni chi mai lo aveva preso in considerazione! E negli ultimi dieci anni di abbandono poteva certo essere rimasto occluso. Serviva uno spazzacamino, tutto qui, mi dissi in quel mio momento di lucidità. Uno spazzacamino da cercare in paese. Nei paraggi, non certo in città! Tuttavia trascorsero l'autunno e l'inverno e non tornai alla Malaposta, né pensai alla Mourn Warning - quasi. Dicono che la campagna ti assorbe, ma anche la città ti assorbe. A tratti la mia disfatta mi tornava in mente, non lo nego, ma l'idea dello spazzacamino, non distinta da spiritosaggini tipo 'ci saranno anche spazzacamini femmina, o sono solo maschi?' - e altre che ometto, s'indeboliva. Valutai l'ipotesi di far cambiare tutto il sistema di riscaldamento, già che c'ero; di interessare un “tecnico” della MW, e non so che altro. Intanto m'immaginavo che la casa, dopo tanti mesi di solitudine, l'avrei trovata certo umida, in più venni spesso visitato da fantasie tremende circa danni al tetto, un dettaglio di cui non mi ero mai occupato né ai tempi né da ultimo. Trascorse l'inverno. Una mattina di Maggio presi e tornai alla Malaposta, per coglierla per così dire di sorpresa. Per cogliermi di sorpresa portai con me una scala pieghevole “professionale”. Sarei salito sul tetto della Malaposta per la prima volta - a più di settant'anni! Misi a tacere mia nonna, mia madre, che dentro di me mi ammonivano, tirai giù dal portabagagli dell'auto la scala e l'appoggiai, pronto all'impresa, alla grondaia del tetto. Entrai in casa. Sì, era freddo, un freddo di mesi, e umido. Di sopra appena un po' meno. I topi avevano sentito odor di veleno e si erano tenuti alla larga. Bene, mi dissi, ora serve solo accendere la stufa e rincuorare l'aria. Vuotai dai resti del tentativo ultimo fatto la pancia della stufa e insieme - schifiltosamente – ne tolsi un grosso bolo annerito che forse anni prima era appartenuto al regno animale. Un intruso che aveva fatto un brutta fine. Rifeci tutto come sappiamo – ormai ero diventato un maestro – presi una zolletta di “diavolina” con le pinze, l'accesi e detti fuoco alla cartaccia. La fiamma si propagò sui “legnetti”, e poco dopo prese anche la legna vera e propria. Stetti a guardare. Niente fumo! Non si spegneva! Chiusi le due finestre a pianterreno, salii su e chiusi l'altra, poi corsi nel gabinetto e mi guardai allo specchio, esultante; aprii con il solito colpo magistrale il finestrino per vedermi meglio. Sì, esultavo. Riscesi, uscii di casa, di corsa mi allontanai di una decina di metri e guardai: il fumo usciva placido e sorridente dal comignolo. Per scaramanzia lasciai la scala “professionale” appoggiata alla grondaia del tetto. Ero felice di gioia, come diceva quello. Una bancherella a Bratislava
La casa editrice Vallecchi di Firenze pubblicò nel
giugno del 1941 Concerto domenicale, di Nicola Lisi, un libro che raccoglie otto racconti. Nel 1942 una sua copia venne catalogata con il numero d'inventario 1152, segnatura XX-119, dalla Biblioteca Universitaria Slovacca, sezione d'Italianistica, a Bratislava, città che si trova non lontana da Vienna, a est. Per motivi che stanno forse tra la liquidazione della biblioteca, o della sezione d'Italianistica, chissà, e, più probabilmente, la non restituzione alla medesima del volume da parte di un lettore diciamo distratto, una mia amica tedesca da molti anni residente a Firenze, durante un suo viaggio, trovò il volume su una bancherella di libri usati, a Bratislava. Quando? Non ricordo, direi attorno al 2010, certo in estate. Comunque acquistò il libro e, tornata a Firenze, me lo donò. Questa copia di Concerto domenicale, che era passata da Firenze, viale dei Mille, sede ai tempi e per moltissimi anni dopo della casa editrice Vallecchi, a Bratislava, dopo circa settanta anni fece ritorno a Firenze trovando la sua nuova, forse la terza, ma chissà, sistemazione nel mio studio, in linea d'aria distante un chilometro dal viale dei Mille. Il primo dei racconti a me pare il migliore. S'intitola “Angiolo”. Narra di un contadino che una notte sogna di trovarsi innamorato spiritualmente della sorella di un parroco della zona, Angiola. Angiolo si sveglia, depreca la vicinanza della moglie e subito inizia a progettare la realizzazione del suo sogno. Invia piccioni viaggiatori all'amata. Uno dei biglietti viene recapitato però a un'altra donna, interessata a sposarsi anche a causa dell'età non più giovanile. Costei, intrusa involontaria, scrive, sotto il messaggio di Angiolo per Angiola, la sorella del parroco, la sua risposta, la quale dal piccione viene riportata ad Angiolo, che non fatica certo a prenderla come un incoraggiamento dell'Angiola. 'Vieni da me, amore.' In corso d'opera amorosa Angiolo si mette in mostra nell'ambito della sua comunità con alcune più o meno lievi mattane che alla fine lo conducono al manicomio. La mia amica tedesca, cui prestai il libro che lei mi aveva regalato, pensò di tradurre nella sua lingua il racconto qui riassunto - ve ne prego, non tenete conto della mia sintesi: è bellissimo. Ne mandò poi copia a suo padre, un letterato che ne restò soddisfatto solo in parte. Inutile proporre la traduzione a me, da parte dell'amica: ai tempi ero anche meno pratico in fatto di tedesco di quanto non lo sia oggi, del resto ancora incapace di apprezzare lo stile. Tornando al giro fatto dal volume, in effetti io propendo per l'ipotesi del fruitore della biblioteca distratto o infedele, magari per motivi serissimi come la guerra, ma entro il 1945; rimangono decenni interi a disposizione. Un lettore prende in prestito un libro, per qualche motivo non lo restituisce né la biblioteca può o vuole recuperarlo; il libro entra a far parte della biblioteca privata di quel lettore, passa il tempo e lui, o qualcuno dopo di lui, si libera di quel libro, forse non solo di quello, ma di molti in blocco, vendendoli. Già ci avviciniamo alla bancherella di Bratislava. Un genere crepuscolare di introspezione
Per motivi di famiglia il professor Cosimi portò con
sé all'università, dove quella mattina doveva iniziare una sessione d'esami, la figlia Marta, una bambina di circa quattro anni. Entrò nell'atrio dell'edificio con la piccola sulla schiena a mo' di zainetto. Com'è naturale il professore attirò l'attenzione dei bidelli chiusi nella loro portineria a vetri e dei molti studenti che sostavano nell'atrio. Il professore rispose con qualche sorriso alle blande manifestazioni di interesse e di simpatia che gli indirizzavano i presenti e si diresse verso la porta dell'ascensore. Salì al secondo piano insieme a qualche studentessa, uscì dall'ascensore e presto fu davanti alla porta della sua stanza, dove, contrariamente a quanto richiesto dalla presidenza e dalla direzione dipartimentale, avrebbe esaminato i candidati. S'intenda qui che la presidenza della scuola di scienze sociali e la direzione del relativo dipartimento esigevano che gli esami non si svolgessero nelle stanze, o meglio negli “studi”, dei docenti, ma invece nelle aule. Che d'altra parte erano scomode perché non concepite per colloqui ravvicinati (banchi fissi), ma giustappunto per le cosiddette lezioni frontali. Del resto il professor Cosimi non era l'unico trasgressore della detta pretesa di separazione del piano dipartimentale dal piano delle aule. Nell'attico la collega Bastoni prendeva, in estate, il sole. All'affollamento del primo giorno della sessione estiva di esami, molto partecipata, nel caso del professor Cosimi si sommò anche la presenza della piccola Marta, che ben presto ritenne di averne abbastanza di quella situazione poco confacente alla sua età e alle sue esigenze. Mentre l'assistente dottor Mesti faceva l'appello nel corridoio colmo di studenti, ciò che costituiva il motivo essenziale della contrarietà della presidenza della scuola e della direzione dipartimentale allo svolgimento degli esami nelle stanze dei docenti, il professor Cosimi dové badare alla bambina all'interno dello studio, il cui uscio era rimasto aperto. Aveva sparso pennarelli e fogli in quantità allo scopo che la bambina si distraesse disegnando. “Che cosa disegno?” - aveva chiesto prestissimo Marta. “Mah”, aveva risposto il padre, memore della propria infanzia, “disegna dei cavalli!”. “Ma io non so fare i cavalli!” - aveva protestato lei. “Allora disegna qualche altro animale, un cane, un gatto, un elefante!” - aveva consigliato il padre intanto che l'assistente, preso dall'appello, si produceva in fiacche spiritosaggini e complicate incomprensioni circa la corretta dizione dei cognomi. Molti degli iscritti all'esame non si erano presentati, o magari erano semplicemente in ritardo. Parecchi iscritti alla scuola di scienze sociali provenivano da località anche distanti dal capoluogo. “Ma non mi va di disegnare!” - aveva concluso la bambina. “Allora ascolta una favola registrata!” - aveva proposto il padre, che si era attrezzato in fretta predisponendo solo due generi di passatempo. Il tavolo era grande, ma non grandissimo, e sarebbe bastato a mala pena a ospitare il professore, l'assistente e l'esaminando di turno. A Marta fu proposto un tavolino basso da cui il professore aveva tolto la cosiddetta stampante. O meglio, l'intenzione era quella, tuttavia Marta non manifestava affatto la volontà di farsi sistemare a un tavolino, pensò il padre. Tra le studentesse e gli studenti numerosi erano gli stranieri, ciò che aumentava gli equivoci dell'appello e le tetre spiritosaggini dell'assistente. Esaurito l'elenco degli iscritti all'esame – intanto si erano fatte le ore 9,30 – il professore iniziò gli esami. L'assistente dalla soglia dello studio, aperto, chiamava la persona interessata e l'esame poteva aver inizio. Qualche studentessa, qualche studente, aveva chiesto e ottenuto di assistere agli esami, per cui lo studio si riempì. Marta comunque non disegnava né ascoltava favole registrate, invece guardava i presenti e li intratteneva ottenendone qualche risposta stiracchiata. Si capisce che il giorno dell'esame non è quello più adatto per fare la conoscenza della figlia di quattro anni del professore. Verso le 10,30 il direttore del dipartimento apparve sulla soglia della stanza del professor Cosimi e si produsse in una muta messa in scena della sua disapprovazione: in effetti il corridoio del dipartimento si era trasformato nel ponte di una nave di sfollati – studentesse e studenti, esaurite le non numerose sedie, si erano seduti sul pavimento. Il professor Cosimi rispose alla pantomima del collega direttore alzando le spalle, allargando le braccia e, colpo magistrale, indicando prima la piccola Marta, che si era addormentata in braccio a una giunonica studentessa, e poi il proprio sterno. Il direttore annuì, emise una smorfia di comprensione, fece ciao con la destra e si ritirò non senza guardare risentito la fila delle studentesse accosciate, in qualche caso anche gradevoli da vedere, e degli accoccolati studenti. Tutto andava a meraviglia, Marta compresa – almeno fino a quando non fosse venuto il turno della studentessa giunonica; gli esami filavano con accettabile lentezza e con un congruo numero di bocciature mascherate da “consigli” a ripresentarsi alla prossima sessione, magari autunnale. Il professor Cosimi era severo e “cattivello”, si mormorava da anni. Invano qualche povera anima aveva sperato che la presenza della bambina potesse ammorbidirlo. Non che il professor Cosimi prendesse troppo sul serio la propria materia - psicologia sociale - o se stesso, come facevano molti suoi colleghi, bensì abbastanza. E quell'abbastanza era molto più di ciò che sarebbe piaciuto a studentesse e studenti. Marta attorno alle ore 11 si riscosse dalla sua comoda posizione in grembo alla studentessa giunonica giusto nel momento in cui era arrivato il turno della ragazza. Venne messa giù e, dopo essersi guardata attorno, uscì semplicemente nel corridoio, incuriosita da tutti quei tipi seduti sul pavimento, come riferì l'assistente, che cauto l'aveva seguita sulla porta dello studio. La bambina interloquiva con gli studenti trovando perfino qualcuno che le desse spago. La studentessa giunonica fu ringraziata dal professor Cosimi e, dopo poche domande d'esame, consigliata a ripresentarsi possibilmente nella sessione successiva. Era una giovane donna di casa; sorrise, raccolse libri, fotocopie e appunti, infilò il tutto in una busta, salutò il professore e se ne andò. La preside della scuola, informata dal direttore del dipartimento della situazione creatasi attorno allo studio del professor Cosimi, dove la figlia del medesimo dormiva in braccio a una studentessa, aveva “pregato” una bidella di andare a fare un sopralluogo e possibilmente di occuparsi della bambina. La bidella dopo circa un'ora salì al piano del dipartimento e si mise alla ricerca della figlia del professore, trovandola infine nello studio della professoressa di statistica, la quale era abituata a tenere la porta sempre aperta e – meglio – aveva in un angolo del suo tavolo un vassoietto di caramelle. Insieme alla assistente, la professoressa di statistica stava intervistando Marta circa il perché e il per come una bambina così piccola si trovasse in una scuola universitaria. Le due donne fingevano di non sapere che la piccola era figlia del collega Cosimi, infatti la voce si era rapidamente sparsa da pianterreno su su fino all'attico dell'edificio - tanto la noia accademica poteva essere risvegliata da una simile novità. La bidella salutò la professoressa, l'assistente, la bambina e riferì dell'incarico avuto dalla preside. Dal momento però che Marta stava benone nel regno della statistica e delle caramelle né mancava di sentirsi importante; dato poi che lo studio del professor Cosimi distava dallo studio della professoressa di statistica una quindicina di metri, la bidella fu consigliata di ritenersi libera di andare a riferire alla preside che tutto andava per il meglio. Gli esami di psicologia sociale, sfiorando la “strage”, procedettero fino alle ore 13, quando il professor Cosimi uscì nel corridoio e rimandò i profughi rimasti in attesa alla mattina seguente. Non era superstizioso, non temeva gli accidenti né la fama di “cattivello”. Mise in ordine lo studio, raccolse le carabattole proprie insieme a quelle della bambina, congedò l'assistente, chiuse a chiave la porta e passò senz'altro a prendere la figlia sappiamo dove. L'assistente già l'aveva avvisato da almeno un'ora del colpo di fulmine esploso tra Marta e le due studiose di statistica. Andarono anzi tutti e quattro insieme a pranzo in un vicino ristorante dove la bambina, lasciando suo padre stupefatto, mangiò senza far storie. Verso le ore 15 i commensali si salutarono non senza promettersi prossimi incontri e interviste reciproche. Infine il padre scortò la figlia a casa, dove ogni cosa aveva ripreso il suo verso giusto. La maggior parte degli studenti e delle studentesse che si presentavano agli esami in genere e di coloro che il professor Cosimi aveva interrogato in mattinata erano non frequentanti e all'incirca ignoti. Tra i noti in quanto frequentanti le lezioni di psicologia sociale, o almeno presenti a qualche occasione di cosiddetto ricevimento, quella mattina il professor Cosimi aveva interrogato un'allieva speciale. Ne era stato conquistato mesi prima e aveva stretto con lei, Vanna, una relazione “non professionale”. Aveva consigliato anche a Vanna di ripresentarsi nella prossima sessione. Il programma di studi non era massiccio, ma constava di libri alquanto difficili da studiare, specie da parte dei non frequentanti. Vanna aveva frequentato e aveva studiato, ma, forse ritenendosi privilegiata e quindi favorita, aveva risposto alle domande del professor Cosimi in modo abbastanza sciatto e affrettato. Se n'era andata indispettita forse anche a causa della presenza dormiente della piccola Marta. Non che ne ignorasse l'esistenza! All'alba del giorno dopo il professor Cosimi, sveglio accanto alla moglie restituita al “tetto coniugale” dopo la bufera che era stata la causa del primissimo contatto di Marta con l'università, rifletteva giustappunto sul significato, per dir così, del suo portar la figlia con sé “in facoltà”. Come molti altri il professor Cosimi stentava ad accettare la nuova forma - “scuola” - per ciò che nel tempo aveva avuto il nome, dopotutto succulento, di “facoltà”. Ricco di possibili interpretazioni. “Scuola”, imitando l'inglese, sapeva di poco e ricordava anche troppo la scuola. Comunque fosse, lui aveva portato Marta con sé all'università perché la madre era uscita malamente di casa, proprio quella mattina degli esami, sospettando il marito di “un nuovo tradimento”. Sospetto privo di prove concrete, aveva pensato lui trascurando il fatto che i sospetti si nutrono di sfumature. Che una donna come sua moglie non aveva bisogno di “prove”: non era mica un poliziotto, un investigatore. E dopotutto aveva ragione lei: il marito, il professore, stava avendo una “relazione non professionale” con una ragazza poco più che ventenne. Con una “bambina”! Nella penombra della camera il professore fu catturato suo malgrado dal pensiero che il suo ingresso “in facoltà” con la figlia sulla schiena, Marta, avesse illustrato in modo segreto il suo coinvolgimento tutt'altro che paterno con Vanna. Marta e Vanna si confondevano nella mente del professore: la bambina sulla schiena diveniva adesso un “emblema” della sua condizione di professore “irregolare” in quanto amante di una studentessa. Portatore di una difformità! Non che lui credesse di essere il primo o l'unico fruitore di tale condizione, certo. Da che mondo e mondo, pensava nella penombra della camera, cose del genere erano sempre avvenute e chissà quante volte! Da che mondo è mondo altri docenti avevano patito le stesse pene che ora toccavano a lui! Patito e goduto, in un nodo maligno. “Bocciare” Vanna non era servito a ripristinare la distanza “conforme” tra un professore e i suoi studenti. Oramai il danno era fatto. Semmai la bocciatura, insieme alla presenza di Marta nella stanza dell'esame, poteva aver tolto coraggio a Vanna, che di coraggio ne aveva dimostrato, nelle ultime settimane, anche troppo, allarmando il professor Cosimi e indispettendo la moglie di quest'ultimo. L'emblema “professore che reca sulla schiena una bambina” era servito forse a catturargli qualche simpatia nel pubblico, là nell'atrio, ma lui sapeva che esso aveva un altro significato. Marta rappresentava un qualcosa di segreto: Vanna. La relazione con Vanna, nella penombra della camera più che alla luce delle riflessioni, per altro alquanto irrazionali, del professor Cosimi, ora nell'ambito del significato segreto dell'emblema – e continuiamo a chiamarlo così – diveniva un qualcosa di insano a carico dell'uomo, del marito, del padre, del docente! Come se, al posto di Marta, fosse stata sulla sua schiena Vanna. Come se, si riscosse il professor Cosimi nella penombra della camera, non significa che qualcosa è, ma che qualcosa sembra qualcos'altro. Il professore era dunque scivolato in un genere crepuscolare di introspezione. Si alzò dal letto e andò a farsi un caffè. Un'altra quantità di esami quella mattina lo aspettavano. La chiosa *
Nel cesso dipartimentale, una mattina, a cose fatte
Fausto si accorse che i suoi calzoni erano bagnati, molto bagnati nella zona del cavallo. Ne scoprì il motivo nello strato di liquido giallognolo che copriva il pavimento vicino alla tazza, inondazione perpetrata da qualcuno, servitosi del tubo spruzza acqua disposto secondo le nuove „normative europee“, allo scopo di nettare preventivamente da microscopiche impurità la ciambella della tazza, oppure per pulirne al meglio l'interno, o per spregio contro il dipartimento. Fausto doveva rivestirsi con quei pantaloni bagnati, per fortuna di colore nero dissimulante, si accertò, l'alone della macchia, che su un colore chiaro sarebbe stata visibile, e, peggio, doveva partecipare a un “consiglio” in programma per quella stessa ora. Entrò dunque nella sala delle riunioni come in incognito, quanto alle mutande ormai umide e ai pantaloni bagnati, e fu costretto a sedersi insieme, un po’ discosto tuttavia, ai colleghi, tenendo dentro di sé l'irritazione. Con il passare dei minuti essa iniziò tuttavia a crescere per quanto fuoriusciva in forma verbale dalla bocca del nuovo direttore, professor Braccagni, che impudente esprimeva critiche, per altro generiche, in merito ai progetti presentati dai colleghi - costoro, i prevaricati, tutti rigorosamente taciti e apparentemente insensibili all’impudenza e prevaricazione del nuovo direttore, afflitto da una grave forma di manìa ora espressa anche dal restringersi della sua voce su un registro serpentesco. L'irritazione per l'offesa che l'anonimo adacquatore e, temeva Fausto, pisciatore, o l'anonima adacquatrice e pisciatrice gli aveva senza volere inferto nel cesso, insieme a quella causata dall'obbligo di rimanere nella sala delle riunioni in quelle malbagnate e malgerarchiche condizioni, ricevettero forza irresistibile quando il nuovo direttore iniziò a denigrare le forme, certo non la sostanza, essendo a ciò il nuovo direttore dell'ufficio ricerca impari, del progetto presentato da Fausto, „Kurt Lewin e il concetto di contemporaneità, paragonato al concetto di sincronicità di Jung“. Roba da depositare in SIAE. Aveva presentato il progetto in forma sintetica, Fausto, due righe, riservandosi come d'uso di illustrarlo a voce, e ora il nuovo direttore ne segnalava come al culmine del suo sibilo l’inadeguatezza. Se avesse indossato mutande e calzoni asciutti, Fausto avrebbe reagito alle parole del nuovo direttore in modi relativamente morbidi, ma indossava mutande umide e calzoni bagnati, quindi tolse la parola al nuovo direttore e difese la sostanza del suo progetto, segnalandone l'originalità e nella circostanza risultando patetico, c'è da sospettare. Andava quindi avanti a difendere il progetto, a illustrarlo, il nuovo direttore ammutolito, i colleghi taciti, spiegava, quando il decano, professor Tarsitano, a sua volta tolse la parola a Fausto, per rimproverargli con asprezza di occupare troppo tempo e di interloquire secondo modi inurbani con un collega - si riferiva al nuovo direttore. Intimidito dalla perentorietà del decano, Fausto stentò a riprendere il suo discorso, ma presto riacquistò coraggio, e si orientò nella sua perorazione verso gli altri colleghi, allo scopo di stanarne qualcuno, almeno tra quelli precedentemente denigrati dal nuovo direttore; usò quindi l'argomento degli usi e costumi del dipartimento in merito alla presentazione scritta dei progetti, negli anni sempre effettuata secondo modi sintetici; interpellò l’ex direttore, 'racconta tu, Silva, se le cose non stanno così', prese a dire, ma cavò solo un timido 'effettivamente sì', da quel don Abbondio, subito prima di una nuova interruzione del decano, il quale colpì Fausto affermando che si vergognava di lui. Dové riprendere la parola, odiava i colleghi, dichiarò infine, ebbene sì, che avrebbe ripresentato il progetto in modo circostanziato, e al decano rinfacciò di avergli tolto e ritolto la parola, rimarcando che i suoi modi erano „antidemocratici“, come gli piacque dirgli infine, senza che da quello fosse espressa alcuna reazione. Dopo pochi minuti, la riunione procedeva, Fausto si alzò e visibilissimo uscì dalla sala, non senza essere poi inseguito lungo il corridoio da una collega, ansiosa di rivelargli che lui aveva fatto da “capro espiatorio”, che il vero bersaglio delle denigrazioni non era lui, ma altri, i cosiddetti assenteisti. Fausto entrò nel suo ufficio riflettendo sul fatto che il professor Embricato, suo nemico segreto dal 1977 a causa di un sequestro studentesco che li aveva colpiti insieme e divisi in merito alla sua gestione, si era goduto senza parere tutta la scena, prese lo zaino e si diresse velocemente verso l'uscita. Il popolo dovrebbe sapere che i docenti universitari non sono sottoposti a vincoli veri di orario e fanno all'incirca i comodi loro. Come Fausto quella mattina lì. Più di tutto gli premeva arrivare a casa, lavarsi bene e cambiarsi. A casa corse in bagno, si sfilò i calzoni, la camicia inumidita dal contatto con il probabile piscio altrui, infine le mutande, s'infilò nell'acqua calda della vasca, si strofinò domandandosi se il tutto non avesse un che di „fobico“, si asciugò e mangiò qualcosa insieme alla rabbia. Disteso sul letto nell'ombra della camera cominciò a riflettere, certo non a dormire, ma intanto scemava un po’ la rabbia che fino a quel momento aveva pensato al posto suo impedendo al ridicolo di farsi luce, e si trovò in breve a porre la cosa che gli era capitata durante la riunione in rapporto alla cosa che gli era capitata nel cesso, iniziò a domandarsi se la prima in ordine di tempo non fosse stata una „chiosa profetica“ della seconda, se la seconda in ordine di tempo non fosse stata altro che una laboriosa traduzione della prima. Perfezionò dunque la convinzione, fin lì negli anni incompiuta, che quel dipartimento non faceva più per lui. Peccato però: aveva ancora bisogno dello stipendio mensile.
* Significa “interpretazione, spiegazione”, ma anche
“macchia”. Nel dizionario Melzi (probabilmente nella edizione del 1910) se ne trova conferma. Non altrove (Albertoni- Allodoli, Devoto-Oli, Palazzi).