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LEZIONE 01 – 14/12/2021

In the Flow. L’arte nell’epoca della sua riproducibilità digitale – Boris Groys

In questo seminario approfondiamo alcune tematiche e alcuni concetti sul libro In the Flow di B. Groys →
testo molto denso e complesso. Cercheremo di affrontare, quindi, alcuni concetti chiave che possono aiutare
ad orientarsi all’interno del testo e applicheremo, poi, questi concetti ad esempi concreti.

Boris GROYS è uno dei più importanti teorici dei media e filosofi dell’arte del panorama contemporaneo a
livello internazionale. Nonostante sia una figura esterna al mondo dell’arte, ha comunque una fortissima
influenza sul panorama della critica d’arte contemporanea e sul sistema dell’arte contemporanea.

Si è interrogato a lungo sulle avanguardie, soprattutto russe, e ha studiato a lungo Kazimir Malevič ed El
Lissitzky. Inoltre, è stato uno dei primi ha fatto chiarezza a livello teorico sulla curatela delle mostre d’arte =
analisi teorica del mestiere del curatore d’arte.

Uno degli aspetti più interessanti di questa figura è la sua metodologia di lavoro perché, a differenza dei critici
e dei filosofi dell’arte, è uno studioso che ha sempre messo sullo stesso piano le pratiche artistiche e quelle
della creatività contemporanea (design, architettura, social network…) → interessi non solo storico-
critico/artistici ma ha uno sguardo interdisciplinare sulla creatività contemporanea - visual cultural studies
(interdisciplinarità).

Un esempio tangibile di questa metodologia è proprio in questo libro = raccolta di saggi, anche molto diversi
tra loro per quanto riguarda gli argomenti, pubblicata in italiano nel 2018 (in lingua inglese è uscito nel 2016).

Il libro si apre con un saggio introduttivo, intitolato La reologia


dell’arte, che introduce i temi/argomenti trattati e sviluppati
nel libro.

All’interno di questo saggio afferma fin da subito di voler


trattare l’arte come un FLUSSO e di voler fare una reologia
dell’arte. Reologia = termine preso da una scienza, quella che
studia tutti i tipi di fluidi e il concetto stesso di fluidità.

Da queste prime battute si capisce come B. Groys sembri contraddire uno degli scopi principali dell’arte,
ovvero il suo opporsi al fluire del tempo e al suo flusso → l’arte ha sempre rappresentato un modo per
opporsi allo scorrere del tempo e alla fine delle cose. Il museo è stato un po’ l’emblema di questa convinzione
perché ha reso l’oggetto artistico qualcosa da conservare nel tempo e da contemplare. Secondo B. Groys,
però, nel corso del Novecento, a causa degli sconvolgimenti di ordine politico, sociale ed economico, l’idea e
l’istituzione museo (intesa come stabile e immutabile nel tempo) è stata messa duramente alla prova ed è
diventata alquanto problematica. Il museo, infatti, ha dovuto confrontarsi con problematiche di ordine
politico, economico e sociale che hanno condizionato la vita del museo stesso e l’hanno reso dipendente da
queste problematiche.
Incredibilmente, questo netto cambiamento di paradigma non ha portato alla scomparsa dell’istituzione
museo ma alla sua moltiplicazione: i musei hanno smesso di opporsi al flusso del tempo e hanno iniziato a
immergersi in esso, hanno spesso di essere soltanto luoghi di contemplazione e conservazione dell’opera
d’arte e sono diventati elementi che ospitano eventi temporanei, mostre, proiezioni, conferenze… e anche
l’opera d’arte stessa è stata coinvolta all’interno di questo flusso perché ha cominciato a viaggiare (da una
mostra all’altra, da un museo all’altro…) ed è stata completamente assorbita dal flusso del tempo.

Nonostante questo aspetto, secondo B. Groys, l’arte non ha abbandonato il suo progetto originario, quello
di evadere dalla prigione del presente, ma lo ha portato avanti con un metodo e una strategia differente: se
prima l’arte faceva resistenza al flusso del presente; adesso, invece, combatte la prigione del presente
collaborando e immergendosi nel flusso del tempo, addirittura anticipando un futuro in cui le cose si
eclisseranno a noi contemporanei. Secondo B. Groys, infatti, l’arte contemporanea anticipa un futuro in cui
tutti gli oggetti presenti (in quanto transitori e assorbiti dal flusso del tempo) scompariranno.

L’arte (contemporanea), allora, non è più legata alla


produzione di oggetti, dipinti, sculture ma di eventi,
performance, mostre temporanee… = eventi che hanno
una durata determinata → eventi che durano un
determinato lasso di tempo e non possono essere
conservati, come accadeva per le opere d’arte
tradizionali, ma solo documentati.

L’arte contemporanea produce informazioni sugli oggetti artistici: si passa, quindi, dalla produzione di oggetti
alla produzione di informazioni su eventi temporanei → ciò che resta di questi eventi è la documentazione
fotografica, filmica… di questi eventi. L’arte contemporanea, quindi, alimenta e accresce gli archivi.

B. Groys opera una distinzione tra gli archivi tradizionali e archivi digitali: in quelli tradizionali viene
conservato l’oggetto senz’aura; in quelli digitali viene conservata l’aura senza l’oggetto ╟ Negli archivi
tradizionali gli oggetti venivano sottratti dal flusso del tempo e conservati ma con una conseguente perdita
dell’aura dell’oggetto (un’opera sottratta dal fluire del tempo e all’hic et nunc, secondo W. Benjamin, perde
la sua aura = alone di misticismo, di mistero e sacralità che avvolge le opere d’arte - sia l’esposizione sia la
riproduzione delle opere d’arte rimuovevano l’opera d’arte dalla sua collocazione storica e, facendo ciò,
rimuovevano anche l’aura dell’opera d’arte) = oggetti privi del legame con il contesto in cui sono stati
prodotti. Negli archivi digitali avviene esattamente l’opposto perché vi è una conservazione dell’aura ma non
la conservazione dell’oggetto vero e proprio: si può conservare la registrazione di un determinato contesto
ma non l’oggetto vero e proprio.

Oggi, con internet e le piattaforme digitali, la documentazione dell’arte riesce a raggiungere un pubblico più
ampio di un archivio fisico. Inoltre, con le nuove tecnologie di documentazione dell’arte, la documentazione
dell’arte riesce a raggiungere un pubblico più ampio dell’arte stessa.

Questa performance di M. Abramovic - The Artist in Present


è conosciuta da tutti, anche da coloro che non l’hanno vista
in prima persona → la documentazione dell’arte raggiunge
un pubblico più ampio dell’arte stessa e, magari, anche un
pubblico che non è direttamente interessato all’arte
contemporanea ma che viene in contatto con essa anche in
maniera imprevista, ad esempio tramite i social network.
Questo tema viene trattato da un punto di vista
molto teorico spaziando dalle avanguardie
all’arte più contemporanea. All’inizio del
saggio viene data una definizione molto
generale di attivismo artistico (vd. slide).

Gli attivisti dell’arte (= ARTIVISTI), secondo B.


Groys, non vogliono solo criticare il sistema
dell’arte o le condizioni di un determinato
contesto ma si vogliono servire degli strumenti
dell’arte per cambiare queste condizioni – es.
Tania Bruguera.

L’artista allestisce un piccolo palco con


un leggio + microfono e invita tutto il
popolo cubano a esprimere
liberamente opinioni politiche,
economiche… sull’operato del
governo → le due persone vestite da
militari, dopo circa un minuto,
chiamavano altre persone a
intervenire e l’oratore scendeva dal
palchetto ╟ Opera di grande impatto
politico perché in quel periodo il
governo cubano stava operando una
forte censura sulla stampa e sui media.

Mentre la persona del pubblico parlava i due militari mettevano sulla spalla o sul leggio una colomba
bianca, un gesto che rievocava un avvenimento straordinario: quando Fidel Castro, alla fine della
rivoluzione, tenne il suo discorso a Cuba in maniera abbastanza inspiegabile due colombe bianche gli
si posarono sulla spalla.

La pratica di Tania Bruguera mira a incidere sul contesto politico e sociale, pur rimanendo all’interno del
sistema dell’arte = l’artista, quindi, si serve del sistema dell’arte (strumenti, risorse economiche…) e mira a
innescare un cambiamento reale all’interno del tessuto sociale e della realtà.

Tornando alla definizione generale di B. Groys, egli sottolinea


un aspetto molto interessante che riguarda il fatto che gli
artisti vogliono trasformare la realtà ma non vogliono smettere
di essere artisti. Questo è alquanto problematico perché gli
attivisti dell’arte sono attaccati sia dalla critica d’arte
tradizionale sia dall’attivismo vero e proprio.

La critica d’arte tradizionale considera l’attivismo artistico come esteticamente irrilevante perché è
una pratica che confonde il valore estetico con i buoni propositi e, quindi, non è artisticamente
rilevante. B. Groys, però, liquida questa critica perché i criteri della critica d’arte tradizionale sono già
stati messi in discussioni e ribaltati dalle avanguardie storiche - critica che non ha ragione di esistere.

Più rilevante, invece, è la critica dell’attivismo vero e proprio che si fonda sulle nozioni di
estetizzazione (Walter Benjamin) e spettacolarizzazione (Guy Debord) della politica. L’estetizzazione
degli aspetti politici rappresenta qualcosa di negativo perché distoglie l’attenzione dall’impegno
politico per spostarla sulla forma e sull’estetica dell’opera d’arte = l’arte non può essere usata come
strumento di lotta e protesta perché il suo linguaggio porta a un indebolimento della lotta politica e
della protesta – generalmente la componente artistica dell’attivismo artistico viene vista come
principale ragione del fallimento dell’attivismo artistico. Questa critica, in passato, ha portato gli
artivisti ad abbandonare l’arte per dedicarsi unicamente all’attivismo.

Inoltre, questa posizione degli artivisti contemporanei è qualcosa di nuovo all’interno della storia dell’arte:
tra le avanguardie, soprattutto quelle russe che volevano cambiare la situazione sociale e politica attraverso
gli strumenti dell’arte, e gli artivisti contemporanei esiste una profonda differenza che riguarda il fatto che
mentre l’avanguardia russa aveva l’appoggio del governo sovietico e la loro arte era finanziata dal governo,
l’artivisimo non ha un vero e proprio sostegno da parte del governo, delle istituzioni e ha bisogno di ritagliarsi
il proprio spazio di finanziamento che servono a portare a termine i suoi progetti.

Ritornando alla critica che muovono gli attivisti veri e propri agli
artivisti, B. Groys fa chiarezza sul concetto di estetizzazione che può
avere due definizioni differenti a seconda degli ambiti in cui viene
applicato: design e arte.

╟ DESIGN – in questo campo “estetizzazione” indica un abbellimento di alcuni oggetti, eventi o


strumenti al fine di renderli più attraenti per il consumatore finale → essere estetizzato non incide
sulla funzione dell’oggetto.

╟ ARTE – in questo caso l’“estetizzazione” non è un abbellimento di determinati oggetti o strumenti


ma di una vera e propria defunzionalizzazione che porta a un depotenziamento dell’azione politica
→ la critica degli attivisti batte proprio sul fatto che l’artivisimo depotenzia la forza dell’azione
politica e sociale di questa determinata pratica.

B. Groys dedica anche due saggi a K. Malevič (Kazimir


Malevič: diventare rivoluzionari + Installare il Comunismo)
che hanno punti di tangenza con i concetti riguardanti
l’attivismo artistico.

B. Groys inizia il saggio Kazimir Malevič: diventare


rivoluzionari ponendosi alcune domande iniziali che
riguardano la relazione tra rivoluzione artistica e
rivoluzione politica.

B. Groys si chiede se l’avanguardia russa collaborò alla effettivamente alla Rivoluzione d’ottobre e se
rappresenta un modello per le pratiche artistiche che intendono trasgredire i confini del mondo
dell’arte e vogliono cambiare le condizioni sociali e politiche di un determinato contesto.

Secondo B. Groys, attualmente, l’arte politica ha un duplice compito: da una parte deve criticare un preciso
sistema politico o artistico e, dall’altra, deve mobilitare il pubblico affinché sia partecipe di questo
cambiamento = CRITICA e MOBILITAZIONE. Tuttavia, se si osserva la prima ondata dell’avanguardia russa, ci
si accorge che non risponde a questi due criteri: l’avanguardia russa non fu mai un’arte critica (critica significa
presentare una situazione e problematizzarla) - le opere di K. Malevič sono rivoluzionarie per la storia
dell’arte perché introducono aspetti innovativi ma non sono opere critiche; inoltre, le opere dell’avanguardia
russa non possono neanche essere considerate opere che mobilitano le masse - furono opere non
partecipative, non coinvolsero direttamente lo spettatore (NOTA: La mobilitazione delle masse può essere
portata a termine solo mediante strumenti di comunicazione di massa come radio, cinema, social network…).
Nonostante l’avanguardia russa non fu un’arte critica e politicamente impegnata, secondo B. Groys, un’opera
come il quadrato nero di K. Malevič può essere considerata rivoluzionaria in senso profondo (rivoluzione =
processo di distruzione radicale di tutte le
tradizioni) → la rivoluzione consisteva
nell’accettare la distruzione di tutte le tradizioni
che ormai erano morte non solo tra i ceti più alti
ma anche tra le fasce più popolari.

A questo proposito è interessante anche sottolineare anche ciò che scrive anche K. Malevič in un testo del
1919 intitolato “Sul Museo” nel quale si rivolge direttamente al governo comunista protestando sulla politica
pro-museo del governo sovietico e proponendo di non conservare le opere del passato perché questo
approccio avrebbe potuto aprire la strada a una nuova arte del presente – destino dell’arte: distruzioni e
innovazioni che si susseguono.

L’unica immagine che sopravviveva, secondo K. Malevič, a questi continui processi di distruzione della
storia dell’arte era l’immagine della distruzione stessa. Il quadrato nero rappresentava, quindi, la
messa in scena di questa distruzione = riduzione dell’immagine al vuoto assoluto - anticipazione del
futuro in cui le opere d’arte scompariranno con la distruzione materiale di tutte le cose.

Secondo B. Groys, il quadrato nero è fondamentale anche per un’altra ragione: esso può essere considerato
come l’inizio dell’arte dell’installazione = unica arte che, secondo B. Groys, può adattarsi all’ideologia
marxista. INSTALLAZIONI = opere realizzate da artisti e curatori che cercano di riflettere sui contesti di
produzione e funzionamento dell’arte.

Questo passaggio dall’arte tradizionale all’arte dell’installazione si ebbe proprio con il quadrato nero
di K. Malevič perché con la riduzione dell’opera d’arte allo zero assoluto, all’immagine della
distruzione, era possibile aprire lo sguardo dello spettatore al contesto di ricezione e di esposizione
dell’opera d’arte = mostrare uno spazio al di là del quadro.

B. Groys individua alcuni punti chiave dell’installazione con due frasi principali che giocano sulla
contraddizione:

B. Groys afferma che anche se l’installazione si può considerare come la prova che l’arte dipende dalle
strategie curatoriali che trasformano effettivamente un oggetto qualsiasi in opera d’arte, allo stesso tempo,
l’artista nell’installazione può ampliare il suo raggio d’azione perché non interviene più solo sulla singola
opera d’arte ma sulla totalità dello spazio espositivo → controllo che passa dall’opera d’arte particolare al
contesto generale.
B. Groys afferma che è vero che l’installazione
permette all’artista di democratizzare la propria
opera d’arte (forte componente partecipativa,
interattiva…) ma è vero anche che questa apertura
è preceduta da un atto simbolico di privatizzazione
= nell’installazione l’artista privatizza lo spazio in cui
va ad operare perché controlla, a volte in maniera
anche autoritaria, cosa può accadere o non
accadere nello spazio che può gestire in maniera
autonoma e indipendente a differenza del curatore
che deve sempre giustificare e argomentare le sue
scelte allestitive. L’artista, invece, è libero di fare
qualsiasi tipo di allestimento/accostamento senza giustificarlo.

Francesco Vezzoli, ad esempio, ha curato una


mostra in cui ha selezionato una serie di opere
d’arte contemporanea a cui ha cambiato le cornici
e le ha inserite in cornici di opere del Cinque e del
Seicento (un curatore non lo avrebbe mai fatto).

La libertà del curatore (agisce secondo una


tradizione storica artistica e deve seguire dei criteri
scientifici) è differente dalla libertà dell’artista
(sovrano assoluto). Quando B. Groys tratta
dell’installazione (o della curatela fatta dagli
artisti), proprio per questo motivo, parla di una
privatizzazione dello spazio espositivo pubblico.

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