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Università degli Studi di Milano

Facoltà di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Corso di laurea in
Scienze e tecnologie della comunicazione musicale

FABIO MANCINI

METODOLOGIE E TECNICHE
PER L’EDITORIA MUSICALE
dispensa per il corso di
Tecnologie Informatiche per l’Editoria Musicale
revisione del: 16 febbraio 2017

Parte I
IL PERCORSO DEL TESTO MUSICALE
VERSIONE D'ULTIMA MANO
I DIFFERENTI TIPI DI EDIZIONE MUSICALE
FORMATI FILE
PROTEZIONE DEI FILE
STAMPA MUSICALE
LEGGII MUSICALI ELETTRONICI - TABLET
PROGETTI EDITORIALI MUSICALI IN RETE
COPYRIGHT E DIRITTO D’AUTORE
Parte II
NOTAZIONE MUSICALE E TIPOGRAFIA MUSICALE
INTAVOLATURA
ALTERAZIONI
STANGHETTE
STANGONI o TRATTI D’UNIONE
LEGATURE DI FRASE
LEGATURE DI VALORE
METRICA
GRUPPI IRREGOLARI
PARTITURA E PARTI
STRUMENTI TRASPOSITORI
LIRICHE
BREVE DIZIONARIO INGLESE – ITALIANO DEI TERMINI MUSICALI

Copyright: Fabio Mancini – 2003/2017


vietata la riproduzione, la copia digitale e la fotocopiatura non autorizzata

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Nota dell’autore

Il presente lavoro è il frutto di diversi anni di sviluppo del materiale per il corso di metodologie e
tecniche per l’editoria musicale, successivamente denominato tecnologie informatiche per
l’editoria musicale. Ha richiesto da parte mia una notevole mole di lavoro per raccogliere,
catalogare, tradurre, filtrare ed esporre con chiarezza tutti i contenuti esposti. La mancanza totale
o parziale di testi adatti alla preparazione del corso, oppure la difficile reperibilità di testi ormai
fuori stampa o in lingua inglese, mi hanno spinto a scrivere questa dispensa che nel corso degli
anni si è notevolmente trasformata e arricchita di informazioni, spesso con argomenti trattati per la
prima volta in assoluto.

Spero vivamente che le centinaia di ore impiegate nella stesura e nella continua evoluzione di
questo lavoro possa aiutare tutti gli studenti sia alla preparazione dell’esame universitario che un
eventuale futura applicazione in ambito lavorativo.

Nel rispetto del lavoro sostenuto chiedo dunque che questa dispensa non venga copiata e
distribuita senza autorizzazione.

Indice

ALTERAZIONI..................................................................................................................................68
BREVE DIZIONARIO INGLESE - ITALIANO.............................................................................127
COPYRIGHT E DIRITTO D’AUTORE............................................................................................56
FORMATI FILE.................................................................................................................................18
GRUPPI IRREGOLARI...................................................................................................................106
I DIFFERENTI TIPI DI EDIZIONE MUSICALE.............................................................................13
IL PERCORSO DEL TESTO MUSICALE.........................................................................................3
INTAVOLATURE.............................................................................................................................62
LEGATURE DI FRASE.....................................................................................................................88
LEGATURE DI VALORE.................................................................................................................95
LEGGII MUSICALI ELETTRONICI – TABLET.............................................................................41
LIRICHE...........................................................................................................................................123
METRICA...........................................................................................................................................99
NOTAZIONE MUSICALE E TIPOGRAFIA MUSICALE..............................................................60
PARTITURA E PARTI....................................................................................................................111
PROGETTI EDITORIALI MUSICALI IN RETE.............................................................................45
PROTEZIONE DEI FILES.................................................................................................................23
STAMPA MUSICALE.......................................................................................................................25
STANGHETTE...................................................................................................................................76
STANGONI o TRATTI D’UNIONE.................................................................................................78
STRUMENTI TRASPOSITORI......................................................................................................121
VERSIONE D'ULTIMA MANO.........................................................................................................7

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IL PERCORSO DEL TESTO MUSICALE

Il percorso del testo musicale può essere suddiviso in 4 grandi fasi: fissazione, trasmissione,
ricostruzione e presentazione. Vediamo a grandi linee ciascuna di queste fasi. E’ importante, prima
di procedere nella lettura, conoscere i termini più importanti utilizzati in musicologia, per questo
motivo sarebbe opportuno prima leggere il “Glossario” a cura di Maria Caraci Vela e Andrea
Grassi, e tenerlo a portata di mano durante la lettura in modo da familiarizzare con i vari termini
utilizzati.

Prima fase: Fissazione

Questa fase è caratterizzata dalla fissazione del testo musicale da parte del compositore.
Ci sono moltissimi fattori che determinano in che modo e con quale processo si giunge alle varie
versioni di una stessa opera, e SE si giunge o meno ad una versione definitiva, ovvero alla versione
“d’ultima mano”.
In questa fase dunque è importante tenere presente che possono intervenire vari fattori:
- Il travaglio del materiale compositivo prima della versione definitiva, ovvero le varie
trasformazioni del testo musicale e la sua evoluzione
- i vari comportamenti dei compositori rispetto alla stesura dell’opera; a titolo di esempio si
vedano i differenti approcci e comportamenti di 3 differenti compositori: Schumann (la
prima versione di un opera è sempre la migliore perché dettata dall’istinto musicale),
Beethoven (ogni opera è frutto di ispirazione ma anche di miglioramenti costanti e rifiniture,
per cui l’ultima versione, quella definitiva, è sempre la migliore) Bach (non concepisce una
versione definitiva, ma rielabora continuamente i suoi lavori, spesso affiancando più versioni
di una stessa composizione senza necessariamente avere una versione migliore).
- Il concetto di ultima volontà d’autore: il compositore aspira ad una forma definitiva, una
“chiusura” della sua opera musicale oppure ritiene che ogni opera può essere sempre
trasformata e rimodellata praticamente all’infinito?
- Problematiche esterne che possono influenzare il compositore e portare a varianti d’opera e
successive versioni non necessariamente migliorative, quali organici variabili dell’orchestra,
condizioni di spazio dei teatri, esigenze dei cantanti, esigenze di durata, riciclo di
composizioni per mancanza di tempo. A titolo di esempio possiamo citare due casi
emblematici. Il primo è quello del rapporto tra il compositore Castelnuovo-Tedesco e il
chitarrista Andrés Segovia: la maggior parte delle composizione edite mentre il compositore
era ancora in vita sono state riviste in maniera pesante da Segovia che apportava tagli e
modifiche a suo piacimento grazie alla sua fama e alla sua importanza come esecutore,
mentre ovviamente il compositore avrebbe preferito pubblicare le proprie versioni di tali
opere. Solo una nuova edizione basata sui manoscritti originali e non su quelli rivisti da
Segovia potrebbe ridare ai chitarristi le versioni d’ultima mano del compositore. Il secondo
caso è quello del celeberrimo concerto per pianoforte in si bemolle di Ciaikovski: nelle varie
versioni della composizione (se ne contano almeno tre, che vanno dal 1875 al 1889) i vari
pianisti che si sono succeduti nelle esecuzioni pubbliche hanno chiesto e ottenuto il
permesso di operare una serie di modifiche per rendere il brano più adatto ad essere suonato
al pianoforte; nonostante Ciaikovski non sempre fosse d’accordo con tali modifiche alla fine
cambiò il testo musicale tenendo gran parte di queste modifiche, senza mai citare chi in
realtà aveva davvero operato questi cambiamenti (in certi punti davvero sostanziali,
soprattutto nella terza edizione).
- I differenti comportamenti da parte dei compositori nel conservare i loro manoscritti e la loro
preparazione per i posteri. Brahms ad esempio getta via moltissimi manoscritti, Beethoven
nel periodo giovanile fa lo stesso, e si deve al caso se alcuni amici del compositore hanno
fortunatamente recuperato e salvato moltissimo materiale compositivo. Nel caso di Brahms

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sappiamo che alcune sue opere furono letteralmente gettate nel cestino durante scatti d’ira, e
che queste opere ci sono pervenuto solo grazie alla sua governante che le recuperava. Alcuni
autori invece, soprattutto in tarda età, copiavano e catalogavano accuratamente le proprie
composizioni, seppur con diverse metodologie.
Le tematiche qui presentate sono spiegate e analizzate nel capitolo “Versione d’ultima mano” in
questa dispensa.

Seconda fase: Trasmissione

Per trasmissione si intente il viaggio del testo musicale attraverso la storia, cioè dal suo
concepimento fino ai giorni nostri, passando per la fissazione da parte dell’autore e dal viaggio dei
vari testimoni nel tempo. Per testimone si intende qualsiasi fonte che trasmetta il testo musicale; può
essere un manoscritto autografo (cioè scritto dal compositore stesso), oppure una copia, oppure una
stampa (se si tratta di una prima versione a stampa curata dal compositore stesso siamo in presenza
di una stampa originale), o qualsiasi altra fonte mista che trasmetta lo stesso contenuto musicale. La
tradizione può essere verticale, orizzontale, diretta, indiretta.
In questa fase assistiamo generalmente alla deformazione e alla modifica del testo musicale durante
la fase di copiatura. Ogni passaggio del testo musicale che si presenta in modi differenti nei vari
testimoni sono chiamati “lezioni” e vengono esaminate confrontate e studiate dal revisore. Per
“lezione” si intende ciò che si legge in un determinato passo di un testimone, in genere quando si
differenzia da altri testimoni. Può essere classificata in diversi modi, le più importanti delle quali
sono: Lectio “facilior” o “difficilior” (la prima sostituisce la seconda nei casi in cui chi copia non
comprende ciò che sta copiando, spesso involontariamente, e lo “banalizza” cioè riporta nella copia
ciò che lui pensa di aver capito e non il testo originale, in questi casi è da preferire sempre la lectio
difficilior); lezione “sostanziale” (che riguarda il contenuto del testo), lezione accidentale (che
riguarda solo l'aspetto o l'assetto grafico); “lectio singularis” (lezione presente in un solo testimone).
Da principio molte copie venivano tralasciate e svalutate nel lavoro di ricostruzione del testo da
parte dei musicologi, pensando ad esse come “non importanti” perché ad esempio lontane
temporalmente dal compositore; in un secondo tempo tutti i testimoni vengono rivalutati e
considerati maggiormente; dall’analisi di testimoni apparentemente non rilevanti per la ricostruzione
del testo definitivo, si possono ottenere ad esempio particolari utilissimi per comprendere la forma
mentis, oppure le prassi esecutive di un determinato periodo storico, oppure le diteggiature o le
arcate, o molto altro ancora, diventando in questo modo testimoni importanti per differenti
composizioni.
Durante il percorso del testo musicale possiamo avere varianti d’autore, cioè modifiche del testo
operate dall'autore in tempi diversi sulla sua opera, che possono essere sostanziali, formali,
istitutive, sostitutive, alternative, destitutive, oppure varianti di tradizione, cioè innovazioni entrate
nel testo nel corso della tradizione, o per consapevoli interventi interpretativi. Il compito di chi si
appresta a presentare un’edizione musicale è dunque quello di rintracciare tutti i testimoni
disponibili e analizzarli accuratamente. Alcuni testimoni andranno a ricostruire la versione d’ultima
mano, altri andranno ad alimentare lo storico dell’apparato critico dell’edizione, generando così una
“storia della trasmissione”.
La trasmissione di determinati repertori (ad esempio il gregoriano oppure le canzoni dei trovatori e
dei trovieri) si basano in principio su tradizione orale. E’ dunque necessario applicare vari modelli
metodologici a seconda dei vari generi o repertori. Spesso è utile attingere da altri ambiti, come ad
esempio le metodologie letterarie, e adattarle alle varie situazione.
In alcuni casi abbiamo testimoni che sono vere e proprie trascrizioni, per esempio quando
incontriamo testimoni redatti in intavolatura oppure in forme di notazione differenti, che vengono
poi trascritti in notazione su pentagramma, con conseguente introduzione di passaggi interpretativi o
errori comuni a questo tipo di operazioni.

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Generalmente lo studio di schizzi e di bozze viene utilizzato solo come materiale per lo studio
biografico. Lo studio di questo materiale può essere d’aiuto ai fini dell’analisi nella preparazione di
una edizione critica.
Importanti anche le tecniche di stampa utilizzate, soprattutto per la musica antica, poiché in molti
casi molte informazioni musicali vengono determinate proprio dal tipo di tecnica utilizzata o meno.
Le tecniche di stampa principalmente utilizzate sono la Xilografia, la Calcografia, la Litografia, la
stampa a caratteri mobili o tipografica.
Informazioni e approfondimenti di queste tematiche si trovano in “filologia in pillole – articoli in
Hortus Musicus” di Marina Toffetti e, per le tecniche di stampa e intavolature nei capitoli “Stampa
Musicale” e “intavolature” di questa dispensa. Rimandi alle informazioni musicali che vengono
tramandate dai vari metodi di stampa si trovano inoltre alla fine dei capitoli riguardanti “stangoni o
tratti d’unione”, “alterazioni” e “metrica”.

Terza fase: Ricostruzione del testo

In questa fase si racchiude il problematico lavoro per arrivare o ricostruire l’ultima volontà
dell’autore, che è lo scopo ultimo di ogni musicologo che si appresta a curare un’edizione musicale.
Non bisogna affidarsi semplicemente ai testimoni migliori, ma analizzarli uno per uno, traendone le
varie lezioni, cercando di stabilire le relazioni che esistono fra i vari testimoni. La critica del testo è
dunque il complesso di operazioni che permettono attraverso vari criteri di individuare e correggere
errori, interpolazioni e varianti di tradizione, per arrivare al ripristino del testo nella forma
idealmente più vicina possibile alla stesura originaria d'autore. I criteri utilizzati possono essere
esterni (desunti dall'analisi dei vari testimoni), interni (per esempio in presenza di lectio difficilior,
dell'usus scribendi), degli errori comuni (analisi in base alla presenza o assenza di errori sostanziali
nei vari testimoni), dell'analogia (confronto delle lezioni con altre analoghe all'interno dello stesso
testo come ad esempio passi che si ripetono), della maggioranza, delle aree periferiche (la
coincidenza in lezioni fra testimoni provenienti da aree periferiche che siano indipendenti fra loro e
che quindi testimoniano una genuinità delle lezioni stesse).
Per arrivare ad una edizione scientificamente valida è necessario passare attraverso 4 fasi distinte:
recensio, collatio, restitutio texti, emendatio. La recensione prevede la raccolta di tutti i testimoni
esistenti; la collazione prevede invece l’analisi e il confronto di tutti i testimoni fra loro, creando se
possibile uno stemma, cioè un albero genealogico dei vari testimoni, catalogando tutte le operazioni
che andranno poi a confluire nell'apparato critico. La fase della ricostruzione è fatta generalmente
seguendo 2 correnti principali: quella di Lachmann (detta anche “stemmatica”) o quella di Bédier; in
quella Lachmanniana il testo musicale viene ricostruito traendo le varie lezioni dai vari testimoni,
cercando di ottenere l’Archetipo, mentre in quella di Bédier viene scelto il testimone più attendibile,
presentandolo poi in edizione diplomatica o diplomatica-interpretativa. Entrambe portano infine alla
emendatio, e cioè alla stesura definitiva del testo da pubblicare.

Quarta fase: Presentazione

L’ultima fase è quella comunicativa, la fase cioè in cui si sceglie come presentare il lavoro
effettuato. Una volta ricostruito il testo musicale si pone il problema della elaborazione dei criteri
editoriali, in cui il curatore dovrà trovare la maniera migliore per far comprendere il senso
dell’opera ai destinatari dell’opera stessa. Eva Badura-Skoda, in un articolo del 1965, sosteneva che
fare un'edizione significa porsi 3 domande: che cosa ha scritto il compositore? che cosa intendeva
scrivere il compositore? (critica del testo); che cosa avrebbe scritto il compositore per farsi
universalmente capire ai giorni nostri? (elaborazione dei criteri editoriali).

Le difficoltà che sorgono a questo punto possono essere di due tipi: la distanza della notazione
antica da quella moderna, e le aspettative di diverse tipologie di utenti, che va dallo specialista di un

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determinato repertorio a chi invece non ha conoscenze così approfondite riguardo un repertorio in
particolare. I destinatari di un’edizione non sono tutti uguali, non hanno le stesse competenze e le
stesse esigenze. Quello che per qualcuno è ovvio, per altri è oscuro, ciò che ad alcuni aiuta nella
comprensione di un testo ad altri può dare fastidio.
Generalmente le scelte che maggiormente influenzano questa fase riguardano la presentazione delle
chiavi utilizzate, l’uso dei segni di alterazione, la scelta per i valori musicali che in alcuni casi
vengono ad esempio dimezzati, l’altezza delle note, la presentazione dei pentagrammi, le
proporzioni metriche tra diverse sezioni, la scrittura in partitura o condensata in doppio
pentagramma, il raggruppamento degli stangoni secondo le regole standard moderne relative alla
metrica, e tanti altri fattori. Alcune volte la presentazione sarà addirittura una vera e propria
trascrizione, ad esempio quando siamo in presenza di originali tramandati da una o più intavolature,
sia essa per strumenti a tastiera che per strumenti a corde o a fiato. Le scelte di presentazione
devono rispondere all’esigenza di rendere leggibile un testo musicale nella maniera più chiara e
immediata possibile, in modo che chiunque possa eseguirle. Non esiste una presentazione di una
edizione “assoluta”, cioè valida per tutti: ogni scelta cercherà semplicemente di avvicinarsi il più
possibile alle varie tipologie di fruitori o lettori, andando ad accontentare alcuni e scontentare di
conseguenza altri.

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VERSIONE D'ULTIMA MANO (O ULTIMA VOLONTA D'AUTORE).

Nella filologia musicale ricopre fondamentale importanza il concetto di versione d’ultima mano, o
ultima volontà dell’autore, ed è su questo importante concetto che si basano le edizioni critiche e
tutte le edizioni con un fondamento scientifico, come ad esempio le edizioni Urtext.
Quello che può sembrare ad una prima analisi un concetto del tutto scontanto, e cioè quale sia la
versione definitiva di una composizione musicale, in realtà non lo è affatto, e il musicista si trova
spesso davanti a molteplici versioni di una stessa opera musicale, affrontando non poche difficoltà
nello stabilire se una edizione musicale sia meglio di un’altra o meno. Innanzitutto bisogna porsi un
quesito: esiste davvero una forma definitiva della composizione musicale che ci si accinge a studiare
o a eseguire? e se la risposta è affermativa, quale delle varie versioni proposte è davvero quella
definitiva? Non tutti i compositori si pongono allo stesso modo nei confronti delle proprie
composizioni, sia per indole personale, sia per il periodo storico e culturale nel quale sono vissuti.
Una composizione può pervenirci in più versioni per vari motivi: per migliorare in qualche modo la
versione precedente, e quindi come una evoluzione, oppure come adattamento dovuto a realtà
extramusicali, come ad esempio l’organico variabile di un'orchestra, oppure i desideri particolari di
un solista o di un cantante, oppure ancora per andare incontro al favore del pubblico o di un
impresario in determinate situazioni, o ancora per esigenze di tempo riciclando magari una vecchia
composizione ed adattandola al nuovo contesto; in tutti questi casi quindi non necessariamente
queste nuove versioni sono migliorative. Per meglio comprendere l'argomento di cui stiamo
parlando prenderemo in esame tre differenti famosi compositori, vissuti in 3 periodi storici diversi,
con opposti modi di pensare alla propria produzione musicale: Bach, Beethoven e Schumann.

Johann Sebastian Bach e il periodo barocco

Bach fa parte di quella schiera di musicisti che continuano a rimaneggiare il proprio lavoro, senza in
realtà pensare o considerare che una composizione musicale possa essere in qualche modo
“terminata”, anche perchè l’ultima parola spetta quasi sempre all’esecutore, che per prassi esecutiva
nel periodo barocco può aggiungere abbellimenti, passaggi, note per completare l'armonizzazione.
La scrittura musicale lascia ampio spazio all’esecutore, il fraseggio non è mai indicato salvo
rarissime eccezioni, l’andamento ritmico spesso è sottointeso, come ad esempio per il ritmo “alla
francese” o “alla lomdarda”, o come il punto di valore che non si metteva mai alle pause, e quindi
ciò che viene scritto non sempre è in realtà ciò che bisogna eseguire. Molte forme musicali si
basavano su melodie già esistenti, come ad esempio i corali Luterani, e le trascrizioni di concerti
adattati al clavicembalo e all’organo, che assumono spesso i connotati di vere e proprie nuove
composizioni, sono del tutto normali. In moltissimi brani per strumento solista e accompagnamento
o nei lavori orchestrali è presente la prassi del “basso continuo”, che consiste nel realizzare in
maniera estemporanea un accompagnamento basandosi sulla linea del basso, aiutati talvolta da
alcuni numeri posti dal compositore che suggeriscono le armonie da utilizzare (ma che spesso sono
assenti, come nel caso di Vivaldi). A fianco della produzione musicale scritta esisteva anche una
tradizione legata all’improvvisazione, che probabilmente costituiva la maggior parte del corpo delle
esecuzioni del tempo.
In questo contesto dunque pensare ad una versione definitiva e non più modificabile è del tutto
estranea al pensiero dei musicisti, e continuare a lavorare su un’opera finita è la regola. Spesso Bach
apporta modifiche ad un suo manoscritto senza riportare le stesse modifiche sulle altre copie già
esistenti, e magari in un secondo tempo apporta nuove modifiche ad una versione precedente, senza
tener conto di quelle già effettuate su un diverso manoscritto, rendendo il lavoro dei musicologi
davvero difficile. E’ quindi possibile trovarsi di fronte a più versioni di una stessa composizione,
tutte autentiche. Con questo non si vuole assolutamente dire che Bach “non finiva le sue
composizioni” ma piuttosto che “era sempre possibile migliorare una composizione esistente”.
Questo era dovuto probabilmente anche al fatto che le stampe musicali, all’epoca, erano rare, e solo

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una piccolo parte delle composizioni di Bach, così come di molti suoi contemporanei, sono state
date alle stampe mentre l’autore era in vita. Il dare alla stampa una composizione musicale
generalmente porta l’autore a considerarla sotto un’altra luce, dal momento che la versione stampata
sarà molto più diffusa e che quindi merita una considerazione particolare. In tarda età Bach cerca
sporadicamente di raccogliere e dare corpo a gruppi di composizioni che riteneva migliori
apportando anche alcune modifiche, probabilmente per cercare di darle alle stampe, come per
esempio la raccolta dei corali dell'autografo di Lipsia (che Bach però non riusci a vedere stampata).
In questi casi è abbastanza semplice affermare che tali versioni rappresentano in qualche modo la
versione definitiva per Bach.

Ludwig van Beethoven e il periodo classico

Beethoven è invece un autore che persegue un modello estetico preciso, per cui lavorava su una
composizione, rimaneggiandola e intervenendo ripetutamente per affinare il suo lavoro, fino a
quando non si riteneva completamente soddisfatto del risultato raggiunto. Le trasformazioni e le
correzioni facevano parte del processo creativo; un opera si trasformava da schizzo musicale a
stesura definitiva attraverso lunghi e laboriosi passaggi. In Beethoven il modo di comporre è un
esempio di come la versione definitiva scaturisce attraverso lo sviluppo del pensiero in direzione di
una sempre maggiore caratterizzazione. L'ultima forma è dunque la versione definitiva, una volta
data alle stampe una composizione, superando gli esami dell'autocritica e magari anche della critica
altrui, generalmente se ne separa interiormente, difficile che più tardi ci fosse qualcosa da cambiare
(anche se in realtà a volte è accaduto, come per esempio con la Quinta Sinfonia, la cui edizione
definitiva presenta delle notevoli differenze rispetto alle prime copie stampate). Quando, alla fine
del processo creativo, una composizione era terminata, la preoccupazione principale di Beethoven
diventava quella di trovare un editore per farla pubblicare, la sua sopravvivenza dipendeva anche
dal riuscire a vendere la propria musica. Beethoven visse in un periodo durante il quale vi fu un
radicale cambiamento nei modi di diffusione e di pubblicazione della musica. Se ai tempi di Bach,
poco più di cinquanta anni prima, era molto difficile avere una propria composizione stampata, tanto
che Bach vide pubblicate e stampate pochissime delle sue opere, la pubblicazione degli spartiti
musicali si fece sempre più frequente e diffusa proprio durante il primo ventennio del 1800. Fu
proprio durante la vita di Beethoven che le cose cambiarono, e la quantità di musica stampata
disponibile sul mercato andò sempre aumentando. Gli stampatori e gli editori crebbero di numero
mentre i costi di stampa si andavano riducendo. Nel 1800 non esisteva ancora la legislazione sui
diritti d’autore e di solito le cose andavano così: una nuova opera veniva spesso ceduta a un ricco
mecenate, che poteva esser stato il committente, per una certa somma e per un certo periodo di
tempo, ad esempio per sei mesi o un anno, periodo durante il quale il mecenate poteva farla eseguire
quanto voleva nei suoi palazzi, dalla sua orchestra o dai musicanti a suo servizio. Trascorso il tempo
pattuito il compositore ne tornava, per così dire, in possesso e poteva cederla ad un editore.
L’editore che la acquistava (e questo valeva anche per opere non commissionate) pagava al
compositore una certa cifra, una sola volta, e da questo momento in poi l’opera diventava di sua
proprietà e l’editore ne faceva la prima edizione. Questo implicava il fatto che un musicista non
potesse vendere una stessa opera a più editori contemporaneamente e per contro avrebbe anche
dovuto significare che era proibito, ad altri editori, impossessarsi dell’opera e stamparla per proprio
conto. Questa regola veniva in genere rispettata entro i confini di una nazione, ma editori di altri
paesi potevano tranquillamente ristampare l’opera, e non avendo dovuto sostenere spese pagando
l’autore, rivenderne le copie a prezzo inferiore a quello dell’editore che ne era diventato
proprietario. Ma le edizioni abusive nella stessa nazione, che venivano anche allora definite
“pirata”, erano all’ordine del giorno. Un esempio emblematico fu quello dell’Op.29, il Quintetto per
archi. Beethoven lo aveva dato in uso per sei mesi, naturalmente dietro pagamento di un onorario,
al Conte Fries, e alla scadenza dei termini lo aveva ceduto all’editore Breitkopf e Härtel. Ma nel
frattempo Artaria ne aveva fatto un’edizione pirata, sostenendo di averlo acquistato dal Conte che,

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avendolo pagato a Beethoven ne era divenuto il proprietario e quindi aveva il diritto di rivenderlo.
Secondo Artaria dunque la loro edizione era del tutto legale.

Robert Schumann e l'epoca romantica

Capovolgendo il modus operandi di Beethoven, Schumann afferma che “la prima concezione di un
opera è sempre la più naturale e la migliore. La ragione sbaglia, il sentimento no.” La sua
affermazione del primato della prima concezione è una chiara negazione dell'opinione che l'artista
possa intervenire sull'opera già scritta per migliorarla. Vissuto nel periodo romantico, ciò era in
parte possibile anche grazie alle forme musicali che stavano prendendo piede: brevi composizioni
soprattutto per pianoforte, senza una struttura formale rigida, in cui le idee potevano essere
sviluppate in maniera molto libera. Schumann rimane il re di questa forma musicale, in cui lo “stato
d'animo straordinario” del musicista compositore riusciva a trovare attraverso l'ispirazione del
momento l'idea geniale dello spunto musicale; ogni tentativo di raffinare o dare una forma più
aderente ad una struttura musicale avrebbe compromesso la freschezza delle idee dettate dall'istinto
musicale. Se ciò può essere vero per una parte di composizioni, per molte altre non lo è affatto, e
non sempre anche il più convinto dei romantici ha messo in pratica questo principio. Schumann
stesso, nelle sue sinfonie, si è completamente dissociato dalla sua stessa idea, tanto che la sua
seconda sinfonia è stata rimaneggiata talmente tante volte e ripensata in vari passaggi e nella
struttura, da divenire poi la quarta, cedendo il posto di seconda sinfonia ad una composizione scritta
cronologicamente più tardi (anche per questo motivo spesso le incisioni discografiche delle 4
sinfonie di Schumann si trovano nell'ordine 1-4-2-3). Inoltre alcune abilità e miglioramenti
compaiono inevitabilmente con la pratica e l'esperienza, come ad esempio l'arte dell'orchestrazione,
che migliora con le prove e i suggerimenti dei musicisti che eseguono le composizioni, ascoltando
nella pratica il risultato di ciò che si è scritto, oppure il modo con cui trattare le melodie in rapporto
ai testi e alle liriche in composizioni vocali, per cui è inevitabile che in un epoca più matura ogni
compositore desideri andare a mettere a posto quelle mancanze e quei passaggi che in gioventù non
avrebbe potuto esprimere al meglio per mancanza di esperienza. Possiamo quindi pensare alla frase
“la prima concezione di un opera è sempre la più naturale e la migliore” in termini di concetto con
cui porsi di fronte alla propria composizione da parte del compositore, e cioè di non voler raffinare a
tutti i costi le proprie composizioni musicali cedendo alla convenzionalità, ma dando più peso
all'invenzione piuttosto che all'organizzazione formale, mettendo al primo posto il valore della
prima concezione.
Sull'importanza della prima versione di un opera musicale merita una considerazione a parte l'opera
musicale di Mozart. Egli notoriamente aveva una scrittura chiara e senza correzioni fin dalla prima
stesura, in quanto in realtà nel momento in cui scriveva aveva già chiara in mente la versione
definitiva. Inoltre una delle sue peculiarità più grandi era quella di scrivere le parti solistiche
pensandole e costruendole musicalmente direttamente per i cantanti o gli strumentisti che li
avrebbero eseguiti per la prima volta. Le eventuali successive modificazioni, dovute in gran parte ad
esigenze di rappesentazione, farà perdere al brano e al contesto in cui il brano è inserito parte delle
sue peculiarità.

Autografo e prima edizione a stampa


Un altro concetto molto importante nella filologia è il ruolo dell'autografo in relazione alla prima
edizione a stampa, perchè spesso si è optato per una sovravalutazione dell'autografo, mentre può
accadere che la vera versione d'ultima mano in verità si debba cercare nella prima edizione a
stampa. Per capire questo concetto bisogna pensare al rapporto tra compositore ed editore-copista, o
meglio fra compositore e bozze di stampa, e alla loro revisione. In genere i compositori
difficilmente consegnavano il proprio autografo direttamente agli editori, quasi sempre ne facevano
una copia apposita da consegnare per i lavori di stampa. Durante il lavoro di copiatura, anche in
vista dell'approssimarsi della pubblicazione, il compositore era tentato di apportare qualche piccola

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modifica alla propria composizione, e spesso queste modifiche non venivano riportate nell'autografo
principale. Addirittura a volte il compositore apportava le ultime modifiche proprio mentre
venivano realizzate le bozze di stampa, e inseriva le ultimissime modifiche direttamente su
quest'ultime, senza riportarle poi nelle copie effettuate o nell'autografo. Purtroppo generalmente le
bozze di stampa venivano distrutte una volta stampata la composizione, per cui si è perso un
partimonio di inestimabile valore ai fini della ricostruzione del testo definitivo di moltissime
composizioni. In alcuni casi tali modifiche, così come la correzione di errori di stampa, venivano
scambiate fra compositore ed editore per posta, ci sono pervenute molte di queste lettere, poichè in
generale la corrispondenza veniva archiviata con più cura. E' anche vero d'altra parte che durante la
copia e la preparazione delle bozze di stampa, sopratutto quando non venivano preparate dal
compositore stesso, venivano generati degli errori, per cui spesso è molto difficile capire cosa sia da
imputarsi ad errore oppure a miglioramento apportato dal compositiore in fase di realizzazione della
stampa.
La diffidenza verso la prima edizione a stampa e la sovravalutazione dell'autografo si deve in parte
anche alla figura del teorico musicale viennese Heinrich Schenker, che può essere a tutti gli effetti
considerato il padre delle edizioni Urtext. Analizzando gli autografi di Beethoven, aveva notato
delle finezze di grafia che venivano riprodotte in maniera parziale o equivoca nelle stampe originali,
anche se realizzate sotto il controllo di Beethoven, spesso anche a causa degli strumenti e delle
tecniche di stampa allora utilizzate. La sua scelta ricadde spesso quindi sull'autografo a scapito della
prima edizione a stampa, e così facendo anche in virtù della sua autorità, influenzò senza volerlo
numerosi editori, che seguirono la corrente da lui generata senza porsi il problema di analizzare di
volta in volta in maniera più approfondita il rapporto fra questi due importanti testimoni. Inoltre il
pensiero di Schenker e le sue interpretazioni analitiche delle composizioni del periodo classico e
romantico, hanno generato la convinzione del “concetto di compiutezza”, partendo dal presupposto
che i capolavori trovino alla fine in ogni caso una forma definitiva anche nel più piccolo dettaglio,
per cui ogni nota, ogni sfumatura espressiva riceverebbe una propria ed immutabile collocazione da
parte dell'autore. Questo, come abbiamo visto, è probabilmente vero nel caso di Beethoven, ma
applicarlo ad altri contesti, come per esempio quello di Bach, sarebbe a dir poco disastroso.

Per meglio illustrare le infinite possibilità della storia di una composizione e i mille scenari che si
possono presentare a chi si appresta a redigere una edizione musicale vediamo alcuni esempi
interessanti sulla evoluzione di alcune composizioni musicali.
Il celebre concerto per pianoforte e orchestra in Si bemolle minore di Ciaikovsky ci arriva con tre
differenti edizioni a stampa curate dall'autore a distanza di alcuni anni una dall'altra ed è interessante
vederne l'evoluzione. Composto nel 1874, fu presentato lo stesso anno da Ciaikovsky (che non era
pianista) a Nicolai Rubinstein, famoso pianista e direttore del conservatorio di Mosca (dove anche
Ciaikovsky insegnava) per una possibile esecuzione. Rubinstein criticò aspramente e con durezza la
composizione, chiedendo radicali cambiamenti, e Ciaikovsky offesissimo si dichiarò indisponibile a
modificare anche una sola nota. Successivamente Ciaikovsky si rivolse ad un altro pianista di fama
internazionale, Hans von Bülow, che lo eseguì a Boston nel 1875 con un incredibile successo.
Ciaikovsky aveva intanto pubblicato lo stesso anno il suo concerto “senza sacrificare una sola nota”.
Nel 1879 però arrivò la seconda edizione “riveduta e corretta dal compositore”, esattamente 3 anni
dopo l'esecuzione del concerto a Londra, dove il pianista Edward Dannreuther chiese e ottenne dal
compositore di poter riscrivere in modo più idiomatico “ciò che pensato da un non-pianista riusciva
faticoso ad eseguirsi, e magro e opaco nel suono”. Nell'edizione del 1879 dunque Ciaikovsky
corresse quello che c'era da correggere, ovviamente senza citare Dannreuther. Il testo del 1879 non è
tuttavia quello che oggi viene adottato. La versione definitiva è quella della terza edizione,
pubblicata nel 1889, per la quale Ciaikovsky accettò alcune modifiche da parte di Alexander Siloti,
il quale propose sia modifiche strutturali (con un grande taglio nel terzo tema del finale) sia di note,
per esempio negli accordi iniziali che da arpeggiati diventano placcati, oppure nel finale con
spostamenti rapidi di registro nel virtuosistico grande passo d'ottave, rendendolo ancora più

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spettacolare. Tutte queste modifiche, che Ciaikovsky inserì nelle versioni che si susseguirono
spostarono probabilmente anche il carattere generale del brano, collocandolo su un piano più
virtuosistico, perdendo in parte quella grazia e malinconica tenerezza che il compositore stesso, in
una lettera di alcuni anni dopo, sembra apprezzare più del virtuosismo; in questa lettera infatti loda
in maniera smisurata il pianista che lo aveva eseguito “con molta sensibilità musicale e pieno di
ispirato calore ed espressione”, nonostante tecnicamente non fosse in grado di eseguire tutti i passi
se non diminuendone la velocità, sia pure in maniera musicale ed espressiva.

Un altro caso emblematico è quello del compositore Mario Castelnuovo-Tedesco, che scrisse
moltissime composizioni per chitarra eseguite e pubblicate dall'illustrissimo chitarrista di fama
mondiale Andrés Segovia. In particolare prendiamo in considerazione il “Capriccio Diabolico”,
composto nel 1935 come omaggio a Paganini su commissione di Segovia, il quale aveva già
commissionato parecchie composizioni a Castelnuovo-Tedesco che eseguiva regolarmente in
concerto. Non essendo Castelnuovo-Tedesco chitarrista, confidava nell'aiuto che Segovia gli offriva
per rifinire le sue composizioni chitarristiche. Generalmente il “modus operandi” era il seguente:
l'autore realizzava una stesura “ideale” dell'opera e la inviava a Segovia, il quale gliela rimandava
corretta. Su questa seconda versione aveva luogo un ulteriore messa a punto del testo, processo che
comportava scambi di lettere e di fogli di musica, con confronti fra le diverse possibilità. La
successiva pubblicazione era basata non sul manoscritto dell'autore, ma bensì su quello che Segovia
realizzava di suo pugno, e che veniva inviato da lui stesso all'editore (probabilmente anche perchè la
pubblicazione veniva favorita dalla fama mondiale di Segovia). Nel caso del “Capriccio Diabolico”
però Segovia operò sul testo che l'autore gli aveva fornito numerose e rilevanti correzioni, e
drastiche abbreviazioni, calcando evidentemente un po' troppo la mano. Castelnuovo-Tedesco, che
era un compositore molto puntiglioso e preparato, e che mai avrebbe inviato ad uno dei suoi
prestigiosi interpreti un testo del quale lui stesso non fosse stato pienamente soddisfatto, soffrì molto
di queste modifiche, che rendevano il suo brano destrutturato, ma le accettò poichè senza
l'intervento di Segovia la sua musica sarebbe probabilmente rimasta in un cassetto. Parecchi anni
dopo, nel 1959, i due musicisti ebbero un diverbio, dovuto alle lamentele da parte di Castelnuovo-
Tedesco sulle modifiche operate alla sua musica, tanto che Segovia minacciò di non suonare più le
sue composizioni durante i sui recitals. Castelnuovo-Tedesco ribadì la sua lealtà e stima per il
grande chitarrista, e il suo massimo apprezzamento per le esecuzioni della sua musica, tranne nel
caso del “Capriccio Diabolico”. Il compositore non volle quindi pagare, per la riconciliazione, il
prezzo dell'ipocrisia. Fortunatamente la copia conservata nel museo “Segovia” di Linares (città
natale del grande chitarrista) ha recentemente permesso di risalire al testo originale di Castelnuovo-
Tedesco, da cui si evincono chiaramente i tagli e le modifiche operate da Segovia rispetto
all'originale. Fra le altre cose si evince un taglio di 24 battute, la modifica di numerose armonie per
rendere il brano più eseguibile a scapito di una maggiore e più soddisfacente ricchezza armonica, e
addirittura l'immissione del tema de ”La campanella” di Paganini nel finale, che appare abbastanza
fuori luogo e pretestuosa. La Ricordi ha recentemente intrapreso un recupero del testo per la nuova
edizione fondata sui manoscritti originali di questa celebre composizione.

Georg von Dadelsen, nel suo famoso saggio “La 'versione d’ultima mano' In musica” del 1958,
conclude dicendo “La 'versione deifinitiva' come frutto di una sviluppo di lunga durata (Beethoven),
le versione che trova validità immediata come dono della prima ispirazione (Schumann), la struttura
costantemente sulla via della maggior completezza come opera della sempre più rigorosa maestria
(Bach): sono tutti soltanto tentativi, ogni volta con un atteggiamento diverso, di contrapporre alla
fuggevole apparenza quello che sopravvive dell'opera d'arte. Il compositore ha fatto la sua parte per
questo. Quello che però non si può restituire in note e in segni, cioè il vivificante ornamento
improvvisato, l'espressione animata, l'impulso ritmico, lo si trova nella 'versione d'ultima mano'
tanto poco quanto in ogni altra versione. Qui finisce il compito dell'editore e comincia quello
dell'interprete.”

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E' interessante capire come una edizione critica ben curata basata su testi che tramandano l'ultima
volontà d'autore dia all'interprete una chiave di lettura e un approccio diverso e più vicino al gusto
dell'epoca e dello stile nel quale è stato composto, generalmente dando al brano una
caratterizzazione e una resa migliore. A questo riguardo Claudio Abbado, grandissimo direttore
d'orchestra che è stato per diversi anni direttore stabile dell'orchestra della Scala di Milano, della
Staatsoper di Vienna e dei Berliner Philarmoniker, nella prefazione dell'ultima incisione delle 9
sinfonie di Beethoven del 1999/2000 scriveva: “grazie all'edizione critica di Jonathan Del Mar
(pubblicata dalla Baerenreiter), che è la più aggiornata e precisa, sono tornato a confrontarmi con la
sfida delle Sinfonie di Beethoven fortemente motivato e pieno di entusiasmo. Del Mar non cerca di
stabilire certezze sulla base di statiche e rigide concezioni fililogiche, ma piuttosto mette a
disposizione il materiale originale, preparato con rigorosi criteri, e lascia il compito di interpretare
questo materiale – dandogli un significato completo ed unitario – alla personale fantasia e alla
individuale sensibilità. La cosa più importante del lavoro di Del Mar è che offre una sintesi di tutti i
manoscritti disponibili, delle edizioni, e delle bozze di stampa che egli ha comparato. Questo è
cruciale perchè i compositori generalmente hanno cambiato alcuni dettagli nei manoscritti e nelle
prime edizioni dei loro lavori, e perchè vari errori si sono insinuati nelle bozze di stampa di
successive edizioni. Inoltre l'apparato critico riguarda ogni aspetto del testo musicale, e per esempio
le articolazioni e il fraseggio sono specificati molto chiaramente: le legature e le differenze tra
legato e non legato, le dinamiche, assolutamente tutto.” Con questa incisione delle sinfonie Abbado
raggiunge un grado altissimo di interpretazione Beethoveniana, allontanandosi nettamente dalla
concezione della “vecchia tradizione tedesca”. Oltre ai problemi testuali vengono presi in
considerazione le problematiche relative alle velocità metronometriche, al numero di orchestrali, al
tipo di strumenti adottati, senza mai dimenticare che il fine ultimo è la resa musicale e un
esecuzione convincente e coinvolgente.

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I DIFFERENTI TIPI DI EDIZIONE MUSICALE

esiste una classificazione per i diversi tipi di testi musicali in edizione, questi sono detti: edizione
pratica, edizione diplomatica, edizione interpretativa o diplomatica/interpretativa, edizione
anastatica, edizione urtext e infine edizione critica.

EDIZIONE PRATICA

con questo tipo di edizione ci si riferisce ad un tipo di pubblicazione rivolta generalmente agli
studenti o a esecutori amatoriali, basate generalmente su una vulgata e corredata da una serie di
indicazioni per l'esecuzione, come ad esempio arcate, fraseggi, segni di dinamica, esecuzione per
esteso di abbellimenti quali mordenti, appoggiature, trilli e gruppetti, modifica arbitraria di passaggi
musicali, aggiunta di legature di valore per ottenere un effetto di legato, etc.
Con questo tipo di edizione ci si trova di fronte a quanto di più lontano ci sia da un edizione
scientifica, e così la volontà dell'autore viene completamente ignorata e scavalcata
dall'interpretazione voluta dal curatore, che generalmente è un musicista o un didatta molto
conosciuto. I problemi principali di questo tipo di edizione sono due: l'impossibilità di stabilire cosa
effettivamente sia stato scritto dall'autore e lo stile con cui sono state effettuate tutte le aggiunte,
spesso infatti queste rispecchiano il gusto di un epoca e stravolgono l'intenzione originale,
soprattutto per le revisioni curate dall'inizio del 1900 fino agli anni 70 e 80, anni in cui la filologia
musicale era ancora ben lontana dal gusto e dalle abitudini dei musicisti. Gli autori che più vengono
snaturati da questo tipo di edizione sono quelli più lontani nel tempo, come ad esempio Bach, sia
per la differenza e le problematiche di esecuzione legate alla filologia musicale, sia per la scarsa o
totale assenza di segni di dinamica e agogica presente negli originali.
Non sempre edizione pratica equivale a edizione scarsa, in alcuni casi anzi potrebbero fornire
indicazioni preziose, ad esempio se sono state redatte da allievi diretti del compositore, soprattutto
se dell'epoca romantica o tardo romantica, ma generalmente ci si trova di fronte ad un testo non
consono alle esigenze di un musicista professionista, condotto arbitrariamente e senza nessun tipo di
confronto dei testimoni.

EDIZIONE DIPLOMATICA E INTERPRETATIVA

con questo tipo di definizione ci si riferisce ad un edizione a stampa che ripropone fedelmente un
singolo testimone nella sua interezza e senza nessun altro tipo di intervento. La sua utilità è quella di
riproporre un testo unico particolarmente importante o particolarmente prezioso. Consiste sempre in
una trascrizione a stampa di un testimone, sia esso un manoscritto che una precedente stampa.
Quando, per motivi di scarsa leggibilità o di lacune nella fonte (buchi nella carta, macchie, parti
illeggibili) è necessario un intervento di interpretazione da parte del curatore, oppure quando
vengono corretti errori evidenti, l'edizione viene detta diplomatica/interpretativa.

EDIZIONE ANASTATICA

l'edizione anastatica, anche detta facsimile, è basata sulla riproduzione con tecniche fotografiche di
un singolo testimone, in questo modo vengono trasmessi non solo i contenuti, ma anche la forma e
tutti i particolari della notazione musicale dell'originale. Più di una qualsiasi trascrizione, la
riproduzione fotografica permette di dar conto delle peculiarità della scrittura, dei suoi pregi e dei
suoi limiti, e può trasmettere attraverso la semiologia eventuali intenzioni del compositore
difficilmente trasmissibili in altro modo. Sostituiscono con vantaggio le vecchie edizioni
diplomatiche, ma per loro natura mantengono inalterate anche eventuali lacune del testo originale,
rendendo a volte problematica la corretta interpretazione dell'opera per problemi di lettura di
eventuali passi di difficile comprensione. Generalmente non sono corredate da altre indicazioni, per

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questo motivo sono spesso fonte di discussione da parte dei musicologi e dei musicisti più esigenti
che vorrebbero almeno una giustificazione riguardo la scelta del testimone pubblicato; questo infatti
potrebbe essere stato scelto perché il più autorevole, o il più leggibile, oppure il solo accessibile.
L'ideale sarebbe quello di avere un minimo apparato critico per essere inquadrato all'interno della
storia della tradizione del testo a cui appartengono.

EDIZIONE URTEXT

Le edizioni urtext (letteralmente testo originale) nascono dall’esigenza di riportare in primo piano il
pensiero dell’autore che, con le edizioni pratiche, era andato perduto a favore dei vari stili musicali
dei revisori. Spesso le edizioni pratiche contengono errori che si tramandano da edizione in
edizione, e la stratificazione dei vari segni di agogica, espressione, fraseggio rende impossibile
stabilire cosa realmente avesse scritto il compositore e cosa invece fosse stato aggiunto dal revisore.
Con questa premessa nascono dunque le edizioni urtext che si prefiggono lo scopo di mettere in
primo piano la fonte autentica, utilizzando di norma un testimone autorevole, e corredandolo poi da
indicazioni eventuali per la diteggiatura. Tutti i simboli eventualmente aggiunti per aiutare
l’esecutore (generalmente molto rari) vengono in ogni caso evidenziati in maniera inequivocabile
con parentesi quadre o da un diverso carattere. E’ ovvio dunque che in mancanza di un testimone
autorevole non si potrà avere una vera edizione urtext. Per essere efficace la pubblicazione del testo
musicale dovrà essere preceduta da uno studio attento dei testimoni disponibili.
La principale differenza tra l'edizione urtext e l’edizione critica è che quest’ultima nasce per riuscire
ad ottenere in ogni caso un risultato che si avvicina il più possibile all’ultima volontà dell’autore,
studiando ed esaminando tutti i testimoni che ci sono pervenuti e ricavandolo attraverso il confronto
di essi, andando in molti casi a ricostruire un archetipo. Ultimamente le edizioni urtext si sono
evolute, e sempre di più vengono spiegati e argomentati i criteri editoriali utilizzati, comprendendo
anche un apparato critico di ridotte dimensioni.

EDIZIONE CRITICA

Nella filologia o critica testuale, per edizione critica di un testo si intende una pubblicazione del
testo stesso mirante a ristabilirne la forma originale, il più possibile rispondente alla volontà
dell'autore, sulla base dello studio comparato (collazione) di ciascun passo dei diversi testimoni
diretti e indiretti esistenti, siano essi manoscritti o testi a stampa. L'edizione si presenta perciò con
un apparato critico che riporta le lezioni varianti.

individuazione delle fonti

L'insieme dei testimoni che trasmettono l’opera in forma integrale o parziale costituisce la
tradizione di un’opera. La tradizione si distingue in: - tradizione diretta: complesso di manoscritti e
codici, stampe curate dall’autore, stampe postillate dall’autore - tradizione indiretta: versioni
alternative utili per ricostruire un testo lacunoso.

recensio (o censimento): raccolta dei testimoni;

si fa ricorrendo a repertori sia che i testimoni siano integrali (diretta) sia che siano parziali
(indiretta). Una tradizione può essere rappresentata da più testimoni o da un testimone solo. Se c’è
un solo testimone il procedimento è relativamente più facile. In presenza di una tradizione a più
testimoni, si procede con:

collatio (confronto, sulla base di un esemplare di collazione);

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Lachmann applicava a questa fase il concetto del recensire sine interpretatione, ossia un
procedimento meccanico di confronto, mentre i suoi successori e l'esperienza generale dimostrano
come sia necessario già da questa fase compiere uno sforzo per comprendere il testimone,
giudicando le lezioni corrette, sospette o erronee. Il risultato di questo confronto è la registrazione
delle differenze dei vari manoscritti. Tale confronto può essere condotto: - per saggi (loci critici) -
per tutta l’opera (molto difficile per un’opera imponente); idealmente la scelta migliore è la
collazione integrale. Vale la pena ricordare due premesse fondamentali della filologia: - la
testimonianza di tutte le copie (o antigrafi) di un unico testimone (apografo) conta per uno, ai fini
della ricerca, fatti salvi naturalmente i casi di contaminazione - la norma prudenziale recentiores
non deteriores, ovvero un testimone cronologicamente tardo non è necessariamente meno affidabile
di uno più antico.

eliminatio codicum descriptorum (eliminazione delle copie);

vengono eliminate dai testimoni utili le copie di un originale conservato. Non è però sempre
evidente che un codice sia copia di un altro, e tale relazione va provata (es: buchi, macchie
nell’originale e lacuna in corrispondenza nella copia). Il criterio della eliminatio codicum
descriptorum ("eliminazione dei codici copiati") consente di lasciare da parte, sulla base di analisi
delle caratteristiche fisiche del manoscritto, i testimoni antigrafi verosimilmente copiati da codici
apografi di cui disponiamo; ai fini della sola constitutio textus, infatti, tenere in conto un codice
copiato da un altro posseduto risulterebbe poco utile perché questo antigrafo conterrebbe certamente
tutti gli errori presenti nel suo apografo, più altri di propria innovazione. Eccezioni possono
verificarsi quando ad esempio un codex descriptus (copiato) riporta porzioni di testo perdute
nell'apografo. Solitamente in questa fase è possibile ridurre il corpus della tradizione recensita,
scartando molte stampe che seguono la vulgata stabilita dalla editio princeps, facendo attenzione
comunque a possibili varianti d'autore inserite in ristampe e nuove edizioni.
Tali copie non devono però essere trascurate, in quanto potrebbero fornire indicazioni utili per
periodi storici differenti da quello preso in esame, fornendo ad esempio particolari sulla prassi
esecutiva di un epoca o evidenziando un modus operandi che verrà utile quando ci si occuperà di
composizioni di quell'epoca. Tutti i testimoni quindi devono comunque essere riportati e descritti
nell'apparato critico, in modo da formare anche uno storico da cui attingere in un secondo momento.

determinazione delle relazioni tra i testimoni

per stabilire come si raggruppano i testimoni non bisogna fondarsi sulle lezioni che hanno in
comune (concordanze): mentre le parti uguali possono essersi mantenute indipendentemente nei
diversi rami, è improbabile che certi tipi di errori si siano prodotti indipendentemente. Bisogna
perciò basarsi sugli errori significativi, che possono essere separativi o congiuntivi. Converrà
seguire le definizioni formalizzate da Paul Maas, sulle quali, generalmente, sono fondate le diverse
formulazioni fornite nei manuali di filologia, così come le discussioni, anche divergenti, della
critica:

1) Errori congiuntivi : "La connessione fra due testimoni (B e C) contro un terzo (A) viene
dimostrata per mezzo di un errore comune ai testimoni B e C, che sia di tal natura, che secondo ogni
probabilità B e C non possano essere caduti in questo errore indipendentemente l'uno dall'altro".
2) Errori separativi : "La indipendenza di un testimone (B) da un altro (A) viene dimostrata per
mezzo di un errore di A contro B, che sia di tal natura, che, per quanto ci è dato sapere riguardo allo
stato della critica congetturale nel tempo intercorso fra A e B, non può essere stato eliminato per
congettura in questo spazio di tempo".
Tale operazione conduce alla compilazione di uno stemma codicum (albero genealogico della
tradizione manoscritta) in cui si individuano:

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- un archetipo, cioè il capostipite dell'intera tradizione posseduta, solitamente indicato con la lettera
Ω, la cui esistenza è dimostrata dalla presenza di almeno un errore congiuntivo comune a tutta la
tradizione;
- uno o più codices interpositi, cioè testimoni interposti tra l'archetipo e i manoscritti posseduti,
solitamente indicati con lettere dell'alfabeto greco;
- uno o più codici posseduti, solitamente indicati con lettere dell'alfabeto latino.
Si giunge così alla individuazione di più classi (o famiglie o rami) della tradizione: laddove una
lezione sarà attestata nella maggioranza delle classi (e NON nella maggioranza dei codici
posseduti), questa, secondo il metodo meccanico lachmanniano, sarà verosimilmente la lezione
corretta.

Emendatio

Non sempre la ricostruzione dello stemma codicum permette una adeguata selezione delle lezioni: se
ci si trova di fronte a una recensione aperta, o orizzontale, e cioè se l'intera tradizione non deriva da
uno e unico archetipo, è necessario ricorrere a strumenti correttivi basati su criteri interni, e cioè
valutando quale tra le diverse lezioni aderisca maggiormente all'abitudine stilistica dell'autore o
ancora quale sia la lectio difficilior (la lezione più difficile, e dunque difficilmente opera
dell'innovazione da parte di qualche copista, che anzi tende generalmente a banalizzare le lezioni
dell'originale).
Il metodo di Bédier
Il filologo francese Joseph Bédier, che nel 1890 aveva approntato una edizione critica del Lai de
l'Ombre (antico testo francese) seguendo il metodo di Lachmann, nel 1928, dopo le critiche al suo
lavoro, torna a studiare il testo, concludendo poi in primo luogo che il metodo stemmatico era assai
raramente efficace, in quanto spesso la tradizione si bipartiva in due sole classi: Bédier afferma, a
questo proposito, l'esistenza di una forza dicotomica che porta a poco a poco al raggruppamento dei
testimoni in due grandi famiglie. Il risultato di questo era dunque l'impossibilità di procedere
meccanicamente alla scelta della lezione tramite la legge di maggioranza e, inoltre, che esso portava
a produrre inevitabilmente testi compositi, frutto dell'ingegno emendatore di un filologo ma mai
esistiti nella realtà.
La soluzione empirica di Bédier consisteva nello scegliere un bon manuscrit, tra i testimoni
realmente posseduti e studiati, secondo il proprio gusto, e dopo aver corretto solo gli errori più
evidenti. Il metodo lachmanniano, fino a quel momento base insostituibile per l'edizione critica di
qualunque testo, entra in crisi.
Presentazione del testo musicale
L’ultima fase è quella comunicativa, la fase cioè in cui si sceglie come presentare ai lettori il lavoro
effettuato. Una volta ricostruito il testo musicale attraverso i procedimenti visti in precedenza, si
pone il problema della elaborazione dei criteri editoriali, in cui il curatore dovrà trovare la maniera
migliore per far comprendere il senso dell’opera ai destinatari dell’opera stessa.
Le difficoltà che sorgono a questo punto possono essere di due tipi: la distanza della notazione
antica da quella moderna, e le aspettative di diverse tipologie di utenti, che va dallo specialista di un
determinato repertorio a chi invece non ha conoscenze così approfondite riguardo un repertorio in
particolare. I destinatari di un’edizione non sono tutti uguali, non hanno le stesse competenze e le
stesse esigenze. Quello che per qualcuno è ovvio, per altri è oscuro, ciò che ad alcuni aiuta nella
comprensione di un testo ad altri può dare fastidio.
Generalmente le scelte che maggiormente influenzano questa fase riguardano la presentazione delle
chiavi utilizzate, l’uso dei segni di alterazione, i valori musicali, l’altezza delle note, la
presentazione dei pentagrammi, le proporzioni metriche tra diverse sezioni, la scrittura in partitura o
condensata in doppio pentagramma, il raggruppamento degli stangoni secondo le regole standard
moderne relative alla metrica, e tanti altri fattori. Alcune volte la presentazione sarà addirittura una
vera e propria trascrizione, ad esempio quando siamo in presenza di originali tramandati da una o

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più intavolature, sia essa per strumenti a tastiera che per strumenti a corde o a fiato. Le scelte di
presentazione devono rispondere all’esigenza di rendere leggibile un testo musicale nella maniera
più chiara e immediata possibile, in modo che chiunque possa eseguirle. Non esiste una
presentazione di una edizione “assoluta”, cioè valida per tutti: ogni scelta cercherà semplicemente di
avvicinarsi il più possibile alle varie tipologie di fruitori o lettori, andando ad accontentare alcuni e
scontentare di conseguenza altri.
L'ideale sarebbe quello di poter avere differenti presentazioni di uno stesso testo musicale, per
andare incontro alle esigenze di differenti fruitori di una stessa pubblicazione. Ovviamente per
motivi economici e logistici questa soluzione è completamente inattuabile attraverso l'editoria
tradizionale, ma potrebbe avere sviluppi futuri attraverso l'utilizzo del mezzo informatico,
presentando insieme alla pubblicazione cartacea un supporto con le versioni alternative di
pubblicazione. Con tale procedimento potrebbe essere utile fornire anche i vari testimoni utilizzati
in forma digitale, siano esse riproduzioni in forma anastatica o diplomatica, rendendo accessibile a
chiunque lo voglia l'approfondimento e il confronto delle soluzioni ottenute in una edizione critica.

Un primo passo verso questa direzione è stato fatto recentemente dalle edizioni Breitkopf con la
pubblicazione della nuova Orgelwerke di J.S. Bach: tutti i volumi sono accompagnati da un CD rom
contenente versioni alternative sia in formato pdf che in un formato proprietario che, con un
interessante software, evidenzia le differenze fra le varie lezioni dei testimoni presenti.

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FORMATI FILE

In questo capitolo esaminiamo i formati file nell’ottica della distribuzione digitale, sia attraverso
Internet che attraverso i vari supporti multimediali.
Per la distribuzione digitale di contenuti musicali è necessario avvalersi di un formato file e da un
applicativo in grado di aprire uno o più di questi formati file.
Abbiamo una prima classificazione che divide i formati file in due grandi categorie: formati statici e
formati dinamici. All’interno di questa seconda categoria abbiamo poi un’ulteriore divisione in due
sotto categorie: formati proprietari e di interscambio.

Formati statici

Per formati statici si intendono formati non modificabili dall’utente e volti esclusivamente alla
rappresentazione grafica del contenuto musicale; fanno parte di questa categoria il formato PDF, il
DjVu e tutti i formati grafici (GIF, JPG, BitMap etc.).

Il formato PDF e il formato DjVu offrono, rispetto agli altri formati statici, il grande pregio di poter
organizzare i contenuti musicali così come in un normale libro o fascicolo, permettendo quindi di
avere più pagine all’interno di uno stesso file, organizzate in maniera logica e consequenziale,
rendendo i contenuti fruibili in maniera più efficace e veloce dall’utilizzatore finale. Anche la
stampa della partitura avviene con pochissimi comandi. È possibile inoltre proteggere i contenuti
musicali a vari livelli, impedendone l’esportazione o la stampa. Per poter essere aperti hanno
bisogno di un programma reader, disponibili gratuitamente, mentre per essere creati hanno bisogno
del software completo o, nel caso del PDF di opportuni driver per la stampa su file.

La dimensione finale del file PDF e DjVu dipende innanzitutto dal modo in cui viene creato il file:
se creato direttamente come output di stampa da un software di notazione musicale avrà una qualità
altissima e un peso molto basso, se invece il file viene creato inserendo immagini precedentemente
scannerizzate dalla fonte musicale, il peso sarà molto più elevato.

Nel primo caso, creare il file direttamente come stampa su file dal software di notazione musicale, è
preferibile utilizzare il formato PDF, perchè più diffuso e più facilmente ottenibile grazie ai vari
sistemi possibili per la conversione. Il Portable Document Format, comunemente abbreviato PDF, è
un formato di file basato su un linguaggio di descrizione di pagina sviluppato da Adobe Systems nel
1993 per rappresentare documenti in modo indipendente dall'hardware e dal software utilizzati per
generarli o per visualizzarli. Un file PDF può descrivere documenti che contengono testo e/o
immagini in qualsiasi risoluzione. È un formato aperto, nel senso che chiunque può creare
applicazioni che leggono e scrivono file PDF. Il PDF eredita molte delle funzionalità del PostScript,
un linguaggio di descrizione della pagina anch'esso sviluppato da Adobe. Postscript permette di
descrivere una pagina come il risultato di un'esecuzione di un programma, che contiene istruzioni su
come e dove disegnare linee, punti, lettere dell'alfabeto e altri elementi grafici. In questo modo, ogni
apparecchio capace di eseguire il programma (ossia, che abbia un interprete Postscript), sarà in
grado di riprodurre tale immagine al meglio delle sue capacità. Questo processo, tuttavia, richiede
grandi risorse da parte del terminale. Il PostScript è dunque un linguaggio di descrizione di pagina
interpretato particolarmente adatto alla descrizione di pagine ed immagini, inizialmente usato come
linguaggio per il controllo delle stampanti. Il Postscript va considerato come un vero e proprio
linguaggio di programmazione. Lo scopo principale per cui venne ideato era lo sviluppo di uno
strumento per descrivere pagine di testo e grafica in modo indipendente dalla risoluzione e dal
dispositivo di visualizzazione. Grazie a questo linguaggio quindi è possibile trasferire da un
computer ad un altro informazioni senza perdita di qualità. Un file postscript può quindi essere
visualizzato o stampato alla massima risoluzione consentita su una qualsiasi piattaforma

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compatibile. Il PDF, invece, è un formato, non un linguaggio di programmazione, e per questo
motivo non ha bisogno di essere interpretato. Questo significa che il processo di creare o
trasformare un PDF nella sua immagine grafica è semplicemente dato dalla lettura delle descrizioni,
invece che dall'esecuzione di un programma con l'interprete PostScript. Tutte le funzionalità del
PostScript come i caratteri, layout e misure rimangono invariate.
All'interno del file PDF vengono tenute informazioni sulla sicurezza (documento stampabile o non
stampabile, protetto da password, con selezione di testo bloccata o non bloccata, ecc.) e
l'indicizzazione. La protezione di un documento PDF presenta una chiave di crittografia attualmente
fino a 128 bit (tempo fa era di 40 bit), e per il futuro non è escluso che possa aumentare in relazione
all'aumento di potenza dei calcolatori in grado di elaborare chiavi di accesso random a più di 128
bit. La protezione crittografica dei PDF è molto debole, ed esistono numerosi programmi che
riescono a rompere la chiave in tempi strettissimi. La protezione password PDF è sconsigliata per
salvaguardare l'informazione al suo interno.

Nel secondo caso, creare il file da immagini scannerizzate, è preferibile il formato DjVu, nonostante
i risultati con il formato PDF siano comunque buoni; attualmente il PDF è il formato file più diffuso
e utilizzato nel web per la distribuzione di contenuti musicali editoriali.
Djvu è una tecnologia di compressione d'immagine che permette di creare immagini di alta qualità
ma leggere. E' stato concepito espressamente per la digitalizzazione di opere cartacee, operazione
che necessita di file leggeri (elevato numero di scansioni delle pagine) e alta risoluzione (leggibilità
della scansione). Il formato DjVu è in grado di ottenere fattori di compressione, su documenti a
colori, dalle cinque alle dieci volte migliori rispetto ad altri formati concorrenti quali JPEG e GIF e,
su documenti in bianco e nero, fattori dalle tre alle otto volte migliori rispetto al formato TIFF G4.
Documenti digitalizzati a 400 ppi in full-color, dalla dimensione originale di 36 Mb, possono essere
compressi in file dal peso compreso tra i 30 e i 100 Kb (rapporti tra 1:300 e 1:1000). Questi elevati
fattori di compressione rendono i documenti DjVu realmente utilizzabili sul web. La compressione
DjVu può essere anche applicata ai documenti nati in digitale come quelli nei formati Postscript
(.ps) o PDF. In questo caso la dimensione dei file è compresa tra i 15 e i 20 Kb per pagina A4 alla
risoluzione di 300 ppi.
La conversione è attuata dal service web any2djvu: http://any2djvu.djvuzone.org/ , curato da
volontari; il servizio accetta in entrata vari tipi di files, e li converte in un file djvu. Accetta sia file
locali che file presenti sul web, identificati da un URL.

I vari formati grafici quali GIF, JPG, Bitmap e così via, non offrono invece alcun tipo di protezione,
e solitamente contengono una sola pagina per file, con conseguente scomodità per quanto riguarda
l’archiviazione, la consultazione e la stampa dei contenuti musicali, soprattutto se composti da un
gran numero di pagine. I formati immagine standard producono inoltre file eccessivamente pesanti
se salvati alla risoluzione necessaria a garantire la leggibilità. Possono essere aperti da moltissime
applicazioni di visualizzazione immagini, molte delle quali già integrate nei sistemi operativi.

Formati dinamici

Per formati dinamici si intendono invece formati che offrono un certo grado di interazione con il
contenuto musicale, che può andare dal semplice ascolto della partitura alla possibilità di aggiungere
simboli e personalizzare la partitura, fino alla possibilità di stravolgere completamente il contenuto
musicale. Fanno parte di tale categoria i vari formati proprietari dei software di Notazione
musicale e i formati di interscambio. A questi vanno aggiunti i formati testuali aperti, cioè
formati in cui il testo musicale ha origine da un file testuale redatto dal compilatore, che può essere
visualizzato da qualunque editor txt, e viene tramutato in partitura musicale con appositi software.
Fra questi tipi di file citiamo ABC e il formato file del software Lilypond che ha per estensione .ly.

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I principali formati proprietari sono:
Musescore: MSCZ, Finale: MUS, Sibelius: SIB, Vivaldistudio: VIV (protetto) MYV (sprotetto),
Encore: ENC, Turandot: TUR.

I principali formati di interscambio sono il MIDI, l’ETF (formato pubblico di Finale), il NIFF
(Notation Interchange File Format), che è stato il primo vero formato di interscambio, grazie al
quale si è cominciato a far dialogare i software di scansione musicale e di notazione, primo fra tutti
Finale, attraverso un plugin dedicato all’importazione di questo tipo di file. Infine il MusicXML:
quest’ultimo in particolare si sta affermando come il nuovo standard, soppiantando il NIFF. E’
molto ricco di informazioni ed è al momento il formato più utilizzato per lo scambio di informazioni
fra i software di scansione e quelli di notazione (per maggiori approfondimenti il sito di riferimento
è www.recordare.com ). Il più diffuso formato di interscambio, anche se il più limitato, rimane
indubbiamente il MIDI, che può essere aperto non solo da software di notazione musicale ma anche
da tutti i software tipo sequencer.
Alcuni software permettono anche di importare file proprietari appartenenti ad altri software,
rendendo di fatto tali formati interscambiabili; in pratica però tali conversioni non sempre ottengono
i risultati sperati, soprattutto se i file sono stati creati con le versioni più recenti dei software, e non
sono dunque da considerare affidabili, per lo meno allo stato attuale.

Il formato MIDI

Il formato MIDI, acronimo di Musical Intrument Digital Interface, nasce agli inizi degli anni 80
come interfaccia seriale per collegare tra loro apparecchiature elettroniche in campo musicale, e
prende forma dal Universal Synthesizer Interface, che costituisce di fatto il precursore del MIDI. Il
MIDI divenne poi uno standard di comunicazione riconosciuto in tutto il mondo dai costruttori di
strumenti musicali ed intorno al 1983/84 sorsero due diversi comitati (uno americano e uno
giapponese) che si occuparono di perfezionare il MIDI e di far rispettare le decisioni prese in
proposito.
Con la sigla MIDI si intende indifferentemente sia l’interfaccia hardware sia il protocollo di
comunicazione e il linguaggio vero e proprio.
La comunicazione tra apparecchiature MIDI viene fatta attraverso l’invio di messaggi. Un
messaggio è un pacchetto di byte costituito da un comando seguito da uno o più dati. Un comando è
un byte con il bit più significativo (MSB) a 1, mentre un dato è un byte con il MSB a 0.
Comando 1xxxnnnn
Dato 0xxxxxxx
Il numero dei comandi possibili è dunque 8 (1000 – 1111) mentre il numero di canali possibili è 16
(0000 – 1111). I valori parametrici contenuti nei byte dato possono variare tra 0 e 127 (00000000 –
01111111).
Fra i vari messaggi MIDI quelli più importanti ai fini della notazione sono sostanzialmente i
messaggi NoteOn e NoteOff che riguardano rispettivamente l’attivazione e la disattivazione delle
note, la numerazione per l’altezza delle note e la metrica espressa dal tempo di battuta.
E’ importante tenere presente tutto questo quando si pensa ad una partitura, poiché le stesse
informazioni possono venire interpretate in maniera differente dai vari programmi a seconda delle
varie impostazioni e delle varie situazioni; potremo dunque trovarci indifferentemente due note da
due quarti legate fra loro o una da quattro quarti, o ancora una da tre quarti legata a una da un
quarto, nel midi l’unico dato certo è l’inizio e la fine, tutto il resto può variare; allo stesso modo
potremmo avere una nota da un quarto con il punto di valore o una nota da un quarto legata ad un
ottavo, o ancora sedicesimo/ottavo/sedicesimo al posto di sedicesimo/due sedicesimi legati fra
loro/sedicesimo o viceversa. Tutto questo è molto importante ai fini della rappresentazione della
metrica in una partitura. Anche per le pause vale lo stesso discorso, essendo in pratica un “buco” tra
un NoteOff e il seguente NoteOn. Per le alterazioni vale lo stesso discorso, la nota 60 vale al do

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centrale, la 61 indifferentemente al do diesis o al re bemolle, per cui potremmo trovarci con diesis o
bemolli mischiati fra loro senza logica. Altro caso fonte di ambiguità sono i gruppi irregolari, spesso
terzine scambiate per ottavi puntati seguiti da sedicesimo o il contrario.

Il formato XML

Il formato XML permette, a differenza del formato MIDI, di scambiare informazioni riguardanti più
specificatamente la partitura musicale, quali pause (durata specifica e organizzata – nel midi, come
abbiamo visto, le pause non esistono di fatto, ma sono i “buchi” tra una nota e un’altra), pause
multibattuta, ripetizioni, segni di dinamica, ornamenti, accenti, segni di arpeggio, direzione delle
stanghette, raggruppamenti degli stangoni, liriche, legature di frase, battute in levare, tempo di
battuta (specifico), testi con tipo di carattere e posizionamento, segni di ottava, acciaccature e
appoggiature, cue notes, teste delle note, punto di valore semplice o doppio (inoltre a differenza del
midi è possibile mantenere la scrittura con il punto di valore o con la legatura di valore, problema
che si pone soprattutto in presenza di andamento sincopato), alterazioni (specifiche, comprese le
doppie alterazioni), cross staff beaming, gruppi irregolari, cambi di chiave, tablature, numero di
linee per pentagramma e molto altro. Inoltre, molto importante, permette di mantenere la polifonia
di due diverse voci all’interno di uno stesso pentagramma e mantenere la divisione voluta fra le
diverse voci nell’ambito di un doppio pentagramma.

Per dare un esempio sulla diversità di informazioni tra il formato MIDI e il formato XML vediamo
una comparazione dello stesso file creato con Sibelius ed esportato con i due diversi formati,
importati poi in Finale. Questo è l’inizio del file creato in Sibelius:

Segue lo stesso contenuto importato in Finale con il formato MIDI:

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Questo è invece il risultato dell’importazione in Finale con il formato XML:

Alcune considerazioni che si possono evincere dal confronto di questi esempi musicali:

- battuta iniziale non completa, con successivo sfasamento delle barre di battuta
- simboli musicali mancanti quali segno di arpeggio, dinamiche, legature di frase, legature
tratteggiate, testi, liriche (mantenute nel formato xml anche con dimensione, tipo di carattere
e stile), accollature, tempi di battuta specifici
- distinzione dei valori con il punto oppure con la legatura di valore
- distinzione dei valori specifici delle pause
- distinzione delle note posizionate sul pentagramma superiore e quello inferiore
- rispetto della polifonia

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STAMPA MUSICALE

Introduzione e primi problemi

Fino al XV secolo la musica venne riprodotta manualmente. Fu solo a seguito dell’invenzione della
stampa che si pensò a riprodurre meccanicamente anche la musica.
L'invenzione della stampa a caratteri mobili su carta è attribuita al tedesco Johann Gutenberg,
seppure sia probabile che già i cinesi utilizzassero in precedenza tecniche simili e che,
contemporaneamente a Gutenberg, anche altri stampatori tedeschi, boemi, italiani e olandesi
stessero lavorando nella stessa direzione. In ogni caso, Gutenberg, in società con il banchiere
Johann Fust e l'incisore Peter Schöffer, stampa tra il 1448 e il 1454 a Magonza il primo libro, la
Bibbia, con questa tecnica. Come noto, la tecnica di Gutenberg consisteva nell'allineare i tipi
(piccoli prismi metallici di sezione variabile, su ciascuno dei quali compare in rilievo a rovescio un
carattere) assemblandoli in linee, e unire queste creando le pagine complete di testo. Ogni matrice
relativa ad una pagina viene quindi inchiostrata e successivamente stampata con un torchio.
Inizialmente i tipi vengono tenuti solidali da fasce; per questo, dal latino in cuna, cioè in culla,
ovvero in fasce, si qualificano i libri stampati dall’invenzione fino alla fine del 1400 con il termine
incunaboli.
L’invenzione della stampa delle note musicali è di poco posteriore a quella delle lettere alfabetiche
di circa un ventennio. Questo ritardo è dovuto alla maggiore difficoltà di riprodurre a stampa i
complicati simboli della notazione musicale, e anche alla maggiore incertezza della notazione
rispetto all’alfabeto, dato che questa nel XV secolo è da considerarsi ancora in evoluzione.
I primi esperimenti di notazione a stampa risalgono al 1475 circa e si verificano
contemporaneamente in Italia e in Germania. Si tratta di tipografi ed editori generici che si dedicano
anche alla musica. Solo a partire dall’800 abbiamo la tipica figura dell’editore esclusivamente
musicale.
Gli antichi stampatori tendevano a imitare i manoscritti, libri liturgici copiati in chiesa, nelle
cappelle, nei monasteri; il testo appariva sulla pagina così come avveniva nei manoscritti. Le ragioni
di ciò sono ovvie e duplici: da un lato il manoscritto era modello di design e impaginazione perché
offriva già pronte le soluzioni a molti problemi e faceva risparmiare tempo ed energie; d’altro canto
è sicuro che il libro a stampa abbia attratto anche molti tra coloro che avevano già comprato
manoscritti. In tal senso, copiare l’aspetto esteriore dei testi esistenti facilitava anche l’obiettivo
degli editori. Lo stampatore si trovava però di fronte così ad alcune difficoltà: il numero delle copie
da stampare, il formato dei libri, e la carta da usare. Di solito si stampava in quarto o in ottavo, con
quattro o otto fogli creati dal foglio di carta originale ripetutamente piegato, ricavando otto o sedici
pagine di testo, ciascuna con un fronte e un retro, e ciascuna connessa alle altre tramite soluzioni
convenzionali, in modo che il legatore sapesse sempre come piegare i fogli stampati per ottenere la
sequenza corretta delle pagine. La carta era molto costosa, non stupisce quindi che la possibilità di
risparmiare un foglio nel formato e nell’impaginazione fosse spesso un’ipotesi normalmente
ventilata per motivi economici. Ciò significava che la copia modello manoscritta andava allestita
affinché il tipografo sapesse quanto testo disporre in ogni pagina dell’edizione (metodo noto come
casting-off). Dato che molti libri venivano stampati in un formato che comprendeva diversi fogli in
un fascicolo, il casting-off spingeva a sistemare il materiale in un numero di pagine che fosse
divisibile per otto o per sedici: così ogni foglio poteva essere sfruttato interamente e senza sprechi.
Con alcuni repertori ciò era facile: una frottola, una chanson o un madrigale occupavano
esattamente una pagina o un’apertura, dunque bastava contare il numero dei brani e assicurarsi che
questi (insieme al frontespizio, alla “tavola” e, a volte, alla dedica) si sommassero in un numero di
pagine appropriato (spesso 24 o 32 nel caso dei libri-parte del Cinquecento). Invece, benché i libri di
mottetto fossero spesso dello stesso formato, la lunghezza assai variabile dei singoli brani rendeva
più difficile una relazione preordinata tra numero di brani e formato del libro.

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In teoria, un nuovo libro poteva essere composto nello stesso modo con cui si copiava un
manoscritto, iniziando a pagina uno e procedendo fino alla fine; in pratica ciò avveniva assai di
rado, data la piegatura dei bifolii necessaria all’allestimento dei fascicoli completi. Il casting-off, se
fatto con cura, permetteva al tipografo di preparare solo le pagine che dovevano stare da una parte
del foglio; solo dopo aver stampato queste egli poteva iniziare a comporre le pagine per l’altro lato
(risparmiando così nella quantità di caratteri da avere sotto mano).
Questi e altri erano i problemi quotidiani di ogni stampatore, musicale o no. Un secondo ambito di
difficoltà era riservato a chi stampava musica liturgica o polifonica. La questione principale era la
forma inusuale della notazione musicale – specialmente la presenza contemporanea di note (con
chiavi, alterazioni, ecc.) e righi che occupavano lo stesso spazio le une sugli altri. Come nei
manoscritti, la musica a stampa necessitava di un’attenta sovrapposizione delle note sui righi,
all’altezza giusta e con una spaziatura adatta alla lettura; di solito si stampava in due colori, con le
note nere e i righi rossi. La soluzione adottata fu semplice: poiché i due colori di solito non si
sovrapponevano, le due parti del testo potevano essere preparate insieme e ciascuna di esse
accuratamente inchiostrata col proprio colore, così entrambe potevano essere stampate insieme in
un’unica soluzione sotto il torchio. Tuttavia, anche se gli stampatori di musica liturgica si
avvantaggiavano di tale tecnica per stampare il canto gregoriano in due colori – righi in rosso e note
in nero – questa fu infine modificata: infatti, se i righi e la notazione musicale occupavano lo stesso
posto nella pagina, non era più possibile prepararli o stamparli allo tesso tempo. Di qui lo sviluppo
della stampa a doppia impressione, nella quale i due colori venivano preparati e stampati
separatamente, che fu essenziale per stampare il gregoriano.

Tecniche iniziali e xilografia

Fin verso il 1475 i tipografi cercarono di eludere il problema della stampa delle note stampando la
parte alfabetica e lasciando spazi vuoti per la musica; oppure venivano stampati solo i righi musicali
e un amanuense metteva poi le note. Questo era un procedimento lungo, costoso e il risultato era
poco gradevole, infatti gli inchiostri erano spesso diversi, e l’amanuense doveva riuscire a far stare
la parte musicale nello spazio lasciatogli dallo stampatore. Senza contare che poteva capitare che
alcune copie non venissero ultimate: ci sono giunti alcuni libri mancanti delle parti musicali. Si
giunse così alla necessità di ricercare il mezzo per stampare anche le note. La difficoltà principale
era costituita non tanto dai singoli segni, quanto dall’esistenza del rigo musicale e dalla necessità di
inserire le note nel rigo all’altezza voluta. Inoltre c’era anche la differenza del colore: rosso per le
linee del rigo, nero per le note. Tutto questo se ci si limitava alla stampa della più semplice
notazione corale, perché con la notazione mensurale si sarebbero avuti altri problemi: ad esempio le
legature o i differenti colori delle note, a volte nere, a volte rosse, altre bianche. Comunque i primi
esperimenti investono solamente il campo della notazione corale, e solo in una fase successiva,
intorno al XVI secolo, si riprodurrà a stampa anche la notazione mensurale. E’ molto probabile che
la necessità di ricorrere alla stampa anche per la notazione mensurale inducesse ad una
semplificazione e ad una generica codificazione di tutta la notazione, con enormi vantaggi per la
lettura e la comprensione, anche se a scapito della precisione.
Il primo criterio adottato dai tipografi per superare la difficoltà della stampa della notazione corale
pare sia stato quello di ridurre il rigo a un sistema uniforme di 4 linee (eccezionalmente di 5) e di
unirne un frammento a ogni carattere mobile che riproduceva una nota; giustapponendo le singole
note con i loro frammenti di rigo si riusciva a riprodurre il rigo per intero con le note alla loro
giusta altezza. Il difetto era che i vari punti di sutura dei frammenti di rigo non riuscivano mai a
combaciare perfettamente. Il primo esempio del genere pare sia rappresentato dal Constance
Gradual del 1473 ca., che è anche il primo esempio di stampa musicale creata con il solo utilizzo di
strumenti tipografici (Fig.1). Le pagine di questo libro avevano note, pentagrammi, chiavi (Fa e
Do), due linee verticali che segnano l’inizio e la fine dei pentagrammi, e del testo scritto in nero a
due impressioni. Solo la lettera iniziale, per la quale lo stampatore aveva lasciato uno spazio bianco,

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e una linea rossa aggiuntiva ai righi musicali sono stati fatti a mano. Sfortunatamente uesto libro
non riporta né la data, né lo stampatore, né il luogo di stampa. Comunque si può vedere che
l’impaginazione è stata progettata accuratamente anche se dall’irregolarità del corpo dei caratteri si
nota che le matrici non sono state ben allineate. Tra il 1476 e il 1500 i libri liturgici con musica –
note e pentagrammi – stampati a due impressioni, venivano prodotti in almeno 25 città da 66
stampatori. La maggior parte degli stampatori è rappresentata da solo uno o due libri, ma alcuni
hanno raggiunto quote come 12-13, e questi erano chiaramente degli specialisti.
Se chi necessitava di libri stampati religiosi era ben fornito, altrettanto si può dire per i libri di teoria
musicale, anche se stampati con tecniche diverse. Per ragioni storiche, durante il Medioevo e il
primo Rinascimento le discussioni di teoria musicale poggiavano su basi aritmetiche, di
conseguenza i manoscritti contenevano diagrammi di rapporti e relazioni come pure note. Quando si
cominciò a stampare questi trattati, i diagrammi e la semplice aritmetica vennero riprodotti tramite
xilografia (letteralmente “scrittura su legno”). Questa è una tecnica di incisione in cui si asportano,
con particolari strumenti come la sgorbia, scalpello di forma ricurva e scanalata usato per l’intaglio,
dalla faccia piana d’una tavoletta di legno o di metallo le parti non costituenti il disegno. La
tavoletta viene poi cosparsa di inchiostro e impressa sulla carta: le parti scavate risulteranno
bianche, mentre quelle in rilievo saranno nere. Questa tecnica era già diffusa largamente in Europa
nel XV secolo e molti libri stampati venivano decorati con disegni o lettere iniziali impressi con
blocchi di legno. Fu perciò semplice estendere questo metodo anche alla musica. I materiali
musicali non erano complicati e di solito gli esempi erano corti, erano inoltre disponibili molti
modelli della notazione richiesta. Se non erano disponibili localmente caratteri tipografici musicali e
le conoscenze per usarli, era naturale che lo stampatore si rivolgesse ad uno xilografo, ad un
artigiano, piuttosto che ad un compositore di caratteri.
La xilografia è semplice ma
richiede destrezza manuale,
controllo e attenzione nell’incidere
i testi e la musica “al contrario”
sulla tavola, precisione in ogni
dettaglio. La natura grafica della
musica, un sistema di linee verticali
e orizzontali incrociate ad angoli
precisi con elementi associati, note,
chiavi e altri segni che a loro volta
impongono forme e angoli,
presenta molte difficoltà. Se il
punto di intersezione del rigo
musicale e la stanghetta della nota
non sono incisi in modo chiaro,
l’inchiostro tenderà a spargersi nel
punto di congiunzione. Per evitare
ciò alcuni incisori lasciavano una piccola tacca in modo da interrompere la superficie
nell’intersezione per ridurre la densità dell’inchiostro. Per lo stesso motivo non era semplice
incidere le note bianche a cavallo di una riga. La musica stampata con questa tecnica tra il XV e il
XVI secolo varia enormemente per qualità ed estensione. Dal 1500 al 1600 sono state pubblicate
326 opere di teoria musicale in un totale di 611 edizioni da 225 stampatori in 75 città europee.
Andrea Antico è uno dei più importanti stampatori che utilizzavano la tecnica xilografica. Egli
iniziò la sua attività intorno al 1510, quando pubblicò, a Roma, le Canzoni nove, un libro di frottole.

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Due esempi di musica stampata tramite xilografia: (a) Da ‘Musices opusculum’ di Nicolaus
Burtius, stampato da Ugo de Rugeriis (Bologna, 1487); ( b) Inizio del Kyrie da Pipelare’s ‘Missa
L’homme arme’, parte di una pagina da ‘Liber quindecim missarum’ stampato da Andrea Antico
(Roma, 1516)

Nella xilografia, oltre ai blocchi di legno, spesso si usavano quelli di metallo. E’ difficile stabilire
se le pagine stampate meglio siano quelle ottenute con tavolette di legno o con quelle di metallo. E’
possibile che un blocco di legno preparato male, inadeguatamente inchiostrato, possa mostrare
macchie e imperfezioni, ma non si può essere certi che l’utilizzo del metallo faciliti le cose.
Può essere interessante il confronto tra numerose copie di uno stesso libro in una singola edizione, o
di copie di differenti edizioni. Nella prima edizione del Pratica musicae di Gaffurius, stampato da
Guillermus Le Signerre nel 1496, gli esempi in notazione gregoriana e mensurale sono incisi bene e
stampati senza imperfezioni. L’edizione del 1508, stampata con gli stessi blocchi, su due folii
presenta dei piccoli cerchi oltre alla musica vera e propria. Questo suggerirebbe che la parte
musicale sia stata incisa su una tavola inchiodata ad un supporto di legno, e che una mancanza di
cura nell’inchiostrazione abbia fatto sì che venissero stampate anche le teste dei chiodi.
Nell’edizione del 1512 alcuni esempi musicali sono sghembi. Questo suggerisce che la superficie di
stampa è stata fissata con poca cura e di conseguenza durante la stampa la tavola non è rimasta
perfettamente ferma.
Il più antico esempio di xilografia musicale è rintracciabile nel Musices opusuculum di Nicola
Burzio, stampato nel 1487 a Bologna da Ugo De Ruggeri, con esempi di notazione corale e
mensurale. Questa tecnica di stampa continuò ad essere usata anche nel XIX secolo solitamente
per piccoli libri, libretti e volumi simili.

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Tipografia a caratteri mobili

L’innovatore fu Ottaviano Petrucci di Fossombrone. Nel 1490 si recò a Venezia per studiare le
tecniche con lo scopo di escogitare un metodo per la stampa di musica con i caratteri mobili. In
realtà è dimostrato che alcuni tipi mobili di note erano stati usati prima del Petrucci, ma egli fu il
primo a inventare un completo sistema di notazione mensurale a stampa e un metodo di impressione
che gli permise di pubblicare interi volumi di estrema perfezione ed eleganza. Nel 1498 ottenne
dalla Signoria di Venezia il privilegio esclusivo di stampare e vendere musica per voce, organo e
liuto in tutta la Repubblica di Venezia per 20 anni. In tutto stampò almeno 43 titoli musicali a
Venezia tra il 1501 e il 1509. Nel 1511 tornò a Fossombrone e continuò la sua attività fino al 1520.
Petrucci tendeva a imitare l’elegante stile di notazione che fioriva alla fine del Quattrocento. In
questi manoscritti l’impaginazione e l’aspetto esteriore erano importanti quanto il contenuto. Le
caratteristiche di eleganza e perfezione che Petrucci voleva ottenere lo portarono a ripensare alla
distribuzione del materiale tra le due impressioni: non si poteva più seguire la pratica già in uso per i
libri liturgici di stampare il testo insieme alla notazione musicale. La soluzione di Petrucci, che egli
volle “brevettare” come propria invenzione con una petizione alla Signoria veneziana, consisteva
nel cambiare la divisione degli elementi della pagina tra differenti impressioni. Così egli smise di
stampare insieme musica e testo, riuscendo a creare i suoi eleganti caratteri musicali che replicavano
le caratteristiche verticali della notazione manoscritta. Nei suoi primi libri, compreso l’Harmonice
musices Odhecaton A del 1501, suo primo libro, egli ricorse a una tripla impressione, passando
ciascun foglio sotto il torchio per tre volte: una per i righi, una per le note e una per il testo. Si
trattava di un lavoro impegnativo, ma la manodopera costava meno della carta e si continuò a fare
così per buona parte del Cinquecento. Tuttavia Petrucci capì presto che poteva stampare il testo
insieme ai righi invece che insieme alla musica, e si servì di questa procedura a due impressioni fino
alla fine della sua carriera. Allo stesso tempo Petrucci prese un’altra decisione, quella di stampare i
libri in formato oblungo. Ciò potrebbe sembrare strano, dato che i manoscritti del Nord Europa di
cui egli copiava la notazione erano quasi tutti in verticale. Tuttavia nel Nord Italia il formato
oblungo stava prendendo piede per uso privato proprio negli anni in cui Petrucci stava decidendo sul
proprio stile. Questi manoscritti condividono un’altra caratteristica anch’essa seguita da Petrucci:
adottano l’impaginazione a libro corale, in cui le varie parti simultanee sono poste ai diversi angoli
dell’apertura di pagina. In un’opera a tre voci, la sola voce di superius è posta sopra a quella di
tenor sulla pagina sinistra (il verso) mentre l’altus sta sulla pagina di destra (il recto), il bassus si
trova sotto di questo. Petrucci mantenne il medesimo formato oblungo anche quando cominciò a
pubblicare libri-parte nei quali la musica per ciascuna parte era data su libri separati. Questo genere
di libro era quasi sempre in formato verticale, caratteristica che divenne normale per molta musica
a stampa italiana dopo il 1540, ma a Petrucci non conveniva cambiare tecnica di lavorazione, perciò
continuò a stampare in formato oblungo.

Parte di una pagina tratta da


‘Intablatura de lauto’ di Joan
Ambrosio Dalza’s stampato da
Petrucci (Venezia, 1508). La
sovrapposizione della lettera
decorativa con il rigo musicale
indica che il foglio è stato fatto
passare sotto il torchio almeno due
volte.

Tra il 1501 e il 1509 Petrucci pubblicò quasi cinquanta edizioni di musica, potendo lavorare
praticamente senza concorrenza; tuttavia nel 1510 apparve il primo rivale: Andrea Antico. Petrucci
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stampa con i caratteri mobili, mentre Antico con la xilografia. Abbiamo due tecniche, ma anche due
modi di pensiero diversi. Petrucci cercava di disegnare le note come fossero delle lettere, cercando
di strutturarle in caratteri tipografici, Antico le considerava come parte del design grafico e le
intagliava in blocchi di legno. Egli poteva conservare i blocchi per una seconda edizione, cosa che
non era possibile nella stampa a caratteri mobili, e, di conseguenza, poteva stampare meno copie,
all’incirca quelle che gli occorrevano. Questo era molto importante dato l’elevato costo della carta.
Per almeno quarant’anni questi due modi di pensare sulla notazione musicale e come stamparla
coesistettero, offrendo ciascuno determinati benefici. Se i blocchi facevano risparmiare nel caso di
una seconda o terza edizione, comportavano grandi difficoltà nel caso di errori da correggere o di
miglioramenti nell’impaginazione e nella spaziatura. Con la stampa a caratteri mobili invece si
poteva fare correzioni in ogni fase del processo.
La xilografia era particolarmente utile per la musica per tastiera ed era adoperata sia in Italia sia in
Germania, dati i problemi che comportava l’uso dei caratteri nella stampa degli accordi e di note di
differente durata. Per la polifonia, invece, molti stampatori preferirono la tipografia a doppia
impressione. Le due tecniche potevano coesistere visto che nessuna era nettamente superiore
all’altra né in termini di costi, né di estetica. Tutto cambiò con l’apparire della stampa a singola
impressione, con righi e note insieme. Il tempo impiegato nella preparazione e nella stampa dei
caratteri musicali venne dimezzato, il processo di impaginazione e di formato poté essere
sistematizzato, e vennero introdotte tecniche che risparmiavano in manodopera. La xilografia nella
polifonia cessò di esistere. Il primo esempio noto di stampa musicale a singola impressione è un
folio isolato stampato da John Rastell a
Londra verso il 1523 o poco prima, ma
il più influente sviluppatore di questa
tecnica fu Pierre Attaingnant, a Parigi.
Nell’impressione singola, le pagine
musicali venivano assemblate in una
sola volta, praticamente come si faceva
per le pagine di testo ordinario. I
caratteri musicali venivano creati come
avveniva per le fusioni dei caratteri
letterari. Su un blocco di acciaio
(punzone) veniva inciso il carattere
desiderato, in questo caso le cinque
linee del pentagramma, questo veniva
poi impresso su una lastrina di rame
creando una matrice, dalla matrice si
ricavava il carattere tipografico per
fusione. Il carattere musicale, “font”,
cioè la serie completa di caratteri
relativi ad un insieme di matrici,
comprendeva numerosi esemplari
(caratteri singoli). Ciascuno
rappresentava una nota distinta per
posizione e valore ritmico sul rigo, col
suo completo segmento di rigo. In
alcuni casi si usava un segmento
parziale di rigo, dando adito al
cosiddetto “nested-type” o “bonded-
type”. Ne esistevano di ulteriori per le
chiavi, le armature, i segni mensurali, le
righe vuote ecc., oltre a quelli convenzionali per le lettere di testo. Venivano creati anche spazi di

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varie grandezze in modo da poter separare le note come richiesto dalla musica. I caratteri per le
intavolature a singola impressione funzionavano con analoghi principi, benché tendessero a essere
più semplici da creare per la non necessità delle note musicali, anche se più difficili da mettere
insieme. Alcuni tipi di caratteri musicali potevano avere scopi molteplici a seconda di dove
venivano usati, per esempio una semiminima nel quarto spazio su un rigo di cinque linee poteva
venire invertita nel primo spazio del rigo, e naturalmente rappresentava una differente altezza a
seconda della chiave iniziale.

Gli esemplari di tipografia erano assemblati a specchio (da destra a sinistra) e uniti in una forma: la
pagina veniva assicurata a una solida cornice di metallo (la griglia) per mezzo di cornici interne in
legno regolabili (“forniture”) e cunei (“quoins”) o, in certi casi, da un meccanismo tramite dado ad
alette. La forma veniva inserita nella stampatrice dalla quale si estraevano fogli per la correzione
delle bozze. Una volta apportate le eventuali correzioni si procedeva alla stampa. Ulteriori
correzioni potevano avvenire durante la stampa stessa.
Il numero di pagine stampate a partire da una singola forma dipendeva dal formato del libro: due per
l’in folio, quattro per l’in quarto, otto per l’in octavo ecc. Ciascun foglio passava sotto la
stampatrice due volte, sotto due differenti forme, la prima per il fronte, la seconda per il retro;
questo foglio formava poi il fascicolo, di quattro pagine per il folio, otto per il quarto e sedici per
l’ottavo, che veniva piegato e tagliato prima di mettere insieme il libro e rilegarlo secondo le
preferenze: ciò avveniva sia presso lo stampatore sia, più spesso, presso il libraio. Per assicurarsi
che le pagine andassero nel giusto senso recto/verso dei fascicoli era necessaria una regolare
successione prestabilita sul fronte e sul retro del foglio stampato; la collazione, cioè la corretta
impaginazione, il taglio e la sequenza dei fascicoli, era supportata da indicazioni (Ai, Aii, Bi, Bii
ecc.), numeri di pagina e altri segni di sequenza in cima o a piè di pagina.
Posto che un lato del foglio contenesse più di una pagina a stampa, tranne nei casi di formato in
folio massimo, ogni singolo carattere tipografico poteva essere usato una sola volta nella stessa
pagina e una sola volta nello stesso lato del foglio. Questo fatto può causare problemi nel caso di
caratteri elaborati o molto evidenti, come le lettere capitali decorative, perché è più probabile che
essi, pur rappresentando lo stesso simbolo, presentino delle differenze (vedi Fig. 5) Consideriamo,
per esempio, un formato in quarto con un brano musicale per pagina (eventualità normale): il fronte
del foglio poteva contenere la prima, la quarta, la quinta e l'ottava pagina del fascicolo. Se uno dei
testi del brano iniziava con la stessa lettera di un altro, erano necessari due differenti lettere capitali
decorative. Per evitare ciò gli stampatori potevano provare a evitare simili duplicati cambiando
l'ordine dei brani; ciò, a volte, può spiegare le apparenti incoerenze nella successione dei brani in
una data edizione (per esempio in base al modo).
Una volta che il numero di pagine prestabilito veniva stampato, la forma veniva ripulita e, una volta
aperta, le venivano tolti i caratteri per poi riporli nei loro contenitori, raggruppati per tipologia.
A seconda del numero di stampe di una bottega, e anche del numero di addetti ai lavori, le forme
potevano essere preparate in anticipo e i fogli condivisi tra tipografi e presse; cioè il fronte di un
foglio poteva essere stampato dalla “pressa 1” e il retro dalla “pressa 2”, mentre la 1 si preparava a
stampare il fronte del foglio successivo. Le forme chiuse non venivano conservate a lungo, dunque
non esistono “ristampe” in senso stretto, anche se il frontespizio porta diciture come “nuovamente
ristampata”, ecc. Ogni seconda o successiva edizione andava ricostruita da capo, quindi si trattava di
qualcosa di diverso da ogni edizione precedente. L’unica eccezione era il caso di “finte” ristampe,
dove, per esempio, le pagine stampate in fronte-retro di un’edizione precedente erano collazionate
con un nuovo frontespizio, come tentativo, da parte dello stampatore o dell’editore, di svuotare il
vecchio magazzino o di dare l’impressione che un determinato titolo fosse più richiesto di quanto in
realtà non lo era. Non si poteva neppure garantire che ogni singola copia di una edizione fosse
identica. Infatti le interruzioni in fase di stampa per le correzioni “stop press” non necessitavano lo
scarto delle pagine già stampate, di conseguenza spesso accadeva che le copie di un unico foglio
fossero differenti. Una volta ultimata la stampa i fogli venivano messi insieme, ma questo accadeva

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senza prestare attenzione alle diverse correzioni che erano state fatte durante l'impressione, quindi i
fogli di differenti stadi di stampa erano distribuiti variamente tra le copie. Di conseguenza spesso le
varie copie di un testo di una singola edizione sono differenti e non è detto che le copie stampate per
ultime siano quelle più corrette. Se compariamo la complessità di creare alcuni caratteri di testo con
quella delle note per la doppia impressione, non c’è paragone: le note sono molto più semplici e,
alcune, anche molto economiche. Creare i caratteri musicali per la stampa a singola impressione
invece presenta molte difficoltà. Ogni nota ha la sua posizione sul rigo; le linee del rigo devono
essere tutte alla stessa distanza l’una dall’altra in ogni carattere, così che i righi siano formati da
linee continue e parallele.
Solitamente le teste delle note erano a forma romboidale o quadrata e le stanghette partivano dal
centro della testa; questo stile continuò ad essere usato fino alla fine del XVII secolo, quando esso
fu sostituito da note con testa ovale o arrotondata e stanghette a destra o sinistra, secondo il gusto
allora prevalente. L’innovatore fu John Heptinstall a Londra in Vinculum societatis di Jhon Carr,
1687. Le teste delle note così come le code erano fuse con parti di rigo, gli stangoni avevano
un’adeguata inclinazione e le crome e semicrome successive erano unite assieme in direzione
ascendente o discendente. Presto furono disponibili nuovi caratteri. Nel 1699 William Pearson
pubblicò Twelve New Songs, una raccolta di brani di diversi autori stampati soprattutto per
diffondere il suo ‘new London character’. Confrontandoli con i caratteri di John Heptinstall
possiamo vedere che i primi sono più piccoli in scala, e sono meglio fusi.

Due diverse versioni di


stampa di una canzone
tratta dall’ ‘Orpheus
Britannicus’ di Purcell.
(Sopra) prima edizione
(Londra, 1698),
stampata da Heptinstall;
(sotto) seconda edizione
(Londra, 1706) stampata
da Pearson

Breitkopf studiò un nuovo metodo di stampa a caratteri mobili e nel 1755 pubblicò un Sonnet per
dimostrarne la qualità. Il corpo di tutti caratteri doveva essere della stessa grandezza, ovvero un
quinto delle dimensioni di un rigo, e più caratteri servivano a formare una nota o una chiave; per
esempio una nota era formata da tre o quattro caratteri. L’unione di questi formava il simbolo
voluto, e per questo il metodo viene chiamato ‘mosaic types’. Poco dopo anche Fournier sviluppò
un altro sistema, in cui i simboli erano tagliati in modo da poter formare cinque differenti corpi di
diverse dimensioni. Le minime, le semiminime, i quarti, le chiavi e gli altri simboli della stessa
altezza erano costituiti da un solo pezzo (con incorporati segmenti di tre o quattro righi), invece
delle tre o quattro parti come nell’altro sistema. Molti altri stampatori idearono sistemi e caratteri

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diversi per stampare con una singola impressione la musica seguendo sempre la strada dei caratteri a
mosaico.
Esempio di musica
stampata con
i‘mosaic types’.
Copia pubblicata da
Enschedè (Haarlem,
1761)

Il fatto che la musica venisse stampata in formato di libro parte, quindi, per una collezione di brani
a cinque voci, in cinque libri parte, rifletteva non solo le necessità dell’esecuzione, ma anche il tipo
di tecnologia adoperata: nella stampa a singola impressione era difficile ottenere il preciso
allineamento verticale tipico delle partiture, e i formati di partitura ridotta erano limitati dalle
difficoltà tecniche, fatto salvo l’uso di caratteri specificatamente fusi, che incorrevano se si
volevano ottenere due o più note sovraimpresse su un singolo rigo, cosa che creò particolari
problemi alla stampa della musica per tastiera. Verso la fine del Cinquecento si fecero dei tentativi
per ovviare ai limiti delle stampe a singola impressione. La tendenza verso l’ornamentazione
virtuosistica richiese un’espansione dei caratteri musicali consueti (in modo da includere i valori più
brevi), benché alcuni gambi di nota (d’aiuto per la visualizzazione di due o più note sopra una data
sillaba di testo o all’interno di un’unità metrica) fossero possibili collegando i caratteri con dei nodi
oppure creando caratteri speciali. Queste difficoltà rendevano necessario un diverso strumento di
stampa.

Calcografia

La tecnica calcografica, originariamente sviluppata per il fiorente


mercato delle mappe, fu usata per la prima volta a metà del 1400,
ma restò abbastanza sconosciuta fino al 1540 circa. La prima
stampa musicale conosciuta di questo tipo sembra essere
l’Intabolatura da leuto del divino Francesco da Milano; essa non
riporta la data di stampa, ma la si attribuisce ad un periodo
anteriore al 1536. Solo a partire dagli anni Ottanta fu usata con
una certa regolarità sia nella musica vocale che strumentale.
Con il termine calcografia (dal greco calkós = rame e grapheîn =
scrivere) si intendono, per estensione, tutte quelle tecniche di
incisione del metallo che portano alla realizzazione di una matrice
per la stampa. Anticamente il metallo utilizzato era
prevalentemente il rame, anche se non sono mancati esempi di
incisione su ferro, stagno, ecc. La tecnica della calcografia
musicale è identica a quella impiegata per la produzione
calcografica di altri tipi di stampe e consiste
nell’incidere il rame tramite strumenti d’acciaio appuntiti come il tradizionale bulino.
Questo è formato da una sottile sbarra di acciaio temperato con un estremità tagliata trasversalmente
ed affilata, di sezioni diverse: quadrata, triangolare, a losanga, ecc. L'altra estremità è infissa in

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un'impugnatura di legno a forma di mezza sfera che si adatta alla mano dell'incisore, permettendogli
di conferire con il palmo della mano una spinta costante e di esercitare contemporaneamente una
pressione con l'indice sul ferro. Il ferro asporta il metallo creando dei ricci, che alla fine del lavoro
verranno tolti; i segni incisi trattengono
l'inchiostro per la stampa. Si ottiene così un segno
particolarmente netto e preciso. Ci sono anche
altri attrezzi specifici tra cui il compasso a punta
secca che non taglia ma deforma, utile a marcare i
punti che delimitano la posizione dei differenti
pentagrammi, il rastro per il rigo musicale, e i
punzoni che rappresentano i segni musicali, in quanto usati per becchettare la lastra creando dei
punti.
Ci sono due differenti tecniche di incisione: diretta e indiretta. Nella prima, le note e i segni
musicali vengono incisi direttamente con gli strumenti sopra elencati. Nella seconda, chiamata
acquaforte, la superficie della lastra, dopo essere stata levigata e sgrassata, viene coperta da uno
strato sottile uniforme di cera per acquaforte, poi annerita con nerofumo per rendere la cera più
resistente all'azione degli acidi e più visibili i segni.
Con una punta di acciaio, leggermente
arrotondata, si esercita una pressione sufficiente
a scoprire il metallo, tracciando i segni che
comporranno l'immagine. Protetti i margini e il
retro con una vernice, si immerge la lastra in una
bacinella contenente acido diluito, di solito
l’acido nitrico o il percloruro di ferro. Durante la
morsura (azione corrosiva dell’acido) le parti di
metallo messe a nudo dal disegno verranno
corrose.
Qualunque sia il procedimento adottato, la lastra
deve essere incisa in negativo, cioè con le note
disegnate da destra verso sinistra, per permettere
che la riproduzione sulla carta risulti nel verso
corretto. Una volta ottenuta la matrice, si hanno tre diverse fasi: inchiostratura, pulitura e stampa al
torchio. Tutte e tre queste fasi devono essere ripetute per ogni copia. L’inchiostratura consiste nel
far penetrare bene l’inchiostro nei segni incisi, distribuendolo abbondantemente, con una piccola
spatola, su tutta la lastra. La pulitura viene effettuata mediante garze, fogli di carta velina o anche
con il palmo della mano e serve per togliere l’inchiostro da tutta la superficie della matrice tranne
che dai segni incisi. La stampa viene realizzata con un apposito torchio, sul cui piano viene
collocata la lastra. Ad essa si sovrappone il foglio di carta umido e quindi un feltro di
ammorbidimento, il tutto viene poi fatto passare tra due cilindri in pressione tra loro che spingono la
carta a raccogliere l’inchiostro contenuto nelle incisioni.
Le carte usate in
calcografia devono essere
piuttosto spesse, contenere
pochissima colla, in modo
da facilitare l’assorbimento
dell’inchiostro, e, nello
stesso tempo, avere una
certa resistenza per reggere
senza strappi alla pressione
del torchio. Esse vengono
inumidite prima della

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stampa in modo da farne gonfiare le fibre così che possano meglio raccogliere l’inchiostro
dall’incavo dei segni.
Nel corso del Settecento la calcografia si era dimostrata più adatta della tecnica tipografica a
rispondere alle nuove esigenze della riproduzione musicale in serie. Con il metodo calcografico, che
garantiva maggiore flessibilità di scrittura e di impaginazione, la scrittura strumentale ornata e la
sovrapposizione delle note nelle partiture orchestrali si potevano stampare più facilmente. Inoltre
questa tecnica permetteva di adattare l’ordine
di grandezza della produzione a quello della
domanda, cioè si potevano stampare volta
per volta piccole quantità di copie, evitando
problemi di stoccaggio e di perdita della
carta, ancora molto costosa, in caso di
insuccesso di un’opera, dato che la matrice
poteva essere conservata per lungo tempo, a
differenza di quella per la tipografia che
doveva essere smantellata per poter
riutilizzare i caratteri. La tiratura di minimi
lotti di 15-25 esemplari consentiva oltretutto
di evitare la ripetizione di eventuali errori,
che, una volta rilevati, potevano essere
corretti sulla lastra prima di stampare nuove
copie. Questo è il motivo per cui gli
esemplari di una stessa edizione musicale a
volte non sono perfettamente identici,
sebbene coincidano nel frontespizio, nel
numero editoriale e nella maggior parte delle
pagine.

L’impressione calcografica permetteva l’effettiva riproduzione del manoscritto: si raffiguravano le


note di più breve valore, le altezze, le note multiple su un singolo pentagramma con molta più
efficacia di quanto non permetteva la stampa a singola impressione, oltre al fatto che si otteneva un
migliore allineamento verticale. Inoltre metteva gli stampatori nella condizione di evitare le
restrizioni dovute ai monopoli sui caratteri tipografici. La si adoperava soprattutto per partiture
ridotte e per la musica per tastiera. Oltre al fatto che permettevano una maggior complessità
notazionale, le lastre incise potevano anche essere conservate per ristampe con o senza successivi
emendamenti. Nonostante fosse molto più funzionale della stampa a singola impressione, rimase per
lo più come una soluzione di lusso e non adottata lungamente. Si può dire che le due tecniche
convissero dapprima, quasi dividendosi i campi, poiché l’incisione su rame si usava specialmente
per le intavolature, e soprattutto per le edizioni più eleganti e più costose, mentre il campo più vasto
delle edizioni economiche veniva lasciato al sistema tipografico.

La tecnica calcografica, molto in voga nel Settecento europeo, fu impiegata diffusamente dagli
editori musicali italiani durante la prima metà del XIX secolo. In seguito si dimostrò per molti versi
inadatta a far fronte alle nuove esigenze del mercato; la forte espansione richiedeva un numero
sempre maggiore sia di opere stampate, sia del relativo numero di esemplari. Il metodo calcografico
invece consentiva solo blandi ritmi di produzione dato che i tempi di realizzazione erano piuttosto
lunghi, anche a causa della necessità di aspettare che la carta inumidita si asciugasse. Le tirature
dovevano essere limitate, perché la pressione esercitata dai cilindri del torchio sulla lastra di metallo
cancellava a poco a poco i contorni del disegno inciso, rendendo la matrice non più utilizzabile: da
una stessa lastra si potevano ottenere non più di due-trecento esemplari. Un altro fattore

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svantaggioso erano i costi elevati dovuti alla necessità di utilizzare carta molto spessa. Questi
problemi vennero progressivamente risolti con l’introduzione della litografia.

Litografia

Il termine litografia (dal greco líthos = pietra e grapheîn


= scrivere) indica un procedimento di stampa ottenuto
mediante una matrice in pietra, almeno in origine, e più
tardi anche con lastre di metalli porosi come lo zinco e
l’alluminio. Alla base di questa c’è un fenomeno
chimico: la reciproca repulsione o incompatibilità tra
acqua e sostanze grasse.
La litografia fu inventata nel 1796 da Alois Senefelder di
Praga, fu poi importata in Italia, a Roma, da Giovanni
Dall’Armi nel 1805. Un aneddoto cita che un giorno
Senefelder aveva posato una pietra calcarea che gli
serviva per macinare gli inchiostri, sopra una scritta con
un inchiostro grasso a base di cera. Quando la risollevò, si
accorse che sulla sua superficie inferiore si erano
trasferite le parole scritte sulla carta. Nel tentativo di
cancellarle, prima con l’acqua e poi usando come
mordente dell’acido nitrico, egli constatò che il calcare
trattato con i grassi rifiuta l’acqua, mentre le parti umide
trattate con acidi rifiutano i grassi, e intuì che la scoperta
apriva nuove possibilità alla pratica della stampa.
Senefelder continuò i suoi esperimenti osservando affinità
e reazioni chimiche e fisiche tra varie sostanze.

Dopo alcuni tentativi, finalmente nel 1798 Senefelder trovò la vera tecnica litografica.
La matrice, fatta di pietra calcarea, granulosa e costituita da carbonato di calcio, deve avere uno
spessore che va dai 6 ai 12 cm. Inoltre, la pietra deve essere compatta ed omogenea per evitare
fratture sotto la pressione del torchio. La superficie della pietra va levigata con pomice o sabbia per
togliere qualsiasi segno. Si disegna con una matita litografica o con dell'inchiostro litografico
composti da sostanze grasse (l'inchiostro litografico è tipico per essere molto oleoso); infatti, il
carbonato di calcio trattiene con facilità le sostanze grasse. Finito il disegno si cosparge la pietra con
un liquido a base di acido nitrico, gomma arabica acidificata e acqua. La causa della reazione che si
verifica è l'acido nitrico che trasforma tutte le parti non protette dall'inchiostro litografico,
trasformando il carbonato di calcio presente nella pietra in nitrato di calcio, sostanza idrofila. A
questo punto la pietra viene lavata e pulita con essenza di trementina, compreso il disegno realizzato
dall’artista. La superficie non presenta più nessuna visibile modificazione fisica ma risulta preparata
chimicamente a ricevere e repellere l’inchiostro di stampa, senza nessun rilievo o solco e nessuna
immagine visibile. La stampa avviene mediante il torchio litografico, la matrice disegnata viene
bagnata e poi inchiostrata con un rullo di caucciù. L’inchiostro rimarrà soltanto in alcune aree, e
cioè quelle in carbonato di calcio, precedentemente coperte dall'inchiostro tipografico e rimaste
intatte all'acido. Ad ogni tiratura verrà eseguita l’umidificazione e l’inchiostrazione della pietra.
Successivamente la pietra è stata sostituita con l'uso di superfici di zinco o alluminio
(metallografia), con procedimenti fotomeccanici (fotolitografia) e con l’utilizzo delle impronte
dirette (offset).

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Fig.15 Parte di
‘Feldmarsch ’ di
Gleissner (1796),
prima stampa
effettuata con
successo da
Senefelder con il
metodo litografico.

A partire dal 1800, quindi pochissimi anni dopo l’invenzione di questa tecnica, numerosi editori,
primo dei quali fu Johann Anton Andrè di Offenbach am Main, passarono parzialmente o totalmente
dall’incisione ai metodi litografici; questo lascia presumere l’esistenza, rispetto alle altre tecniche
produttive, di diversi vantaggi riguardanti tuttavia più l’aspetto economico che quello qualitativo. I
benefici maggiori si avevano nella fase di scrittura, molto più veloce e meno costosa del
procedimento d’incisione dato che era molto più semplice e che gli scrittori musicali potevano
servirsi di attrezzi consueti, senza bisogno di investire denaro in dispendiose serie di punzoni. Nella
prima metà del XIX il metodo di scrittura più diffuso, che garantiva buoni risultati
di nitidezza e contrasto, era quello di vergare al rovescio direttamente sulla pietra
con l’inchiostro litografico grasso. Il metodo di riporto prevede invece l’esecuzione
su un foglio di carta, con la matita litografica , del disegno a diritto, riportato poi
sulla pietra con un decalco a pressione. Successivamente si poteva procedere alla
stampa. Il vantaggio principale di questo metodo, detto anche “autografia”,
consisteva nella possibilità di disegnare le note nel verso consueto, da sinistra a
destra, il che permetteva ai musicisti, dilettanti e professionisti, di riprodurre la
propria grafia, trasferendola sulla lastra di pietra, senza l’intervento di un copista (fu
così che Richard Wagner produsse l’edizione autografa del Tannhäuser nel 1845).
Di conseguenza, la qualità della stampa litografica dipendeva molto dalla scrittura
che, passando per gradi intermedi, poteva variare da un’esecuzione attenta e
ponderata, effettuata al rovescio sulla pietra alla maniera dei migliori incisori, a una
realizzazione frettolosa da parte dei compositori o copisti su carta da riporto.
Comunque generalmente la qualità era inferiore agli standard della stampa per
incisione, che garantiva esiti migliori nella notazione dei segni musicali e nei
frontespizi, entrambi realizzati con strumenti appositi in grado di dare chiarezza e
uniformità al tratto.
I primi litografi solitamente seguivano un ordine preciso per tracciare la musica
sulla pietra: prima di tutto disegnavano i righi, stabilivano le chiavi e il tempo, collocavano le teste
delle note, e, aiutati da strumenti da disegno, completavano con stanghette, stangoni, legature
indicazioni dinamiche e quant’altro. Le teste delle note erano spesso rotonde, per riuscire a renderle
tutte uguali e per velocizzarne la stesura venivano usate delle “forme”. Ad esempio fu creato un

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tampone resinoso la cui punta aveva la forma di testa di nota, questo veniva inchiostrato e usato
come un timbro. I litografi tedeschi, invece, svilupparono un attrezzo che sotto la pressione di uno
stantuffo e di una molla erogava una quantità misurata di inchiostro attraverso un tubo a sezione
circolare o ovale che, appoggiato alla pietra, lasciava la testa della nota.
Il numero degli esemplari ottenibili da una lastra in pietra era infinitamente maggiore rispetto a
quelli ricavabili da una lastra calcografica, dato che la matrice non veniva usurata nel processo di
stampa. Per le tirature ancora piuttosto basse dei primi decenni dell’Ottocento, ciò non costituiva un
grosso vantaggio, ma quando, dalla seconda metà del secolo, fu necessario incrementare il numero
degli esemplari, la tecnica litografica rese possibile la riproduzione di un’opera in elevata quantità
di copie e in tempi molto rapidi. Perciò a partire dagli anni Sessanta il metodo calcografico fu
gradualmente soppiantato da quello litografico, utilizzato nella variante del procedimento di riporto,
che consisteva nel prendere prove di stampe con inchiostro litografico da lastre incise, trasferendolo
poi su lastre di pietra o metallo. Il beneficio principale di tale metodo era costituito dalla possibilità
di giovarsi allo stesso tempo delle tradizionali capacità grafiche degli incisori e dei vantaggi della
litografia in fase di tiratura. M. Twyman propone di denominare questo procedimento “riporto di
prove di stampa”, per distinguerlo dal citato metodo del riporto di scrittura. Nel XIX secolo gli
sviluppi tecnologici permisero esperimenti sui metalli trattati e si scoprì che lo zinco offriva ottimi
risultati nella stampa litografica, anche se il suo utilizzo in campo musicale fu tardivo, dopo il 1890.
In questo periodo se la litografia rimane alla base dell’editoria musicale, ciò non significa che non si
sviluppino anche altre tecniche. Ad esempio la stereotipia inventata da F. Reichard nel 1790. Questa
tecnica tipografica permette di produrre delle matrici tipografiche a partire da una forma tipografica
costituita da caratteri mobili. La prima matrice fu creata realizzando un calco in gesso della forma e
poi fondendo nel calco una lega metallica in modo da ottenere un duplicato dell’originale, chiamato
stereotipo. Ora invece si ottiene un’impronta su cartone-amianto o su materiale plastico sul quale
viene fatto colare piombo fuso (stereotipia in piombo) o gomma fusa (stereotipia in gomma), in
questo modo si ottiene una matrice in rilievo. La stereotipia presenta il vantaggio notevole di non
logorare le forme tipografiche, dato che queste sono sostituite con le lastre di metallo (o altro
materiale).
Con l’introduzione della macchina fotografica nel campo della riproduzione delle arti grafiche si ha
un grande passo avanti. Iniziarono vari
esperimenti e nel 1857 Eduard I. Asser di
Amsterdam fece il primo trasferimento di
una stampa fotografica su pietra
litografica. Pochi anni dopo si riuscì a
fare il trasferimento anche su zinco. Ora
non era più necessaria la copiatura sulla
pietra o l’utilizzo della carta di riporto,
bastava fotografare l’originale.
Queste tecniche però necessitavano di un
originale “ben scritto”, per fare ciò si
usavano particolari attrezzi per disegnare
le teste delle note, chiavi e gli altri
simboli musicali, come stancil e punzoni.
Quindi, per semplificare il processo, si
iniziò ad usare una nuova tecnica di
trasferimento. Molte copie di singoli simboli musicali vengono stampati con una sostanza densa
(‘inchiostro’ plastico) su una pellicola trasparente. Quando questa viene appoggiata su un foglio di
carta e ne viene sfregato il retro, l’ ’inchiostro’ si stacca dalla pellicola e aderisce alla carta. Il
sistema di questo tipo più completo e più usato è Notaset, sviluppato in Olanda.

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Stampa offset

La stampa offset è una tecnica derivata dalla litografia, che prevede il passaggio dell’inchiostro non
direttamente dalla forma litografica al supporto, ma indirettamente, attraverso una superficie
intermedia di gomma. Nacque all'inizio del XX secolo; il suo vantaggio consiste nel fatto che la
gomma permette di trasferire l'inchiostro non soltanto sul supporto cartaceo, ma anche su materiali
di altro tipo, che non possono essere stampati in modo diretto (ad esempio, la plastica e il metallo).
Inoltre, poiché il caucciù aderisce perfettamente alla superficie da stampare, la qualità della stampa
risulta molto più nitida.

La stampa offset oggi

Oggi, al posto delle originali superfici stampanti su lastra di calcare si usano perlopiù sottili lastre di
alluminio, o di altri materiali come la plastica e l'acciaio, che vengono avvolte intorno al cilindro
stampante. Per essere impressionate, le lastre vengono dapprima ricoperte da un sottile strato di
materiale fotosensibile, ad esempio un fotopolimero, che subisce una variazione di solubilità quando
è esposto a un'intensa
sorgente di luce blu e
ultravioletta. Le immagini
vengono impresse sulla
lastra esponendo
quest'ultima alla luce, che
viene fatta passare attraverso
un positivo o un negativo di
pellicola.

La stampa offset si basa


sullo stesso principio della
litografia, infatti, anziché
stampare il foglio a contatto
diretto con la pietra o la
lastra di zinco, la stampa
avviene attraverso l’impiego
di tre cilindri a contatto tra loro. Il primo cilindro porta avvolta la lastra, che viene bagnata dai rulli
umidificatori ed inchiostratori; il secondo di caucciù, riceve la stampa e la riporta sul foglio, fatto
girare dal terzo cilindro (cilindro di pressione). Questo metodo è anche chiamato: stampa indiretta.

Esistono vari modelli di macchine per la stampa offset: quella cilindrica a foglio è la più diffusa e
disponibile in diversi modelli in grado di stampare su diversi formati di carta, dal 35×50 centimetri
al 140×200.
L’inserimento del foglio in macchina avviene mediante una serie di aspiratori che, alzando il foglio
lo staccano dai sottostanti, ponendolo su un piano di scorrimento. Su quest’ultimo, il foglio viene
posizionato grazie ad una squadra per consentire poi alle pinze di agganciarlo, sempre nel medesimo
punto.
L’operazione serve per assicurare che la stampa avvenga, per tutti i fogli, ad una distanza costante
ed univoca; il cosiddetto registro. (la parte “presa” dalle pinze non può essere chiaramente stampata,
cosa da tener conto nella progettazione dello stampato).
La maggior parte delle macchine offset possono stampare a più colori e se il metodo dei “tre
cilindri” era descrittivo per un colore, all’aumentare dei colori aumentano anche i cosiddetti
“castelletti di stampa”. Ovvero la struttura in grado di stampare un colore per volta.

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Per capire meglio il funzionamento di questo processo, si può osservare l’immagine sottostante che
mostra una macchina da stampa 4 colori. Come possiamo notare è composta essenzialmente da 6
elementi:

 I castelletti di stampa, uno per colore, che


contengono al loro interno i 3 cilindri della
stampa offset.
 Ad inizio macchina ci sono gli “aspiratori”
e le squadre di registro
 A fine macchina la raccolta dei fogli ed
eventualmente altri macchinari di finitura

Il foglio, preso dagli aspiratori e messo a registro,


passa nel primo castelletto dove verrà stampato il
primo colore per poi passare nei successivi (attraverso cilindri) per ricevere gli altri, ed uscire a
stampa completata. Riassumendo, ogni castelletto è un colore ed ogni colore una lastra.
Nelle macchine attuali molte operazioni sono state automatizzate: tra queste i cambi di formato e
lastra, il lavaggio e la regolazione degli inchiostri tramite sofisticate centraline di controllo.

40
NOTAZIONE MUSICALE E TIPOGRAFIA MUSICALE

La notazione musicale è un linguaggio e, come tale, deve essere comunicativo. Più la notazione
segue regoli comuni e linee guida, più la musica sarà eseguita con successo.
Le regole e le linee guida che affronteremo renderanno la notazione più semplice da leggere e
aiuteranno a rendere l’intento musicale chiaro. Anche se queste regole non sono inflessibili, non
possono essere ignorate.

Per la notazione musicale, la priorità principale è sempre la chiarezza. Le scelte che dovranno essere
fatte dipenderanno unicamente dalle varie situazioni; la regola non necessariamente potrà fornire la
risposta più opportuna o adeguata a un problema. Elencare tutti gli esempi musicali che sono
eccezioni alle regole potrebbe essere un compito senza fine. I problemi sono solitamente risolti
decidendo di volta in volta quale regola è più flessibile, tenendo sempre come punto più importante
la chiarezza.

Molte di queste regole potrebbero non essere valide in maniera assoluta in caso di presentazione in
edizione critica moderna di testi antichi; in tali edizioni infatti molti degli elementi della scrittura
originale devono essere preservati, come ad esempio il mantenimento dei raggruppamenti dei valori
inferiori al quarto, l’uso delle alterazioni (che possono valere ad esempio solo per la nota davanti
alla quale sono poste e venire annullate dall’alterazione opposta anziché da un bequadro), o ancora
in presenza di un’indicazione metrica non più in uso o che non rispecchia esattamente il significato
moderno, così come alcune battute che potrebbero contenere valori musicali in eccesso o in difetto.

Nonostante alcuni meticolosi aggiustamenti possono chiarificare e rendere più elegante la notazione,
alcune volte queste attenzioni al dettaglio non sono pratiche. Tutte le decisioni dovranno dipendere
da una grande varietà di situazioni. Una conoscenza approfondita delle regole permetterà di
prendere la decisione più saggia per ogni situazione. La chiarezza e l’efficacia della notazione sarà
dettata dall’insieme delle conoscenze acquisite.

La tipografia musicale è l’arte di riprodurre con precisione e chiarezza la notazione musicale. Come
per la normale tipografia, che regola l’aspetto e la posizione delle lettere e l’aspetto del testo sulla
pagina, la tipografia musicale regola l’aspetto e la posizione dei simboli musicali e l’aspetto della
musica sulla pagina.

Dire tipografia musicale non equivale a dire notazione musicale, chiunque sappia leggere la musica
conosce la notazione musicale, ma ben pochi musicisti conoscono la tipografia musicale.
Continuando l’analogia con il testo, la notazione musicale si può equiparare alla grammatica, ci
indica cioè come scrivere la musica, ma non ci indica dove e come mettere esattamente i simboli;
questi dettagli fondamentali sono regolati dalla tipografia musicale.

Per essere in grado di gestire ogni aspetto della tipografia musicale serve una gran dose di
esperienza. Un occhio allenato è in grado di individuare facilmente l’editore di una pubblicazione
dando un semplice sguardo alla partitura. Per la maggior parte dei musicisti, invece, l’aspetto
puramente tipografico della partitura può sembrare sempre lo stesso, anche perché un buon lavoro di
tipografia deve essere non visibile ad un occhio non allenato, l’aspetto tipografico risalta solo
quando non è ben curato!

Esistono ben pochi testi che hanno per argomento la tipografia musicale, la tradizione è stata
tramandata per secoli principalmente in forma non scritta, di bottega in bottega. La maggior parte di
queste regole sono state definite nel XIX secolo, quando le pubblicazioni di musica avevano
raggiunto un livello qualitativo molto alto.

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La tipografia musicale è un arte molto raffinata, che racchiude moltissime regole, molte delle quali
possono sembrare un po’ eccessive. I programmi di notazione musicale professionali generalmente
fanno un buon lavoro, ma non sono perfetti tipografi musicali, questo perché le regole della
tipografia musicale non sono perfette: alcune sono troppo vaghe da poter essere gestite da un
computer, e molte altre non sono “sempre” valide, richiedendo a volte dei piccoli aggiustamenti a
occhio. In alcuni casi poi, si rende necessario contravvenire ad una regola per evitare di romperne
una magari più importante. Queste sono tutte decisioni che è sempre meglio lasciare all’uomo
piuttosto che alla macchina.

Come abbiamo detto la musica deve sempre apparire con la massima chiarezza, nessun’altra regola
può superare questa per importanza; se qualcosa appare poco chiaro, appare non corretto. E’ per
questo motivo che spesso si ricorre ad aggiustamenti finali “ad occhio”, e in tutte le situazioni in cui
nessuna specifica regola sia stata definita, il consiglio è sempre di andare “a occhio”.
La seconda regola per importanza è di evitare sovrapposizioni: quando i simboli musicali vengono
sovrapposti diventa sempre di difficile comprensione e poco chiari. La maggior parte delle regole di
tipografia musicale sono di fatto dei modi per evitare le sovrapposizione dei simboli.

L’obiettivo della tipografia musicale è quello di permettere di leggere una partitura senza troppe
difficoltà, senza dovervi ogni volta sforzare di capire che tipo di ritmo o di accordo ci sia
raffigurato, o di capire quale nota viene usata in una linea melodica particolare. Al contrario, una
partitura poco curata dal punto di vista tipografico, e quindi poco chiara, potrebbe generare errori
gravi di lettura e quindi di esecuzione.

Le regole qui presentate provengono principalmente da trattati americani di editing musicale in


lingua inglese, integrate da alcune parti che riguardano le più recenti linee editoriali per le edizioni
critiche, unitamente all’esperienza personale.

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INTAVOLATURE

La musica scritta ci è stata tramandata con diversi sistemi, molti dei quali sono oramai scomparsi.
Fra i sistemi ancora in uso vi sono l'intavolatura e la notazione gregoriana.
L’intavolatura o tabulatura, dal latino tabula, o ancora tablatura, è un sistema di notazione nella
quale viene rappresentata graficamente la posizione nella quale posizionare le dita per ottenere un
suono su uno stumento musicale. E’ un approccio completamente diverso, e non è, come si potrebbe
pensare, una semplificazione della notazione moderna così come la conosciamo oggi, ma è invece
un metodo alternativo per fissare un testo musicale. Le origini dell’intavoltaura risalgono al 1300
circa, i primi manoscritti conosciuti sono in intavolatura tedesca per organo; abbiamo esempi a
stampa dal 1500 circa, come testimonia l’“Intavolatura de Lauto” di Francesco Spinacino (Venezia
1507) stampata a Venezia da Ottaviano Petrucci mediante la tecnica a caratteri mobili metallici.
Esistono moltissime testimonianze di composizioni per vari strumenti a tastiera e a corda in
intavolatura, non soltanto per chitarra, liuto o strumenti simili, ma anche per il violino. Ne “Il
scolaro, per imparare a suonare di violino et altri strumenti” di Gasparo Zannetti (Milano 1645),
edito in edizione anastatica (SPES 58) troviamo un esempio di intavolatura per violino con tecnica
di stampa a caratteri mobili. La corda più acuta è posizionata in basso, e sopra il rigo troviamo i
valori di durata. All’interno dello stesso volume vi sono esempi che riportano il rigo relativo alla
intavolatura sia sormontato da un normale pentagramma riportante la notazione tradizionale, sia da
solo senza dunque alcun pentagramma.
In “Varii scherzi di sonate per la chitarra Spagnola” di Franceso Corbetta (Bruxelles 1648) troviamo
invece un esempio di intavolatura per chitarra a 5 corde, incisa con la tecnica della calcografia.
Anche in questo caso i valori relativi alle note sono posizionati in alto sopra al sistema in
corrispondenza del posizionamento del primo cambio di valore.
Le intavolature erano utilizzate per gli strumenti a corda, tipo liuto chiatarra vihuela e simili, e per
strumenti a tastiera, organo e clavicembalo, soprattutto per quanto riguarda l’intavoltura tedesca, e
anche per fisarmonica, armonica, salteri e molti altri strumenti.

Anticamente il valore delle note


veniva posizionato sopra le note,
in corrispondenza di ogni cambio
di valore; generalmente venivano
impiegati i seguenti simboli:

I vari simboli spesso vengono poi dimezzati durante la trascrizione in notazione moderna.

Le intavolature per liuto variavano nella grafia e nei sistemi a seconda dell’area geografica. Le più
importanti sono quella Italiana e Spagnola, quella Francese e quella Tedesca.
L’intavolatura italiana e spagnola utilizzavano un numero di linee pari a quella delle corde (dette
chori) presenti sullo strumento, e utilizzavano numeri per indicare quali tasti premere; l’unica
differenza era per l’ordine di rappresentazione delle corde: quella italiana aveva la corda più acuta
sulla linea inferiore, mentra quella spagnola aveva la corda più acuta sulla linea superiore. I tasti
sono numerati in ordine di semitono partendo dalla corda vuota, o capotasto, che è segnato con lo
“0” (zero).
Ecco un esempio tratto da A. Rotta, “Intabolatura de Lauto, libro primo” (Venezia 1546):

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L’intavolatura francese sostituisce le lettere dell’alfabeto ai numeri, per cui il capotasto è segnato
con la lettera “a”, il primo tasto con la lettera “b” e così via. Come nell’intavolatura spagnola, la
corda più acuta è sulla linea superiore. Ecco un esempio di intavolatura francese:

L’intavolatura tedesca differisce completamente dalle altre, sia per la totale assenza delle linee per
le corde, sia per l’utilizzo sia di numeri che di lettere dell’alfabeto. I numeri indicano le corde vuote,
mentre le 23 lettere dell’alfabeto gotico indicano i tasti, con un sistema che associava ad ogni tasto
di ogni choro un unico simbolo. Nell’intavolatura tedesca per liuto, formato in principio da 5 chori,
le prime 5 lettere si riferivano al primo tasto dei cinque chori presenti, dal grave all’acuto, le
seguenti cinque lettere si riferivano al secondo tasto di ogni choro e così via. Per completare i tasti
dello strumento, finite
le 23 lettere, si
utilizzavano le cifre 7 e
9. Per finire tutta la
serie di suoni
disponibili si
riprendevano le prime
lettere sormontate da
un trattino orizzontale.
In un secondo tempo
fu introdotto negli
strumenti un sesto
choro, e per mantenere
il sistema già adottato
nell’intavolatura
furono escogitate varie
soluzioni, tra le quali
quella più utilizzata
adottava il numero 1 barrato per indicare la corda vuota, e le lettere maiuscole per indicare i tasti
successivi.

esempio di intavolatura tedesca (H.


Newsidler, 1536)

In tutti questi tipi di intavolatura il


lavoro del trascrittore (o del
musicista che si appresta a studiare il
testo musicale direttamente
dall’intavolatura) si complica
notevolmente qualdo la pagina
intavolata diventa polifonica, perché
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non è più possibile capire con chiarezza i valori esatti delle diverse voci, essendo indicato sempre e
solo il più piccolo. In questi casi i trascrittori hanno adottato due diversi sistemi: la trascrizione
integrale e quella interpretativa. Nel primo caso la versione in grafia moderna ci darà la pagina così
com’è nell’intavolatura, che rappresenta, come abbiamo visto, il momento dell’esecuzione.
Nel sistema interpretativo invece il trascrittore interpreta i valori che nell’intavoltaura sono appena
adombrati, restituendoci una partitura che chiarifica e completa il contenuto polifonico.

Dei due sistemi è superiore il secondo, poiché ci indica con chiarezza le diverse linee del
contrappunto e della polifonia, ma richiede da parte di chi lo realizza cognizioni sicure di
composizione e di prassi esecutiva.

Un altro tipo di intavolatura per strumenti a tastiera, denominata “cifra”, utilizzata in spagna nel
‘500, prevede l’uso di righe non per rappresentare le corde bensì le voci di una composizione,
quindi se la composizione aveva 2 voci, per esempio soprano e tenore, venivano utilizzate 2 righe,
se ne aveva 3 venivano utilizzate 3 righe e così via. Le note erano rappresentate con numeri da 1 a 7
per indicare le note da do a si, differenziate per le varie altezze: nella prima ottava si aggiunge ai
numeri delle linee o estensioni verso il basso, nella seconda ottava si utilizzano i numeri normali,
nella terza ottava i numeri sono seguiti da un puntino in alto, nella quarta ottava da una virgola in
alto, nella quinta ottava infine si
aggiunge una doppia linea in alto o in
basso a seconda del numero:

le note potevano essere alterate sia con il


bemolle che con il diesis:

ecco un esempio di questo tipo di


intavolatura (Antonio de Cabezon –
Obra de musica ...):

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ed ecco un altro brano a sole 2 voci tratto dallo stesso volume:

Nella Germania del nord l’uso dell’intavolatura per strumenti a tastiera fu prevalente alla musica
scritta su pentagramma fino al 1600, e gran parte della letteratura barocca di questa zona ci è
pervenuta attraverso intavolature o trascrizioni posteriori, con tutti i problemi legati alla trascrizione,
agli errori di lettura e di interpretazione (soprattutto per la difficile interpretazione di alcune lettere
simili fra loro, o per le varie ottave), nonché alle difficoltà di rendere autorevolmente il ritmo e la
metrica. Ecco un esempio di intavolatura tedesca per strumenti a tastiera:

Anche Johann Sebastian Bach fece uso dell'intavolatura tedesca, sia per alcune composizioni
giovanili, sia per mancanza di spazio per la scrittura tradizionale, come ad esempio in molti corali
della raccolta “Orgelbuechlein” che necessitavano di una rigida impaginazione, l'intavolatura
tedesca in questo caso è usata a fianco della scrittura su pentagramma:

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Oggigiorno le intavolature sono ancora utilizzate
come sistema alternativo alla notazione tradizionale,
soprattutto per la musica popolare e per la chitarra
elettrica e il basso. Nelle moderne edizioni al posto
della chiave viene posizionata l’abbreviazione TAB,
con lo scopo di identificare l’utilizzo del rigo
musicale (non l’altezza delle note). Ogni nota è
indicata dal posizionamento del numero del tasto sulla corda appropriata, e rispecchia l’antica
intavolatura spagnola.
Questo tipo di intavolatura moderna, a differenza di quelle antiche, non permette l’identificazione
dei valori ritmici; generalmente viene utilizzato a tale scopo un pentagramma con la notazione
tradizionale posizionato sopra a quello della intavolatura, e i due pentagrammi sono uniti fra loro
soltanto con la systemic barline, interrompendo le barre di battuta normali.

Un altro sistema utilizzato per identificare il ritmo è quello di


utilizzare i numeri dei tasti come testa della nota e completare la
notazione con stanghette e stangoni adeguatamente.
Solitamente tale sistema è comunque abbinato al rigo con la
notazione tradizionale.

Le lettere inserite vicino alle note o ai numeri della tablatura hanno


generalmente uno specifico significato riportato
in un’apposita legenda all’inizio del libro, ecco
alcuni esempi: C = bend, U = pre-bend, D = bend
release, S = slide, P = pull off, etc.
Un altro tipo di tablatura, riferito ad una
particolare tecnica per la chitarra (pennate veloci
sulle corde) è la seguente:

E’ possibile trovare in successione sullo stesso rigo entrambi i metodi di tablatura:

Per quanto riguarda i software che permettono di ottenere partiture in intavolatura, troviamo quelli
più utilizzati e famosi come Sibelius e Finale, alcuni altri software dedicati appositamente alla
creazione di intavolature moderne per chitarra elettrica e basso, come ad esempio “guitar tab”,
“tabledit” o “power tab editor”, un sistema ASCII tab che utilizza comuni editor di testo per ottenere
abbastanza laboriosamente in maniera grafica la sola rappresentazione del sistema di intavolatura
senza pentagramma, e infine un software che si dedica alla rappresentazione delle antiche
intavolature italiane spagnole e francesi scritto da Wayne Cripps e chiamato “tab”, reperibile sul sito
http://www.cs.dartmouth.edu. Simile nella concezione al software di notazione “lilypond”, si basa
su un file di testo compilato che viene poi tradotto in formato grafico dal software attraverso
l’utilizzo del linguaggio postscript. La peculiarità maggiore di questo software è la possibilità di
riprodurre fedelmente tutti i simboli utilizzati nelle antiche intavolature, con particolare attenzione

66
per quanto riguarda la spaziatura e i font utilizzati. Attraverso l’uso di questo software è possibile
ottenere edizioni diplomatiche di notevole qualità delle fonti, che possono facilmente e velocemente
essere archiviate per consultazioni di carattere filologico o pratico. Sullo stesso sito del software
sono anche presenti, in una sezione apposita, moltissime intavolature antiche compilate con questo
sistema.
Ecco un paio di esempi di intavolature ottenuti con questo software:

1. esempio di intavolatura italiana

2. esempio di intavolatura francese

ed ecco invece un esempio di intavolatura ottenuta con il sistema ASCII tab:

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ALTERAZIONI MOMENTANEE

Il problema di annotare i 12 suoni (ma in realtà come vedremo sono molti di più) della scala in una
partitura musicale con solo 7 note (do-re-mi-fa-sol-la-si) viene risolto con l'utilizzo di speciali segni
chiamati alterazioni. Come dicevamo, i suoni in realtà sono molto più di 12, poiché fisicamente ad
esempio un mi bemolle e un re diesis benchè in un moderno pianoforte siano suonati da un solo
tasto nero sono in realtà due suoni distinti, il primo più calante e il secondo più crescente.
Riprenderemo questo discorso quando parleremo dei “temperamenti”.
I moderni segni per le alterazioni musicali, il bemolle, il diesis e il bequadro, derivano tutti da un
antico modo medioevale di scrivere le note musicali attraverso le lettere dell'alfabeto. All'epoca
l'unica nota che poteva essere alterata era i SI, che veniva notato con la lettera “b” in 2 forme
diverse: la b tonda (o molle) e la b quadra (o dura) di forma angolosa. La b tonda indicava il si
bemolle, mentre la b quadra indicava il si naturale. Tutti gli altri gradi della scala, o meglio dei
“modi”, non potevano avere alterazioni. La b quadra, di forma angolosa, si trasformò poi nella
lettera “h”, ancora oggi in uso nei paesi di lingua tedesca per indicare il si naturale (la lettera “B”
indica il si bemolle, a differenza della notazione dei paesi anglosassoni in cui indica il si naturale).
Da questi 2 simboli, la b molle e la b dura, si svilupparono le moderne alterazioni, che nel tempo
ebbero significati leggermente diversi: la b molle diventò il bemolle, e si applicò poi a tutte le note
per alterarne l'altezza di un semitono verso il grave, e la b dura (o quadra) si trasformo nel bequadro
e nel diesis. Più recentemente, con l'avvento e l'adozione in maniera definitiva del temperamento
equabile, che divide l'ottava in 12 semitoni equidistanti fra di loro, si sono sviluppati anche il
doppio diesis e il doppio bemolle, per permettere di scrivere musica in tutte e 12 le tonalità
maggiori e minori, utilizzando le opportune alterazioni rispetto alle note della scala. Nella scala di
do diesis maggiore ad esempio, che ha in chiave 7 diesis, per poter alterare una nota verso l'acuto è
necessario utilizzare un simbolo diverso dal diesis, che è già utilizzato nel nome della nota, per cui
venne adottato il doppio diesis.
Di seguito sono riportate le convenzioni pratiche più importanti riguardanti le alterazioni musicali.

Per alterare temporaneamente l’altezza delle note durante un


brano vengono utilizzati 5 diversi simboli:

E’ preferibile utilizzare una sola alterazione per nota, senza


utilizzare simboli doppi (ad esempio bequadro seguito da
alterazione). Questa pratica era in uso in alcune edizioni del
passato, ma non è una buona norma. Una sola alterazione è
sufficiente per specificare l’altezza della nota desiderata:

Ogni alterazione vale per tutte le note seguenti all’interno


della stessa battuta per le note della stessa intonazione:

L’alterazione deve venire ripetuta di nuovo nelle battute


successive:

Le alterazioni valgono anche per le note legate fra due


diverse battute, ma è necessario ripeterle per le note
successive:

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Come detto, l’alterazione all’interno di una battuta vale solo
per le note con la stessa intonazione effettiva. In caso di
utilizzo di simboli di ottava sopra o sotto le alterazioni
devono essere ripetute:

Alterazioni di cortesia

Vengono utilizzate per ricordare le alterazioni in chiave


quando un’alterazione temporanea è stata utilizzata nella
battuta precedente, o per evitare ambiguità in alcune
situazioni.

Le alterazioni di cortesia possono essere poste fra parentesi oppure utilizzate senza parentesi, a
discrezione dell’editore. Le parentesi aiutano a riconoscere le alterazioni di cortesia rispetto a quelle
temporanee, ma in molti casi occupano troppo spazio e rendono la lettura più complicata.

E’ preferibile inoltre aggiungere un’alterazione di cortesia


in caso di presenza di note a distanza di ottave diverse,
anche se la regola indica che le alterazioni valgono solo per
le note della stessa altezza e intonazioni, per cui non
valgono in caso di ottave diverse.

Alterazioni su acciaccature e appoggiature

Le alterazioni posizionate sulle appoggiature o sulle


acciaccature saranno scritte con un carattere ridotto, come le
teste delle note. Tali alterazioni valgono comunque per tutte
le note della stessa intonazione seguenti presenti all’interno
della stessa battuta.

In alcune situazioni poco chiare potrebbe essere necessario


aggiungere alterazioni di cortesia per evitare confusione.

Allineamento delle alterazioni

Per intervalli di 2 note


Per intervalli di seconda fino a intervalli di sesta, posizionare
l’alterazione superiore vicino alla nota, e quella inferiore un
po’ più a sinistra.

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Per intervalli di sesta (se non collidono fra loro) e per intervalli più grandi le alterazioni vengono
allineate fra loro:

Per accordi (3 o più note)


Quando la distanza fra le note estreme è inferiore
alla sesta, l’alterazione superiore viene posizionata
vicino alla nota, l’alterazione inferiore viene
posizionata un pochino più a sinistra, e le alterazioni centrali
ancora a sinistra, seguendo un andamento di questo tipo:

Quando la distanza fra le note estreme è superiore alla


sesta, l’alterazione superiore e quella inferiore vengono
allineate, e l’alterazione centrale viene spostata verso
sinistra, seguendo il seguente schema:

Per accordi di più di 4 note molto complessi, le regole vanno considerate più come linee guida o
suggerimento. Mantenere il posizionamento delle varie alterazioni il più compatto possibile, e
soprattutto il più facile possibile da leggere per ogni situazione. Cercare di mantenere allineate
l’alterazione superiore e inferiore quando possibile. Cercare di mantenere allineate le alterazioni a
distanza di una ottava quando possibile.

Gli intervalli di seconda devono essere trattati come un unico


nucleo, il posizionamento delle due alterazioni segue
l’andamento della testa delle note (superiore a destra e
inferiore a sinistra).

Le alterazioni devono essere sempre posizionate prima


dell’intera struttura delle note. Non posizionare mai
alterazioni fra le note che devono essere eseguite
simultaneamente, anche se la direzione delle gambette è
opposta.

Uso delle alterazioni nella scrittura polifonica

Nel caso di un solo esecutore si usa la notazione consueta:

Nel caso di due o più esecutori che leggono dalla stessa parte,
è necessario trattare le differenti voci in modo completamente
indipendente, ripetendo le alterazioni per entrambe le parti,
utilizzando se necessario alterazioni di cortesia per rendere
più chiara la situazione.

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Passaggi cromatici

In generale utilizzare diesis in caso di note ascendenti e


bemolli in caso di note discendenti.

Quando si sceglie l’alterazione, bisogna considerare in ogni caso il contesto della musica, come ad
esempio la tonalità, l’armonia e l’andamento delle voci.

Temperamenti ed accordature

L'accordatura di uno strumento musicale è molto più complessa di quello che si pensa, per un
problema fisico che da sempre viene affrontato da musicisti e teorici musicali. Per spiegarlo in
modo semplice dobbiamo comprendere innanzitutto il fenomeno del “battimento” e cioè quella
oscillazione del suono che si percepisce quando vengono suonate due note molto vicine fra di loro
ma non perfettamente accordate: più la scordatura aumenta e più aumenta la velocità di questa
oscillazione, man mano che i due suoni si avvicinano rallenta e diminuisce fino a scomparire del
tutto quando i due suoni sono perfettamente allineati e quindi accordati. Un orecchio allenato è in
grado di percepire molto bene questa oscillazione, che viene normalmente usata per accordare ad
esempio il violino, la viola, o la chitarra, oppure altri strumenti come il clavicembalo, l'organo e il
pianoforte. I battimenti si sentono molto bene con l'intervallo di unisono, cioè 2 suoni della stessa
altezza, e con l'ottava, ma anche con intervalli di quinta (usati per esempio dai violinisti) e anche
con intervalli di terza.
Se proviamo ad accordare uno strumento con tutte le quinte perfettamente accordate, senza nessun
battimento, notiamo 2 problemi insormontabili: il primo è che il circolo delle quinte (do-sol-re-la-
mi-si-fa#-do#-sol#-re#-la#-mi#-si#=do) non si chiude, poiché il si# non corrisponde al do ma è più
“largo” e quindi eccede; il secondo è che le terze risultano stonate, e cioè presentano dei battimenti.
Ne consegue che questo tipo di accordatura non è
praticabile e quindi bisogna in qualche modo
distribuire la parte eccedente che si crea tra si# e do
fra tutti gli altri intervalli per ottenere una
accordatura utilizzabile. L'intervallo che
assolutamente non può essere scordato è l'ottava,
mentre le quinte e le terze possono in qualche
modo essere ritoccate scordandole leggermente
(temperandole, da qui il termine temperamento) per
equilibrare la divisione dei suoni nell'ambito
dell'ottava. Per misurare la distanza fra i suoni
vengono utilizzati il comma (sintonico o
pitagorico) che corrisponde alla eccedenza che si
ottiene accordando perfettamente tutte le quinte, e
che divide il tono più o meno in 5 parti, oppure i
“cent”. Un comma pitagorico equivale più o meno
a 24 cent.
Nell'arco della storia sono stati adottati diversi
modi per distribuire tale eccesso, andando a
privilegiare le terze oppure le quinte,
distribuendolo in vari modi per ottenere tonalità
migliori rispetto ad altre. Ed è proprio il tipo di
accordatura adottato che ha influenzato sia l'uso degli intervalli, ad esempio le prime composizioni

71
utilizzavano armonizzazioni solo per quinte, senza le terze che erano considerate dissonanti poiché
erano effettivamente scordate usando il temperamento pitagorico dell'epoca (che era il più semplice
da ottenere), oppure l'uso delle tonalità e delle modulazioni. Una composizione composta per un
temperamento mesotonico risulterà molto meno interessante e piatta se suonata con il temperamento
equabile ad esempio.
I metodi possibili per temperare la scala sono detti regolari o irregolari, in quelli regolari tutte le
quinte vengono diminuite in maniera uguale tranne una (che viene chiamata quinta del lupo), in
quelli irregolari invece il valore delle quinte viene modificato in maniera diversa per ottenere un
temperamento più “morbido” e la possibilità di utilizzare un maggior numero di tonalità. Il
temperamento regolare più utilizzato si chiama Aaron, o mesotonico per quarti di comma, mentre
fra gli innumerevoli temperamenti irregolari ricordiamo i più famosi Werkmeister, Kirnberger,
Kellner, Vallotti, Rameau. Tutti questi temperamenti privilegiano alcune tonalità che saranno ricche
di intervalli perfettamente accordati e quindi molto gradevoli e caratterizzati, rispetto ad altre
tonalità non utilizzabili in cui gli intervalli saranno molto scordati. Il temperamento oggi
generalmente utilizzato, salvo ovviamente per i gruppi di musica antica, è il temperamento equabile,
che è regolare e distribuisce fra le quinte 1/12 di comma, consentendo di utilizzare tutte e 12 le
tonalità senza però avere neanche un intervallo accordato perfettamente tranne l'ottava e nessuna
differenza fra una tonalità e l'altra. Bach aveva ideato un suo temperamento con il quale accordava il
clavicembalo, e con il quale ha composto i preludi e fughe delle due raccolte chiamate “Il
Clavicembalo ben temperato” (in tedesco
Das Wohltemperierte Klavier) caratterizzate
appunto da una serie di composizioni in tutte
le tonalità maggiori e minori; nel
frontespizio di tale raccolta è disegnato una
sorta di ghirigoro che rappresenta il
procedimento mnemonico per ottenere tale
accordatura.

Nel XX secolo, con l'avvento di nuovi linguaggi musicali e la sperimentazione musicale, che
attingono anche da tradizioni musicali orientali o basate su scale diverse da quelle utilizzate
generalmente in occidente, vengono introdotti nuovi simboli per la microtonalità, come ad esempio
alterazioni che riguardano i quarti di tono o gli ottavi di tono. A volte vengono utilizzate per
indicare con più precisione il tipo di temperamento da utilizzare durante l'esecuzione.
I simboli vengono per lo più desunti da quelli già
conosciuti con opportune modifiche per far capire se
devono eccedere o diminuire il loro valore di
alterazione (1/4 di tono, o 3/4 di tono, o aumentazione
e diminuzione di 1/8 di tono), attraverso l'uso di frecce
posizionate sul simbolo oppure aggiunta o
eliminazione di alcune linee.
Vengono chiamati monesis, triesis, mobemolle,
tribemolle, sori, koron. Nella figura accanto vengono
rappresentati i più conosciuti ed utilizzati.

Alterazioni Antiche

Fra il 1400 e il 1600 le sole alterazioni utilizzate erano il diesis e il bemolle. Un’alterazione veniva
sempre annullata dall’alterazione opposta (che svolgeva in questo caso la funzione del moderno
bequadro). Quando non era in chiave l’alterazione valeva, in linea di massima, solo per la nota alla
quale essa si riferiva (e non a tutta la battuta): solo in caso di trilli scritti per intero essa era valida
anche per le ripetizioni successive. Le alterazioni venivano generalmente posizionate alla sinistra

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delle nota, ma a volte anche sotto di essa o sotto l’accordo (in questo caso l’alterazione interessa la
nota più bassa). Fra le alterazioni, alcune sono indispensabili, mentre altre hanno soltanto un valore
accessorio di richiamo (in maniera molto simile alle moderne alterazioni di cortesia). Alcune di esse
servivano a togliere eventuali dubbi agli esecutori del tempo, dovute magari alla pratica della
musica ficta e dei vari modi tonali.
In chiave, in caso di tonalità con bemolli, si trova soltanto il si bemolle, secondo l’uso del sistema
modale, anche se la scrittura si sposta in tonalità con più bemolli.
Nella fase di presentazione del testo musicale si può dunque scegliere se mantenere il valore delle
alterazioni per la nota singola (come nell’originale), oppure integrare di volta in volta tutte le
alterazioni secondo il sistema moderno, o anche se sostituire le alterazioni che annullano quelle
precedenti con i moderni bequadri per facilitare la lettura, oppure mantenere anche in questo
caso la scrittura originale. La cosa importante è ovviamente che tali scelte siano chiaramente
spiegate nella prefazione dell’edizione corrispondente. Tutte le alterazioni aggiunte
eventualmente dal revisore (ad esempio per correzione o per suggerimento, spesso
indispensabili per un lettore moderno non abituato all’arbitrarietà delle varie prassi originali),
andranno chiaramente distinti con un carattere diverso più piccolo, preferibilmente fuori dal
rigo; in caso di posizionamento nel rigo, ad esempio in presenza di accordi, è necessario anche
l’aggiunta di parentesi quadre. Questo sia per correttezza nel rispetto dell’originale, sia per
permettere al lettore la possibilità di effettuare scelte differenti.

ALTERAZIONI IN CHIAVE

Le alterazioni in chiave vengono posizionate dopo la chiave


e prima del tempo di battuta.

In caso di cambiamento di tonalità nel corso del brano, la


preferenza è di fa coincidere tale cambiamento con l’inizio
di un nuovo pentagramma, con le alterazioni di cortesia sul
pentagramma precedente.
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Alcune regole:
1- il cambio di alterazioni è generalmente preceduto da una doppia barra semplice
2- se il cambio avviene all’inizio di un pentagramma o sistema, posizionare le alterazioni di
cortesia alla fine del pentagramma precedente
3- lasciare il pentagramma aperto dopo le alterazioni di cortesia
4- indicare le nuove alterazioni nel pentagramma seguente

Se invece il cambio avviene all’interno di un


pentagramma
1. aggiungere una doppia barra semplice
2. seguita dalle nuove alterazioni
3. la nuova tonalità continuerà nel pentagramma
successivo

Cancellazioni di alterazioni non sono più considerate


necessarie, a meno che la nuova tonalità sia do maggiore o la
minore (senza cioè alcuna alterazione in chiave). In questo
caso cancellare le precedenti alterazioni attraverso l’uso di
bequadri, nello stesso ordine di apparizione dell’apparizione
dopo la chiave (vedremo di seguito l’ordine da seguire per
ogni chiave).

Alterazioni in chiave con chiave di violino: Alterazioni in chiave con chiave di basso:

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Il circolo delle quinte è molto utile come guida
veloce di riferimento per la relazione fra i vari gradi
e le tonalità, e come sono logicamente concatenati.
Il circolo delle quinte aiuterà inoltre a chiarificare
quali gradi sono enarmonicamente equivalenti.
(Enarmonia significa che due note hanno la stessa
altezza di suono ma sono scritte in maniera
differente – es. re# mib)

Circolo orario, a ogni quinta perfetta ascendente


viene aggiunto un segno diesis alla tonalità in
maniera progressiva.
Circolo antiorario, a ogni quinta perfetta
discendente viene aggiunto un segno bemolle alla
tonalità in maniera progressiva.

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STANGHETTE

Le stanghette devono essere più sottili delle linee del pentagramma e delle
battute. La lunghezza normale della stanghetta è di 3 e 1\2 spazi (pari a una
ottava)

Quando la testa della nota viene posizionata sui tagli addizionali, la stanghetta deve toccare la linea
centrale del pentagramma.

Quando più parti condividono un pentagramma le note con le


stanghette rivolte verso l’alto sopra la terza linea sono
leggermente più corte del normale. Tradizionalmente, la loro
lunghezza è relativa alle note che la circondano, diventando
progressivamente più corte man mano che le note vanno verso
l’acuto. La lunghezza più corta sarà di 2 e 1\2 spazi (intervallo di
sesta)

Per le note con la stanghetta rivolta verso il basso posizionate


sotto la linea centrale si seguono le stesse indicazioni.

Con intervalli di seconda la stanghetta viene posizionata tra le due note,


con la nota superiore sempre verso destra e quella inferiore verso sinistra.

Questa regola vale anche per note senza stanghetta che fanno però parte dello
stessa voce; se invece le note a distanza di una seconda fanno parte di voci
differenti, l’ordine sarà inverso, con la voce più alta a sinistra e le altre a
destra.

La direzione delle stanghette sarà verso il basso per le note posizionate sulla terza linea o superiori,
e verso il basso per quelle posizionate inferiormente alla terza linea

Quando due differenti voci condividono lo stesso pentagramma le stanghette


avranno direzione opposta, voce superiore verso l’alto e voce inferiore verso il
basso.

Quando sulla stessa stanghetta sono posizionate due note


(bicordo), se la nota superiore è la più lontana dalla linea
centrale, la stanghetta và verso il basso. Se la nota inferiore
invece è quella più distante dalla linea centrale, la stanghetta
va verso l’alto.

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