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IL CIOCCOLATO

Che cos’è il cioccolato di qualità? Con quali criteri possiamo distinguere le diverse
tavolette secondo il loro pregio? Questa serata avrà uno scopo eminentemente pratico:
permettervi, la prossima volta che entrerete in un negozio specializzato o in un
supermercato, di orientarvi consapevolmente nella selva di tavolette in esposizione. E
magari di incuriosirvi verso certe degustazioni…

Se volessimo grossolanamente indicare quali sono le caratteristiche di una tavoletta di


cioccolato che ne determinano la qualità finale, potremmo dire che la varietà di cacao
incide per il 50%, la coltivazione per il 25%, e il processo di lavorazione per un altro
25%. È quindi indispensabile analizzare approfonditamente ciascuna di queste tre
componenti: conoscerle, significa avere gli strumenti di base per valutare la qualità del
cioccolato che andremo a degustare.
Le varietà di cacao
Cominciamo dalle diverse varietà di cacao: è una questione cruciale, sulla quale purtroppo
regna molta confusione, generata anche dalle tante affermazioni inesatte che
sull’argomento vengono espresse a tutti i livelli, persino da intenditori, esperti e
pubblicazioni del settore. Secondo una diffusa opinione, esisterebbero tre principali varietà
di cacao: Criollo, Forastero e Trinitario. Infatti, verso il 10.000 a.C., la distribuzione delle
piante di cacao nell’America centrale e meridionale (luoghi d’origine del cacao) subì una
netta differenziazione: si formarono due distinte aree geografiche, una nelle Ande
venezuelane, l’altra nell’Amazzonia brasiliana, dove le piante di cacao poterono
svilupparsi indipendentemente e consolidare il proprio patrimonio genetico senza mai
entrare in contatto con le piante dell’altra area. Intrapresero perciò due percorsi evolutivi
nettamente distinti, e questo diede vita alle due varietà di cacao che oggi conosciamo con
i nomi di Criollo e Forastero.
Il Criollo è la miglior qualità di cacao presente sul mercato: possiede ottime qualità
organolettiche, ma ha una resa piuttosto bassa ed è più difficile da coltivare perché più
delicato e facilmente attaccabile dai parassiti.
Il Forastero, al contrario, ha una buona resa, maggiore resistenza, ma fornisce un cacao
di bassa qualità, con amarezza, astringenza e acidità piuttosto marcate. Non sorprende
dunque che la produzione mondiale di cacao sia coperta per il 90% dal Forastero, e solo
per il 2-4% dal Criollo, nettamente più costoso. Quando si dice che “il cioccolato fondente
è amaro” si sbaglia: il Forastero, ossia la varietà meno pregiata, è amaro. Se assaggiate
una tavoletta di Criollo rimarreste sorpresi di sentire note di nocciola, miele, frutti rossi,
senza che nessuno di questi ingredienti sia aggiunto alla tavoletta.
Esistono comunque delle eccezioni a questo schema, perché esistono delle sottovarietà di
Forastero ritenute pregiate e assimilabili al Criollo: ne sono un esempio l’Arriba
Nacional ecuadoriano e il Nacional peruviano(scoperto recentemente, nel 2011).

La restante quota della produzione totale di cacao, circa il 6-8%, è occupata dal Trinitario,
che è un ibrido tra Forastero e Criollo, e viene considerato un cacao di alta qualità,
sebbene mediamente inferiore al Criollo.
La sua storia, secondo la teoria più accreditata, è piuttosto interessante, e vale quindi la
pena di essere citata. Nel 1727, un cataclisma si abbatté sull’isola di Trinidad (situata a 11
km dalla costa del Venezuela), distruggendo quasi tutte le piante di cacao Criollo presenti
sul territorio; trent’anni più tardi, per non privarsi del prezioso alimento, un gruppo di
monaci cappuccini decise di ripristinare le coltivazioni di cacao sull’isola, e per far questo
importò semi di Forastero dalla terraferma, che si ibridarono con quelli superstiti di Criollo
dando vita così ad una nuova varietà denominata Trinitario, dal nome dell’isola di Trinidad.

A complicare la faccenda delle tre varietà principali di cacao, vi è il fatto


che raramente le piante e i frutti del cacao appartengono al 100%, dal punto di vista
genetico, ad una singola varietà: esse tendono ad incrociarsi liberamente (anche
perché molte piante sono autoincompatibili, necessitano cioè di un altro tipo di pianta
per essere impollinate), mescolando i loro patrimoni genetici, e dando vita
a moltissime varietà di piante di cacao(se ne contano fino a 12000), ciascuna con
caratteristiche proprie, con geni dell’una e dell’altra varietà. Così, i semi di un frutto di
cacao potrebbero essere Criollo per il 90% del loro patrimonio genetico, e Forastero o
Trinitario per il restante 10%. È per questo che, per esempio, all’interno della famiglia
dei Criollo, possiamo distinguere diverse sottovarietà, come il Porcelana, il Carupano,
il Puerto Cabello, il Guasare, il Chuao, l’Ocumare, il Canoabo (memorizzate questi
nomi, sono tra le varietà migliori di cacao): tutti Criollo, ma con patrimoni genetici (e
qualità aromatiche) differenti.

Tutte queste nozioni sulle varietà di cacao sono ciò che viene comunemente sostenuto da
siti specializzati, libri, produttori e venditori di cioccolato, e per gli scopi pratici di questa
serata ciò è sufficiente: quando entrate in un negozio e volete acquistare una tavoletta di
qualità, vi consiglio di leggere attentamente le informazioni riportate sulla confezione,
accertandovi della varietà di cacao da cui è prodotta; di solito, se si tratta di Criollo o
Trinitario, ciò viene messo bene in evidenza perché è un titolo di merito per il produttore.
Tuttavia, è bene sapere che, negli ultimi 10 anni, importanti studi di genetica condotti dal
ricercatore Juan C. Motamayor e dalla sua équipe, dimostrerebbero l’infondatezza di
questa tripartizione delle varietà di cacao, perché si è riscontrato che alcune varietà di
Criollo antico sono geneticamente più simili ad alcuni tipi di Forastero, di quanto questi
ultimi lo siano ad altri Forastero. In altre parole, la distinzione tra Criollo e Forastero non
avrebbe una solida base genetica, ma deriverebbe dal modo in cui storicamente i
coltivatori di cacao venezuelani definivano il cacao locale (Criollo) in contrapposizione a
quello proveniente da altri paesi (Forastero, che infatti significa ‘straniero’). Per ovviare a
questa confusione, nel 2008 Motamayor e colleghi hanno proposto una classificazione
molto più precisa delle piante di cacao sulla base della loro somiglianza genetica,
determinandone dieci varietà: Marañon, Curaray, Criollo, Iquitos, Nanay, Contamana,
Amelonado, Purús, Nacional e Guiana. Queste denominazioni non hanno ancora preso
piede dal punto di vista commerciale: i produttori preferiscono rifarsi alla scorretta
tripartizione tradizionale, sia per ragioni di marketing, sia per non ingenerare confusione
nei consumatori ormai abituatisi a distinguere il cacao secondo le tre varietà sopra
elencate; ma è probabile che in futuro acquistino sempre più importanza, permettendo a
produttori e consumatori di comprendere meglio e valorizzare al massimo le potenzialità
insite in ciascuna varietà di cacao.
In conclusione, possiamo affermare che la tripartizione delle varietà di cacao in
Criollo, Forastero e Trinitario, pur se scientificamente infondata, è ancora un utile
criterio pratico per distinguere la qualità delle tavolette quando siamo in un negozio,
ma non deve spingerci a demonizzare snobisticamente tutti i tipi di Forastero. La cosa
migliore da fare è assaggiare, in maniera consapevole, quante più tavolette
possibile, allenando i nostri sensi a cogliere le sottili sfumature aromatiche proprie di
ciascuna varietà di cacao.
La coltivazione del cacao e la lavorazione del cioccolato
contribuiscono per il 50% circa alla qualità della tavoletta.
Seguiremo la fava di cacao lungo tutto il suo viaggio, dalla raccolta sino alla sua
trasformazione finale in tavoletta di cioccolato: scopriremo così come ogni fase di
questo processo possa influire sulla qualità finale del prodotto, e debba quindi essere
effettuata correttamente.
I semi di cacao, dopo essere stati prelevati dalle cabosse (così sono chiamati i frutti
dell’albero di cacao), vengono trasportati in centri di raccolta e posti in casse di legno dove
avviene il processo di fermentazione. Questo processo, innescato dai lieviti e dai batteri
presenti nella polpa bianca che circonda le fave fresche, provoca una trasformazione
biochimica dei semi mediante la quale si sviluppano alcuni degli aromi e dei
precursori degli aromi del cacao (sono detti precursori perché verranno trasformati in
aromi solo nella successiva fase di tostatura). Con la fermentazione, che dura da un
minimo di 2-3 giorni ad un massimo di 7-8 giorni, i semi di cacao, che al momento della
raccolta sono praticamente insapori, cominciano a sviluppare molte delle 400 sostanze
chimiche presenti nel prodotto finale e responsabili della complessità dell’aroma del
cioccolato: è quindi importante che tale fase sia effettuata in maniera ottimale, altrimenti il
cacao non esprimerà tutto il suo potenziale aromatico. Una fermentazione troppo
prolungata rischierebbe di distruggere le componenti migliori e più delicate del gusto del
cacao, nonché di renderlo troppo acido; d’altra parte, una fermentazione
frettolosa potrebbe non svilupparne appieno gli aromi, e lasciarlo troppo amaro. In
generale, comunque, i cacao migliori richiedono tempi di fermentazione minori, perché
sviluppano più velocemente gli aromi. Per dare un’idea di come in questa fase iniziale ogni
dettaglio faccia la differenza sul sapore finale della tavoletta, il grande cioccolatiere
danese Friis Holm ha prodotto due tavolette, denominate Chuno 70% Double Turned e
Chuno 70% Triple Turned, che differiscono l’una dall’altra per il solo fatto che in una i semi
di cacao durante la fermentazione vengono mescolati due volte nelle casse di legno,
mentre nell’altra tre volte: e la differenza si sente!
Dopo la fermentazione, le fave vengono stese su telai di legno all’aperto per
farle essiccare. Ciò è fondamentale per diversi motivi: arresta il processo di
fermentazione, che altrimenti proseguirebbe per troppo tempo, e riduce l’umidità e l’acidità
dei semi, che devono essere il più basse possibile nel prodotto finale. Anche in questo
caso, un’essiccazione non ottimale influirebbe negativamente sull’aroma finale della nostra
tavoletta di cioccolato. Dopo l’essiccazione, i semi vengono classificati, confezionati e
poi spediti nei Paesi dove avviene la lavorazione delle fave di cacao.
Da quanto detto finora, risulta evidente l’importanza che il controllo di tutta la filiera
produttiva riveste per le aziende e i laboratori che producono cioccolato: molto
spesso, infatti, i coltivatori dei paesi tropicali sono i primi a non avere le conoscenze e
le competenze necessarie per far sì che ogni fase della coltivazione venga svolta in
modo ottimale (e del resto a volte il loro interesse è di raccogliere e di vendere il più
presto possibile il cacao, e ciò a scapito della sua qualità). I cioccolatieri possono
assicurarsi tale controllo o diventando direttamente proprietari di piantagioni (come
fanno Domori, Valrhona, Claudio Corallo, Pralus), oppure inviando del personale che
controlli in loco che tutto venga effettuato in modo adeguato. Questo non è
comunque un dogma: si può fare dell’ottimo cioccolato anche partendo dai
semilavorati, se questi vengono prodotti nella maniera giusta e con ottime materie
prime.

A questo punto le nostre fave sono pronte per essere lavorate: dopo essere state
pulite, inizia una fase cruciale, quella della tostatura, mediante la quale i semi di
cacao vengono portati ad una temperatura che può variare tra i 120 e i 180°C, per un
tempo oscillante tra i 15 e i 60 minuti. In questa fase i precursori degli aromi
sviluppatisi durante la fermentazione si trasformano in nuovi composti aromatici, e
gli aromi già presenti vengono amplificati; si tratta perciò di una fase molto delicata:
una tostatura eccessiva priverebbe il cacao dei suoi aromi più fini e delicati,
conferendogli un sentore di bruciato, mentre una tostatura insufficiente non ne
svilupperebbe appieno il bouquet aromatico, che risulterebbe piuttosto piatto (questo è
un problema che hanno talvolta le tavolette raw o crude, oggi di gran moda, che
vengono tostate a temperature inferiori ai 70°C; l’unica tavoletta raw che ho trovato
fenomenale è quella venezuelana del cioccolatiere Guido Castagna). Anche in questo
caso, cacao migliori richiedono tempi e temperature di tostatura inferiori per sviluppare
gli aromi, e ciò a beneficio di una maggiore ricchezza aromatica. La tostatura ha
anche altri effetti sulle fave di cacao: ne provoca la sterilizzazione, ne riduce
ulteriormente l’umidità e rende friabile la cascara, cioè la pellicola esterna della fava.
Infatti, dopo la tostatura, le fave vengono decorticate, cioè private della cascara, e
poi macinate, ossia ridotte ad una pasta grossolana tramite pesanti ruote in granito
che stritolano la granella all’interno di una vasca. Con la macinatura il cioccolato fonde
per la prima volta e si ottiene così uno degli ingredienti indicato sull’incarto della
tavoletta: la pasta o massa di cacao.Quest’ultima ha una consistenza ancora molto
granulosa e necessita perciò di un’ulteriore fase di raffinazione per ridurne la
granulometria, obiettivo che viene raggiunto tramite un sistema di cilindri rotanti.

Il passo successivo è di importanza decisiva: si tratta del concaggio. Come dice il nome


stesso, l’impasto di cioccolato, mantenuto liquido ad una temperatura di 50-80°C, viene
posto all’interno di una conca dove un rullo mosso da un braccio meccanico mescola
continuamente il cioccolato per un tempo fino a 72 ore. In questo modo ne riduce
ulteriormente la granulometria, conferendo al cioccolato quella paradisiaca consistenza
morbida e vellutata a cui siamo abituati. Oltre a questo, il concaggio permette di ridurre
l’acidità e l’umidità del cioccolato, di arricchirne gli aromi e di amalgamare gli ingredienti
non ancora aggiunti all’impasto (lecitina, vaniglia, zucchero). Il concaggio può essere
effettuato anche con un mulino a biglie, composto da un contenitore dentro cui numerose
biglie d’acciaio vengono fatte collidere ad altissima velocità, amalgamando l’impasto di
cioccolato presente anch’esso all’interno del contenitore. Questo sistema, utilizzato per
esempio da Domori, permette di concare a temperature inferiori e per minor tempo
(Domori conca a 50°C per 8 ore), e facilita la preservazione degli aromi del cacao, ma ha
un difetto: secondo alcuni esperti non riuscirebbe infatti a ridurre l’acidità con la stessa
efficacia delle conche tradizionali; va detto comunque che un cacao di ottima qualità ha
già di per sé un’acidità piuttosto bassa. Per farvi un’idea degli effetti del concaggio sulla
tavoletta, pensate al cioccolato modicano, che non viene sottoposto né a raffinazione,
né a concaggio: molto grezzo e granuloso, è più da masticare che da lasciar sciogliere in
bocca.

Terminato il concaggio, il cioccolato viene sottoposto al temperaggio, per renderlo


lucido, omogeneo, uniforme, senza grumi né chiazze. Infine, viene versato negli
stampi e poi confezionato, pronto per raggiungere gli scaffali di negozi e supermercati.
A questo punto potrebbero essere utili alcune considerazioni sulle modalità
di conservazione del cioccolato, che se errate potrebbero inficiare l’integrità della
tavoletta. L’ambiente deputato ad ospitare il nostro prezioso alimento dovrebbe avere
una temperatura tra i 13 e i 18° C, con un’umidità non superiore al 60%. Inoltre,
poiché il burro di cacao è un forte assorbente di odori, vanno evitati tutti i luoghi in cui
il cioccolato può entrare in contatto con esalazioni provenienti da altre sostanze: sono
sconsigliabili quindi sia il frigorifero, che inoltre ha una temperatura troppo bassa ed è
umido, sia la dispensa della cucina. Infine, sono da evitare tutti gli sbalzi di
temperatura, che stresserebbero la tavoletta alterandone la struttura: ecco perché a
volte le tavolette mal conservate presentano una patina biancastra o chiazze e
striature: il burro di cacao presente all’interno si scioglie e tende ad affiorare in
superficie.
Al termine di questa serata abbiamo imparato a capire quanto il processo di
produzione incida sulla qualità della nostra tavoletta di cioccolato, e che parlare
genericamente di “cioccolato” è come dire semplicemente e vagamente “vino”.

LEGGERE LE ETICHETTE DEL CIOCCOLATO

Naturalmente, la prima cosa da leggere è la lista degli ingredienti, che devono essere
indicati in ordine decrescente di quantità (dal più presente al meno). Vediamoli uno
ad uno.
Pasta di cacao. È la componente più importante del cioccolato, ciò che ne determina
gli aromi e le caratteristiche principali. Nei cioccolati migliori è l’ingrediente presente in
maggiore quantità: dovrebbe essere quindi il primo della lista.
Burro di cacao. Praticamente insapore, è un grasso che oltre ad essere presente
naturalmente nei semi di cacao (circa il 54% di una fava è composto da burro di
cacao), viene aggiunto durante le fasi di produzione per rendere il cioccolato più
morbido e facilmente scioglibile in bocca, e per facilitarne il processo di lavorazione.
Un cioccolato senza burro di cacao potrebbe risultare più duro e meno piacevole al
palato; d’altra parte, una sua presenza eccessiva potrebbe renderlo troppo grasso, e
diluirne oltremisura gli aromi (è la sensazione che a mio parere si ha, per esempio,
degustando alcune delle tavolette del francese Bonnat). Il burro di cacao viene
ottenuto dalla pasta di cacao tramite la spremitura, effettuata da un macchinario ad
alta pressione che separa la parte grassa del cacao da quella secca. I grassi che
compongono il burro di cacao sono per 2/3 saturi (acido stearico e acido palmitico) e
per 1/3 insaturi (acido oleico); quando l’acido stearico (saturo) raggiunge il fegato
viene desaturato e trasformato in acido oleico, per cui avremo alla fine 2/3 di grassi
insaturi e 1/3 di saturi: si tratta quindi di un buon grasso a livello nutrizionale.
Zucchero. Per legge il cioccolato, per poter essere venduto come tale, deve
contenere almeno l’1% di zucchero; è per questo che le tavolette 100% non riportano
la scritta ‘cioccolato’, ma solamente ‘massa’ o ‘pasta’ di cacao.
Può essere utilizzato lo zucchero a velo o quello di canna (quest’ultimo è forse
preferibile, visto che proviene dallo stesso ecosistema del cacao), non il Mascobado
perché troppo umido e altera il sapore. Sono da evitare assolutamente i
dolcificanti (ciclamato, maltitolo, acesulfame, aspartame o altro) che altererebbero le
caratteristiche del cioccolato intaccandone la qualità: raramente si usano dolcificanti
con un cacao pregiato.
Vaniglia. Viene aggiunta per rendere più profumato ed aromatico il cioccolato. Si
possono utilizzare i baccelli o un estratto da essi ricavato: in questi casi sull’etichetta
si troverà scritto ‘vaniglia in bacche’ oppure ‘estratto di vaniglia’. Diverso è il caso
della vanillina, che viene sintetizzata a partire da sostanze vegetali diverse dalla
vaniglia, a volte persino dagli scarti della lavorazione del legname: è da evitare. La
qualità migliore di vaniglia è probabilmente la Bourbon, proveniente dall’isola di
Réunion nell’Oceano Indiano, seguita dalla Mananara del Madagascar e dalla Tahiti.
Di solito le qualità migliori vengono indicate in etichetta.
Lecitina. È una sostanza naturale insapore, estratta dalla soia o dal rosso d’uovo, che
viene aggiunta all’impasto come emulsionante: non deve essere demonizzata, in
quanto facilita l’amalgama degli ingredienti durante la lavorazione, migliora la
conservabilità del prodotto ed elimina le bolle d’aria. Grazie alla lecitina, la fase di
concaggio può essere effettuata a temperature più basse, favorendo la preservazione
degli aromi del cioccolato. In sua assenza, per ottenere gli stessi effetti, si aumenta a
volte la dose di burro di cacao: con la lecitina si può quindi risparmiare sul burro di
cacao. Poiché le coltivazioni di soia sono spesso OGM, parlando di lecitina non si può
trascurare questo aspetto: alcuni produttori di cioccolato indicano in etichetta che la
lecitina proviene da soia non OGM. Va d’altronde considerato che la sua presenza
nell’impasto è minima, e si aggira attorno allo 0,3% del prodotto. I cioccolatai migliori
sono in grado di produrre ottime tavolette senza lecitina, ma il costo del prodotto
aumenta.

Cacao in polvere. È la parte secca del cacao, ottenuta dalla pasta di cacao tramite la
spremitura, che la separa dalla parte grassa (il burro di cacao). Viene aggiunto per
dare forza e intensità al cioccolato, ma ciò può renderlo troppo asciutto e poco
equilibrato. Se la vostra tavoletta non contiene cacao in polvere, ma solo pasta di
cacao, avrete una sicurezza in più.

Latte. Viene usato soprattutto quello in polvere. Considerato a lungo il parente povero


del cioccolato fondente, vi sono oggi aziende che producono tavolette al latte di
elevata qualità, con ottime materie prime: ne è un esempio la Slitti, pluripremiata
azienda di Pistoia, che produce tavolette al latte con varie percentuali di cacao (fino al
70%).

Nocciole. Possono essere aggiunte al cioccolato intere o in pasta: nel primo caso


avremo il cioccolato alle nocciole, nel secondo il gianduia e i gianduiotti. La qualità
considerata migliore per il cioccolato, è la piemontese Tonda Gentile delle Langhe,
seguita dall’avellinese Tonda di Giffoni. Rinomati produttori di gianduia sono ad
esempio Guido Gobino, Peyrano, Silvio Bessone e Giordano.
Grassi vegetali. Una direttiva dell’Unione Europea in vigore dal 2003 consente di
inserire grassi vegetali fino a un massimo del 5% del prodotto. L’olio di palma  è il più
usato, ma sono permessi anche il burro di illipé, il grasso o stearina di shorea robusta,
il burro di karité, il burro di kokum e il grasso di nocciolo di mango. Essi hanno un
costo nettamente inferiore al burro di cacao e ne migliorano la conservazione,
ma compromettono le caratteristiche e il sapore del cioccolato rendendolo
untuoso e poco piacevole al palato. Fortunatamente in Italia vengono utilizzati
pochissimo, mentre è più facile trovarli nelle tavolette prodotte negli Stati Uniti e nel
Regno Unito. Poiché i grassi vegetali vengono usati in sostituzione del burro di cacao,
che viene estratto dai semi, e ne diminuiscono quindi la domanda di mercato, un
effetto collaterale della direttiva europea è stato quello di danneggiare gravemente
quei Paesi, soprattutto africani (la Costa d’Avorio e il Ghana sono i maggiori
produttori mondiali di cacao), le cui già precarie economie dipendono
dall’esportazione di cacao.
Può contenere tracce di…. Poiché nel processo di produzione del cioccolato
vengono usati macchinari che vengono impiegati per la lavorazione di diversi tipi di
cioccolato, può capitare che frammenti di ingredienti di uno (per esempio nocciole)
finiscano nell’impasto di un altro. Mentre questo non fa differenza dal punto di vista
gustativo, può farla per il consumatore se è allergico a quell’ingrediente. Viene quindi
riportata tale dicitura, sia come tutela legale da parte dell’azienda, sia come utile
informazione per il consumatore.
Esaminati gli ingredienti principali, ci sono altre indicazioni molto utili che possono
essere riportate sulla confezione. Vediamole insieme.
Percentuale. Sfatiamo il mito da finti intenditori secondo cui è migliore la tavoletta che
contiene la più alta percentuale di cacao. Un cioccolato al 99 o 100% potrà piacere ad
alcuni, perché ovviamente è anche questione di gusti, ma difficilmente sarà
equilibrato e privo di difetti dal punto di vista dell’analisi sensoriale: avrà un forte
aroma primario di cacao, ma con i tipici difetti di una massa troppo predominante
(amarezza, astringenza, sensazioni tattili meno gradevoli e via dicendo). Tuttavia,
molto dipende anche dalla varietà di cacao utilizzato: un Forastero al 100% darà
sensazioni completamente diverse, e meno piacevoli, di un Criollo al 100%, che dal
punto di vista aromatico è molto più ricco e appagante. Secondo il mio parere, una
percentuale equilibrata varia tra il 65 e l’85%: al di sotto, il cioccolato rischia di essere
troppo dolce e poco complesso aromaticamente; al di sopra, può diventare troppo
amaro e astringente.Per legge è obbligatorio indicare la percentuale in etichetta, ma
bisogna fare attenzione, perché con tale parametro si intende la somma di ‘pasta di
cacao’ + ‘burro di cacao’: perciò, se sulla confezione è scritto 70%, ciò potrebbe dire
che vi è un 70% di massa di cacao, così come un 60% di massa e un 10% di burro di
cacao aggiunto (oltre a quello naturalmente presente nelle fave).
Origine. Come per la questione delle varietà di cacao, anche su quest’argomento ci sono
molta confusione e pareri discordanti. Alcuni produttori indicano sulla confezione delle
tavolette la provenienza del cacao, e ciò è vero soprattutto se si tratta di mono-origine o
mono-varietà. Cominciamo col dire che se viene indicato genericamente solo il Paese di
provenienza, per esempio l’Ecuador, ciò non ci dà informazioni precise sulla qualità del
cacao: infatti in Ecuador ci possono essere piantagioni più o meno buone, che producono
una qualità di cacao più o meno pregiata, e con questa sola indicazione noi non sappiamo
con precisione di quali cacao si tratti. Più utile è l’informazione sulla varietà di
cacao utilizzata, perché questo, come abbiamo visto nel precedente articolo, è un
parametro molto importante per valutare la qualità della tavoletta. Spesso si tratta diblend,
cioè di tavolette composte da una miscela di varietà diverse di cacao, ma non mancano le
mono-varietà, e quando questo accade, siamo di solito in presenza di una tavoletta di
buon pregio.
Molta confusione può tuttavia nascere quando uno stesso termine viene usato per indicare
sia una varietà di cacao, sia una località geografica. ‘Chuao‘, per esempio, può riferirsi sia
ad una varietà di Criollo, sia alla località del Venezuela da cui tale rinomata varietà
proviene – località in cui però si contano circa 36 varietà diverse di cacao, tra le quali
svariati Trinitario e Forastero. Capita così che alcuni cioccolatieri sfruttino quest’ambiguità
e scrivano ‘Chuao’ sulla confezione delle loro tavolette, facendolo passare per un Criollo
laddove trattasi invece di cacao proveniente sì da Chuao, ma di qualità ben diversa e
sicuramente inferiore ad un Criollo. In questi casi bisogna sempre fare bene attenzione
acché il termine designi la specifica varietà di cacao, e non una generica area geografica.
Un’ulteriore curiosa fonte di confusione può prodursi quando i contadini dei paesi
coltivatori usano talune denominazioni con un’accezione diversa dalla nostra: in Perù, ad
esempio, i coltivatori di cacao usano il termine ‘Criollo’ per riferirsi a tutte le varietà antiche
di cacao, alcune delle quali non sono Criollo; perciò può accadere che un produttore creda
di comprare e lavorare delle fave di Criollo, e le definisca in etichetta come tali, quando
invece si ha a che fare con qualcosa di diverso. In questi casi c’è solo da sperare nella
competenza e nell’affidabilità del cioccolatiere…
Sempre più spesso poi si realizzano oggi tavolette con cioccolato proveniente da una
singola piantagione(mono-piantagione) o addirittura millesimate secondo l’anno di
produzione (ad esempio l’eccellenteAmpamakia della Valrhona), nella convinzione che
il terroir, cioè le condizioni di microclima e terreno in cui cresce l’albero di cacao, e l’annata
di produzione possano influire sulla qualità del cacao. Alcuni addetti ai lavori, per esempio
Gianluca Franzoni, fondatore della Domori, sostengono che questa convinzione sia
infondata, perché a contare sarebbero soltanto la varietà genetica di cacao e il processo di
coltivazione e lavorazione; ma un importante progetto finanziato dall’International Cocoa
Organization (ICCO) dimostrerebbe al contrario il forte impatto che l’ambiente ha
sull’aroma di cacao geneticamente identici, ma cresciuti in zone geografiche differenti.
Possiamo quindi azzardare che anche il terroir abbia la sua importanza, e che possa
essere corretta l’applicazione del termine cru, mutuato dal mondo enologico, anche al
cioccolato, per definire le tavolette mono-piantagione o mono-varietà. In conclusione,
dobbiamo fare molta attenzione alle indicazioni riguardanti l’origine del cacao riportate
sulla confezione: sono molto utili, ma a volte esse rispondono perlopiù ad esigenze di
marketing dei produttori, che vi ricorrono per distinguere e dare una patina di esclusività ai
loro prodo

Raw o crudo. È ormai frequente vedere sugli scaffali tavolette cosiddette ‘raw’ o
‘crude’, nate per assecondare e sfuttare la crescente popolarità della dieta crudista.
Nel caso del cioccolato, tuttavia, il termine non ha un significato univoco, non
esistendo in materia standard di lavorazione specifici che permettano di applicarlo in
maniera precisa: a volte esso viene impiegato quando il cacao viene tostato a
temperature inferiori a quelle consuete (sotto i 50°), altre quando la tostatura non
viene affatto praticata. C’è però un problema: durante alcune fasi della lavorazione del
cacao, come la fermentazione, l’essiccazione, la raffinazione, il concaggio, si possono
raggiungere temperature molto elevate e difficilmente controllabili, per cui molto
spesso è dubbio che il cacao sia davvero crudo come indicato sulla confezione. Al di
là di tutto, il cacao necessita di un’adeguata tostatura per sviluppare appieno il suo
potenziale aromatico, per cui una tavoletta raw corre più facilmente il rischio di avere
un sapore poco ricco, o acido, o astringente: per questo si tratta spesso di tavolette
aromatizzate, con aggiunta di burro e polvere di cacao per correggerne l’aroma. Non
mancano d’altra parte neanche in questo ambito degli ottimi prodotti, come quelli della
pluripremiata Pacari.
Equo e solidale. Meritano sicuramente un accenno le tavolette del circuito equo e
solidale che, sebbene siano raramente di alto livello da un punto di vista qualitativo, ci
permettono di fare alcune importanti considerazioni sulle condizioni di lavoro dei
coltivatori di cacao. Di tutto il valore creato dalla filiera del cioccolato, questi ultimi ne
sono infatti i minori beneficiari, perché il grosso dei guadagni finisce nelle tasche di
commercianti, grossisti e intermediari dei Paesi occidentali. Nonostante i bassissimi
salari, i lavoratori nelle piantagioni sono talvolta esposti a molti rischi: uso
di fertilizzanti e pesticidi senza protezioni, con vere e proprie epidemie di malattie
legate all’impiego incontrollato di sostanze chimiche, lunghi orari
lavorativi, mancanza di cibo, acqua e alloggio adeguato, discriminazioni etniche
e di genere. Inoltre, per abbassare ulteriormente i costi di manodopera, alcuni Paesi
fanno un largo utilizzo di lavoro minorile: si stima che nella sola Costa d’Avorio vi
siano circa 200.000 bambini con meno di 15 anni impiegati nelle piantagioni, di cui
12.000 sono vittime di tratta di esseri umani e schiavitù. Appare quindi lodevole
l’intento del commercio equo e solidale, di remunerare adeguatamente e vigilare sulle
condizioni lavorative dei coltivatori di cacao. Del resto va detto che anche al di fuori di
questo circuito, non mancano le aziende che si premurano di garantire adeguati
standard di lavoro ai contadini: anche per questo è importante avere il controllo su
tutta la filiera produttiva (le marche sotto citate in genere possono dare questa
sicurezza).
Premi. Esistono diverse associazioni e competizioni, con giurie composte
da esperti degustatori, che si occupano di riconoscere, promuovere e premiare il
cioccolato di alta qualità. Tra le più importanti vi sono gliInternational Chocolate
Awards, la London Academy of Chocolate e, in Italia, la Compagnia del
Cioccolato. Di solito, le tavolette che ottengono dei premi da queste associazioni
non mancano di riportare tale informazione sulla confezione. Può essere utile
dare un’occhiata alle liste delle tavolette premiate di anno in anno, per farsi
un’idea dei migliori prodotti in circolazione.

Ecco infine una lista orientativa di alcuni tra i migliori cioccolatieri del mondo,
suddivisi per nazione.
Italia: Domori, Amedei, Claudio Corallo, De Bondt, Gardini, Giraudi, Guido
Gobino, Guido Castagna, Slitti, C-Amaro, Maglio, Silvio Bessone.
Francia e Belgio: Pierre Marcolini, Michel Cluizel, Valrhona, Erithaj, Bonnat
Chocolatier, François Pralus, Jean-Paul Hévin, Patrick Roger, La Maison du
Chocolat, Pierre Hermé, Alain Ducasse.
Danimarca: Friis Holm.
Regno Unito: Akesson’s, Damian Allsop.
Stati Uniti: Amano, William Dean.
Austria: Zotter.
Ecuador: Pacari.
Vietnam: Marou.
Adesso abbiamo tutti gli strumenti per scegliere consapevolmente la nostra
tavoletta di cioccolato: sappiamo quali sono le varietà di cacao migliori, come
deve essere coltivato e lavorato, come leggere e interpretare ciò che viene scritto
sull’etichetta e la confezione, e conosciamo alcune tra le marche più rinomate.
Non ci resta che fiondarci nella cioccolateria più vicina e… farne incetta!

Bibliografia
1. D.A. Sukha e D.R. Butler, “Trends in Flavour Profiles of the Common Clones for the
CFC/ICCO/INIAP Flavour Project”, Annual Report 2005 (St. Augustine, Trinidad and
Tobago: Cocoa Research Unit (CRU), University of the West Indies, 2005), 55-61.
2. D.A. Sukha et al., “The CFC/ICCO/INIAP Cocoa Project to Establish the Physical,
Chemical and Organoleptic Parameters to Differentiate Between Fine and Bulk
Cocoa – Some Highlights Form the Organoleptic Component”, disponibile in pdf qui.
3. International Cocoa Organization (ICCO), “Study of the Chemical, Physical and
Organoleptic Parameters to Establish the Difference Between Fine and Bulk
Cocoa”, disponibile qui.
4. B. Nesto, “Discovering Terroir in the World of Chocolate”, disponibile in pdf qui.
5. R. Caraceni, “La degustazione del cioccolato: degustazione – valutazione – analisi
organolettica”, Hoepli, 2010.C.
6. Baresani (a cura di), “Alla ricerca del cacao perduto”, Gribaudo, 2011.
7. V. Tibère, “101 chocolats à découvrir: le guide des grands crus à croquer”, Dunod,
2014.

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