Documenti di Didattica
Documenti di Professioni
Documenti di Cultura
XIX / 1, 2016
viella
Enrico Fenzi
ora la cosa è sicura e evidente; anzi si fa più vera se la si colorisce di più forti
tinte, con tocco men timido. Sì, col dar forma di rosa all’anfiteatro dei beati
scanni, col battere e ribattere così insistentemente su cotal rosa o fiore (…) il
poeta mistico volle proprio fare solenne ammenda, innanzi alla sua coscienza
e ai possibili lettori non immemori di suoi falli giovanili, dell’insistenza sfac-
ciata con che aveva cantato la rosa impudica del Fiore.2
Einaudi, 1976, pp. 245-283: in part. pp. 254 e 259. Ma critica come “confusa” la
formula dell’anti-parodia E. J. Richards, Dante and the Roman de la Rose. An In-
vestigation into the Vernacular Narrative Context of the Commedia, Tübingen, Max
Niemeyer Verlag, 1981, p. 83, che in sede di conclusione scrive, p. 106: «Ascertain-
ing Dante’s possible authorship of the Fiore is secondary to adressing the more im-
portant question of the direct reception of the Rose in the Commedia». Per parte sua,
Richards non attribuisce il Fiore a Dante, ma a un anonimo poeta a lui precedente,
e Dante ne avrebbe qua e là usato nella Commedia come ha fatto di altri testi (ibid.:
«These textual reminiscences show that Dante’s utilization of the Fiore is comparable
to his use of texts from other authors»), ma della profonda influenza della Rose sulla
Commedia è perfettamente convinto. Aggiungo che mi pare di vedere in questo rap-
porto Rose – Commedia qualcosa del rapporto istituito tra Queste del Graal e la Rose:
scrive al proposito D. Poirion, Semblance du graal dans la «Queste», in Mélanges
de linguistique, de litterature et de philologie médiévales, offerts à J. R. Smeets, a c.
di Q. I. M. Mok, I. Spiele, P. E. R. Verhuyck, Leiden, Comité de rédaction, 1982, p.
241: «Le graal et la rose, ce sont deux “semblances” de la même chose, mais dont les
“senefiances” finalement s’opposent comme la scène humaine à la Sainte Cène».
5. L. Vanossi, Dante e il Roman de la Rose. Saggio sul Fiore, Firenze, Olschki,
1979 (saggio fondamentale, tenuto costantemente presente in queste mie pagine,
anche di là dalle citazioni esplicite). Per la ripresa del suggerimento di D’Ovidio,
vd. qui in particolare pp. 323-5. Nel lungo capitolo VIII si trova una assai ricca
rassegna di possibili riscontri tra le opere di Dante e la Rose: nel caso delle opere
minori, pp. 289-314, tali riscontri sono considerati insieme a quelli con il Fiore,
mentre invece sono tenuti distinti i riscontri Commedia – Rose, pp. 332-349. Dello
stesso studioso è importante anche il precedente volume La teologia poetica del
Detto d’amore dantesco, Firenze, Olschki, 1974. Ora, si veda pure E. Fenzi, Il Ro-
man de la Rose e Dante: Dalla Vita nova al Convivio alle macchie lunari nel canto
secondo del Paradiso, in «Humanistica», IX (2014), pp. 13-48, ove la Commedia
è esclusa dalla ricerca, con l’eccezione della questione delle macchie lunari, nel
secondo del Paradiso. Sulla base dei risultati di questo studio, in larga parte basati
su quelli di Vanossi, si può tranquillamente accantonare l’opinione di Richards,
Dante and the Roman de la Rose cit., pp. 106-107, che ammette la possibilità di una
precoce lettura della Rose da parte di Dante, che però ne avrebbe tratto ispirazione
solo molto tardi, dopo la stesura del De vulgari eloquentia: «It appears moreover
that Dante had not read the Rose before at least 1304 or 1305 when he wrote DVE.
Dante was simply too sensitive an observer of vernacular literature in DVE to have
deliberately passed over the Rose in silence there, presuming, of course, that the
Rose had made a significant impact on him by this time. Since the Rose is first
textually present in the Commedia in the Earthly Paradise, it would seem that the
Rose influenced Dante directly at a relatively late date. Of course Dante could have
read the Rose earlier. The important thing is that the Rose first appears textually in
the Earthly Paradise». Ma non è così, appunto: ci sono notevoli e precise “tracce
testuali” nella Vita nuova, nelle Rime e, nella Commedia, ben prima di arrivare sino
al Paradiso terrestre, come mostrano gli studi citati avanti, alla n. 13. Per quanto
riguarda un certo “blocco” nei confronti del Fiore e le sue conseguenze, vd. le
considerazioni di C. Grayson, The Roman de la Rose and Il Fiore, in Patterns in
Dante. Nine Literary Essays, ed. by C. Ó Cuilleanáin and J. Petrie, Dublin, Four
Court Press, 2005, pp. 189-203, in part. p. 196 ss.
6. Cito qui e in seguito il Roman de la Rose dall’edizione critica di E. Langlois
(Paris, Didot [poi Champion], 1914-1924, 5 voll.); il primo volume è introduttivo;
il secondo riporta i vv.1-6342, e dunque l’intera prima parte di Guillaume de Lorris,
che termina con il v. 4056; il terzo i vv. 6343-12976; il quarto i vv.12977-19438;
il quinto e ultimo i vv. 19439-21780. Di là dalla qualità del testo, tale scelta è
determinata dal fatto che, esplicito o implicito, è ricorrente il rimando alle ricche
note di Langlois: al proposito, è recente l’edizione Il romanzo della rosa, a c. di R.
Manetti e S. Melani, 2 voll., Alessandria, Edizioni dell’Orso, 2015, che riproduce
il testo di Langlois con la traduzione italiana a fronte, e lo correda di sobrie note.
L’anno precedente era uscita l’edizione: Romanzo della rosa, a c. di M. A. Liborio e
S. De Laude, tr. di M. Liborio, Torino, Einaudi, 2014, che a fronte della traduzione
italiana riproduce il testo curato da F. Lecoy (Paris, Champion, 1965-1970, 3 voll.),
che, a differenza di Langlois, si basa su un solo manoscritto giudicato il migliore,
il fr. 1573 della BNF. Per una sintetica ma eccellente esposizione dei dati e delle
Dante e il Roman de la Rose 209
8. Vd. G. Costa, Il canto XXXI del Paradiso, in «L’Alighieri», XVII (1996), pp.
57-85: p. 59 ss., che insieme a molti altri riferimenti a proposito della «candida rosa»,
insiste opportunamente sulla lunga tradizione relativa alle straordinarie proprietà cu-
rative che la rosa avrebbe avuto, in ispecie nel caso di malattie degli occhi. Aggiungo
Adamo di san Vittore, Sequentia XXV in nativitate beatae Mariae Virginis (PL 196,
1502) 8-12: «Flos de spinis, spina carens, / flos spineti gloria. / Nos spinetum, nos
peccati / spina sumus cruentati, / sed tu spinae nescia» (poco oltre, v. 23, Maria è
«rosa patientiae»), mentre nelle Adnotationes relative al passo si legge: «A rea virga
primae matris Evae, florens rosa processit Maria». Ma dagli studi qui via via citati si
ricaveranno altri esempi dell’equazione Maria – rosa: vd. per esempio G. C. Di Sci-
pio, The Symbolic Rose in Dante’s Paradiso, Ravenna, Longo, 1984, in part. p. 59 ss.,
fermo restando che un abbondante repertorio al quale attingere ancora è nel vecchio
bel libro di Ch. Joret, La rose dans l’antiquité et au Moyen Age. Histoire, légendes et
symbolisme, Paris, Bouillon, 1892, in part. il cap. III, pp. 231-284.
9. Vd. già Eccl. 24, 18, e 39, 17, e per più abbondanti citazioni B. Martinelli,
Dante e il nome di Maria, in Etica e teologia nella Commedia di Dante, a c. di E. Ar-
dissino, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 2009, pp. 85-113: in part. pp. 102-111.
Dante e il Roman de la Rose 211
10. E poco avanti, vv. 88-89: «Il nome del bel fior ch’io sempre invoco / e
mane e sera».
11. Di Guinizelli vd. Io voglio del ver 1-2: «Io voglio del ver la mia donna
laudare / ed asembrarli la rosa e lo giglio», nell’ed. a c. di L. Rossi, Torino, Einaudi,
2002, p. 52, con la nota ad loc. del curatore che dà questi e altri pertinenti rimandi.
Ma circa l’abbinamento rosa-giglio (con l’aggiunta, spesso, della viola), vd. pure le
citazioni da Ausonio, Venanzio Fortunato, Alcuino e Valafrido Strabone che sono
in J. Goody, La cultura dei fiori. Le tradizioni, i linguaggi, i significati dall’Estremo
Oriente al mondo occidentale, Torino, Einaudi, 1993, pp. 164-165 (ma si veda tutto
il capitolo Il ritorno della rosa nell’Europa occidentale nel Medioevo, pp. 154-
212), e, prima, in Joret, La rose dans l’antiquité cit., p. 154 ss.
12. A proposito di questo processo di “risacralizzazione” osserva giustamente
Vanossi, Dante e il Roman de la Rose cit., p. 323: «Il caso più vistoso, e più noto,
di questo processo è costituito (…) dalla mistica rosa dell’Empireo, che riconduce
alla sua originaria significazione mistica il simbolo floreale scaduto nel poemetto a
emblema dell’amore profano», mentre poco avanti, p. 325, parla di «ribaltamento
del simbolismo erotico».
13. Un posto di assoluto rilievo merita E. Kölher, Lea, Matelda und Oiseuse. Zu
Dante Divina Commedia, Purgatorio, 27. Bis 31. Gesang, in «Zeitschrift für romani-
sche Philologie», LXXVIII (1962), pp. 464-469; Id., Narcisse, la fontaine d’amour et
Guillaume de Lorris, in L’humanisme médiéval dans les littératures romanes du XIIe
au XIVe siècle, Colloque organisé par le Centre de Philologie et de Littérature romanes
de l’Université de Strasbourg (29 janvier-2 février 196, Actes publiés par A. Fourrier,
Paris, Klincksieck, 1964, pp. 147-166: a Kölher si riallaccia L. Formisano, Da Oi-
seuse a Matelda, in «Le forme e la storia», III (1991), pp. 85-102, e Id., La “double
quête” del cortese Guillaume, in AA. VV., Studi offerti a Gianfranco Contini dagli
allievi pisani, Firenze, Le Lettere, 1984, pp. 123-140. Ma si veda pure, a proposito
dell’episodio di Paolo e Francesca, P. Dronke, Francesca and Heloise (1975), in Id.,
The Medieval Poet and his World, Roma, Edizioni di Storia e letteratura, 1984, pp.
359-385: in part. pp. 379-385 (ma un cenno critico su tale rapporto è in F. Bruni, Testi
e chierici del Medioevo, Genova, Marietti, 1991, p. 211 e n.), e C. Lopez Cortezo, Le
Roman de Francesca, in «Tenzone», 12 (2011), pp. 83-103; I. Maffia Scariati, Fiore
Inferno in fieri: Schede di lettura in parallelo, in The Fiore in Context. Dante, Fran-
ce, Tuscany, ed. by Z. G. Barański and P. Boyde, Notre Dame-London, Notre Dame
University Press, 1997, pp. 273-313; N. Pasero, Fughe dal quotidiano (e ritorni) nella
letteratura medievale. Sul nodo Roman de la rose – Fiore / Vita Nuova – Divina
Commedia, in «L’immagine riflessa», XXVI, (2004), 2, pp. 5-13; A. E. Mecca, «Io
son colui che tenni ambo le chiavi / del cor di Federigo» (Inf. XIII 58-59): alle radici
Dante e il Roman de la Rose 213
lètes, avec une notice par le R. P. Lacordaire et une preface par M. Ampere, t. V, Paris,
J. Lecoffre, 1858, p. 365: «une fois introduits dans la nef, ils étaient rassurés par des
images plus consolantes: les martyrs, les vierges resplendissaient sur les vitraux, com-
me s’ils n’eussent attendre qu’un rayon de soleil pour descendre dans l’assemblée.
Au milieu, flamboyait la grande rose, qui répresentait ordinairement les neuf choeurs
des anges autour de la majesté de Dieu. C’est là, sans doute, que le poète trouva cette
admirable pensée de décrire le ciel, non pas avec des colonnes d’or et des murs de
diamant, non pas avec le luxe ordinaire d’encensoirs d’argent et de harpes d’ivoire,
mais avec ce qu’il y a sur la terre de plus simple, de plus pur, de plus immatériel, sous
la forme d’une grande rose blanche, dont les feuilles sont les sièges des élus».
16. P. Savj Lopez, Il canto XXX del Paradiso letto nella sala di Dante in Or-
sanmichele: la lettura è del 1920, e la cito da Letture dantesche, III, Paradiso, a
c. di G. Getto, Firenze, Sansoni, 1961, pp. 625-638: in particolare vd. pp. 631-635.
17. F. Ermini, La candida rosa del Paradiso dantesco. Il simbolo e la figura,
in Id., Medio Evo latino. Studi e ricerche, Modena, STEM, 1938, pp. 327-332; in
Di Scipio, The Symbolic Rose cit., è particolarmente interessante e fitto di citazioni
architettoniche l’ultimo capitolo, The Rose and the Gothic Cathedral, pp. 137-159,
anche se il discorso resta, in definitiva, entro la larga rete di suggestive analogie più
che di corrspondenze esatte e necessarie. Aggiungo che per J. Scott, Canto XXXI, in
Lectura Dantis Turicensis. Paradiso, a c. di G. Güntert e M. Picone, Firenze, Cesa-
ti, 2002, pp. 473-489 l’idea che vi sia una connessione tra il rosone delle cattedrali
gotiche e l’immagine dantesca «è, purtroppo, da scartare», dopo la confutazione
delle tesi di Di Scipio da parte di J. C. Barnes, «Ut architectura poesis?». The
Case of Dante’s «Candida Rosa», in «The Italianist», 6 (1986), pp. 19-33, il quale
osserva come il termine rosone appaia in Italia solo nell’Ottocento, e l’equivalente
francese rose sia attestato solo dalla fine del ’600 (nel Medioevo il termine corrente
era rota). Ma si può osservare che il dato lessicale non esaurisce la portata del sug-
gerimento che conserva un forte potere di fascinazione all’interno del discorso più
generale sulla “teologia della luce”, così importante in ogni discorso sull’architettu-
ra gotica (per esempio, rimanda a Dante O. von Simson, nel suo classico volume La
cattedrale gotica. Il concetto medievale di ordine [1962], Bologna, il Mulino, 1988,
p. 62 ss.). Di là dai molti studi sulla struttura dei rosoni e i loro complessi rapporti
matematici e geometrici, è poi sempre molto forte l’approccio di tipo esoterico-
Dante e il Roman de la Rose 215
alchemico, che ha forse il suo modello più celebre nel volume dell’altrimenti ignoto
Fulcanelli, Il mistero delle cattedrali: vd. l’edizione italiana tradotta e annotata a
cura di P. Lucarelli con i disegni originali di J. Champagne (uno dei vari supposti
autori), Roma, Edizioni Mediterranee, 2005.
18. B. Seward, The symbolic Rose (1954), Dallas, Spring Publications, 1989,
pp. 18-52 (è il cap. The Medieval Heritage): per la polisemia della rosa, sulla quale
la studiosa insiste, vd. già Riccardo di San Lorenzo: «Et nota quod Christus rosa,
Maria rosa, Ecclesia rosa, fidelis anima rosa» (nel De laudibus Beatae Mariae Vir-
ginis XII 4, 33, già attribuito ad Alberto Magno, nell’ed. Borgnet, 36, pp. 670-671).
Vanossi, Dante e il Roman de la Rose cit., p. 323 ss.; E. Ardissino, Boezio, Agostino
e il «popol giusto e sano» di Paradiso XXXI, in Etica e teologia nella Commedia
cit., pp. 65-83, alle pp. 66-67 (per un accenno, accoglie l’ipotesi “architettonica”
quale è argomentata da Di Scipio); C. Bologna, Canto XXXI. La «candida rosa», in
Lectura Dantis Romana. Cento canti per cento anni, a c. di E. Malato e A. Mazzuc-
chi, III/2, Paradiso. Canti XVIII-XXXIII, Roma, Salerno Editrice, 2015, pp. 917-
941. Vd. infine qualcosa di analogo a questi versi in Purg. XI, 106-107.
19. Vd. Isidoro, Etym. XIV 3, 2, e Par. XXIII, 71-72; XXXI, 97; XXXII, 39.
20. Richards, Dante and the Roman de la Rose cit., pp. 100-102. Sul tema e
sulla sua fortuna è tutt’ora fondamentale il saggio di E. R. Curtius, La nave degli
Argonauti (1950, con il titolo Argo), ora in Id., Letteratura della letteratura. Saggi
critici, a c. di L. Ritter Santini, Bologna, il Mulino, 1984, pp. 301-325, che nella sua
ricchissima rassegna di testi ricorda sia la Rose che la Commedia, soprattutto, ma
non mette le due opere in relazione diretta.
Dante e il Roman de la Rose 217
E Calcidio commenta:
Est temporis quidem proprium progredi, aevi propria mansio semperque in
idem perseveratio; temporis item partes, dies et noctes, menses et anni, aevi
partes nullae; temporis item species praeteritum praesens futurum, aevi subs-
tantia uniformis in solo perpetuoque praesenti.24
tempus in quo fiat delectatio quod requirat amplius tempus ad speciem delectatio-
nis perficiendam, sicut contigit in his quorum generatio est in tempore», e n. 2018:
«Delectari autem contingit in non tempore. Sic enim dictum est quod delectari est
aliquid totum, quia contingit etiam delectari in nunc, et statim habet suum com-
plementum». Si vedano al proposito le osservazioni di A. Cornish, Cambiamenti
istantanei nel viaggio attraverso le stelle, in Dante e la scienza, a c. di P. Boyde e
V. Russo, Ravenna, Longo, 1995, pp. 233-242.
24. Timaeus a Calcidio translatus commentarioque instructus […], ed. J. H.
Waszink, in Corpus Platonicum Medii Aevi. Plato Latinus, ed. R. Klibansky, In
aedibus Instituti Warburgiani, Londinii et Leida, 1975, rispettivamente p. 30 ll. 4-9,
e p. 76 ll. 2-5. Per comodità, aggiungo la traduzione del passo, Timeo 37 E, di G.
Reale, Milano, Rusconi, 1994, p. 107: «Infatti, i giorni e le notti e i mesi e gli anni,
che non esistevano prima che il cielo fosse generato, Egli li generò e produsse insie-
me alla costituzione del cielo medesimo. E tutte queste sono parti del tempo, e l’era
e il sarà sono forme generate di tempo, che non ci accorgiamo di riferire all’essere
eterno in modo non corretto. Infatti diciamo che esso era, è e sarà; invece ad esso,
secondo il vero ragionamento, solamente l’è si addice, mentre l’era e il sarà con-
viene che si dicano della generazione che si svolge nel tempo».
Dante e il Roman de la Rose 219
27. Ecco come Jean espone tale tesi in Rose vv. 17745-17754: «il meïsmes sou-
vent seaut dire / qu’il n’a pas franc vouleir d’eslire, / car Deus par sa prevision / si le
tient en subjeccion / que tout par destinee meine / e l’euvre e la pensee humaine, / si
que, s’il veaut a vertu traire, / ce li fait Deus a force faire, / e s’il de mal faire s’efforce,
/ ce li refait Deus faire a force» (corsivo mio). Vd. Boezio, Cons. V 3, 4-5: «si cun-
cta prospicit deus neque falli ullo modo potest, evenire necesse est quod providentia
futurum esse praeviderit. Quare si ab aeterno non facta hominum modo, sed etiam
consilia voluntatesque praenoscit, nulla erit arbitrii libertas; neque enim vel factum
aliud ullum vel quaelibet exsistere poterit voluntas, nisi quam nescia falli providentia
divina praesenserit». E vd. poi Anselmo, De concordia praescientiae et praedestina-
tionis et gratiae Dei cum libero arbitrio, nel principio: «Videntur quidem praescientia
Dei et liberum arbitrium repugnare; quoniam ea quae Deus praescit necesse est esse
futura, et quae per liberum arbitrium fiunt nulla necessitater proveniunt; sed si repu-
gnat, impossibile est simul et praescientiam Dei esse, quae omnia praevidet, et aliquid
per libertatem arbitrii fieri», e ancora l’intitolazione del cap. VI: «Si praescientia Dei
necessitatem ingerit rebus quas praescit, ipse nihil facit ex libertate sed omnia ex
necessitate» (PL 158, ripett. 507 e 512). In questo medesimo testo, col. 515, parte
importante della soluzione è l’argomento della vis aeternitatis, intimamente associata
alla prescienza divina, come faceva Boezio (vedi subito avanti). Sul punto, vd. L.
Baudry, La prescience divine chez S. Anselme, in «Archives d’histoire doctrinale et
littéraire du Moyen Âge», 13 (1940-1942), pp. 223-237.
Dante e il Roman de la Rose 221
prius et quasdam posterius: et inde est quod praeterita memoramur, videmus prae-
sentia, et prognosticamur futura. Sed Deus sicut liber est ab omni motu, secundum
illud Malachiae [3, 6]: ego dominus et non mutor; ita omnem temporis successionem
excedit; nec in eo inveniuntur praeteritum et futurum; sed praesentialiter omnia fu-
tura et praeterita ei adsunt; sicut ipse Moysi famulo suo dicit: ego sum qui sum [Es.
3, 14]. Eo ergo modo ab aeterno praescivit hunc tali tempore moriturum, ut modo
nostro loquimur; cum tamen eius modo dicendum esset, videt eum mori, quomodo
ego video Petrum sedere, dum sedet. Manifestum est autem, quod ex hoc, quod video
aliquem sedere, nulla ingeritur ei necessitas sessionis. Impossibile est haec duo simul
esse vera, quod videam aliquem sedentem, et ipse non sedeat; et similiter non est
possibile quod Deus praesciat aliquid esse futurum, et illud non sit; nec tamen propter
hoc futura ex necessitate eveniunt». Si veda anche Alberto Magno, Commentarii in I
Sententiarum: Dist. XXXV C-D, ed. Borgnet, XXVI, pp. 187-188: «scitum a Deo om-
nino intemporale est, nec differentia temporis ponitur circa scitum secundum quod est
in scientia Dei (…) Scivit ergo Deus ab aeterno aeternum et omne quod futurum erat
et scivit immutabiliter. Scit quoque non minus praeterita et futura quam praesentia, et
sua aeterna sapientia et immutabili scit ipse omnia quae sciuntur».
30. V. L. Dedeck-Héry, Boethius’ De consolatione by Jean de Meun, in «Me-
diaeval studies», XIV (1952), pp. 165-275. Vd. Rose vv. 5037-5040, ove Jean an-
nuncia la sua traduzione, dedicata dopo il 1285 a Filippo il Bello: «qui Boece de
Confort lisent, / e les sentences qui la gisent; / don granz biens aus genz lais ferait /
qui bienni le leur translaterait». Su di essa vd. l’ampio studio di R. Crespo, Jean de
Meun traduttore della «Consolatio Philosophiae» di Boezio, in «Atti dell’Accade-
mia delle Scienze di Torino. II. Classe di Scienze Morali Storiche e Filologiche»,
103 (1969), pp. 71-170, e Th. Ricklin, …Quello non conosciuto da molti libro di
Boezio. Hinweise zur Consolatio Philosophiae in Norditalien, in Boethius in the
Middle Ages. Latin and Vernacular Traditions of the Consolatio Philosophiae, ed.
by M. J. F. M. Hoenen and L. Nauta, Leiden, Brill, 1997, pp. 267-286.
31. Langlois, Origines et sources cit., pp. 136-138, e vd. le note che nella sua
ed. accompagnano i versi dedicati al libero arbitrio (vol. IV, pp. 307-312).
32. Una dettagliata esposizione del vero e proprio trattato sul libero arbitrio
nella Rose è offerta da G. Paré, Les idées et les lettres au XIIIe siècle. Le Roman de
la Rose, Montréal, Publications de l’Institut d’Études Médiévales Albert-Le-Grand,
1947, pp. 231-252, e ad essa rimando per gli elementi qui trattati in modo sommario
o di necessità tralasciati.
33. Vd. D. Heller-Roazen, «Li mirouers pardurables». La question du Roman
de la Rose, in «Romania», 487-488 (2004), 3/4, pp. 341-370, che sottolinea all’ini-
Dante e il Roman de la Rose 223
la nozione di Dio quale “specchio” che nel suo eterno presente vede
ogni cosa
ausinc con s’el fust avenue;
e de toujourz l’a il veüe
par demontrance veritable
a son miroer pardurable,
que nus, fors lui, ne set polir,
senz riens a franc vouleir tolir.
Cil miroers c’est il meïsmes (…)
(vv. 17465 ss.)
e come sappia concentrare in pochi versi davvero degni di Dante
l’essenziale nozione di quell’eterno presente, là dove Natura confes-
sa la sua debolezza
au regart de la grant poissance
dou deu qui veit en sa presence
la trible temporalité
souz un moment d’eternité.
(vv. 19073-19076)
E ancora, più avanti, è Genius che ripete il concetto, a proposito
di quel giorno paradisiaco nel quale mai annotta:
n’il n’a pas temporel mesure,
cil jourz tant beaus, qui toujourz dure,
e de clarté presente rit;
il n’a futur ne preterit,
car, se bien la verité sent,
zio come la parte della Rose dedicata al problema del libero arbitrio e all’immagi-
ne dello “specchio” non fosse ancora stata presa in considerazione dagli studiosi,
salvo Paré (p. 346: vd. la nota precedente). Circa lo specchio, scrive, p. 363: «La
figure qui se voit introduite ici ne se retrouve, à proprement parler, dans aucune
des œuvres classiques sur la contingence dont Jean de Meun s’est servi, telles que
le De Consolatione Philosophiae; on ne la compte pas non plus, en tant que telle,
parmi les images employées par les théologiens et les philosophes qui ont traité la
question au XIIe et au XIIIe siècle», e ne fa un analogo della metafora classica che è,
per esempio, anche in Tommaso, secondo la quale la relazione tra l’eternità divina
e la temporalità umana corrisponderebbe a quella che esiste tra centro (eternità) e
circonferenza (tempo).
34. Per Dio quale «punto (…) che raggiava lume», vd. Par. XXVIII, 16. E vd.
Conv. II 13, 27 («lo punto per la sua indivisibilità è immensurabile»), con le note ad
loc. di Vasoli e ora di Fioravanti. Ma ora vd. in particolare l’analisi delle varie oc-
correnze di un così intenso punto, in G. Ferroni, Ancora sul punto (e il cerchio), in
«Per beneficio e concordia di studio». Studi danteschi offerti a Enrico Malato per
i suoi ottant’anni, a c. di A. Mazzucchi, Cittadella (PD), Bertoncello Artigrafiche,
2015, pp. 411-425. Per l’inconcepibile prima e poi nella dimensione dell’eterno,
vd. anche Par. XXIX, 19-24.
35. Vanossi, Dante e il Roman de la Rose cit., p. 340. Circa il giorno para-
disiaco che non ha mai fine e sta fisso in un punto, Jean ne ha già diffusamente
parlato ai vv. 20001-20032 («[…] car li solauz resplendissanz, / qui toujourz leur
est parissanz, / fait le jour en un point estable, / tel qu’onc en printens pardurable /
si bel ne vit ne si pur nus, / neïs quant regnait Saturnus»). Lo studioso aggiunge pure
che l’influsso «di questa parte del Roman si comunica anche al di fuori della terza
cantica», e in maniera convincente accosta Inf. XI, 91 a Rose vv. 20580-20586.
Dante e il Roman de la Rose 225
problema del male, in «Il mondo errante». Dante fra letteratura, eresia e storia, a c.
di M. Veglia, L. Paolini e R. Parmeggiani, Spoleto, CISAM, 2013, pp. 81-98.
38. Miei i corsivi. La responsabilità individuale, insomma, non può patire ec-
cezioni, dato che l’individuo «velle autem non potest invitus, quia velle non potest
nolens velle», diremmo «per la contraddizion che no ’l consente» (PL 158, col. 496:
per la citazione a testo, ibid. 504). Vd. anche le intitolazioni del cap. VI, Quomodo
sit nostra voluntas potens contra tentationes, licet videatur impotens, e del cap. VII,
Quomodo voluntas fortior sit quam tentatio. Per Anselmo, vd. già sopra, n. 27.
39. Circa l’assenza di libero arbitrio nelle cose e nelle creature irrazionali, vd. in
particolare Tommaso, Summa contra Gentiles II 48 n. 6: «Iudicii libertate carent aliqua
vel propter hoc quod nullum habent iudicium, sicut quae cognitione carent, ut lapides
et plantae: vel quia habent iudicium a natura determinatum ad unum, sicut irrationa-
lia animalia; naturali enim existimatione iudicat ovis lupum sibi nocivum, et ex hoc
iudicio fugit ipsum; similiter autem in aliis. Quaecumque igitur habent iudicium de
agendis non determinatum a natura ad unum, necesse est liberi arbitrii esse. Huiusmo-
di autem sunt omnia intellectualia», ecc. E vd. ancora De veritate q. 24 a. 2: Secundo
queritur utrum liberum arbitrium sit in brutis, ove Tommaso svolge un ragionamento
del tutto analogo concludendo: «Respondeo. Dicendum, quod bruta nullo modo sunt
liberi arbitrii. Ad cuius evidentiam sciendum est, quod cum ad operationem nostram
tria concurrant, scilicet cognitio, appetitus, et ipsa operatio, tota ratio libertatis ex modo
cognitionis dependet. Appetitus enim cognitionem sequitur, cum appetitus non sit nisi
boni, quod sibi per vim cognitivam proponitur». A proposito di quanto detto circa la
compresenza di tessere esatte e di coincidenze più larghe di immagini e di pensiero
che legano la Rose a Dante, voglio qui ripetere, in aggiunta ai casi sopra riferiti (Rose
vv. 10225-10230 e Bicci novel 9-10; Rose v. 5756 e Inf. XXVII, 122-123), quanto ho
discusso meglio in una lettura in corso di stampa sulla canzone Io son venuto: qui, vv.
53-54, si legge: «Versan le vene le fumifere acque / per li vapor che la terra ha nel ven-
tre», che devono molto a Rose vv. 17891-17892: «par les vapeurs qu’il font lever, / si
leur fait les ventres crever». Ora, mi sembra degno di nota che solo una ventina di versi
dividono questi ultimi da quelli appena citati, lasciandoci pensare che Dante sia ripetu-
tamente tornato sulle stesse pagine della Rose, in tempi anche molto distanti tra loro.
Dante e il Roman de la Rose 229
alla volontà ciò che essa deve volere affinché sia libera e netta dalle
impurità e dai condizionamenti degli appetiti è, nel discorso che qui
ci interessa, continuamente ribadito e propriamente ne costituisce il
filo conduttore, mai dimenticato pur attraverso la lunga discussione
sulla predestinazione, svolta attorno ai due punti-chiave dell’even-
tuale impossibilità di punire o premiare (vv. 17111-17200), e dell’al-
trettanto eventuale inutilità di ogni “consiglio” e di ogni intrappresa
umana, dal lavoro allo studio (vv. 17239-17266). Ma no, non è così,
ed è piena la responsabilità del singolo nell’atto di scegliere tra il
bene e il male (è significativa l’espressione, v. 17264, ‘scegliere ciò
che si vuole’: «tel vouleir leur face eslire»), anche se si tratta di
qualcosa che l’uomo non avrebbe fatto se avesse usato la Ragione.40
Il che, di nuovo, è singolare, perché sposta il concetto di “libero
arbitrio” dal prevalere di una libertà determinata da un “volere” con-
dizionato dall’appetito, alla libertà vera identificata con il puro do-
minio della Ragione. Così, riprendendo e allargando quanto ha det-
to all’inizio circa il valore della dottrina, del “buon intendimento”,
delle virtuose compagnie e dei cibi adatti e delle giuste medicine nel
consolidare un habitus ispirato ai dettami della Ragione, Jean ancora
ripete che chi si senta toccato dal vizio «contre ses meurs par raison
viegne» (v. 17555), cioè usi Ragione contro ciò a cui naturalmente è
inclinato, dato che, inutile nasconderlo, le inclinazioni esistono e in
vario modo ci condizionano, e in ciò sta dunque una certa forma di
predestinazione.41 Ma appunto, la libertà vera consiste nella capacità
di passarle al vaglio del consilium, di dominarle e non di esserne
dominati. L’auto-consapevolezza gioca in tutto ciò un ruolo impor-
tante, perché è vero che ci si può indirizzare al male, ma è pur essa
42. Ma così ancora, per es., Tommaso, Summa I IIae q. 27 a. 2: «Bonum autem
non est obiectum appetitus nisi prout est apprehensum (…). Sic igitur cognitio est
causa amoris, ea ratione quod et bonum, quod non potest amari nisi cognitum» (vd.
sopra, n. 38).
Dante e il Roman de la Rose 233
43. Nella sua ed. cit., IV p. 312, Langlois giudica quei versi come uno svi-
luppo di Boezio, Cons. II 5, 29: «Humanae quippe naturae ista condicio est, ut
tum tantum ceteris rebus, cum se cognoscit, excellat, eadem tamen infra bestias
redigatur, si se nosse desierit; nam ceteris animantibus sese ignorare naturae est,
hominibus vitio venit».
44. P. Falzone, al principio della “lettura” bolognese ora in corso di stampa,
(vd. sopra, n. 37), sintetizza bene: i due canti «considerati unitariamente, ci con-
segnano una riflessione organica, scandita in due tempi, sulla piena responsabilità
morale dell’uomo dinanzi al male. A porre questa verità il Poeta giunge essenzial-
mente attraverso una serrata confutazione del determinismo nelle sue due forme
più temibili, quella “astrale” – contro cui argomenta Marco Lombardo nel XVI – e
quella psicologica (la “tirannia delle passioni”), recusata per falsa da Virgilio nel
XVIII. Il tema del libero arbitrio è posto così al centro ideale e materiale del poe-
ma, nel cuore della seconda cantica». Anche Porro, Canto XVIII cit., pp. 559-560,
conclude parlando del canto come della «chiave di volta di tutta la costruzione»
della Commedia, offrendo il «principio che permette di leggerne la struttura, qua-
lora naturalmente s’intenda la Commedia non solo come un percorso di liberazione
individuale (…) ma anche, più in generale (e su questo i primi commentatori non
avevano forse del tutto torto), come una grandiosa illustrazione delle potenzialità e
delle conseguenze del libero arbitrio umano».
45. Anticipo subito che il passo della Monarchia, I 12, 1-7, è quello che a
proposito del libero arbitrio, definito come il dono più grande che Dio ha fatto
all’uomo, contiene il famoso, discusso e spesso censurato rimando a Par. V, 19-24:
«sicut in Paradiso Comedie iam dixi». Vd. avanti, n. 53.
Dante e il Roman de la Rose 235
unum maius appareat, impossibile est aliquod aliorum eligere». Vd. anche Azzetta,
«Fervore aguto» cit., pp. 250-251.
49. Falzone, p. 8 del dattiloscritto, parla al proposito della «conoscenza di quelle
verità evidenti di per sé che servono da premesse prime dell’intelletto speculativo (ad
esempio: il tutto è maggiore della parte, o il principio di non contraddizione)».
50. Vd. G. Fioravanti, Intellectus praticus, in Mots médiévaux offerts à Ruedi
Imbach, éd. par I. Atucha, D. Calma, C. König-Pralong et I. Zavattero, Tornhout-
Porto, Brepols, 2011, pp. 373-380, voce per vari aspetti pertinente a questo discor-
so, specie dove illustra la definizione di “intelletto pratico” in Alberto Magno (vd.
anche avanti, n. 58, con la citazione dalla Summa contra Gentiles di Tommaso).
51. Il viglia del v. 66 è voce del verbo vigliare, che indica l’operazione con la
quale, dopo la battitura del grano, con ramazze di frasche lo si ripuliva dalle impurità
rimaste, come spighe e semi non commestibili. Questo, seguendo la chiosa ad loc.
di Benvenuto che lo spiega: «verbum rusticorum purgantium frumentum in area, qui
excludunt superflua ab eo», mentre è caduta un’altra interpretazione che lo intendeva
come ‘legare insieme’ (vd. la voce vigliare in ED, V, 1976, p. 1008). Singleton, ad vv.
62-63, cita Tommaso, Summa contra Gentiles III 10, 4, e, per l’immagine, Gregorio
Magno, Moralia in Iob I 35, 50, che così interpreta la frase della Bibbia, 2 Sm 4, 5:
«ostiaria domus purgans triticum obdormivit»: «Ostiaria triticum purgat, cum mentis
custodia discernendo virtutes a vitiis separat» (ricavo il rinvio a Singleton dal commen-
to citato di Inglese). Vd. in particolare Azzetta, «Fervore aguto» cit., p. 255 n. 32.
52. Al proposito vd. Tommaso, Summa I q. 62 a. 8, ove si afferma che gli
angeli non possono peccare, e precisamente per questo il loro libero arbitrio è mag-
Dante e il Roman de la Rose 239
giore del nostro, che possiamo peccare: «Quod liberum arbitrium diversa eligere
possit, servato ordine finis, hoc pertinet ad perfectionem libertatis eius; sed quod
eligat aliquid divertendo ab ordine finis, quod est peccare, hoc pertinet ad defectum
libertatis. Unde maior libertas arbitrii est in angelis, qui peccare non possunt, quam
in nobis, qui peccare possumus». Il paradosso, per dire così, di un libero arbitrio
che è tale precisamente quando non è libero e cessa per l’appunto di essere un mero
“arbitrio” spicca già, in Dante, in Conv. IV 26, 5-6, anche se ancora non si dice
in cosa consista la sua eventuale libertà né lo si definisce in quanto “libero” ma
«quanto ch’ello sia nobile»: «Veramente questo appetito conviene essere cavalcato
dalla ragione; ché sì come uno sciolto cavallo, quando ch’ello sia di natura nobile,
per sé, sanza lo buono cavalcatore, bene non si conduce, così questo appetito, che
irascibile e concupiscibile si chiama, quanto ch’ello sia nobile, alla ragione obedire
conviene, la quale guida quello con freno e con isproni, come buono cavaliere».
esse non potest, quia non a se, sed ab alio captivum trahitur (…). Hoc viso,
iterum manifestum esse potest quod hec libertas sive principium hoc totius
nostre libertatis est maximum donum humane nature a Deo collatum, sicut in
Paradiso Comedie iam dixi.53
53. Stampo le ultime parole: «sicut (…) dixi», senza particolari segni di stacco
(gli ultimi editori, Chiesa e Tabarroni, le pongono tra parentesi uncinate). Questo,
perché proprio l’essermi accostato al tema del libero arbitrio e alla sua centralità
nel poema mi ha ulteriormente rafforzato nella convinzione di ritenere che l’inciso
sia autentico, come ho recentemente sostenuto nel saggio Ancora sulla data della
Monarchia, in «Per beneficio e concordia di studio» cit., pp. 377-410, e che sia il
tassello finale del discorso cominciato nel canto XVI del Purgatorio. Ma la preci-
sazione mi dà soprattutto l’occasione di rimandare a un saggio recentissimo che,
a mio parere, dovrebbe porre fine alla questione, per lo meno dal punto di vista
editoriale: quello di P. Pellegrini, Il testo critico della Monarchia e le ragioni della
filologia. Ancora su «sicut in Paradiso Comedie iam dixi» (I xii 6), in «Filologia
italiana», 12 (2015), pp. 61-78. Vd. sopra, n. 45.
54. Porro, Canto XVIII cit., p. 558.
55. Anici Manlii Severini Boethii Commentarii in librum Aristotelis Peri Her-
meneias, ed. secunda, rec. C. Meiser, Lipsiae, In aedibus B.G. Teubneri, 1880, III
9, p. 196: «Liberum voluntatis arbitrium non id dicimus quod quisque voluerit, sed
quod quisque iudicio et examinatione collegerit. Alioquin multa quoque animalia
Dante e il Roman de la Rose 241
habebunt liberum voluntatis arbitrium. Illa enim videmus quaedam sponte refugere,
quibusdam sponte concurrere. Quod si velle aliquid vel nolle hoc recte liberi arbitrii
vocabulo teneretur, non solum hoc esset hominum, sed ceterorum quoque anima-
lium, quibus hanc liberi arbitrii potestatem abesse quis nesciat? Sed est liberum
arbitrium, quod ipsa quoque vocabula produnt, liberum nobis de voluntate iudicium
(…). Ideo non in voluntate sed in iudicatione voluntatis liberum constat arbitrium»,
ecc. Queste pagine di Boezio sono antologizzate a cura di B. Nardi, con traduzione
a fronte di T. Nardi, in Le origini. Testi latini, italiani, provenzali e franco-italiani,
Milano-Napoli, Ricciardi, 1956, pp. 8-14, e sono riferite nei principali commenti,
sino ai recenti di Chiesa-Tabarroni e Quaglioni. Ma si vedano ancora le ampie note
di G. Vinay nell’ed. della Monarchia da lui curata, Firenze, Sansoni, 1950, p. 68 ss.
Per l’interpretazione, vd. soprattutto Falzone, Psicologia cit., pp. 353-355, e Porro,
Canto XVIII cit., pp. 553-555. Per le parole: «liberum nobis de voluntate iudicium»
vd. avanti, n. 58.
56. O. Lottin, La théorie du libre arbitre depuis S. Anselme jusqu’a S. Thomas
d’Aquin, Saint-Maximin-Louvain, Abbaye du Mont-César, 1929, p. 137, sintetizza-
va così la posizione di Tommaso: «Si le libre arbitre est une puissance déterminée,
inutile d’en faire une puissance distincte de la raison ou même de la volonté: sans
doute, le libre arbitre est impregné de raison, mais en son concept formel, il est
identiquement la volonté». Ma vd. ora soprattutto P. Porro, Trasformazioni medie-
vali della libertà. 1. Alla ricerca di una definizione del libero arbitrio, e 2. Libertà e
determinismo nei dibattiti scolastici, in Libero arbitrio. Storia di una controversia
filosofica, a c. di M. De Caro, M. Mori ed E. Spinelli, Roma, Carocci, 2014, pp.
171-190 e 191-221: qui, vd. pp. 191-207 per Tommaso, giudicato un «intellettuali-
sta molto moderato» che pone la reciproca subordinazione di volontà e intelletto ma
che nel corso della sua riflessione approda a concezioni sempre più volontaristiche,
riconoscendo l’automovimento della volontà (per esempio, Summa I IIae q. 9 a. 3:
«Voluntas per hoc quod vult finem, movet seipsam ad volendum ea quae sunt ad
finem», oppure De malo q. 6 ad 10um: «De intellectu et voluntate (…) dissimile est
quantum ad exercitium actus: nam intellectus movetur a voluntate ad agendum;
voluntas autem non ab alia potentia, sed a seipsa»). Circa Goffredo di Fontaines, ri-
corre alla sua testimonianza anche Falzone, Psicologia dell’atto umano cit., p. 358
n. 91, nel particolare contesto della distinzione tra il momento dell’assenso e quello
del consenso. Allo stesso Falzone si devono varie precisazioni e arricchimenti, a
partire da Aristotele sino ad Albero Magno, alle quali non posso che rimandare. In
sede di conclusione, anche per lui la sostanza del pensiero dantesco circa il libero
arbitrio sta nella «assoluta centralità del momento conoscitivo: la volizione, sia
essa coinvolta o meno nell’assenso, resta inequivocabilmente subordinata alle de-
liberazioni dell’intelletto», e opportunamente finisce per aggiungere: «l’osservanza
delle leggi non implica una restrizione della libertà dell’individuo: le leggi, quan-
do giuste, traducono un principio razionale conformandosi al quale l’uomo resta
padrone dei propri atti. Sottoporsi alle leggi significa infatti sottoporsi al governo
della ragione che delle leggi è il fondamento. Vivere sotto il governo della ragione
significa, a sua volta, vivere nel possesso di sé. Nell’Epistola ai Fiorentini, datata al
31 marzo del 1311 [VI 5], il concetto viene espresso con la formula apparentemente
paradossale dello iugum libertatis» (ibid., pp. 361 e 363). Formula che ci rimanda
all’altra, splendida e in apparenza altrettanto paradossale, di Purg. XVI, 79-80: «A
maggior forza e a miglior natura / liberi soggiacete».
57. Porro, Canto XVIII cit., pp. 558-559.
58. La formula del libero arbitrio quale liberum de ratione iudicium è una
evidente variazione, a quanto pare esclusiva di Tommaso, della boeziana e diffu-
Dante e il Roman de la Rose 243
63. R. Hissette, Enquête sur les 219 articles condamnés à Paris le 7 mars 1277,
Louvain-Paris, Publications universitaires, 1977, pp. 230-263. Vd. Porro, Trasforma-
zioni medievali della libertà. 2. cit., p. 208 ss., che a proposito di volontà e libertà riman-
da in particolare a F.-X. Putallaz, Insolente liberté. Controverses et condamnations au
XIIIe siècle, Fribourg-Paris, Éditions universitaires-Éditions du Cerf, 1995, pp. 51-91.
In questa sede, mi sembra utile aggiungere una citazione dallo stesso F.-X. Putallaz,
Figure francescane alla fine del XIII secolo, Milano, Jaca Book, 1996, là dove, pp. 74-
79, traccia un sommario quadro della questione del libero arbitrio premettendo, secondo
quanto è argomentato più ampiamente nel volume Insolente liberté, che la preminenza
assoluta della volontà esprime un’idea di libertà che è in esatta opposizione a quella
che si trova in Sigieri di Brabante, in Goffredo di Fontaines, in Giovanni di Pouilly e in
Dante, e rivela con semplificatrice efficacia quale fosse la posta in gioco nelle condanne
di Tempier. Dopo aver enfatizzato la posizione integralmente “volontaristica” di Pietro
di Giovanni Olivi («Non è l’intelligenza a costituire la nostra personalità, ma la libertà;
definire l’uomo solo per mezzo della sua intelligenza significherebbe attentarvi, signi-
ficherebbe privarci di ciò che abbiamo in proprio, ridurci a “bestie dotate di intelligen-
za”»), scrive, ispirandosi soprattutto alle posizioni di Enrico di Gand, che va respinto il
principio aristotelico che vorrebbe inserire l’uomo in un mondo di leggi meccaniche: «I
pensatori francescani manifestano un’idea molto più alta dell’uomo (…) Considerare
l’attività libera dell’uomo sul modello del movimento delle realtà materiali, significa
lasciarlo in balia delle leggi del mondo, farne un essere che si inserisce nel cosmo senza
possibilità di emergerne. Ecco sempre lo stesso fondo religioso; la fede è in pericolo. In
realtà, l’uomo con la sua libertà non è un essere del mondo; ne è radicalmente dissimile.
Gli aristotelici non hanno colto la specificità della libertà; l’hanno ridotta a essere solo
una cosa tra le cose. Questo è uno dei disastri a cui conduce una filosofia aristotelica
che indebitamente trasporta al mondo dell’anima le strutture della causalità fisica. In
una parola, non avendo colto l’eminente ineffabile dignità della libertà, gli aristoteli-
ci non hanno veduto che essa è irriducibile al mondo dei corpi. Non hanno capito la
libertà dell’uomo che sovranamente domina il mondo, grazie soprattutto alla povertà
volontaria che ne assicura l’ottimale realizzazione; non hanno capito la carica religiosa
e spirituale della tesi del primato assoluto della volontà; non hanno riservato all’amore il
posto che gli compete (…) l’amore è più importante della scienza». Sembra inevitabile,
a questo punto, proiettare questo discorso sull’anti-aristotelico e anti-scolastico Petrar-
ca, erede specialissimo ma tutto sommato fedele delle posizioni di Tempier, specie nel
De ignorantia che concentra la propria polemica anti-intellettualistica in “punte” come
questa: «Aliud est enim scire atque aliud amare; aliud intelligere atque aliud velle»,
oppure: «Tutius est voluntati bone ac pie quam capaci et claro intellectui operam dare»
(rispettivamente pp. 266 e 270, nell’ed. da me curata, Milano, Mursia, 1999, alla qua-
le rinvio anche per la discussione su questi punti che è nell’Introduzione). Vd. anche
avanti, per esempio quanto si dirà a proposito di Guillaume de la Mare, alla cui linea di
pensiero Petrarca sembra particolarmente vicino.
na di Tempier, a metà degli anni ’80 del secolo, una breve infilata di
pronunciamenti ad essa perfettamente allineati.66 Gualtiero di Brug-
ge (provinciale dei francescani, vescovo di Poitiers nel 1279, morto
nel 1307) è chiarissimo al proposito: la volontà è sovrana e rispetto
ad essa il consiglio della ragione ha un ruolo meramente subordinato
e servile.67 Lo segue Pietro di Falco, che discetta diffusamente sulla
questione citando alla lettera, ripetutamente, il Sillabo di Tempier, e
argomentando circa la “precedenza” della volontà sull’intelletto: «vo-
luntas non movet intellectum ad deliberandum nisi libere imperando,
nec libere imperat nisi libere volendo: ergo libere velle precedit actum
rationis deliberantis».68 Per Guglielmo de la Mare è la volontà a co-
mandare su tutte le facoltà, mentre la ragione non è che la sua serva:
oggetto della volontà, infatti, è il bene, mentre oggetto dell’intelletto
è il vero. Ma: «Bonum secundum quod bonum est bonum per se; ve-
rum autem secundum quod verum non est bonum nisi per bonum; sed
quod est per se bonum est melius quam quod est per aliud; ergo bo-
num est melius vero». Insomma: «Voluntas libera est ex sua ingenita
et naturali proprietate, non ex ratione vel eius deliberatione».69 E così
ancora Riccardo Clapwel e Riccardo di Mediavilla (di Middleton) e
Roger Marston, tutti in sostanziale accordo… Ed ecco quanto osserva
Lottin a proposito del Mediavilla, in termini che possiamo ritenere lar-
gamente riassuntivi: la volontà è stata creata da Dio affinché si muova
naturaliter e ex necessitate verso il fine supremo della felicità, e
c’est d’elle-même aussi que la volonté se meut vis-à-vis des moyens. Et ici
n’est plus seulement dans l’exécution de son mouvement que la volonté est
libre, mais aussi dans la détermination elle-même des moyens. C’est encore à
l’autodétermination de l’intelligence que Richard recourt: de même que l’in-
telligence se meut des principes aux conclusions, de même la volonté se meut
de la volition de la fin au choix des moyens. Richard accorde d’ailleurs qu’en
chacune des démarches de la volonté Dieu intervient comme agent principal.
Quatre facteurs concourent donc à la production d’un acte libre: Dieu meut la
volonté comme cause principale; la volonté comme cause instrumentale, im-
médiate; l’objet comme cause finale, et la raison ne fait que présenter l’objet
à la volonté. La volonté peut d’ailleurs décliner l’offre que lui fait la raison.
Cela ressort pour Richard de la thèse (…) de la prééminence de la volonté sur
la raison. La volonté peut donc se mouvoir contrairement à ce que dicte la
raison. C’est l’évidence même: si la volonté ne pouvait réagir contre la raison,
elle pourrait être nécessitée, puisque la raison peut l’être par l’évidence de la
vérité; or la volonté ne peut être nécessitée; il faut donc qu’elle puisse réagir
contre la raison. Bien limité est donc le rôle de celle-ci: la raison est comme
le serviteur qui porte la lumière devant son maître; mais c’est celui-ci qui lui
commande d’aller dans tel sens: la raison montre l’objet à la volonté; elle peut
même le lui conseiller, mais c’est la volonté qui se porte d’elle-même vers
l’action; la raison est cause dispositive, la volonté cause efficiente («Intellec-
tus movet voluntatem ostendendo et suadendo; hoc non est proprie movere
voluntatem, set disponere ad motum voluntatis»).70
quello scontro s’è giovato di elementi tratti dalla Rose, come ripetu-
tamente m’è avvenuto di ripetere:72 in maniera chiara e, per dir così,
strutturale al tempo delle due canzoni, e in maniera diversa al tempo
della scrittura dell’episodio di Paolo e Francesca, come partendo da
punti di vista lontani hanno argomentato Carlos Lopez Cortezo e
Peter Dronke.73 Il che significa che quell’aumento di conoscenza che
Porro auspica finirebbe per riguardare non solo la specifica e vorrei
dire “tecnica” soluzione del problema del libero arbitrio, marcata da
una così netta opzione per il totalizzante predominio della ragione,
ma niente di meno che l’intera riflessione e vocazione etica di Dante
della quale quella soluzione è figlia.
Per chiudere davvero, una piccola provocazione a margine, sul
paradosso che fa sì che le istanze di Raison, nella Rose, trovino il
loro spazio all’interno di un poema che di fatto, se non in linea di
principio, le nega, quasi applicando la classica definizione dell’iro-
nia, che appunto «negat quod dicitur».74 Il personaggio di Amante
sia nella parte di Guillaume che in quella di Jean, infatti, ne rifiuta
persino con brutalità i consigli e gli insegnamenti, né ciò dà luogo
a qualche reprobatio finale, al contrario! ché egli alla fine, felice
di ottenere finalmente ciò che vuole, può ben vantarsi di non aver-