LEYLA M. G. LIVRAGHI
Università di Pisa
leylalivraghi@libero.it
RIASSUNTO:
Il presente saggio è dedicato interamente al sodalizio che Dante strinse con
Cino in quella particolare fase della sua biografia coincidente con i primi anni
dell’esilio. In alcuni dei sonetti che i due poeti si scambiarono, restano le tracce
del percorso ideologico di Dante, che in quegli anni fu prima impegnato a giu-
stificare la sua rinnovata dedizione verso la donna gentile (nel Convivio), quindi
riaffermò l’amore per Beatrice (nella Commedia). Inoltre, letta in questo modo,
la corrispondenza riesce a spiegare tanto il ruolo eminente attribuito a Cino nel
De vulgari eloquentia, quanto la sua sparizione dall’orizzonte del poema.
PAROLE CHIAVE: Cino da Pistoia, esilio, ‘donna gentile’, Convivio, De vul-
gari eloquentia.
ABSTRACT:
This contribution is entirely devoted to the friendship and literary collabora-
tion which occurred between Dante and Cino at the beginning of Dante’s exile.
In some of the sonnets the two poets exchanged with each other, we can see the
traces of Dante’s ideological path: in those years, he first justified his devotion
to the “donna gentile” (in the Convivio); then, he returned to the love for Beatrice
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1. Lo studio del rapporto fra Dante e Cino non si è spinto molto oltre
la verifica di uno stato di fatto, documentato dall’innegabile preminenza
di Cino nel De vulgari eloquentia. La poesia ciniana è stata giudicata
come la riproposizione pacatamente elegiaca dei temi e dei modi che, con
un'altra consapevolezza teorica, Dante e il suo primo amico (attorniati pe-
raltro da un non ben definito gruppo di rimatori che ne condividevano le
premesse e gli scopi, tra cui, almeno per un periodo, Lapo Gianni) ave-
vano definito nella Firenze degli anni ottanta del Duecento. Una volta ri-
conosciuto in Dante il sommo autore ciniano, la radice della sua
ispirazione è stata ridotta a una ben calcolata logica combinatoria di sti-
lemi ormai topici, soprattutto danteschi, riorganizzati però secondo una di-
sposizione nuova che preludeva al all'introspezione psicologica di
Petrarca.1
Di conseguenza, la menzione di Cino, alter ego dantesco di più bassa
levatura e di più modesto costrutto, sarebbe risultata superflua nella Com-
media, bastandogli l’essere compreso anonimamente tra gli altri epigoni
del maximus Guido, quelli che Dante celebra come: «li altri miei miglior
che mai / rime d’amore usar dolci e leggiadre» (Pg. XXVI, 98-99). L’in-
gannevole understatement parrebbe suggerire che Dante, ormai fattosi
vate e teologo, conferisse la dignità di miglior poeta d’amore a qualcuno
dei compagni con cui in altri tempi aveva condiviso la scrittura di rime
muliebri, magari allo stesso Cino che di quel titolo si era fregiato nel De
vulgari eloquentia come analogo di Arnaut Daniel. La reticenza finisce
anzi per risaltare maggiormente, considerando che la cornice dei lussu-
riosi sarebbe stato il luogo più idoneo per fare riferimento a Cino, al quale
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Il discorso ciniano si lega a questa seconda resa del tòpos, con l’impor-
tante differenza che l’idea di ‘contraffare la fenice’ è in genere una riso-
luzione fortemente auspicata, seppur irrealizzabile, mentre Cino esclude
la possibilità a priori e mostra tutta la sua riluttanza verso la funesta pro-
spettiva. Il medesimo concetto è ribadito nella risposta ciniana Anzi
ch’Amore nella mente guidi al sonetto di Onesto Quella che in cor l’amo-
rosa radice: «Anzi ch’Amore ne la mente guidi / donna, ch’è poi del core
ucciditrice, / conviensi dire a l’om: “Non sei fenice”» (vv. 1-3). Onesto
farà meglio a non lasciarsi prendere da un amore che potrebbe finire col
distruggerlo, dato che gli esseri umani non sono in grado di vincere la
morte, imitando la fenice. Il rovesciamento in negativo di un’immagine
ormai abusata potrebbe servire a recidere i legami stereotipati con la tra-
dizione lirica, che paragonava la sfera psicologica dell’amante all’opera,
per quanto miracolosa, di un uccello. Così si spiegherebbe la contraddi-
zione in cui sembra cadere Cino, che in Anzi ch’Amore addita a Onesto il
significato simbolico della fenice, mentre in un altro sonetto si compiace
di poetare «senza essempro di fera o di nave» (Amor che vien per le più
dolci porte 12).
Dopo aver espresso le sue perplessità a fidarsi delle profferte di
Amore, Cino si rimette al giudizio di Dante per decidere se cedere o
meno alla nuova passione.
Che farò, Dante? ch’Amor pur m’invita,
e d’altra parte il tremor mi disperde
che peggio che lo scur non mi sia [’l] verde.
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Il tono grave dei due poeti, unito alla mancanza di riferimenti all’allon-
tanamento di Cino dalla sua città, potrebbe far datare lo scambio al primo
periodo dell’esilio di Dante, che dopo aver stipulato il patto di San Go-
denzo (1302) e fino al definitivo abbandono degli altri fuoriusciti, in
tempo per evitare la sconfitta della Lastra (1304), viveva di fatto nella
condizione terribile del ribelle che si contrappone alla sua stessa patria.
A dire il vero, i versi 9-10 di Perch’io non truovo («Donna non ci ha
ch’Amor le venga al volto, / né omo ancora che per lui sospiri») vengono
normalmente accostati al quadro descritto in Amor, da che convien pur
ch’io mi doglia, facendo slittare in avanti la data di composizione del so-
netto. Nella ‘montanina’, Dante è circondato da un paesaggio montano e
inospitale, dove manca un pubblico avvezzo alla poesia e all’amore («non
donne qui, non genti accorte», v. 67). Ma, rispetto al sonetto, la condizione
di isolamento del poeta, inevitabile in un scenario alpestre lontano dalla
civiltà, si risolve in maniera affatto differente, poiché nella canzone Dante
riesce a trovare comunque una donna di cui innamorarsi, malgrado il
luogo non sia congeniale. Contini, a sua volta, avanzava l’ipotesi che i
versi 7-8 di Dante, i’ non odo («lo ben sa’ tu che predicava Iddio / e nol
tacea nel regno de’ dimoni») rimandassero al racconto della venuta di Cri-
sto nel Limbo e che quindi diversi canti dell’Inferno fossero stati comple-
tati quando Cino scriveva. Alla stessa conclusione lo portava un passaggio
del sonetto ciniano Dante, i’ ho preso l’abito di doglia, che sollecita il
corrispondente a escogitare un «novo tormento» (v. 12) di cui Cino non
sia stato ancora preda. Il nesso ricorre effettivamente in Inferno VI, 4
(«novi tormenti e novi tormentati»), ma è presente anche in Cavalcanti e
in Dino Frescobaldi.18 Per quanto riguarda la leggenda della discesa di
Cristo all’inferno, essa è narrata nel vangelo apocrifo di Nicodemo, da
cui Cino potrebbe aver tratto spunto, così come più tardi ci avrebbe attinto
Dante per il poema.
La successiva coppia di sonetti, assegnata concordemente all’esilio ci-
niano, seppur con qualche incertezza sulla data precisa, derivante dalla
vecchia questione se Cino fosse di parte bianca o nera, riguarda una con-
sulenza amorosa che Dante è chiamato a fornire. In Dante, quando per
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intendendo che Dante, poiché era stato intrinseco e poi anche estrinseco,
poteva ben capire la sua condizione di vittima delle controversie cittadine.
Ciò che non è subito evidente è perché Cino faccia riferimento a questa
situazione biografica comune e cosa esattamente essa abbia a che fare
con la consulenza richiesta. Come esule, Dante avrebbe potuto compren-
dere la sofferenza di Cino, che era stato separato dall’amata a causa del-
l’odio di parte, e magari suggerirgli di trovare conforto in una nuova
passione.
Leggendola in parallelo all’attacco della risposta dantesca («Io sono
stato con amore insieme»), la locuzione «dentro ed extra» potrebbe valere:
‘fuori e dentro il regno di Amore’. Dante però testimonia di essere stato
innamorato dall’età di nove anni e infatti sarebbe impensabile che una
conversazione tra fedeli d’Amore, il «signore a cui siete voi e io» di Per-
ch’io non truovo, contempli che uno dei due interlocutori possa aver sog-
giornato, anche per breve tempo, fuori dalla giurisdizione del dio. Dante
si rappresenta impegnato nello stesso servizio fino al definitivo congedo
dall’amico, dove le rime d’amore, che egli sta per abbandonare mentre
Cino strenuamente difende, sono ancora e per l’ultima volta «nostre».
Migliore è la parafrasi di Pinto che, interpretando il passo alla luce del
Convivio, su cui i sonetti ciniani della corrispondenza avrebbero sempre
un’intenzione riprensiva, ha pensato di collegare il ‘dentro’ alle passioni
che ricadono nella sfera sensitiva dell’anima, cioè quelle verso persone
ancora vive, mentre il ‘fuori’ a ciò che è al di là di tale facoltà, l’amore per
chi è già morto (cfr. Pinto 2009: 56). In effetti, per Dante la separazione
dalla donna che amava, causata dalla morte, era stata assai più radicale
della lontananza pur gravosissima da Firenze, dovuta all’esilio, ma non
era così per Cino, ai cui occhi le due cose si corrispondevano perfetta-
mente. Pistoia, dove ancora risiedeva Selvaggia, assume nelle sue poesie
alcuni tratti della donna, come l’essere ‘fiera e disdegnosa’, mentre nel la-
mento dell’amante emerge l’imbattibile desiderio di ricongiungersi, in-
sieme all’amata, alla propria città: «che ne vada lo spirito a Pistoia».21
Dante rispose all’appello ciniano, che nelle intenzioni doveva conte-
nere sottointesi filosofici precisi e anche pacatamente saccenti, malgrado
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oggi non siano del tutto perspicui, con il sonetto Io sono stato e l’epistola
Eructuavit incendium. Nella prosa latina, l’ineluttabilità dell’amore sen-
suale è dimostrata attraverso argomenti aristotelici e allegando l’autorità
di Ovidio, prima di sviluppare una breve tornata consolatoria, che racco-
manda ben altre letture, stavolta morali: lo (pseudo) Seneca e il vangelo
di Giovanni. Nei versi, al contrario, Dante si avvale dell’esperienza ma-
turata durante il suo decennale servizio alle dipendenze di Amore.
Io sono stato con Amore insieme
dalla circulazion del sol mia nona,
e so com’egli afrena e come sprona
e come sotto lui si ride e geme.
Chi ragione o virtù contra gli sprieme
fa come que’ che [’n] la tempesta suona
credendo far colà dove si tuona
esser le guerre de’ vapori sceme.
Però nel cerchio della sua palestra
libero albitrio già mai non fu franco,
sì che consiglio invan vi si balestra.
Ben può co· nuovi spron punger lo fianco;
e qual che sia ’l piacer ch’ora n’adestra,
seguitar si convien, se l’altro è stanco.
lio, Dante stava definendo il progetto del Convivio, dove molte parole
sono spese, aggiungendo palinodia a palinodia, per giustificare il tradi-
mento nei confronti di Beatrice e il ritorno sulla scena della donna gentile,
che era stata congedata nel finale della Vita nova, seppur dopo una non
breve esitazione. Dante si preoccupa che le lodi riservate dopo la morte
di Beatrice a un’altra donna possano essere fraintese e ritenute sintomo di
incostanza caratteriale, quindi si appresta a comporre un trattato che possa
riabilitarlo agli occhi dei suoi lettori meno acuti o più malevoli, svelando
il senso allegorico sottostante il filtro lirico del linguaggio amoroso.
Temo la infamia di tanta passione avere seguita, quanta concepe
chi legge le sopra nominate canzoni in me avere segnoreggiata
(Cv. I, II, 16).
Dico che pensai che da molti, di retro da me, forse sarei stato ri-
preso di levezza d’animo, udendo me essere dal primo amore mu-
tato (Cv., III, I, 11).
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L'incipit del sonetto, pur chiaro nel suo senso generale, presenta una
difficoltà sintattica che ne ostacola la perfetta comprensione, facendo sor-
gere il dubbio che il verso 1 sia irrimediabilmente guasto. La determina-
zione retta da «minera» dovrebbe corrispondere a un complemento di
materia, come specifica Pellegrini, del tipo ‘poltrona in pelle’, che non
sembra realizzabile in questa forma nell’italiano del tempo. Da «minera»
dipenderebbero poi due specificazioni consecutive, «in oro» e «di quel
valore cui gentilezza inchina». Per evitare l’eccessivo sbilanciamento del
periodo, Pellegrini leggeva, secondo il codice Veronese Capitolare 445,
‘con quel valor etc.’, spiegando che Cino cercava l’oro guidato dalla sua
nobiltà d’animo (cfr. Pellegrini 1898: 313-319 e 317). Questa possibilità
si esclude facilmente, su basi filologiche (la lezione è meno sicura) e dal
confronto con la risposta di Dante, che afferma di aver trovato, al contrario
di Cino, il minerale in cui una tale virtù si affina. La complicazione sin-
tattica, tuttavia, persiste. Giunta ha notato che «L’una e l’altra difficoltà
[cioè i due problemi appena enunciati: l’anomalo complemento di materia
e l’infelice costrutto del secondo verso] scompaiono se s’intende invece
‘Cercando di trovar tracce di roccia o di metallo vile (minera) dentro l’oro
(in oro)’, con riferimento alla procedura di raffinamento dei metalli pre-
ziosi» (in Alighieri 2011: 506, nota ai vv. 1-2). Gli esempi fatti seguire
dal critico mostrano che il processo era attuato mediante il calore, sfrut-
tando come si fa oggi, benché in modo più primitivo, il differente punto
di liquefazione dei vari metalli. Ma così si risolve un problema per crearne
un altro, come lo stesso Giunta è subito costretto a riconoscere. Non si ca-
pisce in che modo Cino possa imbattersi in una «mala spina» mentre sta
raffinando l’oro attraverso un procedimento quasi alchemico, per cui sono
richiesti particolari strumenti e un forno molto caldo. Peggio, non torna
l’affermazione: «e più per quel ched io non trovo ploro»; perché Cino do-
vrebbe lamentarsi di non aver trovato, secondo l’interpretazione di Giunta,
il metallo vile nell’oro? Vorrebbe dire che l’oro è purissimo e che il poeta
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può sperare di essere corrisposto, in quanto il suo amore ricade nella sfera
della gentilezza, al pari della donna paragonata al prezioso metallo.
Sebbene la problematicità del verso 1 non si possa considerare risolta,
credo che sia l'oro il minerale di cui Cino va alla ricerca, forse applicando
la stessa tecnica utilizzata nell’unico altro sonetto che rappresenti una
scena simile, Io mi son tutto dato a tragger oro, adespoto nei Memoriali
bolognesi, ma attribuito anche a Guinizzelli (Vat. Lat. 3214) e proprio a
Cino (Chig. L VIII 305), dove l’ego loquens perlustra un fiume a caccia
di pepite.23 A questo punto, giova leggere la fronte di Cercando di trovar
alla luce di un passaggio della canzone ciniana in morte di Dante (Su per
la costa, Amor, dell’alto monte, vv. 19-21):
del suo aspetto si copre ognun basso,
sì come ’l duro sasso
si copre d’erba e talora di spini.
Cino è alla ricerca di una pietra d’oro, una pepita, ma quello che trova
è solo un comunissimo sasso, di materia vile, ricoperto per giunta dal con-
trassegno della meschinità: la spina. Similmente, alla morte del sommo
poeta, che si era erto a simbolo di dignità e rettitudine, ogni uomo vile ri-
veste il simulacro della propria viltà, «si copre d’erba e talora di spini».
Anche il significato della seconda terzina è controverso, stavolta per
l’oscurità dei riferimenti, non a causa di un problema sintattico.
Ben poria il mio signore, anzi ch’io moia,
far convertire in oro duro monte,
c’ha fatto già di marmo nascer fonte.
lativa del verso 14, intendendo che la durezza della donna avrebbe pro-
vocato a Cino molti pianti. Respinge infine l’interpretazione concorrente,
proposta da Pellegrini e accettata, seppur con qualche incertezza residua,
da Giunta, che vorrebbe identificare Dio nel dominus a cui Cino si ap-
pella, riportando tutta la situazione al miracolo compiuto da Mosè in Exo-
dus 17, 5-6, dove il profeta colpisce con il bastone una roccia e ne fa
zampillare l’acqua necessaria alla sopravvivenza del suo popolo nel de-
serto. Al contrario di quanto è sembrato fino a oggi, le due interpretazioni
non si escludono a vicenda, anzi soltanto combinandole si può dare una
spiegazione finalmente convincente della terzina.
La fonte, come già aveva notato di sfuggita ma puntualmente Ciccuto,
è proprio il racconto dell’Esodo, però nella rilettura che se ne fa in Psalmi
113, 8-9: «qui convertit petram in stagna aquarum et rupem in fontes
aquarum» (cfr. Ciccuto 2004: 335).24 Attraverso l’esegesi figurale del-
l’episodio mosaico, inaugurata da san Paolo e portata avanti dalla patri-
stica, soprattutto nelle Enarrationes in Psalmos di sant’Agostino, la
liquefazione della pietra è stata interpretata come un’anticipazione sim-
bolica dell’opera di Cristo, che avrebbe reso intellegibili i precetti di Dio
a chiunque avesse voluto ascoltarlo, meglio abbeverarsi direttamente alla
sua parola. Proverbiale divenne anche il parallelo fra la testardaggine del
Faraone che continuava a opporsi alla liberazione degli israeliti e la du-
rezza della pietra da cui il profeta fece sgorgare l’acqua. L’espressione
evangelica di duritia cordis (Mt. 19, 8) si cristallizzò per rappresentare
un animo particolarmente refrattario al verbo divino. Al tempo di Dante,
il processo di pietrificazione, controparte negativa della miracolosa lique-
fazione mosaica, era entrato a pieno titolo nella lirica, come dimostrano
non soltanto le petrose, e specialmente Io son venuto, ma anche le analo-
ghe immagini guinizzelliane e cavalcantiane.25
Cino aveva riposto la sua fede amorosa nell’oggetto sbagliato, in un
sasso privo di ogni gentilezza, che avrebbe mutato la sua natura pronta
all’amore nella stessa insensibilità inespugnabile della donna che non gli
si concedeva. La durezza della donna rende simile a sé l’innamorato, gli
serra l’anima in un processo di impetramento che riduce velocemente
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nella peggiore delle condizioni, una sofferenza a cui non è permesso nep-
pure di sfogarsi col pianto. Il pronome «che» del verso 14 non potrà
quindi riferirsi alla «mala spina», che certo non possiede la capacità vi-
vificante con cui Beatrice spezza le ultime resistenze peccaminose di
Dante («lo gel che m’era intorno al cor ristretto, / spirito e acqua fessi, e
con angoscia / de la bocca e de li occhi uscì del petto»; Pg. XXX, 97-99),
ma la cui durezza semmai blocca Cino in un annientamento senza spe-
ranza. Chi ha consentito al poeta di piangere («ha fatto già di marmo na-
scer fonte») è piuttosto l’invocato «signor», che probabilmente, in un
sonetto dall’atmosfera cortese e rarefatta come questo, deve riconoscersi
ancora in Amore, al quale sono però attribuite delle prerogative divine.
Dopo aver concesso al poeta di non bloccarsi in un amore che l’avrebbe
condotto alla perdizione, sciogliendo la fissità della sua ossessione amo-
rosa nell’acqua delle lacrime, il signore potrebbe, se solo volesse, modi-
ficare anche la marmorea natura della donna, volgendola nell’oro simbolo
della perfetta gentilezza che Cino andava cercando. Si spiega così perché
tutta la terzina conclusiva della risposta dantesca insista proprio sulle la-
crime di Cino, alle quali è negata la buona fede: Dante, che usa i medesimi
processi di pietrificazione e liquefazione di matrice biblica nelle petrose,
coglie subito il nodo critico dell’argomentazione ciniana e lo colpisce di-
rettamente per esautorarlo di ogni legittimità.
Nella sua risposta, Dante riconosce che la capacità poetica di Cino lo
renderebbe degno di essere corrisposto da una donna gentile, ma il suo
cuore volubile, dove i dardi di Amore non hanno mai penetrato in profon-
dità, glielo impedisce.
Degno fa voi trovare ogni tesoro
la voce vostra sì dolce e latina,
ma volgibile cor ve ·n disvicina,
ove stecco d’Amor mai non fé foro.
Io che trafitto sono in ogni poro
del prun che con sospir si medicina,
pur trovo la minera in cui s’affina
quella virtù per cui mi discoloro.
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sura ogni bellezza terrena, anche quella della donna amata che più ne con-
serva l’impronta, suggerisce che la condizione di esule, e con essa l’im-
plicata lontananza dall’oggetto del desiderio, si svincoli dalle circostanze
contingenti e venga trasferita su di un piano del tutto mentale. Le idee di
Bellezza e Perfezione sono contemplate in intellectu, attraversando l’im-
passe dell’immagine custodita nel cuore e ammirata nel ricordo che Cino
derivava dal Notaro. Le parole «essilio», «pellegrino», «lontanato», no-
minate in stretta successione, sembrano illuminarsi di una nuova consa-
pevolezza del destino riservato al genere umano, composto da exules filii
Eva, che vagano gementi e piangenti confidando nella misericordia. Il
tòpos della morte che sdegna l’amante infelice e persino la mossa tipica-
mente ciniana del pianto si caricano di un significato ulteriore.
L’articolazione temporale della vicenda biografica ciniana, scandita
dalla consecutio temporum al passato («Poi ch’i’ fu’[…] fatto […] lonta-
nato, i’ son piangendo gito…sdegnato…ho trovato…dett’ho»), farebbe
pensare che il suo esilio si fosse già definitivamente concluso, fermo re-
stando che la datazione di questo sonetto e della proposta dantesca non
può essere spostata molto oltre il rientro di Cino a Pistoia (aprile 1306),
costituendo un tutt’uno con il precedente scambio. Parrebbe quasi che un
evento traumatico come l’esilio abbia dato origine a una condizione psi-
cologica ormai indipendente dalla causa oggettiva che l'aveva prodotta
all'inizio. Soprattutto la sirma riporta al presente di uno stato esistenziale
perenne e rivendicato nella sua straordinaria peculiarità. Il poeta è sere-
namente sconfortato e ci tiene a rimarcare il suo «fermato disperar», men-
tre in circostanze analoghe le convenzioni avrebbero richiesto piuttosto un
amante fermo nella sua speranza incrollabile.26 Cino potrebbe approfit-
tarne per correggere se stesso e l’ingenua fiducia che aveva dimostrato in
L’alta speranza che mi reca Amore, dove la sua donna insolitamente ben
disposta si ricoverava nelle «braccia di Pietade» (v. 10),27 da cui il poeta
è qui costretto a sciogliersi.
Le precedenti proposte ciniane non si erano risolte nella semplice ri-
chiesta di conforto e consiglio a un amico da parte di un poeta naïf, inca-
pace di non farsi catturare da «ogni uncino», ma avevano tentato di
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NOTE
1
Si muovono in questa direzione gli storici contributi ciniani di De Robertis
e su tutti De Robertis 1950.
2
Infra gli altri difetti del libello 8. Secondo l’autore del sonetto, assegnato
dubitativamente a Cino, Dante avrebbe taciuto la presenza di Onesto bolognese
tra i lussuriosi purganti nella sesta cornice: se la sua paternità fosse confermata,
Cino potrebbe aver voluto alludere a se stesso dietro la maschera dell’altro poeta,
di cui era stato corrispondente. Sui sonetti anti-danteschi attribuiti a Cino, è fon-
damentale la ricostruzione di Rossi 1988.
3
L’uso delle due perifrasi è esaminato da Tavoni in Alighieri 2011: 1289-1290,
nota a Dve I, XIII, 4. A proposito della questione di Lapo contro Lippo, che qui
non è il caso neppure di accennare, la si trova discussa in Gorni 1981a.
4
Tavoni giustamente chiosa: «L’affermazione di Dante, che assertivamente
presenta questo uso terminologico come un dato di fatto, e lo ribadisce al § 4, in
realtà, più che registrarlo, vuole instaurarlo» (Tavoni in Alighieri 2011: 1263,
nota a Dve I, XII, 2).
5
Al di là della breve sintesi proposta, il magistrale Trovato 1987 va riletto in-
teramente.
6
Cino da Pistoia, Degno son io ch’io mora 39-42. Si confronti con gli analoghi
explicit danteschi: «ché bello onor s’acquista in far vendetta» (Così nel mio par-
lar vogli’esser aspro 83) e «camera di perdon savio uom non serra, / ché ’l per-
donare è bel vincer di guerra» (Tre donne intorno al cor mi son venute 106-107).
7
Le somiglianze esistenti tra la poesia di Dino Frescobaldi e quella di Cino
sono evidenziate da De Robertis 1952. A parte Cino, Dino è l’unico stilnovista
che, talvolta seguendo proprio spunti ciniani, arricchisce la tipica eredità dello Stil
nuovo con elementi eterogenei, come le comparazioni ferine (su cui fa il punto
Sala 2006). Invece, per maggiori approfondimenti riguardo il tema del latrocinio
amoroso tra Cino e Dino, mi si permetta di rimandare al mio LIVRAGHI 2013.
8
Si veda Pica 1994: 76.
9
La questione della posizione politica di Cino è stata assai dibattuta in passato,
ma l’intervento di Barbi 1941, che lo considera di parte nera, l’ha sostanzialmente
chiusa.
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Ricevuta la procura a negoziare per conto dei tre marchesi, il 6 ottobre 1306
Dante sottoscrisse la pace di Castelnuovo Magra con il vescovo di Luni, Antonio
di Nuvolone da Camilla. Dell'argomento si è occupata in maniera esaustiva Vec-
chi 2008. Bertin 2005 aveva già valutato la possibilità di attribuire alla mano di
Dante il proemio, o arenga, dell’atto di pace.
11
Cfr., nell’ordine: Carpi 2004 (tutto il capitolo terzo, «Fra Tuscia e Roman-
diola», e particolarmente i paragrafi 1-5, alle pp. 465-622), Fenzi 2009 e Pinto
2009.
12
Oltre che da Dante, infatti, Cino è accusato di volubilità da Cacciamonte (cfr.
Cino da Pistoia 1969: 770-771), Gherarduccio Garisendi (cfr. Cino da Pistoia
1969: 788-789 e 792-793) e Guelfo Taviani (cfr. Cino da Pistoia 1969: 806-807
e 810-811). Giunta (2002: 371-372) ritiene che tali accuse debbano avere un
«fondamento nella realtà» autobiografica di Cino; eppure, ciò che disturbava i
suoi detrattori, e Dante in special modo, credo non fosse il fatto che Cino potesse
essere coinvolto in più relazioni amorose contemporaneamente, ma che volesse
elevare questa condizione biografica a precisa scelta di poetica.
13
Cfr. Barbi-Pernicone in Alighieri 1969: 521, nota al v. 8 e Contini in Ali-
ghieri 1998: 139, nota al v. 8.
14
Lo ha riscontrato Giunta in Alighieri 2011: 442, nota ai vv. 1-2.
Tale è essenzialmente la posizione di Calenda 1995: 117-119, di Gorni
15
1960.
20
Esistono varî studi sulla ripresa e la transcodificazione di questo testo: l’or-
mai classico Balduino 1976, Barsella 2000, Furlan 2000 e Perrus 2000. A questi
93
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si può aggiungere un breve saggio sul riuso trecentesco di Io guardo per li prati,
ovvero Stefanini 1997.
21
Cino da Pistoia, La dolce vista e ’l bel guardo soave, v. 50. Questa tesi è so-
stenuta da Keen 2000.
22
Circa questa celebre ritrattazione, si veda Barolini 1993: 56-76.
23
La correlazione era già stata registrata da Pellegrini 1898: 316, nonché da
Contini (in Alighieri 1998: 198, nota al v. 1), ed è ora riproposta da Giunta (in
Alighieri 2011: 595).
24
Vinciguerra 1999 esamina alla luce della fonte salmistica i processi di pie-
trificazione/liquefazione operanti nella poesia dantesca.
25
«I’ vo come colui ch’è fuor di vita, / che pare, a chi lo sguarda, ch’omo sia
/ fatto di rame o di pietra o di legno» (G. Cavalcanti, Tu m’hai sì piena di dolor
la mente, vv. 9-11); «remagno como statua d’ottono, / ove vita né spirto non ri-
corre, / se non che la figura d’omo rende» (G. Guinizzelli, Lo vostro bel saluto e
’l gentil sguardo, vv. 12-14).
26
«Fermato disperar: the phrase is a paradoxical inversion of the normal ex-
pressions of resolve to hope» (Foster e Boyde in Alighieri 1967: 329, nota ai vv.
9-11).
27
L’edizione di De Robertis permette di evidenziare il parallelo tra i due com-
ponimenti, grazie alla nuova lettura del verso 9, che precedentemente era stam-
pato, con Barbi: «Né dalle prime braccia dispietate» (Alighieri 1969: 641).
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Leyla M. G. LIVRAGHI Dante (e Cino) 1302-1306
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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