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Indice

I nd ic e ............................................. ................................................. 1
1 - L a c h im ic a , l a m ate r i a , l e m i su r e .............. ..................................... 2
2 - Q u a l ch e t a pp a "p re i st o ri c a" e "s t or ic a " d e l l a te o ri a at om ic a ............ 6
3 - L' at om o ........................................ ............................................. 15
4 - R a d i az i o ni e le t tr om a gn et i ch e e a tom i .......................................... 21
5 - Ato m i e m ag n e ti sm o ............................. ...................................... 26
6 - M o d e ll o p e r l' a tom o d i id r og e no .................................................. 28
7 - I n um e ri q u an t ic i .............................. ......................................... 31
8 - G l i o r b it a l i ................................... .............................................. 34
9 - Au fb a u e p e ri o di c it à ........................... ........................................ 38
10 - I l s i st em a p e r io d ico .......................... ....................................... 43
11 - L a r a d io at t iv i tà .............................. .......................................... 48
12 - Le g am i e r e az io n i ............................. ........................................ 58
13 - I l l e g am e io n i co .............................. ......................................... 60
14 - I l l e g am e c ov a le n te ........................... ....................................... 68
15 - G l i o rb i t al i m ol ec o l a ri ....................... ........................................ 80
16 - Su i l eg a mi .................................... ........................................... 84
17 - Le i so me r i e ................................... ........................................... 88
18 - I g a s ......................................... .............................................. 93
19 - Li q u id i e s ol i di .............................. ........................................... 97
20 - L a c in et ic a ch im i c a ........................... ...................................... 10 0
21 - L' e q ui l i br i o c h im ic o .......................... ...................................... 10 9
22 - L a te r mo d in a mi c a d e ll e re az i o n i .............................................. 11 3
23 - L' ac qu a ....................................... .......................................... 11 8
24 - A ci d i e b as i .................................. .......................................... 12 1
25 - E q u il i b ri et e r og e ne i .......................... ...................................... 12 6
26 - Co m e d es c ri v er e un s i st em a .................... ................................ 12 8
27 - L' e l ett r oc h im i ca .............................. ....................................... 12 9
28 - G l i e q ui l i br i t r a l e f a s i ..................... ....................................... 14 1
29 - Le pr o pr i et à c ol l i g at iv e ...................... ..................................... 14 9
30 - G l i e q ui l i br i s ol i do -l i q ui d o .................. .................................... 15 3
31 - I si st e mi te r n a r i ............................. ........................................ 15 8
1 - La chimica, la materia, le misure

Lo scopo delle scienze chimiche è di interpretare e razionalizzare la costituzione, il


comportamento e le proprietà della materia.
Principi, leggi e postulati della chimica sono basati su tre pilastri, costituiti da 3 modelli:

• il modello atomico della materia


• il modello elettronico
• il modello del legame chimico dell'atomo

I "modelli" non sono necessariamente eguali alla realtà, ma cercano di rappresentarla


secondo una logica razionale che, partendo dai dati sperimentali, attraverso conoscenze
matematiche e fisiche, arriva alla definizione del modello.
Un modello è tanto più adeguato alla realtà quanto più giustifica "tutti" i dati sperimentali, ma
può cambiare se subentrano dati nuovi che siano in contrasto con esso; in tal caso non è certo
la realtà che cambia, ma solo il "modello" di realtà che la comunità scientifica, o parte di essa,
ha accettato.
La consapevolezza di ciò è fondamentale perché permette di capire che i modelli che usiamo
sono solo finzioni (benché rigorosamente scientifiche), che vengono considerate valide solo
fino a che non siano in contrasto con nuovi dati che i ricercatori ricavano dallo studio della
realtà; di esempi di cambiamenti, o quantomeno di messa in crisi, di modelli accettati abbonda
tutta la storia delle scienze (da quello del flogisto, distrutto da Lavoisier, a quello attuale della
fusione nucleare, messo in crisi dalla cosiddetta "fusione fredda").

Oggetto di studio della chimica è la materia, che si presenta, all'indagine scientifica "come se"
fosse costituita di atomi.
Il modello accettato attualmente vede la materia costituita da miscugli omogenei ed eterogenei
di individui chimici; questi possono essere sostanze elementari o composti; ambedue le
categorie sono costituite di atomi.
I miscugli, che costituiscono la materia, si presentano in tre stati di aggregazione, solido,
liquido, gassoso; in effetti ne esisterebbe un quarto, lo stato di plasma (stato gassoso ad
altissima temperatura costituito di ioni ed elettroni) che però, date le elevate energie in gioco,
non è generalmente di interesse per il chimico; egli infatti opera a livelli di energia più
moderati, benché possa farne uso in casi particolari.
Una miscela omogenea è un sistema monofasico.
Fase è una parte di un sistema, di composizione chimica determinata, con proprietà fisiche
uniformi, separata da altre parti del sistema da superfici limite fisicamente definite.
Una miscela eterogenea è invece un sistema costituito da più fasi fisicamente distinte tra
loro da superfici limite (chiamate anche "interfaccia" tra le fasi).
Una sostanza pura è un sistema omogeneo o eterogeneo a composizione definita e costante
anche se sottoposto a moderate sollecitazioni esterne; come esempio, l'acqua può presentarsi
come sistema omogeneo (solo fase gassosa o solo liquida o solo solida) oppure come sistema
eterogeneo (fase liquida e fase solida).
Essa può essere una sostanza elementare se è costituita di unità formate solo da atomi della
stessa specie o un composto se le unità sono formate da atomi di due o più specie diverse.
La materia è costituita da circa 90 specie atomiche, ma sistemi diversi presentano
abbondanza relativa diversa di elementi; per esempio, mentre nell'universo si stima che
l'abbondanza di H sia il 71%, di He il 27%, degli elementi da C a Ne 1,2%, di quelli da Na a Ti
0,2% circa, il sistema Terra presenta percentuali di abbondanza relativa molto diverse: O 46;
Si 26; Al 7,5; Fe 4,7; Ca 3,4; Na 2,6; K 2,4; Mg 1,9; Cl 1,9; H 0,9; Ti 0,6.

Le sostanze sono caratterizzate da:


composizione: per le sostanze elementari è data dal tipo di atomo; per i composti dai tipi di
atomi e dal loro rapporto numerico
struttura: cioè dal modo in cui gli atomi sono legati tra loro
stato di aggregazione, cioè dalla consistenza fisica; esso può essere:
- solido: ad una data temperatura, atomi e molecole sono legati da forze sufficienti perché il
moto termico, sempre presente, salvo che allo zero assoluto, non modifichi le mutue posizioni
permanentemente; perciò la forma ed il volume sono praticamente definiti;
- liquido: i legami interatomici e intermolecolari sono allentati, permettendo così una certa
mobilità di atomi e molecole, ma non l'allontanamento definitivo; il volume resta perciò
praticamente definito, mentre non lo è più la forma;
- gassoso: le particelle, avendo una energia termica molto superiore all'energia di interazione
interatomica e intermolecolare, tendono ad allontanarsi l'una dall'altra e praticamente non si
influenzano tra loro; si ha perciò la massima espansione nello spazio disponibile.
Le sostanze possono cambiare di stato di aggregazione senza subire modificazioni nella loro
composizione chimica; usando le lettere iniziali dei tre stati, S, L, G, i processi legati ai
passaggi da uno stato all'altro sono chiamati:

processo passaggio
fusione S→L
sublimazione S→G
solidificazione L→S
evaporazione L →G
condensazione G→L

Caratteristiche come composizione, struttura, stato di aggregazione, sono dette proprietà


intensive, che dipendono dalla natura delle sostanze ma non dalla loro quantità; altre
proprietà intensive sono per esempio la densità, la conducibilità termica o elettrica, il calore
specifico, ecc.

Dalle proprietà intensive è possibile individuare la sostanza, dato che esse sono caratteristiche
della sostanza in questione.
Le proprietà estensive dipendono invece dalla quantità di sostanza (come massa e volume)
e da esse non si può individuare una sostanza.

Per caratterizzare un sistema si effettuano esperienze e misure, sfruttando le proprietà delle


sostanze; esperienze e misure possono essere di tipo fisico, generalmente non distruttive (si
può ripetere l'operazione più volte sulla stessa quantità di materia) oppure di tipo chimico,
generalmente distruttive (di solito comportano modificazioni e distruzione del "campione").

Effettuando una misura si assegna un valore numerico moltiplicato per una unità di misura.
Nel Sistema Internazionale S.I. vengono usate 7 unità base; tutte le altre possono derivare
da queste:

quantità fisica unità S.I. simbolo


lunghezza metro m
massa chilogrammo kg
tempo secondo s
corrente elettrica ampere A
temperatura termodinamica kelvin K
intensità luminosa candela cd
quantità di sostanza mole mol

Fig.1.2 Unità di misura base del Sistema Internazionale

Vengono comunemente usate anche unità derivate dalle unità base:


quantità fisica unità S.I. simbolo definizione S.I.
energia joule J m2 kg s-2
forza newton N m kg s-2
pressione pascal Pa m-1 kg s-2
potenza watt W m2 kg s-3
carica elettrica coulomb C sA
differenza di potenziale volt V m2 kg s-3 A-1
resistenza elettrica ohm W m2 kg s-3 A-2
frequenza hertz Hz s-1

Fig.1.3 Unità di misura derivate dalle unità base del Sistema Internazionale

Spesso occorre usare multipli o sottomultipli delle unità, con ordini di grandezza molto diversi;
piuttosto di usare esponenziali in base dieci, si preferisce aggiungere alle unità dei prefissi che
rappresentano un ordine di grandezza specifico.

ordine di grandezza prefisso simbolo


12
1O tera T
1O9 giga G
1O6 mega M
3
1O chilo k
2
1O etto h
1
1O deca da
1O-1 deci d
1O-2 centi c
-3
1O milli m
-6
1O micro m
-9
1O nano n
1O-12 pico p
-15
1O femto f
-18
1O atto a

Fig.1.4 Multipli e sottomultipli che si utilizzano per le unità di misura, prefissi relativi e simboli.

Per tradizione si usano correntemente anche altre unità di misura, benché le indicazioni degli
organismi internazionali siano quelle di sostituirle con quelle base o derivate, ma le abitudini
sono dure a morire (basti pensare al sistema di misura inglese!).

quantità fisica nome simbolo definizione


lunghezza ångstrom Å 10-10 m = 10-1nm
lunghezza micron mm 10-6 m
volume litro l 10-3 m3 = dm3
massa tonnellata t 103 kg = Mg
forza dine dyn 10-5 N
pressione bar bar 105 Pa
pressione atmosfera atm 101325 Pa
pressione torr Torr 101325/760 Pa
pressione mm Hg convenzionale mm Hg 101325/760 Pa
tempo minuto min 60 s
tempo ora h 60 min = 3600 s
energia caloria termochimica calth 4,184 J
energia erg erg 10-7 J
energia elettronvolt eV 1,60219 x 10-19 J
temperatura grado Celsius °C K

Fig.1.5 Unità di misura di uso tradizionale che non fanno parte del Sistema Internazionale.

***E' molto importante, data la varietà delle unità di misura, far seguire sempre, al valore numerico, l'unità usata o,
meglio, le sue "dimensioni", cioè la sua definizione in termini di unità S.I.; inoltre, quando si effettuano operazioni
matematiche su misure, occorre applicare le stesse operazioni anche sulle unità o sulle loro dimensioni: ciò permette,
fra l'altro, di accorgersi di eventuali errori di impostazione, dato che si otterrebbero, in caso di errore, dimensioni
errate per l'unità di misura.
2 - Qualche tappa "preistorica" e "storica" della teoria atomica

Esaminare la storia della elaborazione di un modello è importante per rendersi conto di come
avvenga lo sviluppo della conoscenza scientifica ed anche per capire che ogni modello non
può essere considerato definitivo e perfetto: lo è solo fino a quando i dati sperimentali
rientrano nel modello disegnato ed accettato; quando essi divergono, occorre modificarlo o,
addirittura, cambiarlo totalmente.

Fig.2.1 Schematizzazione dei processi che portano alla costruzione e al


mantenimento di un modello scientifico.
Lo schema rappresenta una elaborazione delle teorie di Popper:
la realtà (cioè uno o più fenomeni reali), mediante processi di analogia, viene
rappresentata in un modello; questo viene implementato (costruito
razionalmente), generalizzato (anche ad altri fenomeni analoghi) e codificato
(mediante strumenti e conoscenze matematiche viene espresso in modo
"formale"); questa sequenza di processi porta ad una teoria.
Ogni teoria deve essere poi falsificata (messa in crisi con nuove esperienze o
utilizzando nuovi dati sperimentali), particolarizzata (applicata al fenomeno
specifico) ed estesa (ad altri fenomeni). Se questa sequenza regge, il modello
viene mantenuto; se non regge il modello deve essere adeguato (modificandolo)
oppure può essere necessario anche cambiarlo totalmente.

L'esempio della teoria atomica è esemplare ed emblematico, tanto più che copre un arco
temporale enorme, di circa 2500 anni; ma il processo di costruzione di ogni modello ha avuto
traversie simili, seppure in un arco di tempo più ridotto.
Quasi sempre esso è ricostruibile attraverso il pensiero e le opere di grandi personaggi della
storia della scienza. Verranno ricordate solo alcune delle moltissime tappe significative; dei vari
personaggi inoltre verranno menzionate solo le idee che possono riferirsi agli attuali modelli:
ovviamente essi hanno espresso anche idee contrastanti o devianti rispetto ai modelli, ma
sarebbe troppo dispersivo citarle.

Democrito (460-370 a.C.): descrive un primo completo e coerente sistema materialistico:


esistono "atomi" (dal greco a-tomos = indivisibile) immersi in uno spazio vuoto; dal loro
movimento derivano tutte le cose, in modo meccanico e deterministico.

Epicuro (341-270 a.C.): l'universo è eterno ed immutabile ed è costituito da atomi


immutabili; questi sono di infinite forme, pesi e grandezze; gli atomi, cadendo, possono
deviare dalla loro traiettoria, creando eventi imprevedibili (il determinismo non è più rigido).
Nella cultura latina la filosofia epicurea è stata diffusa da Tito Lucrezio Caro, noto
semplicemente come Lucrezio, nello splendido poema "De rerum natura".

***Occorre notare che queste "teorie atomistiche" sono puramente filosofiche, poiché escludono l'esperimento per
confermarle (lo escludono in quanto non lo prendono nemmeno in considerazione: le attività manuali erano
considerate di basso livello, inadatto ai cultori della sapienza, cioè ai "filosofi").

L'atomismo influenzò sempre gli studiosi, ma nel Medio evo fu accettata la teoria aristotelica
dei "principi" (anche Dante la seguì), teoria più coerente con le idee della Chiesa e non "atea" e
"materialistica". Questo fatto ha condizionato pesantemente il progresso delle teorie atomiche
e della scienza in generale.

Fig.2.2 Rappresentazione delle categorie del mondo naturale secondo


Aristotele e delle possibili trasformazioni che in esso avvengono.

Sono rappresentati i quattro elementi di Aristotele: fuoco (IGNIS), aria


(AER), acqua (AQUA), terra (TERRA).
Sono indicati i passaggi da un elemento all'altro per somma (SUMMA) o
perdita (REMISSA) di una delle quattro qualità: caldo (CALIDITAS),
umido (HUMIDITAS), freddo (FRIGIDITAS), secco (SICCITAS).
Inoltre compaiono le combinazioni possibili e impossibili (COMBINATIO
POSSIBILIS, verticali od orizzontali, e IMPOSSIBILIS, diagonali) fra diverse
qualità.
(G.W.Leibniz in Dissertatio de arte combinatoria, 1666)

Pierre Gassendi (1592-1635) fisico e filosofo francese, diffonde la teoria, cercando di


conciliarla con la religione (gli atomi sono creati da Dio); esistono atomi di varie forme, anche
con uncini (concetto di legame); unendosi formano particelle più grandi, "molecole" (il termine
fu codificato solo molto più tardi, ma per molto tempo, fino agli inizi del 1800, si continuò a
usare indifferentemente i termini atomo, elemento, molecola); queste molecole possono
essere così grandi da essere percettibili dall'uomo, magari migliorando l'"enghiscopio",
antenato del microscopio, che lui stesso usava.
Robert Boyle (1627-1691), irlandese: in "The Sceptical Chymist" afferma che le reazioni
avvengono quando atomi con minore "affinità" sono sostituiti da atomi con affinità maggiore;
(in quel periodo erano molto diffuse le "Tabulae affinitatum", nelle quali varie sostanze ed
elementi erano tabulate su colonne; per ogni sostanza veniva messa in sequenza l'affinità, cioè
la capacità di reagire, di varie altre sostanze; esempi di tabulae affinitatum compaiono più
avanti, nelle figure 2.7, 2.9, 2.10); spiega le proprietà con le forme e il movimento dei
corpuscoli; deve però "purgare" la teoria dall'"atomismo" di Epicuro; infatti subì un processo
per eresia in cui dovette abiurare dalla teoria di Epicuro.

Isaac Newton (1642-1727), fisico inglese: i corpi sono formati da particelle primordiali (che
chiama "minima") "tanto dure che non si logorano mai e mai si rompono in frammenti"; "i
corpi composti possono frammentarsi... solo dove queste particelle sono a contatto...";
"l'agganciamento delle particelle è dovuto al fatto che esse si attraggono l'un l'altra con una
forza che è molto grande... quando sono a contatto" (Newton cercò di generalizzare anche al
mondo microscopico le sue teorie sulla gravitazione universale).

Leonhard Euler (1707-1783), matematico svizzero tedesco (anche un matematico,


speculatore astratto, si pone problemi estremamente concreti; sembra un vero "chimico di
laboratorio"): "per la conoscenza degli elementi è necessario... il maggiore numero di
esperienze nelle quali decomporre i corpi fino a ridurli ai loro principi... che potranno venire
considerati elementi...; esistono tanti elementi quanti tipi di atomi esistono..."

Michail V. Lomonosov (1711-1765), russo: "il fondamento di ciò che è proprio ai corpi
naturali va ricercato nelle qualità dei corpuscoli che li compongono e nel modo della loro
reciproca disposizione; un "principio" è formato da corpuscoli eguali, un "corpo misto" è
costituito da due o più diversi principi..."

Bryan e Williams Higgins, fisici inglesi seguaci di Newton dal 1775 al 1995: gli atomi di tutti
gli elementi sono solidi e hanno forma sferica o quasi sferica; gli atomi si attraggono con forze
inversamente proporzionali al quadrato delle distanze (teorie gravitazionali).

*** E' da notare che, finora, nessuno di questi scienziati è stato definito "chimico", dato che allora la chimica moderna
non si poteva considerare ancora nata; i primi pensatori o scienziati erano di formazione "fisici" (che si interessavano
cioè della Natura e delle sue leggi, in greco "fisis" fusis) o medici o matematici.

Fig.2.3 Un ritratto di John Dalton

John Dalton (1766-1844) scienziato inglese, fondatore


dell'atomistica chimica moderna; usando miscele gassose (inizia
con lui quella che viene chiamata "chimica pneumatica", dal
greco "pneuma" pneuma, aria), studia e chiarisce le relazioni
ponderali fra elementi; nel 1801-2 enuncia la "legge delle
pressioni parziali"; afferma, sbagliando (anche gli errori sono
importanti, purché vengano poi riconosciuti!), che il numero di
particelle di vari gas in un dato volume sia diverso; afferma che
è necessario determinare numero e peso di tutti gli elementi,
che gli atomi di elementi diversi sono diversi per qualità e peso
specifico, che atomi di una stessa sostanza sono identici, che
atomi diversi hanno la capacità di combinarsi in rapporti diversi
(giustificando la legge delle "proporzioni multiple"), che gli
atomi sono inalterabili e indivisibili (giustificando la "legge della
conservazione di massa" di Lavoisier), che atomi di sostanze
diverse hanno pesi atomici diversi.

Dalton effettua il primo calcolo del rapporto fra questi pesi e quello dell'atomo di idrogeno,
compilando una prima tabella di pesi atomici, il 6 settembre 1803, tabella affetta da errori
concettuali, ma fondamentale perché la prima che sia stata elaborata (gli errori sono legati alla
convinzione che il numero di particelle di vari gas in un dato volume possa essere diverso;
d'altronde non aveva conoscenza dell'esistenza di molecole biatomiche, perciò interpretò le sue
esperienze sulla base che il gas idrogeno fosse H e non H2)
atomo primario peso atomico note
idrogeno 1 da acqua, come HO
ossigeno 5,66
azoto 4 da ammoniaca ,come NH
carbonio 4,5 da H2CO3, usando 5,66 per O
acqua 6,66 come HO
ammoniaca 5 come NH
ossido nitrico 13,66 come N2O
zolfo 17 da acido solforoso come SO
acido solforoso 22,66 come SO
acido solforico 28,32 come SO2
acido carbonico 15,8 come CO2
ossido di carbonio 10,2 come CO

Fig.2.4 Prima tabella dei pesi atomici elaborata da Dalton (1803).


Egli usò inoltre simboli nuovi per identificare gli atomi, ma anche per alcuni composti, poiché non esistevano ancora
metodi per individuarli come tali, per esempio KOH e NaOH; adottò anche un modello simbolico per mostrare che gli
atomi potevano unirsi in rapporti diversi, pur immaginando "molecole" assolutamente improbabili e, alla luce delle
attuali conoscenze, impossibili.

Fig.2.5 Simboli adottati da


Dalton per identificare
elementi o sostanze e
molecole ipotetiche tra atomi
diversi.
La notazione è mista: per
ogni elemento la base è un
cerchio, ma prevede anche
lettere e simboli grafici
aggiuntivi.
Nella prima riga, da sinistra, i
primi simboli sono O, H, N, C,
S e P.
Il primo della seconda riga è
Hg.
Alcuni simboli corrispondono a
composti, allora ancora non
identificabili come tali, per
esempio KOH e NaOH, ultimi
due della terza riga; barite, il
terzo e MgO, l'ultimo della
quarta riga.
Fig.2.6 Molecole poliatomiche ipotizzate da Dalton espresse con i
simboli della figura 7a.
Nella parte riguardante i composti sono indicati possibili combinazioni
di atomi:
nella prima serie, O con H;
nella seconda O con N;
nella terza O con C ed S;
nella quarta O con P a sinistra e H con N e C a destra;
nella quinta H con S e P a sinistra, S con P a destra.
Molte combinazioni sono assolutamente fantastiche, per esempio OH,
O2H, O3H, O4H o ancora HN e HC, HS e HS2, PS e PS2.
Altre combinazioni rappresentano invece molecole realmente
esistenti, come diversi ossidi di N, di S e di C.

Per capire l'importanza del contributo di Dalton allo sviluppo della moderna chimica, con la sua
innovativa simbologia, basti pensare che, prima di lui, vigeva ancora l'abitudine di tentare di
"comunicare" mediante simbologie che si rifacevano all'alchimia ed all'astrologia, con
descrizioni di processi che sembravano più racconti fantastici che esperienze reali e con simboli
fantasiosi e mitologici, più o meno comprensibili anche per gli "addetti ai lavori".
Fig.2.7 Esempio di "Tabula affinitatum" tra sostanze diverse (E.F.Geoffroy, 1718) di uso comune
ancora alla fine del 1700
Nella riga in alto compaiono simboli di sostanze o elementi; nelle colonne, in corrispondenza ad
ogni singolo elemento o sostanza, l'affinità nei suoi riguardi di altre sostanze o elementi.
Quello che ha la massima affinità si trova nella seconda riga, poi nella terza e così via, fino alla
sostanza o all'elemento che ha la minima affinità fra quelli considerati.
Il concetto usato nella costruzione della tabula era che la sostanza che ha maggiore affinità
sposta quella che ha minore affinità.
La simbologia usata è quella generalmente in uso nell'alchimia (Au = Sole; Ag = Luna; Fe =
Marte; Cu = Venere, etc.)

Per una lettura della tabula, potremmo nominare le colonne secondo le lettere dell'alfabeto, le
righe con i numeri interi cominciando da uno, secondo lo schema:

a b c d e f g h i l m n o p q r
1
2
3
4
5
6
7
8
9

Fig.2.8 Schema per la lettura della Tabula affinitatum.

Così, utilizzando le regole degli scacchi o della "battaglia navale", e tenendo presente che la
riga 1 corrisponde alla sostanza in oggetto, possiamo individuare un riquadro qualsiasi, per
osservare per esempio che:
- per HCl "acido del sale marino", colonna b, la massima affinità è presentata da Sn (b2),
minore da Cu (b4), poi Ag (b5), Hg (b6) e, molto lontano, Au (b9).
- per Na carbonato "sale alcalino fisso", colonna f, la massima affinità è dell'acido solforico
(vitriolico) (f2), poi del nitrico (f3), del cloridrico (f4), dell'acetico (f5, spirito di aceto di vino).
- per Hg, colonna l, teniamo presente che il mercurio fa amalgama soprattutto con i metalli
nobili: primo Au (l2), Ag (l3), Pb (l4), Cu (l5), Zn (l6), Sb (l7).
- per Ag, colonna o, primo Pb (o2), poi Cu (o3), con i quali fa leghe; per il resto non ha affinità
con altro o quasi: infatti è un metallo nobile, inattaccabile normalmente anche dagli acidi.
Addirittura non esiste nemmeno una colonna per Au, essendo praticamente inutile. Si può
tentare facilmente di dare una interpretazione ad altre parti della tabula, alla luce delle
conoscenze attuali, per osservare altre corrispondenze a reazioni note.
E' interessante notare che molti metalli utilizzano simboli astrologici di pianeti, della luna e del
sole: l'oro ha il simbolo del sole (b9), l'argento quello della luna (b5), il ferro quello di Marte
(c2), il rame quello di Venere (b4), il piombo quello di Saturno (c4), lo stagno quello di Giove
(b2), il mercurio quello di...Mercurio (c5).

Fig.2.9 Altro esempio di "Tabula affinitatum", detta anche "Table


de rapports", tratta dalla famosa "Encyclopédie ou Dictionnaire
raisonné des sciences des arts et des métiers" di Diderot e
D'Alembert, edita a Lucca 1758-1776
Il metodo di lettura è lo stesso e uguale è la simbologia.

Fig.2.10 Un altro esempio, molto raffinato dal punto di vista


dell'immagine, è quello a fianco, " Tabula affinitatum inter
differentes substantias", che si trova presso il Museo delle
scienze di Firenze.

Ma si trattava, comunque di simboli convenzionali che solo pochi potevano comprendere.


L'adozione di simboli per comunicare con tutta la comunità degli studiosi è equivalente alla
costruzione di una lingua in una società: non esiste progresso se non esiste comunicazione.
Fig.2.11 Un famoso ritratto di Lavoisier con la moglie, opera di
Jacques-Louis David (ora al Metropolitan Museum of Art di New
York)
Antoine Laurent Lavoisier (1743-1794): chimico francese, fu
ghigliottinato alla fine della Rivoluzione Francese; studia le
reazioni chimiche e formula il principio della conservazione della
massa nelle reazioni chimiche; genialmente riesce a coordinare
in un sistema razionale esperienze e teorie parziali di molti
scienziati europei, creando le basi della "chimica" propriamente
detta; corregge, benché a fatica, data la diffidenza del mondo
scientifico verso i cambiamenti, molti errori concettuali (per
esempio la teoria del flogisto, ancora imperante fra esìmi chimici
anche dopo la sua morte, per esempio Stahl).

Joseph Louis Proust (1754 -1826): formula la legge delle proporzioni definite (per il rapporto
in peso degli elementi costituenti un composto); ciò comporta che esista discontinuità nella
materia: è necessario perciò ipotizzare l'esistenza di "atomi" come costituenti.

Amedeo Avogadro (1776 - 1856) avvocato torinese: deduce, dalle esperienze sui gas di
Joseph Louis Gay-Lussac, chimico francese (combinazioni di sostanze gassose sempre in
rapporti definiti e semplici) e dalle teorie di Dalton che: volumi eguali di gas diversi, nelle
stesse condizioni di pressione e di temperatura, contengono lo stesso numero di particelle,
come aveva già pensato il grande chimico svedese Jacob Berzelius, che però sbagliava in
quanto si riferiva ad atomi e non a molecole; Avogadro infatti ipotizza (1811) che le molecole
di gas usate siano biatomiche (H2, Cl2, HCl...); in particolare lui parla di "molecole integranti" o
"costituenti" (molecole), composte da "molecole elementari" o "parziali" o "semplici" (atomi);
in questo modo l'ipotesi è verificabile. Ma la sua idea non viene accettata dal mondo scientifico.
Fig.2.12 Stanislao Cannizzaro in una
sua foto
Stanislao Cannizzaro (1826 - 1910)
palermitano, seguì studi di medicina,
poiché a Palermo non esisteva altro
insegnamento scientifico; poi ebbe la
possibilità di trasferirsi in Piemonte dove
ebbe una vera formazione chimica;
stabilisce un metodo di deduzione dei
pesi atomici relativi; riesce a convincere
il mondo scientifico della validità
dell'ipotesi di Avogadro e della teoria
atomica al primo congresso
internazionale di chimica a Karlsruhe, in
Germania, nel 1860.
In tale occasione vengono prese anche
altre importanti decisioni, per esempio
sui simboli chimici che saranno
convenzionalmente usati a livello
mondiale, sul concetto di "equivalente",
sui metodi di determinazione dei pesi
atomici, tanto che a quella data si può
far risalire la nascita della chimica
moderna.

Queste sono solo alcune delle tappe nello sviluppo iniziale del modello atomistico; moltissimi
altri scienziati hanno dato il loro contributo nello stesso periodo di tempo considerato e ancora
più negli anni successivi; tutti questi contributi hanno permesso l'elaborazione del modello
attualmente accettato.
3 - L'atomo
Le proprietà degli atomi non coincidono con quelle della materia (che ai nostri sensi si presenta
con stato di aggregazione, durezza, lucentezza, densità, colore, etc.); le proprietà
macroscopiche della materia sono infatti legate alla presenza di un numero molto elevato di
atomi o molecole.
Anche la massa è legata al numero di atomi o molecole, ma questa è una proprietà
estensiva, cioè additiva, perciò comune al micro ed al macroscopico.
E' utile ricordare alcune caratteristiche degli atomi ricordando anche terminologie e simbologie
che vengono convenzionalmente usate e che è necessario conoscere per poter disporre di un
linguaggio comune.

MASSA: è dell'ordine di 10-23 - 10-22 g, ed è praticamente concentrata nel nucleo (cioè circa in
1/1000 del volume totale dell'atomo).

NUMERO ATOMICO Z: rappresenta il numero di protoni nel nucleo; poichè la materia è


neutra, questo corrisponde al numero di elettroni dell'atomo neutro; identifica chimicamente
l'atomo, dato che il comportamento chimico dipende dal numero di elettroni (in particolare da
quelli più esterni).

NUMERO DI MASSA A: è dato dalla somma del numero di protoni Z e del numero di neutroni
N del nucleo.

ISOTOPI: sono atomi chimicamente identici (perciò hanno eguale Z) ma con diverso
numero N di neutroni (A è perciò diverso).

MASSA ATOMICA RELATIVA: è data dal rapporto tra massa atomica assoluta e unità di
massa atomica u.m.a. (per convenzione, u.m.a.= 1/12 della massa atomica di 12C cioè del
carbonio con A=12).

VOLUME ATOMICO: va da circa 0,2 x 10-30 m3 (cioè 0,2 Å3), a circa 80 x 10-30 m3 (cioè 80
Å3); è dovuto agli elettroni in movimento attorno al nucleo a energia minima (un aumento di
energia provoca infatti un'espansione della zona in cui si muovono gli elettroni, perciò del
volume).

ENERGIA E: dipende dalla struttura elettronica; se cambia la struttura elettronica, cambia


anche l'energia (e viceversa). E non è continua ma quantizzata, perciò i trasferimenti
energetici avvengono per "pacchetti di energia" chiamati "fotoni". L'atomo può cambiare la sua
E assorbendo o emettendo radiazioni sotto forma di "fotoni".

FOTONE hn: pacchetto di energia, in cui n rappresenta la frequenza della radiazione.


E = hn
La differenza di E tra due livelli diversi, ∆E, è E2 - E1 = h (n2 - n1); E assorbita o emessa è
proporzionale alla differenza delle frequenze delle radiazioni corrispondenti secondo la costante
di proporzionalità di Planck h = 6,626 x 10-34 J s.

PERIODICITA': gli atomi presentano proprietà chimiche periodiche correlabili con Z, numero
atomico
Z atomo con F con O con H
3 litio LiF Li2O LiH
4 berillio BeF2 BeO BeH2
5 boro BF3 B2O3 BH3
6 carbonio CF4 CO2 CH4
7 azoto NF3 N2O3 NH3
8 ossigeno OF2 O2 OH2
9 fluoro F2 F2O FH
10 neon - - -
11 sodio NaF Na2O NaH
12 magnesio MgF2 MgO MgH2
13 alluminio AlF3 Al2O3 AlH3
14 silicio SiF4 SiO2 SiH4
15 fosforo PF3 P2O3 PH3
16 zolfo SF2 SO2 SH2
17 cloro ClF Cl2O ClH
18 argon - - -
19 potassio KF K2O KH
20 calcio CaF2 CaO CaH2

Fig.3.1 Schema che evidenzia la periodicità di comportamento chimico degli atomi del 2° e 3° gruppo e dei primi del
4°, in funzione del loro numero atomico.

Molte altre proprietà degli atomi presentano periodicità in funzione del numero atomico Z. Per
esempio l'energia E necessaria per strappare un elettrone all'atomo (E di ionizzazione)
cresce al crescere di Z da 3 a 10; poi cade per Z =11 (Na), ricresce fino a Z =18 (Ar); poi cade
ancora per Z =19 (K) e così via

TABELLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI: è uno schema razionale che mette in evidenza la
periodicità delle caratteristiche chimiche; è ordinata in periodi (orizzontali) e in gruppi
(verticali). La prima formulazione coerente con quella attualmente utilizzata, basata sul
numero atomico, fu di Dmitrij Ivanovic Mendeleev (1834-1907) nel 1869, anche se altri
ebbero analoghe (ma meno chiare) intuizioni, come Julius Lothar Meyer (1830-1895) in
base al volume atomico.

CARICHE ELETTRICHE: protone ed elettrone sono particelle cariche elettricamente; la


conferma della loro presenza negli atomi e delle loro caratteristiche è frutto di ricerche
effettuate da molti scienziati; quelli che hanno contribuito maggiormente sono stati Faraday,
Thomson e Millikan.

Michael Faraday
Fig.3.2 Una rara immagine del suo tempo, di Michael Faraday giovane
Michael Faraday (Newington Butts 1791 - Hampton Court 1867), fisico e chimico
britannico è noto per avere scoperto l’induzione elettromagnetica e le leggi
dell’elettrolisi. Compì studi irregolari; nel 1812 frequentò un corso tenuto dal chimico
Humphry Davy, del quale divenne poi assistente presso il laboratorio di chimica della
Royal Institution. Le prime ricerche di Faraday si svolsero nel campo della chimica,
sulle orme di Davy. Uno studio sul cloro condusse alla scoperta di due nuovi cloruri di
carbonio e del benzene. Compì inoltre ricerche sulle proprietà ottiche del vetro e
ottenne sperimentalmente la liquefazione di alcuni gas comuni.
Le ricerche che fecero di Faraday il più insigne scienziato sperimentale dei suoi tempi
ebbero come oggetto l’elettricità e il magnetismo. Nel 1821 riuscì a produrre un
campo magnetico impiegando un conduttore attraversato da corrente elettrica
(l’esistenza del campo magnetico era stata osservata per la prima volta nel 1819 dal
fisico danese Hans Christian Oersted). Nel 1831 fece seguire a questa scoperta quella
dell’induzione elettromagnetica e, nello stesso anno, dimostrò l’interazione tra correnti
elettriche. Nel frattempo studiò i fenomeni dell’elettrolisi e formulò due leggi
fondamentali: le quantità di elettrolita decomposte nell’elettrolisi sono proporzionali
alla quantità di elettricità che ha attraversato la soluzione; per il passaggio di una
stessa quantità di corrente in soluzioni di elettroliti diversi, questi vengono decomposti
in quantità chimicamente equivalenti. Faraday stabilì anche il principio in base al quale
sostanze dielettriche diverse possiedono capacità induttive specifiche diverse.

Nei suoi esperimenti col magnetismo, effettuò due scoperte di grande importanza. La prima fu
quella dell’esistenza del diamagnetismo; la seconda, quella secondo cui un campo magnetico
determina la rotazione del piano della luce polarizzata. Oltre a numerosi saggi destinati a
riviste di carattere scientifico Faraday scrisse: Manipolazione chimica (1827), Ricerche
sperimentali sull’elettricità (1844-1855) e Ricerche sperimentali in chimica e fisica (1859).
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)

Joseph John Thomson


Fig.3.3 Una fotografia di Joseph John Thomson
Joseph John Thomson (Manchester 1856 - Cambridge 1940), fisico britannico, studiò all'Owens
College (oggi parte dell'università di Manchester) e al Trinity College dell'università di
Cambridge. Conseguita la laurea, divenne professore di fisica sperimentale al Cavendish
Laboratory e poi direttore del Trinity College (1918-1940). Fu presidente della Royal Society dal
1915 al 1920.
Nel 1906 ricevette il premio Nobel per la fisica come riconoscimento del suo lavoro sulla
conduzione dell'elettricità attraverso i gas. Nel corso di uno studio dei raggi catodici scoprì
l'elettrone, il principale costituente della materia e ne misurò la carica e la massa. Teorico e
sperimentatore, nel 1898 formulò un modello di atomo, poi abbandonato, secondo cui le
particelle di carica negativa erano immerse in una massa gelatinosa di carica positiva.
Dimostrò che la parte carica negativamente dei raggi catodici è indipendente dalle
caratteristiche chimiche di un gas ionizzato, mentre la parte positiva ne dipende se è soggetta a
una differenza di potenziale; la parte negativa è identificabile negli elettroni (la parte positiva
corriponde a cationi metallici, perciò dipende dalla natura di ogni singolo metallo).
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)

Robert Millikan
Robert Andrews Millikan (Morrison 1868 - San Marino, Pasadena 1953), fisico statunitense,
ottenne risultati fondamentali nell'ambito della fisica atomica. Studiò alla Columbia University e
alle università di Berlino e di Gottinga. Nel 1896 si trasferì all'università di Chicago dove nel
1910 gli venne assegnata la cattedra di fisica. Lasciò l'università nel 1921 per assumere la
direzione del laboratorio di fisica Norman Bridge al California Institute of Technology.
Nel corso dei suoi esperimenti, determinò la carica dell'elettrone e dimostrò che ogni corpo
elettricamente carico trasporta una carica elettrica multipla di tale valore, che pertanto viene
assunto come costante fondamentale.
Questo risultato fu premiato con il premio Nobel per la fisica nel 1923. Di estrema importanza
furono le sue ricerche sui raggi cosmici, ai quali egli attribuì il nome, e sui raggi X, nonché sulla
determinazione sperimentale della costante di Planck. Tra le sue opere si annoverano alcuni
studi tecnici e vari libri sul rapporto tra scienza e religione.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)
La carica elettrica è perciò "quantizzata": esiste cioè una unità elementare di elettricità, che è
la carica dell'elettrone, 1,6 x 10-19C (Coulomb). Da questo dato e dal valore di e/m
(carica/massa), ricaviamo il valore della massa dell'elettrone che vale 9,11 x 10-31 Kg (o
9,11 x 10-28 g).

In queste esperienze di è provato che si possono strappare cariche elettriche negative


(elettroni) agli atomi; ciò comporta una notevole spesa di energia E. Per strappare il primo
elettrone all'atomo neutro occorre una "energia di prima ionizzazione"; l'atomo deve essere
"isolato", perciò si agisce in fase gassosa.

A(gas) → A+(gas) + e-

l'elettrone e- non deve possedere energia cinetica, altrimenti occorrerebbe fornire ulteriore
energia.
E' possibile anche una seconda ionizzazione; l'"energia di seconda ionizzazione" è
quantitativamente sempre maggiore di quella di prima ionizzazione (e, ovviamente, va
aggiunta alla prima), dato che un atomo con carica positiva (catione), generato dalla prima
ionizzazione, esercita una maggiore attrazione sugli elettroni rimanenti.

A+(gas) → A++(gas) + e-

Nei processi di ionizzazione è sempre necessario spendere energia.

Il processo inverso, in cui un atomo accetta un elettrone in più, comporta una energia che si
chiama "affinità elettronica"; nel caso che avvenga questo processo, l'energia in gioco viene
di solito ceduta dall'atomo all'ambiente:
A(gas) + e- → A-(gas)
Può invece essere necessario spendere energia per far accettare, a questo ione negativo, un
ulteriore elettrone, a causa della repulsione elettronica; in tal caso l'energia da spendere sarà
negativa rispetto alla precedente; questo processo può comunque avvenire, benché ci sia una
spesa di energia, se la formazione di un anione con due cariche porta vantaggi energetici al
processo totale (per esempio la formazione di molecole più stabili di quelle ottenibili con un
anione monovalente).

A-(gas) + e- → A--(gas)

L'affinità elettronica è più difficile da misurare rispetto alla energia di ionizzazione; esistono
perciò meno dati sperimentali.

Nella tabella seguente vengono riportati alcuni dati sia per la ionizzazione che per l'affinità
elettronica; da notare:
- la bassa energia di prima ionizzazione per i metalli alcalini (Li, Na, K, Rb, Cs), energia che,
anzi, tende a diminuire al crescere di Z, poiché l'elettrone esterno che viene strappato è più
lontano dal nucleo e perciò meno attratto, oltre che schermato dagli elettroni più interni;
- l'altissima E di seconda ionizzazione per Li (si dovrebbe strappare uno dei due elettroni
rimasti, che subiscono una attrazione elevatissima da parte del nucleo con tre protoni; inoltre
si dovrebbe distruggere una situazione energetica molto stabile, come un guscio completo);
- l'affinità elettronica negativa per O-- e per S--.

I^ ionizzaz. ione II^ionizzaz. ione atomo affinità ione


elettronica
E/10-19 J E/10-19 J E/10-19 J
+
21,8 H - H 1,2 H-
39,2 He+ 87,2 He++ He
+ ++
8,6 Li 121,2 Li Li
+ ++
18,0 C 39,1 C C 1,9 C-
23,3 N+ 47,4 N++ N ?0 N-
+ ++
21,8 O 56,2 O O 2,3 O-
O -10,1 O--
27,9 F+ 56,0 F++ F 5,6 F-
8,2 Na+ Na
S 3,3 S-
S -5,6 S--
20,8 Cl+ Cl 5,9 Cl-
6,2 Cs+ Cs

Fig.3.4 Energie di I e II ionizzazione e affinità elettronica di alcuni atomi significativi; è


evidente la periodicità di comportamento.

E' molto importante non confondere l'affinità elettronica, proprietà di un atomo isolato, con
l'elettronegatività:
ELETTRONEGATIVITA': capacità di un atomo in una molecola di attirare elettroni di un altro
atomo, impegnato in un legame comune; in molecole con atomi diversi, gli elettroni di legame
tendono perciò a creare una situazione asimmetrica sbilanciata verso l'atomo più
elettronegativo. Se la differenza di elettronegatività è molto alta, gli atomi sono praticamente
in forma ionica (il fluoruro di sodio, NaF, è costituito da cationi Na+ e anioni F-).

MASSA DI ATOMI E MOLECOLE: per misurarla si può utilizzare uno spettrometro di


massa, strumento sofisticato che permette di selezionare generalmente ioni positivi (cationi),
generati per ionizzazione di atomi o molecole, in base alla loro massa o meglio rispetto al
rapporto carica/massa e/m (metodo analogo all'esperienza di Thompson); in questo modo è
possibile anche individuare l'esistenza di isotopi (Z eguale, A diverso) e determinarne la
massa; questa differisce sempre di un numero intero, piccolo, di una unità elementare di
massa 1,66 x 10-24g, corrispondente alla massa del neutrone.

Fig.3.5 Schematizzazione di uno spettrometro di massa magnetico


In alto un contenitore che funziona da serbatoio per il campione;
attraverso il dosatore di flusso, piccolissime quantità del
campione (dell'ordine di grandezza del milligrammo) entrano nella
camera di ionizzazione, in cui un fascio elettronico bombarda
le molecole M (o gli atomi) del campione; parte di esse vengono
trasformate in ioni positivi M+, con perdita di un elettrone; gli
elettroni in eccesso o eventuali M- che si siano eventualmente
formati, vengono bloccati su una parete della camera mantenuta a
potenziale positivo; i cationi M+ vengono invece accelerati mediante
una serie di griglie collimanti a potenziali sempre più negativi,
creando così un fascio ionico che entra a sua volta in un campo
magnetico controllabile B; poiché i cationi hanno carica (e) eguale,
ma possono avere massa (m) diversa, compiranno, sotto l'effetto
del campo magnetico, traiettorie a raggio di curvatura diverso in
funzione della loro massa; solo i cationi con massa compresa entro
un intervallo ristretto potranno percorrere, senza urtare le pareti,
tutto il cammino; quelli che riescono a passare, vengono collimati
su una piastra collettrice provocando un segnale, che viene
preamplificato, amplificato, rielaborato e quindi registrato.
Variando perciò il campo, sarà possibile far passare
progressivamente tutti i possibili cationi con massa diversa; lo
spettro rappresenta perciò gli impulsi di tutti cationi secondo una
relazione che lega e/m in funzione del raggio di curvatura R e del
campo magnetico H.
Tutte le particelle non cariche vengono estratte dal sistema di
misura mediante una pompa a vuoto diffusiva, che permette di
raggiungere pressioni dell'ordine di 10-5-10-6mm Hg; questa è una
condizione essenziale per evitare urti con i cationi.

Per misurare le masse, come già detto, si usa una unità di massa atomica, chiamata u.m.a.
o Mu (mass unit) che corrisponde a 1/12 della massa dell'isotopo 12 del carbonio, 12C.
Nella tabella successiva sono riportati i valori, in u.m.a., dei componenti del nucleo (elettrone
e, neutrone n, protone 1H, e di alcuni isotopi; sulla destra invece sono riportati i valori
corrispondenti a miscele naturali degli atomi.

massa in u.m.a. miscela naturale massa in u.m.a.


e 5,485x10-4 C 12,0111
n 1,0086 O 15,9994
1
H 1,0078 F 18,9984
2
H 2,0141 Cl 35,453
4
He 4,0026 Br 79,909
12
C 12,0000 U 238,03
19
F 18,9984 Md [258]*

Fig.3.6 Masse di alcuni componenti degli atomi e di alcuni atomi


espressi in u.m.a. e masse delle miscele naturali di alcuni di essi.

Dalla tabella si possono fare interessanti osservazioni:


- le differenze di massa: per es. 2H < 1H + n; la differenza di massa Dm è dovuta al DE per
la formazione del nucleo, secondo la relazione E = mc2; analogamente accade per 4He < 2
2
H;
- per 12C il valore è esatto, dato che è stato scelto come base per definire l'unità di misura;
- il valore per l'elettrone è molto basso, se rapportato agli altri: ciò comporta che il contributo
degli elettroni alla massa totale di un atomo sia assolutamente trascurabile (circa 5/10.000 per
H, circa 2/10.000 per l'uranio, uno degli atomi a maggiore peso atomico);
- la massa del C nella miscela naturale è diversa da quella di 12C; ciò implica che esistano
anche altri isotopi naturali che contribuiscono alla massa della miscela naturale;
- per il fluoro F invece la massa è identica: esiste infatti solo un isotopo naturale del fluoro, il
19
F;
- per il cloro Cl il valore è circa a metà fra 35 e 36, ma questo non significa che la miscela
naturale sia costituita circa in egual misura da 35Cl e da 36Cl: in effetti, per circa 3/4 si tratta di
35
Cl e per 1/4 di 37Cl;
- per il bromo Br, il cui valore è molto vicino a 80, si potrebbe pensare che si tratti quasi solo
dell'isotopo 80Br: invece la miscela è costituita in parti quasi eguali di 79Br e di 81Br;
- per l'uranio U, sembra che esso sia presente quasi solo come 238U, mentre sono presenti
nella miscela molti altri suoi isotopi;
- il Md (Mendelevio, Z=101) presenta un valore poco preciso, indicato fra parentesi quadre e,
per di più, con un asterisco: ciò significa che non si tratta di un elemento naturale bensì
artificiale e radioattivo; poiché questi atomi artificiali hanno vita breve e ne vengono
prodotte quantità piccolissime, è spesso difficile determinarne le caratteristiche con precisione.
Anche per le molecole come per gli atomi si può definire una massa molecolare misurata
analogamente ed espressa in u.m.a.
***Le masse atomiche e molecolari che usiamo sono masse "relative", essendo espresse
mediante il rapporto tra una massa assoluta e la massa dell'unità di misura e sono perciò
numeri puri.

MOLE: il chimico progetta operazioni per le quali deve misurare quantità di sostanza in base
ad una espressione simbolica che rappresenta la reazione. Poiché non è pensabile che possa
"contare" atomi o molecole, è utile definire una quantità di sostanza proporzionale al numero
di entità (atomi, molecole, ioni...) che la costituiscono; si chiama mole una quantità di
sostanza che contiene tante unità quanti atomi sono contenuti in 0,012 kg (12g) di 12C, cioè
in una mole di isotopo 12 del carbonio, il consueto isotopo di riferimento. Il numero di unità
contenute in una mole si chiama numero o costante di Avogadro (NA o N).

Il suo valore si può ricavare dal rapporto fra 0,012 kg e 12 volte la massa unitaria:

NA = 0,012 / (12 x 1,660531 x 10-27) = 6,022169 x 1023 mol-1

Il chimico usa questa costante non solo per misurare quantità di sostanza, ma anche per
riferirsi a proprietà fisiche o chimiche; perciò normalmente una grandezza viene espressa
rispetto ad una mole anziché ad un singolo atomo o molecola.

Per esempio, l'E di ionizzazione E.I., che per un atomo di H è 21,8 x 10-19 J , viene
generalmente espressa per una mole di H: E.I. = 21,8 x 10-19 J x 6,022 x 1023 mol-1 = 131,28
x 104 J mol-1.
Se si misura il volume di una mole di un elemento solido, questo volume, diviso per NA dà
circa il volume di un atomo di quell'elemento.
4 - Radiazioni elettromagnetiche e atomi
Le radiazioni luminose (sia visibili che non) sono radiazioni elettromagnetiche; sono
caratterizzate da una frequenza n = numero di oscillazioni nell'unità di tempo (espressa
perciò in s-1).
La radiazione si propaga con velocità c che dipende dal mezzo; è massima nel vuoto:
c = 2,997925x10-8 ms-1 (cioè circa 300.000 km/s).

Fig.4.1 Rappresentazione di un'onda elettromagnetica.


La lunghezza d'onda λ di una radiazione è lo spazio
percorso nella direzione di propagazione x in una
oscillazione completa.
A è l'ampiezza, che corrisponde all'intensità della
radiazione.
La lunghezza d'onda è legata alla frequenza ν
attraverso la relazione λ = c/ν, in cui c è la velocità
della luce.

Possiamo rappresentare sinteticamente lo spettro elettromagnetico esprimendo le


lunghezze d'onda λ su una scala esponenziale.

Fig.4.2 Scala esponenziale relativa alle lunghezze d'onda e tipi di radiazioni secondo
l'abituale classificazione usata dai chimici.
La scala è esponenziale poiché i numeri della scala corrispondono agli esponenti in base
dieci che danno l'ordine di grandezza delle lunghezze d'onda.

I tipi di radiazione che interessano di più al chimico sono:

radiazione lunghezza d'onda l


infrarosso (IR) 9 x 10-2 ¸ 8 x 10-5 cm
visibile (Vis) 8 x 10-5 ¸ 4 x 10-5 cm
ultravioletto (UV) 4 x 10-5 ¸ 2 x 10-6 cm

per il settore della strutturistica chimica (indagini roentegenografiche su cristalli), interessano


al chimico anche i raggi X, di energia molto più elevata.

Ogni radiazione è legata ad una energia secondo la relazione E = hν


quantizzata secondo la costante di Planck h (1858-1947; premio Nobel nel 1918) che vale
h = 6,626196 x 10-34 J s
L'interazione luce-materia comporta scambi di E ed avviene per quanti o fotoni, pacchetti di
energia hν

Fig.4.3 Dispersione di luce visibile nelle sue radiazioni componenti


Le radiazioni non monocromatiche (che non sono caratterizzate cioè da una
singola λ) possono venire disperse (o scomposte) nelle λ componenti,
mediante prismi o reticoli.
Lo schema rappresenta la dispersione della luce visibile, da parte di un
prisma, nelle sue radiazioni componenti.
Ovviamente lo schema indica soltanto alcune radiazioni; in effetti la
dispersione dà luogo ad una successione continua di lunghezze d'onda
(come nell'arcobaleno).

Se eccitiamo degli atomi (sono gli elettroni a subire l'eccitazione, passando a livelli più alti di
energia) questi, tornando al loro stato iniziale, emettono radiazioni che possiamo analizzare
con un metodo che le disperda: può essere un prisma (per il visibile), come nello schema
precedente, oppure un appropriato reticolo (per altre radiazioni).

Analizzando lo spettro emesso dall'idrogeno nella zona del visibile, Johann Jacob Balmer
(1825-1898), fisico svizzero, scoprì l'esistenza di una certa regolarità nelle righe dello spettro:

Fig.4.4 Spettro dell'idrogeno nella zona del visibile.


Partendo da destra, la prima riga è molto intensa; la seconda, molto lontana,
è più debole; le altre, successivamente, sempre più vicine l'una all'altra e
sempre più deboli, fino ad un limite (a), vicino al quale le righe sono così fitte
che non si riesce a distinguerle. Oltre il limite non esiste più questa regolarità.

Balmer, cercando di trovare una relazione matematica che legasse le frequenze delle righe
dello spettro, trovò che esse rispettavano rigorosamente la relazione
ν' = R(1/4 - 1/n2) in cui ν ' rappresenta il "numero d'onda" = 1/ λ , cioè il numero di
oscillazioni complete in un centimetro (è detto anche "Kaiser") ed è espresso in cm-1, R è una
costante, molto precisa, detta costante di Rydberg:
R = 109737,31 ± 0,03 cm-1
mentre n può assumere tutti i valori interi a partire da 3: n=3,4,5,6,...

Altri scienziati studiarono altre serie di righe, per l'idrogeno, in altre zone spettrali (cioè ad
altri livelli di eccitazione degli atomi di H); in particolare Lyman nella zona dell'ultravioletto e
gli altri nella zona dell'infrarosso. (Balmer notò questo fenomeno per primo, per il fatto che
lavorava nella zona del visibile, perciò era più facile individuare le radiazioni emesse da H in
quella zona dello spettro).
Tutte queste serie di spettri atomici dell'idrogeno si potevano generalizzare nella relazione:
n' = R (1/n22 - 1/n12)
in cui n sono numeri interi e n1 > n2; R è sempre la stessa costante di Rydberg.
Le varie serie di spettri atomici a righe per l'idrogeno si possono ricavare in base ai parametri
numerici indicati nella tabella seguente, che riporta anche gli studiosi che le hanno individuate
ed elaborate:
n2 n1 serie di:
1 2,3,4,5,... Lyman
2 3,4,5,6,... Balmer
3 4,5,6,7,... Paschen
4 5,6,7,8,... Brackett
5 6,7,8,9,... Pfund

Fig.4.5 Parametri numerici delle serie spettrali e nome


dello scienziato che le ha studiate e identificate.

Questi spettri a righe si ottengono solo per emissione cioè restituzione della energia
quantizzata assorbita, da parte di atomi isolati (perciò allo stato gassoso).
Quando invece si porta all'incandescenza un solido (anziché atomi isolati, che sono perciò in
fase gassosa), si ottiene uno spettro continuo che dipende dalla T a cui si trova il solido.

Fig.4.6 Spettri di emissione nel visibile di


un corpo solido eccitato termicamente.
Riportando in diagramma l'E di emissione
in funzione della l , si ottengono delle curve
a campana asimmetrica, col massimo
sempre più alto (maggiore emissione di
energia) e a valori di l sempre minori (cioè
a frequenza, più alta) mano a mano che
aumenta la temperatura di eccitazione.
Per contestualizzare il fenomeno, basti
pensare alla eccitazione (riscaldamento) di
un pezzo di ferro: questo emette dapprima
radiazioni invisibili (IR), poi sempre più
tendenti verso il rosso, poi al blu, fino ad
arrivare al "calor bianco", cioè verso il
violetto e l'UV, con emissione di luce
sempre più intensa.

Ma come si potrebbe interpretare lo spettro atomico per l'idrogeno? Lo schema può essere
quello seguente:
Fig.4.7 Modello grafico che rappresenta le
transizioni spettrali che danno origine alle serie
di righe spettrali per l'atomo di idrogeno.
La scala a sinistra è una scala di energia, che
viene qui espressa in numero d'onda cm-1, unità
di misura spettroscopica.
I valori di energia per i vari livelli dell'atomo di
idrogeno sono:
n=1 (-109678); n=2 (-27420); n=3 (-12126);
n=4 (-6855); e così via, con valori sempre più
vicini tra loro, fino a n=∞ (0)
Il valore 0 di energia è preso arbitrariamente ed
è relativo alla situazione in cui protone ed
elettrone non interagiscono: si dice che sono "a
distanza infinita", con l'elettrone a energia
cinetica=0.
Tutti gli altri valori sono negativi in quanto
corrispondono ad una situazione di
stabilizzazione, perciò a energia più bassa.
Le freccette rappresentano passaggi da uno
stato a maggiore energia ad uno a minore
energia: in questi passaggi viene emessa una
quantità di energia corrispondente al salto
energetico, sotto forma di una radiazione di
specifica frequenza (o numero d'onda, che è
proporzionale alla frequenza), secondo la
relazione ∆E=hν

Ogni livello energetico, per l'atomo H ha un valore: Ei = -R' x 1/ni2


Un salto energetico tra due livelli diversi sarà perciò:
∆E = E2-E1 = -R' (1/n22 - 1/n12)
ma tenendo presente che il numero d'onda è proporzionale a ν/c, in cui c è la velocità della
luce nel vuoto, si ottiene che il numero d'onda
n' = ∆E/hc = R (1/n22 - 1/n12)
in cui R è la costante di Rydberg R = 109737,31 ± 0,03 cm-1
Lo stato a minima energia è quello a n=1. Quello a energia zero corrisponde a n=∞, cioè quello
in cui l'atomo è ionizzato, ha perso l'elettrone; questo avviene per effetto fotoelettrico:
l'atomo assorbe una radiazione di frequenza sufficientemente elevata (detta frequenza di
soglia) per permettere l'allontanamento dell'elettrone. Se questa energia è la minima
indispensabile, (nel caso di H in situazione n=1, corrisponde al salto energetico da n=1 a n=∞)
l'elettrone è "a distanza infinita" dal nucleo, ma "fermo", cioè con energia cinetica nulla; se
invece l'energia fosse più alta, l'eccesso sarebbe assorbito dall'elettrone come energia cinetica
continua, non più quantizzata.

Anche gli altri atomi danno spettri a righe, ma sono sempre più complessi (e di più difficile
interpretazione) di quello dell'idrogeno; cioè ogni atomo ha dei particolari livelli di energia
discreti (cioè quantizzati).
I metalli alcalini, avendo un solo elettrone esterno, presentano spettri atomici simili a quello di
H (ma con valori energetici diversi); gli alcalino terrosi, con due elettroni esterni, spettri
simili a quello di He.
Ci sono perciò analogie in base agli elettroni esterni: gli spettri atomici hanno un carattere
periodico e permettono di identificare un atomo qualsiasi, per esempio mediante
spettrometria di emissione (analisi delle radiazioni emesse da un corpo eccitato) e
spettrofotometria ad assorbimento atomico (analisi delle radiazioni assorbite da un campione).
Atomi con Z abbastanza elevato possono emettere radiazioni ad alta n (cioè alta E), i raggi X;
essi furono scoperti nel 1885 da Wilhem Conrad Röntgen (1845-1923, premio Nobel nel
1901).

Nel 1912 Henry Gwyn Moseley (1887-1915) scoprì una relazione fra queste emissioni e il
numero atomico degli atomi:
ν = a (Z-b)2
in cui
a = 2,564 x 10-15 sec-1 è una costante ed ha le dimensioni di una frequenza, dato che (Z-b) è
un numero puro
b = 1,425 è una costante e un numero puro
Z = numero atomico
La legge è empirica (cioè non si conosce un vero modello che giustifichi questo
comportamento) ma risulta valida tanto da permettere di correlare con buona precisione Z e n.
5 - Atomi e magnetismo
Gli atomi, sotto l'effetto di un campo magnetico, hanno comportamenti diversi.

Otto Stern (1888-1969, premio Nobel nel 1943) con Gerlach esaminò tale comportamento
quando un fascio di atomi viene fatto passare attraverso un campo magnetico asimmetrico:

Fig.5.1 Passaggio di un fascio di atomi


attraverso un campo magnetico asimmetrico
Quando si fa passare un fascio atomico
attraverso il campo magnetico, si ha talvolta
scissione del fascio in più parti, simmetriche
rispetto alla direzione originaria; questa
scissione può venire rivelata, per esempio,
ricevendo il segnale su una lastra fotografica.

Nel grafico seguente è mostrato il comportamento di alcuni atomi, col loro numero atomico e le
periodicità di comportamento riscontrabili.

Fig.5.2 Comportamento del fascio atomico di alcuni atomi sottoposto ad un


campo magnetico asimmetrico, in funzione del numero atomico.

In alcuni casi il fascio atomico si sdoppia in due raggi simmetrici rispetto al


centro (che costituisce il punto di impatto sulla lastra del fascio non deviato) ed
equivalenti.
In altri casi è insensibile al campo.
In altri casi ancora dà luogo a più raggi (cioè diversamente deviati) e comunque
con segnali sempre simmetrici rispetto al centro.

Questo fenomeno magnetico si può interpretare pensando a correnti elettriche circolari


interne agli atomi; in effetti correnti elettriche circolari sarebbero soggette ad un campo
magnetico e ad esse dovrebbe venire associata una grandezza vettoriale, il momento
magnetico.
Il vettore momento magnetico ha un valore numerico (o scalare), una direzione e un
verso, che dipende dal senso della corrente elettrica.
Fig.5.3 Senso di rotazione dell'elettrone e momento
magnetico conseguente.

I vettori che rappresentano il momento magnetico sono


simboleggiati, per convenzione, dalle freccette che
rappresentano gli spin dell'elettrone.

Poichè le particelle cariche che ruotano (elettroni) hanno una massa, esisterà anche un'altra
grandezza vettoriale associata al moto: il momento angolare.

Dall'esperienza di Stern e Gerlach si nota che il fenomeno, per atomi sensibili al campo
magnetico è quantizzato (l'effetto mostra direzioni molto specifiche dei raggi in cui si
scompone il fascio di atomi e non un effetto continuo): in particolare il momento angolare e il
momento magnetico sono quantizzati come orientazione rispetto ai poli del magnete.
(Ricordiamo ancora che anche l'E è quantizzata).

Vediamo ora quale può essere, alla luce di questa lunga serie di esperienze, di dati
sperimentali e di deduzioni parziali, un modello per un atomo; consideriamo il più semplice,
l'atomo di idrogeno.
6 - Modello per l'atomo di idrogeno
L'atomo di idrogeno, sulla base dei dati sperimentali, possiede:
- un nucleo con una carica positiva e quasi tutta la massa dell'atomo
- un elettrone con una carica negativa e che si muove attorno al nucleo
Nucleo ed elettrone interagiscono elettrostaticamente; l'energia totale Etot del sistema è
costituita da due componenti, energia potenziale Epot ed energia cinetica Ecin

Etot = Epot + Ecin

Epot è l'energia dovuta alla mutua posizione nucleo-elettrone in ogni istante;


Ecin è l'energia dovuta al movimento dell'elettrone.
Etot, in assenza di perturbazioni (dovute ad acquisto o perdita di energia da parte del sistema),
è costante e corrisponde a quella dell'atomo nello stato fondamentale (n=1) a più bassa E.

Fig.6.1 Modello dei livelli energetici


dell'elettrone di un atomo di idrogeno.
Per assorbimento di E quantizzata l'atomo
può passare agli stati eccitati (che hanno cioè
n > 1) ; poi in 10-12 s, per emissione di E
quantizzata, può tornare a n = 1.
Stati stazionari sono il complesso totale di
stati, cioè il fondamentale più quelli eccitati
(cioè, praticamente la loro sommatoria Si ni)
Emax = 0 rappresenta il limite corrispondente
alla ionizzazione: in questa situazione infatti
Epot = 0, (l'elettrone è "infinitamente" lontano
dal nucleo, perciò non esiste alcuna interazione
tra loro)
Ecin = 0 (l'elettrone è "fermo", gli viene cioè
data l'energia per allontanarlo dal nucleo fino a
distanza "infinita", ma nulla di più che gli
permetta di muoversi; questo "di più" sarebbe
energia continua e non più quantizzata).

Nel modello energetico l'energia E viene intesa come negativa, poiché la consideriamo come
una E di stabilizzazione.

Per descrivere il comportamento dell'elettrone attorno all'atomo possono essere utili delle
funzioni matematiche che tengano conto del campo di potenziale in cui si trova l'elettrone; ma
il campo è condizionato dalla posizione istantanea dell'elettrone rispetto al nucleo e questa è
rappresentabile con un sistema di coordinate cartesiane in cui l'origine degli assi coincide con il
centro del nucleo M.
Fig.6.2 Posizione dell'elettrone e rispetto alle tre
coordinate cartesiane la cui origine è costituita dal
nucleo dell'atomo M.

La posizione dell'elettrone, rispetto a questo sistema


di riferimento, è definita, in ogni istante, da una
terna di valori (xi, yi, zi).
Una rappresentazione perfettamente equivalente dal
punto di vista operativo può essere ottenuta anche
mediante coordinate polari.

Fig.6.3 Erwin Schrödinger

Nel 1926 Erwin Schrödinger (1887-1961; premio Nobel nel 1933) sviluppò una equazione
differenziale la cui soluzione è la funzione desiderata, cioè quella che rappresenta la posizione
dell'elettrone rispetto alla sua energia; questa funzione ψ è chiamata funzione d'onda.
L'equazione differenziale é:
in cui: (d2ψ / dx2), (d2ψ/ dy2), (d2ψ / dz2) sono le derivate seconde parziali della funzione
Ψ rispetto alle direzioni x, y e z;
m è la massa dell'elettrone;
E è l'energia totale dell'elettrone (Etot);
V è l'energia potenziale dell'elettrone (Epot);
Ψ è la funzione d'onda
E' evidente che il termine (E-V) rappresenta l'energia cinetica (Ecin)

Sia E sia Ψ sono incognite; trattandosi perciò di una equazione a due incognite, esisteranno
infinite soluzioni dell'equazione: ad un certo valore per l'energia (detto autovalore) Ei,
corrisponderà una certa funzione Ψ i (detta autofunzione).
Potremo perciò conoscere l'energia dell'elettrone in funzione dei suoi spostamenti (in effetti la
cosa è più complessa, ma in prima approssimazione questo può essere sufficiente).

Queste Ψ, per gli atomi, possiamo chiamarle orbitali. Ad ogni stato stazionario corrisponde
una Ψ i e perciò una ben determinata Ei.
Le varie Ψ possono avere, tra l'altro, anche "forme" speciali diverse. Ciò dipende da parametri
che sono chiamati numeri quantici.
7 - I numeri quantici
I numeri quantici sono così chiamati poiché definiscono grandezze atomiche quantizzate, sono
sempre interi (escluso l'ultimo, il momento magnetico di spin) e sono di quattro tipi.

Il numero quantico principale n (enne) riguarda la quantizzazione della energia totale Etot
(corrisponde cioè ai livelli di energia indicati nello schema energetico del modello) e può
assumere i valori n=0,1,2,...

Il numero quantico secondario o azimutale l (elle) è relativo al momento angolare


(corrisponde perciò ad una grandezza vettoriale) e può assumere valori condizionati dal valore
di n: l=0,1,2,...,(n-1)
l indica come si muove l'elettrone; è "come se" esso compisse dei percorsi orbitali ellissoidali.
Per l=0 è "come se" l'elettrone compisse un movimento oscillatorio "attraverso" il nucleo.

Essendo l una grandezza vettoriale, oltre a direzione e verso, essa possiede anche un modulo
b, che assume valori dipendenti da l

Per esempio, per l=2, il modulo b è

A noi chimici interessa molto la "forma" degli orbitali, importanti nella formazione di "legami";
per convenzione identifichiamo la forma degli orbitali, che è definita dal valore di l, usando
termini ricavati dalla terminologia spettroscopica
per l = 0 s (da "sharp")
per l = 1 p (da "principal")
per l = 2 d (da "diffuse")
per l = 3 f

Potremo avere perciò, per esempio, gli orbitali


2p (con n=2 e l=1) 3s (con n=3 e l=0) 5f (con n=5 e l=3)

Il numero quantico magnetico m (emme) è relativo alla quantizzazione "spaziale" del


momento angolare, che può assumere, cioè, solo certe orientazioni rispetto ad una definita
direzione; la direzione viene definita solo in presenza di un campo elettrico o magnetico che
orienti il vettore. Il campo può essere esterno, imposto da noi, oppure dovuto alla vicinanza di
altri atomi o molecole.
Fig.7.1 Orientazioni del vettore
rispetto ad un campo.
I valori possibili rappresentano le
proiezioni del vettore momento
angolare lungo la direzione del
campo magnetico e possono essere
soltanto:
m= -l, -l+1, ...-1, 0, 1, ...l-1, l
Per esempio, per l=2, le possibilità
sono cinque, con orientazioni
corrispondenti a m = -2, -1, 0, +1,
+2.
Le proiezioni lungo la direzione z
potranno assumere perciò i valori:
0 (per m=0) ±h/2π (per
m=±1) ±2 h/2π (per m=±2)

Per capire meglio il significato, ricordare l’esperienza di Stern e Gerlach: un fascio atomico
soggetto ad un campo magnetico può separarsi in fasci con direzioni diverse in funzione del
campo imposto e, ovviamente, della natura dell'atomo.

Ricapitolando, vediamo alcune possibilità di orbitali in funzione dei primi tre numeri quantici, n,
l, m ed il loro simbolo convenzionale.

n l m simbolo: s simbolo: p simbolo: d


1 0 0 1s
2 0 0 2s
2 1 0 2pz
2 1 1 2px
2 1 -1 2py
3 0 0 3s
3 1 0 3pz
3 1 1 3px
3 1 -1 3py
3 2 0 3dz2
3 2 1 3dxz
3 2 -1 3dyz
3 2 2 3dxy
3 2 -2 3dx2-y2
4 0 0 4s
4 1 0 4pz
4 1 1 4px
4 1 -1 4py

Fig.7.2 Simbologia utilizzata per identificare vari tipi di orbitale in


funzione dei numeri quantici.

Per ogni n abbiamo n2 funzioni (1 per n=1; 4 per n=2; 9 per n=3).
Gli orbitali 2p, se l’atomo non è soggetto ad un campo magnetico, sono a uguale energia e si
chiamano degeneri. Analogamente i 3p fra loro, o i 3d o i 4d o i 4f etc.; sono perciò degeneri
orbitali caratterizzati da eguale n ed eguale l, se non orientati da un campo.

Esiste però anche un numero quantico di spin ms, il quarto.


Nell’esperienza di Stern e Gerlach sull’atomo di H, abbiamo visto che il fascio, se sottoposto ad
un campo magnetico asimmetrico, si divide in due fasci di eguale intensità, con direzioni
simmetriche rispetto a quella iniziale. Questo avviene nonostante che H, nello stato
fondamentale (1s), non possa avere momento angolare (infatti, se n=0, l può assumere solo il
valore 0) né, perciò, momento magnetico.
Questo fenomeno si spiega ipotizzando che gli elettroni abbiano loro stessi (indipendentemente
dal loro movimento attorno al nucleo) un momento angolare (e quindi anche magnetico)
diverso da zero: esso si chiama momento angolare di spin: l'elettrone ruota anche su se
stesso (come la terra nella sua rotazione attorno al suo asse); la rotazione può avvenire in due
sensi rispetto ad una direzione prefissata, cioè rispetto ad un campo magnetico.
Anche questo momento è quantizzato ms= ± 1/2
per l'elettrone sono possibili perciò solo due orientazioni:

Anche altre particelle hanno un momento magnetico, i protoni del nucleo, per esempio
(fenomeno sfruttato nella risonanza magnetica nucleare o n.m.r.) ed anche i neutroni.
La tendenza generale delle particelle è di associarsi fra loro con spin antiparalleli: ↑↓
8 - Gli orbitali
Ma che utilità ha per noi la funzione d'onda ψ che è una funzione matematica?
Immaginiamo che l'elettrone sia rappresentabile da una carica elettrica dispersa nello spazio:
allora, per ogni punto identificato dalle coordinate (x,y,z), il valore ψ2 è proporzionale alla
densità di carica in quel punto; oppure, preso un volume dt piccolo a piacere, ψ2dt
rappresenta una misura della probabilità di trovare l'elettrone in quel volume dt.
Per ottenere la probabilità di trovare l'elettrone in una certa regione dello spazio occorre
calcolare l'integrale ∫ ψ2dt esteso a tutta la regione che interessa.

Chiameremo così "orbitale" una regione dello spazio delimitata da una superficie a uguale
ψ2 e, al cui interno, la probabilità di trovare l'elettrone sia, per esempio, 90% (se volessimo
100% dovremmo considerare "tutto" lo spazio).
Questa "definizione" sarà da noi usata per rappresentare graficamente gli orbitali; ψ
rappresenta perciò, per noi, soprattutto una funzione di probabilità.

L'orbitale 1s è così rappresentabile come una sfera che contiene il 90% di carica elettronica. Il
2s è simile all'1s ma di dimensioni maggiori. Al crescere di n, numero quantico principale,
crescono le dimensioni.

All'aumentare di n aumenta E degli orbitali, finché per n=∞, E=0; l'elettrone non è più
legato al nucleo e la sua energia non è più quantizzata ma continua.

l, numero quantico secondario, indica la forma degli orbitali, mentre m, numero quantico
magnetico, caratterizza le orientazioni.

Vediamo qualche raffigurazione di orbitali, rappresentati come sezioni della superficie di


contorno a ψ2 costante.

Fig.8.1 Orbitali di tipo s


rispetto alle coordinate
cartesiane.
Tutti gli orbitali di tipo s
hanno simmetria sferica e
la loro funzione d'onda è
sempre positiva; per
ottenere la forma
tridimensionale
dell'orbitale basta
pensare ad una rotazione
di 180° attorno ad un
asse qualsiasi.
Le dimensioni aumentano
all'aumentare del numero
quantico n.
Fig.8.2 Orbitali di tipo p rispetto alle coordinate cartesiane.
La simmetria è assiale; ogni orbitale p ha un piano nodale (in cui la funzione ψ si annulla, dato che
cambia di segno e perciò anche ψ2 assume il valore zero) perpendicolare al suo asse. L'orbitale
tridimensionale si può generare per rotazione attorno al suo asse di simmetria. Anche nel caso degli
orbitali p le dimensioni aumentano all'aumentare del numero quantico n.

Fig.8.3 Tre orbitali di tipo d, simili tra loro, rispetto alle coordinate cartesiane.
Ognuno di questi orbitali d ha due piani nodali: per il dyz, per esempio, sono i due piani xy e xz.

Fig.8.4 Gli altri due orbitali di tipo d rispetto alle coordinate cartesiane.
Il primo a sinistra ha 2 piani nodali, perpendicolari a quello del disegno e che comprendono le bisettrici
degli assi x y; il secondo una superficie nodale conica con il vertice all'incrocio degli assi cartesiani, dato
che la parte di orbitale che giace sul piano xy ha struttura toroidale, con asse di simmetria z.
Negli orbitali f, che non vengono rappresentati perché piuttosto complessi (hanno
generalmente 8 lobi), esistono tre piani nodali o superfici nodali complicate, rappresentate da
funzioni matematiche di terzo grado; ciò è legato al valore del numero quantico l= 3, come
per l=2 c'erano 2 piani nodali e superfici coniche (perciò di secondo grado).

Che significato hanno queste rappresentazioni grafiche degli orbitali? Esse indicano la
superficie che racchiude una regione di spazio entro cui abbiamo una certa probabilità (il
90% o altro valore inferiore a 100) di trovare l'elettrone; i disegni rappresentano ovviamente
sezioni di queste regioni di spazio.

Esistono anche altri tipi di rappresentazione. Vediamone alcune per uno stesso orbitale, per
esempio un 2pz:

Fig.8.5 Vari tipi di rappresentazione degli orbitali, legati al loro campo di


utilizzo. Gli esempi sono relativi a un orbitale pz sul piano xz (l'immagine
tridimensionale si ottiene per rotazione attorno all'asse z).

a) rappresenta un diagramma polare di ampiezza


b) rappresenta un diagramma polare di probabilità (o di densità)
c) rappresenta una mappa di probabilità

In a) la lunghezza del raggio vettore nella direzione definita da J è proporzionale al valore di y,


in quella direzione; dà luogo a un lobo positivo e un lobo negativo, però non dice come varia
l'ampiezza rispetto alla distanza dal nucleo.
In b) la lunghezza del raggio vettore è proporzionale a y2 nella direzione del vettore, sempre a
distanza fissa dal nucleo. Anche questo non ci dice come varia y2 al variare della distanza. I
lobi sono positivi poiché si tratta di y2 (infatti non esiste probabilità negativa) e sono regioni di
densità elettronica.
In c) le curve (simili a isobare metereologiche o a curve di livello, isoipse) corrispondono alla
probabilità di trovare l'elettrone nella zona ottenuta per rotazione attorno all'asse z, del 60%,
del 70%, dell'80%, del 90%. Una variante di questa è il diagramma punteggiato.

Comunque noi li rappresentiamo, gli orbitali hanno il carattere di artifici matematici più che
di entità fisiche, ma ogni rappresentazione può avere un significato ed una utilità diversa.

Il termine "orbitale" è stato introdotto nel 1932 da Robert Mulliken (nato nel 1896; premio
Nobel nel 1966) come abbreviazione di "One-electron Orbital Wave Function".
Ma perché "one-electron", monoelettronica?
Perché ψ x,y,z dipende dalle coordinate di un solo elettrone: la descrizione infatti è rigorosa solo
per atomi con un solo elettrone (come H o He+); per gli altri atomi è una approssimazione (che
si può comunque considerare generalmente valida), poiché si trascura la repulsione tra gli
elettroni.
Occorre ricordare poi che la scelta della terna di assi è arbitraria, in assenza di campi; perciò la
simmetria di densità elettronica in un atomo isolato appare sempre sferica, qualunque siano gli
orbitali occupati degli atomi.

Abbiamo parlato di orbitali e non di "orbite"; ma la prima trattazione organica teorica


dell'atomo di H è stata fatta sulla base delle orbite da Niels Bohr (1881-1962; premio Nobel
nel 1992), che nel 1912 considerò l'atomo di H come un modello planetario, introducendo la
quantizzazione (come dato sperimentale): nel suo modello l'elettrone percorre orbite circolari;
ipotizzò la quantizzazione del momento angolare dell'elettrone e l'assorbimento e
l'emissione di energia solo nel passaggio fra gli stati quantici.

Arnold Sommerfeld (1868-1951) generalizzò tale modello introducendo orbite ellittiche oltre
a quelle circolari.
Questo modello poteva far pensare che fosse possibile determinare con esattezza, in ogni
momento, la posizione dell'elettrone.

Werner Heisenberg (1901-1976; premio Nobel nel 1932), collaboratore di Bohr, nel 1925
formulò il principio di indeterminazione (o di incertezza), che rivoluzionò questo modo di
pensare: il prodotto degli errori nella determinazione contemporanea della quantità di moto e
della posizione di un corpo in movimento è almeno eguale ad h/2π.
Ciò vale per molte coppie di grandezze fisiche, per esempio per la posizione e la velocità di una
particella lungo la direzione x: ∆x.∆px ≥ h/2π

Risulta così impossibile "seguire" il percorso dell'elettrone; è invece possibile determinare la


probabilità di trovare l'elettrone in uno spazio definito.
9 - Aufbau e periodicità
Il termine aufbau significa, in tedesco, "costruzione" e rappresenta, per noi, la costruzione
della configurazione elettronica degli atomi.

Per atomi polielettronici è estremamente difficile risolvere con esattezza l'equazione d'onda;
una soluzione approssimata indica che gli orbitali sono "simili" a quelli monoelettronici di H.
Perciò continueremo a chiamarli 1s, 2s, 2p, 3d, etc.., benché questi siano stati calcolati in
particolare per H.
L'energia dipende dal numero quantico n, ma anche da l, poiché in funzione di l aumenta la
repulsione elettronica. La disposizione degli elettroni negli orbitali di un atomo neutro, al livello
minimo di E è la configurazione elettronica dello stato fondamentale. Per ottenere
questa configurazione si seguono tre criteri operativi o principi:

il Principio di minima energia: ogni elettrone occupa l'orbitale disponibile a energia più
bassa.

il Principio di Pauli (Wolfang Pauli, 1900-1958; premio Nobel nel 1945): in un atomo non
possono esistere 2 elettroni con i 4 numeri quantici eguali; perciò, nello stesso orbitale,
possono esserci 2 soli elettroni purché con ms, momento di spin, diverso; gli spin dei due
elettroni devono essere perciò antiparalleli, dato che, essendo nello stesso orbitale, gli elettroni
hanno gli altri 3 numeri quantici n, l, m, eguali.

la Regola di Hund o della massima molteplicità: se due o più elettroni occupano orbitali
degeneri (cioè a eguale energia), gli elettroni occupano il maggior numero possibile di questi
orbitali, e a spin paralleli .

Fig.9.1 Schema energetico per i vari tipi di


orbitali, distinti in s, p, d, f, al variare del numero
quantico n; ad ogni n corrisponde un guscio o
shell.
Seguendo le regole su indicate, e conoscendo la
sequenza di energia per gli orbitali, indicata in
figura, si può sapere, per ogni atomo, quali sono
quelli occupati e si può procedere all'aufbau, cioè
al riempimento progressivo degli orbitali con gli
elettroni.
n definisce il cosiddetto "guscio", o "shell"; così,
per esempio, per n=1 avremo il guscio K, per n=2
L, per n=3 M, etc.
Entro un guscio, orbitali con l più alta sono a E più
alta, sempre a causa delle interazioni elettroniche.
m (momento angolare) e ms (momento di spin),
nella Aufbau, non hanno influenza sull'energia
degli orbitali, poichè indicano solo l'orientazione
della corrente elettronica sotto l'effetto di un
campo, che quando si parla di atomi isolati, non
c'è.

Per H (che ha Z=1), n=1, l=0: la configurazione elettronica potrà venire indicata con 1s
oppure, sinteticamente, con 1s1.

Per He (Z=2), n=1, l=0, occorre applicare il principio di Pauli: poiché due numeri quantici sono
eguali, occorre che almeno uno degli altri due sia diverso perché il secondo elettrone possa
stare col primo; poiché è l=0, è anche m=0; resta solo ms: è necessario che se un elettrone
ha ms = +1/2, l'altro abbia ms = -1/2. Devono perciò essere antiparalleli: la configurazione
verrà indicata con 1s↓ o, sinteticamente, con 1s2.
N.B. E' chiaro, quando scrivo 1s2, che i due elettroni che si trovano nell'orbitale 1s devono
essere obbligatoriamente a spin antiparalleli per il principio di Pauli; perciò scrivo
semplicemente il loro numero; analogamente, quando scriverò 2p3 è implicito che i tre
elettroni occupino ognuno un orbitale p e che siano tutti e tre a spin parallelo, per il principio di
Hund. Questo è un esempio della complessa significatività delle simbologie che usa il chimico e
della necessità di possedere profondi requisiti di conoscenza per poter comprendere il
significato profondo dei simboli usati.

Nella figura successiva sono indicate alcune rappresentazioni equivalenti della configurazione
elettronica di alcuni atomi (da Z=3, Li, a Z=13, Al)

Fig.9.2 Configurazione elettronica del guscio esterno degli atomi


con numero atomico da 3 a 13 e vari tipi di notazione usati per
rappresentarla.
Nella prima colonna sono indicati i numeri atomici Z.
Nella seconda, la configurazione elettronica secondo Lewis:
sui quattro lati del simbolo sono evidenziati i doppietti e gli
elettroni spaiati (del guscio esterno).
Nella terza, una rappresentazione che dà il guscio (shell) già
completato, come (He) o (Ne), seguito dal nome degli orbitali
disponibili ed occupati; quando il guscio è completato (solo per s
e p), cambia il simbolo del gas nobile corrispondente; sono
evidenziati anche gli spin accoppiati nel caso di doppietti o, nel
caso di elettroni spaiati, gli spin paralleli degli elettroni che
occupano orbitali degeneri diversi, secondo la regola di Hund. In
una analoga rappresentazione (He) è sostituito dal nome del
guscio, K; (Ne) da KL (sono completi ambedue i gusci) etc.
Nella quarta una rappresentazione completa della configurazione,
che non evidenzia però se gli elettroni si trovano nello stesso
orbitale o in orbitali degeneri diversi; ricordando però la regola di
Hund, è ovvio, per esempio, che N ha tre elettroni 2p a spin
paralleli e in tre orbitali degeneri diversi; l'esponente dei vari tipi
di orbitali degeneri indica il numero di elettroni che li occupa.

La situazione del Li (come poi quella del Na), è simile a quella di H, come già avevamo visto
nell'esperienza di Stern e di Gerlach; l'effetto del magnete avviene solo sull'elettrone
spaiato ns1 (infatti He, con 2 elettroni antiparalleli, è magneticamente inerte).
Anche gli spettri per altri atomi hanno analogie, ma, al crescere di Z, diventano sempre più
complessi.
Finora, nell'aufbau, abbiamo esaminato solo gli orbitali fino al 3p. Infatti, nella tabella dell'E
degli orbitali, la sequenza è: 1s, 2s, 3p, 3s, 3p.

A questo punto, proseguendo il riempimento, poiché i 3d sono a energia leggermente superiore


ai 4s, riempiremo prima i 4s e poi i 3d, anche se fanno parte del "guscio" inferiore.

Fig.9.3 Configurazione elettronica degli atomi con


numero atomico da 19 a 30.
K e Ca hanno rispettivamente 1 e 2 elettroni nel
4s.
Poi, con lo scandio Sc, iniziano a riempirsi i 3d (3d1
4s2).
Seguono titanio Ti e vanadio V (3d2 4s2; 3d3 4s2).
Ma quando si arriva a Cr, che dovrebbe avere la
configurazione 3d4 4s2, si nota un'anomalia: la
configurazione è 3d5 4s1.
Questo avviene perché la configurazione elettronica
che comporta una serie completa di orbitali
degeneri completamente piena o piena a metà (cioè
con un elettrone in ogni orbitale) è
energeticamente favorita, tanto da utilizzare uno
degli elettroni 4s per completare il quintetto.
La stessa cosa avviene con Cu, che si trova con
tutti i 3d completi, utilizzando 1 elettrone 4s
(configurazione 3d10 4s1). Avremo perciò due atomi
con 5 elettroni 3d, Cr e Mn, e due atomi con 10
elettroni 3d, Cu e Zn.
Cr e Cu, avendo un solo elettrone s, avranno perciò
comportamento chimico diverso (diverse valenze)
rispetto ad altri atomi con Z vicino al loro.
L'aufbau è sempre condizionata dalla sequenza energetica degli orbitali disponibili.

Solo dopo aver completato i 3d e i 4s si inizieranno a riempire i 4p, ad energia maggiore (Ga,
Ge, As). Analogamente succede quando c'è da riempire, per esempio, i 4d e i 5s, o i 4f e,
addirittura, i 6s, etc.

Quando Z è molto alto, la differenza di energia fra i vari tipi di orbitali diventa ancora minore, e
potremo avere delle sequenze di configurazione piuttosto strane.

Fig.9.4 Configurazione elettronica degli atomi


transuranici.
Gli orbitali 6d vengono utilizzati infatti saltuariamente;
dopo l'inserimento dei 2 elettroni 7s, (che avviene col
radio Ra) gli elettroni successivi vanno nei 5f o nei 6d a
seconda della stabilizzazione che è possibile ottenere.
Così potremo avere in sequenza 6d2 7s2 (per il torio Th)
e 5f2 6d1 7s2 (per il protoattinio Pa).
E ancora 5f4 6d1 7s2 (per il neptunio Np), 5f6 7s2 (per il
plutonio Pu), 5f7 7s2 (per l'americio Am) e 5f7 6d1 7s2
(per il curio Cm).
Anche qui due configurazioni successive hanno tutti gli
orbitali degeneri con un solo elettrone, cioè pieni a
metà: Am e Cm. (Ricordare che gli orbitali f sono 7!).
(Rn) sta per la configurazione elettronica del radon Rn,
ultimo dei gas nobili, con Z=86; la configurazione
elettronica completa del Rn è la seguente:
1s22s22p63s23p63d104s24p64d104f145s25p65d106s26p6
è chiara l'utilità di usare il simbolo anziché la notazione
completa.

Eseguendo queste operazioni di aufbau si possono notare alcune caratteristiche comuni ad


alcuni atomi ed evidenziare una periodicità nelle configurazioni elettroniche degli atomi.
Per esempio, alcuni atomi hanno il guscio corrispondente completo e, dal punto di vista
chimico-fisico, sono tutti gas monoatomici a temperatura e pressione ambiente, sono molto
stabili chimicamente (questa mancanza di reattività ha reso molto difficile la loro scoperta),
hanno energia di ionizzazione alta e affinità elettronica quasi nulla. (Il termine "chimicamente",
per la stabilità, è stato usato poiché, in effetti, Rn lo è dal punto di vista della reattività
chimica, ma non lo è dal punto di vista nucleare: infatti è radioattivo).
Sono stati perciò chiamati "gas nobili".
l'elio He (Z=2) ha guscio K completo
il neon Ne (Z=10) ha anche il guscio L completo
l'argon Ar (Z=18) ha anche il guscio M completo
il kripton Kr (Z=36) ha anche il guscio N completo
lo xenon Xe (Z=54) ha anche il guscio O completo
il radon Rn (Z=86) ha anche il guscio P completo

Gli atomi che li seguono (litio Li con 2s1, sodio Na con 3s1, potassio K con 4s1, rubidio Rb con
5s1, cesio Cs con 6s1, francio Fr con 7s1) hanno ognuno 1 elettrone nell'orbitale s del guscio
superiore, ed hanno anch'essi caratteristiche molto simili tra loro: analogo comportamento
chimico, analogo comportamento nell'esperienza di Stern e Gerlach, hanno energia di
ionizzazione molto bassa e affinità elettroniche paragonabili tra loro... Sono stati chiamati
"metalli alcalini".

Analogamente a questi, si possono riconoscere altre "classi" o famiglie di atomi, che sono dette
"gruppi", come:
i "metalli alcalino-terrosi" (berillio Be, magnesio Mg, calcio Ca, bario Ba, stronzio Sr, radio
Ra) con configurazione degli elettroni esterni ns2
o gli "alogeni" (fluoro F, cloro Cl, bromo Br, iodio I, astato At), con configurazione degli
elettroni esterni ns2 np5

Le caratteristiche chimiche indicano che gli atomi tendono, formando legami con altri, ad
assumere la configurazione elettronica del gas nobile che li precede o che li segue (poiché,
come sappiamo, è una configurazione molto stabile): il comportamento chimico dipende perciò
dal numero di elettroni esterni.
Così ogni atomo avrà la tendenza a legarsi con altri atomi secondo rapporti precisi
(stechiometrici), che sono definiti come valenza dell'atomo.
Per esempio, con H: LiH (litio idruro), BeH2 (berillio idruro), BH3 (boro idruro), CH4 (metano),
NH3 (ammoniaca), H2O (acqua), HF (acido fluoridrico).
Analoghe sequenze si possono riscontrare al crescere di Z e in composti con altri atomi oltre
che con H.
Poiché H può perdere o acquistare un solo elettrone il numero di H legati ad ogni atomo è una
"valenza" di quell'atomo. Notare che in ogni composto i due atomi componenti assumono
formalmente la configurazione di un gas nobile (regola dell'ottetto): He oppure protone
"nudo" per H, He o Ne per gli altri.

In base a queste osservazioni sulla periodicità delle caratteristiche elettroniche, chimiche


(reattività), fisiche (per esempio stato di aggregazione), chimico-fisiche, si è cercato di
organizzare gli elementi in un "sistema periodico", in cui gli elementi a configurazione
elettronica simile siano allineati su colonne dette "gruppi", mentre le sequenze legate
all'aufbau, cioè al riempimento dei vari gusci, sono detti "periodi".
Molti studiosi hanno cercato di farlo, per esempio: A.E.B. de Chancourtois (elica telluriana),
J. W. Döbereiner (sistema delle triadi), J.A.R. Newlands (legge delle ottave).
Julius Lothar Meyer (1830-1895) ne evidenziò la periodicità in base al volume atomico, ma il
merito di aver strutturato uno schema razionale, portando l'elaborazione alle estreme
conseguenze (per esempio la previsione di elementi ancora sconosciuti), spetta a Dmitrij
Ivanoviç Mendeleev (1834-1907)

Fig.9.5 Dmitrij Ivanovich


Mendeleev in una sua foto
Egli presentò un lavoro come
Faraday Lecture: "The
periodical law of the chemical
elements" nel 1889.
La sua tesi fu completamente
accettata quando, nel giro di
pochi anni, furono scoperti e
identificati alcuni elementi, di
cui egli aveva ipotizzato non
solo l'esistenza ma anche le
proprietà in base alla
periodicità, e che
corrispondevano perfettamente
alle sue previsioni, cioè:
il gallio Ga scoperto da
P.E.Lecoq de Boisbaudran
1875
lo scandio Sc scoperto da
L.F.Nilson 1879
il germanio Ge scoperto da
C.Winkler 1885

Mendeleev aveva infatti previsto l'esistenza del Ga (da lui chiamato ekaalluminio), dello Sc
(ekaboro), del Ge (ekasilicio), in cui aveva utilizzato la radice sanscrita "eka" (che significa
"uno"), dato che questi elementi venivano subito sotto, nella sua tavola periodica, di Al, B, Si.
I nomi attuali sono stati dati in onore degli stati da cui provenivano gli scopritori, Francia
(Gallio), Svezia (Scandio), Germania (Germanio).
Nella sua ipotesi mancava il gruppo dei gas nobili (o gruppo zero), che, date le difficoltà di
individuazione legate alla loro mancanza di reattività chimica, furono scoperti solo molto più
tardi, ad opera di altri scienziati (H.P.J.Thomsen, W.Ramsay, A.Errera); questa scoperta
risolse un grosso problema di collocazione degli atomi nella tabella.
La tavola originale è riportata in fig.9.6 e risale al 1871, ma la prima stesura autografa, anche
se meno completa, è del 17 febbraio 1869.
L'organizzazione della tavola è basata su una sequenza di pesi atomici, non di numeri atomici
(le conoscenze del tempo non permettevano di ipotizzarli), come quella che usiamo
attualmente.
Quello riportato è uno schema ridotto; ma si possono notare gli atomi di cui egli aveva previsto
non solo l'esistenza (indicata con il segno -) ma anche proprietà e peso atomico; le proprietà
sono individuate dai gruppi (GRUPPA); inoltre aveva suddiviso, anche se non in modo
corretto, gli atomi in periodi (PERHOD).

Fig.9.6 Prima stesura organizzata della Tavola di Mendeleev (1869-71)


Nei riquadri rossi le posizioni dei previsti ekaboro (peso atomico 44), ekaalluminio (68) ed ekasilicio
(72).
Gli atomi corrispondenti, scoperti successivamente, sono:
scandio Sc (massa atomica corretta 44,96),
gallio Ga (69,72),
germanio Ge (72,61).
Nel riquadro verde l'atomo previsto con peso 100, corrispondente al tecnezio Tc (98), artificiale e
radioattivo, individuato solo molto dopo.

Ci sono alcune incongruenze, per esempio per quanto riguarda la composizione dei periodi, la
mancanza delle serie di transizione, del gruppo dei gas nobili etc. Ma sostanzialmente questo
documento costituisce la base di costruzione delle attuali tabelle periodiche degli elementi, che
superano ormai Z=106.
Potremmo ragionevolmente dire che l'intuizione di Mendeleev rappresenti, nella sua
complessità di significati e nella sua razionalità, l'essenza stessa della chimica moderna.
10 - Il sistema periodico
Nel corso degli anni la "tavola" di Mendeleev è stata modificata e completata; si è giunti ad una
sua interpretazione più completa e corretta: le proprietà degli elementi sono funzioni
periodiche dei numeri atomici (anziché dei pesi atomici).
Si è data una struttura più razionale, basata sull'aufbau, che dà un'idea più immediata delle
caratteristiche periodiche. Questa forma si chiama "allungata" (rispetto a quella primitiva,
dato che sono state introdotte le serie di riempimento degli orbitali d, cioè le serie di
transizione e quelle di riempimento degli orbitali f.
Per ragioni grafiche rappresenteremo la tavola in forma "corta", con il riempimento degli
orbitali s e p (fig.10.1); in basso avremo poi le serie di transizione col riempimento degli
orbitali d (fig.10.2) ancora più in basso le serie dei lantanidi e degli attinidi, corrispondenti al
riempimento degli orbitali f (fig.10.3).
Entro i riquadri compaiono il simbolo dell'atomo e il suo Z, numero atomico. Nella prima riga
della fig.10.1 sono indicati i numeri corrispondenti ai gruppi secondo la nomenclatura
tradizionale, che, tra l'altro, indicano anche il numero di elettroni esterni, cioè quelli degli
orbitali s e p. Gli atomi della terza colonna (senza numero) sono i primi delle serie di
transizione (Sc, Y) che sono rappresentate in fig.10.2 e delle serie dei lantanidi (La) e degli
attinidi (Ac) che sono rappresentate in fig.10.3.

I II * III IV V VI VII O

H He
* * * * * * *
1 2
Li Be B C N O F Ne
*
3 4 5 6 7 8 9 10
Na Mg Al Si P S Cl Ar
*
11 12 13 14 15 16 17 18
K Ca Sc Ga Ge As Se Br Kr
19 20 21 31 32 33 34 35 36
Rb Sr Y In Sn Sb Te I Xe
37 38 39 49 50 51 52 53 54
Cs Ba La Tl Pb Bi Po At Rn
55 56 57 81 82 83 84 85 86
Fr Ra Ac - - -
* * *
87 88 89 104 105 106

Fig.10.1 Tavola periodica "corta" degli elementi.

I gruppi (colonne verticali) I e II corrispondono al riempimento dei relativi orbitali s; i


seguenti, dal III allo 0, al riempimento degli orbitali p. La riga che inizia con H corrisponde al
primo periodo (guscio n=1), quella che inizia con Li al secondo (guscio n=2), con Na al terzo
(guscio n=3), K al quarto (guscio n=4), etc. Gli elementi della terza colonna (tra II e III) non
subiscono riempimento di orbitali s o p, ma danno inizio a serie di transizione per riempimento
di orbitali d o alle serie di lantanidi e attinidi, con riempimento degli f.

Sc 21 Ti 22 V 23 Cr 24 Mn 25 Fe 26 Co 27 Ni 28 Cu 29 Zn 30
Y 39 Zr 40 Nb 41 Mo 42 Tc 43 Ru 44 Rh 45 Pd 46 Ag 47 Cd 48
La 57 Ce 58 Hf 72 Ta 73 W 74 Re 75 Os 76 Ir 77 Pt 78 Au 79 Hg 80

Fig.10.2 Serie di transizione per il riempimento degli orbitali 3d, 4d, 5d.

Ogni serie comprende 10 elementi, poiché gli orbitali nd disponibili sono sempre 5; nella
seconda colonna, in basso, compare Ce 58, che corrisponde all'inizio della serie dei lantanidi,
con riempimento degli orbitali 4f, mostrata, assieme alla serie degli attinidi, nella figura
successiva.

Ce Pr Nd Pm Sm Eu Gd Tb Dy Ho Er Tm Yb Lu
58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71
Th Pa U Np Pu Am Cm Bk Cf Es Fm Md No Lw
90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103
Fig.10.3 Serie dei lantanidi e degli attinidi, con riempimento degli orbitali 4f e 5f
Ogni serie comprende 14 atomi poiché gli orbitali nf disponibili sono sempre 7.

Secondo la notazione tradizionale i gruppi hanno un nome, che non è sempre eguale, dato che
varie scuole nazionali spesso invertono i numeri o scambiano le lettere; fino a non molti anni fa
si usava codificare i gruppi nel modo seguente, fonte però di equivoci (blocco s indica il
riempimento degli orbitali s, p dei p, ecc.):
Blocco s: elementi dei gruppi I A e II A
Blocco p: elementi dei gruppi III A, IV A, V A, VIA, VII A e O
Blocco d: elementi di transizione; i gruppi, in sequenza, erano: III B, IV B, V B, VI B, VII
B, poi una triade che costituiva il gruppo VIII, poi ancora I B, II B. Le triadi VIII erano, per il
3d Fe, Co, Ni; per il 4d Ru, Rh, Pd; per il 5d Os, Ir, Pt.
Blocco f: elementi lantanoidi (4f) e attinoidi (5f)
Proprio per evitare equivoci, lo IUPAC, organismo della American Chemical Society che si
preoccupa di normalizzare, tra l'altro, la nomenclatura chimica inorganica, così da permettere
una migliore comunicazione, ha deciso, nel 1983, di identificare i gruppi con numero
progressivo da 1 a 18: così IA e IIA diventano 1 e 2; III B, IV B, V B, VI B, VII B, VIII, I B e II
B vanno da 3 a 12; III A, IV A, V A, VI A, VII A e 0 da 13 a 18. La corrispondenza della
nomenclatura dei gruppi sarebbe così la seguente:

IA II A III B IV B V B VI B VII B VIII VIII VIII I B II B III A IV A V A VI A VII A O

1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18

Fig.10.4 Corrispondenza della vecchia nomenclatura dei gruppi con la nuova nomenclatura IUPAC (in basso).

In Fig.10.1, dopo gli attinidi, sono indicati i numeri atomici degli ultimi elementi artificiali
ottenuti, 104, 105, 106: sono senza nome. Infatti per alcuni la loro scoperta è rivendicata sia
dai russi, che chiamarono Kurciatovio il 104, sia dagli americani che chiamarono Rutherfordio il
104 e Hahnio il 105. Ancora la IUPAC, per evitare equivoci (e inutili discussioni), ha proposto,
per gli elementi con Z>103, una nomenclatura razionale in cui il simbolo ed il nome
identifichino il numero Z; unendo frammenti che rappresentano ognuno una cifra, più il suffisso
"ium", si costruiscono i nomi, mentre il simbolo è costituito dalle iniziali dei frammenti che
sono: per 0, nil (dal latino nihil);1, un; 4, quad; 5, pent; 6, hex; 7 sept; 8, oct; 9, enn.
Così i nomi razionali sarebbero (prevedendo anche ulteriori elementi artificiali)

Z simbolo nome
104 Unq Un nil quad ium
105 Unp Un nil pent ium
106 Unh Un nil hex ium
107 Uns Un nil sept ium
108 Uno Un nil oct ium
109 Une Un nil enn ium
110 Uun Un un nil ium

Fig.10.5 Nomenclatura razionale proposta per gli atomi con Z>100

Per evidenziare la periodicità delle caratteristiche degli atomi, e la correttezza, in questo senso,
della tavola periodica, può essere utile, sfruttando lo stesso schema, vedere come varino
alcune grandezze chimiche o chimico fisiche al variare di Z e come esse presentino una
spiccata periodicità di comportamento.
Poiché questa periodicità è più evidente nella tavola "corta", (all'interno delle serie di
riempimento degli orbitali d o f, trattandosi di orbitali di gusci più interni, le grandezze variano
molto poco o per nulla), presenteremo i dati relativi solo agli elementi degli ex gruppi A e dello
0 (secondo la nomenclatura IUPAC, i gruppi corrispondenti ai numeri indicati nella prima riga).
Per esempio:

1 2 13 14 15 16 17 18
H - - - - - - He
25 -
Li Be B C N O F Ne
145 105 85 70 65 60 50 -
Na Mg Al Si P S Cl Ar
180 150 125 110 100 100 100 -
K Ca Ga Ge As Se Br Kr
220 180 130 125 115 115 115 -
Rb Sr In Sn Sb Te I Xe
235 200 155 145 145 140 140 -
Cs Ba Tl Pb Bi Po At Rn
260 215 190 180 160 190 - -
Fr Ra - - - - - -
- 215

Fig.10.6 Tabella dei raggi atomici secondo Slater.

In figura 10.6 sono riportati i raggi atomici, espressi in pm = 10-12 m. I raggi sono stati
ricavati da Slater in base alle distanze interatomiche in molecole in cui sono coinvolti i vari
atomi, dato che è praticamente impossibile determinare i raggi atomici di atomi isolati: ciò è
sottolineato anche dal fatto che non esistono dati sui gas nobili, data la loro mancanza di
reattività; in effetti si potrebbe estrapolarne i valori in base alla sequenza dei dati degli atomi
che li precedono, ma non si tratterebbe, se così si facesse, di dati sperimentali, bensì di
illazioni.
In ogni colonna i raggi aumentano al crescere di Z perché con Z aumenta il numero
quantico n e perciò le dimensioni degli orbitali. Lungo una riga invece diminuiscono, poiché
aumenta la carica nucleare che attrae gli elettroni; quando però si passa ad una riga
successiva, il raggio aumenta e la variazione segue poi lo stesso andamento: è evidente che
questa sequenza è periodica.

1 2 13 14 15 16 17 18
H - - - - - - He
2,21 -
Li Be B C N O F Ne
0,97 1,47 2,01 2,50 3,07 3,50 4,10 -
Na Mg Al Si P S Cl Ar
1,01 1,23 1,47 1,74 2,06 2,44 2,83 -
K Ca Ga Ge As Se Br Kr
0,91 1,04 1,82 2,02 2,20 2,48 2,74 -
Rb Sr In Sn Sb Te I Xe
0,89 0,99 1,49 1,72 1,82 2,01 2,21 -
Cs Ba Tl Pb Bi Po At Rn
0,86 0,97 1,44 1,55 1,67 1,76 1,90 -
Fr Ra - - - - - -
0,86 0,97
Fig.10.7 Valori di elettronegatività secondo le misure di Allred-Rochow.
In figura 10.7 sono riportati, con la stessa modalità, i valori di elettronegatività secondo
Allred-Rochow; anche in questo caso mancano dati per i gas nobili, dato che
l'elettronegatività riguarda la forza di attrazione di un atomo verso elettroni di valenza, cioè
impegnati in un legame in cui è coinvolto l'atomo, e i gas nobili, normalmente, non formano
legami con altri atomi.
Si può notare che l'elettronegatività aumenta da sinistra verso destra; quando si passa al
periodo successivo il valore di elettronegatività crolla e poi ricresce, periodicamente.
Nell'ambito dei gruppi essa diminuisce al crescere di Z, poiché il nucleo esercita una forza di
attrazione sugli elettroni esterni sempre minore, dato che la distanza nucleo-elettrone esterno
aumenta ed inoltre aumenta anche la schermatura S. L'atomo più elettronegativo è F, i meno
elettronegativi Fr e Cs. Quanto più è alta la differenza di elettronegatività fra due atomi, tanto
maggiori sono le caratteristiche di ionicità del legame tra i due.

L'elettronegatività, forza F esercitata dal nucleo sugli elettroni di valenza, è definita dalla
relazione:
F = Z*/r2 = Z S/r2
in cui:
Z* = carica nucleare efficace = Z S
Z = carica nucleare totale (cioè il numero atomico, corripondente al numero di protoni del
nucleo)
S = costante di schermo elettronico (dovuto agli elettroni sottostanti a quelli di valenza)
r = raggio covalente espresso in Å (10-8 cm = 10-10 m)

Come per queste grandezze relative agli atomi, sarebbe possibile individuare la periodicità di
molte altre; ciò dimostra la validità della tavola periodica a questi effetti.
L'esame delle caratteristiche periodiche è stata estremamente utile nella scoperta e
individuazione di nuovi atomi ancora sconosciuti. Attualmente, in base a questo modello,
possiamo essere sicuri che non esiste alcun atomo sconosciuto, se non con Z superiore a
tutti quelli noti, naturali ed artificiali. Se così non fosse, e se ne scoprisse uno nuovo,
imprevisto, il modello cadrebbe o dovrebbe essere modificato.

Resta ancora in uso una tradizionale classificazione degli elementi in metalli e non-metalli. In
breve, sono chiamati:
metalli gli elementi con un numero di elettroni esterni basso, minore o, talvolta, eguale a
quello degli orbitali esterni s e p, e con energia di ionizzazione bassa. Perciò gli elementi di
transizione, i lantanoidi e gli attinoidi, avendo 1 o 2 elettroni s, sono considerati metalli. Il
carattere metallico aumenta scendendo lungo ogni gruppo (infatti diminuisce l'energia di
ionizzazione);
non-metalli: gli elementi con numero di elettroni esterni maggiore del numero di orbitali
esterni s e p e con energia di ionizzazione alta.
semimetalli: elementi che possono comportarsi da metalli o da non-metalli in situazioni
particolari; sono quelli di confine tra i due tipi.

1 2 13 14 15 16 17 18
H - - - - - - He
Li Be B C N O F Ne
Na Mg Al Si P S Cl Ar
K Ca Ga Ge As Se Br Kr
Rb Sr In Sn Sb Te I X
Cs Ba Tl Pb Bi Po* At* Rn*
Fr* Ra* - - - - - -
Fig.10.8 Tabella dei metalli, semimetalli e non-metalli.
Gli elementi con asterisco sono artificiali e radioattivi.

C e Si (IV gruppo) non sono metalli, ma poiché il carattere metallico aumenta scendendo lungo
un gruppo, lo sono Sn, Pb; nel gruppo di N, solo Bi è abbastanza metallico. Nella tabella, a
sinistra i metalli, scritti in blu, a destra i non-metalli, scritti in bordeaux. Gli elementi al
confine sono semi-metalli, avendo caratteristiche chimiche metalliche o non-metalliche in
funzione dell'ambiente chimico in cui si trovano e sono indicati nelle caselle in azzurro.
Oltre a quelli presenti in fig.10.8 (Po*, At*, Rn*, Fr*, Ra*) nella tabella completa compaiono
altri atomi col simbolo asteriscato che, per convenzione, indica che essi sono radioattivi, come i
due artificiali Tc* (Tecnezio, seconda serie di transizione, Z=43) e Pm* (Promezio, serie dei
lantanoidi, Z=61).

Abbiamo visto alcuni esempi di periodicità di grandezze chimico-fisiche, che possono venire
convenientemente schematizzati in una unica tavola periodica degli elementi. Così potremmo,
analogamente, rappresentare variazioni di affinità elettronica, di raggio ionico, di volume
atomico, di stati di ossidazione (perciò di "valenza"), di proprietà elettriche, di proprietà
strutturali, etc., in funzione del numero atomico degli elementi: potremmo constatare una
periodicità per ognuna di queste grandezze.
Il modello che abbiamo utilizzato (e costruito) è un modello per noi valido. Ora, notando
l'asterisco *, faremo una digressione che riguarda i nuclei degli elementi, considerando la
radioattività.
11 - La radioattività
Normalmente il chimico si interessa degli elettroni, che caratterizzano la reattività di un
elemento e non del nucleo atomico; ma molto spesso anche il chimico deve utilizzare,
preparare e manipolare materiali radioattivi; è perciò necessario trattare, almeno fino a un
certo livello, la radioattività. Per far questo occorre prendere in considerazione il nucleo
dell'atomo.

Abbiamo visto che nella tavola periodica compaiono anche elementi "artificiali"; altri
elementi sono "instabili".
Lo studio delle caratteristiche di questi elementi particolari è conseguente alla scoperta dei
raggi X (Roentgen, 1895).
In questo settore, negli ultimi 100 anni, chimici e fisici hanno saputo:
- ottenere elementi non isolati in natura (ma di cui si potevano prevedere esistenza e
caratteristiche in base alla periodicità);
- individuare, nel comportamento di alcuni elementi instabili, una caratteristica, la
radioattività, che dipende specificamente da alcune proprietà dei nuclei atomici.

Un modello del nucleo è stato proposto (anche se molto semplificato) nel 1911 da Ernest
Rutheford, analogo al modello attuale: il nucleo è di volume molto piccolo (rispetto a quello
dell'atomo), concentra in sé quasi tutta la massa dell'atomo, è dotato di carica positiva.

Vediamo le prime tappe della scoperta e dello studio dei nuclei atomici:

Henry Becquerel (1852-1908; premio Nobel nel 1903), fisico francese, scoprì che una lastra
fotografica anneriva a contatto con sali di uranio U; questo avvenne durante le sue ricerche
sulla fluorescenza (24-2-1896).

Marya Sklodowska (1867-1934; premio Nobel nel 1903 e nel 1911), chimica polacca, (che
sposò poi Pierre Curie, un fisico francese che collaborò poi con lei) durante ricerche sulla
piezoelettricità dell'uranio, ne individuò la capacità di emettere radiazioni; scoprì la
radioattività (termine da lei inventato) del torio Th; lavorando su tonnellate di pechblenda,
un minerale di uranio, riuscì a isolare e caratterizzare il polonio Po (Z=84) e il radio Ra
(Z=88) ambedue molto più radioattivi dell'uranio; fu la prima a rendersi conto che la
radioattività comporta anche la trasformazione di un elemento in un altro.

André Louis Debierne, chimico francese scoprì nel 1899, nella pechblenda, l'attinio Ac
(Z=89).

Friedrich Ernst Dorn, fisico tedesco, nel 1900 scoprì, nei prodotti di decadimento del radio
Ra, un gas radioattivo, il radon Rn (Z=86); altri ricercatori, fra cui il tedesco Otto Hahn, nel
1917, il protoattinio Pa (Z=91).

Fig.11.1 Ernest Rutherford in una sua


fotografia

Ernest Rutherford (1871-1937; premio


Nobel nel 1909) studiò la diffrazione di
particelle a emesse per radioattività e le
individuò come He2+, cioè come nuclei di
elio; riuscì a calcolare il diametro dei
nuclei: 10-12-10-13 cm, contro 10-8 cm
circa per il diametro degli atomi (da ciò si
può dedurre l'enorme densità del nucleo,
circa 1011 Kg/cm3 cioè 100.000 Ton/mm3!).

James Chadwick (1891-1974; premio Nobel nel 1935) scoprì nel 1932 che si potevano
ottenere ioni H+ (protoni) p per bombardamento a di certi materiali: riscontrò che la carica
positiva del protone ha lo stesso valore di quella negativa dell'elettrone. Scoprì anche che, per
bombardamento a di elementi leggeri (B, Be) si ottenevano particelle senza carica e di massa
circa eguale a 1 u.m.a., che furono chiamate neutroni n. Dedusse perciò che protoni e
neutroni fossero costituenti del nucleo.

Le particelle costituenti il nucleo, in particolare neutroni e protoni, sono chiamate in generale


nucleoni; i nucleoni possono essere soggetti a mutue relazioni:

Fig.11.2 Schema che rappresenta il bombardamento di un atomo con una


particella α e la relazione tra neutrone n, elettrone e, protone p.
Nello schema, una particella α bombarda un atomo; ciò può provocare l'emissione
di un protone p o di un neutrone n; il neutrone è relativamente instabile e può
scindersi in un elettrone e più un protone p.
Il numero intero in alto a sinistra della particella (o del simbolo dell'atomo)
rappresenta il numero di massa della particella, quello in basso a sinistra la sua
carica elettrica (nel caso di atomi, il suo numero atomico Z, corrispondente al
numero di protoni, perciò al numero di cariche elettriche positive del nucleo).
In una reazione nucleare la somma dei numeri di massa nel primo membro
dell'equazione deve essere eguale a quella dei numeri nel secondo membro;
analogamente, la somma algebrica delle cariche nel primo membro dell'equazione
deve essere eguale a quella delle cariche nel secondo membro.

Sappiamo che ogni atomo è caratterizzato dal numero atomico Z, che rappresenta il numero
di protoni nel nucleo (uguale al numero degli elettroni dell'atomo neutro) e dal numero di
massa A che rappresenta il numero di nucleoni (protoni e neutroni) del nucleo. E' sempre A ≥
Z

Molti elementi hanno massa atomica (da non confondere col numero di massa!) non sempre
vicina all'unità (per esempio Cl 35.45; H 1.008; Ni 58.71...). Ciò è dovuto alla possibilità di
esistenza di nuclei con eguale Z (perciò chimicamente eguali) e diverso A (perciò con diverso
numero di neutroni nel nucleo).
Questi nuclidi di uno stesso elemento si chiamano isotopi.
I nuclidi sono i tipi di nuclei che prendiamo in considerazione: potremo distinguerli secondo
diverse tipologie:
isotopi (dal greco iso-topos = eguale posto, nella tavola periodica, dato che si tratta di atomi
con lo stesso nome), con eguale Z ed A diverso (per esempio 11H, 21H; oppure 126C, 136C) ,
che per noi chimici sono i più importanti
isobari: (dal greco iso-baros = con lo stesso peso), con Z diverso, (perciò chimicamente
diversi) ed A uguale (4018Ar, 4019K, 4020Ca)
isotoni: (con lo stesso numero di neutroni), cioè con A-Z uguale (per esempio 21H, 32He)
Nella figura sono riportati, in funzione di Z e di A, tutti i nuclidi stabili, cioè tutti quelli
riscontrati in natura; mancano perciò quelli artificiali e quelli radioattivi; in particolare si può
notare la mancanza di Z=43 (tecnezio Tc) e di Z=61 (promezio Pm), artificiali, benché a Z
relativamente basso (ma dispari per ambedue). Il grafico si ferma a Z=83 (bismuto Bi), poiché
tutti i nuclidi con Z>83 sono instabili e radioattivi, e molti di essi artificiali.
Fig.11.3 Tabella dei nuclidi naturali stabili
(non radioattivi).
Z = numero atomico = numero di
protoni nel nucleo;
A = numero di massa = numero di
protoni + numero di neutroni nel nucleo;
A-Z = Z rappresenta il luogo dei punti
corrispondenti ad A = 2 Z, cioè a nuclidi in
cui il numero dei neutroni è eguale a
quello dei protoni.
La zona racchiusa tra le curve che
comprendono tutti i nuclidi stabili
rappresenta la cosiddetta fascia di
stabilità: fuori di essa nessun nuclide può
essere stabile e dovrebbe decadere
(modificarsi) in qualche modo, così da
rientrare, in uno o più stadi, nella fascia di
stabilità (è una condizione necessaria ma
non sufficiente: qualche nuclide
all'interno della fascia potrebbe comunque
non essere stabile).
Tutti i nuclidi che si trovano su una
verticale sono isotopi (Z costante), cioè
hanno lo stesso nome, lo stesso
comportamento chimico, ma diversa
massa.
Tutti i nuclidi che si trovano sulla stessa
orizzontale sono isobari (A costante),
cioè diverso nome, diverso
comportamento chimico ma massa
eguale.
E' interessante notare che solo gli
elementi con Z pari hanno una notevole
abbondanza di isotopi, mentre quelli con Z
dispari ne hanno pochissimi, spesso uno
soltanto o nessuno (cioè non esistono in
natura, come il 43, tecnezio e il 61,
Promezio). Inoltre, quando ci sono vari
isotopi, quelli ad A più alto e più basso
sono sempre pari, e quelli con Z dispari
hanno quasi sempre A dispari.

Le ricerche per conoscere a fondo il nucleo sono in veloce evoluzione. Sappiamo che occorre
energia per scindere il nucleo in nucleoni: questi infatti, nel nucleo, hanno massa minore di
quando sono liberi e in quiete, in base alla relazione E = mc2 (c, velocità della luce nel vuoto
= 3 x 108 m s-1): il difetto di massa corrisponde alla energia con cui i nucleoni sono legati: la
massa dei nucleoni liberi e in quiete (senza energia cinetica) è:
per il neutrone n: 1.008665 u.m.a.
per il protone p: 1.007825 u.m.a.

Il difetto di massa può venire espresso, utilizzando la relazione precedente, anche in differenza
di energia ∆E.
In tal caso il valore è di circa ∆E = 8-9 MeV/nucleone e, ricordando che 1 eV = 1.6 x 10-19
J, possiamo capire quanto alta sia questa energia se consideriamo, come riferimento, una
reazione chimica ad alta energia, come quella tra idrogeno e fluoro

H + F → HF + 465 KJ/mole

In questo caso l'energia in gioco per ogni atomo sarà:

465 x 103 J / 6.023 x 1023 ≈ 8 x 10-19 J / atomo ≈5 eV/atomo.

Si tratta di un'energia circa due milioni di volte superiore; non solo: è bene ricordare che in un
atomo ci sono più nucleoni!
Per quanto riguarda le forze che tengono assieme i nucleoni, si sa che sono efficaci a breve
distanza (fra 2.5 e 0.5 Fermi, in cui l'unità Fermi, usata dai fisici nucleari, corrisponde a 10-13
cm); sotto 0.5 Fermi predominano le forze di repulsione; per la stabilità si ipotizzano scambi di
particelle "mesoni" di cui si è accertata l'esistenza.

Le ricerche nel campo della fisica nucleare sono in velocissima evoluzione e vengono scoperte
particelle nuove molto frequentemente; ma, almeno per ora, non c'è un modello soddisfacente
per il nucleo come quello per l'atomo visto dal punto di vista chimico.
Sono state individuate particelle come mesoni, leptoni, muoni, bosoni, neutrini, barioni, tauoni,
pioni, adroni, quark; questi ultimi sembrano essere i "mattoni", che inizialmente si ipotizzava
fossero 3 (il termine quark è tratto da un brano di James Joyce in cui un personaggio chiedeva
"tre quark di birra") e che attualmente pare siano 6; ma sono veramente loro i "mattoni" della
materia?

Limitiamoci per ora a fare solo alcune osservazioni:


- esistono nuclidi stabili a causa delle barriere di potenziale che impediscono la loro
trasformazione;
- esistono gruppi di nuclidi stabili che possiamo caratterizzare in base alla parità o alla disparità
del numero di protoni Z, di neutroni N, di nucleoni (o numero di massa) A:

numero di nuclidi Z N = A-Z A


166 pari pari pari
57 pari dispari dispari
53 dispari pari dispari
7 dispari dispari pari
Fig.11.4 Abbondanza di nuclidi in funzione del numero di protoni (Z), di
neutroni (N) e di nucleoni (A) nel nucleo; l'abbondanza di nuclidi con Z
pari (223) rispetto a quelli con Z dispari è confermato dai dati in fig.44.

Neutroni e protoni tendono evidentemente ad appaiarsi, avendo un momento magnetico, e si


accoppiano con quello opposto (come succede per gli elettroni).
Ci sono poi dei valori "magici" di Z ed N, che corrispondono a nuclidi di alta stabilità e
abbondanza naturale:
Z o N = 2, 8, 20, 28, 50, 82, 126.

Come esempio vengono riportati il numero di nuclidi naturali e di quelli artificiali o radioattivi
rispetto ai numeri magici:

Z 2 8 20 28 50 82 126
configurazione
elettronica di 2He 8O 20Ca 28Ni 50Sn 82Pb 126Ubh

numero nuclidi naturali 2 3 6 5 10 4 ?


numero nuclidi
artificiali/radioattivi
3 5 8 7 15 19 ?
totale 5 8 14 12 25 23 ?
Fig.11.5 Abbondanza di nuclidi naturali e artificiali o radioattivi in funzione del
numero di protoni (Z) nel nucleo.

Ma possiamo anche portare esempi di nuclidi con numero di neutroni (A-Z) uguale ai numeri
magici:
A-Z 2 8 20 28 50 82 126
4 15 36 48 86 136 207
2He 7N 16S 20Ca 36Kr 54Xe 81Tl
16 37 50 87 138 208
8O 17Cl 22Ti 37Rb 56Ba 82Pb
38 51 88 139 209
18Ar 23V 38Sr 56La 83Bi
39 52 89 140 210
19K 24Cr 39Y 58Ce 84Po
40 54 90 141
20Ca 26Fe 40Zr 59Pr
92 142
42Mo 60Nd
144
62Sm

Fig.11.6 Esempi di nuclidi con numero di neutroni corrispondente ad un numero magico.


Ciò farebbe pensare a una struttura simile a quella del modello elettronico dell'atomo,
con i vari strati, gli ottetti, i gusci... anche se non si è ancora giunti ad una
"modellizzazione" razionale e coerente.

La radioattività è una conseguenza della instabilità di alcuni nuclei: un nuclide instabile


tende, emettendo radiazioni, a raggiungere la fascia di stabilità dei nuclei.
Il decadimento radioattivo può avvenire attraverso vari tipi di processi:

processo particelle coinvolte variazione di Z variazione di A


emissione a nuclei di He -2 -4
emissione b- elettroni +1 -
emissione b+ positroni -1 -
emissione g radiazioni - -
cattura elettronica elettroni -1 -
Fig.11.7 Tipi di processi coinvolti nel decadimento radioattivo; i primi tre comportano
emissione di particelle, il quarto di radiazioni; il quinto non è un vero processo di
decadimento, ma ne ha gli stessi effetti: è dovuto alla cattura di un elettrone da parte del
nucleo.

4
emissione α : vengono emessi nuclei 2He , perciò si ha una diminuzione di 2 unità per Z e di
4 per A.
210 206 4 232 228 4
84Po → 82Pb + 2He 90Th → 88Ra+ 2He
238 234 4 235 231 4
92U → 90Th + 2He 92U → 90Th + 2He
237 233 4
93Np → 91Pa + 2He

E' molto importante poiché, essendo l'unica emissione che fa variare A, permette di
raggruppare i nuclidi radioattivi in "famiglie" nelle quali A diminuisce di 4 unità ad ogni
emissione; ogni emissione comporta anche un mutamento di identità chimica del nuclide,
poiché Z diminuisce di 2 unità.

emissione β-: vengono emessi elettroni (dal nucleo, non si tratta degli elettroni negli
1 1 0
orbitali!); ciò corrisponde alla reazione: 0n → 1p + -1e

perciò si ha aumento di una unità per Z, mentre A resta costante.


14 14 0 234 234 0
6C → 7N + -1 β- 91Pa → 92U + -1 β-
3 3 0 225 225 0
1H → 2He + -1 β- 88Ra → 83Ac + -1 β-

In questa emissione si ha sempre mutamento di identità chimica, poiché cambia Z. Il simbolo


usato nelle reazioni, β-, sta ad indicare un elettrone, ma si usa la simbologia fisica, per
distinguerlo dagli elettroni orbitali.
emissione β+: vengono emessi positroni, particelle con la stessa massa dell'elettrone e
carica opposta; si ha diminuzione di una unità per Z (scompare un protone e compare un
neutrone), mentre A resta costante; corrisponde alla reazione: 11p → 10n + 01 β+
11 11 0
6C → 5B + 1 β+

Anche in questa emissione si ha sempre mutamento di identità chimica del nuclide; il simbolo
β+ corrisponde a quello precedente, ma con carica positiva.

emissione γ: vengono emesse non particelle ma radiazioni altamente energetiche (più dei
raggi X; queste radiazioni hanno perciò lunghezza d'onda minore e frequenza maggiore dei
raggi X e sono anche più penetranti e pericolose); è caratteristica di nuclei in uno stato
eccitato; in genere accompagna ognuno dei tipi di decadimento visti.

raggi γ:: 0.25 Å > λ > 0.001 Å raggi X: 100 Å > λ > 0.01 Å

234 234
90Th* → 90Th +γ

In questa emissione non c'è alcuna variazione di A né di Z; generalmente si usa indicare il


nuclide con un asterisco*, che indica uno stato eccitato e perciò instabile.

cattura elettronica: non è una emissione, ma ne ha gli stessi effetti: un elettrone viene
catturato dal nucleo e si lega con un protone; perciò Z diminuisce di una unità, A resta
costante; corrisponde alla reazione
1 0 1 195 0 195
1p + -1e → 0n 79Au + -1e → 78Pt

Se i nuclidi che decadono esistono in natura allora siamo in presenza di radioattività


naturale; se invece si tratta di nuclidi instabili prodotti artificialmente, allora si tratta di
radioattività artificiale o indotta.
Tutti i nuclidi con Z > 83 sono radioattivi, ma anche altri lo sono; per esempio: 4019K
(emissione β-); 9943Tc, 14761Pm (artificiali).

Gli isotopi radioattivi naturali possono essere raggruppati in 3 famiglie, con un capostipite da
cui prendono il nome; poiché le emissioni che portano a variazione di A (oltre che di Z) sono le
α, ogni isotopo avrà A con differenza di 4 rispetto al predecessore: avremo così le seguenti
famiglie, identificabili, oltre che col nome del capostipite, con una espressione algebrica che
esprime il numero di massa di ogni membro della famiglia con n variabile (per semplicità
saranno indicati solo i numeri di massa; Z è comunque identificato dal simbolo dell'elemento):

(4n+2) del Torio 234: 234Th, 234Pa, 234


U, 230
Th, 226
Ra, 222
Rn, 218
Po, 218
At, 214
Pb, 214
Bi, 214
Po,
210
Ti, 210Pb, 210Bi, 210Po, 206Ti, 206Pb.
232 208
(4n) del Torio 232: parte da Th e termina con Pb.
235 207
(4n+3) dell'Uranio 235: parte da U e termina con Pb.

E' interessante notare che tutte queste tre famiglie terminano con un isotopo del Pb, elemento
che è evidentemente molto stabile; ricordando le tabelle dell'abbondanza di nuclidi (figg. 11.3,
11.5, 11.6), Pb ha Z=82, pari.
Manca però una serie, quella (4n+1). Evidentemente non esiste più un capostipite di questa
famiglia, perciò essa deve essersi esaurita.

Per capire perché, occorre introdurre un nuovo concetto che riguarda il tempo di vita del
sistema; per conoscerlo si considera una grandezza, il tempo di dimezzamento t1/2.
t1/2 rappresenta, in questo caso, il tempo che una certa quantità di un nuclide impiega per
ridurre a metà il numero di nuclei radioattivi; questa grandezza può essere enorme, ma anche
piccolissima. Per i capostipiti delle famiglie già viste i tempi sono:
234 232 235
nuclide Th Th U
9 10
4.5 x 10 1.4 x 10 7.1 x 108
t1/2
anni anni anni

Fig.11.8 Tempi di dimezzamento dei nuclidi progenitori


delle tre famiglie attualmente esistenti.

Un nuclide intermedio con t1/2 basso, dovrebbe sparire; invece continua ad esistere finché il
progenitore, con alto t1/2, lo genera.
La famiglia mancante (non possono esisterne altre) è stata ricostruita artificialmente; il suo
capostipite 237Np infatti si è ormai esaurito in natura poiché ha un t1/2 più basso, 2.2 x 106
anni.

La famiglia si chiama perciò:


237 209
(4n+1) del Neptunio 237: parte da Np e termina con Bi. E' l'unica che termina con un
isotopo stabile che non sia del Pb.

Abbiamo visto che nella tabella periodica compaiono molti elementi artificiali, in particolare gli
ultimi, con Z molto alto; questi sono stati preparati in piccole quantità mediante
bombardamenti nucleari: si utilizzano neutroni che bombardano nuclei pesanti come 238U: i
neutroni, soprattutto se decelerati, entrano facilmente nel nucleo, poiché, non avendo carica,
non subiscono repulsione da parte del nucleo; il nuovo nuclide però può avere troppi neutroni
nel nucleo (può uscire cioè dalla fascia di stabilità): in questo caso può subire, per esempio,
decadimento b-, che fa abbassare il rapporto n/p, facendo aumentare Z di una unità.
A 1 A+1 A+1 0
ZM + 0n → ZM* → Z+1M + -1 β-

Attraverso reazioni successive si può arrivare fino a Z = 100, con rese soddisfacenti.
Per elementi con Z > 100, si bombardano elementi transuranici, anziché con neutroni lenti,
con piccoli nuclei accelerati in acceleratori di particelle.
Alcuni esempi:
253 4 256 1
99Es + 2He → 101Md + 0n

246 13 255 1
96Cm + 6C → 102No +4 0n

243 18 256 1
95Am + 8O → 103Lw +5 0n

249 13 259 1
99Cf + 6C → 104Ku +3 0n

243 22 261 1
95Am + 10Na → 105Ha +4 0n

249 18 263 1
98Cf + 8O → 106Unh +4 0n

La difficoltà maggiore sta nel t1/2 di questi nuovi elementi, che è molto basso: con ogni
probabilità siamo ai limiti delle possibilità di preparazione; basti pensare che mentre per
257
100Fm il t1/2 = 85 giorni, per elementi con Z superiori, il t1/2 va diminuendo da 90 minuti
(per Md, Z=101) fino a 0.9 secondi (per Unh, Z=106).

Abbiamo parlato spesso di tempo di dimezzamento t1/2; ma secondo quale legge avviene il
decadimento radioattivo?

Si dice che la velocità è "cineticamente del I° ordine" poiché dipende solo dal numero N di
nuclei instabili presenti
-dN /dt=λN

Nella legge del decadimento, dN è la quantità di nuclei decomposta nel tempo dt;
dN /dt rappresenta la velocità di decadimento (che è negativa poiché il numero di nuclei
radioattivi diminuisce nel tempo). Questa velocità è proporzionale, secondo la costante λ, al
numero N di nuclei instabili.
Integriamo l'equazione differenziale che rappresenta la velocità:

-dN /N =λ dt
l'integrale è ln N0 /N =λ t
in cui N0 è il numero di nuclei instabili al tempo t=0.
Si preferisce parlare di tempo di dimezzamento t1/2 anzichè di λ.

Se poniamo perciò N = N0/2 (numero di nuclei corrispondente alla metà di quelli iniziali),
allora, per la definizione di tempo di dimezzamento, il tempo corrispondente è t1/2.
Sviluppando e passando ai logaritmi decimali si ottiene che
t1/2 = (2.303/l) lg 2= 0.693/λ.
Da questa semplice relazione è possibile perciò conoscere t1/2 se si conosce la costante
specifica di velocità λ o viceversa.

Fig.11.9 Una fotografia di Willard


F.Libby nel suo laboratorio
Su questo principio si basa, per
esempio, la datazione dei reperti
archeologici contenenti residui di C
organico.
Questo metodo è stato scoperto da
Willard F.Libby nel 1949: gli organismi
animali o vegetali assorbono, durante il
loro metabolismo e fino alla morte, una
quantità costante di costante di 146C,
derivato da una reazione nucleare che
avviene nell'alta atmosfera e causata da
raggi cosmici
14 1 14 1
7N + 0n → 6C + 1p
14
CO2 viene assimilata assieme alla più
comune 12CO2; poiché 14C è instabile
(radioattivo), deve subire decadimento,
ma, finché l'organismo vive, il rapporto
tra 14C e 12C resta costante.

Quando l'organismo muore e non assimila più carbonio, inizia a cambiare il rapporto 14C / 12C,
poiché, mentre rimane costante la quantità di 12C, l'isotopo radioattivo mano a mano
scompare. Il t1/2 = 5670 anni.
Basta così determinare il rapporto 146C /126C per sapere da quanto tempo è morto
l'organismo.
E' stato un grande progresso, ma occorre ricordare che, quando il numero di anni è molto alto
la misura è difficoltosa e sempre meno precisa (si parte da un rapporto iniziale 14C/12C ≈10-
12
!); non si può, attualmente, avere dati attendibili superiori a 6-7 t1/2 (35000 anni). Inoltre il
metodo si basa sull'ipotesi che il rapporto 14C / 12C sia sempre stato lo stesso.

Abbiamo già osservato che l'energia insita nei legami nucleari è enorme: è chiaro che è molto
vantaggioso poter sfruttare reazioni nucleari per ottenere energia.
Abbiamo 2 tipi di processi nucleari possibili: la fissione e la fusione

Fissione: corrisponde alla scissione di nuclei pesanti in nuclei più leggeri. Per esempio:
235 1 93 140 1
92U + 0n → 36Kr + 56Ba+ 3 0n
235 1 90 144 1
92U + 0n → 38Sr + 54 Xe+ 2 0n

L'uranio 235, bombardato con neutroni, si scinde in due parti, con emissione di neutroni in
quantità maggiore di quelli assorbiti.
Ma nell'U naturale ci sono pochi 235U (≈ 7/1000); è conveniente perciò bombardare materiali
"fertili" (capaci di produrre altri nuclidi) per ottenere materiali "fissili" (adatti alla fissione).
238 1 239 232 1 233
92U + 0n → 94Pu 9Th + 0n → 92U

E' ciò che avviene nei cosiddetti "reattori veloci" o "breeder", in cui vengono utilizzati
neutroni prodotti in eccesso da altri reattori.
Nelle precedenti reazioni di fissione si formano più neutroni di quelli consumati: se quelli
prodotti in eccesso rispetto a 1 non vengono dispersi o bloccati (o se non si controlla la
quantità di materiale fissile, mantenendola sotto il limite chiamato "massa critica") si ha una
reazione nucleare a catena di tipo esplosivo, dato che ogni fissione produce una grande
quantità di energia.
Questo avviene quando il numero di neutroni prodotti supera, anche se di poco, quello dei
neutroni usati; se invece il sistema è controllato mediante variazione del numero di barre di
materiale fissile inserite nel reattore, si può controllare l'energia prodotta: si tratta allora di
una reazione nucleare controllata, come avviene in reattori nucleari o nelle pile
atomiche (il primo reattore nucleare è del 1942, costruito come una "pila" di mattoni di U e
grafite da Enrico Fermi nella palestra dell'Università di Chicago), in cui l'energia sviluppata
dalla reazione nucleare viene recuperata come calore e trasformata in forme di energia più
facilmente utilizzabili e trasferibili, come quella elettrica (centrali elettriche termonucleari).
Purtroppo le reazioni nucleari sono state sfruttate anche per scopi non pacifici: la cosiddetta
"bomba atomica" era costituita da due masse, inferiori a quella critica, che venivano messe a
contatto mediante una carica esplosiva, così che la massa totale superasse quella critica.
Nella gestione dei reattori nucleari esiste il grosso problema delle scorie radioattive, per
quanto riguarda sia lo smaltimento, sia l'arricchimento, che comporta il loro trasporto nei pochi
stabilimenti capaci di farlo. Infatti le barre che vengono usate nei reattori tradizionali (non i
breeder, che sono pochissimi), dopo un certo tempo si impoveriscono di materiale fissile, tanto
da non poter venire più usate; tuttavia ne contengono ancora molto, oltre ad altri prodotti di
decadimento e sono pericolosamente radioattive.

Fusione: corrisponde alla unione di atomi leggeri per formarne di più pesanti. La
produzione di energia è il risultato della diminuzione di massa totale del sistema nucleare,
secondo la nota relazione tra massa ed energia E=mc2.
Sarebbe una fonte di energia praticamente inesauribile. Anche in questo caso la fusione
incontrollata può essere esplosiva: la prima volta che fu utilizzata fu nel 1952 (bomba H)
nell'atollo di Bikini, in cui venne usata una bomba atomica per innescare la reazione di fusione.
Perché la fusione avvenga occorre portare la temperatura di un gas di particelle cariche ad alta
densità (plasma) fino a milioni di gradi; così infatti aumenta la probabilità che avvengano le
reazioni. Alcune di queste possibili reazioni sono:
2 2 3 1
1H + 1H → 2He + 0n + 3.2 MeV
2 2
1H + 1H → 32He + 1
1p + 4.0 MeV
2 3 4 1
1H + 1H → 2He + 0n +17.6 MeV
2 3 4 1
1H + 2He → 2He + 1p +18.3 MeV
6 3 4 4 1
3Li + 2He → 2He + 2He + 1p +16.9 MeV
6 3 4
3Li + 11p → 2He + 2He + 4.0 MeV
6 2 7 1
3Li + 1H → 3Li + 1p + 5.0 MeV
6 2 4 4
3Li + 1H → 2He + 2He +22.0 MeV

La temperatura di innesco, detta temperatura di ignizione, della reazione che avviene a


temperatura più bassa è 4x107 °C.
Fig.11.10 Superficie limite
per il mantenimento delle
condizioni di fusione.

Il problema è quello di
raggiungere e mantenere
contemporaneamente alti
valori per: temperatura T,
densità del plasma d,
tempo t.
In varie occasioni si sono
superati i limiti per uno o due
dei parametri, ma non molte
sono le esperienze in cui tutti i
tre i parametri sono stati
superiori al minimo.
Praticamente occorre che tutti
i tre parametri corrispondano
a punti al di sopra della
superficie indicata, che si può
considerare una superficie
limite.

Nella bomba H la reazione veniva innescata da una bomba atomica, che forniva sia la T di
ignizione che la densità del plasma, a causa della compressione istantanea dovuta
all'esplosione.
Occorre tenere presente che, date le temperature elevatissime, nessun materiale può essere
usato per costruire recipienti per il plasma; ma trattandosi di un gas di particelle cariche
(elettroni, ioni), il plasma viene costretto entro elevatissimi campi magnetici o elettrici;
aumentando l'intensità del campo è possibile aumentare la densità del plasma fino al livello
voluto.
Esistono molti tipi di apparecchiature sperimentali, in U.S.A., URSS, G.B., Italia e molti principi
operativi, con campi magnetici per il contenimento, con raggi laser per l'ignizione, a deuterio
solido, recentemente anche con impulsi di raggi X, etc. In Italia si sono ottenuti ottimi risultati
con il Tokamak, usato anche in Russia. Il ritardo nel raggiungimento delle condizioni operative
per una utilizzazione pratica (e pacifica) della fusione è dovuto appunto alle condizioni
estremamente critiche in cui si deve operare.
Resta il fatto che il combustibile sarebbe reperibile ovunque e perciò "a disposizione" di tutti: il
potere economico, in questo caso, starebbe nel "know how" tecnologico e non nel possesso di
pozzi petroliferi o di miniere di uranio.
Oltre all'enorme quantità di energia disponibile, la fusione presenta anche il vantaggio della
"pulizia" del reattore: non produce scorie radioattive (l'unico può essere il trizio 31H, che è però
anche un combustibile della fusione e sarebbe perciò possibile trovare le condizioni adatte
perché venga del tutto consumato) e non può provocare incidenti: infatti, mentre in un
reattore nucleare, se il controllo non è adeguato, si innesca una reazione a catena esplosiva
(vedi Chernobyl, Tree Miles Island), in un reattore a fusione, qualsiasi difetto provocherebbe la
caduta della temperatura o della densità del plasma, con disinnesco istantaneo della reazione.
Poichè in alcune reazioni di fusione si producono protoni e neutroni ad alta energia, il sistema
potrebbe venire accoppiato con un reattore nucleare o con un acceleratore in cui quelle
particelle possano venire utilizzate; oppure si potrebbe produrre energia elettrica assorbendo
l'energia dei neutroni su uno schermo di Li liquido e recuperando il calore con uno scambiatore
di calore.

Poi... è arrivata la notizia della "fusione fredda", che ha messo in crisi il modello costruito dai
fisici per la fusione "calda". Dopo le grandi polemiche iniziali (veniva messo in crisi anche il
sistema di finanziamenti, enormi, di cui godono i centri di ricerca sulla fusione), nel massimo
silenzio, molte nazioni stanno lavorando in questo campo. Potrebbe essere la soluzione del
problema energetico mondiale?
12 - Legami e reazioni
Finora gli atomi sono stati presi in considerazione come entità isolate; ma in natura gli atomi
sono solitamente legati ad altri, in unità più complesse che, se aggregate fra loro, costituiscono
quello che percepiamo macroscopicamente come "materia", le sostanze.
Queste sono chiamate sostanze elementari o elementi se costituite da atomi tutti uguali
chimicamente (compresi perciò anche gli isotopi) oppure composti se costituite da due o più
atomi diversi tra loro.

In moltissimi composti e in alcuni elementi gli atomi sono organizzati in gruppi discreti (cioè
distinguibili l'uno dall'altro), eguali fra loro, formati da due o più atomi: questi sono chiamati
molecole; talvolta, se gli atomi sono tenuti assieme da forze elettrostatiche, non è possibile
distinguere gruppi discreti dato che ogni ione è legato (con legame di tipo ionico) a molti altri
ioni contemporaneamente.

Le sostanze vengono identificate da simboli detti formule chimiche; questi simboli non sono
espressioni astratte ma, per convenzione, rappresentano e distinguono tra loro sostanze
specifiche.
La "formula" è uno dei risultati delle elaborazioni che, nella storia della chimica, hanno
portato al perfezionamento della microlingua chimica, un linguaggio estremamente
sofisticato, forse il più sofisticato, astratto e formalizzato tra i linguaggi scientifici, ed anche
uno dei più significanti poiché si riferisce ad oggetti concreti che, mediante la "formula"
vengono descritti in molte loro caratteristiche.
Per capire quale progresso abbia portato la "formula" chimica come noi ora la intendiamo, si
pensi che, fino alla metà del '700, si usavano simbologie estremamente oscure, che solo gli
"addetti ai lavori" potevano comprendere. Esistevano molte "tavole", che si potrebbero
considerare come pagine di dizionari, che specificavano il significato del simbolo usato. Alcune
di esse, tratte dalla raccolta di Planches della Encyclopédie di Diderot e d'Alembert, sono
rappresentate nella figura che segue.

Fig. 12.1 Tavole in uso comune fino ai tempi di Dalton. Le varie sostanze erano rappresentate non
mediante formule chimiche (anche perché, delle sostanze, non si conosceva realmente la composizione),
ma mediante simboli più o meno fantastici, spesso di origine alchemica.
La simbologia era però abbastanza codificata e utilizzata in modo diffuso da chi operava nel settore.
Per esempio, nella tavola I i primi due simboli in alto a sinistra rappresentano l'acciaio (acier), gli ultimi
due in basso a destra ciò che si ottiene per distillazione del vino (esprit de vin).

Le formule attuali hanno invece un significato assolutamente universale e la loro "lettura", se


effettuata con sufficienti requisiti di conoscenza di tipo chimico, acquista significati che al
profano possono risultare assolutamente incomprensibili. La comunità scientifica dei "chimici"
si riconosce appunto nell'uso di questo "linguaggio" codificato che permette una comunicazione
biunivoca e condivisa da tutti, un linguaggio che quasi tutte le discipline scientifiche (biologia,
ecologia, geologia, medicina, farmacia, agraria etc.) debbono utilizzare se non vogliono
limitarsi ad un approccio solo qualitativo e descrittivo dei fenomeni e degli oggetti delle loro
ricerche.

Le formule chimiche possono essere di vario tipo (un approfondimento sui vari tipi di formule si
può trovare nel capitolo sulle isomerie):

La formula minima indica solo il rapporto di combinazione tra gli atomi (per es.: CH2O).

La formula molecolare indica anche il numero dei singoli atomi che costituiscono la molecola
(per es.: C2H4O2).

La formula di struttura indica inoltre come gli atomi sono legati fra loro e dà perciò
indicazioni sul comportamento chimico della molecola (per es.: CH3COOH, acido acetico); solo
a questo punto possiamo sapere di che molecola si tratta e talvolta neppure questo è
sufficiente.

Le reazioni chimiche sono rappresentazioni simboliche e sintetiche che si presentano come


equazioni in cui, a sinistra, compaiono le formule dei reagenti, (stato iniziale), a destra, quelle
dei prodotti (stato finale).
Una reazione generica può venire espressa, per esempio, con l'espressione:

aA+bB → cC+dD
o con l'equazione:
aA+bB = cC+dD

in cui a, b, c, d sono i coefficienti stechiometrici, rispettivamente, di A, B, C, D, nella reazione


(cioè il numero di unità minimo con cui ogni molecola compare: può essere a=1, b=2, c=1,
d=1, ma non a=2, b=4, c=2, d=2, perché in questo secondo caso i coefficienti non sono primi
tra loro).
L'equazione è la rappresentazione schematica della trasformazione chimica reale: la
dizione "reazione chimica" si usa per indicare sia la reazione reale sia la sua
rappresentazione "algebrica". La reazione scritta simbolicamente rappresenta però sempre un
fatto sperimentale; perciò non bastano criteri algebrici per scriverla: occorrono criteri
chimici.

Le reazioni chimiche comportano la rottura di legami e la formazione di nuovi legami; questo


significa che avviene una trasformazione reale di sostanze in altre.
Essendo anche equazione algebrica, il numero e il tipo di atomi a sinistra devono essere eguali
anche a destra. Si parla perciò di bilanciamento dell'equazione chimica: questo,
chimicamente, significa che vale la legge della conservazione della materia.

A seconda del tipo di sostanze e degli atomi in gioco potranno esistere varie tipologie e varie
gradazioni di legame.
I legami più importanti per i chimici sono, al limite, il legame ionico e il legame covalente,
ma con la possibilità di tutte le situazioni intermedie tra i due tipi.
13 - Il legame ionico
E' un tipo di legame che può instaurarsi solo tra atomi diversi.
Sappiamo che molti atomi possono diventare ioni, per acquisto o perdita di elettroni: alcuni,
che hanno bassa energia di ionizzazione, possono dare facilmente cationi, altri, con alta affinità
elettronica, possono dare anioni; anioni (con una o più cariche negative) e cationi (con una o
più cariche positive) possono dare luogo a strutture complesse, costituite da più atomi; non
solo atomi singoli, ma anche raggruppamenti di atomi possono diventare anioni (per es. SO42-,
NO3-, N3-, SiO44- ecc.) o cationi (per es. NH4+, Hg22+ ecc.).
Anioni e cationi si attraggono per interazione elettrostatica: questa interazione si chiama
legame ionico.

Le forze elettrostatiche seguono la legge di Coulomb, che esprime la forza di interazione tra
due corpi carichi:

k = costante (che dipende anche dalle unità usate)


Za, Zb = cariche (con segno) dei due ioni che interagiscono
rab = distanza tra i due nuclei
Occorre notare che la legge riguarda cariche puntiformi, e gli ioni non lo sono, ma può essere
considerata valida in prima approssimazione (in particolare fino a che rab non diventa molto
piccola).
F è negativa se Za e Zb hanno segno opposto; ciò corrisponde alla attrazione fra le due
cariche, essendo F un vettore che ha come come direzione la stessa di r; F negativa comporta
una riduzione di rab.
F è positiva se Za e Zb hanno segno eguale (sia ambedue positivi, sia ambedue negativi): ciò
corrisponde alla repulsione, con aumento di rab.

Poiché queste forze, attorno ad uno ione, hanno simmetria sferica (l'azione della forza si
esercita in modo perfettamente uguale in tutte le direzioni) il legame ionico non è
direzionale.
Inoltre ogni catione tende ad attrarre il maggior numero di anioni e viceversa, in modo da
rendere massima la forza complessiva di interazione e minima l’energia.
Mano a mano che gli ioni di carica opposta si avvicinano (quando cioè rab diminuisce),
aumentano contemporaneamente le forze di attrazione fra gli ioni ma anche quelle di
repulsione fra gli elettroni esterni.
La distanza di legame è quella che si ha quando esiste un perfetto equilibrio tra le forze di
attrazione e quelle di repulsione. Questa distanza viene considerata uguale alla somma dei
raggi ionici dei due ioni che interagiscono. Le dimensioni dei raggi dipendono dal numero di
elettroni totali dello ione e dal rapporto tra numero di elettroni e numero atomico (cioè numero
di protoni nel nucleo).

Esaminiamo una tabella di ioni isoelettronici (che hanno cioè lo stesso numero di elettroni)
con i relativi raggi ionici:
atomo configurazione ioni 2- ioni 1- ioni 1+ ioni 2+ ioni 3+
base elettronica
He 1s2 H- Li+ Be2+ B3+
1,54 0,68 0,35 0,23
Ne He 2s22p6 O2- F- Na+ Mg2+ Al3+
1,32 1,33 0,97 0,66 0,51
Ar Ne 3s23p6 S2- Cl- K+ Ca2+ Sc3+
1,84 1,81 1,33 0,99 0,73
Kr Ar 4s24p6 Se2- Br- Rb+ Sr2+ Y3+
1,91 1,96 1,47 1,12 0,89
Xe Kr 5s25p6 Te2- I- Cs+ Ba2+ La3+
2,11 2,20 1,67 1,34 1,02

Fig.13.1 Raggi ionici per ioni isoelettronici. Escluso H, in forma di idruro, dato che non fa
parte degli alogeni, per gli altri si può notare che il raggio diminuisce fortemente
all'aumentare della carica (da sinistra a destra, il nucleo attrae sempre più gli elettroni
rimastigli attorno, mano a mano che essi diminuiscono di numero) e che i raggi aumentano
dall'alto verso il basso poiché aumenta il numero quantico n, corrispondente al guscio degli
elettroni esterni.

Il numero di elettroni persi o acquistati si chiama valenza ionica e non può mai essere
superiore a 3; non bisogna confonderlo perciò con lo stato di ossidazione, che è formale, non
reale (nel calcolo dello stato di ossidazione si "suppone" che tutti gli elettroni corrispondenti
passino all'atomo più elettronegativo, ma non si tratta di un processo reale, bensì di un artificio
utile nei calcoli).
Gli ioni non si possono avvicinare a meno della somma dei rispettivi raggi ionici; il limite al
numero di ioni di carica opposta che circondano uno ione è imposto dalla non compenetrabilità
degli ioni coinvolti e dal dover essere a contatto fra loro (cosa che provoca repulsione da parte
degli elettroni dei due atomi).

Date due specie A+ e B- potremo avere situazioni di impaccamento diverso in funzione delle
dimensioni relative di A+ e B- cioè dai rispettivi r+ e r-; l'impaccamento rappresenta la relativa
disposizione degli ioni nello spazio (come se si trattasse di sferette rigide; in effetti le sfere
sono deformate in funzione delle forze elettrostatiche di attrazione e repulsione) e viene
individuato dal "numero di coordinazione" spaziale di ognuno degli ioni.
Per semplicità, nella figura successiva vengono schematizzate tre diverse situazioni di
coordinazione sul piano, considerando gli ioni come sfere rigide indeformabili.

Fig.13.2 Tipi di coordinazione planare tra ioni con rapporti di raggi ionici diversi. Nel primo caso il
rapporto r+/r- è molto piccolo; nel secondo caso è intermedio, nel terzo è circa eguale ad 1. Nel
secondo caso si può immaginare la situazione tridimensionale in cui un anione appoggia sulle 4 sfere
negative sopra al piano del disegno, ed un'altra sta sotto: la simmetria è quella di un ottaedro. Come
il catione è circondato da anioni, anche ogni anione è circondato da cationi., così che la carica totale
sia nulla (la materia è elettricamente neutra).
Il numero di ioni che circondano il catione con carica n+ si chiama numero di coordinazione dello
ione An+.
Se consideriamo perciò gli ioni come sfere rigide (secondo il modello semplificato che usiamo),
possiamo individuare i numeri di coordinazione più probabili, in funzione del rapporto r+/r- tra
i raggi.
Nello schema seguente sono indicati i tipi più comuni di coordinazione, con la relativa
simmetria nello spazio (la trigonale è solo planare), in funzione del rapporto tra il raggio ionico
del catione (che è quasi sempre più piccolo) e quello dell'anione.

rapporto r+/r- numero di geometria di


coordinazione coordinazione

> 0,155 3 trigonale


> 0,225 4 tetraedrica
> 0,414 6 ottaedrica
> 0,732 8 cubica

Fig.13.3 Tipi di coordinazione in funzione del rapporto tra i raggi ionici

In effetti il modello delle sfere rigide non è proprio corretto: possono esserci adattamenti e
deformazioni della nuvola elettronica a causa delle attrazioni-repulsioni (polarizzazione) e
questo può portare a variazioni nei limiti indicati in fig.13.3.
I numeri di coordinazione indicati nella tabella non sono gli unici possibili; in sistemi complessi
come nei silicati (rocce) è possibile avere comunemente anche coordinazione 12 e oltre; in
questi casi i cationi sono facilmente sostituibili da altri analoghi (poiché i legami ionici parziali
coinvolti sono molto deboli).
E’ importante non confondere il numero di coordinazione con il rapporto stechiometrico fra gli
ioni in un sistema. Nella formula chimica di composti ionici è necessario che l’unità indicata
sia elettricamente neutra (la sommatoria delle cariche negative deve essere eguale a quella
delle cariche positive).
Si indicano, per convenzione, prima i cationi, poi gli anioni, dando ad ognuno di essi un
coefficiente al piede che indica in che rapporto stechiometrico si trovano i vari componenti
del sistema; per esempio:
NaCl, CaF2, AlCl3, Al2O3, K2S, ...
E’ ovvio che non sia possibile sapere, in NaCl, a quale dei 6 Cl coordinati a un Na si riferisca
l’espressione "NaCl"; ma sicuramente in un cristallo qualsiasi di NaCl, il rapporto fra il numero
di Na+ e quello di Cl- è eguale a 1; in uno di K2S, il numero di K+ è due volte quello di S--.

Per sapere perché le sostanze ioniche formino cristalli e non si limitino a costituire coppie
ioniche isolate, occorre fare alcune considerazioni energetiche sui legami ionici.
L’energia di interazione ionica fra due ioni a e b è:

in cui i simboli hanno lo stesso significato che nell'espressione della forza, ma k' è una
costante diversa da k.
E è negativa se Za e Zb hanno segno opposto; se le due cariche si avvicinano, rab diminuisce,
perciò aumenta il valore assoluto di E, ed essendo E negativa, il significato è che il sistema è
più stabile quando le due cariche sono vicine piuttosto che quando si trovano a distanza infinita
(situazione in cui convenzionalmente E = 0).
Viceversa, se le due cariche hanno segno eguale, E è positiva, perciò il valore minimo di
energia si avrà quando le cariche si trovano a distanza infinita (sempre E = 0).

Questo però rende conto del fatto che due ioni di segno opposto formino una coppia ionica,
ma non che si formino strutture cristalline, reticoli cristallini.
E' possibile capirlo se si prendono in considerazione tutte le possibili interazioni
elettrostatiche che esistono in un reticolo ionico.
Prendiamo, come esempio, una sezione parallela ad una faccia di un cristallo di cloruro sodico:
Fig.13.4 Reticolo bidimensionale di un cristallo ionico di NaCl.

Il reticolo tridimensionale è costituito da una serie di reticoli eguali


sfasati di una unità, in modo che ad ogni Na+ corrisponda un Cl-.

E' possibile calcolare l’energia di interazione fra NA moli di ioni Na+ e NA moli di ioni Cl- in
un reticolo cristallino, purché si conosca la disposizione di ogni ione rispetto agli altri.
Se considerassimo un solo catione, l'energia di interazione con un anione sarebbe quella già
vista, cioè quella di una singola coppia. Le coppie però, in questo caso, sono NA.
Ma perché queste NA moli di coppie dovrebbero stare assieme e non ognuna per conto suo? Se
non ci fosse qualche altra forma di energia in gioco il sistema avrebbe la stessa energia di NA
coppie isolate; non può essere questa la ragione per cui esiste il reticolo.
Nel reticolo, in effetti, c'è attrazione fra ogni singolo catione e ognuno degli anioni che lo
circonda (4 nel reticolo planare, 6 nel tridimensionale), perciò l'energia di attrazione deve
essere moltiplicata per un fattore che dipende dalla geometria del reticolo e dalla distanza rab
tra due ioni adiacenti.
Ma contemporaneamente esiste anche repulsione fra quelli di segno uguale vicini. Occorre
perciò tener conto di tutte le interazioni. L’espressione dell'energia totale U sarà perciò uno
sviluppo in serie in cui il valore di ogni addendo dipende dalla carica degli ioni che
interagiscono e dalla posizione che questi ioni occupano nel reticolo.

Fig.13.5 Geometria delle attrazioni e delle repulsioni in un reticolo cubico (NaCl). Nello sviluppo in
serie si sommano tutte le interazioni possibili di ogni ione; uno ione interagisce negativamente
(attrazione) con gli ioni di segno contrario adiacenti, cioè a distanza r (sono 4 sul piano, nel caso a;
sarebbero 6 in tridimensionale); interagisce positivamente (repulsione) con ioni a distanza r √2 (4
sul piano, caso b; ma sarebbero 12 in tridimensionale); interagisce ancora negativamente con ioni a
distanza r√5 (8 solo sul piano, caso c) e così via.

Lo sviluppo in serie, costruito semplicemente sulla base della struttura geometrica del reticolo
(e indipendente perciò dagli ioni che effettivamente occupano le posizioni), è costituito da una
sequenza di addendi alternativamente negativo e positivo, ma di entità sempre più piccola;
esso converge verso un valore numerico che si chiama Costante di Madelung e che non
dipende dal valore di rab, ma dall'arrangiamento geometrico del reticolo.
La costante di Madelung dipende perciò solo dal tipo di reticolo e dalla mutua posizione
geometrica dei singoli ioni, non dalla loro natura.
Tipo di reticolo Numero di Numero di Costante di
coordinazione dei coordinazione degli Madelung
cationi anioni

NaCl 6 6 1,7475
CsCl 8 8 1,7627
ZnS (wurtzite) 4 4 1,6413
ZnS (blenda) 4 4 1,6381
CaF2 (fluorite) 8 4 2,5194
TiO2 (rutilo) 6 3 2,4080

Fig.13.6 Costanti di Madelung per vari tipi di reticolo cristallino. ZnS si può presentare con due
diversi tipi di reticolo cristallino, caratterizzati da un diverso tipo di impaccamento e perciò da due
diverse costanti di Madelung. Anche se gli ioni costituenti sono diversi da quelli indicati (e perciò
con diversi raggi ionici), a parità di tipo di reticolo la costante di Madelung è la stessa.

La costante è sempre maggiore di uno: l’energia di attrazione elettrostatica globale è perciò


maggiore nel reticolo che nel caso di una coppia discreta.
Questa energia, che si ottiene moltiplicando l'energia di interazione della coppia per la costante
di Madelung relativa, con le debite correzioni, si chiama Uret= energia reticolare, unica
responsabile della stabilità dei cristalli delle sostanze ioniche. Se essa non ci fosse,
esisterebbero solo coppie ioniche isolate.

Uret corrisponde, per esempio nel caso di NaCl solido, alla energia della sua formazione a
partire dagli ioni gassosi:

Na+(g) + Cl-(g) → NaCl(s)

Per determinare sperimentalmente la Uret di un composto, si può utilizzare il Ciclo di Born-


Haber. Proviamo ad applicarlo al caso di NaCl. La reazione di formazione di NaCl dagli
elementi nel loro stato normale (solido per Na, gassoso per Cl2) che è indicata nel riquadro in
alto, comporta una energia nota; ma per conoscere l'energia coinvolta nella reazione su
indicata, occorre portare, in vari stadi semplici, Na solido a Na+ gassoso e Cl2 a Cl- gassoso:

5 -1
* ∆E1 (formazione da elementi) -4,08 x 10 J mol

5 -1
* ∆E2 (sublimazione Na solido) +1,06 x 10 J mol

5
* ∆E3 (rottura legame Cl2) +1,18 x 10 J mol-1

5 1
* ∆E4 (ionizzazione Na ) +4,94 x 10 J mol-

5 1
* ∆E5 (ionizzazione Cl, affinità elettronica) -3,57 x 10 J mol-

5 -1
Uret ( formazione reticolo cristallino ) -0,47 x 10 J mol

Uret è negativa: il reticolo cristallino è più stabilizzato di 1 mole


di coppie ioniche indipendenti NaCl.

Fig.13.7 Schema del Ciclo di Born-Haber per NaCl.


Fig.13.8 Fritz Haber

Fritz Haber (1868-1934), fu


uno dei più importanti chimici
tedeschi, vinse il premio Nobel
per la chimica nel 1918.

Si interessò in particolare
della sintesi diretta
dell'ammoniaca dagli elementi
e su questo argomento ebbe
vivaci discussioni con Nernst.

Nella formazione di sostanze ioniche sono molto importanti le energie di ionizzazione,


poiché comportano spesa di energia; sarà possibile la formazione di ioni con più cariche se il
guadagno di energia dovuto alla Uret compensa quella spesa; non sarà possibile se la spesa di
energia è troppo alta. Occorre conoscere perciò l'entità delle energie coinvolte in ionizzazioni
successive dello stesso atomo.

atomo E di I E di II E di III E di IV
ionizzazione ionizzazione ionizzazione ionizzazione
Li 519 7923
Na 494 4560
Be 900 1757 14836
Mg 736 1448 7740
B 800 2427 3657 25000
Al 577 1815 2753 11577

Fig.13.9 Energie di successive ionizzazioni per alcuni atomi, espresse in kJ mol-1. L'energia di II
ionizzazione deve essere sommata alla prima per arrivare alla carica 2+. Per i metalli alcalini Li
e Na, la prima ionizzazione comporta una energia enormemente inferiore alla seconda, perciò
tenderanno a fermarsi alla situazione 1+. Per gli alcalino-terrosi Mg e Ca, la seconda è di poco
superiore al doppio della prima, mentre la terza è molto più alta; tenderanno alla situazione 2+.
Per B e Al, prima, seconda e terza ionizzazione comportano energie crescenti ma non in modo
drammatico, mentre la quarta è enorme: tenderanno perciò a fermarsi allo stato 3+.

Nella figura seguente viene riportata in grafico la sequenza delle energie di I ionizzazione per
gli atomi fino al primo del 3° gruppo (Na).
Fig.13.10 Energie di prima ionizzazione per gli atomi da H a
Na.
I valori delle energie necessarie per la ionizzazione
aumentano mediamente da Li fino a Ne, per diminuire di
molto nel caso di Na, simile a Li; poi l'andamento è simile,
anche se con valori diversi.
E' evidente una periodicità nel comportamento dei vari
atomi.
L'energia è espressa in elettronvolt eV:
1 eV = 1,60219x10-19 J.
Per ottenere le energie di ionizzazione espresse in kJ per
mole:
eV x fattore di conversione x costante di Avogadro x
10-3

L'analisi delle energie di ionizzazione e dai dati di elettronegatività permette di dedurre se si


formano cationi o anioni: avremo cationi da metalli con bassa energia di ionizzazione e bassa
elettronegatività, anioni da non metalli con alta energia di ionizzazione e alta elettronegatività.

Poiché energie di ionizzazione ed elettronegatività sono caratteristiche periodiche, è possibile


anche schematizzare, in linea di massima, che tipo di ioni è possibile ottenere nell'ambito dei
vari gruppi della tavola periodica.

Gruppo Configurazione Tipi di ioni


1 + -
I ns M (H dà anche H )
II ns 2
M2+
III ns2np1 M3+ (alcuni anche M+: Tl+); poliatomici negativi (BO33-)
IV ns2np2 monoatomici positivi (Sn2+, Pb2+); poliatomici negativi (CO32-, SiO44-)
V ns2np3 poliatomici negativi (NO3-, PO43-, AsO43-); vari altri (N3-, Bi3+)
VI ns np2 4
X2- (O2-, S2-); poliatomici negativi (SO42-, SO32-)
VII ns2np5 X- (F-, Cl-, Br-, I-); poliatomici negativi (ClO4-, BrO2-)
d transizione monoatomici positivi (M+, M2+, M3+); poliatomici negativi (CrO42-, MnO4-)
f lantanoidi monoatomici positivi (soprattutto M3+)

Fig.13.11 Tipi di ioni principali in funzione dei gruppi della tavola periodica
Nella formazione di ioni, non sempre viene raggiunta la configurazione di un gas nobile (per esempio i metalli di
transizione ne sono troppo lontani), ma si raggiunge, comunque, una situazione di massima stabilità.
Esistono inoltre anche ioni poliatomici positivi, per esempio NH4+, Hg22+, VO2+, NO+,
NO2+...
Ma se i due tipi di atomi che sono legati fra loro non hanno una differenza di elettronegatività
tanto elevata da favorire la formazione di legami ionici, in particolare, al limite, se i due atomi
sono eguali, non sarà possibile il legame di tipo ionico: si formerà un legame covalente.
14 - Il legame covalente
Consideriamo un sistema costituito da due atomi che hanno tra loro bassa differenza di
elettronegatività; se il sistema possiede energia minore quando i due atomi sono vicini di
quando si trovano a distanza infinita, significa che si è formato un legame covalente; esso è
costituito da una coppia di elettroni condivisi fra i due atomi.

Fig.14.1 Valore dell'energia di un


sistema di due atomi in funzione della
loro distanza r.
La curva a corriponde alla formazione
di un legame.
La curva b corriponde ad una
situazione di repulsione tra i due atomi
e non si ha formazione di legame;
succede, per esempio, se tutti gli
orbitali atomici sono pieni.
E0 = energia di legame
r0 = distanza di legame
Il valore 0 per E corrisponde all'energia
dei due atomi a distanza infinita: perciò
E0 è negativa e rappresenta una
energia di stabilizzazione.

Quando si forma un legame covalente, la densità di carica elettronica è più alta nella regione
fra i due nuclei.
Questo legame si può pensare che consista nella sovrapposizione di due degli orbitali atomici
dei due atomi, contenenti ognuno un elettrone, per dare un orbitale di legame o di valenza
nel quale si collocano i due elettroni condivisi; anche per questo orbitale vale il principio di
Pauli, perciò potrà contenere solo due elettroni a spin antiparallelo.

Vediamo come si può rappresentare una situazione di legame covalente (o di "non legame" nel
caso di Ne) in modo simbolico; consideriamo, per esempio, C, N, O, F e Ne. Possiamo indicare
le varie situazioni con vari tipi di notazioni, già viste:
Fig.14.2 Notazione di Lewis ed altre notazioni per alcuni atomi del 2° gruppo e relativi
composti con l'idrogeno.
Nella prima colonna la rappresentazione di Lewis degli atomi e dei loro elettroni disponibili per
legami; nella seconda e nella terza, due tipi di configurazione elettronica degli atomi,
nell'ultima, la rappresentazione delle molecole secondo la notazione di Lewis (1916).
Per C, che nello stato fondamentale avrebbe 2 elettroni nel 2s e due spaiati nei 2p, uno dei
due elettroni 2s viene "promosso" al 2p libero: ciò comporta una spesa di energia, ma è
possibile così ottenere 4 legami anziché 2, con un netto guadagno di energia. Questo avviene
sempre quando è possibile, purché il bilancio energetico totale comporti una riduzione della
energia totale del sistema. Un trattino che congiunge due atomi rappresenta un legame
covalente, cioè un doppietto di elettroni condiviso; uno accostato all'atomo rappresenta
un doppietto di elettroni non impegnato in legame (detto anche doppietto libero).
Ne non può fare legami poiché tutti gli orbitali sono occupati da un doppietto.

La zona fra i due nuclei, occupata dai due elettroni condivisi, si può pensare definita dalla
compenetrazione o sovrapposizione (overlapping) di due orbitali atomici con 1 elettrone
per dare un orbitale di legame. Il legame è tanto più stabile quanto maggiore è la
sovrapposizione.

Il numero di coppie di elettroni che un atomo ha in comune con altri atomi può essere definito
come valenza covalente o covalenza di quell'atomo; le covalenze possono essere relative
anche ad atomi dello stesso tipo.
Dagli esempi è possibile dedurre la covalenza dei vari atomi presenti (almeno per quella
situazione specifica).
Fig.14.3 Esempi di molecole
rappresentate con la notazione di
Lewis.
Ogni trattino rosso corrisponde a
una coppia di elettroni; se
congiunge due atomi corriponde
a un legame covalente; in caso
contrario, se compare cioè
"appoggiato" su un atomo, si
tratta di un doppietto libero.
Gli atomi presenti hanno sempre
la stessa covalenza: 1 per H ed
F; 2 per O; 3 per N; 4 per C.
Tutti i legami sono legami
semplici, cioè con una sola
coppia di elettroni in comune.
Alcune molecola hanno nomi
convenzionali, come idrazina e
propano.
Il perossido di idrogeno è più
comunemente noto come acqua
ossigenata e contiene un legame
perossidico, relativamente
instabile, quello tra i due O.

Esistono però anche molecole che, oltre ai legami semplici, contengono anche legami doppi e
tripli, che corrispondono alla messa in comune di 4 o 6 elettroni:

Fig.14.4 Esempi di molecole con


doppi e tripli legami.
Il diossido di carbonio è
comunemente noto come anidride
carbonica; i tre atomi giacciono sulla
stessa linea.
L'etino è noto come come acetilene; i
quattro atomi giacciono sulla stessa
linea.
Anche nell'acido cianidrico i tre atomi
giacciono sulla stessa linea.
Il chetene ha due doppi legami
adiacenti e i tre atomi di carbonio
giacciono sulla stessa linea; non sono
molte le molecole che hanno questa
struttura.
Propionitrile ed etilisonitrile sono
isomeri dato che la formula minima è
la stessa (sono costituiti dagli stessi
tipi e dallo stesso numero di atomi),
pur avendo proprietà molto diverse.
Il penta(1,3)diene è detto anche
(1,3)pentadiene, in cui i numeri
rappresentano il primo C da cui parte
ogni doppio legame, e diene significa
che ci sono due doppi legami (di-
ene).

Come si può notare nelle formule precedenti, ogni atomo ha attorno 8 elettroni (salvo H che ne
ha sempre 2).
Ciò ha portato Lewis a proporre la teoria dell'ottetto, per la quale la struttura elettronica di
una molecola deve essere tale che ogni atomo sia circondato da un ottetto di elettroni.
Così ogni atomo assume la configurazione del gas nobile che lo segue. In effetti questa regola
non è vera in assoluto, anche se è stata molto utile per comprendere alcune formule
elettroniche altrimenti di difficile descrizione, come per esempio quella del monossido di
carbonio.
Fig.14.5 Situazione elettronica del monossido di carbonio CO in base alla teoria dell'ottetto.

In effetti, quando entrano in gioco elementi del 3° periodo, la regola può non essere valida,
come succede, per esempio per PF5, ClF3, SF6,...
In questi casi sono infatti disponibili gli orbitali d e in questi orbitali 3d alcuni elettroni possono
venire "promossi" (dato che l'energia dei 3d è un po' superiore di quella dei 3p), così da
permettere la formazione di un maggior numero di legami covalenti:

Fig.14.6 Esempi di espansione dell'ottetto.

A sinistra la configurazione senza espansione, a destra quelle con


espansione, che comporta la promozione di uno o più elettroni 3s o 3p in
orbitali 3d. La promozione comporta una spesa di energia,
abbondantemente compensata dalla possibilità di formazione di più legami.

Tutto ciò non è però ancora sufficiente a spiegare tutti i tipi di legami covalenti.
Prendiamo per esempio il benzene C6H6. Per giustificare alcune sue caratteristiche chimiche
(rapporto atomico C/H = 1/1; stabilità nonostante la presenza di 3 doppi legami; polarità
quasi nulla...), sono state proposte formule di tipo molto diverso:

Fig.14.7 Strutture del benzene ipotizzate


da Claus, Kekulé, Armstrong e Bayer,
Dewar, Stadeler e Wichelhaus, Ladenburg.

Ognuna delle rappresentazioni cercava di


giustificare, con strutture anche fantastiche
(dal punto di vista chimico), i dati
sperimentali sul comportamento e sulle
caratteristiche del benzene. Ogni tratto
corrisponde a una coppia di elettroni, salvo
che nella raffigurazione di Armstrong, nella
quale le freccette corripondono a 1
elettrone ognuna.
Fig.14.8 e 14.9 Struttura proposta nel
1866 per il benzene da Kekulé ed un
ritratto di Friederich August Kekulé

Già nel 1866 Friederich August Kekulé


(1829-1896) aveva proposto una
struttura che più si avvicinava a quella
attualmente accettata. Il suo disegno
(pare dovuto a un sogno) è quello in
figura.
La conferma di questa ipotesi è venuta da
una lunga serie di idrogenazioni (sul
benzene C6H6) e alogenazioni (sul toluene
C6H5CH3).

Attualmente si usano raffigurazioni diverse a seconda del settore chimico in cui si parla del
benzene e derivati, e dell'utilità della rappresentazione nel suo uso contingente (per esempio la
rappresentazione centrale in basso viene correntemente usata per spiegare reazioni di
sostituzione in molecole aromatiche):

Fig.14.10 Alcune delle rappresentazioni attuali della struttura del


benzene.

In effetti i doppi legami non sono localizzati dove sono disegnati: nel benzene le distanze di
legame C-C =1.39 Å sono tutte eguali; se fossero localizzati, ricordando che la lunghezza di
un legame C-C singolo è 1.54 Å e quella di un C=C doppio è 1.34 Å, la molecola di benzene
dovrebbe presentare una asimmetria (praticamente un esagono distorto); inoltre i doppi
legami sarebbero molto più reattivi di quelli singoli, cosa che è sperimentalmente falsa.
La situazione è intermedia tra il legame singolo e il doppio: l'ordine di legame è 1.5
(numero di legami/numero di atomi) = (6 + 3)/6.

Si dice che gli elettroni dei doppi legami sono delocalizzati su tutto l'anello.
Questa situazione si può indicare graficamente, per convenzione, come illustrato nella figura
seguente:
Fig.14.11 Rappresentazione convenzionale
della molecola di benzene.
Essa indica che la situazione reale è intermedia
tra le rappresentazioni I e II, che si chiamano
formule limite o di risonanza.
Il simbolo con la doppia freccia non va confuso
con quello di equilibrio, costituito da due frecce
in direzioni opposte.

Il fenomeno si chiama risonanza o mesomeria: il benzene non è né I né II, ma un ibrido di


risonanza delle due (o più) formule limite; queste sono così dette poiché sono situazioni
"limite", non reali.
Questo fenomeno avviene sempre quando, per una molecola (o in generale per una struttura
poliatomica, come un anione, per esempio) è possibile scrivere più formule elettroniche;
ognuna di esse contribuisce alla situazione reale in base alla sua probabilità di esistenza e
perciò alla sua energia.
Esistono molte altre molecole in cui il fenomeno della risonanza è importante; conoscendo il
contributo delle varie formule limite è possibile anche conoscere la situazione geometrica della
molecola. Occorre tenere presente che il fenomeno è tanto più rilevante quanto più è planare
la parte della molecola in cui esso si manifesta.

Fig.14,12 Esempi di strutture risonanti


rappresentate attraverso le formule limite più
probabili.
L'ozono O3 ha forma angolare poiché
l'ossigeno centrale ha un doppietto libero;
inoltre ha una parziale carica positiva rispetto
agli altri due.
Il diossido di zolfo SO2, chiamato
comunemente anidride solforosa, ha
anch'esso struttura angolare per la stessa
ragione ed i due ossigeni sono perfettamente
equivalenti; nella prima formula limite S è
con espansione dell'ottetto.
Nel protossido di azoto N2O, lineare, l'azoto
centrale è sempre tetracovalente, perciò ha
sempre una carica positiva.
Nello ione carbonato CO32- le due cariche
negative sono equamente distribuite tra i tre
ossigeni e la struttura è planare trigonale.
Notare che ogni atomo (escluso S) raggiunge,
in ogni formula limite, la configurazione del
gas nobile (otto elettroni).

Ma qual'è il modello fisico che utilizziamo per rappresentare la formazione di un legame?


Abbiamo già accennato alla sovrapposizione o overlapping di orbitali: 2 orbitali atomici,
contenenti ognuno un elettrone, compenetrandosi individuano una regione di spazio fra i 2
nuclei, e formano così un orbitale di legame contenente i 2 elettroni a spin antiparallelo (per
il principio di Pauli).

Questa regione è l'area di sovrapposizione. Può succedere anche che uno degli orbitali
atomici contenga 2 elettroni, l'altro nessuno (è il caso di un legame "coordinativo").
Il legame è tanto più stabile quanto maggiore è la sovrapposizione fra gli orbitali
atomici.

Il tipo o l'entità della sovrapposizione dipenderà, ovviamente, dalla forma degli orbitali atomici
che possono interagire; è perciò importante ricordare la forma degli orbitali di tipo s, dei p, dei
d, etc. e la loro simmetria.

Quando la sovrapposizione avviene lungo un asse, si ha simmetria cilindrica lungo l'asse, sia
della sovrapposizione sia del legame che ne consegue: è un orbitale σ.
Quando invece avviene lateralmente, si ha un orbitale π.
Fig.14.13 Sovrapposizione di orbitali atomici s e p, con formazione di orbitali di legame σ e π.
Con i σ si ha simmetria assiale; con i π si ha un piano nodale (in questo caso xz); sul piano nodale si
annullano sia le funzioni d'onda sia la funzione probabilità. In generale si ha sovrapposizione maggiore,
perciò maggiore stabilità per i σ; il primo legame che si forma è perciò il σ, poi gli atomi ruotano finché
possono creare il π; quando questo è formato, la rotazione è però bloccata.

Il massimo numero possibile di legami tra due atomi è 3, un σ, due π. L'orbitale di legame
s assume la forma di un ellissoide con l'asse di simmetria cilindrica coincidente con l'asse di
legame. L'orbitale p ha la forma di due "salsicciotti" con un piano nodale; se ce ne sono due, la
nuvola carica assume circa la forma di un cilindro cavo, coassiale col legame s.
La forma degli orbitali di legame non può essere dovuta alla semplice somma degli orbitali
atomici: questi infatti sono modificati dalla vicinanza dell'altro atomo, anche quelli che
non partecipano ai legami (questo avviene a causa anche della repulsione elettronica tra gli
orbitali atomici).
Prendiamo per esempio il caso del metano CH4: 3 degli H potrebbero legarsi ai 3p, a 90° l'uno
dall'altro; il quarto H dovrebbe, in questo caso, legarsi all'orbitale s: questo quarto legame
sarebbe però di diversa lunghezza e circa a 125° (w), così da essere simmetrico ed
equidistante dagli altri 3.

Fig.14.15 Direzione degli assi dei tre orbitali atomici p e del quarto asse che
corrisponderebbe all'asse del quarto legame se i primi tre fossero formati con gli orbitali
atomici p puri del carbonio per formare la molecola di metano.

A destra le misure degli angoli tra gli assi; in basso a destra viene evidenziato che un
eventuale legame nella direzione ow sarebbe diverso dagli altri tre.

Ma, dai dati sperimentali (spettroscopici, di reattività, di polarità...), i legami sono


perfettamente equivalenti ed equidistanti tra loro, a 109°28', angolo corrispondente alla
simmetria tetraedrica.
Perché ciò avvenga è necessario che i 4 orbitali atomici si mescolino per dar luogo a 4 orbitali
di legame perfettamente equivalenti: questo processo si chiama ibridazione; può essere
espresso come una combinazione matematica delle funzioni ψ degli orbitali atomici,
per dare orbitali ibridi.
Questa operazione può avvenire fra orbitali diversi; gli ibridi prendono il nome dagli orbitali
atomici usati; ogni combinazione ha una sua conformazione geometrica, generalmente con gli
orbitali ibridi alla massima distanza angolare tra loro (per ridurre l'energia di repulsione).

ibridi orbitali atomici conformazione esempi

sp s+p lineare CO2, BeCl2


2
sp s + px+ py trigonale BF3, SO2,
CO3--, CH2CH2
sp3 s + p x + py + p z tetraedrica CH4, NH3, H2O
dsp 2
s + dx2-y2 + px + py planare quadrata PdCl4--, Ni(CN)4--
dsp3 s + dz2 + px + py + pz trigonale bipiramidale PCl5, CuCl53-
s + dx2-y2 + px + py + pz quadrata piramidale rara
d2sp3 s + dx2-y2 + dz2 + px + py + ottaedrica Ni(NH3)6++, IF5, SF6
pz

Fig.14.16 Tipi principali di ibridazioni, orbitali atomici coinvolti nell'operazione, simmetria degli orbitali ibridi
ottenuti, esempi di molecole, ioni o complessi in cui è presente il tipo relativo di ibridazione e perciò anche la
simmetria spaziale.

E' interessante notare che gli orbitali ibridi assumono, nello spazio, una forma e un
orientamento condizionati dagli orbitali di partenza (escluso l'orbitale s che, avendo simmetria
sferica, non dà contributi spaziali): per esempio, sp2 (si legge: esse pi due), costruito con un
px e un py giacerà sul piano xy; sp3 (si legge: esse pi tre), costruito con px, py e pz avrà
contributi in tutto lo spazio; dsp2, costruito con px, py e dx2-y2 (tutti e tre sul piano xy)
giacerà sul piano xy; ecc.
Il processo di ibridazione comporta una certa spesa di energia, largamente compensata però
dalla stabilità dei legami che è possibile costruire con gli ibridi. Nella immagine successiva sono
rappresentati tre tipi di ibridazioni, con gli orbitali atomici di partenza e gli ibridi risultanti.

Fig.14.17 Ibridazione lineare, trigonale e tetraedrica.


Il disegno mostra gli orbitali atomici utilizzati nell'operazione e gli ibridi risultanti.
Sono indicati anche gli angoli tra gli assi degli ibridi, nei casi delle ibridazioni trigonale e
tetraedrica e perciò anche tra i legami che con tali ibridi si possono fare.
I lobi maggiori sono sempre di segno positivo e sono più adatti a formare legami rispetto agli
orbitali atomici iniziali, soprattuto perché più direzionali.
Nel caso dell'ibridazione tetraedrica non sono disegnati i lobi negativi per non complicare
l'illustrazione. In ogni caso anche i lobi negativi si trovano sempre sullo stesso asse dei
corrispondenti positivi e dalla parte opposta rispetto all'intersezione degli assi.
Il disegno non riesce però a dare un'dea dell'ampiezza della funzione risultante, dato che di
ogni orbitale ibrido viene rappresentata una sezione.
In effetti, se riportiamo il valore della funzione in grafico contro la sua distanza dal nucleo:

Fig.14.18 Profilo dell'ampiezza della funzione d'onda


dell'ibrido sp e sua posizione rispetto alla posizione del
nucleo.
Nel disegno dei due ibridi sp il nucleo è rappresentato
dal punto rosso.
Notare che normalmente si disegnano per semplicità gli
ibridi con il piano nodale passante per il nucleo, mentre
invece il nucleo si trova in una zona a densità elettronica
non nulla.

Anche le strutture di NH3 e H2O sono interpretabili con una ibridazione sp3 anche se distorta,
benché creino, poi, solo 3 o 2 legami: infatti anche i doppietti liberi assumono circa una
disposizione tetraedrica rispetto ai legami molecolari.
A volte questo non accade, in particolare quando alcuni orbitali atomici possono essere
utilizzati meglio come tali (quando, cioè, producono legami abbastanza stabili anche senza
l'ibridazione; infatti questa comporterebbe una spesa di energia che non verrebbe
compensata): è il caso dei tripli legami, come avviene, per esempio, nella molecola di azoto
N2.
L'azoto N ha la configurazione elettronica 2s2 2p3; potrebbe formare perciò 3 legami lungo le
direzioni degli assi x, y, z. Ma gli orbitali p danno una sovrapposizione piuttosto scarsa; è più
conveniente una ibridazione sp che permette un legame s molto più forte; i due doppietti
liberi dei due N si collocano nei due ibridi sp esterni, non utilizzati per il legame.
Restano ancora a disposizione due orbitali p perpendicolari alla direzione di legame; ruotando
attorno all'asse di legame, essi cercheranno di interagire in modo che le funzioni d'onda
possano dare un effetto non nullo: si affiancheranno cioè i due lobi positivi dei p paralleli e i
due lobi negativi, in modo da formare due orbitali π.
Cerca di disegnare la situazione degli orbitali di legame della molecola di azoto, sulla base di
quanto detto.

I legami π sono molto importanti per quanto riguarda la struttura spaziale delle molecole
poiché impediscono la rotazione attorno al legame σ, rotazione che, in loro assenza, è
praticamente libera.
Un classico esempio di impossibilità di rotazione è quello dell'etene (noto anche come etilene)
H2C=CH2.
Fig.14.19 Rappresentazione della molecola di etene (detto
anche etilene).
I 4 idrogeni giacciono tutti sullo stesso piano, perpendicolare
all'asse dei p liberi; i legami σ sono dovuti a ibridazione sp2
trigonale.
Le posizioni 1, 2, 3, 4 individuano le posizioni dei singoli H. H1 e
H3, se non viene rotto il legame π, restano sempre nella
posizione cosiddetta cis; H1 e H4 sempre in trans.
Se sostituisco chimicamente H1 con A e H4 con B, A e B
saranno sempre in posizione trans (sempre purché la reazione
di sostituzione non comporti la rottura del legame π).
Composti cis e trans hanno reattività e caratteristiche chimico-
fisiche diverse (temperature di fusione e di ebollizione,
momento dipolare, ecc.).

I legami π sono comunque meno forti dei σ e molto più reattivi; sarà perciò relativamente
facile romperli.
Poichè però i π esistono solo se già esiste un σ, la loro presenza darà luogo a legami totali più
forti, e perciò a distanze di legame più corte:

tipo di legame distanza C-C orbitali di legame


singolo 1,54 Å 1σ
doppio 1,34 Å 1σ+1π
triplo 1,20 Å 1σ+2π

Fig.14.20 Distanze di legame in funzione del tipo di legame e degli orbitali di legame coinvolti,
nel caso di legami carbonio-carbonio.

Abbiamo fatto, finora, una netta distinzione fra legame ionico e legame covalente; in effetti la
distinzione non è così netta: se i due atomi sono eguali, il baricentro della densità elettronica
cade a metà della distanza fra i due nuclei: abbiamo allora un legame covalente puro e
omeopolare.
Se però gli atomi sono diversi non sarà così: la maggiore densità elettronica sarà spostata
verso uno dei due: se lo è totalmente, avremo legame ionico, mentre le situazioni intermedie
individuano un legame covalente polare.
In questi casi il baricentro delle cariche positive e negative non coincide: esiste perciò
un momento dipolare µ:

Fig.14.21 Momento dipolare µ.


Esso è un vettore il cui modulo è dato dal prodotto della
carica q per la distanza r tra i due baricentri delle cariche
positive e negative.

µ permette di calcolare il grado di ionicità di un legame, strettamente collegato alla


elettronegatività relativa dei due atomi A e B.
Il legame sarà covalente puro solo se A = B (stessa elettronegatività), ionico se le
elettronegatività sono molto diverse; altrimenti, nelle situazioni intermedie, covalente polare.
La densità elettronica è statisticamente spostata verso l'atomo più elettronegativo.

Per prevedere il grado di ionicità di un legame diventa così importante determinare una scala
di elettronegatività.
Scale di elettronegatività EN sono state proposte da diversi ricercatori, basandosi su metodi
diversi:
I A (1) II A (2) III B (13) IV B (14) V B (15) VI B (16) VII B (17)
H
2.20----------

Li Be B C N O F
0.97-0.94-0.98 1.47-1.46-1.57 2.01-2.01-2.04 2.50-2.63-2.55 3.07-2.33-3.04 3.50-3.17-3.44 4.10-3.91-3.98

Na Mg Al Si P S Cl
1.01-0.93-0.93 1.23-1.32-1.31 1.47-1.81-1.61 1.74-2.44-1.90 2.06-1.81-2.19 2.44-2.41-2.58 2.83-3.00-3.16

K Ca Ga Ge As Se Br
0.91-0.80-0.82 1.04-------1.00 1.82-1.95-1.81 2.02-------2.01 2.20-1.75-2.18 2.48-2.23-2.55 2.74-2.76-2.96
Rb Sr In Sn Sb Te I
0.89-------0.82 0.99-------0.95 1.49-1.80-1.78 1.72-------1.80 1.82-1.65-2.05 2.01-2.10-2.1 2.21-2.56-2.66

Cs Ba Tl Pb Bi Po At
0.86-------0.79 0.97-------0.89 1.44-------1.62 1.55-------1.87 1.67-------2.02 1.76-------2.0 1.96-------2.2
Fig.14.22 Scale di elettronegatività EN. La prima secondo Allred-Rochow (in base alla forza esercitata dal nucleo su
elettroni di valenza); la seconda secondo R.S.Mulliken (EN proporzionale al prodotto tra potenziale di ionizzazione e
affinità elettronica diviso due) e vale per atomi isolati; la terza secondo L.Pauling (in base alla termochimica delle E di
ionizzazione dei legami). I dati mancanti non sono stati calcolati dagli autori. La suddivisione per colonne è in base ai
gruppi della tavola periodica, con simboli tradizionali e con quelli proposti dalla IUPAC (fra parentesi).

Anche se i valori riscontrati sono diversi, la sequenza è la stessa: l'elettronegatività cresce


da sinistra a destra e dal basso verso l'alto. Anche l'elettronegatività è una proprietà
periodica.

Non sempre a legame polare corrisponde molecola con momento dipolare: esso infatti
dipende dalla simmetria della molecola:

Fig.14.23 Polarità della molecola e momento polare dei legami.


Nel primo esempio l'anidride carbonica o diossido di carbonio, apolare.
Nel secondo esempio l'acqua, polare. La sua polarità è dimostrata da fatti sperimentali e ciò
comporta che non possa avere struttura lineare.

In base a quello che ora sappiamo, come scrivere le formule di struttura?


Prendiamo due esempi, SO3 e SO32- e proviamo a seguire gli stadi seguenti:

1) Legare tutti gli atomi (O) all'atomo centrale (S) con un legame semplice.
Avremo così due strutture eguali: un S centrale legato ai tre O con legame singolo.

2) Sommare gli elettroni esterni dei vari atomi, più le eventuali cariche negative, sottrarre
eventuali cariche positive.
Nel caso di SO3 saranno 24; nel caso di SO32- saranno 26.

3) Disporre tutti i possibili elettroni sugli atomi periferici, in modo da soddisfare alla regola
dell'ottetto; i rimanenti sull'atomo centrale.
Nel caso di SO3 ogni O avrà tre doppietti, oltre a quello di legame, mentre S avrà solo i tre
doppietti di legame (perciò con soli 6 elettroni attorno); la struttura è trigonale planare. Nel
caso di SO32- avremo, in più, un doppietto libero su S: ciò comporterà una repulsione rispetto
ai doppietti di legame S-O, con la trasformazione della struttura da trigonale a tetraedrica
distorta; ma in questo caso anche S avrà il suo ottetto completo.
4) Ridistribuire gli elettroni in modo da scrivere formule o formule limite accettabili.

Fig.14.24 Formule limite più probabili per SO3 e SO32-.


Ogni formula contribuisce tre volte, variando ogni volta gli O.
Le formule limite più probabili, in generale, sono quelle con minor numero di cariche totali.
In quasi tutte S ha espansione dell'ottetto.
Il contributo di ogni formula limite alla struttura reale è basato sulla probabilità di esistenza
rispetto alle altre.

Una notizia molto recente (Chem. Eng. News, 25/1/1999) riporta i risultati di una ricerca di
R.Rawls che è riuscito ad ottenere l'esafluoroarsenato di pentaazoto [N5]+ AsF6- in cui i 5
atomi di azoto assumono una configurazione spaziale a V (in cui il vertice è costituito da un N e
i due segmenti da due N ognuno); la struttura è molto risonante (è per la stabilizzazione
dovuta alla risonanza che si è potuto ottenere uno ione che dal punto di vista teorico dovrebbe
essere quasi impossibile) e il sale ottenuto è in effetti molto instabile. Esso viene ottenuto a -
78°C e, con estrema difficoltà lo si può portare fino a 22°C, ma esplode violentemente al
minimo contatto con acqua o sostanze organiche o per aumento di temperatura. Una delle
formule limite mostra un triplo legame tra il primo e il secondo azoto, un doppio legame tra il
terzo (al vertice della V) e il quarto, un altro doppio legame tra il quarto e il quinto. Prova a
disegnarla, ricordando di rispettare il numero di 8 elettroni attorno ad ogni atomo N; e poi
prova a scrivere altre formule limite per lo ione [N5]+. Dalle formule limite dovresti capire
perche' la forma spaziale è a V e su quale (o quali) dei 5 N risiede la maggior parte della carica
positiva del catione.
15 - Gli orbitali molecolari
Finora abbiamo considerato il legame come formato dalla sovrapposizione di orbitali
atomici OA, con i loro elettroni: ogni coppia condivisa costituisce un legame.
Potremmo usare anche un altro modello, per esempio pensare ad orbitali molecolari OM e
ad essi assegnare gli elettroni di valenza.

Il metodo degli OM è in effetti più adeguato al reale.


Anche per gli OM si definiscono delle funzioni d'onda Ψ che descrivono gli elettroni nella
molecola. Ψ è detto orbitale molecolare (ricordiamo che ψ, minuscolo, rappresenta l'orbitale
atomico).
Ogni Ψ avrà, come ψ, dei numeri quantici, legati alla forma e all'energia E dell'orbitale;
potremo così individuare orbitali molecolari s, p, d ... (in analogia con i nomi degli OA, che
avevamo chiamato s, p, d, f...). Il metodo di assegnazione degli elettroni è analogo a quello
dell'aufbau usato per gli OA.
La funzione Ψ 2dt misura la probabilità di trovare l'elettrone nell'elemento di volume dt (ψ
2
dt la misura nel caso degli OA). Anche Ψ come ψ, è ottenibile per risoluzione dell'equazione
d'onda di Schrödinger, in modo più o meno approssimato, date le difficoltà di risoluzione
rigorosa.

Una prima approssimazione di calcolo è quella che si chiama L.C.A.O. (Linear Combination
of Atomic Orbitals): le varie Ψ sono perciò considerate come combinazioni lineari delle ψ
degli OA.
Se abbiamo due funzioni d'onda ψA e ψB per i due atomi A e B, potremo allora avere:

• OM leganti (bonding) Ψ b= ψA+ ψB


• OM antileganti (antibonding) Ψa= ψA- ψB

Il numero di OM è eguale al numero complessivo di OA di valenza.

Fig.15.1 Schema energetico di formazione degli OM


legante ed antilegante per la molecola H2.
La differenza di energia ∆E dell'orbitale legante σ
rispetto alla situazione degli OA è eguale, ma di segno
contrario, rispetto a quella dell'orbitale antilegante σ*.
Perciò l'energia totale non cambia.
Lo stesso schema (ma con valori di E diversi) vale anche
per una ipotetica molecola di He, dato che gli OA in
gioco sono gli stessi.
Abbiamo a disposizione 2 OA 1s; per combinazione
lineare (somma o differenza degli OA) avremo i 2 OM
legante σ e antilegante σ*.

Nel caso della molecola di idrogeno H2, avendo due elettroni, per la regola di Pauli questi
andranno nel Ψb, legante σ, a E più bassa di -∆E rispetto alla situazione di non legame: si
forma perciò un legame.
Se ci fossero altri 2 elettroni, dovrebbero andare nel Ψa, antilegante, σ*; questi annullerebbero
l'effetto precedente di stabilizzazione del Ψb: in questo caso il legame non si formerebbe poiché
non ci sarebbe nessun guadagno energetico rispetto alla situazione iniziale degli OA, ψA e ψB.
Per He2 infatti non esiste legame, dato che dobbiamo collocare 4 elettroni.
Esiste invece He2+, σ2 σ*1 (2 elettroni nel legante e 1 nell'antilegante): perciò l'ordine di
legame è 0,5

Usiamo il simbolo σ in analogia al nome degli OA s, e così pure π in analogia ai p, e δ in


analogia ai d. Anche questi OM, come gli OA, hanno specifiche caratteristiche di simmetria:

OA OM caratteristiche di simmetria rispetto all'asse di legame


s σ simmetria assiale; coassiale con l'asse di legame
p π piano nodale contenente l'asse di legame
d δ due piani nodali perpendicolari intersecantesi lungo l'asse di legame

Fig.15.2 Corrispondenza degli orbitali molecolari ed atomici con le caratteristiche di simmetria degli OM.

Per gli OA la simmetria è rispetto al nucleo, per gli OM rispetto all'asse di legame.
Gli OM antileganti σ*, π*, δ* hanno in più un piano nodale perpendicolare all'asse di
legame: mentre i Ψb hanno alta densità elettronica fra i due nuclei (non necessariamente
"lungo" l'asse di legame), i Ψa hanno, nella stessa zona, densità trascurabile.
Infatti la densità elettronica o la probabilità di trovare un elettrone in uno spazio, si ottiene
dal quadrato della funzione d'onda dell'OM:

Ψb2 = ψA2 + 2ψAψB + ψB2 Ψa2 = ψA2 - 2ψAψB + ψB2

La differenza fra i due è il termine centrale, detto integrale di sovrapposizione:

S = ∫ 2ψAψB dt

Fig.15.3 Integrali di sovrapposizione tra


orbitali atomici diversi.
Nella parte in alto del disegno, due esempi di
sovrapposizione di orbitali p, con integrale
superiore a zero, S>0: la densità elettronica
fra i due nuclei aumenta (ψb) e si forma un
legame.
Nella parte centrale, due esempi di
sovrapposizione di orbitali p, con integrale
inferiore a zero, S<0: la densità elettronica
fra i due nuclei diminuisce (ψa) e si forma un
antilegame.
Nella parte in basso, un esempio di
sovrapposizione di un orbitale s con un
orbitale p, con integrale eguale a zero, S=0:
l'integrale positivo dovuto alla sovrapposizione
delle due parti degli orbitali con segno eguale
viene esattamente annullato dall'integrale
negativo dovuto alla sovrapposizione delle due
parti degli orbitali con segno opposto. Non
esiste alcuna interazione; è una situazione di
"non legame".

Perché possa esserci un buon legame covalente sono necessarie varie condizioni, che
matematicamente sono rappresentate, per esempio, dall'integrale di sovrapposizione; occorre
che non sia possibile il legame ionico (i due atomi devono avere elettronegatività abbastanza
simile); occorre che le energie degli elettroni in A e in B siano abbastanza vicine; la
sovrapposizione degli OA deve essere sufficiente; la repulsione fra elettroni deve essere
minima; gli OA devono avere la stessa simmetria rispetto all'asse A-B...
Per molecole biatomiche omonucleari del 2° periodo abbiamo a disposizione anche gli OA
p; avremo perciò più OM.

Fig.15.4 Schema energetico di formazione


di OM partendo dagli OA dei due atomi A e
B quando A e B sono omonucleari (stessi
atomi).
Il fatto che A e B siano due atomi uguali è
dimostrato dallo stesso livello energetico
per i 2s e i 2p dei due atomi.
I 2p sono 3 orbitali degeneri perciò alla
stessa E. Essendo in totale 6, danno luogo
a 6 OM, un σ e un σ* lungo l'asse
internucleare, 2 π e 2 π* fuori dall'asse.
La collocazione degli elettroni disponibili
avviene sempre sulla base dell'aufbau,
occupando progressivamente gli orbitali a
più bassa energia e ricordando che in ogni
OM non possono coesistere più di due
elettroni e questi devono essere a spin
antiparallelo.
Il σ derivato dai p potrà essere così
impegnato solo quando siano completati σ
e σ* derivati dai 2s (con un annullamento
dell'effetto di legame).

Se ci fossero anche le condizioni per l'ibridazione, per esempio sp2, gli OA di partenza
sarebbero alla stessa E e si avrebbe un solo σ (e un solo σ*).
Poiché la sovrapposizione per i p perpendicolari all'asse è minore che per quelli coassiali
(perciò i legami conseguenti provocano una minore stabilizzazione), la ∆E relativa a π-π* è
minore che per σ2-σ2*.

molecola configurazione ordine di E legame distanza


legame (kJ mol-1) (pm)
H2 σ12 1 432 74
He2+ σ12 σ1*1 0,5
He σ12 σ1* 2
0 - -
Li2 σ12 1 105 267
Be σ12 σ1* 2
0 - -
B2 σ12 σ1*2 σ22 1 289 159
C2 σ12 σ1*2 σ22 π2 2 628 131
N2 σ12 σ1* 2
σ22 π 4
3 942 110
O2 σ12 σ1* 2
σ22 π 4
π* 2
2 494 121
F2 σ12 σ1* 2
σ22 π 4
π* 4
1 151 142
Ne σ12 σ1* 2
σ22 π 4
π* 4
σ2* 2
0 - -
Fig.15.5 Configurazioni elettroniche, energia e distanza di legame per alcuni sistemi binucleari
omonucleari. Per boro B, e carbonio C, la situazione è più complessa (interazioni fra il 2s di un atomo e il
2p dell'altro, con E diverse; lo trascuriamo in prima approssimazione). Per l'ossigeno O, ci sono 2
elettroni in due orbitali degeneri π*, perciò essi sono a spin parallelo: cio è causa del paramagnetismo
reale della molecola O2.

Per molecole biatomiche eteronucleari, poiché le energie degli OA dei due nuclei sono
diverse, il diagramma risulta asimmetrico.
Fig.15.6 Schema energetico di formazione
degli OM per la molecola di monossido di
azoto, NO.
Nella formazione della molecola NO partendo
da un atomo O e un atomo N, gli OA di O
sono a E più bassa, poiché O ha carica
nucleare maggiore di N.
L'ordine di legame risultante è di 2.5 (3
coppie di elettroni, indicati dalle coppie di
elettroni con spin antiparalleli, negli OM di
legame, 0.5 in quelli di antilegame π*,
corrispondente all'elettrone sul primo orbitale
di antilegame π*.
Questo avviene poiché il sistema ha 11
elettroni (6 per O, 5 per N).
L'ordine di legame sarebbe invece 2 per NO-
(12 elettroni); un secondo elettrone a spin
spaiato occuperebbe infatti il secondo orbitale
di antilegame π*.
L'ordine di legame sarebbe 3 per NO+ (10
elettroni); in questo ione, infatti, nessun
elettrone si troverebbe negli orbitali di
antilegame π*.

Per molecole poliatomiche il problema diventa ancora più complesso, poiché diventa
essenziale, vista la geometria delle molecole, tener conto non di OA puri, ma di quelli ibridi
(come avviene, per esempio, in H2O, NH3...): le sovrapposizioni sono più difficilmente valutabili
e si hanno differenze di E consistente fra i vari OM.
Per costruire gli OM è necessario, in questi casi, partire dagli ibridi; se restano doppietti liberi
(elettroni non impegnati in legami), è chiaro che bisogna considerare anche questi, che
potranno essere, in generale, a energia vicina a quella degli OA prima della formazione degli
OM.

Abbiamo visto che esiste una vasta gamma di legami covalenti polari compresi fra i due
estremi, il legame ionico e il legame covalente puro o omeopolare.
Possiamo così analizzare i vari legami secondo uno dei due modelli indifferentemente, anche se
è utile usare il modello che più si avvicina alle caratteristiche del legame in questione; anche
se si partisse, però, dal modello sbagliato, si potrebbe giungere alle stesse conclusioni,
effettuando successive correzioni e approssimazioni: il lavoro sarebbe soltanto più lungo.
16 - Sui legami
Dopo avere accennato alla natura dei legami ionico e covalente, è necessario parlare anche di
altri aspetti dei legami.
Per esempio, quale è l'energia di un legame generico?
In prima approssimazione l'energia di legame viene valutata misurando l'energia di
dissociazione, cioè l'energia che occorre fornire per rompere la molecola all'altezza del
legame considerato.
Supponiamo di avere due atomi A e B e che questi formino un legame dando luogo alla
molecola AB.
Possiamo portare in diagramma l'energia del sistema AB in funzione della distanza r tra i due
atomi:

Fig.16.1 Schema energetico di formazione di un legame


interpretata come corrispondente all'energia della dissociazione.
In ascissa r, distanza tra i due atomi A e B che formano il
legame.
E', evidentemente, la stessa energia (ma con segno opposto) che
si libera nel processo di formazione della molecola AB.
Viene definita, in particolare, come il ∆H di formazione per una
mole di AB.

H, entalpia, è una forma di energia rappresentabile come una funzione di stato, che dipende,
cioè, solo dagli stati iniziale e finale.

Per molecole poliatomiche ABn è definita come il ∆H di dissociazione totale negli atomi
costituenti, diviso per n: ∆HABn/n
Per esempio per CH4: ∆H = 1.66 x 106 J mol-1; perciò l'energia di un singolo legame C-H è
4.45 x 105 J mol-1.
Una tabella delle caratteristiche di legame tra diversi atomi è molto utile per approfondire il
concetto di legame.

tipo di legame distanza (pm) energia (kJ mol-1)


H-H 74 435
C-C singolo 154 347
C-C doppio 135 522
C-C triplo 121 961
N-N singolo 147 159
N-N doppio 124 350
N-N triplo 110 940
F-F 144 155
Cl-Cl 199 242
Br-Br 228 192
I-I 267 150
tipo di legame distanza (pm) energia (kJ mol-1)
H-F 92 564
H-I 161 297
O-H (in H2O) 96 469
N-H (in NH3) 101 389
C-H (in CH4) 109 414

Fig.16.2 Caratteristiche energetiche e di distanza di vari tipi di legame.


Legami come C-C o N-N risultano più o meno eguali come distanza e come
energia, anche se inseriti in una molecola complessa. Aumentando l'ordine di
legame aumenta l'energia totale di legame e diminuisce la distanza. Tra le
molecole degli alogeni la distanza aumenta e l'energia, escluso F,
diminuisce: ciò comporta un progressivo indebolimento del legame ed una
conseguente maggiore facilità di rottura di esso. Anche negli acidi
alogenidrici aumenta la distanza e diminuisce l'energia: infatti HI è acido
molto più forte di HF.

In generale, a maggiore ordine di legame corrisponde maggiore energia di legame e minore


distanza.

Come abbiamo visto nel caso di NO, ci possono essere anche legami di ordine non intero
(per esempio 1.5 per NO-, mentre è 2 per NO+, come è evidenziabile con le formule limite.

Fig.16.3 Formule limite per il diossido di azoto


La formula limite rappresentata nel primo caso ne prevede,
ovviamente, un'altra simmetrica, in situazione mesomerica o di
risonanza con la prima.
Altre formule limite sono possibili, ma, essendo meno probabili,
contribuiscono meno alla struttura reale.

Viene definito come raggio covalente la metà della distanza di legame fra due atomi eguali.

La differenza fra il valore che si otterrebbe sommando i due raggi covalenti di due atomi
diversi, rispetto alla distanza reale, si può imputare alla percentuale di ionicità del legame.
Questo è evidente dalla figura 16.2: il raggio covalente espresso in pm per H è 37 (la metà di
74), per F è 46, per I è 133,5, per N 73,5, per C 77.
Se si esaminano i legami tra atomi diversi (gli ultimi della tabella), si può notare che la
distanza di legame è diversa dalla somma dei raggi covalenti; la differenza dà un'idea della
ionicità del legame.

legami distanza di legame reale somma raggi covalenti


H-F 92 83
H-I 161 170,5
NH3 101 110,5
CH4 109 114
Fig.16.4 Esempi di legami con corrispondenti distanza di legame e somma
teorica dei raggi covalenti

Esistono anche altri tipi di legame non facilmente inquadrabili nei modelli di legame covalente
o ionico o, comunque tanto caratteristici da poter essere trattati come un modello a parte.
Legame coordinativo: è un legame covalente in cui i due elettroni di legame sono forniti
dall'atomo donatore: la nuvola elettronica è perciò polarizzata verso l'atomo donatore.

Legame di idrogeno: è dovuto a interazione di atomi H legati ad atomi elettronegativi, con


atomi analoghi di altre molecole.
E' causa, per esempio, della elevata temperatura di ebollizione dell'acqua alla pressione di una
atmosfera (Teb=100°C); infatti, dato il suo piccolo peso molecolare (p.m.18), essa dovrebbe
essere addirittura gassosa a temperatura ambiente, come lo sono, per esempio, NH3 (p.m.17),
CH4 (p.m.16); HF (p.m.20, ha Teb circa 20°C, ma è in forma dimera, cioè H2F2). L'omologo
superiore (l'atomo che, nella tavola periodica, si trova sotto un altro, nello stesso gruppo)
dell'O, lo zolfo S, dà H2S (p.m.34) che pure ha Teb<-50°C; HCl (p.m.36,5) è ancora gassoso.
Praticamente l'acqua liquida è tale perché esistono infiniti legami di idrogeno tra gli H e gli O; il
fenomeno è dovuto al fatto che, essendo O molto elettronegativo, gli H ad esso legati hanno
una parziale carica positiva, che tendono a compensare interagendo con i doppietti liberi degli
O di altre molecole: ogni O è praticamente legato parzialmente a 4 H, in una struttura
pressoché tetraedrica. Per NH3 il fenomeno incide poco; per CH4 non conta nulla (infatti C è
poco elettronegativo rispetto ad H).

Fig.16.5 I legami intermolecolari a idrogeno


nell'acqua sono evidenziati mediante i trattini gialli;
sono dovuti alla interazione elettrostatica tra atomi
di ossigeno e atomi di idrogeno di molecole di acqua
vicine tra loro.
Si creano così legami parziali tra O e H di molecole
diverse.
Le conseguenze sono, da una parte, l'allentamento
di legami preesistenti, schematizzato nella figura
successiva; dall'altra, la formazione dinamica (che si
modifica cioè continuamente) di agglomerati di
molecole di acqua che giustificano l'alto punto di
ebollizione: è come se si trattasse non di singole
molecole, ma di un "polimero" con peso molecolare
molto più alto di quello della molecola H2O.

Fig.16.6 Allentamento di legami nell'acqua.


Il legame di un idrogeno con un altro ossigeno
fa allentare i legami preesistenti a causa della
sottrazione di carica elettronica, tanto che l'H
può staccarsi dall'O cui era legato e legarsi ad
un altro.
La situazione dinamica con formazione e
distruzione continua di legami e conseguente
scambio di H da una molecola all'altra è stato
confermato introducendo acqua pesante D2O (in
cui D rappresenta l'isotopo 2 di H, chiamato
deuterio) in H2O: in tempi brevissimi D è
distribuito statisticamente tra tutte le molecole
presenti.
Legami più deboli possono esssere dovuti a polarizzazioni moderate, come quelle dovute
alle deboli forze di dispersione di London, che portano a dipoli indotti, cioè dipoli che si
creano, in una molecola non dipolare, a causa di interazioni con molecole vicine che
possiedono dipoli permanenti; oppure a quelle dovute a interazione per orientazione o per
induzione. Tutte queste forze sono dette forze di Van der Waals.

Legame metallico: il modello che rende conto delle caratteristiche di conducibilità elettrica
è quello di un sistema reticolare di cationi immerso in un mare di elettroni mobili, liberi di
muoversi; è assimilabile perciò ad una situazione estrema di risonanza.
A livello un po' più approfondito, si può pensare a un sistema di orbitali di legame e di
antilegame delocalizzati sull'intero cristallo del metallo. Queste due serie di orbitali
costituiscono delle bande; quella superiore, di antilegame, è ad energia di poco più alta, perciò
è possibile che vengano facilmente utilizzati orbitali di antilegame per la conduzione, cioè per
lo spostamento di elettroni in quanto la spesa di energia è molto bassa.

Possiamo ricapitolare i vari tipi di forze chimiche che giustificano la struttura e il


comportamento della materia, menzionandole in ordine di forza all'incirca decrescente:
• legame covalente, molto forte e direzionale, agisce a distanza breve; E ≈ 70÷100
kcal/mole
• legame ionico, molto forte, non direzionale, E = z+z-/r diminuisce in funzione inversa alla
distanza r
• interazione ione-dipolo, più debole del legame ionico (sono coinvolte cariche frazionarie)
ma con caratteristiche simili
• legame a idrogeno
• interazioni dipolo-dipolo, abbastanza debole, non direzionale; diminuisce con 1/r3
• interazioni ione-dipolo indotto, debole, cala con 1/r4
• interazione dipolo-dipolo indotto, molto debole, cala con 1/r6
• interazione dipolo istantaneo-dipolo indotto (forze di London) molto debole, cala con
1/r6
• forze repulsive: variano in funzione di 1/rn con n=5÷12.
17 - Le isomerie
Abbiamo visto finora, in modo sintetico, le caratteristiche del legame chimico.
Ma per sapere qualcosa di più sulle molecole e sulla loro struttura considereremo
brevemente alcune loro specifiche caratteristiche, strettamente legate alle loro proprietà
chimico-fisiche, in particolare:
- composizione
- costituzione
- configurazione
- conformazione.

Esamineremo alcuni casi che ci permetteranno di trattare le prime tre di queste caratteristiche.

nome formula formula formula di struttura


minima molecolare
a acetilene CH C2H2 H-C≡C-H
b benzene CH C6H6 aromatica con un anello *
c dimetilnaftalene CH C12H12 aromatica con due anelli *
d formaldeide CH2O CH2O H2C=O
e acido acetico CH2O C2H4O2 CH3COOH
f formiato di metile CH2O C2H4O2 HCOOCH3
g aldeide glicolica CH2O C2H4O2 HCO-CH2OH
h glucosio CH2O C6H12O6 HCO-(CHOH)4-CH2OH
i fruttosio CH2O C6H12O6 HOCH2-CO-(CHOH)3-CH2OH
l mannosio CH2O C6H12O6 HCO-(CHOH)4-CH2OH
m gulosio CH2O C6H12O6 HCO-(CHOH)4-CH2OH
Fig.17.1 Esempi di molecole con formula minima eguale. Di queste, sono:

isomeri di composizione (stessa formula minima) (a, b, c); (d, e, f, g, h, i, l, m, )


isomeri di costituzione (stessa formula molecolare) (e, f, g );(h, i, l, m)
isomeri di configurazione (stessa formula di struttura) (h, l, m)

Le formule di struttura delle molecole indicate con * sono rappresentate nella figura seguente.

Fig.17.2 Rappresentazione convenzionale delle molecole di


benzene e di dimetilnaftalene.
I due tratti diagonali sulla seconda molecola rappresentano i due
metili.

COMPOSIZIONE: è data dai tipi di atomi che costituiscono le molecole (si può ottenere
mediante analisi elementare qualitativa della sostanza) e dal loro rapporto numerico
(mediante analisi elementare quantitativa).
Attraverso queste analisi si ottiene la formula minima, che può essere comune a più
composti. Per esempio, sono isomeri di composizione, tra quelli indicati nella figura 17.1,
(a, b, c) oppure (d, e, f, g, h, i, l, m).
E' evidente che occorre perciò conoscere almeno il peso molecolare, per sapere qualcosa di
più sulla molecola.
COSTITUZIONE: indica come sono legati gli atomi; e, f, g, per esempio, hanno stessa
formula molecolare (stesso peso molecolare, oltre che stessa formula minima), ma hanno gli
atomi legati in modo diverso; perciò hanno diverse proprietà chimiche e fisiche; sono detti
isomeri di costituzione.

CONFIGURAZIONE: indica la reciproca posizione degli atomi nello spazio.


Per esempio sono isomeri di configurazione il cis e il trans-dicloroetilene e il cis e il trans-
diammino dicloro platino (II); (il simbolo II per Pt sta ad indicare lo stato di ossidazione 2).

Fig.17.3 Esempi di isomeri di configurazione:

I e II, sono rispettivamente cis- e trans-1,2 dicloro etilene.


Notare che la molecola III, 1,1 dicloro etilene, non è un isomero di configurazione
rispetto a I e II, bensì un isomero di costituzione.
IV e V, sono rispettivamente cis- e trans-diammino dicloro Pt (II).

Un altro tipo di isomeria configurazionale è quella degli zuccheri.


Nella figura seguente viene data una rappresentazione convenzionale (nel senso che è
accettata per convenzione internazionale) planare di molecole di zuccheri diversi
.

Fig.17.4 Esempi di isomeria di alcune molecole di zuccheri esosi (cioè con 6 atomi di C).
Questi sono solo alcuni dei 16 possibili isomeri.

Solo i primi 3 sono isomeri di configurazione; in effetti il D(-) fruttosio non è un isomero di
configurazione bensì di costituzione, dato che i primi due C hanno sostituenti diversi, non
solo diversamente orientati.
L'isomeria di configurazione vista per gli zuccheri è dovuta al fatto che i 4 C centrali sono
asimmetrici poiché i 4 sostituenti di ogni carbonio sono diversi.
Van't Hoff, olandese, fu uno dei chimici più geniali e si può considerare un po' il padre della
stereochimica

Fig.17.5 J.H.van't Hoff (1852-1921)


Van't Hoff, Jacobus Hendricus (Rotterdam 1852
- 1911), chimico-fisico olandese, noto per i suoi
studi sulla struttura dei composti organici.
Nel 1876 divenne docente di fisica presso la
scuola veterinaria di Utrecht e nel 1878
professore di chimica, mineralogia e geologia
all’università di Amsterdam. Professore di
chimica a Lipsia nel 1887 e a Berlino nel 1896.
E' spesso definito il padre della chimica fisica e
raggiunse assai giovane (a soli 22 anni!)
eccellenti risultati quando, nel 1874, enunciò
una teoria che illustrava la struttura dei
composti organici.
Il rapporto da lui determinato tra i composti del
carbonio otticamente attivo e le strutture
asimmetriche e tridimensionali posero le basi
della stereochimica.
Nel 1901 fu insignito del primo premio Nobel
per la chimica, per le sue ricerche che
mettevano in relazione la termodinamica alle
reazioni chimiche, e gli studi sulle proprietà
delle soluzioni.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)

L'ipotesi della struttura tetraedrica del carbonio fu posta contemporaneamente anche da J.Le
Bell (1847-1930), ma fu merito di van't Hoff di diffonderla nella comunità dei chimici europei.
Egli infatti costruì dei modellini in cartone per dimostrare le sue asserzioni e li inviò a una
ventina dei più famosi chimici (allegando anche una piccola guida per costruirli usando forbici e
colla).
La sua ipotesi fu accolta con entusiasmo da alcuni di essi, mentre altri (come spesso succede
nella storia della scienza) vi si opposero tenacemente. Ma la sua teoria si affermò presto.

Fig.17.6 Atomo di C asimmetrico


La struttura spaziale è tetraedrica;
a, b, c, d rappresentano possibili
sostituenti degli H della molecola di
metano.
Se i quattro sostituenti sono tutti
diversi tra loro, allora C è
asimmetrico, cioè una sua
immagine speculare non è
sovrapponibile a quella originaria.

Questa isomeria si chiama, se dovuta ad atomi asimmetrici, isomeria ottica e gli isomeri sono
detti isomeri ottici o enantiòmeri (dal greco enantios = contrario, opposto).
Alcuni di questi possono essere attivi otticamente: sono in grado di ruotare il piano di
polarizzazione della luce di angoli positivi o negativi e ciò è indicato dai simboli (+) e (-);
l'effetto ottico è dovuto ai contributi dei singoli atomi di C asimmetrico, perciò può capitare che
gli effetti dei C della molecola si compensino a vicenda (si parla di isomeri ottici con
compensazione interna); in tal caso, nonostante la presenza di C asimmetrici, non si avrebbe
nessun effetto di polarizzazione della luce. Lo stesso accade se sono presenti in eguale
percentuale (50%) i due isomeri ottici opposti; in questo caso si parla di miscele racéme.

CONFORMAZIONE: indica come sono posizionati gli atomi rispetto al resto della
molecola.
Prendiamo per esempio, la molecola 1,2-dicloro etano, di formula molecolare Cl H2C-CH2 Cl.
Se la guardiamo lungo l'asse del legame carbonio-carbonio, la molecola può assumere varie
posizioni, ruotando un C rispetto all'altro attorno a quest'asse.
Le varie situazioni ottenibili sono detti confòrmeri.

Fig.17.7 Conformeri della molecola di 1,2-dicloro etano e relativa energia.


Sono indicate le posizioni successive dei due Cl (in verde) per rotazione di 60° rispetto
alla precedente, fino a raggiungere, dopo 360°, la posizione iniziale eclipsed (nascosto,
poiché i due sostituenti ingombranti, i Cl, molto più grandi di H, sono uno dietro
l'altro). Le conformazioni gauche e trans sono dette "sfalsate".
In corrispondenza ad ogni rotazione è indicata l'energia del sistema; la curva che
rappresenta la variazione di energia al variare della rotazione è una sinusoidale
asimmetrica. La conformazione trans è la più stabile perché comporta la minima
repulsione elettronica fra i due Cl, mentre la meno stabile è la eclipsed.

Di solito non è possibile separare questi confòrmeri poiché, essendo piccola la ∆E, la molecola
è in continua rotazione molto veloce (circa 106 ÷ 107 volte/secondo); solo se i gruppi
sostituenti sono molto ingombranti la rotazione sarà più difficile o, addirittura, impedita (come
nel caso che invece di Cl ci sia Br o I).

Abbiamo visto, così, che per individuare una molecola (e le sue carattristiche chimico-fisiche),
non basta conoscere la formula minima, nemmeno la molecolare, talvolta.
Abbiamo anche avuto una pallida idea della stereochimica, una branca importantissima della
chimica.
In questo settore esiste, per esempio, l'analisi conformazionale, cioè l'analisi delle proprietà
fisiche e chimiche della molecola in base alla geometria delle diverse conformazioni in cui essa
può esistere; le interazioni considerate sono quelle tra atomi non direttamente legati tra
loro (mentre le configurazioni esistono a causa dei legami di valenza).
Si può dire che essa sia nata circa nel 1890, quando H.Sachse ipotizzò l’esistenza, per il
cicloesano di due diverse conformazioni, "a sedia" e "a vasca". Il passaggio da una
conformazione all'altra è possibile con relativamente piccole variazioni di energia.

Fig.17.8 Conformazione a sedia (a) e a


vasca (b) per la molecola di cicloesano; ogni
trattino rivolto verso l'esterno indica un
legame CH.
E' evidente che esistono interazioni diverse
fra i vari H a seconda della conformazione
(per esempio H1 e H2 saranno soggetti a
repulsione elettronica maggiore nel caso b);
perciò la conformazione a vasca sarà ad
energia maggiore di quella a sedia, a, in cui
i legami CH sono o paralleli al legame C-H1
o diretti radialmente verso l'esterno come
C-H2.
Altre caratteristiche, legate però alla struttura dei solidi (si considera cioè un livello
macroscopico, nel quale sono coinvolte molte molecole) sono il polimorfismo, fenomeno per
cui un composto può cristallizzare, in condizioni diverse, sotto due o più forme diverse.
Per esempio, ZnS può avere la struttura della blenda o della wurtzite; anche C può presentarsi
con la struttura del diamante o con quella della grafite. In particolare, poiché in quest'ultimo
caso si tratta di una sostanza elementare, si parla di allotropìa. Altri casi di allotropia sono
presentati, per esempio, da P e da As.
18 - I gas
Le particelle gassose hanno energia cinetica maggiore dell'energia di attrazione, perciò
tendono ad occupare tutto lo spazio disponibile.
Lo stato gassoso possiede diverse proprietà:

2 proprietà estensive: massa, volume


2 proprietà intensive: temperatura, pressione

Queste proprietà compaiono nella equazione di stato dei gas perfetti o ideali

PV=nRT

in cui P rappresenta la pressione, V il volume, n il numero di moli, T la temperatura assoluta e


R la costante universale dei gas che dipende dalle unità di misura usate per le variabili.

Per esempio: R = 0.082 dm3 atm mol-1 K-1 R = 8.3143 J mol-1 K-1

Questa legge comprende altre leggi che prendono in considerazione il comportamento dei gas
mantenendo fissa una delle variabili:

• Legge di Boyle (isoterma, cioè a T costante)

(PV)T = K

• Legge di Charles-Gay Lussac (isobara, cioè a P costante)

(V)p = Vo (1+aot)
in cui:
V0 è il volume occupato a 0°C;
a0 = 1/273.15;
t, temperatura, è espressa in °C.

Se poniamo t = -273.15, allora V = 0.

Tale t è presa come punto di zero della scala assoluta, cioè -273.15°C, corrispondente a 0
K (Kelvin).

• Principio di Avogadro: volumi eguali di gas diversi, alle stesse T e P, contengono lo stesso
numero di particelle.
Perciò il volume di un gas può essere usato come misura della quantità, poiché è proporzionale
al numero di moli di gas.
Questo principio, enunciato nel 1811, era così rivoluzionario, che dovettero passare 50 anni,
prima che fosse accettato (nel I° Congresso Internazionale di Chimica a Karlsruhe), per merito
di Cannizzaro, che ne comprese l'importanza.

La legge generale dei gas si applica correttamente solo al gas ideale o perfetto, costituito
di particelle tutte uguali, con la stessa massa e con volume nullo (puntiformi): è un modello
che è stato costruito per razionalizzare il comportamento dei gas.

Un gas reale è invece caratterizzato da particelle con un volume definito; se si vuole perciò
applicare la legge dei gas a gas reali è necessario introdurre delle correzioni.
Di un gas reale, per esempio, si può esaminare il fattore di comprimibilità Z:
Fig.18.1 Curve isoterme relative al fattore di comprimibilità Z per alcuni gas reali.
Per il gas perfetto Z=1 (infatti, dalla legge generale del gas perfetto, il rapporto tra PV e
nRT è eguale ad 1).
Tutti i gas reali si comportano in modo anomalo, ma tendono all'ideale quando P tende a0e
quando la loro T è alta.
E' perciò necessario tener conto del volume delle molecole (detto covolume) e delle
interazioni che esistono fra loro: occorre perciò fare delle correzioni della equazione di stato
del gas perfetto o ideale.

Il modello strutturale dei gas reali tiene conto che, se si raffredda un gas reale a una T
sufficientemente bassa, esso condensa (il gas ideale no), diventando liquido o solido; a T = 0
K il solido avrà un volume b: perciò il volume totale a disposizione del gas non è V, ma (V
- b) in cui b è il volume molare del gas a 0 K.
Inoltre, nel gas reale, il moto delle particelle non è uniforme: esistono attrazioni e
repulsioni, soprattutto quando le particelle sono vicine (prima e dopo un urto).
Ciò porta a una diminuzione della P rispetto all'ideale: Pideale = P + (a/V2)
in cui il termine a/V2 è chiamato P interna, o di coesione ed è un fattore legato alle forze di
interazione intermolecolari.
L'equazione per i gas reali, detta di Van der Waals diventa perciò: (P + n2a/V2) (V-nb) =
nRT
il fattore n dipende dal fatto che bisogna tenere conto del numero delle particelle (notare che
n/V rappresenta la concentrazione).
A seconda che predomini l'effetto del volume (con effetto +∆P) o quello delle forze di coesione
(con effetto -∆P) la P di un gas reale sarà maggiore o minore di quella del gas ideale.
Ad alta T gli effetti della coesione sono minori (poiché predomina l'energia cinetica delle
particelle), mentre ad alta P il volume a disposizione per il moto diminuisce molto (parte di
esso è infatti occupato dal covolume b delle particelle, che possiamo trascurare solo a bassa
pressione).

gas reale a (dm6 atm mol-1) b (dm3 mol-1)


He 0,03412 0,02370
Ne 0,217 0,02709
Ar 1,345 0,03219
Kr 2,318 0,03978
Xe 4,194 0,05105
H2 0,2444 0,02661
O2 1,360 0,03183
N2 1,390 0,03913
Cl2 6,493 0,05632
gas reale a (dm6 atm mol-1) b (dm3 mol-1)
HCl 3,667 0,04081
CH4 2,253 0,04278
NH3 4,170 0,03707
CO 1,485 0,03985
CO2 3,592 0,04267

Fig.18.2 Parametri di Van der Waals per alcuni gas reali. Si può notare che b
(covolume) aumenta al crescere del numero atomico anche se non in modo
drammatico (per Xe è poco più del doppio di He); per quanto riguarda invece a, che
dipende dalle interazioni intermolecolari, le variazioni sono molto più evidenti (per
Xe addirittura 120 volte che per He).

Nei calcoli per i gas reali usiamo, normalmente, la legge generale, poiché nelle condizioni
ambientali normali risulta abbastanza attendibile (siamo abituati, nei calcoli stechiometrici, a
fare notevoli approssimazioni).
Un valore che usiamo spesso è quello del volume molare del gas ideale a 0° C e 1 atm.
Ponendo così n = 1, T = 273; P = 1 atm; R = 0,082 dm3 atm mol-1 K-1, allora V = RT/P =
22.4 litri.

Nel trattare il comportamento del gas ideale e dei gas reali, abbiamo finora sempre considerato
una sola specie chimica; ma se il sistema è costituito da una miscela di due o più gas che
occupano lo stesso volume V, identificando ogni singola specie gassosa con i simboli A, B, ..i...
e considerando che tutti si comportino come gas ideali, ognuno di essi seguirà la legge
generale.

Potremo scrivere le relazioni in alto, in cui pi, detta pressione parziale del gas i, è la
pressione che il gas i eserciterebbe se occupasse da solo tutto il volume disponibile, dato
che, considerando gas ideali, le particelle sono indistinguibili tra loro.
Se dividiamo l'espressione relativa a un gas generico j per l'espressione relativa alla
pressione totale Ptot, avremo la relazione a destra, dalla quale si ottiene poi quella in
basso, in cui cj rappresenta la frazione molare del gas j.
In conclusione, la pressione parziale di un gas j è data dal prodotto della sua frazione
molare per la pressione totale.

I gas reali, come abbiamo visto, se sottoposti ad una adeguata pressione e portati ad una T
abbastanza bassa, condensano, diventando prima liquidi, poi solidi.
Prendiamo in considerazione il passaggio alla fase liquida di un gas reale; portiamo in un
diagramma P/V (diagramma di Andrews), i dati relativi e vediamo quali curve si ottengono, a
seconda delle varie T.
Fig.18.3 Diagramma di Andrews
Le varie curve sono ottenute a diverse T: (T1, T2,
TC, T3).
Le isoterme a T > TC, come per esempio T3,
hanno un andamento simile a quello dei gas
ideali (ricordare che il gas ideale segue la legge
di Boyle (PV)T = K, e corrisponde perciò, in
questo schema, al ramo di un'iperbole
equilatera).

Per isoterme con T < TC (T1, T2...) esiste il


fenomeno della liquefazione del gas.
Possiamo notare 3 parti distinte: nella curva T2,
per esempio, un tratto (d-a), a bassa P,
corrisponde alla legge di Boyle; una parte
orizzontale in cui cala il volume ma la P resta
costante (a-b) e infine una in cui la P cresce
rapidamente a partire da b.

Supponiamo di comprimere il gas a T = T2 (partendo da d). In a inizia la liquefazione: da a a b


diminuisce il volume, mentre P2 resta costante: questa P2 è quella esercitata dal gas in
equilibrio con il liquido a T = T2 ed è detta tensione di vapore del liquido a quella
temperatura. In b la liquefazione è totale: per forti aumenti di pressione, le ∆V sono molto
piccole (in effetti i liquidi sono poco comprimibili).

A T = TC, l'isoterma ha un flesso, ma non si ha ancora liquefazione del gas.


Questa TC è chiamata temperatura critica del gas e sopra di essa non è possibile liquefare il
gas, qualunque sia la P che si impone: il gas resta perciò sempre nel suo stato gassoso; sotto
la campana la sostanza invece esiste come liquido e come vapore.
C è detto punto critico ed è identificato da una coppia di valori di P e di V:
PC= pressione critica
VC= volume critico

Questo tipo di comportamento è conseguenza necessaria della non idealità del gas; i
parametri critici sono legati perciò alle costanti a e b dell'equazione di Van der Waals e si
possono ricavare da essi.
19 - Liquidi e solidi
Nella esperienza di Andrews abbiamo visto che i gas possono passare (in certe condizioni)
allo stato liquido, caratterizzato da bassa comprimibilità (tratto finale del diagramma), cioè
da spazi intermolecolari molto ridotti.
Questo avviene quando le forze di attrazione intermolecolari diventano predominanti su
quelle dovute all'energia cinetica.
Viene tuttavia conservata una certa mobilità: il liquido infatti si adatta alla forma del
recipiente.
Una conseguenza macroscopica della forza di coesione in un liquido, cioè di queste forze di
attrazione intermolecolari, è la tendenza che esso ha ad assumere una forma sferica:

Fig.19.1 Schema che rappresenta la


forza di coesione di una porzione di
sostanza liquida, per cui essa tende,
in assenza di altre forze, ad assumere
forma sferica.
Infatti le molecole interne risentono
delle forze in tutte le direzioni; quelle
superficiali invece soltanto verso
l'interno.
La superficie del liquido tenderà
perciò a contrarsi in modo da essere
minima, a parità di volume (la
situazione ideale è perciò la sfera).

Questa caratteristica è molto importante, per esempio, nel caso dei fenomeni legati alla
capillarità, coinvolti in problemi di risalita di acqua nelle murature (con trasporto anche di sali
che provocano, per cristallizzazione, degrado dei materiali), di idrorepellenza dei materiali etc.
La capillarità è un fenomeno dovuto all'interazione, generalmente a causa della formazione di
legami transitori a idrogeno, tra una soluzione e le pareti del contenitore: quando predominano
le forze di adesione del liquido rispetto alla parete, sulle forze di coesione del liquido, il liquido
stesso tende a risalire lungo la parete.

Un'altra caratteristica dei liquidi è la viscosità, cioè la resistenza allo scorrimento; è presente
anche nei gas, ma è, in quasto caso, molto bassa (nei gas aumenta con la T, poiché
aumentano gli urti intermolecolari, mentre nei liquidi diminuisce all'aumentare di T).
E' importante evitare di confondere la viscosità con la densità di un liquido, espressa
generalmente in (g cm-3); nel linguaggio comune, per esempio, si dice che l'olio è un liquido
denso: è invece un liquido "viscoso", non "denso", dato che, rispetto alla densità dell'acqua, la
densità di un olio è inferiore.
Un liquido estremamente viscoso può essere considerato il vetro, che in effetti è un solido
amorfo: non avendo una struttura cristallina rigida, tende a deformarsi sotto l'azione di forze
esterne: per esempio la forza di gravità, in tempi lunghi, tende a far aumentare lo spessore di
una lastra di vetro nella sua parte inferiore.

Quando un liquido è in un recipiente chiuso, le molecole che hanno energia cinetica


sufficiente (statisticamente ce ne sono sempre) passano allo stato di vapore, occupando tutto
lo spazio disponibile.
La pressione esercitata dal vapore in equilibrio col liquido, a quella temperatura, si chiama
tensione di vapore.
L'evaporazione di un liquido è rallentata, in presenza di altri gas, dalla collisione delle molecole
che tendono a passare allo stato di vapore con molecole degli altri gas (N2, O2, etc., se si tratta
di aria). Se invece, mediante una pompa, si fa il vuoto, l'evaporazione è veloce; ma,
all'equilibrio, il numero di molecole di vapore, e perciò la sua pressione parziale (ricordare la
legge di Dalton per miscele gassose), sono eguali.

Quando le forze di attrazione diventano ancora più forti, possiamo avere lo stato solido,
caratterizzato da rigidità, incompressibilità, forma geometrica definita: ciò comporta una
disposizione regolare e stabile degli atomi (salvo che nel caso di sistemi vetrosi, amorfi,
assimilabili ad uno stato liquido estremamente viscoso).
Potremo avere perciò dei cristalli, solidi omogenei e anisotropi (il comportamento fisico può
essere diverso a seconda della direzione considerata), delimitati da facce piane.
Potremo avere anche dei solidi amorfi, con disposizione disordinata degli atomi (come nei
liquidi) ma con forma e volume propri; questi sono isotropi (le proprietà fisiche sono costanti
in tutte le direzioni).
Lo stato amorfo è generalmente instabile: è detto metastabile, poiché si può avere un
riarrangiamento della struttura verso forme cristalline (che sono energeticamente favorite); il
processo è lentissimo data la altissima viscosità del sistema.

Nei cristalli possiamo definire delle direzioni principali secondo cui si ha una ripetizione
regolare delle unità strutturali. Vediamo un esempio bidimensionale per semplicità.

Fig.19.2 Schema bidimensionale di una struttura cristallina.


Ogni cerchio rappresenta una unità strutturale che si ripete
periodicamente e regolarmente lungo le varie direzioni.
Se prendiamo gli assi x e y, l'unità ripetitiva avrà dimensioni a (lungo x)
e b (lungo y), con un angolo di 90° fra i due assi. Possiamo così definire
una cella elementare, di dimensioni a x b; è il minimo elemento di
cristallo che contiene in sé tutti i caratteri (di simmetria) del cristallo
stesso, e da cui, per ripetizione lungo gli assi, si può ricostruire il
cristallo.
Se si fossero scelti, per esempio, gli assi x' e y', si sarebbe individuata
una diversa cella elementare; ma si cerca sempre la più piccola e più
simmetrica: infatti la prima ha una sola unità entro la cella (1/4 di ogni
cerchio), la seconda 2.

A seconda delle caratteristiche di simmetria della cella elementare, si possono individuare


dei gruppi di simmetria e dei sistemi cristallografici.
In realtà questa schematizzazione si riferisce particolarmente al cosiddetto "abito cristallino"
dei solidi, cioè alla forma macroscopica con cui essi si presentano (ma che è tuttavia in
relazione con la simmetria microscopica del sistema cristallino).

gruppi assi sistemi angoli


MONOMETRICO a=b=c monometrico a = b = g = 90°

DIMETRICO a=b≠c esagonale o a = b = 90° g = 120°


trigonale
tetragonale a = b = g = 90°

TRIMETRICO a≠b≠c rombico a = b = g = 90°

monoclino a = g = 90° b ≠ 90°

triclino a ≠ b ≠ g ≠ 90°

Fig.19.3 Gruppi e sistemi cristallini e caratteristiche di simmetria degli assi cristallografici e


degli angoli.
Nella figura successiva vengono schematizzati, come esempio, i possibili tipi di celle elementari
del sistema e gruppo monometrico, cioè quello a massima simmetria.

Fig.19.4 Esempi di celle elementari appartenenti al gruppo


monometrico.
Queste corrispondono solo a 3 dei 14 reticoli di Bravais che
descrivono tutti i possibili reticoli dei gruppi e dei sistemi
cristallografici.
Tutte e tre queste celle hanno la forma di un cubo.
Cella I, Cubica P (Primitiva): 1 sola unità in cella: 1/8 di ognuna delle
8 unità indicate in rosso appartiene alla cella.
Cella II, Cubica I (Corpo-centrata): 2 unità in cella: 1/8 di ognuna
delle 8 unità indicate in rosso + quella al centro, appartengono alla
cella.
Cella III, Cubica F (Facce-centrata): 4 unità in cella: 1/8 di ognuna
delle 8 unità indicate in rosso + 1/2 di ognuna delle 6 al centro delle
singole facce appartengono alla cella.

I 3 gruppi e i corrispondenti 6 sistemi, le cui caratteristiche sono indicate in figura 19.3,


possono venire descritti con soli 14 tipi di celle, detti reticoli di Bravais.

gruppo cella unità in cella


monometrico Cubica P (Primitiva) 1
monometrico Cubica I (Corpo-centrata) 2
monometrico Cubica F (Facce-centrata) 4
dimetrico Tetragonale P (Primitiva) 1
dimetrico Tetragonale I (Corpo-centrata) 2
dimetrico Esagonale 1
dimetrico Romboedrica 3
trimetrico Ortorombica P (Primitiva) 1
trimetrico Ortorombica C (Faccia-centrata) 2
trimetrico Ortorombica I (Corpo-centrata) 2
trimetrico Ortorombica F (Facce-centrata) 4
trimetrico Monoclina P (Primitiva) 1
trimetrico Monoclina C (Faccia-centrata) 2
trimetrico Triclina 1

Fig.19.5 I 14 reticoli di Bravais, con i relativi numeri di unità in cella, rispetto ai gruppi
cristallografici.
La struttura cristallina è caratteristica di quasi tutti i composti e gli elementi a livello
macroscopico.
Le forze che tengono uniti elementi e composti sono quelle di cui abbiamo parlato nel caso dei
legami: cioè covalente, ionico, di idrogeno, metallico, di Van der Waals.
Se un composto può presentarsi in forme cristalline diverse, si dice che dà luogo a
polimorfismo; se invece due composti diversi si presentano con la stessa forma cristallina, si
dice che possono dare cristalli misti; succede, per esempio, negli spinelli, di formula
generale: A2BO4, in cui

A può essere Al3+, Cr3+, Fe3 B può essere Mg2+, Zn2+, Mn2+
20 - La cinetica chimica
Quando si studia una reazione chimica, se ne determina dapprima la stechiometria; ma
quando l'equazione simbolica che usiamo è equilibrata, non sappiamo ancora nulla sul suo
effettivo andamento.
Da una parte, la termodinamica chimica esamina le condizioni che devono essere
soddisfatte perché una certa reazione avvenga spontaneamente, da un'altra parte la cinetica
chimica esamina i fattori che influiscono sul tempo necessario perché una reazione giunga a
completezza.

Per esempio, la reazione di ossidazione del diossido di zolfo (anidride solforosa) a triossido
(anidride solforica)
2 SO2 (g) + O2 (g) → 2 SO3 (g)

a T ambiente non dà risultati apprezzabili neanche dopo molti giorni; ma se aumentiamo la


temperatura o se introduciamo un catalizzatore (per esempio V2O5), la reazione è velocissima.

Analogamente la reazione di formazione dell'acqua dagli elementi

2 H2 (g) + O2 (g) → 2 H2O (g)

è veloce a T alta, ma a T ambiente non lo è affatto.

E' ovvia perciò l'importanza di studiare le velocità delle reazioni, i fattori che le
influenzano, il meccanismo che esse seguono.
Tra i fattori che possono influenzarle, possono essere, per esempio:
• la natura dei reagenti (durante la reazione si debbono rompere dei legami)
• la concentrazione dei reagenti (con la concentrazione varia il numero di collisioni possibili)
• la temperatura (con la T varia il numero di urti efficaci, dato che cambia l'energia cinetica)
• i catalizzatori (fanno aumentare la velocità)
• l'area di contatto tra le fasi (nel caso di reazioni eterogenee)
• l'agitazione della miscela...etc

La velocità di reazione v può essere determinata dalla variazione della quantità di un


componente nell'unità di tempo: normalmente ci si riferisce alla concentrazione C

v = |d C / d t|

v è espressa come valore assoluto (simboleggiato dalle due barre verticali) poiché, se si
controlla la variazione di concentrazione di un reagente, la variazione sarà negativa (-dC/dt),
se si controlla quella di un prodotto, sarà positiva (+dC/dt); ma la velocità che misuriamo deve
essere sempre positiva.

Poiché generalmente i prodotti possono reagire dando la reazione inversa, ciò che noi
misuriamo effettivamente è la differenza fra le velocità della reazione diretta e di quella
inversa; per fare in modo che la velocità misurata sperimentalmente sia il più possibile uguale
a quella diretta dobbiamo perciò effettuare la misura all'inizio della reazione, quando cioè il
contributo della reazione inversa è nullo o trascurabile.

Per la reazione generale: aA+bB  cC+dD

esprimeremo la velocità come variazione nel tempo di uno qualsiasi dei componenti della
reazione (sia uno dei reagenti sia uno dei prodotti); la velocità, determinata sperimentalmente,
è proporzionale, secondo la costante di velocità "specifica" K (corrispondente alla velocità della
reazione per concentrazioni unitarie: solo in quel caso, infatti, v=K), al prodotto della
concentrazione di A elevata alla m per la concentrazione di B elevata alla n.
E' evidente che la K dipende dalla natura dei reagenti A e B oltre che dalla temperatura.
Gli esponenti m e n possono essere sia interi sia frazionari; rappresentano l'ordine della
reazione: m rispetto ad A, n rispetto a B; (m+n) rappresenta l'ordine totale della
reazione.

Gli ordini di reazione possono essere dedotti solo sperimentalmente e non coincidono
necessariamente con i coefficienti stechiometrici della reazione a e b (in taluni casi possono
essere anche zero).

Possiamo considerare, invece delle derivate, differenze finite di concentrazione e di tempo


∆C/∆t:

Fig.20.1 Diagramma concentrazione contro tempo, C/t, per una


reazione.

Si può notare che la concentrazione C di un reagente cala nel


tempo con andamento asintotico verso un valore limite.

Si può notare inoltre che, al procedere della reazione, il ∆C


diminuisce progressivamente, tendendo a zero, a partità di
intervallo di tempo ∆t considerato.
Oppure che, al procedere della reazione, per avere la stessa
variazione di concentrazione ∆C, occorrono tempi sempre più
lunghi.

Se v aumenta proporzionalmente al crescere della concentrazione C del reagente X, si dice che


la reazione è del primo ordine rispetto a X; la K di velocità è del I° ordine ed è data dalla
pendenza della retta v = K C
Fig.20.2 Grafici V/C e ∆C/C contro il tempo, per una reazione del I° ordine.
a) i punti rossi rappresentano dati ottenuti sperimentalmente, misurando la velocità a
concentrazioni diverse di X; la K è data dalla pendenza della retta che si ottiene
ottimizzando (generalmente col metodo dei minimi quadrati) la retta individuata dai
punti sperimentali; i punti non giacciono tutti esattamente sulla retta dato che sono
soggetti a errori sperimentali.
b) C rappresenta la concentrazione attuale ed è perciò variabile nel tempo; ma in
questo caso l'andamento del grafico ∆C/C contro il tempo è lineare e costante.

Se consideriamo la reazione A → prodotti

V = K [A] = -d[A]/dt da cui -d[A]/[A] = Kdt

Cioè il rapporto tra la variazione di concentrazione di A d[A], rispetto alla sua concentrazione
attuale [A] è costante se si considerano intervalli di tempo costanti; che è quanto appare dal
grafico b.
La K ha anche delle dimensioni; in questo caso (I° ordine): K (sec-1), poiché, ricavandola
dalla espressione precedente è K = -d[A]/[A] dt.

Nella valutazione della velocità si usa spesso anche un altro parametro, il tempo di
dimezzamento t1/2 che è il tempo necessario perché la concentrazione iniziale di un reagente
sia ridotta a metà (con 2 t1/2 si avrà 1/4 della concentrazione iniziale, con 3 t1/2 1/8 etc.;
dopo 7 t1/2 la concentrazione è ridotta a meno dell'1% dell'iniziale).

Se integriamo la precedente equazione differenziale avremo che

ln [A]/[A]0 = -K (t-t0)

(ln = logaritmo naturale) e se in questa poniamo [A] = 1/2 [A]0, (se vogliamo cioè che la
concentrazione sia la metà dell'iniziale, come definito per il tempo di dimezzamento), e dato
che t0 = 0 (inizio della reazione), avremo:
Fig.20.3 Grafico ln C contro t
per una reazione del I° ordine.

E' possibile capire se una


reazione è del I° ordine
calcolando i logaritmi delle
concentrazioni misurate a
tempi definiti e riportando in
diagramma le coppie di valori.
Se i punti stanno su una retta,
allora la reazione è del I°
ordine, la K è l'inverso della
pendenza della retta e la
concentrazione iniziale è
calcolabile dall'intercetta
sull'asse delle ordinate.

Una osservazione importante: per reazioni del primo ordine t1/2 non dipende dalla
concentrazione del reagente (vedi l'espressione del tempo di dimezzamento riportata subito
prima della figura 20.3); un esempio di applicazione di questo concetto è quello della
datazione dei reperti archeologici con la misura del 14C (t1/2 = 5730 anni) già ricordata nel
capitolo della radioattività (14C, per decadimento b, dà 14N).
Esaminiamo ora una reazione del II° ordine che può essere, per esempio,

2 A → prodotti

V = K [A]2 = -d[A]/dt da cui -d[A]/[A]2 = K dt

Se integriamo questa equazione differenziale otteniamo che

K è espressa in (sec-1 mol-1 dm3)


Un'altra reazione del II° ordine può essere:

A + B → prodotti

V = K [A] [B] = -d[A]/dt = -d[B]/dt

(le concentrazioni iniziali dovrebbero essere dello stesso ordine di grandezza).


Nelle reazioni del II° ordine sarà 1/[X] che è lineare rispetto al tempo.

Fig.20.4 Grafico 1/[A] contro t per una reazione


del II° ordine.
I puntini rossi rappresentano coppie di misure di
concentrazione a dati tempi di reazione.
Anche in questo caso si utilizza un sistema
matematico di ottimizzazione dei dati (spesso il
metodo dei minimi quadrati), che permette di
definire la retta migliore individuata dai punti
sperimentali; "migliore" significa, generalmente,
che la sommatoria degli errori per ogni punto è la
minima possibile.
Se i punti sperimentali stanno ragionevolmente
sulla retta, allora la reazione è del II° ordine
rispetto ad A.
La parola "ragionevole" vuole significare che i
punti devono scartare dalla retta in modo
assolutamente statistico: infatti anche punti che
giacciano su una curva regolare, come
un'iperbole, se trattati con i minimi quadrati,
individuerebbero una retta.
Del II° ordine è, per esempio, la reazione H2 (g) + I2 (g) → 2 HI (g)

Per essa infatti la velocità di reazione è V = K [H2] [I2]

Ma nel caso della reazione analoga H2 (g) + Br2 (g) → 2HBr (g)

la velocità sperimentale è V = K' [H2] [Br2]1/2

Perciò l'ordine totale di reazione è 3/2 e la K sarà espressa in C-1/2 t-1. Evidentemente le due
reazioni, apparentemente analoghe, avvengono in modo diverso.

Abbiamo visto così che si può capire di che ordine è una reazione dalle leggi integrate.
Per ordini superiori le leggi possono essere molto complesse, ma si può, giocando sulle
reciproche concentrazioni dei reagenti, trasformarle in reazioni del pseudo primo-ordine,
pseudo-secondo ordine riducendo le difficoltà dei calcoli (se, per esempio, la concentrazione
c di uno dei reagenti è 100 volte quella dell'altro, al procedere della reazione la concentrazione
c non cambia sensibilmente e la possiamo considerare costante).

Nella figura che segue si riporta un esempio di indagine spettrofotometrica applicata allo studio
cinetico di una reazione; si possono usare, a seconda del sistema studiato, tecniche diverse; la
scelta da parte del ricercatore è basata fondamentalmente sulla possibilità di evidenziare le
variazioni di concentrazione di uno dei componenti della reazione evitando interferenze da
parte di altri componenti. Si sfruttano le proprietà fisiche di uno dei componenti, perciò
indagini cinetiche possono essere effettuate anche con misure di conducibilità, di tempo di
ritenzione mediante gascromatografia o cromatografia liquido-liquido, mediante spettroscopia
nmr (risonanza magnetica nucleare) ecc.

Fig.20.5 Esempio di sequenza di


spettri di assorbimento
sovrapposti relativi ad una
soluzione in cui avviene una
reazione del II° ordine (in
particolare l'idrolisi dell'acido 2-
idrossi-5-nitrobenzensolfonico).
I circoletti in rosso evidenziano i
cosiddetti "punti isosbestici", che
corrispondono a lunghezze
d'onda in cui i 2 componenti A e
B della reazione A → B hanno un
coefficiente di assorbimento
molare ε (epsilon) uguale.
Questo è valido perciò solo se la
reazione è del tipo A → B e solo
per le l in cui le ε di
assorbimento di A e B sono
eguali.
Il vantaggio della presenza di
questi punti è che permette di
evidenziare l'assenza di reazioni
parallele o consecutive.

Nelle due reazioni precedenti, apparentemente simili, è evidente che esiste una differenza
sostanziale nel modo di procedere delle reazioni, cioè nel loro meccanismo; (ma se la velocità
fosse stata dello stesso ordine non avremmo comunque potuto affermare con certezza che il
meccanismo è lo stesso!).

Che cosa si intende per "meccanismo di una reazione"?


E' una successione teorica di processi elementari, in ognuno dei quali si forma un
composto intermedio, fino a raggiungere il prodotto finale.
Normalmente questi intermedi sono instabili e non rivelabili sperimentalmente: si può solo
dedurne l'esistenza dal "modello meccanicistico" proposto (e che deve, ovviamente,
concordare con i dati sperimentali).
Abbiamo parlato anche di "ordine di reazione", abbiamo visto che la somma degli esponenti
delle concentrazioni che compaiono nella espressione della velocità di reazione è l'ordine totale
di reazione e che questi esponenti si possono ricavare solo sperimentalmente da misure
cinetiche.
Quando si parla però di meccanismo di reazione, non si può parlare di ordine di reazione,
bensì di "molecolarità", che indica il numero di molecole coinvolte in ogni singolo stadio
intermedio o processo elementare in cui si pensa, modellisticamente, di suddividere il processo
totale di reazione.
stadio reazione
monomolecolare X→ S
bimolecolare X+X→ S
X+Y→ S
trimolecolare X+X+X→S
X+X+Y→ S
X+Y+Z→ S

Fig.20.6 Tipologia generale delle possibili molecolarità


ipotizzabili in un modello di meccanismo di reazione.

Molecolarità superiori a 3 sono assolutamente improbabili, dato che già è molto improbabile un
urto triplo (che esige l'incontro contemporaneo di 3 unità diverse e spesso secondo una
geometria molto precisa).
La molecolarità non è un dato sperimentale (come è invece l'ordine di reazione), ma un
concetto teorico mediante il quale viene proposto uno stadio del meccanismo di reazione.

Per chiarire concretamente la differenza tra ordine di reazione e molecolarità, vediamo un


esempio.

La reazione globale di formazione del


diossido di azoto da monossido e
ossigeno ha, come si vede dalla
definizione della velocità v, in rosso,
ordine di reazione 3. La reazione in
effetti ha un meccanismo in due stadi:
1) stadio di formazione di una
molecola di triossido da una di
monossido e una di ossigeno, con
molecolarità 2
2) stadio di formazione di due
molecole di diossido da una di
triossido e una di monossido, con
molecolarità 2

Se la reazione di formazione del triossido fosse isolabile (se, cioè, il triossido in quelle
condizioni potesse essere individuato come tale e non fosse un intermedio instabile), allora
potremmo determinare la velocità di reazione (e anche il suo ordine) del primo stadio; ma
questo non succede. In effetti ogni processo elementare avrebbe una sua velocità di reazione:
ma solo quando ognuna di esse è misurabile si può pensare ad una coincidenza della
molecolarità con l'ordine di reazione (poiché, in tal caso, potremmo considerare reazioni
separate e potremmo perciò determinarne le velocità sperimentali separatamente).
Ma spesso non si può misurare la velocità di uno stadio elementare: infatti di solito misuriamo
la velocità globale della reazione, che è sempre condizionata dallo stadio più lento (rate
determining step). Nel caso specifico della reazione mostrata sopra, il secondo stadio è
evidentemente molto più veloce del primo, dato che non è possibile "vedere" il triossido:
questo, appena si forma, reagisce col monossido per dare il diossido.

La ragione della diversa velocità delle reazioni risiede, in base al modello adottato,
nell'energia coinvolta nel processo.
Se consideriamo l'energia totale del sistema iniziale (cioè dei reagenti) ER e l'energia
totale del sistema finale (cioè dei prodotti) EP, per passare da una situazione all'altra è
necessario superare una barriera di potenziale, relativa alla formazione di un intermedio di
reazione detto complesso attivato, anch'esso caratterizzato da una sua energia detta
energia di attivazione Ea o E*.

Per capire questo, possiamo presentare il processo energetico con un grafico, detto profilo di
reazione.

Fig.20.7 Schema di profilo di


reazione.
L'ascissa si chiama "coordinata di
reazione", ma non ha un significato
fisico preciso, benché, per la reazione
reagenti → prodotti
essa possa avere una certa affinità
con il tempo di reazione (o,
quantomeno, ne ha la stessa
direzione).
Il complesso attivato è lo stesso, sia
per la reazione diretta, sia per la
reazione inversa; cambia invece
l'energia di attivazione poiché cambia
la situazione di partenza: nel caso
della reazione reagenti ® prodotti
l'energia di attivazione corrisponde a
∆E1; nel caso della reazione inversa,
prodotti → reagenti l'energia di
attivazione corrisponde a ∆E1+ ∆E2

E' facile da intuire che la velocità della reazione è proporzionale, in qualche modo, al numero di
molecole che hanno energia sufficiente per superare la barriera di potenziale; ogni molecola
possiede una energia che non è necessariamente eguale a quella delle sue simili se non a
livello statistico: esisterà cioè una distribuzione della E (e perciò della velocità) tra molecole
dello stesso tipo, distribuzione espressa dalla legge di Maxwell-Boltzmann (Maxwell, Scozia,
1831-1879), Boltzmann (Austria, 1844-1906).

Fig.20.8 Legge di distribuzione di Maxwell-


Boltzmann.
Ogni curva di distribuzione ha la forma di una
campana irregolare.
E' una legge sperimentale che rappresenta il
numero di particelle che possiedono una certa
energia, in funzione dell'energia stessa: cioè
ad ogni valore di energia (a una data T)
corriponde un numero definito di particelle con
quella energia.
A T1 < T2 la maggior parte delle molecole è
distribuita in un intervallo più ridotto di E:
poche molecole perciò potranno avere E
sufficiente per superare la barriera energetica.
All'aumentare della T (curva T2) aumenta il
numero di molecole con E sufficiente, perciò
aumenta la velocità della reazione.
Le aree sottese dalle due curve sono eguali
poiché rappresentano lo stesso numero totale
di molecole N.
Fig.20.9 J.Jacob Berzelius (1789-1848), chimico svedese
Jöns Jakob Berzelius (Wäfversunda 1779 - Stoccolma 1848),
chimico svedese, è considerato uno dei fondatori della chimica
moderna. Compì studi di medicina all'università di Uppsala e nel
1807, dopo aver esercitato la professione medica, divenne
professore di botanica e farmacia a Stoccolma. Nella stessa città fu
poi docente di chimica presso la Scuola di medicina e membro
dell'Accademia delle scienze.
I suoi studi, prevalentemente condotti su basi empiriche e
sperimentali, coprirono praticamente ogni branca della chimica,
distinguendosi per precisione e accuratezza. Scoprì il selenio e il
torio, e isolò diversi elementi tra cui silicio, zirconio e titanio;
introdusse nella chimica il termine "catalizzatore", e per primo definì
la natura e l'importanza della catalisi.
È merito suo l'attuale sistema di notazione, che prevede che ogni
elemento sia rappresentato da una o due lettere dell'alfabeto, e la
determinazione dei pesi atomici degli elementi, uno dei risultati
fondamentali della sua attività di ricerca. Contribuì inoltre allo
sviluppo della teoria dei radicali e di un'elaborata teoria
elettrochimica.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)

Berzelius si interessò di molti campi della chimica di allora; per esempio dei fenomeni elettrici
scoperti da Volta e della scala di elettronegatività per gli elementi allora conosciuti.
Inoltre si interessò anche della velocità delle reazioni, per la quale definì "catalizzatori" le
sostanze che permettono di accelerare una reazione, cosa che si può ottenere anche con un
aumento di temperatura.
L'azione dei catalizzatori consiste nel ridurre la barriera di potenziale cioè, in pratica,
l'energia di attivazione del processo; poiché alla fine della reazione i catalizzatori (almeno
quelli ideali) risultano non modificati, si può dedurre che agiscano sul meccanismo di
reazione, dando luogo a qualche stadio intermedio nuovo o diverso o ancora ad uno stato
attivato diverso ad energia minore di quello della reazione base.

Abbiamo detto che la velocità di reazione aumenta se aumenta la temperatura T. Ma come è


possibile sapere di quanto aumenta?
Questo problema è molto interessante (oltre ad altri fattori) anche per determinare le
condizioni operative più adatte in un processo chimico industriale; in effetti si cerca di
accelerare le reazioni con catalizzatori specifici piuttosto che con l'aumento di temperatura
(dato che aumentare la T costa molto economicamente e può facilitare anche reazioni
collaterali dannose). E' comunque importante sapere quale relazione matematica esista tra
velocità e temperatura.

Fig.20.10 Un ritratto di Svante Arrhenius


Svante August Arrhenius (Uppsala 1859 - Stoccolma 1927), chimico e fisico
svedese, contribuì a porre le basi della chimica moderna. Compì gli studi
superiori presso l'università di Uppsala e ancora studente approfondì le proprietà
di conducibilità elettrica delle soluzioni elettrolitiche. Nel 1887 formulò la teoria
della dissociazione elettrolitica, in parte già esposta nella sua tesi di laurea,
secondo cui nelle soluzioni elettrolitiche i composti chimici presenti in soluzione
si dissociano in ioni, anche quando non vi sia corrente che attraversa la
soluzione. Arrhenius postulò inoltre che il grado di dissociazione aumenta quanto
più viene diluita la soluzione, ipotesi che successivamente si rivelò esatta solo
per gli elettroliti deboli. La teoria di Arrhenius, inizialmente ritenuta errata, fu
poi accettata a livello generale, e divenne una delle pietre miliari della chimica
fisica e dell'elettrochimica moderne.
Nel 1889 egli osservò che la velocità delle reazioni chimiche aumenta al crescere
della temperatura con ritmo proporzionale alla concentrazione delle molecole
attivate. Nel 1895 Arrhenius divenne professore ordinario di chimica
all'università di Stoccolma e nel 1905 presidente dell'Istituto Nobel per la
chimica e la fisica. Tra i riconoscimenti dei quali fu insignito ricordiamo il premio
Nobel per la chimica, ottenuto nel 1903. Scrisse opere di chimica fisica, chimica
biologica, elettrochimica e astronomia.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)
L'equazione di Arrhenius (Svezia, 1859-1927, Nobel 1903) mette in relazione la T con
l'energia di attivazione Ea (cioè la minima energia che le molecole debbono possedere perché
la reazione proceda).

L'equazione è:

lg K = lg A - Ea/2,303 R (1/T)
in cui:
K rappresenta la costante specifica di velocità; A la costante specifica della reazione; Ea
l'energia di attivazione; R la costante universale dei gas; T la temperatura assoluta.

Fig.20.11 Diagramma lg K
contro 1/T per applicare
l'Equazione di Arrhenius (e per
ricavare l'energia di attivazione
di una reazione).
Portando in diagramma il
logaritmo decimale della K di
velocità contro 1/T
(determinando perciò le K di
velocità a diverse temperature),
è possibile determinare l'energia
di attivazione Ea di una reazione
mediante il calcolo del
coefficiente angolare (pendenza
della retta).

∆y / ∆x = - Ea/2,303 R
21 - L'equilibrio chimico
Nel rappresentare le reazioni abbiamo finora usato una sola freccia → che indica la direzione
da reagenti a prodotti, come se le reazioni potessero andare solo in quella direzione, cioè come
se esse fossero tutte irreversibili; in effetti quasi tutte le reazioni chimiche sono reversibili
e dovremo perciò usare una doppia freccia e scrivere

Questo comporta che dai prodotti si possa ottenere i reagenti; in realtà avremo, quando il
sistema si sarà stabilizzato, quando cioè sarà all'equilibrio, una situazione in cui saranno
presenti tutti i componenti, ognuno con una concentrazione che non cambia nel tempo
(sempre che non cambino i parametri: pressione p, numero di moli dei singoli componenti ni,
temperatura T).
Nella figura 21.1 vengono evidenziate le variazioni delle concentrazioni nel tempo, sia che si
parta dai reagenti, sia che si parta dai prodotti. Notare che le concentrazioni di partenza
possono essere casuali: quando si crea un sistema di reazione, non è necessario che le
quantità dei componenti rispettino esattamente i coefficienti stechiometrici. La reazione
procede comunque, in base ai coefficienti stechiometrici propri della reazione.

Per esempio: se ho una reazione del tipo:


2A+B C
e se il mio sistema è formato da 1 mole di A e 10 moli di B, la reazione procede comunque ma,
supponendo che reagiscano quasi tutte le moli di A (cioè che l'equilibrio sia spostato quasi
completamente a destra), alla fine della reazione avrò circa 0,5 moli di C e resteranno ancora
circa 9,5 moli di B.

Fig.21.1 Grafico C/t, Concentrazione


contro tempo, che rappresenta la
variazione di concentrazione di ogni
singolo componente in un sistema chiuso
in cui avviene la reazione sopra indicata.

Se si parte da A (verde) e B (viola),


questi avranno una certa concentrazione
a t=0, mentre C (rosso) e D (azzurro)
hanno concentrazione nulla; mano a
mano che la reazione procede le
concentrazioni di A e B diminuiscono e
contemporaneamente quelle di C e D
aumentano fino a raggiungere un valore
limite.
Viceversa se si parte da C e D.
Sia che si parta dai reagenti A e B, sia dai
reagenti C e D, le concentrazioni finali
sono le stesse e corrispondono alla
situazione di equilibrio.

Questa situazione si chiama di equilibrio dinamico: si può considerare raggiunto quando la


velocità di reazione diretta è eguale a quella della reazione inversa: per questo si chiama
"dinamico", perché, anche quando l'equilibrio è raggiunto, le reazioni diretta e inversa
continuano ad avvenire, ma senza modificare le concentrazioni delle specie presenti.
La posizione dell'equilibrio, cioè le mutue concentrazioni dei componenti, dipende da vari
fattori, ma, a parità di questi, non cambia, sia che si parta dai reagenti sia dai prodotti: il
risultato finale, nelle stesse condizioni, è lo stesso, anche se la velocità di raggiungimento può
essere diversa, ma questo è solo un problema cinetico.

Poiché all'equilibrio le concentrazioni dei componenti sono costanti, sarà costante anche
un loro rapporto, che esprime la legge dell'azione di massa (nel senso che se modifico la
concentrazione di un componente, automaticamente si modificano le altre in modo che il
rapporto generale Kc resti costante).

Per convenzione scriviamo al numeratore i prodotti della reazione così come noi l'abbiamo
scritta: se considerassimo la reazione inversa, avremmo al numeratore A e B, al denominatore
C e D.
Gli esponenti sono i rispettivi coefficienti stechiometrici (ricordiamo che essi non sono
necessariamente eguali a quelli che compaiono nella velocità di reazione, anche se è possibile
trovare fra questi e quelli una relazione, purché si conosca il meccanismo di reazione).

La costante Kc viene chiamata costante di equilibrio che è una costante termodinamica;


dipende solo dalle sostanze in equilibrio e dalla T del sistema; il simbolo "c" è dovuto al fatto
che essa è espressa mediante le concentrazioni (mol dm-3).
Il valore di Kc è ovviamente costante, ma esso rappresenta la costante di equilibrio solo
quando il sistema è effettivamente all'equilibrio; prima del raggiungimento esprime la legge
dell'azione di massa.
Queste espressioni dell'azione di massa ci permettono di calcolare come variano le
concentrazioni degli altri componenti del sistema se variamo la concentrazione (o la pressione
pi o il numero di moli ni) di uno di essi (sempre però a T costante).
La K perciò potrà avere delle dimensioni, che dipendono dalla somma algebrica degli
esponenti o essere adimensionale se (a+b) = (c+d).
Quest'ultima condizione significa che non c'è variazione del numero di moli nel corso della
reazione.

Quando si tratta di gas, si usano spesso le pressioni parziali anziché le concentrazioni (basta
ricordare che, per la legge di Dalton sulle miscele gassose ideali, la pi è proporzionale a ni);
otterremo, in questo caso, una Kp.

Kp = Kc solo quando le K sono adimensionali, quando cioè non c'è variazione del numero di
moli.
Sarà così, per esempio per la reazione di dissociazione dell'acido iodidrico in fase gassosa 2
HI  H2 + I2, mentre per la reazione di sintesi dell'ammoniaca N2 + 3 H2  2 NH3 sarà

Kp ≠ Kc.

Infatti, poiché la concentrazione, per definizione è ni/V, dalla legge generale dei gas
avremo che ni/V = pi/RT, e se sostituiamo nella Kc avremo:

cioè la Kc è uguale alla Kp moltiplicata per un fattore (1/RT) elevato ad un esponente che
rappresenta la variazione del numero di moli caratteristico del processo.
Analogamente potremmo definire una Kn.
Solo se ∆n = O allora Kp = Kc = Kn.

La K, pur rappresentando la stessa situazione reale, può assumere valori diversi se scriviamo
la reazione in modo diverso, perciò è molto importante sapere "come" è scritta la reazione, per
dare il giusto valore e il giusto significato alla costante di equilibrio.
Un esempio: consideriamo la stessa reazione scritta in 3 modi diversi:

I) N2 + 3 H2  2 NH3
II) 1/2 N2 + 3/2 H2  NH3
III) 2 NH3  N2 + 3 H2

Le tre K sono legate tra loro:


KI = KII 2 = KIII -1
Di solito si può dedurre di quale reazione si tratti in base alle dimensioni della K relativa (purché
∆n ≠O).

Fig.21.2 Tre espressioni diverse della K e relative dimensioni, in funzione del diverso modo di
scrittura della reazione

In realtà le relazioni che esprimono le K e la legge dell'azione di massa (espresse considerando


le concentrazioni o le pressioni parziali) sono perfettamente valide solo per sostanze ideali:
occorerebbe utilizzare le "attività" al posto delle pressioni o delle concentrazioni, che
corrispondono a concentrazioni o pressioni "efficaci".
L'attività è legata alla concentrazione o alla pressione ideali mediante un coefficiente di attività
moltiplicativo.
Ma in prima approssimazione consideriamo che il sistema sia ideale.

Se, quando il sistema è in equilibrio, si cerca di modificare qualcosa dall'esterno, il sistema


reagisce cercando di minimizzare l'effetto provocato.
Questo è detto principio dell'equilibrio mobile o principio di Le Chatelier (Henry Louis Le
Chatelier, Francia, 1850-1936).
La posizione dell'equilibrio si sposta nella direzione che tende a ristabilire le condizioni iniziali.
Per esempio, se si impone dall'esterno un aumento di pressione, l'equilibrio si sposta verso una
situazione di minore pressione (la pressione è però ininfluente se non c'è variazione del
numero di moli); nel caso della reazione I di formazione dell'ammoniaca, vista sopra, poiché i
reagenti comportano un numero maggiore di moli rispetto al prodotto (con rapporto 2/1)
l'equilibrio si sposterà verso destra.
Oppure, se si cerca di aumentare la T, la posizione dell'equilibrio andrà nella direzione che
comporta un assorbimento di calore.

Negli equilibri in sistemi omogenei (quelli fin qui considerati), occorre tener conto di tutti i
componenti, mentre nei sistemi eterogenei si considera che i componenti in fase condensata
(solida o liquida) abbiano "attività" costante (non "nulla" o eguale a 1!); perciò questa attività
può venire conglobata nella K di equilibrio.
Consideriamo per esempio la reazione di equilibrio:
CaCO3  CaO + CO2

la costante Kp è semplicemente Kp = pCO2


dato che le "attività" di CaCO3 e di CaO, essendo solidi (e purché presenti), sono costanti.

Molte reazioni di equilibrio sono reazioni di dissociazione; possiamo ragionare definendo il


grado di dissociazione x, come il rapporto tra numero di molecole dissociate e numero di
molecole iniziali.

Fig.21.3 Equilibrio di dissociazione gassosa e relativa K di equilibrio espressa anche mediante il grado di
dissociazione

Si può perciò calcolare la situazione della reazione di dissociazione purché si conosca la K,


oppure si può determinare la K se si conosce il grado di dissociazione.
Un esempio numerico: se abbiamo 1 mole iniziale di pentacloruro di fosforo e questo, a una
certa T, ha un grado di dissociazione x del 30% (0,3), all'equilibrio avremo:
0,3 moli (x) di tricloruro; 0,3 moli di cloro; 0,7 moli (1-x) di pentacloruro. La K avrà perciò il
valore 0,32/0,7.

In base al principio di Le Chatelier un aumento del volume del recipiente (o una diminuzione
della p) favorisce la dissociazione del pentacloruro di fosforo.
In una reazione come la dissociazione dell'acido iodidrico 2 HI  H2 + I2, dato che non c'è
variazione del numero di moli nella dissociazione, una variazione di p o di V sarebbe
ininfluente.
22 - La termodinamica delle reazioni
La termodinamica chimica studia le condizioni che devono essere soddisfatte perché le
reazioni avvengano, e si basa su tre principi. Per esempio, la costanza dell'espressione
dell'azione di massa all'equilibrio è una conseguenza diretta di questi tre principi.

• I° Principio o legge della conservazione dell'energia: l'energia dell'universo è costante e


non varia a causa di trasformazioni fisiche o chimiche di sistemi. In particolare ogni sistema, in
un determinato stato, ha una energia interna E che è funzione di stato.

• II° Principio, che riguarda l'entropia: ogni trasformazione spontanea avviene in modo da
far aumentare lo stato di disordine complessivo del sistema e dell'ambiente esterno; la
degradazione dell'E comporta un aumento del disordine totale; l'entità del disordine è espressa
dalla funzione di stato entropia S.

• III° Principio, che riguarda l'entropia assoluta: il valore minimo di S è zero e si ha in


ogni sistema microscopicamente realizzabile in un solo modo (gli altri modi devono essere
assolutamente improbabili); si ha tale situazione solo nei cristalli perfetti allo zero assoluto.
Poiché l'entropia assoluta è definita come S = k lnW, in cui W=molteplicità dello stato, solo se
W=1 allora S=0.

Per capire che cosa significhi quanto enunciato nel III° principio, vediamo alcuni esempi di
possibili difetti reticolari, cioè di errori nello sviluppo di cristalli (che sono le strutture
teoricamente più regolari e che, perciò, dovrebbero potersi presentare "in un solo modo").
Macroscopicamente, di solito, questi difetti non sono visibili, eppure sono spesso presenti.
Quando esiste un difetto reticolare, ovviamente, il sistema si potrà presentare in un numero
elevatissimo di possibilità, dato che lo stesso difetto reticolare può trovarsi in moltissime
posizioni. Solo se il cristallo è "perfetto", cioè senza difetti, si potrà presentare in un modo
solo.

Fig.22.1 Difetto reticolare: linea di


dislocazione.
Una estremità è un asse elicogiro (screw
SS'), l'altra uno spigolo puro (EE').
Lo slittamento avviene sull'area
ombreggiata.
Questo fenomeno avviene
frequentemente quando lo sviluppo del
cristallo avviene lungo gli spigoli (come se
le unità elementari che via via si
aggiungono seguissero un andamento a
spirale lungo i vari spigoli).
In questo caso AD è uguale a BC, ma lo
strato superiore al piano ABCD presenta
una lunghezza inferiore per BC che per
AD (potrebbe mancare, per esempio, una
unità strutturale). La conseguenza è che
lo spigolo verticale centrale non parte da
B ma un po' più a destra; il difetto (o
mancanza di materiale) risiede nella parte
colorata in rosso.
Fig.22.2 Difetti reticolari:
a) dislocazione di una unità di
spigolo.
All'altezza del cerchio rosso è
evidente, rispetto al terzo strato
dall'alto la mancanza di una unità
strutturale nel quarto strato.
Questa situazione viene poi
ripetuta negli strati inferiori 5 e
6.
Si parla, in questo caso, di
"vacanza reticolare", che risiede
al centro del cerchio rosso.

b) dislocazione di una unità


sull'asse elicogiro; i cerchi pieni
rappresentano atomi sopra, quelli
vuoti sotto.
Mentre nel primo strato dall'alto e
nel quinto c'è una perfetta
corrispondenza tra gli atomi
superiori e gli inferiori, la
deformazione fa sì che, nel terzo
strato gli atomi inferiori e
superiori siano perfettamente
sfasati; negli strati secondo e
quarto esiste una situazione
intermedia, di transizione.

Fig.22.3 Difetto reticolare di impaccamento tra due strati con dislocazioni parziali nella
grafite.
Nelle posizioni estreme, a sinistra e a destra, gli atomi di C dello strato sottostante
(atomi chiari) compaiono esattamente al centro dell'esagono superiore (atomi in nero).
Partendo da sinistra si nota una deformazione del reticolo con sfasamento degli atomi
inferiori rispetto a quelli superiori, fino a raggiungere una situazione simile a quella
iniziale.

Ogni trasformazione reale, cioè irreversibile, avviene nella direzione in cui si produce un
aumento di S.
Bisogna però considerare sempre il "disordine totale", cioè quello del sistema più quello
dell'ambiente esterno.

In chimica sono interessanti particolarmente le trasformazioni a p e T costanti.


In queste condizioni si definisce una nuova funzione di stato G, energia libera, definita
come:
G = H -TS
Dove

G = energia libera (G, dal nome del chimico fisico Gibbs)


H = entalpia (H, da heat, calore, contenuto termico del sistema)
T = temperatura assoluta (espressa in Kelvin K)
S = entropia
In ogni trasformazione spontanea, a p e T costanti (e in cui si ha lavoro solo di volume), si
ha una diminuzione della G del sistema: solo in tal caso infatti si ha un aumento della S
complessiva.
Nelle trasformazioni reversibili, all'equilibrio, nelle stesse condizioni, ∆G = 0

Perciò nei processi il sistema si evolve in modo che la G assuma il minimo valore (a quelle p e
T).

Una diminuzione di G (essendo G definita da due addendi), può avvenire o per diminuzione
dell'entalpia H o per aumento dell'entropia S (poiché T = costante).
Se considerassimo solo il termine H, sarebbero possibili solo i processi esotermici, cioè quelli
con ∆H < 0.
Invece possono avvenire anche processi endotermici, cioè con ∆H > 0, purché ci sia,
contemporaneamente, un aumento di S tale che sia T∆S > ∆H.

Comunque processi esotermici in cui si abbia una diminuzione di S sono possibili purché
|T∆S| < |∆H| (Ricordare che i valori compresi tra due barre verticali sono presi in valore
assoluto).

Esaminiamo ora una reazione reversibile, che comporti una situazione di equilibrio, per
esempio quella di formazione dell'ammoniaca dagli elementi

N2 + 3 H2  2 NH3

La reazione procederà da sinistra a destra se la G (di 1 mole di N2 e di 3 di H2) è maggiore


della G di 2 moli di NH3 e viceversa.

Fig.22.4 Diagramma energetico per un


sistema di reazione.
A sinistra i reagenti R con la loro entalpia H
totale, il termine -TS totale (legato al
contenuto entropico) e il conseguente valore di
energia libera G.
A destra i rispettivi valori per i prodotti P.
La variazione di H è lineare, mentre il termine
-TS segue un andamento con un minimo
(corrispondente ad un massimo di entropia).
Dalla somma punto per punto dei due termini
H e -TS si ottiene una curva per G, anch'essa
con un minimo, corrispondente alla situazione
di equilibrio.
Ogni punto corrisponde ad una certa
composizione del sistema espressa dalla
composizione x (rapporto tra reagenti e
prodotti, che varia da 1 a 0 andando da
sinistra a destra) con un minimo
corrispondente alla composizione del sistema
in condizioni di equilibrio.

Il sistema sarà in equilibrio quando la ΣiGi di tutti i componenti del sistema sarà la minima
possibile: ad essa corrisponderà una certa conversione x dei reagenti a prodotti.
La reazione può avvenire anche in senso opposto, partendo dai prodotti: la situazione di
equilibrio sarà la stessa, sempre corrispondente alla composizione x del sistema.

Tutti i precedenti ragionamenti presuppongono situazioni isoterme, ma qual è l'effetto della T


sull'equilibrio?
Consideriamo la reazione esotermica in fase gassosa di formazione di acido solfidrico dagli
elementi (per la quale ∆H = -87 kJ):

H2 + 1/2 S2  H2S + 87 kJ
Se determiniamo le Kp (espressa in atm-1/2) alle varie temperature T (K) e portiamo i dati in
un diagramma Kp/T, otterremo una curva di tipo esponenziale; se proviamo però a rielaborare
i dati trasformandoli in ln Kp e in 1/T, e riportiamo i nuovi dati in un diagramma ln Kp contro
1/T otterremo una funzione lineare.

Nella tabella seguente sono riportati i dati numerici originali (T e Kp) e quelli rielaborati (1/T
e ln Kp); nella figura successiva i grafici corrispondenti.

T (K) Kp (atm-1/2) 1/T (x 103) ln Kp

1023 106 0,978 4,66


1103 51,3 0,907 3,95
1218 20,2 0,821 3,02
1338 9,20 0,747 2,21
1405 6,21 0,712 1,83
1537 3,09 0,651 1,12
1667 1,81 0,600 0,59

Fig.22.5 Tabella con i dati sperimentali e rielaborati per la reazione


esotermica di formazione dell'acido solfidrico

Fig.22.6 Diagrammi per la


reazione esotermica, in fase
gassosa, di formazione
dell'acido solfidrico dagli
elementi.

Diagramma Kp contro T
relativo alle coppie di valori
delle Kp e delle T per la
reazione esotermica, in fase
gassosa, di formazione di
acido solfidrico dagli
elementi (diagramma, dati e
grafico in rosso); la curva è
di tipo esponenziale.

Diagramma ln Kp contro
103/T relativo alle coppie
dei valori precedenti
rielaborati, per la stessa
reazione esotermica
(diagramma, dati e grafico in
blu); l'andamento è
perfettamente lineare.

I dati si possono cioè interpretare mediante una funzione del tipo

Kp = cost. (e-∆H/RT)
e, passando ai logaritmi,

ln Kp = cost. + (-∆H/RT)

La pendenza della retta è perciò -∆H/R.

Questa è la situazione che si presenta per una reazione esotermica: un aumento della T
provoca una diminuzione della Kp (se al procedere della reazione si sviluppa calore, un
aumento della T provocato dall'esterno causerà, per il principio di Le Chatelier, una
regressione della reazione, dato che ciò comporta un assorbimento di calore).
Se consideriamo invece la reazione endotermica, sempre in fase gassosa, di formazione del
monossido di azoto dagli elementi (per la quale ∆H = 182 kJ):

N2 + O2  2 NO - 182 kJ

sia il grafico Kp/T sia quello ln Kp contro 1/T hanno un andamento diverso; la funzione della
prima coppia di dati è un ramo di parabola, quella della seconda coppia dei dati, rielaborati allo
stesso modo, è però sempre una retta ma con pendenza opposta.

Fig.22.7 Diagrammi per la


reazione endotermica, in fase
gassosa, di formazione del
monossido di azoto dagli
elementi.

Diagramma Kp contro T relativo


alle coppie di valori delle Kp e
delle T per una reazione
endotermica, in fase gassosa, di
formazione di monossido di azoto
dagli elementi (diagramma, dati
e grafico in rosso); la curva
rappresenta un ramo di parabola.

Diagramma ln Kp contro 103/T


relativo alle coppie dei valori
precedenti rielaborati, per la
stessa reazione endotermica
(diagramma, dati e grafico in
blu); l'andamento è lineare e con
pendenza negativa.

Per una reazione endotermica un aumento della T provoca un aumento della Kp (se al
procedere della reazione viene assorbito calore, un aumento della T provocato dall'esterno
causerà, per il principio di Le Chatelier, un avanzamento della reazione, dato che ciò comporta
un assorbimento di calore).

Ricapitolando, per il principio di Le Chatelier, un aumento di T


"sfavorisce" le reazioni esotermiche
"favorisce" le reazioni endotermiche
23 - L'acqua
Gli equilibri in soluzione acquosa sono particolarmente importanti in molti sistemi chimici e in
tutti i sistemi biologici e geologici. E' essenziale perciò conoscere alcune caratteristiche
dell'acqua, fondamentali per la comprensione di buona parte dei processi che riguardano
l'uomo e l'ambiente in cui vive.
L'acqua, allo stato liquido, è costituita da agglomerati di molecole unite da legami di idrogeno,
in una situazione dinamica, in cui cioè i legami di idrogeno si formano e si rompono
continuamente.

Fig.23.1 Rappresentazione
schematica planare di molecole di
acqua con legami di idrogeno.
Nel disegno i legami OH di ogni
molecola appaiono, per semplicità,
disegnati a 90° tra loro (sappiamo
che non è vero!); in verde i legami
covalenti normali; in rosso i legami
a idrogeno.
Quanto più questi ultimi sono
lunghi, tanto più essi sono
allentati, perciò o si stanno
formando o si stanno rompendo.
Quando un legame di idrogeno si
forma, si possono allentare quelli
covalenti preesistenti, che si
possono rompere a loro volta, in
una situazione di totale dinamicità.

Una piccola parte delle molecole è dissociata secondo la reazione

H2O  H+ + OH-

Questa scrittura è una approssimazione semplicistica, poiché, in realtà, questi ioni (come tutti
gli ioni in soluzione acquosa!) sono "solvatati" da altre molecole di acqua; sono cioè
praticamente circondati dalla parte polare delle molecole circostanti che è di segno opposto
rispetto alla carica dello ione.

Fig.23.2 Rappresentazione schematica planare della solvatazione degli ioni H+ e OH- da parte di molecole di
acqua.

Il tratto sottile in rosso rappresenta legami relativamente deboli di interazione elettrostatica.

In pratica potremmo scrivere, per esempio, in base alla figura,

12 H2O  H11O5+ + H13O7-


ma, non potendo conoscere esattamente il numero di molecole coinvolte, non sarebbe
possibile scrivere una formula corretta.
Per semplicità e per convenzione scriviamo perciò

2 H2O  H3O+ + OH-


in cui
H3O+ = ione idrossonio
e
OH- = ione ossidrile

L'equilibrio ha ovviamente una sua costante, ma poiché l'attività di H2O è costante, essa può
venire conglobata nella costante di equilibrio e si ottiene così:

K [H2O] = [H3O+] [OH-] = Kw

Questa Kw, che si chiama prodotto ionico dell'acqua, a 25°C, vale

(Kw)25°C = 1.00 x 10-14 mol2 dm-6

Nell'acqua pura è ovviamente [H3O+] = [OH-] = 10-7 mol dm-3

La Kw aumenta all'aumentare della T, poiché la reazione di dissociazione è endotermica


(trascurando la solvatazione); per esempio, a 50°C

(Kw)50°C = 5,47 x 10-14 mol2 dm-6

Questo significa che in acqua pura, a 50°, la [H3O+] è maggiore che a 25°.

Se, restando in soluzioni abbastanza diluite, introduciamo in acqua n moli di un acido forte
HA, questo si dissocia completamente in ioni (poiché è "forte"): gli ioni H+, solvatati, danno n
moli di H3O+ e, analogamente, di A-.

Lo stesso succede con n moli di base forte BOH, da cui avremo n moli di OH- e di B+.

In ogni caso viene modificato il rapporto esistente nell'acqua pura tra H3O+ e OH-.
Potremo ricavare, mediante calcoli semplicissimi, le concentrazioni relative dalla Kw, dato che
essa, a una data T, è costante (il prodotto ionico dell'acqua è direttamente derivato da una
costante termodinamica!).

Per i chimici (e biologi, microbiologi, biochimici, medici, geologi, ecc.) è fondamentale definire
una unità di misura dell'acidità delle soluzioni, cioè della [H3O+]. Poiché è scomodo usare
numeri molto piccoli o esponenziali in base 10, preferiamo utilizzare una nuova unità di
misura, il pH.

p rappresenta l'operatore matematico -lg, perciò

pH = -lg [H3O+]

Il pH è definito perciò come il logaritmo decimale della concentrazione molare degli ioni
idrogeno, con segno negativo. Lo stesso operatore p è ovviamente applicabile a qualunque
grandezza la cui misura sia esprimibile come un esponenziale in base 10.

Poiché è
Kw = [H3O+] [OH-]
allora
pKw(25°C) = pH + pOH = 14
E' utile allora definire una scala per pH e per pOH (che sono d'altronde legate attraverso il
pKw)

Fig.23.3 Scale di pH e di pOH, cioè di acidità e basicità. pH = pOH = 7 corrisponde alla neutralità. La somma
pH+pOH = 14 in ogni soluzione acquosa a 25°C. Da notare che le scale non iniziano da 0 e non terminano a 14:
questi valori corrispondono semplicemente a soluzioni che contengano 1 sola mole/litro di acido o base forte; è
facile ottenere soluzioni acide con pH<0 (una soluzione che contenga 10 moli/litro di HCl ha infatti pH = -1 e pOH
= 15).
24 - Acidi e basi
La prima definizione di acido e di base è stata data dal chimico svedese Svante Arrhenius

Fig.24.1 Un ritratto di Svante Arrhenius

Svante August Arrhenius (Uppsala 1859 - Stoccolma 1927), chimico e fisico


svedese, contribuì a porre le basi della chimica moderna. Compì gli studi
superiori presso l'università di Uppsala e ancora studente approfondì le proprietà
di conducibilità elettrica delle soluzioni elettrolitiche. Nel 1887 formulò la teoria
della dissociazione elettrolitica, in parte già esposta nella sua tesi di laurea,
secondo cui nelle soluzioni elettrolitiche i composti chimici presenti in soluzione
si dissociano in ioni, anche quando non vi sia corrente che attraversa la
soluzione. Arrhenius postulò inoltre che il grado di dissociazione aumenta
quanto più viene diluita la soluzione, ipotesi che successivamente si rivelò
esatta solo per gli elettroliti deboli. La teoria di Arrhenius, inizialmente ritenuta
errata, fu poi accettata a livello generale, e divenne una delle pietre miliari della
chimica fisica e dell'elettrochimica moderne.
Nel 1889 egli osservò che la velocità delle reazioni chimiche aumenta al crescere
della temperatura con ritmo proporzionale alla concentrazione delle molecole
attivate. Nel 1895 Arrhenius divenne professore ordinario di chimica
all'università di Stoccolma e nel 1905 presidente dell'Istituto Nobel per la
chimica e la fisica. Tra i riconoscimenti dei quali fu insignito ricordiamo il premio
Nobel per la chimica, ottenuto nel 1903. Scrisse opere di chimica fisica, chimica
biologica, elettrochimica e astronomia.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)

Il premio Nobel lo ottenne proprio per la sua teoria sulla dissociazione elettrolitica. Egli disse
che:
acido = molecola che, dissociandosi, fornisce ioni H+
base = molecola che, dissociandosi, fornisce ioni OH-

perciò, per un acido HA  H+ + A-


mentre per una base BOH  B+ + OH-

Ma la definizione non può andare bene per sostanze come SO2, CO2, NH3, che pure rendono
acida o basica una loro soluzione acquosa, oltre a trascurare che, per esempio, NaOH non è
"una" molecola definita (ricordare i reticoli cristallini ionici).

Potremmo usarla in prima approssimazione, definendo però acido una sostanza in grado di far
aumentare [H+] e analogamente per base una sostanza in grado di far aumentare [OH-].
Usando questa nuova definizione modificata, CO2 è acida perché, con l'acqua, reagisce:

CO2 + H2O  HCO3- + H+


e NH3 basica:
NH3 + H2O  NH4+ + OH-

Più corretta e completa è la definizione di J.N.Brønsted e di T.M.Lowry, del 1923, che


introduce il concetto di acido e base coniugati; così sarà:

acido = donatore di protoni


base = accettore di protoni

Si parla di "protoni" veri e propri e la base non dipende dalla presenza del gruppo OH. Perciò
saranno:

acidi: HCl, HNO3, H2O, NH4+, HS-, Al(H2O)63+, etc.

basi: H2O, OH-, HS-, NH3, Cl-, O2-, SO42-, etc.

Le sostanze che possono comportarsi come acidi e come basi, a seconda dell'ambiente in cui si
trovano (H2O, HS-, HSO4-, etc.) sono dette anfiprotiche.
Si chiama base coniugata Bi di un acido Ai quella che deriva da quell'acido e viceversa.

A1 + B2  A2 + B1
+
H2O + H2O  H3O + OH-
HCl + H2O  H3O+ + Cl-
H2O + NH3  NH4+ + OH-
NH3 + NH3  NH4+ + NH2-
H2SO4 + H2SO4  H3SO4+ + HSO4-

Fig.24.2 Acidi e basi coniugate. Sono indicati alcuni esempi.


Nella tabella, A1 e B1 sono coniugati, poiché l'acido A1 dà luogo alla base B1;
analogamente sono coniugati B2 e A2.

Notare che, come l'acqua, anche NH3 e H2SO4 presentano il fenomeno detto autoprotolisi
(una molecola funge da acido, un'altra eguale da base). Questo fenomeno è comprovato dal
fatto, per esempio, che, come H2O, anche NH3 liquida e H2SO4 puro permettono il passaggio
di elettricità, cosa che non potrebbe avvenire se non fossero presenti ioni nella soluzione.

acido A1 base B1
acidità HClO4 ClO4- basicità
massima HMnO4 MnO4- minima

HClO3 ClO3-
H2SeO4 HSeO4-
HI I-
HBr Br-
HCl Cl-
HSO4- SO42-
HClO2 ClO2-
HNO2 NO2-
HF F-
CH3COOH CH3COO-
HClO ClO-
NH4+ NH3
HCO3- CO32-
H2O2 HO2-
H2O OH-
acidità HS- S2- basicità
minima - 2- massima
OH O

Fig.24.3 Scala di acidità di una serie di sostanze acide e di basicità delle basi coniugate
corrispondenti. Quanto più è forte l'acido, tanto più è debole la sua base coniugata e viceversa.

Gli acidi possono essere distinti in idracidi, quando non contengono ossigeno, come gli acidi
alogenidrici: acido iodidrico HI, acido bromidrico HBr, acido cloridrico HCl, acido fluoridrico
HF, oppure come l'acido solfidrico H2S e l'acido azotidrico HN3; e in ossiacidi di formula
generale HnXOm.
Possiamo dedurre quale sia la forza di un ossiacido in base a una regoletta matematica che
prende in considerazione i coefficienti n ed m della formula generale HnXOm.

m-n = 0 (HnXOn) acidi debolissimi (HClO, H3AsO3, H4SiO4)

m-n = 1 (HnXOn+1) acidi deboli e medi (HClO2, H2CO3, H3AsO4)


m-n = 2 (HnXOn+2) acidi forti (HClO3, H2SO4, H2SeO4)

m-n = 3 (HnXOn+3) acidi fortissimi (HClO4, HMnO4)

Non è possibile avere m-n = 4, perché ciò comporterebbe un numero di ossidazione formale 9,
incompatibile con la struttura elettronica degli atomi.

Una ulteriore generalizzazione nella definizione di acido è dovuta alla teoria di G.N.Lewis
(1923), valida anche per sistemi non acquosi.

acido = sostanza che può accettare una coppia di elettroni


base = sostanza che può cedere una coppia di elettroni non impegnati in legami chimici.

Così si possono giustificare tutte le situazioni possibili:

acido + base →
+ -
H3O + OH → 2 H2O
BF3 + NH3 → H3N®BF3
Ag+ + 2 CN- → Ag(CN)2-
AlCl3 + Cl- → AlCl4-

Fig.24.4 Acidi e basi di Lewis. Alcuni esempi di coppie acido-base di


caratteristiche diverse.

Si tratta di una teoria molto generale, ma spesso, dato che operiamo in ambiente acquoso,
preferiamo usare quella di Brønsted-Lowry per comodità.
Per essa, la forza di un acido corrisponde alla sua tendenza a cedere un protone ad una base.
Alcuni acidi sono così forti che, anche se in alte concentrazioni, la reazione di dissociazione
è quasi totale, quantitativamente spostata a destra

HA + H2O  H3O+ + A-

e perciò, se chiamiamo Ca la concentrazione iniziale dell'acido, allora

[H3O+] = Ca

Con acidi deboli, per la reazione di dissociazione


HA + H2O  H3O+ + A-
si arriva ad una situazione di equilibrio, con
concentrazioni misurabili di HA, A-, H3O+.
Quantitativamente la forza di un acido è espressa
dalla sua K di equilibrio di dissociazione, in cui
però la [H2O] è conglobata nella Ka (dato che la
sua attività o, in prima approssimazione,
concentrazione, è costante)
Analogamente per le basi deboli si ha
B + H2O  BH+ + OH-
da cui è possibile ricavare la relativa Kb

E' perciò possibile determinare il pH se si conosce la K.


Per acidi e basi molto forti la K non viene data poiché è molto difficile da determinare (e
comunque molto alta, ma poco significativa).

Praticamente acidi e basi forti sono elettroliti forti, cioè si dissociano completamente; acidi
e basi deboli sono elettroliti deboli, cioè si dissociano solo parzialmente.
I sali, che già allo stato solido posseggono un reticolo ionico, sono elettroliti forti, e i loro
ioni (come tutti gli ioni), in acqua, vengono solvatati.
Alcuni di essi (Li+, Na+, K+, Cl-, NO3-, ClO4-, I-, etc.) restano come tali anche dopo la
solvatazione, essendo acidi coniugati di basi molto forti o basi coniugate di acidi molto forti;
perciò non provocano nessuna variazione di pH.
Altri invece, dopo la solvatazione, possono reagire con molecole di acqua di solvatazione
secondo reazioni acido-base: avviene il fenomeno della idrolisi (dal greco udro lusis = rottura
dell'acqua), con conseguenze sul pH della soluzione.

Per esempio danno luogo a soluzioni con:


pH > 7 carbonato di sodio Na2CO3, cianuro di potassio KCN, fluoruro di potassio KF,
idrosolfuro di sodio NaHS, acetato di sodio CH3COONa, etc.

pH < 7 nitrato di ammonio NH4NO3, cloruro di zinco ZnCl2, solfato di alluminio Al2(SO4)3,
etc.
Si può capire ciò che succede, in base alla teoria di Brønsted-Lowry; prendiamo come esempio
il caso del cianuro di potassio:

KCN → K+ + CN-
+
K , solvatato, non reagisce con H2O (è un acido debolissimo, coniugato di una base forte),
mentre CN- invece reagisce (è una base forte, coniugata di un acido debole) secondo la
reazione:
CN- + H2O  HCN + OH-

ed essendoci un aumento di ossidrili, il pH aumenta.

Analogamente, con nitrato d'ammonio:

NH4NO3 → NH4+ + NO3-

NO3-, solvatato, non reagisce con H2O (è una base debolissima, coniugata di un acido forte),
mentre NH4+ invece reagisce (è un acido forte, coniugato di una base debole):

NH4+ + H2O  NH3 + H3O+

ed essendoci un aumento di ioni idrogeno solvatati, il pH diminuisce.

Chiamiamo costanti di idrolisi Ki le costanti di equilibrio delle reazioni di idrolisi in cui [H2O]
è conglobata nella K.

Le Ki si possono facilmente collegare con le Ka, le Kb, la Kw.


In effetti il loro valore è, normalmente, molto piccolo, cioè le moli di CN- e di NH4+ che
reagiscono sono in percentuale molto bassa, ma sufficienti per provocare alte variazioni di pH.
Se poi ambedue gli ioni dovuti alla dissociazione elettrolitica del sale danno idrolisi (come
succede, per esempio, con acetato d'ammonio CH3COONH4, o con carbonato di zinco ZnCO3)
la variazione di pH sarà minore e i calcoli più complessi.

Alcuni cationi danno idrossidi che possono reagire sia come acidi sia come basi, a seconda
dell'ambiente e del pH della soluzione, e sono detti perciò anfoteri (per esempio Al3+, Cr3+,
Pb2+, Zn2+, etc.)
Al(OH)3 + H3O+  Al(OH)2+ + 2 H2O
Al(OH)3 + OH-  Al(OH)4-

Abbiamo detto che anche piccole quantità di ioni come NH4+, CN-, possono provocare alte
variazioni di pH.
Effetti ancora maggiori sul pH avvengono ovviamente se mettiamo in soluzione acidi o basi
molto forti.
Tale variazione può venire minimizzata se, in soluzione, sono presenti un acido debole e un
suo sale (HA e A-) o una base debole e un suo sale (B e BH+). Queste sono dette soluzioni
tampone.
La loro importanza è enorme, in particolare nei sistemi biologici: per esempio, il sangue umano
ha pH ≈ 7,4 e non varia che di pochi centesimi di unità di pH, anche in condizioni
drammatiche; è infatti "tamponato"; se così non fosse, molte reazioni biochimiche essenziali
per la vita verrebbero modificate o rese impossibili, con conseguenze irreparabili (l'acidosi del
sangue è molto pericolosa).
Supponiamo di avere, in soluzione acquosa, una concentrazione CA di un acido debole HA, e
una concentrazione CS di un suo sale A-.
Possiamo dire, approssimando, che [HA] = CA (dato che l'acido è debole, perciò si dissocia in
minima parte, tanto più che è già presente A- che tende a far regredire la già bassa
dissociazione dell'acido) e che [A-] = CS

Sostituendo nella Ka di equilibrio dell'acido questi valori, otteniamo

[H3O+] = Ka CA/CS

Una eventuale diluizione (purché non eccessiva) non porta a variazioni di pH, in quanto il
rapporto CA/CS non cambia.

Se vengono aggiunte alla soluzione quantità di acido o di base, relativamente piccole rispetto
alla quantità del tampone, queste danno reazione quantitativa con A- o con HA; il rapporto
CA/CS cambia, ma di poco, perciò cambia poco anche il pH.
I calcoli sono più semplici se si passa ai logaritmi
pH = pKa + lg CS/CA

L'effetto sul pH viene così "tamponato".


E' chiaro che il sistema sarà in grado di "tamponare" quantità tanto maggiori di acido o di
base, quanto maggiori sono CA e CS (non il loro rapporto!). Si parla, in questa ottica, di potere
tamponante.

Un comportamento analogo presentano sostanze dette indicatori acido-base, che hanno


colori diversi se sono in forma indissociata o dissociata.
Gli indicatori sono acidi o basi deboli e, poiché ne basta una concentrazione bassissima per
evidenziare il viraggio (variazione di colore), non influenzano il pH della soluzione durante la
titolazione (procedimento di determinazione, nel nostro caso, della quantità di acido o di base
in una soluzione mediante aggiunta di soluzioni note di base o di acido).
Se chiamiamo H In un indicatore generico:
H In + H2O  H3O+ + In-

Il rapporto [HIn] / [In-] viene molto influenzato dal pH: praticamente la soluzione assumerà
il colore di HIn quando il rapporto è >10; il colore di In- quando il rapporto è <0,1.
Gli indicatori sono perciò molto utili nelle titolazioni acido-base.
25 - Equilibri eterogenei
Fino ad ora abbiamo trattato soluzioni acquose, che sono sistemi omogenei, ma talvolta si
presentano anche sistemi eterogenei in cui sono coinvolti equilibri eterogenei, molto
importanti nella chimica analitica; generalmente questi sono legati alla presenza di sali poco
solubili che, in quanto sali, sono sempre elettroliti forti (tanto più che la loro solubilità è molto
bassa).

Consideriamo un sale poco solubile AB: questo si dissocia:

AB  A- + B+

ma poiché il sale poco solubile è presente come corpo di fondo, la sua concentrazione [AB] (o
meglio la sua attività) è costante, perciò

K [AB] = [A-] [B+] = KPS

KPS è chiamato prodotto di solubilità; essendo derivato da una K di equilibrio, è anch'esso


una costante, a T costante, purché sia presente il sale come corpo di fondo (altrimenti non
potremmo conglobare la sua attività nella costante).

KPS è strettamente legato alla solubilità s del sale (ricordiamo che solubilità = quantità
massima del sale che può essere sciolta in una data quantità di solvente ad una certa T).
Poiché i sali sono elettroliti forti, la loro concentrazione in forma indissociata è costante ma
assolutamente trascurabile: perciò la concentrazione degli ioni è ricavabile dalla solubilità del
sale.

Se consideriamo un sale generico BnAm e ricordando che (s) significa solido, (aq) significa in
soluzione acquosa, si possono individuare gli equilibri indicati in figura:

Fig.25.1 Equilibri di un sale poco solubile in fase solida, in soluzione acquosa, in forma
ionizzata

Praticamente si fa riferimento all'equilibrio indicato con le frecce in rosso, data l'osservazione


precedente; l'attività del sale è condizionata dalla presenza del sale come corpo solido in fase
eterogenea rispetto alla soluzione, perciò alla sua solubilità s.
Prendiamo come esempio il fosfato tricalcico:

Ca3 (PO4)2 (s)  3 Ca2+ + 2 PO43-

KPS = [Ca2+]3 [PO43-]2 = (3s)3 (2s)2 = 27 x 4 x s5

E' ovvia la necessità di usare i logaritmi in questi casi!


Volendo infatti ricavare la solubilità s conoscendo la KPS, si avrà:

s = (KPS /108)1/5 e passando ai logaritmi


lg s = 1/5 lg KPS - 1/5 lg 108
Sono noti i prodotti di solubilità di moltissimi sali poco solubili; per alcuni si tratta di valori
veramente bassissimi (se si ricorda che la costante di Avogadro è circa 6x1023, si può
calcolare che, per esempio per HgS, la solubilità è di 1 molecola in poco meno di 10.000 litri di
soluzione!).
Si riportano, nella tabella, alcuni valori significativi di prodotti di solubilità a 25°C.

sale KPS sale KPS sale KPS


-5 -10
CaSO4 2,4x10 BaSO4 1,1x10 FeS 3,7x10-19

SrCrO4 3,6x10-5 AgCl 1,6x10-10 ZnS 1,2x10-23

Ca(OH)2 1,3x10-6 Ag2CrO4 1,2x10-12 PbS 3,4x10-28

BaF2 1,7x10-6 AgBr 7,7x10-13 Ag2S 1,6x10-49

PbSO4 1,8x10-7 AgCN 1,6x10-14 HgS 1,6x10-54

CaCO3 8,7x10-9 AgI 1,5x10-16

Fig.25.2 Prodotti di solubilità di alcuni sali.

La conoscenza dei prodotti di solubilità (e della solubilità) ha molta importanza sia in chimica
analitica (molte determinazioni qualitative e quantitative sfruttano queste caratteristiche) sia in
chimica applicata (basti pensare ai problemi del degrado dei materiali lapidei calcarei e agli
interventi per il restauro).
In particolare è interessante notare che dalla KPS del carbonato di calcio, costituente principale
dei marmi, si può calcolare una solubilità di circa 9x10-5, mentre da quella del solfato di calcio,
prodotto del degrado dei marmi a causa delle piogge acide, si ricava una solubilità di circa
5x10-3, cioè quasi 60 volte maggiore: per tale ragione, quando il carbonato viene trasformato
in solfato dall'acido solforico trasportato dall'acqua piovana, parte del materiale viene dilavato.
E questo è solo un esempio.

Ma se alla soluzione di un sale poco solubile viene aggiunto uno degli ioni costituenti il sale,
che cosa succede?
Poiché a quella T, il KPS è costante, dovrà diminuire la concentrazione dell'altro ione (e dovrà
precipitare, cioè separarsi dalla soluzione, una certa quantità di sale). Questo è detto effetto
dello ione comune ed è una conseguenza del principio di Le Chatelier.
Prendiamo per esempio una soluzione di cloruro d'argento AgCl:

[Ag+] [Cl-] = 1,6 x 10-10


perciò
[Ag+] = [Cl-] = (1,6 x 10-10)1/2 = 1,265 x 10-5

Se ora aggiungo Cl- (per esempio sotto forma di NaCl) in concentrazione 10-2 M, avremo:

[Ag+] [Cl-] = [Ag+] (10-2 + 1,265 x 10-5) = 1,6 x 10-10

[Ag+] = 1,6 x 10-10/10-2 = 1,6 x 10-8

La concentrazione di Ag+ deve perciò ridursi di molto; precipiterà, sotto forma di AgCl tutto
quello che è in eccesso.
Questo effetto viene utilizzato, per esempio, per ridurre la concentrazione di ioni pericolosi
nelle acque di scarico industriali.
26 - Come descrivere un sistema
Se, in un sistema, esistono sostanze soggette a diversi equilibri, il sistema potrà venire
descritto correttamente solo se terremo conto di tutte le costanti di equilibrio
contemporaneamente.
Occorrerà perciò risolvere un sistema di più equazioni a più incognite (di solito le
concentrazioni delle varie specie) nelle quali devono comparire le espressioni di tutte le K.
Facciamo un esempio di come si possa descrivere un sistema, cioè di come si possano
determinare le concentrazioni di tutte le specie presenti nel sistema. Qualsiasi sistema
reale, anche il più complesso dal punto di vista chimico, potrà essere descritto individuando
tutte e sole le equazioni necessarie per costruire il "sistema matematico"; è chiaro che, quanto
più il "sistema chimico" è complesso, cioè quanto maggiore è il numero di specie presenti in
esso, tanto più laboriosa sarà la risoluzione del "sistema matematico" necessario per
descriverlo.

Consideriamo il sistema formato da una soluzione acquosa 0,1 M di acetato d'ammonio,


CH3COONH4.

Le specie presenti nella soluzione sono solo 6:

CH3COOH CH3COO- NH4+ NH4OH H3O+ OH-

Per descrivere completamente la soluzione (cioè per conoscerne esattamente la composizione)


è perciò necessario risolvere un sistema matematico di 6 equazioni con 6 incognite.
Queste equazioni debbono essere però indipendenti una dall'altra, altrimenti non si può
arrivare alla soluzione del problema.
Nel risolvere il sistema di equazioni sarà utile fare approssimazioni (per esempio trascurare
addendi di valore piccolo rispetto ad altri); ma per far questo non bastano conoscenze
matematiche, occorrono conoscenze chimiche.

Le 6 equazioni sono le seguenti: qualsiasi altra equazione corretta è riconducibile ad una di


queste, per questo sistema.

Ka = [CH3COO-] [H3O+] / [CH3COOH] costante di dissociazione dell'acido

Kb = [NH4+] -
[OH ] / [NH4OH] costante di dissociazione della base
+ -
Kw = [H3O ] [OH ] prodotto ionico dell'acqua
-
[CH3COO ] + [CH3COOH] = 0,1 concentrazione totale acido acetico/acetato

[NH4+] + [NH4OH] = 0,1 concentrazione totale ammonio/ammoniaca


- -
[CH3COO ] + [OH ] = [NH4+] +
+ [H3O ] condizione di elettroneutralità

Fig.26.1 Sistema di 6 equazioni con 6 incognite per definire completamente una soluzione di acetato di
ammonio

Utilizzando questo metodo si potranno descrivere completamente anche sistemi più complessi.
Se, nel costruire il sistema a 6 equazioni, una di esse non è indipendente, arriverò a una
"soluzione" finale costituita ancora da una equazione a due incognite; evidentemente il
problema non è risolto! Ciò è molto sgradevole, anche perchè trattare un sistema a 6 equazioni
comporta un impegno di tempo non indifferente.
27 - L'elettrochimica
Sappiamo che esistono sostanze che conducono la corrente elettrica.

Le migliori sono i metalli (lo si capisce ricordando le caratteristiche del legame metallico),
detti conduttori di I specie: se sottoposti a una ddp (differenza di potenziale), in essi
avviene passaggio di elettroni, che trasportano cariche, ma non materia.

L'intensità della corrente elettronica dipende dalla resistenza R del conduttore.


Altre sostanze sono gli elettroliti, le cui soluzioni trasportano corrente, con trasferimento
anche di materia, mediante gli ioni; sono detti conduttori di II specie. A questa classe
appartengono anche i sali fusi e alcuni liquidi puri (come acido solforico puro e ammoniaca
liquida, che presentano il fenomeno dell'autoprotolisi come l'acqua).
L'esistenza di ioni positivi e negativi è stata postulata da Arrhenius nel 1883 (Nobel 1903).

Gli elettroliti forti (sali, idrossidi alcalini e alcalino-terrosi, che sono ionici anche nello stato
solido, acidi forti, etc.), in soluzione acquosa sono dissociati completamente, o quasi, in ioni.
Gli elettroliti deboli invece sono poco dissociati (per esempio molti acidi organici).
L'acqua è un ottimo solvente per sostanze ionizzabili purché la solvatazione porti ad un
guadagno energetico che compensi l'energia di rottura dei legami attrattivi che esistono in fase
solida.

Potremo perciò avere, per molecole polari (anche se a struttura covalente, non ionica) una
reazione di dissociazione, favorita dall'acqua, che può essere totale o parziale.

HCl + H2O  H3O+ + Cl- totale

NH3 + H2O  NH4+ + OH- parziale

H2SO4 + H2O  H3O+ + HSO4- totale

HSO4- + H2O  H3O+ + SO42- parziale

Gli ioni sono solvatati da altre molecole di acqua.

Se in una soluzione di elettroliti immergiamo due lamine metalliche e ad esse imponiamo una
forza elettromotrice fem (o differenza di potenziale ddp), si ha passaggio di corrente e,
alle due lamine, che si chiamano elettrodi, avvengono processi chimici.

Fig.27.2 Rappresentazione schematica di una


apparecchiatura costituita da una soluzione di
elettroliti in cui sono immerse due lamine
metalliche sottoposte a ddp mediante una pila.
Gli ioni positivi (cationi) vanno verso il catodo
che si trova a potenziale elettrico più basso
(catodo dal greco kata = sotto).
Gli ioni negativi (anioni) verso l'anodo, a
potenziale più alto (anodo dal greco ana =
sopra).
All'interfaccia catodo-soluzione si ha una
riduzione (assorbimento di elettroni e-);
all'anodo invece ossidazione (cessione di
elettroni).
Gli elettroni ceduti, sotto l'effetto della forza
elettromotrice passano dall'anodo verso il
catodo attraverso un circuito metallico esterno
e seguono perciò un percorso da destra a
sinistra.
Avremo così un flusso di cariche elettriche che
avviene in parte nel circuito esterno (elettroni)
e in parte in soluzione (ioni).
Le reazioni che avvengono sono:

riduzione (al catodo) Mn+ + n e- → M

Alcuni ioni metallici (Ag+, Cu++, etc.) possono depositarsi sul catodo.
In presenza di acidi, idrossidi, sali di metalli alcalini e alcalino-terrosi, può essere l'acqua a
subire la riduzione:
2 H2O + 2 e- → H2 + 2 OH-

ossidazione (all'anodo) M→ Mn+ + n e-

Questo tipo di reazione avviene se l'anodo è costituito da un metallo attaccabile (che possa
perciò passare in soluzione sotto forma di ioni).

Se si tratta di alogenuri X (escluso però il fluoro F), in soluzione avviene la reazione:

2 X- → X2 + 2 e-

Se l'anodo è costituito da un metallo "nobile" (come Pt, Au, etc.) e se non ci sono anioni che si
possano scaricare facilmente, è l'acqua a subire l'ossidazione:

2 H2O → O2 + 4 H+ + 4 e-

Questo processo si chiama elettrolisi e può avvenire anche in assenza di solvente, per
esempio nei sali fusi, purché esistano ioni in grado di muoversi (NaCl, HgCl2, KBr, NaOH, etc.).
Per esempio, per NaCl fuso (e in assenza di ossigeno e di acqua!) si hanno le seguenti
reazioni:
al catodo: Na+ + e- → Na all'anodo 2 Cl- → Cl2 + 2 e-

L'elettrolisi di NaCl permette, con catodo di Hg, di ottenere Na metallico in amalgama, cosa
impossibile in acqua, poiché si ridurrebbe H2O dando H2 anziché il metallo desiderato.
Ricordando che la carica elementare è 1,602 x 10-19 C (C = Coulomb, unità di misura
elettrica) e che una mole contiene 6,022 x 1023 unità, per un metallo monovalente occorrerà
una quantità di elettricità = 1 mole di elettroni = 96486,7 C
Approssimando, definiamo questa quantità di elettricità Faraday F

1 F = 96500 C

La stessa quantità basterà solo per 0,5 moli di metallo bivalente e così via.

Michael Faraday
Fig.27.3 Una fotografia di Michael Faraday
Michael Faraday (Newington Butts 1791 - Hampton Court 1867), fisico e
chimico britannico è noto per avere scoperto l’induzione elettromagnetica
e le leggi dell’elettrolisi. Compì studi irregolari; nel 1812 frequentò un
corso tenuto dal chimico Humphry Davy, del quale divenne poi assistente
presso il laboratorio di chimica della Royal Institution. Le prime ricerche
di Faraday si svolsero nel campo della chimica, sulle orme di Davy. Uno
studio sul cloro condusse alla scoperta di due nuovi cloruri di carbonio e
del benzene. Compì inoltre ricerche sulle proprietà ottiche del vetro e
ottenne sperimentalmente la liquefazione di alcuni gas comuni.
Le ricerche che fecero di Faraday il più insigne scienziato sperimentale
dei suoi tempi ebbero come oggetto l’elettricità e il magnetismo. Nel
1821 riuscì a produrre un campo magnetico impiegando un conduttore
attraversato da corrente elettrica. Nel 1831 fece seguire a questa
scoperta quella dell’induzione elettromagnetica e, nello stesso anno,
dimostrò l’interazione tra correnti elettriche.
Nel frattempo studiò i fenomeni dell’elettrolisi e ne formulò le due leggi
fondamentali.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)
Le leggi stechiometriche di Faraday sulla elettrolisi sono del 1834

1) la quantità di elettrolita decomposto durante l'elettrolisi è proporzionale alla quantità


totale di elettricità Q = i ∆t in cui i è l'intensità di corrente, ∆t è il tempo per cui essa
circola.
2) la massa di ogni specie chimica trasformata ad ogni elettrodo per il passaggio di 1 F di
elettricità è uguale al prodotto della massa molare, per il coefficiente di reazione, diviso il
numero di elettroni scambiati (è perciò proporzionale alla massa equivalente).

Abbiamo visto così che l'energia elettrica può portare a trasformazioni chimiche; ma è possibile
trasformare energia chimica in energia elettrica?

Possiamo far avvenire delle reazioni redox (di ossidoriduzione) in una apparecchiatura
controllata, detta cella elettrochimica o pila.

Se mettiamo una lamina di zinco Zn in una soluzione di solfato di rame CuSO4 (che è di colore
blu dovuto ad un complesso di Cu++ con l'acqua), Zn si ricopre progressivamente di polvere
rossastra, mentre la soluzione scolora.
Avviene cioè la reazione: Zn + CuSO4 → Cu + ZnSO4

La polvere è Cu che si riduce (assorbendo elettroni dalla lamina di Zn); la soluzione scolora
poiché diminuisce la concentrazione di ioni Cu++ (che, solvatato, è blu).
Contemporaneamente Zn deve ossidarsi a Zn++ e passa in soluzione (anche se questo
processo non è visibile, dato che Zn++ è incolore.
In base a queste considerazioni, proviamo a costruire una "pila" per sfruttare l'energia chimica
del processo che, come si è visto, avviene spontaneamente; per far questo è necessario
mantenere separati i due processi di ossidazione e riduzione.

Fig.27.4 Pila Daniell, che permette di ottenere


energia elettrica da una reazione chimica di
ossidoriduzione.
Una lamina di Zn è immersa in una soluzione di
Zn++ , una di Cu in una soluzione di Cu++.
Le due lamine sono collegate mediante un circuito
elettrico che comprende una resistenza R (per
ridurre e controllare la velocità di passaggio degli
elettroni e perciò del processo redox) e un
amperometro A (per evidenziare l'intensità della
corrente).
Le due soluzioni sono collegate mediante il ponte
salino P, costituito da un sifone contenente una
soluzione di elettrolita inerte rispetto alla reazione
(KCl, NH4Cl), supportata su agar-agar.
Il ponte salino permette il riequilibrio elettrico
delle soluzioni quando avviene la reazione redox;
se non ci fosse, il circuito sarebbe bloccato e la
reazione non potrebbe procedere.

In questo modo, costruendo la pila, abbiamo praticamente separato la reazione


Zn + CuSO4 → Cu + ZnSO4
in due reazioni parziali:

all'anodo (osssidazione): Zn → Zn++ + 2 e-

al catodo (riduzione): Cu++ + 2 e- → Cu

ed abbiamo potuto così mettere in evidenza che avviene una trasformazione di energia chimica
in energia elettrica; se le due reazioni fossero avvenute nella stessa soluzione avremmo avuto
una meno evidente (e meno interessante) trasformazione di energia chimica in energia
termica.

Ognuno dei due elementi che costituiscono la pila sono detti semielementi.
Praticamente tutte le reazioni redox spontanee possono generare energia elettrica.
Se invece di sfruttare le reazioni per ottenere energia elettrica, fornissimo noi l'energia
elettrica, invertendo la direzione del flusso elettronico, potremmo far avvenire la reazione
inversa. E' possibile perciò far avvenire anche reazioni non spontanee (elettrolisi).

Chiamiamo catodo l'elettrodo sul quale avviene la riduzione, anodo quello su cui avviene
l'ossidazione (esattamente come nell'elettrolisi).
La fem generata (a circuito esterno interrotto, altrimenti non la potremmo misurare poiché
cambierebbe continuamente) è una misura della tendenza della reazione ad avvenire ed è
perciò collegabile, parlando in termini di termodinamica delle reazioni, al DG della
trasformazione (come vedremo in seguito).
Se ∆G = 0 anche fem = 0 (perciò un sistema in equilibrio non può generare energia elettrica).

E' possibile costruire pile anche con metalli nobili, detti elettrodi inerti, immersi in soluzioni
contenenti le forme ossidata e ridotta di una stessa specie chimica (Fe2+/Fe3+, Sn2+/Sn4+,
Mn2+/MnO4-, etc.).

Altre pile si possono costruire utilizzando dei gas a contatto con elettrodi inerti; un esempio è
l'elettrodo standard a idrogeno.

Fig.27.5 Elettrodo standard a idrogeno.

Perché sia standard occorre che la pressione di H2 sia 1


atmosfera e che la concentrazione di H+ sia 1 molare.
Può funzionare sia come anodo (ossidazione), sia come
catodo (riduzione), a seconda del semielemento con
cui viene accoppiato per costruire la pila.

Il suo potenziale standard viene preso, per


convenzione, come lo zero della scala dei potenziali ed
è perciò un riferimento importante per definire la scala,
benché esso sia piuttosto delicato da usare e sia difficile
mantenerne le condizioni standard (se procede la
reazione cambia infatti la concentrazione della
soluzione).
In effetti, anche se nella scala dei potenziali usata
normalmente, i valori si considerano misurati rispetto a
questo elettrodo in pratica se ne utilizzano altri, più
semplici, stabili e riproducibili.

Il potenziale di un elettrodo è misurato in volt e dipende dalle concentrazioni delle forme


Ox (ossidata) e Red (ridotta), secondo la relazione di Nernst

Fig.27.6 Walther Hermann Nernst (1864-


1941)
Walther Hermann Nernst (Briesen 1864-
Berlino 1941), fisico e chimico tedesco è noto
soprattutto per la legge che fu poi
generalizzata da Max Planck come terzo
principio della termodinamica.
Studiò alle università di Zurigo, Berlino, Graz
e Würzburg. Dopo aver insegnato
all'università di Gottinga, lavorò in quella di
Berlino (1905) dove, in seguito, divenne
direttore dell'Istituto di fisica sperimentale.
Inventò una lampada a incandescenza,
ancora oggi impiegata in laboratorio, ma il
nucleo fondamentale della sua attività di
ricerca fu lo studio degli equilibri chimici.
Elaborò la teoria del potenziale
elettrochimico e le leggi sulla conduzione di
corrente elettrica nelle soluzioni.
Nel 1920 ricevette il premio Nobel per la
chimica.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)
Per una reazione generica
Ox + ne- → Red

la relazione di Nernst è la seguente

in cui: E è il potenziale dell'elettrodo ed E° il suo potenziale normale, cioè il potenziale


dell'elettrodo in condizioni standard (concentrazione 1M per tutte le specie in soluzione,
pressione 1 atm per i gas; T=25°C; metalli puri; sali poco solubili presenti come corpo di
fondo); ed inoltre:
R = 8,313 (J mol-1 K-1);
F = 96500 (C);
T = 298,16 (K) (cioè 273.16 + 25);
n = numero di elettroni in gioco

Per convenzione si scrive così un potenziale di riduzione, in base alla reazione indicata
sopra. Normalmente usiamo sempre gli E di riduzione.
Il potenziale di ossidazione (reazione inversa) sarebbe eguale, ma di segno opposto.

Gli E° sono tabulati e, se riferiti a reazioni in cui compaiono gli elementi con stato di
ossidazione 0, la sequenza viene chiamata serie elettrochimica degli elementi.

Ox + ne- → Red E°
+ -
Li + e → Li -3,045
+ -
K + e → K -2,925
++ -
Ba + 2e → Ba -2,9
++ -
Ca + 2e → Ca -2,87
+ -
Na + e → Na -2,714
Mg++ + 2e- → Mg -2,37
Be++ + 2e- → Be -1,85
+++ -
Al + 3e → Al -1,66
++ -
Ti + 2e → Ti -1,63
++ -
Mn + 2e → Mn -1,18
V++ + 2e- → V -1,18
++ -
Zn + 2e → Zn -0,763
+++ -
Cr + 3e → Cr -0,74
++ -
Fe + 2e → Fe -0,44
Cd++ + 2e- → Cd -0,403
++ -
Co + 2e → Co -0,277
++ -
Ni + 2e → Ni -0,25
++ -
Sn + 2e → Sn -0,136
++ -
Pb + 2e → Pb -0,126
2 H+ + 2e- → H2 0,000
++ -
Cu + 2e → Cu +0,337
- -
O2 + 4e + 2 H2O → 4 OH +0,401
+ -
Cu + e → Cu +0,521
- -
I2 + 2e → 2I +0,536
Hg++ + 2e- → 2 Hg +0,789
Ox + ne- → Red E°
+ -
Ag + e → Ag +0,799
+++ -
Rh + 3e → Rh +0,8
++ -
Pd + 2e → Pd +0,987
Br2 + 2e- → 2 Br- +1,065
Cl2 + 2e- → 2 Cl- +1,359
+++ -
Au + 3e → Au +1,50
+ -
Au + e → Au +1,68
- -
F2 + 2e → 2F +2,87

Fig.27.7 Serie elettrochimica degli elementi: comprende quasi tutti gli elementi più comuni
nei loro stati di ossidazione più abituali. La freccia indicata non è doppia (benché le reazioni
siano sempre possibili anche in senso contrario) poiché consideriamo sempre la reazione di
riduzione.

Ma sono stati determinati gli E° per moltissimi altri sistemi redox, che non coinvolgono
direttamente gli elementi allo stato di ossidazione 0. Nella tabella successiva ne vengono
riportati alcuni.

Ox + ne- → Red E°
2 SO3-- + 2 H2O + 2e -
→ S2O4-- + 4 OH -
-1,12
SO4-- + H2O + 2e -
→ SO3-- + 2 OH- -0,93
+++
Cr + e- → Cr++
-0,41
2 SO4-- + 4H +
+ 2e -
→ S2O6-- + 2 H2O -0,22
CrO4-- + 4 H2O + 3e -
→ Cr(OH)3 + 5 OH -
-0,13
S4O6-- + 2e -
→ 2 S2O3-- +0,08
++++ - ++
Sn + 2e → Sn +0,154
Cu++ + e- → Cu+ +0,153
SO4-- + 4H +
+ 2e -
→ H2SO3 + H2O +0,17
Fe(CN)6--- + e-
→ Fe(CN)6---- +0,36
MnO4- + e-
→ MnO4-- +0,564
MnO4-- + 2 H2O + 2e -
→ MnO2 + 4 OH -
+0,60
O2 + 2 H+ + 2e- → H2O2 +0,682
+++ - ++
Fe + e → Fe +0,771
++ -
2 Hg + 2e → Hg2++ +0,920
NO3- + 4H +
+ 3e -
→ NO + 2 H2O +0,96
+ - ++
MnO2 + 4H + 2e → Mn + 2 H2O +1,23
Tl+++ + 2e- → Tl+ +1,25
Cr2O7-- + 14 H+ + 6e- → 2 Cr+++ + 7 H2O +1,33
MnO4- + 8H +
+ 5e -
→ Mn ++
+ 4 H2O +1,51
MnO4- + 4H +
+ 3e -
→ MnO2 + 2 H2O +1,695
+++
Co + e- → Co++ +1,842
S2O8-- + 2e- → 2 SO4-- +2,01

Fig.27.8 Scala dei potenziali normali per una serie di reazioni abbastanza comuni.

Mano a mano che aumenta E°, aumenta la capacità ossidante del sistema che, se in condizioni
standard, potrà ossidare tutti i sistemi con E° inferiore, se in condizioni standard anch'essi.
Se il sistema, come succede quasi sempre, non è in condizioni standard, occorre calcolare il
potenziale effettivo dei sistemi in gioco utilizzando la relazione di Nernst per sapere quale
dei due elettrodi sia il più ossidante (cioè con potenziale più alto).
Dagli E° è possibile risalire alla K di equilibrio della reazione chimica totale che avviene nella
pila.
Infatti, per la reazione generica
aA + bB cC + dD

la variazione di energia libera per a moli di A che hanno reagito sarà

Per una pila reversibile (cioè con intensità di corrente erogata tendente a zero), il lavoro
elettrico compiuto è
-∆G che è uguale a E (in cui E è la differenza di potenziale, ddp) per la carica passata (cioè
nF).

L'utilità dei metodi elettrochimici è enorme: permette, per esempio, di determinare il pH di


una soluzione (si può perciò seguire una titolazione) misurando la fem di una pila formata da
un elettrodo di riferimento e da un elettrodo sensibile alla concentrazione [H3O+].
Per far questo, invece dell'elettrodo a idrogeno, poco pratico, si preferisce usare l'elettrodo a
vetro (detto anche "a membrana").
Infatti, su una sottile membrana di certi vetri si crea una ddp se esso separa due soluzioni a
diversa [H3O+].

Fig.27.9 Elettrodo a vetro.


Il bulbo contiene un elettrodo di riferimento Ag/AgCl/Cl-.
In figura la espressione ideale del potenziale della membrana di vetro.
Il meccanismo non è chiaro, ma si suppone che i cationi delle cavità tetraedriche della silice
(essendo il vetro costituito essenzialmente di SiO2, CaO, Na2O) si possano spostare verso altre
cavità, se sottoposti a campo elettrico.
Praticamente il sistema è formato da una soluzione a [H3O+] = costante (cioè tamponata) e
di un elettrodo di riferimento interno (Ag/AgCl/Cl-); la E di quest'ultimo dipende da
[Ag+], che è però condizionata dal prodotto di solubilità di AgCl, KPS AgCl.

Fig.27.10 Potenziale o fem di un elettrodo di riferimento Ag/AgCl/Cl-

Altri elettrodi di riferimento possono essere quelli a calomelano di schema (Hg/Hg2Cl2(sat),


KCl(xM)), il cui E dipende da [Cl-], che può essere , per esempio, O,1M, 1M o saturo di Cl- con
KCl solido presente al fondo.

Stiamo parlando, da un po' di tempo, di "misure di fem di una pila"; ma come si può
determinare la fem di una pila?
Innanzitutto occorre operare in condizioni di reversibilità termodinamica, cioè senza
passaggio di corrente (altrimenti variano le concentrazioni e, di conseguenza, gli E) e senza
allontanarsi troppo dalle condizioni di equilibrio (∆G=0), altrimenti la relazione di Nernst non è
più valida.

Per la misura si usa uno strumento chiamato potenziometro.

Fig.27.11 Schema di potenziometro.


La batteria B invia corrente attraverso il filo
calibro AO (reocordo) e la resistenza variabile
R.
Si regola R finché si ha una certa ddp tra A e O.
Quindi, dopo aver inserito il circuito scelto col
deviatore D (la cella Weston di riferimento W,
per la taratura, oppure la cella C da misurare) si
regola il reostato col puntatore P in modo che il
galvanometro non segni passaggio di corrente.
Il galvanometro G, infatti, non ha la funzione di
misurare l'intensità di corrente come un
amperometro, bensì quella di individuare quando
non passa corrente (la differenza sostanziale tra
un amperometro e un galvanometro è che,
mentre nell'amperometro lo zero è a fondo scala
a sinistra, nel galvanometro è centrale; inoltre la
sua sensibilità è elevatissima); la situazione in cui
l'ago dell'indicatore punta sullo zero si chiama
punto di azzeramento.

Col potenziometro si bilancia la fem incognita con una fem nota, in modo che non passi
corrente; il metodo è detto metodo di opposizione o di Poggendorf. Quando, variando la
resistenza R e in base alla relazione V =R i, (differenza di potenziale V uguale al prodotto della
resistenza R per l'intensità della corrente i) si è tarato il reocordo AO in modo da conoscere la
ddp tra i due estremi A e O, il puntatore P del reostato individua in ogni momento una ddp
proporzionale alla lunghezza del tratto AP, lunghezza che chiameremo lAP.

Operando con la cella incognita C si individua un tratto AP.


Tutte le operazioni debbono avvenire evitando al massimo qualsiasi passaggio di corrente, per
non modificare le ddp delle celle.
Possiamo dire che Ecella = i RAP; cioè la ddp della cella è proporzionale a i e alla resistenza del
tratto AP.
Ma poiché non conosciamo i, sarà necessario prendere come riferimento un'altra cella di ddp
nota, come la cella Weston; con questa individueremo un tratto AW tale che EWeston = i RAW.
Tenendo presente che la resistenza di un filo calibro è proporzionale alla sua lunghezza l,
potremo dire che:
RAP/RAW = lAP/lAW

Dividendo ora membro a membro, avremo che:

Ecella/EWeston = RAP/RAW = lAP/lAW


e da questa:
Ecella = EWeston lAP/lAW

Fig.27.12 Cella Weston

1 = soluzione satura di CdSO4


2 = cristalli di 3 CdSO4.8 H2O
3 = pasta di Hg2SO4 e Hg
4 = Hg
5 = amalgama 10-13% Cd/Hg
La cella Weston è una cella standard,
molto stabile anche se passa corrente,
perfettamente reversibile e con un
piccolissimo coefficiente di temperatura:

∆E/°C(4x10-5Volt/°C)
EW = 1,01864 V

Ricordiamo le convenzioni da seguire quando si parla di celle elettrolitiche (nelle quali si


effettua una elettrolisi fornendo energia) o di celle galvaniche (nelle quali si sfrutta una
reazione spontanea per ottenere energia).

Catodo Anodo

segno reazione segno reazione

cella elettrolitica - riduzione + ossidazione


cella galvanica + riduzione - ossidazione

Fig.27.13 Convenzioni per celle elettrolitiche e galvaniche

In una cella galvanica il catodo (+) è quello costituito dal sistema a potenziale più alto, perciò
più ossidante; al catodo si avrà perciò riduzione: la sottrazione di elettroni dall'elettrodo lo
rende positivo; all'anodo invece si avrà ossidazione: gli elettroni lasciati sull'elettrodo lo
rendono negativo.
E' ovvio però che un semielemento potrà comportarsi da catodo o da anodo a seconda del
semielemento che gli viene accoppiato.
Se abbiamo a disposizione per esempio i tre semielementi

(1) Cu++/Cu E° = +0,377


(2) Zn++/Zn E° = -0,763
(3) Ag+/Ag E° = +0,799

potremo ottenere 3 accoppiamenti diversi in cui un semielemento può assumere la funzione di


anodo o di catodo in base al potenziale dell'altro semielemento:

Fig.27.14 Pile costituite mediante accoppiamenti di diversi semielementi.

Per convenzione si mette a destra sempre quello con E più elevato, così che quando si fa la
differenza (ddp) essa sia sempre positiva.

Si nota che, mentre il semielemento Zn++/Zn, che possiede E° più basso, funziona, in questi
esempi, sempre da anodo, il semielemento Cu++/Cu funge da catodo nel primo caso e da
anodo nel terzo.
Se la differenza fosse negativa, occorrerebbe invertire le posizioni, in modo che sia sempre
l'anodo a sinistra e il catodo a destra.
Sia nella cella elettrolitica sia nella galvanica, i cationi si muovono sempre dall'anodo verso il
catodo, gli anioni viceversa, o per reagire sull'elettrodo o, quantomeno, per equilibrare la
densità di cariche positive e negative nella soluzione.

Si possono costruire celle galvaniche anche con due semielementi che differiscono tra loro solo
per la concentrazione della soluzione: sono dette pile a concentrazione.
(Notare anche la simbologia che si usa nel descrivere graficamente una pila: il simbolo / indica
una interfaccia, generalmente metallo/soluzione; il simbolo // indica la separazione tra due
soluzioni e corrisponde, praticamente, al ponte salino; tra parentesi la concentrazione dello
ione nella soluzione).

Un esempio di pila a concentrazione può essere:

Zn / Zn++(0,001 M) // Zn++(1 M) / Zn

E = E2-E1 = E°Zn++/Zn + 00,59/2 lg [Zn++]2 - E°Zn++/Zn + 00,59/2 lg [Zn++]1

E = 00,59/2 lg [Zn++]2 / [Zn++]1 = 0,0295 lg 103 = 0,0885 V

La fem non dipende da E° né, perciò, dal sistema scelto, ma solo dal rapporto delle
concentrazioni.

Le celle galvaniche sono utilizzate come sorgenti portatili di energia elettrica.


Ne vengono usati molti tipi, alcuni anche "ricaricabili" (è possibile cioè, mediante una sorgente
di energia esterna, provocare una elettrolisi che ristabilisce le condizioni iniziali).

Di questo tipo le più note sono le batterie al piombo.


Il nome "batteria" dipende dal fatto che si tratta di più celle collegate in serie; in questo caso la
cella eroga una ddp di 2V, perciò 6 celle in serie portano ad una ddp di 12V (le batterie
comunemente usate nelle automobili erogano infatti 12 volt; in alcuni casi, quando serve una
ddp di 24 volt, occorrerà avere 12 celle, oppure collegare in serie due batterie da 12 V).

L'anodo è costituito da elettrodi di Pb, sui quali avviene la reazione:

Pb(s) + SO4-- → PbSO4 (s) + 2 e-

Il catodo da elettrodi a PbO2:

PbO2 (s) + 4 H+ + SO4-- + 2 e- → PbSO4 (s) + 2 H2O

Nella reazione totale, che si ottiene sommando membro a membro le due precedenti
(operativamente corrisponde all'utilizzo della energia elettrica erogata, perciò alla scarica
progressiva della batteria), diminuisce la [H2SO4], perciò anche la densità del liquido; ciò
permette di controllare facilmente lo stato di carica della batteria mediante un semplice
picnometro (operazione che esegue l'elettrauto quando controlla lo stato di carica della batteria
dell'auto). La reazione totale è:

Pb(s) + PbO2 (s) + 4 H+ + SO4-- → 2 PbSO4 (s) + 2 H2O

Il vantaggio di queste batterie (nonostante il peso elevato) è che sono ricaricabili, cioè
reversibili, ed hanno una lunga durata: applicando una sorgente di energia esterna (dinamo o
alternatore) in senso opposto, si può invertire la reazione, operando cioè una elettrolisi:

2 PbSO4 (s) + 2 H2O → Pb(s) + PbO2 (s) + 4 H+ + SO4—

In effetti è corretto, dato che la batteria è reversibile, scrivere la reazione totale, così:

Pb(s) + PbO2 (s) + 4 H+ + SO4--  2 PbSO4 (s) + 2 H2O

Altre celle usate comunemente, anche per la loro economicità, sono quelle dette pile a secco,
anche se non sono veramente "a secco", ma contengono l'elettrolita in un sistema gelatinoso.
La più comune è la pila zinco-carbonio

Fig.27.15 Sezione schematica di pila a


secco zinco-carbonio

1 = parete di Zn (che funge da


anodo); 2 = setto poroso; 3 =
impasto di MnO2, NH4Cl, polvere di
grafite; 4 = grafite (che funge da
catodo); 5 = setto isolante
La reazione all'anodo è:

Zn (s) → Zn++ + 2e-

Al catodo le reazioni sono molto


complesse; una delle principali è:

2 MnO2 (s) + 2 NH4+ + 2 e- →


Mn2O3 (s) + 2 NH3 + H2O

Questa pila non è ricaricabile, ma è


molto economica.

La pila alcalina, che ha capacità maggiore ed eroga una ddp di 1.54 V, lavora in ambiente
basico; le reazioni sono:

all'anodo Zn (s) + 2 OH- → ZnO (s) + H2O + 2e-


al catodo 2 MnO2 (s) + H2O + 2 e- → Mn2O3 (s) + 2 OH-
totale Zn (s) + 2 MnO2 (s)  ZnO (s) + Mn2O3 (s)
Un'altra pila è la pila nichel-cadmio, usata per calcolatori elettronici e piccoli apparecchi
elettrici, che eroga una fem di 1.4 V e le cui reazioni sono:

all'anodo Cd (s) + 2 OH- → Cd(OH)2 (s) + 2e-


al catodo NiO2 (s) + 2 H2O + 2 e- → Ni(OH)2 (s) + 2 OH-
totale Cd (s) + NiO2 (s) + 2 H2O  Ni(OH)2 (s) + Cd(OH)2 (s)

Ci sono poi pile miniaturizzate di vario tipo, ma con una struttura fisica come quella
schematizzata nella figura seguente:

Fig.27.16 Schema di pila a secco miniaturizzata (per orologi


al quarzo, macchine fotografiche, etc.)

1 = anodo di Zn; 2 = guarnizione isolante; 3 = KOH (aq)


concentrato assorbito su tamponi; 4 = separatore; 5 =
granuli di HgO

all'anodo Zn2 (s) + 2 OH- → ZnO (s) + H2O + 2e-

al catodo HgO (s) + H2O + 2 e- → Hg (l) + 2 OH-

totale Zn (s) + HgO (s)  ZnO (s) + Hg (l)

Simile alla precedente è la pila a ossido d'argento, piuttosto costosa, le cui reazioni sono:

all'anodo Zn (s) + 2 OH- → Zn(OH)2 (s) + 2e-


-
al catodo Ag2O (s) + H2O + 2 e → 2 Ag (s) + 2 OH-
totale Zn (s) + Ag2O (s)  Zn(OH)2 (s) + 2 Ag (s)

Il vantaggio, rispetto alla precedente, è che la fem è di 1,5 V esatti.


Si continua a progettare e a sperimentare nuovi tipi di pile a secco, perché la possibilità di
poter disporre di sorgenti di energia elettrica trasportabili è diventata una delle esigenze
maggiori del mondo attuale (basti pensare ai computer portatili, ai telefoni cellulari, alle
telecamere, ecc.); gli obiettivi maggiori sono quelli di poter disporre di pile leggere, ad alte
capacità e stabilità e possibilmente reversibili (alta durata).
28 - Gli equilibri tra le fasi

In un sistema eterogeneo lo stato di equilibrio è prevedibile con la


regola delle fasi, enunciata dal chimico fisico americano Josiah
Willard Gibbs (1839-1903) in base a considerazioni
termodinamiche.
La regola è molto semplice: v=c+2-f
v = varianza o gradi di libertà; rappresenta il numero di variabili
fisiche o chimiche che è possibile modificare senza che nel sistema
scompaiano una o più fasi
c = numero di componenti indipendenti del sistema
f = numero di fasi
2 = corrisponde alle due variabili pressione p e temperatura t
Fig.28.1 Josiah Willard Gibbs

Consideriamo un sistema a un solo componente, come l'acqua.


Misuriamo le coppie di parametri p e t a cui l'acqua si presenta nelle sue varie fasi: solida,
liquida, gassosa; quindi portiamo questi dati in un grafico p/t.
Questo grafico si chiama diagramma di stato. Ogni sostanza ha il suo e rappresenta le
condizioni di p e t in cui sono possibili i vari equilibri tra le fasi della sostanza e le loro
condizioni di esistenza.

Fig.28.2 Diagramma di stato dell'acqua (p/t).

Il diagramma non è in scala (dovrebbe essere


molto più allungato verso l'alto, ma se così
fosse, non sarebbe evidente la curvatura di TA
verso temperature basse.

S = zona di esistenza della fase solida


L = zona di esistenza della fase liquida
V = zona di esistenza della fase vapore

BT = curva di coesistenza delle fasi solido-


vapore; corrisponde al processo di sublimazione

TC = curva di coesistenza delle fasi liquido-


vapore; corrisponde ai processi di evaporazione-
condensazione

TA = curva di coesistenza delle fasi solido-


liquido; corrisponde ai processi di fusione-
solidificazione

T = punto triplo di coesistenza delle fasi solido-


liquido-vapore

Il punto triplo T è caratterizzato da una unica coppia di valori per p e per t: 4,58 mm Hg e
0,01°C.
Esso non coincide col punto di fusione (p 760 mmHg; t 0,00°C), poiché questa avviene in
presenza di una p esterna, esercitata dall'aria, come evidenziato nel diagramma.
La curva TA rappresenta così la variazione del punto di fusione sotto l'effetto di una p esterna.
Ovviamente, sopra al punto critico (temperatura critica 374°C, pressione critica 218
atm) non può esistere equilibrio liquido-vapore L-V, poiché l'acqua esiste solo allo stato
vapore.
L'inclinazione di TA verso sinistra, al crescere della pressione, fa capire che, se aumento la p su
ghiaccio a 0°C, questo fonde (questo fenomeno viene sfruttato, per esempio, nel pattinaggio
sul ghiaccio: la pressione esercitata dalle lame del pattino provocano una fusione superficiale
del ghiaccio: il velo d'acqua liquida permette un più facile scorrimento della lama sul ghiaccio;
quando la pressione torna al livello normale, il velo di acqua solidifica nuovamente).
Esaminiamo il diagramma con la regola delle fasi:

al punto triplo T v=1+2-3=0 sistema invariante


lungo le curve BT, TC, TA v=1+2-2=1 sistema monovariante
entro le aree S, L, V v=1+2-1=2 sistema bivariante

Fig.28.3 Analisi del diagramma di stato dell'acqua mediante la regola delle fasi

Possiamo cioè cambiare sia pressione sia temperatura (entro certi limiti) senza che, nel
sistema, cambi il numero delle fasi, nel bivariante; una sola delle variabili nel monovariante
(determinata una variabile, l'altra è condizionata); non possiamo cambiarne alcuna delle due
nell'invariante (altrimenti si esce dalle condizioni del punto triplo).

Esaminiamo il caso analogo dell'anidride carbonica o diossido di carbonio, CO2

Fig.28.4 Diagramma di stato (p/t) del diossido di carbonio o anidride


carbonica.

S = zona di esistenza della fase solida

L = zona di esistenza della fase liquida

V = zona di esistenza della fase vapore

E = punto di sublimazione del "ghiaccio secco" (p = 1 atm; t = -78°C)

T = punto triplo di coesistenza delle tre fasi (p = 5.2 atm; t = -57°C)

Se scaldiamo CO2 solida (ghiaccio secco) a p ambiente (1 atm), essa sublima senza passare
allo stato liquido: infatti l'equilibrio liquido-solido esiste solo per p > 5,2 atm.

Alcuni sistemi monocomponente sono però più complessi, come succede per lo zolfo, S

Fig.28.5 Diagramma di stato p/t per lo zolfo.

B = punto triplo di coesistenza delle fasi Sa-Sb-vapore (p 0.01


mm Hg; T 95.5°C)

C = punto triplo di coesistenza delle fasi Sb-liquido-vapore (p


0.025 mm Hg; T 119°C)

F = punto triplo di coesistenza delle fasi Sa-Sb-liquido (p 1290


atm; T 151°C)

H = punto metastabile (T 113°C)

AB = curva corrispondente alla sublimazione di Sa

BC = curva corrispondente alla sublimazione di Sb

CD = curva corrispondente all'evaporazione dello zolfo liquido

BF = curva corrispondente alla transizione solido-solido Sa-Sb

CF = curva corrispondente alla fusione-soldificazione di Sb

S, allo stato solido, esiste, in natura, in due forme cristalline allotropiche (che si trasformano
l'una nell'altra in base alle condizioni ambientali): la forma a, rombica, è stabile fino a 95,5°C;
la b, monoclina, da 95,5° a 119°C, che è la T di fusione. Quando t=95,5°C, S passa dalla
forma a alla b, mentre la temperatura resta costante durante tutta la trasformazione.
Raffreddando lentamente S liquido si hanno i processi inversi (enantiotropia); poiché però le
trasformazioni in fase solida sono lentissime, se raffreddiamo velocemente S liquido, questo
cristallizza a 113°C nella forma b instabile, che lentamente si trasforma in a. Analogamente,
se scaldiamo velocemente Sa, questo fonde a 113°C, senza passare dalla forma b (punto H).
Sopra al punto F, Sa fonde direttamente, senza passare per la forma b: perciò il polimorfismo
di S non esiste a p>1290 atm.
La regola delle fasi è utilizzabile in modo analogo al caso dell'acqua. Non è possibile la
coesistenza delle 4 fasi (avremmo v=-1).

Passiamo ai sistemi a due componenti; possono essere di diversi tipi, che possiamo
considerare "soluzioni" (non sono ovviamente indicate più volte quelle dello stesso tipo: per
esempio S + L, dato che esiste la L + S, ecc.)

"soluzione" componenti componenti componenti


solida S S+S - S+G
liquida L L+S L+L L+G
gassosa G - - G+G

Fig.28.7 Schema dei possibili accoppiamenti di fasi diverse nella formazione di una
"soluzione", e suo stato fisico possibile.

Le più comuni sono quelle in fase liquida, in cui si considera un "solvente" e un "soluto";
quest'ultimo può essere volatile (L + G, oppure L + L) o non volatile (L + S).

Il chimico fisico francese François Marie Raoult (1830-1901) ha studiato il comportamento


delle soluzioni L + L in funzione della t e della p.
Dalle sue esperienze ha dedotto che, ad una t prefissata, la tensione di vapore di un
componente è proporzionale alla sua frazione molare.

Consideriamo una soluzione di due componenti liquidi, A e B, completamente miscibili tra loro.

Fig.28.8 Diagramma isotermo liquido-


vapore (L-V) di un sistema ideale
bicomponente A e B.

T = costante

L = zona di esistenza della fase liquida

V = zona di esistenza della fase vapore

p°A = tensione di vapore di A

p°B = tensione di vapore di B

χA = frazione molare di A

χB = frazione molare di B

La pA, proporzionale alla frazione molare χA, parte ovviamente da 0 quando χA=0, e arriva a
pA° quando χA=1; pB, proporzionale a χB, va in senso opposto.
Fig.28.9 John Dalton (1766-1844), uno dei
padri della chimica

Per la legge di Dalton sui miscugli gassosi,


la pressione totale del sistema è

Ptot = pA + pB = χApA° + χBpB°


Questa relazione dice praticamente che, per
la pressione totale Ptot, consideriamo il
segmento pA°-pB°, dovuto appunto alla
somma, punto per punto, dei contributi della
p dei due componenti.

Questo è interpretabile pensando che,


poiché l'evaporazione avviene dalla
superficie, quanto maggiore è il numero di
particelle di una specie sulla superficie, tanto
maggiore è la sua p parziale.

In effetti anche questa è una legge ideale, valida per soluzioni in cui le molecole dei due
componenti interagiscono tra loro come le molecole della stessa specie; cioè quando le
interazioni A-A = B-B = A-B
In realtà possiamo avere deviazioni positive (esempio I), quando le attrazioni A-B sono
minori delle A-A e delle B-B: in tal caso, infatti, le molecole possono liberarsi più facilmente,
creando perciò una p maggiore.
Oppure, benché più raramente, deviazioni negative (esempio II), corrispondenti ad
attrazioni A-B maggiori sia delle A-A sia delle B-B.

Fig.28.10 Diagrammi isotermi liquido-vapore L-V per sistemi reali, con deviazioni
positive (es. etere e acetone) e negative (es. acido acetico e piridina) rispetto all'ideale.
In ascissa la frazione molare di B; in ordinata la tensione di vapore p.
In nero la tensione di vapore ideale dei due componenti A e B.
In verde la tensione di vapore reale dei componenti A e B, con le rispettive deviazioni.
In rosso la curva risultante dalla somma dei contributi reali dei due componenti,
corripondente alla tensione di vapore reale della soluzione di A e B.

In generale, il vapore in equilibrio con una miscela binaria di due liquidi volatili, è più ricca nel
componente più volatile: questa è detta regola di Konowaloff.
Fig.28.11 Diagramma L-V isotermo per un sistema bicomponente reale.

Le due curve rappresentano la composizione del liquido, e del vapore in


equilibrio con esso, alle varie temperature (ad ogni temperatura corrisponderà
cioè un diagramma di questo tipo, ma con valori diversi di p).
I punti dell''area compresa tra le due curve (in grigio) non hanno significato
fisico: non esiste un sistema in quelle condizioni, poiché esso si smista in un
liquido di composizione χL e un vapore di composizione χV.
La composizione delle fasi liquido e vapore, all'equilibrio, sono diverse, come
indicato dalle frazioni molari χL e χV rappresentate in figura.

Cerchiamo di capire che cosa succede se, partendo da una soluzione (A+B) di composizione c1,
diminuiamo la pressione del sistema, mantenendo la temperatura costante (consideriamo
perciò un diagramma isotermo):

Fig.28.12 Diagramma isotermo che rappresenta la distillazione di una soluzione


bicomponente in funzione della pressione. Il punto di partenza è indicato dal punto
verde in alto, quello di arrivo dal punto verde in basso.
A p=p1 la soluzione di composizione χ1 è in equilibrio col vapore di composizione y1;
poiché questo è più ricco in B, la soluzione si impoverisce di B e la sua composizione
segue gradualmente la curva verso sinistra, con una riduzione della p per
l'evaporazione.
Ad ogni composizione χ i della soluzione corrisponde una composizione yi del vapore; a
p=p2 si ha totale evaporazione della fase liquida con composizione χ 2; a questo punto
il vapore ha la composizione χ 1.
Quando si parla di distillazione frazionata, si preferisce usare un diagramma isobaro
anziché isotermo, dato che normalmente si opera a p atmosferica; in questo caso, invece delle
tensioni di vapore, avremo le T di ebollizione. Il punto di partenza è lo stesso, ma, dato che a
tensione di vapore più alta corrisponde temperatura di ebollizione più bassa, il diagramma
presenta a sinistra B e a destra A (la frazione molare di B aumenta da sinistra a destra);
inoltre, ovviamente, la zona in alto corrisponde alla fase vapore, quella in basso alla fase
liquida.

Fig.28.13 Diagramma isobaro della distillazione frazionata di un sistema bicomponente


A-B.
Il punto di partenza è indicato dal punto verde in basso, quello di arrivo dal punto verde
in alto.
TA° = temperatura di ebollizione di A puro
TB° = temperatura di ebollizione di B puro
Ti = temperatura di ebollizione delle soluzioni i
La soluzione iniziale (e il vapore finale) ha composizione χ1; quando inizia la distillazione
il vapore ha composizione y1; quando finisce, la soluzione ha composizione χ 2.

Con la distillazione frazionata è possibile recuperare (facendole condensare) frazioni di vapore


più ricche in B e frazioni di liquido più ricche in A; operando poi sulle frazioni, è possibile
avvicinarsi sempre più, ma senza mai raggiungerle, a frazioni sempre più ricche in A o in B.

In alcuni casi accade che alcune miscele di liquidi, di composizione definita, distillino
completamente ad una temperatura costante, come se fossero liquidi puri: queste miscele si
chiamano miscele azeòtrope.

Fig.28.14 Diagramma isobaro di


distillazione di un sistema binario
A-B in cui A e B danno una
miscela azeotropa di
composizione χ A.

A destra e a sinistra della


composizione azeotropica il
comportamento è analogo a
quello descritto in precedenza
(come se il diagramma fosse
costituito da due diagrammi a
lente affiancati, uno con
componenti A puro e χ A, l'altro
con componenti χ A e B puro.
Se però si cambia p, può
cambiare la composizione
azeotropica.
Per esempio, nel caso della miscela EtOH/H2O:

P (mm Hg) % EtOH % H2O


760 96,3 3,7
9,5 99,5 0,5

Fig.28.15 Variazioni dell'azeotropo etanolo/acqua con la pressione

Se ne deduce che è impossibile ottenere comunque EtOH puro per distillazione di miscele
EtOH/H2O a pressione atmosferica, ma anche a p diverse; per poter ottenere EtOH puro
occorre "rompere" l'azeotropo aggiungendo un altro componente che faccia, con H2O, un
azeotropo a T di ebollizione più basso (come il benzene).
Molte coppie di sostanze danno miscele azeotropiche (e molte danno anche azeotropi ternari).

A B (Teb)A (Teb)B (Teb)azeo %A


EtOH H2O 78,5 100,0 78,2 96,3
C6H6 EtOH 80,0 78,5 66 67,45
n-ProOH H2O 97,2 100,0 87,7 71,7
HCl H2O -83,7 100,0 110 20,1
MeOH CH3COCH3 64,7 56,5 56 86,5
EtOH CCl4 78,5 76,8 65 15,8

Fig.28.16 Esempi di coppie di sostanze che danno miscele azeotrope; punti di ebollizione delle
sostanze pure e degli azeotropi a 760 mmHg; percentuale del componente A nella miscela
azeotropa.

Esistono anche sistemi in equilibrio solido-vapore, come il sistema solfato di rame/acqua,


CuSO4/H2O: per esso sono possibili tre forme idrate del sale, e gli equilibri tra le varie forme
sono facilmente interpretabili secondo la regola delle fasi

Fig.28.17 Diagramma isotermo pressione/moli di H2O vapore aggiunte per il sistema


CuSO4/H2O. Il sistema è costituito da 1 mole di CuSO4 e le reazioni relative sono:

CuSO4(s) + H2O (g)  CuSO4H2O(s)


CuSO4H2O(s) + 2H2O (g)  CuSO43H2O(s)
CuSO43H2O(s)+ 2H2O(g)  CuSO45H2O(s)

A titolo informativo (le p non sono in scala):


p2 = 0,8 mm Hg; p3 = 7,8 mmHg.
Le componenti indipendenti sono sempre 2 (le altre sono strettamente legate mediante gli
equilibri indicati nella didascalia della figura), le fasi (considerando uno qualsiasi degli equilibri)
sempre 3, perciò ogni sistema corrispondente alle reazioni indicate è monovariante:

v=2+2-3=1

Introduciamo lentamente vapore d'acqua in un recipiente chiuso contenente 1 mole di CuSO4.


La p di H2O cresce fino a p1; ora la p rimane costante finché tutto il CuSO4 si è trasformato in
CuSO4H2O.
Poi p aumenta fino a p2; ora p resta costante finché tutta la fase si è trasformata nella fase
CuSO43H2O..., etc. Ciò avviene perché, quando sono presenti 2 fasi solide, (con H2O vapore
sono 3), essendo T=cost., la p non può variare, finché le fasi non tornano ad essere solo 2,
una solida e una gassosa; solo a queste condizioni il sistema è bivariante.
Quando si è giunti a CuSO45H2O, l'aggiunta di H2O (sempre come vapore) porta alla
dissoluzione del pentaidrato: entra in gioco una nuova fase, liquida; il sistema ridiventa
monovariante e la p resta eguale a p4.
Quando però il solido è tutto disciolto, le fasi sono solo 2, (soluzione e vapore): la p di H2O può
perciò aumentare, tendendo alla tensione di vapore dell'acqua a quella temperatura.

Per sistemi binari liquido-gas (2 componenti, 2 fasi),

v=2+2-2=2

Il sistema è bivariante: dei 3 parametri (p, T, composizione), possiamo definirne solo 2, il


terzo è conseguente.

Il chimico fisico inglese William Henry (1715-1836) ha dedotto la legge omonima

[gas] = K pgas

La solubilità di un gas in un solvente con cui non reagisce, ad una data T, è proporzionale alla
pressione parziale del gas sopra la soluzione.
In generale la solubilità dei gas nei liquidi diminuisce con l'aumentare della temperatura.
29 - Le proprietà colligative
Parlando di soluzioni binarie solido-liquido, possiamo introdurre le proprietà colligative delle
soluzioni, proprietà che ci permettono di risolvere un problema importantissimo, quello della
determinazione sperimentale del peso molecolare.
Determinare il peso molecolare di una sostanza è una delle fasi fondamentali per conoscerne le
caratteristiche chimico-fisiche (benché spesso anche questo non sia sufficiente); è infatti
essenziale conoscere almeno la formula molecolare di un composto.
Fino all'avvento dello spettrometro di massa (strumento comunque molto sofisticato e
costoso) gli unici metodi per farlo si basavano sulle proprietà colligative, cioè su proprietà delle
soluzioni che dipendono solo dal numero di particelle di soluto e non dalla loro natura.

Sappiamo dalla legge di Raoult (pi = χi pi°) che, in una soluzione di un soluto non volatile, la
tensione di vapore pi è proporzionale alla ci e alla tensione di vapore del solvente puro pi°.

E' chiaro perciò che la p dipende dalla natura del solvente (pi°) ma non da quella del soluto:
per il soluto, infatti, conta solo il numero di moli
χsoluto = 1 - χsolvente

Se chiamiamo χsoluto = χ2 allora p = p° (1-χ2)


da cui
p°-p = p° χ2 e (p°-p)/p° = χ2

Possiamo esprimere questa relazione dicendo che "l'abbassamento relativo della tensione di
vapore di una soluzione è numericamente uguale alla frazione molare del soluto".
La relazione è valida per soluzioni diluite: solo in questo caso sono trascurabili le deviazioni cui
è soggetta la legge di Raoult con soluzioni reali.

Questa variazione di p si accompagna anche a variazioni dei punti di congelamento e di


ebollizione.
Infatti il diagramma di stato del solvente, in presenza di un solido poco volatile, viene
modificato, creando un nuovo punto triplo.
Anche i punti di fusione e di ebollizione della soluzione cambiano rispetto ai valori standard
(T°f e T°e) del solvente:
Tf subisce un abbassamento ∆Tf, mentre Te subisce un innalzamento ∆Te.

Fig.29.1 Diagramma di stato del solvente


in presenza di un soluto poco volatile.
Il nuovo punto triplo è quello in cui si
incrociano le curve rosse con la verde.
Le curve relative all'equilibrio L-S e L-G per
la soluzione sono rispettivamente più a
sinistra e più in basso di quelle per il
solvente.
Il valore 1 corrisponde alla pressione di 1
atmosfera e i valori intercettati sulle curve
danno perciò i punti di fusione e di
ebollizione del solvente e della soluzione; in
particolare:
T2 e T3 corrispondono rispettivamente alle
temperature di fusione e di ebollizione del
solvente puro;
T1 e T4 corrispondono rispettivamente alle
temperature di fusione e di ebollizione della
soluzione.
Sono evidenti le variazioni delle
temperature di fusione (∆Tf = T2-T1) e di
ebollizione (∆Te = T4-T3) della soluzione
rispetto a quelle del solvente puro.

Le variazioni del punto di fusione e del punto di ebollizione seguono due leggi analoghe
∆Tf = T2-T1 = Kf m ∆Te = T4-T3 = Ke m
in cui:
∆Tf = abbassamento crioscopico
∆Te = innalzamento ebullioscopico
Kf = costante crioscopica molale
Ke = costante ebullioscopica molale
m = molalità della soluzione, definita come il numero di moli di soluto ogni 1000 grammi di
solvente puro.
Se in una soluzione esistono più soluti poco volatili, la molalità si ottiene sommando le molalità
dei singoli soluti.

Se uno dei soluti si dissocia (o, più raramente, si associa), occorre tenere presente che, poiché
quello che conta è il numero di particelle, occorrerà valutare, nella molalità, anche il
contributo dovuto a questi fenomeni.
Il valore numerico delle costanti K, per i vari solventi, è diverso e dipende dalla natura del
solvente stesso.
La scelta del solvente è perciò molto importante per ottenere variazioni misurabili dei
punti di ebollizione e di fusione; infatti, quanto più alta è la costante, tanto più alto sarà
l'effetto, a parità di molalità; purtroppo non sempre è possibile scegliere il solvente con K
elevata, perché potrebbe essere, per un dato soluto, poco adatto come solvente.

Come esempio vengono riportate le temperature di ebollizione e di fusione di alcuni solventi e


le relative K.
solvente nome convenzionale T e° Ke Tf° Kf
H2O acqua 100,0 0,512 0,00 1,86
CH3COCH3 acetone 56,5 1,73 - -
C2H5OH etanolo 78,5 1,22 -117,3 1,99
CH3COOH acido acetico 118,9 3,10 16,6 3,90
C6H6 benzene 80,1 2,53 5,5 4,90
CHCl3 cloroformio 61,2 3,63 - -
(C2H5)2O etere etilico 34,5 1,19 - -
C6H5NO2 nitrobenzene - - 5,7 6,90
C6H12 cicloesano 80,7 2,69 6,5 20,0
canfora canfora - - 178,4 37,7

Fig.29.2 Costanti crioscopiche ed ebullioscopiche per i solventi più comunemente usati nelle determinazione del
peso molecolare e relative temperature di fusione e di ebollizione.

Le relazioni ebullioscopica e crioscopica sono valide rigorosamente solo per soluzioni diluite
(che obbediscano, cioè, alla legge di Raoult); è ovvia perciò la necessità di termometri ad
altissima precisione, visto che le K sono molali e rappresentano il ∆T per una molalità m = 1!
Tanto per fare un esempio, se il soluto avesse un peso molecolare uguale a 1000, per avere
una soluzione con molalità m = 1 (per poter misurare cioè un ∆T uguale alla K), occorrerebbe
scioglierne 1000 g in 1000 g di solvente puro! Se poi si tratta di molecole di interesse
biologico, come le proteine, si pensi che queste possono raggiungere facilmente pesi molecolari
superiori a 100.000!

Queste proprietà si possono considerare come dovute alla difficoltà del soluto a passare dalla
fase soluzione ad un'altra fase in quelle condizioni.
Questo concetto di "difficoltà" compare anche in un'altra proprietà colligativa, la pressione
osmotica P.
Fig.29.3 Schema che rappresenta il fenomeno
della pressione osmotica.
La soluzione (a sinistra, di colore più intenso) e il
solvente puro (a destra) sono separati da una
membrana semipermeabile M, che lascia
passare le molecole di solvente, ma non quelle
del soluto.
All'inizio il livello dei liquidi nei due vasi A e B è lo
stesso; dopo un certo tempo il livello di A si
stabilizza ad h = hA, in B ad h = hB.
Il dislivello Dh = hA - hB corrisponde ad una
pressione idrostatica che è eguale alla pressione
osmotica P (pi greco) della soluzione. La
relazione è
P=cRT
In cui c è la concentrazione della soluzione, R è
la costante universale dei gas, e T è la
temperatura assoluta.

All'inizio, a causa di P, il numero di molecole di solvente che attraversa la membrana al


secondo, da destra a sinistra, è maggiore di quello delle molecole che passano da sinistra a
destra.
La differenza dei flussi diminuisce al crescere del Dh, finché la pressione idrostatica non è in
grado di controbilanciare P.
La legge è simile alla legge generale dei gas; basta ricordare che la concentrazione è
definita come numero di moli in un dato volume: c = n/V; R infatti ha lo stesso valore (0,082
atm dm3 mol-1 K-1).

Le proprietà osmotiche sono importanti nei fenomeni biologici: tutte le cellule sono
circoscritte da membrane semipermeabili, attraverso le quali passano molecole o ioni piccoli,
ma non le proteine.
Alcune membrane biologiche sono estremamente selettive, tanto da poter discriminare, per
esempio, tra ioni Na+ (0,97 Å) e ioni K+ (1,33 Å).
Sono ovviamente importanti anche nel campo medico: per esempio, quando si effettua una
fleboclisi (immissione di soluzioni nutritive o medicinali nel sangue), è necessario che la
soluzione sia isotonica (cioè con la stessa P) con quella del sangue; se essa fosse ipotonica
(minore P per la soluzione), il solvente tenderebbe a penetrare nelle cellule fino anche alla
rottura della membrana; se invece fosse ipertonica (P maggiore), il solvente uscirebbe dalle
cellule, facendole raggrinzire e contrarre fino ad impedirne l'attività.

Fig.29.4 Rappresentazione schematica degli effetti


subiti da una cellula immersa in soluzioni isotonica (1),
ipotonica (2), ipertonica (3).

Le freccette rappresentano le direzioni delle forze che


agiscono sulla membrana della cellula.
Nel primo caso (soluzione isotonica) quelle esterne e
quelle interne sono bilanciate; nel secondo caso
(soluzione ipotonica) predominano quelle interne, con
aumento del volume della cellula; nel terzo caso
(soluzione ipertonica) predominano quelle esterne, con
riduzione del volume.
Gli stessi concetti si applicano anche nella dialisi attuata, per esempio, col rene artificiale.
I reni purificano il sangue dalle scorie del metabolismo; se i reni non funzionano, questi rifiuti
possono portare anche alla morte (per blocco renale). Si può perciò purificare il sangue
mediante circolazione extracorporea attraverso un condotto semipermeabile (per esempio
cellophan) immerso in una soluzione adeguata. Nella soluzione (dializzato), passano, dal
sangue, solo i rifiuti metabolici (cataboliti), come l'urea. Per evitare un depauperamento, per
esempio degli ioni Na+ e K+, o un loro sbilanciamento (che può essere pericoloso per la
pressione sanguigna) è necessario che la soluzione abbia la stessa molalità in Na+ e K+ del
sangue e che sia isotonica.

Se i soluti subiscono dissociazione, l'effetto cambia. Se si tratta di elettroliti forti, dobbiamo


semplicemente considerare un effetto proporzionale (per NaCl 10-3 M in H2O, l'effetto sarà
proporzionale a 2 x 10-3 M).
Il problema è più complesso se abbiamo elettroliti deboli. Consideriamo, per esempio, un acido
organico, come l'acido acetico CH3COOH, che chiamiamo AcH per semplicità. Questo acido
organico debole si dissocia:

H Ac  H+ + Ac-

Se chiamiamo a il grado di dissociazione dell'acido, n il numero di particelle generate dalla


dissociazione, n0 il numero di moli iniziali di AcH, il numero di particelle complessivo n, sarà:

n = (n0 - n0 a) + 2 n0 a = n0 (1 + a)
e, in generale,

n = (n0 - n0 a) + n n0 a = n0 (1 - a + n a) = n0 [1 + (n - 1) a]

Nel caso di misure ebullioscopiche o crisocopiche i ∆T saranno perciò maggiori del previsto:

∆T = K m [1 + (n - 1) a]

Per la stessa ragione, in caso di misure della pressione osmotica occorrerà tenere conto
dell'aumento del numero di particelle effettive.

Per alcuni soluti è possibile che ci sia associazione, con una conseguente diminuzione del
numero di particelle, perciò della molalità; il fenomeno si presenta spesso quando un soluto
polare (come un acido organico), se sciolto in solvente apolare, può dare luogo a legami di
idrogeno intermolecolari.

Fig.29.5 Schema di reazione di associazione di due molecole di un acido organico in un


solvente apolare come il benzene; praticamente l'effetto sulla molalità è quello di ridurre a
metà il suo valore, anche se, come la dissociazione di un acido debole è parziale, anche
l'associazione lo è.
In rosso sono evidenziati i legami di idrogeno che causano l'associazione.

Da misure relative alle proprietà colligative delle soluzioni è possibile perciò determinare:
• peso molecolare del soluto
• grado di dissociazione o di associazione di un acido
I metodi di misura legati alle proprietà colligative sono delicati nell'attuazione e nel rilevamento
dei dati sperimentali; ma il problema è meno drammatico di quanto sembri: infatti, quando si
vuole determinare il peso molecolare di una sostanza, di cui si conosca, ovviamente, la formula
minima, basterà sapere che rapporto c'è tra la formula molecolare e la formula minima e
questo può essere solo un multiplo intero; non occorre perciò avere il valore preciso del peso
molecolare
30 - Gli equilibri solido-liquido
Gli equilibri tra sistemi in fasi condensate sono importanti in particolare nello studio delle
leghe metalliche e della cristallizzazione frazionata, tecnica molto usata dai chimici per
purificare le sostanze.

Consideriamo gli equilibri solido-liquido; generalmente si opera a pressione costante,


perciò i diagrammi avranno in ordinata la temperatura.

Vediamo dapprima il caso di un sistema binario A-B in cui A e B sono immiscibili allo stato
solido, dato che si tratta di un caso abbastanza comune.
Partiamo da un liquido di composizione χ1

Fig.30.1 Diagramma di stato di un sistema binario A-B in cui A e B sono immiscibili


allo stato solido, con formazione di un eutettico.

Il diagramma riporta, in ascissa, la composizione, espressa con le frazioni molari; in


ordinata la temperatura T, dato che si opera a pressione costante.
Si ricordi che i punti delle aree in grigio non hanno esistenza fisica (si ha
smistamento nelle fasi solida e liquida).
A destra la curva di raffreddamento o analisi termica del processo di
solidificazione, analisi essenziale per individuare le caratteristiche del sistema (e per
costruire il diagramma di stato).
Il grafico riporta, in ordinata, le temperature T nella stessa scala del diagramma a
sinistra; in ascissa i tempi t.

Raffreddando la soluzione di composizione χ1, alla temperatura T = T1 inizia a cristallizzare A


puro, al tempo t1; il liquido si impoverisce in A, perciò la sua composizione c si muove verso
destra, lungo la curva TA-E. Di conseguenza la T di solidificazione diminuisce.
Applicando la regola delle fasi, possiamo notare che il sistema, da trivariante quando è tutto
in fase liquida L (v = 2 + 2 - 1; variabili possibili p, T, c), diventa bivariante (v = 2 + 2 - 2):
poiché la pressione è costante, ad una data composizione corrisponde una sola temperatura di
fusione Tf.
Quando si arriva al punto eutettico E, al tempo t2, la soluzione satura, di composizione χE,
cristallizza tutta come A puro e B puro, alla temperatura T = TE.
Il sistema è monovariante (v = 2 + 2 - 3) fino al tempo t3, (ma poiché p=cost., l'unica
variabile è già fissata);
dopo t3 il sistema, tutto solido, può continuare a raffreddarsi, poiché ridiventa bivariante (v =
2 + 2 - 2); le due fasi sono ora A puro e B puro.
Se fossimo partiti da una soluzione liquida di composizione χE, che è detta eutettica, la
solidificazione sarebbe avvenuta tutta a T = TE, come se si fosse trattato di un composto puro,
ma A e B cristallizzano separatamente e danno luogo perciò a due fasi.
TE è detta temperatura eutettica; E è detto punto eutettico.
All'interno dei triangoloidi TAETE e TBEH il sistema è praticamente monovariante (v = 2 + 2 - 2,
ma ricordiamo che p=cost.) la composizione della fase solida non è variabile, in quanto si
tratta di un solido puro. Occorre ricordare anche che i punti all'interno dei triangoloidi non
hanno significato reale, in quanto il sistema si smista in un solido puro (A o B rispettivamente)
e in una fase liquida.

Alcune miscele eutettiche acqua/sale vengono usate come miscele frigorifere per la loro
proprietà di congelare a T costante (cioè a T = TE)

soluto S concentrazione TE (°C)


(gr.S/100 gr.H2O)
KCl 24,5 -10,7
NH4NO3 60 -13,6
NH4Cl 20 -15,4
NaCl 35 -21,3
MgCl2 21 -33,0
CaCl2 48 -51,0

Fig.30.2 Dati caratteristici di alcune miscele frigorifere e loro


punti eutettici; la concentrazione è quella della miscela
eutettica.

Per esempio CaCl2, che ha una TE molto bassa, viene usato correntemente per evitare la
formazione di ghiaccio sulle strade o per scioglierlo, abbassandone la T di fusione (il suo uso
abituale è dovuto anche al suo basso costo di produzione).

Esaminiamo il comportamento di un sistema di questo genere per comprenderne il


meccanismo.
Condizioni iniziali: p = cost.; T ambiente.
Mescoliamo ghiaccio tritato e un sale (p.e. NaCl). Il sale si scioglie, in parte, nella poca acqua
liquida; ora abbiamo tre fasi: H2O (s), NaCl (s), soluzione;

perciò v=2+2-3=1

le tre fasi possono coesistere solo a T = TE (-21,3°C) dato che la p è già fissata.

Allora, o la T ambiente arriva ad assumere il valore TE, oppure deve scomparire una delle fasi,
in modo che il sistema riacquisti un ulteriore grado di libertà: il ghiaccio fonde e scioglie NaCl;
poiché la fusione è un processo endotermico (come pure, di solito, la dissoluzione) la T
ambiente diminuisce.
Se le quantità di sale e di ghiaccio sono sufficienti, il ghiaccio fonde fino a che T = TE. A questo
punto le condizioni di equilibrio sono soddisfatte: il sistema resta a questa T finché non ha
sottratto all'ambiente abbastanza calore da fondere tutto il ghiaccio o da sciogliere tutto il sale;
solo allora, dato che scompare una delle fasi solide, il sistema può variare la sua T, che
tenderà ad assumere, in un certo tempo, il valore della T ambiente.

Oltre a questo esempio di sistemi con eutettico, molti altri ne esistono, in particolare tra le
leghe metalliche: sono sistemi con eutettico, per esempio, le coppie Pb/Ag, Si/Al, Bi/Cd, Pb/Sb,
Bi/Cu, Si/Au, oppure altri sistemi come KCl/AgCl, C6H6/CH3Cl etc.

In altri casi, come nelle leghe Al/Mg, Au/Sn, Zn/Mg e altre, si può formare un composto
intermetallico AmBn, con punto di fusione definito.
Per esempio, tra Al e Mg si forma Al3Mg4, che fonde alla temperatura di 463°C.
Fig.30.3 Diagramma isobaro di stato di
una lega binaria con formazione di
composto intermetallico di
composizione AmBn.

Si può considerare come la


giustapposizione di due diagrammi di
stato con eutettici E1 ed E2 ed è possibile
trattare il sistema globale come quello
semplice con un solo eutettico, a seconda
della composizione della miscela.
Per esempio, se la composizione della
miscela si trova tra quella del composto
AmBn e quella del secondo eutettico E2,
(tratto in verde) si utilizzerà solo la parte
a destra del diagramma: si formerà
dapprima solo AmBn; quando si
raggiungerà la TE2, cristallizzeranno
separatamente i due solidi AmBn e B.
Il primo sistema è perciò costituito solo
dai due componenti A e AmBn; il secondo
solo dai due componenti AmBn e B.

Un altro caso si ha quando un solido ha due forme cristalline enantiòtrope (che possono, cioè,
trasformarsi reversibilmente l'una nell'altra a seconda della temperatura) che possiamo
chiamare a e b.
Questo comporta un punto di transizione G tra le due forme cristalline.

Fig.30.4 Diagramma di stato per un sistema con un punto di transizione tra due forme
cristalline della specie B.
La cristallizzazione inizia a T = T1, con la separazione della fase B(a); la composizione del
liquido si sposta lungo la curva TBG; al punto di transizione G, perché T possa diminuire, è
necessario che la forma a diventi b, poiché, a T<TG essa non è più stabile.
Inoltre, per la regola delle fasi, non possono coesistere 3 fasi (liquido, a,b) se non al punto G
che, essendo p=cost., è invariante.
Procedendo nel raffreddamento, il sistema è perfettamente analogo a quello con eutettico E.

L'analisi termica del processo di raffreddamento per la miscela presa in considerazione, dà il


grafico a destra in cui, al tempo t1 la miscela (T = T1) inizia a separare B(a); al tempo t2
raggiunge T = TG, corrispondente al liquido di composizione G: a questo punto inizia la
transizione a → b, che termina al tempo t3. Da t3 a t4 si separa B(b); ma a t4, T = TE;
siamo all'eutettico: la soluzione rimanente solidifica tutta a T = TE.
Esistono anche coppie di sostanze che, anche in fase solida, sono completamente
miscibili: si ottengono cristalli misti (nel caso di coppie metalliche, una lega); la
solidificazione avviene gradualmente senza arresto della temperatura, ma con variazioni di
pendenza come si vede nell'analisi termica del processo.

Fig.30.5 Diagramma di stato per un sistema binario A-B con


formazione di cristalli misti.

All'interno della lente (in cui i punti si smistano in una fase liquida in
equilibrio con una fase solida), quando cioè sono presenti due fasi, il
sistema è bivariante (v = 2 + 2 - 2), ma dato che la p è definita, ad
ogni composizione corrisponde una sola T; questo perché la fase
solida è una sola (si tratta di una "soluzione" solida e non di una
"miscela" dei due solidi).
Si formano dei cristalli misti.
Il liquido di composizione C1 inizia a separare cristalli di
composizione C2; la T continua a scendere, con un continuo
adeguamento della fase solida alla composizione che deve essere in
equilibrio con il liquido corrispondente. Quando si giunge a T2
solidifica l'ultima frazione di liquido, di composizione C3; la fase
solida ha ora la composizione C1.

La composizione dei cristalli misti varia continuamente e il sistema resta in equilibrio solo se il
raffreddamento è lento. Se non lo è sufficientemente, otterremo dei cristalli zonati.

Fig.30.6 Sezioni di cristalli misti zonati.


Ogni linea corrisponde alla formazione di cristalli in tempi
successivi lungo la direzione della freccia.
Poiché il raffreddamento è stato troppo veloce per permettere
alla fase solida di mentenersi in condizioni di equilibrio, le zone
interne sono più ricche nel componente B che cristallizza
prima, le esterne in quello che cristallizza dopo, arrivando
addirittura ad A quasi puro.
Da notare che, in questo caso, il diagramma di stato non viene
seguito, poiché esso presuppone sempre condizioni di
equilibrio.
Perché due metalli possano dare cristalli misti, occorre che i loro atomi abbiano circa le stesse
dimensioni; in tal caso si parla di soluzioni solide di sostituzione (per esempio le leghe
Ni/Cu, Au/Pt, Au/Ag, Co/Ni), oppure che uno dei due abbia atomi molto più piccoli dell'altro, e
allora si tratta di soluzioni solide interstiziali.

Sistemi invece come Zn/Cd, Bi/Pb, Sn/Cd, Cr/Fe, Au/Ni, presentano una solubilità parziale
allo stato solido.

Fig.30.7 Diagramma di stato con solubilità parziale allo stato solido.


Alla fine si hanno soluzioni solide coniugate, quella di B in A, a, quella di A in B, b. Le forme a e b
cristallizzano insieme a T=TE, come se si trattasse di un eutettico. Per C1 il comportamento è identico
a quello della miscibilità completa. Per C2, la cristallizzazione inizia a T2, ma a T=TE c'è ancora liquido
che cristallizza con formazione sia di a che di b, di composizioni Ca e Cb. E' ovvio che, se partiamo da
una miscela di composizione eutettica, la solidificazione inizia e termina a T=TE, con separazione delle
due fasi solide a e b, con rispettive composizioni Ca e Cb.
31 - I sistemi ternari
Finora abbiamo trattato, al massimo, sistemi binari, ma è possibile rappresentare sistemi
ternari, costituiti cioè da tre componenti A, B, C?

Cerchiamo di costruire un diagramma relativamente semplice, in cui ogni coppia di componenti


presenta un eutettico.

Fig.31.1 Diagramma ternario in cui ogni coppia di componenti


presenta un diagramma eutettico.

Ognuna delle coppie possibili fra i tre componenti A, B, C, ha un suo


diagramma di stato liquido-solido con presenza di punto eutettico.
Le Ti rappresentano le singole temperature.
La coppia A-B, per esempio, presenta (come le altre coppie) un
eutettico D, ed è rappresentata dalla faccia del prisma triangolare
su cui giacciono i punti (TA A B TB TD). La parte superiore della faccia
rappresenta la fase liquida L, sempre per la coppia A-B. Essendo
però presenti tre componenti (all'interno del prisma), il sistema, a
seconda dei rapporti A/B/C, ha le sue condizioni di equilibrio liquido-
solido sulle tre superfici ternarie (TA TE TG TD, marrone), (TB TF TG
TD, grigio), (TC TF TG TE, verde).
In particolare, la superficie (TA TE TG TD) dà le condizioni in cui il
solido A si separa dal liquido ternario.
Le curve generate dalle intersezioni tra due superfici, (TD TG), (TE
TG), (TF TG), sono le curve eutettiche ternarie, che rappresentano
le condizioni di separazione di due fasi solide dal liquido (le fasi A
puro e B puro per la curva TDTG, per esempio).
Queste tre curve si incontrano in un punto eutettico ternario,
individuato dalla TG, che rappresenta la sola temperatura in cui il
liquido può coesistere in equilibrio con le tre fasi solide A, B, C. E'
un punto invariante (v = 3 + 2 - 4 = 1) dato che la p è fissata.
Sotto TG il liquido non può esistere.

I punti D', E', F', G' sono le proiezioni di TD, TE, TF, TG, sul piano ABC, che, essendo
perpendicolare all'asse del prisma, è isotermo; qualsiasi piano ad esso parallelo rappresenta
perciò una sezione del prisma che individua una situazione isoterma.

Ognuna di queste sezioni dà una rappresentazione bidimensionale delle condizioni di equilibrio


a quella temperatura. Per esempio, a T > TA, TB, TC, è un triangolo equilatero che rappresenta
solo la fase liquida.

Fig.31.2 Sezione isoterma del diagramma


tridimensionale ternario a T> TA, TB, TC,
Rappresenta una situazione in cui esiste solo la
fase liquida, L, in cui i tre componenti sono
completamente miscibili tra loro.
A T < TG, rappresenta solo le fasi solide A, B, C ed è il triangolo base del prisma già visto in
figura 31.1.

Più interessanti sono le sezioni isoterme che intersecano la zona di esistenza delle curve di
equilibrio ternario solido-liquido, per esempio a T > TG, ma di poco superiore:

Fig.31.3 Sezione isoterma del diagramma


tridimensionale ternario a T > TG.
Il triangoloide interno, L, rappresenta la zona di
esistenza della fase liquida.
A E' D' (colore marrone) identifica la zona di
esistenza di A,
B D' F' (colore grigio) identifica quella di B,
C F' E' (colore verde) identifica quella di C.
D', E', F' sono le miscele eutettiche delle coppie
AB, AC, BC.

Se la temperatura è invece un po' più alta, per esempio T = TD, ci troviamo esattamente alla
temperatura dell'eutettico tra A e B:

Fig.31.4 Sezione isoterma del


diagramma tridimensionale ternario a
T = T D.

Per il sistema AC siamo a


temperatura superiore a quella del
suo eutettico (TE), perciò esiste
ancora la fase liquida tra E'' e E'''.
Per il sistema BC invece la
temperatura è inferiore a quella del
suo eutettico (TF): non può esistere
fase liquida con solo B e C a questa
temperatura, dato che già tutto è
solidificato e cristallizzato come B e
C.
Per il sistema AB, infine siamo
esattamente alla temperatura del suo
eutettico (TD), perciò coesistono la
fase liquida L e le fasi solide A e B.

Se aumentiamo ancora la temperatura, in modo essa sia inferiore a TA, ma superiore a TB e a


TC:
Fig.31.5 Sezione isoterma del diagramma
tridimensionale ternario a T compresa tra (TB, TC) e
TA: TB, TC > T > TA.
A questa temperatura non può esistere A solido, e
anche il campo di esistenza per B e per C è
abbastanza ridotto.

Abbiamo visto così come sia possibile interpretare un diagramma di stato tridimensionale
piuttosto complesso fissando uno dei parametri:
se fissiamo la temperatura (se cioè utilizziamo sezioni perpendicolari all'asse del prisma)
possiamo analizzare il comportamento del sistema ternario a quella temperatura;
se invece poniamo che la concentrazione di uno dei componenti sia nulla, esaminiamo una
delle facce del prisma: per esempio, se poniamo che non ci sia C, utilizzeremo la faccia TA A B
TB, che rappresenta semplicemente il diagramma di stato con eutettico del sistema A-B.

Questi diagrammi ternari isobari (consideriamo di operare a pressione costante, generalmente


quella atmosferica) e isotermi (per semplificare l'interpretazione del diagramma
tridimensionale) sono molto utili per lo studio di leghe metalliche, di materiali ceramici e vetri.
Le applicazioni dei diagrammi di stato in generale sono molte e molto più complessi possono
essere, in certi casi, alcuni diagrammi (per esempio quello Fe/C); ma sono generalmente
riconducibili a quelli più semplici, interpretandone le varie parti in base a quelli considerati.

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