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I nd ic e ............................................. ................................................. 1
1 - L a c h im ic a , l a m ate r i a , l e m i su r e .............. ..................................... 2
2 - Q u a l ch e t a pp a "p re i st o ri c a" e "s t or ic a " d e l l a te o ri a at om ic a ............ 6
3 - L' at om o ........................................ ............................................. 15
4 - R a d i az i o ni e le t tr om a gn et i ch e e a tom i .......................................... 21
5 - Ato m i e m ag n e ti sm o ............................. ...................................... 26
6 - M o d e ll o p e r l' a tom o d i id r og e no .................................................. 28
7 - I n um e ri q u an t ic i .............................. ......................................... 31
8 - G l i o r b it a l i ................................... .............................................. 34
9 - Au fb a u e p e ri o di c it à ........................... ........................................ 38
10 - I l s i st em a p e r io d ico .......................... ....................................... 43
11 - L a r a d io at t iv i tà .............................. .......................................... 48
12 - Le g am i e r e az io n i ............................. ........................................ 58
13 - I l l e g am e io n i co .............................. ......................................... 60
14 - I l l e g am e c ov a le n te ........................... ....................................... 68
15 - G l i o rb i t al i m ol ec o l a ri ....................... ........................................ 80
16 - Su i l eg a mi .................................... ........................................... 84
17 - Le i so me r i e ................................... ........................................... 88
18 - I g a s ......................................... .............................................. 93
19 - Li q u id i e s ol i di .............................. ........................................... 97
20 - L a c in et ic a ch im i c a ........................... ...................................... 10 0
21 - L' e q ui l i br i o c h im ic o .......................... ...................................... 10 9
22 - L a te r mo d in a mi c a d e ll e re az i o n i .............................................. 11 3
23 - L' ac qu a ....................................... .......................................... 11 8
24 - A ci d i e b as i .................................. .......................................... 12 1
25 - E q u il i b ri et e r og e ne i .......................... ...................................... 12 6
26 - Co m e d es c ri v er e un s i st em a .................... ................................ 12 8
27 - L' e l ett r oc h im i ca .............................. ....................................... 12 9
28 - G l i e q ui l i br i t r a l e f a s i ..................... ....................................... 14 1
29 - Le pr o pr i et à c ol l i g at iv e ...................... ..................................... 14 9
30 - G l i e q ui l i br i s ol i do -l i q ui d o .................. .................................... 15 3
31 - I si st e mi te r n a r i ............................. ........................................ 15 8
1 - La chimica, la materia, le misure
Oggetto di studio della chimica è la materia, che si presenta, all'indagine scientifica "come se"
fosse costituita di atomi.
Il modello accettato attualmente vede la materia costituita da miscugli omogenei ed eterogenei
di individui chimici; questi possono essere sostanze elementari o composti; ambedue le
categorie sono costituite di atomi.
I miscugli, che costituiscono la materia, si presentano in tre stati di aggregazione, solido,
liquido, gassoso; in effetti ne esisterebbe un quarto, lo stato di plasma (stato gassoso ad
altissima temperatura costituito di ioni ed elettroni) che però, date le elevate energie in gioco,
non è generalmente di interesse per il chimico; egli infatti opera a livelli di energia più
moderati, benché possa farne uso in casi particolari.
Una miscela omogenea è un sistema monofasico.
Fase è una parte di un sistema, di composizione chimica determinata, con proprietà fisiche
uniformi, separata da altre parti del sistema da superfici limite fisicamente definite.
Una miscela eterogenea è invece un sistema costituito da più fasi fisicamente distinte tra
loro da superfici limite (chiamate anche "interfaccia" tra le fasi).
Una sostanza pura è un sistema omogeneo o eterogeneo a composizione definita e costante
anche se sottoposto a moderate sollecitazioni esterne; come esempio, l'acqua può presentarsi
come sistema omogeneo (solo fase gassosa o solo liquida o solo solida) oppure come sistema
eterogeneo (fase liquida e fase solida).
Essa può essere una sostanza elementare se è costituita di unità formate solo da atomi della
stessa specie o un composto se le unità sono formate da atomi di due o più specie diverse.
La materia è costituita da circa 90 specie atomiche, ma sistemi diversi presentano
abbondanza relativa diversa di elementi; per esempio, mentre nell'universo si stima che
l'abbondanza di H sia il 71%, di He il 27%, degli elementi da C a Ne 1,2%, di quelli da Na a Ti
0,2% circa, il sistema Terra presenta percentuali di abbondanza relativa molto diverse: O 46;
Si 26; Al 7,5; Fe 4,7; Ca 3,4; Na 2,6; K 2,4; Mg 1,9; Cl 1,9; H 0,9; Ti 0,6.
processo passaggio
fusione S→L
sublimazione S→G
solidificazione L→S
evaporazione L →G
condensazione G→L
Dalle proprietà intensive è possibile individuare la sostanza, dato che esse sono caratteristiche
della sostanza in questione.
Le proprietà estensive dipendono invece dalla quantità di sostanza (come massa e volume)
e da esse non si può individuare una sostanza.
Effettuando una misura si assegna un valore numerico moltiplicato per una unità di misura.
Nel Sistema Internazionale S.I. vengono usate 7 unità base; tutte le altre possono derivare
da queste:
Fig.1.3 Unità di misura derivate dalle unità base del Sistema Internazionale
Spesso occorre usare multipli o sottomultipli delle unità, con ordini di grandezza molto diversi;
piuttosto di usare esponenziali in base dieci, si preferisce aggiungere alle unità dei prefissi che
rappresentano un ordine di grandezza specifico.
Fig.1.4 Multipli e sottomultipli che si utilizzano per le unità di misura, prefissi relativi e simboli.
Per tradizione si usano correntemente anche altre unità di misura, benché le indicazioni degli
organismi internazionali siano quelle di sostituirle con quelle base o derivate, ma le abitudini
sono dure a morire (basti pensare al sistema di misura inglese!).
Fig.1.5 Unità di misura di uso tradizionale che non fanno parte del Sistema Internazionale.
***E' molto importante, data la varietà delle unità di misura, far seguire sempre, al valore numerico, l'unità usata o,
meglio, le sue "dimensioni", cioè la sua definizione in termini di unità S.I.; inoltre, quando si effettuano operazioni
matematiche su misure, occorre applicare le stesse operazioni anche sulle unità o sulle loro dimensioni: ciò permette,
fra l'altro, di accorgersi di eventuali errori di impostazione, dato che si otterrebbero, in caso di errore, dimensioni
errate per l'unità di misura.
2 - Qualche tappa "preistorica" e "storica" della teoria atomica
Esaminare la storia della elaborazione di un modello è importante per rendersi conto di come
avvenga lo sviluppo della conoscenza scientifica ed anche per capire che ogni modello non
può essere considerato definitivo e perfetto: lo è solo fino a quando i dati sperimentali
rientrano nel modello disegnato ed accettato; quando essi divergono, occorre modificarlo o,
addirittura, cambiarlo totalmente.
L'esempio della teoria atomica è esemplare ed emblematico, tanto più che copre un arco
temporale enorme, di circa 2500 anni; ma il processo di costruzione di ogni modello ha avuto
traversie simili, seppure in un arco di tempo più ridotto.
Quasi sempre esso è ricostruibile attraverso il pensiero e le opere di grandi personaggi della
storia della scienza. Verranno ricordate solo alcune delle moltissime tappe significative; dei vari
personaggi inoltre verranno menzionate solo le idee che possono riferirsi agli attuali modelli:
ovviamente essi hanno espresso anche idee contrastanti o devianti rispetto ai modelli, ma
sarebbe troppo dispersivo citarle.
***Occorre notare che queste "teorie atomistiche" sono puramente filosofiche, poiché escludono l'esperimento per
confermarle (lo escludono in quanto non lo prendono nemmeno in considerazione: le attività manuali erano
considerate di basso livello, inadatto ai cultori della sapienza, cioè ai "filosofi").
L'atomismo influenzò sempre gli studiosi, ma nel Medio evo fu accettata la teoria aristotelica
dei "principi" (anche Dante la seguì), teoria più coerente con le idee della Chiesa e non "atea" e
"materialistica". Questo fatto ha condizionato pesantemente il progresso delle teorie atomiche
e della scienza in generale.
Isaac Newton (1642-1727), fisico inglese: i corpi sono formati da particelle primordiali (che
chiama "minima") "tanto dure che non si logorano mai e mai si rompono in frammenti"; "i
corpi composti possono frammentarsi... solo dove queste particelle sono a contatto...";
"l'agganciamento delle particelle è dovuto al fatto che esse si attraggono l'un l'altra con una
forza che è molto grande... quando sono a contatto" (Newton cercò di generalizzare anche al
mondo microscopico le sue teorie sulla gravitazione universale).
Michail V. Lomonosov (1711-1765), russo: "il fondamento di ciò che è proprio ai corpi
naturali va ricercato nelle qualità dei corpuscoli che li compongono e nel modo della loro
reciproca disposizione; un "principio" è formato da corpuscoli eguali, un "corpo misto" è
costituito da due o più diversi principi..."
Bryan e Williams Higgins, fisici inglesi seguaci di Newton dal 1775 al 1995: gli atomi di tutti
gli elementi sono solidi e hanno forma sferica o quasi sferica; gli atomi si attraggono con forze
inversamente proporzionali al quadrato delle distanze (teorie gravitazionali).
*** E' da notare che, finora, nessuno di questi scienziati è stato definito "chimico", dato che allora la chimica moderna
non si poteva considerare ancora nata; i primi pensatori o scienziati erano di formazione "fisici" (che si interessavano
cioè della Natura e delle sue leggi, in greco "fisis" fusis) o medici o matematici.
Dalton effettua il primo calcolo del rapporto fra questi pesi e quello dell'atomo di idrogeno,
compilando una prima tabella di pesi atomici, il 6 settembre 1803, tabella affetta da errori
concettuali, ma fondamentale perché la prima che sia stata elaborata (gli errori sono legati alla
convinzione che il numero di particelle di vari gas in un dato volume possa essere diverso;
d'altronde non aveva conoscenza dell'esistenza di molecole biatomiche, perciò interpretò le sue
esperienze sulla base che il gas idrogeno fosse H e non H2)
atomo primario peso atomico note
idrogeno 1 da acqua, come HO
ossigeno 5,66
azoto 4 da ammoniaca ,come NH
carbonio 4,5 da H2CO3, usando 5,66 per O
acqua 6,66 come HO
ammoniaca 5 come NH
ossido nitrico 13,66 come N2O
zolfo 17 da acido solforoso come SO
acido solforoso 22,66 come SO
acido solforico 28,32 come SO2
acido carbonico 15,8 come CO2
ossido di carbonio 10,2 come CO
Per capire l'importanza del contributo di Dalton allo sviluppo della moderna chimica, con la sua
innovativa simbologia, basti pensare che, prima di lui, vigeva ancora l'abitudine di tentare di
"comunicare" mediante simbologie che si rifacevano all'alchimia ed all'astrologia, con
descrizioni di processi che sembravano più racconti fantastici che esperienze reali e con simboli
fantasiosi e mitologici, più o meno comprensibili anche per gli "addetti ai lavori".
Fig.2.7 Esempio di "Tabula affinitatum" tra sostanze diverse (E.F.Geoffroy, 1718) di uso comune
ancora alla fine del 1700
Nella riga in alto compaiono simboli di sostanze o elementi; nelle colonne, in corrispondenza ad
ogni singolo elemento o sostanza, l'affinità nei suoi riguardi di altre sostanze o elementi.
Quello che ha la massima affinità si trova nella seconda riga, poi nella terza e così via, fino alla
sostanza o all'elemento che ha la minima affinità fra quelli considerati.
Il concetto usato nella costruzione della tabula era che la sostanza che ha maggiore affinità
sposta quella che ha minore affinità.
La simbologia usata è quella generalmente in uso nell'alchimia (Au = Sole; Ag = Luna; Fe =
Marte; Cu = Venere, etc.)
Per una lettura della tabula, potremmo nominare le colonne secondo le lettere dell'alfabeto, le
righe con i numeri interi cominciando da uno, secondo lo schema:
a b c d e f g h i l m n o p q r
1
2
3
4
5
6
7
8
9
Così, utilizzando le regole degli scacchi o della "battaglia navale", e tenendo presente che la
riga 1 corrisponde alla sostanza in oggetto, possiamo individuare un riquadro qualsiasi, per
osservare per esempio che:
- per HCl "acido del sale marino", colonna b, la massima affinità è presentata da Sn (b2),
minore da Cu (b4), poi Ag (b5), Hg (b6) e, molto lontano, Au (b9).
- per Na carbonato "sale alcalino fisso", colonna f, la massima affinità è dell'acido solforico
(vitriolico) (f2), poi del nitrico (f3), del cloridrico (f4), dell'acetico (f5, spirito di aceto di vino).
- per Hg, colonna l, teniamo presente che il mercurio fa amalgama soprattutto con i metalli
nobili: primo Au (l2), Ag (l3), Pb (l4), Cu (l5), Zn (l6), Sb (l7).
- per Ag, colonna o, primo Pb (o2), poi Cu (o3), con i quali fa leghe; per il resto non ha affinità
con altro o quasi: infatti è un metallo nobile, inattaccabile normalmente anche dagli acidi.
Addirittura non esiste nemmeno una colonna per Au, essendo praticamente inutile. Si può
tentare facilmente di dare una interpretazione ad altre parti della tabula, alla luce delle
conoscenze attuali, per osservare altre corrispondenze a reazioni note.
E' interessante notare che molti metalli utilizzano simboli astrologici di pianeti, della luna e del
sole: l'oro ha il simbolo del sole (b9), l'argento quello della luna (b5), il ferro quello di Marte
(c2), il rame quello di Venere (b4), il piombo quello di Saturno (c4), lo stagno quello di Giove
(b2), il mercurio quello di...Mercurio (c5).
Joseph Louis Proust (1754 -1826): formula la legge delle proporzioni definite (per il rapporto
in peso degli elementi costituenti un composto); ciò comporta che esista discontinuità nella
materia: è necessario perciò ipotizzare l'esistenza di "atomi" come costituenti.
Amedeo Avogadro (1776 - 1856) avvocato torinese: deduce, dalle esperienze sui gas di
Joseph Louis Gay-Lussac, chimico francese (combinazioni di sostanze gassose sempre in
rapporti definiti e semplici) e dalle teorie di Dalton che: volumi eguali di gas diversi, nelle
stesse condizioni di pressione e di temperatura, contengono lo stesso numero di particelle,
come aveva già pensato il grande chimico svedese Jacob Berzelius, che però sbagliava in
quanto si riferiva ad atomi e non a molecole; Avogadro infatti ipotizza (1811) che le molecole
di gas usate siano biatomiche (H2, Cl2, HCl...); in particolare lui parla di "molecole integranti" o
"costituenti" (molecole), composte da "molecole elementari" o "parziali" o "semplici" (atomi);
in questo modo l'ipotesi è verificabile. Ma la sua idea non viene accettata dal mondo scientifico.
Fig.2.12 Stanislao Cannizzaro in una
sua foto
Stanislao Cannizzaro (1826 - 1910)
palermitano, seguì studi di medicina,
poiché a Palermo non esisteva altro
insegnamento scientifico; poi ebbe la
possibilità di trasferirsi in Piemonte dove
ebbe una vera formazione chimica;
stabilisce un metodo di deduzione dei
pesi atomici relativi; riesce a convincere
il mondo scientifico della validità
dell'ipotesi di Avogadro e della teoria
atomica al primo congresso
internazionale di chimica a Karlsruhe, in
Germania, nel 1860.
In tale occasione vengono prese anche
altre importanti decisioni, per esempio
sui simboli chimici che saranno
convenzionalmente usati a livello
mondiale, sul concetto di "equivalente",
sui metodi di determinazione dei pesi
atomici, tanto che a quella data si può
far risalire la nascita della chimica
moderna.
Queste sono solo alcune delle tappe nello sviluppo iniziale del modello atomistico; moltissimi
altri scienziati hanno dato il loro contributo nello stesso periodo di tempo considerato e ancora
più negli anni successivi; tutti questi contributi hanno permesso l'elaborazione del modello
attualmente accettato.
3 - L'atomo
Le proprietà degli atomi non coincidono con quelle della materia (che ai nostri sensi si presenta
con stato di aggregazione, durezza, lucentezza, densità, colore, etc.); le proprietà
macroscopiche della materia sono infatti legate alla presenza di un numero molto elevato di
atomi o molecole.
Anche la massa è legata al numero di atomi o molecole, ma questa è una proprietà
estensiva, cioè additiva, perciò comune al micro ed al macroscopico.
E' utile ricordare alcune caratteristiche degli atomi ricordando anche terminologie e simbologie
che vengono convenzionalmente usate e che è necessario conoscere per poter disporre di un
linguaggio comune.
MASSA: è dell'ordine di 10-23 - 10-22 g, ed è praticamente concentrata nel nucleo (cioè circa in
1/1000 del volume totale dell'atomo).
NUMERO DI MASSA A: è dato dalla somma del numero di protoni Z e del numero di neutroni
N del nucleo.
ISOTOPI: sono atomi chimicamente identici (perciò hanno eguale Z) ma con diverso
numero N di neutroni (A è perciò diverso).
MASSA ATOMICA RELATIVA: è data dal rapporto tra massa atomica assoluta e unità di
massa atomica u.m.a. (per convenzione, u.m.a.= 1/12 della massa atomica di 12C cioè del
carbonio con A=12).
VOLUME ATOMICO: va da circa 0,2 x 10-30 m3 (cioè 0,2 Å3), a circa 80 x 10-30 m3 (cioè 80
Å3); è dovuto agli elettroni in movimento attorno al nucleo a energia minima (un aumento di
energia provoca infatti un'espansione della zona in cui si muovono gli elettroni, perciò del
volume).
PERIODICITA': gli atomi presentano proprietà chimiche periodiche correlabili con Z, numero
atomico
Z atomo con F con O con H
3 litio LiF Li2O LiH
4 berillio BeF2 BeO BeH2
5 boro BF3 B2O3 BH3
6 carbonio CF4 CO2 CH4
7 azoto NF3 N2O3 NH3
8 ossigeno OF2 O2 OH2
9 fluoro F2 F2O FH
10 neon - - -
11 sodio NaF Na2O NaH
12 magnesio MgF2 MgO MgH2
13 alluminio AlF3 Al2O3 AlH3
14 silicio SiF4 SiO2 SiH4
15 fosforo PF3 P2O3 PH3
16 zolfo SF2 SO2 SH2
17 cloro ClF Cl2O ClH
18 argon - - -
19 potassio KF K2O KH
20 calcio CaF2 CaO CaH2
Fig.3.1 Schema che evidenzia la periodicità di comportamento chimico degli atomi del 2° e 3° gruppo e dei primi del
4°, in funzione del loro numero atomico.
Molte altre proprietà degli atomi presentano periodicità in funzione del numero atomico Z. Per
esempio l'energia E necessaria per strappare un elettrone all'atomo (E di ionizzazione)
cresce al crescere di Z da 3 a 10; poi cade per Z =11 (Na), ricresce fino a Z =18 (Ar); poi cade
ancora per Z =19 (K) e così via
TABELLA PERIODICA DEGLI ELEMENTI: è uno schema razionale che mette in evidenza la
periodicità delle caratteristiche chimiche; è ordinata in periodi (orizzontali) e in gruppi
(verticali). La prima formulazione coerente con quella attualmente utilizzata, basata sul
numero atomico, fu di Dmitrij Ivanovic Mendeleev (1834-1907) nel 1869, anche se altri
ebbero analoghe (ma meno chiare) intuizioni, come Julius Lothar Meyer (1830-1895) in
base al volume atomico.
Michael Faraday
Fig.3.2 Una rara immagine del suo tempo, di Michael Faraday giovane
Michael Faraday (Newington Butts 1791 - Hampton Court 1867), fisico e chimico
britannico è noto per avere scoperto l’induzione elettromagnetica e le leggi
dell’elettrolisi. Compì studi irregolari; nel 1812 frequentò un corso tenuto dal chimico
Humphry Davy, del quale divenne poi assistente presso il laboratorio di chimica della
Royal Institution. Le prime ricerche di Faraday si svolsero nel campo della chimica,
sulle orme di Davy. Uno studio sul cloro condusse alla scoperta di due nuovi cloruri di
carbonio e del benzene. Compì inoltre ricerche sulle proprietà ottiche del vetro e
ottenne sperimentalmente la liquefazione di alcuni gas comuni.
Le ricerche che fecero di Faraday il più insigne scienziato sperimentale dei suoi tempi
ebbero come oggetto l’elettricità e il magnetismo. Nel 1821 riuscì a produrre un
campo magnetico impiegando un conduttore attraversato da corrente elettrica
(l’esistenza del campo magnetico era stata osservata per la prima volta nel 1819 dal
fisico danese Hans Christian Oersted). Nel 1831 fece seguire a questa scoperta quella
dell’induzione elettromagnetica e, nello stesso anno, dimostrò l’interazione tra correnti
elettriche. Nel frattempo studiò i fenomeni dell’elettrolisi e formulò due leggi
fondamentali: le quantità di elettrolita decomposte nell’elettrolisi sono proporzionali
alla quantità di elettricità che ha attraversato la soluzione; per il passaggio di una
stessa quantità di corrente in soluzioni di elettroliti diversi, questi vengono decomposti
in quantità chimicamente equivalenti. Faraday stabilì anche il principio in base al quale
sostanze dielettriche diverse possiedono capacità induttive specifiche diverse.
Nei suoi esperimenti col magnetismo, effettuò due scoperte di grande importanza. La prima fu
quella dell’esistenza del diamagnetismo; la seconda, quella secondo cui un campo magnetico
determina la rotazione del piano della luce polarizzata. Oltre a numerosi saggi destinati a
riviste di carattere scientifico Faraday scrisse: Manipolazione chimica (1827), Ricerche
sperimentali sull’elettricità (1844-1855) e Ricerche sperimentali in chimica e fisica (1859).
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)
Robert Millikan
Robert Andrews Millikan (Morrison 1868 - San Marino, Pasadena 1953), fisico statunitense,
ottenne risultati fondamentali nell'ambito della fisica atomica. Studiò alla Columbia University e
alle università di Berlino e di Gottinga. Nel 1896 si trasferì all'università di Chicago dove nel
1910 gli venne assegnata la cattedra di fisica. Lasciò l'università nel 1921 per assumere la
direzione del laboratorio di fisica Norman Bridge al California Institute of Technology.
Nel corso dei suoi esperimenti, determinò la carica dell'elettrone e dimostrò che ogni corpo
elettricamente carico trasporta una carica elettrica multipla di tale valore, che pertanto viene
assunto come costante fondamentale.
Questo risultato fu premiato con il premio Nobel per la fisica nel 1923. Di estrema importanza
furono le sue ricerche sui raggi cosmici, ai quali egli attribuì il nome, e sui raggi X, nonché sulla
determinazione sperimentale della costante di Planck. Tra le sue opere si annoverano alcuni
studi tecnici e vari libri sul rapporto tra scienza e religione.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)
La carica elettrica è perciò "quantizzata": esiste cioè una unità elementare di elettricità, che è
la carica dell'elettrone, 1,6 x 10-19C (Coulomb). Da questo dato e dal valore di e/m
(carica/massa), ricaviamo il valore della massa dell'elettrone che vale 9,11 x 10-31 Kg (o
9,11 x 10-28 g).
A(gas) → A+(gas) + e-
l'elettrone e- non deve possedere energia cinetica, altrimenti occorrerebbe fornire ulteriore
energia.
E' possibile anche una seconda ionizzazione; l'"energia di seconda ionizzazione" è
quantitativamente sempre maggiore di quella di prima ionizzazione (e, ovviamente, va
aggiunta alla prima), dato che un atomo con carica positiva (catione), generato dalla prima
ionizzazione, esercita una maggiore attrazione sugli elettroni rimanenti.
A+(gas) → A++(gas) + e-
Il processo inverso, in cui un atomo accetta un elettrone in più, comporta una energia che si
chiama "affinità elettronica"; nel caso che avvenga questo processo, l'energia in gioco viene
di solito ceduta dall'atomo all'ambiente:
A(gas) + e- → A-(gas)
Può invece essere necessario spendere energia per far accettare, a questo ione negativo, un
ulteriore elettrone, a causa della repulsione elettronica; in tal caso l'energia da spendere sarà
negativa rispetto alla precedente; questo processo può comunque avvenire, benché ci sia una
spesa di energia, se la formazione di un anione con due cariche porta vantaggi energetici al
processo totale (per esempio la formazione di molecole più stabili di quelle ottenibili con un
anione monovalente).
A-(gas) + e- → A--(gas)
L'affinità elettronica è più difficile da misurare rispetto alla energia di ionizzazione; esistono
perciò meno dati sperimentali.
Nella tabella seguente vengono riportati alcuni dati sia per la ionizzazione che per l'affinità
elettronica; da notare:
- la bassa energia di prima ionizzazione per i metalli alcalini (Li, Na, K, Rb, Cs), energia che,
anzi, tende a diminuire al crescere di Z, poiché l'elettrone esterno che viene strappato è più
lontano dal nucleo e perciò meno attratto, oltre che schermato dagli elettroni più interni;
- l'altissima E di seconda ionizzazione per Li (si dovrebbe strappare uno dei due elettroni
rimasti, che subiscono una attrazione elevatissima da parte del nucleo con tre protoni; inoltre
si dovrebbe distruggere una situazione energetica molto stabile, come un guscio completo);
- l'affinità elettronica negativa per O-- e per S--.
E' molto importante non confondere l'affinità elettronica, proprietà di un atomo isolato, con
l'elettronegatività:
ELETTRONEGATIVITA': capacità di un atomo in una molecola di attirare elettroni di un altro
atomo, impegnato in un legame comune; in molecole con atomi diversi, gli elettroni di legame
tendono perciò a creare una situazione asimmetrica sbilanciata verso l'atomo più
elettronegativo. Se la differenza di elettronegatività è molto alta, gli atomi sono praticamente
in forma ionica (il fluoruro di sodio, NaF, è costituito da cationi Na+ e anioni F-).
Per misurare le masse, come già detto, si usa una unità di massa atomica, chiamata u.m.a.
o Mu (mass unit) che corrisponde a 1/12 della massa dell'isotopo 12 del carbonio, 12C.
Nella tabella successiva sono riportati i valori, in u.m.a., dei componenti del nucleo (elettrone
e, neutrone n, protone 1H, e di alcuni isotopi; sulla destra invece sono riportati i valori
corrispondenti a miscele naturali degli atomi.
MOLE: il chimico progetta operazioni per le quali deve misurare quantità di sostanza in base
ad una espressione simbolica che rappresenta la reazione. Poiché non è pensabile che possa
"contare" atomi o molecole, è utile definire una quantità di sostanza proporzionale al numero
di entità (atomi, molecole, ioni...) che la costituiscono; si chiama mole una quantità di
sostanza che contiene tante unità quanti atomi sono contenuti in 0,012 kg (12g) di 12C, cioè
in una mole di isotopo 12 del carbonio, il consueto isotopo di riferimento. Il numero di unità
contenute in una mole si chiama numero o costante di Avogadro (NA o N).
Il suo valore si può ricavare dal rapporto fra 0,012 kg e 12 volte la massa unitaria:
Il chimico usa questa costante non solo per misurare quantità di sostanza, ma anche per
riferirsi a proprietà fisiche o chimiche; perciò normalmente una grandezza viene espressa
rispetto ad una mole anziché ad un singolo atomo o molecola.
Per esempio, l'E di ionizzazione E.I., che per un atomo di H è 21,8 x 10-19 J , viene
generalmente espressa per una mole di H: E.I. = 21,8 x 10-19 J x 6,022 x 1023 mol-1 = 131,28
x 104 J mol-1.
Se si misura il volume di una mole di un elemento solido, questo volume, diviso per NA dà
circa il volume di un atomo di quell'elemento.
4 - Radiazioni elettromagnetiche e atomi
Le radiazioni luminose (sia visibili che non) sono radiazioni elettromagnetiche; sono
caratterizzate da una frequenza n = numero di oscillazioni nell'unità di tempo (espressa
perciò in s-1).
La radiazione si propaga con velocità c che dipende dal mezzo; è massima nel vuoto:
c = 2,997925x10-8 ms-1 (cioè circa 300.000 km/s).
Fig.4.2 Scala esponenziale relativa alle lunghezze d'onda e tipi di radiazioni secondo
l'abituale classificazione usata dai chimici.
La scala è esponenziale poiché i numeri della scala corrispondono agli esponenti in base
dieci che danno l'ordine di grandezza delle lunghezze d'onda.
Se eccitiamo degli atomi (sono gli elettroni a subire l'eccitazione, passando a livelli più alti di
energia) questi, tornando al loro stato iniziale, emettono radiazioni che possiamo analizzare
con un metodo che le disperda: può essere un prisma (per il visibile), come nello schema
precedente, oppure un appropriato reticolo (per altre radiazioni).
Analizzando lo spettro emesso dall'idrogeno nella zona del visibile, Johann Jacob Balmer
(1825-1898), fisico svizzero, scoprì l'esistenza di una certa regolarità nelle righe dello spettro:
Balmer, cercando di trovare una relazione matematica che legasse le frequenze delle righe
dello spettro, trovò che esse rispettavano rigorosamente la relazione
ν' = R(1/4 - 1/n2) in cui ν ' rappresenta il "numero d'onda" = 1/ λ , cioè il numero di
oscillazioni complete in un centimetro (è detto anche "Kaiser") ed è espresso in cm-1, R è una
costante, molto precisa, detta costante di Rydberg:
R = 109737,31 ± 0,03 cm-1
mentre n può assumere tutti i valori interi a partire da 3: n=3,4,5,6,...
Altri scienziati studiarono altre serie di righe, per l'idrogeno, in altre zone spettrali (cioè ad
altri livelli di eccitazione degli atomi di H); in particolare Lyman nella zona dell'ultravioletto e
gli altri nella zona dell'infrarosso. (Balmer notò questo fenomeno per primo, per il fatto che
lavorava nella zona del visibile, perciò era più facile individuare le radiazioni emesse da H in
quella zona dello spettro).
Tutte queste serie di spettri atomici dell'idrogeno si potevano generalizzare nella relazione:
n' = R (1/n22 - 1/n12)
in cui n sono numeri interi e n1 > n2; R è sempre la stessa costante di Rydberg.
Le varie serie di spettri atomici a righe per l'idrogeno si possono ricavare in base ai parametri
numerici indicati nella tabella seguente, che riporta anche gli studiosi che le hanno individuate
ed elaborate:
n2 n1 serie di:
1 2,3,4,5,... Lyman
2 3,4,5,6,... Balmer
3 4,5,6,7,... Paschen
4 5,6,7,8,... Brackett
5 6,7,8,9,... Pfund
Questi spettri a righe si ottengono solo per emissione cioè restituzione della energia
quantizzata assorbita, da parte di atomi isolati (perciò allo stato gassoso).
Quando invece si porta all'incandescenza un solido (anziché atomi isolati, che sono perciò in
fase gassosa), si ottiene uno spettro continuo che dipende dalla T a cui si trova il solido.
Ma come si potrebbe interpretare lo spettro atomico per l'idrogeno? Lo schema può essere
quello seguente:
Fig.4.7 Modello grafico che rappresenta le
transizioni spettrali che danno origine alle serie
di righe spettrali per l'atomo di idrogeno.
La scala a sinistra è una scala di energia, che
viene qui espressa in numero d'onda cm-1, unità
di misura spettroscopica.
I valori di energia per i vari livelli dell'atomo di
idrogeno sono:
n=1 (-109678); n=2 (-27420); n=3 (-12126);
n=4 (-6855); e così via, con valori sempre più
vicini tra loro, fino a n=∞ (0)
Il valore 0 di energia è preso arbitrariamente ed
è relativo alla situazione in cui protone ed
elettrone non interagiscono: si dice che sono "a
distanza infinita", con l'elettrone a energia
cinetica=0.
Tutti gli altri valori sono negativi in quanto
corrispondono ad una situazione di
stabilizzazione, perciò a energia più bassa.
Le freccette rappresentano passaggi da uno
stato a maggiore energia ad uno a minore
energia: in questi passaggi viene emessa una
quantità di energia corrispondente al salto
energetico, sotto forma di una radiazione di
specifica frequenza (o numero d'onda, che è
proporzionale alla frequenza), secondo la
relazione ∆E=hν
Anche gli altri atomi danno spettri a righe, ma sono sempre più complessi (e di più difficile
interpretazione) di quello dell'idrogeno; cioè ogni atomo ha dei particolari livelli di energia
discreti (cioè quantizzati).
I metalli alcalini, avendo un solo elettrone esterno, presentano spettri atomici simili a quello di
H (ma con valori energetici diversi); gli alcalino terrosi, con due elettroni esterni, spettri
simili a quello di He.
Ci sono perciò analogie in base agli elettroni esterni: gli spettri atomici hanno un carattere
periodico e permettono di identificare un atomo qualsiasi, per esempio mediante
spettrometria di emissione (analisi delle radiazioni emesse da un corpo eccitato) e
spettrofotometria ad assorbimento atomico (analisi delle radiazioni assorbite da un campione).
Atomi con Z abbastanza elevato possono emettere radiazioni ad alta n (cioè alta E), i raggi X;
essi furono scoperti nel 1885 da Wilhem Conrad Röntgen (1845-1923, premio Nobel nel
1901).
Nel 1912 Henry Gwyn Moseley (1887-1915) scoprì una relazione fra queste emissioni e il
numero atomico degli atomi:
ν = a (Z-b)2
in cui
a = 2,564 x 10-15 sec-1 è una costante ed ha le dimensioni di una frequenza, dato che (Z-b) è
un numero puro
b = 1,425 è una costante e un numero puro
Z = numero atomico
La legge è empirica (cioè non si conosce un vero modello che giustifichi questo
comportamento) ma risulta valida tanto da permettere di correlare con buona precisione Z e n.
5 - Atomi e magnetismo
Gli atomi, sotto l'effetto di un campo magnetico, hanno comportamenti diversi.
Otto Stern (1888-1969, premio Nobel nel 1943) con Gerlach esaminò tale comportamento
quando un fascio di atomi viene fatto passare attraverso un campo magnetico asimmetrico:
Nel grafico seguente è mostrato il comportamento di alcuni atomi, col loro numero atomico e le
periodicità di comportamento riscontrabili.
Poichè le particelle cariche che ruotano (elettroni) hanno una massa, esisterà anche un'altra
grandezza vettoriale associata al moto: il momento angolare.
Dall'esperienza di Stern e Gerlach si nota che il fenomeno, per atomi sensibili al campo
magnetico è quantizzato (l'effetto mostra direzioni molto specifiche dei raggi in cui si
scompone il fascio di atomi e non un effetto continuo): in particolare il momento angolare e il
momento magnetico sono quantizzati come orientazione rispetto ai poli del magnete.
(Ricordiamo ancora che anche l'E è quantizzata).
Vediamo ora quale può essere, alla luce di questa lunga serie di esperienze, di dati
sperimentali e di deduzioni parziali, un modello per un atomo; consideriamo il più semplice,
l'atomo di idrogeno.
6 - Modello per l'atomo di idrogeno
L'atomo di idrogeno, sulla base dei dati sperimentali, possiede:
- un nucleo con una carica positiva e quasi tutta la massa dell'atomo
- un elettrone con una carica negativa e che si muove attorno al nucleo
Nucleo ed elettrone interagiscono elettrostaticamente; l'energia totale Etot del sistema è
costituita da due componenti, energia potenziale Epot ed energia cinetica Ecin
Nel modello energetico l'energia E viene intesa come negativa, poiché la consideriamo come
una E di stabilizzazione.
Per descrivere il comportamento dell'elettrone attorno all'atomo possono essere utili delle
funzioni matematiche che tengano conto del campo di potenziale in cui si trova l'elettrone; ma
il campo è condizionato dalla posizione istantanea dell'elettrone rispetto al nucleo e questa è
rappresentabile con un sistema di coordinate cartesiane in cui l'origine degli assi coincide con il
centro del nucleo M.
Fig.6.2 Posizione dell'elettrone e rispetto alle tre
coordinate cartesiane la cui origine è costituita dal
nucleo dell'atomo M.
Nel 1926 Erwin Schrödinger (1887-1961; premio Nobel nel 1933) sviluppò una equazione
differenziale la cui soluzione è la funzione desiderata, cioè quella che rappresenta la posizione
dell'elettrone rispetto alla sua energia; questa funzione ψ è chiamata funzione d'onda.
L'equazione differenziale é:
in cui: (d2ψ / dx2), (d2ψ/ dy2), (d2ψ / dz2) sono le derivate seconde parziali della funzione
Ψ rispetto alle direzioni x, y e z;
m è la massa dell'elettrone;
E è l'energia totale dell'elettrone (Etot);
V è l'energia potenziale dell'elettrone (Epot);
Ψ è la funzione d'onda
E' evidente che il termine (E-V) rappresenta l'energia cinetica (Ecin)
Sia E sia Ψ sono incognite; trattandosi perciò di una equazione a due incognite, esisteranno
infinite soluzioni dell'equazione: ad un certo valore per l'energia (detto autovalore) Ei,
corrisponderà una certa funzione Ψ i (detta autofunzione).
Potremo perciò conoscere l'energia dell'elettrone in funzione dei suoi spostamenti (in effetti la
cosa è più complessa, ma in prima approssimazione questo può essere sufficiente).
Queste Ψ, per gli atomi, possiamo chiamarle orbitali. Ad ogni stato stazionario corrisponde
una Ψ i e perciò una ben determinata Ei.
Le varie Ψ possono avere, tra l'altro, anche "forme" speciali diverse. Ciò dipende da parametri
che sono chiamati numeri quantici.
7 - I numeri quantici
I numeri quantici sono così chiamati poiché definiscono grandezze atomiche quantizzate, sono
sempre interi (escluso l'ultimo, il momento magnetico di spin) e sono di quattro tipi.
Il numero quantico principale n (enne) riguarda la quantizzazione della energia totale Etot
(corrisponde cioè ai livelli di energia indicati nello schema energetico del modello) e può
assumere i valori n=0,1,2,...
Essendo l una grandezza vettoriale, oltre a direzione e verso, essa possiede anche un modulo
b, che assume valori dipendenti da l
A noi chimici interessa molto la "forma" degli orbitali, importanti nella formazione di "legami";
per convenzione identifichiamo la forma degli orbitali, che è definita dal valore di l, usando
termini ricavati dalla terminologia spettroscopica
per l = 0 s (da "sharp")
per l = 1 p (da "principal")
per l = 2 d (da "diffuse")
per l = 3 f
Per capire meglio il significato, ricordare l’esperienza di Stern e Gerlach: un fascio atomico
soggetto ad un campo magnetico può separarsi in fasci con direzioni diverse in funzione del
campo imposto e, ovviamente, della natura dell'atomo.
Ricapitolando, vediamo alcune possibilità di orbitali in funzione dei primi tre numeri quantici, n,
l, m ed il loro simbolo convenzionale.
Per ogni n abbiamo n2 funzioni (1 per n=1; 4 per n=2; 9 per n=3).
Gli orbitali 2p, se l’atomo non è soggetto ad un campo magnetico, sono a uguale energia e si
chiamano degeneri. Analogamente i 3p fra loro, o i 3d o i 4d o i 4f etc.; sono perciò degeneri
orbitali caratterizzati da eguale n ed eguale l, se non orientati da un campo.
Anche altre particelle hanno un momento magnetico, i protoni del nucleo, per esempio
(fenomeno sfruttato nella risonanza magnetica nucleare o n.m.r.) ed anche i neutroni.
La tendenza generale delle particelle è di associarsi fra loro con spin antiparalleli: ↑↓
8 - Gli orbitali
Ma che utilità ha per noi la funzione d'onda ψ che è una funzione matematica?
Immaginiamo che l'elettrone sia rappresentabile da una carica elettrica dispersa nello spazio:
allora, per ogni punto identificato dalle coordinate (x,y,z), il valore ψ2 è proporzionale alla
densità di carica in quel punto; oppure, preso un volume dt piccolo a piacere, ψ2dt
rappresenta una misura della probabilità di trovare l'elettrone in quel volume dt.
Per ottenere la probabilità di trovare l'elettrone in una certa regione dello spazio occorre
calcolare l'integrale ∫ ψ2dt esteso a tutta la regione che interessa.
Chiameremo così "orbitale" una regione dello spazio delimitata da una superficie a uguale
ψ2 e, al cui interno, la probabilità di trovare l'elettrone sia, per esempio, 90% (se volessimo
100% dovremmo considerare "tutto" lo spazio).
Questa "definizione" sarà da noi usata per rappresentare graficamente gli orbitali; ψ
rappresenta perciò, per noi, soprattutto una funzione di probabilità.
L'orbitale 1s è così rappresentabile come una sfera che contiene il 90% di carica elettronica. Il
2s è simile all'1s ma di dimensioni maggiori. Al crescere di n, numero quantico principale,
crescono le dimensioni.
All'aumentare di n aumenta E degli orbitali, finché per n=∞, E=0; l'elettrone non è più
legato al nucleo e la sua energia non è più quantizzata ma continua.
l, numero quantico secondario, indica la forma degli orbitali, mentre m, numero quantico
magnetico, caratterizza le orientazioni.
Fig.8.3 Tre orbitali di tipo d, simili tra loro, rispetto alle coordinate cartesiane.
Ognuno di questi orbitali d ha due piani nodali: per il dyz, per esempio, sono i due piani xy e xz.
Fig.8.4 Gli altri due orbitali di tipo d rispetto alle coordinate cartesiane.
Il primo a sinistra ha 2 piani nodali, perpendicolari a quello del disegno e che comprendono le bisettrici
degli assi x y; il secondo una superficie nodale conica con il vertice all'incrocio degli assi cartesiani, dato
che la parte di orbitale che giace sul piano xy ha struttura toroidale, con asse di simmetria z.
Negli orbitali f, che non vengono rappresentati perché piuttosto complessi (hanno
generalmente 8 lobi), esistono tre piani nodali o superfici nodali complicate, rappresentate da
funzioni matematiche di terzo grado; ciò è legato al valore del numero quantico l= 3, come
per l=2 c'erano 2 piani nodali e superfici coniche (perciò di secondo grado).
Che significato hanno queste rappresentazioni grafiche degli orbitali? Esse indicano la
superficie che racchiude una regione di spazio entro cui abbiamo una certa probabilità (il
90% o altro valore inferiore a 100) di trovare l'elettrone; i disegni rappresentano ovviamente
sezioni di queste regioni di spazio.
Esistono anche altri tipi di rappresentazione. Vediamone alcune per uno stesso orbitale, per
esempio un 2pz:
Comunque noi li rappresentiamo, gli orbitali hanno il carattere di artifici matematici più che
di entità fisiche, ma ogni rappresentazione può avere un significato ed una utilità diversa.
Il termine "orbitale" è stato introdotto nel 1932 da Robert Mulliken (nato nel 1896; premio
Nobel nel 1966) come abbreviazione di "One-electron Orbital Wave Function".
Ma perché "one-electron", monoelettronica?
Perché ψ x,y,z dipende dalle coordinate di un solo elettrone: la descrizione infatti è rigorosa solo
per atomi con un solo elettrone (come H o He+); per gli altri atomi è una approssimazione (che
si può comunque considerare generalmente valida), poiché si trascura la repulsione tra gli
elettroni.
Occorre ricordare poi che la scelta della terna di assi è arbitraria, in assenza di campi; perciò la
simmetria di densità elettronica in un atomo isolato appare sempre sferica, qualunque siano gli
orbitali occupati degli atomi.
Arnold Sommerfeld (1868-1951) generalizzò tale modello introducendo orbite ellittiche oltre
a quelle circolari.
Questo modello poteva far pensare che fosse possibile determinare con esattezza, in ogni
momento, la posizione dell'elettrone.
Werner Heisenberg (1901-1976; premio Nobel nel 1932), collaboratore di Bohr, nel 1925
formulò il principio di indeterminazione (o di incertezza), che rivoluzionò questo modo di
pensare: il prodotto degli errori nella determinazione contemporanea della quantità di moto e
della posizione di un corpo in movimento è almeno eguale ad h/2π.
Ciò vale per molte coppie di grandezze fisiche, per esempio per la posizione e la velocità di una
particella lungo la direzione x: ∆x.∆px ≥ h/2π
Per atomi polielettronici è estremamente difficile risolvere con esattezza l'equazione d'onda;
una soluzione approssimata indica che gli orbitali sono "simili" a quelli monoelettronici di H.
Perciò continueremo a chiamarli 1s, 2s, 2p, 3d, etc.., benché questi siano stati calcolati in
particolare per H.
L'energia dipende dal numero quantico n, ma anche da l, poiché in funzione di l aumenta la
repulsione elettronica. La disposizione degli elettroni negli orbitali di un atomo neutro, al livello
minimo di E è la configurazione elettronica dello stato fondamentale. Per ottenere
questa configurazione si seguono tre criteri operativi o principi:
il Principio di minima energia: ogni elettrone occupa l'orbitale disponibile a energia più
bassa.
il Principio di Pauli (Wolfang Pauli, 1900-1958; premio Nobel nel 1945): in un atomo non
possono esistere 2 elettroni con i 4 numeri quantici eguali; perciò, nello stesso orbitale,
possono esserci 2 soli elettroni purché con ms, momento di spin, diverso; gli spin dei due
elettroni devono essere perciò antiparalleli, dato che, essendo nello stesso orbitale, gli elettroni
hanno gli altri 3 numeri quantici n, l, m, eguali.
la Regola di Hund o della massima molteplicità: se due o più elettroni occupano orbitali
degeneri (cioè a eguale energia), gli elettroni occupano il maggior numero possibile di questi
orbitali, e a spin paralleli .
Per H (che ha Z=1), n=1, l=0: la configurazione elettronica potrà venire indicata con 1s
oppure, sinteticamente, con 1s1.
Per He (Z=2), n=1, l=0, occorre applicare il principio di Pauli: poiché due numeri quantici sono
eguali, occorre che almeno uno degli altri due sia diverso perché il secondo elettrone possa
stare col primo; poiché è l=0, è anche m=0; resta solo ms: è necessario che se un elettrone
ha ms = +1/2, l'altro abbia ms = -1/2. Devono perciò essere antiparalleli: la configurazione
verrà indicata con 1s↓ o, sinteticamente, con 1s2.
N.B. E' chiaro, quando scrivo 1s2, che i due elettroni che si trovano nell'orbitale 1s devono
essere obbligatoriamente a spin antiparalleli per il principio di Pauli; perciò scrivo
semplicemente il loro numero; analogamente, quando scriverò 2p3 è implicito che i tre
elettroni occupino ognuno un orbitale p e che siano tutti e tre a spin parallelo, per il principio di
Hund. Questo è un esempio della complessa significatività delle simbologie che usa il chimico e
della necessità di possedere profondi requisiti di conoscenza per poter comprendere il
significato profondo dei simboli usati.
Nella figura successiva sono indicate alcune rappresentazioni equivalenti della configurazione
elettronica di alcuni atomi (da Z=3, Li, a Z=13, Al)
La situazione del Li (come poi quella del Na), è simile a quella di H, come già avevamo visto
nell'esperienza di Stern e di Gerlach; l'effetto del magnete avviene solo sull'elettrone
spaiato ns1 (infatti He, con 2 elettroni antiparalleli, è magneticamente inerte).
Anche gli spettri per altri atomi hanno analogie, ma, al crescere di Z, diventano sempre più
complessi.
Finora, nell'aufbau, abbiamo esaminato solo gli orbitali fino al 3p. Infatti, nella tabella dell'E
degli orbitali, la sequenza è: 1s, 2s, 3p, 3s, 3p.
Solo dopo aver completato i 3d e i 4s si inizieranno a riempire i 4p, ad energia maggiore (Ga,
Ge, As). Analogamente succede quando c'è da riempire, per esempio, i 4d e i 5s, o i 4f e,
addirittura, i 6s, etc.
Quando Z è molto alto, la differenza di energia fra i vari tipi di orbitali diventa ancora minore, e
potremo avere delle sequenze di configurazione piuttosto strane.
Gli atomi che li seguono (litio Li con 2s1, sodio Na con 3s1, potassio K con 4s1, rubidio Rb con
5s1, cesio Cs con 6s1, francio Fr con 7s1) hanno ognuno 1 elettrone nell'orbitale s del guscio
superiore, ed hanno anch'essi caratteristiche molto simili tra loro: analogo comportamento
chimico, analogo comportamento nell'esperienza di Stern e Gerlach, hanno energia di
ionizzazione molto bassa e affinità elettroniche paragonabili tra loro... Sono stati chiamati
"metalli alcalini".
Analogamente a questi, si possono riconoscere altre "classi" o famiglie di atomi, che sono dette
"gruppi", come:
i "metalli alcalino-terrosi" (berillio Be, magnesio Mg, calcio Ca, bario Ba, stronzio Sr, radio
Ra) con configurazione degli elettroni esterni ns2
o gli "alogeni" (fluoro F, cloro Cl, bromo Br, iodio I, astato At), con configurazione degli
elettroni esterni ns2 np5
Le caratteristiche chimiche indicano che gli atomi tendono, formando legami con altri, ad
assumere la configurazione elettronica del gas nobile che li precede o che li segue (poiché,
come sappiamo, è una configurazione molto stabile): il comportamento chimico dipende perciò
dal numero di elettroni esterni.
Così ogni atomo avrà la tendenza a legarsi con altri atomi secondo rapporti precisi
(stechiometrici), che sono definiti come valenza dell'atomo.
Per esempio, con H: LiH (litio idruro), BeH2 (berillio idruro), BH3 (boro idruro), CH4 (metano),
NH3 (ammoniaca), H2O (acqua), HF (acido fluoridrico).
Analoghe sequenze si possono riscontrare al crescere di Z e in composti con altri atomi oltre
che con H.
Poiché H può perdere o acquistare un solo elettrone il numero di H legati ad ogni atomo è una
"valenza" di quell'atomo. Notare che in ogni composto i due atomi componenti assumono
formalmente la configurazione di un gas nobile (regola dell'ottetto): He oppure protone
"nudo" per H, He o Ne per gli altri.
Mendeleev aveva infatti previsto l'esistenza del Ga (da lui chiamato ekaalluminio), dello Sc
(ekaboro), del Ge (ekasilicio), in cui aveva utilizzato la radice sanscrita "eka" (che significa
"uno"), dato che questi elementi venivano subito sotto, nella sua tavola periodica, di Al, B, Si.
I nomi attuali sono stati dati in onore degli stati da cui provenivano gli scopritori, Francia
(Gallio), Svezia (Scandio), Germania (Germanio).
Nella sua ipotesi mancava il gruppo dei gas nobili (o gruppo zero), che, date le difficoltà di
individuazione legate alla loro mancanza di reattività chimica, furono scoperti solo molto più
tardi, ad opera di altri scienziati (H.P.J.Thomsen, W.Ramsay, A.Errera); questa scoperta
risolse un grosso problema di collocazione degli atomi nella tabella.
La tavola originale è riportata in fig.9.6 e risale al 1871, ma la prima stesura autografa, anche
se meno completa, è del 17 febbraio 1869.
L'organizzazione della tavola è basata su una sequenza di pesi atomici, non di numeri atomici
(le conoscenze del tempo non permettevano di ipotizzarli), come quella che usiamo
attualmente.
Quello riportato è uno schema ridotto; ma si possono notare gli atomi di cui egli aveva previsto
non solo l'esistenza (indicata con il segno -) ma anche proprietà e peso atomico; le proprietà
sono individuate dai gruppi (GRUPPA); inoltre aveva suddiviso, anche se non in modo
corretto, gli atomi in periodi (PERHOD).
Ci sono alcune incongruenze, per esempio per quanto riguarda la composizione dei periodi, la
mancanza delle serie di transizione, del gruppo dei gas nobili etc. Ma sostanzialmente questo
documento costituisce la base di costruzione delle attuali tabelle periodiche degli elementi, che
superano ormai Z=106.
Potremmo ragionevolmente dire che l'intuizione di Mendeleev rappresenti, nella sua
complessità di significati e nella sua razionalità, l'essenza stessa della chimica moderna.
10 - Il sistema periodico
Nel corso degli anni la "tavola" di Mendeleev è stata modificata e completata; si è giunti ad una
sua interpretazione più completa e corretta: le proprietà degli elementi sono funzioni
periodiche dei numeri atomici (anziché dei pesi atomici).
Si è data una struttura più razionale, basata sull'aufbau, che dà un'idea più immediata delle
caratteristiche periodiche. Questa forma si chiama "allungata" (rispetto a quella primitiva,
dato che sono state introdotte le serie di riempimento degli orbitali d, cioè le serie di
transizione e quelle di riempimento degli orbitali f.
Per ragioni grafiche rappresenteremo la tavola in forma "corta", con il riempimento degli
orbitali s e p (fig.10.1); in basso avremo poi le serie di transizione col riempimento degli
orbitali d (fig.10.2) ancora più in basso le serie dei lantanidi e degli attinidi, corrispondenti al
riempimento degli orbitali f (fig.10.3).
Entro i riquadri compaiono il simbolo dell'atomo e il suo Z, numero atomico. Nella prima riga
della fig.10.1 sono indicati i numeri corrispondenti ai gruppi secondo la nomenclatura
tradizionale, che, tra l'altro, indicano anche il numero di elettroni esterni, cioè quelli degli
orbitali s e p. Gli atomi della terza colonna (senza numero) sono i primi delle serie di
transizione (Sc, Y) che sono rappresentate in fig.10.2 e delle serie dei lantanidi (La) e degli
attinidi (Ac) che sono rappresentate in fig.10.3.
I II * III IV V VI VII O
H He
* * * * * * *
1 2
Li Be B C N O F Ne
*
3 4 5 6 7 8 9 10
Na Mg Al Si P S Cl Ar
*
11 12 13 14 15 16 17 18
K Ca Sc Ga Ge As Se Br Kr
19 20 21 31 32 33 34 35 36
Rb Sr Y In Sn Sb Te I Xe
37 38 39 49 50 51 52 53 54
Cs Ba La Tl Pb Bi Po At Rn
55 56 57 81 82 83 84 85 86
Fr Ra Ac - - -
* * *
87 88 89 104 105 106
Sc 21 Ti 22 V 23 Cr 24 Mn 25 Fe 26 Co 27 Ni 28 Cu 29 Zn 30
Y 39 Zr 40 Nb 41 Mo 42 Tc 43 Ru 44 Rh 45 Pd 46 Ag 47 Cd 48
La 57 Ce 58 Hf 72 Ta 73 W 74 Re 75 Os 76 Ir 77 Pt 78 Au 79 Hg 80
Fig.10.2 Serie di transizione per il riempimento degli orbitali 3d, 4d, 5d.
Ogni serie comprende 10 elementi, poiché gli orbitali nd disponibili sono sempre 5; nella
seconda colonna, in basso, compare Ce 58, che corrisponde all'inizio della serie dei lantanidi,
con riempimento degli orbitali 4f, mostrata, assieme alla serie degli attinidi, nella figura
successiva.
Ce Pr Nd Pm Sm Eu Gd Tb Dy Ho Er Tm Yb Lu
58 59 60 61 62 63 64 65 66 67 68 69 70 71
Th Pa U Np Pu Am Cm Bk Cf Es Fm Md No Lw
90 91 92 93 94 95 96 97 98 99 100 101 102 103
Fig.10.3 Serie dei lantanidi e degli attinidi, con riempimento degli orbitali 4f e 5f
Ogni serie comprende 14 atomi poiché gli orbitali nf disponibili sono sempre 7.
Secondo la notazione tradizionale i gruppi hanno un nome, che non è sempre eguale, dato che
varie scuole nazionali spesso invertono i numeri o scambiano le lettere; fino a non molti anni fa
si usava codificare i gruppi nel modo seguente, fonte però di equivoci (blocco s indica il
riempimento degli orbitali s, p dei p, ecc.):
Blocco s: elementi dei gruppi I A e II A
Blocco p: elementi dei gruppi III A, IV A, V A, VIA, VII A e O
Blocco d: elementi di transizione; i gruppi, in sequenza, erano: III B, IV B, V B, VI B, VII
B, poi una triade che costituiva il gruppo VIII, poi ancora I B, II B. Le triadi VIII erano, per il
3d Fe, Co, Ni; per il 4d Ru, Rh, Pd; per il 5d Os, Ir, Pt.
Blocco f: elementi lantanoidi (4f) e attinoidi (5f)
Proprio per evitare equivoci, lo IUPAC, organismo della American Chemical Society che si
preoccupa di normalizzare, tra l'altro, la nomenclatura chimica inorganica, così da permettere
una migliore comunicazione, ha deciso, nel 1983, di identificare i gruppi con numero
progressivo da 1 a 18: così IA e IIA diventano 1 e 2; III B, IV B, V B, VI B, VII B, VIII, I B e II
B vanno da 3 a 12; III A, IV A, V A, VI A, VII A e 0 da 13 a 18. La corrispondenza della
nomenclatura dei gruppi sarebbe così la seguente:
1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 13 14 15 16 17 18
Fig.10.4 Corrispondenza della vecchia nomenclatura dei gruppi con la nuova nomenclatura IUPAC (in basso).
In Fig.10.1, dopo gli attinidi, sono indicati i numeri atomici degli ultimi elementi artificiali
ottenuti, 104, 105, 106: sono senza nome. Infatti per alcuni la loro scoperta è rivendicata sia
dai russi, che chiamarono Kurciatovio il 104, sia dagli americani che chiamarono Rutherfordio il
104 e Hahnio il 105. Ancora la IUPAC, per evitare equivoci (e inutili discussioni), ha proposto,
per gli elementi con Z>103, una nomenclatura razionale in cui il simbolo ed il nome
identifichino il numero Z; unendo frammenti che rappresentano ognuno una cifra, più il suffisso
"ium", si costruiscono i nomi, mentre il simbolo è costituito dalle iniziali dei frammenti che
sono: per 0, nil (dal latino nihil);1, un; 4, quad; 5, pent; 6, hex; 7 sept; 8, oct; 9, enn.
Così i nomi razionali sarebbero (prevedendo anche ulteriori elementi artificiali)
Z simbolo nome
104 Unq Un nil quad ium
105 Unp Un nil pent ium
106 Unh Un nil hex ium
107 Uns Un nil sept ium
108 Uno Un nil oct ium
109 Une Un nil enn ium
110 Uun Un un nil ium
Per evidenziare la periodicità delle caratteristiche degli atomi, e la correttezza, in questo senso,
della tavola periodica, può essere utile, sfruttando lo stesso schema, vedere come varino
alcune grandezze chimiche o chimico fisiche al variare di Z e come esse presentino una
spiccata periodicità di comportamento.
Poiché questa periodicità è più evidente nella tavola "corta", (all'interno delle serie di
riempimento degli orbitali d o f, trattandosi di orbitali di gusci più interni, le grandezze variano
molto poco o per nulla), presenteremo i dati relativi solo agli elementi degli ex gruppi A e dello
0 (secondo la nomenclatura IUPAC, i gruppi corrispondenti ai numeri indicati nella prima riga).
Per esempio:
1 2 13 14 15 16 17 18
H - - - - - - He
25 -
Li Be B C N O F Ne
145 105 85 70 65 60 50 -
Na Mg Al Si P S Cl Ar
180 150 125 110 100 100 100 -
K Ca Ga Ge As Se Br Kr
220 180 130 125 115 115 115 -
Rb Sr In Sn Sb Te I Xe
235 200 155 145 145 140 140 -
Cs Ba Tl Pb Bi Po At Rn
260 215 190 180 160 190 - -
Fr Ra - - - - - -
- 215
In figura 10.6 sono riportati i raggi atomici, espressi in pm = 10-12 m. I raggi sono stati
ricavati da Slater in base alle distanze interatomiche in molecole in cui sono coinvolti i vari
atomi, dato che è praticamente impossibile determinare i raggi atomici di atomi isolati: ciò è
sottolineato anche dal fatto che non esistono dati sui gas nobili, data la loro mancanza di
reattività; in effetti si potrebbe estrapolarne i valori in base alla sequenza dei dati degli atomi
che li precedono, ma non si tratterebbe, se così si facesse, di dati sperimentali, bensì di
illazioni.
In ogni colonna i raggi aumentano al crescere di Z perché con Z aumenta il numero
quantico n e perciò le dimensioni degli orbitali. Lungo una riga invece diminuiscono, poiché
aumenta la carica nucleare che attrae gli elettroni; quando però si passa ad una riga
successiva, il raggio aumenta e la variazione segue poi lo stesso andamento: è evidente che
questa sequenza è periodica.
1 2 13 14 15 16 17 18
H - - - - - - He
2,21 -
Li Be B C N O F Ne
0,97 1,47 2,01 2,50 3,07 3,50 4,10 -
Na Mg Al Si P S Cl Ar
1,01 1,23 1,47 1,74 2,06 2,44 2,83 -
K Ca Ga Ge As Se Br Kr
0,91 1,04 1,82 2,02 2,20 2,48 2,74 -
Rb Sr In Sn Sb Te I Xe
0,89 0,99 1,49 1,72 1,82 2,01 2,21 -
Cs Ba Tl Pb Bi Po At Rn
0,86 0,97 1,44 1,55 1,67 1,76 1,90 -
Fr Ra - - - - - -
0,86 0,97
Fig.10.7 Valori di elettronegatività secondo le misure di Allred-Rochow.
In figura 10.7 sono riportati, con la stessa modalità, i valori di elettronegatività secondo
Allred-Rochow; anche in questo caso mancano dati per i gas nobili, dato che
l'elettronegatività riguarda la forza di attrazione di un atomo verso elettroni di valenza, cioè
impegnati in un legame in cui è coinvolto l'atomo, e i gas nobili, normalmente, non formano
legami con altri atomi.
Si può notare che l'elettronegatività aumenta da sinistra verso destra; quando si passa al
periodo successivo il valore di elettronegatività crolla e poi ricresce, periodicamente.
Nell'ambito dei gruppi essa diminuisce al crescere di Z, poiché il nucleo esercita una forza di
attrazione sugli elettroni esterni sempre minore, dato che la distanza nucleo-elettrone esterno
aumenta ed inoltre aumenta anche la schermatura S. L'atomo più elettronegativo è F, i meno
elettronegativi Fr e Cs. Quanto più è alta la differenza di elettronegatività fra due atomi, tanto
maggiori sono le caratteristiche di ionicità del legame tra i due.
L'elettronegatività, forza F esercitata dal nucleo sugli elettroni di valenza, è definita dalla
relazione:
F = Z*/r2 = Z S/r2
in cui:
Z* = carica nucleare efficace = Z S
Z = carica nucleare totale (cioè il numero atomico, corripondente al numero di protoni del
nucleo)
S = costante di schermo elettronico (dovuto agli elettroni sottostanti a quelli di valenza)
r = raggio covalente espresso in Å (10-8 cm = 10-10 m)
Come per queste grandezze relative agli atomi, sarebbe possibile individuare la periodicità di
molte altre; ciò dimostra la validità della tavola periodica a questi effetti.
L'esame delle caratteristiche periodiche è stata estremamente utile nella scoperta e
individuazione di nuovi atomi ancora sconosciuti. Attualmente, in base a questo modello,
possiamo essere sicuri che non esiste alcun atomo sconosciuto, se non con Z superiore a
tutti quelli noti, naturali ed artificiali. Se così non fosse, e se ne scoprisse uno nuovo,
imprevisto, il modello cadrebbe o dovrebbe essere modificato.
Resta ancora in uso una tradizionale classificazione degli elementi in metalli e non-metalli. In
breve, sono chiamati:
metalli gli elementi con un numero di elettroni esterni basso, minore o, talvolta, eguale a
quello degli orbitali esterni s e p, e con energia di ionizzazione bassa. Perciò gli elementi di
transizione, i lantanoidi e gli attinoidi, avendo 1 o 2 elettroni s, sono considerati metalli. Il
carattere metallico aumenta scendendo lungo ogni gruppo (infatti diminuisce l'energia di
ionizzazione);
non-metalli: gli elementi con numero di elettroni esterni maggiore del numero di orbitali
esterni s e p e con energia di ionizzazione alta.
semimetalli: elementi che possono comportarsi da metalli o da non-metalli in situazioni
particolari; sono quelli di confine tra i due tipi.
1 2 13 14 15 16 17 18
H - - - - - - He
Li Be B C N O F Ne
Na Mg Al Si P S Cl Ar
K Ca Ga Ge As Se Br Kr
Rb Sr In Sn Sb Te I X
Cs Ba Tl Pb Bi Po* At* Rn*
Fr* Ra* - - - - - -
Fig.10.8 Tabella dei metalli, semimetalli e non-metalli.
Gli elementi con asterisco sono artificiali e radioattivi.
C e Si (IV gruppo) non sono metalli, ma poiché il carattere metallico aumenta scendendo lungo
un gruppo, lo sono Sn, Pb; nel gruppo di N, solo Bi è abbastanza metallico. Nella tabella, a
sinistra i metalli, scritti in blu, a destra i non-metalli, scritti in bordeaux. Gli elementi al
confine sono semi-metalli, avendo caratteristiche chimiche metalliche o non-metalliche in
funzione dell'ambiente chimico in cui si trovano e sono indicati nelle caselle in azzurro.
Oltre a quelli presenti in fig.10.8 (Po*, At*, Rn*, Fr*, Ra*) nella tabella completa compaiono
altri atomi col simbolo asteriscato che, per convenzione, indica che essi sono radioattivi, come i
due artificiali Tc* (Tecnezio, seconda serie di transizione, Z=43) e Pm* (Promezio, serie dei
lantanoidi, Z=61).
Abbiamo visto alcuni esempi di periodicità di grandezze chimico-fisiche, che possono venire
convenientemente schematizzati in una unica tavola periodica degli elementi. Così potremmo,
analogamente, rappresentare variazioni di affinità elettronica, di raggio ionico, di volume
atomico, di stati di ossidazione (perciò di "valenza"), di proprietà elettriche, di proprietà
strutturali, etc., in funzione del numero atomico degli elementi: potremmo constatare una
periodicità per ognuna di queste grandezze.
Il modello che abbiamo utilizzato (e costruito) è un modello per noi valido. Ora, notando
l'asterisco *, faremo una digressione che riguarda i nuclei degli elementi, considerando la
radioattività.
11 - La radioattività
Normalmente il chimico si interessa degli elettroni, che caratterizzano la reattività di un
elemento e non del nucleo atomico; ma molto spesso anche il chimico deve utilizzare,
preparare e manipolare materiali radioattivi; è perciò necessario trattare, almeno fino a un
certo livello, la radioattività. Per far questo occorre prendere in considerazione il nucleo
dell'atomo.
Abbiamo visto che nella tavola periodica compaiono anche elementi "artificiali"; altri
elementi sono "instabili".
Lo studio delle caratteristiche di questi elementi particolari è conseguente alla scoperta dei
raggi X (Roentgen, 1895).
In questo settore, negli ultimi 100 anni, chimici e fisici hanno saputo:
- ottenere elementi non isolati in natura (ma di cui si potevano prevedere esistenza e
caratteristiche in base alla periodicità);
- individuare, nel comportamento di alcuni elementi instabili, una caratteristica, la
radioattività, che dipende specificamente da alcune proprietà dei nuclei atomici.
Un modello del nucleo è stato proposto (anche se molto semplificato) nel 1911 da Ernest
Rutheford, analogo al modello attuale: il nucleo è di volume molto piccolo (rispetto a quello
dell'atomo), concentra in sé quasi tutta la massa dell'atomo, è dotato di carica positiva.
Vediamo le prime tappe della scoperta e dello studio dei nuclei atomici:
Henry Becquerel (1852-1908; premio Nobel nel 1903), fisico francese, scoprì che una lastra
fotografica anneriva a contatto con sali di uranio U; questo avvenne durante le sue ricerche
sulla fluorescenza (24-2-1896).
Marya Sklodowska (1867-1934; premio Nobel nel 1903 e nel 1911), chimica polacca, (che
sposò poi Pierre Curie, un fisico francese che collaborò poi con lei) durante ricerche sulla
piezoelettricità dell'uranio, ne individuò la capacità di emettere radiazioni; scoprì la
radioattività (termine da lei inventato) del torio Th; lavorando su tonnellate di pechblenda,
un minerale di uranio, riuscì a isolare e caratterizzare il polonio Po (Z=84) e il radio Ra
(Z=88) ambedue molto più radioattivi dell'uranio; fu la prima a rendersi conto che la
radioattività comporta anche la trasformazione di un elemento in un altro.
André Louis Debierne, chimico francese scoprì nel 1899, nella pechblenda, l'attinio Ac
(Z=89).
Friedrich Ernst Dorn, fisico tedesco, nel 1900 scoprì, nei prodotti di decadimento del radio
Ra, un gas radioattivo, il radon Rn (Z=86); altri ricercatori, fra cui il tedesco Otto Hahn, nel
1917, il protoattinio Pa (Z=91).
James Chadwick (1891-1974; premio Nobel nel 1935) scoprì nel 1932 che si potevano
ottenere ioni H+ (protoni) p per bombardamento a di certi materiali: riscontrò che la carica
positiva del protone ha lo stesso valore di quella negativa dell'elettrone. Scoprì anche che, per
bombardamento a di elementi leggeri (B, Be) si ottenevano particelle senza carica e di massa
circa eguale a 1 u.m.a., che furono chiamate neutroni n. Dedusse perciò che protoni e
neutroni fossero costituenti del nucleo.
Sappiamo che ogni atomo è caratterizzato dal numero atomico Z, che rappresenta il numero
di protoni nel nucleo (uguale al numero degli elettroni dell'atomo neutro) e dal numero di
massa A che rappresenta il numero di nucleoni (protoni e neutroni) del nucleo. E' sempre A ≥
Z
Molti elementi hanno massa atomica (da non confondere col numero di massa!) non sempre
vicina all'unità (per esempio Cl 35.45; H 1.008; Ni 58.71...). Ciò è dovuto alla possibilità di
esistenza di nuclei con eguale Z (perciò chimicamente eguali) e diverso A (perciò con diverso
numero di neutroni nel nucleo).
Questi nuclidi di uno stesso elemento si chiamano isotopi.
I nuclidi sono i tipi di nuclei che prendiamo in considerazione: potremo distinguerli secondo
diverse tipologie:
isotopi (dal greco iso-topos = eguale posto, nella tavola periodica, dato che si tratta di atomi
con lo stesso nome), con eguale Z ed A diverso (per esempio 11H, 21H; oppure 126C, 136C) ,
che per noi chimici sono i più importanti
isobari: (dal greco iso-baros = con lo stesso peso), con Z diverso, (perciò chimicamente
diversi) ed A uguale (4018Ar, 4019K, 4020Ca)
isotoni: (con lo stesso numero di neutroni), cioè con A-Z uguale (per esempio 21H, 32He)
Nella figura sono riportati, in funzione di Z e di A, tutti i nuclidi stabili, cioè tutti quelli
riscontrati in natura; mancano perciò quelli artificiali e quelli radioattivi; in particolare si può
notare la mancanza di Z=43 (tecnezio Tc) e di Z=61 (promezio Pm), artificiali, benché a Z
relativamente basso (ma dispari per ambedue). Il grafico si ferma a Z=83 (bismuto Bi), poiché
tutti i nuclidi con Z>83 sono instabili e radioattivi, e molti di essi artificiali.
Fig.11.3 Tabella dei nuclidi naturali stabili
(non radioattivi).
Z = numero atomico = numero di
protoni nel nucleo;
A = numero di massa = numero di
protoni + numero di neutroni nel nucleo;
A-Z = Z rappresenta il luogo dei punti
corrispondenti ad A = 2 Z, cioè a nuclidi in
cui il numero dei neutroni è eguale a
quello dei protoni.
La zona racchiusa tra le curve che
comprendono tutti i nuclidi stabili
rappresenta la cosiddetta fascia di
stabilità: fuori di essa nessun nuclide può
essere stabile e dovrebbe decadere
(modificarsi) in qualche modo, così da
rientrare, in uno o più stadi, nella fascia di
stabilità (è una condizione necessaria ma
non sufficiente: qualche nuclide
all'interno della fascia potrebbe comunque
non essere stabile).
Tutti i nuclidi che si trovano su una
verticale sono isotopi (Z costante), cioè
hanno lo stesso nome, lo stesso
comportamento chimico, ma diversa
massa.
Tutti i nuclidi che si trovano sulla stessa
orizzontale sono isobari (A costante),
cioè diverso nome, diverso
comportamento chimico ma massa
eguale.
E' interessante notare che solo gli
elementi con Z pari hanno una notevole
abbondanza di isotopi, mentre quelli con Z
dispari ne hanno pochissimi, spesso uno
soltanto o nessuno (cioè non esistono in
natura, come il 43, tecnezio e il 61,
Promezio). Inoltre, quando ci sono vari
isotopi, quelli ad A più alto e più basso
sono sempre pari, e quelli con Z dispari
hanno quasi sempre A dispari.
Le ricerche per conoscere a fondo il nucleo sono in veloce evoluzione. Sappiamo che occorre
energia per scindere il nucleo in nucleoni: questi infatti, nel nucleo, hanno massa minore di
quando sono liberi e in quiete, in base alla relazione E = mc2 (c, velocità della luce nel vuoto
= 3 x 108 m s-1): il difetto di massa corrisponde alla energia con cui i nucleoni sono legati: la
massa dei nucleoni liberi e in quiete (senza energia cinetica) è:
per il neutrone n: 1.008665 u.m.a.
per il protone p: 1.007825 u.m.a.
Il difetto di massa può venire espresso, utilizzando la relazione precedente, anche in differenza
di energia ∆E.
In tal caso il valore è di circa ∆E = 8-9 MeV/nucleone e, ricordando che 1 eV = 1.6 x 10-19
J, possiamo capire quanto alta sia questa energia se consideriamo, come riferimento, una
reazione chimica ad alta energia, come quella tra idrogeno e fluoro
H + F → HF + 465 KJ/mole
Si tratta di un'energia circa due milioni di volte superiore; non solo: è bene ricordare che in un
atomo ci sono più nucleoni!
Per quanto riguarda le forze che tengono assieme i nucleoni, si sa che sono efficaci a breve
distanza (fra 2.5 e 0.5 Fermi, in cui l'unità Fermi, usata dai fisici nucleari, corrisponde a 10-13
cm); sotto 0.5 Fermi predominano le forze di repulsione; per la stabilità si ipotizzano scambi di
particelle "mesoni" di cui si è accertata l'esistenza.
Le ricerche nel campo della fisica nucleare sono in velocissima evoluzione e vengono scoperte
particelle nuove molto frequentemente; ma, almeno per ora, non c'è un modello soddisfacente
per il nucleo come quello per l'atomo visto dal punto di vista chimico.
Sono state individuate particelle come mesoni, leptoni, muoni, bosoni, neutrini, barioni, tauoni,
pioni, adroni, quark; questi ultimi sembrano essere i "mattoni", che inizialmente si ipotizzava
fossero 3 (il termine quark è tratto da un brano di James Joyce in cui un personaggio chiedeva
"tre quark di birra") e che attualmente pare siano 6; ma sono veramente loro i "mattoni" della
materia?
Come esempio vengono riportati il numero di nuclidi naturali e di quelli artificiali o radioattivi
rispetto ai numeri magici:
Z 2 8 20 28 50 82 126
configurazione
elettronica di 2He 8O 20Ca 28Ni 50Sn 82Pb 126Ubh
Ma possiamo anche portare esempi di nuclidi con numero di neutroni (A-Z) uguale ai numeri
magici:
A-Z 2 8 20 28 50 82 126
4 15 36 48 86 136 207
2He 7N 16S 20Ca 36Kr 54Xe 81Tl
16 37 50 87 138 208
8O 17Cl 22Ti 37Rb 56Ba 82Pb
38 51 88 139 209
18Ar 23V 38Sr 56La 83Bi
39 52 89 140 210
19K 24Cr 39Y 58Ce 84Po
40 54 90 141
20Ca 26Fe 40Zr 59Pr
92 142
42Mo 60Nd
144
62Sm
4
emissione α : vengono emessi nuclei 2He , perciò si ha una diminuzione di 2 unità per Z e di
4 per A.
210 206 4 232 228 4
84Po → 82Pb + 2He 90Th → 88Ra+ 2He
238 234 4 235 231 4
92U → 90Th + 2He 92U → 90Th + 2He
237 233 4
93Np → 91Pa + 2He
E' molto importante poiché, essendo l'unica emissione che fa variare A, permette di
raggruppare i nuclidi radioattivi in "famiglie" nelle quali A diminuisce di 4 unità ad ogni
emissione; ogni emissione comporta anche un mutamento di identità chimica del nuclide,
poiché Z diminuisce di 2 unità.
emissione β-: vengono emessi elettroni (dal nucleo, non si tratta degli elettroni negli
1 1 0
orbitali!); ciò corrisponde alla reazione: 0n → 1p + -1e
Anche in questa emissione si ha sempre mutamento di identità chimica del nuclide; il simbolo
β+ corrisponde a quello precedente, ma con carica positiva.
emissione γ: vengono emesse non particelle ma radiazioni altamente energetiche (più dei
raggi X; queste radiazioni hanno perciò lunghezza d'onda minore e frequenza maggiore dei
raggi X e sono anche più penetranti e pericolose); è caratteristica di nuclei in uno stato
eccitato; in genere accompagna ognuno dei tipi di decadimento visti.
raggi γ:: 0.25 Å > λ > 0.001 Å raggi X: 100 Å > λ > 0.01 Å
234 234
90Th* → 90Th +γ
cattura elettronica: non è una emissione, ma ne ha gli stessi effetti: un elettrone viene
catturato dal nucleo e si lega con un protone; perciò Z diminuisce di una unità, A resta
costante; corrisponde alla reazione
1 0 1 195 0 195
1p + -1e → 0n 79Au + -1e → 78Pt
Gli isotopi radioattivi naturali possono essere raggruppati in 3 famiglie, con un capostipite da
cui prendono il nome; poiché le emissioni che portano a variazione di A (oltre che di Z) sono le
α, ogni isotopo avrà A con differenza di 4 rispetto al predecessore: avremo così le seguenti
famiglie, identificabili, oltre che col nome del capostipite, con una espressione algebrica che
esprime il numero di massa di ogni membro della famiglia con n variabile (per semplicità
saranno indicati solo i numeri di massa; Z è comunque identificato dal simbolo dell'elemento):
E' interessante notare che tutte queste tre famiglie terminano con un isotopo del Pb, elemento
che è evidentemente molto stabile; ricordando le tabelle dell'abbondanza di nuclidi (figg. 11.3,
11.5, 11.6), Pb ha Z=82, pari.
Manca però una serie, quella (4n+1). Evidentemente non esiste più un capostipite di questa
famiglia, perciò essa deve essersi esaurita.
Per capire perché, occorre introdurre un nuovo concetto che riguarda il tempo di vita del
sistema; per conoscerlo si considera una grandezza, il tempo di dimezzamento t1/2.
t1/2 rappresenta, in questo caso, il tempo che una certa quantità di un nuclide impiega per
ridurre a metà il numero di nuclei radioattivi; questa grandezza può essere enorme, ma anche
piccolissima. Per i capostipiti delle famiglie già viste i tempi sono:
234 232 235
nuclide Th Th U
9 10
4.5 x 10 1.4 x 10 7.1 x 108
t1/2
anni anni anni
Un nuclide intermedio con t1/2 basso, dovrebbe sparire; invece continua ad esistere finché il
progenitore, con alto t1/2, lo genera.
La famiglia mancante (non possono esisterne altre) è stata ricostruita artificialmente; il suo
capostipite 237Np infatti si è ormai esaurito in natura poiché ha un t1/2 più basso, 2.2 x 106
anni.
Abbiamo visto che nella tabella periodica compaiono molti elementi artificiali, in particolare gli
ultimi, con Z molto alto; questi sono stati preparati in piccole quantità mediante
bombardamenti nucleari: si utilizzano neutroni che bombardano nuclei pesanti come 238U: i
neutroni, soprattutto se decelerati, entrano facilmente nel nucleo, poiché, non avendo carica,
non subiscono repulsione da parte del nucleo; il nuovo nuclide però può avere troppi neutroni
nel nucleo (può uscire cioè dalla fascia di stabilità): in questo caso può subire, per esempio,
decadimento b-, che fa abbassare il rapporto n/p, facendo aumentare Z di una unità.
A 1 A+1 A+1 0
ZM + 0n → ZM* → Z+1M + -1 β-
Attraverso reazioni successive si può arrivare fino a Z = 100, con rese soddisfacenti.
Per elementi con Z > 100, si bombardano elementi transuranici, anziché con neutroni lenti,
con piccoli nuclei accelerati in acceleratori di particelle.
Alcuni esempi:
253 4 256 1
99Es + 2He → 101Md + 0n
246 13 255 1
96Cm + 6C → 102No +4 0n
243 18 256 1
95Am + 8O → 103Lw +5 0n
249 13 259 1
99Cf + 6C → 104Ku +3 0n
243 22 261 1
95Am + 10Na → 105Ha +4 0n
249 18 263 1
98Cf + 8O → 106Unh +4 0n
La difficoltà maggiore sta nel t1/2 di questi nuovi elementi, che è molto basso: con ogni
probabilità siamo ai limiti delle possibilità di preparazione; basti pensare che mentre per
257
100Fm il t1/2 = 85 giorni, per elementi con Z superiori, il t1/2 va diminuendo da 90 minuti
(per Md, Z=101) fino a 0.9 secondi (per Unh, Z=106).
Abbiamo parlato spesso di tempo di dimezzamento t1/2; ma secondo quale legge avviene il
decadimento radioattivo?
Si dice che la velocità è "cineticamente del I° ordine" poiché dipende solo dal numero N di
nuclei instabili presenti
-dN /dt=λN
Nella legge del decadimento, dN è la quantità di nuclei decomposta nel tempo dt;
dN /dt rappresenta la velocità di decadimento (che è negativa poiché il numero di nuclei
radioattivi diminuisce nel tempo). Questa velocità è proporzionale, secondo la costante λ, al
numero N di nuclei instabili.
Integriamo l'equazione differenziale che rappresenta la velocità:
-dN /N =λ dt
l'integrale è ln N0 /N =λ t
in cui N0 è il numero di nuclei instabili al tempo t=0.
Si preferisce parlare di tempo di dimezzamento t1/2 anzichè di λ.
Se poniamo perciò N = N0/2 (numero di nuclei corrispondente alla metà di quelli iniziali),
allora, per la definizione di tempo di dimezzamento, il tempo corrispondente è t1/2.
Sviluppando e passando ai logaritmi decimali si ottiene che
t1/2 = (2.303/l) lg 2= 0.693/λ.
Da questa semplice relazione è possibile perciò conoscere t1/2 se si conosce la costante
specifica di velocità λ o viceversa.
Quando l'organismo muore e non assimila più carbonio, inizia a cambiare il rapporto 14C / 12C,
poiché, mentre rimane costante la quantità di 12C, l'isotopo radioattivo mano a mano
scompare. Il t1/2 = 5670 anni.
Basta così determinare il rapporto 146C /126C per sapere da quanto tempo è morto
l'organismo.
E' stato un grande progresso, ma occorre ricordare che, quando il numero di anni è molto alto
la misura è difficoltosa e sempre meno precisa (si parte da un rapporto iniziale 14C/12C ≈10-
12
!); non si può, attualmente, avere dati attendibili superiori a 6-7 t1/2 (35000 anni). Inoltre il
metodo si basa sull'ipotesi che il rapporto 14C / 12C sia sempre stato lo stesso.
Abbiamo già osservato che l'energia insita nei legami nucleari è enorme: è chiaro che è molto
vantaggioso poter sfruttare reazioni nucleari per ottenere energia.
Abbiamo 2 tipi di processi nucleari possibili: la fissione e la fusione
Fissione: corrisponde alla scissione di nuclei pesanti in nuclei più leggeri. Per esempio:
235 1 93 140 1
92U + 0n → 36Kr + 56Ba+ 3 0n
235 1 90 144 1
92U + 0n → 38Sr + 54 Xe+ 2 0n
L'uranio 235, bombardato con neutroni, si scinde in due parti, con emissione di neutroni in
quantità maggiore di quelli assorbiti.
Ma nell'U naturale ci sono pochi 235U (≈ 7/1000); è conveniente perciò bombardare materiali
"fertili" (capaci di produrre altri nuclidi) per ottenere materiali "fissili" (adatti alla fissione).
238 1 239 232 1 233
92U + 0n → 94Pu 9Th + 0n → 92U
E' ciò che avviene nei cosiddetti "reattori veloci" o "breeder", in cui vengono utilizzati
neutroni prodotti in eccesso da altri reattori.
Nelle precedenti reazioni di fissione si formano più neutroni di quelli consumati: se quelli
prodotti in eccesso rispetto a 1 non vengono dispersi o bloccati (o se non si controlla la
quantità di materiale fissile, mantenendola sotto il limite chiamato "massa critica") si ha una
reazione nucleare a catena di tipo esplosivo, dato che ogni fissione produce una grande
quantità di energia.
Questo avviene quando il numero di neutroni prodotti supera, anche se di poco, quello dei
neutroni usati; se invece il sistema è controllato mediante variazione del numero di barre di
materiale fissile inserite nel reattore, si può controllare l'energia prodotta: si tratta allora di
una reazione nucleare controllata, come avviene in reattori nucleari o nelle pile
atomiche (il primo reattore nucleare è del 1942, costruito come una "pila" di mattoni di U e
grafite da Enrico Fermi nella palestra dell'Università di Chicago), in cui l'energia sviluppata
dalla reazione nucleare viene recuperata come calore e trasformata in forme di energia più
facilmente utilizzabili e trasferibili, come quella elettrica (centrali elettriche termonucleari).
Purtroppo le reazioni nucleari sono state sfruttate anche per scopi non pacifici: la cosiddetta
"bomba atomica" era costituita da due masse, inferiori a quella critica, che venivano messe a
contatto mediante una carica esplosiva, così che la massa totale superasse quella critica.
Nella gestione dei reattori nucleari esiste il grosso problema delle scorie radioattive, per
quanto riguarda sia lo smaltimento, sia l'arricchimento, che comporta il loro trasporto nei pochi
stabilimenti capaci di farlo. Infatti le barre che vengono usate nei reattori tradizionali (non i
breeder, che sono pochissimi), dopo un certo tempo si impoveriscono di materiale fissile, tanto
da non poter venire più usate; tuttavia ne contengono ancora molto, oltre ad altri prodotti di
decadimento e sono pericolosamente radioattive.
Fusione: corrisponde alla unione di atomi leggeri per formarne di più pesanti. La
produzione di energia è il risultato della diminuzione di massa totale del sistema nucleare,
secondo la nota relazione tra massa ed energia E=mc2.
Sarebbe una fonte di energia praticamente inesauribile. Anche in questo caso la fusione
incontrollata può essere esplosiva: la prima volta che fu utilizzata fu nel 1952 (bomba H)
nell'atollo di Bikini, in cui venne usata una bomba atomica per innescare la reazione di fusione.
Perché la fusione avvenga occorre portare la temperatura di un gas di particelle cariche ad alta
densità (plasma) fino a milioni di gradi; così infatti aumenta la probabilità che avvengano le
reazioni. Alcune di queste possibili reazioni sono:
2 2 3 1
1H + 1H → 2He + 0n + 3.2 MeV
2 2
1H + 1H → 32He + 1
1p + 4.0 MeV
2 3 4 1
1H + 1H → 2He + 0n +17.6 MeV
2 3 4 1
1H + 2He → 2He + 1p +18.3 MeV
6 3 4 4 1
3Li + 2He → 2He + 2He + 1p +16.9 MeV
6 3 4
3Li + 11p → 2He + 2He + 4.0 MeV
6 2 7 1
3Li + 1H → 3Li + 1p + 5.0 MeV
6 2 4 4
3Li + 1H → 2He + 2He +22.0 MeV
Il problema è quello di
raggiungere e mantenere
contemporaneamente alti
valori per: temperatura T,
densità del plasma d,
tempo t.
In varie occasioni si sono
superati i limiti per uno o due
dei parametri, ma non molte
sono le esperienze in cui tutti i
tre i parametri sono stati
superiori al minimo.
Praticamente occorre che tutti
i tre parametri corrispondano
a punti al di sopra della
superficie indicata, che si può
considerare una superficie
limite.
Nella bomba H la reazione veniva innescata da una bomba atomica, che forniva sia la T di
ignizione che la densità del plasma, a causa della compressione istantanea dovuta
all'esplosione.
Occorre tenere presente che, date le temperature elevatissime, nessun materiale può essere
usato per costruire recipienti per il plasma; ma trattandosi di un gas di particelle cariche
(elettroni, ioni), il plasma viene costretto entro elevatissimi campi magnetici o elettrici;
aumentando l'intensità del campo è possibile aumentare la densità del plasma fino al livello
voluto.
Esistono molti tipi di apparecchiature sperimentali, in U.S.A., URSS, G.B., Italia e molti principi
operativi, con campi magnetici per il contenimento, con raggi laser per l'ignizione, a deuterio
solido, recentemente anche con impulsi di raggi X, etc. In Italia si sono ottenuti ottimi risultati
con il Tokamak, usato anche in Russia. Il ritardo nel raggiungimento delle condizioni operative
per una utilizzazione pratica (e pacifica) della fusione è dovuto appunto alle condizioni
estremamente critiche in cui si deve operare.
Resta il fatto che il combustibile sarebbe reperibile ovunque e perciò "a disposizione" di tutti: il
potere economico, in questo caso, starebbe nel "know how" tecnologico e non nel possesso di
pozzi petroliferi o di miniere di uranio.
Oltre all'enorme quantità di energia disponibile, la fusione presenta anche il vantaggio della
"pulizia" del reattore: non produce scorie radioattive (l'unico può essere il trizio 31H, che è però
anche un combustibile della fusione e sarebbe perciò possibile trovare le condizioni adatte
perché venga del tutto consumato) e non può provocare incidenti: infatti, mentre in un
reattore nucleare, se il controllo non è adeguato, si innesca una reazione a catena esplosiva
(vedi Chernobyl, Tree Miles Island), in un reattore a fusione, qualsiasi difetto provocherebbe la
caduta della temperatura o della densità del plasma, con disinnesco istantaneo della reazione.
Poichè in alcune reazioni di fusione si producono protoni e neutroni ad alta energia, il sistema
potrebbe venire accoppiato con un reattore nucleare o con un acceleratore in cui quelle
particelle possano venire utilizzate; oppure si potrebbe produrre energia elettrica assorbendo
l'energia dei neutroni su uno schermo di Li liquido e recuperando il calore con uno scambiatore
di calore.
Poi... è arrivata la notizia della "fusione fredda", che ha messo in crisi il modello costruito dai
fisici per la fusione "calda". Dopo le grandi polemiche iniziali (veniva messo in crisi anche il
sistema di finanziamenti, enormi, di cui godono i centri di ricerca sulla fusione), nel massimo
silenzio, molte nazioni stanno lavorando in questo campo. Potrebbe essere la soluzione del
problema energetico mondiale?
12 - Legami e reazioni
Finora gli atomi sono stati presi in considerazione come entità isolate; ma in natura gli atomi
sono solitamente legati ad altri, in unità più complesse che, se aggregate fra loro, costituiscono
quello che percepiamo macroscopicamente come "materia", le sostanze.
Queste sono chiamate sostanze elementari o elementi se costituite da atomi tutti uguali
chimicamente (compresi perciò anche gli isotopi) oppure composti se costituite da due o più
atomi diversi tra loro.
In moltissimi composti e in alcuni elementi gli atomi sono organizzati in gruppi discreti (cioè
distinguibili l'uno dall'altro), eguali fra loro, formati da due o più atomi: questi sono chiamati
molecole; talvolta, se gli atomi sono tenuti assieme da forze elettrostatiche, non è possibile
distinguere gruppi discreti dato che ogni ione è legato (con legame di tipo ionico) a molti altri
ioni contemporaneamente.
Le sostanze vengono identificate da simboli detti formule chimiche; questi simboli non sono
espressioni astratte ma, per convenzione, rappresentano e distinguono tra loro sostanze
specifiche.
La "formula" è uno dei risultati delle elaborazioni che, nella storia della chimica, hanno
portato al perfezionamento della microlingua chimica, un linguaggio estremamente
sofisticato, forse il più sofisticato, astratto e formalizzato tra i linguaggi scientifici, ed anche
uno dei più significanti poiché si riferisce ad oggetti concreti che, mediante la "formula"
vengono descritti in molte loro caratteristiche.
Per capire quale progresso abbia portato la "formula" chimica come noi ora la intendiamo, si
pensi che, fino alla metà del '700, si usavano simbologie estremamente oscure, che solo gli
"addetti ai lavori" potevano comprendere. Esistevano molte "tavole", che si potrebbero
considerare come pagine di dizionari, che specificavano il significato del simbolo usato. Alcune
di esse, tratte dalla raccolta di Planches della Encyclopédie di Diderot e d'Alembert, sono
rappresentate nella figura che segue.
Fig. 12.1 Tavole in uso comune fino ai tempi di Dalton. Le varie sostanze erano rappresentate non
mediante formule chimiche (anche perché, delle sostanze, non si conosceva realmente la composizione),
ma mediante simboli più o meno fantastici, spesso di origine alchemica.
La simbologia era però abbastanza codificata e utilizzata in modo diffuso da chi operava nel settore.
Per esempio, nella tavola I i primi due simboli in alto a sinistra rappresentano l'acciaio (acier), gli ultimi
due in basso a destra ciò che si ottiene per distillazione del vino (esprit de vin).
Le formule chimiche possono essere di vario tipo (un approfondimento sui vari tipi di formule si
può trovare nel capitolo sulle isomerie):
La formula minima indica solo il rapporto di combinazione tra gli atomi (per es.: CH2O).
La formula molecolare indica anche il numero dei singoli atomi che costituiscono la molecola
(per es.: C2H4O2).
La formula di struttura indica inoltre come gli atomi sono legati fra loro e dà perciò
indicazioni sul comportamento chimico della molecola (per es.: CH3COOH, acido acetico); solo
a questo punto possiamo sapere di che molecola si tratta e talvolta neppure questo è
sufficiente.
aA+bB → cC+dD
o con l'equazione:
aA+bB = cC+dD
A seconda del tipo di sostanze e degli atomi in gioco potranno esistere varie tipologie e varie
gradazioni di legame.
I legami più importanti per i chimici sono, al limite, il legame ionico e il legame covalente,
ma con la possibilità di tutte le situazioni intermedie tra i due tipi.
13 - Il legame ionico
E' un tipo di legame che può instaurarsi solo tra atomi diversi.
Sappiamo che molti atomi possono diventare ioni, per acquisto o perdita di elettroni: alcuni,
che hanno bassa energia di ionizzazione, possono dare facilmente cationi, altri, con alta affinità
elettronica, possono dare anioni; anioni (con una o più cariche negative) e cationi (con una o
più cariche positive) possono dare luogo a strutture complesse, costituite da più atomi; non
solo atomi singoli, ma anche raggruppamenti di atomi possono diventare anioni (per es. SO42-,
NO3-, N3-, SiO44- ecc.) o cationi (per es. NH4+, Hg22+ ecc.).
Anioni e cationi si attraggono per interazione elettrostatica: questa interazione si chiama
legame ionico.
Le forze elettrostatiche seguono la legge di Coulomb, che esprime la forza di interazione tra
due corpi carichi:
Poiché queste forze, attorno ad uno ione, hanno simmetria sferica (l'azione della forza si
esercita in modo perfettamente uguale in tutte le direzioni) il legame ionico non è
direzionale.
Inoltre ogni catione tende ad attrarre il maggior numero di anioni e viceversa, in modo da
rendere massima la forza complessiva di interazione e minima l’energia.
Mano a mano che gli ioni di carica opposta si avvicinano (quando cioè rab diminuisce),
aumentano contemporaneamente le forze di attrazione fra gli ioni ma anche quelle di
repulsione fra gli elettroni esterni.
La distanza di legame è quella che si ha quando esiste un perfetto equilibrio tra le forze di
attrazione e quelle di repulsione. Questa distanza viene considerata uguale alla somma dei
raggi ionici dei due ioni che interagiscono. Le dimensioni dei raggi dipendono dal numero di
elettroni totali dello ione e dal rapporto tra numero di elettroni e numero atomico (cioè numero
di protoni nel nucleo).
Esaminiamo una tabella di ioni isoelettronici (che hanno cioè lo stesso numero di elettroni)
con i relativi raggi ionici:
atomo configurazione ioni 2- ioni 1- ioni 1+ ioni 2+ ioni 3+
base elettronica
He 1s2 H- Li+ Be2+ B3+
1,54 0,68 0,35 0,23
Ne He 2s22p6 O2- F- Na+ Mg2+ Al3+
1,32 1,33 0,97 0,66 0,51
Ar Ne 3s23p6 S2- Cl- K+ Ca2+ Sc3+
1,84 1,81 1,33 0,99 0,73
Kr Ar 4s24p6 Se2- Br- Rb+ Sr2+ Y3+
1,91 1,96 1,47 1,12 0,89
Xe Kr 5s25p6 Te2- I- Cs+ Ba2+ La3+
2,11 2,20 1,67 1,34 1,02
Fig.13.1 Raggi ionici per ioni isoelettronici. Escluso H, in forma di idruro, dato che non fa
parte degli alogeni, per gli altri si può notare che il raggio diminuisce fortemente
all'aumentare della carica (da sinistra a destra, il nucleo attrae sempre più gli elettroni
rimastigli attorno, mano a mano che essi diminuiscono di numero) e che i raggi aumentano
dall'alto verso il basso poiché aumenta il numero quantico n, corrispondente al guscio degli
elettroni esterni.
Il numero di elettroni persi o acquistati si chiama valenza ionica e non può mai essere
superiore a 3; non bisogna confonderlo perciò con lo stato di ossidazione, che è formale, non
reale (nel calcolo dello stato di ossidazione si "suppone" che tutti gli elettroni corrispondenti
passino all'atomo più elettronegativo, ma non si tratta di un processo reale, bensì di un artificio
utile nei calcoli).
Gli ioni non si possono avvicinare a meno della somma dei rispettivi raggi ionici; il limite al
numero di ioni di carica opposta che circondano uno ione è imposto dalla non compenetrabilità
degli ioni coinvolti e dal dover essere a contatto fra loro (cosa che provoca repulsione da parte
degli elettroni dei due atomi).
Date due specie A+ e B- potremo avere situazioni di impaccamento diverso in funzione delle
dimensioni relative di A+ e B- cioè dai rispettivi r+ e r-; l'impaccamento rappresenta la relativa
disposizione degli ioni nello spazio (come se si trattasse di sferette rigide; in effetti le sfere
sono deformate in funzione delle forze elettrostatiche di attrazione e repulsione) e viene
individuato dal "numero di coordinazione" spaziale di ognuno degli ioni.
Per semplicità, nella figura successiva vengono schematizzate tre diverse situazioni di
coordinazione sul piano, considerando gli ioni come sfere rigide indeformabili.
Fig.13.2 Tipi di coordinazione planare tra ioni con rapporti di raggi ionici diversi. Nel primo caso il
rapporto r+/r- è molto piccolo; nel secondo caso è intermedio, nel terzo è circa eguale ad 1. Nel
secondo caso si può immaginare la situazione tridimensionale in cui un anione appoggia sulle 4 sfere
negative sopra al piano del disegno, ed un'altra sta sotto: la simmetria è quella di un ottaedro. Come
il catione è circondato da anioni, anche ogni anione è circondato da cationi., così che la carica totale
sia nulla (la materia è elettricamente neutra).
Il numero di ioni che circondano il catione con carica n+ si chiama numero di coordinazione dello
ione An+.
Se consideriamo perciò gli ioni come sfere rigide (secondo il modello semplificato che usiamo),
possiamo individuare i numeri di coordinazione più probabili, in funzione del rapporto r+/r- tra
i raggi.
Nello schema seguente sono indicati i tipi più comuni di coordinazione, con la relativa
simmetria nello spazio (la trigonale è solo planare), in funzione del rapporto tra il raggio ionico
del catione (che è quasi sempre più piccolo) e quello dell'anione.
In effetti il modello delle sfere rigide non è proprio corretto: possono esserci adattamenti e
deformazioni della nuvola elettronica a causa delle attrazioni-repulsioni (polarizzazione) e
questo può portare a variazioni nei limiti indicati in fig.13.3.
I numeri di coordinazione indicati nella tabella non sono gli unici possibili; in sistemi complessi
come nei silicati (rocce) è possibile avere comunemente anche coordinazione 12 e oltre; in
questi casi i cationi sono facilmente sostituibili da altri analoghi (poiché i legami ionici parziali
coinvolti sono molto deboli).
E’ importante non confondere il numero di coordinazione con il rapporto stechiometrico fra gli
ioni in un sistema. Nella formula chimica di composti ionici è necessario che l’unità indicata
sia elettricamente neutra (la sommatoria delle cariche negative deve essere eguale a quella
delle cariche positive).
Si indicano, per convenzione, prima i cationi, poi gli anioni, dando ad ognuno di essi un
coefficiente al piede che indica in che rapporto stechiometrico si trovano i vari componenti
del sistema; per esempio:
NaCl, CaF2, AlCl3, Al2O3, K2S, ...
E’ ovvio che non sia possibile sapere, in NaCl, a quale dei 6 Cl coordinati a un Na si riferisca
l’espressione "NaCl"; ma sicuramente in un cristallo qualsiasi di NaCl, il rapporto fra il numero
di Na+ e quello di Cl- è eguale a 1; in uno di K2S, il numero di K+ è due volte quello di S--.
Per sapere perché le sostanze ioniche formino cristalli e non si limitino a costituire coppie
ioniche isolate, occorre fare alcune considerazioni energetiche sui legami ionici.
L’energia di interazione ionica fra due ioni a e b è:
in cui i simboli hanno lo stesso significato che nell'espressione della forza, ma k' è una
costante diversa da k.
E è negativa se Za e Zb hanno segno opposto; se le due cariche si avvicinano, rab diminuisce,
perciò aumenta il valore assoluto di E, ed essendo E negativa, il significato è che il sistema è
più stabile quando le due cariche sono vicine piuttosto che quando si trovano a distanza infinita
(situazione in cui convenzionalmente E = 0).
Viceversa, se le due cariche hanno segno eguale, E è positiva, perciò il valore minimo di
energia si avrà quando le cariche si trovano a distanza infinita (sempre E = 0).
Questo però rende conto del fatto che due ioni di segno opposto formino una coppia ionica,
ma non che si formino strutture cristalline, reticoli cristallini.
E' possibile capirlo se si prendono in considerazione tutte le possibili interazioni
elettrostatiche che esistono in un reticolo ionico.
Prendiamo, come esempio, una sezione parallela ad una faccia di un cristallo di cloruro sodico:
Fig.13.4 Reticolo bidimensionale di un cristallo ionico di NaCl.
E' possibile calcolare l’energia di interazione fra NA moli di ioni Na+ e NA moli di ioni Cl- in
un reticolo cristallino, purché si conosca la disposizione di ogni ione rispetto agli altri.
Se considerassimo un solo catione, l'energia di interazione con un anione sarebbe quella già
vista, cioè quella di una singola coppia. Le coppie però, in questo caso, sono NA.
Ma perché queste NA moli di coppie dovrebbero stare assieme e non ognuna per conto suo? Se
non ci fosse qualche altra forma di energia in gioco il sistema avrebbe la stessa energia di NA
coppie isolate; non può essere questa la ragione per cui esiste il reticolo.
Nel reticolo, in effetti, c'è attrazione fra ogni singolo catione e ognuno degli anioni che lo
circonda (4 nel reticolo planare, 6 nel tridimensionale), perciò l'energia di attrazione deve
essere moltiplicata per un fattore che dipende dalla geometria del reticolo e dalla distanza rab
tra due ioni adiacenti.
Ma contemporaneamente esiste anche repulsione fra quelli di segno uguale vicini. Occorre
perciò tener conto di tutte le interazioni. L’espressione dell'energia totale U sarà perciò uno
sviluppo in serie in cui il valore di ogni addendo dipende dalla carica degli ioni che
interagiscono e dalla posizione che questi ioni occupano nel reticolo.
Fig.13.5 Geometria delle attrazioni e delle repulsioni in un reticolo cubico (NaCl). Nello sviluppo in
serie si sommano tutte le interazioni possibili di ogni ione; uno ione interagisce negativamente
(attrazione) con gli ioni di segno contrario adiacenti, cioè a distanza r (sono 4 sul piano, nel caso a;
sarebbero 6 in tridimensionale); interagisce positivamente (repulsione) con ioni a distanza r √2 (4
sul piano, caso b; ma sarebbero 12 in tridimensionale); interagisce ancora negativamente con ioni a
distanza r√5 (8 solo sul piano, caso c) e così via.
Lo sviluppo in serie, costruito semplicemente sulla base della struttura geometrica del reticolo
(e indipendente perciò dagli ioni che effettivamente occupano le posizioni), è costituito da una
sequenza di addendi alternativamente negativo e positivo, ma di entità sempre più piccola;
esso converge verso un valore numerico che si chiama Costante di Madelung e che non
dipende dal valore di rab, ma dall'arrangiamento geometrico del reticolo.
La costante di Madelung dipende perciò solo dal tipo di reticolo e dalla mutua posizione
geometrica dei singoli ioni, non dalla loro natura.
Tipo di reticolo Numero di Numero di Costante di
coordinazione dei coordinazione degli Madelung
cationi anioni
NaCl 6 6 1,7475
CsCl 8 8 1,7627
ZnS (wurtzite) 4 4 1,6413
ZnS (blenda) 4 4 1,6381
CaF2 (fluorite) 8 4 2,5194
TiO2 (rutilo) 6 3 2,4080
Fig.13.6 Costanti di Madelung per vari tipi di reticolo cristallino. ZnS si può presentare con due
diversi tipi di reticolo cristallino, caratterizzati da un diverso tipo di impaccamento e perciò da due
diverse costanti di Madelung. Anche se gli ioni costituenti sono diversi da quelli indicati (e perciò
con diversi raggi ionici), a parità di tipo di reticolo la costante di Madelung è la stessa.
Uret corrisponde, per esempio nel caso di NaCl solido, alla energia della sua formazione a
partire dagli ioni gassosi:
5 -1
* ∆E1 (formazione da elementi) -4,08 x 10 J mol
5 -1
* ∆E2 (sublimazione Na solido) +1,06 x 10 J mol
5
* ∆E3 (rottura legame Cl2) +1,18 x 10 J mol-1
5 1
* ∆E4 (ionizzazione Na ) +4,94 x 10 J mol-
5 1
* ∆E5 (ionizzazione Cl, affinità elettronica) -3,57 x 10 J mol-
5 -1
Uret ( formazione reticolo cristallino ) -0,47 x 10 J mol
Si interessò in particolare
della sintesi diretta
dell'ammoniaca dagli elementi
e su questo argomento ebbe
vivaci discussioni con Nernst.
atomo E di I E di II E di III E di IV
ionizzazione ionizzazione ionizzazione ionizzazione
Li 519 7923
Na 494 4560
Be 900 1757 14836
Mg 736 1448 7740
B 800 2427 3657 25000
Al 577 1815 2753 11577
Fig.13.9 Energie di successive ionizzazioni per alcuni atomi, espresse in kJ mol-1. L'energia di II
ionizzazione deve essere sommata alla prima per arrivare alla carica 2+. Per i metalli alcalini Li
e Na, la prima ionizzazione comporta una energia enormemente inferiore alla seconda, perciò
tenderanno a fermarsi alla situazione 1+. Per gli alcalino-terrosi Mg e Ca, la seconda è di poco
superiore al doppio della prima, mentre la terza è molto più alta; tenderanno alla situazione 2+.
Per B e Al, prima, seconda e terza ionizzazione comportano energie crescenti ma non in modo
drammatico, mentre la quarta è enorme: tenderanno perciò a fermarsi allo stato 3+.
Nella figura seguente viene riportata in grafico la sequenza delle energie di I ionizzazione per
gli atomi fino al primo del 3° gruppo (Na).
Fig.13.10 Energie di prima ionizzazione per gli atomi da H a
Na.
I valori delle energie necessarie per la ionizzazione
aumentano mediamente da Li fino a Ne, per diminuire di
molto nel caso di Na, simile a Li; poi l'andamento è simile,
anche se con valori diversi.
E' evidente una periodicità nel comportamento dei vari
atomi.
L'energia è espressa in elettronvolt eV:
1 eV = 1,60219x10-19 J.
Per ottenere le energie di ionizzazione espresse in kJ per
mole:
eV x fattore di conversione x costante di Avogadro x
10-3
Fig.13.11 Tipi di ioni principali in funzione dei gruppi della tavola periodica
Nella formazione di ioni, non sempre viene raggiunta la configurazione di un gas nobile (per esempio i metalli di
transizione ne sono troppo lontani), ma si raggiunge, comunque, una situazione di massima stabilità.
Esistono inoltre anche ioni poliatomici positivi, per esempio NH4+, Hg22+, VO2+, NO+,
NO2+...
Ma se i due tipi di atomi che sono legati fra loro non hanno una differenza di elettronegatività
tanto elevata da favorire la formazione di legami ionici, in particolare, al limite, se i due atomi
sono eguali, non sarà possibile il legame di tipo ionico: si formerà un legame covalente.
14 - Il legame covalente
Consideriamo un sistema costituito da due atomi che hanno tra loro bassa differenza di
elettronegatività; se il sistema possiede energia minore quando i due atomi sono vicini di
quando si trovano a distanza infinita, significa che si è formato un legame covalente; esso è
costituito da una coppia di elettroni condivisi fra i due atomi.
Quando si forma un legame covalente, la densità di carica elettronica è più alta nella regione
fra i due nuclei.
Questo legame si può pensare che consista nella sovrapposizione di due degli orbitali atomici
dei due atomi, contenenti ognuno un elettrone, per dare un orbitale di legame o di valenza
nel quale si collocano i due elettroni condivisi; anche per questo orbitale vale il principio di
Pauli, perciò potrà contenere solo due elettroni a spin antiparallelo.
Vediamo come si può rappresentare una situazione di legame covalente (o di "non legame" nel
caso di Ne) in modo simbolico; consideriamo, per esempio, C, N, O, F e Ne. Possiamo indicare
le varie situazioni con vari tipi di notazioni, già viste:
Fig.14.2 Notazione di Lewis ed altre notazioni per alcuni atomi del 2° gruppo e relativi
composti con l'idrogeno.
Nella prima colonna la rappresentazione di Lewis degli atomi e dei loro elettroni disponibili per
legami; nella seconda e nella terza, due tipi di configurazione elettronica degli atomi,
nell'ultima, la rappresentazione delle molecole secondo la notazione di Lewis (1916).
Per C, che nello stato fondamentale avrebbe 2 elettroni nel 2s e due spaiati nei 2p, uno dei
due elettroni 2s viene "promosso" al 2p libero: ciò comporta una spesa di energia, ma è
possibile così ottenere 4 legami anziché 2, con un netto guadagno di energia. Questo avviene
sempre quando è possibile, purché il bilancio energetico totale comporti una riduzione della
energia totale del sistema. Un trattino che congiunge due atomi rappresenta un legame
covalente, cioè un doppietto di elettroni condiviso; uno accostato all'atomo rappresenta
un doppietto di elettroni non impegnato in legame (detto anche doppietto libero).
Ne non può fare legami poiché tutti gli orbitali sono occupati da un doppietto.
La zona fra i due nuclei, occupata dai due elettroni condivisi, si può pensare definita dalla
compenetrazione o sovrapposizione (overlapping) di due orbitali atomici con 1 elettrone
per dare un orbitale di legame. Il legame è tanto più stabile quanto maggiore è la
sovrapposizione.
Il numero di coppie di elettroni che un atomo ha in comune con altri atomi può essere definito
come valenza covalente o covalenza di quell'atomo; le covalenze possono essere relative
anche ad atomi dello stesso tipo.
Dagli esempi è possibile dedurre la covalenza dei vari atomi presenti (almeno per quella
situazione specifica).
Fig.14.3 Esempi di molecole
rappresentate con la notazione di
Lewis.
Ogni trattino rosso corrisponde a
una coppia di elettroni; se
congiunge due atomi corriponde
a un legame covalente; in caso
contrario, se compare cioè
"appoggiato" su un atomo, si
tratta di un doppietto libero.
Gli atomi presenti hanno sempre
la stessa covalenza: 1 per H ed
F; 2 per O; 3 per N; 4 per C.
Tutti i legami sono legami
semplici, cioè con una sola
coppia di elettroni in comune.
Alcune molecola hanno nomi
convenzionali, come idrazina e
propano.
Il perossido di idrogeno è più
comunemente noto come acqua
ossigenata e contiene un legame
perossidico, relativamente
instabile, quello tra i due O.
Esistono però anche molecole che, oltre ai legami semplici, contengono anche legami doppi e
tripli, che corrispondono alla messa in comune di 4 o 6 elettroni:
Come si può notare nelle formule precedenti, ogni atomo ha attorno 8 elettroni (salvo H che ne
ha sempre 2).
Ciò ha portato Lewis a proporre la teoria dell'ottetto, per la quale la struttura elettronica di
una molecola deve essere tale che ogni atomo sia circondato da un ottetto di elettroni.
Così ogni atomo assume la configurazione del gas nobile che lo segue. In effetti questa regola
non è vera in assoluto, anche se è stata molto utile per comprendere alcune formule
elettroniche altrimenti di difficile descrizione, come per esempio quella del monossido di
carbonio.
Fig.14.5 Situazione elettronica del monossido di carbonio CO in base alla teoria dell'ottetto.
In effetti, quando entrano in gioco elementi del 3° periodo, la regola può non essere valida,
come succede, per esempio per PF5, ClF3, SF6,...
In questi casi sono infatti disponibili gli orbitali d e in questi orbitali 3d alcuni elettroni possono
venire "promossi" (dato che l'energia dei 3d è un po' superiore di quella dei 3p), così da
permettere la formazione di un maggior numero di legami covalenti:
Tutto ciò non è però ancora sufficiente a spiegare tutti i tipi di legami covalenti.
Prendiamo per esempio il benzene C6H6. Per giustificare alcune sue caratteristiche chimiche
(rapporto atomico C/H = 1/1; stabilità nonostante la presenza di 3 doppi legami; polarità
quasi nulla...), sono state proposte formule di tipo molto diverso:
Attualmente si usano raffigurazioni diverse a seconda del settore chimico in cui si parla del
benzene e derivati, e dell'utilità della rappresentazione nel suo uso contingente (per esempio la
rappresentazione centrale in basso viene correntemente usata per spiegare reazioni di
sostituzione in molecole aromatiche):
In effetti i doppi legami non sono localizzati dove sono disegnati: nel benzene le distanze di
legame C-C =1.39 Å sono tutte eguali; se fossero localizzati, ricordando che la lunghezza di
un legame C-C singolo è 1.54 Å e quella di un C=C doppio è 1.34 Å, la molecola di benzene
dovrebbe presentare una asimmetria (praticamente un esagono distorto); inoltre i doppi
legami sarebbero molto più reattivi di quelli singoli, cosa che è sperimentalmente falsa.
La situazione è intermedia tra il legame singolo e il doppio: l'ordine di legame è 1.5
(numero di legami/numero di atomi) = (6 + 3)/6.
Si dice che gli elettroni dei doppi legami sono delocalizzati su tutto l'anello.
Questa situazione si può indicare graficamente, per convenzione, come illustrato nella figura
seguente:
Fig.14.11 Rappresentazione convenzionale
della molecola di benzene.
Essa indica che la situazione reale è intermedia
tra le rappresentazioni I e II, che si chiamano
formule limite o di risonanza.
Il simbolo con la doppia freccia non va confuso
con quello di equilibrio, costituito da due frecce
in direzioni opposte.
Questa regione è l'area di sovrapposizione. Può succedere anche che uno degli orbitali
atomici contenga 2 elettroni, l'altro nessuno (è il caso di un legame "coordinativo").
Il legame è tanto più stabile quanto maggiore è la sovrapposizione fra gli orbitali
atomici.
Il tipo o l'entità della sovrapposizione dipenderà, ovviamente, dalla forma degli orbitali atomici
che possono interagire; è perciò importante ricordare la forma degli orbitali di tipo s, dei p, dei
d, etc. e la loro simmetria.
Quando la sovrapposizione avviene lungo un asse, si ha simmetria cilindrica lungo l'asse, sia
della sovrapposizione sia del legame che ne consegue: è un orbitale σ.
Quando invece avviene lateralmente, si ha un orbitale π.
Fig.14.13 Sovrapposizione di orbitali atomici s e p, con formazione di orbitali di legame σ e π.
Con i σ si ha simmetria assiale; con i π si ha un piano nodale (in questo caso xz); sul piano nodale si
annullano sia le funzioni d'onda sia la funzione probabilità. In generale si ha sovrapposizione maggiore,
perciò maggiore stabilità per i σ; il primo legame che si forma è perciò il σ, poi gli atomi ruotano finché
possono creare il π; quando questo è formato, la rotazione è però bloccata.
Il massimo numero possibile di legami tra due atomi è 3, un σ, due π. L'orbitale di legame
s assume la forma di un ellissoide con l'asse di simmetria cilindrica coincidente con l'asse di
legame. L'orbitale p ha la forma di due "salsicciotti" con un piano nodale; se ce ne sono due, la
nuvola carica assume circa la forma di un cilindro cavo, coassiale col legame s.
La forma degli orbitali di legame non può essere dovuta alla semplice somma degli orbitali
atomici: questi infatti sono modificati dalla vicinanza dell'altro atomo, anche quelli che
non partecipano ai legami (questo avviene a causa anche della repulsione elettronica tra gli
orbitali atomici).
Prendiamo per esempio il caso del metano CH4: 3 degli H potrebbero legarsi ai 3p, a 90° l'uno
dall'altro; il quarto H dovrebbe, in questo caso, legarsi all'orbitale s: questo quarto legame
sarebbe però di diversa lunghezza e circa a 125° (w), così da essere simmetrico ed
equidistante dagli altri 3.
Fig.14.15 Direzione degli assi dei tre orbitali atomici p e del quarto asse che
corrisponderebbe all'asse del quarto legame se i primi tre fossero formati con gli orbitali
atomici p puri del carbonio per formare la molecola di metano.
A destra le misure degli angoli tra gli assi; in basso a destra viene evidenziato che un
eventuale legame nella direzione ow sarebbe diverso dagli altri tre.
Fig.14.16 Tipi principali di ibridazioni, orbitali atomici coinvolti nell'operazione, simmetria degli orbitali ibridi
ottenuti, esempi di molecole, ioni o complessi in cui è presente il tipo relativo di ibridazione e perciò anche la
simmetria spaziale.
E' interessante notare che gli orbitali ibridi assumono, nello spazio, una forma e un
orientamento condizionati dagli orbitali di partenza (escluso l'orbitale s che, avendo simmetria
sferica, non dà contributi spaziali): per esempio, sp2 (si legge: esse pi due), costruito con un
px e un py giacerà sul piano xy; sp3 (si legge: esse pi tre), costruito con px, py e pz avrà
contributi in tutto lo spazio; dsp2, costruito con px, py e dx2-y2 (tutti e tre sul piano xy)
giacerà sul piano xy; ecc.
Il processo di ibridazione comporta una certa spesa di energia, largamente compensata però
dalla stabilità dei legami che è possibile costruire con gli ibridi. Nella immagine successiva sono
rappresentati tre tipi di ibridazioni, con gli orbitali atomici di partenza e gli ibridi risultanti.
Anche le strutture di NH3 e H2O sono interpretabili con una ibridazione sp3 anche se distorta,
benché creino, poi, solo 3 o 2 legami: infatti anche i doppietti liberi assumono circa una
disposizione tetraedrica rispetto ai legami molecolari.
A volte questo non accade, in particolare quando alcuni orbitali atomici possono essere
utilizzati meglio come tali (quando, cioè, producono legami abbastanza stabili anche senza
l'ibridazione; infatti questa comporterebbe una spesa di energia che non verrebbe
compensata): è il caso dei tripli legami, come avviene, per esempio, nella molecola di azoto
N2.
L'azoto N ha la configurazione elettronica 2s2 2p3; potrebbe formare perciò 3 legami lungo le
direzioni degli assi x, y, z. Ma gli orbitali p danno una sovrapposizione piuttosto scarsa; è più
conveniente una ibridazione sp che permette un legame s molto più forte; i due doppietti
liberi dei due N si collocano nei due ibridi sp esterni, non utilizzati per il legame.
Restano ancora a disposizione due orbitali p perpendicolari alla direzione di legame; ruotando
attorno all'asse di legame, essi cercheranno di interagire in modo che le funzioni d'onda
possano dare un effetto non nullo: si affiancheranno cioè i due lobi positivi dei p paralleli e i
due lobi negativi, in modo da formare due orbitali π.
Cerca di disegnare la situazione degli orbitali di legame della molecola di azoto, sulla base di
quanto detto.
I legami π sono molto importanti per quanto riguarda la struttura spaziale delle molecole
poiché impediscono la rotazione attorno al legame σ, rotazione che, in loro assenza, è
praticamente libera.
Un classico esempio di impossibilità di rotazione è quello dell'etene (noto anche come etilene)
H2C=CH2.
Fig.14.19 Rappresentazione della molecola di etene (detto
anche etilene).
I 4 idrogeni giacciono tutti sullo stesso piano, perpendicolare
all'asse dei p liberi; i legami σ sono dovuti a ibridazione sp2
trigonale.
Le posizioni 1, 2, 3, 4 individuano le posizioni dei singoli H. H1 e
H3, se non viene rotto il legame π, restano sempre nella
posizione cosiddetta cis; H1 e H4 sempre in trans.
Se sostituisco chimicamente H1 con A e H4 con B, A e B
saranno sempre in posizione trans (sempre purché la reazione
di sostituzione non comporti la rottura del legame π).
Composti cis e trans hanno reattività e caratteristiche chimico-
fisiche diverse (temperature di fusione e di ebollizione,
momento dipolare, ecc.).
I legami π sono comunque meno forti dei σ e molto più reattivi; sarà perciò relativamente
facile romperli.
Poichè però i π esistono solo se già esiste un σ, la loro presenza darà luogo a legami totali più
forti, e perciò a distanze di legame più corte:
Fig.14.20 Distanze di legame in funzione del tipo di legame e degli orbitali di legame coinvolti,
nel caso di legami carbonio-carbonio.
Abbiamo fatto, finora, una netta distinzione fra legame ionico e legame covalente; in effetti la
distinzione non è così netta: se i due atomi sono eguali, il baricentro della densità elettronica
cade a metà della distanza fra i due nuclei: abbiamo allora un legame covalente puro e
omeopolare.
Se però gli atomi sono diversi non sarà così: la maggiore densità elettronica sarà spostata
verso uno dei due: se lo è totalmente, avremo legame ionico, mentre le situazioni intermedie
individuano un legame covalente polare.
In questi casi il baricentro delle cariche positive e negative non coincide: esiste perciò
un momento dipolare µ:
Per prevedere il grado di ionicità di un legame diventa così importante determinare una scala
di elettronegatività.
Scale di elettronegatività EN sono state proposte da diversi ricercatori, basandosi su metodi
diversi:
I A (1) II A (2) III B (13) IV B (14) V B (15) VI B (16) VII B (17)
H
2.20----------
Li Be B C N O F
0.97-0.94-0.98 1.47-1.46-1.57 2.01-2.01-2.04 2.50-2.63-2.55 3.07-2.33-3.04 3.50-3.17-3.44 4.10-3.91-3.98
Na Mg Al Si P S Cl
1.01-0.93-0.93 1.23-1.32-1.31 1.47-1.81-1.61 1.74-2.44-1.90 2.06-1.81-2.19 2.44-2.41-2.58 2.83-3.00-3.16
K Ca Ga Ge As Se Br
0.91-0.80-0.82 1.04-------1.00 1.82-1.95-1.81 2.02-------2.01 2.20-1.75-2.18 2.48-2.23-2.55 2.74-2.76-2.96
Rb Sr In Sn Sb Te I
0.89-------0.82 0.99-------0.95 1.49-1.80-1.78 1.72-------1.80 1.82-1.65-2.05 2.01-2.10-2.1 2.21-2.56-2.66
Cs Ba Tl Pb Bi Po At
0.86-------0.79 0.97-------0.89 1.44-------1.62 1.55-------1.87 1.67-------2.02 1.76-------2.0 1.96-------2.2
Fig.14.22 Scale di elettronegatività EN. La prima secondo Allred-Rochow (in base alla forza esercitata dal nucleo su
elettroni di valenza); la seconda secondo R.S.Mulliken (EN proporzionale al prodotto tra potenziale di ionizzazione e
affinità elettronica diviso due) e vale per atomi isolati; la terza secondo L.Pauling (in base alla termochimica delle E di
ionizzazione dei legami). I dati mancanti non sono stati calcolati dagli autori. La suddivisione per colonne è in base ai
gruppi della tavola periodica, con simboli tradizionali e con quelli proposti dalla IUPAC (fra parentesi).
Non sempre a legame polare corrisponde molecola con momento dipolare: esso infatti
dipende dalla simmetria della molecola:
1) Legare tutti gli atomi (O) all'atomo centrale (S) con un legame semplice.
Avremo così due strutture eguali: un S centrale legato ai tre O con legame singolo.
2) Sommare gli elettroni esterni dei vari atomi, più le eventuali cariche negative, sottrarre
eventuali cariche positive.
Nel caso di SO3 saranno 24; nel caso di SO32- saranno 26.
3) Disporre tutti i possibili elettroni sugli atomi periferici, in modo da soddisfare alla regola
dell'ottetto; i rimanenti sull'atomo centrale.
Nel caso di SO3 ogni O avrà tre doppietti, oltre a quello di legame, mentre S avrà solo i tre
doppietti di legame (perciò con soli 6 elettroni attorno); la struttura è trigonale planare. Nel
caso di SO32- avremo, in più, un doppietto libero su S: ciò comporterà una repulsione rispetto
ai doppietti di legame S-O, con la trasformazione della struttura da trigonale a tetraedrica
distorta; ma in questo caso anche S avrà il suo ottetto completo.
4) Ridistribuire gli elettroni in modo da scrivere formule o formule limite accettabili.
Una notizia molto recente (Chem. Eng. News, 25/1/1999) riporta i risultati di una ricerca di
R.Rawls che è riuscito ad ottenere l'esafluoroarsenato di pentaazoto [N5]+ AsF6- in cui i 5
atomi di azoto assumono una configurazione spaziale a V (in cui il vertice è costituito da un N e
i due segmenti da due N ognuno); la struttura è molto risonante (è per la stabilizzazione
dovuta alla risonanza che si è potuto ottenere uno ione che dal punto di vista teorico dovrebbe
essere quasi impossibile) e il sale ottenuto è in effetti molto instabile. Esso viene ottenuto a -
78°C e, con estrema difficoltà lo si può portare fino a 22°C, ma esplode violentemente al
minimo contatto con acqua o sostanze organiche o per aumento di temperatura. Una delle
formule limite mostra un triplo legame tra il primo e il secondo azoto, un doppio legame tra il
terzo (al vertice della V) e il quarto, un altro doppio legame tra il quarto e il quinto. Prova a
disegnarla, ricordando di rispettare il numero di 8 elettroni attorno ad ogni atomo N; e poi
prova a scrivere altre formule limite per lo ione [N5]+. Dalle formule limite dovresti capire
perche' la forma spaziale è a V e su quale (o quali) dei 5 N risiede la maggior parte della carica
positiva del catione.
15 - Gli orbitali molecolari
Finora abbiamo considerato il legame come formato dalla sovrapposizione di orbitali
atomici OA, con i loro elettroni: ogni coppia condivisa costituisce un legame.
Potremmo usare anche un altro modello, per esempio pensare ad orbitali molecolari OM e
ad essi assegnare gli elettroni di valenza.
Una prima approssimazione di calcolo è quella che si chiama L.C.A.O. (Linear Combination
of Atomic Orbitals): le varie Ψ sono perciò considerate come combinazioni lineari delle ψ
degli OA.
Se abbiamo due funzioni d'onda ψA e ψB per i due atomi A e B, potremo allora avere:
Nel caso della molecola di idrogeno H2, avendo due elettroni, per la regola di Pauli questi
andranno nel Ψb, legante σ, a E più bassa di -∆E rispetto alla situazione di non legame: si
forma perciò un legame.
Se ci fossero altri 2 elettroni, dovrebbero andare nel Ψa, antilegante, σ*; questi annullerebbero
l'effetto precedente di stabilizzazione del Ψb: in questo caso il legame non si formerebbe poiché
non ci sarebbe nessun guadagno energetico rispetto alla situazione iniziale degli OA, ψA e ψB.
Per He2 infatti non esiste legame, dato che dobbiamo collocare 4 elettroni.
Esiste invece He2+, σ2 σ*1 (2 elettroni nel legante e 1 nell'antilegante): perciò l'ordine di
legame è 0,5
Fig.15.2 Corrispondenza degli orbitali molecolari ed atomici con le caratteristiche di simmetria degli OM.
Per gli OA la simmetria è rispetto al nucleo, per gli OM rispetto all'asse di legame.
Gli OM antileganti σ*, π*, δ* hanno in più un piano nodale perpendicolare all'asse di
legame: mentre i Ψb hanno alta densità elettronica fra i due nuclei (non necessariamente
"lungo" l'asse di legame), i Ψa hanno, nella stessa zona, densità trascurabile.
Infatti la densità elettronica o la probabilità di trovare un elettrone in uno spazio, si ottiene
dal quadrato della funzione d'onda dell'OM:
S = ∫ 2ψAψB dt
Perché possa esserci un buon legame covalente sono necessarie varie condizioni, che
matematicamente sono rappresentate, per esempio, dall'integrale di sovrapposizione; occorre
che non sia possibile il legame ionico (i due atomi devono avere elettronegatività abbastanza
simile); occorre che le energie degli elettroni in A e in B siano abbastanza vicine; la
sovrapposizione degli OA deve essere sufficiente; la repulsione fra elettroni deve essere
minima; gli OA devono avere la stessa simmetria rispetto all'asse A-B...
Per molecole biatomiche omonucleari del 2° periodo abbiamo a disposizione anche gli OA
p; avremo perciò più OM.
Se ci fossero anche le condizioni per l'ibridazione, per esempio sp2, gli OA di partenza
sarebbero alla stessa E e si avrebbe un solo σ (e un solo σ*).
Poiché la sovrapposizione per i p perpendicolari all'asse è minore che per quelli coassiali
(perciò i legami conseguenti provocano una minore stabilizzazione), la ∆E relativa a π-π* è
minore che per σ2-σ2*.
Per molecole biatomiche eteronucleari, poiché le energie degli OA dei due nuclei sono
diverse, il diagramma risulta asimmetrico.
Fig.15.6 Schema energetico di formazione
degli OM per la molecola di monossido di
azoto, NO.
Nella formazione della molecola NO partendo
da un atomo O e un atomo N, gli OA di O
sono a E più bassa, poiché O ha carica
nucleare maggiore di N.
L'ordine di legame risultante è di 2.5 (3
coppie di elettroni, indicati dalle coppie di
elettroni con spin antiparalleli, negli OM di
legame, 0.5 in quelli di antilegame π*,
corrispondente all'elettrone sul primo orbitale
di antilegame π*.
Questo avviene poiché il sistema ha 11
elettroni (6 per O, 5 per N).
L'ordine di legame sarebbe invece 2 per NO-
(12 elettroni); un secondo elettrone a spin
spaiato occuperebbe infatti il secondo orbitale
di antilegame π*.
L'ordine di legame sarebbe 3 per NO+ (10
elettroni); in questo ione, infatti, nessun
elettrone si troverebbe negli orbitali di
antilegame π*.
Per molecole poliatomiche il problema diventa ancora più complesso, poiché diventa
essenziale, vista la geometria delle molecole, tener conto non di OA puri, ma di quelli ibridi
(come avviene, per esempio, in H2O, NH3...): le sovrapposizioni sono più difficilmente valutabili
e si hanno differenze di E consistente fra i vari OM.
Per costruire gli OM è necessario, in questi casi, partire dagli ibridi; se restano doppietti liberi
(elettroni non impegnati in legami), è chiaro che bisogna considerare anche questi, che
potranno essere, in generale, a energia vicina a quella degli OA prima della formazione degli
OM.
Abbiamo visto che esiste una vasta gamma di legami covalenti polari compresi fra i due
estremi, il legame ionico e il legame covalente puro o omeopolare.
Possiamo così analizzare i vari legami secondo uno dei due modelli indifferentemente, anche se
è utile usare il modello che più si avvicina alle caratteristiche del legame in questione; anche
se si partisse, però, dal modello sbagliato, si potrebbe giungere alle stesse conclusioni,
effettuando successive correzioni e approssimazioni: il lavoro sarebbe soltanto più lungo.
16 - Sui legami
Dopo avere accennato alla natura dei legami ionico e covalente, è necessario parlare anche di
altri aspetti dei legami.
Per esempio, quale è l'energia di un legame generico?
In prima approssimazione l'energia di legame viene valutata misurando l'energia di
dissociazione, cioè l'energia che occorre fornire per rompere la molecola all'altezza del
legame considerato.
Supponiamo di avere due atomi A e B e che questi formino un legame dando luogo alla
molecola AB.
Possiamo portare in diagramma l'energia del sistema AB in funzione della distanza r tra i due
atomi:
H, entalpia, è una forma di energia rappresentabile come una funzione di stato, che dipende,
cioè, solo dagli stati iniziale e finale.
Per molecole poliatomiche ABn è definita come il ∆H di dissociazione totale negli atomi
costituenti, diviso per n: ∆HABn/n
Per esempio per CH4: ∆H = 1.66 x 106 J mol-1; perciò l'energia di un singolo legame C-H è
4.45 x 105 J mol-1.
Una tabella delle caratteristiche di legame tra diversi atomi è molto utile per approfondire il
concetto di legame.
Come abbiamo visto nel caso di NO, ci possono essere anche legami di ordine non intero
(per esempio 1.5 per NO-, mentre è 2 per NO+, come è evidenziabile con le formule limite.
Viene definito come raggio covalente la metà della distanza di legame fra due atomi eguali.
La differenza fra il valore che si otterrebbe sommando i due raggi covalenti di due atomi
diversi, rispetto alla distanza reale, si può imputare alla percentuale di ionicità del legame.
Questo è evidente dalla figura 16.2: il raggio covalente espresso in pm per H è 37 (la metà di
74), per F è 46, per I è 133,5, per N 73,5, per C 77.
Se si esaminano i legami tra atomi diversi (gli ultimi della tabella), si può notare che la
distanza di legame è diversa dalla somma dei raggi covalenti; la differenza dà un'idea della
ionicità del legame.
Esistono anche altri tipi di legame non facilmente inquadrabili nei modelli di legame covalente
o ionico o, comunque tanto caratteristici da poter essere trattati come un modello a parte.
Legame coordinativo: è un legame covalente in cui i due elettroni di legame sono forniti
dall'atomo donatore: la nuvola elettronica è perciò polarizzata verso l'atomo donatore.
Legame metallico: il modello che rende conto delle caratteristiche di conducibilità elettrica
è quello di un sistema reticolare di cationi immerso in un mare di elettroni mobili, liberi di
muoversi; è assimilabile perciò ad una situazione estrema di risonanza.
A livello un po' più approfondito, si può pensare a un sistema di orbitali di legame e di
antilegame delocalizzati sull'intero cristallo del metallo. Queste due serie di orbitali
costituiscono delle bande; quella superiore, di antilegame, è ad energia di poco più alta, perciò
è possibile che vengano facilmente utilizzati orbitali di antilegame per la conduzione, cioè per
lo spostamento di elettroni in quanto la spesa di energia è molto bassa.
Esamineremo alcuni casi che ci permetteranno di trattare le prime tre di queste caratteristiche.
Le formule di struttura delle molecole indicate con * sono rappresentate nella figura seguente.
COMPOSIZIONE: è data dai tipi di atomi che costituiscono le molecole (si può ottenere
mediante analisi elementare qualitativa della sostanza) e dal loro rapporto numerico
(mediante analisi elementare quantitativa).
Attraverso queste analisi si ottiene la formula minima, che può essere comune a più
composti. Per esempio, sono isomeri di composizione, tra quelli indicati nella figura 17.1,
(a, b, c) oppure (d, e, f, g, h, i, l, m).
E' evidente che occorre perciò conoscere almeno il peso molecolare, per sapere qualcosa di
più sulla molecola.
COSTITUZIONE: indica come sono legati gli atomi; e, f, g, per esempio, hanno stessa
formula molecolare (stesso peso molecolare, oltre che stessa formula minima), ma hanno gli
atomi legati in modo diverso; perciò hanno diverse proprietà chimiche e fisiche; sono detti
isomeri di costituzione.
Fig.17.4 Esempi di isomeria di alcune molecole di zuccheri esosi (cioè con 6 atomi di C).
Questi sono solo alcuni dei 16 possibili isomeri.
Solo i primi 3 sono isomeri di configurazione; in effetti il D(-) fruttosio non è un isomero di
configurazione bensì di costituzione, dato che i primi due C hanno sostituenti diversi, non
solo diversamente orientati.
L'isomeria di configurazione vista per gli zuccheri è dovuta al fatto che i 4 C centrali sono
asimmetrici poiché i 4 sostituenti di ogni carbonio sono diversi.
Van't Hoff, olandese, fu uno dei chimici più geniali e si può considerare un po' il padre della
stereochimica
L'ipotesi della struttura tetraedrica del carbonio fu posta contemporaneamente anche da J.Le
Bell (1847-1930), ma fu merito di van't Hoff di diffonderla nella comunità dei chimici europei.
Egli infatti costruì dei modellini in cartone per dimostrare le sue asserzioni e li inviò a una
ventina dei più famosi chimici (allegando anche una piccola guida per costruirli usando forbici e
colla).
La sua ipotesi fu accolta con entusiasmo da alcuni di essi, mentre altri (come spesso succede
nella storia della scienza) vi si opposero tenacemente. Ma la sua teoria si affermò presto.
Questa isomeria si chiama, se dovuta ad atomi asimmetrici, isomeria ottica e gli isomeri sono
detti isomeri ottici o enantiòmeri (dal greco enantios = contrario, opposto).
Alcuni di questi possono essere attivi otticamente: sono in grado di ruotare il piano di
polarizzazione della luce di angoli positivi o negativi e ciò è indicato dai simboli (+) e (-);
l'effetto ottico è dovuto ai contributi dei singoli atomi di C asimmetrico, perciò può capitare che
gli effetti dei C della molecola si compensino a vicenda (si parla di isomeri ottici con
compensazione interna); in tal caso, nonostante la presenza di C asimmetrici, non si avrebbe
nessun effetto di polarizzazione della luce. Lo stesso accade se sono presenti in eguale
percentuale (50%) i due isomeri ottici opposti; in questo caso si parla di miscele racéme.
CONFORMAZIONE: indica come sono posizionati gli atomi rispetto al resto della
molecola.
Prendiamo per esempio, la molecola 1,2-dicloro etano, di formula molecolare Cl H2C-CH2 Cl.
Se la guardiamo lungo l'asse del legame carbonio-carbonio, la molecola può assumere varie
posizioni, ruotando un C rispetto all'altro attorno a quest'asse.
Le varie situazioni ottenibili sono detti confòrmeri.
Di solito non è possibile separare questi confòrmeri poiché, essendo piccola la ∆E, la molecola
è in continua rotazione molto veloce (circa 106 ÷ 107 volte/secondo); solo se i gruppi
sostituenti sono molto ingombranti la rotazione sarà più difficile o, addirittura, impedita (come
nel caso che invece di Cl ci sia Br o I).
Abbiamo visto, così, che per individuare una molecola (e le sue carattristiche chimico-fisiche),
non basta conoscere la formula minima, nemmeno la molecolare, talvolta.
Abbiamo anche avuto una pallida idea della stereochimica, una branca importantissima della
chimica.
In questo settore esiste, per esempio, l'analisi conformazionale, cioè l'analisi delle proprietà
fisiche e chimiche della molecola in base alla geometria delle diverse conformazioni in cui essa
può esistere; le interazioni considerate sono quelle tra atomi non direttamente legati tra
loro (mentre le configurazioni esistono a causa dei legami di valenza).
Si può dire che essa sia nata circa nel 1890, quando H.Sachse ipotizzò l’esistenza, per il
cicloesano di due diverse conformazioni, "a sedia" e "a vasca". Il passaggio da una
conformazione all'altra è possibile con relativamente piccole variazioni di energia.
Queste proprietà compaiono nella equazione di stato dei gas perfetti o ideali
PV=nRT
Per esempio: R = 0.082 dm3 atm mol-1 K-1 R = 8.3143 J mol-1 K-1
Questa legge comprende altre leggi che prendono in considerazione il comportamento dei gas
mantenendo fissa una delle variabili:
(PV)T = K
(V)p = Vo (1+aot)
in cui:
V0 è il volume occupato a 0°C;
a0 = 1/273.15;
t, temperatura, è espressa in °C.
Tale t è presa come punto di zero della scala assoluta, cioè -273.15°C, corrispondente a 0
K (Kelvin).
• Principio di Avogadro: volumi eguali di gas diversi, alle stesse T e P, contengono lo stesso
numero di particelle.
Perciò il volume di un gas può essere usato come misura della quantità, poiché è proporzionale
al numero di moli di gas.
Questo principio, enunciato nel 1811, era così rivoluzionario, che dovettero passare 50 anni,
prima che fosse accettato (nel I° Congresso Internazionale di Chimica a Karlsruhe), per merito
di Cannizzaro, che ne comprese l'importanza.
La legge generale dei gas si applica correttamente solo al gas ideale o perfetto, costituito
di particelle tutte uguali, con la stessa massa e con volume nullo (puntiformi): è un modello
che è stato costruito per razionalizzare il comportamento dei gas.
Un gas reale è invece caratterizzato da particelle con un volume definito; se si vuole perciò
applicare la legge dei gas a gas reali è necessario introdurre delle correzioni.
Di un gas reale, per esempio, si può esaminare il fattore di comprimibilità Z:
Fig.18.1 Curve isoterme relative al fattore di comprimibilità Z per alcuni gas reali.
Per il gas perfetto Z=1 (infatti, dalla legge generale del gas perfetto, il rapporto tra PV e
nRT è eguale ad 1).
Tutti i gas reali si comportano in modo anomalo, ma tendono all'ideale quando P tende a0e
quando la loro T è alta.
E' perciò necessario tener conto del volume delle molecole (detto covolume) e delle
interazioni che esistono fra loro: occorre perciò fare delle correzioni della equazione di stato
del gas perfetto o ideale.
Il modello strutturale dei gas reali tiene conto che, se si raffredda un gas reale a una T
sufficientemente bassa, esso condensa (il gas ideale no), diventando liquido o solido; a T = 0
K il solido avrà un volume b: perciò il volume totale a disposizione del gas non è V, ma (V
- b) in cui b è il volume molare del gas a 0 K.
Inoltre, nel gas reale, il moto delle particelle non è uniforme: esistono attrazioni e
repulsioni, soprattutto quando le particelle sono vicine (prima e dopo un urto).
Ciò porta a una diminuzione della P rispetto all'ideale: Pideale = P + (a/V2)
in cui il termine a/V2 è chiamato P interna, o di coesione ed è un fattore legato alle forze di
interazione intermolecolari.
L'equazione per i gas reali, detta di Van der Waals diventa perciò: (P + n2a/V2) (V-nb) =
nRT
il fattore n dipende dal fatto che bisogna tenere conto del numero delle particelle (notare che
n/V rappresenta la concentrazione).
A seconda che predomini l'effetto del volume (con effetto +∆P) o quello delle forze di coesione
(con effetto -∆P) la P di un gas reale sarà maggiore o minore di quella del gas ideale.
Ad alta T gli effetti della coesione sono minori (poiché predomina l'energia cinetica delle
particelle), mentre ad alta P il volume a disposizione per il moto diminuisce molto (parte di
esso è infatti occupato dal covolume b delle particelle, che possiamo trascurare solo a bassa
pressione).
Fig.18.2 Parametri di Van der Waals per alcuni gas reali. Si può notare che b
(covolume) aumenta al crescere del numero atomico anche se non in modo
drammatico (per Xe è poco più del doppio di He); per quanto riguarda invece a, che
dipende dalle interazioni intermolecolari, le variazioni sono molto più evidenti (per
Xe addirittura 120 volte che per He).
Nei calcoli per i gas reali usiamo, normalmente, la legge generale, poiché nelle condizioni
ambientali normali risulta abbastanza attendibile (siamo abituati, nei calcoli stechiometrici, a
fare notevoli approssimazioni).
Un valore che usiamo spesso è quello del volume molare del gas ideale a 0° C e 1 atm.
Ponendo così n = 1, T = 273; P = 1 atm; R = 0,082 dm3 atm mol-1 K-1, allora V = RT/P =
22.4 litri.
Nel trattare il comportamento del gas ideale e dei gas reali, abbiamo finora sempre considerato
una sola specie chimica; ma se il sistema è costituito da una miscela di due o più gas che
occupano lo stesso volume V, identificando ogni singola specie gassosa con i simboli A, B, ..i...
e considerando che tutti si comportino come gas ideali, ognuno di essi seguirà la legge
generale.
Potremo scrivere le relazioni in alto, in cui pi, detta pressione parziale del gas i, è la
pressione che il gas i eserciterebbe se occupasse da solo tutto il volume disponibile, dato
che, considerando gas ideali, le particelle sono indistinguibili tra loro.
Se dividiamo l'espressione relativa a un gas generico j per l'espressione relativa alla
pressione totale Ptot, avremo la relazione a destra, dalla quale si ottiene poi quella in
basso, in cui cj rappresenta la frazione molare del gas j.
In conclusione, la pressione parziale di un gas j è data dal prodotto della sua frazione
molare per la pressione totale.
I gas reali, come abbiamo visto, se sottoposti ad una adeguata pressione e portati ad una T
abbastanza bassa, condensano, diventando prima liquidi, poi solidi.
Prendiamo in considerazione il passaggio alla fase liquida di un gas reale; portiamo in un
diagramma P/V (diagramma di Andrews), i dati relativi e vediamo quali curve si ottengono, a
seconda delle varie T.
Fig.18.3 Diagramma di Andrews
Le varie curve sono ottenute a diverse T: (T1, T2,
TC, T3).
Le isoterme a T > TC, come per esempio T3,
hanno un andamento simile a quello dei gas
ideali (ricordare che il gas ideale segue la legge
di Boyle (PV)T = K, e corrisponde perciò, in
questo schema, al ramo di un'iperbole
equilatera).
Questo tipo di comportamento è conseguenza necessaria della non idealità del gas; i
parametri critici sono legati perciò alle costanti a e b dell'equazione di Van der Waals e si
possono ricavare da essi.
19 - Liquidi e solidi
Nella esperienza di Andrews abbiamo visto che i gas possono passare (in certe condizioni)
allo stato liquido, caratterizzato da bassa comprimibilità (tratto finale del diagramma), cioè
da spazi intermolecolari molto ridotti.
Questo avviene quando le forze di attrazione intermolecolari diventano predominanti su
quelle dovute all'energia cinetica.
Viene tuttavia conservata una certa mobilità: il liquido infatti si adatta alla forma del
recipiente.
Una conseguenza macroscopica della forza di coesione in un liquido, cioè di queste forze di
attrazione intermolecolari, è la tendenza che esso ha ad assumere una forma sferica:
Questa caratteristica è molto importante, per esempio, nel caso dei fenomeni legati alla
capillarità, coinvolti in problemi di risalita di acqua nelle murature (con trasporto anche di sali
che provocano, per cristallizzazione, degrado dei materiali), di idrorepellenza dei materiali etc.
La capillarità è un fenomeno dovuto all'interazione, generalmente a causa della formazione di
legami transitori a idrogeno, tra una soluzione e le pareti del contenitore: quando predominano
le forze di adesione del liquido rispetto alla parete, sulle forze di coesione del liquido, il liquido
stesso tende a risalire lungo la parete.
Un'altra caratteristica dei liquidi è la viscosità, cioè la resistenza allo scorrimento; è presente
anche nei gas, ma è, in quasto caso, molto bassa (nei gas aumenta con la T, poiché
aumentano gli urti intermolecolari, mentre nei liquidi diminuisce all'aumentare di T).
E' importante evitare di confondere la viscosità con la densità di un liquido, espressa
generalmente in (g cm-3); nel linguaggio comune, per esempio, si dice che l'olio è un liquido
denso: è invece un liquido "viscoso", non "denso", dato che, rispetto alla densità dell'acqua, la
densità di un olio è inferiore.
Un liquido estremamente viscoso può essere considerato il vetro, che in effetti è un solido
amorfo: non avendo una struttura cristallina rigida, tende a deformarsi sotto l'azione di forze
esterne: per esempio la forza di gravità, in tempi lunghi, tende a far aumentare lo spessore di
una lastra di vetro nella sua parte inferiore.
Quando le forze di attrazione diventano ancora più forti, possiamo avere lo stato solido,
caratterizzato da rigidità, incompressibilità, forma geometrica definita: ciò comporta una
disposizione regolare e stabile degli atomi (salvo che nel caso di sistemi vetrosi, amorfi,
assimilabili ad uno stato liquido estremamente viscoso).
Potremo avere perciò dei cristalli, solidi omogenei e anisotropi (il comportamento fisico può
essere diverso a seconda della direzione considerata), delimitati da facce piane.
Potremo avere anche dei solidi amorfi, con disposizione disordinata degli atomi (come nei
liquidi) ma con forma e volume propri; questi sono isotropi (le proprietà fisiche sono costanti
in tutte le direzioni).
Lo stato amorfo è generalmente instabile: è detto metastabile, poiché si può avere un
riarrangiamento della struttura verso forme cristalline (che sono energeticamente favorite); il
processo è lentissimo data la altissima viscosità del sistema.
Nei cristalli possiamo definire delle direzioni principali secondo cui si ha una ripetizione
regolare delle unità strutturali. Vediamo un esempio bidimensionale per semplicità.
triclino a ≠ b ≠ g ≠ 90°
Fig.19.5 I 14 reticoli di Bravais, con i relativi numeri di unità in cella, rispetto ai gruppi
cristallografici.
La struttura cristallina è caratteristica di quasi tutti i composti e gli elementi a livello
macroscopico.
Le forze che tengono uniti elementi e composti sono quelle di cui abbiamo parlato nel caso dei
legami: cioè covalente, ionico, di idrogeno, metallico, di Van der Waals.
Se un composto può presentarsi in forme cristalline diverse, si dice che dà luogo a
polimorfismo; se invece due composti diversi si presentano con la stessa forma cristallina, si
dice che possono dare cristalli misti; succede, per esempio, negli spinelli, di formula
generale: A2BO4, in cui
A può essere Al3+, Cr3+, Fe3 B può essere Mg2+, Zn2+, Mn2+
20 - La cinetica chimica
Quando si studia una reazione chimica, se ne determina dapprima la stechiometria; ma
quando l'equazione simbolica che usiamo è equilibrata, non sappiamo ancora nulla sul suo
effettivo andamento.
Da una parte, la termodinamica chimica esamina le condizioni che devono essere
soddisfatte perché una certa reazione avvenga spontaneamente, da un'altra parte la cinetica
chimica esamina i fattori che influiscono sul tempo necessario perché una reazione giunga a
completezza.
Per esempio, la reazione di ossidazione del diossido di zolfo (anidride solforosa) a triossido
(anidride solforica)
2 SO2 (g) + O2 (g) → 2 SO3 (g)
E' ovvia perciò l'importanza di studiare le velocità delle reazioni, i fattori che le
influenzano, il meccanismo che esse seguono.
Tra i fattori che possono influenzarle, possono essere, per esempio:
• la natura dei reagenti (durante la reazione si debbono rompere dei legami)
• la concentrazione dei reagenti (con la concentrazione varia il numero di collisioni possibili)
• la temperatura (con la T varia il numero di urti efficaci, dato che cambia l'energia cinetica)
• i catalizzatori (fanno aumentare la velocità)
• l'area di contatto tra le fasi (nel caso di reazioni eterogenee)
• l'agitazione della miscela...etc
v = |d C / d t|
v è espressa come valore assoluto (simboleggiato dalle due barre verticali) poiché, se si
controlla la variazione di concentrazione di un reagente, la variazione sarà negativa (-dC/dt),
se si controlla quella di un prodotto, sarà positiva (+dC/dt); ma la velocità che misuriamo deve
essere sempre positiva.
Poiché generalmente i prodotti possono reagire dando la reazione inversa, ciò che noi
misuriamo effettivamente è la differenza fra le velocità della reazione diretta e di quella
inversa; per fare in modo che la velocità misurata sperimentalmente sia il più possibile uguale
a quella diretta dobbiamo perciò effettuare la misura all'inizio della reazione, quando cioè il
contributo della reazione inversa è nullo o trascurabile.
esprimeremo la velocità come variazione nel tempo di uno qualsiasi dei componenti della
reazione (sia uno dei reagenti sia uno dei prodotti); la velocità, determinata sperimentalmente,
è proporzionale, secondo la costante di velocità "specifica" K (corrispondente alla velocità della
reazione per concentrazioni unitarie: solo in quel caso, infatti, v=K), al prodotto della
concentrazione di A elevata alla m per la concentrazione di B elevata alla n.
E' evidente che la K dipende dalla natura dei reagenti A e B oltre che dalla temperatura.
Gli esponenti m e n possono essere sia interi sia frazionari; rappresentano l'ordine della
reazione: m rispetto ad A, n rispetto a B; (m+n) rappresenta l'ordine totale della
reazione.
Gli ordini di reazione possono essere dedotti solo sperimentalmente e non coincidono
necessariamente con i coefficienti stechiometrici della reazione a e b (in taluni casi possono
essere anche zero).
Cioè il rapporto tra la variazione di concentrazione di A d[A], rispetto alla sua concentrazione
attuale [A] è costante se si considerano intervalli di tempo costanti; che è quanto appare dal
grafico b.
La K ha anche delle dimensioni; in questo caso (I° ordine): K (sec-1), poiché, ricavandola
dalla espressione precedente è K = -d[A]/[A] dt.
Nella valutazione della velocità si usa spesso anche un altro parametro, il tempo di
dimezzamento t1/2 che è il tempo necessario perché la concentrazione iniziale di un reagente
sia ridotta a metà (con 2 t1/2 si avrà 1/4 della concentrazione iniziale, con 3 t1/2 1/8 etc.;
dopo 7 t1/2 la concentrazione è ridotta a meno dell'1% dell'iniziale).
ln [A]/[A]0 = -K (t-t0)
(ln = logaritmo naturale) e se in questa poniamo [A] = 1/2 [A]0, (se vogliamo cioè che la
concentrazione sia la metà dell'iniziale, come definito per il tempo di dimezzamento), e dato
che t0 = 0 (inizio della reazione), avremo:
Fig.20.3 Grafico ln C contro t
per una reazione del I° ordine.
Una osservazione importante: per reazioni del primo ordine t1/2 non dipende dalla
concentrazione del reagente (vedi l'espressione del tempo di dimezzamento riportata subito
prima della figura 20.3); un esempio di applicazione di questo concetto è quello della
datazione dei reperti archeologici con la misura del 14C (t1/2 = 5730 anni) già ricordata nel
capitolo della radioattività (14C, per decadimento b, dà 14N).
Esaminiamo ora una reazione del II° ordine che può essere, per esempio,
2 A → prodotti
A + B → prodotti
Ma nel caso della reazione analoga H2 (g) + Br2 (g) → 2HBr (g)
Perciò l'ordine totale di reazione è 3/2 e la K sarà espressa in C-1/2 t-1. Evidentemente le due
reazioni, apparentemente analoghe, avvengono in modo diverso.
Abbiamo visto così che si può capire di che ordine è una reazione dalle leggi integrate.
Per ordini superiori le leggi possono essere molto complesse, ma si può, giocando sulle
reciproche concentrazioni dei reagenti, trasformarle in reazioni del pseudo primo-ordine,
pseudo-secondo ordine riducendo le difficoltà dei calcoli (se, per esempio, la concentrazione
c di uno dei reagenti è 100 volte quella dell'altro, al procedere della reazione la concentrazione
c non cambia sensibilmente e la possiamo considerare costante).
Nella figura che segue si riporta un esempio di indagine spettrofotometrica applicata allo studio
cinetico di una reazione; si possono usare, a seconda del sistema studiato, tecniche diverse; la
scelta da parte del ricercatore è basata fondamentalmente sulla possibilità di evidenziare le
variazioni di concentrazione di uno dei componenti della reazione evitando interferenze da
parte di altri componenti. Si sfruttano le proprietà fisiche di uno dei componenti, perciò
indagini cinetiche possono essere effettuate anche con misure di conducibilità, di tempo di
ritenzione mediante gascromatografia o cromatografia liquido-liquido, mediante spettroscopia
nmr (risonanza magnetica nucleare) ecc.
Nelle due reazioni precedenti, apparentemente simili, è evidente che esiste una differenza
sostanziale nel modo di procedere delle reazioni, cioè nel loro meccanismo; (ma se la velocità
fosse stata dello stesso ordine non avremmo comunque potuto affermare con certezza che il
meccanismo è lo stesso!).
Molecolarità superiori a 3 sono assolutamente improbabili, dato che già è molto improbabile un
urto triplo (che esige l'incontro contemporaneo di 3 unità diverse e spesso secondo una
geometria molto precisa).
La molecolarità non è un dato sperimentale (come è invece l'ordine di reazione), ma un
concetto teorico mediante il quale viene proposto uno stadio del meccanismo di reazione.
Se la reazione di formazione del triossido fosse isolabile (se, cioè, il triossido in quelle
condizioni potesse essere individuato come tale e non fosse un intermedio instabile), allora
potremmo determinare la velocità di reazione (e anche il suo ordine) del primo stadio; ma
questo non succede. In effetti ogni processo elementare avrebbe una sua velocità di reazione:
ma solo quando ognuna di esse è misurabile si può pensare ad una coincidenza della
molecolarità con l'ordine di reazione (poiché, in tal caso, potremmo considerare reazioni
separate e potremmo perciò determinarne le velocità sperimentali separatamente).
Ma spesso non si può misurare la velocità di uno stadio elementare: infatti di solito misuriamo
la velocità globale della reazione, che è sempre condizionata dallo stadio più lento (rate
determining step). Nel caso specifico della reazione mostrata sopra, il secondo stadio è
evidentemente molto più veloce del primo, dato che non è possibile "vedere" il triossido:
questo, appena si forma, reagisce col monossido per dare il diossido.
La ragione della diversa velocità delle reazioni risiede, in base al modello adottato,
nell'energia coinvolta nel processo.
Se consideriamo l'energia totale del sistema iniziale (cioè dei reagenti) ER e l'energia
totale del sistema finale (cioè dei prodotti) EP, per passare da una situazione all'altra è
necessario superare una barriera di potenziale, relativa alla formazione di un intermedio di
reazione detto complesso attivato, anch'esso caratterizzato da una sua energia detta
energia di attivazione Ea o E*.
Per capire questo, possiamo presentare il processo energetico con un grafico, detto profilo di
reazione.
E' facile da intuire che la velocità della reazione è proporzionale, in qualche modo, al numero di
molecole che hanno energia sufficiente per superare la barriera di potenziale; ogni molecola
possiede una energia che non è necessariamente eguale a quella delle sue simili se non a
livello statistico: esisterà cioè una distribuzione della E (e perciò della velocità) tra molecole
dello stesso tipo, distribuzione espressa dalla legge di Maxwell-Boltzmann (Maxwell, Scozia,
1831-1879), Boltzmann (Austria, 1844-1906).
Berzelius si interessò di molti campi della chimica di allora; per esempio dei fenomeni elettrici
scoperti da Volta e della scala di elettronegatività per gli elementi allora conosciuti.
Inoltre si interessò anche della velocità delle reazioni, per la quale definì "catalizzatori" le
sostanze che permettono di accelerare una reazione, cosa che si può ottenere anche con un
aumento di temperatura.
L'azione dei catalizzatori consiste nel ridurre la barriera di potenziale cioè, in pratica,
l'energia di attivazione del processo; poiché alla fine della reazione i catalizzatori (almeno
quelli ideali) risultano non modificati, si può dedurre che agiscano sul meccanismo di
reazione, dando luogo a qualche stadio intermedio nuovo o diverso o ancora ad uno stato
attivato diverso ad energia minore di quello della reazione base.
L'equazione è:
lg K = lg A - Ea/2,303 R (1/T)
in cui:
K rappresenta la costante specifica di velocità; A la costante specifica della reazione; Ea
l'energia di attivazione; R la costante universale dei gas; T la temperatura assoluta.
Fig.20.11 Diagramma lg K
contro 1/T per applicare
l'Equazione di Arrhenius (e per
ricavare l'energia di attivazione
di una reazione).
Portando in diagramma il
logaritmo decimale della K di
velocità contro 1/T
(determinando perciò le K di
velocità a diverse temperature),
è possibile determinare l'energia
di attivazione Ea di una reazione
mediante il calcolo del
coefficiente angolare (pendenza
della retta).
∆y / ∆x = - Ea/2,303 R
21 - L'equilibrio chimico
Nel rappresentare le reazioni abbiamo finora usato una sola freccia → che indica la direzione
da reagenti a prodotti, come se le reazioni potessero andare solo in quella direzione, cioè come
se esse fossero tutte irreversibili; in effetti quasi tutte le reazioni chimiche sono reversibili
e dovremo perciò usare una doppia freccia e scrivere
Questo comporta che dai prodotti si possa ottenere i reagenti; in realtà avremo, quando il
sistema si sarà stabilizzato, quando cioè sarà all'equilibrio, una situazione in cui saranno
presenti tutti i componenti, ognuno con una concentrazione che non cambia nel tempo
(sempre che non cambino i parametri: pressione p, numero di moli dei singoli componenti ni,
temperatura T).
Nella figura 21.1 vengono evidenziate le variazioni delle concentrazioni nel tempo, sia che si
parta dai reagenti, sia che si parta dai prodotti. Notare che le concentrazioni di partenza
possono essere casuali: quando si crea un sistema di reazione, non è necessario che le
quantità dei componenti rispettino esattamente i coefficienti stechiometrici. La reazione
procede comunque, in base ai coefficienti stechiometrici propri della reazione.
Poiché all'equilibrio le concentrazioni dei componenti sono costanti, sarà costante anche
un loro rapporto, che esprime la legge dell'azione di massa (nel senso che se modifico la
concentrazione di un componente, automaticamente si modificano le altre in modo che il
rapporto generale Kc resti costante).
Per convenzione scriviamo al numeratore i prodotti della reazione così come noi l'abbiamo
scritta: se considerassimo la reazione inversa, avremmo al numeratore A e B, al denominatore
C e D.
Gli esponenti sono i rispettivi coefficienti stechiometrici (ricordiamo che essi non sono
necessariamente eguali a quelli che compaiono nella velocità di reazione, anche se è possibile
trovare fra questi e quelli una relazione, purché si conosca il meccanismo di reazione).
Quando si tratta di gas, si usano spesso le pressioni parziali anziché le concentrazioni (basta
ricordare che, per la legge di Dalton sulle miscele gassose ideali, la pi è proporzionale a ni);
otterremo, in questo caso, una Kp.
Kp = Kc solo quando le K sono adimensionali, quando cioè non c'è variazione del numero di
moli.
Sarà così, per esempio per la reazione di dissociazione dell'acido iodidrico in fase gassosa 2
HI H2 + I2, mentre per la reazione di sintesi dell'ammoniaca N2 + 3 H2 2 NH3 sarà
Kp ≠ Kc.
Infatti, poiché la concentrazione, per definizione è ni/V, dalla legge generale dei gas
avremo che ni/V = pi/RT, e se sostituiamo nella Kc avremo:
cioè la Kc è uguale alla Kp moltiplicata per un fattore (1/RT) elevato ad un esponente che
rappresenta la variazione del numero di moli caratteristico del processo.
Analogamente potremmo definire una Kn.
Solo se ∆n = O allora Kp = Kc = Kn.
La K, pur rappresentando la stessa situazione reale, può assumere valori diversi se scriviamo
la reazione in modo diverso, perciò è molto importante sapere "come" è scritta la reazione, per
dare il giusto valore e il giusto significato alla costante di equilibrio.
Un esempio: consideriamo la stessa reazione scritta in 3 modi diversi:
I) N2 + 3 H2 2 NH3
II) 1/2 N2 + 3/2 H2 NH3
III) 2 NH3 N2 + 3 H2
Fig.21.2 Tre espressioni diverse della K e relative dimensioni, in funzione del diverso modo di
scrittura della reazione
Negli equilibri in sistemi omogenei (quelli fin qui considerati), occorre tener conto di tutti i
componenti, mentre nei sistemi eterogenei si considera che i componenti in fase condensata
(solida o liquida) abbiano "attività" costante (non "nulla" o eguale a 1!); perciò questa attività
può venire conglobata nella K di equilibrio.
Consideriamo per esempio la reazione di equilibrio:
CaCO3 CaO + CO2
Fig.21.3 Equilibrio di dissociazione gassosa e relativa K di equilibrio espressa anche mediante il grado di
dissociazione
In base al principio di Le Chatelier un aumento del volume del recipiente (o una diminuzione
della p) favorisce la dissociazione del pentacloruro di fosforo.
In una reazione come la dissociazione dell'acido iodidrico 2 HI H2 + I2, dato che non c'è
variazione del numero di moli nella dissociazione, una variazione di p o di V sarebbe
ininfluente.
22 - La termodinamica delle reazioni
La termodinamica chimica studia le condizioni che devono essere soddisfatte perché le
reazioni avvengano, e si basa su tre principi. Per esempio, la costanza dell'espressione
dell'azione di massa all'equilibrio è una conseguenza diretta di questi tre principi.
• II° Principio, che riguarda l'entropia: ogni trasformazione spontanea avviene in modo da
far aumentare lo stato di disordine complessivo del sistema e dell'ambiente esterno; la
degradazione dell'E comporta un aumento del disordine totale; l'entità del disordine è espressa
dalla funzione di stato entropia S.
Per capire che cosa significhi quanto enunciato nel III° principio, vediamo alcuni esempi di
possibili difetti reticolari, cioè di errori nello sviluppo di cristalli (che sono le strutture
teoricamente più regolari e che, perciò, dovrebbero potersi presentare "in un solo modo").
Macroscopicamente, di solito, questi difetti non sono visibili, eppure sono spesso presenti.
Quando esiste un difetto reticolare, ovviamente, il sistema si potrà presentare in un numero
elevatissimo di possibilità, dato che lo stesso difetto reticolare può trovarsi in moltissime
posizioni. Solo se il cristallo è "perfetto", cioè senza difetti, si potrà presentare in un modo
solo.
Fig.22.3 Difetto reticolare di impaccamento tra due strati con dislocazioni parziali nella
grafite.
Nelle posizioni estreme, a sinistra e a destra, gli atomi di C dello strato sottostante
(atomi chiari) compaiono esattamente al centro dell'esagono superiore (atomi in nero).
Partendo da sinistra si nota una deformazione del reticolo con sfasamento degli atomi
inferiori rispetto a quelli superiori, fino a raggiungere una situazione simile a quella
iniziale.
Ogni trasformazione reale, cioè irreversibile, avviene nella direzione in cui si produce un
aumento di S.
Bisogna però considerare sempre il "disordine totale", cioè quello del sistema più quello
dell'ambiente esterno.
Perciò nei processi il sistema si evolve in modo che la G assuma il minimo valore (a quelle p e
T).
Una diminuzione di G (essendo G definita da due addendi), può avvenire o per diminuzione
dell'entalpia H o per aumento dell'entropia S (poiché T = costante).
Se considerassimo solo il termine H, sarebbero possibili solo i processi esotermici, cioè quelli
con ∆H < 0.
Invece possono avvenire anche processi endotermici, cioè con ∆H > 0, purché ci sia,
contemporaneamente, un aumento di S tale che sia T∆S > ∆H.
Comunque processi esotermici in cui si abbia una diminuzione di S sono possibili purché
|T∆S| < |∆H| (Ricordare che i valori compresi tra due barre verticali sono presi in valore
assoluto).
Esaminiamo ora una reazione reversibile, che comporti una situazione di equilibrio, per
esempio quella di formazione dell'ammoniaca dagli elementi
N2 + 3 H2 2 NH3
Il sistema sarà in equilibrio quando la ΣiGi di tutti i componenti del sistema sarà la minima
possibile: ad essa corrisponderà una certa conversione x dei reagenti a prodotti.
La reazione può avvenire anche in senso opposto, partendo dai prodotti: la situazione di
equilibrio sarà la stessa, sempre corrispondente alla composizione x del sistema.
H2 + 1/2 S2 H2S + 87 kJ
Se determiniamo le Kp (espressa in atm-1/2) alle varie temperature T (K) e portiamo i dati in
un diagramma Kp/T, otterremo una curva di tipo esponenziale; se proviamo però a rielaborare
i dati trasformandoli in ln Kp e in 1/T, e riportiamo i nuovi dati in un diagramma ln Kp contro
1/T otterremo una funzione lineare.
Nella tabella seguente sono riportati i dati numerici originali (T e Kp) e quelli rielaborati (1/T
e ln Kp); nella figura successiva i grafici corrispondenti.
Diagramma Kp contro T
relativo alle coppie di valori
delle Kp e delle T per la
reazione esotermica, in fase
gassosa, di formazione di
acido solfidrico dagli
elementi (diagramma, dati e
grafico in rosso); la curva è
di tipo esponenziale.
Diagramma ln Kp contro
103/T relativo alle coppie
dei valori precedenti
rielaborati, per la stessa
reazione esotermica
(diagramma, dati e grafico in
blu); l'andamento è
perfettamente lineare.
Kp = cost. (e-∆H/RT)
e, passando ai logaritmi,
ln Kp = cost. + (-∆H/RT)
Questa è la situazione che si presenta per una reazione esotermica: un aumento della T
provoca una diminuzione della Kp (se al procedere della reazione si sviluppa calore, un
aumento della T provocato dall'esterno causerà, per il principio di Le Chatelier, una
regressione della reazione, dato che ciò comporta un assorbimento di calore).
Se consideriamo invece la reazione endotermica, sempre in fase gassosa, di formazione del
monossido di azoto dagli elementi (per la quale ∆H = 182 kJ):
N2 + O2 2 NO - 182 kJ
sia il grafico Kp/T sia quello ln Kp contro 1/T hanno un andamento diverso; la funzione della
prima coppia di dati è un ramo di parabola, quella della seconda coppia dei dati, rielaborati allo
stesso modo, è però sempre una retta ma con pendenza opposta.
Per una reazione endotermica un aumento della T provoca un aumento della Kp (se al
procedere della reazione viene assorbito calore, un aumento della T provocato dall'esterno
causerà, per il principio di Le Chatelier, un avanzamento della reazione, dato che ciò comporta
un assorbimento di calore).
Fig.23.1 Rappresentazione
schematica planare di molecole di
acqua con legami di idrogeno.
Nel disegno i legami OH di ogni
molecola appaiono, per semplicità,
disegnati a 90° tra loro (sappiamo
che non è vero!); in verde i legami
covalenti normali; in rosso i legami
a idrogeno.
Quanto più questi ultimi sono
lunghi, tanto più essi sono
allentati, perciò o si stanno
formando o si stanno rompendo.
Quando un legame di idrogeno si
forma, si possono allentare quelli
covalenti preesistenti, che si
possono rompere a loro volta, in
una situazione di totale dinamicità.
H2O H+ + OH-
Questa scrittura è una approssimazione semplicistica, poiché, in realtà, questi ioni (come tutti
gli ioni in soluzione acquosa!) sono "solvatati" da altre molecole di acqua; sono cioè
praticamente circondati dalla parte polare delle molecole circostanti che è di segno opposto
rispetto alla carica dello ione.
Fig.23.2 Rappresentazione schematica planare della solvatazione degli ioni H+ e OH- da parte di molecole di
acqua.
L'equilibrio ha ovviamente una sua costante, ma poiché l'attività di H2O è costante, essa può
venire conglobata nella costante di equilibrio e si ottiene così:
Questo significa che in acqua pura, a 50°, la [H3O+] è maggiore che a 25°.
Se, restando in soluzioni abbastanza diluite, introduciamo in acqua n moli di un acido forte
HA, questo si dissocia completamente in ioni (poiché è "forte"): gli ioni H+, solvatati, danno n
moli di H3O+ e, analogamente, di A-.
Lo stesso succede con n moli di base forte BOH, da cui avremo n moli di OH- e di B+.
In ogni caso viene modificato il rapporto esistente nell'acqua pura tra H3O+ e OH-.
Potremo ricavare, mediante calcoli semplicissimi, le concentrazioni relative dalla Kw, dato che
essa, a una data T, è costante (il prodotto ionico dell'acqua è direttamente derivato da una
costante termodinamica!).
Per i chimici (e biologi, microbiologi, biochimici, medici, geologi, ecc.) è fondamentale definire
una unità di misura dell'acidità delle soluzioni, cioè della [H3O+]. Poiché è scomodo usare
numeri molto piccoli o esponenziali in base 10, preferiamo utilizzare una nuova unità di
misura, il pH.
pH = -lg [H3O+]
Il pH è definito perciò come il logaritmo decimale della concentrazione molare degli ioni
idrogeno, con segno negativo. Lo stesso operatore p è ovviamente applicabile a qualunque
grandezza la cui misura sia esprimibile come un esponenziale in base 10.
Poiché è
Kw = [H3O+] [OH-]
allora
pKw(25°C) = pH + pOH = 14
E' utile allora definire una scala per pH e per pOH (che sono d'altronde legate attraverso il
pKw)
Fig.23.3 Scale di pH e di pOH, cioè di acidità e basicità. pH = pOH = 7 corrisponde alla neutralità. La somma
pH+pOH = 14 in ogni soluzione acquosa a 25°C. Da notare che le scale non iniziano da 0 e non terminano a 14:
questi valori corrispondono semplicemente a soluzioni che contengano 1 sola mole/litro di acido o base forte; è
facile ottenere soluzioni acide con pH<0 (una soluzione che contenga 10 moli/litro di HCl ha infatti pH = -1 e pOH
= 15).
24 - Acidi e basi
La prima definizione di acido e di base è stata data dal chimico svedese Svante Arrhenius
Il premio Nobel lo ottenne proprio per la sua teoria sulla dissociazione elettrolitica. Egli disse
che:
acido = molecola che, dissociandosi, fornisce ioni H+
base = molecola che, dissociandosi, fornisce ioni OH-
Ma la definizione non può andare bene per sostanze come SO2, CO2, NH3, che pure rendono
acida o basica una loro soluzione acquosa, oltre a trascurare che, per esempio, NaOH non è
"una" molecola definita (ricordare i reticoli cristallini ionici).
Potremmo usarla in prima approssimazione, definendo però acido una sostanza in grado di far
aumentare [H+] e analogamente per base una sostanza in grado di far aumentare [OH-].
Usando questa nuova definizione modificata, CO2 è acida perché, con l'acqua, reagisce:
Si parla di "protoni" veri e propri e la base non dipende dalla presenza del gruppo OH. Perciò
saranno:
Le sostanze che possono comportarsi come acidi e come basi, a seconda dell'ambiente in cui si
trovano (H2O, HS-, HSO4-, etc.) sono dette anfiprotiche.
Si chiama base coniugata Bi di un acido Ai quella che deriva da quell'acido e viceversa.
A1 + B2 A2 + B1
+
H2O + H2O H3O + OH-
HCl + H2O H3O+ + Cl-
H2O + NH3 NH4+ + OH-
NH3 + NH3 NH4+ + NH2-
H2SO4 + H2SO4 H3SO4+ + HSO4-
Notare che, come l'acqua, anche NH3 e H2SO4 presentano il fenomeno detto autoprotolisi
(una molecola funge da acido, un'altra eguale da base). Questo fenomeno è comprovato dal
fatto, per esempio, che, come H2O, anche NH3 liquida e H2SO4 puro permettono il passaggio
di elettricità, cosa che non potrebbe avvenire se non fossero presenti ioni nella soluzione.
acido A1 base B1
acidità HClO4 ClO4- basicità
massima HMnO4 MnO4- minima
HClO3 ClO3-
H2SeO4 HSeO4-
HI I-
HBr Br-
HCl Cl-
HSO4- SO42-
HClO2 ClO2-
HNO2 NO2-
HF F-
CH3COOH CH3COO-
HClO ClO-
NH4+ NH3
HCO3- CO32-
H2O2 HO2-
H2O OH-
acidità HS- S2- basicità
minima - 2- massima
OH O
Fig.24.3 Scala di acidità di una serie di sostanze acide e di basicità delle basi coniugate
corrispondenti. Quanto più è forte l'acido, tanto più è debole la sua base coniugata e viceversa.
Gli acidi possono essere distinti in idracidi, quando non contengono ossigeno, come gli acidi
alogenidrici: acido iodidrico HI, acido bromidrico HBr, acido cloridrico HCl, acido fluoridrico
HF, oppure come l'acido solfidrico H2S e l'acido azotidrico HN3; e in ossiacidi di formula
generale HnXOm.
Possiamo dedurre quale sia la forza di un ossiacido in base a una regoletta matematica che
prende in considerazione i coefficienti n ed m della formula generale HnXOm.
Non è possibile avere m-n = 4, perché ciò comporterebbe un numero di ossidazione formale 9,
incompatibile con la struttura elettronica degli atomi.
Una ulteriore generalizzazione nella definizione di acido è dovuta alla teoria di G.N.Lewis
(1923), valida anche per sistemi non acquosi.
acido + base →
+ -
H3O + OH → 2 H2O
BF3 + NH3 → H3N®BF3
Ag+ + 2 CN- → Ag(CN)2-
AlCl3 + Cl- → AlCl4-
Si tratta di una teoria molto generale, ma spesso, dato che operiamo in ambiente acquoso,
preferiamo usare quella di Brønsted-Lowry per comodità.
Per essa, la forza di un acido corrisponde alla sua tendenza a cedere un protone ad una base.
Alcuni acidi sono così forti che, anche se in alte concentrazioni, la reazione di dissociazione
è quasi totale, quantitativamente spostata a destra
HA + H2O H3O+ + A-
[H3O+] = Ca
Praticamente acidi e basi forti sono elettroliti forti, cioè si dissociano completamente; acidi
e basi deboli sono elettroliti deboli, cioè si dissociano solo parzialmente.
I sali, che già allo stato solido posseggono un reticolo ionico, sono elettroliti forti, e i loro
ioni (come tutti gli ioni), in acqua, vengono solvatati.
Alcuni di essi (Li+, Na+, K+, Cl-, NO3-, ClO4-, I-, etc.) restano come tali anche dopo la
solvatazione, essendo acidi coniugati di basi molto forti o basi coniugate di acidi molto forti;
perciò non provocano nessuna variazione di pH.
Altri invece, dopo la solvatazione, possono reagire con molecole di acqua di solvatazione
secondo reazioni acido-base: avviene il fenomeno della idrolisi (dal greco udro lusis = rottura
dell'acqua), con conseguenze sul pH della soluzione.
pH < 7 nitrato di ammonio NH4NO3, cloruro di zinco ZnCl2, solfato di alluminio Al2(SO4)3,
etc.
Si può capire ciò che succede, in base alla teoria di Brønsted-Lowry; prendiamo come esempio
il caso del cianuro di potassio:
KCN → K+ + CN-
+
K , solvatato, non reagisce con H2O (è un acido debolissimo, coniugato di una base forte),
mentre CN- invece reagisce (è una base forte, coniugata di un acido debole) secondo la
reazione:
CN- + H2O HCN + OH-
NO3-, solvatato, non reagisce con H2O (è una base debolissima, coniugata di un acido forte),
mentre NH4+ invece reagisce (è un acido forte, coniugato di una base debole):
Chiamiamo costanti di idrolisi Ki le costanti di equilibrio delle reazioni di idrolisi in cui [H2O]
è conglobata nella K.
Alcuni cationi danno idrossidi che possono reagire sia come acidi sia come basi, a seconda
dell'ambiente e del pH della soluzione, e sono detti perciò anfoteri (per esempio Al3+, Cr3+,
Pb2+, Zn2+, etc.)
Al(OH)3 + H3O+ Al(OH)2+ + 2 H2O
Al(OH)3 + OH- Al(OH)4-
Abbiamo detto che anche piccole quantità di ioni come NH4+, CN-, possono provocare alte
variazioni di pH.
Effetti ancora maggiori sul pH avvengono ovviamente se mettiamo in soluzione acidi o basi
molto forti.
Tale variazione può venire minimizzata se, in soluzione, sono presenti un acido debole e un
suo sale (HA e A-) o una base debole e un suo sale (B e BH+). Queste sono dette soluzioni
tampone.
La loro importanza è enorme, in particolare nei sistemi biologici: per esempio, il sangue umano
ha pH ≈ 7,4 e non varia che di pochi centesimi di unità di pH, anche in condizioni
drammatiche; è infatti "tamponato"; se così non fosse, molte reazioni biochimiche essenziali
per la vita verrebbero modificate o rese impossibili, con conseguenze irreparabili (l'acidosi del
sangue è molto pericolosa).
Supponiamo di avere, in soluzione acquosa, una concentrazione CA di un acido debole HA, e
una concentrazione CS di un suo sale A-.
Possiamo dire, approssimando, che [HA] = CA (dato che l'acido è debole, perciò si dissocia in
minima parte, tanto più che è già presente A- che tende a far regredire la già bassa
dissociazione dell'acido) e che [A-] = CS
[H3O+] = Ka CA/CS
Una eventuale diluizione (purché non eccessiva) non porta a variazioni di pH, in quanto il
rapporto CA/CS non cambia.
Se vengono aggiunte alla soluzione quantità di acido o di base, relativamente piccole rispetto
alla quantità del tampone, queste danno reazione quantitativa con A- o con HA; il rapporto
CA/CS cambia, ma di poco, perciò cambia poco anche il pH.
I calcoli sono più semplici se si passa ai logaritmi
pH = pKa + lg CS/CA
Il rapporto [HIn] / [In-] viene molto influenzato dal pH: praticamente la soluzione assumerà
il colore di HIn quando il rapporto è >10; il colore di In- quando il rapporto è <0,1.
Gli indicatori sono perciò molto utili nelle titolazioni acido-base.
25 - Equilibri eterogenei
Fino ad ora abbiamo trattato soluzioni acquose, che sono sistemi omogenei, ma talvolta si
presentano anche sistemi eterogenei in cui sono coinvolti equilibri eterogenei, molto
importanti nella chimica analitica; generalmente questi sono legati alla presenza di sali poco
solubili che, in quanto sali, sono sempre elettroliti forti (tanto più che la loro solubilità è molto
bassa).
AB A- + B+
ma poiché il sale poco solubile è presente come corpo di fondo, la sua concentrazione [AB] (o
meglio la sua attività) è costante, perciò
KPS è strettamente legato alla solubilità s del sale (ricordiamo che solubilità = quantità
massima del sale che può essere sciolta in una data quantità di solvente ad una certa T).
Poiché i sali sono elettroliti forti, la loro concentrazione in forma indissociata è costante ma
assolutamente trascurabile: perciò la concentrazione degli ioni è ricavabile dalla solubilità del
sale.
Se consideriamo un sale generico BnAm e ricordando che (s) significa solido, (aq) significa in
soluzione acquosa, si possono individuare gli equilibri indicati in figura:
Fig.25.1 Equilibri di un sale poco solubile in fase solida, in soluzione acquosa, in forma
ionizzata
La conoscenza dei prodotti di solubilità (e della solubilità) ha molta importanza sia in chimica
analitica (molte determinazioni qualitative e quantitative sfruttano queste caratteristiche) sia in
chimica applicata (basti pensare ai problemi del degrado dei materiali lapidei calcarei e agli
interventi per il restauro).
In particolare è interessante notare che dalla KPS del carbonato di calcio, costituente principale
dei marmi, si può calcolare una solubilità di circa 9x10-5, mentre da quella del solfato di calcio,
prodotto del degrado dei marmi a causa delle piogge acide, si ricava una solubilità di circa
5x10-3, cioè quasi 60 volte maggiore: per tale ragione, quando il carbonato viene trasformato
in solfato dall'acido solforico trasportato dall'acqua piovana, parte del materiale viene dilavato.
E questo è solo un esempio.
Ma se alla soluzione di un sale poco solubile viene aggiunto uno degli ioni costituenti il sale,
che cosa succede?
Poiché a quella T, il KPS è costante, dovrà diminuire la concentrazione dell'altro ione (e dovrà
precipitare, cioè separarsi dalla soluzione, una certa quantità di sale). Questo è detto effetto
dello ione comune ed è una conseguenza del principio di Le Chatelier.
Prendiamo per esempio una soluzione di cloruro d'argento AgCl:
Se ora aggiungo Cl- (per esempio sotto forma di NaCl) in concentrazione 10-2 M, avremo:
La concentrazione di Ag+ deve perciò ridursi di molto; precipiterà, sotto forma di AgCl tutto
quello che è in eccesso.
Questo effetto viene utilizzato, per esempio, per ridurre la concentrazione di ioni pericolosi
nelle acque di scarico industriali.
26 - Come descrivere un sistema
Se, in un sistema, esistono sostanze soggette a diversi equilibri, il sistema potrà venire
descritto correttamente solo se terremo conto di tutte le costanti di equilibrio
contemporaneamente.
Occorrerà perciò risolvere un sistema di più equazioni a più incognite (di solito le
concentrazioni delle varie specie) nelle quali devono comparire le espressioni di tutte le K.
Facciamo un esempio di come si possa descrivere un sistema, cioè di come si possano
determinare le concentrazioni di tutte le specie presenti nel sistema. Qualsiasi sistema
reale, anche il più complesso dal punto di vista chimico, potrà essere descritto individuando
tutte e sole le equazioni necessarie per costruire il "sistema matematico"; è chiaro che, quanto
più il "sistema chimico" è complesso, cioè quanto maggiore è il numero di specie presenti in
esso, tanto più laboriosa sarà la risoluzione del "sistema matematico" necessario per
descriverlo.
Kb = [NH4+] -
[OH ] / [NH4OH] costante di dissociazione della base
+ -
Kw = [H3O ] [OH ] prodotto ionico dell'acqua
-
[CH3COO ] + [CH3COOH] = 0,1 concentrazione totale acido acetico/acetato
Fig.26.1 Sistema di 6 equazioni con 6 incognite per definire completamente una soluzione di acetato di
ammonio
Utilizzando questo metodo si potranno descrivere completamente anche sistemi più complessi.
Se, nel costruire il sistema a 6 equazioni, una di esse non è indipendente, arriverò a una
"soluzione" finale costituita ancora da una equazione a due incognite; evidentemente il
problema non è risolto! Ciò è molto sgradevole, anche perchè trattare un sistema a 6 equazioni
comporta un impegno di tempo non indifferente.
27 - L'elettrochimica
Sappiamo che esistono sostanze che conducono la corrente elettrica.
Le migliori sono i metalli (lo si capisce ricordando le caratteristiche del legame metallico),
detti conduttori di I specie: se sottoposti a una ddp (differenza di potenziale), in essi
avviene passaggio di elettroni, che trasportano cariche, ma non materia.
Gli elettroliti forti (sali, idrossidi alcalini e alcalino-terrosi, che sono ionici anche nello stato
solido, acidi forti, etc.), in soluzione acquosa sono dissociati completamente, o quasi, in ioni.
Gli elettroliti deboli invece sono poco dissociati (per esempio molti acidi organici).
L'acqua è un ottimo solvente per sostanze ionizzabili purché la solvatazione porti ad un
guadagno energetico che compensi l'energia di rottura dei legami attrattivi che esistono in fase
solida.
Potremo perciò avere, per molecole polari (anche se a struttura covalente, non ionica) una
reazione di dissociazione, favorita dall'acqua, che può essere totale o parziale.
Se in una soluzione di elettroliti immergiamo due lamine metalliche e ad esse imponiamo una
forza elettromotrice fem (o differenza di potenziale ddp), si ha passaggio di corrente e,
alle due lamine, che si chiamano elettrodi, avvengono processi chimici.
Alcuni ioni metallici (Ag+, Cu++, etc.) possono depositarsi sul catodo.
In presenza di acidi, idrossidi, sali di metalli alcalini e alcalino-terrosi, può essere l'acqua a
subire la riduzione:
2 H2O + 2 e- → H2 + 2 OH-
Questo tipo di reazione avviene se l'anodo è costituito da un metallo attaccabile (che possa
perciò passare in soluzione sotto forma di ioni).
2 X- → X2 + 2 e-
Se l'anodo è costituito da un metallo "nobile" (come Pt, Au, etc.) e se non ci sono anioni che si
possano scaricare facilmente, è l'acqua a subire l'ossidazione:
2 H2O → O2 + 4 H+ + 4 e-
Questo processo si chiama elettrolisi e può avvenire anche in assenza di solvente, per
esempio nei sali fusi, purché esistano ioni in grado di muoversi (NaCl, HgCl2, KBr, NaOH, etc.).
Per esempio, per NaCl fuso (e in assenza di ossigeno e di acqua!) si hanno le seguenti
reazioni:
al catodo: Na+ + e- → Na all'anodo 2 Cl- → Cl2 + 2 e-
L'elettrolisi di NaCl permette, con catodo di Hg, di ottenere Na metallico in amalgama, cosa
impossibile in acqua, poiché si ridurrebbe H2O dando H2 anziché il metallo desiderato.
Ricordando che la carica elementare è 1,602 x 10-19 C (C = Coulomb, unità di misura
elettrica) e che una mole contiene 6,022 x 1023 unità, per un metallo monovalente occorrerà
una quantità di elettricità = 1 mole di elettroni = 96486,7 C
Approssimando, definiamo questa quantità di elettricità Faraday F
1 F = 96500 C
La stessa quantità basterà solo per 0,5 moli di metallo bivalente e così via.
Michael Faraday
Fig.27.3 Una fotografia di Michael Faraday
Michael Faraday (Newington Butts 1791 - Hampton Court 1867), fisico e
chimico britannico è noto per avere scoperto l’induzione elettromagnetica
e le leggi dell’elettrolisi. Compì studi irregolari; nel 1812 frequentò un
corso tenuto dal chimico Humphry Davy, del quale divenne poi assistente
presso il laboratorio di chimica della Royal Institution. Le prime ricerche
di Faraday si svolsero nel campo della chimica, sulle orme di Davy. Uno
studio sul cloro condusse alla scoperta di due nuovi cloruri di carbonio e
del benzene. Compì inoltre ricerche sulle proprietà ottiche del vetro e
ottenne sperimentalmente la liquefazione di alcuni gas comuni.
Le ricerche che fecero di Faraday il più insigne scienziato sperimentale
dei suoi tempi ebbero come oggetto l’elettricità e il magnetismo. Nel
1821 riuscì a produrre un campo magnetico impiegando un conduttore
attraversato da corrente elettrica. Nel 1831 fece seguire a questa
scoperta quella dell’induzione elettromagnetica e, nello stesso anno,
dimostrò l’interazione tra correnti elettriche.
Nel frattempo studiò i fenomeni dell’elettrolisi e ne formulò le due leggi
fondamentali.
(da Enciclopedia Microsoft Encarta)
Le leggi stechiometriche di Faraday sulla elettrolisi sono del 1834
Abbiamo visto così che l'energia elettrica può portare a trasformazioni chimiche; ma è possibile
trasformare energia chimica in energia elettrica?
Possiamo far avvenire delle reazioni redox (di ossidoriduzione) in una apparecchiatura
controllata, detta cella elettrochimica o pila.
Se mettiamo una lamina di zinco Zn in una soluzione di solfato di rame CuSO4 (che è di colore
blu dovuto ad un complesso di Cu++ con l'acqua), Zn si ricopre progressivamente di polvere
rossastra, mentre la soluzione scolora.
Avviene cioè la reazione: Zn + CuSO4 → Cu + ZnSO4
La polvere è Cu che si riduce (assorbendo elettroni dalla lamina di Zn); la soluzione scolora
poiché diminuisce la concentrazione di ioni Cu++ (che, solvatato, è blu).
Contemporaneamente Zn deve ossidarsi a Zn++ e passa in soluzione (anche se questo
processo non è visibile, dato che Zn++ è incolore.
In base a queste considerazioni, proviamo a costruire una "pila" per sfruttare l'energia chimica
del processo che, come si è visto, avviene spontaneamente; per far questo è necessario
mantenere separati i due processi di ossidazione e riduzione.
ed abbiamo potuto così mettere in evidenza che avviene una trasformazione di energia chimica
in energia elettrica; se le due reazioni fossero avvenute nella stessa soluzione avremmo avuto
una meno evidente (e meno interessante) trasformazione di energia chimica in energia
termica.
Ognuno dei due elementi che costituiscono la pila sono detti semielementi.
Praticamente tutte le reazioni redox spontanee possono generare energia elettrica.
Se invece di sfruttare le reazioni per ottenere energia elettrica, fornissimo noi l'energia
elettrica, invertendo la direzione del flusso elettronico, potremmo far avvenire la reazione
inversa. E' possibile perciò far avvenire anche reazioni non spontanee (elettrolisi).
Chiamiamo catodo l'elettrodo sul quale avviene la riduzione, anodo quello su cui avviene
l'ossidazione (esattamente come nell'elettrolisi).
La fem generata (a circuito esterno interrotto, altrimenti non la potremmo misurare poiché
cambierebbe continuamente) è una misura della tendenza della reazione ad avvenire ed è
perciò collegabile, parlando in termini di termodinamica delle reazioni, al DG della
trasformazione (come vedremo in seguito).
Se ∆G = 0 anche fem = 0 (perciò un sistema in equilibrio non può generare energia elettrica).
E' possibile costruire pile anche con metalli nobili, detti elettrodi inerti, immersi in soluzioni
contenenti le forme ossidata e ridotta di una stessa specie chimica (Fe2+/Fe3+, Sn2+/Sn4+,
Mn2+/MnO4-, etc.).
Altre pile si possono costruire utilizzando dei gas a contatto con elettrodi inerti; un esempio è
l'elettrodo standard a idrogeno.
Per convenzione si scrive così un potenziale di riduzione, in base alla reazione indicata
sopra. Normalmente usiamo sempre gli E di riduzione.
Il potenziale di ossidazione (reazione inversa) sarebbe eguale, ma di segno opposto.
Gli E° sono tabulati e, se riferiti a reazioni in cui compaiono gli elementi con stato di
ossidazione 0, la sequenza viene chiamata serie elettrochimica degli elementi.
Ox + ne- → Red E°
+ -
Li + e → Li -3,045
+ -
K + e → K -2,925
++ -
Ba + 2e → Ba -2,9
++ -
Ca + 2e → Ca -2,87
+ -
Na + e → Na -2,714
Mg++ + 2e- → Mg -2,37
Be++ + 2e- → Be -1,85
+++ -
Al + 3e → Al -1,66
++ -
Ti + 2e → Ti -1,63
++ -
Mn + 2e → Mn -1,18
V++ + 2e- → V -1,18
++ -
Zn + 2e → Zn -0,763
+++ -
Cr + 3e → Cr -0,74
++ -
Fe + 2e → Fe -0,44
Cd++ + 2e- → Cd -0,403
++ -
Co + 2e → Co -0,277
++ -
Ni + 2e → Ni -0,25
++ -
Sn + 2e → Sn -0,136
++ -
Pb + 2e → Pb -0,126
2 H+ + 2e- → H2 0,000
++ -
Cu + 2e → Cu +0,337
- -
O2 + 4e + 2 H2O → 4 OH +0,401
+ -
Cu + e → Cu +0,521
- -
I2 + 2e → 2I +0,536
Hg++ + 2e- → 2 Hg +0,789
Ox + ne- → Red E°
+ -
Ag + e → Ag +0,799
+++ -
Rh + 3e → Rh +0,8
++ -
Pd + 2e → Pd +0,987
Br2 + 2e- → 2 Br- +1,065
Cl2 + 2e- → 2 Cl- +1,359
+++ -
Au + 3e → Au +1,50
+ -
Au + e → Au +1,68
- -
F2 + 2e → 2F +2,87
Fig.27.7 Serie elettrochimica degli elementi: comprende quasi tutti gli elementi più comuni
nei loro stati di ossidazione più abituali. La freccia indicata non è doppia (benché le reazioni
siano sempre possibili anche in senso contrario) poiché consideriamo sempre la reazione di
riduzione.
Ma sono stati determinati gli E° per moltissimi altri sistemi redox, che non coinvolgono
direttamente gli elementi allo stato di ossidazione 0. Nella tabella successiva ne vengono
riportati alcuni.
Ox + ne- → Red E°
2 SO3-- + 2 H2O + 2e -
→ S2O4-- + 4 OH -
-1,12
SO4-- + H2O + 2e -
→ SO3-- + 2 OH- -0,93
+++
Cr + e- → Cr++
-0,41
2 SO4-- + 4H +
+ 2e -
→ S2O6-- + 2 H2O -0,22
CrO4-- + 4 H2O + 3e -
→ Cr(OH)3 + 5 OH -
-0,13
S4O6-- + 2e -
→ 2 S2O3-- +0,08
++++ - ++
Sn + 2e → Sn +0,154
Cu++ + e- → Cu+ +0,153
SO4-- + 4H +
+ 2e -
→ H2SO3 + H2O +0,17
Fe(CN)6--- + e-
→ Fe(CN)6---- +0,36
MnO4- + e-
→ MnO4-- +0,564
MnO4-- + 2 H2O + 2e -
→ MnO2 + 4 OH -
+0,60
O2 + 2 H+ + 2e- → H2O2 +0,682
+++ - ++
Fe + e → Fe +0,771
++ -
2 Hg + 2e → Hg2++ +0,920
NO3- + 4H +
+ 3e -
→ NO + 2 H2O +0,96
+ - ++
MnO2 + 4H + 2e → Mn + 2 H2O +1,23
Tl+++ + 2e- → Tl+ +1,25
Cr2O7-- + 14 H+ + 6e- → 2 Cr+++ + 7 H2O +1,33
MnO4- + 8H +
+ 5e -
→ Mn ++
+ 4 H2O +1,51
MnO4- + 4H +
+ 3e -
→ MnO2 + 2 H2O +1,695
+++
Co + e- → Co++ +1,842
S2O8-- + 2e- → 2 SO4-- +2,01
Fig.27.8 Scala dei potenziali normali per una serie di reazioni abbastanza comuni.
Mano a mano che aumenta E°, aumenta la capacità ossidante del sistema che, se in condizioni
standard, potrà ossidare tutti i sistemi con E° inferiore, se in condizioni standard anch'essi.
Se il sistema, come succede quasi sempre, non è in condizioni standard, occorre calcolare il
potenziale effettivo dei sistemi in gioco utilizzando la relazione di Nernst per sapere quale
dei due elettrodi sia il più ossidante (cioè con potenziale più alto).
Dagli E° è possibile risalire alla K di equilibrio della reazione chimica totale che avviene nella
pila.
Infatti, per la reazione generica
aA + bB cC + dD
Per una pila reversibile (cioè con intensità di corrente erogata tendente a zero), il lavoro
elettrico compiuto è
-∆G che è uguale a E (in cui E è la differenza di potenziale, ddp) per la carica passata (cioè
nF).
Stiamo parlando, da un po' di tempo, di "misure di fem di una pila"; ma come si può
determinare la fem di una pila?
Innanzitutto occorre operare in condizioni di reversibilità termodinamica, cioè senza
passaggio di corrente (altrimenti variano le concentrazioni e, di conseguenza, gli E) e senza
allontanarsi troppo dalle condizioni di equilibrio (∆G=0), altrimenti la relazione di Nernst non è
più valida.
Col potenziometro si bilancia la fem incognita con una fem nota, in modo che non passi
corrente; il metodo è detto metodo di opposizione o di Poggendorf. Quando, variando la
resistenza R e in base alla relazione V =R i, (differenza di potenziale V uguale al prodotto della
resistenza R per l'intensità della corrente i) si è tarato il reocordo AO in modo da conoscere la
ddp tra i due estremi A e O, il puntatore P del reostato individua in ogni momento una ddp
proporzionale alla lunghezza del tratto AP, lunghezza che chiameremo lAP.
∆E/°C(4x10-5Volt/°C)
EW = 1,01864 V
Catodo Anodo
In una cella galvanica il catodo (+) è quello costituito dal sistema a potenziale più alto, perciò
più ossidante; al catodo si avrà perciò riduzione: la sottrazione di elettroni dall'elettrodo lo
rende positivo; all'anodo invece si avrà ossidazione: gli elettroni lasciati sull'elettrodo lo
rendono negativo.
E' ovvio però che un semielemento potrà comportarsi da catodo o da anodo a seconda del
semielemento che gli viene accoppiato.
Se abbiamo a disposizione per esempio i tre semielementi
Per convenzione si mette a destra sempre quello con E più elevato, così che quando si fa la
differenza (ddp) essa sia sempre positiva.
Si nota che, mentre il semielemento Zn++/Zn, che possiede E° più basso, funziona, in questi
esempi, sempre da anodo, il semielemento Cu++/Cu funge da catodo nel primo caso e da
anodo nel terzo.
Se la differenza fosse negativa, occorrerebbe invertire le posizioni, in modo che sia sempre
l'anodo a sinistra e il catodo a destra.
Sia nella cella elettrolitica sia nella galvanica, i cationi si muovono sempre dall'anodo verso il
catodo, gli anioni viceversa, o per reagire sull'elettrodo o, quantomeno, per equilibrare la
densità di cariche positive e negative nella soluzione.
Si possono costruire celle galvaniche anche con due semielementi che differiscono tra loro solo
per la concentrazione della soluzione: sono dette pile a concentrazione.
(Notare anche la simbologia che si usa nel descrivere graficamente una pila: il simbolo / indica
una interfaccia, generalmente metallo/soluzione; il simbolo // indica la separazione tra due
soluzioni e corrisponde, praticamente, al ponte salino; tra parentesi la concentrazione dello
ione nella soluzione).
Zn / Zn++(0,001 M) // Zn++(1 M) / Zn
La fem non dipende da E° né, perciò, dal sistema scelto, ma solo dal rapporto delle
concentrazioni.
Nella reazione totale, che si ottiene sommando membro a membro le due precedenti
(operativamente corrisponde all'utilizzo della energia elettrica erogata, perciò alla scarica
progressiva della batteria), diminuisce la [H2SO4], perciò anche la densità del liquido; ciò
permette di controllare facilmente lo stato di carica della batteria mediante un semplice
picnometro (operazione che esegue l'elettrauto quando controlla lo stato di carica della batteria
dell'auto). La reazione totale è:
Il vantaggio di queste batterie (nonostante il peso elevato) è che sono ricaricabili, cioè
reversibili, ed hanno una lunga durata: applicando una sorgente di energia esterna (dinamo o
alternatore) in senso opposto, si può invertire la reazione, operando cioè una elettrolisi:
In effetti è corretto, dato che la batteria è reversibile, scrivere la reazione totale, così:
Altre celle usate comunemente, anche per la loro economicità, sono quelle dette pile a secco,
anche se non sono veramente "a secco", ma contengono l'elettrolita in un sistema gelatinoso.
La più comune è la pila zinco-carbonio
La pila alcalina, che ha capacità maggiore ed eroga una ddp di 1.54 V, lavora in ambiente
basico; le reazioni sono:
Ci sono poi pile miniaturizzate di vario tipo, ma con una struttura fisica come quella
schematizzata nella figura seguente:
Simile alla precedente è la pila a ossido d'argento, piuttosto costosa, le cui reazioni sono:
Il punto triplo T è caratterizzato da una unica coppia di valori per p e per t: 4,58 mm Hg e
0,01°C.
Esso non coincide col punto di fusione (p 760 mmHg; t 0,00°C), poiché questa avviene in
presenza di una p esterna, esercitata dall'aria, come evidenziato nel diagramma.
La curva TA rappresenta così la variazione del punto di fusione sotto l'effetto di una p esterna.
Ovviamente, sopra al punto critico (temperatura critica 374°C, pressione critica 218
atm) non può esistere equilibrio liquido-vapore L-V, poiché l'acqua esiste solo allo stato
vapore.
L'inclinazione di TA verso sinistra, al crescere della pressione, fa capire che, se aumento la p su
ghiaccio a 0°C, questo fonde (questo fenomeno viene sfruttato, per esempio, nel pattinaggio
sul ghiaccio: la pressione esercitata dalle lame del pattino provocano una fusione superficiale
del ghiaccio: il velo d'acqua liquida permette un più facile scorrimento della lama sul ghiaccio;
quando la pressione torna al livello normale, il velo di acqua solidifica nuovamente).
Esaminiamo il diagramma con la regola delle fasi:
Fig.28.3 Analisi del diagramma di stato dell'acqua mediante la regola delle fasi
Possiamo cioè cambiare sia pressione sia temperatura (entro certi limiti) senza che, nel
sistema, cambi il numero delle fasi, nel bivariante; una sola delle variabili nel monovariante
(determinata una variabile, l'altra è condizionata); non possiamo cambiarne alcuna delle due
nell'invariante (altrimenti si esce dalle condizioni del punto triplo).
Se scaldiamo CO2 solida (ghiaccio secco) a p ambiente (1 atm), essa sublima senza passare
allo stato liquido: infatti l'equilibrio liquido-solido esiste solo per p > 5,2 atm.
Alcuni sistemi monocomponente sono però più complessi, come succede per lo zolfo, S
S, allo stato solido, esiste, in natura, in due forme cristalline allotropiche (che si trasformano
l'una nell'altra in base alle condizioni ambientali): la forma a, rombica, è stabile fino a 95,5°C;
la b, monoclina, da 95,5° a 119°C, che è la T di fusione. Quando t=95,5°C, S passa dalla
forma a alla b, mentre la temperatura resta costante durante tutta la trasformazione.
Raffreddando lentamente S liquido si hanno i processi inversi (enantiotropia); poiché però le
trasformazioni in fase solida sono lentissime, se raffreddiamo velocemente S liquido, questo
cristallizza a 113°C nella forma b instabile, che lentamente si trasforma in a. Analogamente,
se scaldiamo velocemente Sa, questo fonde a 113°C, senza passare dalla forma b (punto H).
Sopra al punto F, Sa fonde direttamente, senza passare per la forma b: perciò il polimorfismo
di S non esiste a p>1290 atm.
La regola delle fasi è utilizzabile in modo analogo al caso dell'acqua. Non è possibile la
coesistenza delle 4 fasi (avremmo v=-1).
Passiamo ai sistemi a due componenti; possono essere di diversi tipi, che possiamo
considerare "soluzioni" (non sono ovviamente indicate più volte quelle dello stesso tipo: per
esempio S + L, dato che esiste la L + S, ecc.)
Fig.28.7 Schema dei possibili accoppiamenti di fasi diverse nella formazione di una
"soluzione", e suo stato fisico possibile.
Le più comuni sono quelle in fase liquida, in cui si considera un "solvente" e un "soluto";
quest'ultimo può essere volatile (L + G, oppure L + L) o non volatile (L + S).
Consideriamo una soluzione di due componenti liquidi, A e B, completamente miscibili tra loro.
T = costante
χA = frazione molare di A
χB = frazione molare di B
La pA, proporzionale alla frazione molare χA, parte ovviamente da 0 quando χA=0, e arriva a
pA° quando χA=1; pB, proporzionale a χB, va in senso opposto.
Fig.28.9 John Dalton (1766-1844), uno dei
padri della chimica
In effetti anche questa è una legge ideale, valida per soluzioni in cui le molecole dei due
componenti interagiscono tra loro come le molecole della stessa specie; cioè quando le
interazioni A-A = B-B = A-B
In realtà possiamo avere deviazioni positive (esempio I), quando le attrazioni A-B sono
minori delle A-A e delle B-B: in tal caso, infatti, le molecole possono liberarsi più facilmente,
creando perciò una p maggiore.
Oppure, benché più raramente, deviazioni negative (esempio II), corrispondenti ad
attrazioni A-B maggiori sia delle A-A sia delle B-B.
Fig.28.10 Diagrammi isotermi liquido-vapore L-V per sistemi reali, con deviazioni
positive (es. etere e acetone) e negative (es. acido acetico e piridina) rispetto all'ideale.
In ascissa la frazione molare di B; in ordinata la tensione di vapore p.
In nero la tensione di vapore ideale dei due componenti A e B.
In verde la tensione di vapore reale dei componenti A e B, con le rispettive deviazioni.
In rosso la curva risultante dalla somma dei contributi reali dei due componenti,
corripondente alla tensione di vapore reale della soluzione di A e B.
In generale, il vapore in equilibrio con una miscela binaria di due liquidi volatili, è più ricca nel
componente più volatile: questa è detta regola di Konowaloff.
Fig.28.11 Diagramma L-V isotermo per un sistema bicomponente reale.
Cerchiamo di capire che cosa succede se, partendo da una soluzione (A+B) di composizione c1,
diminuiamo la pressione del sistema, mantenendo la temperatura costante (consideriamo
perciò un diagramma isotermo):
In alcuni casi accade che alcune miscele di liquidi, di composizione definita, distillino
completamente ad una temperatura costante, come se fossero liquidi puri: queste miscele si
chiamano miscele azeòtrope.
Se ne deduce che è impossibile ottenere comunque EtOH puro per distillazione di miscele
EtOH/H2O a pressione atmosferica, ma anche a p diverse; per poter ottenere EtOH puro
occorre "rompere" l'azeotropo aggiungendo un altro componente che faccia, con H2O, un
azeotropo a T di ebollizione più basso (come il benzene).
Molte coppie di sostanze danno miscele azeotropiche (e molte danno anche azeotropi ternari).
Fig.28.16 Esempi di coppie di sostanze che danno miscele azeotrope; punti di ebollizione delle
sostanze pure e degli azeotropi a 760 mmHg; percentuale del componente A nella miscela
azeotropa.
v=2+2-3=1
v=2+2-2=2
[gas] = K pgas
La solubilità di un gas in un solvente con cui non reagisce, ad una data T, è proporzionale alla
pressione parziale del gas sopra la soluzione.
In generale la solubilità dei gas nei liquidi diminuisce con l'aumentare della temperatura.
29 - Le proprietà colligative
Parlando di soluzioni binarie solido-liquido, possiamo introdurre le proprietà colligative delle
soluzioni, proprietà che ci permettono di risolvere un problema importantissimo, quello della
determinazione sperimentale del peso molecolare.
Determinare il peso molecolare di una sostanza è una delle fasi fondamentali per conoscerne le
caratteristiche chimico-fisiche (benché spesso anche questo non sia sufficiente); è infatti
essenziale conoscere almeno la formula molecolare di un composto.
Fino all'avvento dello spettrometro di massa (strumento comunque molto sofisticato e
costoso) gli unici metodi per farlo si basavano sulle proprietà colligative, cioè su proprietà delle
soluzioni che dipendono solo dal numero di particelle di soluto e non dalla loro natura.
Sappiamo dalla legge di Raoult (pi = χi pi°) che, in una soluzione di un soluto non volatile, la
tensione di vapore pi è proporzionale alla ci e alla tensione di vapore del solvente puro pi°.
E' chiaro perciò che la p dipende dalla natura del solvente (pi°) ma non da quella del soluto:
per il soluto, infatti, conta solo il numero di moli
χsoluto = 1 - χsolvente
Possiamo esprimere questa relazione dicendo che "l'abbassamento relativo della tensione di
vapore di una soluzione è numericamente uguale alla frazione molare del soluto".
La relazione è valida per soluzioni diluite: solo in questo caso sono trascurabili le deviazioni cui
è soggetta la legge di Raoult con soluzioni reali.
Le variazioni del punto di fusione e del punto di ebollizione seguono due leggi analoghe
∆Tf = T2-T1 = Kf m ∆Te = T4-T3 = Ke m
in cui:
∆Tf = abbassamento crioscopico
∆Te = innalzamento ebullioscopico
Kf = costante crioscopica molale
Ke = costante ebullioscopica molale
m = molalità della soluzione, definita come il numero di moli di soluto ogni 1000 grammi di
solvente puro.
Se in una soluzione esistono più soluti poco volatili, la molalità si ottiene sommando le molalità
dei singoli soluti.
Se uno dei soluti si dissocia (o, più raramente, si associa), occorre tenere presente che, poiché
quello che conta è il numero di particelle, occorrerà valutare, nella molalità, anche il
contributo dovuto a questi fenomeni.
Il valore numerico delle costanti K, per i vari solventi, è diverso e dipende dalla natura del
solvente stesso.
La scelta del solvente è perciò molto importante per ottenere variazioni misurabili dei
punti di ebollizione e di fusione; infatti, quanto più alta è la costante, tanto più alto sarà
l'effetto, a parità di molalità; purtroppo non sempre è possibile scegliere il solvente con K
elevata, perché potrebbe essere, per un dato soluto, poco adatto come solvente.
Fig.29.2 Costanti crioscopiche ed ebullioscopiche per i solventi più comunemente usati nelle determinazione del
peso molecolare e relative temperature di fusione e di ebollizione.
Le relazioni ebullioscopica e crioscopica sono valide rigorosamente solo per soluzioni diluite
(che obbediscano, cioè, alla legge di Raoult); è ovvia perciò la necessità di termometri ad
altissima precisione, visto che le K sono molali e rappresentano il ∆T per una molalità m = 1!
Tanto per fare un esempio, se il soluto avesse un peso molecolare uguale a 1000, per avere
una soluzione con molalità m = 1 (per poter misurare cioè un ∆T uguale alla K), occorrerebbe
scioglierne 1000 g in 1000 g di solvente puro! Se poi si tratta di molecole di interesse
biologico, come le proteine, si pensi che queste possono raggiungere facilmente pesi molecolari
superiori a 100.000!
Queste proprietà si possono considerare come dovute alla difficoltà del soluto a passare dalla
fase soluzione ad un'altra fase in quelle condizioni.
Questo concetto di "difficoltà" compare anche in un'altra proprietà colligativa, la pressione
osmotica P.
Fig.29.3 Schema che rappresenta il fenomeno
della pressione osmotica.
La soluzione (a sinistra, di colore più intenso) e il
solvente puro (a destra) sono separati da una
membrana semipermeabile M, che lascia
passare le molecole di solvente, ma non quelle
del soluto.
All'inizio il livello dei liquidi nei due vasi A e B è lo
stesso; dopo un certo tempo il livello di A si
stabilizza ad h = hA, in B ad h = hB.
Il dislivello Dh = hA - hB corrisponde ad una
pressione idrostatica che è eguale alla pressione
osmotica P (pi greco) della soluzione. La
relazione è
P=cRT
In cui c è la concentrazione della soluzione, R è
la costante universale dei gas, e T è la
temperatura assoluta.
Le proprietà osmotiche sono importanti nei fenomeni biologici: tutte le cellule sono
circoscritte da membrane semipermeabili, attraverso le quali passano molecole o ioni piccoli,
ma non le proteine.
Alcune membrane biologiche sono estremamente selettive, tanto da poter discriminare, per
esempio, tra ioni Na+ (0,97 Å) e ioni K+ (1,33 Å).
Sono ovviamente importanti anche nel campo medico: per esempio, quando si effettua una
fleboclisi (immissione di soluzioni nutritive o medicinali nel sangue), è necessario che la
soluzione sia isotonica (cioè con la stessa P) con quella del sangue; se essa fosse ipotonica
(minore P per la soluzione), il solvente tenderebbe a penetrare nelle cellule fino anche alla
rottura della membrana; se invece fosse ipertonica (P maggiore), il solvente uscirebbe dalle
cellule, facendole raggrinzire e contrarre fino ad impedirne l'attività.
H Ac H+ + Ac-
n = (n0 - n0 a) + 2 n0 a = n0 (1 + a)
e, in generale,
n = (n0 - n0 a) + n n0 a = n0 (1 - a + n a) = n0 [1 + (n - 1) a]
Nel caso di misure ebullioscopiche o crisocopiche i ∆T saranno perciò maggiori del previsto:
∆T = K m [1 + (n - 1) a]
Per la stessa ragione, in caso di misure della pressione osmotica occorrerà tenere conto
dell'aumento del numero di particelle effettive.
Per alcuni soluti è possibile che ci sia associazione, con una conseguente diminuzione del
numero di particelle, perciò della molalità; il fenomeno si presenta spesso quando un soluto
polare (come un acido organico), se sciolto in solvente apolare, può dare luogo a legami di
idrogeno intermolecolari.
Da misure relative alle proprietà colligative delle soluzioni è possibile perciò determinare:
• peso molecolare del soluto
• grado di dissociazione o di associazione di un acido
I metodi di misura legati alle proprietà colligative sono delicati nell'attuazione e nel rilevamento
dei dati sperimentali; ma il problema è meno drammatico di quanto sembri: infatti, quando si
vuole determinare il peso molecolare di una sostanza, di cui si conosca, ovviamente, la formula
minima, basterà sapere che rapporto c'è tra la formula molecolare e la formula minima e
questo può essere solo un multiplo intero; non occorre perciò avere il valore preciso del peso
molecolare
30 - Gli equilibri solido-liquido
Gli equilibri tra sistemi in fasi condensate sono importanti in particolare nello studio delle
leghe metalliche e della cristallizzazione frazionata, tecnica molto usata dai chimici per
purificare le sostanze.
Vediamo dapprima il caso di un sistema binario A-B in cui A e B sono immiscibili allo stato
solido, dato che si tratta di un caso abbastanza comune.
Partiamo da un liquido di composizione χ1
Alcune miscele eutettiche acqua/sale vengono usate come miscele frigorifere per la loro
proprietà di congelare a T costante (cioè a T = TE)
Per esempio CaCl2, che ha una TE molto bassa, viene usato correntemente per evitare la
formazione di ghiaccio sulle strade o per scioglierlo, abbassandone la T di fusione (il suo uso
abituale è dovuto anche al suo basso costo di produzione).
perciò v=2+2-3=1
le tre fasi possono coesistere solo a T = TE (-21,3°C) dato che la p è già fissata.
Allora, o la T ambiente arriva ad assumere il valore TE, oppure deve scomparire una delle fasi,
in modo che il sistema riacquisti un ulteriore grado di libertà: il ghiaccio fonde e scioglie NaCl;
poiché la fusione è un processo endotermico (come pure, di solito, la dissoluzione) la T
ambiente diminuisce.
Se le quantità di sale e di ghiaccio sono sufficienti, il ghiaccio fonde fino a che T = TE. A questo
punto le condizioni di equilibrio sono soddisfatte: il sistema resta a questa T finché non ha
sottratto all'ambiente abbastanza calore da fondere tutto il ghiaccio o da sciogliere tutto il sale;
solo allora, dato che scompare una delle fasi solide, il sistema può variare la sua T, che
tenderà ad assumere, in un certo tempo, il valore della T ambiente.
Oltre a questo esempio di sistemi con eutettico, molti altri ne esistono, in particolare tra le
leghe metalliche: sono sistemi con eutettico, per esempio, le coppie Pb/Ag, Si/Al, Bi/Cd, Pb/Sb,
Bi/Cu, Si/Au, oppure altri sistemi come KCl/AgCl, C6H6/CH3Cl etc.
In altri casi, come nelle leghe Al/Mg, Au/Sn, Zn/Mg e altre, si può formare un composto
intermetallico AmBn, con punto di fusione definito.
Per esempio, tra Al e Mg si forma Al3Mg4, che fonde alla temperatura di 463°C.
Fig.30.3 Diagramma isobaro di stato di
una lega binaria con formazione di
composto intermetallico di
composizione AmBn.
Un altro caso si ha quando un solido ha due forme cristalline enantiòtrope (che possono, cioè,
trasformarsi reversibilmente l'una nell'altra a seconda della temperatura) che possiamo
chiamare a e b.
Questo comporta un punto di transizione G tra le due forme cristalline.
Fig.30.4 Diagramma di stato per un sistema con un punto di transizione tra due forme
cristalline della specie B.
La cristallizzazione inizia a T = T1, con la separazione della fase B(a); la composizione del
liquido si sposta lungo la curva TBG; al punto di transizione G, perché T possa diminuire, è
necessario che la forma a diventi b, poiché, a T<TG essa non è più stabile.
Inoltre, per la regola delle fasi, non possono coesistere 3 fasi (liquido, a,b) se non al punto G
che, essendo p=cost., è invariante.
Procedendo nel raffreddamento, il sistema è perfettamente analogo a quello con eutettico E.
All'interno della lente (in cui i punti si smistano in una fase liquida in
equilibrio con una fase solida), quando cioè sono presenti due fasi, il
sistema è bivariante (v = 2 + 2 - 2), ma dato che la p è definita, ad
ogni composizione corrisponde una sola T; questo perché la fase
solida è una sola (si tratta di una "soluzione" solida e non di una
"miscela" dei due solidi).
Si formano dei cristalli misti.
Il liquido di composizione C1 inizia a separare cristalli di
composizione C2; la T continua a scendere, con un continuo
adeguamento della fase solida alla composizione che deve essere in
equilibrio con il liquido corrispondente. Quando si giunge a T2
solidifica l'ultima frazione di liquido, di composizione C3; la fase
solida ha ora la composizione C1.
La composizione dei cristalli misti varia continuamente e il sistema resta in equilibrio solo se il
raffreddamento è lento. Se non lo è sufficientemente, otterremo dei cristalli zonati.
Sistemi invece come Zn/Cd, Bi/Pb, Sn/Cd, Cr/Fe, Au/Ni, presentano una solubilità parziale
allo stato solido.
I punti D', E', F', G' sono le proiezioni di TD, TE, TF, TG, sul piano ABC, che, essendo
perpendicolare all'asse del prisma, è isotermo; qualsiasi piano ad esso parallelo rappresenta
perciò una sezione del prisma che individua una situazione isoterma.
Più interessanti sono le sezioni isoterme che intersecano la zona di esistenza delle curve di
equilibrio ternario solido-liquido, per esempio a T > TG, ma di poco superiore:
Se la temperatura è invece un po' più alta, per esempio T = TD, ci troviamo esattamente alla
temperatura dell'eutettico tra A e B:
Abbiamo visto così come sia possibile interpretare un diagramma di stato tridimensionale
piuttosto complesso fissando uno dei parametri:
se fissiamo la temperatura (se cioè utilizziamo sezioni perpendicolari all'asse del prisma)
possiamo analizzare il comportamento del sistema ternario a quella temperatura;
se invece poniamo che la concentrazione di uno dei componenti sia nulla, esaminiamo una
delle facce del prisma: per esempio, se poniamo che non ci sia C, utilizzeremo la faccia TA A B
TB, che rappresenta semplicemente il diagramma di stato con eutettico del sistema A-B.