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LJÓÐA EDDA
VǪLUSPÁ
LA PROFEZIA DELLA VEGGENTE
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Ljóða Edda. Edda poetica o antica
► Vǫluspá. La profezia della Veggente
Hávamál. Il discorso di Hár Schema
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Skírnismál. Il discorso di Skírnir Note
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Baldrs draumar. I sogni di Baldr
Grottasǫngr. La canzone del Grotti
Svipdagsmál. Il discorso di Svipdagr
LJÓÐA EDDA
VǪLUSPÁ
LA PROFEZIA DELLA VEGGENTE
Il poema
Le redazioni
L'esegesi
Genere e metrica
Edizioni italiane
Il poema
La Vǫluspá è il gioiello della Ljóða Edda, il primo dei due
monologhi che aprono il grande canzoniere. Opera di un
poeta islandese di vigoroso talento, ancorché pagano,
La vǫlva (✍ 1893)
Carl Larsson (1853-1919)
Illustrazione (Sanders 1893)
Le redazioni
La Vǫluspá è giunta a noi conser vata in due manoscritti: il Codex Regius [R] (XIII sec.), che è il manoscritto più
importante della Ljóða Edda, e l'Hauksbók [H] di Hauk Erlendsson (prima metà del XIV secolo). Le due versioni
divergono in alcuni dettagli e nell'organizzazione delle strofe (62 contro 59). Terza importante fonte della Vǫluspá è la
Prose Edda, che Snorri scrisse ispirandosi in buona parte al poema, riportando integralmente 30 strofe e citandone
indirettamente altre 16; anche qui vi sono delle interessantissime varianti. Sembra che Snorri avesse sottomano una
versione della Vǫluspá più precisa di quelle a nostra disposizione, ragion per cui le varianti del testo che egli fornisce
sono preziosissime.
L'esegesi
Detto questo, bisogna doverosamente aggiungere che la Vǫluspá non è un testo di semplice approccio. La comprensione
è resa ardua dal fatto che le varie scene non vengono narrate, ma piuttosto evocate, e sempre con accenni rapidi ed
ermetici. Se la Vǫluspá non ci è completamente oscura è soltanto grazie alla Prose Edda di Snorri Sturluson, che col suo
racconto preciso e dettagliato ci rende chiari molti passaggi che altrimenti sarebbero stati incomprensibili. Infatti, quelle
strofe della Vǫluspá per cui non abbiamo riferimenti rimangono in buona parte enigmatiche.
La Vǫluspá presenta una lunga serie di passi problematici, su cui sono state proposte infinite congetture e
interpretazioni. Si ha l'impressione, probabilmente esatta, che la Vǫluspá sia in molti passi «corrotta» (per usare un
aggettivo caro ai filologi dell'Ottocento). Tali corruttele sono però più facili da individuare che da emendare, ragione per
cui molte delle «letture» che si sono succedute in oltre un secolo di critica filologica sono il risultato delle interpretazioni
personali dei vari autori e non sono necessariamente aderenti alle effettive intenzioni del testo. La critica moderna è molto
più cauta nell'emendare, integrare, spostare i passi più problematici. Nella sezione antologica, abbiamo segnato, nelle
note al testo, soltanto alcuni dei punti più delicati del lavoro filologico. D'altra parte, dar conto puntualmente di ogni
difficoltà di lettura avrebbe richiesto un apparato critico molto più ingombrante e complicato, ben al di là delle nostre
possibilità e capacità.
Genere e metrica
Il metro della Vǫluspá è il fornyrðislag o «metro epico», il più comune della poesia nordica. Ogni strofa è composta da
quattro «versi pieni», ciascuno costituito a sua volta di due semiversi. In questa pagina, per ragioni grafiche, i «versi
lunghi» sono stati spezzati e i due semiversi posti su righe differenti; in altre parole, le singole strofe, originariamente
formate di quattro versi, appaiono qui disposte su otto righe, ciascuna corrispondente a un semiverso. Ecco, per
confronto, la versificazione rigorosa della strofa [1]:
Edizioni italiane
Diverse sono state le traduzioni italiane della Vǫluspá che si sono succedute nel corso degli anni. Escludendo le strofe
scorporate presenti nelle antologie, o quelle citate da Snorri e presenti nelle traduzioni della Prose Edda, la prima
traduzione integrale – a nostra conoscenza – è quella presente nel libro I canti dell'Edda, a cura di Olga Gogala di
Leesthal, pubblicato nella collana «I grandi scrittori stranieri» dalla UTET (Torino 1939). Intitolata Voluspa, è una
traduzione metrica in quartine (o sestine) di endecasillabi, dal tono quasi classicheggiante, ma suggestivo; sebbene non
possa essere considerata una traduzione letterale, è sorretta da un buon corredo di note.
Seg ue la traduzione di Alberto Mastrelli, nel libro L'Edda. Carmi norreni, nella collana «Classici della religione», edita
da Sansoni (Firenze 1951, 1982). Intitolata Volospa. La predizione dell'indovina, è in versi liberi, con le coppie di
semiversi «cucite» in versi interi, Abbastanza libera, ma rigorosa, fittamente annotata.
Un'altra traduzione, con il titolo direttamente tradotto in Profezia della Veggente, è quella fornita da Piergiuseppe
Scardigli e Marcello Meli, nell'antologia Il canzoniere eddico, edito da Garzanti (Milano 1982). Di nuovo versi liberi,
sebbene i semiversi siano finalmente evidenziati, presenta un corredo di note ridotto al minimo e non giustifica molte
scelte, non sempre felici, nella traduzione.
Dell'anno successivo, la traduzione fornita dall'antropologo Mario Polia, nell'edizione monografica Völuspá. I detti di
colei che vede, edita dall'editrice Il Cerchio (Rimini 1983). Finalmente abbiamo il testo originale norreno a fronte della
traduzione, e ogni singola strofa viene fatta seg uire da un commento più o meno ampio. La versificazione è libera, e le
semistrofe sono riportate in a capo come fossero strofe intere. I commenti risentono, sebbene in misura estremamente
controllata, delle interpretazioni esoteriche dell'autore.
L'edizione monografica definitiva viene alla luce soltanto negli ultimi anni, con il titolo Vǫluspá. Un'apocalisse norrena,
tradotta da Marcello Meli per la prestigiosa «Biblioteca Medievale» della Carocci (Roma 2008). Letterale e rigorosa,
Ricordiamo infine, a titolo di curiosità, la libera traduzione in senari condotta da Claudia Maschio e Dario Giansanti per
il loro romanzo-saggio Viaggio irreale nella Scandinavia vichinga, recentemente edito da QuiEdit (Verona 2011),
liberamente scaricabile a questo link:
LJÓÐA EDDA
VǪLUSPÁ
LA PROFEZIA DELLA VEGGENTE
VǪLUSPÁ LA PROFEZIA
DELLA VEGGENTE
Richiesta di ascolto
1 Hljóðs biðk allar Ascolto io chiedo a tutte
helgar kindir, le sacre stirpi,
meiri ok minni maggiori e minori
mǫgu Heimdallar; figli di Heimdallr.
Ymir
2 Ek man jǫtna Ricordo i giganti
ár of borna, nati in principio,
þás forðum mik quelli che un tempo
fædda hǫfðu; mi generarono.
níu mank heima, Nove mondi ricordo
níu íviði, nove sostegni
mjǫtvið mæran e l'albero misuratore, eccelso,
fyr mold neðan. che penetra la terra.
Le Norne
19 Ask veitk standa, So che un frassino s'erge
heitir Yggdrasill chiamato Yggdrasill,
hár baðmr, ausinn alto albero asperso
hvíta auri; di bianca argilla.
þaðan koma dǫggvar Di là viene la rugiada
þærs í dala falla; che cade nella valle,
stendr æ of grænn si erge sempre verde
Urðar brunni. su Urðarbrunnr.
La fonte della
sapienza
27 Veit hon Heimdallar Sa lei di Heimdallr
hljóð of folgit il fragore celato
und heiðvǫnum sotto il sacro albero
helgum baðmi; av vezzo all'aria tersa del cielo.
á sér hon ausask Su quello ella vede riversarsi
aurgum forsi uno scrosciare d'acque argillose
af veði Valfǫðrs. dal pegno pagato da Valfǫðr.
Vituð ér enn eða hvat? Volete saperne ancora?
Óðinn e la Veggente
28 Ein sat hon úti, Sola sedeva di fuori
þás enn aldni kom quando il vecchio giunse
yggjungr ása Yggjungr degli Æsir
ok í augu leit. e la fissò negli occhi.
“Hvers fregnið mik? “Che cosa mi chiedete?
hví freistið mín? Perché mi mettete alla prova?
Alt veitk, Óðinn, Tutto so io, Óðinn,
hvar auga falt dove un occhio celasti
í enum mæra là, nella famosa
Mímis brunni” Mímisbrunnr!”
drekkr mjǫð Mímir Beve Mímir l'idromele
Le valchirie
30 Sá hon valkyrjur Vide, lei, le Valkyrjur
vítt of komnar, venire da lontano,
gǫrvar at ríða pronte a cavalcare
til Goðþjóðar. verso il popolo dei Goti.
Skuld helt skildi, Skuld teneva lo scudo,
en Skǫgul ǫnnur, seconda era Skǫg ul,
Gunnr, Hildr, Gǫndul Gunnr, Hildr, Gǫndul
ok Geirskǫgul; e Geirskǫg ul.
nú eru talðar Ora ho elencato
nǫnnur Herjans, le fanciulle di Herjan,
gǫrvar at ríða pronte a cavalcare
grund valkyrjur. la terra, le Valkyrjur.
L'uccisione di Baldr
31 Ek sá Baldri, Io vidi per Baldr
blóðgum tívur, un sacrificio di sang ue;
Óðins barni, per il figlio di Óðinn
ørlǫg folgin; il celato destino.
stóð of vaxinn Ritto cresceva
vǫllum hæri alto sui campi
mær ok mjǫk fagr esile e molto bello
mistilteinn. un ramoscello di vischio.
NOTE
1 ― (a) Hljóðs biðk «ascolto io chiedo», esordisce la vǫlva, con formula solenne e imperiosa, ché tra poco la grande profezia
svolgerà i fili del tempo e scioglierà i nodi del destino. È probabilmente la stessa formula che veniva utilizzata nel þing, nelle
assemblee vichinghe, per imporre il silenzio e richiamare l'attenzione dei presenti, e che riecheggia con forza l'antica formula
omerica kéklute óphr' éipō «ascoltate affinché io dica» (Polia 1983). ― (d) L'espressione «figli di Heimdallr» per indicare le
«sacre stirpi» [helgar kindir] degli uomini, richiama il mito riferito nel Rígsþula dove alla discendenza di Heimdallr si
riconducono i capostipiti delle tre classi sociali. ― (e) Valfǫðr, «Padre dei caduti», è epiteto di Óðinn.
2 ― (d) Fædda hǫfðu è letteralmente «mi diedero cibo», ma forse è da intendere con «mi generarono». ― (f) Questo verso è di
ardua traduzione. Secondo l'interpretazione condivisa dalla maggior parte degli studiosi, quel níu í viði si riferirebbe appunto ai
«nove sostegni» dei mondi (cfr. viðjur «radici, travi» < viðr «bosco, legna»); non mancano però le voci dissenzienti: alcuni
pensano che la frase sia da leggere níu íviði «nove specie di creature»; Sir George W. Cox è riandato all'antico svedese inviþir e
ha interpretato, un po' fantasiosamente, «l'insieme di tutti gli esseri, del mondo dei vivi e del mondo dei morti». In tutti i casi si
tratta di una visione dell'universo riassunto nella sua stabilità e nella sua totalità (Cox 1870). ― (g) La parola mjǫtviðr è una
delle più delicate dell'intera letteratura mitologica norrena. È stata qui resa con «albero misuratore», da «albero [viðr] delle
misure [mjǫt]». Quest'ultima parola è connessa col norreno meta «misurare», da cui mjǫtuðr «giudice, governatore, dispensatore
del fato» (cfr. gotico mitan, antico alto tedesco mezzan, tedesco messen, anglosassone metan «misurare»; ma anche latino medeor
«misuro» e meditari «meditare»). S'intende probabilmente il frassino Yggdrasill come asse e impalcatura del cosmo, i cui rami e
radici formano gli assi [viðjur] che reggono i mondi e ne misurano il tempo [SAGGIO].
3 ― Questa strofa della Vǫluspá possono essere agevolmente messa a confronto con alcuni versi del Wessobrunner Gebet, la
«Preghiera di Wessobrunn», un testo in antico alto tedesco proveniente dall'omonimo monastero bavarese, composto intorno al
775. Un brano della preghiera così suona:
Dat gafregin ih mit firahim iriuuizzo meista. Questo appresi tra gli uomini, il sommo prodigio.
Dat ero ni uuas noh ufhimil, Che non era la terra, né il cielo in alto,
noh paum noh pereg ni uuas, non era albero, né monte,
ni [sterro] nohheinig noh sunna ni scein, né [stella] alcuna, né il sole splendeva,
noh mano ni liuhta, noh der maręo seo. né la luna brillava, né il lucente mare.
Wessobrunner Gebet
Entrambi i brani descrivono lo stato precedente la creazione in termini negativi: attestando l'originaria inesistenza degli enti e
delle sostanze che compongono il nostro universo. Si precisa dunque che in principio non esistevano né il cielo, né la terra, non
vi erano alberi, monti e mari, né splendevano il sole e la luna, e via dicendo. È in questo stadio negativo che subentra quindi la
creazione: sia essa la complessa cosmogonia pagana descritta nella Vǫluspá, o la creatio ex nihilo operata dal Dio cristiano nel
Wessobrunner Gebet. La somiglianza formale tra i due brani è impressionante. Il verso di Vǫluspá [3c-3d], «non c'era sabbia né
mare | né gelide onde» [vasa sandr né sær, | né svalar unnir], richiama il «né il lucente mare» [noh der mareo seo] di
Wessobrunner Gebet [5]. Il verso successivo [3e-3f ], «terra non si disting ueva | né cielo in alto» [jǫrð fansk æva | né
upphiminn], è vicinissimo a Wessobrunner Gebet [2] «che non era la terra, né il cielo in alto» [ero ni uuas noh ufhimil]. La
somiglianza formale dei due brani, a volte addirittura letterale (per «cielo in alto» troviamo l'identico composto ufhimil in
anticoaltotedesco e uphiminn in islandese), ha indotto gli studiosi a ipotizzare l'esistenza, in tempi remoti, di un poema
4 ― (a) La Vǫluspá non fornisce i nomi dei figli di Borr. È Snorri ad affermare che essi furono Óðinn e i suoi fratelli Vili e
Vé (Gylfaginning [6d]).
5 ― (e-j) Questi semiversi possono essere messi in relazione con la Preghiera di Wessobrunn [4-5], laddove dice: «né [stella]
alcuna, né il sole splendeva, né la luna brillava» [ni [sterro] nohheinig noh sunna ni scein, noh mano ni liuhta]. Addirittura, la
parola sterro «stella», assente nel manoscritto del Wessobrunner Gebet, è stata proposta dai filologi in base al confronto col
poema eddico. Analogamente, nel citare questa strofa, Snorri omette i primi due semiversi ma cita questi ultimi sei semiversi,
seppure invertendo l'ordine col quale vengono elencati gli ultimi due luminari: nella citazione di Snorri viene prima il sole, poi
la luna e poi le stelle (Gylfaginning [8 {10}]).
7 ― (b) Iðavǫllr: «campo del vortice, campo-torto», campo al centro di Ásgarðr dove gli dèi decisero per la prima volta
l'ordinamento del loro regno e, dunque, di tutto il mondo. Qui si riuniranno di nuovo gli Æsir soprav vissuti al ragnarǫk
all'inizio del ciclo che verrà, per stabilire il nuovo ordine cosmico. Il riferimento al «vortice», simbolo di inizio e di fine, oltre che
metafora astronomica della rotazione del cielo, insieme al fatto che Iðavǫllr sia l'unica parte di Ásgarðr che non verrà distrutta,
ne suggeriscono l'identificazione con il nord celeste o con una proiezione terrestre di esso. La stella polare è infatti il punto del
cielo che, pur cambiando posizione a causa della precessione degli equinozi, rappresenta in ogni epoca il centro della rotazione
celeste, dunque il «vortice» che emana il movimento e dà ordine al cosmo.
8 ― (f) Non è molto chiaro chi fossero le «tre fanciulle di giganti» [þríar þursa meyjar]; sicuramente corrispondono a quelle
che Snorri indica come donne «venute da Jǫtunheimr» [kómu ór Jǫtunheimum] (Gylfaginning [14b]). Non si può tuttavia dir
molto sulla loro identità. Karl Müllenhoff ritiene si tratti le tre Nornir, di cui si parla nel capitolo successivo [15] del testo di
Snorri (Müllenhoff 1908), seg uito in questo da Giorgio Dolfini, che commenta in tal senso la sua traduzione (Dolfini 1975),
ma senza una reale certezza. Si tratta del rimasuglio di un mito perduto, probabilmente non chiaro allo stesso Snorri.
9 ― (g-h) I nomi Brimir e Bláinn sembrano essere epiteti di Ymir. Questa strofa è chiusa da una doppia kenning in quanto
«sang ue di Brimir» è metafora per significare il mare, e «ossa di Bláinn» per indicare le pietre.
10 ― (e-h) Questa strofa presenta qualche problema d'interpretazione. In genere viene interpretata nel senso che gli dèi
crearono i dvergar dalla terra, ma altri ritengono che siano i dvergar stessi il soggetto della frase. Ad esempio Bugge interpreta:
«I nani fecero molti fantocci nella terra» a cui gli dèi avrebbero poi infuso il soffio vitale (Bugge 1881 | Polia 1883). Non è ben
chiaro, in questo caso, chi fossero i «fantocci» creati dai nani. Tantopiù che Snorri dà una spiegazione molto ragionevole del
passo:
Þar næst settust goðin upp í sæti sín ok réttu Poi gli dèi s'insediarono sui loro troni, si riunirono in
dóma sína ok minntust, hvaðan dvergar hǫfðu giudizio e ricordarono in che modo i dvergar avessero
kviknat í moldinni ok niðri í jǫrðunni, svá sem preso vita nel fango e sotto la terra, come i vermi nella
maðkar í holdi. Dvergarnir hǫfðu skipazt fyrst ok carne. I dvergar furono creati per primi e presero vita
tekit kviknun í holdi Ymis ok váru þá maðkar, nella carne di Ymir, dove erano come vermi, tuttavia per
en af atkvæðum goðanna urðu þeir vitandi decisione degli dèi ricevettero la conoscenza del sapere
manvits ok hǫfðu manns líki ok búa þó í jǫrðu ok umano e l'aspetto degli uomini, e abitarono nella terra e
í steinum. nelle rocce.
Non vi è motivo di dubitare che questa sia la corretta interpretazione della creazione dei dvergar, che qui appaiono, proprio in
virtù della loro origine, legati per nascita alla terra e al fango. [SAGGIO]
11 ― Le strofe [11-16] costituiscono il cosiddetto «catalogo dei nani», una composizione probabilmente indipendente inclusa
nella Vǫluspá. La versione del «catalogo» fornita dal Codex Regius [R] presenta alcune differenze, nei nomi e nell'ordine dei
dvergar, con la versione presente nell'Hauksbók [H]; l'una e l'altra presentano a loro volta altre differenze con la redazione citata
da Snorri (Gylfaginning [14 {17-20}]). Le varie redazioni discendono probabilmente da un antigrafo il quale dipendeva a sua volta
dalle þulur, antichi elenchi in versi dove si fornivano gli heiti (i nomi, gli epiteti o le definizioni poetiche) di cose, persone,
divinità o creature mitologiche. Per un'analisi dettagliata delle fonti rimandiamo alla pagina apposita [MITI]. ― (d) Dopo
Alþjófr e Dvalinn, la redazione H inserisce una serie di quattro nomi, non presenti in R [«Nár e Náinn | Nípingr, Dáinn»], i
quali appaiono però essere una duplicazione di una sequenza che H riporta alla strofa [13]. ― (e) I nomi Bívǫrr e Bávǫrr
compaiono in H e in Snorri nelle varianti grafiche Bífurr e Báforr. ― (f) Il nome Bǫmburr compare in Snorri nella variante
Bǫmbǫrr. ― (g-h) I nani Ánn, Ánarr e Ái appartengono a una serie che i vari manoscritti di Snorri presentano in maniera
piuttosto difforme; il confronto tra le varie redazioni e le þulur mostra che la serie originaria doveva essere formata dai nomi:
12 ― (b) Il nome Þráinn compare in Snorri nella variante Þróinn. ― (c) Il nome Þekkr, presente in R (e in Snorri), viene
sostituito in H da Þrár (forse, una variante del Þrór presente in [12b]).
13 ― (b) In luogo del nome Náli compare in Snorri un Váli (la confusione è sorta forse per qualche legame con la coppia
formata da Váli e Nari, figli di Loki). ― (c) Heptivili («manico di lima») appare in H scisso in due nomi distinti: Hefti e Fili
(«manico» e «lima»). Solo il secondo nome (Fili) è attestato separatamente come il nome di un nano [13a]. ― (d)
Hannarr viene sostituito in Snorri da Hárr. Invece, il nome Svíurr compare in H nella variante Svíðr e in Snorri nella variante
Svíarr. ― (e-h) Questi versi, gli unici a riportare una sequenza di otto nomi [«Nár e Náinn | Nípingr, Dáinn, | Billingr,
Brúni, | Bíldr e Búri»], sono riportati unicamente in H, mancando in R e in Snorri.― (i) Il nome Hornbori, attestato nella
redazione R, viene sostituito da Fornbogi nella redazione H.
14 ― (d) Nella parafrasi in prosa che Snorri fa di questa strofa (Gylfaginning [14f ]), si parla dei Lofarr al plurale, come
nome complessivo di questa stirpe di dvergar.
15 ― (b) Al nome Dólgþrasir, Snorri sostituisce Dólgþvari. ― (c) Al nome Hár, Snorri sostituisce Hǫrr. Ad Haugspori,
sostituisce invece Hugstari. ― (d) Il primo nome viene riportato come Hlévangr «campo riparato» in R, ma come Hlévargr
«lupo dei luoghi protetti» in H. La seconda forma sembra più ragionevole. Snorri lo sostituisce con un nome affatto diverso:
Hleðjólfr «lupo protettore». Il secondo nome compare invece nella forma Glói in R, nella forma Glóinn in H e in Snorri.― (e-
f) Questi due versi, che riportano una breve sequenza di quattro nomi, sono presenti soltanto nella redazione di Snorri [«Dóri,
Óri, | Dúfr, Andvari»], mancando nei due codici della Vǫluspá.
16 ― (a) Snorri sostituisce Yng vi con Ingi. È più probabile sia quest'ultimo il nome originario del nano, essendo Yng vi un
epiteto di Freyr, quale progenitore della stirpe degli Ynglingar. ― (c-d) Questi due semiversi, con una sequenza di quattro
nomi [«Fjalarr e Frosti | Finnr e Ginnarr»] è attestata nel codice R, ma manca in H. Anche Snorri, tuttavia, la riporta (seppur
sostituendo Fjalarr con Falr).
17 ― Le strofe [17-18] alludono alla creazione della prima coppia umana a partire da due alberi, un frassino [askr] e un olmo
[embla]. Così Snorri spiega il passo e descrive la scena:
Þá er þeir Bors synir gengu með sævarstrǫndu, Mentre i figli di Borr andavano lungo la riva del mare
fundu þeir tré tvau, ok tóku upp tréin ok skǫpuðu trovarono due alberi, li raccolsero e li mutarono in
af menn. Gaf hinn fyrsti ǫnd ok líf, annarr vit ok uomini. Il primo diede loro respiro e vita, il secondo
hrǿring, þriði ásjónu, málit ok heyrn ok sjón; gáfu ragione e movimento, il terzo aspetto, parola, udito e
þeim klæði ok nǫfn. Hét karlmaðrinn Askr en vista. Gli diedero poi vesti e nomi. Il maschio si chiamò
konan Embla, ok ólusk þaðan af mannkindin. Askr, la femmina Embla e nacque allora l'umanità.
― (b) La Vǫluspá non chiarisce quale fosse la «stirpe» [liðr] da cui i tre dèi sarebbero giunti, così come non si sa bene a quale
«casa» faccia riferimento il testo. ― (d) È stato qui suggerito di emendare at húsi «a casa» in at húmi «al mare», interpretando la
scena come se si svolgesse sulla riva del mare. La correzione è giustificata dal fatto che Snorri afferma che gli dèi andavano
«lungo la riva del mare» [með sævarstrǫndu] quando trovarono i due tronchi destinati a essere trasformati nella prima coppia
umana.
18 ― (e-g) Mentre la Vǫluspá attribuisce la creazione degli uomini alla triade Óðinn ~ Hǿnir ~ Lóðurr, Snorri afferma che a
compiere l'opera fossero stati in realtà «i figli di Bórr» (Gylfaginning [9b]). Tuttavia lo stesso Snorri aveva precedentemente
affermato che i figli di Bórr fossero Óðinn ~ Vili ~ Vé (Gylfaginning [6d]) e alla loro opera aveva attribuito l'uccisione di Ymir e
la creazione del mondo. Sono stati naturalmente versati i proverbiali fiumi d'inchiostro per stabilire se la triade della Vǫluspá
(Óðinn ~ Hǿnir ~ Lóðurr) possa venire identificata o meno con quella fornita da Snorri (Óðinn ~ Vili ~ Vé). [SAGGIO]►
20 ― (c) Si è tradotto qui «da quelle acque» ma il testo originale dice sæ «mare». Difficile capire se si intenda la fonte
Urðarbrunnr o se bisogna invece immaginare uno specchio d'acqua assai più consistente alle radici del frassino Yggdrasill.
21 ― (c) L'episodio di Gullveig è particolarmente enigmatico, in quanto tutto ciò che sappiamo di questo personaggio consiste
in queste due strofe della Vǫluspá. Non vi sono altri riferimenti a Gullveig in tutta la letteratura mitologica, e anche Snorri,
nella sua opera, non ne fa alcun cenno. Si ritiene che il tentativo di uccidere Gullveig abbia causato un dissidio tra gli Æsir e i
Vanir, da cui una g uerra tra le due stirpi divine (a cui si accenna rapidamente nella strofa [24]); in realtà i due episodi
potrebbero anche non avere nulla a che fare l'uno con l'altro. ― (e) Hár «alto» è epiteto di Óðinn.
25-26 ― Stando al racconto di Snorri (Gylfaginning [42]), dopo la g uerra contro i Vanir, gli Æsir ingaggiarono un gigante
affinché ricostruisse le mura dell'Ásgarðr. Ma questi chiese come pagamento il sole e la luna, e la dea Freyja, sposa di Óðr. Era
stato Loki a consigliare agli dèi di accettare il patto, convinto che il gigante non fosse riuscito a finire il lavoro nel tempo stabilito.
Ma quando le mura furono completate entro i termini, gli dèi ruppero il contratto e Þórr uccise il gigante. [MITO]►
28 ― Questa breve descrizione della vǫlva, che sedeva sola «di fuori» [úti], va forse messo in relazione con certe descrizioni
presenti negli antichi testi, dove i veggenti erano presentati desti nella solitudine notturna intenti a scrutare i fati. Si tratta forse
della scena che dà l'av vio all'intera rappresentazione del poema. Yggjungr «molto spaventoso» è epiteto di Óðinn, che g uarda la
vǫlva «negli occhi» [í augu senza parlare, forse per provarne il potere. La vǫlva sostiene lo sg uardo del dio e gli rivela di
conoscere il suo più geloso segreto: egli ha dato in pegno un occhio al saggio Mímir, custode della fonte della sapienza di
Mímisbrunnr.
29 ― (a) Herfǫðr «padre degli eserciti» è epiteto di Óðinn. E la persona a cui avrebbe dato anelli e collane, oltre alla verga
della profezia, è naturalmente la stessa vǫlva. ― (b-d) Secondo questi versi, Herfǫðr (Óðinn) avrebbe dato alla vǫlva: (1) anelli
e collane, (2) sagge parole di ricchezza, (3) la verga della profezia [spágandr]. Ma emendando spágandr in spá ganda e adottando
l'interpretazione del Neckel, la strofa diventerebbe così: «Herfǫðr le diede anelli e collane, ottenne [in cambio] sagge parole di
ricchezza e profezie [ottenute tramite] la verga» (Neckel 1908 | Polia 1983). La correzione sembra chiarire lo scopo della visita di
Óðinn alla vǫlva, ma si tratta comunque di una forzatura che non aggiunge dettagli a quanto già implicito nel resto del poema,
che tratta comunque di una profezia lanciata dalla stessa veggente.
30 ― (j) Herjan «capo degli eserciti» è, ancora una volta, epiteto di Óðinn.
32 ― (e) Il fratello di Baldr di cui qui si parla è Váli figlio di Óðinn, che nacque appositamente per vendicarne la morte.
33 ― (d) Il nemico di Baldr è invece il cieco Hǫðr, che venne ucciso da Váli. ― (e) Frigg, sposa di Óðinn, era la madre di
Baldr.
34 ― Questi versi vengono dal codice H, dove sostituiscono i primi quattro semiversi di quella che nel codice R è la strofa
[35]. ― (a) Il Váli di cui qui si parla, interpretando il testo secondo quanto afferma Snorri, non sarebbe il summenzionato Váli
figlio di Óðinn, ma Váli figlio di Loki, il quale venne trasformato in lupo dagli dèi e sbranò il fratello Narfi. Con gli intestini
di questi, gli dèi trassero i lacci con cui Loki venne legato. Sig yn, sposa di Loki, gli rimase accanto.
36 ― Il codice R considera la sequenza [36-37] un'unica strofa: gli studiosi sono però persuasi che si tratti della
giustapposizione di due strofe, di cui la prima [36] mutila. Tutto il gruppo di strofe [36-39] sembra dare una vivida descrizione
del mondo infero.
37 ― Nell'ambito della veloce visione degli inferi presentata dalla Veggente, compaiono qui queste due località, le Niðavellir,
che, secondo quanto qui è detto, sembrano ospitare la corte dei dvergar (Sindri è infatti nome di un dvergr, come risulta dalle
þulur), e Ókólnir, dove si troverebbe la sala da birra del gigante Brimir (apparentemente lo stesso citato nel verso [9g]). ―
Snorri riporta una riscrittura in prosa di questa strofa, con alcune varianti piuttosto interessanti:
Margar eru þá vistir góðar ok margar illar. Bazt er Allora vi saranno molti luoghi buoni e molti cattivi. Il
þá at vera á Gimlé á himni, ok allgott er til góðs migliore per abitar vi sarà Gimlé, nel cielo, ottimo per buone
drykkjar þeim er þat þykkir gaman í þeim sal er bevute, per coloro che là troveranno piacere, in quella sala
Brimir heitir, hann stendr ok á himni [á Ókólni]. Sá che si chiama Brimir e sta in cielo [a Ókólnir]. Sarà un
er ok góðr salr er stendr á Niðafjǫllum, gǫrr af rauðu buon luogo quello che si trova nei Niðafjǫll, fatto con oro
gulli, sá heitir Sindri. Í þessum sǫlum skulu byggja rosso e che si chiama Sindri. In quella dimora vivranno gli
góðir menn ok siðlátir. uomini buoni e i giusti.
Mentre la Vǫluspá presenta le regioni di Niðavellir e Ókólnir nell'ambito di una visione dei luoghi infernali, Snorri ne dà
un'immagine affatto diversa: sale celesti deputate ad accogliere gli uomini giusti nel futuro escatologico dopo il ragnarǫk. È
possibile che nella versione del poema consultata da Snorri, questa strofa fosse collocata verso la fine della composizione e si
riferisse appunto ai tempi futuri. D'altra parte, se le Niðavellir sono le «pianure oscure», un toponimo come Ókólnir «mai
freddo» dà più l'idea di un luogo accogliente, e non di una dimora di giganti collocata in gelide regioni infernali. Snorri
comunque sembra fraintendere il poema eddico, affermando che Brimir e Sindri siano i nomi delle due sale in questione, e non
il gigante e il nano a cui esse rispettivamente appartengono. Inoltre Snorri confonde le Niðavellir con i Niðafjǫll, che
costituiscono la regione infernale da cui emerge il serpente Níðhǫggr nella chiusa del poema (Vǫluspá [66]).
38 ― Le strofe [38-39] seg uono la [43] nel codice H. ― (c) Nástrandir è la spiaggia dei morti, in Helheimr; il palazzo
descritto appartiene alla regina Hel.
39 ― Secondo alcuni esegeti, questa strofa sarebbe per venuta in forma corrotta, forse come giustapposizione di due strofe
mutile, di cui la prima comprenderebbe i primi semiversi [a-f ], la seconda i semiversi [g-j]. ― (g) Níðhǫggr è il serpente che
40 ― Questa strofa e la successiva sono citate da Snorri (Gylfaginning [12 {13-14}]). ― (a) La vecchia che abita in Járnviðr (la
foresta dagli alberi di ferro) è forse Angrboða, madre del lupo Fenrir. I lupi sono dunque la stirpe di Fenrir. ― (f) Tra di essi,
il lupo Skoll è destinato, nel giorno di ragnarǫk, a ingoiare il sole. ― (g) Tungl significa letteralmente «luminare» (cfr. latino
sidus), indicando indifferentemente il sole o la luna, e i vari traduttori hanno proposto via via l'una o l'altra delle interpretazioni.
Mario Polia traduce «sole» segnalando in nota l'ambig uità del termine (Polia 1983); al contrario, Piergiuseppe Scardigli e
Marcello Meli traducono «astro» segnalando in nota che si tratta del sole (Scardigli ~ Meli 1982). Gianna Chiesa Isnardi
traduce invece «luna» (Isnardi 1975), così come Giorgio Dolfini (Dolfini 1975). La traduzione di tungl con «sole» potrebbe
essere giustificata dal fatto che alcuni versi più sotto si parla del lupo destinato a divorare il sole, ma il significato di «luna» è
quello maggiormente attestato nella letteratura islandese, dove il termine ha spesso sostituito il più poetico máni «luna» (Cleasby
~ Vigfússon 1874).
41 ― (e) L'oscurarsi del sole di cui qui si parla è un annuncio del fimbulvetr, il «terribile inverno», il tempo di oscurità e
malvagità che precederà il ragnarǫk.
42 ― (d) Chi sia il «lieto» Eggþér, che in questi versi si presenta come custode o pastore, non ci è dato di sapere. Si può solo
arg uire che le mandrie dei giganti fossero i lupi.
44 ― (a-d) Questa strofa, quale cupo ritornello, si udrà altre tre volte, scandendo i tempi della catastrofe cosmica. Garmr è il
cane legato dinanzi alle porte di Helheimr, anch'esso destinato a sciogliersi quando sarà il giorno di ragnarǫk.
45 ― Con rapidi accenni e serrate allitterazioni, la vǫlva ci scaglia nel fimbulvetr, il «terribile inverno», il tempo di gelo e di
oscurità, di malvagità e depravazione, che culminerà nella distruzione universale del ragnarǫk. Il mitema del crollo morale
dell'umanità, nei tempi finali, è presente in molte culture diverse compresa quella cristiana. La più antica attestazione di questo
motivo si trova nella mitologia indù, in cui il Kaliyuga, l'epoca finale dell'intero ciclo temporale, è caratterizzata dalla totale
perdita di ogni senso morale e legge religiosa, perdita che, a partire dai nostri tempi, si farà sempre più accentuata man mano
che il ciclo procederà verso la sua conclusione. È anche lo stesso motivo presente nelle Érga kaì Hēmérai di Hēsíodos, in cui la
storia cosmica è vista come una progressione di età (dell'oro, dell'argento, del bronzo, del ferro) di cui l'ultima – la nostra – è
caratterizzata da un'umanità singolarmente priva delle virtù e del valore dei tempi precedenti.
46 ― (a) I figli di Mímir [Míms synir] sono i giganti. C'è un lug ubre senso di gioia in questo loro agitarsi, ché sanno che la
battaglia contro gli dèi è ormai vicina.
47 ― (d) Il gigante che si scioglie è Loki, che avevano lasciato legato nella sua caverna con le budella di suo figlio. ― (g)
«Stirpe di Surtr» è una kenning per indicare le fiamme dell'incendio universale, essendo Surtr il g uardiano del Múspellsheimr.
50 ― (a) Hr ymr è il re dei giganti di ghiaccio, che g uida le schiere di Jǫtunheimr. ― (c) Jǫrmungandr è il serpente che
circonda il mondo. ― (g) L'aquila è forse Hræsvelgr, che crea i venti col battito delle sue ali. ― (h) Naglfar è la nave dei
morti.
51 ― (b) Da est (ma forse sarebbe più logico da sud) arrivano i «figli di Múspell», i giganti di fuoco deputati alla distruzione
del mondo. ― (d) Il lupo che li precede è Fenrir. ― (e-f) Loki, fratello di Býleistr, è il loro timoniere.
52 ― (a) Surtr è il re dei giganti di fuoco. ― (b) Il «veleno dei rami» [sviga lævi] è una trasparente kenning per indicare il
fuoco.
53 ― (a) Hlín è Frigg, qui chiamata col nome di una delle sue ancelle (o forse si tratta di due personaggi in origine
concidenti). ― (c-d) Sposo di Hlín/Frigg è Óðinn, che combatte contro il lupo Fenrir e muore nello scontro. ― (e) L'«uccisore
di Beli» è Freyr: si getta a mani nude contro Surtr ma non ha miglior fortuna.
55 ― (b) Sigfǫðr «Padre di vittoria» è epiteto di Óðinn. ― (c) Suo figlio Víðarr uccide Fenrir con la spada vendicando il padre.
― (e) Hveðrungr è probabilmente un epiteto di Loki padre di Fenrir.
56 ― Spetta a Þórr, difensore di Miðgarðr, scendere a battaglia contro Jǫrmungandr, il serpente che circonda il mondo. Riesce
a ucciderlo, ma subito muore intossicato dal veleno. ― (b | j) Hlóðyn e Fjǫrg yn sono due epiteti di Jǫrð, dea della terra, madre
di Þórr. ― (d) Si noti che il testo del Codex Regius [R] ha qui in realtà við úlfs vega «a uccidere il lupo», non il serpente. Si
tratta probabilmente di un errore sorto per confusione tra Þórr e Víðarr, prima citato. Il testo viene generalmente emendato in
ormi mæta «a contrastare il serpente». Snorri, nella sua versione, ricombina la strofa, eliminando i problematici semiversi [c-d]
e sostituendoli con i due semiversi finali.
57 ― (f) «Quel che alimenta la vita» è una kenning per indicare il fuoco. Dunque la frase è da intendere «sibila il vapore con il
fuoco», nell'incendio che mette fine al mondo.
60 ― (e-f) Questi due semiversi mancano nel codice R ma sono presenti in H. ― (g) Fimbult ýr «dio terribile» è un epiteto di
Óðinn.
63 ― (d) Chi sono i «figli dei due fratelli» [burir [...] bræðra tveggja]? Difficile dirlo. Secondo alcuni Hǫðr e Baldr, i quali
tuttavia erano fratelli tra loro e non cugini. Secondo altri sarebbero invece Hǿnir e Lóðurr, ipotesi piuttosto fragile in quanto
nulla si può dire sulla parentela di questi due personaggi. Bellows interpreta «i figli dei fratelli di Tveggi», essendo questo uno
degli epiteti di Óðinn (Bellows 1923). Poiché i fratelli di Óðinn sono Vili e Vé, ci si può chiedere chi siano i figli di costoro.
― (e) Il «mondo del vento» [vindheim] è forse da intendere come il cielo, o come l'atmosfera? Oppure è una kenning per
indicare il mondo stesso, percorso dal vento?
65 ― Questa breve strofa, formata da soli quattro semiversi è assente nel codice R e attestata unicamente nel codice H, senza
alcuna indicazione della presenza di una lacuna. Tardi manoscritti aggiungono altri quattro semiversi, registrati da Henr y
Bellows: «Lui stabilisce le regole | e fissa i diritti, | ordina le leggi | che sempre vivranno» (Bellows 1923). ― (a) Questo
«potente» [enn ríki] che compare nella penultima strofa, fa naturalmente pensare all'immagine del Cristo che compare sulle
nubi, nel giorno del Giudizio.
66 ― Tutta l'ultima strofa, che alcuni ritengono interpolata nel testo, è di difficile interpretazione. Perché è il serpente Níðhǫggr
a chiudere il poema? E perché porta i morti tra le sue ali? È una visione che appartiene al futuro escatologico o va collocata al
presente in cui la vǫlva narra la sua profezia?― (h) Si ritiene che a inabissarsi, nell'ultimissimo verso del poema, sia appunto la
vǫlva, anche se in molte traduzioni hon «ella» viene emendato con hann «egli» e l'inabissamento finale viene riferito a Níðhǫggr.
Ma che possa essere la veggente (e non il serpente) a inabissarsi, è forse giustificato dal Baldrs Draumar, dove si narra di come
Óðinn fosse sceso nel regno dei morti e con un canto magico avesse tratto fuori una morta vǫlva dal suo tumulo affinché
interpretasse i funesti sogni che affliggevano Baldr. Non c'è naturalmente alcuna indicazione che la vǫlva del Baldrs Draumar
sia la stessa della Vǫluspá, ma non c'è nemmeno motivo di escluderlo.
BIBLIOGRAFIA ►
Confronto interlineare tra la lezione del poema contenuta nel Codex Regius [R] e quella dell'Hauksbók [H]. Sono riportati anche
le strofe citate da Snorri nella Prose Edda, secondo il manoscritto [Rs].
VǪLUSPÁ
ſcır vır. vır vır. ſcırꝼır vır vır {20} Skırpır, Vırpır,
27 Þoꝛr eın þar var 23 Þorr eınn þar vą {51} Ageng vz eıþar,
þrvngın moðı þrungınn moꝺı oꝛð ſære,
hann ſıalꝺan ſıꞇr hann ſıallꝺan ſıꞇr mal ꜹll megınlıg,
er hann ıcꞇ vm ꝼregn er hann ıkꞇ oꝼ ꝼregnn er a meþal ꝼoꝛv.
agengoz eıðar ą geng uz eıðar Þoꝛr eınn þaꞇ vann, 26
oꝛð ⁊ ſęrı orð ok ok ſærı þr vngın moþı,
mál ꜹll megın lıg maal ǫll megınlıg hann ſıalꝺan ſıꞇr
er ameꝺal ꝼóro. er ą meðal voru. er hann ıkꞇ oꝼ ꝼregn.
32 Ec ſa balꝺrı
bloꝺgom ꞇıvoꝛ
oꝺınſ barnı
oꝛ log ꝼolgın
ſꞇóð vm vaxın 31
vollo hęrı
mıór ⁊ mıoc ꝼagr
mıſꞇılꞇeın.
30 Þa kna vala
vıgbonꝺ ſnua
hellꝺr voru harðgıor 34
hǫꝼꞇ or þǫrmum
36 A ꝼellr ꜹſꞇan
um eıꞇr ꝺala
ſꜹxom ⁊ ſverþom 36
37 Sal ſa hon ſꞇanꝺa 34 Sal ſıer hon ſꞇanꝺa {64} Sal veıꞇ ec ſꞇanꝺa
ſolo ꝼıárı ſolu ꝼıarı ſolv ꝼıarrı
na ſꞇronꝺo a nąſꞇrǫnꝺu ą Naſꞇrꜹnꝺv a,
noꝛþr hoꝛꝼa ꝺyr. norðr horꝼa ꝺyr noꝛðr hoꝛꝼa ꝺyrr;
ꝼello eıꞇr ꝺropar ꝼalla eıꞇrꝺropar ꝼalla eıꞇrꝺropar 38
ın vm lıóra ınn vm lıora ınn oꝼ lıoꝛa,
ſa er unꝺın ſalr ſą er unꝺınn ſalr ſa er vnꝺın ſalr
oꝛma hr ygıom. orma hr yggıum. oꝛma hr yggıvm.
38 Sa hon þar vaþa 35 Ser hon þar vaða {65} Skvlv þar vaþa
þvnga ſꞇrꜹma þunga ſꞇrauma þvnga ſꞇrꜹma
menn moꝛð vargar menn meınſvara menn meınſvara
⁊ meınſvara. ok morꝺvarga moꝛðvargar.
⁊ þan anarſ glepr ok þannz annarſ glepr
eyra r vno eyrna runa 39
þar ſvg nıþ hꜹgr þar ſavg nıðhǫggr {66} Þa qvelr Nıðhꜹggr
náı ꝼram gengna naı ꝼramgengna naı ꝼramm genga.
ęıꞇ vargr vera eıꞇ vargr vera
v. e. e. e. h. vıꞇv þer enn eða hvaꞇ.
39 Ꜹſꞇr ſáꞇ ın alꝺna 25 Auſꞇr byr hın allꝺna {13} Ꜹſꞇr byr en allꝺna
ı ıarn uıþı ı ıarnvıꝺı í Iarnvıþı
⁊ ꝼǫꝺꝺı þar ok ꝼeðır þar ꝼæþır þar
ꝼenrıſ kınꝺır. ꝼenrıſ kınꝺır ꝼenrıſ kınꝺır;
verþr aꝼ þeım ꜹllom verðr aꝼ þeım ǫllum verþr oꝛ þeım ꜹllvm 40
eına noccoꝛr eınna nokkur eınna nockvrr
ꞇvnglſ ꞇıvgarı ꞇunglſ ꞇ..garı ꞇvnglſ ꞇıvgarı
ıꞇrollz hamı. ı ꞇrollz hamı. ıꞇrꜹllz hamı.
ꝼyllız ꝼıǫrꝼı
40 Ꝼyllız ꝼıoꝛvı ꝼeıgra manna {14} Ꝼyllız ꝼıoꝛvı
ꝼeıgra manna r yðr ragna ſıǫꞇ ꝼeıgra manna;
r yþr ragna ſıóꞇ rauðum ꝺreyra r yðr ragna ſıꜹꞇ
rꜹðom ꝺreyra ſvǫrꞇ verꝺa ſolın rꜹþvm ꝺreyra;
ſvarꞇ var þa ſol ſcín um ſumvr eꝼꞇır ſvꜹrꞇ verþa ſolın 41
oꝼ ſvmoꝛ epꞇır ueðr ǫll ualynꝺ oꝼ ſvmvr epꞇır,
veþr oll valynꝺ uıꞇv þer eınn enn ęꝺr hvaꞇ verþr ꜹll valvnꝺ.
v. e. h. Vıꞇvð er enn eþa hvaꞇ?
44 Broþr mvno berıaz 37 Bræðr munu berıaz {53} Bræðr mvnv berıaz
⁊ aꞇ bꜹnom verþa ok aꞇ bǫnum verðaz aꞇ bꜹnvm verþaz
mvno ſyſꞇr vngar munu ſyſꞇrungar mvnv ſyſꞇr vngar
ſıꝼıom ılla ſıꝼıum ılla ſıꝼıvm ılla;
hárꞇ er ı heımı harꞇ er ı heımı harꞇ er með hꜹlðvm
hór ꝺomr mıcıll horꝺomr mıkıll hoꝛꝺómr mıkıll,
ſcegꜹlꝺ ſcalm ꜹlꝺ eggǫll ąlmǫllꝺ eggıollꝺ, almǫlꝺ,
ſcılꝺır ro kloꝼnır ıllꝺır kloꝼnır. ılꝺır kloꝼnır, 45
vınꝺꜹlꝺ vargꜹlꝺ 38 Vınꝺ ǫllꝺ vargǫllꝺ vınꝺávlꝺ, vargǫlꝺ,
aþr verolꝺ ſꞇeypız ąðr verǫllꝺ ſꞇeypız aðr verǫlꝺ ſꞇeypız.
grunꝺır gıalla
gıꝼr ꝼlıuganꝺı
mvn engı maþr man eıngı maðr
oðrom þyrma. ǫðrum þyrma.
46 Hvaꞇ er meþ aſom 41 Hvaꞇ er með ąſum {55} Hvaꞇ er með aſvm?
hvaꞇ er meþ alꝼom hvaꞇ er með alꝼum hvaꞇ er með alꝼvm?
gnyr allr ıoꞇvn heımr gnyr allr ıǫꞇun heımr ýmr allr Ioꞇvnheímr,
ęſır ro aþıngı æſır eru ą þıngı æſır ró aþıngı;
ſꞇynıa ꝺvergar ſꞇynıa ꝺvergar ſꞇynıa ꝺvergar 48
ꝼyr ſꞇeın ꝺvrom ꝼyrır ſꞇeınꝺyr vm ꝼırır ſꞇeınꝺvr vm,
veg bergſ vıſır vegbergſ uıſır veggbergſ vıſır;
v. e. e. h. uıꞇv þer enn eða hvaꞇ. vıꞇvð ér enn eþa hvaꞇ?
49 Kıoll ꝼer ꜹſꞇan 44 Kıoll ꝼerr auſꞇan {57} Kıoll ꝼerr ꜹſꞇan,
koma mvno mvellz koma munu muellz koma mvnv Mvellz
vm lꜹg lyꝺır vm lǫgh lyðer oꝼ lꜹg lyþır
en lokı ſꞇyrır enn lokı ſꞇyrır en Lokı ſꞇyrır;
ꝼara ꝼıꝼlſ megır ꝼarar ꝼıꝼlmegır þar ró ꝼıꝼlmegır 51
meþ ꝼreka allır með ꝼreka aller með ꝼreka allır;
þeım er broꝺır þeım er broðır þeım er broþır
by leıpz ıꝼór. byleıſꞇz ı ꝼerꝺ. Byleız ıꝼꜹr.
50 Surꞇr ꝼer ſvnan 45 Surꞇr ꝼerr ſunnan {58} Svrꞇr ꝼerr ſvnnan
meþ ſvıga lęꝼı með ſuıga lęvı með ſvıga leıvı;
ſcın aꝼ ſverþı ınn aꝼ ſuerꝺe ınn aꝼ ſverþı
ſol valꞇíꝼa. ſol valꞇıꝼa ſol valꞇıva;
grıoꞇ bıoꝛg gnaꞇa grıoꞇbıǫrg gnaꞇa grıoꞇbıoꝛg gnaꞇa, 52
en gıꝼr raꞇa enn gıꝼr raꞇa en gıꝼr raꞇa,
ꞇroþa halır helveg ꞇroða haler helveg ꞇroþa halır helveg,
en hımın cloꝼnar. enn hımınn kloꝼnar. en hımınn kloꝼnar.
54 Sol ꞇer ſoꝛꞇna 50 [Sol] ꞇer ſorꞇna {6} Sól mvn ſoꝛꞇna,
ſıgr ꝼolꝺ ımar ſıgr ꝼollꝺ ımar {62} ſꜹckr ꝼolꝺ ımar,
hverꝼa aꝼ hımnı huerꝼa aꝼ hımnı hverꝼa aꝼ hımnı
heıðar ſꞇıoꝛnoꝛ. heıðar ſꞇıǫrnur heıþar ſꞇıoꝛnvr;
geıſar eímı [ge]ıſar eımı geıſar eımı 57
vıþ alꝺr nara ok allꝺrnarı alꝺrnarı,
leıcr har hıꞇı leıkr hąr hıꞇı leíkr har hıꞇı
uıð hımın ſıalꝼan. vıð hımın ſıalꝼan. vıð hımın ſıalꝼan.
61 Sal ſer hon ſꞇanꝺa 57 Sal ſer hon ſꞇanꝺa {27} Sal veıꞇ ec ſꞇanꝺa
ſolo ꝼegra ſolu ꝼegra ſolv ꝼegra,
g vllı þacþan g ullı þakꞇan g vlle beꞇra
agImlé a gımle. aGımle,
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