VÖLUSPÁ
LA PROFEZIA DELLA VEGGENTE
Il poema
Le redazioni
L'esegesi
Genere e metrica
Edizioni italiane
Il poema
La Völuspá è il gioiello dell'Edda poetica, il primo dei due monologhi che aprono il grande
canzoniere. Opera di un poeta islandese di vigoroso talento, ancorché pagano, vissuto
probabilmente intorno alla prima metà del X secolo, la Völuspá si configura come la visione di una
sinistra profetessa [Völva] che Óðinn ha evocato affinché riveli per intero la sapienza nordica, i
segreti delle cose primordiali e i destini del mondo. E così, in una sessantina di strofe, la Veggente
disegna la creazione dell'universo, racconta dell'età dell'oro e della guerra che oppose gli Æsir ai
Vanir, narra della morte di Baldr, vola dalle fonti del destino ai dirupi infernali, dalle radici del
frassino Yggdrasill ai confini del mondo, per concludersi col terrificante racconto della distruzione,
e quindi della rinascita, dell'universo. La Völuspá si configura insomma come una vera e propria
summa mythologiæ scandinava. Tra balenii epocali e schegge d'apocalisse, è senza alcun dubbio
uno più bei poemi mitologici di ogni tempo e di ogni paese.
Le redazioni
La Völuspá è giunta a noi conservata in due manoscritti: il Codex Regius (XIII sec.), che è il
manoscritto più importante dell'Edda poetica, e l'Hauksbók di Hauk Erlendsson (prima metà del
XIV secolo). Le due versioni divergono in alcuni dettagli e nell'organizzazione delle strofe (62
contro 59). Terza importante fonte della Völuspá è l'Edda in prosa, che Snorri scrisse ispirandosi in
buona parte al poema, riportando integralmente 30 strofe e citandone indirettamente altre 16; anche
qui vi sono delle interessantissime varianti. Sembra che Snorri avesse sottomano una versione della
Völuspá più precisa di quelle a nostra disposizione, ragion per cui le varianti del testo che egli
fornisce sono preziosissime.
L'esegesi
Detto questo, bisogna doverosamente aggiungere che la Völuspá non è un testo di semplice
approccio. La comprensione è resa ardua dal fatto che le varie scene non vengono narrate, ma
piuttosto evocate, e sempre con accenni rapidi ed ermetici. Se la Profezia non ci è completamente
oscura è soltanto grazie all'Edda in prosa di Snorri Sturluson, che col suo racconto preciso e
dettagliato ci rende chiari molti passaggi che altrimenti sarebbero stati incomprensibili. Infatti,
quelle strofe della Völuspá per cui non abbiamo riferimenti rimangono in buona parte enigmatiche.
La Völuspá presenta una lunga serie di passi problematici, su cui sono state proposte infinite
congetture e interpretazioni. Si ha l'impressione, probabilmente esatta, che la Völuspá sia in molti
passi «corrotta» (per usare un aggettivo caro ai filologi dell'Ottocento). Tali corruttele sono però più
facili da individuare che da emendare, ragione per cui molte delle «letture» che si sono succedute in
oltre un secolo di critica filologica sono il risultato delle interpretazioni personali dei vari autori e
non sono necessariamente aderenti alle effettive intenzioni del testo. La critica moderna è molto più
cauta nell'emendare, integrare, spostare i passi più problematici. Nella sezione antologica, abbiamo
segnato, nelle note al testo, soltanto alcuni dei punti più delicati del lavoro filologico. D'altra parte,
dar conto puntualmente di ogni difficoltà di lettura avrebbe richiesto un apparato critico molto più
ingombrante e complicato, ben al di là delle nostre possibilità e capacità.
Genere e metrica
Il metro della Völuspá è il fornyrðislag o «metro epico», il più comune della poesia nordica. Ogni
strofa è composta da quattro «versi pieni», ciascuno costituito a sua volta di due semiversi. In
questa pagina, per ragioni grafiche, i «versi lunghi» sono stati spezzati e i due semiversi posti su
righe differenti; in altre parole, le singole strofe, originariamente formate di quattro versi, appaiono
qui disposte su otto righe, ciascuna corrispondente a un semiverso. Ecco, per confronto, la
versificazione rigorosa della strofa [1]:
Edizioni italiane
Voluspa < DI LEESTHAL Olga Gogala [cura]: Canti dell'Edda. UTET, Torino 1939.
Profezia della Veggente < MASTRELLI Alberto [cura]: L'Edda: carmi norreni < «Classici della religione».
Sansoni, Firenze 1951, 1982.
Profezia della Veggente < SCARDIGLI Piergiuseppe [cura]: Il canzoniere eddico. Garzanti, Milano 1982.
POLIA Mario: Völuspá: I detti di colei che vede. Il Cerchio, Rimini 1983.
LJÓÐA EDDA
VÖLUSPÁ
LA PROFEZIA DELLA VEGGENTE
LA PROFEZIA DELLA
VÖLUSPÁ
VEGGENTE
1 ― (a) Hljóðs biðk «ascolto io chiedo», esordisce la völva, con formula solenne e imperiosa, ché
tra poco la grande profezia svolgerà i fili del tempo e scioglierà i nodi del destino. È probabilmente
la stessa formula che veniva utilizzata nel þing, nelle assemblee vichinghe, per imporre il silenzio e
richiamare l'attenzione dei presenti, e che riecheggia con forza l'antica formula omerica kéklute
óphr' éipō «ascoltate affinché io dica» (Polia 1983). ― (d) L'espressione «figli di Heimdallr» per
indicare le «sacre stirpi» [helgar kindir] degli uomini, richiama il mito riferito nel Rígsþula dove
alla discendenza di Heimdallr si riconducono i capostipiti delle tre classi sociali. ― (e) Valföðr,
«Padre dei caduti», è epiteto di Óðinn.
2 ― (d) Fædda höfðu è letteralmente «mi diedero cibo», ma forse è da intendere con «mi
generarono». ― (f) Questo verso è di ardua traduzione. Secondo l'interpretazione condivisa dalla
maggior parte degli studiosi, quel níu í viði si riferirebbe appunto ai «nove sostegni» dei mondi (cfr.
viðjur «radici, travi» < viðr «bosco, legna»); non mancano però le voci dissenzienti: alcuni pensano
che la frase sia da leggere níu íviði «nove specie di creature»; Sir George W. Cox è riandato
all'antico svedese inviþir e ha interpretato, un po' fantasiosamente, «l'insieme di tutti gli esseri, del
mondo dei vivi e del mondo dei morti». In tutti i casi si tratta di una visione dell'universo riassunto
nella sua stabilità e nella sua totalità (Cox 1870). ― (g) La parola mjötviðr è una delle più delicate
dell'intera letteratura mitologica norrena. È stata qui resa con «albero misuratore», da «albero [viðr]
delle misure [mjöt]». Quest'ultima parola è connessa col norreno meta «misurare», da cui mjötuðr
«giudice, governatore, dispensatore del fato» (cfr. gotico mitan, antico alto tedesco mezzan, tedesco
messen, anglosassone metan «misurare»; ma anche latino medeor «misuro» e meditari «meditare»).
S'intende probabilmente il frassino Yggdrasill come asse e impalcatura del cosmo, i cui rami e
radici formano gli assi [viðjur] che reggono i mondi e ne misurano il tempo [ SAGGIO].
3 ― Questa strofa della Völuspá possono essere agevolmente messa a confronto con alcuni versi
della Preghiera di Wessobrunn, un testo in antico alto tedesco proveniente dall'omonimo monastero
bavarese, composto intorno al 775. Un brano della preghiera così suona:
Dat gafregin ih mit firahim iriuuizzo Questo appresi tra gli uomini, il sommo
meista. prodigio.
Dat ero ni uuas noh ufhimil, Che non era la terra, né il cielo in alto,
noh paum noh pereg ni uuas, non era albero, né monte,
ni [sterro] nohheinig noh sunna ni scein, né [stella] alcuna, né il sole splendeva,
noh mano ni liuhta, noh der maręo seo. né la luna brillava, né il lucente mare.
Preghiera di Wessobrunn
4 ― (a) La Völuspá non fornisce i nomi dei figli di Borr. È Snorri ad affermare che essi furono
Óðinn e i suoi fratelli Vili e Vé (Gylfaginning [6d]).
5 ― (e-j) Questi semiversi possono essere messi in relazione con la Preghiera di Wessobrunn [4-5],
laddove dice: «né [stella] alcuna, né il sole splendeva, né la luna brillava» [ni [sterro] nohheinig
noh sunna ni scein, noh mano ni liuhta]. Addirittura, la parola sterro «stella», assente nel
manoscritto della Preghiera, è stata proposta dai filologi in base al confronto col poema eddico.
Analogamente, nel citare questa strofa, Snorri omette i primi due semiversi ma cita questi ultimi sei
semiversi, seppure invertendo l'ordine col quale vengono elencati gli ultimi due luminari: nella
citazione di Snorri viene prima il sole, poi la luna e poi le stelle (Gylfaginning [8 {10}]).
7 ― (b) Iðavöllr: «campo del vortice, campo-torto», campo al centro di Ásgarðr dove gli dèi
decisero per la prima volta l'ordinamento del loro regno e, dunque, di tutto il mondo. Qui si
riuniranno di nuovo gli Æsir sopravvissuti al ragnarök all'inizio del ciclo che verrà, per stabilire il
nuovo ordine cosmico. Il riferimento al «vortice», simbolo di inizio e di fine, oltre che metafora
astronomica della rotazione del cielo, insieme al fatto che Iðavöllr sia l'unica parte di Ásgarðr che
non verrà distrutta, ne suggeriscono l'identificazione con il nord celeste o con una proiezione
terrestre di esso. La stella polare è infatti il punto del cielo che, pur cambiando posizione a causa
della precessione degli equinozi, rappresenta in ogni epoca il centro della rotazione celeste, dunque
il «vortice» che emana il movimento e dà ordine al cosmo.
8 ― (f) Non è molto chiaro chi fossero le «tre fanciulle di giganti» [þríar þursa meyjar];
sicuramente corrispondono a quelle che Snorri indica come donne «venute da Jötunheimr» [kómu
ór Jötunheimum] (Gylfaginning [14b]). Non si può tuttavia dir molto sulla loro identità. Karl
Müllenhoff ritiene si tratti le tre Nornir, di cui si parla nel capitolo successivo [15] del testo di
Snorri (Müllenhoff 1908), seguito in questo da Giorgio Dolfini, che commenta in tal senso la sua
traduzione (Dolfini 1975), ma senza una reale certezza. Si tratta del rimasuglio di un mito perduto,
probabilmente non chiaro allo stesso Snorri.
9 ― (g-h) I nomi Brimir e Bláinn sembrano essere epiteti di Ymir. Questa strofa è chiusa da una
doppia kenning in quanto «sangue di Brimir» è metafora per significare il mare, e «ossa di Bláinn»
per indicare le pietre.
10 ― (e-h) Questa strofa presenta qualche problema d'interpretazione. In genere viene interpretata
nel senso che gli dèi crearono i nani dalla terra, ma altri ritengono che siano i nani stessi il soggetto
della frase. Ad esempio Bugge interpreta: «I nani fecero molti fantocci nella terra» a cui gli dèi
avrebbero poi infuso il soffio vitale (Bugge 1881 | Polia 1883). Non è ben chiaro, in questo caso,
chi fossero i «fantocci» creati dai nani. Tantopiù che Snorri dà una spiegazione molto ragionevole
del passo:
Þar næst settust goðin upp í sæti Poi gli dèi s'insediarono sui loro
sín ok réttu dóma sína ok troni, si riunirono in giudizio e
minntust, hvaðan dvergar höfðu ricordarono in che modo i nani
kviknat í moldinni ok niðri í avessero preso vita nel fango e sotto
jörðunni, svá sem maðkar í holdi. la terra, come i vermi nella carne. I
Dvergarnir höfðu skipazt fyrst ok nani furono creati per primi e
tekit kviknun í holdi Ymis ok váru presero vita nella carne di Ymir,
þá maðkar, en af atkvæðum dove erano come vermi, tuttavia per
goðanna urðu þeir vitandi manvits decisione degli dèi ricevettero la
ok höfðu manns líki ok búa þó í conoscenza del sapere umano e
jörðu ok í steinum. l'aspetto degli uomini, e abitarono
nella terra e nelle rocce.
Non vi è motivo di dubitare che questa sia la corretta interpretazione della creazione dei nani, che
qui appaiono, proprio in virtù della loro origine, legati per nascita alla terra e al fango. [ SAGGIO]
12 ― (b) Il nome Þráinn compare in Snorri nella variante Þróinn. ― (c) Il nome Þekkr, presente in
R (e in Snorri), viene sostituito in H da Þrár (forse, una variante del Þrór presente in [12b]).
13 ― (b) In luogo del nome Náli compare in Snorri un Váli (la confusione è sorta forse per qualche
legame con la coppia formata da Váli e Nari, figli di Loki). ― (c) Heptivili («manico di lima»)
appare in H scisso in due nomi distinti: Hefti e Fili («manico» e «lima»). Solo il secondo nome
(Fili) è attestato separatamente come il nome di un nano [13a]. ― (d) Hannarr viene sostituito in
Snorri da Hárr. Invece, il nome Svíurr compare in H nella variante Svíðr e in Snorri nella variante
Svíarr. ― (e-h) Questi versi, gli unici a riportare una sequenza di otto nomi [«Nár e Náinn |
Nípingr, Dáinn, | Billingr, Brúni, | Bíldr e Búri»], sono riportati unicamente in H, mancando in R e
in Snorri.― (i) Il nome Hornbori, attestato nella redazione R, viene sostituito da Fornbogi nella
redazione H.
14 ― (d) Nella parafrasi in prosa che Snorri fa di questa strofa (Gylfaginning [14f]), si parla dei
Lofarr al plurale, come nome complessivo di questa stirpe di nani.
15 ― (b) Al nome Dólgþrasir, Snorri sostituisce Dólgþvari. ― (c) Al nome Hár, Snorri
sostituisce Hörr. Ad Haugspori, sostituisce invece Hugstari. ― (d) Il primo nome viene riportato
come Hlévangr «campo riparato» in R, ma come Hlévargr «lupo dei luoghi protetti» in H. La
seconda forma sembra più ragionevole. Snorri lo sostituisce con un nome affatto diverso: Hleðjólfr
«lupo protettore». Il secondo nome compare invece nella forma Glói in R, nella forma Glóinn in H e
in Snorri.― (e-f) Questi due versi, che riportano una breve sequenza di quattro nomi, sono presenti
soltanto nella redazione di Snorri [«Dóri, Óri, | Dúfr, Andvari»], mancando nei due codici della
Völuspá.
16 ― (a) Snorri sostituisce Yngvi con Ingi. È più probabile sia quest'ultimo il nome originario del
nano, essendo Yngvi un epiteto di Freyr, quale progenitore della stirpe degli Ynglingar. ― (c-d)
Questi due semiversi, con una sequenza di quattro nomi [«Fjalarr e Frosti | Finnr e Ginnarr»] è
attestata nel codice R, ma manca in H. Anche Snorri, tuttavia, la riporta (seppur sostituendo Fjalarr
con Falr).
17 ― Le strofe [17-18] alludono alla creazione della prima coppia umana a partire da due alberi, un
frassino [askr] e un olmo [embla]. Così Snorri spiega il passo e descrive la scena:
― (b) La Völuspá non chiarisce quale fosse la «stirpe» [liðr] da cui i tre dèi sarebbero giunti, così
come non si sa bene a quale «casa» faccia riferimento il testo. ― (d) È stato qui suggerito di
emendare at húsi «a casa» in at húmi «al mare», interpretando la scena come se si svolgesse sulla
riva del mare. La correzione è giustificata dal fatto che Snorri afferma che gli dèi andavano «lungo
la riva del mare» [með sævarströndu] quando trovarono i due tronchi destinati a essere trasformati
nella prima coppia umana.
18 ― (e-g) Mentre la Völuspá attribuisce la creazione degli uomini alla triade Óðinn ~ Hǿnir ~
Lóðurr, Snorri afferma che a compiere l'opera fossero stati in realtà «i figli di Bórr» (Gylfaginning
[9b]). Tuttavia lo stesso Snorri aveva precedentemente affermato che i figli di Bórr fossero Óðinn ~
Vili ~ Vé (Gylfaginning [6d]) e alla loro opera aveva attribuito l'uccisione di Ymir e la creazione
del mondo. Sono stati naturalmente versati i proverbiali fiumi d'inchiostro per stabilire se la triade
della Völuspá (Óðinn ~ Hǿnir ~ Lóðurr) possa venire identificata o meno con quella fornita da
Snorri (Óðinn ~ Vili ~ Vé). [SAGGIO]►
20 ― (c) Si è tradotto qui «da quelle acque» ma il testo originale dice sæ «mare». Difficile capire se
si intenda la fonte Urðarbrunnr o se bisogna invece immaginare uno specchio d'acqua assai più
consistente alle radici del frassino Yggdrasill.
21 ― (c) L'episodio di Gullveig è particolarmente enigmatico, in quanto tutto ciò che sappiamo di
questo personaggio consiste in queste due strofe della Völuspá. Non vi sono altri riferimenti a
Gullveig in tutta la letteratura mitologica, e anche Snorri, nella sua opera, non ne fa alcun cenno. Si
ritiene che il tentativo di uccidere Gullveig abbia causato un dissidio tra gli Æsir e i Vanir, da cui
una guerra tra le due stirpi divine (a cui si accenna rapidamente nella strofa [24]); in realtà i due
episodi potrebbero anche non avere nulla a che fare l'uno con l'altro. ― (e) Hár «alto» è epiteto di
Óðinn.
25-26 ― Stando al racconto di Snorri (Gylfaginning [42]), dopo la guerra contro i Vanir, gli Æsir
ingaggiarono un gigante affinché ricostruisse le mura dell'Ásgarðr. Ma questi chiese come
pagamento il sole e la luna, e la dea Freyja, sposa di Óðr. Era stato Loki a consigliare agli dèi di
accettare il patto, convinto che il gigante non fosse riuscito a finire il lavoro nel tempo stabilito. Ma
quando le mura furono completate entro i termini, gli dèi ruppero il contratto e Þórr uccise il
gigante. [MITO]►
27 ― (b) Seguiamo qui l'interpretazione tradizionale secondo cui il «fragore celato» [hljóð of folgit]
indichi il Gjallarhorn, il corno destinato a suonare nel giorno di ragnarök e che Heimdallr, se tale
interpretazione è corretta, avrebbe nascosto alle radici del frassino Yggdrasill. ― (g) Valföðr
«padre dei caduti»è un epiteto di Óðinn. Per «pegno di Valföðr» si intende qui l'occhio ceduto da
Óðinn in cambio di un sorso alla sorgente di Mímisbrunnr, da cui sgorga l'acqua della sapienza.
Mímir è appunto il guardiano di tale fonte.
28 ― Questa breve descrizione della völva, che sedeva sola «di fuori» [úti], va forse messo in
relazione con certe descrizioni presenti negli antichi testi, dove i veggenti erano presentati desti
nella solitudine notturna intenti a scrutare i fati. Si tratta forse della scena che dà l'avvio all'intera
rappresentazione del poema. Yggjungr «molto spaventoso» è epiteto di Óðinn, che guarda la völva
«negli occhi» [í augu senza parlare, forse per provarne il potere. La völva sostiene lo sguardo del
dio e gli rivela di conoscere il suo più geloso segreto: egli ha dato in pegno un occhio al saggio
Mímir, custode della fonte della sapienza di Mímisbrunnr.
29 ― (a) Herföðr «padre degli eserciti» è epiteto di Óðinn. E la persona a cui avrebbe dato anelli e
collane, oltre alla verga della profezia, è naturalmente la stessa völva. ― (b-d) Secondo questi versi,
Herföðr (Óðinn) avrebbe dato alla völva: (1) anelli e collane, (2) sagge parole di ricchezza, (3) la
verga della profezia [spágandr]. Ma emendando spágandr in spá ganda e adottando
l'interpretazione del Neckel, la strofa diventerebbe così: «Herföðr le diede anelli e collane, ottenne
[in cambio] sagge parole di ricchezza e profezie [ottenute tramite] la verga» (Neckel 1908 | Polia
1983). La correzione sembra chiarire lo scopo della visita di Óðinn alla völva, ma si tratta
comunque di una forzatura che non aggiunge dettagli a quanto già implicito nel resto del poema,
che tratta comunque di una profezia lanciata dalla stessa veggente.
30 ― (j) Herjan «capo degli eserciti» è, ancora una volta, epiteto di Óðinn.
32 ― (e) Il fratello di Baldr di cui qui si parla è Váli figlio di Óðinn, che nacque appositamente per
vendicarne la morte.
33 ― (d) Il nemico di Baldr è invece il cieco Höðr, che venne ucciso da Váli. ― (e) Frigg, sposa di
Óðinn, era la madre di Baldr.
34 ― Questi versi vengono dal codice H, dove sostituiscono i primi quattro semiversi di quella che
nel codice R è la strofa [35]. ― (a) Il Váli di cui qui si parla, interpretando il testo secondo quanto
afferma Snorri, non sarebbe il summenzionato Váli figlio di Óðinn, ma Váli figlio di Loki, il quale
venne trasformato in lupo dagli dèi e sbranò il fratello Narfi. Con gli intestini di questi, gli dèi
trassero i lacci con cui Loki venne legato. Sigyn, sposa di Loki, gli rimase accanto.
36 ― Il codice R considera la sequenza [36-37] un'unica strofa: gli studiosi sono però persuasi che
si tratti della giustapposizione di due strofe, di cui la prima [36] mutila. Tutto il gruppo di strofe
[36-39] sembra dare una vivida descrizione del mondo infero.
37 ― Nell'ambito della veloce visione degli inferi presentata dalla Veggente, compaiono qui queste
due località, le Niðavellir, che, secondo quanto qui è detto, sembrano ospitare la corte dei nani
(Sindri è infatti nome di un nano, come risulta dalle þulur), e Ókólnir, dove si troverebbe la sala da
birra del gigante Brimir (apparentemente lo stesso citato nel verso [9g]). ― Snorri riporta una
riscrittura in prosa di questa strofa, con alcune varianti piuttosto interessanti:
38 ― Le strofe [38-39] seguono la [43] nel codice H. ― (c) Nástrandir è la spiaggia dei morti, in
Helheimr; il palazzo descritto appartiene alla regina Hel.
39 ― Secondo alcuni esegeti, questa strofa sarebbe pervenuta in forma corrotta, forse come
giustapposizione di due strofe mutile, di cui la prima comprenderebbe i primi semiversi [a-f], la
seconda i semiversi [g-j]. ― (g) Níðhöggr è il serpente che giace alla radici del frassino Yggdrasill.
(Cfr. Grímnismál [34-35]).
40 ― Questa strofa e la successiva sono citate da Snorri (Gylfaginning [12 {13-14}]). ― (a) La
vecchia che abita in Járnviðr (la foresta dagli alberi di ferro) è forse Angrboða, madre del lupo
Fenrir. I lupi sono dunque la stirpe di Fenrir. ― (f) Tra di essi, il lupo Skoll è destinato, nel giorno
di ragnarök, a ingoiare il sole. ― (g) Tungl significa letteralmente «luminare» (cfr. latino sidus),
indicando indifferentemente il sole o la luna, e i vari traduttori hanno proposto via via l'una o l'altra
delle interpretazioni. Mario Polia traduce «sole» segnalando in nota l'ambiguità del termine (Polia
1983); al contrario, Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli traducono «astro» segnalando in nota
che si tratta del sole (Scardigli ~ Meli 1982). Gianna Chiesa Isnardi traduce invece «luna» (Isnardi
1975), così come Giorgio Dolfini (Dolfini 1975). La traduzione di tungl con «sole» potrebbe essere
giustificata dal fatto che alcuni versi più sotto si parla del lupo destinato a divorare il sole, ma il
significato di «luna» è quello maggiormente attestato nella letteratura islandese, dove il termine ha
spesso sostituito il più poetico máni «luna» (Cleasby ~ Vigfússon 1874).
41 ― (e) L'oscurarsi del sole di cui qui si parla è un annuncio del fimbulvetr, il «terribile inverno»,
il tempo di oscurità e malvagità che precederà il ragnarök.
42 ― (d) Chi sia il «lieto» Eggþér, che in questi versi si presenta come custode o pastore, non ci è
dato di sapere. Si può solo arguire che le mandrie dei giganti fossero i lupi.
44 ― (a-d) Questa strofa, quale cupo ritornello, si udrà altre tre volte, scandendo i tempi della
catastrofe cosmica. Garmr è il cane legato dinanzi alle porte di Helheimr, anch'esso destinato a
sciogliersi quando sarà il giorno di ragnarök.
45 ― Con rapidi accenni e serrate allitterazioni, la völva ci scaglia nel fimbulvetr, il «terribile
inverno», il tempo di gelo e di oscurità, di malvagità e depravazione, che culminerà nella
distruzione universale del ragnarök. Il mitema del crollo morale dell'umanità, nei tempi finali, è
presente in molte culture diverse compresa quella cristiana. La più antica attestazione di questo
motivo si trova nella mitologia indù, in cui il Kaliyuga, l'epoca finale dell'intero ciclo temporale, è
caratterizzata dalla totale perdita di ogni senso morale e legge religiosa, perdita che, a partire dai
nostri tempi, si farà sempre più accentuata man mano che il ciclo procederà verso la sua
conclusione. È anche lo stesso motivo presente nelle Opere e i giorni di Esiodo, in cui la storia
cosmica è vista come una progressione di età (dell'oro, dell'argento, del bronzo, del ferro) di cui
l'ultima – la nostra – è caratterizzata da un'umanità singolarmente priva delle virtù e del valore dei
tempi precedenti.
46 ― (a) I figli di Mímir [Míms synir] sono i giganti. C'è un lugubre senso di gioia in questo loro
agitarsi, ché sanno che la battaglia contro gli dèi è ormai vicina.
47 ― (d) Il gigante che si scioglie è Loki, che avevano lasciato legato nella sua caverna con le
budella di suo figlio. ― (g) «Stirpe di Surtr» è una kenning per indicare le fiamme dell'incendio
universale, essendo Surtr il guardiano del Múspellsheimr.
50 ― (a) Hrymr è il re dei giganti di ghiaccio, che guida le schiere di Jötunheimr. ― (c)
Jörmungandr è il serpente che circonda il mondo. ― (g) L'aquila è forse Hræsvelgr, che crea i venti
col battito delle sue ali. ― (h) Naglfar è la nave dei morti.
51 ― (b) Da est (ma forse sarebbe più logico da sud) arrivano i «figli di Múspell», i giganti di
fuoco deputati alla distruzione del mondo. ― (d) Il lupo che li precede è Fenrir. ― (e-f) Loki,
fratello di Býleistr, è il loro timoniere.
52 ― (a) Surtr è il re dei giganti di fuoco. ― (b) Il «veleno dei rami» [sviga lævi] è una trasparente
kenning per indicare il fuoco.
53 ― (a) Hlín è Frigg, qui chiamata col nome di una delle sue ancelle (o forse si tratta di due
personaggi in origine concidenti). ― (c-d) Sposo di Hlín/Frigg è Óðinn, che combatte contro il lupo
Fenrir e muore nello scontro. ― (e) L'«uccisore di Beli» è Freyr: si getta a mani nude contro Surtr
ma non ha miglior fortuna.
55 ― (b) Sigföðr «Padre di vittoria» è epiteto di Óðinn. ― (c) Suo figlio Víðarr uccide Fenrir con
la spada vendicando il padre. ― (e) Hveðrungr è probabilmente un epiteto di Loki padre di Fenrir.
56 ― Spetta a Þórr, difensore di Miðgarðr, scendere a battaglia contro Jörmungandr, il serpente che
circonda il mondo. Riesce a ucciderlo, ma subito muore intossicato dal veleno. ― (b | j) Hlóðyn e
Fjörgyn sono due epiteti di Jörð, dea della terra, madre di Þórr.
57 ― (f) «Quel che alimenta la vita» è una kenning per indicare il fuoco. Dunque la frase è da
intendere «sibila il vapore con il fuoco», nell'incendio che mette fine al mondo.
60 ― (e-f) Questi due semiversi mancano nel codice R ma sono presenti in H. ― (g) Fimbultýr «dio
terribile» è un epiteto di Óðinn.
61 ― (a) Mentre il codice R scrive il primo semiverso: «Là di nuovo...» [Þar muno eptir], il codice
H riporta con piccola variazione: «Allora gli Æsir...» [Þá muno æser].
62 ― (f) Hroptr è un epiteto di Óðinn.
63 ― (d) Chi sono i «figli dei due fratelli» [burir [...] bræðra tveggja]? Difficile dirlo. Secondo
alcuni Höðr e Baldr, i quali tuttavia erano fratelli tra loro e non cugini. Secondo altri sarebbero
invece Hǿnir e Lóðurr, ipotesi piuttosto fragile in quanto nulla si può dire sulla parentela di questi
due personaggi. Bellows interpreta «i figli dei fratelli di Tveggi», essendo questo uno degli epiteti
di Óðinn (Bellows 1923). Poiché i fratelli di Óðinn sono Vili e Vé, ci si può chiedere chi siano i
figli di costoro. ― (e) Il «mondo del vento» [vindheim] è forse da intendere come il cielo, o come
l'atmosfera? Oppure è una kenning per indicare il mondo stesso, percorso dal vento?
65 ― Questa breve strofa, formata da soli quattro semiversi è assente nel codice R e attestata
unicamente nel codice H, senza alcuna indicazione della presenza di una lacuna. Tardi manoscritti
aggiungono altri quattro semiversi, registrati da Henry Bellows: «Lui stabilisce le regole | e fissa i
diritti, | ordina le leggi | che sempre vivranno» (Bellows 1923). ― (a) Questo «potente» [enn ríki]
che compare nella penultima strofa, fa naturalmente pensare all'immagine del Cristo che compare
sulle nubi, nel giorno del Giudizio.
66 ― Tutta l'ultima strofa, che alcuni ritengono interpolata nel testo, è di difficile interpretazione.
Perché è il serpente Níðhöggr a chiudere il poema? E perché porta i morti tra le sue ali? È una
visione che appartiene al futuro escatologico o va collocata al presente in cui la völva narra la sua
profezia?― (h) Si ritiene che a inabissarsi, nell'ultimissimo verso del poema, sia appunto la völva,
anche se in molte traduzioni hon «ella» viene emendato con hann «egli» e l'inabissamento finale
viene riferito a Níðhöggr. Ma che possa essere la veggente (e non il serpente) a inabissarsi, è forse
giustificato dal Baldrs Draumar, dove si narra di come Óðinn fosse sceso nel regno dei morti e con
un canto magico avesse tratto fuori una morta völva dal suo tumulo affinché interpretasse i funesti
sogni che affliggevano Baldr. Non c'è naturalmente alcuna indicazione che la völva del Baldrs
Draumar sia la stessa della Völuspá, ma non c'è nemmeno motivo di escluderlo.
HÁVAMÁL
IL DISCORSO DI HÁR
Detti per gli 81 At kveldi skal dag leyfa, A sera si deve il giorno
uomini. konu, er brennd er, lodare,
mæki, er reyndr er, la moglie, quando è cremata,
mey, er gefin er, la spada, quando è provata,
ís, er yfir kemr, la fanciulla, quando è
öl, er drukkit er. sposata,
il ghiaccio, quando è
attraversato,
la birra, quando è bevuta.
NOTE
1 ― Questa prima strofa è citata da Snorri (Gylfaginning [2]). Tre dei quattro manoscritti snorriani
omettono il terzo semiverso (1c); il Codex Trajectinus [T] è l'unico a riportare integralmente la
citazione.
12 ― (a) Si segue qui il piccolo emendamento dell'edizione di Jónsson dall'originale er «è» a era
«non è», che ha più senso nel contesto della strofa (Jónnson 1926).
13 ― (f) Gigantessa, figlia di Suttungr. Óðinn la sedusse per rubarle l'idromele della saggezza, v.
infra [104-110].
14 ― (c) Fjalarr e Galarr furono i due nani che uccisero Kvasir e dal suo sangue distillarono
l'idromele della saggezza, che poi venne rubato da Óðinn, v. infra [104-110].
22 ― (f) Anche qui, come in 12a, si segue l'emendamento dell'edizione di Jónsson dall'originale er
«è» a era «non è», che ha più senso nel contesto della strofa (Jónnson 1926).
27 ― (f) L'idea ricorda irresistibilmente il detto latino præstat tacere et stultus haberi quam edicere
et omne dubium removere «è meglio stare zitti e sembrare stupidi che parlare e togliere ogni
dubbio».
39 ― (e) Il manoscritto riporta semplicemente svági | at leið se laun ef þegi «non così | da sprezzare
una ricompensa se ne riceva». Jónsson emenda in svági gløggvan «non così avaro...» (Jónsson
1926), ma questo non sembra accettabile dal contesto. Altri ritengono che la parola soppressa sia, al
contrario, gjöflan «liberale, munifico, generoso» (Evans 1986). Su questa linea alcuni pensano che
la parola svági «non così» vada appunto scissa in svá «così» più un gi che verrebbe in questo caso
interpretato come un'abbreviazione o un errore dello scriba per gjöflan. Comunque sia, il senso
della frase è sicuramente che non esiste uomo così elargitore di doni che si offenda se ne riceva uno.
51 ― (c) L'antica «settimana» norvegese era di cinque giorni; solo col Cristianesimo sarebbe stata
adottata quella di sette (Leesthal 1939).
52-52 ― (d-e) «Mezzo pane» era espressione proverbiale per indicare piccola quantità (Leesthal
1939). «Coppa inclinata» è una coppa che, semivuota, va inclinata per potervi bere.
54 ― (f) L'originale ha er vel mart vito «coloro che molto sanno». Ma poiché la strofa non avrebbe
molto senso (all'esortazione di essere moderati in saggezza è arduo far seguire un'affermazione per
cui proprio i sapienti sarebbero gli uomini che vivono meglio), è stato proposto di emendare mart
vito nel suo negativo mart vitut (Evans 1986). La frase verrebbe così ad avere un significato
perfettamente contrario, anche se coerente con il contesto: «coloro che non molto sanno».
61 ― (e-f) Secondo Henry Adams Bellows, gli ultimi due semiversi sono stati interpolati
successivamente nella strofa (Bellows 1923).
65 — Questa strofa è probabilmente mutila della prima metà. Alcuni curatori vi premettono tre
semiversi tratti da manoscritti pià recenti, anche se la loro autenticità è dubbia. Essi suonano: «Un
uomo deve essere guardingo | e prudente molto, | e con giudizio fidarsi dell'amico» (Bellows 1923).
70 ― (b) Il manoscritto ha ok sæl lifðom, privo di senso. Fu lo stesso Rasmus Rask, agli esordi
degli studi germanistici, a suggerire di emendarlo in en sé ólifðum, poi adottato in tutte le traduzioni
(Rask 1818). ― (d-f) Olga Gogala di Leesthal traduce: «divampar vidi il fuoco presso il ricco |
mentre la Morte stava alla sua porta» (Leesthal 1939). Ha indubbiamente più senso ma non sembra
questo essere il significato della frase.
71 ― (e) È interessante notare che all' autore del componimento era ancora familiare l'uso di
bruciare i cadaveri. Questo può aiutarci a collocare la composizione di questa parte dell'Hávamál:
l'uso della cremazione fu infatti abbandonato con l'introduzione del Cristianesimo, quindi verso la
fine del IX secolo. (Leesthal 1939)
73 ― Alcuni studiosi ritengono che questa strofa, che poca attinenza ha con le precedenti o le
successive, sia il risultato di un'interpolazione posteriore (Bellows 1923).
74 ― (c) «Corti sono i pennoni delle navi». Non è ben chiaro il senso di questo semiverso
nell'ambito della strofa. Molti studiosi ritengono che qui, come in altre luoghi dell'Hávamál, il
compilatore o il copista abbia inserito dei versi isolati per cui non si trovava una collocazione
migliore (Bellows 1923). A nostro avviso, tuttavia, il non comprendere il senso di certi passaggi
non giustifica necessariamente lo smembramento delle strofe: certune associazioni di idee, o
particolari della vita pratica, che sembrano non avere senso per noi, non significa che non ne
avessero per coloro a cui il poema fosse destinato.
78 ― (b) Fitjungr, che qui è fornito come nome proprio, vuol dire in realtà «grassone, pancione,
ciccione» (da fita «grasso»). Si tratta del crapulone per antonomasia, a cui non fanno difetto le
ricchezze e l'appetito.
80 ― Bellows non ha dubbi sul fatto che questa strofa sia fuori posto; in particolare, il riferimento
alla magia runica suggerirebbe che originariamente la strofa dovesse essere posta in qualche lista di
canti magici come ad esempio il Ljóðatal [147-165]. Inoltre la struttura metrica di questa strofa
presenterebbe tali irregolarità da far pensare che siano andati perduti dei versi o che dei versi siano
stati interpolati (Bellows 1923). Il manoscritto non presenta tuttavia alcuna lacuna. A nostro parere,
il particolare metro della strofa (una variante del «metro strofico» [ljóðaháttr] costituita da un verso
«lungo» seguito da una lunga serie di versi «pieni») permette di confrontarla con le strofe [142-
143], costruite allo stesso modo. Poiché tutt'e tre le strofe trattano di sapienza runica, ci sembra
logico asserire che possano provenire da una medesima composizione, oggi perduta.
81-90 ― Questa serie di strofe non segue più il «metro strofico» [ljóðaháttr] caratteristico
dell'Hávamál. Più esattamente, nelle strofe [81-83] abbiamo il raro «metro delle canzoni»
[málaháttr] (che poi è una variante del «metro epico» [fornyrðislag]), la strofa [84] ritorna al
«metro strofico», le strofe [85-87] – che si configurano come una sorta di elenco di cose da cui è
necessario diffidare – sono in «metro epico» [fornyrðislag], la strofa [88] ritorna ancora una volta al
«metro strofico», le strofe [89-90] sono di nuovo nel «metro delle canzoni». Dopodiché il poema
ritorna al «metro strofico». Tali caotici mutamenti del metro indicano senza dubbio la presenza di
strofe e componimenti in origine indipendenti, interpolati nel nostro poema. Poiché alcune di queste
strofe consigliano perlopiù a diffidare delle donne, è presumibile che siano state inserite in questo
punto dell'Hávamál come introduzione alla susseguente vicenda della mancata seduzione della
figlia di Billingr da parte di Óðinn [96-102].
83 ― (d) In norreno en mæki saurgan è letteralmente «una spada sporca». S'intende naturalmente
una spada a lungo provata in battaglia e che è stata ripetutamente insozzata di sangue (da cui la
nostra traduzione). Si tratta dunque di una buona spada, ragione per cui nel testo se ne consiglia
l'acquisto.
84 ― (d-f) Questi tre semiversi sono citati nella Fóstbrǿðra saga, la «Saga dei fratelli adottivi».
87 ― Questa strofa è probabilmente incompleta. Alcuni editori aggiungono questi quattro semiversi
tratti da tarde redazioni dell'Hávamál: «del cielo chiaro | di una folla che ride | della ciotola di un
cane | del dolore di una sgualdrina».
96-102 ― Dopo aver trattato della falsità delle donne, in queste strofe la si illustra con un esempio
pratico, attraverso il racconto della mancata seduzione della figlia di Billingr da parte di Óðinn.
100 ― (e) I «bastoni impugnati» [bornum viði] sono probabilmente quelli delle torce, da cui si
evince il senso dei «fuochi di luce» [brennandum ljósum] del verso precedente, da noi tradotto – un
po' liberamente – con «torce avvampanti». ― (f) Vílstingr, letteralmente «via della miseria, della
malora, dello scorno».
102 ― Rasmus Rask aggiunge all'inizio di questa strofa tre semiversi tratti da un tardo manoscritto,
che suonano: «poche sono così buone | da non essere mai false | sì da ingannare la mente
dell'uomo». Questi tre semiversi e la prima parte della strofa (semiversi [102a-102c] formano,
nell'edizione di Rask, un'intera strofa; la seconda parte della strofa (semiversi [102d-102i] formano
una strofa a parte. (Rask 1818)
103 ― Questa strofa, che nulla ha a che fare con la vicenda della figlia di Billingr e quella di
Gunnlöð, è interposta tra le due apparentemente senza alcuna ragione logica.
104-110 ― In queste strofe si allude alla storia della seduzione (questa volta condotta a buon fine)
di Gunnlöð da parte di Óðinn e del furto dell'idromele della poesia. La vicenda, narrata da Snorri in
Skáldskaparmál [2], è la seguente: dopo aver ucciso il sapiente Kvasir, i nani Fjalarr e Galarr,
scolarono il suo sangue in un vaso chiamato Óðrørir e in due coppe, che poi dovettero consegnare
al gigante Suttungr come guidrigildo per l'uccisione del padre di questi. Suttungr portò il vaso e le
coppe nella sua caverna e vi mise a guardia la figlia Gunnlöð. Óðinn, che intendeva impadronirsi
del magico idromele, giunse nei pressi della casa di Suttungr, sotto il falso nome di Bölverkr «colui
che opera il male». Dopo aver forato la roccia con un trapano chiamato Rati, trasformatosi in
serpente, Óðinn passò attraverso il buco e giunse presso Gunnlöð. Dopo essere giaciuto con lei per
tre giorni e tre notti, Óðinn ricevette da lei il permesso di bere tre sorsi del magico idromele ma,
presi la coppa e i due vasi, in tre sorsi li vuotò. Trasformatosi in aquila, Óðinn fuggì poi verso
l'Ásgarðr ma, lungo il viaggio, scontrandosi con Suttungr, non poté fare a meno di versare sulla
terra un po' di idromele. Ed è così che l'arte poetica fu donata agli uomini.
106 ― (e) «Vie dei giganti» [jötna vegir] è una kenning per indicare le rocce. Ricordiamo che
Óðinn, trasformato in serpente, si era infilato nel foro lasciato dal trapano nella parete della roccia:
mentre scivolava nel pertugio, egli aveva roccia sopra e sotto di sé.
107 ― (a) Vel keypts litar. Nel suo importante studio sull'Hávamál, David Evans ritiene che il
manoscritto qui sia corrotto e traduce litar (litr è letteralmente «colore» ma, per estensione,
«aspetto, sembiante») come qualcosa che abbia a che fare con l'idromele della poesia. Secondo
l'autore, il resto del verso si riferirebbe appunto ai benefici del possesso di questo vélkeypts mjöðr
«idromele preso con l'inganno» (Evans 1986). A nostro parere, non c'era tuttavia bisogno di sviare
così tanto il senso della strofa, che così com'è si riferisce con sufficiente chiarezza alla seduzione di
Gunnlöð da parte di Óðinn, che gli permise di rubare il magico idromele custodito nel vaso Óðrørir.
― (f) Il senso letterale del verso á alda vés jarðar è «al santuario delle stirpi della terra»,
intendendo con ogni probabilità che il magico idromele, rubato da Óðinn a Suttungr, cadde poi sulla
terra di modo che anche presso gli uomini è oggi diffusa l'arte poetica. Questo è il mito narrato da
Snorri in Skáldskaparmál [2]. Essendo il verso un po' lambiccato, gli studiosi hanno creduto di
individuarvi delle corruttele. Jónnson ha proposto di emendare in á vé alda jaðars «al santuario del
signore delle stirpi», intendendo con questo che il magico idromele sarebbe stato poi trasportato
nell'Ásgarðr (Jónsson 1926). Questo «santuario del signore delle stirpi» sarebbe, nell'interpretazione
di Jónnson , una doppia kenning dove il «signore delle stirpi» è appunto Óðinn e il suo santuario
l'Ásgarðr. A parte il fatto che è sempre preferibile riferirsi al testo non emendato piuttosto che
modificarlo per adattarlo alle nostre interpretazioni, ma il mito del furto dell'idromele da parte di
Óðinn è appunto la rivelazione delle origini della poesia, dono degli dèi e strumento di sapienza
soprannaturale.
111-137 ― Questo gruppo di strofe comprende una composizione unitaria, a cui si dà generalmente
il titolo di Loddfáfnismál, «Discorso di Loddfáfnir», poi confluito nell'Hávamál. Si configura come
una serie di consigli che Hár («alto, eccelso», epiteto di Óðinn) rivolge a un certo Loddfáfnir,
riferiti da qualcuno che afferma di averli uditi nelle «sale di Hár». Il nome Loddfáfnir non compare
altrove, non sappiamo quindi dire chi fosse o di quali vicende fosse stato il protagonista. Alcuni
interpreti ritengono che Loddfáfnir sia stato uno scaldo itinerante, l'effettivo autore della
composizione, nella quale riferisce delle massime sapienziali che afferma di avere udito dallo stesso
Hár (ipse dixit). Secondo Karl Müllenhoff, infatti, il titolo Hávamál in origine era dato al solo
Loddfáfnismál (Müllenhoff 1908). Il contenuto delle strofe del Loddfáfnismál è in effetti assai assai
vicino a quello delle prime strofe dell'Hávamál. La strofa [111] è probabilmente corrotta ma,
nonostante gli sforzi fatti al riguardo, è arduo individuare ed emendare le corruttele.
112 ― La lunga formula che introduce la maggior parte dei versi del Loddfáfnismál nei manoscritti
viene in seguito riferita in modo abbreviato.
115 ― (g) Eyrarúna vuol dire letteralmente «mormorare all'orecchio»; da qui, nel linguaggio
poetico eyrarúno è colei che mormora in segreto all'orecchio di qualcuno, una confidente, intima
amica, amante. Questa parola compare qui e in Völuspá [39] dove ha addirittura il significato di
«moglie».
114 ― (f) Si confronti con la scena, presente nel poema anglosassone Il lamento di Deor, dove è
detto di Mæðhild «un doloroso amore la privava di tutto il sonno» [þæt him seo sorglufu slæp ealle
binom].
119 ― (g) A quanto pare, nel manoscritto originale, i versi [119h-119j] si trovavano, ripetuti, in
fondo alla strofa [44]. Da qui, Barend Sijmons deduceva che l'autore del Loddfáfnismál era anche
quello del Gestaþáttr (Sijmons 1906). L'ipotesi è forse un po' eccessiva: nulla impedisce che, nella
rielaborazione del materiale del Hávamál, gli stessi versi siano stati erroneamente ripetuti in due
punti diversi. Nelle edizioni critiche, questi versi sono espuntati dalla strofa [44] (rimane il
semiverso [44f] simile, ma non identico, al [119g]).
120 ― (g) Nem liknargaldr «impara incantesimi benefici» è la traduzione letterale (galdr è infatti il
canto magico). Poiché questa chiusa non è molto coerente col resto della strofa, Sijmons gioca
sull'analogia tra magia e fascino e intende: «impara a renderti amabile» (Sijmons 1906).
L'interpretazione ha il pregio di accordarsi al significato della strofa, ma il difetto di essere
eccessivamente libera.
122 ― (g) Ósvinna apa, letteralmente «insavie scimmie» ma, in senso traslato, «idioti, folli». Il
norreno api (cfr.anglosassone apa, inglese ape «scimmia») ha entrambi i significati; questo
vocabolo non si trova nella poesia scaldica, né nella prosa popolare, ma si riscontra unicamente
nella letteratura religiosa e sapienziale.
124 ― (a) Sifjum er þá blandat. Sif significa «relazione, parentela», in questo caso sta per
«amicizia»; blanda è «mescolare, scambiare». Si intende qui una relazione di amicizia che è quasi
un vincolo di parentela. Si potrebbe forse riferire alla «fratellanza di sangue», con la quale si
mescolava il sangue in una solenne cerimonia (Leesthal 1939).
127 ― (f) Nel testo kveðu þ' bölvi at. Nella sua edizione dell'Hávamál, Bugge espande la
contrazione «þ'» in þér «a te» nel testo («afferma sia un'offesa a te»), ma in appendice propone una
lettura alternativa þat «questo» («afferma sia questo un'offesa») (Bugge 1867). Qualunque sia la
soluzione corretta, non inficia il senso della traduzione: «protesta ad alta voce per l'offesa che ricevi
e non lasciar correre per viltà o debolezza».
129 ― (g) Gjalti glíkir è letteralmente «somiglianti a cinghiali». In genere viene inteso come «pazzi
di terrore», nel senso dell'espressione norrena svín galinn «pazzo come un porco». Si è anche
pensato, con scarsa verosimiglianza, a una possibile influenza dell'episodio evangelico dei dèmoni
che entrano in un branco di porci (Vangelo secondo Matteo [8]). È anche possibile che questo
semiverso e il successivo siano stati interpolati da un differente poema (Bellows 1923). ― (i) Síðr
þitt of heilli halir. Jónsson suggerisce che þitt qui possa avere più senso come pronome accusativo
þik «te» (Jónsson 1926). Evans emenda in þik (Evans 1986). Anche se abbiamo lasciato il testo
norreno originale, in traduzione abbiamo tenuto conto dei suggerimenti.
131 ― (f) Ok eigi ofváran. I due semiversi suonano letteralmente «prudente io ti consiglio di essere
| e non troppo prudente», ma il passo suona meglio leggendo come fosse en «ma» invece di ok «e».
Nonostante le argomentazioni di molti studiosi, non c'è tuttavia necessariamente da pensare che il
testo sia corrotto (cfr. nota 70b). ― (f-j) È probabile che questi quattro semiversi siano stati
interpolati da un differente poema (Bellows 1923).
133 ― Molti editori eliminano gli ultimi tre semiversi [133d-133f] di questa strofa come spuri,
ponendo i primi tre semiversi [133a-133c] alla fine della strofa [132]. Altri, dopo aver spostato i
semiversi [133d-133f] in coda alla strofa [132], li sostituiscono inserendo tre semiversi tratti da un
tardo manoscritto e che suonano: «male e bene | i figli degli uomini | portano sempre mescolati in
petto». (Bellows 1923).
134-134 ― (h-l) È possibile che gli ultimi cinque semiversi della strofa siano stati interpolati da un
differente poema (il parallelismo tra gli ultimi tre indica la comune origine). Secondo Bellows, la
loro interpolazione in questa strofa dipende dall'associazione tra la pelle grinzosa delle persone
anziane e gli otri di cuoio appesi nelle antiche case di campagna vichinghe (Bellows 1923). ― (l) Il
fermento che si formava nello stomaco dei vitelli veniva adoperato per la preparazione del latte
rappreso e del formaggio, dopo essere stato lavato e appeso ad asciugare e affumicare. Vílmögr è lo
stomaco che contiene appunto il vil, termine usato ancora oggi in Islanda per designare questo
speciale fermento del latte (Sijmons 1906 | Leesthal 1939).
137 ― Questa strofa, lista di strani rimedi magici, è una delle più ardue e di difficile
interpretazione. Secondo alcuni studiosi sarebbe stata probabilmente interpolata, ma – vista le
oggettive difficoltà a penetrare le antiche pratiche magiche di uso quotidiano – è assai più probabile
che siano gli studiosi stessi a non riuscire a capirci molto! Diamo nelle note seguenti qualche
spiegazione riguardo ai versi più ardui. ― (f-g) «Invoca per te la forza della terra! | perché la terra
serve contro la birra». Secondo la spiegazione di Olga Gogala di Leesthal, questa coppia di
semiversi farebbe riferimento al fatto che la birra che veniva distillata in casa conteneva spesso dei
tossici, in quanto non si sapeva ben ripulire il grano dalle erbacce; si provvedeva dunque a
mescolare la terra alla birra per neutralizzarne le eventuali qualità nocive (Leesthal 1939). È forse
una spiegazione troppo pratica per un poema di argomento magico. È invece possibile, a nostro
parere, che si faccia riferimento all'uso vichingo di versare in terra il primo sorso di birra in modo
da nutrire gli spiriti del luogo [landvættir] affinché potesse esserci armonia tra le forze
soprannaturali che vigilavano sul territorio e gli uomini che vi dimoravano. ― (i) Tra i rimedi
rimedi erboristici, la quercia [fik] e i suoi prodotti erano consigliati per le irregolarità intestinali
(abbinde è la dissenteria); fino a tempi molto recenti si dava da bere ai bambini caffè di ghianda
come astringente (Leesthal 1939). ― (j) Reichborn-Kjennerud ricorda al riguardo che in Norvegia e
in Svezia la spiga di grano veniva utilizzata contro il mal di denti e altre malattie (Reichborn-
Kjennerud 1923 | Leesthal 1939). ― (k) Höll við hýrógi. Il significato letterale è «la sala [agisce]
contro le liti in famiglia». Anche se è vero che i litigi familiari si svolgono nel chiuso delle sale,
rimane difficile cogliere il senso della frase. Molti autori hanno proposte varie interpretazioni.
Secondo Sijmons la parola höll «sala» andrebbe emendata in havll, nome nordico del sambuco
[Sambucus nigra] (Sijmons 1906). Questa è la soluzione comunemente accettata dai traduttori. Si
veda ad esempio la traduzione inglese di Henry Adams Bellows «la segale cura i dissidi» [rye cures
rupture] (Bellows 1923). In Italia, Olga Gogala di Leesthal traduce «il sambuco [sana] i dissidi
familiari» e sana anche, aggiunge in nota, tutti i malanni che ne possono derivare, come l'itterizia,
malattia associata alla collera e all'inquietudine (Leesthal 1939). Anche Piergiuseppe Scardigli e
Marcello Meli traducono «il sambuco [si porta via] le liti familiari» (Scardigli 1982). ― (m) Beiti
við bitsóttum. Altra frase di ardua interpretazione. La parola bíta in norreno vuol dire «mordere»
(bit è «morso»). Bitsótt è la «malattia del morso», probabilmente una malattia contagiosa trasmessa
attraverso il morso di un animale. Traduciamo per brevità «rabbia», ma si tratta di una licenza.
Quello che sfugge è il significato della prima parola, beiti, anch'essa legata all'area semantica del
mordere. Rask. Sijmons la riferisce al lombrico [Lumbricus terrestris], in quanto in norreno beit-
fiskr indicava l'esca utilizzata nella pesca, tanto che – sempre secondo Sijmons – ancora ai primi del
Novecento in alcuni dialetti norvegesi il lombrico sarebbe stato chiamato beite o bietel (Sijmons
1906). Da qui la traduzione di Olga Gogala di Leesthal che rende questo semiverso con «serve il
lombrico per ferite e morsi», ricordando in nota come il lombrico venisse adoperato in medicina fin
dai tempi remoti (Leesthal 1939). Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli traducono «l'allume
[porta via] le malattie da morsi» (Scardigli 1982). Ci sembra che tali traduzioni siano
eccessivamente cervellotiche, tanto più che il significato principale di beiti è «pascolo».Già ai primi
dell'Ottocento, la traduzione svedese di Rasmus Rask riportava «il pascolo cura le malattie dei
morsi» [bete mot bitsjuka] (pur conservando l'ambiguità, perché in svedese bete vuol dire anche
«esca») (Rask 1818). Su questa linea la traduzione di Henry Bellows «l'erba cura la scabbia» [grass
cures the scab] (ma la scabbia si trasmette per contatto, non con i morsi) (Bellows 1923). Secondo
il monumentale dizionario antico islandese di Richard Cleasby e Gudbrand Vigfússon, la parola
beiti, oltre ad avere il significato generale di «pascolo», indica pure l'erica [Erica vulgaris] (Cleasby
~ Vigfússon 1874). Ci sembra che sia questa la soluzione più semplice ed elegante. ― (o) Flóð in
norreno significa «inondazione, diluvio, alluvione»; in poesia la parola può anche indicare un fiume
o un mare. Di qui le traduzioni letterali, come quella inglese di Bellows «il campo assorbe gli
allagamenti» [the field absorbs the flood] (Bellows 1923). Più sottile quella italiana di Olga Gogala
di Leesthal «il terreno gli umori assorbe» (Leesthal 1939). Interessante la traduzione di
Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli che insinua la presenza dell'elemento magico: «la terra porta
via il flusso maligno» (Scardigli 1982).
138-145 ― Questa sezione è intitolata Dissertazione sulle rune. Si allude al mito di come Óðinn
sacrificò sé stesso per impossessarsi del potere delle rune, racconto che purtroppo non è riferito da
altri documenti e del quale l'Hávamál rimane l'unica fonte. Questa la ragione per cui l'intero passo
rimane oscuro e di ardua interpretazione. Se questo non bastasse, il brano sembra essere corrotto: le
strofe [138 | 139 | 141] seguono la vicenda del sacrificio di Óðinn, mentre la [140] sembra provenga
dalla sezione relativa alla seduzione di Gunnlöð e al furto dell'idromele della poesia [104-110]. Le
strofe dalla [142] alla [145] provengono da fonti diverse e sembrano essere state inserite qui
semplicemente perché trattano lo stesso argomento, la conoscenza delle rune e il potere che ne
deriva.
138 ― (g-i) Questi tre semiversi sono anche presenti nello Svipdagsmál [30].
140 ― Questa strofa, come detto, sembra provenga dalla sezione relativa alla seduzione di Gunnlöð
[104-110], come si evince dal riferimento all'idromele della poesia contenuto nel vaso Óðrørir.
Come sappiamo da Snorri (Gylfaginning [6]), Bestla fu la madre di Óðinn, Bölþorn ne fu il nonno.
Nulla tuttavia sappiamo di questo altro figlio di Bölþorn che, stando a quanto qui è detto, avrebbe
insegnato a Óðinn nove «terribili canti magici» [fimbulljóð]. Alcuni interpreti ritengono si tratti di
Mímir che, in tal caso, diverrebbe zio di Óðinn. È un'ipotesi elegante ma, ahimé, rimane soltanto
un'ipotesi.
142 ― (e) Il «terribile vate» [fimbulþulr] di cui qui si parla è evidentemente lo stesso Óðinn. Si noti
che le rune, una volta incise nel legno, venivano dipinte di rosso.
143 ― I nomi Dáinn e Dvalinn compaiono entrambi come nomi di nani in Völuspá [14]. Il fatto che
qui Dáinn venga detto un elfo potrebbe essere spiegato come la possibilità di una confusione tra i
vari esseri che partecipavano alla sfera del soprannaturale: sappiamo infatti che gli elfi scuri
[Døkkálfar] dimoravano sottoterra ed erano spesso confusi con i nani (così come in molti testi nani
e troll e giganti sembrano confondersi gli uni con gli altri, nella vaga immagine di esseri primordiali
legati al mondo litico). In ogni caso, Dáinn è l'unico nome di elfo che conosciamo, per quanto sia
anche un nome di nano. Inoltre, i nomi Dáinn e Dvalinn compaiono insieme anche nel Grímnismál
[33], anche se come nomi di due dei quattro cervi che rodono le foglie del frassino Yggdrasill. Del
gigante Ásviðr «tutto saggio» non si hanno altre ricorrenze nella letteratura.
144 ― Questa strofa, che utilizza il «metro delle canzoni» [málaháttr], è un'interpolazione da una
fonte ancora diversa. Nel manoscritto la frase «sai tu come» [veistu hvé] è abbreviata.
145 ― Anche questa strofa è problematica. Si ritiene che i semiversi a-e e i semiversi f-i
appartenessero in origine a due strofe diverse: Bugge pensa che questi ultimi provengano dalla fine
della strofa [143] (Bugge 1867). ― (f) Þundr, epiteto di Óðinn.
146-163 ― Questa sezione è intitolata Dissertazione sui canti magici. Óðinn parla di diciotto dei
potenti canti magici che egli conosce, dei quali spiega le proprietà, pur non enunciando i canti
stessi. L'enumerazione dei canti (primo, secondo, terzo, etc.) viene data nel testo in numeri romani.
147 ― (c) Nell'edizione tradotta da Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli si legge «di che cosa i
figli degli uomini abbiano bisogno | se vogliono vivere da mendici» (Scardigli 1982). È sicuramente
una svista: la parola corretta non è «mendici» ma «medici». È infatti quest'ultimo il significato del
norreno læknar. Anche se val forse la pena di sottolineare che dall'anglosassone læce «guaritore» è
derivata, in inglese moderno, la parola leech «sanguisuga» (anche in senso figurato), proprio grazie
al largo impiego che la medicina antica faceva di questo animaletto per praticare salassi e simili.
149 ― Questa strofa riguardante la magica liberazione di un prigioniero da ceppi e catene, ricorda
una scena narrata dal Venerabile Beda e riguardante il nortumbriano Imma il quale, catturato dopo
la battaglia di Trent (679), non poté essere legato in alcun modo in quanto corde e catene si
scioglievano magicamente e cadevano a terra. La ragione di questo fatto era che suo fratello Tunna,
avendo creduto che Imma fosse morto in battaglia, aveva fatto dire molte messe per liberare la sua
anima: poiché Imma era vivo, quelle messe avevano invece l'effetto di liberarlo fisicamente dai
ceppi. (Historia ecclesiastica Anglorum [IV: 22])
151 ― (c) Á rotom rás viðar «con radici di un albero verdeggiante». Semiverso di difficile
interpretazione: difficile dire quale sia il senso di ferire un uomo con la radice di un albero verde (si
potrebbe ad esempio pensare a quanto narrato nella Grettis saga, in cui si causa la morte del
protagonista incidendo rune su una radice che gli era stata mandata). Effettivamente è all'opera
qualche tipo di arte magica, visto che Óðinn si dice in grado di ritorcere la fattura al nemico. Alcuni
traduttori hanno proposto di emendare la problematica parola rás (qui interpretata «verdeggiante»)
con rams «forte», ma questo non riduce le perplessità.
155 ― (b) «Cavalcatrici dei recinti» [túnriður] è una kenning per «streghe».
160 ― Secondo l'opinione di Müllenhoff, questa strofa sarebbe stata la conclusione originale
dell'Hávamál e la frase «un quindicesimo» sarebbe stata aggiunta soltanto quando la strofa finì per
essere inserita nella sezione dei canti magici (Müllenhoff 1908). Non è molto chiaro, tuttavia, su
quali basi si possa sostenere tale ipotesi: non ci sembra che questa strofa abbia qualcosa di
particolarmente significativo da giustificare tale asserzione. ― (b) Þjóðrörir non è menzionato
altrove: non sappiamo chi fosse. ― (f) Hroptatýr è epiteto di Óðinn.
162 ― Questa strofa è il risultato della giustapposizione di due strofe differenti. I primi tre
semiversi di questa strofa (a-c) sono infatti quanto resta di una strofa originariamente indipendente,
che è stata poi giustapposta alla strofa successiva (qui formata dai semiversi d-i). Molte edizioni le
registrano infatti come due strofe differenti, la prima delle quali lacunosa. I tentativi di completare i
versi mancanti non hanno dato risultati convincenti. Il richiamo a Loddfáfnir nella seconda parte
della strofa fa capire che questa apparteneva in origine alla sezione del Discorso di Loddfáfnir.
163 ― (g-i) Cioè «se non, unica, a colei | che col braccio mi cinge | oppure è a me sorella». Chi è
questa donna che viene detta essere l'«unica» [einni] confidente di Óðinn per quanto riguarda le
segrete arti magiche del dio? Alcuni interpreti intendono questo passo nel senso che, in qualche
antica versione del mito nordico, la sposa di Óðinn fosse anche sua sorella (a volte con l'esplicito
intento di «nobilitare» il mito nordico tracciando un parallelo classico con Iuppiter, la cui sposa
Iuno era detta et soror et coniunx (Eneide [I: 47])). Al contrario, nell'Hávamál i due attributi sono
posti tra loro in una sorta di opposizione, in cui il secondo è introdotto dalla congiunzione eða «o».
Il tono della strofa sembra essere generale: non pare che Óðinn si riferisca a qualcuno in particolare.
Il senso è probabilmente: «non racconterei queste cose a nessun altro, tranne forse, unica persona, a
mia moglie od a mia sorella».
164 ― La chiusa dell'Hávamál viene di nuovo dal Discorso di Loddfáfnir. È evidente che è slittata
alla fine del poema a causa dell'inserzione della Dissertazione sulle rune e della Dissertazione sui
canti magici. Vari traduttori tendono a rimetterla «a posto», dopo la strofa [137], così da concludere
la sezione iniziata con la strofa [111] (Müllenhoff 1908 | Bellows 1923).
VAFÞRÚÐNISMÁL
IL DISCORSO DI VAFÞRÚÐNIR
IL DISCORSO DI
VAFÞRÚÐNISMÁL
VAFÞRÚÐNIR
1 ― Óðinn kvað, Vafþrúðnir kvað. Tutte le strofe sono introdotte da una frase che informa a chi
vada attribuito il dialogo seguente («disse Óðinn», «disse Vafþrúðnir»), In entrambi i manoscritti
del Vafþrúðnismál, tuttavia, la frase appare in forma abbreviata.
5 ― È l'unica strofa narrativa (non dialogica) del poemetto, che alcuni presumono essere
un'interpolazione più tarda rispetto al resto del testo (Bellows 1936). ― (e) Ímr «Scuro»,
presumibilmente il nome del figlio di Vafþrúðnir. ― (f) Yggr «Terribile», è epiteto di Óðinn.
8 ― (a) Gagnráðr (nelle þulur, Gangráðr) «Che conosce la via». Nei suoi viaggi, Óðinn si dissimula
sempre sotto diversi epiteti.
10 ― Questa sentenza, «L'uomo che non è ricco e che dal ricco va...», ricorda molto da vicino il
genere di consigli che Óðinn dispensa nella prima parte dell'Hávamál. È probabile che questa strofa
sia stata introdotta qui da qualche fonte di quel genere.
13 ― Nel manoscritto originale, in questo e in altri passi del poemetto, la formula che introduce la
strofa - e che viene ripetuta per molte strofe successive - è sovente abbreviata.
18 ― Strofa citata da Snorri (Gylfaginning [51 {54}]). ― (d) «Cento leghe» si è tradotto
letteralmente ma bisogna ricordare che il norreno classico utilizzava una numerazione duodecimale
e hundrað significava «centoventi» (solo in epoca tarda venne a indicare «cento» ma per lungo
tempo i due sistemi di numerazione convissero l'uno accanto all'altro). In ogni caso il numero qui è
una cifra simbolica.
19 ― Vafþrúðnir, impressionato dalla sapienza del suo ospite, lo invita ad accedere in sala. Egli
propone di rendere interessante la gara giocando la testa su chi dei due sia il più sapiente.
20 ― La versione del Vafþrúðnismál tramandata dal Codex Arnamagnæanus inizia dal secondo
semiverso del primo verso di questa strofa.
21 ― Il dettaglio della creazione del mondo a partire dal sacrificio di Ymir è ripreso nel
Grímnismál [21], in una strofa talmente simile da far pensare a un'interpolazione. Queste sono le
fonti citate da Snorri (Gylfaginning [10]). [MITO]
23 ― Il mito della nascita del sole e della luna (Sól e Máni) è narrato da Snorri (Gylfaginning [10-
11]) [SAGGIO]. Tuttavia in Snorri, Mundilfǿri non fu padre tanto del sole e della luna, quanto di due
ragazzi che vennero chiamati Sól e Máni poiché erano talmente belli e splendenti da essere
paragonabili al sole e alla luna. Per questo Óðinn li rapì e li pose in cielo a guidare rispettivamente
il carro solare e il carro lunare. [MITO]
27 ― Questa strofa è formata soltanto di due versi (uno lungo e uno pieno), e così la troviamo sia
nel Codex Regius che nel Codex Arnamagnæanus. Vi è probabilmente una lacuna, come è
testimoniata dall'esempio della strofa [31], formata anch'essa di soli due versi ma a cui Snorri
aggiunge i due mancanti. In alcuni manoscritti recenti, la strofa è «completata» con questi due versi:
«e questi due rimarranno per sempre | finché gli dèi andranno alla distruzione». Ingegnosamente,
ma con scarsa verosimiglianza, Sophus Bugge propone di integrare la parte difettiva della strofa con
una presunta parafrasi tratta da Snorri (Gylfaginning [19]), e scrive: «Vásaðr si chiamava il padre di
Vindsvalr | gelida nell'intimo la loro schiatta» (Bugge 1867).
29 ― (d) Si ritiene comunemente - pur senza prove esplicite - che questo Þrúðgelmir sia il gigante
dalle sei teste generato da Ymir «piede con piede» di cui si parla qui (Vafþrúðnismál [33]) e in
Snorri (Gylfaginning [6]). ― (f) Secondo Snorri, Aurgelmir è il nome con cui i giganti di brina
chiamavano Ymir (Gylfaginning [5]).
30-31 ― La seconda metà della strofa [30] e tutta la [31] vengono citate da Snorri (Gylfaginning [5
{8}]). Si noti chenei due manoscritti del Vafþrúðnismál, la strofa [31] conteneva soltanto la prima
metà: «Fuori dagli Elivágar | schizzavano gocce di veleno | e crebbero finché ne sortì un gigante».
È Snorri a citare la strofa completa, aggiungendo: la seconda metà del verso: «Di là le nostre stirpi |
vennero tutte del pari originate, | sono per questo progenie perversa.». Che noi abbiamo integrato.
38 ― Con questa strofa la formula introduttiva cambia leggermente: ma è molto interessante notare
il gioco di variazioni nelle varie formule, che preludono al finale.
42 ― (d) Si è preferito letteralmente con «rune» la parola originale rúnar. Naturalmente si può
anche intendere questo rúnar, come fanno molti commentatori, in senso traslato. Piergiuseppe
Scardigli traduce ad esempio «dei misteri dei giganti e degli dèi tutti tu dici quel ch'è senz'ombra
vero» (Scardigli 1982). Ma in questa parola rúnar è compresa, in più, la conoscenza delle cose
occulte e profonde. Più etimologicamente, ma un po' forzando il significato, si può ancora intendere
rúnar con quelle parole di conoscenza e di potere di cui si può soltanto sussurrare a bassa voce.
«Riguardo a cosa mormorano tra loro gli dèi e i giganti tu, Vafþrúðnir, dici il vero». La parola
rúnar comprende insieme tutto questo: quindi la nostra decisione di tradurre con «rune». Stessa
traduzione al verso [43a].
47 ― Strofa citata da Snorri (Gylfaginning [53]). ― (b) Alfröðull «Splendore degli elfi, gloria degli
elfi» è una kenning, o forse un epiteto, di Sól. Il sostantivo röðull indica l'aureola o la gloria regale.
Si tratta di un concetto-chiave del pensiero indoeuropeo col quale viene intesa l'aura di maestà che
ammantava i legittimi sovrani; ne troviamo un perfetto parallelo in antico persiano, dove questo
concetto veniva indicata col termine xvarənāh, a cui corrispondeva il termine xvarə- «sole». Anche
in norreno, come nel nostro caso, il termine viene utilizzato nei costrutti poetici col significato di
«sole».
49 ― (c) Chi sono le «fanciulle di Mögþrasir»? Quest'ultimo nome, il cui significato è «desideroso
di figli», non è citato in nessun'altra fonte. Si tratta di un riferimento a un mito sconosciuto, su cui
non si può dir nulla.
53 ― (b) Qui, come in precedenza al verso [4e], Aldaföðr «Padre degli uomini» è epiteto di Óðinn.
54 ― (f) Il figlio di Óðinn è Baldr, di cui Snorri narra diffusamente il funerale (Gylfaginning [49]),
anche se il dettaglio delle parole misteriose che Óðinn avrebbe sussurrato all'orecchio del figlio
morto, è presente soltanto in questa fonte.
55 ― Solo Óðinn può sapere cosa ha egli sussurrato alle orecchie di Baldr: da questo dettaglio,
Vafþrúðnir comprende che la persona che ha di fronte altri non è che Óðinn stesso. Naturalmente il
gigante non può rispondere alla domanda che il dio gli ha posto, diciamo pure, un po' slealmente.
Ma quale fosse quella domanda, i testi hanno mantenuto il segreto.
GRÍMNISMÁL
IL DISCORSO DI GRÍMNIR
Prologo
Grímnir inizia a parlare (1-3)
Descrizione delle dimore divine (4-17)
La Valhöll (9-10)
La cucina della Valhöll (18)
Lupi e corvi (19-20)
Ancora sulla Valhöll (21-26)
I fiumi dell'universo (27-29)
I destrieri degli dèi (30)
Il frassino Yggdrasill (31-35)
Le valchirie (36)
Il sole e la luna (37-39)
Il sacrificio di Ymir (40-42)
Le cose migliori (43-44)
I nomi di Óðinn (45-50)
Si rivela Óðinn (51-54)
Epilogo
Note
IL DISCORSO DI
GRÍMNISMÁL
GRÍMNIR
Sacra è la terra
Land er heilagt
ch'io stendersi vedo
er ek liggja sé
Descrizione agli Æsir e agli elfi vicina.
ásom ok álfom nær;
delle dimore 4 In Þrúðheimr
en í Þrúðheimi
divine vi sarà Þórr
skal Þórr vera,
finché non crolleranno gli
unz um rjúfaz regin.
dèi.
Ýdalir si chiama
Ýdalir heita,
il luogo dove Ullr ha
þar er Ullr hefir
costruito per sé una corte.
sér um görva sali.
5 Álfheimr a Freyr
Álfheim Frey
donarono in principio
gáfo i árdaga
gli dèi per il suo primo
tívar at tannfé.
dente.
È assai riconoscibile
Mjök er auðkent per quelli che vengono a
þeim er til Óðins koma Óðinn,
salkynni at sjá: l'aspetto del salone:
La Valhöll 9
sköptom er rann rept, da lance il tetto è sorretto,
skjöldom er salr þakiðr, da scudi il salone è coperto,
brynjom un bekki strát. da corazze le panche son
tratte.
È assai riconoscibile
Mjök er auðkent per quelli che vengono a
þeim er til Óðins koma Óðinn,
salkynni at sjá: l'aspetto del salone:
10
vargr hangir un lupo è appeso
fyr vestan dyrr dinanzi all'ingresso
ok drúpir örn yfir. occidentale
e si leva l'aquila sopra.
Þrymheimr si chiama la
Þrymheimr heitir enn sétti, sesta
er Þjazi bjó, dove Þjazi viveva,
sá inn ámátki jötunn; quel detestabile gigante.
11
en nú Skaði byggvir, Ora Skaði risiede,
skír brúðr goða, pura sposa degli dèi,
fornar tóptir föður. nell'antica dimora del
padre.
Glitnir è la decima,
Glitnir er inn tíundi, sorretta da pilastri d'oro
hann er gulli studdr e d'argento ancora
ok silfri þakðr it sama; ricoperta.
15
en þar Forseti Là Forseti
byggir flestan dag abita la maggior parte del
ok svæfer allar sakir. giorno
e appiana tutte le contese.
Andhrímnir
Andhrímnir
fa in Eldhrímnir
lætri í Eldhrímne
La cucina Sæhrímnir bollire,
Sæhrímne soðinn,
della 18 la carne migliore.
fleska bezt;
Valhöll E questo in pochi lo sanno,
en þat fáir vito
di che cosa gli Einherjar si
við hvat einherjar alaz.
nutrano.
Valgrind si chiama
Valgrind heitir, quel che s'erge sul campo,
er stendr velli á sacro dinanzi alle sacre
heilög fyr helgom durom; porte;
22
forn er sú grind, antico è quel cancello:
en þat fáir vito, e in pochi sanno
hvé hón er i lás lokin. come funzioni il
chiavistello.
Cinquecento stanze
Fimm hundruð gólfa e ancora quaranta
ok um fjórom tøgom, credo vi siano in Bilskírnir,
svá hýgg ek Bilskirnni með ricca d'archi;
23 bugom; di tutti gli edifici
ranna þeira che io sappia abbiano un
er ek rept vita tetto,
míns veit ek mest magar. so che il più grande è di
mio figlio.
Eikþyrnir si chiama il
cervo
che si erge sulla sala di
Eikþyrnir heitir hjörtr,
Herjaföðr
er stendr á höllo Herjaföðrs
e bruca le fronde del
ok bítr af Læraðs limom;
26 Læraðr.
en af hans hornom
Dalle sue corna
drýpr i Hvergelmi,
cadono gocce in
þaðan eigo vötn öll vega.
Hvergelmir,
da cui prendono le acque
ogni via.
Síð e Víð,
Síð ok Víð,
Sekin ed Ekin,
Sækin ok Ækin,
Svöl e Gunnþrá,
Svöl ok Gunnþró,
Fjörm e Fimbulþul,
Fjörm ok Fimbulþul,
Rín e Rennandi,
Rín ok Rennandi,
I fiumi Gipul e Göpul,
27 Gipul ok Göpul,
dell'universo Gömul e Geirvimul,
Gömul ok Geirvimul,
questi scorrono accanto ai
þær hverfa um hodd goða,
tesori divini.
Þyn ok Vin,
Þyn e Vin,
Þöll ok Höll,
Þöll e Höll,
Gráð ok Gunnþorin.
Gráð e Gunnþráin.
Glaðr e Gyllir,
Gler e Skeiðbrimir,
Glaðr ok Gyllir,
Silfrintoppr e Sinir,
Gler ok Skeiðbrimir,
Gísl e Falhófnir,
Silfrintoppr ok Sinir,
Gulltoppr e Léttfeti,
Gísl ok Falhófnir,
I destrieri su questi destrieri
30 Gulltoppr ok Léttfeti,
degli dèi cavalcano gli Æsir
þeim ríða æsir jóm
ogni giorno
dag hvernn,
quando si recano al
er þeir dæma fara
consiglio
at aski Yggdrasils.
presso il frassino
Yggdrasill.
Tre radici
Þrjár rætr si estendono in tre direzioni
standa á þrjá vega sotto il frassino Yggdrasill;
Il frassino undan aski Yggdrasils; Hel sotto l'una dimora,
31
Yggdrasill Hel býr undir einni, sotto l'altra i giganti di
annarri hrímþursar, brina,
þriðjo mennzkir menn. sotto la terza gli esseri
umani.
Ratatoskr si chiama lo
Ratatoskr heitir íkorni, scoiattolo
er renna skal che correrà
at aski Yggrdrasils; sul frassino Yggdrasill;
32
arnar orð dell'aquila le parole
hann skal ofan bera dall'alto porterà
ok segja Níðhöggvi niðr. e le riferirà a Níðhöggr in
basso.
Il frassino Yggdrasill
Askr Yggdrasils
sopporta pene
drýgir erfiði
più grandi di quanto gli
meira enn menn viti:
35 uomini sappiano:
hjörtr bitr ofan,
il cervo lo bruca in alto,
en á hliðo fúnar,
da un parte marcisce
skerðer Níðhöggr neðan.
lo rode Níðhöggr da sotto.
Hrist e Mist
Hrist ok Mist voglio che mi portino il
vil ek at mér horn beri, corno,
Skeggjöld ok Skögul, Skeggjöld e Skögul,
Hildi ok Þrúði, Hildi e Þrúði,
Le valchirie 36 Hlökk ok Herfjötur, Hlökk e Herfjötur,
Göll ok Geirölul, Göll e Geirölul,
Randgríð ok Ráðgríð Randgríð e Ráðgríð
ok Reginleif; e Reginleif;
þær bera einherjom öl. queste portano birra agli
Einherjar.
Svalinn si chiama
Svalinn heitir, quel che si leva davanti al
hann stendr sólo fyrir, sole,
skjöldr, skínanda goði; scudo, dinanzi alla divinità
38
björg ok brim splendente;
ek veit at brenna skolo monti e mari
ef hann fellr í frá. lo so che brucerebbero
se da lì cadesse.
Di Ullr ha il favore
Ullar hylli hefr e di tutti gli dèi
ok allra goða chi tocca per primo il
hverr er tekr fyrstr á funa; fuoco;
42
þvíat opnir heimar poiché visibili si fanno le
verða um ása sonum, case
þá er hefja af hvera. dei figli degli Æsir,
una volta tolti i calderoni.
I figli di Ívaldi
Ívalda synir
andarono al principio
gengo í árdaga
a forgiare Skíðblaðnir,
Le cose skíðblaðni at skapa,
43 nave propizia
migliori skipa bezt,
per il luminoso Freyr,
skírom Frey,
il benedetto figlio di
nýtom Njarðar bur.
Njörðr.
Il volto ho innalzato
Svipom hefi ek nú ypt dinanzi ai figli degli dèi
fyr sigtíva sonom, vittoriosi,
við þat skal vilbjörg vaka; con ciò si desterà la
I nomi di
45 öllom ásom sospirata salvezza;
Óðinn
þat skal inn koma per tutti gli Æsir,
Ægis bekki á, e questo verrà
Ægis drekko at. sulla panca di Ægir,
nella taverna di Ægir.
Síðhöttr, Síðskeggr,
Síðhöttr, Síðskeggr,
Sigföðr, Hnikuðr,
Sigföðr, Hnikuðr,
Allföðr, Valföðr,
Alföðr, Valföðr,
Atríðr e Farmatýr;
48 Atríðr ok Farmatýr;
con un nome soltanto
eino nafni
non mi chiamo mai
hétomk aldregi,
quando io tra le genti
síz ek með fólkom fór.
viaggio.
Un cadavere ucciso di
spada
Eggmóðan val
ora questo avrà Yggr.
nú mun Yggr hafa;
So che la tua vita è
þitt veit ek líf um liðit;
53 trascorsa.
úfar ro dísir,
Avverse ti sono le dísir:
nú knáttu Óðin sjá,
Ora puoi tu Óðinn vedere,
nálgaztu mik ef þú megir!
avvicìnati a me, se ne hai
forza!
NOTE
Prologo — Mentre il testo del Grímnismál - che consiste nel monologo di Óðinn - è in poesia, il
prologo e l'epilogo sono in prosa (si tratta di interpolazioni più tarde di due o tre secoli rispetto alla
datazione del testo, il quale risale al X secolo). — Il padrone e la padrona della masseria nel testo
originale sono indicati con le parole karl e kerling: i termini indicano due appartenenti alla classe
degli uomini liberi, per quanto non di stirpe nobile (cfr. medio inglese carle «persona comune»).
2 — (g) Difficile è localizzare questa «terra dei Goti» [Gotna lande]. Il Götland è principalmente
una regione della Svezia occidentale, toponimo che presuppone la forma antica Gautar come
designazione del popolo che la abitava. Da essi si sarebbero mossi, intorno al I secolo, genti
destinate a formare il popolo germanico orientale dei Goti, distinto in Ostrogoti e Visigoti
(Manganella 1979), a cui il testo potrebbe ancora riferirsi. Senza dimenticare che con «Goti» si
intendeva spesso, in maniera generica, il complesso meridionale dei popoli germanici.
4 — (d) Þrúðheimr «casa della forza» è il nome del territorio celeste posseduto da Þórr. Nell'Edda
in prosa, il suo nome, tuttavia, è Þrúðvangar «campi della forza» (Gylfaginning [21 | 47] |
Skáldskaparmál [25]). Vi sorge la dimora del dio, Bilskírnir, descritta alla strofa [24].
5 — (d-f) Era usanza degli antichi Scandinavi di fare un dono al bambino quando metteva il suo
primo dente, usanza che sembra si sia conservata in Islanda fino a tempi molto recenti. Per il suo
primo dente, Freyr avrebbe ricevuto in dono l'intero mondo degli elfi [Álfheimr], dettaglio che non
ha riferimenti in altri testi.
6 — (d-f) Valaskjálfr è la reggia di Óðinn. L' áss che la «costruì per sé» all'inizio dei tempi è
dunque lo stesso Óðinn.
10 — Perché la formula d'apertura di questa strofa è identica a quella della strofa precedente,
entrambi i manoscritti (sia il Codex Regius che il Codex Arnamagnæanus) la scrivono qui in forma
abbreviata.
17 — (b) Seguendo la lezione dei migliori interpreti del testo, abbiamo tradotto Víðars land viði
con «nella boscosa terra di Víðarr», dal norreno viðr «bosco» (cfr. inglese wood). Alcuni studiosi
ritengono tuttavia che la parola viði vada intesa come nome proprio: «in Viði, terra di Víðarr»
(Bellows 1936). La difficoltà di tale interpretazione sta nel fatto che questo toponimo non compare
in altre fonti mitologiche.
19 — Questa strofa è citata da Snorri (Gylfaginning [38 {45}]). — (c) Herjaföðr «Padre degli
eserciti», è epiteto di Óðinn.
21 — Questa strofa è tra le più difficili da interpretare di tutto il poema, sulla quale sono stati
versati i proverbiali fiumi d'inchiostro. Letta in progressione con le strofe successive (essendo la
[23] un'interpolazione), sembra narrare la difficile ascesa in cielo degli Einherjar [21], che quindi
attraversano i cancelli di Valgrind [22] e quindi accedono nella Valhöll [24]. — (c) Il Þund
«tonante» è probabilmente un fiume che rende difficoltoso l'accesso alla Valhöll. — (b-c) Il nome
Þjóðvitnir «lupo del popolo» è un hápax legómen, non comparendo in nessun altro testo conosciuto;
gli studiosi tendono a interpretarlo come un appellativo di Fenrir, ma questo non spiega la kenning
«pesce di Þjóðvitnir», della quale non si comprende il significato. Secondo l'elegante ipotesi di
Eysteinn Björnsson, il nome Þjóðvitnir sarebbe invece un epiteto di Heimdallr. Il termine vitnir,
infatti, prima di specializzarsi nel senso di «lupo», significava letteralmente «[colui che ha] i sensi
aguzzi» (da vit «sensi»). Analogamente þjóð-, come prefisso nei nomi maschili, può fungere da
accrescitivo. Interpretato in questo modo, il nome Þjóðvitnir può adattarsi perfettamente a
Heimdallr, del quale appunto si diceva fosse in grado di scorgere qualsiasi cosa fino a cento leghe di
distanza, e di percepire il rumore dell'erba che cresce sulla terra o quello della lana sul dorso delle
pecore. In quanto al «pesce di Þjóðvitnir», secondo Eysteinn, sarebbe appunto il ponte Bifröst, alla
cui estremità Heimdallr sta eternamente di vedetta. Per giustificare la sua asserzione, lo studioso
nota che in norreno (ma anche in islandese moderno) la coda del pesce e la testa del ponte sono
indicate con la medesima parola, sporðr (cfr. brúar sporði «l'estremità del ponte», in Sigrdrífumál
[16]). L'intera strofa descriverebbe l'ascesa degli Einherjar lungo il ponte arcobaleno, il quale
permette loro di scavalcare i fiumi cosmici che scorrono in cielo, di cui il Þund – forse ipostasi
dell'atmosfera percorsa dai venti e vibrante del rombo del tuoni – è evidentemente uno dei più
difficili da guadare. [SAGGIO] (Björnsson 2000)
23 — La presenza di questa strofa [23] sulla sala Bílskirnir di Þrúðheimr, nel bel mezzo di una
sezione di strofe incentrate sulla Valhöll [21-26], fa pensare a un'interpolazione. Né basta a
giustificarla il parallelismo nel numero delle porte e delle stanze tra la sala di Bílskirnir (23) e la
sala di Valhöll descritta nella strofa successiva [24]. È interessante che Snorri, pur citando entrambe
le strofe, lo fa in contesti diversi: cita la [23] nel capitolo in cui tratta di Þórr (Gylfaginning [21]) ma
la [24] molto più avanti, quando racconta del Ragnarøkr (Gylfaginning [40]).
27-28 — Il novero dei fiumi cosmici è abbastanza confuso, l'ortografia dei nomi varia nei
manoscritti del Grímnismál. Oltretutto nella sua opera Snorri riprende alcuni di questi nomi di
fiumi, dandone due elenchi tra loro assai differenti (Gylfaginning [4 | 39]). Per un approfondimento
sui fiumi cosmici, si veda il capitolo apposito [MITI]. — Secondo Sophus Bugge, le strofe [27-30]
sarebbero in blocco un'interpolazione (Bugge 1867); altri editori che pure hanno accettato il
passaggio, hanno invece espunto dei versi.
29 — (g) L'ásbrú «Ponte degli Æsir» è ovviamente il ponte Bilröst (secondo Snorri, Bifröst),
l'arcobaleno che unisce la terra al cielo. Questa strofa è citata da Snorri (Gylfaginning [15 {22}]). —
(h) Non si capisce perché il ponte vada a fuoco se vi transiti Þórr: forse vi è un riferimento a un
mito che non conosciamo [MITI].
33 — Alcuni studiosi, tra cui Sophus Bugge, pensano che questa strofa possa essere interpolata.
Snorri, che pure riporta integralmente le due strofe successive [34-35], di questa fa soltanto una
parafrasi (Gylfaginning [16]) ma senza aggiungere nulla di nuovo. — (b) «I più alti ramoscelli»,
che i cervi brucherebbero, sono soltanto una traduzione ipotetica (Bellows 1936): nel manoscritto
originale il testo non è molto chiaro.
34-35 — Queste strofe sono citate da Snorri (Gylfaginning [16 {15-16}]), anche se in senso inverso
rispetto al loro ordine nel Grímnismál. L'ordine Snorri appare essere più logico, rispetto a quello
tramandato dal poema.
37-41 — Secondo Müllenhoff queste strofe sarebbero state interpolate ed Edzardi sospetta che esse
possano venire addirittura da una versione più antica del Vafþrúðnismál (si confronti Grímnismál
[40] con Vafþrúðnismál [21]). Snorri parafrasa le strofe 37-39 (Gylfaginning [11]) e cita
direttamente le strofe 40-41 (Gylfaginning [8 {11-12}]).
39 — (e) Hróðvitnir è un appellativo di Fenrir. — (c) In alcune traduzione il semiverso til varna
viðar «al riparo tra i boschi» viene emendato in til Jarnviðar «al bosco di ferro», con riferimento
alla località mitica di Jarnviðr, il bosco dagli alberi di ferro dove dimorano le streghe. — (f) «Chiara
sposa del cielo» [heiða brúði himins] è una kenning per indicare il sole. In norreno, sól è femminile.
40-41 — Come detto, queste due strofe sono citate da Snorri (Gylfaginning [8 {11-12}]).
45 — Ora Grímnir cessa la sua esibizione di sapienza e torna, d'un tratto, alla realtà immediata.
Legato tra i fuochi, egli alza il capo a rivelare chi sia. La sequela di nomi che enumera, oltre a
continuare in qualche modo il contenuto gnomico-sapienziale del poema, prelude alla rivelazione
finale, chi sia davvero il viandante che Geirrøðr, in spregio alle sacre regole dell'ospitalità, sta
torturando. I nomi che egli elenca in una serie di fittissime strofe sono infatti gli heiti di Óðinn.
46-49 — Il canone degli heiti di Óðinn viene citato da Snorri in una lunga sequenza (Gylfaginning
[20 {30}]), privata delle parti discorsive che nel poema interrompono l'enumerazione dei nomi. La
maggior parte di questi epiteti si riferiscono evidentemente a miti che non conosciamo, di cui anzi
qua e là si fa qualche oscuro accenno (ad esempio deve essere esistito un mito dove Óðinn, sotto il
nome di Jálkr, si recò presso le genti di un certo Ásmundr; oppure di quando, sotto il nome di
Kjalarr, fu costretto a tirare una slitta). Per approfondire gli epiteti di Óðinn, si veda [SAGGIO]►.
Epilogo — Dopo che Óðinn ha cessato di parlare e il suo lungo discorso si è chiuso, una piccola,
tragica chiusa in prosa, conclude il poema.
SKÍRNISMÁL
IL DISCORSO DI SKÍRNIS
Prologo
I genitori di Freyr sono preoccupati (1-2)
Skírnir si rivolge a Freyr (3-7)
Skírnir si offre di andare in Jötunheimr per conquistare la fanciulla (8-10)
Skírnir in Jötunheimr (11-13)
Cambio di scena: in casa di Gerðr (14-17)
I doni di Skírnir (18-22)
Skírnir passa alle minacce (23-36)
Gerðr acconsente a incontrare Freyr (37-39)
Freyr riceve la notizia (40-42)
Note
«I tuoi sentimenti
Muni þína non credo siano così grandi
hykka ek svá mikla vera che tu, signore, non possa
at þú mér, seggr, ne segir, parlarne.
5
þvíat ungir saman Poiché giovani insieme
várom i árdaga; fummo al principio del
vel mættim tveir trúask. tempo;
c'è fiducia tra noi due».
Epli ellifo
Undici mele
hér hefi ek algullin,
ho qui, tutte d'oro,
þau mun ek þér, Gerðr,
e le darò a te, Gerðr, in dono,
19 gefa,
per mercato d'amore,
frið at kaupa,
se tu dici che per te Freyr
at þú þér Frey kveðir
è il più caro dei viventi».
óleiðastan lifa.
NOTE
Titolo — Il titolo Skírnismál («Discorso di Skírnir») appartiene al Codex Arnamagnæanus. Nel
Codex Regius il poema è intitolato For Skírnis («Viaggio di Skírnir»).
Prologo — Hliðskjálf è il trono di Óðinn, sito nel palazzo di Valaskjálf, dal quale è possibile
osservare tutto quanto accade nei nove mondi (Gylfaginning [9 | 17]).
1 — Nel prologo è Njörðr a chiedere a Skírnir di indagare riguardo alla melanconia di suo figlio
Freyr: nel poema a rivolgersi a Skírnir è invece Skaði, sposa di Njörðr e madre adottiva di Freyr.
Nella richiesta di Skaði, alcuni editori emendano il pronome possessivo accusativo duale okkarn
«nostro» con il singolare várn «mio»; dunque «mio figlio» invece di «nostro figlio», in quanto il
bisillabo duale comporterebbe un errore metrico. Stessa correzione viene fatta nella strofa
successiva [2], dove la replica di Skírnir viene emendata in «tuo figlio» invece del duale originale
«vostro figlio». Così traduce ad esempio Henry Adams Bellows [my son / thy son] (Bellows 1936).
Noi abbiamo lasciato la forma originale.
4 — (d) Álfröðull «gloria degli elfi», kenning per «sole», forse così chiamato perché la sua luce
sarebbe fatale a nani ed elfi. (Alvíssmál [35])
6 — Ci informa Snorri, nella parafrasi che ci dà della vicenda: «Un uomo si chiamava Gymir e sua
moglie Aurboða: ella era della stirpe dei giganti delle montagne. Loro figlia era Gerðr, la più bella
di tutte le fanciulle» (Gylfaginning [37]). — Gymir sembra essere un gigante legato al mare (il suo
nome è citato come uno degli heiti per «mare»). A una natura marina del personaggio si riferisce
anche Þjóðólfr ór Hvíni che chiama lo scroscio delle onde del mare «canzoni di Gymir» [Gymis
ljóð] (Ynglingatal [25]). L'incipit del Lokasenna, inoltre, sembra identificare Gymir con il dio del
mare Ægir.
7 — Nella parafrasi prosastica di Snorri è presente, a questo punto, l'esplicita richiesta di Freyr che
Skírnir vada a corteggiare Gerðr in suo nome: «E tu devi andare a corteggiarla per me, e devi
portarmela qui, che suo padre lo voglia o no: di ciò saprò bene ricompensarti», a cui segue la
risposta di Skírnir che lo avrebbe fatto a patto che Freyr gli avesse ceduto il cavallo e la spada.
Poiché il testo di Snorri è molto vicino a quello del poema, alcuni studiosi ritengono possibile che il
testo originale dello Skírnismál avesse riportato le parole di Freyr, poi riprese da Snorri; è dunque
possibile che una strofa sia stata omessa tra la [7] e la [8].
8 e 9 — (d) Il dono, da parte di Freyr, della propria spada a Skírnir, spiega perché egli nel ragnarök,
mancandogli una spada, sia destinato a soccombere nella battaglia contro Surtr (Völuspá [53]).
Snorri aggiunge che, essendo Freyr senza spada, abbia ucciso un certo Beli con un corno di cervo
(Gylfaginning [37]), ma di questo mito non abbiamo altri dettagli.
10 — (d) Þyrja þjóð yfir «attraverso paesi di giganti». Secondo alcuni studiosi, questo semiverso
sarebbe spurio.
12 — (c) Il terzo semiverso di questa strofa è assente in tutti i manoscritti e non sembra esservi
alcuna lacuna. Nella nostra traduzione abbiamo riportato l'emendamento congetturale di Nikolai
Grundtvig (Grundtvig 1806).
13 — Questa strofa ricorda irresistibilmente i proverbi e le sentenze presenti nella prima parte del
Hávamál.
15 — Questa strofa è formata soltanto da un verso lungo e uno pieno e nei manoscritti non c'è
alcuna indicazione di una lacuna. Sophus Bugge ha suggerito di emendarla dal testo (Bugge 1806);
Karl von Hildebrand ha suggerito invece di emendare, come spuri, gli ultimi tre semiversi della
strofa [14] e di raccogliere insieme le strofe [14-15] come se formassero una singola strofa
(Hildebrand 1876), ma si tratta di una soluzione poco convincente.
16 — (f) Non sappiamo chi sia il fratello di Gerðr né tantomeno chi fosse stato a ucciderlo. Una
possibile soluzione è che Gerðr si riferisca all'enigmatico mito dell'uccisione di Beli da parte di
Freyr, di cui tratta rapidamente Snorri quando parla della spada che Freyr avrebbe ceduto a Skírnir:
«Questa è la causa per cui Freyr era senza armi quando combatté contro Beli e lo uccise con un
corno di cervo» (Gylfaginning [37]). Si può obiettare che, a questo punto del racconto, Freyr si è
appena privato della sua spada cedendola a Skírnir e difficilmente avrebbe avuto il tempo di
combattere contro Beli; in tal caso le parole di Gerðr potrebbero essere interpretate come un
presagio. Ma rimane il fatto che l'uomo fuori della porta non è Freyr ma Skírnir, del quale non sono
stati tramandati combattimenti od omicidi.
18 — Il Codex Arnamagnæanus omette questa strofa.
19 — (a-b) Skírnir si riferisce probabilmente alle mele d'oro coltivate dalla dea Iðunn, che dànno
agli dèi l'eterna giovinezza; ma perché vengano donate in numero di undici non lo sappiamo.
21 — (a) Si tratta del bracciale Draupnir, che fu deposto sulla pira funebre di Baldr e che, in
seguito, lo stesso Baldr rimandò a Óðinn dagli inferi (Gylfaginning [49]). Come il bracciale sia
finito nelle mani di Freyr e Skírnir non lo sappiamo. — (d-f) Gli ultimi tre semiversi sono omessi
nel Codex Arnamagnæanus.
22 — (a-b) I primi due semiversi di questa strofa sono omessi nel Codex Arnamagnæanus.
25 — (a-c) I primi tre semiversi, ripetuti poi dalla strofa [23], sono abbreviati sia nel Codex Regius
che nel Codex Arnamagnæanus.
27 — (a) Il «poggio dell'aquila» è forse la montagna ai confini del mondo dove si trova Hræsvelgr,
il gigante in forma di aquila che col battito delle sue ali crea i venti che soffiano sul mondo
(Vafþtrúðnismál [37]). — (c-d) Questi semiversi sono mutili in entrambi i manoscritti, la traduzione
è congetturale. Hildebrand propone di emendare i due versi, ma così facendo il testo non appare
completo (Hildebrand 1876). — (f-g) Nel Codex Arnamagnæanus la strofa manca degli ultimi due
semiversi.
28 — (c) Hrímnir: evidentemente il nome di un gigante, oltre qui citato soltanto nel Hyndluljóð [33]
(a meno che non sia da identificare con Hrímr, re dei giganti di brina). Il «guardiano degli dèi»
[vörðr með goðom] è chiaramente Heimdallr, ma il senso della maledizione ci sfugge. Secondo
alcuni il quarto semiverso sarebbe spurio.
29 — (a-b) «Pazzia e lamento | malocchio e tormento»: rendiamo così quattro parole [Tópi ok ópi |
tjösull ok óþoli], sapientemente allitterate, il cui significato non è chiaro, anche se le si ritiene
relative a forme di squilibrio mentale. Il dizionario antico islandese di Cleasby e Vigfússon
suggerisce le seguenti traduzioni: tópi «follia» (cfr. danese tåbe «matto»); ópi < óp «grido,
lamento» (cfr. gotico wôpjan «gridare», anglosassone wōp, inglese whoop «gridare» e weep
«piangere»); tjösull forse «incantamento» (cfr. anglosassone tæsel, inglese teasle, nome di un tipo
di cardo [Dispacus fullonum], erba anticamente usata per gli incatesimi; cfr. svedese tjusa/fortjusa
«incantesimo, formula magica» e tjusning «fascino»); óþoli non è contemplato dal dizionario
(Cleasby ~ Vigfússon 1874). Nella traduzione inglese, Bellows rende questi versi con «Furia e
brama | schiavitù e ira» [Rage and longin | fetters and wrath] (Bellows 1936). Tra i traduttori
italiani, Giacomo Prampolini scrive «pazzia e perfidia | febbre e ferocia» (Prampolini 1949);
Piergiuseppe Scardigli e Marcello Meli traducono «Frenesia e gemito | pena e tormento» (Scardigli
1982). Niedner e Barend Sijmons considerano l'intera strofa come interpolata (Sijmons 1906),
Finnur Jónsson emenda l'ultimo semiverso (Jónsson 1926).
30 — Questa strofa e alcune delle successive appaiono un po' confuse. Seguiamo qui la lezione del
Codex Regius, che è quella seguita dalla maggior parte degli editori del poema; il Codex
Arnamagnæanus distribuisce i versi in maniera diversa, riportando i quattro semiversi centrali di
questa strofa nella strofa [35]. Alcuni studiosi, tra cui Niedner, Sijmons e Gering, si sono attenuti
alla seconda lezione, a cui peraltro fa riferimento la traduzione inglese (Bellows 1936). — (a) La
parola tramar, qui tradotta con «dèmoni», non ha un'etimologia non molto chiara; è probabilmente
connessa con lo svedese trommä e il danese tremmind «maligno»; la traduzione fornita dal
dizionario antico islandese è «spirito maligno, demonio» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Hugo
Gering, nella versione tedesca, traduceva con «Kobolde» (Gering 1892). Nella traduzione inglese,
Bellows rende con un generico «vile things» (Bellows 1936), Piergiuseppe Scardigli e Marcello
Meli traducono invece «esseri malvagi» (Scardigli 1982).
31 — (d-e) Anche questa strofa appare non del tutto chiara e ha subìto da parte degli studiosi vari
arrangiamenti ed emendamenti. Il verso formato dal quarto e dal quinto semiverso [þitt geð grípi |
þik morn morni] presenta delle imperfezioni metriche che hanno fatto pensare a un'interpolazione.
32 — Strofa difettiva formata soltanto da un verso lungo e due versi pieni, ma non vi è alcuna
lacuna nei manoscritti. In effetti l'intera strofa appare interpolata o fuori posto: è probabile che in
origine andasse posta prima della strofa [25]. Infatti, mentre nella strofa [32] Skírnir afferma di
recarsi nel bosco a prendere una verga magica per colpire la fanciulla riottosa, è nella strofa [25]
che aveva già affermato di colpirla con la verga.
33 — (d) La parola fyrinilla, qui tradotta con «perfida», è oscura. Scardigli e Meli la rendono con
«turpe» (Scardigli 1982), ma si tratta anche qui di una traduzione ipotetica. Secondo Jónsson l'intera
strofa sarebbe interpolata (Jónsson 1926).
34 — Diversi studiosi ritengono che il quarto semiverso sia un'interpolazione; altri ancora
espungono l'ultimo semiverso. Altri, al contrario, traducono il terzo e quarto semiverso come se
appartenessero a un verso lungo che suonerebbe all'incirca «voi, dèi e figli di Suttungr». Suttungr è
il gigante di cui tratta l'Hávamál [104].
35 — (a) Hrímgrímnir «ammantato di gelo»: evidentemente anche qui il nome di un gigante, non
conosciuto in altre fonti. I versi di questa strofa appaiono combinati in maniera diversa a seconda
dei manoscritti.
36 — (a) Þurs «gigante», era la quarta runa del fuþark, all'origine dell'attuale lettera
islandese Þ (conosciuta come þorn). Anche questa strofa presenta nel testo delle difficoltà
(ad esempio nei manoscritti inizia con la lettera minuscola) che fanno pensare a eventuali
manipolazioni.
42 — Questa strofa è citata da Snorri con una lieve variante. Mentre il testo del Codex Regius dice
«lunga è una notte | più lunghe sono due» [Löng er nótt | langar ro tvær], Snorri riporta: «lunga è
una notte | lunga è una seconda» [Löng er nótt | löng er önnur] (Gylfaginning [37]). È evidente che
Snorri disponeva di un testo diverso di quello che ci è stato tramandato.
BALDRS DRAUMAR
I SOGNI DI BALDR
BALDRS
I SOGNI DI BALDR
DRAUMAR
[CARME DEL VIANDANTE]
[VEGTAMSKVIÐA]
NOTE
1 — I primi sei semiversi di questa strofa li ritroviamo, formalmente identici, in una scena della
Þrymskviða, dove gli dèi e le dee si riuniscono per discutere sul come recuperare il martello di Þórr,
rubato dal gigante Þrymr.
Nel Baldrs Draumar, il þing divino è ovviamente finalizzato a un altro scopo: stabilire se gli
inquietanti sogni che Baldr ha riferito loro, siano premonitori di una qualche sciagura. E, nel caso,
quali provvedimenti prendere per salvaguardare la vita del dio. Questa scena era stata già narrata
nell'Edda in prosa di Snorri.
En þat er upphaf þessar sögu at Questa storia ebbe inizio quando Baldr
Baldr inn góða dreymði drauma il buono fece sogni grandiosi e terribili
stóra ok hættliga um líf sitt. En er che riguardavano la sua vita. Egli
hann sagði ásunum draumana, þá raccontò questi sogni agli Æsir, ed essi
báru þeir saman ráð sín, ok var þat si radunarono allora in consiglio e fu
gert at beiða griða Baldri fyrir alls deciso di proteggere Baldr da ogni tipo
konar háska. di pericolo.
Nel racconto di Snorri, gli dèi sembrano subito consci della terribile premonizione contenuta nei
sogni fatti da Baldr e subito stabiliscono di proteggere il dio da ogni tipo di pericolo. Al contrario,
in questo poema, il senso dei sogni sembra rimanere ostico agli dèi e, prima di prendere qualunque
decisione, Óðinn stabilisce di recarsi negli inferi per interrogare una defunta völva, affinché gli sveli
il significato di quei sogni e gli riveli il destino che attende Baldr.
2 — (a) Gautr: epiteto di Óðinn, compare due volte in questo poema: in [2a] e in [13d], nella forma
alda/aldinn gautr «gautr dell'umanità» (o «antico gautr», come prediligevano le vecchie
traduzioni). Di non facile interpretazione, è probabilmente inerente a una qualificazione di Óðinn
come dio o antenato dei Goti. L'epiteto si connette infatti con la regione del Götland (Svezia
occidentale), toponimo che presuppone la forma antica Gautar come designazione del popolo che la
abitava (cfr anglosassone Geātes). Da essi si sarebbero mossi, intorno al I secolo, genti destinate a
formare il popolo germanico orientale dei Goti (Ostrogoti e Visigoti). Questo farebbe pensare a un
possibile collegamento con Gapt, il progenitore degli Amali (famiglia reale degli Ostrogoti)
secondo Giordane (De origine actibusque Getarum [XIV: 79]). Nel testo, abbiamo preferito non
tradurlo. — (2g-3b) È il cane che si erge di guardia sulla strada che conduce negli inferi, secondo
un motivo ben conosciuto alla tradizione di tutto il mondo. Vi corrisponde ovviamente, quale
archetipo classico, il cane a tre teste Kérberos, che nel mito greco è incatenato alle porte dell'Ade.
Questi animali hanno il compito di impedire il passaggio, nei due sensi, tra il mondo dei vivi e
quello dei morti. L'animale che qui compare viene in genere identificato con Garmr, il cane
incatenato davanti a Gnipahellir, di cui la Völuspá [44 | 49 | 58] prevede lo scioglimento alla vigilia
del ragnarök. Tale identificazione è tuttavia priva di elementi probanti, tantopiù che il cane citato
nei Baldrs Draumar non risulta incatenato. Affatto nuovo, invece, è il motivo del petto insanguinato
di questo cane, a indicarne l'assoluta ferocia e malvagità.
3 — (c) «Padre degli incantesimi» [galdrs föður], splendida kenning a indicare Óðinn, in virtù della
sua sapienza e della sua capacità di dominare gli elementi e le creature con canti magici [galdrar].
Si veda in proposito l'impressionante quadro dei poteri magici del dio in Ynglingasaga [7]. — (e) Il
manoscritto marca il quinto semiverso come inizio di una nuova strofa. Di conseguenza, alcune
edizioni moderne combinano in maniera differente le strofe successive. È probabile che il testo, così
come ci è pervenuto, sia piuttosto lacunoso. — (g-h) La dimora di Hel aveva nome Éljúðnir: era un
palazzo dalla pareti e dal tetto fatti di serpenti intrecciati, protetto da un'alta quanto impenetrabile
palizzata. Nel suo salone principale, gelido e triste, sedevano le anime di tutti coloro che, non
essendo stati in vita dei guerrieri, non potevano accedere alla Valhöll.
4 — Questa strofa presenta un interessante quadro delle tecniche necromantiche e del linguaggio
inerente. Che Óðinn fosse in grado di far parlare i morti è attestato nell'Hávamál, dove si dice
conoscesse un incantesimo che gli permettesse di discorrere con gli impiccati:
Anche Snorri ricorda che Óðinn «a volte resuscitava dalla terra i morti o si sedeva sotto i corpi
penzolanti dalle forche; perciò era detto signore degli spiriti dei morti o degli impiccati» [en
stundum vakti hann upp dauða menn or jörðu, eða settist undir hanga; fyrir því var hann kallaðr
drauga dróttinn eða hanga dróttinn] (Ynglingasaga [7]). — (g) Valgaldr, letteralmente
«incantesimo dei caduti», è il termine qui attribuito al canto magico in grado di resuscitare i morti.
— (h) Letteralmente: «pronunciò parole di cadavere». Nás orð sono le parole pronunciate da un
defunto.
6 — (a-b) Óðinn si presenta alla völva con due epiteti piuttosto trasparenti. Vegtamr è «aduso alle
vie», dunque «viandante», con riferimento al carattere pellegrino e vagabondo del dio. Valtamr, che
nella presentazione fatta dal dio sarebbe il presunto padre di Vegtamr, è anch'esso epiteto inerente
alla natura del dio: «aduso [alla scelta] dei caduti». Il fatto che Óðinn debba nascondere la sua
identità è, in questo caso, abbastanza logico, visto che a quanto pare la völva appartiene alla razza
dei giganti [13] e potrebbe non volere rispondere alle domande di un dio. — (e-h) «Per chi sono le
panche giuncate d'anelli e le belle pareti ricoperte d'oro?» è la prima domanda che Óðinn pone alla
völva. Il dio si riferisce al salone del palazzo di Hel, nel quale egli ha avuto evidentemente modo di
gettare un'occhiata mentre vi cavalcava accanto. Il salone è stato addobbato per una festa di
benvenuto, segno evidente che in Éljúðnir fervono i preparativi per accogliere un ospite di rango.
Óðinn teme possa trattarsi di Baldr, e la risposta della völva conferma i suoi timori.
7 — (d) Uno scudo è qui usato come coperchio del calderone dell'idromele, forse per proteggerlo
dal malocchio? (Gering 1927-1931). — (g-h) «Costretta ho parlato, | ora voglio tacere» [nauðug
sagðak, | nú mun ek þegja]: la formula conclusiva nelle risposte della völva esprime l'estrema
riluttanza dei morti a essere risvegliati e obbligati a rivelare i segreti a loro accessibili. Nel
manoscritto, tale formula è indicata con un acrostico nelle strofe [9] e [11].
8 — (a-c) «Non zittirti, veggente! | Io chiederò | finché non saprò tutto» [Þegj-at-tu, völva, | þik vil
ek fregna, | unz alkunna]: all'accorata preghiera della völva di tornare al suo sonno di morte,
corrisponde la formula imperiosa con la quale Óðinn la obbliga a parlare. Nel manoscritto, tale
formula è indicata con un acrostico nelle strofe [10] e [12].
9 — (a-f). Cfr. Edda in prosa > Gylfaginning [49]. Per i dettagli, vedi l'introduzione [SUPRA].
11 — (a-f). Del dio Váli, Snorri dice semplicemente: «Áli o Váli si chiama un áss figlio di Óðinn e
di Rindr. Egli è coraggioso in battaglia e un esperto tiratore» [Áli eða Váli heitir einn, sonr Óðins ok
Rindar. Hann er djarfr í orrostum ok mjök happskeytr]. Detto questo, Snorri ignora del tutto il ruolo
di questo dio quale vendicatore di Baldr, nonostante il motivo sia citato in un passo della Völuspá:
La somiglianza tra Völuspá [32e-33d] e Baldrs Draumar [11c-11j] mostra che entrambi i passi
dipendono da una fonte comune.
Tra l'altro, è proprio dal confronto tra i due poemi che si evince che sia proprio Váli l'anonimo
personaggio a cui il sopracitato passo della Völuspá attribuisce la vendetta dell'assassinio di Baldr.
È possibile che, in qualche fase di interpolazione del passo nella Völuspá, sia caduto il verso in cui
il vendicatore veniva presentato come Váli. Tale verso è stato invece conservato nel Baldrs
Draumar; se non disponessimo di quest'ultimo testo, dunque, avremmo serie difficoltà a
comprendere a chi si riferisca la Völuspá. Forse Snorri non conosceva il Baldrs Draumar, ragione
per cui evitò di citare la presenza di un vendicatore di cui non comprendeva l'identità. Sembra
comunque evidente che il brano originale sia pervenuto mutilo in entrambi i testi. Nel caso del
Baldrs Draumar, si nota che l'aggiunta della formula di chiusura «Costretta ho parlato, | ora voglio
tacere» porta la strofa a dieci semiversi, in luogo dei canonici otto. Questo suggerisce ancora una
volta che il testo originale sia stato oggetto di pesanti manomissioni. — (b) Vestrsalir «sale
d'occidente»: questo toponimo, dimora di Rindr, non è citato in nessun'altra fonte.
12 — Chi sono queste misteriose fanciulle che intonano il canto funebre e gettano al cielo i loro
veli? Sophus Bugge rimanda alla scena del funerale di Baldr narrata da Snorri:
Sulla scolta di questo brano, Bugge identifica le fanciulle citate da Óðinn come le nove figlie di
Ægir e Rán, personificazioni delle onde del mare, che sollevano la nave Hringhorni in modo che la
vela arrivi a toccare il cielo, e vi vede un parallelo con Teti e le figlie di Nereo che piangono Achille
(Bugge 1881-1889). Skaut, in norreno, è un lenzuolo, un velo, un mantello, o la vela di una nave; e
secondo Gustav Neckel, però, l'espressione halsa skaut indicherebbe tanto il «fazzoletto da collo»
che la «scotta della vela» (Neckel 1962). H.A. Bellows traduce in quest'ultimo senso: «Chi sono le
fanciulle | che leveranno lamenti | e getteranno al cielo | i pennoni delle vele?» [What maidens are
they | who then shall weep, | and toss to the sky | the yards of the sails?] (Bellows 1923). Più
attendibile ancora, il suggerimento di Finnur Jónnson, tuttavia, il quale spiega halsa skaut come
kenning per la schiuma del mare proiettata in alto dalle onde (Jónsson 1913-1916). (Ránar skaut
«velo di Rán» è infatti una nota kenning per «onde». (Cleasby ~ Vigfússon 1874))
13 — Che cosa ha permesso alla völva di riconoscere Óðinn? La domanda che questi le aveva posto
in [12] – chi siano le fanciulle che avrebbero intonato per Baldr il canto funebre – non sembra
infatti così significativa da suscitare lo smascheramento del dio. Il parallelo va al certamen di
sapienza tra Óðinn e il gigante Vafþrúðnir; anche qui Óðinn si è presentato sotto mentite spoglie,
ma quando chiede al gigante: «Che cosa disse Óðinn, | a chi saliva sul rogo | lui stesso nell'orecchio
del figlio?» (Vafþrúðnismál [54]), viene immediatamente riconosciuto. È evidente che solo Óðinn
può rispondere a un simile indovinello: Vafþrúðnir scopre l'identità del suo sfidante, ma intanto ha
perduto la gara. Ma se nel Vafþrúðnismál le domande scambiate tra Óðinn e il gigante hanno lo
scopo di mettersi la prova l'un l'altro, nel Baldrs Draumar hanno una ragione informativa: Óðinn
chiede alla völva quanto desidera sapere sul destino di suo figlio. Ma non è chiaro che cosa, nella
banale domanda sull'identità delle prefiche di Baldr, permetta alla völva di smascherare il dio.
Sembra ragionevole presumere che la domanda giusta, quella destinata a suscitare il riconoscimento
del dio, fosse in realtà la stessa già posta da Óðinn e Vafþrúðnir. La mecesima domanda ottiene il
medesimo effetto in una scena nella Hervarar saga ok Heiðreks, dove Óðinn, qui anche qui
dissimulato sotto una falsa identità, intrattiene re Heiðrekr con un gioco di indovinelli; e quand'egli
chiede: «Che cosa disse Óðinn | all'orecchio di Baldr | prima che fosse issato sul rogo?», il re
riconosce il dio e tenta di colpirlo (Hervarar saga ok Heiðreks [10]). È evidente che tale motivo che
doveva essere ben noto alla poesia sapienziale norrena. È dunque possibile che, in un ipotetico
antigrafo del Baldrs Draumar, Vegtamr chiedesse alla völva, alla fine di una lunga serie di
domande riguardo al destino di Baldr, che cosa avrebbe mormorato Óðinn all'orecchio del figlio
morto, e da questa domanda la veggente avrebbe riconosciuto il dio; in seguito, quando il poema
venne redatto nella sua forma a noi nota, è possibile che questa parte sia andata perduta e la
domanda di Óðinn sull'identità delle prefiche di Baldr e l'immediato riconoscimento da parte della
völva siano stati disposti l'una di seguito all'altro per semplice giustapposizione dei due tronconi.
Infine, il manoscritto del Codex Arnamagnæanus contrassegna il quinto semiverso [12e] come
incipit di una nuova strofa, evidenziando la possibile presenza di una lacuna. — (d) Aldinn gautr
«antico gautr»: v. nota 2 [SUPRA]. — (g-h) «Piuttosto sei di tre giganti la madre»: Óðinn risponde al
riconoscimento da parte della völva identificandola a sua volta come un essere appartenente alla
stirpe dei giganti. Alberto Mastrelli suggerisce si tratti forse di Angrboða, madre di Fenrir, Hel e
Jörmungandr (Mastrelli 1951).
GROTTASÖNGR
LA CANZONE DEL [MULINO] GROTTI
Prologo
La schiavitù di Fenja e Menja (1-3)
Canto delle gigantesse e discorso di Menja (4-6)
Sprezzante risposta del re (7)
Il canto del mulino Grotti (8-22)
Distruzione del mulino (23-24)
Versi di Einar Skúlason
Versi di Egill Skallagrímsson
Note
LA CANZONE DEL
GROTTASÖNGR
GROTTI
A quel tempo si
trovavano in Danimarca
þann tíma fundust í due pietre da macina
Danmörku kvernsteinar talmente grandi che
tveir svá miklir, at engi var nessuno era abbastanza
svá sterkr, at dregit gæti. En forte da riuscire a
sú náttúra fylgði muoverle. Tale era la
(f) kvernunum, at þat mólst á natura di questo mulino,
kverninni, sem sá mælti che esso produceva
fyrir, er mól. Sú kvern hét qualunque cosa che
Grotti. Hengikjöptr er sá fosse prima stata
nefndr, er Fróða konungi richiesta da chi lo
gaf kvernina. azionasse. Quel mulino
si chiamava Grotti ed
Hengikjöptr era il nome
di colui che lo donò a re
Fróði.
NOTE
a — Skjöldr: «scudo». Mitico capostipite dei re dei Dani. Trattava di lui una Skjöldunga saga,
andata perduta, di cui è rimasto un riassunto in latino di Arngrímur Jónsson (1568-1648). Snorri
afferma che Skjöldr sia figlio di Óðinn (Edda > Prologo [4c]); costui sposò Gefjun dopo l'inganno
da lei perpetrato ai danni di re Gylfi, e i due vissero insieme a Hleiðr (odierna Lejre, Danimarca)
(Ynglinga saga [5]). Tra i primi storici danesi, anche Svend Aggesen e Sassone Grammatico citano
Skyoldus come un'antico re dei Dani, eponimo della dinastia degli Skjöldungar (Gesta Danorum [I:
iii-iv]). Il personaggio compare come Scyld Scēfing nel prologo del Bēowulf, dove si narra la
curiosa leggenda del suo arrivo dal mare su una barca priva di nocchiero. Il nome di Skjöldr è
invece sconosciuto al Chronicon Lethrense, che pone Danr come capostipite della dinastia.
b — Friðleifr: «[colui che] vive in pace». Mitico sovrano danese. Snorri afferma fosse figlio di un
certo Fróði inn mikilláti («il magnifico») o inn friðsami («il fecondo di pace»), successore a sua
volta dell'eroe eponimo Danr. Friðleifr sale al trono alla morte del fratello Hálfdan, e gli succede a
sua volta Fróði inn frǿkni («il prode») (Ynglinga saga [25-26]). Sassone Grammatico parla di un
Fridlevus II, figlio di Frotho III e padre di Frotho IV (Gesta Danorum [VI: i-iv]), rispecchiando in
qualche modo la successione genealogica già descritta da Snorri. I dati forniti sulle biografie dei
personaggi non sono però confrontabili.
c — Fróði: «saggio, avveduto». Il sovrano del Grottasöngr, è ampiamente conosciuto nelle fonti ma
si presenta a noi in molte versioni contrastanti. Nel prologo che Snorri fa a questa composizione,
viene detto figlio di Friðleifr e nipote di Dan, oltre che artefice della pax danica. Tuttavia, in nella
Ynglinga saga, Snorri sembra dividere il personaggio in più figure distinte: dapprima afferma che
fosse Freyr, re degli Svei (e non dei Dani), il sovrano che impose la pace nelle terre del nord,
svelando così chi fosse la divinità alla base della figura di Fróði. Dopo la sua morte, Freyr fu
sepolto ma per tre anni fu fatto credere agli Svei che fosse ancora in vita, e gli continuarono a venire
versati tributi attraverso una feritoia nel tumulo: in questo modo poterono mantenersi la prosperità e
la pace (Ynglinga saga [10]). Snorri cita poi un re dei Dani chiamato Fríð-Fróði («Fróði della
pace»), «potente, fecondo e benedetto dalla pace», vissuto al tempo di Fjölnir figlio di Freyr, che
sembra potersi in parte identificare col Fróði della Grottasöngr, ma del quale non racconta quasi
nulla (Ynglinga saga [11]). Solo molto più tardi, Snorri cita un Fróði inn mikilláti o inn friðsami,
padre di re Friðleifr, a cui succede un Fróði inn frǿkni (Ynglinga saga [25-26]). Seppure a rigore
costoro non abbiano nulla a che vedere – nel racconto di Snorri – con la Pax Danica, i loro titoli o
nomi rimandano a significati inerenti (inn friðsami è «fecondo di pace», Friðleifr è «[colui che] vive
in pace»). Sembra ovvio che, nella rielaborazione fatta da Snorri delle genealogie reali danesi, un
medesimo personaggio sia stato moltiplicato in più figure distinte. Questo è ancor più vero nella
cronaca di Sassone Grammatico, dove i personaggi a nome Frotho sono ben sei, ripartendosi tra
loro gli elementi che già avevamo trovato tra i vari Freyr/Fróði del testo di Snorri. In particolare, il
secondo dei re con questo nome, Frotho II vegetus «vigoroso» (Gesta Danorum [IV: viii]), sembra
assimilabile nell'epiteto al Fróði inn frǿkni di Snorri. Di Frotho III, figlio di Fridlevus I, si narra
fosse contemporaneo di Cristo e stabilì la pace nelle terre del nord: alla sua morte, il suo corpo fu
imbalsamato e fu fatto credere al popolo che fosse ancora vivo al fine di mantenere la pace (Gesta
Danorum [V-VI]). A questi, succedette un figlio, Fridlevus II, il cui figlio è Frotho IV.
Confrontando le varie successioni nelle due fonti snorriane e in Sassone, si notano non soltanto le
incoerenze, ma anche come la Pax Danica venga attribuita a personaggi di nome Fróði/Frotho
collocati via via in punti diversi della genealogia.
d — L'espressione «in tutte le lingue danesi» [um alla danska tungu] significa qui «in tutte le lingue
dei popoli scandinavi»; dansk tunga altri non è che l'antica denominazione della lingua norrena.
e — Del re svedese Fjölnir e della sua amicizia con Fróði, trattano varie fonti. Secondo una
leggenda, riferita da Þjóðólfr ór Hvínir e ripresa anche da Snorri, Fjölnir morì proprio mentre si
trovava nel Danmörk quale ospite di Fróði: una notte, ubriaco fradico, precipitò da un ballatoio al
piano rialzato del palazzo di Hleiðr, finì in una botte colma di idromele e annegò. (Ynglingatal [1] |
Ynglinga saga [11])
f — Hengikjöptr, «mascella» o »guancia cadente», uno dei nomi di Óðinn riportato anche nelle
þulur. — Re del mare [sækonungr]: re il cui regno è il mare, probabilmente un condottiero
vichingo.
3 — (b) «Fugasilenzio» [Þögnhorfinn]: si tratta di una parola composta di dubbio significato che
letteralmente significa «silenzio scomparso», «abbandonato dal silenzio» o «privo di silenzio» dal
verbo hverfa «girare, andarsene, abbandonare», da cui il participio passato horfinn «scomparso,
abbandonato», e da þögn «silenzio». Þögnhorfinn è generalmente accettata come kenning per il
mulino col valore di qualcosa di rumoroso, che cessa il silenzio per effetto del suo movimento. Il
dizionario di Cleasby e Vigfússon, alla voce Þögnhorfinn: «an epithet of a mill […] the passage is
not quite clear, and an alliteration seems to be wanting» (Cleasby ~ Vigfússon 1874). Si veda
anche il Lexicon di Sveinbjörn e Jónsson, alla voce Þögnhorfinn: «adj, forsvunden med hensyn til
tavshed, hvis tavshed er borte, om den surrende kværn (hvis ordet er rigtigt), þytr þögnhorfinnar»
(Egilsson ~ Jónsson 1966).
5 — (d) «Gaio mulino»: kenning per il mulino di Fróði, dispensatore di pace e ricchezza. Si veda
Cleasby-Vigfusson, alla voce Feginn: «á fegins-lúðri, on the mill of joy (poët.)» (Cleasby ~
Vigfússon 1874).
13 — (e) «Orsi sfidammo»: espressione che non si riferisce ai veri orsi, ma ai guerrieri vestiti di
pelle d'orso [berserkir]. — (g-h) «Le schiere di grigio bardate»: schiere vestite di grigio, ovvero
rivestite con armature di ferro.
14 — (c) Gothormr: personaggio leggendario, forse da identificare col Guthormus citato da Sassone
Grammatico (Gesta Danorum [I: v: 7]), reggente del Danmörk e padre del famoso re Hadingus. Da
non confondere col personaggio omonimo della Völsungasaga (Faulkes ***).
16 — (g) «Chetaguerra» [dolgs sjötul]: altra kenning per il mulino di Fróði.
20 — (b) Hleiðr(a): si tratta dell'attuale Lejre nella regione dello Sjælland, in Danimarca. Hleiðr era
l'antica sede del cosiddetto Regno di Lejre, sviluppatosi durante l'età del ferro, che secondo le saghe
e le leggende era dominato dalla dinastia degli Skjöldungar. È probabile che la Danimarca
medievale abbia avuto origine proprio da questo regno. Si pensa inoltre che Hleiðr fosse la sede ove
sorgeva anche Heorot, il «Cervo», ovvero la sala di re Hroðgar nel Bēowulf. Effettivamente in
questo luogo sono stati trovati molti resti archeologici di antiche sale reali. Le leggende dei re di
Hleiðr sono raccolte nel Chronicon Lethrense, raccolta composta nel XII secolo, che racconta degli
antichi re danesi di epoca pre-cristiana e delle loro avventure. Fra questi re figura anche il famoso re
Hrólfr Kraki.
22 — Ci si riferisce qui, con qualche variazione, a una truce leggenda narrata nella Hrólfs saga
Kraka. In questa versione, Fróði uccise suo fratello Hálfdanr e divenne re al suo posto. Tempo
dopo, tuttavia, Fróði cadde a sua volta, ucciso dai figli di Hálfdanr, Helgi e Hróarr, i quali
vendicarono così loro padre. In seguito, Helgi, si spostò in Sassonia e qui violentò la regina Oluf,
dalla quale era stato respinto e umiliato. In seguito la regina diede alla luce una figlia, a cui, per
disprezzo, diede il nome della sua cagna: Yrsa. Tempo dopo, Helgi tornò alla corte di Oluf e si
innamorò di Yrsa, non sapendo che si trattasse di sua figlia. Piena di rancore per lo stupro subito, la
regina Oluf non gli rivelò la parentela, così Helgi sposò Yrsa e dall'incesto nacque un figlio, il
futuro sovrano Hrólfr Kraki (il quale è perciò chiamato «figlio e fratello» di Yrsa). Si noti che nella
versione della leggenda a cui accenna questa strofa del Grottasöngr, l'assassino di Fróði
(identificato col re del mulino) sembra essere lo stesso Hrólfr Kraki.
Versi di Einarr Skúlason — (c) «Lasciò il re pace per oro»: nel senso che re Fróði si fece prendere
dalla bramosìa di ricchezze e trascurò di mantenere la pace. — (d) «Giaciglio di Grafvitnir»
[Grafvitnis beð]: da intendersi come «giaciglio del serpente», tipica kenning per «oro». — (e-g) «Le
gote, a tal acero atte, | dell'ascia mia recan del re | la farina»; una possibile parafrasi sarebbe: «le
gote [le lame] della mia ascia, adatte ad abbattere un tale acero [cioè lo stesso Fróði], mi permettono
di prendere il bottino del re». — (g-h) «Timon dello scaldo» [bragar stýri]: kenning per poesia.
Versi di Egill Skallagrímsson — Come si narra nella saga a lui dedicata, lo scaldo vichingo Egill
Skallagrímsson (ca 900-992) compose il poemetto encomiastico-propiziatorio Höfuðlausn, il
«riscatto della testa», in una sola notte, per scongiurare l'ira di re Eiríkr Blóðøx «asciadisangue»
contro di lui. Si tratta tra l'altro della prima composizione islandese in rima. I versi citati da Snorri
appartengono a una strofa che così recita:
Fittissimo, il gioco delle kenningar: (a) ―della spalla il segno‖ è il bracciale, l'armilla; (b) ―della
mano il pegno‖ è l'oro; (c) ―l'oblio del tesoro‖ è ugualmente l'oro; (d) ―armillifrago‖ è il sovrano,
che spezza le armille per donarne i frammenti agli uomini a lui fedeli e agli scaldi che lo hanno
immortalato nei loro versi; (e-f) ―nevischio di sassi che alla riva del falco s'arresta‖ sono le armille
(―nevischio di sassi‖) che stanno sul braccio (―la riva del falco‖); (h) infine, ―farina di Fróði‖ è
l'oro. Parafrasi: «[Eiríkr blóðøx] spezza bracciali ed offre oro: il sovrano non deve essere avaro di
oro (non deve indugiare sulle proprie ricchezze), poiché ha molti bracciali (conquista molto oro) e
può così rendere felici i molti uomini al suo seguito».
SVIPDAGSMÁL
IL DISCORSO DI SVIPDAGR
L'INCANTESIMO DI GRÓA
IL DISCORSO DI FJÖLSVIÐR
«Ljótu leikborði
skaut fyr mik in «Un compito pericoloso
lævísa kona, mi impone la donna perfida
3 sú er faðmaði minn che ha sposato mio padre.
föður; Mi ordina di recarmi,
þar bað hon mik là dove sa che è impossibile
koma, andare,
er kvæmtki veit, per incontrarmi con Menglöð».
móti Menglöðu».
«Löng er för,
«Lungo è il viaggio,
langir ro farvegar,
lungo il cammino,
langir ro manna
4 lungo il desiderio degli uomini.
munir,
Se così accadrà,
ef þat verðr,
che si esaudirà il tuo volere,
at þú þinn vilja bíðr,
allora il decreto di Skuld è
ok skeikar þá Skuld at
incerto».
sköpum».
NOTE
1 ― Gróa è evidentemente la vecchia völva citata da Snorri nello Skáldskaparmál, a cui Þórr si
rivolge per farsi estrarre dalla fronte il frammento della cote di Hrungnir che vi si è conficcato. Il
nome potrebbe essere connesso al gallese groach «strega».
4 ― (d-f) Il senso di questa helming non è molto chiaro. Il significato sembra essere che, quali che
siano le possibilità di un uomo, o quale che sia l'aiuto che possa ricevere, si riesce nei propri sforzi
solo se si è destinati al successo.
6 ― (c) «Rindr per Rani»: a seconda dei manoscritti, questi nomi possono trovarsi in relazione
inversa Rindr è probabilmente la madre di Váli, nominata in Baldrs Draumar [11]. In quanto al
nome Rani, non nominato altrove in letteratura, non possiamo aggiungere nulla. Si tratterebbe,
forse, dello stesso Váli (Gering 1892), oppure di Óðinn, che ne fu il padre (Bellows 1936).
8 ― (c) Dei fiumi Horn e Ruðr non vi è traccia nelle lunghe e dettagliate descrizioni che i testi
eddici dànno del sistema fluviale dell'universo [MITO]. Sophus Bugge emenda i due nomi in Hrönn
«onda» e Hríð «tempestoso», citati in Grímnismál [28] come due dei fiumi che scorrono nel regno
dei morti (Bugge 1867).
10 ― Questa strofa è simile nel senso a una contenuta nella Dissertazione sui canti magici,
nell'Hávamál:
Eef mér fyrðar bera Se uomini impongono
bönd að boglimum, ceppi alle mie membra,
svá ek gel, così io canto
at ek ganga má, che me ne possa andare:
sprettr mér af fótum fjöturr, la catena salta via dai piedi
en af höndum haft. e dalle mani il laccio.
Anche se le due strofe non sono derivative, esse segnalano un'esigenza evidentemente avvertita dai
popoli germanici, a cui si richiedeva una soluzione magica: quella di potersi liberare da corde e
catene e sfuggire dai nemici. Ha questa funzione anche il primo dei due Incantesimi di Merseburgo,
nel quale si invocano le Idisi pregandole di spezzare i ceppi dei prigionieri e liberarli dai nemici.
11 ― Questo incantesimo è simile nel senso a un altro contenuto nella Dissertazione sui canti
magici, nell'Hávamál:
13 ― «Una donna cristiana morta» [kristin dauð kona]: questo passaggio è stato eliminato da alcuni
curatori, ed emendato con «una strega morta» o simili (Bellows 1923). Questo motivo,
probabilmente più antico del poema in cui è stato incluso, testimonia un periodo in cui il
cristianesimo cominciava a diffondersi nei paesi nordici e i pagani guardavano ai cristiani con
sospetto. Si erano evidentemente diffuse strane superstizioni, come quella che i fantasmi delle
donne cristiane fossero estremamente pericolosi.
14 ― Trovarsi a un certamen di sapienza con un gigante era una situazione topica di un certo tipo
di letteratura mitico-sapienziale. Questo è in effetti l'argomento del Vafþrúðnismál.
15 ― Si riferisce qui all'amore di Svipdagr per Menglöð, di cui si tratta nel Fjölsvinnsmál, seconda
composizione della sequenza dello Svipdagsmál.
Il Fjölsvinnsmál
1 ― Sophus Bugge ha proposto una diversa disposizione dei primi quattro helmingar che rendano il
dialogo più naturale. La sua ripartizione, seguita da alcuni editori, è la seguente: [1a-1c | 2a-2c];
[2d-2f | 1d-1f].
2 ― (c) Le «fiamme pericolose» [hættan loga] sembrano essere un elemento ricorrente al motivo
della conquista di una sposa. In Skírnismál [8], l'eroe attraversa una «guizzante fiamma famosa»
[vísan vafrloga] prima di giungere alla dimora di Gerðr. Nell'introduzione al Sigrdrífumál, si dice
che Sigurdr dovette attraversare un muro di fiamme per raggiungere il luogo ove riposava la
valchiria Sigrdrífa.
6 ― (d-f) Pur nascondendo la sua identità, l'eroe fornisce una falsa genealogia che sembra
dissimulare la sua autentica natura. Vindkaldr è «vento freddo», Várkaldr è «primavera fredda», e
Fjörkaldr è «molto freddo». Hugo Gering suggerisce che, fornendo questi nomi, Svipdagr voglia
convincere Fjölsviðr che egli abbia natura di un gigante di brina.
8 ― (c) Svafrþorinn è un nome oscuro, interpretato come «audace nell'addormentare» (nel senso di
«uccidere»), dove la prima parte della parola è un derivato di svapnir > svafnir «[colui che]
addormenta» (cfr. latino sopitor) e la seconda è connesso con il verbo þora «osare». Gianna Chiesa
Isnardi propone di emendare þorinn in þorn «spina» e interpreta il nome come «spina che
addormenta». Per quanto linguisticamente un po' forzata, questa lettura potrebbe però accordarsi al
contesto del mito: Menglöð, che attende l'amato in una dimora circondata da un muro di fiamme,
ricorda la figura di Brynhildr, che, in un luogo assai simile, attende l'arrivo di Sigurðr, sprofondata
in un sonno magico provocato da Óðinn con una spina. (Isnardi 1991)
10 ― (a) Þrymgjöll è «che risuona con fragore», nome evidentemente adatto a un cancello lento e
pesante che cigola nell'aprirsi. ― (c) Sólblindi «accecato dal sole»; a giudicare dal nome, il padre
dei tre operai che hanno innalzato il cancello della fortezza, sembrerebbe essere un nano, che la luce
del sole può uccidere e trasformare in pietra, o un gigante come Vafþrúðnir.
12 ― (a) Gastrópnir, forse «che soffoca gli intrusi». ― (a) Leirbrimir «Brimir d'argilla». L'aver
costruito un bastione con le membra di un gigante fa ovviamente pensare al sacrificio di Ymir. In
questo caso il bastione potrebbe anche avere un significato cosmologico: forse è quello che divide
Miðgarðr da Jötunheimr?
19 ― Seguendo la lezione di alcuni editori, anticipiamo la sezione [19-24] che introduce l'albero
Mímameiðr e il gallo Víðófnir, in modo da giustificare la loro presenza, data per scontata nelle
strofe [14-18].
20 ― (a) Mímameiðr «albero di Mími(r)» (cfr. meiðs Míma [24]). Sicuramente, un nome o
un'ipostasi del frassino Yggdrasill. Il motivo delle radici che nessuno sa dove si trovano, appartiene
anche all'albero su cui Óðinn praticò il suo autosacrificio:
24 ― (a) Questo gallo Víðófnir «dal vasto canto», che compare soltanto in questo testo e nelle
þulur, appartiene allo stesso mitologema di altri galli della mitologia scandinava, come
Gullinkambi, che dimora presso gli Æsir e con il quale va forse identificato. Le sue strane
caratteristiche sono descritte nelle strofe successive. ― (b) L'aggettivo veðrglasir è di incerto
significato. Henry Adams Bellows traduce «Víðófnir si chiama | e ora brilla» [Vithofnir his name |
and now he shines] (Bellows 1923), e su questa linea Gianna Chiesa Isnardi rende il verso con
«Víðófnir si chiama | e sta luminoso nell'aria» (Isnardi 1991). Eysteinn Björnsson emenda il
secondo semiverso in «en hann stendur Veðurglasi á» e traduce come toponimo: «Víðófnir si
chiama | e sta sopra Veðrglasir» [Vithofnir his name | and he stands upon Vedurglasir] (Eysteinn
2005). ― (f) Riguardo a Sinmara «incubo [che opprime con] crampi», sembra essere una gigantessa
[gýgr]. Può darsi sia la sposa di Surtr.
13 ― (d) Nel testo norreno i due «cani affamati» sono definiti garmar, plurale del nome di Garmr,
il ferocissimo cane legato sulla via per Hel. ― (e-f) Gli ultimi due semiversi, che in originale
suonano «er gífrari hefik | önga fyrr í löndum litit» sembrano non avere un senso. Henry Bellows
traduce ipoteticamente con «che davanti alla casa | sono così aggressivi e affamati» [that before the
house | so fierce and angry are]. In genere però i due semiversi vengono emendati in: «er gífrir rata
| ok varða fyr lundi lim» «che vanno avanti e indietro | e fanno la guardia al fogliame dell'albero».
L'albero in questione, se la correzione al testo è giustificata, è forse il Mímameiðr di cui si parla alla
strofa [20].
14 ― (a-b) Gífr e Geri sono i nomi dei due cani che fanno la guardia al bastione di Fjölsviðr e
all'albero Mímameiðr. Sono probabilmente una variante di Freki e Geri, i due lupi di Óðinn. ― (d)
Questo semiverso, che in originale è varðir ellifu, sembra non avere un senso. La parola ellifu, che
vuol dire «undici», viene in genere emendata in elli lyf «antica cura», con evidente riferimento alle
strofe successive. Così ad esempio Eysteinn Björnsson traduce l'intera helming: «l'antica cura del
guardiano | sempre terranno al sicuro | finché gli dèi non moriranno» [the guardians' old-age
remedy | they will ever keep safe | until the gods perish] (Eysteinn 2005), lasciandoci tuttavia
perplessi sia riguardo l'identità del «guardiano» [varða], sia la natura della sua «cura», che
comunque sembra riferirsi alle proprietà curative evidentemente attribuite al fogliame dell'albero
Mímameiðr, oltre che ai suoi frutti. Altri traduttori rendono il semiverso in maniera diametralmente
opposta. Ad esempio. così Henry Bellows traduce la stessa helming: «essi sono grossi | e la loro
potenza crescerà | finché gli dèi non saranno destinati alla morte» [great they are | and their might
will grow | till the gods to death are doomed] (Bellows 1923). Gianna Chiesa Isnardi la rende
invece: «essi qui sempre | faranno la guardia | fino a che crollino gli dèi» (Isnardi 1991).
26 ― (a-b) Lævateinn «ramo di male», unica arma in grado di uccidere il gallo Víðófnir, è
probabilmente una verga magica, come risulta anche dalle strofe [27-28], dove l'arma è chiamata
teinn «ramo, verga, bacchetta» (cfr. gotico tains, anglosassone tān, inglese tiny, danese teen). Non
stupisce che questo malefico strumento sia stato creato da Loptr (cioè Loki) utilizzando rune e
incantesimi, e si può senz'altro pensare al ramoscello di vischio col quale fu ucciso Baldr. ― (d)
Questo verso è stato variamente interpretato, anche a causa delle difficoltà legate alla lettura dei
manoscritti. La parola ker può indicare, a seconda dei contesti, uno scrigno, un calice, un secchio,
un recipiente di qualsiasi tipo, o addirittura il petto di una persona. L'altra parola, seigjárn, è invece
piuttosto enigmatica e viene in genere interpretata come un composto di járn «ferro». Le traduzioni
in questo senso variano dunque da uno «scrigno di ferro» (Isnardi 1991) a un «petto di ferro»
(Eysteinn 2005), in questo caso attribuito a Sinmara. Altri hanno inteso la parola come nome
proprio: Hjalmar Falk ritiene che il brano parli dello scrigno di Sægjarn, nome interpretabile come
«amante del mare», ma privo di riscontri nella letteratura (Falk 1893). Henry Bellows emenda il
termine in Lægjarn «amante dei mali» (Bellows 1923), epiteto applicato a Loki in Völuspá [35].
28 ― (f) L'espressione eiri örglasis, evidentemente una kenning per Sinmara, è di difficile
interpretazione e gli studiosi hanno cercato di penetrarla con lambiccate traduzioni. Viktor Rydberg
traduce «dea dall'armilla splendente» [dis of the shining arm-ring] (Rydberg 1886), emendando la
prima parola eiri nel nome della dea Eir e quindi intendendo quest'ultimo come metafora per
indicare una «dea» in generale, in base a un noto procedimento della poesia scaldica (esemplificato
da Snorri in Skáldskaparmál [7e-7f]). Henry Bellows riprende la lettura di eiri come «dea» e
traduce l'espressione eiri örglasis con «dea dell'oro splendente», che lo studioso considera una
kenning per «donna» (Bellows 1923). Tuttavia la traduzione di ör con «oro» è però una grave
forzatura, che presuppone un prestito dal latino aurus o da una forma da esso derivata. Ora, è vero
che in norreno è attestata una parola aurar «monete» (che però al singolare è eyrir e nei composti
assume la forma aura-), ma la parola per «oro» è piuttosto gull, radice che appartiene al più antico
registro delle lingue germaniche (cfr. gotico gulþ, inglese gold, danese guld). Al contrario, in
norreno ör significa innanzitutto «freccia» (cfr. anglosassone aruwe, inglese arrow), da cui una
traduzione più attinente della kenning potrebbe essere «dea dalla freccia splendente». Un'altra
possibilità è intendere il secondo termine come *aurglsis. Poiché aurr è l'«argilla umida»,
l'espressione significherebbe a questo punto «dea dell'argilla splendente», che non ha maggior
senso. Eysteinn Björnsson intende il secondo termine come toponimo, traduce il verso con «dea di
Aurglasir» (Eysteinn 2005).
29 ― (f) Sinmara è detta fölva gýgr «pallida gigantessa» perché probabilmente vive in caverne o
tumuli, al riparo della luce del sole, che potrebbe esserle fatale. Þórr, in Alvíssmál [2], investe il
nano dicendogli: «perché sei così pallido sul naso? | sei stato di notte tra i cadaveri?» [hví ertu svá
fölr um nasar? | vartu í nótt með ná?]. La parola fölr < fölvir «pallido» appartiene al registro
indoeuropeo, essendo corradicale col latino flavus.
30 ― (a-c) Versi di difficile interpretazione. Cos'è la «falce lucente [...] che sta nella coda di
Viðofnir»? Non convince l'ipotesi di Gianna Chiesa Isnardi, secondo la quale la falce
corrisponderebbe alla coda stessa del gallo (Isnardi 1991). D'altra parte nulla vieta di ipotizzare che
lo stesso Viðofnir possa effettivamente portare una vera e propria falce nella coda (nelle fiabe e
nelle leggende si trovano animali che portano oggetti o strumenti nel loro corpo). Si tratta in ogni
caso di un oggetto particolare, visto che deve essere portato in una speciale bisaccia. Ma perché
questa falce fa gola a Sinmara, la quale è disposta a dare in cambio la verga Lævateinn? Non
conosciamo il mito che sta alla base di questi versi, e qualsiasi interpretazione rimane altamente
ipotetica.
32 ― (a) È il verso stesso ad avvertirci che di questa sala escatologica ne sappiamo poco, a partire
dal suo stesso nome. Lýr è infatti il pesce merlano [Gadus pollachius], ragione per cui il nome della
sala viene a volte emendato in Hýr(r) «luminosa», inteso a causa del fuoco che la circonda
(Eysteinn 2005).
34 ― I nomi dei costruttori della sala sembrano appartenere a dei nani. Óri e Dóri sono citati nella
versione di Snorri (Gylfaginning [14e {19}]) del catalogo dei nani in Völuspá. Degli altri non c'è
notizia nelle fonti, anche se Íri e Úri sembrano posti nel novero semplicemente per allitterare con
Óri. Dellingr è invece un personaggio delle cosmogonie primordiali, citato in Vafþrúðnismál [25]
come padre di Dagr (e ripreso da Snorri in Gylfaginning [10]), e fa stupore trovarlo qui. Un
collegamento di questo personaggio col mondo dei nani è però attestato in Hávamál [150], dove si
dice che il nano Þjóðrǿrir avrebbe cantato dinanzi «alle porte di Dellingr» [Dellings durum]. Anche
Loki compare curiosamente in questo catalogo di nani.
36 ― Lyfjaberg «montagna della salute» (da lyfja «curare»). Molte immagini e metafore legate alla
fortezza di Menglöð sembrano legati a motivi salutiferi, compreso il rimedio che sarebbe possibile
ricavare dai frutti dell'albero Mímameiðr.
38 ― Assai poco si può dire sui nomi delle nove fanciulle che sono accanto a Menglöð. I nomi sono
qui dati secondo l'edizione di Adams Bellows, che emenda le forme Blíð e Blíðr, presenti
nell'edizione di Sophus Bugge (Bugge 1867 | Jónnson 1926), in Bleik e Blíð, seguìto in questo da
altri interpreti (Bellows 1923 | Neckel 1962 | Isnardi 1991). Hlíf vuol dire «protettrice» e Hlífþrasa
«[colei che] aspira alla protezione» (si confrontino con Líf e Lífþrasir, i due giovani che
ripopoleranno il mondo dopo il ragnarök); Þjóðvarta è un nome oscuro, forse «[colei che]
custodisce il popolo»; Björt è «splendente»; Bleik è «pallida»; Blíð è «amichevole»; Fríð è
«graziosa», Eir è «[colei che dà] aiuto» (ed è la dea guaritrice degli Æsir, citata da Snorri in
Gylfaginning [35d]); Aurboða è «[colei che] offre l'oro» (nome della gigantessa madre di Gerðr),
ma, se letto Örboða, è «[colei che] offre la freccia» (Bellows 1923 | Isnardi 1991). Per gli altri nomi
non rimangono che le possibili etimologie, indicanti attività salutifere.
47 ― Chi è questo Sólbjart? Il suo nome vuol dire «splendore del sole» e potrebbe assimilarsi allo
stesso nome di Svipdagr «giorno veloce». Ma si tratta del nome proprio di un personaggio che non
conosciamo, o di un epiteto?