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Nella seconda parte, caratterizzata da un ritmo più lento e dedicata alla riflessione
concettuale e filosofica, invece, viene enunciata la teoria del piacere leopardiana,
secondo la quale il piacere è “figlio d’affanno”, ossia può derivare solo dalla cessazione di
un dolore, in quanto la natura, ormai considerata “matrigna” porta agli uomini solo affanni.
In questa chiave, viene altresì valorizzata la morte come estrema e definitiva fine di ogni
dolore, in quanto l’uomo è, per natura, destinato a soffrire. Il piacere, dunque, non può
assumere connotazioni positive, bensì è solo l’illusione momentanea della cessazione
delle pene. Le due parti della poesia sono strettamente collegate tra loro, poiché l’illusione
della vitalità e della luminosità della scena descritta all’inizio è subito spenta dall’amara
consapevolezza dell’impossibilità di conseguire una stabile felicità, pertanto tutta la poesia
va letta in chiave filosofica. È molto usato il procedimento dell’ironia antifrastica, in
particolare nella terza e ultima strofa, che offre la chiave di interpretazione della poesia:
l’amaro sarcasmo leopardiano si rivolge, come spesso accade, contro la natura ostile,
tutt’altro che “cortese”, che non offre “doni” e “diletti” agli uomini.