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SCIPIONE PULZONE. Da Gaeta a Roma alle Corti europee.

Catalogo della mostra,


Palombi editore, 2013.

Antonio Vannugli, Scipione Pulzone ritrattista, p. 25 Gli ultimi 30 anni del ‘500 fu
pittore più bravo e ammirato di ritratti a Roma sotto 4 papi principalmente:

1) Pio V Ghislieri 1566- 1572 2) Gregorio XIII Boncompagni 1572- 1585 3) Sisto V Peretti
1585- 1590 4) Clemente VIII Aldobrandini 1592- 1605

a) Il primo testo in cui si parla di P. è Il Riposo di Raffaello Borghini del 1584: siamo a
metà della sua carriera e S. viene lodato per la sua capacità di riprodurre il vero, <<i suoi
ritratti pajon vivi>>. Vengono anche citati alcuni fra i suoi ritratti di personalità importanti: -
Papa Gregorio XIII - Il cardinal Farnese - Il cardinal Granvela - Il cardinal Ernando Medici -
Il Sig. Don Giovanni d’Austria che, per essere ritratto da lui, lo fece andare apposta a
Napoli. Borghini si rifaceva ad un paradigma preciso che era quello pliniano nella sua
attenzione alla riproduzione naturalistica delle figure colte dal vero. Siamo prima della
rivoluzione artistica del 1600.

b) Agli occhi moderni appare più efficace la testimonianza del medico appassionato di
pittura Giulio Mancini nel 1620: lo definisce “eminente” nel ritratto ed esalta anche la sua
abilità nel riprodurre il vero, però si mostra più consapevole dell’innovazione ormai stabilita
da Caravaggio per cui esseri viventi e oggetti si equivalgono nel momento in cui vengono
riprodotti pittoricamente. c) Il primo biografo di P. fu Giovanni Baglione che ebbe modo di
conoscerlo bene sia a Roma sia nell’ambiente della Compagnia (poi Accademia) di San
Luca. Ci dice che S. fu allievo di Jacopino Del Conte fiorentino; ma arrivò a superare il suo
maestro e molti altri a lui contemporanei nell’arte del ritratto. Era talmente bravo che si
potevano contare i capelli degli effigiati e ancora più nella riproduzione dei drappi che
sembrano più veri degli originali. Vannugli si sofferma qui sulla descrizione che Baglione fa
del ritratto del card. Ferdinando de’ Medici p.26/170, che si trova oggi in Australia:
talmente accurato da far vedere il riflesso delle finestre della camera nelle pupille del
cardinale, confrontando lo stesso effetto nell’acqua della caraffa di fiori del Suonatore di
liuto di Caravaggio. Questo riferimento ci serve per ricordare che il Concilio di Trento
conclusosi nel 1563 aveva avviato una riforma anche artistica con la richiesta di una più
fedele aderenza al reale, quindi 20 anni prima di Caravaggio, la pittura sacra di Girolamo
Muziano e Federico Zuccari era spinta da una riforma antimanierista e da una ricerca
naturalista.

Alcune info biografiche: non conosciamo la data di nascita esatta, né quando giunse a
Roma. Il primo doc. che ci indica la sua presenza a Roma è nel 1562 quando risulta aver
pagato le taxae viarum alla presidenza delle strade. Questo ci porta a immaginare che
fosse maggiorenne nel ’62, quindi collocheremo la sua nascita tra il 1540- 42, ipotesi
confermata da quanto ci dice Onorato Gaetani d’Aragona nelle Memorie Storiche della
città di Gaeta. Il problema però nasce nel momento in cui guardiamo un altro doc. di una
certa affidabilità: gli Stati delle Anime (che erano dei registri parrocchiali) del 1595 ci
indicano l’età di P. 50 anni; quelli successivi di un anno, 1596, anche ci indicano la stessa
età; invece, i registri del 1597 ci dicono che P. aveva 52 anni quell’anno. Tale datazione ci
porta a posticipare verosimilmente l’anno di nascita al 1544-45. In effetti, non bisognava
necessariamente essere maggiorenni per pagare le tasse relative alla manutenzione della
strada. Quindi forse questa seconda datazione potrebbe essere più probabile. Guardiamo
alcuni documenti antichi per avere più info:
- 10 gennaio e 5 aprile 1567 = dagli archivi di casa Altemps sappiamo di 2 pagamenti di 15
e 16 scudi per conto del cardinale Marco Sittico Altemps per delle spese e dei ritratti che
però non abbiamo modo id identificare.

- 14 luglio 1567 = viene ammesso alla Compagnia di san Luca (poi diventa un’accademia
nel ’93) - 4 febbraio 1568 = S. percepisce pagamento dal duca Marco Antonio Colonna,
non ancora vincitore a

Lepanto, per un ritratto di Filippo II riprodotto da quello in armatura di Tiziano del 1551.
Successivamente diventa paradigma di riferimento per l’iconografia dello stesso Marco
Antonio. Abbiamo notizia di questo pagamento proprio dagli archivi di casa Colonna.
Inoltre, riteniamo che proprio M. Antonio fu il primo mecenate di S., tenendolo a servizio
per un paio di anni fino al 1571.

- 8 maggio 1568 = pagamento del card. Ferdinando de’ Medici di 10 scudi per qualche
dipinto di riproduzione. Lo stesso Ferdinando gli commissionerà dopo circa 10 anni, nel
1576, dei dipinti su tavole di rovere, che non siamo in grado di identificare.

Se ci soffermiamo su questi anni 1567- 68 capiamo dunque che P. era un artista


indipendente con facoltà di aprire una bottega propria; inoltre sappiamo che già nel 1566
aveva dato in affitto a Roma una vigna di sua proprietà, il che implica che fosse di
maggiore età. Influenze: Da Baglione sappiamo che fu allievo di Jacopino Del Conte, il
quale a sua volta fu allievo di Andrea Del Sarto la cui influenza c’è in S. Infatti, lo stile di
Jacopino riprende il suo disegno forte e marcato. Ma questo stile lo ritroviamo solo
parzialmente in P., cosa messa in evidenza già da Zeri. Questo fatto ha indotto a credere
che P. abbia fatto anche altri apprendistati, magari non solo a Roma, ma anche a Napoli.
In realtà questa eventualità è esclusa dal fatto che il doc. di cui sopra attesta la presenza
di S. a Roma nel 1562. Sappiamo che dal 1560 Jacopino decise di dedicarsi ai ritratti,
tralasciando la sua attività pubblica e questa scelta lo rese ricco, gli permise di accumulare
beni e immobili. Era tipico che i pittori giovani si dedicassero ai ritratti (di riproduzione,
prima che dal naturale) e così anche toccò a S. che venne introdotto da Jacopino Del
Conte all’aristocrazia romana, in particolare di casa Colonna. (Anche la figlia di Jacopino,
Virginia, divenne ricca per eredità del padre e anche perché rimase vedova per ben 4
volte). Un’altra influenza importante di Jacopino Del Conte fu indirizzare S. (oltre che verso
Andrea Del Sarto) verso Raffaello. Infatti, quando Del Conte era arrivato da Firenze a
Roma nel 1534, si era proposto proprio come restauratore del “rinascimentale classicismo”
di Raffaello, in competizione con il Manierismo di Perino e del Salviati. Erano gli anni
successivi al sacco di Roma. Furono soprattutto i ritratti raffaelleschi a fondo scuro del
periodo romano a influenzare S. (si possono vedere il card. Bernardo Dovizi da Bibiena o
la cosiddetta Velata nella Galleria Palatina a Palazzi Pitti). Invece, l’attenzione di S. verso
il ritratto asburgico e le sue rigorose codificazioni tipologiche non deriva per nulla da
Jacopino. Molto probabilmente dalla visione delle opere del pittore fiammingo giramondo
Anthonis Mor, il più fecondo esponente, i cui ritratti furono a Roma tra 1550 e 1552. Se
guardiamo invece al livello strettamente stilistico, S. fece probabilmente uno studio
personale sulla potenza espressiva ed il valore semantico del colore. (Anche un
compagno di studi di Jacopino, Agnolo Bronzino che fu nella bottega di Andrea Del Sarto,
portò avanti un suo personale studio sul colore, pur rimanendo nel territorio del
manierismo, e lo usa per esaltare raffinatezza dell’ambiente di corte). Invece, per P. il
colore diventa un aiuto per allontanarsi da ogni sorta di stilizzazione formale ed avvicinarsi
ad una rappresentazione della realtà più piana, diretta e fedele. Sempre per quel che
riguarda il colore, Vannugli esclude l’influenza veneta e il tonalismo tizianesco, senza però
eliminare la lezione di Tiziano per P. sul piano inventivo. Difatti, l’influenza di Tiziano è
molto forte come si vede nell’analisi delle singole opere. Come si è detto S. ambiva ad una
fedele riproduzione della realtà e tale scelta, indice di un’autonomia di pensiero e una
notevole conoscenza dell’arte figurativa del sec. appena trascorso, lo porta a recuperare
le limpide forme della pittura preraffaellesca di Antoniazzo Romano a Roma. Si tratta di un
fenomeno consapevole di revival arcaizzante, forse il primo dell’età moderna, che ha fatto
coniare a Zeri la formula di “arte senza tempo” dalla quale – dice Vannugli – è forse giunto
il momento di allontanarsi. Senza dubbio un altro attore di grande influenza fu Girolamo
Siciolante da Sermoneta presso il quale non è irragionevole pensare che S. abbia svolto
parte del suo apprendistato.

Di P. diciamo anche: che aveva dei ritmi lenti, semplificate volumetrie scremate dall’eredità
di Perino e le declinazione michelangiolesche. Inoltre, S. non si cimentò mai nella tecnica
a fresco, nonostante il suo maestro riconosciuto Jacopino e anche quello non sicuro, il
Sermoneta, fossero eccellenti maestri di questo genere di pittura. (Anche Caravaggio poi
non vorrà dedicarvicisi).

Passiamo all’analisi dei ritratti:

1) p. 244 = Il primo ritratto di P. che si conosce appartiene ad una collezione privata


italiana: è un gentiluomo di una certa età con una scritta sul verso che indica “Giovan
Battista Giordani” eseguito nell’ottobre 1568. Il fondo rosso scuro già indica come P.
avesse cominciato a lavorare sull’armonia di tonalità spente. Sappiamo che il cognome
Giordani è quello di una famiglia napoletana detentrice di una cappellania nella chiesa dei
santi Severino e Sossio per il cui altare Marco Pino da Siena compì nel 1571 la pala con
l’Assunzione. Esiste un Giovan Battista Giordani che fu uno dei notai di fiducia del duca
Cosimo I a Firenze fra il 1540 e 1585. Se fosse lo stesso potremmo pensare che S. fu a
Firenze per un periodo forse a completamento del percorso di formazione.

La fioritura artistica di P. è nel 1569, anno dei 2 ritratti:

2) p. 251 = Gentildonna, ritratto sul fondo marrone scuro nella raccolta Marco Grassi a
New York. 3) p. 247 = Cardinale Giovanni Ricci da Montepulciano, in cui è visibile influsso
fiammingo di Anthonis

Mor nella minuzia descrittiva. Ha un’impostazione tradizionale del ritratto ecclesiastico,


derivata per emulazione dal ritratto di rappresentazione pontificio seduto e inclinato di ¾,
lo stesso di Raffaello nel Giulio II. Al posto del fazzoletto, emblema della fatica pastorale
del pontefice e allusione alla Veronica, il card. Ricci stringe nella mano sinistra la lettera
piegata che era un mezzo per inserire informazioni e didascalie. I precedenti nell’uso della
lettera sono: ritratto del card. Alessandro Farnese in piedi di Raffaello; due ritratti di
Clemente VII prima e dopo il sacco di Roma di Sebastiano Del Piombo. Se confrontiamo
questo ritratto di S., nella versione di maggior formato, con il più monumentale es. della
ritrattistica cardinalizia di J. Del Conte, il ritratto del card. Niccolò Gaddi, dipinto nella
seconda metà anni ’40, notiamo il salto generazionale nel trattamento delle mani, del
panneggiare e l’illuminazione, in J. c’è senza dubbio più l’influenza del manierismo di metà
secolo. Di questo ritratto si ha notizia di 4 versioni:

- la versione su tela firmata e datata del Fogg Art Museum di Cambridge (primi del ‘900
era presso i marchesi Ricci) è a mezzo busto
- la versione su tavola della Galleria Nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini anche a
mezzo busto - una versione perduta su tela che ai primi del ‘900 si trovava a S.
Pietroburgo - la versione rimasta presso i discendenti del cardinale, a ¾ di figura di cui
sopra. In questa versione

leggiamo sulla lettera a lui indirizzata “Fundatori collegi nostri” cioè il collegio Ricci da lui
creato a Pisa nel 1567, allo scopo di dare alloggio a 8 studenti suoi conterranei.

Si tratta del primo es. di modello riproduttivo a taglio multiplo: il pittore realizza il disegno
del volto in una presa dal vero e poi in studio realizza dipinti di vario formato a seconda
delle richieste del committente (busto, ¾, a figura intera più costosa e faticosa).

Queste due opere del ’69 mostrano anche la calligrafia di S. perché sono firmati, calligrafia
riconoscibile anche nei registri della Compagnia e poi Accademia di San Luca e anche in
alcune opere successive.

4) p.254 = Del 1570-71 sono le varie versioni del ritratto di Pio V Ghislieri, il primo papa
che S. ebbe modo di ritrarre dal vero con la lettera nella mano destra e breviario nella
sinistra. Fu papa dal 1566 al ’72, quindi qui era in età avanzata. Ricordiamo che P. fu a
servizio dei Colonna fino al ’71. I precedenti esercizi di S. nel riprodurre l’iconografia
pontificia, agli inizi della sua carriera, furono copie del Paolo III Farnese di Tiziano: infatti
ce ne è una copia nella Galleria Spada che si ricollega proprio a P. per via della tonalità
intensa e carica della mozzetta rossa. Questo rappresenta un precedente importante.

Considerando l’età avanzata di Pio V qui, è ovvio che ci siano dei suoi ritratti precedenti:
nel 1566 dopo l’elezione un ritratto ufficiale di Bartolomeo Passerotti e poi un altro di Giulio
Clovio + altri a livello inventariale. Ma riguardo alle versioni realizzate da P. ne abbiamo
diverse:

- una a figura intera che si trova da sempre nella Galleria Colonna e fu eseguita per Marco
Antonio Colonna e non ha il crocefisso

- una a ¾ di figura, non tanto ben conservata, firmata, è nel Palazzo arcivescovile di
Olomouc in Moravia e presenta il crocefisso

- una pure firmata “Scipionus Gaet. Fecit” ma è in realtà una copia 600esca che si trova
nella sala del Consiglio di amministrazione del Collegio Ghislieri a Pavia fondato dal
pontefice

- un’altra versione firmata “Scipio Caietanus faciebat” era nel convento domenicano di S.
Maria delle Grazie a Milano, ma fu distrutta nei bombardamenti del 1943. Anche qui, dalla
foto vediamo che il pontefice aveva in mano un breviario più un crocefisso sul tavolo p. 31

- una che si trova in Inghilterra presso il Colonello Napier, anche qui c’è il crocefisso.

Bisogna qui spiegare che si tratta del cosiddetto Crocefisso di Lepanto questo snello
crocifisso di avorio fu reso proprio da papa Ghislieri oggetto di indulgenza plenaria per chi
si confessasse o comunicasse davanti ad esso. Papa Ghislieri lo affidò al cappuccino
Girolamo da Pistoia, che si imbarcò sulla nave capitana il giorno della battaglia di Lepanto,
il 7 ottobre 1571. Il frate però morì nel viaggio e il crocefisso passò da Marco Antonio che,
tornato a Roma, lo diede al cardinal nipote Michele Bonelli. Quest’ultimo nel 1586 lo
regalò al contestabile di Castiglia Don Juan Fernandez de Velasco, ambasciatore del
papa Sisto V (85-90). Per tale tramite il crocefisso andò a finire nel 1610 nel convento di
Cappuccine a Medina de Pomar in provincia di Burgos, fondazione di famiglia del nobile
castigliano.

5) Del 1572, settimo ed ultimo anno del pontificato di Pio V Ghislieri, è il ritratto del
cardinal nipote, Michele Bonelli, p.256, che vediamo indossare l’abito domenicano e il
cappello cardinalizio. Era detto il “cardinale alessandrino”. La tela è nel Museo Diocesano
di Gaeta e, purtroppo, è alterata perché è stata alterata, ricucita e ridipinta. Il cardinale è
seduto di ¾ di figura, ha una lettera nella mano destra, a fianco di lui c’è un tavolo sul
quale vediamo un ostensorio decorato da cristalli. La provenienza è incerta, anche se
abbiamo notizia di un quadro simile negli inventari del 1612 di casa Torelli, che poi passò
alle raccolte farnesiane. Sappiamo anche che esiste un’altra versione del ritratto, limitata
al solo busto, che è andata persa, ma potrebbe essere legata al mecenatismo di
Guglielmo V di Baviera, visto che le ultime tracce di questo quadro ce lo indicano a
Monaco di Baviera nel 1904.

6) Da un inventario del 1612 della quadreria di ranuccio Farnese, sappiamo che entro il
1574 P. fece un ritratto di Isabella Bonelli, la sorella del card. Michele. Proprio nel 74
questa andò in sposa al conte Pomponio Torelli a Parma dove poi morì nel 1591. Viene
descritto come un ritratto “grande dal naturale dal mezzo in su con una veste di velluto
nera e mostre d’armellino”. Comunque è andato smarrito.

7) Facendo un passo indietro al 1571 ritroviamo il secondo ritratto femminile di P., la


giovane Gentildonna firmato e datato. Ora si trova in una collezione privata in Svizzera.
Non sappiamo chi sia l’effigiata, eppure suscita grande curiosità per un fatto: una copia o
forse replica più grande a mezza figura si trova oggi agli Uffizi. Questa era parte della
serie “Bellezze di Artimino”: un gruppo di effigi muliebri realizzate nell’ultimo decennio del
‘500 per la granduchessa di Toscana Cristina di Lorena e destinate alla Villa fernandinea
in quella località. Apriamo una parentesi per dire che il ritratto femminile all’epoca era di
rappresentanza sì, ma non di stato, tranne nel caso di personaggi che avevano un ruolo di
governo e le loro mogli. Un fatto curioso è che la stessa Gentildonna appare nei panni di
Salomè nella tela firmata e datata oggi in collezione privata a Modena, p.252.

8) Risultava datato al 1572 il ritratto firmato di Faustina orsini Mattei, p.265, ma che invece
risale al 1575 come è risultato da una rilettura dell’ultima cifra. Figlia di Pierfrancesco
Orsini detto Vicino, signore di Bomarzo; sposa di Fulvio Mattei, morì a 37 anni nel 1594.
Quadro acquistato da Vittorio Sgarbi nel 2004 a Genova. La questione della data va
collegata anche al fatto che risultano 2 pagamenti a S. da parte di Paolo Giordano orsini
nel febbraio 72 e dicembre 73.

9) Fra il 1572-75 è a Napoli allo scopo di ritrarre Don Juan de Austria (come ci dice il
Borghini), figlio naturale del re Carlo V d’Asburgo e comandante in capo della flotta
cristiana a Lepanto. Sicuramente S. gli fu raccomandato da Marco Antonio Colonna che
pure era a Lepanto. Questo quadro però è andato perduto e non sappiamo che aspetto
abbia, ma sicuramente si trattava di un’applicazione della tipologia di rappresentanza
asburgica a figura intera in piedi. Per molto si è identificato questo quadro con uno
esposto nel Museo Naval di Madrid, ma invece questo di rivela firmato e datato 1857 dal
pittore accademico Ramòn Salvatierra y Molero incaricato di copiare una serie di dipinti
delle collezioni reali per la nuova istituzione. Il prototipo è di dubbia attribuzione, ma non è
un originale pulzonesco considerati il taglio manieristicamente allungato della figura,
tantomeno lo si può ritenere una copia da P. questo prototipo (prima nelle raccolte reali,
oggi nei nuovi musei dell’Escorial) è il primo di “dos retratos del dicho Don Juan en lienzo
de toda su persona, uno con un leòn a sus pies y el otro con el hijo del bajà” (il figlio del
pascià che fu fatto prigioniero a Lepanto) come risulta nell’inventario dei beni di Don Juan
fatto alla sua morte avvenuta l’1 ottobre 1578 a Namur. Il riferimento al leone riguarda una
tradizione per cui don Juan trovò l’animale nella fortezza a Tunisi nel 1572 e lo tenne
come animale a corte nella primavera 75 quando Don Juan si trovava lì. Un altro discorso
è legato alla grande pala “Martirio di San Giovanni Evangelista” per S. Domenico
Maggiore a Napoli, prima ed unica opera pubblica di P. a Napoli, che fu sì realizzata a
Napoli, ma durante un soggiorno successivo, di 2 mesi, nell’autunno 1584.

10) p.260, 1572 a Pio V Ghislieri succede Gregorio XIII Boncompagni, di cui S. esegue un
ritratto a ¾ di figura nel ’75. Con una lettera nella mano sinistra, non firmato, che si trovava
a Villa Sora a Frascati. Ne esiste un secondo esemplare privato. Considerando che il
ritratto di Faustina Orsini Mattei è datato al 1575 non più al ’72, questo di Boncompagni
risulta essere il primo dipinto in cui P. inserisce il motivo dell’iperrealistca tenda che,
ripiegata su un altrettanto fittizio bordo di telaio a cui la tela sessa appare inchiodata e di
cui si vedono il bordo superiore e quello laterale, realizza l’effetto del quadro nel quadro,
attraverso l’effetto trompe-l’oeil. Questo elemento diventava poi per l’artista una sorta di
marchio di fabbrica, di firma che senza dubbio era più difficile da copiare della firma
tradizionale.

Riguardo alla tenda dobbiamo fare un discorso. Tanto per iniziare è molto diverso
dall’effetto della cortina semitrasparente velante solo in parte il volto del ritratto di Filippo
Archinto, arcivescovo milanese, dipinto da Tiziano. Diciamo che ci sono 2 motivazione
legate alla scelta della tenda:

- una tradizione figurativa = recuperare l’antichissima convenzione per cui il potere e le


sue incarnazioni si concedevano alla pubblica vista solo come epifanie derivate da un
libero e incondizionato atto di volontà, mantenendo una loro lontananza e distanza che la
tenda simboleggiava bene.

- una tradizione letteraria = era un riferimento al racconto di Plinio il Vecchio riguardo alla
competizione pittorica fra i due maggiori artisti dell’antichità: Zeusi dimostrò di poter
ingannare gli uccelli con la sua uva dipinta; Parrasio trasse in inganno lo stesso Zeusi che
ecrcò di sollevare una tenda dipinta da Parrasio sulla tela. S. si poneva come il nuovo
Parrasio a chi sapeva cogliere l’allusione. Infatti Plinio il Vecchio, a proposito di Parrasio,
diceva che fu un abilissimo pittore di figure, raggiunse la perfezione nei particolari del
volto, diede eleganza ai capelli, grazia alla bocca, eccellente nell’esecuzione dei contorni.
Questo riferimento letterario venne in effetti colto se ricordiamo quello che scrive Giovan
Pietro Bellorio quando riporta la vita di P. scritta da Baglione e dice: <<egli sapeva imitare
con li colori tutte le sorti di sete et drappi tanto felicemente che bisognava toccare la pittura
per non essere ingannato>>.

11) Al ritratto di Gregorio XIII si collega quello di Jacopo Boncompagni, figlio del papa,
riconosciuto alla sua nascita nel 1548. Lo vediamo in qualità di governatore generale delle
armi potifice nella

splendida armatura da parata milanese riccamente decorata con motivi all’antica e figure
di Marte, di San Michele, di turchi incatenati. Il quadro è firmato e datato 1574. Nel
cimentarsi nel ritratto armato stante a ¾ di figura l’artista protetto da Marco Antonio, aveva
visto 2 modelli precedenti dell’iconografia della famiglia Colonna:

- Stefano Colonna del Bronzino 1546 - Francesco II Colonna del Sermoneta 1561,
entrambe nel palazzo di famiglia, oggi a Palazzo Barberini.

In questi due quadri gli effigiati hanno un’espressione altera che non ritroviamo in Jacopo,
il quale invece si mostra cordiale e benevolo. Questo fatto contrasta la teoria zeriana
riguardo l’impenetrabilità dei personaggi effigiati da P. I turchi disegnati sull’armatura sono
un riferimento alla sua carica militare ottenuta nel ’73 (per sostituire Marco Antonio
Colonna) con il compito preciso di occuparsi dei prigionieri catturati a Lepanto dalla Lega
Santa. Ricordiamo che Jacopo ebbe anche rapporti con Don Juan de Austria tanto per
avere un’idea di quanto fosse connesso il circolo di committenze che offriva lavoro a S.
Nella mano sinistra tiene un portadocumenti, un cilindro porta dispacci (ha un tappo) da
collegare all’incarico ricevuto come ambasciatore straordinario al nuovo re di Francia
Enrico III che a luglio 74 era a Ferrara. Il rapporto di amicizia e stima a seguito del dipinto
portò Jacopo a fare da padrino per il figlio di S., che si chiamò appunto Giacomo, il 15
luglio 74. In realtà lui non intervenne direttamente, ma per procura, mentre fu presente
Francesca Colonna Orsini nella Chiesa dei Santi Apostoli. Nel 2013 il quadro fu acquistato
da un parigino dopo un sec. in America.

12) 1574 gli viene commissionato il ritratto di papa Martino V Colonna p.271. 13) E la
Maddalena Penitente p.267 per l’altare a vela di Marco Antonio in San Giovanni in
Laterano. Questa rappresentò la prima prova pubblica romana di P. e venne ripresa
dall’immagine del papa nel ciclo di affreschi di gentile da Fabriano e Pisanello per il
giubileo del 1425 (poi fu rifatto da Borromini quindi non più visibile); ne esisteva anche una
copia antica dal Pisanello nella galleria Colonna tuttora lì).

14) p.274, 1576 firma e data il ritratto del cardinal Antoine Perrenot de Granvella che fu
eseguito quindi a Roma durante la sua lunga e ultima permanenza iniziata nel 75. Di
questo quadro esisterebbe un’altra versione su tela di cui si fa menzione nell’inventario di
Paolo Falconieri del 1704, ma potrebbe essere un errore. Invece ne abbiamo un prototipo
su rame con dei colori intensissimi, che si trova a Londra + una replica sempre su rame
che già nel 1607 è registrata nell’arredamento di Palazzo Granvella a Besancon.
Comunque questo ritratto ottenne uno straordinario successo. Il committente, che era già
stato ritratto da Tiziano nel 1548 e da Anthonis Mor nel 1549, manifestò la sua
ammirazione per <<Scipion de Gaeta para retratar al natural>>. Commenti simili si
riferiscono a Girolamo Muziano prediletto per il disegno e Marcello Venusti <<para dar
colores>>, come si legge in una famosa lettera del 10 febbraio 1578 dell’ambasciatore
don Juan de Zuniga al sovrano Filippo II in cerca di pittori per la propria corte. Nel 1584
Lomazzo espresse lodi per questo quadro, nel proporre il Gregorio XIII e il Granvella come
esempi perfetti dell’idealizzazione espressiva raggiunta dal pittore.

15) p.38, 1578 firma e data il ritratto di un ignoto Gentiluomo del Museo Condé di
Chantilly, nel quale il personaggio ha un fazzoletto nella mano sinistra, posa la destra su
un plico su un tavolino. Presente il caratteristico trompe-l’oeil della tenda.

16) 1578 sembra risalire un ritratto di Torquato Tasso che fu infatti a Roma nei primi mesi
di quell’anno. Sappiamo che esiste una versione registrata nel tardo ‘700 a Roma in casa
del pittore Francisco Romero, però non lo possiamo identificare con un ritratto di Torquato
Tasso che si trova nel Museo delle Belle Arti a Nizza per la sua qualità gessosa e piatta.
Questa può tuttalpiù essere una copia dell’originale perduto.

17) 1576-80 = alla seconda metà degli anni 70 risale un ritratto di uno sconosciuto,
venduto da Zeri alla collezione Goffi a Roma nel 1947. Per lungo tempo si è creduto che
fosse il card. Camillo Borghese futuro Paolo V, ma non può essere perché questi era
troppo giovane. Avrebbe ricevuto la porpora solo nel 1596, quando S. era vecchio e
comunque lo stile del quadro non è compatibile con quello di S. maturo.

Stesso periodo risale un restauro di un quadro che era danneggiato: ritratto di ignoto
prelato di Jacopino del Conte. S. ridipinse la capigliatura del personaggio in modo veloce
(non sembra la sua mano) + aggiunse la tenda di raso a sinistra, che in modo evidente è
spazialmente incongrua con la figura. Quindi S. non si preoccupò troppo di aggiungere o
meno un suo segno riconoscibile all’opera del suo maestro che era ancora in vita e questo
dimostra la consapevolezza della propria abilità mimetica. Questo fatto si ricollega ad un
altro episodio: un litigio fra S. e Zuccari scaturito da una firma indebitamente aggiunta al
termine del restauro che gli era stato affidato del quadro San Luca che dipinge la
Madonna.

18) 1579 ritratto di Alessandro Farnese ricordato da Borghini e noto dalla versione
autografa firmata e datata della Pinacoteca Civica di Macerata senza tenda p.285 + della
replica della Galleria Nazionale d’arte antica di Palazzo Barberini p.284. in questo ritratto
ritroviamo con minime varianti lo stesso punto di vista e lo stesso schema con la lettera
nella mano sinistra del ritratto di Gregorio XIII e del presunto card. Camillo Borghese.
Notiamo che qui l’effigiato incarna una rigorosa neutralità emotiva.

Proprio questi ritratti sono gli ultimi esempi nella produzione di P. in cui incontriamo tale
tipologia. Ke uniche eccezioni saranno l’Enrico Caetani in piedi di Ninfa e Michele Bonelli
del 1586 che in realtà è una replica del ritratto di Gaeta di 15 anni prima senza ostensorio
e con tendina p.39 e che ora è al Fogg Art Museum. L’abbandono di questa tipologia più
rigida significherà per P. un crescente interesse per l’umanità e la spontaneità espressiva
dei personaggi, non della psicologia. Insieme a questo abbandonerà anche la
convenzionalità araldica propria del ritratto asburgico di Anthonis Mor.

Tornando all’Alessandro Farnese, notiamo che sulla replica di Roma c’è un’iscrizione che
è leggibile solo parzialmente ma suggerisce l’età del porporato a 59 anni, cosa confermata
da una lettera che appunto si riferisce al 1579. Però, fatto strano, un prototipo di questa
immagine già circolava nel 1577. Cmq qui il card. Farnese rappresenta il potere più freddo
e distaccato con uno stile rigido e duro, cosa che già non ritroviamo un anno dopo.

19) 1580 S. firma e data il ritratto a figura intera del card. De’Medici, tanto lodato dalle
fonti, in cui l’effigiato appare più cordiale. C’è sempre la tendina. Si trova ora alla Gall.
Nazionale di Adelaide in Australia. È uno dei suoi primi lavori per casa Medici, p.170. Il
card. Rimase molto soddisfatto del lavoro di S. tanto che gli commissionò anche una
replica di un altro dipinto cioè l’Andata al Calvario, p.290, che S. dipinse l’anno dopo per il
viceré di Sicilia Marco Antonio Colonna. 8 anni dopo, 1588, Ferdinando de’Medici, già
nominato Granduca di Toscana e ancora per poco cardinale, sarebbe stato ritratto da
Alessandro Allori, il quale si ispirò proprio al ritratto di P.: realizza una tela a ¾ di figura
con l’introduzione di uno sfondo paesistico, ora a Pisa. Inoltre esiste a Firenze una copia
antica del ritratto di Adelaide, ridotta al busto.
20) 1580 viene pagato per un ritratto perduto di Virgilio Orsini. 21) 1581 S. eseguì l’unico
felicissimo ritratto inserito in un’opera di destinazione pubblica e di vasto

respiro: quello del piccolo Andrea Cesi p.294 che poteva avere 6-7-8 anni all’epoca. Ci
sono San Francesco e Santa Chiara, Sant’Andrea protettore del bambino che lo
raccomandano alla madonna. Questa pala d’altare venne commissionata dalla mamma
del bambino, Porzia Orsini dell’Anguillara e destinata alla chiesa di Bonaventura, cioè il
primo luogo di culto romano concesso al nuovo ordine dei Cappuccini. Datiamo la pala al
1581 perché è datata e firmata: in realtà la data è mezza cancellata MDL, ma nell’800
Gaetano Moroni scrisse il Dizionario di erudizione storico- ecclesiastica ed indicò tale data,
forse all’epoca ancora leggibile. Anche Borghini indica questa data e descrive il quadro:
<<un fanciullo, figliolo del Marchese di Riano, padrone della tavola, ritratto di naturale>>.
Successivamente papa Urbano VIII trasferì i frati Cappuccini di Roma alla nuova sede di
S. Maria Maggiore della Chiesa dell’ordine di Ronciglione. La cornice originale con
intagliato lo stemma di Porzia Orsini dell’Anguillara.

22) 1584 P. soggiornò per un periodo a Firenze dove realizzò almeno la presa dal vero
per il ritratto ufficiale del granduca Francesco I a ¾ di figura. Questo quadro già divenne
conosciuto ed elogiato,a ancora prima di essere spedito al committente, cosa che
avvenne tardi, dopo ben 2 anni (1 agosto 1586). Il ritratto dovrebbe essere quello che si
trova agli Uffizi p.41 indicato come appartenente alla serie aulica. Anche se Andrea De
Marchi dice che potrebbe trattarsi di un rifacimento voluto nel 1590 da Ferdinando I in
sostituzione di uno precedente andato perso. Esiste anche una replica di Francesco I in
una versione a figura intera, in cui torna la tenda e c’è anche una corono granducale su un
tavolo a sinistra.

23) p.324: nella stessa occasione a Firenze, P. completò anche il ritratto di Bianca
Cappello, una donna veneziana di circa 36 anni che fu a lungo l’amante di Francesco I,
per poi diventare la seconda moglie nel 79. Questo dipinto era esposto a Firenze già
l’anno dopo, 1585 e fu visto da Francesco Bembo, il quale ne rimase molto impressionato
e arrivato a Roma, chiese una replica a S. Questa seconda versione arrivò a Venezia nel
1586 ed ebbe una straordinaria fortuna nell’alta società. Bembo la mostrò anche la doge a
Palazzo Ducale, e scrisse alla Cappello dicendo che il suo quadro riscuoteva successo.
Abbiamo perfino testimonianza di uno svelamento del quadro per mezzo del sollevamento
del drappo da parte del Bembo alle donne della sua famiglia. Il ritratto della Cappello viene
solitamente identificato con una Gentildonna a mezzo busto, con una ricca collana a giro
di perle e un garofano nunziale in evidenza nella scollatura (forse commemorativo delle
nozze con Francesco I 1579) tuttavia il quadro è non datato, non firmato a non presenta la
cortina. Non può essere Camilla Martelli (seconda moglie Cosimo I dal 1570) come
qualcuno aveva suggerito per non corrispondenza cronologica. Comunque la copia che
abbiamo al Museo di Vienna è di provenienza veneta, quindi è logico credere sia la
seconda versione fatta per il Bembo.

Sempre a Firenze 1584 S. ebbe modo di studiare le Assunte Panciatichi e Passerini di


Andera Del Sarto (maestro di J. Del Conte, che era ancora vivo). Questo studio gli fu poi
utile per l’enorme pala su lavagna di identico soggetto che stava realizzando: gli era stata
commissionata nel 1583 per l’altare della cappella dei banchieri Bandini in San Silvestro al
Quirinale, e che sarebbe stata compiuta nel 1585. È stato anche notato che nei panni
dell’apostolo Paolo è riconoscibile il ritratto del committente Pier Antonio Bandini.
24) p.304: giugno 1584 mentre era ancora a Firenze viene chiamato al casello di
Bracciano per eseguire il ritratto di Marco Antonio Colonna. Questi veniva da Palermo, si
trovava a passare dallo stato della chiesa, per andare alla corte di Filippo II di Spagna da
cui era stato convocato. Morirà in Spagna di lì a poco, il 1° agosto 1984 a Medinaceli.
Dalle lettere che alcuni mesi più tardi P. scrisse alla vedova di Marco Antonio, Felice
Orsini, si sa che egli ritrasse il duca in solo 3 ore il 22 giugno per poi tornare a Roma dove
traspose il modello su tela. Il dipinto a figura intera nella Galleria Colonna è il più alto es.
della ritrattistica di rappresentanza laica di P., in cui non solo gli attributi come il toson
d’oro, ma più n generale tutta l’impostazione testimonia il rango e la posizione politica
dell’effigiato quale fedele vassallo del re di Spagna, di Napoli e di Sicilia, in quanto
strettamente ispirato al citato ritratto armato in piedi del sovrano che, quando era ancora
principe, aveva dipinto nel 1551 ad Augusta il grande Tiziano in rispetto della tipologia
asburgica che lo stesso maestro veneto aveva universalmente stabilito 20 anni prima
circa: nel 1532-33 a Bologna aveva rielaborato un modello tedesco propostogli da Carlo V.

25) sempre nella galleria Colonna esiste una versione più piccola ridotta al busto in cui
Marco Antonio indossa un berrettone di velluto a Roma di ritorno dalla vittoria di Lepanto,
ricevuto dal card. Alessandrino. Dato che la presa del volto dal vero e l’età matura
corrispondono a quella del ritratto a figura intera, occorre pensare che sia un ritratto
postumo eseguito poco dopo morte, commemorativo della vittoria.

10 novembre 1584 S. parte per Napoli per incontrare la vedova Felice Orsini e
consegnarle le due versioni del ritratto di Marco Antonio, una destinata a lei; l’altra doeva
andare in Spagna, ma va alla sorella di lui, Girolama (sposa di Camillo Pignatelli, duca di
Monteleone). S. rimase a Napoli fino ai primissimi giorni del 1585, quindi quasi 2 mesi e si
dedicò al Martirio di San giovanni Evangelista per la cappella Carafa in San Domenico
Maggiore.

S. tornerà a Napoli un’altra volta nel giugno 96. Nessuna delle 3 volte che fu lì il clero o la
nobiltà napoletani gli commissionarono nulla, che noi sappiamo. L’unico ritratto di cui
abbiamo testimonianza è “un ragazzo polacco” + un ritratto di “donna di mezza testa”, ma
in realtà non siamo certi dell’attribuzione a P. per le poche notizie. Si aggiunge l’ipotesi di
un busto di un “prelato” dall’intenso sguardo rinvenuto da Pierluigi De Castris in una
collezione privata di Napoli. Ma nulla di certo.

26) p.44: 1584 ritratto firmato di un’ignota “Gentildonna” con collana di perle a doppio giro,
probabile dono di fidanzamento. Zeri l’aveva identificata, sbagliando con Lucrezia di
Girolamo Tomacelli, moglie di Filippo Colonna duca di Palermo dal 1597, che però
all’epoca aveva solo 8 anni.

27) p.39: 1586 replica firmata e datata del ritratto del card. Alessandrino Michele Bonelli +
tendina, che oggi è al museo Fogg di Cambridge. Fu donato dal committente all’amico
card. Girolamo Bernerio. Successivamente nel 1642 fu donato al card. Francesco
Barberini, insieme al Pio V.

28) p.278: 5 dicembre 1587 data della morte del 65enne card. Giacomo Savelli. Dello
stesso periodo è il ritratto di un anziano porporato che le testimonianze e inventari
successivi indicano essere lui. Ancor più se lo confrontiamo con un ritrattino all’interno
della “raccolta de ritratti di cardinali” assemblata da Celestino Sfondrato nel ‘700. Questo
quadro ha anche una versione su rame molto grande che è alla National Gallery di
Londra, ma sulla cui autografia ci sono dei dubbi viste le insolite dimensioni ma soprattutto
se lo paragoniamo alla quantità della replica su rame del ritratto di Granvella.

Nella seconda metà anni 80 alcuni ritratti cardinalizi:

29) p.314: Enrico Caetani, firmato, con la lettera nella destra e un campanello sul tavolo. È
composto nell’insolito formato a figura intera stante, evidentemente in quanto inteso quale
prototipo di una Galleria di “ritratti di famiglia” secondo un uso dinastico all’epoca in via di
diffusione. Considerato che prese la porpora il 18 dicembre 1585, datiamo il quadro
posteriore a quella data. Inoltre, nel maggio 86 avvenne la consegna della “Crocifissione”
per la Chiesa Nuova degli oratoriani di Filippo Neri, che fu commissionata da Camillo
Caetani a P. almeno dal 1583 per la cappella da lui ottenuta due anni prima in
concessione. In realtà poi verrà saldata solo nel 1593. Questo Camillo succederà a Enrico
nel 1588 nella carica simbolica di patriarca latino di Alessandria.

30) Girolamo Mattei, card. Dal 1586, in fotografia nel testo “Caravaggio” di Maurizio Marini
(2005) in collezione privata.

31) p.45: Ascanio Colonna che diventa card. alla fine 86, figlio di Marco Antonio, ritratto a
mezzo busto nella Galleria Colonna, per la chiarezza dell’illuminazione richiama la fase
matura di P., ma a causa della rigidezza formale si è sempre stati un po’ incerti riguardo
l’attribuzione. Potrebbe anche essere opera di un collaboratore o un allievo.

32) Stessa cosa vale per i “due cardinali” ritratti insieme a mezza figura, opera
probabilmente chiusa negli immensi caveaux della Banca Toscana che comprò alla
vendita del barone Spinelli nel 1934.

33) Francesco Maria Bourbon Del Monte, futuro protettore del Caravaggio, assurto alla
porpora alla fine 88. Questo personaggio ci rivela info preziose su S., in una lettera datata
10 dicembre 1599 al Granduca Ferdinando de’Medici, quando parla di <<quel poveretto di
S. prematuramente scomparso il 1° febbraio 1598>> per una probabile peritonite. Anche
Baglione parla della sua morte a 38 anni (sbagliando) <<per dolori colici crudeli>>. La
lettera serviva per raccomandare Ottavio Leoni che avrebbe preso il posto di P. come
ritrattista n°1 della Roma del nuovo sec. Comunque il rapporto di S. con Del Monte
dimostra l’interesse di questi per i più recenti sviluppi della riforma cattolica antimanierista
verso il nuovo naturalismo. Questo quadro è presente nell’inventario alla morte del card.
Nel 1627, ve ne è anche una copia nel libro “Caravaggio” di Marini (ed.2001) che dice che
si trovava presso un antiquario di Perugia. Del Monte aveva qui sui 40 anni, indossa una
mozzetta di raso con brillanti riflessi luminosi sulle pieghe, cosa che richiama l’indumento
delle 2 versioni del Savelli + anche la tendina dei ritratti della copia granducale di Toscana
degli Uffizi del 1590.

34) 1591 e non oltre il 93: il ritratto perduto del card. Ottavio Acquaviva d’Aragona che
ottenne la porpora a 41 anni proprio nel ’91 da papa Gregorio XIV Sfondrati. Non può
essere oltre il 93 perché poi questo card. Ottavio partì per la legazione d’Avignone. Nel
1954 apparteneva alla principessa di

Boiano Acquaviva d’Aragona e veniva però indicato come una copia, ma non siamo certi,
potrebbe anche essere l’originale.
35) Ricordiamo poi il ritratto postumo del card. Carlo Borromeo a metà strada fra ritratto e
immagine devozionale del carismatico arcivescovo milanese morto nel 1584 in odore di
santità. Fu realizzato quindi nella seconda metà degli anni 80, primi 90.

36) Dello stesso periodo anche il ritratto funerario ovale su lavagna, in cattivo stato di
conservazione, di Filippo Spinola, morto nel 93, quadro inserito nel suo monumento
funerario nella chiesa domenicana di Santa Sabina a Roma, p.47.

37) Esiste un altro ritratto andato perso di Padre Marcellino, un famoso predicatore
evangelista morto nel 93, così chiamato perché originario di San Marcello Pistoiese.
Beglione ricorda quest’opera nella Cappella del Sacramento.

38) Tra 1582- 1591 realizza due ritratti andati perduti di Enrique de Guzman, secondo
Conte de Olivares e sua moglie Maria Pigmentel de Fonseca, che si trovavano a Roma
bel 1587 perché lui era ambasciatore di Filippo II presso la corte pontificia (proprio quando
nacque il loro figlio, futuro conte-duca). Francisco Pacheco ricorda questi quadri che vide
e aggiunge che S. ricevette per essi 300 scudi ma non per essere pagato, solo per il costo
dei materiali. Questo era un fatto significativo, qualcosa che spettava agli artisti
riconosciuti e non a servizio.

39) Tra il 1589- 90 S. si recò a Firenze per ritrarre il nuovo granduca Ferdinando I e la sua
neosposa Cristina di Lorena. Lui era già stato ritratto da S. 10 anni prima in quanto
cardinale. I due ritratti rispettano le convenzioni e modalità rappresentative che
caratterizzano la sere aulica e pertanto adottate in precedenza per il defunto predecessore
Francesco I. Baglione ricorda i grandi riconoscimenti che P. ottenne per questi ritratti
prima di ritornare a Roma. Entrambe le tele esposte agli Uffizi sono firmate e datate 1590,
l’una sul verso e l’altra sulla corona della Granduchessa. Ferdinando poggia il braccio
destro sulla borgognotta che era appartenuta a re Enrico II di Valois, parte della dote di
Cristina: questo gesto è stato poi interpretato come indicativo delle sue aspirazioni al trono
di Francia. Esiste una piccolissima replica su rame del ritratto di Ferdinando de’Medici a
Palazzo Pitti, limitata al busto che viene indicata come autografa; un altro grande ritratto di
Ferdinando I con le insegne di Cavaliere dell’ordine di Santo Stefano che si trova nella
Villa Medicea La Pietraia, ma che non è di P. = pp. 352- 356- 360.

40) Esiste poi un ritratto disperso di Virginio Orsini, figlio della sfortunata Isabella
de’Medici, che forse è collegabile con questo ultimo soggiorno fiorentino di P. Il quadro
compare in un iventario del 1656 del figlio Paolo Giordano II dove veniva stimato solo 3
scudi.

41) p.48: il ritratto di Gentildonna con la tendina trompe-l’oeil nei depositi del Prado è stata
prima identificata con una granduchessa di Toscana. Su questo quadro molte le
attribuzioni e datazioni: Magdalena La Puerta ha ipotizzato che sia l’infanta Catalina
Micaela, la più graziosa di tutte le Asburgo che andò sposa a Carlo Emanuele I di Savoia,
ritratta da Juan Pantoja de la Cruz; Maria Kusche lo attribuiva a Roland Moys e
identificava l’effigiata in Maria di Portogallo, sposa del duca Alessandro Farnese, morta nel
1577. Esiste inoltre una seconda versione in America in cui l’effetto del quadro nel quadro
è amplificata, forse autografa. Comunque tendiamo a collocarlo negli anni 90.

42) Agli inizi degli anni 90 S. realizza non meno di 7 ritratti di “Belle dame” di Roma, un
genere che aveva riscontrato successo nella capitale a partire dallo stesso Ferdinando
de’Medici, il quale, a dispetto dell’abito cardinalizio, si era dato molto da fare in gioventù.
Questa serie fu probabilmente commissionata dal giovanissimo card. Odoardo Farnese,
da poco insediato nel Palazzo di famiglia a Roma che era rimasto per due anni senza
padrone con la scomparsa di Alessandro Farnese nel 1589, p.49. Emigrati nel ‘600 a
Par,ma, 4 di questi ritrattino finirono nel ‘700 in Inghilterra dove si trovano ancora oggi. Le
loro misure differiscono appena dalle cosiddette “Bellezze di Artimino” di committenza
medicea, che si trovano oggi negli Uffizi. Questi ritratti costituiscono una delle più
compiute espressioni dello stile pulzonesco maturo, caratterizzato dalla <<tipica e
geometrica solidezza dei volumi, dal minuzioso realismo dei particolari e dal senso di
decoro e dignità>> (Pierluigi Leone De Castris). Infatti, siamo davanti all’evoluzione di S.
verso la sua ultima maniera, con luce e colori saturi e squillanti. Gaspare Celio testimonia
di aver visto nel Casino del principe Peretti sull’Esquilino molti ritratti di dame di S. di cui
non si sa nulla. Stessa cosa per quei 52 ritratti di Dame principali di Roma e altre città
d’Italia, fatti in parte da S. e in parte da Ottavio Leoni (detto il Padovanino), registrati
ancora alla metà del ‘600 da Jacopo Manilli a Villa Borghese.

L’arte di S. rivela la sua intellettualità attraverso la mediazione linguistica verbale a cui


rinviava l’aggettivazione spontanea da parte del pubblico per definire il suo stile e
soprattutto l’uso dei colori: definire le sue opere (anche l’arte sacra) come <<semplice>>,
<<puro>>, <<luminoso>> diventava per esenzione un giudizio anche morale. Tutto questo
era determinante per la memorizzazione dell’opera e S. lo sapeva. Ricordiamo la teoria
gesuitica della Compositio Lociche rende corporeo e visivo ciò che è astratto e spirituale
per renderlo più vicino, conoscibile e memorizzabile. Allo stesso modo S. realizzava nel
ritratto un personaggio che incarna e rappresenta l’autorità e il potere o, nel caso
femminile una materializzazione della bellezza ideale, che rimane impresso nello
spettatore. S. era consapevole del doppio valore semantico insito negli stilemi del suo fare
pittorico, in linea con la poetica aristotelica ed i principi del delectare, docere, movere, tipici
della retorica. Un altro discorso riguarda lo S. poeta: Federico Zeri aveva individuato 2
sonetti a opera di uno “Scipione Gaetano” inseriti in una miscellanea di componimenti
amorosi conservata nella Biblioteca Carducciana di Bologna e quindi pensò che il pittore si
fosse dedicato anche all’attività letteraria, cosa mai messa in discussione. Però né
Baglione né altre fonti dicono espressamente che P. scrisse poesie. Anzi abbiamo una
delle lettere di Francesco Bembo a Bianca Cappello del 17 maggio 1586 a proposito del
ritratto fatto da S. alla granduchessa, in cui dichiara di non sapere se il <<Gaetano, tanto
amico del pennello e nemico della penna>>, le avesse finalmente mandato il sonetto in
lode del quadro che il nobile veneziano aveva composto a Roma nell’ottobre precedente.
Questo porta a pensare che l’autore di quei 2 sonetti fosse un altro: difatti, compare anche
il nome di uno “Scipione Gaetano” tra gli affiliati alla romana Accademia degli Umoristi,
fondata nel 1600 (quando S. era già morto) in occasione del matrimonio di Paolo Mancini.
Aggiungiamo che intorno al 1620 Ottavio Leoni regalò dei ritratti a dei letterati (riuniti nel
famoso volume di disegni della Biblioteca Marucelliana a Firenze), tra cui compare uno
“Scipione Cicero” poeta napoletano, di cui però non si sa nulla. Ricordiamo che Gaeta era
parte del regno di Napoli e anche poi nel ‘700 De Dominici scrive una raccolta di vite di
artisti napoletani, tra i quali inserisce anche la biografia Bagionesca di P. (con qualche
aggiunta). Torniamo all’ultimo periodo di S. ritrattista femminile:

43) Presunto ritratto di felice Orsini sposa di Marco Antonio Colonna a Palazzo Colonna a
Roma, p.50 44) Altro ritratto muliebre della Naga Investments Ltd. Dell’isola di Jersey,
p.51 45) Altro ritratto muliebre a San Pietroburgo, la cui identificazione in Vittoria
Accoramboni parrebbe risolvere anche il problema dell’identità precedente vista la
somiglianza dell’effigiata. 46) Gentildonna a Torino, le maniche del cui abito ricordano
certe soluzioni formali adottate anche nella collaborazione con Giuseppe Valeriano al
Gesù, p.378. 47) Gentildonna della Galleria Doria Pamphilij a Roma, non anteriore al
1590, replicato in formato a mezzo busto e con un dverso abito in una tavola a Palazzo
Pitti, questa replica proviene dalla serie delle “Bellezze di Artimino”.

48) Una più matura Gentildonna, in evidente sovrappeso, di cui non si conosce la data.
Zeri dice che è firmato e datato. È a nella stessa dama della tela Doria- Pampphilij, p.283.

49) Ildonna datato 1594, collezione a New York, p.53, che dopo la pulitura si è rivelata
molto diversa da prima. Si pensa possa essere Maria de’Medici, in tal caso dovremmo
supporre un lteriore viaggio di S. a Firenze, ma potrebbe anche essere un ritratto indiretto.

50) La cosiddetta Lucrezia Cenci (matrigna della famosa Beatrice) datata 1591 presenta
toni scuri e bassi nel fondo marrone e nella sobria giustapposizione del nero della veste
(sono questi aspetti che ritroviamo nei primi ritratti per lo più). Asta Milano, ora in
collezione privata, p.366. Ne esiste una copia antica al museo di Stoccolma. Primi del ‘900
in collezione privata a Vienna c’era una replica con uguali firma e datazione.

Tali opere, con la serie delle Belle Medicee di Artimino e anche quelle farnesiane,
testimoniano la svolta matura dell’autore verso un più efficace naturalismo fondato su una
luce più chiara, un allontanamento rispetto alla resa lenticolare “alla fiamminga” dei
dettagli, a favore di una rappresentazione delle superfici più sintetica, “italiana”,
neorinascimentale, elementi che hanno fatto parlare di proto- classicismo. In realtà, la
maggiore spontaneità e naturalezza delle posture non è solo frutto di un’evoluzione nello
stile di P., ma anche della tipologia di ritratto: sono ritratti femminili, quindi privati, oppure
maschili ma tagliati a mezzo busto. Per questo riscontriamo, oltre a una minore rigidezza
di impostazione, anche una drastica riduzione dell’apparato di attributi. Infatti, gli ultimi
ritratti ufficiali realizzati, cioè quelli medicei, del 1590, sono più vicini a quelli del decennio
prima. L’ormai maturo e affermato P. non disdegnava di dedicarsi a repliche e copie di
immagini preesistenti, sia proprie che di altri autori. Per es. 1594 il card. Alessandrino
Michele Bonelli gli saldò 3 ritratti che raffiguravano: il defunto granduca Francesco I, il re
Filippo II e un infante suo figlio (forse il piccolo e sfortunato Don Carlos che era stato
erede al trono di Spagna prima di morire in un incidente, quando Bonelli era cardinal
nipote. Non il futuro Filippo III, nato 1578). Un anno prima l’artista aveva venduto allo
stesso Bonelli la propria casa con orto presso la Colonna Traiana, anche se avrebbe
continuato a viverci fino alla morte. Non si consoce oggi l’aspetto di P., con paradossale
visto che era un ritrattista ammirato a prolifico. Dall’accademia di San Luca non abbiamo
nulla a tal proposito, forse a causa della ben nota rivalità con Federico Zuccari. Ottavio
Leoni detto il Padovanino era 20enne quando S. morì, ne prese il testimone nel 98, ma
non fece alcun suo ritratto. Dal card. Federico Borromeo lo conobbe anche perché era
protettore dell’accademia di San Luca e possedeva 3 sue opere, una delle quali gli era
stata donata dall’amico Del Monte. Più di 20 anni dalla morte di P., lo stesso Borromeo
scelse proprio lui come es. di eleganza e dignità sociale e professionale, affiancando ai
più vecchi grandi maestri Tiziano e Michelangelo e contrapponendolo a Caravaggio.
Ancora più tardi, Giovanni Baglione ricorda che <<era bellissimo d’aspetto e mostrava
sembianze da principe>> a confermare ciò che di lui dicevano gli aristocratici che aveva
ritratto.

A. Si è creduto un suo autoritratto “Giovane 21enne” del 1564 in Olanda, ma è invece del
bergamasco Giovan Battista Moroni. Infatti sul fondo verde si legge un “…rone” che fu
confuso con”…zone” da cui si credette erroneamente “Pulzone”.
B. Hess proponeva di identificarlo nel secondo apostolo sul lato sinistro dell’Assunzione
del 1585 in San Silvestro al Quirinale. Ma è una testa di genere.

C. Sempre il biografo Baglione dice che è uno dei 72 discepoli nella chiesa di Santo
Spirito in Sassia, dipinti dal vivo da Iacopo Zucchi nel grandioso affresco della Pentecoste.
Ma non sappiamo identificarlo.

D. Augusto Donò pensa ad un personaggio vicino all’autoritratto di Zucchi, che sarebbe


“un uomo biondo col tipico cappello da pittore”, ma in realtà quello probabilmente non è
Zucchi, figuriamoci se è possibile identificare quella accanto a lui.

E. Esiste infine l’inventario del 1610 del defunto Zucchi in cui si parla di 2 disegni a
pastello su carta azzurra: uno raffigurerebbe l’architetto Ottaviano Mascherino, l’altro S.,
ma non abbiamo cmq termini di confronto.

Alessandro Zuccari, Pittura religiosa

1584 scrive Raffaello Borghini <<nel far ritratti è tenuto S. da tutti meraviglioso. Ma egli per
mostrare che ancora non meno vale del fare historie, et altre pitture ha fatto due bellissime
tavole ad olio… molto lodate, et hoggi se ne trova molte altre fra mano, che si aspettano
come cose bellissime>>. Quando scrive questo P. era un ritrattista affermato e
corteggiato. Il riferimento alle due tavole corrisponde a: Immacolata con angeli e Santi per
i Cappuccini di Roma e il Cristo sulla via del Calvario inviato in Spagna da Marco Antonio
Colonna. (Non sappiamo quando, come e se Borghini potette vedere questa seconda
opera, visto che da Roma fu spedita subito in Sicilia e poi da lì subito in Spagna). In realtà,
S. aveva già realizzato nel 1571 Salomè con la testa del Battista; 1575 Maddalena
Penitente di San Giovanni in Laterano. Borghini, mentre scrive, non può prevedere che la
produzione di S. avrebbe ricevuto l’etichetta di “arte senza tempo” proprio in relazione alla
crescente e variegata produzione di tema sacro; cmq dice che per il futuro si aspettava
cose bellissime. Comunque, evidenziamo che, quando S. si dedica a <<fare historie>>,
cioè alla pittura di carattere religioso, è già famoso come ritrattista anche fuori dallo stato
pontificio dove risiedeva e dal regno di Napoli dove era nato. Fin dagli anni 60 aveva
quindi avuto modo di intessere una fitta rete di rapporti con illustri personalità e famiglie
aristocratiche. Considerando che le committenze a carattere religioso sono spesso
connesse al medesimo circuito di ambienti e personaggi frequentati in qualità di ritrattista,
si può ritenere che il suo desiderio di dedicarsi alla pittura religiosa sia frutto proprio di
questi rapporti. Solo negli anni 80 si manifesta il favore di ordini e congregazioni religiose
e di alcune confraternite: in particolare si tratta di nuovi ordini come i Gesuiti e i
Cappuccini, solo Domenicani e Benedettini sono gli ordini antichi per cui P. esegue pale
d’altare. Sempre cmq attraverso la mediazione di influenti donatori.

1) La prima commissione pubblica venne da Marco Antonio Colonna in virtù del


privilegiato legame che da tempo si era stabilito con il futuro viceré di Sicilia e la sua
famiglia, presso la quale P. era stato a servizio tra 1569 e il 71. Si tratta della Maddalena
Penitente, p. 266, eseguito tra il 74 e il 75. Decorava il tabernacolo delle reliquie presso la
tomba di Martino V Colonna in San Giovanni in Laterano (poi la tomba fu spostata). Zeri
individua il prototipo di questa Maddalena in quella che Tiziano p.66 aveva donato al card.
Alessandro Farnese nel 1567 e riconosce la capacità di P. di fondere i modi veneti con
quelli romani del Siciolante, Venusti e Sebastiano Del Piombo. Rileviamo l’equilibrio della
composizione e l’eccellente resa pittorica, più un cromatismo tutto veneto nello scorcio
paesaggistico che richiama il Golfo di Gaeta (nelle pale successive invece il paesaggio ha
più influenze fiamminghe). Nelle chiese di Roma esistevano altre effigi della Maddalena,
ma per la prima volta si trattava di una figura intera, grande quanto il naturale, a sedere su
un sasso. Per es. ne esisteva una di Jacopino Del Conte a mezza figura, oggi nella
Sacrestia di San Giovanni in Laterano. Il prototipo tizianesco venne tradotto da S. a figura
intera per adattarlo alle porzioni di una pala d’altare (ancòna), considerata la sua
destinazione.

2) Stesso discorso non si può fare per la Salomè con la testa del Battista che non è
propriamente un’opera religiosa in quanto corrisponde a quel genere di historie sacre che i
collezionisti apprezzavano per il loro valore narrativo più che per il soggetto biblico e
associavano alle historie profane, p.252.

3) Fra il 1581- 83 dipinge Cristo sulla via del Calvario per Marco Antonio Colonna, p.290,
che lo voleva destinare al segretario personale di Filippo II, Mateo Vasquez Leca.
Dimostra la lettera in cui gli scrive che gli ha inviato un quadro del Salvatore con la croce
sulle spalle <<sabiendo cuan inclinado es vuestra senoria a cosas de tanta devocion
come esta>>. Questa spiega la scelta del soggeto religioso in tal caso. Marco Antonio lo
scelse spinto dall’intento politico di compiacere il potente personaggio e sapendo che
l’episodio della Passione di Cristo era amato a corte: Cristo porta croce di Sebastiano Del
Piombo, Cristo con Cireneo di Tiziano avevano riscosso gran successo in Spagna. Filippo
II aveva posto quello di Tiziano sull’altare del suo oratorio privato all’Escorial. Ricordiamo
che S. fece un’altra versione del dipinto nel 1583, oggi dispersa, commissionata da
Ferdinando de’Medici che voleva anche inviare in Spagna, anche se poi rimase presso i
Medici a Roma fino al 1740. Questo fatto dimostra come nell’Italia della Controriforma si
conoscessero i gusti spagnoli in fatto di arti visive. Comunque il primo a richiedere questo
dipinto fu Marco Antonio che conosceva meglio l’ambiente della corte spagnola, più di
Ferdinando.

4) 1581 realizza la grande pala d’altare per la chiesa di romana di San Bonaventura (che
fu poi trasferita a Ronciglione), l’Immacolata con gli angeli e i santi, esempio evidente di
come S. sapesse adeguarsi alle esigenze del destinatario e del committente, p. 294.
Riesce ad unificare armonicamente gli intenti dei Cappuccini e quelli di Porzia Orsini
dell’Anguillara, duchessa di Ceri (parente di Felice Orsini, moglie di Marco Antonio
Colonna). I Cappuccini avevano fondato questa loro nuova chiesa San Bonaventura al
Quirinale nel 1580. Per ripristinare lo spirito evangelico di Francesco d’Assisi osservavano
una rigorosa povertà che si rifletteva anche nella struttura e decorazione delle loro chiese;
rifiutavano l’uso di materiali pregiati realizzando in legno gli altari e le cornici nelle pale. Si
erano insediati sul Quirinale dal 1526 con la protezione e sostegno finanziario dei Colonna
e di altri donatori, da cui dipendevano. Tra questi Porzia Orsini dell’Anguillara. I
Francescani e in particolare i Cappuccini erano grandi sostenitori del culto immacolista e
favorirono la diffusione di una particolare iconografia della Tota Pulchra che si fondeva
con quella della Madonna degli Angeli. Porzia Orsini commissionò il quadro per fare un ex-
voto e porre il figlio Andrea Cesi sotto protezione dell’Immacolata. Il padre Paolo Emilio
Cesi era una persona violenta. Porzia era una donna di fine culturale e sensibilità religiosa
e scelse di patrocinare l’altare dell’Immacolata (forse col favore anche dei Colonna). Per la
composizione P. ha elaborato un repertorio di nozioni della pittura romana precedente da
Muziano, allievi di Raffaello, Marco Pino, Venusti, la “Rachele” di Michelangelo. Tutto
questo cmq si sposava con ciò che i Cappuccini volevano, visto che erano volti a proporre
una propria immagine dell’Immacolata che fosse meno criptica delle altre esposte al
pubblico. L’immagine della Vergine circondata da simboli lauretani (la cui fonte primaria è
il Cantico dei Cantici) proviene da schemi veicolati dai libri d’ore miniati e stampati liturgici:
fra i tanti ricordiamo due esempi: Tota Pulchra di un libricino sulle visioni di Santa Brigida
= Maria a mani giunte col capo leggermente inclinato è uguale a P.; Assunta incoronata
dagli angeli di Cornelis Cort = aggiunge la falce lunare su cui Maria si poggia e i lunghi
capelli ricadenti sulle spalle, con gli angeli in volo ai suoi lati. Riguardo i santi che
circondano il piccolo Andrea Cesi: San Francesco e Santa Chiara sono i patriarchi
dell’ordine dei Cappuccini; Sant’Andrea è eponimo del bambino e Santa Caterina era cara
alla famiglia Cesi. Quindi è evidente che S. concepì il dipinto in base ad accordi con i
Cappuccini e la donatrice. L’immagine dell’Immacolata corrisponde a una precis strategia
dei Cappuccini: ispirandosi a modelli ricorrenti soprattutto in Spagna, Calabria e Sicilia,
essi introdussero un’iconografia che non era ancora stata ammessa nelle chiese di Roma,
ma che da allora riscosse grande successo. P. recupera alcune forme puriste dal ‘400,
mettendo in atto una sorta di arcaismo, che si deve alle precise esigenze di un culto, che i
Cappuccini volevano promuovere. P. giunge da tali forme ad una formula per <<una ben
coltivata religiosità, smussata da furori e deliri>>. A questo si aggiunge il raffinato e
luminoso tenore naturalistico che conferisce alle figure e ai simboli mariani armonicamente
inseriti nel paesaggio di inclinazione fiamminga. L’opera riscosse grande successo.

5) 1582 a distanza di un solo anno, S. parte per Gaeta, forse portando con sé il materiale
preparatorio del dipinto di San Bonaventura. E forse proprio lui propose alla Confraternita
dell’Annunziata di Gaeta una versione semplificata e ridotta della pala romana. Si tratta
dell’Immacolata p.298 anche se con alcune differenze: una volumetria più marcata,
l’aggiunta del panno azzurro, angioletti che contornano la figura, l’impostazione del
paesaggio costellato dai simboli mariani. P. insomma partecipò all’aggiornamento
dell’iconografia in epoca di controriforma, inserendosi in un filone iniziato già da prima del
500 con il tema immacolistico.

Seguirono altri incarichi dai Cappuccini, in particolare le commissioni siciliane: 6) 1584 è


datata la Madonna degli angeli con San Francesco e Santa Chiara, p.307, nella chiesa
vecchia dei Cappuccini di Milazzo che S. inviò da Roma. Tale commissione può essere
stata promossa da alcuni membri autorevoli dell’ordine, dei frati siciliani che si trovavano a
Roma in quegli anni. Esiste anche un’ipotesi di un intervento diretto del viceré Marco
Antonio Colonna, che aveva creato a Milazzo un fortilizio e probabilmente sostenuto
l’insediamento di quei frati nelle immediate vicinanze, (visto che il fortilizio si chiamava
Forte dei Cappuccini). Anche se non abbiamo certezze, sappiamo del rapporto tra Marco
Antonio Colonna e S. ed è anche logico ipotizzare un suo desiderio di compiere un atto di
politica religiosa, ed una predilezione per il tema della Madonna degli Angeli che c’era
nella famiglia Colonna. A questo proposito, Vittoria Colonna e Lucrezia della Rovere
Colonna avevano finanziato l’impresa promossa dal siciliano Antonio Lo Duca di
trasformare parte delle terme di Diocleziano in un luogo di culto dedicato a Santa Maria
degli Angeli. Quindi anche la pala di Milazzo può derivare da un’intensa stabilitasi tra il
viceré di Sicilia e i Cappuccini. Di questa pala è stata sottolineata la fissità iconica dei
personaggi e notati elementi desunti soprattutto da Raffaello e Sebastiano Del Piombo più
un colorismo che richiama la lezione veneta.

7) L’opera ebbe un immediato gradimento perché nel 1588 (Marco Antonio era morto 4
anni prima) S. firmò una seconda redazione destinata alla Chiesa di Mistretta, p.338, un
tempo dedicata a Santa Maria degli angeli e oggi a San Francesco. In questa pala c’è un
richiamo agli stessi modelli proto- 500eschi nell’impianto bipartito, nella disposizione dei
personaggi e nel naturalistico stile d’insieme. Inoltre, è stato rintracciato un chiaro rimando
alla Madonna di Foligno di Raffaello che poi era già stata evocata nell’Immacolata di
Ronciglione. I Cappuccini di Sicilia, per valorizzare il tema della Madonna degli angeli,
ripresero solo parzialmente l’iconografia che sempre i Cappuccini avevano proposto a
Roma con il culto dell’Immacolata Concezione (che cmq è presente in queste due pale).
Difatti in Sicilia ci sono altre versioni che si rifanno al modello pulzoniano.

8) Santa Chiara, p. 310, a mezza figura che tiene l’ostensorio e che si trova a Valencia dai
primi del ‘600. Non si hanno notizie del dipinto fino al 1597, quando risulta collocato nella
residenza dell’arcivescovo e viceré di Valencia, Juan de Ribera, figlio di Pedro Afan de
Ribera che era stato viceré di Napoli 1559- 1571. Tutti questi indizi possono far pensare a
un diretto incarico a P. o a un dono inviato da qualche personaggio legato ai circuiti
ispanici. La figura della santa è ripresa dalle pale siciliane, quindi possiamo presupporre
che fu realizzata negli stessi anni, 1584 circa. L’immagine è molto contenuta e la sua
austerità è mitigata dalla finissima resa dei Cappuccini di Roma e poi rielaborata per i
Confratelli siciliani. S. estrasse dalle pale tale segmento per realizzare un’opera destinata
alla meditazione privata sempre di indirizzo francescano.

Altre commissioni di ambito francescano di devozione privata:

9) Due opere più piccole per Francesco Gonzaga, uomo di austera spiritualità e
autorevole riformatore che fu poi ministro generale dei Frati minori, vescovo prima di
Cefalù e poi di Mantova. Si tratta di un’immagine della Vergine non identificata che
compare nel suo testamento del 1608 (muore nel 20) e il Salvator Mundi, p.342, riscoperto
da poco a Mantova. Firmato e datato 1589, forse fu inviato in Sicilia e, seguendo
Gonzaga, arrivò a Mantova dove fu donato al duomo, dove si trova oggi. Con le tre tele
cappuccine e qualche Madonnina S. aveva avviato una produzione di tipo “iconico”, ma
cmq non volle accantonare il genere della historia in chiave sacra. Difatti ricevette e
accettò altre commissioni per pale d’altare da Roma a Napoli.

10) Trovandosi a Napoli nel 1584 realizzò il Martirio di San Giovanni Evangelista, p.155,
per la Chiesa di San Domenico Maggiore, dove fu collocato in una delle cappelle Carafa.
A questo proposito sono state avanzate delle ipotesi sulla committenza sia in relazione
alla famiglia Carafa che all’ordine dei domenicani: Antonio Carafa era un uomo di curia di
grande cultura, legato ai domenicani, che divenne cardinale bibliotecario, si occupò di
rinnovare la cappella di famiglia e costruirne un altare.

Nel primo testamento di P. del 1590 risulta che aveva nominato tutori dei suoi figli proprio
Antonio Carafa e il card. Michele Bonelli. Proprio quest’ultimo aveva strette relazioni con la
chiesa di San Domenico e quindi potrebbe essere intervenuto presso i membri napoletani
dell’ordine per la realizzazione della pala. Ricordiamo che esisteva una fitta rete di
relazioni da tempo: S. aveva fatto il ritratto del Bonelli nel 1572 e quello del prozio, papa
Pio V, proveniente anche lui dall’ordine domenicano. Inoltre, Bonelli abitò in palazzo
Colonna nel periodo 1576- 88 come affittuario di Marco Antonio, e S. godette sempre della
protezione di quest’ultimo anche dopo esserne stato pittore domestico. Non è da
escludere che lo stesso Marco Antonio intervenne in questa commissione: nel 1566 aveva
dato in sposa la figlia Giovanna Colonna ad Antonio Carafa, duca di Mondragone, per
superare un conflitto tra i due casati: al tempo di Paolo IV un Giovanni Carafa aveva
usurpato ai Colonna un feudo nel Lazio. Giovanni Evangelista poteva essere un
riferimento al Giovanni Carafa (usurpatore del feudo laziale) e alla figlia di Marco Antonio,
Giovanna. Il Martirio di San Giovanni Evangelista (danneggiato e non ben restaurato)
richiama la composizione dell’analogo affresco realizzato da Circignani in Santo Stefano
Rotondo nel 1582, eseguito a Roma per i Gesuiti. P. sicuramente lo vide e portò lo stesso
soggetto in una chiesa napoletana, ma con una resa formale opposta: attraverso la pratica
del “più vero del vero” di fonte classicista e intellettualistica (Zeri) arriva ad una natura
vicina al Caravaggio. (Zeri, in realtà, dice che non c’è legame tra i due, ma in alcuni ritratti
del Merisi si nota l’influenza pulzoniana). S. accentua qui il suo già levigato naturalismo e
lo fa in un quadro da chiesa, da un lato per ottenere un maggiore coinvolgimento dei fedeli
(stava diventando normativo il docere, delectare, movere), dall’altro per dimostrare la sua
abilità tecnica nella resa dei tessuti e materiali e nella “natura morta” sul proscenio.
Comunque da considerare che la collocazione in San Domenico Maggiore era più
prestigiosa ed esigente delle Chiese Cappuccine: lì vi era esposta l’Annunciazione di
Tiziano (oggi a Capodimonte) ed il pubblico era più autorevole e colti di quello dei
Cappuccini. Il dipinto era in linea con i dettami della Controriforma, anche se non
sappiamo il grado di dipendenza della produzione religiosa di P. dai decreti conciliari e
della specifica trattatistica del secondo ‘500. Questo ambito è molto problematico ed è
stato discusso ampliamente, in relazione ad un’altra opera:

11) Assunzione, p. 328, su ardesia, eseguita tra il 1583- 85 per la cappella del banchiere
fiorentino Pier Antonio Bandini in San Silvestro al Quirinale. Zeri collocava questa pala
nell’ambito della produzione matura di P. indicativo di un rigido conservatorismo
iconografico e formale, innescato dal riformismo tridentino che aveva come punto di
riferimento il trattatello di Giovanni Andrea Gilio “Due dialoghi…degli errori de’ pittori” del
1564. Zeri proponeva una lettura crociana per cui la chiesa post-tridentina costituiva un
unico blocco monolitico reazionario, la quale portò a forme di cristallizzazione normativa
nell’arte. In realtà è stata offerta una rilettura dalla storiografia del periodo della
Controriforma. Soprattutto a noi interessa qui l’opera di Paolo Prodi, che ha affrontato la
questione, basandosi sullo scambio epistolare tra: Antoniano, Sigonio, Paleotti riguardante
le scelte iconografiche per questo quadro. Prodi ha relativizzato la dipendenza di S. dalla
trattatistica sulle immagini sacre, dal libretto di Gilio, dalla precettistica del Paleotti. Queste
lettere dimostrano quali complesse preoccupazioni teologiche e storiche ci fossero
riguardo la pala dell’Assunzione. Infatti, venivano posti vari problemi:

- Se era legittimo raffigurare gli Apostoli visto che giunsero al sepolcro della Vergine 3 gg.
dopo l’Assunzione

- Se potevano essere 12 visto che Giacomo era morto - Se dovevano avere lo sguardo
verso l’alto, considerando che l’Assunzione non era visibile - Se c’erano angeli o no - Se la
Vergine era giovane o vecchia - Il sepolcro a forma di sarcofago o scavato nella roccia -
Se oltre ai 12 discepoli se ne potevano aggiungere altri.

Paleotti, arcivescovo di Bologna, rispose ad Antoniano che bisognava rispettare


la consuetudinee cercare di rimanere nel verisimile. Il problema era che delle
incongruenze o abusi nelle immagini avrebbero offerto agli eretici un’arma contro la chiesa
di Roma oppure c’era il rischio di confondere i fedeli. La soluzione era fare una Vergine
anziana o 33enne come ricordo della resurrezione; ci potevano essere angeli o apostoli.
Fra questi alcuni avrebbero potuto guardare in alto altri verso il sepolcro. Tali indicazioni
sembravano rispettare il principio di verisimiglianza. S. si attenne a quanto indicato da
Paleotti: fece una Vergine dal volto giovanile, cosa presente anche nei modelli fiorentini da
lui imitati: l’Assunta Passerini di Andrea Del Sarto (il quale però aveva anche fatto una
Maria anziana nell’Assunta Panciatichi, a dimostrare che la questione dell’età fosse già
stata sollevata in passato); poi fece gli apostoli in modo che solo due guardassero in alto e
fossero ricoperti dall’ombra delle nubi che dividono le due aree della pala, la scena celeste
e quella terrena. S. giunge a questo modello proprio seguendo la consultazione di quelle
personalità dotte, ma cmq così facendo contraddisse la consuetudine 400 e 500esca nella
trattazione del tema: da Tiziano a Veronese, Tintoretto, Rosso a Santi di Tito, Siciolante,
Muziano, Carrocci. S. preferisce il modello della Sacra Conversazione di Daniele Da
Volterra nella sua Assunzione di Trinità Dei Monti. Gli stessi committenti Bandini avevano
manifestato desiderio di formulare il dipinto con tutta l’accuratezza necessaria per
rappresentare sia il mistero che la verità dell’historia: anche i Chierici Teatini del San
Silvestro al Quirinale erano noti per il loro rigore dottrinale (avevano ottenuto la chiesa nel
1555 per volontà di uno dei loro fondatori Paolo IV Carafa). Queste voci avevano
influenzato la scelta iconografica, ma non gli scritti: per es. il “Discorso intorno alle
immagini sacre et profane” di Paleotti con il suo criterio di non distaccarsi dall’antica
consuetudine, quindi fare gli Apostoli con lo sguardo verso l’alto. Quindi Paolo Prodi ha
ragione nel relativizzare il legame tra la precettistica post- tridentina e la pala di San
Silvestro al Quirinale; come anche Bruno Toscano che da questo episodio suggerisce di
non dichiarare un uniforme e ferreo condizionamento della volontà degli artisti da parte di
eruditi e teorici dell’arte sacra della Controriforma. Qui S. non si sottopose alle indicazioni
ricevute passivamente, ma le usò per formulare un’immagine storicamente fondata e
stilisticamente innovativa = per es. a confronto delle due grandi Assunzioni di Girolamo
Muziano 10 anni prima: quella di Roma, con la sua irrealistica bipartizione e la marcata
retorica dei gesti risulta arcaica iconograficamente e manieristica stilisticamente. Invece
quella di P. con il suo sottile naturalismo e l’armonica combinazione tra la sfera celeste e
terrena, appare più moderna. Se la prima interpreta in chiave di dinamico
“espressionismo” una iconografia ricorrente, mentre la seconda si rifà ad autorevoli modelli
rinascimentali per tentare una via più verisimile: S. ha composto un’opera di pacata
monumentalità acorandosi più a Raffaello e Fra’ Bartolomeo (in San Silvestro ci sono i
Santi Pietro e Paolo da loro realizzati) e sviluppando la lezione dei grandi veneti con
straordinari effetti cromatici e chiaroscurali che rinviano a Sebastiano Del Piombo più che
a Tiziano e a Tintoretto. S. non va visto come il rappresentante di un’arte sacra ufficiale,
ma come un innovatore che sa cogliere le istanze di avveduti committenti e vuole proporsi
come interprete della tradizione pittorica di Roma.

12) Tutto questo trova poi compimento nella sua ultima opera, l’”Assunzione” di Santa
Caterina dei Funari, p. 380, documentata 1596 con figure estremamente classiche e un
cromatismo puro, elegante. È probabile che la formulazione del soggetto derivi da un
preventivo accordo con la Confraternita di Santa Caterina della Rosa, alla quale
apparteneva la chiesa. Il recupero di un’iconografia ideata più di 10 anni prima per la
Cappella Bandini e la scelta dello stesso pittore corrisponde alla volontà di riproporre
un’interpretazione del soggetto più corretta e marcatamente “romana”, come dimostra
anche la figura di San Pietro, il cui ruolo di mediazione tra la scena sacra e i fedeli (chiaro
rinvio al primato pontificio) è accentuato nel braccio che buca la tela, con il libro e le chiavi.
Inoltre, San Pietro non guarda l’Assunta, ma sembra invitare i fedeli a meditare con lui
davanti a “tanto misterio”. Le vicende del dipinto sono intricate: per la committenza si è
pensato a monsignor Camillo Caetani, patriarca di Alessandria e influente membro della
Confraternita. S., dopo la morte di Marco Antonio Colonna (agosto 84) godeva sì del
favore degli orsini, ma è probabile che volesse legarsi a nuovi protettori, cioè i Caetani.
Difatti, ci fu un duraturo rapporto con questa famiglia romana che può avere favorito
l’indicazione del suo nome per quadro Santa Caterina dei Funari.

13) Bisogna considerare che anche Santa Prassede che raccoglie il sangue dei martiri di
Burgos, p. 348, firmata e datata 1590, proviene delle collezioni Caetani. Probabilmente
apparteneva al fratello di Camillo, il card. Enrico che S. aveva ritratto 1586, p.314.
l’iconografia martiriale non era ancora molto diffusa.
14) Inoltre, lo stesso Camillo Caetani gli aveva commissionato la Crocifissione di Santa
Maria in Vallicella del 1586, p. 319. Si trattava di un incarico prestigioso per la chiesa degli
oratoriani di San Filippo Neri, ai quali era legato anche il card. Enrico. È accertato che
1583 i Filippini chiesero di esporre sull’altare il relativo cartone preparatorio e che l’opera
era terminata a maggio 86, ma non si sa bene perché la tela è firmata e datata 1593. Una
possibile spiegazione è che il pagamento di 100 scudi fu erogato dai Caetani solo nel ’93.
Cmq piacque moltissimo. Gli oratoriani erano molto attenti non solo alle iconografie, ma
anche alla scelta degli artisti e sicuramente ebbero un ruolo determinante nella
formulazione del dipinto (vollero prima mettere il cartone in prova). S. orami godeva di
grande fama per le sue opere di carattere religioso ed era capace di adattarsi alle richieste
dei propri interlocutori. Infatti la pala della chiesa Nuova rispecchia la sensibilità oratoriana
sia nel modo di raffigurare il tema, sia nel più marcato e plastico naturalismo della resa
pittorica che prelude all’ultima fase del Gaetano. Così il personale stile dell’artista si
sposava con gli intenti e i gusti dei Filippini che preferivano un superamento del
manierismo a faver di un senso diretto e naturalistico della rappresentazione del reale. Gli
oratoriani si prefiggevano nella formulazione delle immagini della loro chiesa di rendere
all’occhio quelli che erano i loro obbiettivi: più che predicare la dottrina, volevano
raccontare, fare delle lezioni impartite con tono familiare, con accentuata dimensione
affettiva, rivolte a tutti, ma cmq cariche di erudizione e di rimandi al cristianesimo primitivo.
P. crea un’immagine di potente e naturalistica essenzialità, capace di suscitare una
commossa meditazione. La principale fonte di P. è la pala di Tiziano, in San Domenico di
Ancona, ma anche i riformati toscani e il Beato Angelico delle Crocifissioni. Interessante
soffermarsi sul fondale scuro quasi di lavagna che non crea o annulla la profondità (come
le astrazioni spaziali dei fondi oro), ma crea un singolare effetto di buio che in basso lascia
intravedere uno scorcio di Gerusalemme. Questo è rispettoso della volontà degli oratoriani
di attenersi alle scritture ad è un effetto realizzato con velature di colore. Queste scelte
sono in linea con la concezione delle immagini sacre che gli oratoriani condividevano con
Paleotti e altri riformatori cattolici: l’idea base era che più ci si accostava al naturale,
verosimile, più si esprimeva devozione. Si guardi ad es. la croce in legno dipinta in modo
da rendere la ruvidezza per valorizzare questi effetti di realismo. S. studiò anche il punto di
vista del fedele mentre accede alla cappella (la prima a destra) entrando dalla porta
laterale della chiesa: infatti, la croce è appena fuori asse e le figure di Maria e Giovanni
sono disposte in una diagonale che presuppone una veduta di destra: accorgimento
certamente gradito agli esigenti preti dell’Oratorio. P. realizza un’istantanea della morte di
Cristo che rispetta il dato storico e armonizza il “devoto” e il “naturale” mettendo in campo,
in un impianto di sobrio classicismo, il valore simbolico delle nitide cromie e soprattutto
della luce: la Grazia divina irrompe nell’oscurità con luce che investe i personaggi secondo
un principio che ritroveremo in Caravaggio. Da notare l’epica intonazione dei personaggi,
soprattutto la Maddalena, le cui fattezze e il dolore sembrano, secondo Zeri, personaggi
del Tasso (Erminia, Clorinda, Armida), ma il loro languore si trasforma qui in attitudine
all’orazione, fondamento dei Neriani. Si conoscono due disegni inerenti alla figura della
Vergine avvolta nel bel manto azzurro e raccolta in dolente preghiera a mani giunte: uno
agli Uffizi che è una replica, l’altro all’istituto nazionale per la grafica che potrebbe essere
uno studio di S. per il manto, p. 77, come si capisce dal panneggio e le pieghe.

15) Annunciazione di Capodimonte, p. 334, della quale si conosce una piccola replica
domestica (collezione privata) firmata e datata 1594. La grande pala fu realizzata a Roma
1587 e inviata a Gaeta in Sant’Angelo in Planciano, chiesa benedettina. Poi fu trasferita
alla chiesa di San Domenico e poi a Napoli. Per Gaeta S. aveva già realizzato altre opere
oggi perdute: San Francesco nella chiesa dell’antico convento francescano, una
Deposizione o Pietà per la cappella Gattola in cattedrale, un San Michele Arcangelo in
Sant’Angelo in Planciano. Zeri ne individua il modello iconografico nell’Annunciazione
perduta di Tiziano, rintracciando <<un’aura di accentuato arcaismo>> che effettivamente
vediamo in un’opera di <<potatura>>, ed estrazione del sacro. Non vediamo la
dimensione “acronica” rintracciata da Zeri, ma semmai un’immedesimazione nel presente
(anche nei vestiti e gli oggetti) che era stata adottata anche da Tiziano. S. non colloca la
scena in un edificio monumentale come altri prima di lui, ma sceglie un ambiente spoglio e
identifica l’umile stanza di Nazareth con quella di una modesta casa contemporanea;
anche in Caravaggio nella tela di Nancy verrà rappresentata una casa di Maria
semplicissima. Questo aspetto quasi monastico da cella da un lato richiama i benedettini
di Sant’Angelo in Planciano (che non sappiamo però se furono i committenti), dall’altro è in
linea con i precetti di Paleotti che aveva preso e distanze dalle immagini in cui la Vergine
appare con abiti sontuosi, gioielli ed altri elementi difformi dal testo evangelisco. Anche se
è in linea col principio di verisimiglianza di Paleotti, c’è però anche la presenza
dell’elemento iconografico tradizionale con la figura di Dio Padre benedicente. Per capire
la relazione dell’opera e il testo paleottiano bisognerebbe saperne di più sulla
committenza. Cmq bisogna pensare che la scelta di un’essenzialità figurativa era
congeniale al Gaetano, specialista del ritratto, e valente pittore di soggetti religiosi che
eccelleva nella resa materica dei tessuti, incarnati e oggetti, ma non nell’esercizio
prospettico delle architetture o dei paesaggi. Infatti, nelle sue opere troviamo un disinvolto
uso del paesaggio e mai un’elaborata prospettiva. Le semplificazioni compositive che S.
andò compiendo negli anni ’90 risentivano sì del clima religioso di quegli anni e del
dibattito sull’arte sacra sviluppatosi dopo Trento, ma solo in parte provenivano dalla
precettistica sulle immagini. Come dimostra l’opera successiva:

16) Sacra Famiglia della Galleria Borghese, p. 344, solitamente datata 1588- 90, che
contiene molti rimandi, anche se reinterpretati all’insegna di un forte “naturalismo”: ci sono
illustri precedenti raffaelleschi; richiama la acronica concezione del Trittico da Cordoba del
sermoneta, p. 79; pala di Giulio Romano in Santa Maria dell’Anima che in un contesto
ombroso e complesso rappresentava le figure simili del pannello centrale di P. Qui
vediamo una ridotta spazialità nella quale viene inserito il pacato gruppo di personaggi
lambito dalla luce, il tendaggio scuro che le proietta in avanti.

17) Da questo modello ci sono mole derivazioni come: - Madonna della Divina
Provvidenza del 1594, p. 375 - Molte madonnine - Santa Prassede 1590, p. 348.

Si tratta del modello purista per cui Zeri parla di “arte senza tempo”. Ricordiamo che tali
immagini avevano per lo più una destinazione privata ed inoltre presentano un’iconografia
talmente essenziale che P. non doveva preoccuparsi troppo di consultare teologi o testi
sull’arte sacra.

18) Durante anni 80 del ‘500 (prima dell’ultima opera Assunzione di Santa Caterina de’
Funari, p. 381) P. lavora a più riprese per il Gesù di Roma, affiancando Giuseppe
Valeriano nelle 7 tavole del Sacello della Madonna della Strada ed eseguendo le pale
delle cappelle degli angeli e della passione, p. 83. Valeriano, che era lui stesso un gesuita,
aveva lavorato per quella chiesa come architetto, pittore e direttore artistico. Sappiamo
che ebbe uno stretto rapporto di collaborazione con il pittore Celio, ma non abbiamo molte
info su quello con P.: per es. è strano pensare che il Gaetano, celebratissimo pittore,
potesse lavorare alle dipendenze di Valeriano. Cmq anche Baglione ci parla di questa pala
collaborazione, di un’amicizia e del fatto che S. si occupasse dei drappi <<dipinti tanto
simili al vero>>. Fu chiamato quando il lavoro era già iniziato, ma cmq non solo per
amicizia. Se guardiano alle vicende della cappella, notiamo che le tre patrone e
contribuenti di quei lavori erano Beatrice e Giovanna Caetani (sorelle di Mons. Camillo e
del card. Enrico) e Porzia Orsini dell’Anguillara, cioè le famiglie protettrici di S. Le tre
dame, interessate alla buone riuscita della cappella, chiesero al Gaetano un intervento di
supporto per impreziosire Le storie della Vergine, visto che le abilità pittoriche di Valeriano
erano inferiori. Quindi, aldilà dell’amicizia con Valeriano, P. accettò l’incarico
probabilmente per corrispondere alle aspettative delle signore che lo proteggevano e
raccomandavano. Proprio Porzia Orsini gli aveva affidato la prima opera pubblica della
sua carriera, portandolo il successo. Per uno studio più approfondito sulla collaborazione
con Valeriano possiamo osservare i fogli finora emersi:

- Il disegno con il progetto per la Presentazione di Maria al Tempio, p. 81, è sicuramente di


Valeriano: non rileva particolari doti compositive e mostra un certo schematismo che
ricorre anche in altre scene.

- Il disegno dell’Annunciazione, p. 82, sembra più felice, ed è lecito pensare che si tratti di
un progetto di Valeriano e non una copia come è indicato di solito, proprio perché
presenta delle differenze rispetto all’opera.

- Un disegno della figura dell’arcangelo Gabriele che è uno studio di Valeriano e include le
teste dei cherubini.

- Un altro disegno con lo stesso arcangelo, p. 82, è invece una prova di S. visto che si
concentra solo sulla figura dell’arcangelo, rende sommariamente parti del corpo e ali, ma è
molto accurato nel panneggio, contrastato da ombre e luce. L’abito della Vergine
dovrebbe essere di Valeriano.

Tutto questo conferma la parzialità dell’intervento di P. e la sua estraneità al momento


ideativo. Difatti, questo lavoro gli portò poi nuovi incarichi presso i Gesuiti nei quali S.
probabilmente sperava, cioè le due pale d’altare: commissione per la perduta pala della
cappella degli Angeli 1589; commissione per il quadro della cappella della Passione 89-
90. Quindi la commissione delle tre dame fu importante per procurargli il consenso della
più importante fra le nuove congregazioni religiose. Inoltre, avvenne proprio dopo che
aveva terminato la Crocifissione della Vallicella ’86, quindi gli serviva un altro incarico
pubblico.

19) La Pietà per la cappella della Passione, ora al Metropolitan di New York, p. 362, è una
delle opere più studiate di P. Zeri rintraccia una vicinanza tra la figura di Cristo e la
Deposizione del Seromenta. Inoltre, è stato riconosciuto nell’immagine un calcolato
ancoraggio agli Esercizi Spirituali di Sant’Ignazio e al metodo della compositio loci, qui
applicato al momento in cui Gesù fu tolto dalla croce da Giuseppe e da Nicodemo davanti
a Maria. Questo passaggio è tratto da Giovanni, l’unico dei Vangeli che prevede la
presenza di Nicodemo. Il paesaggio è visto dal Golgota. Le nubi si diradano dopo
l’oscurità sopraggiunta alla morte del salvatore. Ai piedi della croce Maria è raffigurata
giovane (come nell’Assunzione). Ci sono Giovanni, Maddalena e le altre pie donne. Il
risultato, capace di <<muovere l’animo>>, mostra che il pittore seppe interpretare la
spiritualità e le esigenze “didattiche” dei suoi diversi interlocutori. Il papa cmq chiese poi di
rendere la Maddalena più devota, ma in realtà alla fine la tela nonf u rimossa né corretta.

20) I Sette Arcangeli Adoranti per la cappella degli Angeli, datata 1593. Il quadro è andato
perso quindi è stato rimossa e non ne abbiamo una copia per conoscerne lì iconografia,
certamente la più gesuitica tra quelle di S. Di solito ci si basa su una stampa di
Hieronymus Wierix, p. 85, che nella parte inferiore presenta i 7 arcangeli in piedi con i
nomi e S. potrebbe aver creato un’immagine molo simile. Invece la parte superiore è molto
diversa dall’uso di P.: la trinità tra due ali di santi è ripresa a distanza e ha proporzioni
decisamente inferiori rispetto ai 7 protagonisti. Si tratta di un soggetto molto caro ai
Gesuiti, la cui venerazione per gli Spiriti angelici si manifestò in una specifica letteratura e
nei dipinti delle loro chiese, in Italia e nuovo mondo.

Cmq questa pala si scontrò con la censura, motivo per cui fu rimossa anche se dopo la
morte di P. e in realtà ne abbiamo notizia solo grazie a Baglione: dice che vi erano ritratte
persone da tutti conosciute. Oltre a ciò, sorsero dubbi sulla legittimità del culto degli
arcangeli visto che 4 nomi apocrifi venivano associati ai nomi biblici di Michele, Gabriele e
Raffaele. La visita papa Clemente VIII fu nel 1594, quindi la sostituzione avvenne presto,
in prossimità dell’anno santo e della pubblicazione di un’antica condanna pontificia dei
nomi apocrifi (sec. VIII). Papa Aldobrandoni fece sostituire la pala anche perché gli angeli
non erano decenti, oltre che per l’illegittima connotazione di alcuni di essi. Cmq stupisce
che P., sempre molto attento, scrupoloso, abbia incontrato tale rifiuto. Anche se
sicuramente non era l’unico. Tutto ciò era nato da una certa imprudenza dei Gesuiti che
auspicavano l’approvazione del culto dei 7 arcangeli, e anche dalla tentazione del pittore
di voler mostrare il suo talento di ritrattista in un quadro d’altare.

In ogni caso tale episodio non intaccò la sua fama di primo ritrattista del suo tempo, di
valente pittore di historie sacre e di delicatissime icone di Maria e del Salvatore. Sia
perché era bravo, sia perché seppe creare e mantenere intelligenti trame di relazioni con
esponenti dell’aristocrazia internazionale. Infatti, il suo lavoro nella produzione religiosa
giunse con fatica e in età matura proprio grazie alle sue amicizie e conoscenze, alla
protezione di importanti famiglie (Colonna, Orsini, Caetani). Anche la Madonna della
Divina Provvidenza, venerata e celebrata icona che nel ‘600 entrò in possesso dei
Barnabiti, era stata dipinta per l’altare di una nobile famiglia romana. Proprio per la nobiltà
creò le sue madonnine “senza tempo” che furono poi imitate in Spagna e nelle Indie.
Concepì così un filone di “acronico” iconismo. Invece nelle pale d’altare seppe adeguarsi
alle richieste dei committenti, ma seppe anche interpretare le diverse correnti e sensibilità
religiose di quel complesso mondo contro riformato.

PULZONE E I MEDICI Alessandro Cecchi, I rapporti con il cardinale Ferdinando de’


Medici a Roma 1575- 1584

- I primi contatti documentati del pittore con i Medici sono del 22 luglio 1575 quando gli
venivano forniti 4 quadri di noce dal card. Ferdinando a Villa Medici a Roma.

- Anche nel corso dell’anno successivo, 1576, risluta un rifornimento di 8 tavole di noce (4
a gennaio e 4 a giugno).

- Ritratto di Gentildonna della Palatina è firmato e datato 1576 ed è anche dipinto su una
sottile tavola di noce.

- Quattro anni dopo il card., all’età di 31 anni, lo prescelse per farsi ritrarre a figura intera,
nella tela firmata e datata 1580. Quella che si trova oggi ad Adelaide. Possiamo vedere
questa committenza come segno di stima e fiducia del card. verso il Gaetano.

- Tra il 1581- 82 risulta nel guardaroba della Villa Medicea a Roma: un quadrettino dipinto
in rame con Maria che tiene Cristo in braccio, San Giovanni e Sant’Anna con un
ornamento d’ebano; un piccolo quadro dipinto in argento del ritratto della Madonna di San
Giovanni in Laterano con ornamento d’argento; del 1584 un quadro in tela dipintovi Cristo
che porta la croce con Maria e i Farisei, esposto poi nel 1588 nella seconda camera
dell’appartamento verso la Trinità di Villa Medici; 1584 due quadrettini d’argento con
pitture d’argento fatte da S. Gaetano.

Nel frattempo la fame di S. come ritrattista crebbe e si diffuse anche fuori Roma, come
dimostra il fatto che: - Giugno 84 risulta un pagamento di ben 100 scudi a S. da parte del
granduca Francesco I, fratello del card. Ferdinando che probabilmente glielo raccomandò.
Metà pagati in contanti, l’altra metà con lettera di credito a Roma. Tale somma ricopriva
diversi servizi e più di un ritratto per la serie aulica: quello del granduca Francesco, iniziato
proprio nell’84 e finito nell’86; più di un ritratto di Bianca Cappello, prima amante di
Francesco I e poi sua moglie e granduchessa dal 79 alla morte di Giovanna d’Austria,
prima moglie. Il ritratto della veneziana Cappello fu poi rimosso dagli Uffizi dopo la morte
della coppia e andò perso o distrutto, per volontà del nuovo granduca di Toscana cioè il
fratello Ferdinando che, dismise la porpora cardinalizia per indossare il manto d’ermellino
e la corona granducale tempestata di pietre preziose col grande giglio fiorentino. Volle
anche rimuovere tutti gli stemmi Medici- Cappello. Comunque abbiamo altri ritratti della
Cappello eseguiti da S., quello di Vienna per es. Considerando lo scambio epistolare tra la
granduchessa e P., specialmente una lettera del 20 luglio 84, notiamo che fra i due c’era
un tono di confidenza, familiarità, amicizia.

- Come si diceva, Ferdinando lasciò il cardinalato per diventare granduca di Toscana e


ancora dimostrò di apprezzare il lavoro di S. infatti, si sposò con Cristina di Lorena nel
1589 e festeggiò con garn pompa, spettacoli e apparati. In quest’occasione commissionò
a P. i ritratti della coppia: 1590 risultano i pagamenti per 1. Ritratto del Granduca
Ferdinando con le insegne dell’ordine di Santo Stefano e una borgognotta francese, 2.
Ritratto della Granduchessa Cristina di Lorena con la corona granducale, entrambi
destinati a figurare nella serie aulica esposta agli Uffizi. La fortuna del Pulzone presso i
Medici, come sappiamo dalle varie carte d’archivio, durò quasi 15 anni e fu legata a
Ferdinando, dapprima cardinale e grande collezionista di antichità, con residenza a Roma
in Villa Medici e nel palazzo di Campo Marzio, e poi granduca di Toscana. Questi iniziò ad
avvalersi del talento di S. come ritrattista fin dagli anni 70, quando S. era già famoso a
Roma. Ferdinando lo scelse per consegnare ai posteri la sua effige col ritratto a figura
intera datato 1580, oggi in Australia, ma di cui ignoriamo la collocazione iniziale. La fama
di questa tela uscì da Roma e anche il fratello granduca Francesco e la sua consorte
Bianca chiamarono S. a Firenze nell’84 per essere ritratti da lui. Sei anni dopo S. era a
Firenze per ritrarre questa volta il novello granduca e la sua sposa francese in quadri che,
secondo l’uso di S., sono illusionisticamente concepiti come quadri dentro quadri, con il
consueto panno di raso prezioso, negligentemente gettato di traverso sull’angolo
superiore sinistro della tela.

Lisa Goldeberg Stoppato, La committenza di Francesco I de’ Medici e Bianca


Cappello 1584- 1586

In una lettera di P. indirizzata a Felice Orsini Colonna datata 19 ottobre 1584, il pittore
scriveva di aver lasciato Firenze, dove aveva pensato di passare l’estate, per andare a
Bracciano, chiamato dal duca Marco Antonio Colonna per ritrarlo prima della sua partenza
per la Spagna. Giugno 84 risulta il pagamento del granduca Francesco I per “Scipione
pittore romano” di 100 scudi, con anche la firma di S. Dal 13 al 23 giugno 84 risulta che
Marco Antonio fu a Bracciano prima di partire, quindi S. deve essere stato lì nell’arco di
quei 10 gg. La cifra elevata di 100 scudi (metà contanti, metà trasferiti in suo nome presso
la banca di Roma) è legata al pagamento del ritratto di Francesco I de’Medici, dipinto da
P. per la serie di ritratti medicei, dipinta 1584- 86 per il corridoio esterno della Galleria degli
Uffizi, e del pendant disperso che ritraeva Bianca Cappello. A questi ritratti si aggiunsero
altre commissioni, un dipinto da mandare a Venezia e un altro di formato ovale. In realtà,
tra 84 e 86 S. ebbe molte committenze e si dedicò poco ai ritratti medicei, anche perché
non ebbe il tempo per tornare a Firenze:

- Fino ad ottobre 84 fu impegnato a completare il ritratto di Marco Antonio. - A novembre


84 si trasferì a Napoli presso la vedova di Marco Antonio. - Gennaio 85 torna a Roma
dove, trovando ad attenderlo una lettera della Cappello, fu costretto a

chiedere scusa per il ritardo. - Aprile 85 S. scrive in un’altra lettera alla Cappello che non
può allontanarsi da Roma dopo la morte di

Gregorio XIII per le prospettive di lavoro; difatti gli viene incaricato un ritratto per il nuovo
papa Sisto V.

- Maggio 85 in un’altra lettera rimanda il suo arrivo a Firenze a settembre e promette


intanto di finire i ritratti piccoli; scrive di non potersi spostare da Roma perché il figlio è
malato.

- Durante estate 85 una serie di lettere informano la granduchessa di come procede il


lavoro. Qui si parla dei piccoli ritratti che raffiguravano il figlio don Antonio (di Francesco e
Bianca) e la figlia Maria de’Medici (di Francesco e la prima moglie, Giovanna d’Austria).
Sappiamo anche che P. portò questi quadri in Vaticano per mostrarli a Sisto V usando un
cocchio del card. Ferdinando de’Medici.

- Settembre 85 torna a Firenze per continuare i due grandi ritratti di Francesco I e Bianca
Cappello perché sappiamo che Francesco Bembo vide quello di lei tra fine settembre e
inizi ottobre, quando andò in Vaticano con altri ambasciatori veneziani. Bembo ne cantò le
lodi e chiese al pittore la replica in una lettera alla Cappello il 13 ottobre, quando si trovava
a Siena. Il 19 ottobre era in viaggio per Roma e componeva un sonetto proprio “Sopra il
bellissimo quadro della Gran Duchessa fatto dall’eccellentissimo et unico pittore Scipion
Gaetano”.

- Ultimi gg. di ottobre S. da Firenze va a Roma portando con sé i ritratti da completare. - 2


novembre 85 annuncia che ha finito quello di Francesco I e lavora a quello di lei. - 23
novembre 85 avverte che ha messo da parte quello di lei per dedicarsi alla replica del
Bembo. Da altre lettere di Bembo però sappiamo che era già completa. Comunque questa
tela risulta completata nel gennaio 86 ed è a Venezia nel marzo 86.

- Seguono molte lettere di apprezzamento di familiari del Bembo ma anche di Bianca


Cappello (che era veneta), anche di artisti ed intenditori, del doge e di nobili. Ci danno
notizia anche di alcune copie eseguite poco dopo arrivo del quadro a Venezia, che oggi è
a Vienna.

- 21 maggio 86 lettera del card. Francesco Maria del Monte alla granduchessa in cui dice
che il ritratto di Francesco I destinato agli Uffizi è completo, quello di lei quasi.
- Tra agosto e settembre 86 il ritratto di Francesco I viene spedito a Firenze e sappiamo
che la coppia granducale fu molto soddisfatta, come dimostra una lettera del 10 ottobre 86
in cui P. promette di terminare presto quello della Cappello, non appena avrà terminato i
ritratti di felice Maria Orsini e sua figlia. Non abbiamo testimonianza del fatto che P. abbia
finito il ritratto di Bianca Cappello e spedito a Firenze prima della morte dei due granduchi:
infatti, Francesco I e la Cappello morirono improvvisamente nell’ottobre 87. Quindi non
sappiamo se il ritratto di lei fu esposto nel corridoio degli Uffizi accanto a quello del marito
e poi spostato per volontà del nuovo granduca Ferdinando. Abbiamo testimonianza dagli
inventari di una cornice di noce vuota per un quadro della stessa grandezza di quello di
Francesco I.

1589- 1590 - Diventa granduca di Toscana Ferdinando de’ Medici, al posto del fratello.
Arrivato a Firenze non si

dimentica di P. e intanto fa trasferire da Roma il piccolo dipinto su rame che il pittore


aveva dipinto per lui tra 1581 e 82, la Madonna con Cristo, San Giovanni e Sant’Anna.

- Seguì una nuova commissione per il pittore gaetano, il ritratto della 14enne Maria
de’Medici, nipote di Ferdinando. In una lettera dell’8 settembre 89 l’ambasciatore Nicolini
informa che il ritratto è pronto e si deve asciugare. Il 12 novembre 89 il quadro è a Firenze,
ma poi non figura negli inventari: questo ha fatto pensare che sia andato alla corte
francese visto che la giovane doveva fidanzarsi con Enrico IV di Francia.

- Nel 1589 Ferdinando sposa Chrestienne (Cristina), figlia del duca Charles de Lorraine e
nipote di Caterina de’Medici. Affidò a P. il compito di dipingere il proprio ritratto e quello
della moglie da aggiungere alla serie di ritratti medicei eseguiti tra 84 e 86 per il corridoio
esterno della galleria degli Uffizi.

- 12 giugno 1590 P. arriva a Firenze e deduciamo che ci rimase a lungo visto che il 4
dicembre 1590 è ancora lì: il duca Guglielmo di Baviera, zio acquisito della Granduchessa
Cristina, si rivolse all’ambasciatore mediceo per sollecitare la spedizione di due quadretti
di soggetto religioso che un certo S. lì a corte doveva eseguire.

- 16 gennaio 1591 cmq è a Roma e sollecita il pagamento tramite Dal Monte: ricevette poi
nel marzo 91 la ricompensa di Ferdinando I.

- Due registri contabili della Galleria degli Uffizi forniscono info sui materiali usati da P. nel
soggiorno fiorentino: un’oncia di lacca “fine fine” consegnata il 16 giugno 90 a P. + un’altra
4 agosto 90 + 4 telai 12 novembre 90. Dalle dimensioni di questi scopriamo che due erano
per ritratti granducali; altri due minori dovrebbero essere quelli di due ritratti piccoli
femminili della galleria Palatina, firmati e datati 1590: la donna raffigurata nel primo è stata
identificata con la stessa Cristina per la somiglianza ed il pennino con perle e rubini tra i
capelli; la giovane principessa del secondo indossa una veste molto simile a quella di
Cristina, ed è Eleonora Orsini, fglia del duca di Bracciano Paolo Giordano Orsini e Isabella
de’Medici, nata a Firenze nel 71 e cresciuta alle corti degli zii Francesco e Ferdinando. Lo
capiamo da alcuni ritratti della stessa fatti da Ottavio Leoni dopo il suo matrimonio 1592
con Alessandro Sforza, duca di Segni.

- Sempre dai registri medicei risultano al 3 settembre 91 tre telai grandi delle stesse
dimensioni della serie degli Uffizi, ma non sappiamo se fossero destinati a repliche di
quelli del 90 e di quello di Francesco I dell’86. Infatti don Giovanni de’Medici, figlio del
granduca Cosimo I e di Eleonora degli Albizzi, sua amante, aveva chiesto fin dal 2 marzo
89 un ritratto di Ferdinando I come granduca e gliene era stato promesso uno fatto da S.
inoltre, una copia dello stesso quadro venne spedito 1592 al duca di Lorena, il primo di
una lunga serie di copie documentate.

Marco Pupillo, Il talento e la reputazione: Scipione Pulzone fuori e dentro


l’accademiaGiovanni Baglione scandisce il suo racconto della vita di S. in due tempi: il
resoconto sulla grande diligenza di marca fiamminga raggiunta nella ritrattistica che gli
aveva consegnato un primato indiscusso nell’urbe e fama presso le corti italiane; e una
seconda fase nata dalla consapevolezza dell’angustia di quella specializzazione ed il
desiderio di confrontarsi con i generi maggiori della pittura non più solo ritratti. L’idea di
una gerarchia dei generi artistici è ovviamente condivisa dallo stesso Baglione che guarda
con favore all’evoluzione di P. Comunque riprende per lo più ciò che aveva scritto il
Borghini ne “Il Riposo” nel 1584, in cui già si attribuiva al pittore la volontà di affrancarsi
dalla ritrattistica e di misurarsi con la pittura d’altare, e all’epoca aveva fatto l’Immacolata e
i Santi di Ronciglione e Cristo sulla via del Calvario. Baglione fa delle annotazioni
sull’aspetto dell’artista, presentando il portamento e l’abbigliamento, i prezzi praticati, la
politica di gestione della propria immagine pubblica e professionale: <<S. era bellissimo di
aspetto, e mostrava sembianze di principe, e faceasi ben pagare le sue opere, e con gran
reputazione tenevale>>. Uno dei temi portanti delle Vite è la nobiltà dell’arte e degli artisti,
non tanto e non solo in senso ideale: nelle sue biografie Baglione si mostra attento a
valorizzare i riconoscimenti sociali della professione, come per es. i pubblici incarichi
ricoperti dagli artisti. L’osservazione sull’aspetto principesco di P. assume una valenza del
tutto positiva, strategica anche, funzionale alla caratterizzazione dell’artista come uomo
onorato e amato, come anche indica il riferimento alla sua reputazione. Altri dopo Baglione
seguirono una descrizione simile: Pellegrino Orlandi nel suo Abecedario Pittorico: <<fu
uomo, che ebbe preferenza da principe; trattossi alla grande, e si fece ben pagare l’opere
sue>>. Riguardo la “riputazione” leggiamo in una lettera al duca di Urbino Francesco
Maria della Rovere dal suo ministro Baldo Falcucci che lo informa di cosa comporti in quel
momento la committenza di un’opera del Gaetano quanto a costi alti e tempi di attesa
lunghi. Siamo nell’aprile 1580. Qui Falcucci è critico e rileva in maniera negativa la stessa
interferenza tra il protagonista ed il personaggio che sarà invece poi apprezzata da
Baglione. Il prezzo alto era in pratica una questione di brand. Due anni dopo lo stesso
Falcucci è ancora critico verso P.: insieme al card. del Monte avevano individuato in P.
l’artista più adatto a prendere il giovane Antonio Cimatori da Urbino che arrivava a Roma
per entrare a bottega come apprendista. Ma Falcucci sa che P. non è disponibile perché
<<sta facendo l’eccellentissimo>>, cioè ha atteggiamenti da grandeur. Lo stesso del
Monte, che pure stimava l’artista e lo aveva raccomandato ai Medici non manca di riferirsi
con fastidio alle sue pretese: <<ogni giorno mi molesta>>. Sembra quindi che P. avesse
delle aspirazioni a voler essere assimilato al ceto nobiliare, perseguite attraverso la
ricercatezza dell’abbigliamento ed un comportamento elitario. Probabilmente maturò tale
attitudine dagli anni 70 nel contatto reiterato con l’aristocrazia che dimostrava cmq di
apprezzare enormemente il suo talento, soprattutto la verisimiglianza. P. aveva acquisito
consapevolezza di sé e della sua fama ed era così cresciuta in lui l’idea di poter usare il
proprio talento come mezzo di riposizionamento sociale. In questo era diverso dai suoi
colleghi contemporanei, come anche in altri aspetti. Per es. Gregorio XIII, Sisto V e poi
Clemente VIII promossero grandi imprese decorative e S. se ne teneva lontano,
mostrandosi estraneo a logiche di impegno collettive (in un’epoca in cui i pittori erano
cortigiani). S. ebbe un atteggiamento ambivalente anche verso le pubbliche associazioni
degli artisti: la compagnia di San Luca e quella di San Giuseppe di Terrasanta, cioè
l’accademia dei Virtuosi al Pantheon. 1593 sotto la direzione di Federico Zuccari la
compagnia di San Luca diventa Accademia e si trasforma nel maggior centro a Roma di
elaborazione teorica sulla nobiltà dell’arte (in particolare della pittura) e degli artisti, tema
caro a P.

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