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2020/2021
Bibliografia pag.30
Sitografia pag.31
1
Introduzione all’opera
La Madonna col Bambino, chiamata anche Madonna Goldman o Madonna Kress, è un dipinto
a tempera magra realizzato su un’unica tavola in legno di pioppo e con dorature; la superficie
dipinta misura 85,4 x 61,8 x 1,3 cm e l’intera opera, comprendendo anche la cornice, 128,3 x
72,1 x 5,1 cm. Il dipinto, conservato alla National Gallery di Washington, è l’unico non in Europa
ad essere concordemente attribuito a Giotto; è esposto al primo piano della West Main Floor
Gallery, insieme a pitture bizantine e di altri italiani della fine del Duecento e della prima metà
del Trecento, come Duccio di Buoninsegna (1255-1318/1319) e Margaritone d'Arezzo (1240-
1290).
Nel 1930 Roberto Longhi ipotizzò che l’opera fosse originariamente la tavola centrale di un
polittico a cinque pannelli composto da il San Giovanni Evangelista e il San Lorenzo del
Museo Jacquemart-André di Chaalis, il Santo Stefano del Museo Horne di Firenze, la suddetta
Madonna Goldam e una tavola mancante. Nel 1935 Mather suggerì che la collocazione
originaria potesse essere una delle
cappelle laterali di Santa Croce a
Firenze, forse la cappella Pulci
Berardi, in quanto fonti antiche,
quali Vasari e Ghiberti, citano
diverse opere di Giotto presenti in
quella sede. In particolare Lorenzo
Ghiberti, nei suoi Commentari, La ricostruzione del polittico realizzata da Roberto Longhi nel 1930.
1
per approfondire vedi pagina 10
2
menziona “quattro cappelle e quattro tauole” eseguite da Giotto per Santa Croce, elemento
che induce a pensare che il polittico in questione fosse destinato alla basilica fiorentina.
Tra il 1931 e 1933 Venturi formulò un’ipotesi alternativa, identificando le tavole come parte
del perduto polittico della Chiesa di Badia a Firenze; nel 1962 però Ugo Procacci, individuando
la pala d’altare della chiesa in un intatto polittico conservato dal XIX secolo al Museo di Santa
Croce, confutò questa tesi. Ulteriore proposta, sebbene ritenuta generalmente non
convincente, è quella avanzata da Carlo Ludovico Ragghianti nel 1949, che vuole le tavole
parte di un polittico dipinto da Giotto per la Chiesa di San Francesco a Borgo Sansepolcro.
Il Pol ittico di Ba dia è c om pos to da c in que pa nnell i a ccos ta ti tra lo ro e u niti per m ez z o
di ca v icchi, ins eriti nell o s pes s ore del s upporto s enz a incolla ggio; a nter iorm ente
l’unità dell ’opera è da ta da lla prede ll a pos ta a l ma rgine inf erior e del s upp orto, da i
pila s tri s ov ra ppos t i f ra i pa nnelli e d a lle corn ici, tutti elem enti f e rm a ti co n colla di
ca s eina to di ca lcio e ch iodi . G li s com pa rti pres enta no cus pi de tria ng ola re con tondi
con a ngeli e ra f f igura no centra lm ente la Ma donna col Ba m bino e, da s inis tra , Sa n
Nicola di Ba ri, Sa n G iov a nni E v a ngelis ta , Sa n Pietro e Sa n Bened etto.
Nonos ta nte le dif f e renz e, i l Pol ittico d i Ba dia pres enta d iv ers e a na logie es tetiche con
il politt ico a cinque pa nnel li im m a gin a to da L onghi nel 19 3 0 : le cornici e i l dis egno
s ono certo più gotic iz z a nti, ind ice di una s ua più ta rda da taz ione, m a è già pres ente
la s tes s a tenera intim ità tra le f igure di Ma ria e d el Ba m bin o e i pers ona ggi s ono
ritra tti in a m bo i ca s i a m ez z o bus to, c on un ritm o lent o e ca denz a to che ne s ottolinea
la s a ntità . Nel 145 1 -145 3 l’o pe ra v enne a ttua liz z a ta a ggiungendov i d egli s co m pa rti con
qua ttro cheru bini per d ona re una f o rm a retta ngola re a l p olitti co; l’a ggiu nta v enne
rim os s a nel res ta uro del 19 5 8 , il p ri m o a cui v enne s ottop os ta la ta v ola . Sa lv a ta si
f ortuna ta m ente da ll’a lluv ione d i Fire nz e, pres enta condiz ioni d i cons erv a z ione non
ottim a li ed è s ta ta res ta ura ta da ll’O pif icio de lle P ietre Du re nel 2 0 0 0 .
3
Attraverso l’analisi degli altri polittici di Giotto e del
lavoro dei principali pittori fiorentini della prima metà
del XIV secolo rimane assai plausibile la ricostruzione
dell’originario polittico fornita da Longhi nel 1930-1931;
affiancando inoltre la Madonna con Bambino con le
altre tavole, di dimensioni leggermente inferiori, si
ottiene un insieme dalle dimensioni simili al Polittico di
Badia . Questo, datato 1300 circa, misura 142 x 337 cm e
sappiamo essere stato realizzato per l’altare maggiore
della Badia Fiorentina, lasciando dunque aperte varie
ipotesi sulla destinazione del polittico con al centro la
Madonna Goldamn .
4
alterato l’aspetto dello scomparto centrale costituito dalla
Madonna Goldman , modificandone il profilo esterno ed
eliminando la superficie originale del retro del supporto;
nonostante ciò è plausibile ipotizzare che il polittico fosse
costituito da una serie di pannelli rettangolari sormontati
da timpani triangolari equilateri. Si tratterebbe dunque di
una tipologia arcaica di pala d’altare che si ritrova a Firenze
non solo in opere di Giotto, ma anche in quelle della
cerchia di Pacino di Bonaguida, Jacopo del Casentino e del
sensese Duccio da Buoninsegna (1250/1255 – 1318/1319).
Santo Stefano.
5
L’arrivo in America e il dibattito circa attribuzione e datazione
Le prime notizie sulla Madonna con Bambino risalgono al 1917-1918,
quando l’attore parigino Édouard de Max (1869-1924), che
affermava di aver ereditato il dipinto da una prozia che l’aveva
ricevuto direttamente da un Papa, la vendette ai mercanti d’arte
newyorkesi Duveen Brothers Inc. Nel 1920 venne poi acquistata dal
collezionista Henry Goldman (1857-1937) - a cui deve l’altra
denominazione - e nel 1930 tornò alla Dunveen Brothers Inc. Nel
1937 fu nelle mani di Samuel Herny Kress (1863-1955), acquisendo
così anche il nome di Madonna Kress; e nel 1939 l’opera entrò a far
parte dell’allora nascente museo nazionale di Washington Édouard de Max in una foto
d’epoca.
attraverso la prima donazione del collezionista.
Per ciò che concerne la storia espositiva è possibile tracciare una breve cronologia attraverso
i cataloghi delle mostre di cui fece parte:
1920 - Fiftieth Anniversary Exhibition, The Metropolitan Museum of Art, New York.
1924 - Loan Exhibition of Important Early Italian Paintings in the Possession of Notable
American Collectors, Duveen Brothers, New York.
1979 - Berenson and the Connoisseurship of Italian Painting, National Gallery of Art,
Washington, D.C.
2012 - Florence at the Dawn of the Renaissance: Painting and Illumination , 1300-1350, J. Paul
Getty Museum, Los Angeles
L’accoglienza del dipinto nel 1917 fu piuttosto fredda, in quanto gli allora limitati studi su
Giotto avevano portato ad un numero limitatissimo di opere ritenute autografe. La prima
attribuzione, condotta da Berdard Berenson e poi confermata nel 1920 da Edward Robinson
e, nel 1922 e 1927, da Wilhelm R. Valentiner, vide inizialmente come autore della tavola
6
Bernardo Daddi (1290–1348). Una più attenta analisi portò
però Berenson a stabilire una stretta parentela con Giotto,
assegnando la tavola a “uno dei pittori degli affreschi
giotteschi della Basilica Inferiore di San Francesco ad Assisi”,
ipotesi suffragata nel 1924 anche da Raimond van Marle e
da Richard Offner, che riconducono la realizzazione
dell’opera ad un allievo di Giotto, identificandone la mano
anche in altri dipinti oggi riconosciuti come autografi del
Maestro. Se altri studiosi espressero per lungo tempo
opinioni simili - Curt H. Weigelt nel 1925, Wolfgang Fritz
Volbach e Valentiner nel 1926, Pietro Toesca nel 1929 e 1933 Henry Goldman.
e Robert Oertel nel 1953 e nel 1968 – nel 1925 Frank Jewett Mather Jr. dichiarò Giotto come
autore certo dell’opera: il sostegno alla tesi apportato da studiosi autorevoli quali Carlo
Gamba e Roberto Longhi nel 1930, Lionello Venturi nel 1931 e 1933 e Mario Salmi nel 1937
portò dunque ad accettare l’attribuzione giottesca poco dopo l’ingresso alla Galleria di
Washington.
Grande dibattito si è sviluppato intorno alla datazione del dipinto, con un vasto numero di
studiosi (Mather 1925; Brandi 1938-1939 e 1983; Carli 1951 e 1955; Battisti 1960; Walker 1961;
Berenson 1963; Bologna 1969; Bellosi 1974 e 1994; Laclotte 1978; Shapley 1979; Cavazzini 1996)
che lo colloca nella tarda maturità del pittore, datandolo intorno al 1325–1330 o comunque
entro il terzo decennio del secolo (Toesca 1933; Lunghi 1986; Bonsanti 1992, 2000; Tomei
1995). Numerosi sono però anche coloro i quali indicano come più plausibile una datazione
non successiva al 1320 (Longhi 1930-1931; Salmi 1937; Cecchi 1937; Frankfurter 1944;
Florisoone 1950; Gamba 1961; Rossi 1966; De Benedictis 1967; Dal Poggetto 1967; Previtali
1967, 1990; Venturoli 1969; Tartuferi 1987, 2000, 2007; Boskovits 2000): questi studiosi hanno
infatti generalmente collocato la realizzazione della tavola tra quella degli affreschi delle
Cappelle Bardi e Peruzzi a Santa Croce o rifiutato la paternità di Giotto.
D’altra parte alcuni elementi stilistici paiono effettivamente indicare una datazione
relativamente precoce, come ad esempio per quanto riguarda la foglia oro l’utilizzo solo di
decorazioni incise a mano libera e l’assenza di motivi punzonati: nel Polittico Stefaneschi,
fatto risalire ai primi anni ’20 del XIV secolo, è presente almeno un motivo punzonato e il loro
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uso è progressivamente più presente nei dipinti maggiormente tardi. Inoltre, le caratteristiche
dei motivi incisi nelle aureole e i caratteri pseudo cufici presenti nel bordo ornamentale del
manto della Vergine sono elementi ricorrenti nei lavori di Giotto dalla fine del XIII secolo, in
particolare con riferimento alla
Maestà di Ognissanti (1310 circa),
in cui compare per la prima volta
l’aureola incisa e decorata con
Particolare dell’opera che mostra la scritta pseudo cufica e i motivi decorativi
una doppia fila di punti. dell’aureola.
A questi indizi, che paiono suggerire una datazione non successiva al secondo decennio del
XIV secolo, è forse possibile aggiungere a conferma, oltre che lo scollo arcaico della veste di
Maria, la presenza della cuffia rossa da lei portata e semi nascosta dalla fascia in caratteri
pseudo cufici del manto della Vergine: elementi arcaici e bizantineggianti che non sono
presenti nelle opere del Maestro nel corso del secondo decennio del XIV secolo.
8
I confronti più convincenti della Madonna
Goldman sono però con gli affreschi presenti
nella Cappella della Maddalena nella Basilica
Inferiore ad Assisi (1307-1308), specie con
l’immagine della Santa presente sulla volta, e
con la raffigurazione della Vergine nel
Polittico Peruzzi (1318-1322): nella Madonna
con Bambino però i corpi più esili dei
personaggi, la fluente scritta pseudo cufica e
la complessità dei panneggi se messi a
confronto con le opere sopra citate sono
indice di una datazione di poco successiva.
Polittico Peruzzi, dettaglio della tavola della Madonna.
Anche l’umanità espressa dai personaggi è
indice di ciò: Gesù appare differente dal
severo infante raffigurato nella Maestà degli
Uffizi, più umano, bambino e con il volto
addolcito da un leggero sorriso che si ritrova
anche sulle labbra della madre, come se i due
fossero intenti in un’intima ed affettuosa
conversazione.
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L’autore: Giotto
Giotto di Bondone, nato a Colle di Vespignano nel 1267 da una
famiglia di piccoli possidenti terrieri e morto a Firenze l’8
gennaio 1337, è stata una figura rivoluzionaria nella storia
dell’arte: interprete del profondo rinnovamento della società
del suo tempo, lavorò per committenti di prestigio in numerosi
centri sparsi nella penisola, introducendo innovazioni nel
campo della tecnica, della ricerca spaziale e delle modalità di
presentare e percepire le figure sacre. Simbolo del primo
rinnovamento radicale nella storia dell’arte occidentale dopo
l’antichità, questo valore gli fu riconosciuto sia dai suoi
contemporanei che dai successivi Ghiberti e Vasari, nonché da
Boccaccio, che di lui scrive in una novella del Decameron:
La Madonna conservata a Borgo San
“Giotto aveva quella arte ritornata in luce, che molti secoli sotto Lorenzo.
gli error d’alcuni, che più a dilettar gli occhi degl’ignoranti che a compiacere allo ‘ntelletto de’
savi dipingendo, era stata sepulta”. Effettivamente Giotto, in un’epoca in cui la pittura era
ancora considerata un’arte “meccanica”, raggiunge un livello di dignità sociale allora inedito,
che nobiliterà la figura dell’artista donandogli le caratteristiche e la libertà espressiva che gli
saranno proprie nel corso del Rinascimento.
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oggi conservato a Borgo San Lorenzo; il più
importante punto di riferimento per l’attività giovanile
del pittore si può però trovare negli affreschi della
Basilica Superiore d’Assisi (1288-1296), in particolare
nelle storie del Vecchio Testamento (Isacco che
benedice Giacobbe, Isacco che respinge Esaù e la
Volta dei Dottori) e del Nuovo Testamento (Cristo tra i
Dottori, Deposizione e il ciclo delle Storie di San
Francesco). Sebbene non tutti gli studiosi siano
concordi nell’affermare la paternità di Giotto, motivo Isacco che respinge Esaù.
per cui si parla genericamente del Maestro delle Storie d’Isacco, e individuino nel romano
Pietro Cavallini l’artefice delle opere, è assai probabile che l’artista fosse proprio un giovane
Giotto, ancora allievo di Cimabue.
l’innovazione tecnica giottesca: l’artista infatti fu l’iniziatore del metodo “a giornate”, che
vuole il lavoro portato avanti giustapponendo tra loro piccole zone d’intonaco, ampie quel
tanto che si riteneva di poter eseguire nell’arco di una giornata. L’intonaco in tal modo
risultava sempre umido e fresco e il colore lo penetrava in profondità, facendo sì che oggi le
stesure attribuite a Giotto appaiano assai meglio conservate di quelle realizzate da Cimabue.
Giotto tornerà ad Assisi per affrescare la Basilica Inferiore dopo il 1314: di questo lavoro sono
frutto le Storie della Maddalena, le Storie dell’infanzia di Cristo, i Miracoli di San Francesco,
l’Eterno Benedicente, una Crocifissione e le Allegorie francescane, tutte opere realizzate con
i materiali più preziosi dell’epoca, dai pigmenti alla foglia oro.
11
L’intervento di Giotto negli affreschi della Basilica mostra
inoltre una nuova concezione dell’affresco: se per i
pittori medioevali infatti la raffigurazione su parete era
calata in uno spazio a due dimensioni, con la
decorazione ai margini che ricalcava quella di arazzi e
miniature, Giotto concepisce i propri affreschi come
incorniciati dall’architettura stessa della chiesa e in una
dimensione tridimensionale creata incorniciando le
scene con un’articolazione architettonica del tutto
fittizia, che entra all’interno delle rappresentazioni e ne La rinuncia agli averi del ciclo francescano.
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ancor più inedito se paragonato al Crocifisso di Cimabue (1272-1280), ancora ricco di espliciti
richiami bizantineggianti.
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Anna nell’Incontro alla Porta Aurea, in quanto primo
bacio raffigurato nella storia dell’arte, e la modalità
di rappresentare le aureole: molti sono infatti i
personaggi raffigurati di profilo e perciò l’aureola
viene dipinta scorciata, ovalizzandone la forma. È
questa una soluzione che Giotto abbandonerà in
anni più tardi, ma che rappresenta un indizio delle
ricerche spaziali da lui condotte.
Incontro di Gioacchino ed Anna alla Porta Aurea.
Due opere che stilisticamente appaiono
particolarmente legate alla produzione padovana
sono la Morte della Vergine (1312-1314) e la fiorentina
Maestà (1305-1310): quest’ultima può forse essere
considerata la più importante opera su tavola di
Giotto e mostra la Madonna assisa in trono, con in
braccio il Bambino e circondata da due schiere di
angeli che occupano uno spazio reale, accennare un
sorriso e apparire incredibilmente terrena, con un
corpo tangibile e un peso che la rendono soggetta Storie di San Francesco: la stigmatizzazione –
Cappella Bardi.
alla forza di gravità.
A Firenze Giotto realizzò inoltre gli importanti affreschi della Cappella Bardi (1325; Vita di San
Francesco) e della Cappella Peruzzi (1310-1316; Storie di San Giovanni Battista e Storie di San
Giovanni Evangelista) a Santa Croce, chiesa per cui Ghiberti testimonia Giotto realizzò anche
quattro pale d’altare. Per quanto riguarda le pitture su tavola un importante esempio è il
Polittico Stefaneschi (1320-1325), a tre ante ed eseguito per l’altare maggiore della Basilica di
San Pietro a Roma: dipinto frontalmente con Cristo in trono e sul retro con San Pietro in
trono, presenta scene ricchissime e dominate da un diffuso tono sacramentale e ieratico.
Giotto nella fase finale della sua carriera diverrà anche capomastro dell’Opera del Duomo di
Firenze, ideandone il campanile, e lavorerà per le più prestigiose committenze dell’epoca, tra
cui il re Roberto d’Angiò a Napoli e Azzone Visconti a Milano. Realizzerà inoltre il Polittico di
Bologna (1335 circa) e il famoso Polittico Baroncelli (1328 circa), che rappresenta
l’incoronazione della Vergine tra angeli e santi che alludono ad un paradiso ordinato e
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raffigurato in prospettiva; anche qui
ogni figura presenta volumi
essenziali e ben definiti dalla luce e
ha una caratterizzazione fisica
precisa, a cui corrisponde una precisa
condizione emotiva.
Vasari rende noti i nomi di alcuni dei più stretti aiutanti del Maestro: tra questi si
annoverano Taddeo Gaddi, Puccio Capanna, Ottaviano da Faenza e Guglielmo da Forlì.
A Firenze ed in Toscana operavano inoltre i cosiddetti protogiotteschi, ovvero artisti che
avevano visto all'opera Giotto nella sua città e ne seguirono l’impostazione stilistica e
tecnica: esempi sono Maso di Banco, Giottino, Bernardo Daddi, il Maestro della Santa
Cecilia, Jacopo del Casentino, Stefano Fiorentino.
15
Analisi stilistica
Nella Madonna Goldman Maria, secondo quanto vuole la tradizione trecentesca, derivata da
quella delle icone bizantine, è dipinta a mezza figura su fondo oro, simbolo del Regno dei
Cieli: sebbene la rappresentazione per molti aspetti segua ancora alcune regole iconografiche
bizantine, come la croce a forma di stella siriana che si ripete tre volte sul bordo della veste,
creando anche una specie di diadema sulla fronte, per altri se ne allontana. Giotto infatti,
come già aveva fatto col bacio raffigurato nell’ Incontro di Gioacchino e Anna alla Porta Aurea
alla Cappella degli Scrovegni, introduce nella rappresentazione anche elementi che mostrano
il legame affettivo presente tra i due personaggi, con il Bambino che, invece di compiere il
canonico gesto benedicente, stringe un dito della mano sinistra della madre e si sporge per
prendere una rosa di Sharon.2 Questa è bianca e senza spine – simbolo d’innocenza e
dell’Immacolata Concezione, nonché,
in quanto fiore, anche di Firenze e di
Santa Maria del Fiore – ed è tenuta
nella mano destra della Vergine con
un gesto con cui pare da un lato
volerla tendere al figlio e, dall’altro,
Particolare dell’opera che mostra la rosa e il gioco tra madre e figlio di cui è
trattenerla per gioco. oggetto.
Vengono quindi raffigurati non solo Maria e Gesù, ma anche una madre e suo figlio: l’enfasi
posta sull’aspetto umano e sulle umane relazioni tra i personaggi risulta essere una delle
maggiori differenze con l’arte bizantina e uno tra i principali contributi dati da Giotto
all’evoluzione della storia dell’arte. D’altra parte la rosa, raffigurata in modo tale che non sia
possibile distinguere se venga donata da Cristo a Maria o viceversa, può essere la chiave per
accedere a due ulteriori piani di lettura di natura allegorica: uno che raffigura l’Immacolata
Concezione nell’atto di essere donata a Maria e l’altro che vede la Vergine come immagine
della Chiesa che porge il dono a Cristo.
Sono dunque presenti diversi piani di lettura: oltre a quello devozionale vi sono infatti sia un
intento civico, che vuole qui Maria come simbolo di Firenze, e una ricerca umana che ha
2
Maria è d’altra parte spesso identificata come rosa speciosa o rosa gratiae divinae.
16
l’obbiettivo di raffigurare la relazione emotiva tra i
personaggi e che porta ad un nuovo modo di presentare,
e quindi di percepire, l’immagine di Maria col Bambino.
A riprova del continuo dialogo che Giotto intratteneva con il suo tempo è interessante notare
come le fisionomie della Madonna e del Bambino, così come l’attenzione nella resa delle vesti
e nelle scritte pseudo cufiche dorate che ne decorano l’orlo, sembrano rappresentare una
risposta di Giotto alle raffinatezze della pittura senese e, in particolare, di Simone Martini e
alla perizia della città nell’arte dell’oreficeria.
17
La pittura su tavola nel XIV secolo
Dopo un lungo processo, iniziato nei primi anni del XII secolo, nel 1266 a Magdeburg si
stabilisce l’obbligo di esporre permanentemente le tavole d’altare nelle chiese: ciò porta alla
moltiplicazione della presenza delle tavole d’altare, allora rappresentate dai dossali,
incrementata anche dalla sempre maggiore presenza di altari nelle chiese, dovuta alla nascita
di ordini mendicanti e di una nuova società borghese, ansiosa di assicurarsi il perdono divino
con messe d’indulgenza e altari privati. Ciò porta inevitabilmente alla creazione di pale
d’altare sempre più complesse e verticali, con creazioni di più ordini d’immagini per riempire
gli spazi architettonici dilatati ed esemplificare i rapporti gerarchici all’interno della Chiesa.
Verso la fine del XIII secolo e l’inizio del XIV questo processo di sviluppo portò alla comparsa
dei polittici, opere maggiormente complesse dal punto di vista strutturale, caratterizzate da
una suddivisone in scomparti volta a sottolineare l’isolamento delle figure, rappresentate tra
loro in scala gerarchica.
3
frequentemente il retro del supporto venivano poste incamottatura e stesure di gesso e colla; l’area veniva poi trattata
con minio e colla (come nella Croce di Giotto a Santa Maria Novella o la Maestà di Giotto agli Uffizi), gesso grosso e colla
o dipinta a tempera (un esempio è il Trittico di Jacopo Franchi alla Galleria dell’Accademia a Firenze). Queste stesure 18
Il supporto delle opere poteva essere costituito da un’unica tavola come da un tavolato,
ovvero da un insieme di più assi, dette assiti, tenute insieme con colla di formaggio e incastri;
spesso le opere presentavano inoltre sul retro dei sistemi di rinforzo e protezione, come il
telaio (a reticolo o semplice) e le traverse (a reticolo, semplice o a x); non di rado la cornice,
inchiodata o ricavata direttamente dalla tavola e incammottata o dipinta, svolgeva, oltre che
funzione estetica e di protezione, anche di traversatura.
Per quanto riguarda la preparazione del supporto è importante specificare che gli artisti
dipingevano sulla faccia interna dell’asse radiale, ovvero quella che con la deformazione
aumenta la propria superficie, risultando concava: in tal modo si evitava che le scaglie di
colore si sovrapponessero tra loro.
Le principali fonti storiche circa la realizzazione dei dipinti sono rappresentate da Plinio il
Vecchio con la sua Naturalis Historia, il monaco Teofilo con De diversis artibus schedula e
Cennino Cennini con il Libro dell’Arte: esse indicano come primo passaggio la spianatura con
pialla della faccia scelta come fronte e una lavorazione con grado di finitura minore dell’altra;
a ciò seguiva l’eventuale unione delle tavole e l’inserimento delle traverse e della cornice.
Dopo l’eliminazione dei nodi e dei difetti, risanati con tassellature, era necessario stendere
una mano di turapori, costituito da colla forte (ovvero ottenuta dalla bollitura degli scarti di
macello), così da chiudere l’eccesso di porosità del legno ed impedire che questo assorba poi
avevano lo scopo di equilibrare le forze tra le due facce del manufatto, dotare l’opera di valenza estetica e agire come
protezione da attacchi xilofagi, fungini e dalle variazioni climatiche.
19
la colla del gesso. Sopra al turapori veniva posta
l’incamottatura, cioè una tela inzuppata di gesso
e colla o sola colla che fungeva da strato
ammortizzante tra il gesso ed il legno,
attutendone i naturali movimenti e riducendone
l’impatto sugli strati successivi. La tela per
assolvere a questo fine doveva essere stata
stressata e sfibrata con lavaggi, affinché non
reagisse eccessivamente agli sbalzi
termoigrometrici; una tavola con incamottatura si
riconosce dalle crettature, che sono ortogonali
alle fibre del legno.
Gli strati preparatori erano necessari perché il
legno è un materiale anisotropo, ovvero con
assorbimento d’umidità e conseguente
deformazione differente in tutti i suoi punti. Madonna Rucellai, Duccio di Buoninsegna, 1285.
Strati successivi erano quelli costituiti dal gesso e colla animale, volti a creare una superficie
ideale per disegnare e dipingere: le prime mani erano di gesso grosso, ovvero gesso
monoidrato, dalla maggiore granulometria, mentre le ultime dovevano essere realizzate con
gesso fino, un gesso biidrato e dunque più stabile e con maggiore reattività all’acqua.
Sebbene Cennino Cennini consigliasse di dare otto mani e indicasse come gesso grosso il
volteriano (o alabastro), lo spessore della preparazione e le tipologie di gesso usato variano
considerevolmente a seconda dell’autore, del periodo storico e della zona geografica4; nei
fatti nel XVII secolo non vi è quasi più distinzione tra gesso grosso e fino.
L’unica tecnica che permette di dipingere direttamente su legno è la pittura alla caseina, una
fosfoproteina del latte che per sciogliersi necessita di una base: se viene usata l’ammoniaca
si ottiene il caseinato d’ammonio, fluido ed usabile come legante; se si usa la calce si ricava
invece il caseinato di calcio, chiamato anche colla di formaggio, che è pastoso, stendibile
anche a freddo e usabile sia come legante (proporzione 1:5) che come colla (1:3).
4
Si veda, ad esempio, lo steinkrade, gesso grigio tipico dell’area altoatesina
20
Ulteriore strato, non sempre o
dovunque presente, era quello
dell’imprimitura, la cui funzione è in
parte analoga a quella del turapori,
ovvero di evitare un eccessivo
assorbimento del legante, e in parte
estetica, in quanto serve a creare
una base colorata in funzione della
resa cromatica desiderata. Se la
funzione è unicamente di chiusura
delle porosità si parla di chiusura, di
norma di natura proteica o oleo Annunciazione, Simone Martini, 1333.
proteica; l’imprimitura è invece uno strato sottile e molto regolare di un inerte stemperato in
un legante, come ad esempio il bianco di piombo da solo o addizionato ad altri pigmenti.
L’imprimitura nel Rinascimento si differenzia da zona a zona, con ad esempio gli incarnati
femminili con base chiara e i maschili con base scura; là dove vi è incompatibilità tra
preparazione e tecnica pittorica la sua presenza si accentua, motivo per cui la si riscontra
maggiormente dopo la diffusione della pittura ad olio.
Fase successiva è quella del disegno preparatorio, tracciato frequentemente con carboncino
e poi ripassato a pennello o riportato da cartoni preparatori; a seguire l’artista ne incide i
contorni e applica il bolo e la foglia metallica, quindi stende gli strati pittorici, costituiti da
pigmenti o coloranti e legante.
I pigmenti sono polveri colorate di origine minerale ed insolubili nei medium, mentre i
coloranti sono trasparenti, di origine animale o vegetale e solubili nel legante, motivo per cui
devono essere assorbiti da una polvere inerte prima di aggiungervi il medium.
I coloranti vegetali si ottengono per precipitazione, ovvero facendo bollire in acqua parti di
una pianta e aggiungendovi poi allume; di origine animale sono invece alcune lacche, come
ad esempio la lacca rossa di Kermes e il nero avorio, ricavato dalle ossa d’animali.
21
I colori minerali sono invece ridotti in polvere tramite macinazione: possono avere origine
naturale (solfuri, carbonati, sali, ossidi…) ed artificiale, prodotti cioè attraverso semplici
processi chimici.
Per quanto riguarda i medium, essi sono sostanze adesive ed essiccanti la cui funzione è
inglobare il pigmento, proteggendolo senza alterarlo: le sue proprietà sono quindi filmogene,
ottiche e chimiche.
Nel XIV secolo, quindi prima della diffusione della pittura ad olio, le pitture su tavola erano
realizzate con leganti di natura proteica: colle animali, caseina o latte e uovo, intero come
solo il tuorlo; a questi non era insolito addizionare anche sostanze che fluidificassero
l’impasto, così da migliorare le modalità applicative. Giotto fu l’artefice di una delle più
importanti innovazioni tecniche in merito alla modalità di creazione delle campiture: egli
infatti, acquarellando le ombre con inchiostro prima di iniziare a dipingere e successivamente
giustapponendo sottili tratti di una stessa cromia progressivamente schiarita con biacca,
introdusse la possibilità di creare dei volumi plastici, in cui le ombre nascevano in seno
dell’immagine e non venivano aggiunte successivamente.5
5
per approfondire vedi pag.25
22
Talvolta le tavole venivano verniciate: Teofilo, monaco del XII secolo, testimonia infatti che le
vernici venivano realizzate con resina polverizzata, soprattutto sandracca, fusa o disciolta in
un olio siccativo, generalmente olio di lino cotto; è però solo dalla fine del XIV secolo che le
vernici magre, ovvero a spirito e a solvente, iniziano a diffondersi, come testimonia anche
Cennino Cennini nel capitolo CLV del Libro dell’Arte. L’autore afferma che è bene attendere
almeno un anno prima di verniciare la propria opera, porla prima al sole per riscaldarne un
po’ la superficie e quindi stendervi la vernice sufficientemente calda con la mano o con una
spugna, ma evitando di lavorare sulle zone dorate. Un particolare tipo di vernice temporanea,
ricordata anche da Cennino nel capitolo successivo, è quella ad albume, usata in passato su
dipinti da poco ultimati e dalla superficie ancora troppo fresca per essere trattata con vernici
con resine disciolte in solventi.
Dalla grande cura ed attenzione artigianale delle tavole duecentesche nel XIV secolo si passa,
in sintesi, ad una standardizzazione di alto livello della produzione, che ha come maggiori
esponenti Giotto, Duccio di Buoninsegna (con ad esempio la Madonna Rucellai del 1285, il
Polittico n°28 del 1300-1305 e soprattutto la Maestà del Duomo di Siena, del 1308-1311),
Simone Martini (con San Ludovico di Tolosa che incorona il fratello Roberto d’Angiò, del 1317,
il Polittico di Santa Caterina d’Alessandria del 1320, l’Annunciazione tra i santi Ansano e
Margerita del 1333, realizzata con Lippo Memmi, e il Polittico Orsini del 1333-1337, esempio
d’altare portatile per la devozione privata) e altri pittori toscani, come i senesi Pietro e
Ambrogio Lorenzetti (di quest’ultimo particolare rilievo ha l’affresco Allegoria ed effetti del
Buono e del Cattivo Governo al Palazzo Pubblico di Siena).
23
Analisi tecnica
Il supporto ligneo della Madonna con Bambino è
costituito da un unico pannello in legno di pioppo di
taglio sub-radiale, identificabile grazie alla caratteristica
venatura rigata, posto con la venatura in verticale; la
tavola, che aveva in origine una propria traversa fissata
con chiodi ribattuti sul retro ed era coronata da una
cuspide, oggi perduta, ha subito in passato diversi
interventi di traversatura volti a ripristinarne la planarità:
i primi, come indica il registro della Duveen Brothers
Inc., sono riconducibili al 1918 e al 1919 e furono condotti
da due differenti restauratori, mentre l’ultimo venne
attuato nel 1937 in Inghilterra da Stephen Picchetto6. È
stato probabilmente durante uno di questi interventi Riflettografia IR dell’opera.
6
Per maggiori informazioni su questo intervento si rimanda alla consultazione del secondo volume del Catalogue of the
Italian Paintings (Fern Rusk Shapley Washington, DC, 1979), e allo scambio epistolare tra la compagnia newyorkese e gli
uffici londinesi, conservata negli archivi della Duveen Brothers (numero d’accesso 960015, Research Library, Getty
Research Institute, Los Angeles: scaffale 89, cassetto 234, cartella 23)
7
ciò era piuttosto comune nella tavole del XIII secolo, sebbene nel corso del XIV l’incamottatura verrà realizzata con la 24
sola tela e nel XV secolo si affermerà l’uso esclusivo di strisce di tela sulle commettiture.
metallica includono il guazzo per il fondo e la missione oleosa per gli arabeschi delle vesti,
mentre le tecniche decorative che si riscontrano sono l’incisione e la bulinatura.
Giotto infatti applicava il colore in gradazione cromatica con l’aggiunta di progressive miscele
di bianco, così da ottenere una stesura cromatica più articolata di quella tipica della pittura
bizantina: partendo dalle zone più scure, dipinte con il colore puro, procedeva con le
25
mezzetinte lievemente schiarite con il bianco, passando
poi dai toni intermedi ai chiari, secondo una studiata
progressione cromatica.
La Madonna con Bambino presenta diverse analogie tecniche con le altre tre tavole
ricondotte al polittico di cui faceva parte, confermando se non l’appartenenza in origine ad
una stessa opera la loro coeva realizzazione.
26
particolare l’analisi EBSD si è rivelata fondamentale per l’identificazione delle particelle di
pigmento.
I risultati raccolti portano alla conclusione che l’artista procedette coerentemente con le
tecniche artistiche trecentesche esposte da Cennino Cennini nel suo Libro dell’Arte,
utilizzando i tipici pigmenti che facevano parte della tavolozza di un pittore dell’inizio del XIV
secolo; interessante scoperta riguarda il ritrovamento, nelle campiture blu, anche dell’insolito
minerale verde-bluastro chiamato mixite8 (formula chimica BiCu6(OH)6(AsO4)3(H2O)3), un
arseniato di rame-bismuto che fino a quel momento non era mai stato rilevato in un dipinto.
Sezioni trasversali dei campioni A e B prelevati lungo il bordo inferiore della tavola.
A presenta: a) fondo in gesso; b) strato d'inchiostro scuro; c) strato bianco; d) strato irregolare di particelle blu e verdi,
azzurrite (indicata con 1), malachite, mixite (indicata con 2); e) ossido di ferro giallo; f) bianco di piombo;
g) giallo di piombo e stagno di tipo II.
B presenta: a) strato di gesso b) strato pittorico con miscele di pigmenti verdi e blu a base di piombo e stagno,
azzurrite (1) e mixite (2).
L’analisi superficiale del manto della Vergine sembra mostrare che Giotto pose sopra ad uno
strato di pittura gialla delle velature blu; tuttavia l’analisi dei prelievi di sezione trasversale
mostra che vi sono dei punti in cui è il giallo a sovrastare il blu e altri in cui i due colori sono
mescolati. Grazie all’indagine elementale dell’XRF è stato confermato l’utilizzo di pigmenti
inorganici come il bianco di piombo – aggiunto in minime quantità -, la terra verde e il
vermiglio. L’analisi ha inoltre indicato che come gialli Giotto utilizzò qui ocra gialla e giallo di
piombo e stagno, il quale all’indagine SEM-EDX si è confermato essere una variante del tipo
II, termine che indica la sua origine da vetri gialli opachi. Dalle indagini esso risulta qui non
essere vetro polverizzato, come si riscontra in alcuni artisti successivi, ma essere stato
prodotto appositamente per l’uso pittorico attraverso un procedimento semplice, come
prova l’assenza di elementi quali ferro, zinco o potassio. Lo spettro del manto blu conteneva
8
La mixite è un raro minerale secondario che si forma in giacimenti metalliferi come alterazione del bismuto nativo o di
solfuri contenenti bismuto. Si presenta sotto forma di aghi fibrosi e spesso associata all'azzurrite e alla malachite, minerale
che rappresentava un pigmento verde essenziale nella tavolozza di un pittore del XIV secolo.
27
inoltre un piccolo picco corrispondente
all’arsenico: inizialmente esso era stato ricondotto
all’orpimento, pigmento molto usato da Giotto,
ma l’esame della superficie pittorica non ha
mostrato la presenza delle tipiche particelle gialle
di questo pigmento, a cui era stato infatti
inusualmente preferito il giallo di piombo e stagno
di tipo II. Questo tipo di pigmento iniziò a Mixite.
diffondersi nella pittura toscana nel XIV secolo e veniva utilizzato come colorante, detto
giallorino, anche dai ceramisti e dai vetrai: il suo impiego anche in pittura fa intendere quanto
le diverse arti fossero tra loro in costante comunicazione.
Come sopra affermato, una delle scoperte più importanti dello studio è stato il ritrovamento
di particelle verdi-bluastre di mixite: queste sono visibili chiaramente nella fotografia BSE e
appaiono più brillanti dell’azzurrite, indice del loro numero atomico maggiore. Il loro
diametro è molto piccolo, di soli 8 µm, e presentano una lunghezza di circa 20 µm; per la
loro identificazione come mixite sono state utilizzate l’analisi microRaman e EBSD.
28
Per quanto riguarda i mezzi attraverso cui
gli artisti trecenteschi ottenessero i loro
colori le informazioni sono scarse e
provengono prevalentemente da trattati,
come ad esempio il Libro dell’Arte di
Cennini: in questo l’artista afferma che i
pittori erano soliti produrre da sé buona
parte dei pigmenti e acquistare quelli più Dettaglio della zona del manto della Vergine analizzata.
L’inaspettata presenza della mixite e gli indizi a cui questo ritrovamento può portare circa
l’origine dell’azzurrite è prova di quanto le indagini diagnostiche siano fondamentali: infatti,
incrociando questi dati con le fonti storiche e geografiche, risulta possibile risalire alle tratte
commerciali e conseguentemente del contesto socio economico dell’epoca di creazione
dell’opera.
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Sitografia
https://it.wikipedia.org/wiki/Madonna_col_Bambino_(Giotto)
https://it.wikipedia.org/wiki/Giotto
https://web.archive.org/web/20090508113048/http://www.nga.gov/fcgi-
bin/tinfo_f?object=397
http://catalogo.fondazionezeri.unibo.it/scheda/opera/2193/Giotto%20di%20Bondone%2C%
20Madonna%20con%20Bambino
https://restaurars.altervista.org/giotto-la-pittura-tavola-tecnica-segreti/
https://www.youtube.com/watch?v=cH4TWxn1dtU
https://conoscerelastoria.it/i-segreti-di-giotto-come-dipingeva-il-maestro/
https://www.nga.gov/collection/art-object-page.397.html
https://www.nga.gov/conservation/publications1/facture-series-publications/facture-
volume-two.html
https://www.nga.gov/audio-video/safra/safra-frosinini.html
http://www.opificiodellepietredure.it/index.php?it/1116/pillole-di-restauro
https://artimaging.de/files/artimaging/downloads/OPD_restauro_2004_UVfalsecolour.pdf
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Bibliografia
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1982
Simona Rinaldi, Storia tecnica dell’arte: materiali e metodi della pittura e della scultura
(secc.V-XIX), Carocci editore, Vignate, 2018
Natalia Bevilaqua, Leonardo Borgioli, Imma Adrover Garcia, I pigmenti nell’arte: dalla
preistoria alla rivoluzione industriale, il prato editore, Saonara, 2010
A cura di Marco Ciatti, Ciro Castelli, Andrea Santacesaria, Dipinti su tavola: la tecnica e la
conservazione dei supporti, EDIFIR editore, Ospedaletto, 2012
Barbara H. Berrie, Marco Leona, Richard McLaughlin, Unusual pigments found in a painting
by Giotto (c. 1266-1337) reveal diversity of materials used by medieval artists, National Gallery
Technical Bulletin, 2016
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