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Sandro Botticelli nacque a Firenze nel 1445 in via Nuova (oggi via del Porcellana), ultimo di quattro figli maschi, e crebbe
in una famiglia modesta ma non povera, mantenuta dal padre, Mariano di Vanni Filipepi, che faceva il conciatore di pelli
e aveva una sua bottega nel vicino quartiere di Santo Spirito. Numerosi erano infatti nella zona di Santa Maria
Novella (dove si trova via del Porcellana) i residenti dediti a tale attività, facilitata dalla prossimità delle acque dell'Arno e
[1]
del Mugnone . Il fratello Antonio era orefice di professione (battiloro o "battigello"), per cui è molto probabile che il
giovane Sandro abbia ricevuto una prima educazione presso la sua bottega da cui gli derivò il soprannome, mentre
sarebbe da scartare l'ipotesi di un suo tirocinio avvenuto presso quella di un amico del padre, un certo maestro
Botticello, come riferisce il Vasari nelle Vite, dal momento che non esiste alcuna prova documentaria che confermi
l'esistenza di questo artigiano attivo in città in quegli anni.
Il nomignolo pare invece che fosse stato inizialmente attribuito al fratello Giovanni, che di mestiere faceva il sensale del
Monte (un funzionario pubblico) e che nella portata al catasto del 1458 veniva vochato Botticello, poi esteso a tutti i
membri maschi della famiglia e dunque adottato anche dal pittore[1].
Il suo vero e proprio apprendistato si svolse nella bottega di Filippo Lippi dal 1464 al 1467, con cui lavorò a Prato negli
ultimi affreschi delle Storie di santo Stefano e san Giovanni Battista nella cappella maggiore del Duomo assieme a
numerosi altri allievi.
Risalgono a questo periodo tutta una serie di Madonne che rivelano la diretta influenza del maestro sul giovane allievo
Risultarono però determinanti nel progressivo processo di maturazione del suo linguaggio pittorico anche le influenze
ricevute da Antonio del Pollaiolo e Andrea del Verrocchio, del quale potrebbe aver frequentato la bottega dopo la
partenza di Filippo Lippi per Spoleto. Nel 1469 Botticelli lavorava già da solo, come dimostra la portata al Catasto
del 1469, in cui è segnalato come operante in casa propria. Il 9 ottobre 1469 Filippo Lippi morì a Spoleto e nel 1470
Sandro mise bottega per conto proprio[1].
Dal 18 giugno al 18 agosto di quell'anno lavorò alla sua prima commissione pubblica, di notevole prestigio e risonanza[1].
Si tratta di una spalliera allegorica, realizzata per il Tribunale della Mercanzia di Firenze raffigurante la Fortezza. Il
pannello doveva inserirsi all'interno di un ciclo ordinato a Piero Pollaiolo che infatti eseguì sei delle sette Virtù[1].
Nel 1472 Botticelli s'iscrisse alla Compagnia di San Luca, la confraternita degli artisti a Firenze, e spinse a fare
altrettanto il suo amico quindicenne Filippino Lippi, figlio del suo maestro Filippo. Filippino, oltre che caro amico, divenne
[1]
presto il suo primo collaboratore . I neoplatonici offrirono la più convincente rivalutazione della cultura antica data fino a
quel momento, riuscendo a colmare la frattura che si era venuta a creare tra i primi sostenitori del movimento umanista e
la religione cristiana, che condannava l'antichità in quanto pagana; essi non solo riproposero con forza le "virtù degli
antichi come modello etico" della vita civile, ma arrivarono a conciliare gli ideali cristiani con quelli della cultura classica,
ispirandosi a Platone e alle varie correnti di misticismo tardo-pagano che attestavano la profonda religiosità delle
comunità pre-cristiane.
L'influenza di queste teorie sulle arti figurative fu profonda; i temi della bellezza e dell'amore divennero centrali nel
sistema neoplatonico perché l'uomo, spinto dall'amore, poteva elevarsi dal regno inferiore della materia a quello
superiore dello spirito. In questo modo la mitologia fu pienamente riabilitata e le venne assegnata la stessa dignità dei
temi di soggetto sacro, e ciò spiega anche il motivo per cui le decorazioni di carattere profano ebbero una così larga
diffusione.
Venere, la dea più peccaminosa dell'Olimpo pagano, venne totalmente reinterpretata dai filosofi neoplatonici, e diventò
uno dei soggetti raffigurati più frequentemente dagli artisti secondo una duplice tipologia: la Venere celeste, simbolo
dell'amore spirituale che spingeva l'uomo verso l'ascesi, e la Venere terrena, simbolo dell'istintualità e della passione che
lo ricacciavano verso il basso.
Un altro tema rappresentato di sovente fu la lotta tra un principio superiore e uno inferiore (ad esempio Marte ammansito
da Venere o i mostri abbattuti da Ercole), secondo l'idea di una continua tensione dell'animo umano, sospeso
tra virtù e vizi; l'uomo in pratica era tendenzialmente rivolto verso il bene, ma incapace di conseguire la perfezione e
spesso insidiato dal pericolo di ricadere verso l'irrazionalità dettata dall'istinto; da questa consapevolezza dei propri limiti
deriva perciò il dramma esistenziale dell'uomo neoplatonico, conscio di dover rincorrere per tutta la vita una condizione
irraggiungibile in modo definitivo.
Botticelli divenne amico dei filosofi neoplatonici, ne accolse pienamente le idee e riuscì a rendere visibile quella bellezza
da loro teorizzata, secondo la sua personale interpretazione dal carattere malinconico e contemplativo, che spesso non
coincide con quella proposta da altri artisti legati a questo stesso ambiente culturale.
Le frequentazioni di Botticelli nella cerchia della famiglia dei Medici furono indubbiamente utili per garantirgli protezione e
le numerose commissioni eseguite nell'arco di circa vent'anni. A partire da questo periodo la produzione del pittore iniziò
a rivelare i primi segni di una crisi interiore che culminò nell'ultima fase della sua carriera in un esasperato misticismo,
volto a rinnegare lo stile per il quale egli si era contraddistinto nel panorama artistico fiorentino dell'epoca. La comparsa
sulla scena politico-religiosa del predicatore ferrarese Savonarola determinò, soprattutto dopo la morte di Lorenzo il
Magnifico (1492), un profondo ripensamento della cultura precedente, condannando i temi mitologici e pagani, la libertà
nei costumi, l'ostentazione del lusso[4]. Il frate attaccò duramente i costumi e la cultura del tempo, predicendo morte e
l'arrivo del giudizio divino, e imponendo penitenza ed espiazione dei propri peccati. La discesa di Carlo VIII di
Francia (1494) sembrò far avverare le sue profezie, per cui, al culmine del prestigio personale, Savonarola riuscì a
fomentare la sommossa che scacciò Piero il Fatuo restaurando la Repubblica fiorentina, nella cui organizzazione pare
che il frate diede un contributo sostanziale.
Botticelli fu, insieme a molti altri artisti come Fra Bartolomeo e il giovane Michelangelo, profondamente influenzato dal
nuovo clima. Si infransero le sicurezze fornite dall'umanesimo quattrocentesco, a causa del nuovo e turbato clima
politico e sociale. Nel 1497 e 1498 i seguaci di Savonarola organizzarono diversi "roghi delle vanità", che non solo
dovettero impressionare molto il pittore, ma innescarono in lui grossi sensi di colpa per aver dato volto a quel magistero
artistico così aspramente condannato dal frate.
L'avversità del Vaticano con il papa Alessandro VI e di altri Stati italiani misero in crisi la popolarità del frate che,
abbandonato dai suoi stessi concittadini, finì per essere scomunicato e poi condannato all'impiccagione e al rogo dopo
un processo fortemente pilotato, subendo il supplizio in piazza della Signoria il 23 maggio 1498.
Nel 1493 morì suo fratello Giovanni e nel 1495 concluse alcuni lavori per i Medici del ramo "Popolano", dipingendo per
loro alcune opere per la villa del Trebbio. Nel 1498 i beni denunciati al catasto testimoniano un cospicuo patrimonio: una
casa nel quartiere di Santa Maria Novella e un reddito garantito dalla villa di Bellosguardo nei dintorni di
Firenze[4]. Del 1502 è un suo celebre scritto relativo alla realizzazione di un giornaletto denominato beceri, di carattere
prevalentemente satirico, destinato ad allietare la lettura delle frange nobiliari della società rinascimentale. Tale progetto,
tuttavia, restò tale, non essendo mai stato portato a compimento.[senza fonte]
Nel 1502 una denuncia anonima lo accusò di sodomia. Nel registro degli Ufficiali di Notte, al 16 novembre di quell'anno,
è riportato come il pittore "si tiene un garzone"... In ogni caso sia quest'episodio sia quello di dodici anni prima si
risolsero apparentemente senza danni per l'artista[11].
La sua fama era ormai in pieno declino anche perché l'ambiente artistico, non solamente fiorentino, era dominato dal già
affermato Leonardo e dal giovane astro nascente Michelangelo. Dopo la Natività mistica Botticelli sembra rimanere
inattivo. Nel 1502 scrisse una lettera a Isabella d'Este offrendosi, libero da impegni, per lavorare alla decorazione del
suo studiolo[12].
Nonostante fosse anziano e piuttosto in disparte il suo parere artistico doveva essere ancora tenuto in considerazione se
nel 1504 venne incluso tra i membri della commissione incaricata di scegliere la collocazione più idonea per il David di
Michelangelo[12].
Il pittore ormai anziano e quasi inattivo trascorse gli ultimi anni di vita isolato e in povertà, morendo il 17 maggio 1510. Fu
sepolto nella tomba di famiglia nella chiesa di Ognissanti a Firenze[12].
L'unico suo vero erede fu Filippino Lippi, che condivise con lui l'inquietudine presente nella sua ultima produzione.
Sandro Botticelli, oltre che per le sue opere pittoriche sparse in tutta Italia, è divenuto noto anche sotto un altro aspetto,
interessante nonché peculiare per l'epoca: il fatto che egli non si sposò mai ("La sola idea di matrimonio gli toglieva il
sonno" racconta Poliziano) ma che anzi, secondo diversi studi svolti dal Novecento a oggi, egli fosse omosessuale; non
per niente nel 1490 egli fu accusato, da parte del tribunale di Firenze di sodomia, accusa che è stata poi ripresa nel
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1502. Lo stile di Botticelli subì diverse evoluzioni nel tempo, ma fondamentalmente mantenne alcuni tratti comuni che
lo rendono tutt'oggi ben riconoscibile, anche nel vasto pubblico. Gli input fondamentali della sua formazione artistica
furono sostanzialmente tre: Filippo Lippi, Andrea del Verrocchio e Antonio del Pollaiolo[12].
Dal Lippi, suo primo vero maestro, apprese a dipingere fisionomie eleganti e di una rarefatta bellezza ideale, il gusto per
la predominanza del disegno e della linea di contorno, le forme sciolte, i colori delicatamente intonati, il calore domestico
delle figure sacre[12]. Dal Pollaiolo ricavò la linea dinamica ed energetica, capace di costruire forme espressive e vitali
con la forza del contorno e del movimento. Dal Verrocchio imparò a dipingere forme solenni e monumentali, fuse con
l'atmosfera grazie ai fini giochi luministici, e dotate di effetti materici nella resa dei diversi materiali[14].
Dalla sintesi di questi motivi Botticelli trasse un'espressione originale e autonoma del proprio stile, caratterizzato dalla
particolare fisionomia dei personaggi, impostati a una bellezza senza tempo sottilmente velata di malinconia, dal
maggiore interesse riservato alla figura umana rispetto agli sfondi e l'ambiente, e dal linearismo che talvolta modifica le
forme a seconda del sentimento desiderato ("espressionismo"), quest'ultimo soprattutto nella fase tarda dell'attività.
Di volta in volta, a seconda dei soggetti e del periodo, prevalgono poi le componenti lineari o coloristiche o, infine,
espressionistiche.
Nell'ultima produzione si affacciò il dilemma nel contrasto tra il mondo della cultura umanistica, con le sue componenti
cortesi e paganeggianti, e quello del rigore ascetico e riformatore di Savonarola, che portò l'artista a un ripensamento e a
una crisi mistica che si legge anche nelle sue opere. I soggetti si fanno sempre più introspettivi, quasi esclusivamente
religiosi, e le scene diventano più irreali, con la ripresa consapevole di arcaicismi quali il fondo oro o le proporzioni
gerarchiche. In questa crisi però si trova anche il seme della rottura dell'ideale di razionalità geometrica del primo
Rinascimento, in favore di una più libera disposizione dei soggetti nello spazio che prelude la sensibilità di tipo
cinquecentesco[15]. La pittura di Botticelli s'ispirò anche alla filosofia del neoplatonismo rinascimentale fiorentino il cui
fondatore fu Marsilio Ficino.
LA PRIMAVERA
Il bel dipinto venne eseguito per Lorenzo di Piefrancesco de' Medici (1463-1503), cugino di secondo grado di Lorenzo il
Magnifico di circa quindici anni più giovane, non sempre in ottimi rapporti con il cugino maggiore, incaricato di fatto di
governare Firenze[1]. Gli inventari di famiglia del 1498, 1503 e 1516 hanno anche chiarito la sua collocazione originaria,
nel Palazzo di via Larga, dove rimase prima di essere trasferita nella Villa di Castello, dove Vasari riferisce di averla vista
nel 1550, accanto alla Nascita di Venere[2]. Il titolo con cui è universalmente conosciuto il dipinto deriva proprio
dall'annotazione di Vasari ("Venere che le Grazie fioriscono, dinotando Primavera"), dalla quale derivano anche le linee
cardine su cui si sono mossi tutti i tentativi di interpretazione.
Nel 1815 si trovava già nel Guardaroba mediceo e nel 1853 venne trasferita alla Galleria dell'Accademia per lo studio dei
giovani artisti che frequentavano la scuola; con il riordino delle collezioni fiorentine venne trasferita agli Uffizi nel 1919[3].
Se nella critica non vi è alcun dubbio circa l'autografia di Botticelli, piuttosto discordi sono le ipotesi sulla datazione. Gli
estremi sono quelli della collaborazione presso i Medici, dal 1477 al 1490, con la sospensione del viaggio a Roma, per
affrescare tre episodi biblici nella Cappella Sistina, degli anni 1480-1482. Lightbrown ipotizzò una datazione
immediatamente successiva al rientro dalla Città eterna, nel 1482, coincidendo con le nozze del committente Lorenzo il
Popolano con Semiramide Appiani[3]: l'allegoria di Venere, rappresentata al centro del dipinto, sarebbe anche legata a un
oroscopo di Lorenzo, come risulta da una lettera di Marsilio Ficino a lui indirizzata, in cui il filosofo lo esortava a ispirare il
proprio agire alla configurazione astrale che ne dominava il tema natale, cioè proprio Venere e Mercurio[2].
Questa ipotesi è oggi la più accettata dalla critica, sostituendo ormai quella al 1478, prima della partenza per Roma.
In un ombroso boschetto, che forma una sorta di semi-cupola di aranci colmi di frutti e arbusti sullo sfondo di un cielo
azzurrino, sono disposti nove personaggi, in una composizione bilanciata ritmicamente e fondamentalmente simmetrica
attorno al perno centrale della donna col drappo rosso e verde sulla veste setosa[1]. Il suolo è composto da un verde
prato, disseminato da un'infinita varietà di specie vegetali e un ricchissimo campionario di
fiori[1]: nontiscordardimé, iris, fiordaliso, ranuncolo, papavero, margherita, viola, gelsomino, ecc.
I personaggi e l'iconografia generale vennero identificati nel 1888 da Adolf Gaspary, basandosi sulle indicazioni di
Vasari, e, fondamentalmente, non sono più stati messi in discussione[1]. Cinque anni dopo Aby Warburg articolò infatti la
descrizione che venne sostanzialmente accettata da tutta la critica, sebbene sfugga tuttora il senso complessivo della
scena[1].
L'opera è, secondo una teoria ampiamente condivisa, ambientata in un boschetto di aranci (il giardino delle Esperidi) e
va letta da destra verso sinistra, forse perché la collocazione dell'opera imponeva una visione preferenziale da
destra[non chiaro][2]. Zefiro, vento di nord ovest e di primavera che piega gli alberi, attira col suo soffio, rapisce per amore la
ninfa Clori (in greco Clorìs) e la mette incinta; da questo atto ella rinasce trasformata in Flora, la personificazione della
stessa primavera rappresentata come una donna dallo splendido abito fiorito che sparge a terra le infiorescenze che
tiene in grembo[1]. A questa trasformazione allude anche il filo di fiori che già inizia a uscire dalla bocca di Clori durante il
suo rapimento. Al centro campeggia Venere, inquadrata da una cornice simmetrica di arbusti, che sorveglia e dirige gli
eventi, quale simbolo neoplatonico dell'amore più elevato[1]. Sopra di lei vola il figlio Cupido, mentre a sinistra si trovano
le sue tre tradizionali compagne vestite di veli leggerissimi, le Grazie, occupate in un'armoniosa danza in cui muovono
ritmicamente le braccia e intrecciano le dita[1].
Chiude il gruppo a sinistra un disinteressato Mercurio, coi tipici calzari alati, che col caduceo scaccia le nubi per
preservare un'eterna primavera[1].
Come succede per altri grandi capolavori del Rinascimento, la Primavera nasconde vari livelli di lettura: uno strettamente
mitologico, legato ai soggetti rappresentati, la cui spiegazione è ormai appurata; uno filosofico, legato alla filosofia
dell'accademia neoplatonica e ad altre dottrine; uno storico-dinastico, legato alle vicende contemporanee ed alla
gratificazione del committente e della sua famiglia.
Queste ultime due letture, con le rispettive ramificazioni possibili, sono più controverse, ed hanno registrato i molteplici
interventi di studiosi e storici dell'arte, senza tuttavia giungere a un risultato definitivo o almeno ampiamente condiviso.
LETTURA LEGATA AL COMMITTENTE: Una prima serie di interpretazioni lega i personaggi mitologici del dipinto a
individui fiorentini dell'epoca, come in una mascherata carnevalesca, e alla loro celebrazione tramite rappresentazioni
simboliche delle loro virtù[2].
Partendo dall'inventario mediceo del 1498, Mirella Levi D'Ancona ha ipotizzato che il dipinto possa essere
l'allegoria del matrimonio tra Lorenzo di Pierfrancesco de' Medici e Semiramide Appiani; Botticelli lo avrebbe oltretutto
eseguito in due momenti successivi, perché l'opera era stata inizialmente commissionata da Giuliano de' Medici in
occasione della nascita del figlio Giulio (futuro papa Clemente VII), avuto con Fioretta Gorini che egli avrebbe sposato in
gran segreto nel 1478.
Ma come è noto Giuliano morì nella congiura dei Pazzi ordita contro il fratello in quello stesso anno, un mese prima della
nascita del figlio, per cui il quadro incompiuto venne "riciclato" dal cugino qualche tempo dopo per celebrare le sue
nozze, inserendovi il suo ritratto e quello della moglie, che si diceva essere donna dalla bellezza eccezionale. Il gruppo
di destra rappresenterebbe l'istintualità e la passionalità notoriamente condannate dal neoplatonismo perché portatrici di
atteggiamenti irrazionali.
Secondo questa interpretazione i personaggi raffigurerebbero:
LETTURA STORICA: Secondo Horst Bredekamp, che data la tavola a non prima del 1485, oltre alle evidenti
implicazioni filosofiche, si dovrebbe considerare il dipinto come allegoria dell'età medicea, intesa come età dell'oro, ma
sotto la guida di Lorenzo di Pierfrancesco e non del Magnifico, confermandone così la committenza. La presenza di
Flora sarebbe pertanto un'allusione a Florentia e dunque alle antiche origini della città.
Si tratta di un'interpretazione che tiene notevolmente conto di numerose implicazioni di carattere storico e politico
dell'epoca e che riprende la generale tendenza degli ultimi decenni a "smitizzare" la figura del Magnifico in favore del
ramo cadetto della famiglia, cui verrebbe attribuita un'importanza forse per molto tempo rimasta sconosciuta ma non
ancora pienamente verificata.
Le altre figure sarebbero città legate in vario modo a Firenze: Mercurio-Milano, Cupido (Amor)-Roma, le Tre Grazie
come Pisa, Napoli e Genova, la ninfa Maia come Mantova, Venere come Venezia e Borea come Bolzano.
LETTURA FILOSOFICA: Sicuramente nella Primavera il mito venne scelto per rispecchiare verità morali, adottando un
tema antico, quindi universale, ad un linguaggio del tutto moderno[6].
Il primo critico a mettere il dipinto direttamente in relazione con la cerchia di filosofici neoplatonici frequentata da Botticelli
fu Aby Warburg nel 1893, che lesse la Primavera come la trasposizione di un distico di Agnolo Poliziano, ricco di
citazioni letterarie antiche. Sarebbe quindi la rappresentazione di Venere dopo la nascita (raffigurata nell'altro celebre
dipinto della serie), durante l'arrivo nel suo regno[2].
Ernst Gombrich, nel 1945, e, dopo di lui, negli anni cinquanta Wind e negli anni sessanta Erwin Panofsky, lessero
la Primavera addirittura come il manifesto del sodalizio filosofico ed artistico dell'Accademia di Careggi. Vi si narrerebbe
come l'amore, nei suoi diversi gradi, arrivi a staccare l'uomo dal mondo terreno per volgerlo a quello spirituale[2].
La scena si svolgerebbe nel giardino sacro di Venere, che la mitologia colloca nell'isola di Cipro, come rivelano gli
attributi tipici della dea sullo sfondo (per es. il cespuglio di mirto alle sue spalle) e la presenza di Cupido e Mercurio a
sinistra in funzione di guardiano del bosco, che infatti tiene in mano un caduceo per scacciare le nubi della pioggia
(anche se egli viene insolitamente raffigurato in una posizione che lo rende estraneo al resto della scena). Le Tre
Grazie rappresentavano tradizionalmente le liberalità, ma la parte più interessante del dipinto è quella costituita dal
gruppo di personaggi sulla destra, con Zefiro, la ninfa Cloris e la dea Flora, divinità della fioritura e della giovinezza,
protettrice della fertilità. Zefiro e Clori rappresenterebbero la forza dell'amore sensuale e irrazionale, che però è fonte di
vita (Flora) e, tramite la mediazione di Venere ed Eros, si trasforma in qualcosa di più perfetto (le Grazie), per poi
spiccare il volo verso le sfere celesti guidato da Mercurio[2].
Oltre alle teorie di Marsilio Ficino e la poetica di Poliziano, Botticelli s'ispirò anche alla letteratura classica
(Ovidio e Lucrezio), soprattutto per quanto riguarda la metamorfosi di Cloris in Flora; tuttavia, il centro focale della
composizione è Venere, che secondo l'ideologia neoplatonica sarebbe la rappresentazione figurata del suo mondo
secondo il seguente schema: