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Rifugiati Transnazionalismo e
frontiere
Osvaldo Costantini, Aurora Massa, Jvan Yazdan
CAP 1.
CAP2.
CAP3.
Un’indagine etnografica sui giovani dell’Eritrea che fuggono dal proprio paese molto
spesso verso l’Etiopia o nel Sudan. I pericoli che il viaggio da un paese all’altro comporta
appaiono ai loro occhi meno eccezionali e quasi routinizzati rispetto a come noi li
concepiamo. Cosa li spinge a compiere ancora certe traversate e come riescono a
metabolizzare tali vicissitudine che devono affrontare. Solo nel ’93 dopo trent’anni di
guerra un referendum ha ufficializzato la liberazione dell’Eritrea dall’Etiopia ma l’assenza
di una Costituzione e di un governo stabile ha annichilito ogni euforia. È iniziata una
soppressione della libertà d’espressione con la messa al bando di partiti, media
indipendenti e una rete di controlli che reprimesse ogni voci contrastante e cospiratrice
contro lo Stato. I giovani dovevano attenersi a una campagna denominata ykaelo-warsay:
compiuta una certa età lo Stato decide il settore e il luogo da assegnare ai giovani,
quando e dove spostarli per una paga irrisoria. È il governo che ha il pieno controllo sulle
vite presenti e future dei giovani. Una politica di sacrifici che i giovani devono vivere come
li hanno vissuti le generazioni prima di loro per la liberazione dell’Eritrea, ykaelo gli
onnipotenti e warsay cioè gli eredi. Questo perenne stato di adolescente in cui tutto viene
predefinito, la mancanza di un salario sufficiente per un’indipendenza economica sono i
motivi che spingono i giovani eritrei a emigrare. Inoltre le reti diasporiche, internet e media,
hanno volto l’idea di progresso da un movimento temporale ad uno spaziale, convincendo
sempre di più da qualche altra parte le condizioni siano migliori. Lo scambio di opinioni e
di informazioni su come superare la frontiera insegnano alle persone a migrare e a
desiderare di migrare. La trasmissione di idee,valori e pratiche suscita la propensione alla
mobilitazione. Nelle retoriche giovanili chi fugge anche illegalmente diventando cittadino in
diaspora diventa buon esempio, modellando anche la partenza come volontà di servire
l’Eritrea seppur da lontano, alternativamente nazionale. Gli Eritrei in Etiopia vengono
considerati come rifugiati in prima facie ovvero un sistema differente da quelli in uso come
in Italia, che riconosce lo status di rifugiato non per individuo ma nel complesso, inoltre è
concesso ad alcuni di loro che rispondo a certi requisiti di poter risiedere fuori dai campi e
studiare nelle università del paese. Tuttavia il numero alto di rifugiati ha fatto si che si
creasse questa doppia considerazione degli Eritrei da parte degli Etiopi come
rifugiati,nemici e fratelli ,stranieri allo stesso tempo. Gli Eritrei si considerano come rifugiati
di transizione dove per la maggior parte dei casi è l’Europa la meta finale. Comunque la
paura dell’immobilità spinge a compiere certi viaggi in quanto mobilità geografica e
personale risultano strettamente connesse. Con le retoriche del self-made man il viaggio
diviene una vera e propria impresa, un’esperienza di individualizzazione in cui si compie il
passaggio dall’età adulta. Sono proprio i rischi, le poche possibilità di riuscita e
sopravvivenza che alimentano questa visione di percorso personale per l’emancipazione,
tanto da considerarlo come un vero e proprio rito di passaggio. Concettualizzazione di
sacrificio come necessario per il proprio miglioramento. Se da una parte il diritto d’asilo è
concesso per salvaguardare l’integrità fisica individuale, dall’altra metterla a rischio è per
alcuni l’unico modo per raggiungere e conquistare un’esistenza sociale e politica.
CAP4.
Un elemento importate da analizzare dei regimi di mobilità globali sono le aspettative sulle
quali si costituisce il desiderio di altrove dei migranti. E per questo nel termine migrante
forzato Eritreo l’accento viene posto su un motivo diverso dall’urgenza a scappare da
condizioni particolarmente sfavorevoli, ma mossi dal desiderio di ritrovare in posti lontani
luoghi migliori, anche attraverso l’idea che viene fatta dalla testimonianza di parenti in
diaspora a cui i migranti si affidano e con i quali si organizzano, le tempistiche di partenza
spesso sono legate proprio alla disponibilità economica e lavorativa di dove sono. La
volontà di partire alcune volte non è dettata quindi dalla volontà di sfuggire da una militare
ma anche sull’idea di una vita migliore basato sul modello definito ‘soggettività globale’.
L’aspetto dell’immaginario e del desiderio di altrove alle volte prescinde condizioni
dittatoriali in cui si vive ma sono presenti nel concetto di vita migliore, una visione costruita
dalle informazioni che ricevono da parenti, amici e mezzi di comunicazione. Per gli Eritrei
molto spesso l’Italia è terra di transito per altri luoghi, tant’è che molti di essi sono costretti
a rimanervici, anche se non è lo stato in cui vogliono fermarsi, per via della pratica di
registrazione delle impronte digitali che li obbliga a rimanere qui. La mancanza di lavoro, di
attività e le aspettative tradite hanno fatto si che in alcune zone sorgessero delle comunità
in cui si cercava di ricreare la familiarità delle loro tradizioni con negozi, ristoranti e chiese,
e sono proprio queste i punti di aggregazione più importanti perché, nell’impossibilità di
andarsene e allo stesso tempo la mancanza di un lavoro la chiesa è ciò che salva dalla
possibile insorgere di una condizione che i fedeli eritrei definivano di pazzia. Da qui
l’interpretazione che loro hanno da sempre di una migrazione dallo scopo mondano, alla
ricerca di fortuna, che ora assume un altro significato, spirituale per poter dare un senso
all’opposizione tra desiderio e il realizzabile e le frustrazioni da esse derivanti. Tali
costruzioni assumono più interpretazione come quella di interpretare un viaggio per
volontà divina. Nei discorsi durante le predicazioni si fa spesso riferimento a una volontà
divina che sta dietro le partenze, i percorsi e le scelte. Vengono fatte delle ricostruzioni di
senso a posteriori che inserisce eventi contraddittori alle aspettative su un orizzonte
religioso. Tutte le azioni della chiesa pentacostale era rivolta ai loro fedeli per proteggere
la loro integrità. Si eseguivano preghiere individuali per accrescere il potere spirituale e
affrontare le difficoltà della vita e rimuovere le delusioni delle aspettative mancate del
passato. Alcuni fedeli svolgevano questa preghiera a digiuno così che da indebolire il
copro e non permettere all’anima di essere attirata dalle sue volontà. Inoltre venivano
svolti dei rituali in cui ognuno pregava intensamente e individualmente per scacciare con
movimenti energici deliranti uno spirito che corrompesse il loro cammino spirituale. In
questo modo la vicenda della lotta tra Gesù e Satana diventa un mezzo perché l’anima
non venga predominata dalla volontà del corpo che impedisce un perfezionamento
spirituale e il suo percorso. I discorsi pentacostali risolvono le frustrazione e le
contraddizioni di un regime globale che tende a favorire vantaggi a pochi. Diventa così
tecnica di protezione psicologia dall’insorgere ossessivo della delusione derivante dallo
scarto tra aspettative e realizzabile.
CAP.5
CAP.6
Si tratta del gruppo diasporico dei Mescheti Musulmani residenti in Georgia che nel 44
furono esiliati per volere degli Affari Interni (NKVD) dell’URSS su ordine di Stalin li rimosse
dalla Repubblica Socialista accusati di aver appoggiato la Germania Nazista solo perché
abitanti in zone confinanti della Turchia, alleato non dichiarato della Germania. L’ NKVD
deportò i popoli con un’azione militare che non faceva distinzioni di nessun genere. Nel 44
circa 100.000 Musulmani provenienti da una regione sud occidentale della Russia
Sovietica Georgiana detta Meschezia, vennero esiliati in Asia Centrale, per via della loro
lingua e della loro tradizione simile a quella Turca furono considerati alleati del nemico.
Molti morirono durante il tragitto per varie ragioni, dalle malattie al freddo. Vissero in
costante sorveglianza nei luoghi in cui vennero deportati, non erano autorizzati a recarsi
fuori dai loro villaggi. Nel 1956 fu consentito loro di tonare nei propri luoghi d’origine ma
con l’avvento della Guerra Fredda gli venne negato nuovamente a causa dell’importanza
strategica che assumeva quel luogo durante il conflitto e quindi spediti in Azerbaigian. La
vera svolta si ebbe solo nel 2007 quando la Georgia entrò nel consiglio d’Europa e fu
approvata la Legge sul Rimpatrio ma che non ebbe esito positivo viste le manovre
burocratiche troppo lente e complicate che non permettevano a tutti di poter ottenere lo
status.
CAP.7
Negli anni Ottanta con la dissoluzione dell’Unione Sovietica molti dei Greci che abitavano
questa zona tornano in Grecia, considerata centro della diaspora, in più si postulava un
legame storico tra queste comunità disperse. Questo rimpatrio fu descritto come un
desiderio comune di tutti questi gruppi di tornare a casa, anche se questo movimento
migratorio non appariva così scontato per i Greci che emigravano dall’Unione Sovietica. I
Greci nel 19 secolo di spostarono in villaggi nell’Abkazia a causa della pressione fiscale,
ma nel 1921 l’Abcasia divenne una Repubblica Sovietica Socialista, status revocato poi da
Stalin nel 1931 che la trasformò in Repubblica Sovietica Socialista Autonoma. Il processo
di stalinizzazione della società portò diverse comunità greche in Asia Centrale. A seguito
della grande destalinizzazione negli anni Sessanta i Greci cominciarono a tornare in
Abcasia, luogo però rivendicato dalla Georgia che causò un conflitto nel 92. Ciò spinse il
governo greco a inviare navi con l’ordine di trasferire i Greci in Grecia. Fotini decise di non
lasciare la propria città. Stenokhoria l’aggettivo che indica l’emozione provata dalla
donna, formato dalla parola stenos (stretto) e khonos che significa o: stato sovrano in cui
risiede una popolazione o luogo del corpo dove si trova un organo. Nel caso di Fotini era
un luogo piccolo che rievocava dei ricordi, cioè la sua casa, dove si era ritirata
provocandole la stenakhoria. Questa era provocata dall’assenza della sua gente e della
sua lingua, costringendola a un’immobilità fisica, in quanto si era allontanata consenziente
allontanata dalla vita esterna che era priva di familiarità per ritirarsi in una mobilità
immaginaria verso le memorie del passato attraverso oggetti che rievocassero ricordi. Un
caso diverso è quello di Igor nato in Uzbekistan da genitori Greci rifugiatesi in Asia
Centrale. Igor visse un’infanzia felice per via del welfare del luogo e dal supporto reciproco
nelle comunità greche. I genitori però decisi a tornare in Grecia lo costrinsero a
raggiungerlo e così da parte sua contro di loro inizio un processo di mobilità e migrazione
interna in quanto non si sentiva veramente a casa, e perciò mantenne il suo nome Igor
invece di quello originario greco. I Greci dell’unione sovietica subirono dei processi di
dispersione etnica causata dai rimpatri e dalla diaspora. Cominciava ad utilizzare de
tramiti per ricollegarsi a quella che per lui era la sua vera casa, mantenendo vive tradizioni
russe attraverso la lingua, canti e abiti tipici, accrescendo la sua immaginazione su cosa
sarebbe potuto essere se fosse rimasto in Unione Sovietica, la sua non era una nostalgia
di luoghi abbandonati più che altro di situazioni ed esperienze mai vissute. Il rimpatrio
forzato aveva portato Igor a non pensare che quella fosse davvero la sua casa, il suo non
appartenere a nessun luogo non era dovuto esclusivamente a concetti come qui e li, ma al
desiderio di appartenenza. Il non averla aveva stimolato la sua immaginazione ad averne
una alternativa che non aveva mai avuto. Eleni invece nasce in Georgia e studia a Mosca,
a seguito della crisi economica e la guerra in Grecia la sua famiglia si sposta in Grecia ma
lei in un primo momento decide con il marito di rimanere in Russia pensando che la crisi
non l’avrebbe colpita, non fu così, e con la sua famiglia decide di raggiungere i genitori in
Grecia, ma riparte da sola per proseguire gli studi in Russia. Il desiderio però di tornare in
Georgia la spinse a ritornare nella casa dove era nata per immaginare di rivivere la propria
vita. La su continua mobilità e il suo continuo attaccarsi-separarsi verso o da casa aveva
fatto si che in lei non si generasse un unico sentimento di appartenenza come nei casi
precedenti, in quanto trovava più difficoltà a scegliere un’unica casa-patria. Ogni
migrazione aveva incrementato i suoi capitali culturali, simbolici ed economici provocando
attaccamenti multipli, meno localizzati e più disconnessi. Le emozioni nei tre case sono
espresse attraverso oggetti tangibili e non del passato. Immaginare casa può significare
sia mobilità: quindi diaspora, esilio, rimpatrio etc. ma anche immobilità, rimanere in un
appartamento che diventa più accogliente del resto del mondo. Le molteplici ubicazioni
Eleni sono collegate alla svolta della mobilità come stile dominante del presente. Lo
sradicamento di Igor alle divisione della Guerra Fredda e ai pregiudizi idiologici.