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VITA

Alessandro Manzoni nasce il 7 marzo 1785 a Milano. Frutto di una relazione adulterina
di Giulia Beccaria con Giovanni Verri, figlia del letterato illuminista Cesare Beccaria,
viene riconosciuto dal conte Pietro Manzoni per evitare lo scandalo. In seguito alla
separazione dei due coniugi, Alessandro è costretto a lasciare la madre. Nel 1795 Giulia
Beccaria comincia a convivere con Carlo Imbonati, con cui presto si trasferisce a
Parigi. Alessandro Manzoni viene inviato a studiare in collegi religiosi dal 1791 al 1801.
Uscito dal collegio, Manzoni manifesta un atteggiamento di disgusto nei confronti
dell'insegnamento tradizionale e religioso.. Nel 1801 compone il poemetto
il Trionfo della libertà,
Dal 1801 al 1804 vive con il padre nella Milano napoleonica, dove si cimenta con una
produzione letteraria ispirata ai principi del neoclassicismo e da ideali democratici, ma
presto manifesta la sua insoddisfazione per l'evoluzione politica del regime napoleonico.
Ottenuto il permesso del padre, Alessandro Manzoni si prepara a partire, ma nella
primavera del 1805 lo raggiunge la notizia della morte di Carlo Imbonati. Giunto a Parigi,
ha il primo incontro con la madre, con la quale scoppia un vero e proprio amore. Rimane a
Parigi fino al 1810 e
A Parigi entra in contatto con il gruppo degli "idéologhi”, era un gruppo di intellettuali
che recuperano volentieri le idee illuministe e nello stesso tempo sono aperti alle idee
romantiche che in quel periodo iniziavano a diffondersi. Importante
per Manzoni fu Claude Fauriel, suo punto di riferimento costante. Alessandro Manzoni,
a contatto con questo ambiente, manifesta la sua insoddisfazione per l'Illuminismo e i suoi
esiti, e alimenta il suo desiderio di aderire a valori che fossero assoluti e collettivi,
ponendo così le premesse per quel clima spirituale e intellettuale, che lo porterà
alla conversione sia di tipo religioso, sia intellettuale del 1810. Nel 1808 Manzoni
si sposa a Milano con Enrichetta Blondel con rito calvinista (Enrichetta proveniva da
una famiglia di fede calvinista). Enrichetta Blondel entra in contatto con un prete
giansenista , avvicinandosi così alla fede cattolica. Nel 1810 viene celebrato nuovamente il
matrimonio con Manzoni secondo il rito cattolico.

MANZONI con ENRICHETTA BLONDEL ha successivamente 10 figli il matrimonio va


bene fin quando nel 1833 Enrichetta muore per una malattia. Manzoni dopo un po' di anni
si risposa questa volta con TERESA BORRI STAMPA. Dopo il matrimonio Manzoni
prende l’abitudine di trascorrere buona parte dell’estate nella villa di Lesa, di propietà di
Teresa. Qui egli poté frequentare il filosofo Antonio Rosmini che fu uno dei più fini
intellettuali cattolici di quell’epoca, filosofo e riformatore religioso. Con lui Manzoni stinge
un’amicizia sincera, nutrita di scambi di idee e conversazioni. Intanto dal 1840 al 1842 si
protrae la pubblicazione a dispense della redazione definitiva dei Promessi Sposi, a cui
segue la Storia della Colonna Infame. Poi l’autore vi approfondisce la descrizione della
terribile peste a Milanese del 1630, alla quale ha già dedicato diversi capitoli dei i Promessi
Sposi.

L’impronta cristiana è visibile, però soprattutto nel passaggio al romanzo:nasce il primo


abbozzo di quello che sarà i promessi sposi sotto il titolo di Fermo e Lucia.
La lingua è quella tipica delle persone educate, senza volgarità, e nell’ultima versione sara
fortemente toscanizzata. Infatti verranno pubblicate 3 edizioni dei promessi sposi:
La prima che a lui non piacque molto poiché non era accessibile a tutti dato che era stata
scritta col dialetto milanese e con l’uso di gerghi di quella città.
Successivamente viene da lui composta la seconda edizione, per la quale MANZONI decide
di trovare una lingua secondo lui accessibile a tutti e in fine decise di usare il fiorentino.
Per quanto riguarda la terza come ho già detto prima verrà fortemente toscanizzata. Le
edizioni che pubblica lui saranno la 2a e la 3a mentre la 1a decise di non pubblicarla anche
se poi non da lui però verrà pubblicata comunque.
Per la nascita del romanzo MANZONI usa il pretesto del rinvenimento di un vecchio
manoscritto del 1600, che fu il culmine della decadenza italiana su tutti i fronti, da cui
prende ispirazione. La vicenda avviene tra il 1628 e il 1630, al tempo della dominazione
spagnola.

In conclusione, la rigorosa morale cristiana proposta da MANZONI suggerisce che la fede


in Dio rende ogni male sopportabile riuscendo a volgerlo in bene.

La poetica di Manzoni si può in definitiva riassumere con la formula: “il vero come
oggetto, l’interessante come mezzo e l’utile come fine”. L’arte insomma deve avere
per fine l’utilità morale e pratica degli uomini; deve fondarsi sul vero storico sulla realtà;
deve servirsi di una materia e argomenti che in interessi il maggior numero possibile di
persone. Quindi questa adesione psicologica e morale alla realtà e riflessione critica su di
essa, sono i principi fondamentali dell’etica morale e letteraria di MANZONI.

PRIMO CAPITOLO
Introduzione

Il primo capitolo de I promessi sposi di Alessandro Manzoni si apre con una descrizione
paesaggistica e con la presentazione del contesto storico: quella del lago di Como,
dei suoi monti e della città di Lecco, del 7 novembre 1628. In questo paesaggio viene
inserito il primo personaggio della storia Don Abbondio, curato di un paese della zona, che
sta tornando a casa dalla sua passeggiata. Purtroppo per lui verrà fermato da due “bravi”
di Don Rodrigo.
Riassunto

Dopo l’Introduzione, la vicenda prende avvio con la celebre descrizione del “ramo del lago
di Como, che volge a mezzogiorno” 1 che, presenta prima lo spazio in cui il romanzo è
ambientato (Il lago, l’Adda, il Resegone, la città di Lecco, la “stradicciola” del apese) poi -
con una specie di “zoom” cinematografico - il personaggio di un modesto curato di
paese, Don Abbondio. Quest’ultimo, che passeggia serenamente leggendo il suo
breviario, incontra ad un bivio due uomini che stanno aspettando proprio lui:

Due uomini stavano, l'uno dirimpetto all'altro, al confluente, per dir così, delle due
viottole: un di costoro, a cavalcioni sul muricciolo basso, con una gamba spenzolata al di
fuori, e l'altro piede posato sul terreno della strada; il compagno, in piedi, appoggiato al
muro, con le braccia incrociate sul petto.
Sono i “bravi”, uomini armati al servizio del signorotto locale, Don Rodrigo, che hanno il
compito di gestire l’ordine e tenere sotto controllo il territorio, eseguendo ovviamente i
desideri del loro signore. In questo caso, i bravi sono stati incaricati da Don Rodrigo
di impedire il matrimonio tra Renzo Tramaglino e Lucia Mondella (che il nobilotto
spagnolo vuole conquistare); matrimonio che don Abbondio avrebbe dovuto appunto
celebrare l’indomani. Per rendere più efficace la loro minaccia i due, oltre a pronunciare,
“in tono solenne di comando”, la famosa frase “questo matrimonio non s’ha da fare,
né domani, né mai” 2, aggiungono il nome di “don Rodrigo”, che gela il sangue al povero
curato, che non può che replicare:
“... Disposto… disposto sempre all’ubbidienza.”

Riassunto capitolo 2 del romanzo I Promessi Sposi

Gli avvenimenti della giornata hanno sconvolto Don Abbondio, che trascorre quindi una
notte agitata. Il curato è tormentato dalla paura per le minacce ricevute, dal pentimento per
la confessione fatta a Perpetua, dalla disperazione di dover trovare subito un modo per non
celebrare il matrimonio e quindi anche dalla paura per la possibile reazione di Renzo. Don
Abbondio decide infine di usare a suo vantaggio la sua esperienza ed autorità per ritardare
con una scusa il matrimonio di almeno cinque giorni, fino ad arrivare al periodo proibito per
le nozze (dall’Avvento all’Epifania) che gli avrebbe dato quindi più ampio respiro.
La mattina dopo, Renzo si reca da don Abbondio di buon ora per definire gli ultimi aspetti
della cerimonia, che avrebbe dovuto svolgersi quello stesso giorno. I modi incerti e
misteriosi con cui viene accolto insospettiscono subito il giovane. La sensazione che ci sia
sotto qualcosa di strano cresce poi durante tutta la conversazione. Don Abbondo finge
inizialmente di non essersi ricordato della data, dice poi di non sentirsi tanto bene ed infine
sostiene che manchino ancora delle formalità da sbrigare prima di poter celebrare le nozze.
Per confondere il ragazzo l’uomo condisce il suo discorso con citazioni latine, ma Renzo lo
interrompe subito ogni volta; famosa la sua frase Che vuol ch’io faccia del suo
latinorum?. Il curato propone infine di rimandare il matrimonio di almeno quindici giorni.
Renzo accetta con amarezza la proposta, saluta e se ne va.
Un volta all’aperto, Renzo, vista passare Perpetua, spinto dal presentimento che il curato
non gli abbia detto tutto, si avvicina alla donna con l’intenzione di scoprire qualcosa di più.
Le parole della serva di Don Abbondio rendono certezze i sospetti del ragazzo, che subito si
precipita in casa del curato con l’intenzione di farlo parlare ad ogni costo. Renzo entra nel
salotto dove si trova l’uomo e chiude la porta a chiave, mettendosela poi in tasca.
L’atteggiamento minaccioso del ragazzo spinge il curato a confessare tutto ed a fare quindi
il nome di Don rodrigo. Don Abbondio vorrebbe che il giovane promettese almeno di non
farne parola, senza però aver successo.
Un volta libero e rimasto solo, Don Abbondio accusa Perpetua di aver parlato (lei però nega
tutto). Le ordina poi di sprangare la porta, comunicando a tutti che il curato è ammalato, ed
infine si ritira in camera da letto, colto realmente dalla febbre.
Uscito dalla casa di Don Abbondio, Renzo cammina infuriato verso casa. Vorrebbe punire
Don Rodrigo e vendicarsi con il sangue del torto subito, il ricordo di Lucia lo raddolcisce
però subito. Nasce in lui anche il dubbio che la ragazza sapesse di Don Rodrigo ma non
avesse detto niente a lui.
Con questi pensieri per la testa, il ragazzo si reca a casa dell’amata, la fa chiamare, e, nel
mentre che aspetta, racconta tutte le vicende ad Agnese, madre di lei. Sentita la storia, Lucia
subito si dispera, lasciando intendere che il gesto di Don Rodrigo non era proprio un
fulmine a ciel sereno: qualcosa era già successo.

DON ABBONDIO
Nei discorsi di Don Abbondio appare la lingua volgare, che ci fa capire che nonostante tutto il curato
era un semplice cittadino, ma quando questi dialoga con Renzo addotta alcuni latinismi che
sottolineano la sua istruzione. Usando questi particolari termini Don Abbondio vuole dimostrare la
sua superiorità e saggezza rispetto al giovane. Nelle prime righe l’autore denomina don Abbondio
principe di Condè. Questo riferimento ironico è scritto per contrapporre la perpetua codardia del
curato con il coraggioso generale.

RENZO
Il secondo personaggio è Renzo, che per la prima volta incontriamo nel romanzo. Il Manzoni ritrae il
ragazzo come un giovane per bene, con una buona posizione economica e laborioso. Non ci descrive
neppure, come con don Abbondio, il suo aspetto fisico, ma si limita solamente ad un quadro psico-
caratteriale. Anche se molto buono e disponibile, Renzo è molto impulsivo, lo si capisce dalla sua
reazione dopo la notizia del rinvio del matrimonio (“Orsù…”) e anche dalla foga con cui vuole sapere
ciò che il curato gli nasconde. Capiamo anche che è molto geloso di Lucia e il sol pensiero di non
riuscire a sposarla lo fa cadere in sconforto e subito pensa a ciò che Don Rodrigo avesse fatto alla sua
bella. Questi pensieri sono resi nel testo con un monologo.
Riappare ancora in questo capitolo l’aiutante del curato: Perpetua. La donna viene interpellata da
Renzo che spera di saperne di più sulle vere motivazioni del rinvio delle nozze. E mantenendo la
promessa non rivela esplicitamente nulla al ragazzo. Ma gli fa capire che alla sorgente di tutto ci sono
i potenti. Si rivela così l‘impeccabile spettegolare di Perpetua.

TERZO CAPITOLO
Nel capitolo terzo dei Promessi Sposi, ambientato nella giornata dell’8 novembre 1628,
rivela il motivo per cui don Rodrigo ha impedito il matrimonio di Renzo e Lucia e spiega
come il giovane, con quattro capponi, si recherà da un avvocato di Lecco per ottenere
giustizia. La missione avrà esito assai infelice.

Riassunto

Il capitolo terzo dei Promessi Sposi si apre con una confessione di Lucia. La giovane
promessa sposa confida, tra le lacrime di vergogna, il tentativo di seduzione da parte
di don Rodrigo avvenuto qualche giorno prima all’uscita dalla filanda dove la giovane
lavora. Il racconto di Lucia mette in luce tra le righe l’arroganza e la volgarità di don
Rodrigo, che impedisce il matrimonio di Renzo e Lucia solo per soddisfare un capriccio
personale: il nobilotto ha infatti scommesso col cugino, il conte Attilio, che avrebbe
sedotto la ragazza 1.

La protagonista, per pudore e per non inquietare la madre, ha confessato tutto soltanto
a Fra Cristoforo, un frate cappuccino che ha avrà un ruolo rilevante nello sviluppo
dell’intreccio. Le reazioni dei personaggi sono antitetiche: Renzo non trattiene l’ira ed
esprime desideri di vendetta violenta nei confronti del nobile 2, mentre Lucia,
scoppiata a piangere, cerca di placare la rabbia del promesso sposo facendo affidamento
sulla speranza nel futuro e nella provvidenza di Dio, che non può permettere che
l’ingiustizia trionfi:

“Ah! no, Renzo, per amor del cielo!” gridò Lucia. “No, no, per amor del cielo! Il Signore
c'è anche per i poveri; e come volete che ci aiuti, se facciam del male?”
[...] “Renzo,” disse Lucia, con un'aria di speranza e di risoluzione più tranquilla: “voi
avete un mestiere, e io so lavorare: andiamo tanto lontano, che colui non senta più
parlar di noi.” 3.

Interviene Agnese, la madre di Lucia, che con la sua saggezza popolare consiglia ai due di
rivolgersi a “un uomo che abbia studiato”, a “una cima d’uomo” 4 come l’avvocato Azzecca-
garbugli. Renzo dunque parte per Lecco, dove si trova l’uomo di legge, portando con
sé quattro capponi, per propiziarsi i favori dell’uomo dell’uomo di legge. Si apre così la
seconda parte del capitolo ambientato nello studio di Azzecca-garbugli, che Manzoni
descrive così:
Era questo uno stanzone, su tre pareti del quale eran distribuiti i ritratti de’ dodici
Cesari; la quarta, coperta da un grande scaffale di libri vecchi e polverosi: nel mezzo,
una tavola gremita d’allegazioni, di suppliche, di libelli, di gride, con tre o quattro
seggiole all’intorno, e da una parte un seggiolone a braccioli, con una spalliera alta e
quadrata, terminata agli angoli da due ornamenti di legno, che s’alzavano a foggia di
corna, coperta di vacchetta, con grosse borchie, alcune delle quali, cadute da gran
tempo, lasciavano in libertà gli angoli della copertura, che s’accartocciava qua e là. 5.
L’avvocato invece viene ritratto in questo modo:
Il dottore era in veste da camera, cioè coperto d’una toga ormai consunta, che gli aveva
servito, molt’anni addietro, per perorare, ne’ giorni d’apparato, quando andava a
Milano, per qualche causa d’importanza 6.
Il narratore fa così chiaramente trasparire l’atmosfera di mediocrità e di
decadenza del personaggio di Azzecca-garbugli, che è un buon simbolo per l’intero
Seicento, che Manzoni, già dall’Introduzione, ha caratterizzato come periodo più attento
all’ipocrita forma esteriore che alla sostanza delle cose. Il problema della giustizia viene
però sviluppato qui attraverso un equivoco comico: Renzo, intimorito di fronte a quello che
crede essere un “signor dottore”, domanda se minacciare un curato, affinché non celebri un
matrimonio, sia un crimine. Però Azzecca-garbugli scambia Renzo per un bravo e,
mostrandogli una “grida” inizia così a parlare nel linguaggio avvocatesco, aumentando la
confusione di Renzo e mettendo in mostra la propria distorsione del concetto di
giustizia, per cui “a saper ben maneggiare le grida”non c’è distinzione tra colpevoli ed
innocenti. Ma non appena il protagonista chiarisce come stanno in effetti le cose e fa il
nome di don Rodrigo, il patetico Azzecca-garbugli lo scaccia in malo modo, non avendo
alcuna intenzione di mettersi contro un potente.
Agnese e Lucia, intanto, ricevono la visita di Fra Galdino, un cappuccino che gira per il
paese per elemosinare delle noci. Lucia, sfruttando la situazione, dona al frate una
cospicua quantità di noci, chiedendole di avvisare fra Cristoforo da parte sua. Renzo,
deluso e amareggiato, torna nel frattempo in paese, combattuto tra i desideri di vendetta e
i consigli dell’amata Lucia di confidare nella Provvidenza divina.

Un personaggio minore: fra Galdino

Se il terzo capitolo dei Promessi sposi è naturalmente incentrato sulla figura di Azzecca-
garbugli e sulla sfortunata spedizionie di Renzo nel suo studio, non va dimenticata la figura
di fra Galdino, che compare in chiusura di capitolo raccontando ad Agnese una piccola
storiella edificante. La parabola di san Macario (un exemplum che giustifica la necessità
della carità cristiana) è assai emblematica della fede semplice ed un po’ ingenua del frate.

Questo personaggio minore ha però una funzione non secondaria nell’intreccio del
romanzo: nel momento in cui il potere religioso (incarnato del pavido Don Abbondio del
primo capitolo) e la giustizia umana (distorta dalle parole ipocrite e meschine di
Azzecca-garbugli) sembrano opporsi al desiderio di giustizia di Renzo e Lucia, ecco che
s’annuncia l’ingresso in scena di quel personaggio, fra Cristoforo, che più si impegnerà
a combattere don Rodrigo e a proteggere i due “promessi sposi”. L’importanza di
questa svolta nella trama è testimoniata anche dalla breve digressione che il narratore si
concede per presentare l’ordine dei frati cappuccini 8:
La parola "frate" veniva, in que' tempi, proferita col più gran rispetto, e col più amaro
disprezzo: e i cappuccini, forse più d'ogni altr'ordine, eran oggetto de' due opposti
sentimenti, e provavano le due opposte fortune; perché, non possedendo nulla,
portando un abito più stranamente diverso dal comune, facendo più aperta professione
d'umiltà, s'esponevan più da vicino alla venerazione e al vilipendio che queste cose
possono attirare da' diversi umori, e dal diverso pensare degli uomini

QUARTO CAPITOLO

Nel quarto capitolo de I promessi sposi il narratore sposta la sua attenzione sul
personaggio di Fra Cristoforo, che si sta recando da Agnese e Lucia. Il capitolo si
sofferma così a ricostruire le vicende passate di questo personaggio e il motivo per cui si
è fatto frate. Il tempo della storia è la mattina del 9 novembre 1628.

Riassunto

Dopo aver saputo della richiesta d’assistenza da parte di Lucia, che già si era confessata
con lui dopo il tentativo di seduzione da parte di don Rodrigo, fra Cristoforo, uscito dal
suo convento a Pescarenico, attraversa la campagna di Lecco. La serena descrizione
della campagna autunnale contrasta con quella delle misere figure popolari che il frate
incontra nel suo percorso:

La scena era lieta; ma ogni figura d’uomo che vi apparisse, rattristava lo sguardo e il
pensiero. Ogni tanto, s’incontravano mendichi laceri e macilenti, o invecchiati nel
mestiere, o spinti allora dalla necessità a tender la mano. [...] Questi spettacoli
accrescevano, a ogni passo, la mestizia del frate, il quale camminava già col tristo
presentimento in cuore, d'andar a sentire qualche sciagura” 2.

L’anticipazione della drammatica carestia che sta sopraggiungendo e la preoccupazione


del frate stuzzica l’interesse del narratore, che, in un lungo flashback che occupa tutto il
capitolo IV, presenta la sua storia passata. Manzoni descrive inizialmente il suo aspetto e
ripercorre la storia della sua giovinezza: i suoi tratti fisici evidenziano aspetti
nascosti del suo carattere, come la sua irrequietezza e fierezza, celate dietro
un’apparente calma e tranquillità. Il frate, il cui vero nome è Lodovico, è figlio di un ricco
mercante ed è stato educato secondo i costumi della aristocrazia
cavalleresca dell’epoca. A causa delle sue origini borghesi, tuttavia, viene rifiutato dai
giovani aristocratici e per la sua “la sua indole, onesta insieme e violenta” si trova a “vivere
co’ birboni, per amor della giustizia”, difendendo la povera gente dai nobili arroganti,
sentendo “un orrore spontaneo e sincero per l’angherie e per i soprusi: orrore reso ancor
più vivo in lui dalla qualità delle persone che più ne commettevano alla giornata; ch’erano
appunto coloro coi quali aveva più di quella ruggine” 3.
È questo spirito combattivo e ribelle, che si rivolta alle ingiustizie del mondo anche
per soddisfare una propria rabbia intima e repressa, che conduce Lodovico all’episodio che
cambierà la sua vita. Infatti, durante un duello scoppiato per futili motivi, Cristoforo, uno
dei servitori del giovane Lodovico, viene ucciso da un rivale, assassinato a sua volta da
Lodovico. Il giovane, che è costretto a rifugiarsi in un convento di cappuccini per sfuggire
alla vendetta dei parenti, cade in un profondo turbamento interiore. In seguito al suo
pentimento e conversione, Lodovico prenderà gli ordini monacali, assumendo il nome del
servitore ucciso. Con questa nuova identità Cristoforo si presenta nel palazzo del nobilee
ucciso per domandare il perdono della famiglia. Inginocchiandosi di fronte al fratello e
confessando la sua colpa, ottiene il perdono e in dono un piatto d’argento con il pane del
perdono.
La sua indole focosa, seppur nascosta, rimane ancora accessa in lui e riemerge, ancora,
di fronte alle ingiustizie perpetrate dai nobili nei confronti della povera gente, come
Renzo e Lucia.

La funzione di fra Cristoforo nel romanzo

Il personaggio di fra Cristoforo è una delle figure centrali del romanzo di Alessandro
Manzoni, come dimostra l’attenzione e la cura con cui l’autore costruisce questo
personaggio. È rilevante infatti l’analisi psicologica e sociale 4 con cui Manzoni
presenta la figura del giovane Lodovico, figlio di una famiglia benestante che però sconta
su di sé il pregiudizio (tipico della mentalità aristocratica) per cui l’attività mercantile è
volgare e degradante. Il desiderio insoddisfatto di Lodovico di integrarsi nel mondo
nobiliare viene frustrato, e ciò amareggia quel carattere condotto da “due cavalli bizzarri” 5,
cui, come già al padre, ricompare sempre di frotne agli occhi, come un’ossessione, l’origine
delle proprie ricchezze 6.
La lunga introduzione concessa a Lodovico sviscera allora le ragioni profonde della
sua avversione per il potere sprezzante di don Rodrigo ma anche il ruolo di
“secondo padre” che egli svolge nei confronti di Renzo; il giovane, infatti, ha ripetuto
spesso nei primi capitoli del libro, la parola “vendetta”, proponendosi a parole di
risolvere con la forza bruta la prepotenza del nobilotto spagnolo. Cristoforo, che ha
conosciuto e scontato le conseguenze della violenza inutile e fine a se stessa, svolge allora
un ruolo fondamentale non solo nell’esser un “aiutante” 7 per Lucia e Agnese
(indirizzandole al convento della monaca di Monza) ma anche convincendo Renzo a
riparare a Milano, in attesa che gli eventi migliorino. Con lui, compare sulla pagina una
figura di religioso nettamente antitetica rispetto a quella, mediocre e timorosa, di don
Abbondio.

QUINTO CAPITOLO

I presentimenti di padre Cristoforo divengono subito certezza quando vede Lucia scoppiare in lacrime e aver
ascoltato il resoconto degli avvenimenti fatti da Agnese. Il religioso promette alle donne di non abbandonarle
e medita poi sulla situazione per definire la prossima mossa: affrontare Don Rodrigo per cercare di
persuaderlo dalle sue intenzione o almeno per riuscire a conoscerle meglio e trovare poi più facilmente un
rimedio. Giunge nel frattempo a casa di Lucia anche Renzo e con innocenza confessa di aver cercato invano
il supporto dei suoi amici per vendicarsi di Don Rodrigo. Padre Cristoforo lo rimprovera, gli fa promettere di
lasciarsi guidare da lui ed infine saluta tutti e si dirige verso il palazzo del prepotente.

IL SERVO conduce il religioso nella sala da pranzo, dove si trovano Don Rodrigo, il cugino conte
Attilio, l’avvocato Azzecca-garbugli (prossimo ad essere ubriaco), il podestà (colui che avrebbe
dovuto far rispettare le grida) ed altri due commensali. Attilio ed il podestà stanno discutendo
animatamente una questione di cavalleria. Padre Cristoforo, pur fermo negli suoi intenti e nel suo
disprezzo per il padrone di casa, non può però fare a meno di provare soggezione e rispetto ora che
si trova alla sua presenza nel suo regno. Don Rodrigo dal canto suo è seccato e preoccupato dalla
presenza del frate e durante tutto il pranzo non manca di provocarlo. Lo forza di fatto a bere del
vino e ad unirsi così alla sua combricola, e lo nomina poi giudice della contesa sulla cavallieria,
schernendo poi le sue risposte umili richiamando alla memoria il passato mondano del religioso.
Don Rodrigo, stanco della disputa tra il cugino ed il podestà, rivolge poi il tema della discussione
sulla guerra per la successione al ducato di Mantova e sulle relative manovre politiche di Spagna,
Francia, Germania e del Papa. Cambia l’argomento ma non cambia il modo di discuterne. Il conte
Attilio ed il podestà riprendono il loro battibecco e don Rodrigo è infine costretto ad intervenire
prima con una occhiataccia al cugino per farlo tacere, poi proponendo un brindisi così da
interrompere gentilmente anche l’altro ospite.
L’elogio dell’avvocato Azzecca-garbugli al vino ed al pasto offerto da Don Rodrigo sono
l’occasione per cambiare nuovamente il tema della discussione. Si parla ora di carestia, tutti sono
d’accordo nell’attribuire la colpa ai fornai, ma rimane comunque sempre un punto di discordia:
Attilio vorrebbe impiccarne subito alcuni per dare l’esempio agli altri, il podestà vorrebbe invece
concedere loro un regolare processo.
Don Rodrigo, stanco della disputa tra il cugino ed il podestà, rivolge poi il tema della discussione
sulla guerra per la successione al ducato di Mantova e sulle relative manovre politiche di Spagna,
Francia, Germania e del Papa. Cambia l’argomento ma non cambia il modo di discuterne. Il conte
Attilio ed il podestà riprendono il loro battibecco e don Rodrigo è infine costretto ad intervenire
prima con una occhiataccia al cugino per farlo tacere, poi proponendo un brindisi così da
interrompere gentilmente anche l’altro ospite.
L’elogio dell’avvocato Azzecca-garbugli al vino ed al pasto offerto da Don Rodrigo sono
l’occasione per cambiare nuovamente il tema della discussione. Si parla ora di carestia, tutti sono
d’accordo nell’attribuire la colpa ai fornai, ma rimane comunque sempre un punto di discordia:
Attilio vorrebbe impiccarne subito alcuni per dare l’esempio agli altri, il podestà vorrebbe invece
concedere loro un regolare processo.

IL PALAZZOTTO DI DON RODRIGO

È la residenza di don Rodrigo, il signorotto che esercita il suo dominio sul paese dei
due promessi, e sorge come una piccola fortezza squadrata su un'altura, a circa tre
miglia dal paese e a quattro dal convento di Pescarenico: è descritto nel cap. V,
quando padre Cristoforo si reca lì per parlare con il nobile nel vano tentativo di farlo
recedere dai suoi propositi su Lucia, e si dice che ai piedi dell'altura c'è un minuscolo
villaggio di contadini che dipendono da don Rodrigo e rappresenta "la piccola capitale
del suo piccol regno". Il villaggio è abitato da sgherri e uomini armati, le cui donne
hanno un aspetto maschio e vigoroso, mentre una piccola strada a tornanti conduce in
alto al palazzo: questo appare al cappuccino come una casa silenziosa, quasi
disabitata, con l'uscio sprangato e piccole finestre chiuse da imposte sconnesse e
consunte dal tempo, protette da robuste inferriate e tanto alte, almeno quelle del pian
terreno, da impedire di arrivarvi facilmente (il luogo è dunque un piccolo castello ben
difeso e protetto). Sulla porta sono inchiodate le carcasse di due avvoltoi, uno dei
quali "spennacchiato e mezzo roso dal tempo", mentre due bravi montano la guardia
sdraiati su panche poste ai lati dell'uscio. L'interno dell'edificio non è mai descritto in
modo dettagliato, salvo col dire che è la residenza signorile di un nobile e lasciando
intendere che vi sono molte sale e salotti: ci viene mostrata direttamente la sala da
pranzo, dove don Rodrigo è a tavola coi suoi convitati nel momento in cui riceve la
visita di padre Cristoforo (cap. V), quindi un'altra sala appartata dove si svolge il
successivo colloquio col cappuccino (VI)

SESTO CAPITOLO

Il sesto capitolo de I promessi sposi occupa il pomeriggio del 9 novembre 1628,


quando fra Cristoforo si reca da don Rodrigo per difendere la povera Lucia: dallo
scontro tra i due emerge la differenza tra i loro caratteri e i loro valori. Successivamente si
descrive come Agnese, Renzo e Lucia, con l’aiuto di Tonio e Gervaso, progettino
un matrimonio clandestino alle spalle di don Abbondio

Riassunto

Il capitolo si apre con le parole che Don Rodrigo rivolge ironicamente a Fra Cristoforo: “In
che posso ubbidirla?” 1. In questo capitolo viene presentato il confronto verbale tra il
signorotto e il frate, giunto nel palazzotto di questo per ottenere giustizia e difendere
Lucia e Renzo dalle prepotenze del nobile. Rodrigo fin dal primo scambio di battute si
dimostra arrogante e sarcastico, prendendosi gioco di Fra Cristoforo e dei due poveri
giovani. Il frate, tuttavia, mantenendo il controllo, risponde alle offese del nobile, fino
all’ironica offerta di protezione di Lucia da parte di Don Rodrigo, che riferendosi alla
giovane afferma: “la consigli di venire a mettersi sotto la mia protezione. Non le mancherà
più nulla, e nessuno ardirà d’inquietarla”. A queste parole Fra Cristoforo, recuperando
tutto il vigore giovanile, non trattiene più l’ira:
La vostra protezione! È meglio che abbiate parlato così, che abbiate fatta a me una tale
proposta. Avete colmata la misura; non vi temo più [...] Parlo come si parla a chi è
abbandonato da Dio, e non può più far paura. [...] Voi avete creduto che Dio abbia fatta
una creatura a sua immagine, per darvi il piacere di tormentarla! Voi avete creduto che
Dio non saprebbe difenderla! Voi avete disprezzato il suo avviso! Vi siete giudicato 2.
Infine pronuncia un ammonimento finale che spaventa il signorotto, proprio perché gli
predice qualcosa di sconosciuto, che don Rodrigo non sa identificare con precisione 3. Il
nobile caccia Fra Cristoforo dalla sua abitazione, ma il frate viene avvicinato da un
servitore di Rodrigo, che si propone di osservare e riferire le mosse del padrone, che a
quanto pare sta architettando qualcosa. Risollevato dall’offerta d’aiuto, il frate si
incammina verso casa di Lucia, dove l’attendono i due giovani e Agnese.
Il narratore sposta il suo punto di vista su tre personaggi che stanno pianificando, su
iniziativa della madre della protagonista, un matrimonio alternativo. La pragmatica
Agnese propone infatti di sorprendere nottetempo Don Abbondio e obbligarlo a sposare i
due giovani, pronunciando di fronte a lui, alla presenza di due testimoni, la formula
matrimoniale. Renzo appare subito convinto del piano, mentre Lucia presenta i suoi dubbi,
dovuti alla sua fiducia incrollabile nel disegno della Provvidenza e 4. Renzo, assai
impulsivo, mette a tacere la ragazza e corre in cerca di due testimoni: Tonio e suo
fratello Gervasio. All’amico Renzo proporrà all’amico di pagargli un debito con don
Abbondio in cambio del suo favore.
Al ritorno a casa, Renzo prova ancora a spiegare le proprie ragioni a Lucia, prima
dell’arrivo di fra Cristoforo.

I dialoghi del sesto capitolo

Il capitolo sesto è costruito principalmente su tre grandi scene dialogate: quella tra fra
Cristoforo e don Rodrigo, quella a tre fra i due protagonisti e Agnese, quella all’osteria tra
Renzo e Tonio.

Nel primo caso, il confronto tra i due uomini è teso e drammatico: mascherato inizialmente
dal linguaggio e dalle convenzioni della cortesia aristocratica (come si vede già
dall’incipit) i due sfidanti cedono a poco a poco a toni più accesi e sarcastici, fino alla
“minaccia” finale pronunciata dal frate cappuccino nei toni aspri di una profezia.

Il dialogo tra i due “promessi sposi” è più rapido e mosso, aperto subito da una proposta di
Agnese, che mette in luce il suo pragmatismo e il suo spirito d’intraprendenza 5; se Lucia
è da subito riluttante, Renzo, assecondando la propria ingenua impulsività (la stessa
che lo metterà nei guai a Milano) , vi si getta a capofitto. Manzoni mette in rilievo
questa differenza caratteriale proprio ricorrendo alle parole dirette dei tre
personaggi, che li caratterizzano e li qualificano nelle loro idee. Ecco la serie di
argomentazioni, più appassionate che razionali, con cui il protagonista tenta - senza troppo
successo - di convincere l’amata della bontà del piano segreto:

“Lucia,” disse Renzo, “volete voi mancarmi ora? Non avevamo noi fatto tutte le cose da
buon cristiani? Non dovremmo esser già marito e moglie? Il curato non ci aveva fissato
lui il giorno e l'ora? E di chi è la colpa, se dobbiamo ora aiutarci con un po' d'ingegno?
No, non mi mancherete. Vado e torno con la risposta –. E, salutando Lucia, con un atto
di preghiera, e Agnese, con un'aria d'intelligenza, partì in fretta 6.

L’incontro tra Renzo e Tonio, sullo sfondo dell’osteria dove Renzo porta l’amico per
illustrargli il piano, è invece caratterizzato da un tono da commedia teatrale, in cui lo
scambio comunicativo avviene per esclamazioni, gesti, frasi lasciate o metà o espressioni
popolari:

“Ah, Renzo, Renzo! tu mi guasti il benefizio. Con che cosa mi vieni fuori? M'hai fatto
andar via il buon umore”.
[...] “Ma, ma, se tu mi vuoi fare un servizietto, le venticinque lire son preparate”.
“Dì su”.
“Ma...!” disse Renzo, mettendo il dito alla bocca.
“Fa bisogno di queste cose? tu mi conosci”.
[...] “Così l'intendo”.
“Birba chi manca”.
“Ma bisogna trovare un altro testimonio”.
“L'ho trovato. Quel sempliciotto di mio fratel Gervaso farà quello che gli dirò io. Tu gli
pagherai da bere?”
“E da mangiare,” rispose Renzo. “Lo condurremo qui a stare allegro con noi. Ma saprà
fare?”
“Gl'insegnerò io: tu sai bene ch'io ho avuta anche la sua parte di cervello”.
[...] “Ma, se tua moglie ti domanda, come ti domanderà, senza dubbio…”
“Di bugie, sono in debito io con mia moglie, e tanto tanto, che non so se arriverò mai a
saldare il conto.
Qualche pastocchia la troverò, da metterle il cuore in pace.

SETTIMO CAPITOLO
Renzo, irritato dalle notizie appena ricevute e dall'opposizione di Lucia al progetto di
matrimonio di sorpresa, dà in escandescenze. Alla fine Lucia cede e accondiscende (a
malincuore) al piano della madre. Renzo torna infine a casa. Agnese e Renzo
stabiliscono insieme i dettagli del piano di matrimonio di sorpresa, mentre Lucia resta
in disparte. Seguendo le indicazioni di fra Cristoforo, Agnese invia poi al convento
Menico, un ragazzino suo parente. Per tutta la mattinata, dei loschi figuri vestiti da
viandanti e da pellegrini si aggirano nelle vicinanze della casa di Lucia, curiosando
anche all'interno dell'abitazione. Dopo lo scontro con padre Cristoforo, don Rodrigo,
furibondo per non esser riuscito ad intimorire il frate e turbato per quel "Verrà un
giorno...", cammina per il palazzo al cospetto dei ritratti dei suoi avi, che sembrano
rimproverarlo per la sua debolezza. Per dimenticare l'episodio il nobile esce, scortato
dai bravi, per una passeggiata trionfale, durante la quale egli viene ossequiato da tutti.
Tornato al palazzotto, egli viene però deriso dal conte Attilio; risentito, raddoppia
allora la posta dell'infame scommessa.

8 CAPITOLO
Introduzione

Il capitolo VIII de I promessi sposi, ambientato tra la sera e la notte del 10 novembre
1628, descrive il tentativo di nozze segrete tra Renzo e Lucia e il fallito rapimento di Lucia
da parte di “bravi” di don Rodrigo. In seguito, i due protagonisti e Agnese scappano in
direzione del convento di Pescarenico di fra Cristoforo e Lucia, consapevole che non
rivedrà per lungo tempo i luoghi della sua vita, si abbandona all’addio ai monti, mentre la
barca percorre la riva destra dell’Adda

Riassunto

Il capitolo VIII de I promessi sposi si sviluppa su alcune grandi sequenze


narrative, che si riuniscono poi in una sequenza centrale: il tentativo di Renzo e Lucia
di sposarsi di nascosto e di sorpresa; il tentato rapimento di Lucia da parte dei
bravi; e il tardivo intervento di Menico, mandato da Fra Cristoforo, per avvertire i giovani
dell’arrivo dei bravi. Questi tre eventi sono destinati al fallimento. In questo capitolo viene
presentata quella che Manzoni stesso definisce “la notte degl’imbrogli e de’ sotterfugi”, in
cui vengono concentrati tutti e tre questi fattori.
Nella prima sequenza i due testimoni Tonio, debitore di Don Abbondio, e Gervasio
giungono a casa del curato. Mentre Agnese distrae Perpetua, Renzo e Lucia si introducono
di nascosto nella dimora di Don Abbondio, cercando di obbligarlo a sposarli, pronunciando
di fronte a lui la fatidica frase. Il curato tuttavia, spegnendo le candele e iniziando a
gridare, mette in fuga i due sposi. Perpetua viene allertata dai rintocchi della campana
suonata dal sagrestano. Manzoni mette qui in luce l’ingiustizia di cui sono vittime
Renzo e Lucia; il capovolgimento dei ruoli tra oppressori ed oppressi - dice ironicamente
il narratore in una breve pausa riflessiva - è un costume tipico del “secolo decimo
settimo”:
Renzo, che strepitava di notte in casa altrui, che vi s’era introdotto di soppiatto, e teneva
il padrone stesso assediato in una stanza, ha tutta l’apparenza d’un oppressore; eppure,
alla fin de’ fatti, era l’oppresso. Don Abbondio, sorpreso, messo in fuga, spaventato,
mentre attendeva tranquillamente a’ fatti suoi, parrebbe la vittima; eppure, in realtà, era
lui che faceva un sopruso. Così va spesso il mondo... voglio dire, così andava nel secolo
decimo settimo 1.
Il suono delle campane battute a martello dal sagrestano Ambrogio spostano la narrazione
sul tentativo di rapimento di Lucia da parte dei bravi di don Rodrigo 2, e degli
spostamenti dei protagonisti principali. La missione del “signor Griso” e della sua
“truppa” 3 si conclude però in maniera quasi comica: gli sgherri del Griso non trovano
nessuno, se non il povero Menico, un ragazzino inviato da Agnese e Lucia da fra
Cristoforo (cui un servo di don Rodrigo aveva svelato i piani del nobilotto spagnolo), per
avvisarle del grave pericolo. I “bravi”, spaventati dal suono delle campane e dal timore
d’essere scoperti, lasciano fuggire Menico e vengono trattenuti a stento dal Griso, prima
che fuggano terrorizzati.
Il narratore sposta però un’altra volta il suo occhio, concentrandosi su quel che avviene a
Perpetua e Agnese; la madre di Lucia, che ha distratto la serva di don Abbondio per
facilitare il matrimonio segreto, incrocia Renzo e la figlia (con Tonio e Gervaso al seguito).
Menico, che sopraggiunge di corsa, li indirizza da fra Cristoforo, che saprà provvedere al
loro destino; nel frattempo, gli abitanti del paese si radunano sotto casa di don Abbondio e
poi marciano su casa di Agnese.
L’arrivo dei tre personaggi rincuora fra Cristoforo, che fa entrare due donne nel convento
nonostante gli scrupoli dello zelante fra Fazio, preoccupato dall’applicazione letterale
delle regole del convento 4. Fra Cristoforo convince innanzitutto Renzo e Lucia a
sopportare la situazione:
È una prova, figliuoli: sopportatela con pazienza, con fiducia, senza odio, e siate sicuri
che verrà un tempo in cui vi troverete contenti di ciò che ora accade 5.
e li convince poi a lasciare il paese: Lucia andrà in un convento poco distante dal paese,
mentre Renzo troverà rifugio in un convento di Milano. Il capitolo si conclude con il
celebre “Addio ai monti”, una delle parti più liriche del romanzo, in cui il narratore esterno
presenta, come mediatore tra personaggio e lettore, i tristi pensieri di Lucia, mostrandone i
sentimenti e la commozione.

L’ironia e il comico nel capitolo ottavo dei Promessi sposi

Il capitolo ottavo dei Promessi sposi, uno dei più movimentati e ricchi di avvenimenti di
tutto il romanzo, è caratterizzato da una fitta presenza di elementi comici ed
ironici, che fanno quasi da controcanto alla drammaticità degli eventi rappresentati.
L’incipit del capitolo è dedicato a don Abbondio, che si intrattiene nella lettura di un
“panegirico in onore di san Carlo” 6, interrotta con la nota battuta sull’ignoto Carneade:
“Carneade! Chi era costui?” 7
L’ironia contiene qui un sottofondo amaro: il personaggio pare più preoccupato di
capire chi è lo sconosciuto filosofo piuttosto che di svolgere il proprio compito, tutelando la
libertà di Renzo e Lucia. Il prevalere in don Abbondio degli interessi materiali è esplicito
anche nel dialogo a botta e risposta con Tonio, che intrattiene il curato per permettere
ai due protagonsiti di penetrare in casa e pronunciare la formula matrimoniale 8. E
naturalmente comica sarà la caotica scena del “serra serra” 9 successiva al fallito
matrimonio di Renzo e Lucia, con i goffi tentativi di don Abbondio di salvarsi e di chiedere
aiuto.
L’elemento comico, con punte di sarcasmo da parte del narratore, è evidente anche
quando compaiono in scena il Griso e i suoi “bravi”. Il primo si traveste da innocente
pellegrino e, in maniera antifrastica, dice ai suoi uomini di muoversi “da bravi” 10; gli altri,
quando sono presi dal panico per il rumore delle campane, sono colpiti da un paragone
degradante del narratore, che li accomuna a una mandria di porci allo sbando:
Ci volle tutta la superiorità del Griso a tenerli insieme, tanto che fosse ritirata e non
fuga. Come il cane che scorta una mandra di porci, corre or qua or là a quei che si
sbandano; ne addenta uno per un orecchio, e lo tira in ischiera; ne spinge un altro col
muso; abbaia a un altro che esce di fila in quel momento; così il pellegrino acciuffa un di
coloro, che già toccava la soglia, e lo strappa indietro; caccia indietro col bordone uno e
un altro che s'avviavan da quella parte: grida agli altri che corron qua e là, senza saper
dove; tanto che li raccozzò tutti nel mezzo del cortiletto 11.
È infine da notare che ogni sequenza narrativa del capitolo si conclude con un
sostanziale insuccesso: Renzo e Lucia non riescono a sposarsi, i “bravi non rapiscono la
preda ambita da don Rodrigo, fra Cristoforo non può avvisare in tempo i “promessi sposi”
del rischio che corrono. È una dimostrazione, per Manzoni, che la volontà e i desideri degli
uomini sono spesso sconvolti dal caso, e che il “cuore” umano sa poco o nulla
del grande ed inestricabile mistero del mondo:
Certo, il cuore, chi gli dà retta, ha sempre qualche cosa da dire su quello che sarà. Ma
che sa il cuore? Appena un poco di quello che è già accaduto 12

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