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METODOLOGIE DI MEDICINA DI LABORATORIO

LEZIONE 2: Valutazioni di laboratorio del Pancreas Esocrino

Cominciamo a parlare della funzionalità del pancreas, ed oggi in particolare, del pancreas esocrino.
Il pancreas è quest’organo la cui testa si incunea in questa “C” formata dal duodeno, ed il corpo (o
coda) si allunga, libero nelle anse intestinali.

È, microscopicamente, formato da queste unità


dette acini, in cui sono presenti le cellule
acinari. Queste sono deputate alla produzione e
alla secrezione degli enzimi pancreatici, che
servono per la digestione di ogni componente:
zuccheri, proteine e soprattutto grassi. In mezzo
a questi acini si trovano le cosiddette isole
pancreatiche, che possono essere di diverso
tipo: α, β, δ, PP cell e così via.

A cosa servono le cellule delle isole


pancreatiche? Tutte le isole costituiscono la
parte endocrina del pancreas, e quindi riversano il proprio contenuto nei vasi sanguigni:

 le isole α che producono glucagone, con proprietà iperglicemizzante;


 le isole β producono l’insulina, con proprietà principalmente ipoglicemizzante, ma coinvolta
anche in un’infinità di pathway metabolici;
 le isole δ producono somatostatina;
 le isole PP producono il polipeptide pancreatico che ha una funzione di facilitare la motilità
intestinale.

Ci occuperemo della parte esocrina quindi della parte delle cellule acinari che producono il succo
pancreatico, in particolare gli enzimi, insieme alle cellule del dotto che modificano il pH, con una
secrezione abbondante di bicarbonato, e producono muco utile per mantenere in forma inattiva gli
enzimi pancreatici fino a quando il succo non si riversa nel duodeno.

Tutte queste unità (acini) si


ricollegano al dotto pancreatico
principale (dotto pancreatico
maggiore o dotto di Wirsung) che
sfocia nel duodeno (mediante
l’ampolla del Vater). A questo
livello si nota anche la presenza di
un altro dotto, che arriva dal fegato
e dalla cistifellea (coledoco), che
porta la bile. Questa formazione è
varia in diversi individui: in alcuni,
la giunzione coledoco-dotto
pancreatico maggiore avviene un
po’ più a monte (e poi sfociano nel
duodeno come unico dotto); in altri
individui questi due dotti sono separati, viaggiano adiacenti, e sfociano “quasi indipendentemente”
nel duodeno. Queste sono caratteristiche anatomiche che creano problemi soprattutto quando si è in
presenza di calcoli, sia provenienti dai dotti pancreatici, sia provenienti dai dotti biliari, che possono
determinare ostruzione della parte finale di questi dotti o della parte precedente allo sbocco nel
duodeno.

La parte esocrina produce questi


succhi pancreatici che sono formati
principalmente da:

 acqua e ioni (elettroliti),


soprattutto bicarbonato e
sodio, che servono per
alcalinizzare il pH del succo e
neutralizzare, una volta
riversato nel duodeno, il pH
del succo acido proveniente
dallo stomaco;
 da una serie di enzimi
proteolitici, amilasi, lipasi e
ribonucleasi (per la digestione degli acidi nucleici). Tutti questi enzimi sono prodotti in
forma di zimogeni, ovvero in forma inattiva, proprio per evitare che autodigeriscano le
cellule che li producono.
Questa è la cascata di attivazione: il tripsinogeno viene attivato da un enteroproteasi, che si trova
sulla superfice delle cellule epiteliali dell’intestino, in tripsina, e questa serve ad attivare tutti gli
altri zimogeni.

Dunque da questo punto di vista è indispensabile che


questi enzimi rimangano in una forma inattiva per
evitare problemi all’interno del pancreas: se questo
non avviene, possiamo riscontrare una serie di
problematiche sia in forma acuta che in forma cronica.

Di solito, le pancreatiti acute derivano dall’attivazione precoce degli enzimi all’interno delle
cellule acinari; naturalmente tale inappropriata inattivazione determina la lisi delle cellule con il
rilascio degli enzimi pancreatici e di tutto quello che c’è nella cellula in circolo. Questo può essere
rilevato anche a livello sierico, come avviene per il fegato quando si ha citolisi delle cellule
epatiche, la quale produce un innalzamento delle transaminasi.

Poi si possono riscontrare forme croniche, dove la problematica è “minore” ma essa perdura nel
tempo. La problematica principale è la sostituzione fibrotica del parenchima esocrino del pancreas,
cioè le cellule acinari vengono man mano sostituite da tessuto fibrotico. Ciò si accompagna ad una
serie di caratteristiche, che si vanno a valutare in medicina di laboratorio per distinguere
problematiche croniche da quelle acute:

 ridotta produzione di enzimi pancreatici;


 alterata digestione (conseguenza della riduzione degli enzimi);
 riduzione degli enzimi pancreatici nelle feci;
 presenza di elementi indigeriti nelle feci.
Questo grafico permette di vedere quali sono le cause principali delle pancreatiti, soprattutto di
quelle acute:

1. calcoli (45%, forse anche di più);


2. alcool (35%): di solito si pensa agli effetti
epatici, sebbene anche il pancreas ne
risenta;
3. idiopatiche (10%): in cui sono
raggruppate le pancreatiti per cui si ha la
relativa sintomatologia, ma di cui non si
conoscono le cause;
4. altre (10%): cause genetiche o ereditarie.

L’ostruzione dei dotti biliari (coledoco) per


via di calcoli, in caso di comunicazione dei
dotti, può interessare direttamente il dotto
pancreatico, in quanto il calcolo può
scendere nel dotto pancreatico andando ad
occluderlo (riducendone la pervietà); in
caso di adiacenza dei dotti (mancata
comunicazione) il calcolo biliare può
comunque, per pressione, restringere il
dotto pancreatico. Questo determina, anche
in assenza della condizione di attivazione
prematura degli enzimi del succo
pancreatico, il ristagno degli enzimi in
forma di zimogeni che esita nell’attivazione
di questi enzimi con conseguente

infiammazione, edema e così via.

Altre cause di pancreatiti: droghe; disordini


metabolici; fibrosi cistica; ulcere duodenali;
infezioni virali. L’alcool ha un ruolo
determinante nella patogenesi delle pancreatiti
acute.
Diagnosi di laboratorio

Amilasi e Lipasi sono i due enzimi principali che sono valutati in medicina di laboratorio per la
diagnosi di pancreatite acuta. Sia per amilasi che per lipasi bisogna avere almeno una triplicazione
dei valori riscontrati rispetto al valore massimo di riferimento per fare una diagnosi positiva di
pancreatite acuta.

Amilasi1: la sensibilità (diagnostica del test) dell’amilasi è dell’85%: ciò significa che se dosiamo
l’amilasi in persone con sospetta pancreatite possiamo avere un 15% di pazienti Falsi Negativi
(cioè pazienti che sono affetti da pancreatite, ma che per il test rientrano nei valori di riferimento)
[la Sensibilità Diagnostica è la capacità del test di individuare la percentuale di affetti in un gruppo
di pazienti: se è dell’85%, perdiamo la capacità di discriminare come affetti un 15% di pazienti
effettivamente malati, dichiarandoli Falsi Negativi].
Inoltre vi è un altro problema per l’amilasi: esso è un enzima prodotto anche da altri distretti, come
le ghiandole salivari e da altri organi [intestino, tube di Falloppio, tiroide e leucociti]. Dunque
dosare l’amilasi non ci dice con certezza che si è in presenza di problema pancreatico, ma
potremmo essere in presenza di qualche altro problema. Ci sarà un modo per distinguere l’amilasi
pancreatica da quella di altri distretti ?
È possibile distinguere l’amilasi pancreatica da quella prodotta in altri distretti:

 si può dosare l’isoenzima pancreatico dell’amilasi nel siero per immunometria;


 si può dosare l’isoenzima P3 dell’amilasi per elettroforesi.

Il paziente sofferente di pancreatite in fase acuta non può sottoporsi a tutte queste indagini e sotto-
indagini per andare a capire se è effettivamente pancreatite: le linee guida, dicono, infatti, che basta
il dosaggio della lipasi (che è invece un enzima specifico del pancreas), e che l’ottenimento di
valori tre volte superiori a quelli di riferimento è sufficiente ad effettuare diagnosi di pancreatite
acuta. Tale dosaggio è molto più veloce e sensibile.

1
: per test dell’amilasi si intende dosaggio dell’amilasi sierica.
In linea generale, è meglio soffrire di forme acute di pancreatiti, poiché come avviene per altri
organi che hanno un alto tasso rigenerativo come fegato ed appunto lo stesso pancreas, se
quest’ultimo è tenuto sotto stress rischiamo di creare infiammazione e favorire i processi di
proliferazione cellulare: se qualche cellula “scappa” al controllo, la pancreatite può esitare in cancro
e metastasi (e il cancro al pancreas è uno dei tumori che, oggi, per via dell’anatomia e della
posizione dell’organo, può sviluppare masse tumorali che neanche per via di problematiche di
malassorbimento spesso vengono diagnosticate tempestivamente, ma si rilevano solo in fase
avanzata in cui il tumore ha generato metastasi ed è di difficile trattamento).

Dunque, per quanto riguarda le pancreatiti acute, cosa si va a misurare? Si misura lipasi ed amilasi,
naturalmente tenendo presente che la lipasi è quella che conta maggiormente tra le due.

Lipasi2: per quanto riguarda le pancreatiti acute si va a misurare la lipasi, principalmente, e


l’amilasi. Ovviamente tenendo presente che la lipasi è quella specifica: dunque in caso in cui la
lipasi è normale e l’amilasi è alta, possiamo escludere problematiche pancreatiche.

Abbiamo detto che nella fase acuta quello che succede di solito è o per attivazione precoce degli
enzimi pancreatici all’interno delle cellule o del dotto per via di ostruzione, o per cause genetiche, si
ha un fenomeno intenso, acuto appunto.

2
: si intende dosaggio della lipasi sierica.
Le pancreatiti croniche, invece, non sono dovute a questa tipologia di problemi, ma possono
essere dovute ad altre problematiche, che portano a riduzione della sintesi di enzimi con minore
assorbimento dei nutrienti. Per quanto riguarda le analisi di laboratorio, se una persona lamenta lievi
dolori addominali e sintomi di malassorbimento, si possono fare diverse cose, alcune più semplici
altre meno.

 Metodi invasivi - test della stimolazione secretiva: questo è il test che con più sicurezza ci
permette di fare diagnosi di pancreatite cronica, però è anche il test più invasivo e
complicato. Si effettua in centri attrezzati: per fare questo test si stimola la secrezione dei
succhi pancreatici e si prelevano direttamente questi succhi dal duodeno per valutarne la
concentrazione (questo tipo di test non è alla portata di tutti; la cosa che più comunemente si
fa nei laboratori è quella di valutare la concentrazione di alcuni enzimi nelle feci);
 Metodi non invasivi – valutazione degli enzimi nelle feci: naturalmente gli enzimi che
vengono riversati nel duodeno, assolvono la loro funzione, e vengono escreti con le feci. Tra
i vari enzimi prodotti dal pancreas, quello che viene di solito dosato è l’elastasi, questo
perché è l’enzima che riesce ad essere escreto immodificato (mentre gli altri enzimi vengono
degradate, e la loro concentrazione può variare) e non subisce problemi di variazioni di
concentrazione: naturalmente se la sua concentrazione è diminuita, c’è qualche problema;

– misurazione della quantità di grassi nelle feci: questo test è


complementare al test dell’elastasi, nel senso che in questo caso si va a misurare la quantità
di nutriente che non viene assorbito (per mancanza di enzimi). Si valutano i grassi poiché i
grassi vengono digeriti solo da enzimi pancreatici, che ne permettono l’assorbimento
(l’amilasi salivare attua una prima digestione a livello orale, e dunque non è possibile
discriminare l’effetto pancreatico sugli zuccheri; le proteine a livello gastrico): per questo
sono gli unici che possono indicare problemi di malassorbimento a carico del pancreas. È
possibile effettuare la misurazione in tre modi:
1) Bilancio fecale dei grassi (gold standard, serve ad
indicare in maniera univoca se c’è problematica
pancreatica): consta nella raccolta delle feci per tre giorni
consecutivi e la successiva quantificazione dei grassi (anche
se si possono quantificare tutte le altre componenti). Questa è
un’analisi strettamente quantitativa (poi ci sono i test
qualitativi, che sono più pratici e più economici, e ci possono
dire se c’è una variazione, anche se in
maniera non propriamente
quantitativa);
2) Staining delle feci: metodo di
misurazione della componente grassa
non strettamente quantitativo ma più
qualitativo. Ad esempio si fa la
colorazione con Sudan III di una
piccola quantità di feci. Si potrebbe
anche quantizzare (sebbene non in
maniera assoluta), valutando l’intensità
della colorazione, e da questa
discriminare una condizione patologica
solo se la colorazione del campione
totale è oltre il 20%. Questo tipo di
esame è dipendente dalla dieta, ed in
particolare dall’assunzione di cibi grassi
precedente all’esecuzione: tuttavia
presenta una specificità e sensibilità
diagnostica del 90%;
3) Steatocrito: verifica della quantità di
grassi in una piccolissima quantità
(500mg) di feci, che vengono
acidificate. Tale miscela acquosa
acidificata viene aspirata in un capillare:
i grassi formano la fase alta, il liquido la
fase centrale e la parte solida la fase
bassa. Facendo il rapporto
[S%=FatLayer/(FL+SolidLayer) * 100] in percentuale dell’altezza della fase alta rispetto al
resto [il razionale è che se vi è bassa presenza di lipasi pancreatiche, la quantità di grassi
sarà maggiore]. Ha una sensibilità del 100% e specificità del 95%, e dipende dall’apporto
di grassi dalla dieta (in generale, questi test vengono fatti dopo una dieta regolamentata nei
giorni precedenti agli esami).
Diagnostica delle Pancreatiti Ereditarie

Risale al 1952 il primo lavoro che ha identificato come causa di pancreatite una componente
ereditaria: si ritrovò una famiglia con più di un
componente affetto da questa malattia. Queste
sono le condizioni dettate dalle linee guida per
definire la malattia familiare. Le pancreatiti
ereditarie sono pancreatiti acute ricorrenti o
croniche, con esordio precoce entro i primi 10
anni di vita (mentre nelle condizioni non
ereditarie l’esordio è più tardivo, perché
intervengono più gli altri fattori ambientali
(alcol, fumo etc.); nei casi ereditari c’è
ovviamente una predisposizione, una
componente genetica che facilità l’insorgenza
di questa patologia anche in assenza dei comuni
fattori etiologici, come alcool e droghe). È
presente familiarità, ovvero più di un
componente presenta la stessa patologia e di
solito l’esordio è lieve. Essendo soprattutto
patologie “croniche”, portano a calcificazioni e
poi a processi fibrotici.

Dati della Campania: incidenza di 3-10 casi ogni 100000 nati/anno, e in teoria porterebbe a 180-600
casi/anno solo in Campania. Chiaramente non è proprio così, se si consultano i registri annuali, i
casi registrati saranno sicuramente meno: questo può dipendere dalla variabilità della
predisposizione genetica, che quindi è un rischio di sviluppare la patologia che si concretizza con
l’azione di fattori ambientali; o dipendere dal fatto che una buona parte di questi pazienti rientrano
nel gruppo degli affetti da Fibrosi Cistica, che possono soffrire di questa patologia pancreatica.

La cronicità/ricorrenza della patologia porta ad un rischio 60 volte più alto che questi pazienti
sviluppino cancro del pancreas.
I geni che si utilizzano in medicina di laboratorio per fare diagnosi di pancreatite ereditaria:

 SPINK1: codifica per una proteina che impedisce l’attivazione di tripsina dal
tripsinogeno. Se questo gene ha mutazione e non può assolvere a questa funzione, si ha
una maggiore attivazione della tripsina;
 CFTR: questo è in collegamento con la Fibrosi Cistica, esercita il suo compito a valle
dell’attivazione della tripsina. CFTR è un canale che principalmente trasporta Cl- ma
anche HCO3- (bicarbonati) e serve a regolare il pH nei dotti pancreatici e nel duodeno; la
mancata funzione di CFTR e la deregolazione di questi equilibri porta ad una maggiore
attivazione del tripsinogeno.

L’attivazione del tripsinogeno porta ad una cascata proteolitica di autodigestione e pancreatite. A


seconda delle mutazioni, il processo può essere un po’ più lieve rispetto a quello che si verifica in
pancreatite acuta non ereditaria, ed avvenire un po’ per volta ed è dunque cronico, anche se si
possono avere degli episodi acuti.
 PRSS1: codifica per il tripsinogeno cationico. Non tutte le mutazioni di questo gene
portano alla stessa alterazione: ci sono mutazioni che portano ad un’attivazione
maggiore del tripsinogeno in tripsina e mutazioni che inibiscono la degradazione della
tripsina attivata (e come mantenere per più tempo la tripsina attivata e rischiare
l’autodigestione); ci sono inoltre mutazioni che alterano il riconoscimento del
tripsinogeno da parte di SPINK1, che non può inibirne l’attivazione.

Processo fisiologico di attivazione del tripsinogeno: il tripsinogeno viene trasportato nel lume
intestinale dove viene attivato da enteroproteasi attaccate all’epitelio intestinale. In condizioni
patologiche, se il tripsinogeno viene attivato aspecificamente interviene SPINK1 che ne blocca
l’azione, inattivandolo. Se SPINK1 non funziona, la tripsina attivata inizia la degradazione;
l’attività della tripsina può essere favorita da mutazioni inattivanti di CFTR. CFTR serve a regolare
il pH del succo pancreatico nel dotto pancreatico: il mancato equilibrio alcalino di questa soluzione,
derivato da inattivazione di CFTR, favorisce l’attivazione precoce della tripsina. Dunque ci sono
mutazioni di PRSS1 (gene per il tripsinogeno) che portano ad un’attivazione maggiore del
tripsinogeno in tripsina, e mutazioni che diminuiscono la degradazione della tripsina, e quindi è
come mantenere per più tempo la tripsina attivata e rischiare sempre l’auto-digestione.
L’ analisi molecolare di questi pazienti, e per questi geni, si fa quando si hanno pazienti con
pancreatite acuta ricorrente o cronica, quando si è in presenza di più affetti nella stessa famiglia
(familiarità), quando l’esordio è precoce e quando non si conoscono altri fattori scatenanti tale
patologia (pancreatite idiopatica).

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