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Indice

Direttore
Eugenio Balsamo

Direttore responsabile
Luciano Lucarini

Rivista quadrimestrale Anno 11 n. 34-2014


Issn 2038-8942

Viale delle Medaglie d’Oro, 73


Editoriale 00136 Roma
Tel. 06/45468600
5 Vecchi e Fax 06/39738771
nuovi virus Rivista fondata da
Italo Inglese Aldo Di Lello

COMITATO DI REDAZIONE:
Luciano Garibaldi, Raffaele Cazzola Hofmann,
Andrea Marcigliano, Alberico Travierso,
VIRUS Pietro Romano, Antonio Pannullo, Salvatore
Santangelo, Bruno Tiozzo, Giorgio Torchia

19 Un mondo costretto ad COMITATO SCIENTIFICO:


Franco Cardini, Salvatore Prisco,
avere paura. E rabbia Daniela Santus, Francesco Crocenzi,
Gianfranco De Turris,
Federico Eichberg, Domenico Fisichella,
Eugenio Balsamo Gennaro Malgieri, Adolfo Morganti,
Enrico Nistri, Gaetano Rasi,
Raoul Romoli Venturi,
Antonio Saccà, Fabio Torriero
35 L’Africa trema per la
peggiore epidemia di ebola HANNO COLLABORATO A “IMPERI”
Carlo Jean, Adolfo Urso,
Marco Cochi Alfredo Mantica, Nazzareno Mollicone,
Luca Galantini, Gerardo Picardo,
Luigi Ramponi, Aleksandr Dugin,
Paolo Quercia, Luciano Arcella,
Michele Guerriero, Francesco Demattè,
49 Internet, untore Giano Accame, Andrea Cucco,
o manipolatore? Shaykh ‘Abd al-Wahid Pallavicini,
Sara Buzzurro, Gianluca Scagnetti,
Alessandro Grossato, Federico Guiglia,
Maria Grazia Leo Giovanni Perez

PROGETTO GRAFICO: Francesco Callegher


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Indice

66 La virilità della jihad 2.0: 109 Oligarchie, il virus che


i foreign fighter minaccia il mondo
Alberico Travierso Andrea Marcigliano

81 Quando il contagio
127 Sinofobia? Il Dragone (non)
è finanziario
fa paura
Francesco Crocenzi
Alberico Travierso

93 Marine Le Pen, la destra


141 Sociologia della crisi
non spaventa più
e dell’anticrisi
Massimo Ciullo
Antonio Saccà

164 Geoscaffale
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Editoriale 5

Vecchi e nuovi virus

Italo Inglese

sistono virus della carne e virus dello spirito, i se-


Econdi non meno devastanti dei primi. Esistono an-
che virus informatici, che attaccano, per una legge del
contrappasso, la stessa intelligenza artificiale che li ha
resi possibili.
SI DIFFONDE UN VIRUS Mentre ricompaiono in Occi-
dente malattie che sembrava-
DELL’ANIMA PARTICOLARMENTE no per sempre debellate e
AGGRESSIVO: LA PEDAGOGIA nuove spaventose calamità,
assistiamo al consolidarsi e al
DEL BUONISMO E DELLA progressivo diffondersi di un
POLITICAL CORRECTNESS, virus dell’anima particolar-
mente aggressivo: la pedago-
CHE SI RIVOLGE A MASSE gia del buonismo e della poli-
DISORIENTATE tical correctness, che si rivol-
ge a masse disorientate per-
PERCHÉ PRIVATE DEI ché private dei tradizionali
TRADIZIONALI PRINCÌPI princìpi, ai quali ispiravano la
propria condotta, da parte de-
gli stessi cattivi maestri che oggi pretendono di (ri)edu-
carle. La pedagogia della distruzione ora si assume il
compito di edificare, sulla tabula rasa, sulla terra deso-
lata scaturita da tale distruzione, un nuovo sistema di
valori e di “buone maniere” per il cittadino modello,
supponendo che gli antichi insegnamenti tramandati di
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6 Editoriale

padre in figlio e corroborati da


IL PENSIERO UNICO IMPONE
una solida formazione scolastica
VALORI CHE
possano essere sostituiti d’em-
NON SI FONDANO SULLA
blée da norme e procedure calate
TRADIZIONE, MA SU dall’alto e prive di autorità radi-
CONCEZIONI ASTRATTE cata.
E TRANSEUNTI, COME Il concetto schmittiano di “tiran-
L’IDEOLOGIA DEI DIRITTI nia dei valori” si attaglia perfetta-
DELL’UOMO, FUNZIONALI mente a questo nuovo corso. Il
ALLA REALIZZAZIONE pensiero unico impone valori che
DI VOLONTÀ non si fondano sulla tradizione
ARBITRARIE, FORTUITE ma su concezioni astratte e trans-
eunti, come l’ideologia dei diritti
dell’uomo, funzionali alla realizzazione di contingenti
volontà e, pertanto, arbitrarie, fortuite, variabili (al ri-
guardo, v. N. Irti, Nichilismo e concetti giuridici, Editoria-
le Scientifica, 2005). Avviene così che il diritto viene
spesso sacrificato sull’altare di una giustizia del tutto
soggettiva, che tenta di legittimarsi sulla base di princì-
pi generali ricavati dalla Costituzione, i quali, in quanto
non obiettivamente definiti e rimessi alla discrezionalità
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Editoriale 7

LA TIRANNIA DEI VALORI


dell’interprete, conducono ap-
punto a indirizzi arbitrari.
GIUNGE FINO A MANIPOLARE Come nelle società totalitarie
IL LINGUAGGIO – E QUINDI ipotizzate da Huxley e da Orwell,
la tirannia dei valori – più esatta-
LA STESSA POSSIBILITÀ DI
mente, degli pseudo-valori – è
UN PENSIERO ALTERNATIVO – sostenuta da un fanatismo che
VIETANDO L’USO DI TERMINI demonizza il pensiero che non
vuole farsi omologare. Essa giun-
ED ESPRESSIONI NON
ge fino a manipolare il linguaggio
CONFORMI ALLA SUA VISIONE – e quindi la stessa possibilità di
DEL MONDO un pensiero alternativo – vietan-
do l’uso di termini ed espressioni
non conformi alla sua visione del mondo.
L’intolleranza del pensiero unico si dirige verso gli
obiettivi più disparati. Ne sono esempi recenti: la vicen-
da del manager americano costretto a dimettersi per
aver offerto un contributo personale ad un referendum
contro l’istituzione dei matrimoni gay; la reazione indi-
gnata dei “benpensanti” nei confronti dell’esito della
consultazione popolare svizzera che ha stabilito l’istitu-
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8 Editoriale

zione di quote di ingresso per i


L’IDEOLOGIA DEI DIRITTI
lavoratori stranieri; la proibizio-
UMANI, PARTORITA DAGLI ne, in Francia, degli spettacoli
USA COME TANTI ALTRI dell’attore comico, di origini afri-
VIRUS, SI È FATTA STRADA
cane, Dieudonné, in base alla
presunzione che la sua satira,
NEL MONDO. IL CAPITALISMO giudicata da alcuni antisemita,
È CINICO, NON SI PREOCCUPA costituirebbe un attentato alla di-
DEI SUOI EFFETTI gnità umana. (Ma che cos’è la “di-
gnità” umana? Uno di quei diritti
COLLATERALI, NON HA fondamentali dai confini incerti,
FINALITÀ FILANTROPICHE cui ognuno può attribuire il signi-
ficato che preferisce o che gli fa
più comodo in un determinato momento storico.)
È sbagliato pensare che il comunismo sia finito, così co-
me è erroneo ritenere che il male assoluto che esso ha
rappresentato non fosse in premessa ma soltanto una
deviazione da una giusta partenza (mutuo qui le parole
del grande Paolo Isotta, La virtù dell’elefante, Marsilio,
2014, p. 479). La dottrina marxista continua invece a
perpetuarsi sotto nuove forme. La categoria della lotta
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Editoriale 9

LA VECCHIA EUROPA, E IN
di classe è ora applicata al rap-
porto tra sessi, all’estensione del
PARTICOLARE IL SUO CETO matrimonio agli omosessuali, al
MEDIO, SIANO STATI GIÀ fenomeno dell’immigrazione. La
SACRIFICATI A VANTAGGIO rivendicazione dei “diritti” viene
in questi casi perseguita con le
DELL’ACCESSO AL MERCATO stesse modalità violente e cap-
DELLE IMMENSE SCHIERE ziose, con lo stesso astioso risen-
DI MIGRANTI E DI UNA timento che contrassegnavano il
conflitto sociale per l’emancipa-
REDISTRIBUZIONE DEL zione del proletariato. L’obiettivo
REDDITO A LORO FAVORE che tale azione intende surretti-
ziamente conseguire non è la pa-
rità giuridica – certamente condivisibile – ma l’acquisi-
zione di uno status speciale e privilegiato, la condizione
per la quale si ha diritto a essere considerati più eguali
degli altri.
Il pensiero che si dimostra intollerante verso chi, eserci-
tando legittimamente la libertà di opinione, pone in dis-
cussione la teoria del “genere”, la quale postula un’as-
surda neutralità sessuale originaria, è assai meno in-
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transigente nei confronti delle


L’AUMENTO DEL BENESSERE
posizioni, professate da culture
ECONOMICO DEI POPOLI
diverse dalla nostra, contrarie al-
È UNA SCELTA OBBLIGATA le moderne tendenze egualitari-
CHE NON PUÒ ESSERE ste. Come l’islamica, uno dei
REALIZZATA A DISCAPITO DI massimi esponenti della quale (il
INIZIATIVA IMPRENDITORIALE presidente turco Erdogan) ha di
E REMUNERAZIONE DEL recente dichiarato che “conside-
rare uomo e donna sullo stesso
RISCHIO. SI RIAPRE IL
piano è contro natura, i due ge-
DIBATTITO SULLA RICERCA neri sono diversi per indole e co-
DI UNA TERZA VIA stituzione fisica; le donne devo-
no fare le madri”.
Chi osa esprimere, anche sommessamente, perplessità
sull’immigrazione incontrollata e indiscriminata viene
tacciato di razzismo, termine oggi abusato per delegitti-
mare il dissenso (ma, come osserva Alain de Benoist su
“Diorama” n. 318/2013, p. 16, la retorica dell’antirazzi-
smo si contraddice in quanto prima nega l’esistenza
delle razze, poi stigmatizza l’incitamento all’odio razzia-
le, cioè l’odio di qualcosa che, a suo avviso, non esiste).
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Editoriale 11

Analogo trattamento viene riservato a chi, traendo ar-


gomenti anche dalla Bibbia oltre che dal buon senso, si
oppone al matrimonio tra omosessuali. La Bibbia non si
concilia con il politically correct, sebbene alcuni, attra-
verso contorsionismi interpretativi, cerchino di dimo-
strare il contrario.
È difficile comprendere la psicologia di coloro i quali
condividono e promuovono questa tendenza all’autodi-
struzione, il declino dell’uomo preconizzato da Konrad
Lorenz, pilotata dalla dittatura del pensiero unico.
In un organismo sano, il sistema immunitario reagisce
all’infezione virale. Ma il nostro meccanismo immunita-
rio sembra impazzito: esso contrasta gli anticorpi e age-
vola l’espandersi dell’infezione. Questo è l’atteggia-
mento di chi è pronto a sbarazzarsi delle proprie radici e
della propria identità culturale, frutto di un arduo e lun-
go cammino, e perfino a rinunciare a quei “sacri” princì-
pi (libertà di espressione, pari opportunità tra uomo e
donna, libertà di culto, sicurezza personale, ecc. – non
sono, anche questi, diritti umani fondamentali?) che sa-
rebbero senz’altro soppressi da culture a noi ostili che
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Editoriale 13

dovessero prendere il sopravvento (ipotesi che si sta


realizzando in modo subdolo per effetto dell’immigra-
zione).
Come spiegare la folle politica che consente l’ingresso
illimitato di stranieri sul territorio nazionale? A parte le
anime belle che candidamente non cessano di credere
nelle “magnifiche sorti e progressive” o nell’intervento
della Provvidenza, vi sono sostanzialmente due correnti
di pensiero a favore dell’invasione: l’una la ritiene fun-
zionale all’espansione economica; la seconda, altret-
tanto economicista ma di matrice marxista, vede nelle
masse di migranti i nuovi proletari destinati a infoltire le
schiere della sinistra. Entrambi i punti di vista presumo-
no che il fenomeno possa essere gestito e orientato. Si
tratta di una scommessa ad alto rischio, che viene gio-
cata sulla nostra pelle.
L’ideologia dei diritti umani, partorita dagli Usa come
tanti altri virus, si è fatta strada in gran parte del mondo.
Il capitalismo è cinico, non si preoccupa dei suoi effetti
collaterali. Non ha finalità filantropiche, il suo unico
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Editoriale 15

obiettivo è il profitto e, quindi, l’incremento della do-


manda di beni e servizi. Funzionale a tale incremento è
l’emancipazione delle masse, cioè la creazione di molti-
tudini di nuovi consumatori. In questo senso, il diritto
alla felicità, sancito dalla Dichiarazione d’indipendenza
americana del 1776, equivale al diritto al consumo, che
deve essere riconosciuto e garantito a ogni individuo in-
dipendentemente dalla differenze di genere, di religio-
ne, di nazionalità. Dal punto di vista del capitalismo, ta-
le risultato va perseguito a qualsiasi costo, non importa
se ciò implichi la destabilizzazione di credenze, consue-
tudini, mentalità, tradizioni e l’inquinamento dell’am-
biente. Si ha l’impressione che, in questa logica, la vec-
chia Europa, e in particolare il suo ceto medio, siano
stati già sacrificati a vantaggio dell’accesso al mercato
delle immense schiere di migranti e di una redistribuzio-
ne del reddito a loro favore.
A onor del vero, però, vanno almeno riconosciuti al ca-
pitalismo la sua essenza prometeica e faustiana, il suo
continuo mettersi in gioco, il suo accettare a viso aperto
la selezione naturale che si compie attraverso la compe-
tizione; caratteristiche, queste, che lo rendono più nobi-
le di quanto non siano le culture che si rifugiano nel pro-
tezionismo, nell’assistenzialismo e nel solidarismo (la
solidarietà è un’altra cosa). Appare inverosimile con-
trapporre alle disfunzioni del libero mercato e della glo-
balizzazione il mito della decrescita, che vorrebbe ricon-
durre il genere umano alla natura matrigna dalla quale
faticosamente è riuscito in qualche misura ad affrancar-
si. L’incremento del benessere economico dei popoli è
una scelta obbligata che non può essere realizzata a
discapito dell’iniziativa imprenditoriale e della remune-
razione del rischio. Certo, gli animal spirits andrebbero
in qualche modo imbrigliati in un sistema di regole a tu-
tela di una gerarchia di valori. Si riapre così l’annoso di-
battito sulla ricerca di una Terza Via.
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Virus 17

Virus

Un mondo in preda alla viralità? Nell’era tecnologica


tutto si propaga con la massima velocità: non solo
virus informatici, ma anche idee, rivoluzioni, petizioni
di respiro globale. La Rete cerca di conquistare
il primato dell’informazione e anche quello della
controinformazione. Ma è difficile sostenere la bontà
dell’equazione tra Rete e democrazia perché anche
il web ha i suoi manovratori e influencer: Internet
risulta facilmente seducibile da parte di poteri forti
e grandi gruppi industriali. I virus sono anche
quelli che trasmettono le paure, come quella attuale
del terrorismo islamico, forse meno avvertita della
minaccia qaedista. I popoli, tuttavia, vivono ansie
concrete: la crisi economica mette in discussione
garanzie consolidate, le potenze emergenti premono
sull’Occidente che comincia ad avere paura della
consistente immigrazione di una umanità
culturalmente differente.
E forse l’unica forza realmente globale in grado
di sopravvivere è la finanza spericolata
con la sua enorme capacità di contagio
Eugenio Balsamo, Marco Cochi, Maria Grazia Leo, Alberico Travierso,
Francesco Crocenzi, Massimo Ciullo, Andrea Marcigliano, Antonio Saccà
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18 Virus
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Virus 19

Un mondo costretto ad avere


paura. E rabbia
Torna l’incubo del terrorismo e cresce la diffidenza verso un qualcosa percepito
come troppo diverso. La minaccia islamista si fonde con i dubbi su una
gestione dell’immigrazione che si è rivelata fallimentare. E poi, per far trionfare
il buonismo, ci sono uomini e paesi da evitare, come Putin e la Russia

Eugenio Balsamo

M orto un Bin Laden se n’è fatto un altro. Apparentemente più de-


terminato e organizzato del primo. Con lo Stato islamico di al-
Baghdadi e le sue minacce l’Occidente e il mondo cristiano sono ri-
piombati nella paura del terrorismo di matrice religiosa, dopo solo
qualche anno di calma. Ma è anche il momento storico a fornire uno
scenario complessivo preoccupante in cui il timore di un Islam ar-
mato si inserisce e si incastra in modo perfetto. Come a completare
quel mosaico di incognite di un futuro che il “ricco” Occidente vede
svanire sotto i colpi della tecnocrazia europea, dei bilanci pubblici
da ridurre all’osso, del peso (volutamente) eccessivo delle agenzie
di rating e di quei vecchi poveri – gli Stati emergenti e quelli ormai
“emersi” – che fanno shopping di idee e di economia reale in una
parte di mondo che si è, troppo facilmente, auto assolta e cullata su
conquiste di un secolo fa.

L’ANSIA PER IL NUOVO SIGNORE DEL TERRORE


L’Italia è pronta ad affrontare un eventuale attacco dell’Isis? La do-
manda che dall’estate del 2014 si è imposta a ogni livello è la di-
mostrazione che la strategia mediatica degli jihadisti dell’Isis fun-
ziona. Perché, si è sempre detto e ora maggiormente, il nostro
paese è anche Roma, che è il centro mondiale del cattolicesimo.
Che è il centro della cristianità, non rilevando a livello di analisi
elementare la chiesa anglicana o le chiese ortodosse. “I terroristi
colpiranno Roma”, si è letto mesi addietro, commentando così
quel fake, arrivato su molti monitor, della bandiera nera dell’Isis in
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piazza San Pietro. Non la drammatica e infame cacciata dei cristia-


ni dalle terre conquistate dai seguaci del “califfo” (troppo remote
per suscitare grande attenzione a queste latitudini) ma la ripetuta
minaccia nei video delle decapitazioni è stata sufficiente a far ri-
piombare l’Occidente nel timore di attentati. Basti pensare che, in
occasione di un incidente di qualsiasi natura, il primo commento
veicolato dalla stampa è quello che non esclude la matrice del ter-
rorismo. Per poi, minuti o ore dopo, concludere che è stato “scon-
giurato il rischio”. Una metropolitana che prende fuoco è di per sé
una notizia preoccupante, ma l’idea che la mano non sia stata
quella di un figlio della jihad sembra sollevare. E di qui all’altro in-
terrogativo, questa volta più diffuso, che pervade le masse. Con
l’Islam si può dialogare? Al suo interno la maggioranza è per rap-
porti sereni? Che all’interno di un mondo così vasto – dall’Africa
all’Indonesia passando per Vicino oriente e periferie europee – ci
sia un’aliquota di fanatici è fisiologico, è nella realtà delle cose,
sia che il fanatismo nasca sulla rabbia del sottosviluppo, sia che
provenga da letture volutamente distorte di scritture sacre. Ogni
interpretazione, va però detto, prima che essere storica, sociale o
religiosa, è pienamente ideologica, dividendosi le società tra net-
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tamente contrari all’accoglienza e al dialogo e nettamente favore-


voli a tentare di costruire un mondo multipolare che comporti dif-
ferenze anche enormi. Tutto ciò va consegnato alla sociologia e a
chi per professione tende a cercare una risposta positiva. Il punto
di vista geopolitico, quello legato ai fatti e agli interessi, spiega
che ciò che succede altrove non è mai completamente figlio di se
stesso. Per il semplice fatto che un “altrove” in un mondo così in-
terconnesso non ci può essere.
Sebbene Abu Bakr al-Baghdadi abbia una storia lunga e complessa
ci si è accorti di lui quando si è “napoleonicamente” proclamato
califfo, dando vita per la prima volta a un’entità quasi statuale
identificata nello Stato islamico, cioè uno Stato che si fonda sul
sopruso, il pensiero unico, l’arroganza e l’intransigenza: tutto ciò
che non è “dovere di un fedele combattente” non è permesso né
concesso. Alla base di questa “strana presenza”, ripetiamo, un’im-
postazione precisa. Ma non è tutto, visto che si è trovato il corag-
gio di ammettere che il nuovo pericolo è frutto di errori commessi
dalla stessa parte che ora teme gli uomini del califfo, la maggior
parte dei quali posti a sua disposizione in modo “genuino” inten-
dendo il termine come “economicamente disinteressato” all’oscuro
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della grande opportunità di guadagno che ai vertici dell’Isis deriva


dallo sfruttamento del petrolio sul quale marciano e abbattono
“infedeli”. È dell’estate 2014 l’idea di far convergere i “volenterosi”
del mondo che si definisce civile contro la barbarie dello jihadi-
smo. Mettendo dentro di tutto, come dimostra la prima alleanza
anti Isis tra una parte dell’Occidente e alcuni paesi arabi. Che, a
ben vedere, a vario titolo, sono gli stessi chiamati a risolvere la
precedente emergenza del terrorismo islamico che fa paura a tutti:
dalla Russia di Putin tendenzialmente ostile al compagno di corda-
ta a stelle e strisce, la Turchia costretta a fare un favore ai curdi di
Kobane e persino l’Iran, talvolta “mostro” secondo logiche occi-
dentali ma che si è dimostrato, con Rohani, più pragmatico, lucido
e collaborativo di quanto si potesse sperare.
Dunque, errori di valutazione e di scelta dell’Occidente, Stati Uniti
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in testa. I policy-maker e analisti americani non lo nascondono: la


politica estera di Washington dell’ultimo decennio non ha dato i ri-
sultati sperati fino addirittura a ribaltarli. A cominciare dall’ultimo
appuntamento, quello con le varie “Primavere arabe” prima soste-
nute e poi maledette, al punto di dare argomenti a tesi più o me-
no complottistiche secondo le quali gruppi come l’Isis e al-Nusra e
altri che agiscono nella galassia Jihadista, sono creazioni dell’Occi-
dente, giacché armati dagli Stati occidentali con l’obiettivo di ab-
battere quelle che erano considerate dittature sanguinarie. Si è ini-
ziato con Mubarak, si è passati a Ben Ali e si è finito con Ghedda-
fi, transitando per i tentativi più o meno evidenti di rovesciare al-
Assad in Siria, Mohamed VI in Marocco. L’idea obamiana di un Is-
lam moderato governato dalle diverse sfumature della Fratellanza
musulmana ha creato un mostro con una decina di teste che ades-
so si rivoltano contro i loro stessi creatori. Iraq e Siria sono ormai
un teatro di guerra permanente, la Libia è nel caos più totale ed è
diventata una vera e propria porta per esportare la Jihad in Euro-
pa. Senza però dimenticare le decine di conflitti in Africa condotti
sempre nel nome della guerra santa. E non è antiamericanismo af-
fermare che anni di guerra in Iraq e Afghanistan per combattere
dittature e terrorismo non hanno risolto il nodo mediorientale che,
oggi, è più complicato di quanto non lo fosse con Saddam Hus-
sein. Né il peso dei talebani afgani è meno importante di quanto
non lo fosse nel 2001, nonostante la novità delle urne. Le crona-
che internazionali hanno descritto un Barack Obama nervoso e
confuso per il fatto che né lui né i suoi uomini riescono a trovare
il modo per sbrogliare la situazione e tirare fuori gli Stati Uniti dal-
la situazione mediorientale venutasi a creare. D’altronde i massa-
cri, sia in Iraq che in Siria, l’Isis li sta compiendo con le stesse ar-
mi ricevute da Washington quando i due erano praticamente allea-
ti per buttare giù al-Assad, mentre la Casa Bianca, dopo poco, ha
deciso di riabilitare il leader siriano (che fino a un anno prima vo-
leva, appunto, destituire) fornendogli sostegno proprio nel tentati-
vo di contrastare l’avanzata del califfato nel territorio siriano.
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Non è quindi un azzardo affermare che gli Stati Uniti in Iraq come
in Siria si ritrovano a fare i conti le loro stesse scelte di politica
estera degli ultimi dieci anni nella Penisola araba, Iraq e Siria sen-
za considerare l’Afghanistan che si sta rivelando oggi per gli Sta-
tes come il Vietnam quarant’anni fa. Prima George W. Bush e poi
Barack Obama, il primo con l’Afghanistan e l’Iraq e l’altro con la
Siria e i paesi del Nord Africa delle “Primavere arabe”, hanno volu-
to combattere a tutti i costi qualcuno per poi volercisi alleare do-
po in un secondo momento uniti da un fine comune e per poi ri-
trovarsi a combatterlo nuovamente in un terzo momento. La linea
della politica estera statunitense degli ultimi anni, specie durante
la presidenza di Obama, si è rivelata schizofrenica e confusa nelle
zone del mondo molto tumultuose e, al contempo, blanda e paca-
ta nei confronti di altre grandi potenze, come Russia e Cina. E ora
il pantano della Siria, dell’Iraq e dell’Isis, il non saper spiegare co-
me mai un anno fa Obama sosteneva l’Isis e ora lo vuole combat-
tere, del resto, per l’inquilino della Casa Bianca si sono rivelati un
boomerang dolorosissimo, come dimostrato da elezioni politiche
che lo hanno privato di sostegno parlamentare. A completare il
quadro c’è anche una mezza confessione da parte di Hillary Clin-
ton, ex ministro degli Esteri di Obama e aspirante suo successore,
in cui ammette che alla base dell’ascesa dell’Isis in Iraq e Siria vi
sono degli errori di valutazione commessi dall’amministrazione
Obama in questi anni.

QUEI BARCONI SOSPETTI VERSO L’ITALIA


Dagli errori americani alle ricadute sull’Italia. La fine dei governi
“storici” della sponda Sud del Mediterraneo ha provocato un’emor-
ragia nelle frontiere, costruito “autostrade del mare” per i migranti.
Un dato, questo, difficilmente discutibile: l’instabilità e l’impossibi-
lità di trovare un interlocutore affidabile ha ingrossato i flussi mi-
gratori. E se l’aumento dell’immigrazione si era già trasformato in
un fenomeno meno sopportato (e supportato) dai paesi di desti-
no, il quadro è peggiorato con la scoperta dei cosiddetti foreign
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Virus 25

fighter, jihadisti nati e/o cresciuti all’ombra di aiuti e democrazie


europee. Portando così ad avvertire l’immigrazione come veicolo
di un nuovo virus, quello del fondamentalismo che si nasconde tra
i naufraghi per poi germogliare nei centri islamici, nelle periferie
abbandonate a se stesse e per via di un approccio timoroso verso
la richiesta di adempiere a regole certe. Si sviluppa una crisi di ri-
getto: troppi, di dubbia adattabilità al nostro contesto e difficili da
tenere sotto controllo. Un punto di vista in forte contrapposizione
con un principio ormai consolidato che, in nome del politicamente
corretto, sembra incapace di trovare una sintesi come, al contrario,
hanno cominciato a fare in altri paesi europei ed extra Ue.
Però le cronache italiane veicolano casi abbastanza chiari che met-
tono in evidenza una certa difficoltà delle nostre istituzioni, come
conferma il transito di reclutatori dell’Isis nel nord-est del paese.
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L’intelligence nostrana esclude che terroristi possano infiltrarsi nei


barconi dell’immigrazione, mentre drizza le antenne sui Balcani.
Per ora sono solo ipotesi, senza dimenticare che nello jihadismo
italiano sono presenti reduci carismatici delle guerre in Bosnia e in
Afghanistan. Anche gli investigatori dell’antiterrorismo non prendo-
no in considerazione i barconi e preferiscono un approccio più
pragmatico: chiunque dovesse arrivare, ipotizzano, dovrebbe tro-
vare appoggi e dunque l’importante è controllare chi sta in Italia.
E siccome un conto è l’organizzazione, un altro l’individuo isolato,
la prevenzione passa attraverso il maggior numero di informazioni,
cercando di captare segnali, anche minimi, che indicano un percor-
so di radicalizzazione. Ormai, aggiungono gli esperti del ministero
dell’Interno, il concetto di moschea come luogo di proselitismo è
obsoleto. Anzi, il pericolo può nascondersi proprio in chi non la
frequenta più. Per questo è intensa e determinante la collaborazio-
ne con le comunità islamiche. In una informativa alla Camera, il
ministro Alfano ha spiegato che sono stati censiti 514 associazioni
e 396 luoghi di culto, tra cui le quattro moschee di Roma, Milano,
Colle Val d’Elsa e Ravenna. E, secondo il titolare del Viminale, può
bastare che un musulmano non esca più di casa per far scattare
l’allarme. Eppure due figure titolate del governo Monti sembravano
pensarla diversamente. Emma Bonino dichiarava che «ci sono so-
spetti che dalla Libia fra i vari disperati ci siano anche provenienze
di jihadisti o qaedisti su una via europea, che tra l’altro è uno dei
metodi che hanno usato spesso. Terrorismo? Non so dire ma è una
minaccia alla sicurezza». Parole confermate dal collega della Dife-
sa, Mario Mauro: «Noi abbiamo un mare di informazioni. In Libia ci
sono trenta brigate che combattono una contro l’altra. Un contesto
frammentato in cui si infiltrano gruppi di diverse tendenze. Ne ab-
biamo parlato con i servizi, che ci hanno messo sempre in guardia
su questo». Che il rischio sia altissimo, alto o non diverso da un
passato recente, ha spiegato la Fondazione Icsa, Intelligence Cultu-
re and Strategic Analysis, animata da esperti di rilievo e competen-
za, il terrorismo islamico si rafforza alle porte del Mediterraneo vi-
sto che «in una vastissima area si sta realizzando una saldatura
non solo ideologica ma permeata anche da interessi economico-
criminali tra le diverse formazioni jihadiste, con la creazione di veri
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e propri santuari del terrorismo». La spiegazione dei tecnici non


fornisce, però, sollievo alla cittadinanza, nel senso di non dare ar-
gomenti che possano spiegare che accogliere è un dovere, oltre
che una utilità. Rileggiamo due dichiarazioni, una del capo della
Polizia, l’altra del ministro dell’Interno. Secondo Alessandro Pansa
l’Italia non è indenne dal pericolo di cui si parla a causa del co-
stante arrivo di migranti perché «con i migranti rischiamo di impor-
tare non il terrorismo, ma il fondamentalismo su tutto il territorio
comunitario. Anche il tipo di accoglienza rischia di alimentare il
fondamentalismo, e onestamente l’Europa non li accoglie bene».
Gli ha fatto eco Angelino Alfano secondo il quale i migranti «ven-
gono da noi perché cercano libertà, democrazia e benessere. E
quando l’immigrato clandestino non trova quel che si attendeva, si
genera frustrazione e quindi disponibilità a farsi reclutare». Con-
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cetti difficili da spiegare a quel paese reale che vive un crescente


livello di disagio. Sulla propria pelle, con una disoccupazione in
costante aumento, servizi al collasso (sanità in testa) e garanzie di
ogni tipo che vanno affievolendosi, il tutto mentre vedono aumen-
tare la presenza (che non è certo priva di costi) di gruppi etnica-
mente diversi. I fatti di Tor Sapienza spiegano che la rabbia rende
ciechi, non riuscendo più a distinguere tra richiedenti asilo e immi-
grati “comuni”, anche se semplicemente in transito verso l’Europa
del nord. Che, nel frattempo, cercano di proteggersi. E si torna alla
differenza (importante) tra razzismo e disorientamento e a quella
non proprio lieve dittatura del politicamente corretto. Si ha il timo-
re di chiedere “dove li mettiamo” o, più semplicemente ma non in-
genuamente, “quando ci costa l’accoglienza”, mentre la cinghia si
stringe sui capitoli della spesa sociale.

L’ANSIA DEL FUTURO: CONTAGIATI DAL “VIRUS DEL DOMANI”


Italia, Grecia, Spagna e Portogallo dove andranno a finire? Mentre
il premier Renzi rassicura gli italiani, l’Europa a “trazione Merkel”
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riaccende le calcolatrici e cerca di capire come imporre nuove mi-


sure all’Italia. Manovre aggiuntive o maxi piani che siano, hanno
anche questa volta il sapore di sanzioni, almeno agli occhi degli
italiani inginocchiati davanti ai templi della finanza globale. Tra le
tante indagini a sfondo sociologico ce n’è una, dei primi giorni di
dicembre 2014, che non può lasciare indifferenti. È quella condotta
dal Censis in collaborazione con la Federazione italiana associazio-
ni di volontariato in oncologia e – va detto per dovere di cronaca
e libertà di interpretazione e commento – sostenuta finanziaria-
mente dal colosso farmaceutico Roche. Emerge che il cancro mette
a dura prova non solo la salute, ma anche la vita sociale e lavora-
tiva di chi ne è colpito. L’80 per cento dei malati di tumore ha spe-
rimentato l’impatto della patologia sulla propria professione, dalla
perdita del lavoro al crollo del reddito, e il timore è che il contesto
di crisi economica attuale possa peggiorare ulteriormente il peso
del cancro sul portafoglio. Non solo: quasi il 30 per cento dei ma-
lati e di chi li assiste pensa che la scure dei tagli possa limitare
anche la disponibilità delle terapie anticancro innovative, più mira-
te e quindi più efficaci e con meno effetti collaterali. Secondo l’in-
dagine, oggi sono più di 274mila gli italiani che, a causa di un tu-
more, nel corso della loro vita sono state licenziate, costrette alle
dimissioni o a cessare la propria attività autonoma. Di queste, so-
no quasi 85mila quelle a cui è accaduto negli ultimi cinque anni.
Sintetizzando, viene spiegato che sul futuro aleggia la paura che i
tagli ai bilanci pubblici complicheranno anche l’accesso alle cure
“intelligenti”: per il 40 per cento degli intervistati a causa della
lunghezza delle liste di attesa per controlli ed esami, per il 33,5 a
causa delle attese quando ci si reca in terapia, per il 29,5 a causa
delle difficoltà di bilancio della sanità, che limiteranno la disponi-
bilità di terapie più efficaci e sicure. Il 25,7 per cento, infine, teme
che ci saranno ulteriori differenze nelle cure tra varie aree del pae-
se. Un esempio, quello qui proposto, volutamente estremo, ma
che fotografa perfettamente lo stato d’animo del paese. Tra il virus
dell’ottimismo renziano – erede dell’illusione berlusconiana – e il
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virus dell’incertezza a prevalere è quest’ultimo. Negli stessi giorni


il Censis, col suo 48esimo Rapporto, provvedeva a fornire un altro
dato, ugualmente preoccupante. Oltre il 60 per cento degli italiani
teme di finire in povertà. Per il 47 per cento degli italiani la crisi è
ormai alle spalle (il 12 per cento in più rispetto allo scorso anno),
ma quel che domina al momento nel paese, è l’incertezza perché
in Italia persiste “una vulnerabilità diffusa” tanto che ben oltre la
metà della popolazione ritiene che sia possibile finire in rovina da
un momento all’altro. Si tratta di una fetta di persone che dal 60
passa al 64 percento tra i 45-64enni e al 67 per cento tra gli ope-
rai. Tale precarietà la conferma anche il tasso di natalità, che con-
tinua a decrescere: in Italia si fanno sempre meno figli e per otto
persone su dieci la colpa è delle ristrettezze economiche dovute
alla crisi. L’incertezza economica si riflette anche sulla gestione del
denaro da parte delle famiglie: il 44,6 per cento destina il proprio
risparmio alla copertura di possibili imprevisti, come la perdita del
lavoro o la malattia; il 36,1 per cento lo finalizza a sentirsi con le
spalle coperte. A conferma dei dubbi su presente e futuro, per tutti
la strategia resta quella di tenere i soldi vicini e disponibili per
qualunque evenienza. Per la prima volta nella loro vita, negli ulti-
mi 12 mesi, 6,5 milioni di persone hanno dovuto integrare il reddi-
to familiare mensile con prestiti, anticipi di conto corrente o in al-
tro modo magari per affrontare una spesa imprevista.
Il sistema, insomma, almeno così organizzato, non funziona più.
Archiviata la convinzione di uno Stato da considerare “pozzo sen-
za fondo”, impossibile finanziariamente il ricorso a forme di soste-
gno come quella demogogica del reddito di cittadinanza e irrealiz-
zabile un maggiore impegno dello Stato nell’economia l’opzione
più sensata su cui lavorare è quella di patto sociale diverso, più
inclusivo e in grado di recepire e valutare realmente le istanze pro-
venienti da tutti gli angoli del tessuto economico e sociale. Il capi-
talismo, così come degenerato negli ultimi vent’anni, è al capoli-
nea e si percepisce che oltre c’è solo il baratro.

L’ITALIA “DEVE” AVERE PAURA DI PUTIN


Un mondo in continua ricerca di equilibri geopolitici non è per tut-
ti: c’è chi cerca di disegnare nuove geometrie ai tavoli delle can-
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cellerie e chi è costretto a subire decisioni prese in nome di un


“ordine superiore”. Nell’era della stabilità troppo ricercata sul pia-
no dei diritti umani, la Russia finisce nel mirino di un’America che
cerca di accrescere la sua influenza economico-politica nel vecchio
spazio post sovietico. I fatti della Georgia non sono poi così lonta-
ni, si ripetono in Ucraina. Ormai storia, quella. Di scaramucce di
confine tra i costruttori di una Kiev forzatamente europea e i “na-
turalisti” che guardano, più legittimamente, a Mosca non c’è più
traccia nelle cronache. E i conti che si fanno non sono di perdite
umane ma di opportunità andate in fumo in nome di una alleanza
occidentale che deve essere una priorità. Non importa l’inclinazio-
ne di questo o quel paese, si fa squadra.
Le sanzioni economiche alla Russia, ammesso che siano legittime
sul piano del ragionamento giuridico-politico, non lo sono su quel-
lo geopolitico. Meglio pensare che il governo di Roma si sia senti-
to obbligato, perché se la scelta fosse convinta, allora ci si trove-
rebbe davanti a una classe dirigente di una miopia senza pari.
Buttandola sull’impostazione politica di ognuno, si è convintamen-
te occidentalisti o, in alternativa, ci si può anche sentire europei-
sti, ma con uno sguardo (di utilità e di storia e cultura) oltre la
vecchia Cortina di ferro. Del resto lo spiega bene quella strana ter-
za via tedesca: fedeli a l’Occidente, fedeli (a modo proprio) all’Eu-
ropa ma nessuno metta in discussione l’abbraccio tra Berlino e
Mosca. Perché in caso contrario la Germania ci perderebbe parec-
chio. E l’Italia?
Roma ha subito l’ennesima offesa, qualche mese fa, quando si è
sentita criticare il suo ministro degli Esteri perché «troppo filo pa-
lestinese e troppo filo russa». “Italia centro del Mediterraneo e
mano tesa a Oriente”, si diceva fino a qualche anno fa. Tutto fini-
to? Capacità organizzative, a ben vedere, non se ne notano. E, pe-
raltro, il ministro per essere promosso a Alto rappresentante Ue ha
dovuto cambiare idea sulla kefiah e sulla vodka. Ma, poi, diverse
riflessioni sono alla portata di tutti, non solo degli addetti ai lavo-
ri. Le grandi aziende di Stato non hanno difficoltà ad affidarsi ai
governi di Venezuela, Nigeria, Algeria o Kazakistan. Considerando
che si tratta di quattro paesi indicati come non campioni di demo-
crazia (ognuno stila le graduatorie che vuole, dimenticando sem-
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pre qualcuno fuori) perché sarebbero da preferire alla Russia? O da


reputare i loro governanti meno impattanti sul rispetto di pace,
stabilità e diritti dell’uomo?
Follie da politica estera e commerciale basata sul buonismo, quel-
lo che non crea ma sottrae. Non convinzioni da eurasisti a ogni
costo, ma dati della Sace, la società pubblico che sostiene l’export
italiano, brevemente: il crollo nelle esportazioni italiane nel merca-
to russo sarà tra 1,8 e 3 miliardi di euro, mentre a spaventare dav-
vero è la dipendenza del gas. Dopo la crisi in Ucraina con il soste-
gno ai ribelli, Stati Uniti e Unione europea hanno deciso di impor-
re una serie di sanzioni economiche alla Russia. Limitazioni che
sono aumentate con il passare del tempo e hanno contribuito a
inasprire i rapporti tra le parti. La Russia, senza tergiversare, ha
bloccato l’importazione di beni alimentari da Europa e Usa. Niente
più carne, pesce, frutta o verdura dai paesi che hanno imposto le
sanzioni. Il prezzo? Un impatto di circa 4,5 miliardi per le aziende
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europee, calcoli probabilmente sottostimati. Ed è l’Italia a sacrifi-


carsi maggiormente. Gli scambi commerciali tra Russia e Italia so-
no stati proficui nel 2013, con un bilancio di 1,3 miliardi di euro.
Secondo un rapporto dell’Ufficio studi economici della stessa Sace,
ad agosto le previsioni di impatto economico erano tra 0,9 e 2,4
miliardi di euro. Ma la situazione sembra peggiorare. L’aumento
delle sanzioni e le ritorsioni da parte dell’amministrazione di Vladi-
mir Putin continuano a deteriorare lo scenario e molto probabil-
mente tra il 2014 e il 2015 l’Italia perderà tra 1,8 e 3 miliardi di eu-
ro nelle esportazioni in Russia. Oltre al turismo russo, che tra il
2008 e il 2012 ha portato 1,3 miliardi di euro all’Italia, un altro set-
tore molto colpito è quello della meccanica strumentale, con una
perdita di vendite in Russia di 1,1 milioni di euro. E anche le im-
prese russe che hanno investito in Italia – loro malgrado perché
hanno sempre sottolineato l’affinità tra i due paesi e i due popoli
– faranno un passo indietro. Tra il 2005 e il 2011 l’arrivo di capitali
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dalla Russia si è quadruplicato; tra il 2005 e agosto del 2014 –


prima delle sanzioni – si sono verificate 37 operazioni di cosiddet-
to merger and acquisition, cioè fusioni e acquisizioni, aventi come
target società italiane per due miliardi di dollari. Tra le aziende co-
involte ci sono nomi di peso: Severstal, RusAI, Evraz, Lukoil, Reno-
va e Gazprom. Lo scenario futuro non è neanche dei migliori. Non-
ostante il peggioramento negli scambi, i ricercatori di Sace preve-
dono sì una ripresa dei rapporti commerciali tra Unione europea e
Russia nel 2015, ma con incognite ancora da circostanziare perfet-
tamente. E poi c’è il tema, di pari importanza, dell’energia.
L’Unione europea dipende dal gas per soddisfare il consumo inter-
no: circa il 66 per cento del fabbisogno è coperto dalle importa-
zioni e di questo gas il 35 per cento proviene dalla Russia. Nel
2010 una normativa europea ha cercato di cambiare il rapporto di
dipendenza, ma solo 16 paesi su 28 hanno effettivamente adotta-
to le misure richieste. Il rapporto di Sace ricorda che in Italia le
importazioni di gas pesano per il 90 per cento del consumo inter-
no e quasi un terzo è gas russo. Al nostro paese basterebbe que-
sto per dovere, in sede europea, comportarsi diversamente. Certo,
ci saranno altre pipeline ma la cancellazione del progetto del
South Stream, il gasdotto che avrebbe giovato all’Italia anche per
via di importanti collaborazioni, al netto delle difficoltà finanziarie
di Mosca e della perdita di carattere strategico sempre per il Crem-
lino, è un’altra occasione persa per l’Europa. E l’Italia.

Eugenio Balsamo
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Virus 35

L’Africa trema per la peggiore


epidemia di ebola
Il più grave contagio di ebola che abbia mai colpito l’Africa, da febbraio
a dicembre dello scorso anno ha ucciso più di 6.500 persone.
Il temibile virus ha cominciato a manifestarsi nella Repubblica di Guinea,
per poi propagarsi con estrema velocità in Liberia e Sierra Leone

Marco Cochi

S econdo il bilancio reso noto lo scorso 6 dicembre dall’Orga-


nizzazione mondiale per la sanità (Oms), nei tre paesi aveva
colpito circa 18mila persone. Nel ferale resoconto della prima de-
cade di dicembre, l’agenzia specializzata dell’Onu per le questio-
ni sanitarie riscontrava che il tasso di infezione era diminuito in
Liberia, ma restava ancora elevato in Sierra Leone, mentre rima-
neva stabile in Guinea Conakry. I casi in Liberia ammontavano a
7.719, le vittime 3.177; in Sierra Leone 7.798 contagiati, 1.742
vittime; in Guinea Conakry 2.283 casi, 1.412 vittime; in Mali, ulti-
mo paese ad essere colpito dal virus, si sono registrati sei casi
letali su otto totali.

L’AFRICA SOFFRE, IL MONDO È IMPAURITO


Mentre, dopo il periodo di quarantena, l’Oms non aveva segnala-
to nuovi casi la Nigeria, dove il virus tra luglio e settembre aveva
contagiato 19 persone, 7 delle quali sono decedute. Lo stesso
vale per il Senegal dove il virus, dopo essere stato introdotto il
29 agosto da uno studente che viaggiava verso Dakar dalla Gui-
nea, non ha mietuto alcuna vittima e la risposta all’emergenza è
stato un ottimo esempio di cosa dovrebbe fare qualunque Stato
di fronte all’importazione di un caso di ebola. Negli Stati uniti
sono stati registrati quattro casi, di cui uno solo letale. La Spa-
gna è stata dichiarata libera dal virus lo scorso 2 dicembre, dopo
42 giorni trascorsi senza registrare nuove infezioni. Complessiva-
mente, negli otto paesi colpiti dall’epidemia, ci sono stati 6.346
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decessi su 17.834 casi. Dopo l’esplosione dei primi focolai in


Guinea Conakry e Liberia, il vice direttore generale dell’Oms, Keiji
Fukuda, aveva spiegato che l’emergenza fosse tra le più difficili
mai affrontate in Africa e che per circoscrivere la diffusione del
contagio sarebbero stati necessari grande impegno e massima
collaborazione da parte della comunità internazionale.
Per molti mesi, però, la risposta internazionale è stata piuttosto
tiepida, marcata più dalla preoccupazione di sigillare le frontiere
dei paesi ad alto indice di sviluppo per impedire l’arrivo del vi-
rus, che dall’affrontare la crescente minaccia del propagarsi di
ebola in Africa, dove dovrebbe essere effettivamente combattuto.
Fin dall’inizio dell’epidemia era ben noto che i sistemi sanitari
dei tre paesi maggiormente colpiti non erano in grado di gestire
l’emergenza e arginare il contagio ponendo fine alla trasmissione
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del virus. Per capire meglio la situazione, a metà dello scorso ot-
tobre, quando l’epidemia aveva già mietuto più di 4.400 vittime,
l’Oms rendeva noto che la Sierra Leone necessitava urgentemen-
te di 750 medici, 3mila infermieri e 1.500 esperti di igiene, nutri-
zionisti e consiglieri.
E Sierra Leone e Liberia avevano in tutto circa 924 posti letto
per curare i malati di ebola, mentre ne sarebbero serviti almeno
4.078. Dati che la dicono lunga sull’inadeguatezza dei mezzi di
contrasto per tentare di riportare la situazione sotto controllo
nelle due nazioni. Il problema principale è che quando la diffu-
sione del virus era già in uno stato molto avanzato, la comunità
internazionale non aveva ancora messo in campo un progetto
coordinato per contrastare la diffusione dell’epidemia nei tre
paesi più colpiti, privi delle risorse necessarie per affrontarla.
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LA RISPOSTA INADEGUATA DELL’OMS


La stessa Oms, in un documento interno che doveva rimanere ri-
servato e reso noto lo scorso ottobre, sembra ammettere di aver
compiuto una serie errori nelle primi fasi della diffusione della
epidemia in Africa. La nota dell’agenzia di Ginevra riportava
quanto segue: «Al contrasto del virus ebola in Africa occidentale
è stata data una risposta del tutto inadeguata causata dall’in-
competenza dello staff, dalla burocrazia, dall’utilizzo di metodi
tradizionali di contenimento delle comuni malattie infettive e dal-
la mancanza di informazioni affidabili». Mentre tutti gli esperti
erano concordi nel ritenere impossibile una vera e propria epide-
mia di ebola in aree con sistemi sanitari sviluppati, i paesi occi-
dentali, oltre a sperimentare vaccini, sono stati impegnati a dis-
porre misure atte a identificare possibili casi di infezione e impe-
dirne l’eventuale diffusione, come il rilevamento della temperatu-
ra corporea dei passeggeri dei voli provenienti dalle zone colpi-
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te. Una soluzione che gli epidemiologi hanno fin da subito rite-
nuto di dubbia efficacia, perché una persona può avere la febbre
per altre ragioni e inoltre il virus potrebbe entrare attraverso
passeggeri già infetti, ma che ancora non mostrano i sintomi di
una febbre emorragica. In definitiva, i paesi ad alto indice di svi-
luppo non hanno dimostrato di reagire nel modo appropriato,
perché è in Africa, luogo d’origine della malattia, che l’ebola do-
veva essere combattuta. Lo dimostra il fatto che Nigeria e Sene-
gal sono stati in grado di contenere il propagarsi del virus e de-
bellare l’epidemia. Nel frattempo che Stati Uniti, Spagna, Francia,
Gran Bretagna e altri paesi comunitari sigillavano le frontiere,
Thomas Frieden, direttore dei Centers for Disease Control and
Prevention di Atlanta, che si occupa da anni di controllo e pre-
venzione delle malattie infettive, dichiarava che per proteggersi
dall’ebola non è sufficiente chiudere le dogane, ma è necessario
inviare operatori sanitari specializzati e mettere in atto protocolli
di assistenza nei luoghi dove il virus sta decimando la popola-
zione. È tuttavia importante rilevare che un altro fattore che ha
inciso in maniera particolare nel contrasto alla diffusione dell’e-
pidemia è costituito dalla scarsa fiducia della popolazione nei
confronti della medicina curativa, soprattutto se gestita da per-
sonale espatriato occidentale, talora visto come “portatore di
malattia” (in pratica l’apologo dell’untore al contrario). Secondo
Francesco Castelli, ordinario di Malattie infettive presso l’Univer-
sità degli Studi di Brescia e titolare della Cattedra Unesco 2014-
2018, per aiutare lo sviluppo dell’assistenza sanitaria nei paesi a
risorse limitate, “l’epidemia potrà spegnersi solo se verranno ri-
spettate le consegne di sanità pubblica (isolamento dei malati,
controllo alle frontiere, astensione dei riti tradizionali del lavag-
gio del corpo del defunto) e soprattutto se si creerà una sinergia
tra popolazione e sistema sanitario, oggi visto da gran parte del-
la popolazione come luogo dove si va a infettarsi e morire con la
paradossale conseguenza che molti malati sono nascosti nelle
famiglie perpetuando il ciclo del contagio”.
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LE CURE USATE: DAL SIERO “ZMAPP” AL PLASMA DI CONVALESCENZA


Quanto accaduto in questi mesi ha dimostrato che sebbene l’e-
bola non sia il virus più letale che c’è sulla Terra, è uno tra i più
temibili essendo associato a un alto tasso di mortalità e
non reattivo a cure specifiche. Fino ad oggi, infatti, non sono
disponibili farmaci o vaccini efficaci nei confronti dell’ebola. Trat-
tandosi di un’infezione che era sempre stata confinata con relati-
vamente pochi casi nelle aree rurali dei paesi poveri, la ricerca,
che richiede sempre la mobilizzazione di ingenti capitali, non si
era sostanzialmente mai interessata a questa infezione. Solo di
recente il governo degli Stati Uniti ha promosso la ricerca farma-
cologica nei confronti della infezione da virus ebola e da altri
agenti biologici potenzialmente in grado di provocare epidemie.
Uno dei prodotti di questa ricerca è il siero sperimentale
“ZMapp”, un cocktail di anticorpi ricavati nei topi e poi modifica-
to per essere usato negli uomini, che lo scorso agosto avrebbe
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Virus 41

salvato dalla morte i due operatori americani dell’organizzazione


non profit Samaritan’s Purse, che avevano contratto il virus in Li-
beria.
In questo caso, la sieroterapia ha consentito la guarigione dei
due volontari statunitensi, mentre nel caso di un anziano missio-
nario spagnolo infettato lo scorso luglio in Liberia e rientrato in
Spagna per curarsi, lo “ZMapp” non ha funzionato e padre Mi-
guel Pajares è stata la prima vittima europea dell’ebola. In tota-
le, il farmaco sperimentale è stato somministrato a sette malati
colpiti da Ebola, di cui cinque guariti. Su altri dei pazienti statu-
nitensi infettati nell’attuale epidemia è stata invece utilizzata la
terapia con plasma di convalescenza, in altre parole, la compo-
nente del sangue di persone di persone guarite e che quindi
hanno in circolo gli anticorpi contro il virus.
Tale pratica era già stata impiegata nel 1995 per trattare otto pa-
zienti del Kikwit, nella Repubblica democratica del Congo, che ri-
cevettero plasma di cinque convalescenti: in quel caso, solo uno
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42 Virus

dei malati non sopravvisse. Un tasso di mortalità del 12,5 per


cento, significativamente più basso rispetto a quello dei pazienti
non trattati con la terapia (allora pari all’80 per cento). In ogni
caso, otto pazienti sono troppo pochi per giungere a una conclu-
sione sull’efficacia del trattamento. E, inoltre, dal momento che i
livelli di anticorpi non sono uniformi in tutti i convalescenti, alcu-
ni scienziati ritengono che le trasfusioni potrebbero addirittura
avere l’effetto diametralmente opposto.
Ma l’Oms ritiene che la terapia potrebbe rivelarsi preziosissima
per le persone contagiate dall’ebola. Per questo, nello scorso
agosto, aveva stabilito che «il trattamento di pazienti con trasfu-
sioni sanguigne dai sopravvissuti alla malattia dovrebbe
avere priorità immediata tra tutte le terapie sperimentali in con-
siderazione per l’epidemia».

I VACCINI SELEZIONATI DALL’OMS


Ad ogni modo, è importante sottolineare che al momento non
esistono farmaci ufficialmente autorizzati per uso clinico contro il
virus ebola e quelli usati sono trattamenti sperimentali, mentre
hanno già preso il via i test di efficacia sull’uomo dei due vaccini
candidati selezionati dall’Oms: il cAd3-ZEBOV e e il rVSV-ZEBOV.
Il primo, sviluppato dalla multinazionale GlaxoSmithKline e dal
National Institute of Allergy and Infectious Disease statunitense,
è stato sperimentato nel Maryland su venti adulti sani e ha dato
buoni risultati dimostrando di essere ben tollerato e d’innescare
una risposta immunitaria. Gli esiti dei primi test, commentano gli
autori sul New England Journal of Medicine, permettono di pas-
sare alla seconda fase della sperimentazione: uno studio più am-
pio sul campo, in Africa occidentale, per verificare la sicurezza e
l’efficacia del vaccino nel prevenire le infezioni. Il cAd3-ZEBOV si
basa su un adenovirus della scimmia geneticamente modificato
che esprime le proteine di due ceppi del virus ebola (Sudan e
Zaire) responsabili di gran parte delle epidemie.
E già iniziata anche la sperimentazione dell’altro farmaco, l’rVSV-
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ZEBOV, messo a punto dall’equivalente canadese del nostro Isti-


tuto Superiore di Sanità. Lo scorso 10 novembre, i ricercatori del-
l’Università di Amburgo-Eppendorf, in Germania, hanno avviato il
protocollo che in accordo con l’Oms prevede la somministrazio-
ne a trenta volontari nell’arco di sei mesi. Il ritrovato farmaceuti-
co contiene virus modificati geneticamente, con una proteina di
superficie del virus ebola e il sistema immunitario delle persone
vaccinate dovrebbe sviluppare gli anticorpi contro la proteina,
creando quindi la difesa dalla malattia.
Oltre a ciò, l’Istituto farmaceutico militare di Firenze, sta speri-
mentando un farmaco che ha l’effetto di bloccare le emorragie
causate dal virus. Il ministero della Difesa italiano, in collabora-
zione con il dicastero della Salute, ne ha recentemente proposto
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la sperimentazione ad alcune organizzazioni non governative che


operano nei paesi africani maggiormente colpiti dall’epidemia in
atto. E finché non si giungerà alla scoperta di un antidoto effica-
ce, le terapie per curare il temibile virus restano l’isolamento e
una terapia di supporto che preveda il mantenimento della vole-
mia (il volume totale di sangue nell’organismo) e dell’equilibrio
idro-elettrolitico. Mentre per controllare il sanguinamento si può
somministrare plasma, piastrine, sangue, cui può essere utile ag-
giungere una copertura antibiotica per la prevenzione di infezioni
secondarie, oltre alla somministrazione di appositi farmaci antipi-
retici. E per il controllo di un eventuale shock cardiocircolatorio
è consigliabile la somministrazione di dopamina. Tutto questo,
tenendo presente che le possibilità di sopravvivenza aumentano
se i pazienti ricevono immediata assistenza.
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Virus 45

A incidere però sono anche altri fattori, come ad esempio il livel-


lo di inoculazione della malattia, ossia la dose di virus con cui il
malato è stato contagiato. E’ inoltre importante sapere che un
paziente è contagioso da quando esibisce i sintomi della malat-
tia e non durante l’incubazione e che il virus si trasmette rapida-
mente tramite il contatto con il sangue o altri fluidi corporei, co-
me muco, lacrime o la saliva. Anche il contatto con aghi o coltelli
usati dall’ammalato può trasmettere la malattia.

LA DIFFUSIONE DEL VIRUS


Le persone a più alto rischio sono i lavoratori della sanità e il
personale delle organizzazioni umanitarie non governative, che
forniscono assistenza e cure mediche nelle zone colpite. Oltre a
familiari e parenti che soprattutto nei villaggi e nelle zone più re-
mote sono in contatto ravvicinato con i malati. È stato anche di-
mostrato che questo agente patogeno non si diffonde tramite
aria, acqua o cibo, ma nelle scimmie è stata documentata la tra-
smissione in goccioline contenenti il virus. È molto probabile che
il contagio possa avvenire anche attraverso rapporti sessuali. Per
questo, anche se una volta guarito il paziente non può più dif-
fondere il virus, viene consigliata l’astensione da rapporti ses-
suali per almeno tre mesi, equivalenti allo stesso periodo nel
quale sono state riscontrate tracce di ebola nel liquido seminale
di ex malati.
Ebola provoca una serie complessa e rapidissima di sintomi, dal-
le febbri emorragiche al vomito e alla diarrea, al dolore ai mu-
scoli e agli arti e numerosi problemi al sistema nervoso centrale.
Alla fine di questa tremenda agonia, il paziente si spegne per
consunzione. Per avere un quadro completo è necessario sapere
che nel corso di quest’ultimo focolaio senza precedenti in Africa
occidentale, la maggior parte dei casi di malattia si è diffusa at-
traverso la trasmissione da persona a persona. I casi iniziali so-
no stati contratti manipolando animali o carcasse infetti, mentre
i casi secondari si sono verificati attraverso il contatto diretto
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con i fluidi corporei di una persona malata, durante la cura dei


casi a rischio o durante pratiche di sepoltura non sicure.
Nei casi precedenti le epidemie di ebola hanno sempre avuto un
decorso molto rapido, uccidendo alcune centinaia di persone e
“spegnendosi” senza avere il tempo di diffondersi oltre i confini
della zona colpita. Prima di quella che lo scorso febbraio ha col-
pito l’Africa occidentale, la più letale epidemia di ebola era stata
quella che si diffuse nel 1976 nell’allora Zaire, oggi Repubblica
democratica del Congo, con un bilancio di 318 contagiati e 280
decessi. Un’altra epidemia con elevato tasso di mortalità fu quel-
la che scoppiò nel 2000 in Uganda, con un bilancio di 425 con-
tagiati e 224 decessi. Il periodo di incubazione, dal momento del
contagio all’insorgenza dei primi sintomi, va da due a ventuno
giorni. La morte è fulminante e sopraggiunge nello stesso perio-
do. Il materiale genetico è composto dall’Rna, che va incontro a
mutazioni non particolarmente rapide e contiene solo sette geni.
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Virus 47

Il virus appartiene alla famiglia dei Filovirus, nome che è stato


attribuito a causa della forma filamentosa. La sua prima scoperta
risale al 1976, da allora, sono stati isolati cinque ceppi diversi, di
cui quattro sono risultati letali per l’uomo.
Il cosiddetto serbatoio naturale dell’ebola sono molto probabil-
mente le volpi volanti, grossi chirotteri che mangiano frutta e
abitano le foreste tropicali. Molti virologi sono orientati a ritene-
re che il virus sia presente all’interno di questi animali da moltis-
simo tempo. Per arrivare all’uomo, l’ebola potrebbe essere pas-
sato dalle volpi volanti alle scimmie, o altri animali della foresta,
attraverso il fenomeno del “bush-meat”, vale a dire il consumo
di carne ricavata da animali selvatici come antilopi o scimpanzé.
Ad avvalorare questa tesi, il fatto che la trasmissione del
virus sia aumentata da quando compagnie occidentali e cinesi
siano penetrate nella giungla africana per il disboscamento e la
ricerca di fonti di minerali.

CRITICITÀ SEMPRE ELEVATA


Sebbene la situazione sia migliorata in Liberia e Guinea, anche
se in Sierra Leone l’Oms non è ancora riuscito a raggiungere gli
obiettivi prefissati, la criticità dell’epidemia è sempre rilevante
data la velocità di diffusione e le recenti dichiarazioni del diretto-
re generale dell’Oms, Margaret Chen, secondo cui quella in corso
in questo momento non sarà l’ultima epidemia di ebola, perché
nell’area sub-sahariana ci sono 22 paesi che potrebbero vedere
in futuro nuovi focolai del virus. Non rassicurano neanche le ana-
lisi genetiche pubblicate lo scorso 29 agosto su Science, secon-
do le quali il virus sembra mutare alquanto rapidamente sulla
base dello studio di 99 ceppi virali prelevati da 78 pazienti infet-
tati in Sierra Leone, i cui genomi sono stati accuratamente se-
quenziati (diverse copie del virus trovate in ogni singolo pazien-
te sono state sequenziate), andando a costituire il più grande
database genetico mai rilasciato sull’ebola.
Per quanto riguarda invece la storia propria del virus, i ricercatori
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hanno stabilito che quello attuale si è separato da quelli respon-


sabili delle ultime epidemie di ebola circa dieci anni fa e che in
questo periodo ha accumulato quasi quattrocento mutazioni,
molte avvenute nel giro di appena un mese. E non è escluso che
nuove mutazioni possano avere luogo e renderlo ancora più ag-
gressivo, soprattutto se l’epidemia continuerà a lungo. È pur ve-
ro che intanto si moltiplicano gli sforzi per sviluppare un vacci-
no, ma prima che questo sia pronto e che ne siano prodotte una
quantità di dosi sufficiente a immunizzare l’intera popolazione a
rischio, passeranno nella più ottimistica delle ipotesi molti mesi
durante i quali aumenterà il numero di infetti.

Marco Cochi
Giornalista esperto di cooperazione internazionale
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Internet, untore
o manipolatore?
L’illusione della democrazia digitale, il controllo dell’informazione,
l’orientamento dell’utenza (e dei consumatori), la censura e i ricavi dei motori
di ricerca: la Rete non è solo un mezzo di diffusione di idee, ma anche un
quesito fondamentale sulla libertà dei cittadini di un “mondo connesso”

Maria Grazia Leo

S uperata la televisione e la stampa tradizionale, Internet si affer-


ma come strumento post moderno di soft power, formale (nel
senso istituzionale) e informale. Idee, cause, petizioni e indottrina-
mento viaggiano prevalentemente sulla Rete sfruttando la sua ca-
pacità virale. Cambia il concetto di “quarto potere” perdendo i
suoi caratteri elitari: una buona comunicazione, anche con respiro
globale, non ha più necessità di basarsi su grandi capitali né di
essere sostenuta da poteri finanziari e politici. La forza della Rete
sta nella facilità di connessione, nonostante il problema del digital
divide sia ancora forte. È sufficiente riflettere su un dato fonda-
mentale: dai 394 milioni nel 2000 gli utenti nel mondo, nel 2014,
sono quasi tre miliardi, cioè circa il 40 per cento di tutte le perso-
ne sulla Terra. Questa è la dimensione che ha raggiunto Internet in
14 anni. La maggior parte degli utenti web si trova in Asia orienta-
le con il 41 per cento, seguita dall’Europa con il 26 e il Nord Ame-
rica con il 14.

IL WEB FA DEMOCRAZIA?
L’utilizzo delle tecnologie della comunicazione e dell’informazione
rappresenta uno dei traguardi fondamentali delle politiche di inclu-
sione sociale e culturale dell’Unione europea. In Italia il 54,8 per
cento della popolazione di 6 anni e più utilizza Internet, ma solo il
33,5 per cento lo fa quotidianamente. Le nuove generazioni utiliz-
zano maggiormente Internet: quasi 9 giovani su 10 tra i 15 e i 24
anni si connettono e più della metà lo fa tutti i giorni. Dal 2001 al
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2013 si è registrato un aumento consistente nella quota di utenti


di oltre 27 punti percentuali, mentre il numero di utenti che utiliz-
za quotidianamente Internet si è quasi quintuplicato (dal 7,1 per
cento del 2001 al 33,5 per cento del 2013). Un passo in avanti im-
portante per chi, a ragione, sostiene che l’accesso alla Rete è or-
mai un indice di base per accertare lo stato di democrazia di un
paese. Non a caso forti censure e restrizioni di accesso costituisco-
no una delle armi fondamentali dei regimi dittatoriali e degli Stati
autoritari per prevenire e reprimere idee e iniziative in senso con-
trario a quelle di governo. Tentando un confronto internazionale, il
numero di utenti di Internet in Italia è inferiore alla media euro-
pea. La quota di persone di 16-74 anni che si connette almeno
una volta a settimana si attesta – a seconda delle indagini effet-
tuate – al 53/56 per cento, a fronte di un valore medio per i paesi
dell’Ue pari a quasi il 70 per cento. Dipende essenzialmente dal li-
vello di investimenti sulla banda larga, da piani di educazione e
formazione ad hoc ma anche dalla sensibilità delle diverse classi
dirigenti: è per questo che il la compagine europea risulta, anche
su questo aspetto, parecchio divisa tra un’Europa del Nord e la
parte “più bassa”, intendendo come tale i paesi dell’Europa medi-
terranea e orientale. Il dato, oltre a essere essenzialmente tecnico,
è anche concettuale visto che, da oltre un decennio, il principale
dibattito attorno alle potenzialità della Rete è se questa sia o me-
no – e se sì, fino a che punto – un indice di democrazia. Non solo:
se Internet sia la vera democrazia proprio perché apparentemente
libera, veicolando informazione non controllata.
Un discorso che, in ambito europeo, chiama in causa il nostro pae-
se prima di ogni altro. Il caso del Movimento 5 stelle è, per molti,
un esempio di come la libera e democratica Rete possa superare
trincee elevate da quello che un tempo si era soliti chiamare “po-
tere costituito”. Se, per fare un esempio, il tedesco Partito dei pi-
rati ha avuto un risultato apprezzabile sia nelle elezioni dei Lander
che in quelle federali, non è paragonabile al successo del movi-
mento grillino, riuscendo a conquistare una buona parte dei seggi
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dell’opposizione parlamentare, oltre a diverse amministrazioni lo-


cali. Si è parlato di grande capacità del “grillismo”, senza però
prendere in considerazione la maggiore permeabilità della politica
italiana rappresentando essa istituzioni in costante perdita di cre-
dibilità umana e politica. Aspetto che non è possibile riscontrare
nel panorama politico teutonico. E, dunque, più facile è stato il
“colpo”. Quello che è certo è che l’esperienza pentastellata ha da-
to uno scossone in più, e forte, alla lentezza dell’azione politica
italiana. Non a livello di amministrazione, cioè di politica pratica,
ma nel senso di impegnare i partiti (ancora parecchio tradizionali)
a una riflessione seria sulla propaganda. Termine col quale si vuo-
le indicare non la diffusione dello slogan in sé, ma di mutare l’am-
biente di comunicazione e spiegazione delle singole idee politiche.
Ammesso, sia chiaro, che si voglia necessariamente costringere
partiti e politica a indossare una veste nuova che, talvolta, la stes-
sa Rete manipola e deforma. Scomparendo progressivamente –
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per un fatto essenzialmente anagrafico – la platea dei “nostalgici”,


quelli da tribuna politica in televisione e comizi nelle piazze, l’ac-
caparramento di informazione politica si è spostato su computer,
tablet e smartphone. Con tutti i rischi connessi, a cominciare dalla
spersonalizzazione. L’esperienza del 5 stelle mette in evidenza la
prevalenza dell’idea sul profilo personale e politico: l’assenza di
esperienza (e talvolta di argomentazioni) viene camuffata dai “ma-
novratori” del movimento come positiva, come l’aspetto necessa-
rio per mandare in frantumi l’immagine del politico di professione,
quello “eterno”. Ma il messaggio di base, quello che anima l’es-
senza stessa di questa novità politica è il mettere al centro del
discorso (e dei fatti) la Rete. Che, sostengono i seguaci del Movi-
mento, è l’unica e vera garanzia di democrazia. È, essa stessa, la
democrazia. Sicuramente eccessivo, fuorviante, un’affermazione
che ha in sé dolo.
«Molte delle piattaforme online usate per l’impegno politico fun-
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zionano più o meno come scatole nere che nessuno può aprire e
scrutare. La gente ha l’illusione di partecipare al processo politico
senza avere mai la piena certezza che le proprie azioni contino.
Non è esattamente un buon modello per la ridefinizione della poli-
tica». Questa è un punto di vista perentorio, elaborato da Evgeny
Morozov. Giovanissimo – almeno se paragonato alle menti solite di
queste latitudini – sociologo e giornalista bielorusso, classe 1984,
per un fatto anagrafico dovrebbe abbracciare la tendenza virtuale
rispetto alla “normalità”, ma ribalta i più assodati luoghi comuni
del cyber-ottimismo, minando il mito che Internet sia di per sé una
forza per il cambiamento sociale, che elevi l’istruzione, salvi l’eco-
nomia o rovesci un dittatore.
Con il suo L’ingenuità della Rete (Codice Edizioni) Morozov smonta
l’idea che una rivoluzione sia stata fatta o possa essere fatta, per
esempio, su Twitter, visto che, tra l’altro, governi per nulla demo-
cratici hanno usato piattaforme digitali piegandole ai loro fini. Nel
suo lavoro più recente (Internet non salverà il mondo per Monda-
dori) Morozov attacca la follia del «soluzionismo tecnologico», l’i-
deologia che nella Silicon Valley ha il suo motore più propulsivo e
che ritiene che ogni situazione sociale complessa possa essere ri-
solta con il giusto algoritmo. Il suo è un punto di vista interessan-
te, per nulla ideologico rispetto all’ortodossia digitale: Internet co-
me entità unica a sé stante non esiste, Internet è cosa umana, av-
verte Morozov, invitando a esercitare una vivace critica nei con-
fronti di quello che definisce Internet-centrismo, un atteggiamento
generalizzato a interpretare ogni aspetto della vita sociale e politi-
ca, ancor più i cambiamenti, sotto la lente distorta di della Rete.
Ciò che viene sottolineato è questo: non è che la tecnologia non
funzioni, anzi funziona bene però non dipende dall’inevitabile ben-
sì dalle scelte di individui precisi, università, governi e aziende.
Non a caso nel mirino di Morozov, in contrasto con mezzo mondo,
era finito il fondatore della Apple, Steve Jobs, genio del marketing,
capace di trasformare una normale azienda produttrice di compu-
ter nell’oggetto di una vera e propria venerazione. Per analizzare i
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limiti degli approcci tecnocratici ai problemi sociali, Morozov attin-


ge agli studi di comunicazione e di filosofia politica e ricostruisce
le interpretazioni del mito dominante di Internet attraverso opere
chiave della storia, sociologia e antropologia della scienza e della
tecnologia. Prima di emigrare negli Stati Uniti, ha lavorato a Trans-
ition Online, organizzazione non governativa con sede a Praga
che, attraverso internet, si occupa della diffusione dell’informazio-
ne nei paesi dell’Europa dell’Est. Ed è proprio in quegli anni che
ha maturato la sua posizione critica nei confronti dell’idolatria del
mezzo internet. In Russia come in Cina – racconta – gli spazi di in-
trattenimento online sono studiati apposta per spostare l’attenzio-
ne dei giovani dall’impegno e dalla partecipazione civile. «Gli intel-
lettuali di internet non riescono a vedere a un palmo dal loro iPad.
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E in quegli iPad vedono solo delle “piattaforme”, e non dei pro-


dotti assemblati in dubbie condizioni di lavoro in qualche fabbrica
asiatica per generare entusiasmo nei loro fortunati possessori»:
una spiegazione molto in linea con quella che possiamo definire
“cecità” di una parte della “cittadinanza attiva” che si è voluta-
mente consegnata alla “forza della Rete”. La conclusione del so-
ciologo bielorusso sembra potersi condividere facilmente: il web è
utile, non esclusivo né neutrale e non lo sono, ovviamente, né Fa-
cebook, né Google, né Wikipedia. Questo perché la Rete è uno
strumento eccezionale, ma bisogna conoscerla per non rimanerne
intrappolati; i social network possono aiutare a spodestare un dit-
tatore, non a costruire una rivoluzione, perché per garantire forme
efficaci di cambiamento sociale è necessario rimanere calati nella
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realtà. È ora venuto il momento, secondo Morozov, di cominciare


ad affrontare l’utilizzo proprio di questa tecnologia e abbandonare
il miraggio che i nostri problemi più complessi possano essere ri-
solti con un semplice click del mouse.

La censura è una realtà. Ma il web è comunque “comandato”


Non sono pochi i casi in cui si sente parlare di “bavaglio” a Inter-
net. C’è il caso della Cina, il cui governo esercita un controllo con-
tinuo e anche i governi mediorientali e nordafricani assediati dalle
manifestazioni della “Primavera araba” hanno, i più occasioni, “da-
to una stretta” al web. Normalmente sono le dittature e i governi
autoritari a limitare l’accesso alla Rete al fine di evitare che la po-
polazione venga raggiunta da idee contrarie a quelle di governo.
Chi è al potere ha paura di rovinare la sua immagine all’esterno e
vuole nascondere quello che succede dentro i confini. In paesi co-
me la Cina e, soprattutto, la Corea del Nord sono molto preoccu-
pati di nascondere alla popolazione quello che pensano di loro
all’esterno e, al contempo, ci tengono a mostrare solo cose positi-
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ve alle altre nazioni di tutto il mondo. In alcuni paesi, come quelli


arabi, c’è anche una censura che si può definire “sociale”, per im-
pedire alla popolazione di vedere siti che trattano argomenti come
il sesso, il gioco d’azzardo, le droghe illegali e altri costumi non in
linea con i dettami religiosi che si intrecciano con quelli politico-
istituzionali. Parecchio invasivo è il sistema elaborato in Iran: un
nuovo sistema in perfetto stile “grande fratello” identificherà ogni
singolo utente collegato alla Rete. È il progetto annunciato dal mi-
nistro delle Telecomunicazioni, Mahmud Vaezi: “In futuro, quando
le persone vorranno utilizzare internet, saranno identificate e co-
nosceremo l’identità di ogni internauta”. Il mese scorso Vaezi ave-
va annunciato il varo in tre fasi entro maggio 2015 di un altro si-
stema in grado di filtrare in maniera selettiva siti come quelli di
vari social network senza però continuare a bloccarli del tutto co-
me avviene ora. Sono due anni che Teheran lavora a questo fil-
traggio di reti sociali come Twitter e Facebook, censurate dal 2009
perché utilizzate nell’organizzazione delle proteste contro la con-
troversa rielezione dell’allora presidente Ahmadinejad. Anche mol-
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tissimi altri siti, considerati immorali o pericolosi politicamente,


sono oscurati in Iran sebbene diventino poi accessibili grazie a dif-
fusi software pirata. L’attuale presidente Hassan Rohani ha tuttavia
promesso un allentamento della censura che infatti, nonostante le
esortazioni di un Comitato per il controllo dei contenuti su inter-
net, continua a risparmiare applicazioni come Istagram, Viber, Tan-
go e WhatsApp tuttora accessibili.
E spesso anche i cyber-attivisti finiscono per essere perseguitati o
privati della libertà. Il caso più noto è quello del blogger russo
Alexei Navalny, nemico dichiarato di Vladimir Putin. Quando si par-
la di censura su Internet ci si riferisce alla soppressione, parziale o
totale, della possibilità di accedere, pubblicare o navigare su siti e
portali web. Può essere messa in atto sia da enti governativi, da
organizzazioni private per ordine degli stessi enti governativi, da
parte del legislatore. Mentre nella gran parte dei paesi democratici
l’accesso al web è sostanzialmente libero (tranne in casi di palese
violazione di norme, come accade per i portali che permettono di
scaricare materiale protetto da copyright), in altre realtà la censura
può assumere toni più o meno duri, sino ad arrivare alla chiusura
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dei “rubinetti” della Rete. In casi come questi, la mano del censo-
re può arrivare a impedire l’accesso ai canali informativi o la libera
discussione tra i cittadini. La censura del web può essere anche
preventiva: alcuni paesi, in occasione di elezioni, manifestazioni di
massa e possibili moti di protesta, possono arrivare a precludere
l’accesso ai servizi web anche con giorni di anticipo.
Rispetto alla censura tradizionale quella digitale può travalicare fa-
cilmente i confini nazionali impedendo ai cittadini, per esempio, di
accedere non solo ai canali informativi locali ma anche ai canali
informativi internazionali. A meno che l’ente governativo non abbia
il controllo totale sull’intera infrastruttura di Rete e su tutti i com-
puter dotati di un accesso a Internet – cosa che accade, ad esem-
pio, in Nord Corea e Cuba – è molto difficile riuscire a mettere in
atto un’azione che censuri tutti i contenuti presenti nella Rete. La
natura distribuita delle risorse web, infatti, rende (più o meno) fa-
cilmente aggirabile ogni blocco, permettendo agli utenti di bypas-
sare eventuali blocchi. Nella pratica, il censore digitale ha a dispo-
sizione diversi mezzi per riuscire a portare a compimento i propri
scopi. Dai filtri che impediscono la navigazione verso determinati
portali o verso alcuni indirizzi ip a blocchi più generalizzati, il pa-
norama della censura online è piuttosto ampio.

● Blocco degli indirizzi ip. È la soluzione tecnica più


semplice da mettere in atto per censurare un sito o una
risorsa web. Si impedisce a tutti i computer che com-
pongono la Rete (o di una sottosezione della Rete) di
accedere a un determinato indirizzo ip, rendendolo ir-
raggiungibile. Una mossa del genere può impedire l’ac-
cesso a un portale web o a una serie di siti web, nel ca-

● Filtro e reindirizzo dei dns. Una seconda soluzione


so in cui il server corrispondente all’ip ne ospiti diversi.

tecnica per censurare Internet può passare attraverso il


controllo dei dns e il reindirizzamento delle richieste
verso altri portali. Ciò impedisce agli utenti di raggiun-
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● Filtro url. Il blocco viene attuato in base a determina-


gere determinate risorse di Rete.

te parole chiave che possono essere presenti negli url

● Disconnessione di Rete. Il metodo più semplice ma


(Uniform Resource Locator).

probabilmente il più efficacie. Agire, via software o via


hardware, sulle dorsali nazionali e disconnettere l’intero

● Rimozione dei risultati. Gli isp (Internet service provi-


paese.

der, “fornitori del servizio Internet”) e i motori di ricerca


possono fare in modo di “oscurare” determinati siti e
renderli virtualmente inaccessibili. I motori di ricerca,
per esempio, possono eliminare dei “siti-obiettivo” dalla

● Attacchi hacker. Concentrando una serie di attacchi


lista dei risultati.

(specialmente attacchi DoS) verso un sito può avere gli


stessi effetti delle azioni di blocco e filtraggio descritte
precedentemente: sito irraggiungibile e risorsa censura-
ta. Recentemente, per fare un esempio, il Syrian Electro-
nic Army (gruppo di hacker vicino al presidente siriano
Bashar al-Assad) ha reso irraggiungibili i siti di alcune
testate giornalistiche (in Italia colpito anche il web della
Repubblica).

Il grado di censura dipende dalla volontà degli enti governativi


preposti al controllo della Rete. Ne risulta una mappa piuttosto va-
riegata. Tra gli altri, il Committee to Protect Journalists, organizza-
zione non governativa con sede a New York, redige ogni anno la
lista dei dieci paesi che applicano le norme più restrittive di con-
trollo della navigazione. Nel 2013 il primato è andato alla Corea
del Nord: il governo di Kim Jong-un ha il controllo su tutti i com-
puter connessi alla Rete e appena il 4 per cento della popolazione
ha la possibilità di accedere a Internet. Segue il Myanmar (l’esecu-
tivo applica filtri stringenti sui messaggi di posta elettronica) e Cu-
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ba (si può accedere a Internet solo tramite “access point” governa-


tivi e l’attività è monitorata grazie al filtro ip). Poi Arabia Saudita,
Iran, Cina, Siria, Tunisia, Vietnam e Turkmenistan. Un’altra Ong spe-
cializzata, Reporter senza frontiere, applica indici più rigidi per rea-
lizzare la lista dei paesi “nemici della Rete”, cioè quelli che si se-
gnalano per la propria capacità non solo di censurare risorse sul
web, ma anche per la “repressione quasi sistematica subita dagli
internauti”. Nell’elenco aggiornato al 2014 troviamo alcuni “volti
noti” come Myanmar (presente dal 2006), Iran (2006), Cuba
(2006), Siria (2006), Cina (2008) ma anche presenze inattese come
India, Stati Uniti e Regno Unito. Nella lista dei paesi sotto sorve-
glianza, invece, ci sono l’Australia (dal 2009), la Francia (dal 2011)
e la Corea del Sud (2011). Presenze particolari che inducono a una
riflessione: il web non è completamente libero, neanche nei paesi
che tradizionalmente vengono annoverati tra le grandi democrazie
del mondo. Condizionamenti, pare di capire, esistono ovunque,
con la conseguenza che l’informazione che arriva ai destinatari-
utenti della Rete è, in qualche modo, orientata.
Si può riflettere su un aspetto decisamente palese ma spesso sot-
tovalutato. Un enorme volume di interazioni e di contenuti presen-
ti online è di natura commerciale e/o produttiva e addirittura alcu-
ne delle più grandi community esistenti sono di tipo commerciale.
Non è facile avere dati precisi al riguardo perché occorrerebbe una
sorta di censimento continuo da effettuare su una realtà che – non
è esagerato – cambia anche in poche ore. La Rete va vista come
un enorme spazio mercantile, dove ci si informa sulle merci, i pro-
dotti e i servizi, e dove li si vende e li si acquista. Il web è il più
grande iper-megastore esistente, l’unico in cui si può comprare ve-
ramente tutto quello che esiste. È quindi un luogo di relazioni
commerciali, soggetto alle leggi, seppur modificate, della domanda
e dell’offerta, che null’altro sono che relazioni di forza – pressioni,
difese, contrattacchi – dove i soggetti che si confrontano non sono
paritari. L’emblema di questa riflessione sono i motori di ricerca.
La Rete non è nata con i motori di ricerca incorporati, ma già nel
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1993, dunque quasi subito, ci si è preoccupati di mettere a punto


dei sistemi per aiutare gli internauti a trovare le cose. Ma quali
siano i criteri utilizzati per aiutarci non lo sappiamo tanto bene,
anche perché questi criteri costituiscono una sorta di segreto in-
dustriale che determina il vantaggio competitivo sulla concorren-
za. L’algoritmo di Google – sostengono diverse voci tecniche e
teoriche a livello mondiale – è come la formula della Coca Cola.
Ed è sotto gli occhi di ogni utente, anche non qualificato, che il
potere della società di Mountain View, è in costante aumento. Dei
motori di ricerca si possono sottolineare con estrema facilità alcu-
ni aspetti: che il limite fra pubblicità e non pubblicità è abbastan-
za sottile e non sempre percepibile dagli utenti, anche abituali;
che quanto più le nostre domande sono precise, tanto più i risul-
tati si restringono e quindi questo esplicita la necessità di una
certa competenza da parte degli utenti; che, visti i ricavi dei loro
proprietari, il fine principale non è certo un filantropico aiuto all’u-
tente che cerca qualcosa sul web. C’è, poi, non meno importante
nell’analisi, il peso dei cookie o dei web bug che ci agganciano
mentre noi ci muoviamo in rete e ci seguono ovunque, ci “atten-
zionano” e ci “profilano” per poi fornirci in modo automatico pub-
blicità delle cose che ci interessano di più. Un vero e proprio mec-
canismo di controllo, dunque, senza mezzi termini. Tutto possibile
per effetto di una costante violazione dei propri dati personali. Il
pericolo non è tanto l’essere invasi da quantità enorme di pubbli-
cità, ma quello di un’abitudine al controllo in modo, peraltro, sub-
dolo perché non traumatico.

UN HASHTAG PER LA JIHAD


Nelle ultime settimane, mentre le potenze occidentali cercano di li-
mitare l’avanzata dei guerriglieri dello Stato islamico anche colla-
borando con qualche paese arabo, il lavoro degli analisti di intelli-
gence interessa pure quel “salto di qualità” mediatico degli jihadi-
sti. I video delle decapitazioni rientrano in strategie di soft power
dell’islamismo. Di lì gli eventi di emulazione e, prima ancora, una
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prova di forza, un modo per dimostrare la propria capacità di offe-


sa. Tant’è che mostrare un prigioniero che viene decapitato è ac-
compagnato da messaggi: agli Stati Uniti, all’Occidente in genera-
le. Una pratica che conferma ciò che dicono gli esperti e cioè che
l’attuale nemico (la “manovalanza” dello Stato islamico) oltre a es-
sere più spietato di al-Qaeda, è più preparato in termini di tecno-
logia. La guerra santa dei militanti dell’Isis non si combatte solo a
colpi di versetti, ma attraverso una raffica di tweet. Parole chiave
della nuova strategia jihadista 2.0 sono: viralità e coinvolgimento,
snodi centrali di una propaganda orientata sui social media. Ecco
un confronto tra la compagine di Osama bin Laden e quello ca-
peggiata dal “califfo” Abu Bakr al-Baghdadi. Nell’autunno del 2007
i militari della Forza multinazionale in Iraq ritrovarono 23 terabytes
di documenti digitali destinati alla propaganda di al-Qaeda. All’e-
poca i terroristi di bin Laden potevano contare su otto uffici speci-
fici e sull’al-Furqan Institute for Media Production. Oggi l’Isis ha
fondato l’al-Hyat Media Center, che mira a un pubblico occidentale
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pubblicando video in inglese, tedesco, russo e francese. Il livello


del conflitto si è dunque allargato all’arena dei social network do-
ve l’Isis recluta proseliti, raccoglie fondi e radicalizza lo scontro. I
drammatici video delle decapitazioni degli ostaggi non hanno solo
riempito le prime pagine dei quotidiani, ma hanno anche generato
una escalation virale su piattaforme come Twitter e Youtube. Su
quest’ultimo sono stati pubblicati circa 200mila video riguardanti
la decapitazione di James Foley: tra questi soltanto i tre più popo-
lari hanno generato circa sette milioni di visualizzazioni. Numeri
impressionanti.
I militanti Isis sembrano preferire Twitter come piattaforma di co-
municazione. Grazie al coinvolgimento di esperti informatici è stata
lanciata l’app “The Dawn” in grado di coinvolgere e tenere aggior-
nati un elevato numero di utenti. Gli utenti, dopo aver scaricato
sul proprio telefonino l’applicazione, mettono i loro account Twit-
ter a disposizione dei terroristi che possono così coordinare e am-
pliare l’efficacia dei messaggi. Grazie a questa applicazione si è re-
gistrato il picco di 40mila tweet inviati nel giorno in cui le milizie
dell’Isis sono entrate nella città irachena di Mosul. Nonostante
Twitter abbia chiuso un numero elevato di account “in odore di ji-
had”, le nuove leve del terrorismo digitale sfruttano l’impatto degli
hashtag per veicolare messaggi di terrore. Precise figure dell’Isis,
organizzando dei tweetstorm mirati, sono ormai in grado di coor-
dinare delle vere e proprie campagne social. Tramite l’aggregatore
@ActiveHashtags gli argomenti rilanciati dall’Isis toccano una me-
dia di 72 retweet per messaggio riuscendo in questo modo a en-
trare nelle classifiche dei cosiddetti topic trend, i temi più trattati
sul social. L’hashtag #ISIS ha superato, per numero di menzioni,
quello del principale concorrente del gruppo in Siria, Jabhat al-Nu-
sra, anche se i due gruppi hanno simile numero di sostenitori onli-
ne. Nei mesi precedenti l’escalation del conflitto il topic #ISIS ha
spesso registrato più di diecimila menzioni al giorno, mentre il nu-
mero di al-Nusra variava tra le 2.500 e le cinquemila citazioni. Nel
mese di agosto 2014, all’inizio dei raid aerei americani, l’Isis ha
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lanciato una violenta campagna contro gli Usa sui social media.
Utilizzando gli hashtag #CalamityWillBefallUS e #AMessageFromISI-
StoUS si è chiesto ai seguaci della jihad di twittare in inglese per
rendere i messaggi di terrore comprensibili agli occidentali.

Maria Grazia Leo


Avvocato, pubblicista, cultore di Istituzioni di diritto pubblico
presso l’Università “Federico II” di Napoli
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La viralità della jihad 2.0:


i foreign fighter
Giovani occidentali che abbandonano la vita precedente per seguire
la strada dell’estremismo, trasformandosi nei peggiori nemici di quella
parte del mondo che li ha accolti e visti crescere. Non si tratta
più, soltanto, di una trama da romanzo

Alberico Travierso

M ohsin Hamid, scrittore pachistano diventato un punto di riferi-


mento importante per l’intera letteratura post 11 settembre,
nel suo romanzo Fondamentalista riluttante narra proprio la storia
di un ragazzo del Punjab che trova soldi, amore e carriera a New
York, ma lascia tutto e sceglie la strada della lotta violenta allor-
ché la tempesta seguita all’abbattimento delle Torri Gemelle travol-
ge il suo mondo. Una parabola di integrazione mancata, perché ri-
fiutata, che lascia trapelare inquietanti interrogativi su più o meno
lontani scontri fra civiltà. E rischia di mettere in discussione mo-
delli di convivenza da tempo ritenuti ineluttabili.

UNA FEROCIA NON PIÙ SOTTOVALUTABILE


Lo scorso 23 ottobre, a Ottawa, capitale del Canada, un comman-
do di tre uomini ha fatto irruzione nella sede del parlamento, ucci-
dendo un soldato, e seminando ulteriore terrore in un paese già
provato, pochi giorni prima, dall’assassinio di un altro militare, in-
vestito stavolta da un automobilista omicida. I due attentati hanno
in comune, oltre al fatto che solo eventi fortuiti e casualità hanno
impedito un numero maggiore di vittime quello, ancor più signifi-
cativo, che a condurli siano stati due giovani cittadini canadesi,
entrambi rimasti uccisi nel corso delle loro folli azioni, che di re-
cente avevano abbracciato la causa dell’Islam jihadista e dello Sta-
to islamico dell’Iraq e della grande Siria (Isis). Il capo del comman-
do di Ottawa era un trentaduenne di nome Michael Joseph Hall,
auto ribattezzatosi Zehaf-Bibeau o anche Abdul, nel momento del-
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la sua affiliazione al Califfato. Allo stesso modo, il suo compagno


di lotta, Martin Couture-Rouleau si faceva chiamare Abu Ibrahim al-
Canadi, identità con cui la sua conversione alla lotta jihadista radi-
cale era ormai nota e conclamata. Anatemi contro l’Occidente,
messaggi intimidatori su Internet e Facebook, oltre ai segni este-
riori più tipici, come un certo tipo di abbigliamento e di look este-
tico, come la barba folta, avevano da tempo fatto sì che entrambi
gli attentatori fossero considerati soggetti «ad alto rischio» dal go-
verno canadese, facendo ritirare loro perfino i passaporti. Si teme-
va, infatti, che avessero potuto tentare di raggiungere le brigate
del terrore in Siria e Iraq, passando per la Turchia, lungo quella
che è stata ribattezzata dagli analisti «l’autostrada dei jihadisti».
Quanto poco lungimiranti siano state le autorità di Ottawa nel sot-
tovalutare un eventuale atto sovversivo sul proprio territorio, tanto
più che Zehaf-Bibeau era stato arrestato ben cinque volte per pos-
sesso di droga e reati minori, è argomento che esula questa tratta-
zione. Non si può non sottolineare, però, come il Canada sia un
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paese molto attivo nella guerra in Iraq contro gli islamisti, e di


conseguenza rientri spesso nelle invettive sanguinarie dello pseu-
do califfo al-Baghdadi. Allo stesso modo, va evidenziato uno dei
pericoli maggiori di questo (relativamente) nuovo fenomeno terro-
ristico: il fatto che l’Isis, così come in parte a suo tempo al-Qaeda,
possa spargere terrore anche tramite iniziative locali, prese spon-
taneamente sul posto e in linea con le indicazioni ideologiche pro-
veniente dal centro, e diffuse magari anche solo online. Un perico-
lo di “cani sciolti”, insomma, su cui ci soffermeremo più avanti, e
che con molta probabilità è stato imprudentemente sottovalutato.
Si è dovuto però attendere ancora qualche settimana per assiste-
re, purtroppo, a un vero e proprio salto di qualità del macabro co-
involgimento di persone di provenienza occidentale nella barbarie
jihadista. Il 16 novembre l’Isis ha infatti diffuso un video in cui si
mostra la decapitazione dello statunitense Peter Kassig, un ex ran-
ger convertitosi all’Islam e diventato un operatore umanitario atti-
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vo soprattutto nella zona di confine fra la Siria e il Libano meridio-


nale. Si tratta del quinto ostaggio occidentale giustiziato in tal
modo dallo scorso agosto, ma quest’ultima esecuzione ha scon-
volto ancor più del solito l’opinione pubblica, a causa di due
aspetti fondamentali. Il primo è l’estrema brutalità del video, dav-
vero elevata anche per gli standard sanguinari del Califfato: dopo
l’uccisione di Kassig, viene infatti mostrata, con sadica dovizia di
particolari, la decapitazione di massa di diciotto soldati siriani ad
opera di altrettanti jihadisti, che ne mostrano le teste con un
trionfalismo a dir poco macabro e delirante. Il presidente Obama
ha tacciato il tutto come «pura malvagità», mentre il lavoro di in-
telligence ha permesso di identificare il luogo dell’esecuzione (e
molto probabilmente, anche di quelle precedenti) in una collina vi-
cino a Raqqa, in Siria. A ogni modo, l’ultima famigerata azione dei
boia dell’Isis sembra aver dato, finalmente, la definitiva scossa
all’opinione pubblica internazionale, anche a causa del secondo
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degli aspetti su citati, che è pure quello che più rileva in questa
sede, e consiste nel fatto che, fra i carnefici, sono stati identificati
ben cinque europei: due inglesi, due francesi e un tedesco.

I BOIA DELLA PORTA ACCANTO


Fra i protagonisti occidentali del plotone di esecuzione jihadista
spicca indubbiamente per celebrità il famigerato Jihadi John, al se-
colo Abdel Majed Abdel Bary, un ex rapper britannico 23enne già
noto alle forze dell’ordine, fin dal 2011, per la sua partecipazione
agli scontri nel quartiere londinese di Tottenham. Responsabile di-
retto dell’uccisione di almeno cinque ostaggi, questo boia dall’ac-
cento inglese, di nero vestito e che non si cura più nemmeno di
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coprirsi il volto durante i suoi macabri video è ormai uno dei sim-
boli della lotta jihadista, e ha già minacciato i paesi occidentali di
voler iniziare «a massacrare la vostra gente sulle vostre strade».
Parlare di psicosi allo stato attuale è certamente esagerato, ma è
un dato di fatto che la tensione in Gran Bretagna è salita a livelli
altissimi, con episodi di pura isteria, ancor più significativi perché
riguardanti un paese abituato a non lasciarsi intimidire, fin dai
tempi dell’Ira. Non è un caso, però, se per i servizi segreti britanni-
ci la minaccia dell’Isis è la più seria dai tempi dell’11 settembre, e
il livello di allerta è stato innalzato a “grave”, un gradino sotto
quello massimo. Gli arresti di presunti terroristi si susseguono, e
basta poco per far scattare l’allarme: lunedì 17 novembre sono
stati evacuati gli uffici del complesso del Parlamento a causa di un
pacco sospetto, che si è poi scoperto essere l’iPad di un neostagi-
sta. Il premier Cameron, dal canto suo, ha annunciato misure strin-
genti, come il ritiro del passaporto ai foreign fighter, e il possibile
divieto di rientro in patria a quegli inglesi, pure minorenni, anche
solo sospettati di essere combattenti jihadisti. Il tipico identikit
del “boia della porta accanto”, infatti, comprende soprattutto quei
britannici «radicalizzati», andati a combattere in Medio Oriente e
ora magari pronti a tornare per colpire la patria che li ha cresciuti.
In Inghilterra, come in tanti altri paesi occidentali, ciò che addolo-
ra profondamente è il sapere che centinaia di concittadini sono
partiti per andare a combattere fra le brigate dell’Isis in Siria e
Iraq, e ancor più che molti di loro sarebbero pronti a tornare, e a
diffondere il loro delirante messaggio di sangue.
Risale a pochi giorni dopo l’omicidio Kassig, infatti, la diffusione
di un appello in cui tre combattenti francesi emigrati in Siria si so-
no rivolti a tutti i musulmani rimasti in Francia, invitandoli ad unir-
si all’Isis e a organizzare attacchi, magari avvelenando cibo e ac-
qua, o anche semplicemente investendo le vittime. Anche qui, con
l’evidente scopo di essere riconosciuti come occidentali e aumen-
tare l’effetto propaganda del messaggio, le minacce sono state
lanciate a volto scoperto, permettendo così di identificare il leader
del gruppetto. Il suo nome è Michael Dos Santos, 22enne nato al-
le porte di Parigi, i cui genitori ignoravano totalmente la scelta di
abbracciare la causa jihadista, tanto più che il ragazzo proviene da
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una famiglia di immigrati portoghesi di confessione cattolica. Stes-


sa provenienza, e medesime origini lusitane, anche per il compa-
gno di brigata di Dos Santos, un normanno, anche lui ventiduen-
ne, di nome Maxime Hauchard, la cui madre è scoppiata in lacrime
nel momento in cui lo ha riconosciuto nel video.

LE BRIGATE DEI “JOHN DELLA JIHAD”


Grazie al lavoro svolto dai servizi di intelligence si è potuto rileva-
re come le nazionalità da cui provengono i miliziani che compon-
gono le brigate Isis sono addirittura ottanta, delineando così un
aspetto finora meno conosciuto dell’organizzazione del Califfato,
che diviene configurabile come una vera e propria “multinazionale
del terrore”. Al contempo, il numero di persone che hanno lasciato
il proprio paese per recarsi a combattere in Siria viene stimato in
non meno di 15mila, fra cui gli europei sarebbero oltre tremila. Di
questi, il contingente più numeroso è quello dei francesi (più di un
migliaio, secondo i dati dell’Eliseo, di cui una cinquantina sarebbe-
ro già stati uccisi negli scontri), seguiti a ruota da russi e britanni-
ci, mentre l’Italia figura fortunatamente in coda alla graduatoria,
ma ha comunque visto partire cinquanta persone alla volta della
jihad. Fuori dall’Europa, da Stati Uniti e Australia, rispettivamente,
sono andati a combattere 130 e 250 cittadini, mentre il poco invi-
diabile primato fra individui di etnia araba spetta ai tunisini, che
sarebbero non meno di tremila. Si tratta, insomma, di vere e pro-
prie brigate nazionali, denominate «Katiba», e divise su base lin-
guistica, con riferimento alla specificità europea, in unità anglofo-
ne, francofone, tedesche e olandesi-fiamminghe. A proposito del
contingente più numeroso, quello francofono, il jihadista transalpi-
no Abu Shaheed ha parlato di «cinque o sei brigate combattenti
composte da francesi o belgi valloni, appartenenti alla seconda o
terza generazione di immigrati, ma anche semplicemente converti-
tisi all’Islam». Quest’inquadramento su base linguistica è un aspet-
to importante, sotto molti aspetti perfino necessario dato che, co-
me spiega lo stesso estremista, «il reclutamento avviene online, o
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attraverso persone che si conoscono e quando arrivano in Siria o


Iraq combattono assieme».
Come già accennato in precedenza, gli europei inquadrati nella Ka-
tiba del Califfo Abu Bakr al-Baghdadi sono circa tremila, verosimil-
mente il dieci per cento dei miliziani Isis. Fino alla decapitazione
di Kassig, potevano venire considerate unità come tutte le altre,
adoperate nelle varie operazioni militari: ma dopo quel video, per
molti analisti appare chiaro che «si vuole sfruttarli per fini di pro-
paganda», dimostrando che musulmani di ogni paese si battono
«a fianco dei fratelli siriani e iracheni», non avendo nulla da invi-
diare, a questi ultimi, in quanto a ferocia e fanatismo. Alcuni
esperti, poi, si sono spinti perfino più in là, delineando uno scena-
rio in cui il Califfo sarebbe intenzionato a impegnarsi in una “cam-
pagna d’Europa”, realizzabile solo attraverso una ipotetica quanto
preoccupante alleanza con al-Nusra, un’entità che è emanazione
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diretta di al-Qaeda.
Un simile scenario di geopolitica terroristica, per quanto interes-
sante, esula da questa trattazione, che riguarda invece un fenome-
no che rischia di insinuarsi nelle società europee e occidentali co-
me un virus, tanto invisibile quanto pericoloso, e reso ancor più
“antipatico” dal fatto che i portatori sono (o per meglio dire, era-
no) parte di quella stessa comunità che invece ora mirano a colpi-
re. Torna in rilievo, sotto questo aspetto, l’analisi del già citato
Mohsin Hamid, che pur essendo inevitabilmente fin troppo “ro-
manzata” coglie nondimeno svariate sfaccettature di una realtà so-
ciologicamente molto complessa.
Il tipico John della Jihad è un soggetto giovane, e dunque, estre-
mamente sensibile al richiamo delle ideologie, anche violente. Fi-
glio di un’integrazione non sempre equilibrata e tanto meno accet-
tata, è portatore di istanze e rabbia che ne fanno, spesso, un
escluso della società, o perlomeno un “non perfettamente integra-
to”. Tali griglie di comprensione, però, sono state rimesse in dis-
cussione, anche se non totalmente, proprio da questi “nuovi” jiha-
disti, tra i quali non mancano brillanti studenti universitari, come
Nasser Muthana, o normanni “purosangue”, e di famiglia medio
borghese, come Hauchard. I vecchi parametri insomma (fragilità
psicologica, condizioni sociali disagiate, rabbia latente) non spie-
gano più, o perlomeno non lo fanno del tutto, la dinamica di un
fenomeno che ha portato il ministero dell’interno francese a com-
piere un’efficace ricerca sociologica, dai risultati a volte sorpren-
denti. Oltre 160 famiglie francesi si sono ritrovate un aspirante ji-
hadista in casa, praticamente da un giorno all’altro. Ragazzi che a
volte salutavano dicendo di andare a una festa, e la sera stessa
apparivano su Youtube a lanciare anatemi di morte. I dati lasciano
sovente di stucco, se si pensa che solo il 16 per cento proviene
dai ceti sociali più bassi, mentre il 67 è della middle class. A fron-
te, poi, di un’età media prevedibilmente molto bassa (due su tre
hanno fra i 15 e i 21 anni) e di una presenza femminile assoluta-
mente non trascurabile (il 44 per cento sono donne), cade anche
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l’altro stereotipo dei “soggetti fragili”, dato che sovente si tratta di


persone senza alcun tipo di problema nel ramo scolastico, sociale
o sentimentale. E poi, c’è il dato più sorprendente di tutti, quello
che da solo basta a rendere quantomeno “particolare” l’intero fe-
nomeno: il fatto che per la gran parte di loro la religione non co-
stituisce la principale motivazione. L’80 per cento delle nuove leve
proviene da famiglie atee, e oltre il 90 per cento non ha mai nem-
meno messo piede in una moschea. Il loro campo d’arruolamento
privilegiato è internet, che è pure il punto di partenza per un vero
e proprio lavaggio del cervello che prosegue con libri, video e ri-
tuali nel nome di ideali guerrieri e simboli come il leone o addirit-
tura immagini di film come Il Signore degli anelli che di islamico,
salafita o jihadista ha ben poco, ma richiama a quella eterna lotta
fra il Bene e il Male (assoluti) che non può che avere un solo, ine-
vitabile esito. Non a caso, una delle figure maggiormente richiama-
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te è quella di Khalid Ibn al-Walid, l’invincibile guerriero del primo


Califfato, il compagno di Maometto che vinse tutte le guerre e
cambiò la mappa del Medio Oriente, che portava in battaglia «uo-
mini che desiderano la morte come voi desiderate la vita».
Molto più complessa da spiegare è la dinamica di adescamento e
arruolamento, dato che, assodato che ogni percorso fa storia a sé,
sembra che alcuni cadano nella rete senza volerlo, e addirittura al-
la partenza per Siria e Iraq non sappiano ancora bene a cosa van-
no incontro. La Jihad 2.0 dissemina esche online, stabilendo link a
partire da video su Youtube visibili a tutti e contenenti parole
chiave apparentemente innocue che richiamano più o meno vaga-
mente temi “classici” delle relazioni internazionali quali il commer-
cio equo e solidale o la fornitura di vaccini alle popolazioni meno
fortunate. Di qui, secondo il già citato rapporto del dicastero pari-
gino, l’arruolamento comincia a diventare realtà, seguendo grosso
modo tre step fondamentali. Il primo consiste nell’accreditare la
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teoria del complotto di un Occidente bugiardo e corrotto, che co-


mincia a essere visto come il nemico, il Male da combattere. Il se-
condo passo approfondisce la questione, puntando sull’indottrina-
mento riguardo presunte società segrete, tipo Massoneria o Illumi-
nati, che governerebbero il mondo. È a questo punto, secondo gli
analisti francesi, che la giovane vittima comincia a maturare, in
maniera lenta ma sempre più profonda, seri dubbi e sfiducia verso
la propria cultura, in un clima intriso di odio e fanatismo. Allonta-
nandosi da famiglia e amici, si comincia ad avere una vera e pro-
pria doppia vita, finché l’identità del gruppo jihadista sostituisce
quella individuale. A quel punto, manca solo il passo finale, che
consiste nel meccanismo di disumanizzazione. A tale scopo, sono
stati scoperti dei video dell’Isis che mischiano immagini vere a po-
polari videogiochi a base violenta, come Assassin’s Creed o Call of
Duty: alla fine di questo “percorso formativo” gli ostaggi decapitati
saranno «non più uomini, ma sagome virtuali da annientare».
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LA LUNGA GUERRA
Lo scorso giugno, quando Abu Bakr al-Baghdadi annunciò la costi-
tuzione del Califfato sui territori controllati dalla sua organizzazio-
ne, il mondo intero dovette assistere con sgomento all’inizio di
una folgorante avanzata militare in Iraq, che portò le truppe jihadi-
ste fin quasi alle porte della capitale Baghdad, in agosto. Da quel
momento, la reazione della coalizione internazionale (che a oggi
consta di ben sessanta paesi) è stata veemente, e a forza di ripe-
tuti successi parziali, ottenuti sul campo soprattutto dalle forze
curde e irachene, si è ottenuto quello che era l’obiettivo minimo,
ma anche fondamentale: arrestare l’avanzata dell’Is nello Stato
mesopotamico. Il discorso però cambia radicalmente, se si consi-
dera che alcuni fra i più ottimisti speravano di poter assestare da
subito un duro colpo all’organizzazione jihadista, ponendo magari
le basi per una sua definitiva distruzione. Sotto quest’ultimo
aspetto, anche se diversi analisti vedono lo Stato islamico in un
momento di difficoltà, e forse già incanalato verso la propria para-
bola discendente, la strada appare ancora lunga, anche (ma non
solo) per una mera questione di cifre.
In pochi mesi, Daesh (acronimo in arabo del Califfato) ha massa-
crato quasi duemila persone. Ancora oggi, nonostante gli arretra-
menti delle ultime settimane, nelle piane aride fra la Siria orientale
e l’Iraq nordoccidentale controlla un territorio esteso quanto il Re-
gno Unito: un vero e proprio “Stato del terrore” in cui dispone di
decine di pozzi di petrolio e raffinerie, vitali per finanziarsi. Di-
struggere una simile entità, verosimilmente, richiederà ingenti sfor-
zi bellici, coesione e, soprattutto, tempo; tutte cose non così facili
da reperire in una coalizione composta da decine di paesi, che
inevitabilmente hanno ruoli e interessi diversi. È già paradossale,
a ben vedere, che non faccia ufficialmente parte dello schieramen-
to quello Stato che gioca un ruolo decisivo nella partita: l’Iran. Al-
leato del regime di Damasco, ma anche di Baghdad, Teheran ha
inviato in Iraq addestratori militari, rinforzando le file delle milizie
sciite, con uomini, armi e capitali. Un aspetto quest’ultimo fonda-
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mentale, perché dopo decenni di lotta a questa o quella organiz-


zazione, si è capito ormai ovunque che le brigate del terrore si de-
bellano con la lotta sul campo, non certo con i bombardamenti ae-
rei. O meglio, la stessa coalizione ha individuato cinque linee di-
rettive, da percorrere congiuntamente, per ottenere un successo
totale nella lotta contro l’Isis: «Migliorare lo sforzo militare, ferma-
re il flusso di jihadisti stranieri, tagliare l’accesso ai finanziamenti,
affrontare il tema degli aiuti umanitari e delegittimare l’organizza-
zione». Una strategia così articolata fa già di per sé comprendere
quanto complessa sia la situazione sul campo, e quanto essa non
possa essere risolta solo per via militare: su questo piano, assume
particolare rilievo l’aspetto della delegittimazione. Se i jihadisti so-
no riusciti a creare uno Stato in pochi mesi non è solo grazie alle
loro capacità militari, e alla scarsa organizzazione dell’esercito di
Baghdad, ma anche per il decisivo appoggio di una buona parte
della popolazione e delle tribù sunnite irachene, che da tempo la-
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mentavano gravi discriminazioni da parte del governo a maggio-


ranza sciita dell’ex premier Nouri al-Maliki. Con il nuovo leader,
Hayder al-Habadil, sembra essere stato inaugurato un nuovo, ben
più fruttuoso corso, avviato con un accordo con i curdi sulla spi-
nosa questione della distribuzione delle risorse petrolifere, e pro-
seguito con un approccio più equilibrato nei confronti della mino-
ranza sunnita. La strada, dunque, è tracciata, ma non sarà affatto
facile, né breve.

Alberico Travierso
Giornalista
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Quando il contagio
è finanziario
Se nei nostri giorni l’attenzione è puntata sull’ebola e sul modo
di isolarlo, nessuno sembra più curarsi di virus forse più pericolosi
in quanto non esistono barriere o reparti di isolamento per fermarli.
E producono anch’essi molti decessi, per suicidio…

Francesco Crocenzi

S i tratta dei virus finanziari che continuano ad infettare i nostri


mercati. A differenza dell’ebola, provengono da paesi avanzati
e con economie molto forti e vanno a colpire le asfittiche econo-
mie di altri paesi che, invece di coalizzarsi sotto un’unica bandie-
ra a stelle (senza strisce), litigano tra di loro per bassi interessi
di bottega travestiti da altisonanti principi di correttezza. Ma co-
sa è un virus finanziario? Fondamentalmente, un cerino acceso
che non puoi buttare e si può quindi spegnere solo in mano a
qualcuno. Qualcuno lo ha già usato per accendersi un fuoco e
godersene il calore, ma si è subito preoccupato di passare il
fiammifero a qualcun altro, che a sua volta lo passerà a un terzo
fino ad arrivare al poveraccio che si brucerà le mani senza esser-
si per nulla scaldato.

“GIOCARE” OLTRE IL LIMITE. E GUADAGNARCI


L’effetto domino della finanza globale, simile per rapidità di
espansione ad un virus, funziona esattamente così: qualcuno
elabora un prodotto finanziario e ne trae vantaggi, e poi cerca di
scaricare su altri i rischi e quindi le eventuali perdite. Per farlo, si
usano varie tecniche descritte da parole come impacchettamento,
effetto leva, vendite allo scoperto, contratti derivati, master-fee-
der. Si tratta peraltro di tecniche finanziarie che di per sé non
sono né buone né cattive, ma che possono diventare perniciose
se usate per trasferire su molti i rischi di operazioni altamente
redditizie per pochi. Già, perché mai come nella finanza vale il
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principio che non è tutto oro quello che luccica, nel senso che
quasi sempre i guadagni elevati dati o promessi da un investi-
mento vanno di pari passo con rischi almeno altrettanto impor-
tanti. Per parlare dell’effetto contagio di operazioni finanziarie ri-
schiose, simile a quello di un virus, basta pensare che la crisi fi-
nanziaria che attanaglia da almeno sei anni molti paesi europei
proviene in larga parte dall’altra parte dell’Oceano, facendo in
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modo che, ad esempio, un risparmiatore italiano si ritrovi a sop-


portare il rischio che un americano non pagasse le rate del mu-
tuo per la casa di Detroit di quest’ultimo. Come è avvenuto ciò?
In larga parte a causa del gap regolamentare tra le autorità euro-
pee e quelle statunitensi, con le prime che da sempre regolano
in modo abbastanza stringente – ma non soffocante per un prin-
cipio “costituzionale” di proporzionalità degli adempimenti – tut-
te le attività e i soggetti finanziari, mentre le seconde da un lato
disciplinavano in modo soffocante alcune attività, come ad
esempio la quotazione sulla Borsa di New York, e dall’altro con-
sentivano ad alcuni conglomerati finanziari di essere pressoché
svincolati dal rispetto della normativa prudenziale in nome del
principio altamente discutibile del “too big to fail”, che più o
meno vuol dire che siccome sei una società molto grande non
puoi fallire e quindi io Autorità di vigilanza non perdo troppo
tempo e risorse per controllarti.
L’ambito in cui le zone d’ombra del sistema di vigilanza america-
no hanno prodotto i danni più grossi, compresa la chiusura di un
colosso come Lehman Brothers dalla mattina al pomeriggio, è
stato quello del controllo dell’indebitamento finanziario, aumen-
tato a dismisura con l’uso di una tecnica nota come leva finan-
ziaria. Questa consiste nell’acquistare a debito delle azioni, ob-
bligazioni o altri titoli (che chiamiamo tutti insieme “strumenti fi-
nanziari”) per poi pagarli con i proventi della vendita degli stessi
titoli. In concreto: io gestore di un fondo di investimento ho in
cassa 100 euro, e voglio comprare titoli che oggi valgono 1.000
euro. Li acquisto versando i miei 100 euro come acconto (detto
“margine”) e obbligandomi a pagare il saldo di altri 900 euro tra
dieci giorni. I titoli in questione sono già passati in mia proprie-
tà, e quindi al termine dei dieci giorni li potrò vendere al prezzo
che avranno in quel momento, questa volta con pagamento im-
mediato, e con il prezzo incassato dovrò pagare il saldo di 900
euro. Il rischio della leva finanziaria è la variazione del prezzo tra
quando compro i titoli a debito e quando li rivendo per pagare il
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saldo. Infatti, supponendo che il prezzo sia aumentato a 1.100


euro, io vendo a questo prezzo, con 900 pago il saldo, 100 li
avevo già spesi e quindi guadagno 100 euro: 10 per cento di
guadagno in dieci giorni, non male anche se mi sono indebitato
per nove volte il valore del mio patrimonio (900 euro contro i
100 che avevo in cassa). Torniamo all’esempio: stavolta le cose
non vanno come mi aspetto, e il prezzo scende a 800. Io devo
pagare comunque 900 euro, per cui il giorno pattuito incasso i
miei ottocento, e ne devo trovare altri cento, come faccio è in-
combenza mia: il risultato è una perdita di 200 euro, i cento che
avevo dato come anticipo e i cento che dovrò trovare (anche con
una certa urgenza) per pagare il debito. Per ottenere quanto ne-
cessario ed evitare l’espulsione dal mercato in quanto insolven-
te, dovrò indebitarmi, promettendo tassi di interesse elevati a
chi comincia a pensare che prestarmi soldi stia diventando ri-
schioso.
Tutto ciò instaura un circolo vizioso e l’indebitamento cresce fino
a diventare un multiplo importante delle mie attuali disponibili-
tà: se le regolamentazioni europee ammettono per i risparmiatori
privati fondi di investimento che possono indebitarsi fino al dop-
pio del loro patrimonio (per questo detti a “leva 2”), e altri pro-
dotti di nicchia con leva fino a sette, l’Autorità statunitense, in
nome del ricordato principio “too big to fail” ha lasciato operare
conglomerati finanziari che erano arrivati a una leva finanziaria
superiore al 30, cioè con patrimonio di uno e debiti per trenta. E
non dimentichiamo che stiamo parlando delle autorità statuni-
tensi, e cioè del paese guida nelle regolamentazione finanziaria
fin dagli anni Trenta.
Le cose peggiorano molto quando si ha a che fare con regola-
mentazioni di determinati paesi, il cui scopo non è tanto quello
di proteggere gli investitori ma quello di attirare nella loro giuri-
sdizione quanti più operatori possibile. Tutto ciò dà luogo ad un
fenomeno noto come arbitraggio regolamentare, consistente nel-
lo stabilire la sede di una società di un fondo o una società in
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giurisdizioni “amiche” per poi raccogliere il risparmio in luoghi –


generalmente più popolosi e non insulari – le cui autorità di vigi-
lanza imporrebbero adempimenti più onerosi per chi si stabilisse
lì.
A questo punto torniamo all’esempio della speculazione non ri-
uscita, in cui i titoli sono scesi da mille a ottocento euro e quin-
di il malcapitato deve trovare con urgenza i citati cento euro per
ripianare la perdita, indebitandosi. Ciò può avvenire emettendo
un titolo di debito, se non un fondo, ma difficilmente una autori-
tà di un paese “onshore” (letteralmente “sulla costa”, diverso
quindi dalle isole, che sono “offshore”, espressione, questa, che
nell’immaginario collettivo evoca i “paradisi fiscali”) lo autorizze-
rebbe vista la situazione di canna del gas dell’emittente. Per cui,
se onshore non si può, si fa una gita in qualche isoletta offshore
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e vi si costituisce un bel fondo con l’accattivante nome “high


yield” (alto rendimento) o “special situations”. Sorge ora il pro-
blema di piazzare questo fondo a investitori diversi dai bravi iso-
lani, ricchi sì, ma troppo pochi, ma come si fa con quegli antipa-
tici delle Autorità di vigilanza onshore che vigilano troppo e non
permettono di vendere sul loro territorio il fondo offshore? Sem-
plice, si costituisce un fondo in un paese tipo l’Italia, la Francia o
la Spagna che investe a sua volta nel fondo offshore, e in quan-
to “metropolitano” sarà disponibile per gli investitori locali. Ciò è
permesso dalle legislazioni di questi paesi continentali anche
perché ora lo dice anche una direttiva comunitaria, e quindi i ri-
sparmiatori italiani, francesi e spagnoli potranno investire in un
veicolo formalmente appartenente ai loro paesi, ma che in so-
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stanza comporta i rischi di un fondo offshore. Non vi è nulla di


illecito in tutto ciò, purché i fondi continentali informino in meri-
to ai rischi connessi a questi investimenti che, per giunta non
sono aperti a tutti. Quando poi il fondo continentale regolamen-
tato investe almeno l’85 per cento del suo patrimonio nel fondo
offshore, e anche questo è possibile, abbiamo lo schema “ma-
ster/feeder”, che vuol dire fondo principale (master) e “alimenta-
tore” (feeder). Per completezza, l’unico limite che si applica a
questi prodotti è che un “feeder” italiano che investe in un “ma-
ster” non comunitario non può essere venduto a investitori di al-
tri paesi europei (e viceversa per i “feeder” europei in Italia).
Esiste poi una variazione sul tema, consistente nel cosiddetto
“impacchettamento” o in inglese “wrapping”, consistente nell’u-
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sare in una gestione patrimoniale individuale (e cioè quel con-


tratto in base al quale un intermediario autorizzato, detto “ge-
store”, amministra le disponibilità di un cliente attraverso inve-
stimenti in strumenti finanziari allo scopo di aumentare il patri-
monio) quei titoli in cui il risparmiatore privato non potrebbe in-
vestire direttamente. Ciò è possibile perché normalmente il no-
stro fondo “offshore” non può essere acquistato direttamente dai
privati, ma solo da investitori “istituzionali” come chi gestisce
patrimoni.

LA FINANZA “SCARICA” L’ECONOMIA REALE


Quelli precedenti sono solo degli esempi per dimostrare che non
esistono barriere insormontabili per impedire a titoli non casual-
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mente definiti “tossici” di penetrare in mercati che ne vorrebbero


restare immuni, e tutto ciò è consentito, come visto, da vistose
differenze di trattamento normativo. Tutto ciò approfondisce
sempre di più il solco tra finanza ed economia, intesa la prima
come ricerca di alti guadagni nonostante tutto, e la seconda, in-
vece, come la produzione di beni e servizi alla base del buon an-
damento delle imprese e, quindi, del benessere di chi in queste
imprese lavora. In altri termini, sempre più spesso operazioni fi-
nanziariamente efficienti (e cioè che fanno guadagnare molti sol-
di a chi le realizza) sono invece altamente negative per l’econo-
mia.
Esempio di ciò sono le vendite allo scoperto (o short selling), le
quali assicurano un guadagno in caso di calo dei mercati. In sin-
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tesi, io operatore A mi obbligo nei confronti dell’operatore B a


vendergli tra dieci giorni cento azioni della cocietà X al prezzo di
un euro l’una. Piccolo particolare, io operatore A queste azioni
non le ho. Quindi fra dieci giorni dovrò trovarle. Se in quel mo-
mento costeranno 1,20 euro io spenderò 120 euro per comprare
le cento azioni che devo consegnare, ma l’operatore B mi darà
sempre 100 euro. Risultato: la borsa sale del 20 per cento e io
perdo altrettanto. Caso opposto: tra dieci giorni le azioni scen-
dono a sessanta centesimi. Mi bastano quindi sessanta euro per
comprare le cento azioni che l’operatore B mi pagherà comun-
que 100 euro, ed il risultato sarà che io avrò guadagnato con un
calo della borsa. Attenzione, la vendita allo scoperto non è di
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per sé una cosa negativa, perché se io punto tutto il mio patri-


monio su un aumento della borsa e questa invece cala avrò una
perdita secca, mentre se mi gioco qualcosa (ma non tutto) con
una vendita allo scoperto avrò almeno un piccolo guadagno in
caso di calo dei mercati. Laddove invece questa tecnica mostra
tutta la sua pericolosità è quando si scommette tutto sul calo di
una società o di una borsa, e poi si fa quel che si può per favo-
rire questo calo. Come? Per esempio facendo trapelare artata-
mente (con attenzione, perché è un reato) voci su probabili dis-
sesti, o favorendo svendite dei titoli rilevanti che ne producono
ovviamente il calo del prezzo. Taccio, per non abusare della pa-
zienza di chi legge, della combinazione tra leva finanziaria e ven-
dite allo scoperto, ma i cui effetti dirompenti sono intuibili.
Insomma, la differenza tra chi opera nell’attività di impresa e chi
nella finanza sta sempre di più avvicinandosi a quella tra chi la-
vora e chi gioca al casinò; della somiglianza tra finanza e gioco
d’azzardo si è reso conto anche il legislatore italiano, che, per
evitare dubbi, si è preoccupato di affermare direttamente nel Te-
sto unico della Finanza che ai contratti finanziari non si applica-
no le regole sul gioco e le scommesse. Come detto, l’uso distor-
to delle singole tecniche finanziarie – di cui ho cercato di spiega-
re i meccanismi – nasce da grandi differenze nelle leggi dei vari
paesi, che spinge a stabilirsi nelle giurisdizioni più tolleranti per
poi cercare gli investitori su scala mondiale. È il citato fenomeno
dell’arbitraggio regolamentare, che esisterà finché ci saranno del-
le zone franche. Se vuole, la comunità internazionale può arre-
starlo come già fatto per riciclaggio ed evasione a forza di black
list di paesi non cooperativi, messi al bando dalla comunità in-
ternazionale. È grazie a questi meccanismi in cui ci si è mossi
tutti insieme che, per esempio, la Svizzera ha accettato di fare
qualcosa che fino a pochi anni fa avrebbe fatto ridere, e cioè ri-
muovere (a certe condizioni) il segreto bancario. Ma finché nella
finanza ci si muoverà in ordine sparso non si otterrà alcun risul-
tato se non la fuga dalle giurisdizioni più restrittive. In tale con-
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testo, l’Unione europea sta facendo molto, come la direttiva “ge-


stori di fondi alternativi” che regola ciò che per antonomasia era
non regolamentato, e cioè gli hedge fund, ma anche i regola-
menti sugli scambi fuori Borsa (che in quanto tali che potrebbe-
ro avere meccanismi di formazione dei prezzi non trasparenti), e
gli scambi di soldi ed utilità tra chi gestisce i nostri soldi e chi
dà loro i titoli in cui investire.
I risultati degli sforzi europei si vedono, con molti fondi che
stanno lentamente tornando nel perimetro delle norme comuni-
tarie opportunamente esteso per permettere loro di operare in
modo conforme allo loro caratteristiche. Ma quanto fatto dal le-
gislatore europeo non sarà mai sufficiente a garantire una legali-
tà finanziaria mondiale senza la collaborazione degli Stati Uniti,
capaci di imporre a tutto il mondo di fare controlli fiscali sui loro
cittadini che aprono conti bancari all’estero ma che tollerano nel
loro stesso territorio dei paradisi fiscali come il Delaware, in cui
non si pagano tasse. È negli Stati Uniti che l’ebola della finanza
mondiale si è incubato nel 2007, a loro la responsabilità di eli-
minare per sempre il suo bacino di coltura.

Francesco Crocenzi
Avvocato specializzato in mercati finanziari e impresa
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Marine Le Pen, la destra


non spaventa più
In molti paesi europei, nell’ultimo triennio, i cosiddetti movimenti populisti
hanno fatto incetta di consensi, facendo emergere prepotentemente un
trend generale di crescita delle tensioni sociali e di ostilità nei confronti
della classe politica, in larga parte dovuto alla crisi economica

Massimo Ciullo

L ’appello al popolo contro i corrotti della casta, per dirla con


Margaret Canovan, una delle pioniere nello studio di questo fe-
nomeno, ha portato a sconvolgimenti talvolta inattesi sugli scenari
politici di molte realtà europee. I casi più eclatanti si sono certa-
mente registrati in Italia e in Francia: Beppe Grillo, con il Movimen-
to 5 Stelle e Marine Le Pen, alla guida del Front National, hanno
avuto un impatto senza precedenti nelle ultime competizioni elet-
torali. Ma se, in Italia la spinta propulsiva dei pentastellati sembra
essersi già esaurita (tra scissioni, epurazioni e abbandoni), non è
così per la creatura che Jean-Marie Le Pen ha lasciato in eredità al-
la figlia.

L’ALLIEVA CANCELLA IL LEADER STORICO


Da quando Marine Le Pen ha preso le redini del Front national, nel
gennaio del 2011, il partito è riuscito a toccare percentuali (quasi il
18 per cento alle presidenziali del 2012 e il 25 per cento alle euro-
pee del 2014) insperate fino a pochi mesi prima. Il suo progetto di
trasformare (dediabolisation) un soggetto politico, appunto, demo-
nizzato – neofascista, xenofobo, antisemita – in un “grande partito
politico Repubblicano”, procede speditamente senza particolari
fratture con la “vecchia guardia” dei duri e puri. Anche se alle ulti-
me competizioni per l’Eliseo Le Pen si è classificata terza, dietro
Nicolas Sarkozy e François Hollande, i francesi che si dicono d’ac-
cordo con i programmi del Fn sono di gran lunga più numerosi ri-
spetto a quel 17,9 per cento che ha segnato il suo nome sulla
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scheda elettorale. Lo hanno dimostrato le ultime elezioni europee


che lo hanno portato a diventare il partito più votato, con il 25
per cento, cinque punti in più rispetto al centrodestra e dieci ri-
spetto ai socialisti.
La maggiore bravura da riconoscere a Le Pen figlia, è quella di es-
sere riuscita a sprigionare una tale empatia con i suoi sostenitori e
simpatizzanti, (condicio sine qua non per il successo di qualsiasi
leader “populista”), in grado di attivare quei meccanismi di identi-
ficazione nel suo elettorato e non solo, fondamentali per la sua
strategia di costruzione del consenso. Troppo riduttivo sarebbe
parlare di un semplice maquillage per fini elettoralistici. Altrettanto
erroneo sarebbe definire il Fn semplicemente come un partito fa-
scista vecchio stile. Marine Le Pen ha cercato di modificare perfino
la simbologia del Front, mettendo meno in evidenza la fiamma tri-
colore (retaggio di un’antica concessione al padre del simbolo del
Msi di Giorgio Almirante) e presentandosi ai raduni del partito con
statue e grandi manifesti di Giovanna d’Arco. L’obiettivo è quello
di eliminare anche nella simbologia elementi divisivi (come può
essere la fiamma del vecchio partito neofascista italiano) e adotta-
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re elementi “patriottici” come la pulzella d’Orleans o la Marsiglie-


se. L’imperativo è che il Fronte nazionale deve diventare più “ri-
spettabile” e “serio”. Il suo tentativo di de-demonizzare il partito
si può dire che sia parzialmente riuscito.

UN FRONT NATIONAL PATRIOTTICO O XENOFOBO?


L’avvento di Marine Le Pen alla guida del Front ha prodotto una
sorta di “normalizzazione” di questa forza politica. Per decenni, i
francesi che hanno votato Fn raramente ostentavano pubblica-
mente la loro scelta; i seguaci di Le Pen padre sono stati trattati
di solito come degli appestati sia dalla classe politica sia da me-
dia francesi. Oggi, invece, è crescente la tendenza a considerarlo
un partito “normale” della destra francese. Più della metà degli
elettori dell’Ump appoggerebbero volentieri una alleanza strategi-
ca con i lepenisti, superando la conventio ad excludendum che ha
contraddistinto i rapporti tra i partiti di governo e il Fn. Anche nel-
l’immaginario collettivo, la considerazione sul Front è mutata negli
ultimi anni: un numero sempre più consistente di persone credo-
no ormai, che il Front national rappresenti “una destra patriottica
legata ai valori tradizionali” più che una “estrema destra naziona-
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lista e xenofoba”. Oggi il 44 per cento dei francesi crede che il Fn


sia “patriottico” mentre il 43 per cento che sia “estremista”. Inol-
tre, il 64 per cento di chi si ritiene di destra pensa che il Fn sia
“patriottico”. In più, nonostante lo stabile ma lentissimo incremen-
to della popolarità elettorale, il numero di francesi che dice che il
Front “rappresenti un pericolo per la democrazia in Francia” è ca-
lato dal 75 per cento del 1997 al 47 per cento di oggi, raggiun-
gendo quasi il più basso livello da quando ha avuto la sua prima
apparizione nazionale all’inizio degli anni Ottanta.
Tutto ciò è stato favorito anche da alcune mosse azzeccate da Ma-
rine Le Pen. Le posizioni antisemite del padre, che definì l’Olocau-
sto «un dettaglio della storia», non solo sono state abbandonate
da Marine, che ha condannato l’antisemitismo, ma sono state ad-
dirittura superate. Uno dei primi incontri, dopo la sua elezione alla
presidenza del Fn nel 2011, è stato con l’ambasciatore di Israele
alle Nazioni unite. Un colloquio che ha provocato qualche malu-
more in alcune correnti del Front, da sempre schierate a favore
della Palestina. Ma per Marine, come per tanti altri leader europei
dei nuovi movimenti nazional-populisti, il nuovo nemico comune è
l’estremismo islamico che predica la conquista dell’Europa cristia-
na e l’instaurazione della Sharia ovunque. E i francesi sono molto
più preoccupati dalla presenza sempre più massiccia di immigrati
di religione islamica, piuttosto che da un fantomatico ed astratto
pericolo portato dal sionismo internazionale. Quando la leader
francese afferma che «girare per certi quartieri è molto pericoloso
se sei una donna, un ebreo o un omosessuale» segna un punto di
svolta fondamentale, andando ad evidenziare le insicurezze reali
di uomini e donne che sono costretti a subire discriminazioni a
causa del genere, dell’orientamento sessuale o del credo religioso
da parte di minoranze aggressive e agguerrite che hanno sottratto
al controllo statale porzioni non marginali di territorio.
Gli elettori del Front national oggi possono addirittura rovesciare
l’accusa di razzismo, uno degli argomenti più usati per squalificare
la loro scelta politica, sostenendo che ormai in Francia esiste
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un’intolleranza ben più grave proprio nei confronti degli autoctoni


da parte degli immigrati. I suoi attivisti si atteggiano spesso a vit-
time sostenendo di essere bersaglio di un razzismo al contrario
(anti bianchi) da parte di immigrati e cittadini francesi non bianchi.
Un manifesto dell’organizzazione giovanile del Front spiega: “Basta
con il razzismo anti francese: questa è casa nostra”. Molto comuni
sono i manifesti anti-immigrazione che si oppongono alla presunta
“islamizzazione” della Francia, spesso con minareti, burqa e la
bandiera algerina. La difesa dell’identità nazionale però, non pren-
de di mira solo gli estremisti islamici. Basti pensare che il recente
referendum sull’unificazione della regione alsaziana, territorio con-
teso per secoli da Francia e Germania, ha risvegliato sopiti rancori
nei confronti dei tedeschi: un manifesto per il “no”, commissiona-
to dal Fn, raffigurava un uomo d’affari tedesco mentre afferra una
donna simboleggiante l’Alsazia, come se fosse messa veramente
in discussione la sovranità francese, a cento anni dallo scoppio
del primo conflitto mondiale.
La questione immigrazione è uno dei cavalli di battaglia, ma ri-
spetto al passato anche in questo campo Marine ha un atteggia-
mento diverso rispetto al padre. La leader del Fn non ha sposato
la retorica a tratti xenofoba e provocatoria del padre, ma ha prefe-
rito mettere sotto la lente d’ingrandimento il fallimento delle poli-
tiche assimilazioniste e del modello multiculturalista transalpino.
Più che appellarsi alla semplice xenofobia, Marine Le Pen sottoli-
nea ripetutamente i costi economici e sociali dell’immigrazione. Ma
sulla questione il Fn si ritrova ormai da anni a dover fronteggiare
la concorrenza del centrodestra “moderato”. La parabola di Sar-
kozy ha permesso a tanti francesi, in linea di massima d’accordo
con il programma del Front national, di poter scegliere un sogget-
to politico più “presentabile”. L’Ump dell’ex presidente ha in modo
crescente incrementato il suo modo di agire come il Fn su questio-
ni come l’immigrazione, l’Islam e la criminalità. L’intuizione del lea-
der neogollista è stata proprio quella di captare il malcontento di
una stragrande maggioranza di francesi che pensano che sia ne-
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cessario un freno all’immigrazione incontrollata in Francia. In gene-


rale, una relativa maggioranza di francesi considera che ci siano
troppi immigrati e che gli immigrati (e implicitamente i loro discen-
denti) tendono ad essere scarsamente integrati. Un sondaggio di
Le Monde ha rivelato che oltre la metà dei francesi è completa-
mente o abbastanza d’accordo con l’idea che ci siano troppi immi-
grati in Francia. Un altro sondaggio di Ipsos dello stesso periodo
rileva che oltre il 70 per cento dei francesi ritiene che ci siano
troppi stranieri in Francia e il 62 per cento che “oggi non si sente
a casa come prima”. Se questi sono gli orientamenti della stra-
grande maggioranza dei francesi, non si può tacciare di xenofobia
solo i sostenitori del Fn.
La destra moderata e di governo, negli ultimi anni, ha compiuto
una serie di scelte perfettamente in linea con le tendenze emer-
genti in fatto d’integrazione nella società francese. Ad aprire il
nuovo corso fu, Jacques Chirac, che nel 2005 fece approvare una
legge che proibiva agli studenti, tra le altre cose, di indossare il
velo islamico nelle scuole. Numerosi sondaggi scoprirono che tra il
55 e il 69 per cento dei francesi era favorevole alla proibizione di
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esposizione di simboli religiosi nelle scuole. Cinque anni più tardi,


Nicolas Sarkozy, fece approvare il divieto di mostrarsi velati nei
luoghi pubblici, con l’obiettivo di vietare il burqa e il niqab. La
legge interessava circa duemila donne musulmane che indossava-
no il burqa, ma solamente lo 0,1 per cento della popolazione fem-
minile di religione islamica. Nel 2012, l’ennesimo sondaggio scoprì
che una schiacciante maggioranza (83 per cento) dei francesi era a
favore dello smantellamento dei campi Rom. Nel 2010, la direttiva
di Sarkozy, di smantellare questi campi e di rispedire nei paesi
d’origine i nomadi, soprattutto in Romania, provocò un’aspra con-
troversia con il commissario Ue alla Giustizia, Viviane Reding, che
accuso la Francia di praticare una forma odiosa di discriminazione
razziale. Mentre le autorità europee potevano avere ragione su
questo punto, lo Stato francese aveva ordinato uno “smantella-
mento sistematico dei campi abusivi, principalmente quelli Rom”,
ma ciò non significava che Sarkozy non fosse allineato con l’opi-
nione pubblica francese.

MARINE LA PROGRESSISTA. IL FRONT SFONDA A SINISTRA?


Anche il Fronte ha dovuto fare i conti con il nuovo volto della so-
cietà francese, e Marine Le Pen si è prodigata nello sforzo di
smussare quelle posizioni che potevano essere d’impaccio per la
sua carriera politica. Se si tratti semplicemente di opportunismo
politico è difficile da decifrare, sta di fatto che la posizione del
Fronte sui diritti dei gay e sull’aborto, sono meno chiare che in
passato. La difesa della famiglia tradizionale è senza dubbio uno
dei cardini fondamentali del programma politico di Le Pen, ma de-
ve confrontarsi con i dati nudi e crudi che mettono in risalto un
cambiamento radicale dell’istituto familiare in Francia. Un’attitudi-
ne conservatrice verso la famiglia sarebbe sicuramente perdente
se si tiene conto che Oltralpe più della metà dei bambini nascono
fuori dal matrimonio, una percentuale che colloca i transalpini ai
vertici della classifica europea in questa tendenza. Famiglie allar-
gate e coppie extramatrimoniali sono estremamente comuni. La
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Virus 101

stessa Le Pen è divorziata, ha tre bambini e attualmente ha una


relazione con Louis Alliot, che è anche il vice presidente del Fn.
Una trasformazione del Front in una specie di partito nazionalista,
anti immigrazione ma socialmente progressista, sul modello di
quello guidato da Pim Fortuyn, non è da escludere, anche se è dif-
ficile ipotizzare che Le Pen si erga a paladina dei diritti degli omo-
sessuali. Senza dubbio rimarchevole è il fatto che né l’Ump né il
Fn abbiano avuto un ruolo di leadership, nonostante la partecipa-
zione personale di molti politici, nelle massicce proteste contro il
matrimonio gay dei mesi scorsi.
Quando Le Pen rifiuta categoricamente di essere etichettata come
la leader di un partito di “estrema destra”, arrivando a minacciare
querele nei confronti di chi osi perpetuare questa mistificazione, lo
fa con cognizione di causa e per due ragioni fondamentali: sa be-
nissimo che appartenere all’estrema destra fa scattare automatica-
mente la reductio ad hitlerum per qualsiasi esponente di punta di
quel movimento politico; ritiene logora la dicotomia destra/sini-
stra, definendole categorie “neoliberiste” che non hanno più alcu-
na capacità ermeneutica. Meglio distinguere tra dominanti e domi-
nati, élite e popolo, tra sfruttatori e sfruttati.
Nell’ottobre del 1972, quando nasce il Fn (più precisamente Front
National pour l’Unité Francaise), l’obiettivo dichiarato dei fondatori
è quello di raccogliere intorno alla figura di Jean-Marie Le Pen i
“delusi” della destra francese: conservatori cattolici, monarchici or-
fani dell’Action Française, anti atlantisti che rinfacciano ai gollisti
di prostrarsi agli interessi statunitensi. Per più di un ventennio il
movimento lepenista ha i tratti tipici di un partito “law and order”,
che pone in primo piano i valori della patria, della famiglia e della
religione, minacciati sia dall’ateismo internazionalista comunista,
sia dall’indifferentismo borghese. Il suo leader, alla guida di una
forza anti-sistema, assume le vesti del battitore libero sullo scena-
rio politico transalpino, denunciando le nefandezze dei partiti di
governo, siano essi socialisti o neogollisti. Negli anni Ottanta, l’ir-
ruzione di Ronald Reagan alla Casa Bianca e l’avvento del tatcheri-
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102 Virus

smo nel Regno Unito, convincono Le Pen che anche per la Francia
sia necessario adottare una politica estrema di privatizzazioni. Lo
scenario, però, muta radicalmente agli inizi degli anni Duemila,
quando i costi sociali del liberal-liberismo vengono messi in dis-
cussioni: l’aumento della disoccupazione e la fine del mito del
mercato panacea di tutti i mali, costringono ad un ripensamento
delle linee-guida del Fn, soprattutto in campo economico. A ciò si
aggiunge il fenomeno nuovo della globalizzazione che produce
una tale erosione della sovranità statale, che fa virare il Front ver-
so una difesa intransigente dell’interesse nazionale francese. Le
Pen capisce che la contrapposizione tra capitale e lavoro non può
essere appannaggio esclusivo dei socialisti, sempre più imborghe-
siti, o dell’estrema sinistra che, dal dopoguerra in poi, ha subito
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un lento ma inesorabile declino, dovuta probabilmente alla fram-


mentazione della galassia che ruota intorno al Partito comunista
francese (PCF).
La tanto chiacchierata adesione al Fn, nel 2007, di Alain Soral,
massmediologo, ex esponente di punto del “collettivo dei lavora-
tori dei media” all’interno del Pcf, appalesa la volontà dell’entou-
rage di Le Pen di voler andare a pescare voti in uno spazio eletto-
rale non più presidiato dalle forze di sinistra. Il programma econo-
mico del partito abbandona quasi repentinamente le vecchie posi-
zioni “reaganiste” e diventa sempre più sociale e protezionista,
prendendo a prestito i suggerimenti di intellettuali francesi etero-
dossi come Emmanuel Todd, Jacques Sapir ed altri, di cui si può
dire tutto tranne che siano dei fascisti.
Il capo dell’ala “sociale” del Fn è il portavoce di Marine Le Pen,
Florian Philippot, alto funzionario pubblico, che ha scalato i vertici
dell’amministrazione statale transalpina. Si dice anche che sia
omosessuale e che abbia indebolito l’ostilità del partito nei con-
fronti del matrimonio gay. Interrogato sull’argomento non ha mai
voluto rispondere, dicendo che si trattava di questioni private.
Quel che conta è che Philippot, nominato vice presidente del Fn
nel 2012 dopo essere stato a capo del team per la comunicazione
strategica durante la campagna per le presidenziali, ha portato il
Fn su posizioni rigidamente stataliste, anti Ue e anti euro, indican-
do nei poteri forti di Wall Street a livello globale, e della Bunde-
sbank per quanto riguarda più direttamente l’Europa, i principali
colpevoli della crisi economico-finanziaria che ha portato sull’orlo
del baratro l’economia francese. Il messaggio è stato ricevuto for-
te e chiaro proprio da quei delusi della sinistra (operai, piccoli im-
prenditori, impiegati pubblici) che hanno massicciamente votato
per il Fn, sperando di trovare in Marine Le Pen una leader in gra-
do di porre un argine al disfacimento del tessuto economico-indu-
striale francese.
La virata in direzione statalista ha fatto guadagnare un consenso
forse inaspettato tra la classe operaia transalpina: un sondaggio
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condotto sulla rete all’inizio del 2014 ha svelato che il 29 per cen-
to degli operai ha votato per Marine Le Pen; soglie che non sono
state nemmeno sfiorate sia dal tradizionale partito di governo di
sinistra, il Ps, sia dalle forze anti-sistema d’ispirazione post-comu-
nista (marxista-leninista o trozkista) come il Front de la gauche di
Jean Luc Melenchon.

CHI VOTA PER MARINE. TUTTO MERITO SUO?


Dai sondaggi effettuati subito dopo gli exploit di Marine Le Pen e
del suo movimento, si è scoperto che il desiderio che accomuna la
maggior parte dei francesi (87 per cento) è quello di avere “un ve-
ro leader in Francia per ristabilire l’ordine”. Ma chi sono realmente
gli elettori di Marine Le Pen? Da un’analisi approfondita, condotta
attraverso numerosi sondaggi, lanciati dalla preoccupazione che la
Francia stesse scivolando verso una deriva neofascista, razzista e
anti democratica, sono stati sfatati diversi luoghi comuni e pregiu-
dizi sull’elettorato del Fn. Abbiamo già detto del sorprendente vo-
to operaio e dei piccoli imprenditori, prime vittime della disoccu-
pazione e delle fallimentari politiche economiche nazionali e co-
munitarie. L’altra sorpresa riguarda l’età media di coloro che vota-
no per Marine Le Pen, molto più bassa di quanto si pensasse: so-
lo il 13 per cento dei suoi elettori supera i sessant’anni. Il voto de-
gli anziani, nelle ultime presidenziali, ha premiato maggiormente
Sarkozy, molto più presentabile rispetto all’estremista Le Pen. Per
Marine hanno votato in prevalenza uomini tra i trentacinque e i
quarantaquattro anni, ma non è mancato il supporto dei giovani al
loro primo o secondo appuntamento elettorale, che si è attestato
intorno ad un rispettabile 18 per cento. L’altro dato interessante
che sfata l’ennesimo luogo comune radicato nei media francesi è
che non esiste alcuna correlazione tra il voto al Front national e il
numero di stranieri presenti in quel dipartimento: non è vero che il
voto per Marine aumenti nelle zone più interessate dall’immigra-
zione. Esiste invece una correlazione tra la disoccupazione e l’au-
mento dei consensi per il Fn: le aree dove maggiore è la presenza
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di disoccupati coincidono quasi perfettamente con i dipartimenti


in cui il movimento guidato da Le Pen raggiunge i picchi più alti di
suffragi. Si evince, dunque, che chi vota per Marine Le Pen lo fa
più per la sua situazione di insicurezza causata dalle condizioni
economiche o di inoccupazione e meno per le ricette contro immi-
grazione e criminalità.
Le due principali indagini statistiche, condotte rispettivamente da
Le Monde con Tns Sofres e da Ipsos-Cevipof, sono state strumen-
talizzate dai media per dipingere un quadro a tinte fosche sul fu-
turo dell’Esagono, come se l’avvento di una dittatura sciovinista
fosse dietro l’angolo. In realtà la crescita di consensi per il Fn ne-
gli anni recenti è stata graduale e lenta e l’exploit di Marine alle
presidenziali del 2012 può essere messo sullo stesso piano del
passaggio al secondo turno del ballottaggio del padre di dieci an-
ni prima, quando sorprendentemente riuscì a battere il candidato
socialista Lionel Jospin e a contendere (per modo di dire) la pol-
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trona presidenziale a Jacques Chirac. Il dati emersi dal sondaggio


di Le Monde, che hanno fatto gridare al pericolo neofascista, sono
in realtà percentuali consolidate che il Front national ha già rag-
giunto in altre congiunture politiche. Il 32 per cento dei francesi
che dice di essere d’accordo con i programmi di Marine Le Pen
non sono assolutamente una novità: la stessa percentuale era sta-
ta toccata dal padre nell’ottobre del 1991, e quasi raggiunta nell’a-
prile del 1995 e nel maggio del 2002. La cifra è piuttosto irregola-
re e sembra essere una ciclica espressione di malcontento. Un ri-
sultato simile emerge dai vari risultati elettorali del Fn nel corso
degli anni.
Il movimento lepenista – ad eccezione del 2007, quando ha avuto
la concorrenza da destra di Nicolas Sarkozy sui temi classici della
sua campagna elettorale, immigrazione e criminalità – ha sistema-
ticamente conseguito intorno al 15 per cento dei voti nelle elezioni
presidenziali fin dal 1988. Sicuramente, il voto del Fn ha avuto una
crescita consistente, dal 14,8 del 1988 al 17,9 del 2012, ma si trat-
ta pur sempre di un semplice incremento di 3,5 punti, nell’arco di
24 anni. Ciò è interessante, naturalmente, ma difficilmente si pos-
sono giustificare allarmismi di qualsiasi genere. Come avvenuto in
Italia per il Movimento 5 Stelle, neanche il Fn è riuscito a capitaliz-
zare appieno il risentimento per la classe politica dominante, rite-
nuta incapace di agire per i reali interessi del paese e quindi, cor-
responsabile delle crisi finanziarie e dell’euro. Ma ancor di più sor-
prende il fatto che l’acceso dibattito sul matrimonio gay non abbia
portato alcun incremento significativo nei confronti del movimento
guidato da Marine Le Pen.

I NUOVI ORIZZONTI DEL FRONT NATIONAL


Con la durevole crisi economica del progetto di unificazione euro-
pea e la sempre crescente disoccupazione, può accadere che il
Vecchio continente stia tornando verso il suo passato nazionalista.
Il caso della Francia è interessante in quanto membro fondatore
della Ue, e come il paese dell’Europa Occidentale con la più gran-
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de minoranza musulmana. In molti si sono chiesti se il rischio di


una deriva autoritaria in Francia sia reale o meno. Ipotizzando una
leader come Marine Le Pen all’Eliseo, il paese avrebbe caratteristi-
che comuni con la Russia di Vladimir Putin, Israele di Benjamin
Netanyahu e l’Ungheria di Viktor Orban, ma senza quelle esagera-
zioni nei confronti delle minoranze etniche, religiose e di genere,
tipiche dei tre paesi menzionati.
Più interessante sarebbero i risvolti geopolitici con la leader del
Front national alla guida del paese. Le Pen è stata duramente cri-
ticata per aver espresso la sua “qualificata” ammirazione per Putin
nel 2011. La leader del Fn ha spesso sostenuto apertamente una
riconciliazione con la Russia e ha posizioni similari in politica
estera (sulla guerra in Iraq, Libia e Siria). La special relationship
tra Putin e Le Pen, paragonabile solo a quella che normalmente
lega i presidenti Usa a i premier britannici, si è concretizzata con
un fiume di denaro arrivato nelle casse del Fn da una banca ceco-
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russa, proprietà di un oligarca della cerchia dell’uomo forte del


Cremlino. La prima tranche di 9 milioni di euro sarebbe stata ver-
sata alla fine dello scorso novembre, ma l’importo complessivo
dovrebbe aggirarsi intorno ai 40 milioni di euro. Sono i soldi suffi-
cienti per compiere quel salto di qualità che permetterebbe a Ma-
rine Le Pen di insidiare veramente qualsiasi altro candidato alla
presidenza francese. Tutti si chiedono però, quale sarà la contro-
partita a favore di Mosca. Nei peggiori incubi dei suoi detrattori,
Marine Le Pen sarebbe capace di forzare l’uscita della Francia
dall’Alleanza atlantica, un punto che è sempre stato presente
nell’agenda del Front national. E un ridimensionamento della Nato
farebbe certamente piacere a Vladimir Putin, costretto per un de-
cennio a giocare sulla difensiva. Al presidente russo non dispiace-
rebbe neanche assistere al disfacimento dell’Unione europea, ed è
per questo motivo che i suoi emissari si vedono ovunque ci sia
sentore di posizioni anti Ue. Forse uscire dall’Unione potrebbe es-
sere un passo più avventato ma, probabilmente Marine Le Pen
potrebbe tenere testa alla Germania meglio di quanto abbiano fat-
to finora i suoi predecessori.

Massimo Ciullo
Docente di Scienza politica e Politica internazionale
presso l’Università del Salento

Bibliografia
Canovan, M. (1981), Populism, New York: Harcourt Brace Jovanovich
Canovan, M. (1999), Trust the People! Populism and the Two Faces of Democracy,
in “Political Studies”
Mayer, N. (2013), From Jean-Marie to Marine Le Pen: Electoral Change on the Far
Right, in “Parliamentary Affairs”
Shields, J. (2013), Marine Le Pen and the ‘New’ FN: A Change of Style or Substance,
in “Parliamentary Affairs” 66/1, pp. 179-196
Broadbent, M. (2014), Marine Le Pen and the populist radical right, http://www.e-
ir.info/author/matthew-broadbent/
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Oligarchie, il virus
che minaccia il mondo
Una vera e propria nuova pestilenza si aggira per il mondo e nessun
popolo, nessun paese ne resta, ormai, immune. Un virus silente di cui,
in generale, non si parla o, quando se ne parla, si finge che infetti
solo terre remote, lontane culturalmente e politicamente dall’Occidente

Andrea Marcigliano

S i tratta di un virus chiaramente identificato e, soprattutto, ben


poco conosciuto da molto tempo, tanto che si usa definirlo
con un nome dal sapore antico: oligarchia. Che è termine greco e
richiama le categorie fondamentali del politico definite da Aristote-
le – il “governo dei pochi”, degenerazione dell’aristocrazia, il “go-
verno dei migliori” – ma che proprio nel nostro tempo si è ripro-
posto prepotentemente, assumendo nuovi, e più minacciosi, signi-
ficati. Per lo Stagirita, infatti, così come, sulla sua scia, per Polibio
e Cicerone, l’oligarchia rappresentava la fase degenerativa dell’ari-
stocrazia, quando i cittadini più eminenti – i boni viri, per dirla
con i latini – si dimenticavano dell’interesse pubblico, della polis o
res publica che dir si voglia, e utilizzavano il potere esclusivamen-
te per curare i propri interessi particolari. Tema che ancora diede
molta materia di riflessione, nel Rinascimento, ai due pensatori
fiorentini, Machiavelli e Guicciardini, che ridefinirono le categorie
politiche gettando le basi del pensiero moderno. Per sua natura,
poi, l’oligarchia antica si contrappone alla monarchia – cui in ge-
nere subentra – e alla democrazia, il “governo del popolo” che,
per il pensiero classico, interviene come correttivo, e quindi in net-
ta antitesi, al degenerare del potere dei pochi.

IL NUOVO VOLTO DEGLI OLIGARCHI


Oggi, però, il termine serve a definire un fenomeno ben più com-
plesso, che esorbita dalla sfera della politica ufficiale così come
comunemente intesa; un fenomeno che, manco a dirlo, non riguar-
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da una singola polis, un solo Stato, ma è globale. E, soprattutto,


fa riferimento ad un “potere” altro, o meglio sovraordinato a quel-
lo dei politici propriamente detti, ovvero di coloro che gestiscono,
ufficialmente, il governo della cosa pubblica. Infine, ma è forse la
cosa più rilevante, l’odierna oligarchia non è più alternativa alla
democrazia; anzi, prospera e alligna proprio nei sistemi democra-
tici, sfruttandone i complessi meccanismi e, sostanzialmente cor-
rompendoli in profondità. Al punto che si può, ormai, considerare
quella oligarchica come una tabe che infetta i moderni sistemi de-
mocratico-rappresentativi e li utilizza come veicolo privilegiato per
garantire gli interessi di gruppi ristretti. Gruppi che, per altro, ge-
neralmente tendono a restare celati, a svanire sullo sfondo della
scena ufficiale. Non si tratta dell’ennesima riproposta di tesi “die-
trologiche” sul mondialismo, sul “potere occulto”, sulla massone-
ria (sic!) o altre carabattole, bensì della, pura e semplice, consta-
tazione di un dato di fatto: il potere, quello vero, quello che de-
termina in modo sempre più coercitivo il destino di Stati, popoli e
individui, oggi risiede sempre meno nei governi e nelle strutture
statuali, ma è detenuto da élite autoreferenziali e chiuse, tese so-
lo alla garanzia dei propri interessi. Interessi economici, certo, di
vario genere, ma che, alla fin fine, hanno un unico télos – per dir-
la ancora con Aristotele – un unico scopo: il perdurare e il ripro-
dursi, sotto nuove forme, nel tempo.
Il primo a definire con chiarezza questo nuovo concetto di oligar-
chia è stato, negli anni Novanta del secolo scorso, Christopher
Lasch. Il sociologo statunitense, con il suo La ribellione delle élite
e il tradimento della democrazia, ha infatti identificato la crescen-
te minaccia di un “potere” trascendente la sfera della politica ordi-
naria; di un potere sempre più saldamente stretto nelle mani di
“pochi”, di élite autoreferenziali che utilizzano la leva finanziaria
per determinare dall’esterno – ma meglio sarebbe dire “dall’alto”
– le scelte politiche dei singoli governi nazionali e decidere equili-
bri e squilibri della scena internazionale. Un fenomeno che non
trova nulla di realmente paragonabile nel passato, anche se, ov-
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viamente, presenta analogie con altri periodi storici. A determinare


la sostanziale originalità dell’odierno sistema delle oligarchie due
fattori principali: la fine della Guerra fredda e la rivoluzione infor-
matica. Non è casuale infatti che Lasch abbia pubblicato il suo
saggio nel 1994, all’indomani del crollo del Muro di Berlino e pro-
prio quando si cominciavano ad avvertire gli effetti della rivoluzio-
ne telematica in corso. Il nuovo sistema di comunicazioni stava
proprio allora svincolando il capitale finanziario da qualsivoglia
possibilità di controllo da parte degli Stati. In sostanza, i capitali,
per loro natura da sempre fluidi, andavano assumendo una capa-
cità di muoversi in modo mercuriale, utilizzando il veicolo dei nuo-
vi strumenti informatici. Per ridurre il fenomeno in termini semplici
basta, ormai, un clic sulla tastiera di un computer o di un tablet
per spostare enormi somme da un lato all’altro del globo, eluden-
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do confini e controlli, ed esercitando influenze determinanti, anzi


sovente devastanti sulle economie reali. Ovvero su quella “ric-
chezza delle nazioni” che era stata definita dal padre del vecchio
liberismo economico, Adam Smith. E con il capitalismo tradiziona-
le, con i vecchi “padroni delle ferriere” dei tempi che furono, que-
sto nuovo potere finanziario globale ha ben poco a che spartire,
tant’è che un osservatore, al solito acuto e attento, come Edward
Luttwak lo ha definito, icasticamente, “turbo-capitalismo”, proprio
per la sua velocità e, soprattutto, per la rapidissima e violenta ca-
pacità di spostare enormi interessi finanziari da un paese all’altro,
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Virus 113

da un lato al lato opposto del globo. Un “capitalismo” meramente


finanziaristico, senza radicamento in una qualsivoglia realtà pro-
duttiva, senza luogo, dimora e radici. La cui crescita esponenziale
fu resa possibile e favorita dalle politiche economiche dell’era
Clinton, quella il cui motto era, non a caso, “It’s the Economy, Stu-
pid!”. Quando l’allora segretario al Tesoro Larry Summers – lo
stesso che abbiamo ritrovato principale advisor economico di Ba-
rack Obama, poi forzatamente giubilato a causa dell’imperversare
della crisi – mise in atto la completa deregulation del sistema
bancario internazionale, abbattendo quelle barriere che separava-
no gli istituti di credito, che detenevano e preservavano la ricchez-
za reale, dalle merchant bank finanziarie e speculative; barriere,
per inciso, innalzate da Franklin Delano Roosevelt all’indomani
della grande crisi del 1929.
Dalla deregulation di Summers in poi non vi sono stati più limite
al potere d’influenza delle grandi banche speculative, che hanno
sommerso il globo intero di un oceano di “derivati”, ovvero “titoli
spazzatura” perché privi di corrispondenza con la realtà. Pratiche
che, nonostante la crisi del 2008 che ha portato al fallimento di
Bears prima, di Lehman Brothers poi, e nonostante le promesse di
facciata di Obama appena insediato alla Casa Bianca, continua in-
disturbata ancor oggi; tanto che diviene legittimo sospettare che
quella del 2008 sia stata una crisi artatamente indotta, prodotta
dallo scontro tra le grandi merchant bank. Scontro che ha visto,
certo, l’uscita di scena della Lehman Brothers, ma solo per lascia-
re maggior spazio operativo alle sue concorrenti: Morgan Stanley,
J.P. Morgan e, soprattutto, Goldman Sachs, cui spetta, di diritto, la
fetta più grossa della torta. Centri di potere finanziario, ma anche
politico, o meglio “metapolitico” ché di fatto le stesse banche
d’affari controllano le famose/famigerate agenzie di rating, Stan-
dard & Poor’s, Moody’s e Fitch. Agenzie che, in origine, dovevano
avere la funzione di verificare ed attestare la solidità delle singole
banche – compito assolto con dubbia premura visto che solo nel
dicembre del 2007 queste avevano attribuito l’Oscar della solidità
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economica alla Lehman, fallita nel volgere di soli tre mesi –ma che
a partire dagli anni Novanta cominciarono ad emettere verdetti
sulla solidità o meno delle finanze degli stessi Stati sovrani. Che,
così, di punto in bianco, si ritrovarono a perdere progressivamente
la loro sovranità, delegata a poteri finanziari in grado di distrugge-
re, letteralmente, il loro credito sui Mercati internazionali. E que-
sto, in breve, si è tradotto in una serie di diktat politici che hanno
condizionato e continuano ogni giorno di più a condizionare pe-
santemente le decisioni dei governi democraticamente eletti, di
fatto svuotando la stessa democrazia di ogni realtà e riducendola
a mero simulacro.

DOPO IL CROLLO, LE MACERIE…


Tutto questo, però, è stato reso possibile proprio per il crollo del
Muro di Berlino, l’implosione dell’Impero Sovietico e la fine della
Guerra fredda. Quando, sulla scia dell’entusiasmo per la sconfitta
dello storico nemico sovietico, il politologo nippo-americano Fran-
cis Fukuyama, apologeta dei trionfi dell’età Reaganiana, scrisse il,
celeberrimo e controverso, La fine della Storia e l’ultimo uomo,
prese, certo, una serie di clamorosi abbagli, cadendo in luoghi co-
muni degni del dottor Pangloss volterriano, quello che nel Candide
sentenzia, ad ogni piè sospinto, che viviamo nel migliore del mon-
di possibili. Su una cosa, però, Fukuyama, in fondo senza render-
sene conto pienamente, non sbagliava: il crollo dell’antagonista
rappresentato dall’Urss e dai sistemi polito-economici del sociali-
smo reale, apriva vere e proprie pianure, anzi vastissimi Oceani al-
le scorribande piratesche del capitalismo finanziario, di fatto con-
segnando al passato non il modello dello Stato Socialista soltan-
to, ma lo Stato sovrano tout court. La cui abdicazione progressiva
ha segnato l’affermazione crescente delle nuove élite oligarchiche.
Non è un caso, poi, che le nuove oligarchie siano venute allo sco-
perto, nel modo più crudo ed estremo, proprio nei paesi che, sino
alla fine della Cold War erano stati sotto regimi di socialismo rea-
le, ovvero parte dell’orbita sovietica. E non poteva essere altrimen-
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Virus 115

ti, ché, tracollato il regime socialista, questi paesi si ritrovarono


completamente sprovvisti di sistemi statuali ed ammortizzatori so-
ciali – come sindacati indipendenti – in grado di frenare il “turbo
capitalismo”. Abbiamo così assistito ad una sistematica e al con-
tempo selvaggia spoliazione delle ricchezze di queste Nazioni, sino
al giorno prima di proprietà statale, poi d’improvviso “privatizzate”
con veri e propri atti di rapina su vasta scala. Emblematico quello
che avvenne nella stessa Federazione Russa durante gli anni della
presidenza di Boris Eltsin. Quando dei signori, sino al giorno pri-
ma dirigenti di grandi gruppi pubblici – in primo luogo nello stra-
tegico settore energetico – semplicemente privatizzarono le stesse.
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116 Virus

Ovvero se ne impossessarono approfittando del caos generalizzato


e del vuoto di potere, aggravato dalla corruzione dilagante fra i
novelli, improvvisati “governanti democratici”. E poterono farlo,
anche e soprattutto, con il placet del nuovo potere finanziario-po-
litico mondiale, che in breve trasformò la speranza di democrazia
dell’ex Est sovietico nel più colossale “sacco” che la storia abbia
mai conosciuto. Poi, naturalmente, venne Vladimir Putin ed il resto
è cronaca dei nostri giorni.

IL TRADIMENTO DELLA DEMOCRAZIA


Gli oligarchi – così vennero appunto chiamati – della Russia eltsi-
niana svelarono il volto duro e rozzo di queste nuove élite autore-
ferenziali, non dovendo celarsi dietro parvenze culturali e un
aplomb, se vogliamo uno stile, come invece avveniva nel vicino
Occidente europeo, più sensibile, per tradizione storica ed educa-
zione, ai meccanismi ed alle regole formali proprie della democra-
zia. E tuttavia, in breve il virus delle oligarchie ha cominciato a
manifestarsi in tutta la sua virulenza anche nell’Europa occidenta-
le, nel nostro mondo. Ne ha fatto esperienza la Grecia per prima, e
poi, a ricaduta, molti dei popoli per loro sventura trascinati, con
l’illusione di un avvenire di sicurezza, pace e prosperità, nella co-
siddetta “area Euro”. E che invece stanno vedendo la democrazia
interna svuotata di ogni significato, gli agoni elettorali sempre più
ridotti a meri ludi cartacei, la sovranità nazionale cancellata e an-
nichilita. Mentre il vero potere risiede ormai altrove: nella burocra-
zia della Ue e, soprattutto, nei nuovi centri decisionali mondiali, la
famigerata Troika – Unione europea, Fondo monetario internazio-
nale e Banca centrale europea – il vero fantasma che oggi inquieta
la vita di tutti i popoli. E non solo di quelli europei.
La Troika con le sue strutture burocratiche, l’eurocrazia di Bruxel-
les, sono gli strumenti privilegiati del potere delle nuove oligar-
chie. Che però utilizzano anche altri veicoli, soprattutto nella zona
opaca di Ong (presunte) autorevoli e indipendenti, in realtà finan-
ziate, quindi asservite, dai centri del nuovo potere. Ed altri ancora
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sono i luoghi ove queste nuove oligarchie si incontrano e decido-


no le loro strategie; club riservati – come la famosa Trilateral, il
sempre più noto Bilderberg ed altri ancora al sicuro nel cono
d’ombra che li avvolge – nei quali non vengono cooptati solo fi-
nanzieri, ma anche politici, giornalisti, intellettuali. Centri che agi-
scono nella penombra, ma non nella tenebra cara ai complottisti,
ché non ne hanno certo bisogno, visto che controllano gli stru-
menti con cui è possibile manipolare, su scala globale, l’opinione
pubblica. Centri che, al di là della pura economia – ormai strumen-
to e fine insieme – determinano gli assetti e gli squilibri geopoliti-
ci generali. O tentano di farlo, spesso con successo.

GEOPOLITICA DEGLI SQUILIBRI


Pensiamo alla scena geopolitica attuale. E focalizziamo l’attenzio-
ne, solo per fare un esempio – il più prossimo e recente fra i tanti
che potremmo scegliere – sulla perdurante crisi dell’Ucraina. Che
sembrerebbe, addirittura, evocare spettri della Guerra fredda, con
una Russia neo imperialista decisa a riconquistare il suo vecchio
“impero” a spese dei popoli che hanno conquistato l’autodetermi-
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nazione solo dopo l’implosione dell’Urss. E l’Occidente, Washing-


ton e le principali cancellerie europee, che tornano a coalizzarsi
per fare nuovamente muro contro le mire del vecchio Orso mosco-
vita uscito dal suo lungo letargo. Storia vecchia, storia già vista e
sentita. Solo che, questa volta, la prospettiva in cui leggiamo gli
eventi di Kiev, della Crimea e del Donbas, è stata artatamente alte-
rata da una ben orchestrata campagna di stampa, e disinformazio-
ne, internazionale. Vediamo di ricapitolare sommariamente gli av-
venimenti, limitandoci a descriverli senza commentarli più che tan-
to, visto che parlano da soli.
Viktor Yanukovich, presidente eletto democraticamente anche se
accusato di corruzione – come peraltro tutti gli ultimi leader ucrai-
ni post sovietici – sembrava intenzionato, con il voto della mag-
gioranza del parlamento di Kiev, a rinunciare ad associarsi con un
trattato alla Ue, perché questo implicava l’accettazione di un dik-
tat economico che l’Ucraina non era in grado di reggere. A questo
annuncio, improvvisamente sono cominciate, nella capitale, mani-
festazioni filo europeiste e anti-governative, che sono via via de-
generate in una vera e propria rivolta di piazza. La rivolta di Piaz-
za Maidan ha subito trovato l’appoggio di Stati Uniti e Unione eu-
ropea, con paesi come la Polonia e la Lituania, che finanziavano
direttamente i ribelli e, in particolare, i gruppi più radicali già in ar-
mi. Sotto la duplice pressione internazionale e della piazza, Yanu-
kovich è fuggito in Russia, mentre manipoli di rivoltosi assaltava-
no e saccheggiavano la sua (sontuosa) villa. A Kiev si instaurava
un nuovo governo provvisorio, non eletto da alcuno, formato, pre-
valentemente, da esponenti di determinate lobby finanziarie ed
economiche legate all’Occidente. A questo punto la Russia reagiva
annettendo la Crimea – per Mosca strategicamente vitale, nonché
storicamente russa e dalla popolazione quasi integralmente russo-
fona – suscitando, però, la reazione della “comunità internaziona-
le”, ovvero Washington e Ue, che sostenevano acriticamente, il go-
verno, sostanzialmente oligarchico, di Kiev. Subito dopo si apriva
la questione della regione mineraria del Donbas - russofono e rus-
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so sino alla Rivoluzione di Ottobre, quando Lenin, che era di ma-


dre ucraina, decise di scorporarla dalla Russia per dare una regio-
ne industriale all’Ucraina. La reazione violenta dell’esercito di Kiev
portava alla guerra civile, con la penetrazione nel Donbas di trup-
pe russe, ancorché sotto la veste di “volontari”. In piena guerra ci-
vile, Kiev indiceva elezioni presidenziali e parlamentari; un voto
dal quale venivano, però, escluse le popolose province russofone
in rivolta. Risultava eletto presidente, il 25 maggio scorso, Petro
Oleksijovic Porosenko, un imprenditore – il “re del cacao” ucraino
– con una fortuna stimata intorno al miliardo e trecento milioni di
dollari, produttore anche di automobili e proprietario di giornali e
di un canale televisivo. Un tycoon con forti legami ed interessi in
Europa occidentale, di fatto parte di una élite finanziaria interna-
zionale. L’Occidente sosteneva le pretese del nuovo presidente che
rivendicava la sovranità sul Donbas e sulla stessa Crimea, e che
non accettava di concedere alcuna forma di autonomia alle provin-
ce ribelli. Di conseguenza, venivano comminate le sanzioni contro
la Russia, alle quali Putin reagiva, con grave nocumento per alcuni
settori critici della nostra economia – in specie l’agro-alimentare –
e rimettendo in discussione il South Stream, il gasdotto dalla Rus-
sia al Mediterraneo vitale per molte economie della regione, in
particolare quella italiana. Decisione che non potrà non favorire la
Germania che, con il North Stream, di fatto continuerebbe a dete-
nere le chiavi dell’approvvigionamento di gas russo all’Europa Oc-
cidentale. E non è certo un caso che Berlino sia tra i principali
sponsor occidentali del nuovo corso di Kiev.
Questo lo stato dell’arte in Ucraina, peraltro un film già visto in al-
tri quadranti geopolitici. Come in Libia, dove l’eliminazione di
Gheddafi e il caos che ne è seguito ha avuto la ricaduta di favorire
alcuni gruppi finanziari – francesi e non solo – che ne stanno
traendo profitto a scapito degli interessi di interi paesi, come l’Ita-
lia, che in Libia avevano molto investito. E l’elenco potrebbe conti-
nuare, parlando delle cosiddette Primavere arabe del Maghreb, o
dei tentativi di destabilizzazione del Caucaso e dell’Asia centrale,
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le fantomatiche, Rivoluzioni colorate (o, se si preferisce, floreali)


che in Georgia hanno spianato la strada a una nuova oligarchia
politico-finanziaria legata all’Occidente, e hanno tentato operazioni
consimili in molte altre repubbliche ex sovietiche cruciali per le lo-
ro ricchezze energetiche. Il tutto con la ben orchestrata campagna
di informazione-disinformazione orchestrata dai media internazio-
nali. Ne abbiamo avuto un assaggio anche in Italia, quando un oli-
garca/bancarottiere kazako, Mukhtar Ablyazov, riparato in Occiden-
te con un bottino intorno ai 14 miliardi di dollari, è stato presenta-
to urbi et orbi come un dissidente perseguitato da un “regime di-
spotico”. E questo grazie ad una ben organizzata campagna che
ha visto coinvolti grandi media, politici e, come strumento operati-
vo, una Ong polacca, la Open Dialogue, proclamata autorevole, ma
dietro alla quale sembra stagliarsi l’ombra di Ablyazov stesso e dei
suoi amici. “Amici” che risiedono nei centri nevralgici del potere fi-
nanziario europeo, in particolare in Francia, a dimostrazione di co-
me le nuove oligarchie siano interconnesse fra loro a livello trans-
nazionale (sul caso Ablyazov si veda il box allegato).

UN’EBOLA GEOPOLITICA
Naturalmente le nuove Oligarchie non hanno un, preciso e deter-
minato, colore politico. Allignano ad Ovest – dove detengono i
centri del potere finanziario – come ad Est e Sud, dove svelano il
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loro volto assumendo direttamente la funzione di governo. E spes-


so entrano anche in conflitto fra loro, tant’è vero che, nella stessa
Russia vi sono gruppi di oligarchi contro e altri pro Putin. In comu-
ne, però, presentano sempre lo svuotamento di significato dei si-
stemi democratici, un elitismo autoreferenziale e, soprattutto, la
volontà/capacità di ridisegnare a loro uso e consumo il sistema
degli equilibri geopolitici – e geoeconomici – mondiali. Anche se
meglio sarebbe parlare di “squilibri”, visto che il “virus” delle oli-
garchie si diffonde e prospera proprio nelle situazioni di caos e
disordine. Come l’ebola colpisce in modo drammatico paesi dove
il livello di vita è più basso, già ai limiti della mera sussistenza.
Peraltro anche i paesi più sviluppati, con livelli di vita tradizional-
mente elevati e tradizioni democratiche che dovrebbero essere
consolidate da tempo, sono ormai sempre più esposti a questo
“contagio”. E noi italiani ne abbiamo fatto una prima esperienza
con il governo “tecnico” di Monti.
L’influenza geopolitica del potere delle oligarchie si traduce in una
continua fluttuazione degli equilibri, resi sempre più instabili ed
evanescenti proprio perché queste “nuove élite” appaiono prospe-
rare nel disordine. Infatti la loro forza sta nell’essere in grado di
chiamarsi fuori dai conflitti, lasciando ad altri, per dirla con Lenin
agli “utili idioti”, l’onere di combatterli e di pagarne le conseguen-
ze. E questo avviene perché, a differenza di quelle antiche, le at-
tuali oligarchie sono caratterizzate dalla mancanza di radicamento.
Non appartengono ad una città, ad un popolo, ad una nazione;
piuttosto sono un potere apolide, che sposta la sua sede con la
stessa rapidità con cui può spostare i capitali finanziari che rap-
presentano la sua forza e, soprattutto, lo strumento del suo pote-
re. Lasch – ancora lui – pensava che l’antidoto potesse essere rap-
presentato solo da una riproposizione, in termini attuali, della tra-
dizione populista. Idea molto “americana”, certo, perché negli Sta-
tes quella populista è una cultura politica nobile, forte di precise
coordinate culturali e ricca di storia, a differenza di quanto avviene
nell’Europa Occidentale dove la parola stessa “populismo” viene,
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per lo più, utilizzata con valenza spregiativa. E tuttavia abbiamo


l’impressione che la tesi del sociologo statunitense presenti degli
spunti comunque anche per noi degni d’interesse. Infatti a delle
oligarchie senza terra né radici, evanescenti eppure pesantemente
influenti, è necessario contrapporre un “qualcosa” di antitetico e,
per ciò stesso, radicalmente alternativo. Quindi radici, identità, cul-
tura popolare profonda. Elementi che, se riscoperti, potrebbero
servire per ricondurre la politica, e di conseguenza la geopolitica,
sul piano della realtà. La realtà di un’economia che si fondi sulla
produzione ed il lavoro; la realtà di Stati che si radichino nella
geografia e nella storia; la realtà di culture che siano espressione
dell’anima dei popoli e non il prodotto algido di un intellettuali-
smo astratto e costruito artificialmente in laboratorio.
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Oligarchi e destabilizzazione
degli equilibri mondiali. Il caso Ablyazov
Oligarchi: antico termine greco che definisce un gruppo di
potere autoreferenziale; individui collegati strettamente fra
loro – spesso con legami familiari – che governano esclusiva-
mente per fare i propri interessi a scapito della comunità. Ter-
mine tornato prepotentemente di attualità ai nostri giorni,
dopo l’implosione dell’Urss che ha visto la sistematica spolia-
zione delle ricchezze delle repubbliche ex sovietiche da parte
di individui e gruppi chiusi, un vero e proprio “sacco” portato
avanti con tutti i mezzi possibili, e che ha comportato, spes-
so, gravi squilibri interni a quei paesi, e addirittura situazioni
di conflitto e rivolgimenti. Perché gli oligarchi prosperano
proprio nelle situazioni di anarchia e fomentano pseudo rivo-
luzioni per sfruttarle cinicamente ai loro fini.
Esemplare il caso di Mukhtar Ablyazov, il bancarottiere e oli-
garca kazako balzato lo scorso anno agli onori delle cronache
italiane a causa dell’estradizione dall’Italia di sua moglie Al-
ma Shalabayeva; estradizione poi revocata dopo una prepo-
tente, rumorosa ed influente campagna di stampa orchestrata
da potenti agenzie internazionali che l’Ablyazov – fuggito dal
Kazakistan con oltre 14 miliardi di dollari, frutto del fallimen-
to della banca Bta da lui presieduta – ha sontuosamente fi-
nanziato. Ablyazov, oggi, si trova in carcere in Francia, inse-
guito da mandati di cattura internazionali emessi non solo da
Astana, ma anche da Russia ed Ucraina, visto che la Bta ope-
rava in tutta quest’area. Peraltro, sul capo di questo signore
grava anche la condanna di una corte britannica, visto che
danneggiati dalle sue operazioni finanziarie sono stati anche
istituti di credito inglesi ed europei in genere. Per inciso an-
che alcune banche italiane, fra cui Unicredit e Monte dei Pa-
schi di Siena ci hanno rimesso qualche centinaia di milioni. Il
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29 settembre scorso un tribunale francese ha rigettato l’istan-


za di scarcerazione presentata dai legali di Ablyazov, confer-
mando che vi sono tutti gli estremi per procedere all’estradi-
zione. Che, per il momento, è resa difficile dal fatto che Mo-
sca e Kiev se lo stanno contendendo. A favore di Ablyazov e
del suo clan, in Italia è per altro stata montata una campa-
gna di stampa che ha visto come principale centro promotore
la Ong polacca Open Dialague. Una Ong accreditata in certi
ambienti politici italiani di un’autorevolezza che resta, a ben
vedere, alquanto misteriosa. Infatti Open Dialogue si muove
in una zona opaca, della vita politica internazionale: non è
chiaro chi siano i suoi dirigenti e, soprattutto, dichiara uffi-
cialmente dei bilanci irrisori, poche migliaia di euro, robetta
non degna neppure di un’azienda municipalizzata di una cit-
tadina di provincia, il che contrasta nettamente con i mezzi
(e gli agganci) di cui dispone. Inoltre, Open Dialogue sembra
occuparsi (quasi) esclusivamente del Kazakistan, con la preci-
sa mission di tutelare gli interessi di Ablyazov e dei suoi so-
dali. Il che, senza nulla concedere a dietrologie, getta non
poche ombre sui finanziamenti – quelli reali – di cui questa
Ong dispone. Tuttavia, Ablyazov non è solo un bancarottiere,
un truffatore di proporzioni tali da far apparire l’ormai para-
digmatico statunitense Madoff una sorta di dilettante allo
sbaraglio; è anche, anzi soprattutto, la punta di diamante di
un gruppo di oligarchi che, incistati in posizioni chiave nel
vertice dello Stato del Kazakhstan, hanno tentato di destabi-
lizzare quello che resta l’unico paese stabile dell’Asia centrale
post sovietica, nonché il perno dei delicati equilibri di quella
regione, vitale per gli interessi mondiali. Ed anche, nello spe-
cifico, per quelli italiani, visto che è notizia della settimana
scorsa che l’Eni ha sottoscritto con la controparte kazaka un
contratto vitale per le future forniture di gas al nostro paese.
Tanto più vitale se si pensa a come sta evolvendo la situazio-
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ne libica e al freddo sceso fra l’Unione europea e Mosca in


seguito alla crisi ucraina.
Come dicevamo Ablyazov non è solo. In Svizzera risiede la fa-
miglia Khrapunov. Il padre, Viktor, ex sindaco della città di Al-
ma Ata – la più popolosa e importante del paese – ed ex mi-
nistro delle Risorse energetiche del Kazakistan, è riparato nel
paese elvetico inseguito da mandati di cattura internazionali
per malversazioni, corruzione ed appropriazione indebita. Il
figlio trentenne, Elias – genero, guarda caso, di Ablyazov –
sarebbe indagato dall’Interpol per legami con organizzazioni
criminali internazionali, con connessioni anche in Italia, e

avrebbe un ruolo nel riciclaggio del denaro “sporco” prove-


niente da attività illecite, dal traffico di droga a quello di ar-
mi. Poi, in Spagna, è detenuto da qualche mese Alexander
Pavolv, ex capo del servizio di sicurezza personale di Ablya-
zov – solito girare con una nutrita scorta armata di mitraglia-
tori, non proprio lo stile di un povero dissidente perseguitato
– sul cui capo gravano numerose accuse per reati finanziari,
ma che è anche sospettato dall’Interpol di aver finanziato
tentativi di rivolta nelle regioni meridionali del Kazakistan,
fornendo supporto economico ed armamenti a gruppi di
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guerriglieri islamisti radicali vicini al temuto Imu, il Movimen-


to Islamico dell’Uzbekistan che mira a costituire in Asia Cen-
trale un “Califfato” su modello di quello dello Stato islamico
siro-iracheno. E intorno alla detenzione del Pavlov è stata
montata sulla stampa spagnola l’ennesima campagna volta a
presentarlo come un dissidente perseguitato da un feroce re-
gime autoritario, campagna che ha visto coinvolte delle Ong
internazionali dal retroterra finanziario alquanto ambiguo, e
centri di potere finanziario-speculativo occidentali che intrat-
tengono rapporti di affari con il clan Ablyazov. Forze, tutte,
che trarrebbero notevoli utili da una destabilizzazione del Ka-
zakistan, e che, quindi, operano spregiudicatamente in que-
sta direzione, incuranti dei rischi per la sicurezza internazio-
nale che questa sicuramente comporterebbe. Evidentemente i
casi recenti della Libia, della Siria e dell’Iraq – per citare solo
i più noti al grande pubblico – hanno insegnato ben poco,
anche perché troppe volte queste campagne, abilmente or-
chestrate e sontuosamente finanziate, di disinformazione tro-
vano sponda, nei paesi occidentali, in politici e opinionisti
che definire miopi appare ancora troppo generoso.

Andrea Marcigliano
Saggista, senior fellow de “Il Nodo di Gordio”
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Sinofobia?
Il Dragone (non) fa paura
Un potere crescente, talmente temuto da rendere quasi realtà trattati
commerciali senza precedenti nella storia. Eppure, anche il gigante giallo
ha i suoi problemi, pare aver perso buona parte del suo slancio ed è
pienamente coinvolto nelle difficoltà di una modernizzazione difficile

Alberico Travierso

I l 2014, con l’abbandono dopo 25 anni della doppia cifra nell’in-


dice di crescita del Pil, attestatosi al 7 per cento, ha consegnato
alla storia “la fabbrica del mondo”, sancendo la definitiva messa
in discussione del modello economico basato sulle esportazioni.
Questo fattore, unito ad altri limiti strutturali del macro-impianto
cinese, delinea un quadro tutt’altro che idilliaco per il colosso
orientale, ormai chiaramente “affaticato”.

RALLENTARE, PER MODERNIZZARE


La decelerazione della produzione interna, impressionante per le
dimensioni, non ha tuttavia colto di sorpresa gli analisti, e anzi è
da più parti previsto che, anche negli anni a venire, la crescita del-
la Cina si attesterà costantemente a livelli più “tranquilli”, senza
sforare quella soglia di doppia cifra semplicemente impensabile
per quasi tutto il resto del mondo (Europa in testa). Di più: è stato
lo stesso “politburo” pechinese, nel novembre del 2013, ad avviare
lo smantellamento di quel “modello Deng”, vero motore della cre-
scita selvaggia dell’ultimo trentennio, con l’implementazione di ri-
forme economiche strutturali di portata davvero enorme, e rivolu-
zionaria. In breve, si è deciso di lasciar perdere l’accelerazione
continua, e di puntare sulla qualità, facendo peraltro affidamento
sul fatto che la bilancia commerciale del Dragone non sembra sa-
pere cosa sia la crisi. Il rallentamento del Pil, insomma, è stato
perlomeno parzialmente voluto, prendendo atto del fatto che biso-
gna necessariamente andare più piano, per crescere meglio. Sono
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finiti i tempi in cui si temeva che un tasso sotto una soglia del 7-8
per cento avrebbe avuto conseguenze funeste sul piano lavorati-
vo, anche perché la disoccupazione è ferma ormai da anni a un 4
per cento assolutamente fisiologico.
In ogni modo, se è perlomeno prematuro parlare già di un “pro-
blema crescita”, pur sottolineandone l’evidente (ma per alcuni
aspetti non negativo) rallentamento, ciò che ha veramente assunto
proporzioni preoccupanti è il debito pubblico in relazione al Pil,
che ha ormai superato il 250 per cento e in breve raggiungerà
quello degli Usa, che è fermo al 261. Fra le maggiori economie
mondiali, solo il recidivo Giappone è messo peggio, al 416 per
cento; va anche detto però, relativamente ai due giganti asiatici
(ma non agli Usa), che oltre il 70 per cento del debito è detenuto
da investitori nazionali, il che ovviamente riduce, e di parecchio,
un eventuale rischio-paese. Certo, la minore crescita pone alcune
problematiche in relazione alla sostenibilità del debito, se non al-
tro per l’ovvia realtà per cui ci vuole sempre maggior credito per
continuare a sostenere un prodotto interno in fisiologico rallenta-
mento. Il problema fondamentalmente è che, e non solo Pechino,
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ma tutto il mondo deve farsene una ragione, l’economia cinese sta


(verrebbe a dire finalmente) maturando, e questa trasformazione
della quantità in qualità non può non porre delle problematiche
strutturali a oggi forse nemmeno del tutto inquadrabili.
Più nello specifico, la rivoluzionaria riforma del duo Xi Jinping - Li
Keqiang ha cercato di sterzare da quel modello Deng ormai ritenu-
to inadeguato, per implementare una nuova dottrina economica, la
Likonomics (termine ricavato dal nome del premier), ideata proprio
al fine di fronteggiare i principali “mali” della vecchia Cina. La cre-
scita impetuosa, infatti, si basava eccessivamente su un irrisorio
costo del lavoro e investimenti in settori altamente improduttivi,
generanti debito pubblico, mostruosità ambientali, alti tassi di cor-
ruzione, ed emergenza sociale. Tutte storture alla base dell’altra
grande piaga dell’economia pechinese, oltre al debito: una bolla
immobiliare che tutti gli sforzi fatti dal governo non sembrano in
grado di poter sgonfiare. I prezzi della case crescono infatti con
una media del 9,9 per cento all’anno; nelle grandi città, sforano
nettamente la doppia cifra.

VECCHI MALI DA SUPERARE


Vale la pena esaminare il fenomeno immobiliare cinese alla radice,
sia perché a suo modo paradigmatico, sia in quanto più o meno
collegato a tutti gli altri principali mali che attanagliano il gigante
asiatico. Il primo aspetto da considerare è la struttura stessa della
politica fiscale, causa prima dell’indebitamento dei governi locali.
In Cina, infatti, il potere di tassazione è centralizzato, mentre le
spese sono decentralizzate. Il governo di Pechino incassa così cir-
ca la metà del gettito, ma contribuisce ai servizi sul territorio solo
per il 15 per cento. Al resto devono pensare province, contee e
municipalità, che spendono quindi molto più di quello che incas-
sano, indebitandosi. Una strada senza uscita, che in molte aree
lontane, geograficamente e culturalmente, dal centro, ha portato a
maturare l’idea di una Pechino “vampira” che succhia le entrate
dello sterminato hinterland per inseguire ossessivamente i suoi
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obiettivi macroeconomici. La soluzione era poi stata trovata, e non


poteva essere altra che la vecchia madre terra, che i funzionari lo-
cali cedono ai cosiddetti developer per riempire le casse pubbliche
e, piuttosto spesso, pure le proprie tasche.
Tanto per parlare di cifre, si pensi che nel 2010 la vendita di terre-
ni contribuiva per un terzo delle entrate dei governi locali. Con
un’altra, gravissima conseguenza economica e sociale: i contadini
così espropriati diventano migranti che si riversano nelle maggiori
città offrendosi come forza lavoro inevitabilmente poco qualificata,
e basso costo, allargando in tal modo la forbice sociale e destabi-
lizzando, non solo nel lungo periodo, l’intera società cinese.
Vi è poi una seconda dinamica, maggiormente finanziaria, che ha
concorso alla creazione della bolla, e che concerne anch’essa alla
macrostruttura del Dragone. Si tratta della cronica, scarsissima
possibilità di investimento privato, unita all’assenza, altrettanto si-
stemica, di un welfare efficiente e minimamente adeguato a fron-
teggiare le esigenze di una popolazione di quasi 1.400 milioni di
persone. La gente che voglia valorizzare i propri risparmi, per far
fronte alla vecchiaia o agli imprevisti (cose frequentissime in un
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Paese dalla ricchezza pro capite bassa), in Cina è ben presto sco-
raggiata dal depositarli in banca, a causa di interessi troppo bassi,
spesso al di sotto del tasso di inflazione. Ogni occasione specula-
tiva, quindi, diventa buona, e il mattone è di gran lunga la princi-
pale: tuttavia, giusto per dare un’idea delle dimensioni del feno-
meno, si noti che esistono ormai bolle del vino, dei cartoni anima-
ti, dell’arte, e così via. Oramai, gran parte di privati, imprenditori e
perfino alcune banche investono in prodotti finanziari, più o meno
affidabili, paralleli al credito ufficiale (il c.d. credito ombra), che
però prima o poi, in un’economia così arcaica, indirizzano inevita-
bilmente il denaro verso l’immobiliare. Un flusso peraltro che ha
una redditività estremamente bassa, dato che il mattone cinese
non può certo essere un settore ad alto valore aggiunto, e non so-
lo per la congestione del sistema: i soldi, insomma, non tornano
indietro, e concorrono così a gonfiare quel mostruoso blob la cui
ipotetica esplosione pesa come un’enorme spada di Damocle sulla
testa della più grande economia del globo. Anche qui, poi, vi sono
inevitabili quanto spiacevoli conseguenze sul piano ambientale e
sociale, con la devastazione del territorio, la corruzione dei funzio-
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Virus 133

nari (che spesso prendono mazzette per chiudere un occhio su co-


struzioni selvagge), e il più generale problema delle classi sociali
totalmente escluse dalla corsa al «glorioso arricchimento» promes-
so a suo tempo da Deng Xiaoping.
Indebitamento dei governi locali e bolla immobiliare sono dunque
i due fattori di rischio più grave, per un’eventuale crisi finanziaria
in Cina. La via d’uscita non può essere breve, e nemmeno una so-
la, ma in questo senso la Likonomics sembra avere focalizzato i
principali punti di criticità, aiutata peraltro dalla storia dei Paesi
che hanno intrapreso la strada della modernizzazione prima della
Cina. Alcuni dei problemi, infatti, sono classici della teoria econo-
mica, come l’esigenza di uno sviluppo ricalibrato, che favorisca la
crescita di una classe media, imprenditoriale o forza lavoro qualifi-
cata e consumistica che sia (la famosa borghesia), e quel sempi-
terno dilemma della redistribuzione del reddito, vera e propria cro-
ce anche per economie molto più avanzate. Nello specifico, poi, il
premier ha spesso parlato di controlli dei prestiti, mini-sostegni
statali per la ripresa e sviluppo del mercato interno. Vi è in pro-
gramma la creazione di una classe imprenditoriale agricola, con i
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134 Virus

contadini che potranno affacciarsi sul mercato, anche accedendo a


crediti, alla ricerca di una maggiore efficienza aziendale. Sono pure
previste, però, politiche abitative a favore di coloro che decidono
di continuare a migrare verso le città, con facilitazioni per ottenere
un hukou (residenza) urbano, e in generale maggiori servizi, e più
generali progetti di edilizia convenzionata che mirino sia a sgonfia-
re la bolla, che a offrire case a prezzi accessibili su tutto lo stermi-
nato territorio nazionale. Verranno implementati, inoltre, un «siste-
ma di proprietà misto» alle grandi imprese di Stato, oltre che la
creazione di banche medio-piccole a capitale privato «qualificato».
Infine, si punta su un welfare di modello statunitense, basato cioè
su assicurazioni private, per quanto riguarda il sistema pensionisti-
co e quello sanitario,
Molti analisti, dal canto loro, hanno individuato il bandolo della
matassa nella politica fiscale, a volte considerata addirittura come
l’unica questione risolutrice; tesi probabilmente esagerata, anche
se lo spostamento di maggiori risorse verso gli enti locali rimane
un passo cruciale. Tanto cruciale quanto difficile, però, anche per-
ché Pechino deve da un lato fronteggiare i costi derivanti dallo
status di superpotenza, e dall’altro prendere atto del fatto che il
denaro gestito a livello locale alimenta in maniera esponenziale la
corruzione.

LA GRANDE PIAGA DI PECHINO


Debito pubblico, bolla immobiliare, diseguaglianza sociale, arretra-
tezza strutturale del sistema economico sono tutte negatività diffi-
cili da superare, che attanagliano la Cina a un passato fatto sì di
crescita impetuosa, ma oramai anacronistico. Tuttavia, forse il
maggior ostacolo verso il cambiamento del gigante asiatico viene
da quegli interessi costituiti, e fortissimi, che sul vecchio modello
hanno costruito fortune personali e potere politico. Piovre che si
annidano soprattutto nelle grandi aziende di Stato, e che sono il
primo obiettivo della grande campagna anticorruzione lanciata po-
co più di due anni fa, che ha comportato finora l’arresto di centi-
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naia di funzionari e quadri, con oltre 200mila indagati. Numeri


davvero strabordanti, che rispecchiano la volontà del leader Xi, pa-
lesata fin dall’inizio, di «colpire sia le tigri, che le mosche», cioè
sia i pezzi grossi, che i semplici funzionari locali. Fra le tigri, le vit-
time più celebri fino a oggi sono Bo Xilai, ex membro del politburo
finito in disgrazia, e soprattutto il suo mentore nonché ex capo
della sicurezza dello Stato, Zhou Yongkang.
Il problema, agli occhi soprattutto degli analisti occidentali, è capi-
re con precisione cosa stia realmente accadendo. Il partito ha più
volte posto l’accento sull’espressione yifazhiguo, qualcosa che do-
vrebbe essere riconducibile al nostro concetto di “Stato di diritto”,
ma la realtà è molto più torbida e complessa, e lascia intravedere
una lotta dietro le quinte nella quale il rispetto di leggi e regole
non è esattamente una priorità. Diventa difficile, infatti, credere al-
lo svolgimento di processi equi quando un membro del partito,
per essere giudicato dai tribunali ordinari, deve essere consegnato
ad essi dagli organi disciplinari del partito stesso. Nonostante i
continui richiami a legalità e trasparenza, Xi Jinping non ha alcuna
intenzione di dismettere le prerogative partitiche, e anzi pare vo-
lerne aumentare la centralità nel sistema, e l’influenza. L’enfasi sul
ruolo del Pcc come guida politica della nazione e pietra angolare
del sistema è infatti cresciuta costantemente nell’ultimo anno; la
corruzione dei suoi funzionari, delle amministrazioni locali e dell’e-
sercito è vista come un tarlo che sta erodendo dall’interno il parti-
to stesso, favorendone la disgregazione in una miriade di comitati
d’affari, e distruggendone la legittimazione agli occhi delle masse.
Per molti, la campagna dell’yifazhiguo è da mettere in relazione
con le riflessioni del leader Xi sulle primavere arabe, nelle quali
sarebbe stato decisivo l’indebolimento del partito dominante; e in
verità, la necessità di ripulire l’organizzazione, prima ancora del
Paese, dalla grande piaga della corruzione pare essere imprescin-
dibile, per garantirne la sopravvivenza. Soprattutto grazie a Inter-
net, la popolazione è ormai a conoscenza dei tanti privilegi di cui
godono i funzionari: e dunque, per garantire “il mantenimento del-
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la stabilità”, il leader più potente dai tempi di Deng ha letteral-


mente obbligato i membri del Partito comunista cinese (anche
dando l’esempio, per la verità) a “una vita frugale e semplice”, al
fine di recuperare credibilità. La loro carriera non dovrà più quindi
essere collegata a mazzette e clientelismo, e la commissione isti-
tuita ad hoc è chiamata a valutare non solo la legalità della loro
condotta, ma anche uno stile di vita «umile, risparmioso e privo di
sfarzo».
Pensare male, però, è fin troppo facile, così come è lampante che
la campagna anticorruzione abbia consentito pure di fare piazza
pulita di molti funzionari considerati avversi all’attuale leadership.
Xi ha potuto raccogliere attorno a sé molti dei suoi uomini più fe-
deli, sistemandoli in posti chiave dell’amministrazione, fra partito,
governo, aziende di Stato ed esercito: un accentramento del pote-
re innegabile, che non può non suscitare preoccupazione. C’è chi
parla di ritorno ai metodi della rivoluzione culturale e di regressio-
ne all’epoca maoista, chi rievoca una consueta lotta fra le fazioni
del partito, e chi invece pensa a una semplice manovra diversiva
per distrarre l’attenzione dai crescenti problemi economico-sociali
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del paese. Probabilmente, ognuna di queste visioni contiene ele-


menti di verità, dato però per scontato che la realtà è sempre più
poliedrica, e complessa.
Vi è poi un’ultima, particolare dinamica scatenata dalla campagna
dell’yifazhiguo, direttamente ricollegabile a quello che è, sotto l’a-
spetto sociale, il più insostenibile dei problemi che Pechino è chia-
mata ad affrontare: l’enorme sperequazione sociale. È storia nota
che trentacinque anni di crescita hanno arricchito la Cina, permet-
tendole di realizzare quella “accumulazione originaria” necessaria
al decollo, al prezzo di condizioni salariali terribili, pirateria, e cor-
ruzione dilaganti. Tale crescita, però, ha premiato solo pochi milio-
ni di fortunati, mentre il resto degli oltre 1,4 miliardi di cinesi ha
dovuto accontentarsi delle briciole. Tuttavia, oggi a chiedere un
cambiamento non sono solo quei ceti bassi e medi che hanno
aspettative di suddivisione di ricchezza prodotta non più rinviabili,
ma anche quella nuova classe di ricchi che chiede di incamminarsi
lungo il percorso di un capitalismo vero. Si tratta di un ceto di cir-
ca quattro milioni di multimilionari, quadruplicatisi nell’ultimo de-
cennio, che va contrapponendosi a quella stessa burocrazia dalla
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quale proviene.
Alcune condizioni, subite per decenni, oggi non sembrano più tol-
lerabili. Fra queste, spicca sicuramente il famoso signoraggio inter-
no, per il quale gli imprenditori cinesi che esportano, devono poi
cambiare i dollari ed euro ricavati in yuan, per pagare operai e for-
nitori. Al cambio, però, subiscono un prelievo del 15 per cento per
diritti, appunto, di signoraggio, che decurta sensibilmente i loro
(comunque significativi, per la verità) profitti. Un taglio da sempre
accettato obtorto collo, tanto che negli anni si è andato formando
un mercato nero dei cambi dietro cui è pesante l’ingerenza della
malavita organizzata. Oltre a ciò, questa nuova classe sociale mo-
stra una crescente, inevitabile insofferenza verso la macrostruttura
economica e finanziaria della vecchia Cina: in estrema sintesi, si
chiede una trasformazione radicale del capitalismo di Stato (o me-
glio, collettivismo burocratico) in un sistema pienamente capitali-
stico, con annessa sostituzione al potere della classica burocrazia
di partito. Tutto questo non può che generare una spaccatura pro-
fonda e feroce nel gruppo dirigente, che va al di là delle consuete
lotte di corrente, e configura un vero e proprio conflitto di classe,
trasversale perfino alle componenti tradizionali del partito. Fra gli
inquisiti di alto rango, infatti, vi sono uomini appartenenti sia al
clan di Shanghai, il gruppo che aveva il suo riferimento nell’ex lea-
der del Pcc, accusato di filocapitalismo, Jiang Zemin, che a quello
dei tuanpai (la corrente del premier, Li Keqiang) e pure dei «princi-
pi rossi», l’ala da cui proviene lo stesso Xi Jinping. Non di rado,
poi, le vittime ricche della longa manus pechinese reagiscono con
una sorta di «sciopero dei capitali», cercando rifugio per i loro
fondi presso banche occidentali: un (ancora potenziale) colpo du-
rissimo per l’intera economia cinese. A tutto questo è riconducibile
una delle ultime campagne lanciate dal Pcc, quella contro i «fun-
zionari nudi», vale a dire coloro che mandano moglie, figli e capi-
tali all’estero, sperando di non essere scoperti. Nella malaugurata
ipotesi che ciò dovesse avvenire, molti preferiscono il suicidio,
perché la legge cinese proibisce ogni forma di processo nei con-
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fronti dei defunti, e quindi la famiglia salva il capitale. Anche qui,


però, la classe dirigente al potere sta varando la controreazione, e
va profilandosi una modifica della legge per recuperare i fondi tra-
sferiti. Si tratta, insomma, di una vera e propria guerra, più o me-
no segreta, e spesso tutt’altro che legale: da alcune settimane gira
la notizia di circa 250 casi di milionari cinesi fuggiti all’estero e
«rimpatriati» dai servizi segreti con vere e proprie extraordinary
renditions.

POTERE SOFT E HARD


Xi Jinping, “l’Imperatore frugale” che pranza con due euro, ma che
è al contempo presidente della Repubblica Popolare, segretario
del Partito comunista, capo delle forze armate e guida di tutta una
serie di comitati per le riforme (da quello anticorruzione a quelli
per la giustizia e l’economia), ha caratterizzato la propria azione
sul piano interno con un’intransigenza che spesso ha fatto parlare
di dittatura. Emerge così il netto distacco con la sua politica este-
ra, improntata invece su una strategia di soft power volta a pre-
sentare l’economia cinese come una realtà solida e sicura, rassicu-
rando la comunità internazionale su come la Cina intende usare la
propria forza. Aspetto fondamentale di un simile approccio è uno
spiccato attivismo, venuto in risalto nei numerosi incontri a cui Xi
ha recentemente partecipato, nel giro di poche settimane, quasi
sempre ricoprendo un ruolo di assoluto protagonista. Dopo aver
ospitato a Pechino il vertice annuale dell’Apec, ha iniziato un giro
dell’emisfero orientale, recandosi dapprima in Australia per il G20,
e poi nelle Fiji per rafforzare i legami con quell’arcipelago. Portan-
do sempre avanti, ovviamente, le sue proposte per la creazione di
un’area di libero scambio per l’Asia e il Pacifico, e di un’istituzione
di credito solamente asiatica, che possa competere con la Banca
Mondiale, affidando però a Pechino quel ruolo di leader globale
da lungo tempo cercato. Nei fatti, comunque, è emersa spesso una
sorta di discrasia fra un’ampia disponibilità alle trattative e a una
collaborazione duratura (cosiddetto soft power, anche se la defini-
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zione di per sé attiene di più a una sorta di influenza culturale e


di costume), e la volontà di far riconoscere pienamente le proprie
ambizioni economiche e strategiche le quali, date anche le dimen-
sioni del soggetto in analisi, fanno presto ad essere scambiate per
egemoniche.
Al vertice Apec, per esempio, il presidente Usa Barack Obama e Xi
hanno sorprendentemente annunciato tutta una serie di reciproci
impegni, che vanno dalla riduzione delle emissioni di anidride car-
bonica alla rimozione dei dazi su oltre duecento prodotti tecnolo-
gici, fino a tutta una serie di intese su altri punti salienti spazianti
praticamente per ogni ambito delle relazioni internazionali. Al con-
tempo, però, si sono avuti momenti di alta tensione, sempre con
Washington, sul perenne tema dell’integrazione economica regio-
nale nell’area del Pacifico. Pechino ha rispolverato il progetto
Ftaap (Free trade area of the Asia-Pacific) facendo però chiaramen-
te capire di non voler riconoscere agli Usa alcun ruolo particolare,
secondo il tradizionale concetto de «l’Asia agli asiatici». Volendo,
c’è posto anche per il colosso a stelle e strisce, a patto però che
accetti il modus operandi del gigante giallo nella regione: altri-
menti, e Xi lo ha fatto capire fin troppo bene, la Ftaap (esclusi gli
Stati Uniti) sarebbe comunque un’area che ospita il 35 per cento
della popolazione mondiale, e il 34 per cento del Pil. Washington,
dal canto suo, propone di riunire in un’altra area di libero scambio
(la Tpp, Trans-Pacific Partnership) dodici paesi che si affacciano sul
più grande oceano del mondo, escludendo la Cina, ma arrivando a
coprire un territorio che produce il 40 per cento del Pil mondiale,
e un terzo degli scambi commerciali globali. Per comprendere
quanto il concetto di sinofobia sia tutt’altro che un’invenzione dei
media occidentali, basta far notare che il rispolverato progetto Tpp
è uno dei cavalli di battaglia dell’amministrazione Obama, nonché
uno dei punti sui quali essa riscuote maggior consenso.

Alberico Travierso
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Sociologia della crisi


e dell’anticrisi
Due sono i temi dominanti, oggi: economia e migrazioni. La situazione
economica è disastrosa, nel mondo e per i singoli. Letteralmente, giriamo
a vuoto. Pochi tirano sangue dai molti. La redistribuzione non basta,
occorre un diverso criterio di valutazione all’origine del sistema produttivo

Antonio Saccà

Talvolta, sentendo la tragica, incomprensibile situazione in cui, senza


ragione e volontà, siamo inabissati in questo microbo del Cosmo che è la
Terra, viene da abbracciare tutti, carnefici e vittime, in una espansione di
angoscia onnicomprendente o di uccidere, uccidersi, impazzire, pur di non
fingersi che vi sia un millesimo di sensatezza in questa assurdità a fondo
perduto che è la vita. E la presenza dell’esistente. E, oggi, pure la Società,
così com’è ridotta, come l’abbiamo ridotta.

Anonimo contemporaneo

ECONOMIA, IMMIGRAZIONE E MORALE: PREMESSA


Questo può accadere o con la forza dello Stato o, molto meglio,
con una economia che in partenza stabilisca retribuzioni, profitti,
tassazioni, pensioni, in modo che non vi siano sproporzioni. A tal
fine occorre un potere popolare. Ossia, lo Stato deve appoggiarsi
al potere popolare. Meglio, il potere popolare deve gestire l’econo-
mia. Se non la gestisce la distribuzione non ha forza. Non redistri-
buzione ma gestione.
La storia dei popoli può fondarsi sulla prevalenza del loro spirito
umanitario? Se un popolo fa della compassione il termine essen-
ziale della maniera di esistere avremmo avuto civiltà di ospizi? Cia-
scuno, singolo o popolo, agisca a sua volontà, se può, consideri,
però, gli effetti probabili dei suoi atti. Un individuo può impietosir-
si di un altro individuo, ma un popolo di un popolo? È disumano
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spesso difendersi, ma altrettanto disumano non difendersi. La cari-


tà può essere nemica della civiltà. La civiltà senza carità è bestiali-
tà. Allora? È così. Non c’è soluzione. Esclusivamente il “santo” ha
diritto di pronunciare la parola “compassione”, per gli altri è una
emissione di fiato. Prendessimo sul serio il termine “pietà” lo use-
remmo meno e non ce ne faremmo un ammanto verboso. La pietà
è altamente morale. E può rovinare una civiltà. Moltissimi procla-
mano spesso la parola pietà perché lo sono esclusivamente nella
parola. Meglio impietosi che falsamente pietosi. Che civiltà voglia-
mo erigere? Secondo la civiltà paghiamo un costo diverso. Ed è
impossibile non pagarlo per giungere alla meta. L’immigrazione è
posta tra la pietà e la tutela della nostra civiltà. Perché ingannarci,
addirittura mentire: l’immigrazione in quantità supreme può degra-
dare noi e gli stessi immigrati. L’immigrazione non è solo un feno-
meno sociale ed economico, è un mutamento di valori.

IMMIGRAZIONE ED ECONOMIA
(Discorso di uno straniero immigrato clandestino a me italiano)
“Siete pazzi, voi italiani, il popolo pazzo, in tutto il mondo non
esiste un popolo pazzo come voi e quanto voi. E sapete perché
siete pazzi? Perché vi credete buoni o scaltri. E siete pazzi come
buoni e come scaltri. Vuole sapere perché? Mi ascolti qualche mi-
nuto. E non mi interrompa. Alla fine dirà quello che le pare. Dun-
que. Noi veniamo a fiumi, da ogni vostro lato. Siete una pentola
bucata. Non c’è paese dove entriamo tanto facilmente come l’Ita-
lia. Da ultimo avete inventato di prenderci, addirittura. Non solo
veniamo, ma ci venite a prendere, ci venite a “salvare”. Bravi, bra-
vissimi, buoni, buonissimi; ma dovete decidervi: come fate a dare
una regola ai nostri sbarchi se appena a conoscenza dei nostri
barconi correte ad accoglierci tutti? Non vi capisco. Lo fate perché
siete buoni, per i diritti umani (sorriso amaro e disgustato dello
straniero, nota mia)? Tra poco ne parlerò, di questa leggenda. Lo
fate. Senza limiti. Un colabrodo contento di essere un colabrodo. E
noi veniamo, corriamo, ammassati a centinaia di migliaia, da quasi
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tutta l’Africa, e dobbiamo pagare per essere da voi, molto, e poi,


poi, ecco, voi non sapete o fingete di non sapere, i più non sanno,
ma quelli che sanno lo sanno benissimo: siamo bestie da fatica,
da voi siamo usati come bestie, subito, molti conoscono già la lo-
ro destinazione, un vero e proprio spaccio di schiavi, un giro enor-
me di denaro nascosto, di gente nascosta, di lavoro nascosto, c’è
il reparto malavita, il reparto prostitute, il reparto lavoro dei cam-
pi, il reparto muratori, il reparto venditori ambulanti, nessuno o
quasi nessuno secondo legge. Secondo legge. Secondo legge! Mi
fate ridere (ride divertito, nota mia). Secondo legge in Italia c’è so-
lo il malaffare, la legge del malaffare. Secondo legge in Italia non
conosco niente e nessuno. Camerieri senza contratto, muratori
senza legalità, raccoglitori furtivi, puttane sotto magnaccia, affitti
silenziosi, spacciatori alla luce del sole, e metta chi vuole, non un
grammo di legalità. Mi dica lei, chi paga le tasse in questo paese,
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il vostro? Noi, mai. Voi, neanche, dico quelli che ci divorano. Bello,
vero? Magnifico. Non paghiamo tasse noi e neppure quelli che ci
rodono. Magnifico. Ecco come un paese si rovina. Perché le tasse
le pagate voi (mi indica con il dito, nota mia), la gente con un im-
piego, una o due casette, una pensione. Voi (mi indica ancora, no-
ta mia) non potete sfuggire, invece noi siamo invisibili, noi e i no-
stri padroni, li chiamo così perché lo sono veramente. Sia coloro
che ci amministrano sia coloro che ci danno lavoro. E dico poco.
La maggior parte del denaro lo inviamo ai nostri disgraziatissimi
parenti che crepano nei luoghi che abbiamo lasciato, madre, fratel-
li, anziani, e tutti quelli che consideriamo di famiglia (ha un mo-
mento di commozione, nota mia). Questo un primo risultato della
vostra bontà o della vostra astuzia, o di entrambe: arricchiamo
mascalzoni che non pagano tasse, noi non paghiamo tasse, voi
pagate più tasse per rimediare la voragine di chi non le paga”.

CONTINUAZIONE DEL DISCORSO DELLO STRANIERO


A questo punto lo straniero cominciò a squassarsi da un movimen-
to che non capivo se di pianto o di risate, si copriva il volto e re-
spirava a scosse. Restai a guardarlo, a momenti credevo ridesse, a
momenti mi sembrava che piangesse. Rideva! Ma come se pian-
gesse, dal ridere. Continuò, ridacchiando.
“Noi siamo come i gatti. Quanto figliano, le gatte? Cinque, otto,
dieci gattini(!), noi lo stesso in proporzione a voi. Per un vostro
gattino noi ne mettiamo in vita almeno tre o quattro. Mi dica lei (e
mi dirizzò l’indice, nota mia) che ne sarà di voi tra dieci, quindici,
vent’anni. ( si fermò di nuovo, squassato dalle risate, nota mia).
Mi dica se esiste un paese così pazzo da mettersi in casa gente
che non paga tasse e che genera assai più figli degli abitanti del
luogo?!”. Di colpo, iniziò a tossire per quanto rideva, sghignazza-
va, addirittura. “E poi, poi, ah, ah, ecco, poi, la salute, i medicina-
li, gli ospedali, incredibile, facciamo figli pagati da voi, e così un
giorno avanzeremo di quantità a spese vostre! Ma c’è popolo
più... più... no, impossibile, dico io, incredibile, ci pagate per farvi
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sorpassare. E ci riuscirete, bravi, benissimo, dieci, vent’anni, e do-


vete fare i conti con noi per governare. E se qualcuno sogna che
saremo riguardosi, da pari a pari, sogna proprio, non si è mai vi-
sta una faccenda del genere, quando avremo un numero sufficien-
te vi imporremo le nostre condizioni, è normale, la cosa più sicura,
non riuscirete a controllarci, o con le buone o con le cattive vi so-
stituiremo, spartiremo la vostra società. Bene, dice il solito buono:
questo deve essere, siamo tutti uomini! Il più imbecille degli imbe-
cilli è chi crede all’uguaglianza e alla riconoscenza. Se saremo i
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più forti agiremo da più forti. Solo dementi possono credere alla
bontà del povero che riesce a dominare. Non vi domineremo? Illu-
si! Continuate a prenderci e a non fare figli, e ve ne accorgerete!”.
Tacque. Non so se riteneva io volessi parlare. Non parlai. Mi inte-
ressava molto ascoltare. E continuò. “Non meno pazzi sono i catti-
vi, quelli che credono di succhiarci il sangue. Noi fatichiamo, ci
spezziamo le ossa, dobbiamo ripagare i traghettatori, stiamo in
dieci in una stanza, intanto sopravviviamo, facciamo figli, chiamia-
mo i parenti, gli amici, qualcuno studia o fa studiare i figli, qualcu-
no mette bottega, con amici e parenti paga quasi niente salari, gli
orari non esistono, capite o no che vi diamo guerra in casa vostra
e voi ce la consentite! E questo, perché? Perché credete che vi fac-
ciamo risparmiare nelle nostre botteghe o che trovate lavoratori a
minor costo. Questo il grande scopo della vostra bontà e della vo-
stra astuzia. Vi mangeremo crudi. Se credete di salvare la vostra
economia sfruttando noi siete incoscienti, se credete di salvare la
vostra economia trattando con parità noi siete incoscienti lo stes-
so. Nessun paese è salvato da stranieri che generano di più. Fate
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figli, pazzi! E soprattutto, mettete in regola ogni straniero e garan-


titegli i diritti: non ne verranno che meno della metà perché non li
prenderà nessuno. Li prendono in quanto fuorilegge. Ma in un mo-
do o nell’altro vi rovineremo”.

ANCORA IL PORTENTOSO DISCORSO DELLO STRANIERO


Tacque di nuovo, e si carezzava nervosamente i nerissimi capelli.
Sentii che preparava qualche considerazione peggiore delle prece-
denti. Poi, calmissimo, come parlando a se stesso, continuò a dire.
“Che vantaggio arrechiamo alla vostra società? Non lo so. Certo,
lavoriamo, certo, produciamo, di sicuro, riempiamo le vostre man-
canze di figli, forse i nostri figli e i figli dei nostri figli si considere-
ranno italiani, o tedeschi, o spagnoli, negli Stati Uniti avviene, di-
cono che avviene, non lo so, dicono, ma quello è un gran paese,
un paese grande, e il potere è in mani precise, non le nostre, no,
mani implacabili, i vostri sono paesi fragili, se accresciamo di nu-
mero , non so, non so, io mi preoccuperei, fossi italiano, credete
di averci a poco prezzo, è il risultato della vostra bontà o della vo-
stra astuzia, ma, alla conclusione, se ci moltiplichiamo come sta
avvenendo, altro che il piacere che riempiamo le vostre penurie di
figli, le vostre pensioni, qualcuno lo suppone, vi procureremo. No,
vi sostituiremo, non sarete in condizione di governarci. Va bene,
contenti, avete raggiunto la fratellanza universale! Siete degli...”.
Disse vari termini che non riferisco in quanto immaginabili e com-
prensibili. Poi, di colpo, riprese. “Ma forse vi salveremo noi, noi
stranieri vi salveremo dagli stranieri prepotenti per salvare noi
stessi da costoro. Sul vostro territorio, e non solo sul vostro, la
lotta sarà questa: stranieri ormai padroni del paese verso stranieri
che vogliono impossessarsene!”. Ricominciò a sghignazzare così ir-
refrenabilmente che temetti per la sua salute. Scherzava? Fantasti-
cava? Diceva sul serio? Parlicchiava toccandosi le dita quasi a nu-
merare. “Non paghiamo tasse, uno; utilizziamo le protezioni socia-
li, due; non pagano le tasse quelli che ci fanno lavorare, tre; man-
diamo il denaro fuori, quattro; facciamo figli a palate, cinque; loro
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pagano tasse e non fanno figli, sei; mandiamo a studiare i nostri


figli, sette; mettiamo bottega a basso prezzo di lavoro tra noi, ot-
to; prima o dopo l’avremo vinta, nove. Sono pazzi, pazzi e...”. Ri-
prese a dire parole che non dico, ma chiunque le immagina.

CONSIDERAZIONI SU QUANTO DETTO DALLO STRANIERO


Nel suo parlare, io pensavo. Se uno straniero faceva quelle consi-
derazioni contro di noi, mi pareva ridicolo giustificare noi perché
“buoni”, “umani”, “accoglienti”, egli mostrava a che si riduceva ef-
fettivamente l’immigrazione, una lurida faccenda di sfruttamento,
da parte nostra; una incupita volontà di futuro dominio, da parte
loro. E il dominio, era manifesto, sarebbe accaduto con la forza
micidiale dei numeri. Ricordandomi di essere stato docente di so-
ciologia, me ne davo una interpretazione, orribile: noi “volevamo”
stranieri e che figliassero loro nel disperato e fallimentare scopo di
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avere lavoratori a basso costo per ottenere il mitico profitto. Era il


modo di un inetto capitalismo di salvarsi: importare lavoratori,
perfino i loro figli, a basso costo, presente e futuro. Proprio in
quei giorni in cui ascoltavo l’immigrato, negli Stati Uniti si valutava
la regolarizzazione, come si dice, di milioni e milioni di lavoratori
stranieri che venivano occupati in maniera impropria. Insomma,
una tendenza mondiale: ricorrere agli stranieri per scemare il costo
del lavoro e restaurare il profitto. Mi dicevo: vero, ma in ogni caso
queste povere, misere, sofferenti popolazioni hanno un minimo sa-
lario, riescono a sopravvivere. Indirettamente, perseguendo lo
sfruttamento, facciamo del bene. Rispondevo: ma se tutto ciò ser-
ve ad avvilire la nostra popolazione, ad avere in casa milioni e mi-
lioni di stranieri che, lo dice il mio dialogante, un giorno ci mette-
ranno alle strette. In fondo, continuavo in me stesso, quello che
accade è l’arricchimento dei ricchi che abbassano i salari, l’impo-
verimento della massa sociale per la presenza di gente che si offre
a poco e fa concorrenza ai lavoratori nazionali. Per questo siamo
accoglienti.

LO STRANIERO RICOMINCIA L’ANALISI DELL’IMMIGRAZIONE


“Ha capito?”. Udii la domanda, era il mio interlocutore che me la
faceva. “Sì, ho capito”. “Salvare il profitto in questa forma rovina
la società!”. “Vero, ci rovineremo”. “Vogliono tornare ai primi anni
del capitalismo, salari di fame e lavoratori allo sbaraglio. Sa che
c’è di comico in tutto questo? “. “ Me lo dica”. Che proprio quelli
che urlano “accoglienza”, “umanità” favoriscono l’immiserimento”.
Ricominciò a sghignazzare tanto che il colloquio finì. Lo incontrai
giorni successivi. Mi fece una proposta, che io fingessi di dargli la-
voro, lui avrebbe pagato le contribuzioni, io non lo avrei retribuito
fingendo di retribuirlo, egli avrebbe ottenuto il permesso di sog-
giorno, desideratissimo, così poteva entrare ed uscire dal nostro
paese. Disse che innumerevoli agivano in tal modo, che vi erano
organizzazioni a tale scopo, era proprio ostinato a darmi a inten-
dere che da noi di legale c’è soltanto la illegalità e guai a chi è
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voleva rispettare la legge. “Se vuole capire l’immigrazione deve te-


nere conto della fame, delle guerre, ma non trascuri la delinquen-
za, lei deve combinare l’immigrazione anche al lavoro fuorilegge, a
gente disposta ad ogni delitto”. Gli dissi che esistevano tanti im-
migrati brave persone, laboriose, amiche, i cui figli sarebbero stati
corretti membri e cittadini dell’Italia. Gli venne un attacco, non sa-
prei come definirlo, se non epilettico, non epilessia, il male oscu-
ro, ma scuotimenti, strabuzzamento di occhi, cercava di parlare,
coglievo a frasi mozze. “Pazzi, non capite, tutto il contrario, perde-
rete”. Quando riuscì a contenersi mi precisò: nessun popolo è sal-
vato e tutelato da altri popoli, e poiché, ne era ossessionato, noi
non generiamo saranno i bravi individui, gli integrati che ci sovra-
steranno lentamente, serenamente, senza che ce ne accorgiamo.
Così mi disse. Dovevamo ad un capitalismo infame, che pur di ot-
tenere e restaurare il profitto dilatava l’ingresso ai morti di fame
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per abbassare il costo del lavoro? Gli feci la domanda. Si animò e


mi batteva la mano sul braccio, guardandomi sorridente. Ma se
avevo ragione eravamo davvero alla catastrofe! Se il capitalismo
ha voglia di rifarsi il profitto anche con miriadi di poveracci da mal
pagare come contrastare l’immigrazione? Mi abbracciò. E capii il
suo livore contro l’immigrazione. Quella immigrazione rovinava lo-
ro non meno che noi e un domani avrebbe suscitato una guerra
generale, tra immigrati riusciti e miseri, tra italiani e immigrati, tra
italiani. “Se non cambiate questo capitalismo siamo tutti alla rovi-
na!”. Dunque prendersela soltanto con l’immigrazione e non con il
sistema che la determina è un falso bersaglio? Mi batté le mani.
L’incontro successivo, l’ultimo, credevo, fu stupefacente, ne dico
per segnare che ormai siamo nel delirio, a meno che il delirio non
sia veggenza. Ne riferisco le parole. “Ma dico io, insomma, perché
non consegnate le vostre società a noi? Avremmo individui che la-
vorerebbero notte e giorno, una disciplina con sostegno religioso,
salari di sostentamento, mai proteste, lasceremmo in una accetta-
bile povertà i lavoratori, altro che stato sociale e benessere, e non
avendo mai avuto né l’uno né l’altro, non li rimpiangerebbero.
Vuol capire perchèévoi non avete futuro? Glielo spiego? Non se ne
avvede? Perché avete un buon passato… Riadattarvi al peggio sarà
un dramma se non tragico. Fatevi dirigere da noi, si convinca”. Ce-
liava? Forse. O no?

UNA “SCOPERTA” DI POLITICA SOCIALE


Sbagliavo, l’incontrai nuovamente. E il discorso che mi fece lo tra-
scrivo, considerandolo necessario per capire questo clamoroso
evento dell’invasione. Mi disse questo. “Sa che potrà avvenire?
Glielo dico: un falso bersaglio. Mi spiego. Voi accuserete noi e in-
vece dovreste accusare i signori di casa vostra. Se ci danno lavoro
fuorilegge, se ci fanno abitare nelle vostre case, se ci fanno liberi
dopo furti o altro, pensi lei, è colpa vostra o nostra? Se ci fanno
entrare e poi ci lasciano crepare? Se ci usano per tutto un mondo
irregolare, la colpa di chi è? Ma ci renderanno malvagi, disonesti,
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rubatori, sporchi, usurpatori ai vostri occhi e voi crederete che le


vostre miserie provengono da noi, ci faremo guerra e non faremo
guerra a chi ci riduce come siamo, noi e voi. Non dobbiamo cade-
re nell’inganno. E invece, cadiamo. Invece della guerra comune
contro i Signori la guerra tra poveracci. Capisco, capisco, non c’è
bisogno che mi guardi come se io volessi cambiare opinione e far-
mi difensore dei miei, no. Lei comprende. Dico che usano la nostra
povertà per renderci sottomessi a ogni lavoro, onesto e disonesto,
e per farci responsabili della vostra povertà, diverremo, lo siamo
già, un bersaglio per la vostra scontentezza. E il poveraccio vostro
si monterà la cresta per avere sotto mano uno da colpire, invece
di attaccare chi ci divora tutti. Sì, rubiamo, siamo sporchi, violenti,
senza legge, molti di noi, ci dovreste cacciare, ma ci tengono per
offrirvi un bersaglio, e voi ci cascate. Ma prendetevela con chi vi
sta rovinando, vi sta rovinando. E non siamo noi, non siamo
noi...”.
Il colloquio con lo straniero ebbe l’effetto che può avere la lettura
di un testo che svolge argomenti commisti di politica sociale, mo-
rale, economia. Non c’è dubbio, a considerare la sorte di ciascuno
e di tutti, insorge una compassione universale e ogni durezza,
ogni condanna spariscono, vorremmo far poggiare la fronte sul no-
stro petto all’intera umanità o poggiarla noi, stanchi di giudicare,
di opporci, di cercare, di preferire, di approvare e negare, ma subi-
to ci rendiamo conto che in tal modo precipiteremmo ancora di
più nella miserabilità dell’esistenza, e accogliere tutti non distin-
guendo e non rispettando un criterio di qualità ci degenererebbe,
sprofondandoci. Dobbiamo strapparci dalle carni la compassione
universale, considerare che ne verrebbe, non tutto ciò che vive
merita riguardo, né bisogna perdonare proprio tutti, né considera-
re uguali tutti gli uomini, né avere compassione e amore solo per
il “debole”. Occorre ammirare e tutelare anche la superiorità, colti-
varla con cura, non farle pagare il pregio del suo valore. Ma sono
parole. Il “debole” non ha di certo gli scrupoli morali che l’uomo
che vale si pone nei confronti del “debole”. Era questo il significa-
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to ultimo di quanto avevo ascoltato o qualcosa di peggiore: che


pochi uomini vogliono immiserire e mettere contro innumerevoli
uomini tra di loro per dominarli e spostare il bersaglio, quasi che
il povero fosse la rovina del povero? Un falso bersaglio?

IL FALSO BERSAGLIO
Quando taluni partiti, italiani ed europei, cercando una loro indivi-
duazione su problemi effettivi, ritengono che la immigrazione clan-
destina sia il male da combattere e salvati da essa risaneremmo le
nostre società, commettono uno sbaglio dimostrativo di una politi-
ca che vive di momentaneità e inidonea a una visione prospettica.
Scrivevo nel mio libro Europa o morte (Dino Editore, 2002), che ci
debiliterà l’immigrazione regolare, per una ragione semplicissima,
è di gran lunga la più numerosa e prolifica di conseguenza. Saran-
no la demografia, la natalità, a condizionarci. Invece di creare agi-
tazioni certo suscitatrici di consenso facilitato ma irrisorio sarebbe
opportuna l’indicazione di una politica per le nostre famiglie, per
la casa, per gli asili; ma ciò susciterebbe meno rumore e sugge-
stione elettorale. Se noi non facciamo figli l’immigrazione sarà irri-
mediabile, e che sia regolare o meno, cambierà la nostra composi-
zione. Almeno esserne coscienti. Bisogna spingersi ad una inten-
sissima politica della natalità nazionale, case, sussidi, asili nido,
costo degli alimenti e degli indumenti. Una scarpetta per un bam-
bino la si paga quanto una scarpa di media qualità per adulto. In-
somma, una politica totale per le nascite. Di tutti, intendiamoci.
Ma soprattutto ed anche le nostre.
Ma restiamo ancora alla superficie del fenomeno “immigrazione”.
La “grande povertà” si è mossa e sta inondando il pianeta del be-
nessere. Invece di restare a morire di fame, guerre e malattie il
pianeta dei poveri si inoltra, invade, fugge, perisce, tenta, osa,
noi, callidissimi, riteniamo di avvantaggiarci di queste esplosioni, e
sotto ammanto di accoglienza, diritti umani, fraternità, uguaglianza
cerchiamo di restaurare la schiavitù a casa nostra. Venite, venite,
vi daremo un lavoro fuorilegge, diverrete manovalanza del crimine,
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sarete occupati in nero sì che non pagherete tasse e non le pa-


gherà chi vi impiega, usufruirete delle protezioni sanitarie, vi met-
teremo in prima fila agli asili nido, vi moltiplicherete mentre noi ci
denatalizziamo, eventualmente andrete in galera a nostre spese,
metterete su negozietti dove tutto sarà irregolare ma consentito,
faticherete dall’alba alla notte, cinque, otto in una stanza, quel
che guadagnerete lo spedirete ai parenti miserissimi, risarcirete
con il vostro sangue il costo dei trasportatori, ma in questo pan-
demonio, verniciato di moralità, si instaura nel ventre di ogni pae-
se gente dolentissima, oppressa, irata, avida, pronta a far valere la
fatica del viaggio, con uno spirito di impossessamento, di consu-
mo che soltanto chi mente finge di non cogliere. La predicazione
della teoria del “sono brave persone, non tutti sono delinquenti,
vogliono e devono essere trattati come noi, un tempo anche noi
siamo stati immigrati, fanno i lavori che noi non facciamo”, è vani-
loquio nei possenti ingranaggi della Storia. Alla Storia, al di là del-
le frasi, interessa che verrà fuori da questo pandemonio, ripeto.
Che possa venire un rafforzamento delle nostre civiltà è miraggio.
Che un induista, un mussulmano contribuiscano alla “nostra” civil-
tà è un azzardo da non rischiare. Forse ancora non comprendiamo
il senso di rivalsa di questi popoli, di antichissima, antica civiltà, i
quali non vivono che per l’occasione della rivalsa. Supporre che,
accresciuti di numero, non si faranno valere con prepotenza, se ri-
escono, è trattare la Storia e la vicenda delle masse come le rela-
zioni individuali amichevoli. Se prolificano e noi ci decurtiamo ad
ogni generazione, non governeremo gli stranieri. Al di là di ogni
vaniloquio, spesso ben intenzionato, il “fatto” demografico è apo-
dittico.
Al dunque, il capitalismo odierno crede di aver trovato la soluzio-
ne alla sua crisi e al suo mutamento con lavoratori preferibilmente
stranieri, meno esigenti, ricattabili, “bisognosissimi”, e poiché l’oc-
cupazione che non falla è la generica, a parte la qualificatissima,
gli stranieri sono acconci. Il “sistema” si è inventato la soluzione
per la restaurazione o l’accrescimento del profitto, vero incubo del
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capitalista, disposto a tutto pur di rimpinzarlo. Con gli stranieri il


risanamento del capitalismo appare ottenibile. Milioni di persone
sottopagate, addirittura a casa del capitalista. Gli Stati Uniti sono
esemplari, a proposito. Con effetti imprevisti o che non si vogliono
vedere: la concorrenzialità tra lavoratori stranieri e lavoratori na-
zionali; l’afflizione di entrambi; l’immigrazione sostitutiva e non
soltanto integrativa se gli stranieri generano maggiormente. I “si-
stemi” produttivi i quali credono di rendersi competitivi anche con
l’abbassamento dei salari mediante gli stranieri si troveranno una
marea di nuovi nati, e, alla lunga, per la legge dei numeri, se i “si-
stemi” ritengono di poterli dominare lo potranno esclusivamente
con la violenza. Chi crede che sia missione democratica accogliere
(e sfruttare, senza dirlo), si dovrà apparecchiare ad essere antide-
mocratico quando il numero degli stranieri sarà indigeribile e lo
sfruttamento insopportabile, specie in tempo di crisi. Anche in tal
caso gli Stati Uniti sono sintomatici.
Niente da aggiungere, se non questo: un sistema è malato quando
si cura in modo da aggravare la malattia. Ritenere di salvarci con
stranieri e limiti generalizzati ai salari, resi concorrenziali, è impo-
verire le società, arricchire pochi, suscitare una massa d’urto che
soltanto la violenza riuscirà, se riuscirà, a raffrenare. Gli Stati de-
mocratici si avviano all’Autoritarismo per continuare la farsa della
immigrazioni, a illusori scopi umanitari ma di fatto per salari smi-
nuiti. Con fatica, sacrifici, delinquenzialità, eroismo, prepotenza,
rapacità, spirito aggregativo gli stranieri sopravviveranno, avanze-
ranno, si moltiplicheranno, vorranno potere. Ciascuno giudichi a
suo garbo se ritiene opportuno e approvabile tale futuro. C’è da
concepire che lo si voglia, tanto è l’entusiasmo dell’accoglienza. Al
capitalismo internazionale interessa il lavoratore a basso costo
non il lavoratore nazionale e la Nazione. E’ fatale, dobbiamo ripri-
stinare élite patriottiche, pochi ma scelti difensori della nostra ci-
viltà e dei nostri interessi, tutti possono venire purché non spezzi-
no, disperdano, degradino la nostra civiltà e non trasformino i no-
stri paesi in mercatini e in un terreno di lotta per la sopravvivenza.
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C’è il rischio di una immigrazione al ribasso, abbassatrice, l’afflus-


so dei paria universali, e che vogliamo tali! Non illudiamoci, deca-
dremmo anche noi. Che fare? Figli, nostri. E salvare ad ogni costo
le nostre élite. Se vi sono. O ricostruirle. Senza condiscendenza. La
qualità è tutto.

LA SITUAZIONE PROSPETTICA DELL’ECONOMIA


Non tutto il mondo è un solo paese. Quel che accade in una parte
non necessariamente accade altrove. Tuttavia osserviamo un anda-
mento che fa immaginare situazioni non favorevoli all’umanità. Nel
momento in cui gli strumenti tecnici crescono la loro efficacia in
forme non sospettate dai più fantasticanti utopisti, abbiamo, al-
l’opposto, la catastrofe per masse di cittadini. Qualcosa deve cor-
rere per il verso sbagliato se viviamo questa antitesi, che mezzi
utili alla produzione, potentissimi, invece di giovare, ci affliggono.
Significa che vengono usati in modo storto. Certamente. Invece di
servire alla generalità sociale servono al profitto di pochi, i quali
usano tali mezzi o per sostituire i lavoratori, licenziarli, o pagarli
meno. Si che i lavoratori non traggono vantaggio, tutt’altro. Tali
mezzi tecnici consentono, anche, un’offerta planetaria di impiego,
con lo spostamento delle imprese dove tassazione e salario sce-
mano, e il profitto avanza. Inoltre, l’abbiamo detto, si cerca di usa-
re immigrati a minor costo. Nell’insieme, tutto questo, se è un ten-
tativo di salvare il profitto, distrugge la società. La prospettiva che
molti paesi, emergendo, divengano nuovi mercati verso i quali
esportare ha un aspetto contrastato, tali paesi esportano, sovente
in modi più che concorrenziali, vittoriosamente competitivi. Come
uscire dalla crisi? L’abbiamo visto: con gli immigrati, l’abbassamen-
to del costo del lavoro, la licenziabilità, il rigore, la tassazione, l’e-
conomia in nero o persino criminale, le speculazioni, la disoccupa-
zione, la sottoccupazione, il legalismo esasperato o le facilitazioni
massime, liquidità a fiumane, inondazione di denaro, acquisto di
buoni del tesoro, revisione della distribuzione, ora l’una ora l’altra
misura; ma non ne usciamo.
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Il profitto ormai lo si ottiene contro l’occupazione, con la sottocu-


pazione, al massimo. Dissolvendo le spese per il sociale, volgendo
ogni millesimo al vantaggio del profitto, bancario, speculativo o
imprenditoriale che sia. Immigrati, rigore, sottoccupazione, licen-
ziabilità, anche l’economia criminale e la tassazione diseguale ha
tale fine: risorgere il profitto. E la domanda? E il consumo? Se mi-
lioni brancolano tra povertà, miseria, declassamento, vendono i
gioielli e persino le case, falliscono, chi consuma? Ecco il punto
suicida del profitto, per esistere deve uccidere il consumatore ma
se uccide il consumatore suicida il profitto. Si vuol salvare un si-
stema produttivo che è in contraddizione con se stesso. Potenti
mezzi produttivi che potrebbero favorire la generalità umana sono
coartati al profitto, si che licenziare e sottoccupare divengono es-
senziali. Ma licenziare e sottoccupare comportano minori consumi.
Dunque, minore profitto. Sembrerebbe ragionevole mettersi dalla
parte dei consumatori. Non c’è da illudersi. Si tenterà di avere co-
munque profitto riducendo ulteriormente salari, tutele, accrescen-
do le tassazioni sui ceti medi e popolari. Finché scorrerà una goc-
cia di sangue verrà azzannata. Oggi fiorisce una nuova invenzione
sorta in Giappone e negli Stati Uniti: invece del rigore stampare
moneta illimitatamente. Vuoi fare un ponte? Eccoti milioni di dolla-
ri. Una strada, ecco milioni di dollari. Ma chi può credere che basti
stampare moneta per salvare un sistema economico. È l’illusioni-
smo di chi suppone che con la ritrovata sovranità monetaria e lo
sconfinato afflusso di moneta si sciolgano lo sviluppo e l’occupa-
zione. Anche l’Europa pare si stia convertendo a tale illusionismo.
Non meno velleitario dell’illusionismo della equa redistribuzione
della ricchezza sociale.
Occorrerebbe un potere sostenuto dal popolo, per quanto generi-
co sia il termine, è comprensibile, che volga i mezzi di produzione,
potentissimi, per il vantaggio del popolo. Al di là delle limitazioni
del profitto come scopo decisivo, non mi stancherò di dirlo, e che
usa i mezzi di produzione contro l’occupazione, fino ad un limite
estremo, quando il lavoro umano sarà minimo. Ma un sistema con
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meno occupati è un sistema con meno consumatori. Si porrà la


questione essenziale: a chi e come dare beni a quanti non lavora-
no, o li lasceremo perire di fame? In entrambi i casi un’economia
che usa i mezzi tecnici contro il lavoro e quindi disoccupa perché
ritiene che senza lavoratori il profitto è maggiore, porta alla cata-
strofe. Sembrano prospettive lontanissime, invece è per le avvisa-
glie di queste prospettive che stiamo nella crisi odierna, senza
uscita. A meno che non si cominci a svincolare la produzione dal
profitto, ad esempio abbassando l’orario di lavoro. Impensabile.
Continueremo nella costrizione, impiegando in modo perverso i
mezzi di produzione, e ne avremo disoccupazione e sottoccupazio-
ne. Ma, insisto, quando la disoccupazione e soprattutto la disoc-
cupazione ingigantiranno, perché anche nei paesi che sembra sor-
montino la crisi la sottoccupazione è vistosa, Stati Uniti e Germa-
nia, o i sistemi sociali, se vogliono continuare nella difesa del pro-
fitto antisociale diverranno autoritari o in ultimo dovranno volgersi
ad una economia che produce al di fuori del profitto, usando all’e-
stremo le forze produttive per dare all’insieme sociale. Insisto,
sembrano sogni. E del resto sono fenomeni remoti. Ma si potreb-
bero già tentare imprese che autotutelano i disoccupati ed i sot-
toccupati, interessati, appunto, ad autotutelarsi: fare impresa per
la sopravvivenza, privilegiando l’occupazione sul profitto contro
l’occupazione, e questo anche nei servizi. Nel frattempo le convul-
sione dei sistemi sociali per difendere e imporre la stortura di un
profitto contro l’occupazione diverranno cruente e impositive. È
una alternativa del sistema produttivo che può offrirci scampo non
la questua nei confronti dei “padroni”. Se non c’è alternativa sub-
iremo il tallone di ferro.

UNA SOCIOLOGIA DELLO “STARE IN SOCIETÀ”


Se la situazione è quella vagliata, che condizione ha l’individuo
nel suo “stare in società”? Oggi l’individuo vive gravato da una
sorta di delitto che non sa se ha commesso e che però lo invalida
e gli toglie la volontà di vivere. Il contratto sociale vale a dire che
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ci troviamo nella società vincolati senza nostra scelta, ma esso va


inteso in tal modo: che vi sono dei diritti che fanno capo al nuovo
cittadino, sicché in qualche modo egli indirettamente e nascendo
ha dei diritti e dei doveri, un contratto, insomma, ma del tutto ap-
parente, questo contratto la società può alterarlo e il nuovo citta-
dino, il cittadino che viene alla luce, si trova a dover rispettare un
contratto di cittadinanza che lo vincola alla sua propria rovina. In
concreto, un individuo diventa cittadino non per essere protetto
dalla società ma per essere vincolato ad essa e a chi la domina. Il
contratto si capovolge, da protezione del cittadino diventa un mo-
do per non poter sfuggire alla dominazione: tu sei cittadino e devi
obbedire alla nostra società ossia a chi la padroneggia, e se chi la
padroneggia ha la forza e la volontà di infrangere l’aspetto protet-
tivo della società e valorizza soltanto o soprattutto l’aspetto domi-
nativo approfittando della circostanza che tu sei cittadino e non ti
puoi sottrarre, ecco che il vincolo sociale da vincolo di tutela di-
venta vincolo di sottomissione, a quel punto il soggetto sociale e
il rapporto sociale sono infranti e, dicevo, capovolti, stiamo in una
società per essere oppressi, siamo alle eclissi del contatto sociale.
Ma, a questo grado, il cittadino non ha obblighi. Anche se la forza
potrà costringerlo, è la forza, è la forza travestita da diritto, alla
quale il cittadino può replicare con il diritto della sua forza.
È da schiavi ritenere che le società abbiano legalità se al termine
legalità è associato il termine, e il “fatto “, della giustizia. Quando
si supera un certo livello di sopportazione, quando la società non
rispetta la sopravvivenza dei cittadini, il cittadino deve insorgere
contro la società che non ne rispetta la sopravvivenza. Se una
gran parte della società non trova opportunità di sopravvivenza
nello “stare in società” essa ha il diritto di trovare soluzione in
una società diversa e quindi deve abbattere la società che non le
permette di sopravvivere. Il diritto alla vita me lo do da me, non
me lo dà la società, se me lo vuole togliere è una società mortale,
io reagirò per il mio diritto alla vita contro la società affinché vi sia
una società che mi permetta di vivere. Se in una società non ho
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possibilità di lavoro, le esazioni a vario titolo mi opprimono, se la


corruzione rende abbiente il depravato e falcidia l’onesto, se mi-
riadi di rapporti fuori legge tolgono allo Stato dei contributi ed es-
si gravano su chi non si sottrae alle leggi, opporsi è un dovere ol-
tre che una necessità. Non stiamo nella società per essere oppres-
si e divorati, non è questo l’accordo sociale. Se taluni lo vogliono
trasformare in una situazione in cui hanno a disposizione moltissi-
mi individui, i quali, per essere cittadini, sono obbligati all’obbe-
dienza, a questa obbedienza suicida bisogna contrapporre una re-
nitenza totale. Non è concepibile che alla prepotenza del fuorileg-
ge ammantato di legge o meno si contrapponga la protesta succu-
be di chi sta nella legge, lo stare nella legge si trasforma in asser-
vimento. In questo caso protestare secondo legge perché chi viola
la legge è fuorilegge è un modo per confermare la propria servitù.
è prestarsi al gioco dei malfattori che si coprono di legge. Spesso.
Non bisogna divinizzare la legalità essa può rappresentare la co-
pertura del delitto, un delitto reso legale non è meno delitto di un
delitto contro la legge. Non è la legge in sè che vale, ma il conte-
nuto della legge. Il burocrate il funzionario l’impiegato, il malfatto-
re sotto copertura si fanno scudo della legalità, in vari modi. Biso-
gna vedere che legalità attuano.
Bisogna conquistare i propri diritti e non permettere che una lega-
lità sbagliata, una legalità contro i diritti sia di per sé da rispetta-
re. La propria affermazione non la si chieda solo in nome della
giustizia, essa non avverrà mai per ragioni morali e soltanto mora-
li, è in nome della forza e con la forza che si attua la giustizia. Si
che la voglia di affermazione di una parte umana che soffre di es-
sere dominata non può essere un’invocazione alla parte dominan-
te perché non la domini, chiedere a chi domina di non dominare è
un assurdo. Occorre usare la forza di sottrarsi al dominio. Il pove-
ro, gli sbandati, i derelitti non hanno una condizione che impone
ai predatori di renderli felici e soddisfatti. Sta nella capacità di ri-
bellarsi dei poveri, dei derelitti, dei sottomessi che i rapporti so-
ciali possono essere mutati. Ogni rivolgimento esige un progetto
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alternativo al potere. Non è appellandosi alla generosità dei pa-


droni che gli schiavi vengono liberati. La pura e semplice solleva-
zione dei miseri non significa che essi poi stabiliscono una civiltà
superiore, nè basta essere miseri per essere superiori e per merita-
re di condurre la società. Gli schiavi diventati padroni possono es-
sere peggiori dei padroni rimasti padroni. la morale non ha mai
sovvertito la società se non si incarna in istituzioni che riescono a
farla funzionare.

LA SOCIETÀ MORTALE
Al dunque, se i cosiddetti poveri non sono capaci di organizzare la
forza produttiva resteranno sempre soggiogati, non basta essere
poveri per avere il diritto a vincere, nella società vince chi realizza
una proposta efficiente, oltre la proclamazione della giustizia e del
bene. All’interno della società la lotta può avvenire pacificamente
o meno tuttavia c’è sempre lotta. Al punto in cui siamo, lo accen-
navo, dobbiamo riconsiderare lo “stare in società”. Imposte, immi-
grazione, economia criminale, il timore di una crisi radicale, predo-
ni, speculatori stanno mettendo a prova la stessa idea dello stare
in società, insisto. Ecco perché dobbiamo, punto per punto, riesa-
minare la sudditanza e il dominio, vagliare l’attualità del cosiddet-
to contratto sociale, stabilire una sociologia della società, insom-
ma, della ragione di stare nella società. E se non sia il caso di for-
giare una società nella società, autoprotettiva nelle imprese che
sormontino il profitto antisociale, e nei servizi, che scemeranno
sempre più. Imprese che facciano ogni sforzo da parte dei lavora-
tori imprenditori per autoccuparsi, per darsi occupazione, e così
nei servizi. Una società nella società contro la società mortale. E
bisogna affrettarsi.

Antonio Saccà
Sociologo
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Nota. A proposito di un sistema produttivo scrive di re-


cente l’economista Pierangelo Dacrema: Marx & Keynes.
Un romanzo economico. Addirittura taluni studiosi oltre
l’uso dei robot, l’automazione, di varie tecnologie sosti-
tutive del lavoro umano, ipotizzano che l’intelligenza ar-
tificiale potrebbe superare l’uomo, governandolo. Per di-
re come la disoccupazione di massa è alle porte.
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164 Geoscaffale

Italo Inglese
Il diritto di critica nei luoghi di lavoro
Giappichelli
pp. 109, euro 13

Il discorso sul diritto di critica nei luoghi di la-


voro prende le mosse dal lungo processo sto-
rico attraverso il quale la lotta per l’affermazione dei diritti di li-
bertà (e, segnatamente, di quello di manifestazione del pensiero)
si è tradotta in enunciazioni giuridiche che attribuiscono alle liber-
tà in parola il rango di valori fondamentali.
Il diritto di manifestazione del pensiero si è affermato progressiva-
mente anche nel mondo del lavoro senza però raggiungere quella
ampiezza che oggi caratterizza la libertà di espressione riconosciu-
ta al cittadino nelle società di consolidata tradizione democratica.
Ciò a causa non solo della resistenza frapposta dai detentori dei
mezzi di produzione, ma anche e soprattutto a causa dell’organiz-
zazione del lavoro che, per quanto possa essere disegnata a misu-
ra d’uomo, comprime inevitabilmente la libertà in questione.
Se il diritto del lavoro ha la sua ragion d’essere nella protezione
della persona del lavoratore, esso tende naturalmente a conside-
rare non soltanto gli aspetti patrimoniali, ma anche quelli che at-
tengono alla sfera della libertà e della dignità della persona uma-
na, e quindi anche la libertà di espressione costituzionalmente ga-
rantita. Ma l’esercizio di tale libertà deve, per un verso, necessa-
riamente essere contemperato con il rispetto dei diritti riconosciuti
a tutti i cittadini, e quindi anche al datore di lavoro e, per l’altro,
deve tener conto degli obblighi che il lavoratore assume con la
stipulazione del contratto di lavoro.
La critica espressa dal lavoratore o dal sindacalista nei confronti
del datore di lavoro - critica che, in una realtà caratterizzata dal
conflitto industriale, può assumere modalità espressive polemiche
e aspre - non può comunque prescindere dalla verità e non può
travolgere la dignità della persona cui è indirizzata.
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Geoscaffale 165

Antonio Saccà
Il corpo della vita. Pensieri allo specchio
Artescrittura
pp. 109, euro 20

Ci sono uomini che hanno guardato la vita sen-


za risparmiare a se stessi vertigini e abissi.
Quanta vita è in grado di accogliere l’uomo? Ora solo, ora in due,
nel suo gruppo, nella società dei suoi simili? Eppure ogni uomo è
solo, come davanti a uno specchio, dove luce e buio acciecano fi-
no allo smarrimento, dove forse non si guarderà mai.
Nel suo ultimo libro, Antonio Saccà si è messo allo specchio, si è
oltrepassato per potenziare la vita alla radice da solo a solo: an-
corare la vita alla vita, esprimerla altro che coi suoi stessi mezzi,
non rifiuti né negazioni. L’operazione è fondante. È uno specchio
la vita dell’uomo, per chi avanza a guardarla senza schermature, a
volerla, a cercarla, a stringerla, una donna che egli trae e rappre-
senta a sé per toccarla, sentirla, che ora accoglie ora sfugge e ne-
ga l’anelito dell’appartenenza certa. Forse la vita è davvero il cor-
po di una donna dove consegnare lo sguardo per potersi sentire
interamente. Una parvenza di eternità, la ricerca d’amore. Ecco Il
corpo della vita. Pensieri allo specchio, raccolta delle infinite pos-
sibilità dello sguardo dell’uomo rivolto alla vita in questa vita,
un’adesione continua oltre il Nulla e la Morte costitutivi della vita
stessa: “Soltanto la vita direttamente vissuta e felice è reale”,
“Non c’è moralità se non c’è felicità”, “L’esistenza risulta entusia-
smante se siamo capaci di ammirare”, “In chi amiamo vi è l’intero
patrimonio della nostra voglia di vivere”. Saccà cerca connessioni
armoniose, non consolazioni, non nichilismo, non dissacrazione,
non oblio, non scorciatoie; apre, così, il suo libro con il ritratto ni-
tido dell’uomo terreno naufrago in un’isola deserta, nel buio de-
serto del Nulla, “solo anche in mezzo agli altri”. Che fare? Qui Sac-
cà dimostra più che mai la sua ben nota tempra di filosofo indo-
mito: “Voglio vivere allo spasimo incurante del mio prossimo? Fin-
germi obblighi fraterni verso il mio prossimo? Considerare inutile
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166 Geoscaffale

vivere giacché finiremo nella Morte, io e l’umanità? O contrapporre


al Nulla il sorriso dell’amore per la vita, la volontà di felicità, con-
quistata da me per me, costringendo il Nulla a sorridermi? Ho scel-
to di costringere il mio Nulla a sorridermi”. La questione innerva
ogni passo del libro tra aforismi e pensieri di eccezionale valore
letterario, e fonda una morale nuova, fresca, mai udita, senza con-
cessioni alla negazione. Con un superamento vertiginoso delle co-
lonne d’Ercole del pensiero umano si direbbe, Saccà non vuole
mascherare il Nulla, lo attraversa tutto, invece fissandolo da pari a
pari muto in ogni suo giorno, ma fa della coscienza del Nulla in-
commensurabile una forza vitale di segno contrario. “Moltissimi
sono ricchi di morte e poveri di vita”. Al pari dei grandi tragici,
“misuratori della condizione umana”, Pascal e Leopardi più di al-
tri, per Saccà, coloro che hanno pensato la desolante inconsisten-
za dell’umanità peritura. Saccà incarna una razza nuova di uomo
tragico, spinto ancor oltre ogni lido certo. “Il divenire è una rela-
zione tra presenti diversi”. Niente approdi definitivi, dunque, ecco
la novità epocale del filosofo-uomo Saccà: né se stessi, né l’altro,
né la società, come tali. E ciò malgrado continuare a volere la feli-
cità, in tutto ciò che la può manifestare, pur nella dissoluzione
manifesta della Natura e dell’uomo. L’uomo non si scaglia contro i
simili meno che la Natura avversa, “L’uomo che rende difficile il
vano, cruciale l’inconsistente”. La dimensione intima esistenziale
intreccia la dimensione sociale dell’uomo, e qui Saccà sociologo
espande il filosofo in un genere unico che contraddistingue Saccà
quale pensatore integrale della modernità. In grado di passare in
rassegna il pensiero antico e moderno con sintesi ispirata e uma-
nissima, conoscitore sottile e trasversale, egli rianima, intreccia,
fonde, ricrea l’esperienza speculativa dei grandi temi dell’esistenza
con una linfa vitalissima di sincretismi. Antico Oriente, Grecia, Cat-
tolicesimo, pensiero moderno, “la superiorità è su se stessi. È su-
peramento. Superare gli altri è secondario”. L’uomo moderno pare
avere rimosso le questioni cruciali con il suo relativismo svilente e
perverso. Non più qualità, non più civiltà. Un uomo tutto sociale,
mascherato di democrazie senza scopi aristocratici, anzi mirate a
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Geoscaffale 167

danneggiare il suo prossimo in un sistema consolidato di sfrutta-


mento. Il capitalismo stesso nella sua forma attuale si fa portatore
di crisi e dissoluzione sociale e individuale. Giacché la crisi non è
limitata alle imprese, ma alla società tutta, tocca l’uomo alla radi-
ce delle certezze consolidate, ne mina la sopravvivenza. Il sociolo-
go Saccà è da decenni studioso profetico della società odierna,
poeta e filosofo della crisi economica, che avanzava silente get-
tando le sue radici già dagli anni del passato benessere. Urgono
rimedi che non giungono, anzi tardano e rallentano la vita vitale
dell’uomo sociale privato del lavoro e disorientato nel patto so-
ciale disatteso. L’uomo che oggi non si auto protegge, non soprav-
viverà ai contraccolpi epocali di una dissoluzione programmata, al-
la volontà cieca e imperterrita di pochi padroni. Eloquente il titolo
del recente testo di Saccà, Dal Lavoratore Imprenditore al Cittadi-
no Imprenditore (ed. Artescrittura). Saccà allarga l’osservatorio del-
la sua indagine umana, conia definizioni sociologiche di portata
decisiva nell’inquadrare la crisi della società attuale. È da menzio-
nare la distinzione di “società orizzontali” mosse dal “criterio della
diversità” e “società verticali” fondate sul “criterio della disugua-
glianza”. “Il diverso esclude la valutazione. Ma senza valutazione
non vi è civiltà”. In questa distinzione esiste una possibilità. Starà
a noi volere la nostra civiltà. Tali nostre società hanno invece di-
stillato la vocazione dell’uomo alla distruzione del suo prossimo.
“All’uomo di tutta la civiltà è rimasto l’arte. E la donna”. Una im-
magine di donna sulla copertina del libro, accoglie il lettore in pla-
stica nudità, fiorente di sensuale evocazione. Ce la dona il fecon-
do pittore Carmelo Crea, chiamando la sua opera La vita è un cor-
po di donna; colori dall’accostamento e consistenza strabilianti e
un tratto netto rigoroso e sinuoso, offrono in un’immagine il senso
del libro, il bisogno di potenziare la vita con mezzi e scopi ade-
guati. Il potenziamento della vita è un atto di volontà e un atto
d’amore. Sentire la vita anche quando la vita nasconde il suo vol-
to all’uomo che la vuole. Ma volere la vita oltre il rifiuto non fa
dell’uomo l’essere degno della vita stessa? Arte di vivere, bellezza,
e ancora arte, questo ci fa ‘sentire’ questa vita, in un rapporto di
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appartenenza. Il ritratto dell’eroica madre dell’autore Saccà e il ri-


cordo sofferto della tragica morte del padre mai conosciuto, sono
cammei letterari di lacerante bellezza, testimonianza dell’alchimia
che solo l’arte riesce a compiere persino dal dolore.
Il libro culmina in una memorabile messa in scena, oltre ogni spe-
culazione. L’autore chiede in sposa la Vita. Ma... Senza ‘ma’. Porta-
voce corifeo di un sogno ad occhi aperti.
Elisa Sachespi

V. Feltri, G. Sangiuliano
Il Quarto Reich
Come la Germania ha sottomesso l’Europa
Mondadori
pp. 144, euro 17

Per oltre un secolo la Germania ha perseguito


una volontà di egemonia nei confronti dell’Eu-
ropa. Un progetto geopolitico che si è tradotto in due sanguinose
guerre mondiali. Quando il problema tedesco sembrava definitiva-
mente superato dalla storia, anche grazie alla costruzione unitaria
europea, ecco che riappare all’orizzonte. Quella egemonia che la
Germania non è riuscita a conquistare con le armi sembra essere
stata “pacificamente” conseguita con l’arma economica. L’era della
moneta unica europea, infatti, è diventata l’epoca della grande
egemonia tedesca, in cui Berlino prospera e gli altri popoli europei
soffrono una recessione senza precedenti. È stato il Washington
Post, in un commento del settembre scorso di Anne Applebaum,
intitolato Angela Merkel, the empress of Europe, a coniare l’e-
spressione “quarto Reich”. Definizione da brivido, probabilmente
esagerata ma che potrebbe riassumere i sentimenti di molti citta-
dini europei di fronte a una crisi di questa portata.
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Steven Drobny
Fondi speculativi. Strategie operative
per i mercati globali
Hoepli
pp. 400, euro 32

Traduzione della seconda edizione del best sel-


ler americano Inside the House of Money, il libro
conduce il lettore all’interno dell’industria degli hedge fund, i fon-
di speculativi, e alle loro tecniche di gestione più raffinate. Alcuni
tra più famosi trader rivelano le loro strategie operative e il loro
approccio sistematico per affrontare le sfide quotidiane sui mercati
finanziari. In particolare viene analizzato il loro comportamento
durante le crisi più importanti degli ultimi anni: il crash di Wall
Street del 1987, l’attentato terroristico dell’11 settembre 2001, il
crollo dei bond russi e dei mercati asiatici, fino alla crisi economi-
ca del 2008 innescata dall’esplosione dei prodotti derivati. All’in-
terno del volume vengono inoltre affrontate le diverse metodolo-
gie d’investimento degli hedge fund la cui finalità principale consi-
ste nel trarre profitto delle numerose opportunità che si presenta-
no sui diversi mercati sia le cosiddette market neutral (quelle che
cercano di realizzare dei profitti indipendentemente dalla direzione
primaria seguita dal mercato). Il libro è una lettura obbligatoria
per gli operatori professionali e per chiunque voglia comprendere
come l’avidità, l’euforia e/o il panico possano condizionare l’anda-
mento dei mercati finanziari ormai sempre più globalizzati.
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170 Geoscaffale

Marine Le Pen (prefazione di Fabio Torriero)


Controcorrente
Pagine - I libri del Borghese
pp. 227, euro 18

Scoprire cosa significhi avere un padre impegna-


to in politica la notte in cui venti chilogrammi di
tritolo dilaniano la propria casa segna per sempre la vita di una
persona. Specie se questa ha otto anni di età e capisce che per un
pelo lei, o qualche altro componente della famiglia, è viva per mi-
racolo. Così si apre, spiegando il clima politico della Francia del
1976, il libro autobiografico di Marine Le Pen, Controcorrente, edito
da Luciano Lucarini. Libro importante in quanto esprime meglio di
qualsiasi analisi, e in maniera diretta, il travaglio e il percorso di
Marine Le Pen. Narra la sua vita, le difficoltà di chiamarsi Le Pen, le
ingiustizie subite a scuola e, da adulta, sul lavoro, le discriminazio-
ni, la lotta politica. E, quando aderì al Front national, per i militanti
più che Marine era “la figlia del capo” mentre al di fuori del partito
era la “figlia del fascista xenofobo”. Insomma, un’esistenza in sali-
ta… Marine Le Pen, con tono intimista in alcuni capitoli e militante
in altri parla delle polemiche che hanno scosso la sua famiglia, del-
le sconfitte e delle vittorie personali e del movimento.

Loretta Napoleoni
Isis. Lo Stato del terrore
Chi sono e cosa vogliono le milizie
islamiche che minacciano il mondo
Feltrinelli
pp. 144, euro 13

Le decapitazioni dei prigionieri, mostrate in video professionali


che fanno il giro del mondo in pochi minuti. La pulizia etnico-reli-
giosa nelle zone occupate dell’Iraq, con milioni di profughi sciiti,
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Geoscaffale 171

cristiani, yazidi. La proclamazione di un califfato,


un ideale vecchio di secoli, che viene visto da
milioni di musulmani nel mondo come una nuo-
va speranza di riscatto. Improvvisamente, alla fi-
ne dell’estate di quest’anno, abbiamo scoperto
che la minaccia terroristica globale non è più al-
Qaeda o i Talebani, ma una milizia chiamata Isis,
lo Stato Islamico dell’Iraq e della Siria. Gli Usa sono tornati a far
volare i loro bombardieri, una coalizione di molti paesi si sta orga-
nizzando, si parla di una partecipazione italiana – e tutto per com-
battere un nemico di cui ben pochi di noi sanno qualcosa: chi so-
no questi miliziani? Perché decapitano i prigionieri sulla pubblica
piazza mediatica globale? Sono terroristi o soldati di un nuovo
stato? E dove vogliono arrivare? Loretta Napoleoni, affermata autri-
ce ed esperta di terrorismo internazionale, ha la risposta a tutte
queste domande e la capacità di rinvenire le cause, raccontare gli
sviluppi, identificare le colpe e le mancanze dell’Occidente, ma an-
che la forza inaspettata, e mai prima sperimentata, di un gruppo
terrorista che ambisce a fondare uno stato – e che, forse, ci sta ri-
uscendo.

Giuseppe Berta
Oligarchie. Il mondo nelle mani di pochi
Il Mulino
pp. 100, euro 10

La globalizzazione da un lato, e la crisi della rap-


presentanza dall’altro, sembrano oggi insidiare la
presa e la tenuta della democrazia all’interno delle società con-
temporanee, al punto che si parla sempre più spesso dell’avanzata
di oligarchie vecchie e nuove. Prendendo le mosse da alcuni pas-
saggi della storia del parlamentarismo inglese di fine Ottocento e
operando un puntuale parallelo con la situazione presente, il sag-
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gio di Giuseppe Berta affronta alcuni interrogativi di fondo che ri-


guardano la tenuta stessa degli attuali regimi democratici: un si-
stema globale come quello emerso nell’ultimo ventennio lascia
spazi e quali alla democrazia rappresentativa? E fino a che punto
si può porre argine al prevalere delle oligarchie?

Stefano Laffi
La congiura contro i giovani
Crisi degli adulti e riscatto
delle nuove generazioni
Feltrinelli
pp. 176, euro 14

I giovani senza lavoro, i giovani senza ambizioni,


i giovani senza valori, i giovani senza futuro. So-
no davvero così le nuove generazioni? Stefano
Laffi pensa di no e intende spostare il fuoco dell’analisi da come
sono e come stanno i giovani a come sono e come stanno gli
adulti riflettendo sul mondo che hanno creato per i loro figli. Sono
gli adulti i responsabili della condizione dei giovani: dalla culla al-
la scuola, dall’università all’interminabile precariato lavorativo, il
mondo degli adulti progetta e produce le nuove generazioni per
soddisfare i propri bisogni e le proprie aspirazioni. Prima bambini
capaci di saziare il narcisismo dei padri, poi adolescenti consuma-
tori di esperienze e prodotti suggeriti da un marketing onnipresen-
te, infine stagisti da reclutare e dismettere a seconda dei volubili
trend del mercato. E al primo malessere, una pletora di esperti.
Perché l’eterno limbo in cui oggi sopravvivono molti giovani ga-
rantisce lo status degli adulti, la loro economia schiavistica, la loro
psicologia egocentrica, in una parola il loro potere: la condizione
giovanile è il risultato di una vera e propria congiura. Stefano Laffi
capovolge una lettura tradizionale e colpevolizzante del disagio
giovanile e denuncia le cause che hanno portato a questo disagio,
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svelando le logiche che lo governano, gli interessi che lo rafforza-


no, i meccanismi che lo perpetuano. E suggerisce la via d’uscita,
che libera tutti, adulti compresi, da una società sterile, mortifera.

Valeria Ferraris
Immigrazione e criminalità
Carocci
pp. 112, euro 12

Che rapporto c’è tra immigrazione e criminalità? Esi-


ste una criminalità degli stranieri? Ed è una “emer-
genza”, come frequentemente siamo portati a cre-
dere? Cosa ci dicono i dati statistici? Perché gli stranieri commetto-
no reati? Che ruolo ha la normativa in materia di immigrazione in
tutto ciò? Quali sono le specificità delle politiche di contrasto della
criminalità degli stranieri? Il libro fa chiarezza sugli aspetti salienti
del binomio immigrazione-criminalità e fornisce una bussola per
orientarsi in un tema difficile e di grande complessità.

Alessio Mannino
Mare monstrum. Immigrazione. Bugie e tabù
Arianna Editrice
pp. 128, euro 9,80

Capire cos’è realmente l’immigrazione di massa in


Italia negli ultimi anni significa sbugiardare la falsifi-
cazione politicamente corretta del migrante idealiz-
zato o demonizzato a priori, cioè dipinto alternati-
vamente come un nemico invasore o confratello universale, quan-
do invece è, al tempo stesso, vittima e strumento di uno scempio
umano. Un fenomeno certamente epocale viene rappresentato co-
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174 Geoscaffale

me destino ineluttabile e giusto in sé, mentre ha un’origine storica


ben precisa: la globalizzazione finanziaria e dei mercati che attra-
verso l’ideologia della crescita infinita e del progresso illimitato ha
colonizzato a scopi economici l’immaginario planetario, attirando
in Occidente e nei paesi globalizzati le bestie da soma dello sradi-
camento sociale e culturale incarnato dal Consumatore unico mon-
diale. Ricostruendo le motivazioni di fondo delle transumanze
umane, il libro tratta gli aspetti principali del fenomeno migratorio
sulla base dei dati e dei fatti di cronaca emersi nell’ultimo perio-
do. Una critica al falso mito dell’immigrazione come necessità irre-
versibile e gioiosa, sbandierata dai missionari laici del cieco buo-
nismo e sostenuta dal calcolo utilitaristico del sistema industriale
che non distingue popoli, storie e culture ma conosce soltanto le
esigenze del mercato fine a se stesso. Un’illusione strumentale, la
“migrazione felice”, che nasconde il lato oscuro della desertifica-
zione di differenze. A danno sia di chi arriva sia di chi ospita.

Federico Rampini
Rete padrona
Amazon, Apple, Google & co.
Il volto oscuro della rivoluzione digitale
Feltrinelli
pp. 288, euro 18

Federico Rampini ha vissuto nella Silicon Valley nei


primi tempi della new economy e ha sempre segui-
to con attenzione i temi del digitale e della rete. Ma
quello che una volta sembrava contenere in sé i semi di una nuo-
va economia, più favorevole al consumatore e più competitiva, e
di una nuova società, più aperta e informata, oggi si presenta ai
suoi occhi in modo molto diverso. Ormai siamo tutti connessi,
sempre, e la nostra attenzione è diventata sempre più superficiale,
la nostra vita sempre più multitasking, la nostra privacy sempre
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Geoscaffale 175

più esposta allo sguardo virtuale di amici e non solo. Intanto i co-
siddetti “nativi digitali” vivono in un mondo dominato da “app”
che sembrano poter colonizzare ogni aspetto della loro vita. I gi-
ganti del web sembrano non porsi limiti nella loro corsa alla su-
premazia: vogliono mappare tutte le informazioni del mondo, con-
nettere tutte le persone del mondo, essere il negozio unico per
tutto il mondo, occupare il tempo libero di tutti. Ma possiamo per-
mettere che tutto sia nelle mani di pochissimi? Che le nostre vite
intime, professionali, politiche siano affidate alle grandi aziende
digitali? E che succederebbe se dovessimo scoprire che alcune di
loro sono diventate davvero cattive?
Gerenza Imperi 2 01 2014 11:20 Pagina 1

IMPERI
RIVISTA QUADRIMESTRALE
anno 11 - n° 32 (2014)

DIRETTORE: Eugenio Balsamo

DIRETTORE RESPONSABILE: Luciano Lucarini

COORDINATORE DI REDAZIONE: Eugenio Balsamo

COMITATO DI REDAZIONE:
Luciano Garibaldi, Raffaele Cazzola Hofmann, Andrea Marcigliano,
Pietro Romano, Antonio Pannullo, Salvatore Santangelo, Bruno Tiozzo, Giorgio Torchia

COMITATO SCIENTIFICO:
Franco Cardini, Salvatore Prisco, Francesco Crocenzi, Massimo De Leonardis,
Gianfranco De Turris, Federico Eichberg, Domenico Fisichella, Gennaro Malgieri,
Adolfo Morganti, Enrico Nistri, Gaetano Rasi, Raoul Romoli Venturi, Antonio Saccà,
Daniela Santus, Fabio Torriero

HANNO COLLABORATO A IMPERI:


Carlo Jean, Adolfo Urso, Alfredo Mantica, Nazzareno Mollicone, Luca Galantini, Gerardo Picardo,
Luigi Ramponi, Aleksandra Dugin, Paolo Quercia, Luciano Arcella, Michele Guerriero,
Francesco Demattè, Giano Accame, Andrea Cucco, Shaykh Abd al-Wahid Pallavicini,
Sara Buzzurro, Gianluca Scagnetti, Alessandro Grossato, Federico Guiglia, Giovanni Perez

REALIZZAZIONE GRAFICA:
Francesco Callengher

DIREZIONE, REDAZIONE E SEGRETERIA: PAGINE SRL


Via G. Serafino, 8 - 00136 Roma
Tel. 06.45.46.86.00 - Fax 06.39.73.87.71

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