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Anno LXX
2020

In copertina:
Alcuni dei film amati
Sommario
ARGOMENTI Il prisma, l’occhio dell’insetto e il cerchio
NOTE DI TEORIA
Filmcritica. Settecento Edoardo Bruno 3
Direttore: Perché talvolta i film si richiamano l’un l’altro
Edoardo Bruno senza motivo apparente? Pietro Montani 6
Le sei funzioni del piano cinematografico Raul Ruiz a cura di G. Festa 11
Comitato di fondazione:
Umberto Barbaro,
Galvano della Volpe, MNEMOSYNE
Roberto Rossellini, Pedro Costa, Amos Gitai, Amir Naderi, Lav Diaz, Julio Bressane,
Giuseppe Turroni Mario Martone, Roberto Minervini, Jonas Carpignano, Wilma
Labate, Tsai Ming-Liang, Mauro Santini, Abel Ferrara,
Comitato direttivo:
Sergio Arecco, Edoardo Jean-Marie Straub 22
Bruno, Alessandro
Cappabianca, Massimo
RITORNO AL FUTURO
Causo, Daniele Dottorini, Echi da un regno oscuro Daniela Turco 39
Lorenzo Esposito, Enrico Sul silenzio come testimonianza Alessandro Cappabianca 45
Ghezzi, Michele Moccia,
Andrea Pastor, Bruno
Il mondo è già filmato Massimo Causo 47
Roberti, Francesco Salina, Le cose ultime Lorenzo Esposito 49
Daniela Turco Route One Daniele Dottorini 55
Collaboratori:
Dentro/Fuori Bruno Roberti 59
Luigi Abiusi, Frammenti di immagini Walter Mazzotta 62
Michelangelo Buffa, Ricominciando dalla fine Andrea Pastor 67
Amalia Chimenti, Marina
Delvecchio, Simone
Straub 2011 Sergio Arecco 71
Emiliani, Giovanni Festa, La figura nel tappeto Giovanni Festa 76
Giuseppe Gariazzo, Ilaria La vertigine dei corpi Alessia Cervini 79
Gatti, Fernanda Moneta,
Edoardo Nardi, Giona
Scorpio Rising Francesco Salina 82
A.Nazzaro, Maria Teresa Non essere riconciliato Sebastian Schadhauser 92
Oldani, Grazia Paganelli, Morbo amoroso Luigi Abiusi 98
Carlo Scarrone, Sebastian
Schadhauser, Giovanni
Perché Filmcritica è la mia casa Fabio Segatori 102
Scibilia, Francesco Sull’orlo del parlabile verde Edoardo Nardi 104
Suriano Il mostro che è dentro di noi Giulio De Martino 106
Redazione:
Dancing in the Dark Simone Emiliani 110
Michele Moccia Cinema di esperienza Mariateresa Oldani 112
Francia: Frédéric Sabouraud Passi Ilaria Gatti 116
Gran Bretagna: Geoffrey Temenos Michele Moccia 118
Nowell-Smith
Cari lettori e.b. 120

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Route One: nomadi, erranti, mistici di cinema


DANIELE DOTTORINI

Quando l’orizzonte si chiude, materialmente, determinando la pro-


pria esperienza quotidiana, diventa necessario cercare con il pensiero
quelle forme capaci di aprire brecce sulla superficie delle pareti. Questa,
che può essere (ed è) una frase legata alla condizione del confinamento
dovuto alla pandemia diventa, con una torsione necessaria, una definizio-
ne possibile del cinema, o meglio della sua necessità, della sua potenza.
Ma di quale cinema stiamo parlando? Non dell’immagine come nar-
cotico, come distrazione dal mondo, ma del cinema come opportunità di
un nuovo sguardo, di una visione possibile del mondo. Ecco perché
diventa pregnante, adesso, parlare del viaggio, di una costellazione possi-
bile che estrapoli tra le innumerevoli immagini viaggianti ed erranti del
cinema, alcuni esempi, capaci di mostrarne appunto la potenza, la pre-
gnanza di immagini necessarie.
Il viaggio non è mai semplicemente lo spostamento dei corpi nello
spazio, né è pura forma della narrazione (il cinema di viaggio come gene-
re, come la letteratura di viaggio). In un certo senso esso è la forma pri-
maria del cinema, la sua origine, capace ogni volta di rinnovarsi e di
incarnarsi in ogni film che ne faccia il suo vero oggetto, producendo ciò
di cui parlava Deleuze, quando ne Il pensiero nomade (1972) affermava
che viaggiare poteva significare anche rimanere sul posto: «perché esisto-
no viaggi sul posto, viaggi in intensità». Difficile trovare una definizione
più pregnante dell’esperienza dello spettatore cinematografico.
Metafora potentissima dunque quella del viaggio: essa racchiude in sé
tutte le immagini del cinema, proprio perché queste, muovendosi, ci per-
mettono di non sostare perennemente in un luogo (fisico, mentale, esi-
stenziale); ci permettono di muovere il nostro pensiero, di riattivare emo-
zioni e sensazioni. Ma quali sono le declinazioni possibili del cinema
come viaggio? Ne potremmo elencare tre, per iniziare (ma l’elenco si
dovrebbe allungare ancora): il viaggio come narrazione e visione, il viag-
gio come redenzione, la vita come viaggio e come erranza senza meta.

Narrare, inventare. Ogni percorso implica sempre una narrazione, che


sia al momento o postuma. Si deve raccontare l’origine del viaggio, e rie-
laborarne il senso. Le pagine di Sentieri sul ghiaccio di Werner Herzog, il

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racconto del viaggio compiuto a piedi dal regista tedesco da Monaco a


Parigi, per salvare la vita a Lotte Eisner contengono in nuce tutto questo.
Ogni immagine che emerge dalle parole di Herzog è infatti legata al gran-
de racconto del senso stesso del suo camminare. I suoi incontri, le pause,
ciò che osserva, le deviazioni improvvise. Tutto è al tempo stesso vero e
falso, questo è il senso di ogni atto creativo.
Ecco allora giungere alla mente le immagini di Route One – USA di
Robert Kramer, straordinario racconto di viaggio, dove il regista Kramer
e il suo personaggio, Doc, si muovono dal Canada alla Florida, seguendo
la strada che taglia da nord a sud il continente nordamericano. Non ha
senso parlare qui di documentario o di fiction: Kramer racconta una sto-
ria, inventa un personaggio e lo immerge in situazioni reali. Tutto è vero
e tutto è falso nel film perché di fatto le immagini mostrano la scrittura
di un viaggio, l’erranza come racconto, come possibilità di reinterpretare
poeticamente il mondo, sin dalla poesia di Walt Whitman che Doc recita
all’inizio del film (Song of the Open Road): «Afoot and light-hearted I take
to the open road/Healthy, free, the world before me/The long brown
path before me leading wherever I choose». La strada aperta di fronte allo
sguardo come promessa di un mondo da scoprire liberamente, da pla-
smare e, appunto, scrivere. Ma Route One è anche il racconto di uno scac-
co, della scoperta che il mondo resiste ad ogni tentativo di riscrittura, che
il reale si oppone strenuamente ad ogni sguardo che non lo accolga e che
desideri solo risignificarlo. Nel film di Kramer, in cui si riverberano le
immagini di mille altri film, questo diventa l’immagine stessa di un cine-
ma che è al tempo stesso la ricerca dell’organizzazione del mondo visibile
e la perdita dello sguardo in quello stesso mondo (e si potrebbe tracciare
una parabola costellata di nomi e di immagini di film per segnarne le
coordinate).

Redimersi. Sono molti i personaggi mitologici o biblici che viaggiano:


profeti, eroi, messia. Nei racconti delle grandi religioni il movimento fisi-
co, individuale o di una collettività, è spesso presente come grande imma-
gine di un percorso di cambiamento, di illuminazione, di redenzione. Ma
la redenzione è anche un sentimento laico. Ed è in questa tensione tra
umano e mistico che si muove Simon nel deserto buñueliano, o errano i
due protagonisti di Jerry di Gus Van Sant. Soprattutto è in questo incro-
cio tra due forme di estasi che emerge Harry Dean Stanton in Paris/Texas
di Wim Wenders, film folgorante che a sua volta contiene schegge di
cinema, dall’arrivo alla fattoria di John Wayne in Sentieri selvaggi alla
lenta cavalcata di Shane ne Il cavaliere della valle solitaria di George
Stevens.
Wenders fa del viaggio una condizione più che esistenziale, oltrepassa

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il mito dell’on the road di Keruac per costruire e affinare nel tempo il
movimento del corpo come redenzione, umana più che religiosa.
Condizione necessaria che attraversa l’uomo vestito di nero con il cappel-
lo da baseball rosso che fa la sua comparsa nella sequenza iniziale di
Paris/Texas, ma anche i personaggi di Fino alla fine del mondo (film poten-
zialmente infinito nel suo movimento), così come le erranze di Alice nelle
città o de Nel corso del tempo. Ciò che rende straordinariamente umani (e
cinematografici) i movimenti dei personaggi wendersiani è proprio l’in-
certezza della redenzione. Ci si muove senza avere la certezza di una sal-
vezza, di un cambiamento. Il gesto non è accompagnato da nessuna pro-
messa, da nessun premio finale, eppure è necessario, e va fatto. Esso
diventa la condizione stessa del vivere.

La vita, il viaggio. Grande metafora, quella del viaggio come immagi-


ne dell’esistenza, anche se spesso abusata, consunta. Anche se a volte essa
ci colpisce con una pregnanza straordinaria, potentissima. Come non
pensare a Herzog, ancora? Tutti (o quasi) i suoi film hanno questo movi-
mento errante, fatto di deviazioni, soste, interruzioni. Ma il movimento
non è tanto dei personaggi, quanto dello sguardo stesso, del percorso che
porta Herzog a muoversi in luoghi diversi, spesso estremi, a comporre iti-
nerari che diventano narrazioni aperte, sorprendenti. I film del regista
bavarese diventa allora la metafora stessa di una vita che diventa movi-
mento cinematografico, come il movimento di un fiume, con i suoi
meandri, le sue curve improvvise o le sue cascate, accanto al lento e pla-
cido procedere delle sue acque. «Il cinema è come un fiume che si dipa-
na», aveva detto una volta Truffaut, «e tutti i film incentrati su un fiume
sono dunque profondamente cinematografici», aggiungeva, citando
espressamente Aguirre – furore di Dio di Herzog. E Renoir, grande can-
tore del movimento del fiume, citava – nel suo libro sul padre – espres-
samente un detto che Auguste Renoir gli ripeteva spesso: «La vita è come
un fiume in cui noi siamo dei turaccioli abbandonati alla corrente. Non
ci si può opporre al flusso ma si possono fare dei piccoli movimenti,
accompagnando o deviando leggermente dal flusso: questa è la vita».
Sono le deviazioni, i detour, gli scarti improvvisi a legare, nella sua forma,
cinema e vita. Questo lo sanno bene i registi che con forme diversissime
hanno lavorato su questo: da Rossellini a Lynch (quanto è ironico in
fondo un titolo come The Straight Story), da Ruiz a, appunto Herzog. Il
regista tedesco infatti sembra muoversi anche lui lungo questo solco, ma
con maggiore senso di sfida egli non cessa di costruire film che sembrano
saggiare i limiti al proprio movimento, portare la vita e il cinema “un po’
più in là”.
Ma se c’è un film che forse rappresenta tutto questo in un senso anche

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profondamente autobiografico è forse proprio Nomad. On the Footsteps of


Bruce Chatwin, il film dedicato all’amico e sodale scrittore inglese, in cui
il titolo stesso invita a pensare il film come un viaggio “sulle orme di”?.
Chatwin rappresenta per Herzog un essere affine, una figura gemella, un
doppio del regista. Ma la duplicità disorienta, perché l’altro diventa spec-
chio di sé. Ecco che allora tutto il film si pone come tentativo aperto,
viaggio, movimento in cui in gioco non c’è solo il rapporto con l’amico,
il tentativo di conoscerlo ancora di più, ma proprio la capacità di orien-
tarsi a partire dall’incontro con l’altro.
Un orientamento senza limiti spazio-temporali – in una prospettiva
cinematografica – implica allora una particolare concezione del montag-
gio, in cui il viaggio non cessa di svolgersi avanti e indietro, nei luoghi
dell’infanzia di Chatwin o nei luoghi frequentati da Herzog e dallo scrit-
tore inglese, nell’archivio Chatwin come nella casa dove vive la vedova; in
Patagonia e in Australia, così come nelle immagini girate dallo stesso
Herzog (tratte da Wodaabe, Grido di pietra e Segni di vita), dove lo sguar-
do del regista tedesco sembra ripensare le proprie immagini a partire dallo
sguardo retrospettivo di Chatwin o delle sue ossessioni. Tutto il film è
dunque una ricerca dell’orientamento nelle e attraverso le immagini. Una
ricerca che non ha tanto lo scopo, come si diceva, di costruire un ritratto
cinematografico di Bruce Chatwin e neanche del rapporto tra quest’ulti-
mo e lo stesso Herzog. Il film è ancora una volta l’occasione di un viaggio
le cui immagini possono irrompere come visioni che sono in grado di
sospendere il continuum del movimento per rilanciarne la potenza spa-
ziale e temporale.
Un viaggio per definizione non finisce, e ad ogni film citato ne emer-
gono alla memoria moltissimi altri, sia pure per una sola immagine, una
sequenza. Ma questo consente al discorso di rimanere aperto, anche
quando esso si deve interrompere, per quel montaggio fulmineo (per
dirla alla Pasolini), che consente ad uno scritto, ad un film, di avere un
senso.

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