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L’ospite ingrato

Periodico del Centro di Ricerca Franco Fortini


nuova serie
6
Umanesimo e tecnologia
Il laboratorio Olivetti

a cura di Daniele Balicco

Quodlibet
L’ospite ingrato
nuova serie
6

Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche
e Moderne (DFCLAM) dell’Università di Siena

centro studi franco fortini


Fondato nel 1995 da Sergio Bologna, Maria Vittoria De Filippis, Ruth Leiser Lattes, Luca Lenzini,
Romano Luperini, Giacomo Magrini, Edoarda Masi, Pier Vincenzo Mengaldo, Giuseppe Nava,
Tito Perlini, Giovanni Raboni, Michele Ranchetti, Renato Solmi

centro interdipartimentale di ricerca franco fortini


per lo studio della tradizione culturale del novecento
Sede amministrativa: Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche e Moderne
Palazzo San Niccolò, via Roma, 56; 53100 Siena – Italia
consiglio direttivo
Alessandro Angelini, Riccardo Castellana, Stefano Dal Bianco, Guido Mazzoni,
Niccolò Scaffai (Direttore), Natascia Tonelli, Gianluca Venzi
comitato scientifico
Ennio Abate, Andrea Afribo, Antonio Allegra, Cristina Alziati, Gianfranca Balestra, Daniele Balicco,
Luca Baranelli, Riccardo Bellofiore, Sergio Bologna, Massimo Cappitti, Stefano Carrai, Pietro Cataldi,
Andrea Cortellessa, Luca Daino, Stefano Dal Bianco, Davide Dalmas, Maria Vittoria De Filippis, Francesco
Diaco, Patrizio Esposito, Irene Fantappié, Gabriele Fichera, Roberto Finelli, Carlo Fini, Lorenzo Giustolisi,
Andrea Inglese, Giovanni La Guardia, Luca Lenzini, Romano Luperini, Giacomo Magrini, Marianna
Marrucci, Leonardo Masi, Maria Luisa Meoni, Elisabetta Nencini, Alessandro Niero, Thomas E. Peterson,
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Giovanna Tomassucci, Alberto Toscano, Jean-Charles Vegliante, Emanuele Zinato
coordinamento
Luca Lenzini
segreteria e archivio
Elisabetta Nencini
elisabetta.nencini@unisi.it

direttore responsabile
Carlo Fini
redazione «l’ospite ingrato» on line
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Frasca, Marco Gatto, Francesca Ippoliti, Luca Lenzini, Elisabetta Nencini, Lorenzo Pallini, Sabatino
Peluso, Alessandra Reccia, Roberto Russo, Tiziano Toracca
sede
Biblioteca Umanistica (Università di Siena), Via Fieravecchia 19, 53100 Siena

www.ospiteingrato.unisi.it

© 2021 Quodlibet s.r.l.


via Giuseppe e Bartolomeo Mozzi, 23 - 62100 Macerata
www.quodlibet.it

issn 1590-5608 / isbn 978-88-229-0673-1 / e-isbn 978-88-229-1279-4


Sommario

9 Daniele Balicco
Introduzione

Umanesimo
e tecnologia
17 Barbara Carnevali
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti

39 René Capovin
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk

47 Carlo Tombola
Dalla fabbrica alla Comunità. Brevi note sull’organizzazione dello
spazio sociale in Adriano Olivetti

57 Tommaso Morawski
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane»

67 Emanuele Zinato
L’Olivetti come figura

79 Giuseppe Alessi
L’uomo e la macchina. Fortini all’Olivetti

89 Erica Bellia
Colonizzati o colonizzatori? L’anticolonialismo olivettiano sulle
pagine di «Comunità», 1954-1964

99 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini


Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino

109 Cesare Pomarici


L’altro volto dell’inconscio: tracce della psicologia analitica nel pen-
siero e nella prassi di Adriano Olivetti

L’ospite ingrato ns 6
6 Sommario

121 Michele Pacifico


«Alta tecnologia e cultura millenaria». Il contributo di Olivetti allo
sviluppo dell’informatica in Italia

135 Alessandra Criconia


Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti

Fortini
copywriter
147 Daniele Balicco
Fortini copywriter

179 Franco Fortini


Del Copywriting come genere letterario (1961)

181 Franco Fortini


«Una bellissima e lunga esperienza di lavoro» (conversazione radio-
fonica con Ludovico Zorzi, 1988)
189 Giovanni Giudici
Poeti fra le macchine. Alla Olivetti la parola era design (1992)

195 Sergio Bologna


I poeti e la pubblicità. Note su Fortini copywriter per la Olivetti (2020)

L’Ospite

201 Rodolfo Zucco


Nove poesie (2019-2021)

Archivio

215 Alberto Saibene


Fortini e Olivetti

Due poesie di Franco Fortini


219

Olivetti, p. 221; A metà, p. 222

223 Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963)



Piero Calamandrei a Franco Fortini (1940), p. 225; Piero Calamandrei a Fran-
co Fortini (1940), p. 226; Franco Fortini ad Adriano Olivetti (1948), p. 227;
Franco Fortini a Giorgio Soavi (1949), p. 231; Franco Fortini a Giorgio Soavi
(1949), p. 234; Franco Fortini a Giorgio Soavi (1949), p. 236; Franco Fortini
Sommario 7

a Giorgio Soavi (1950), p. 237; Franco Fortini a Giorgio Soavi (1950), p. 238;
Franco Fortini a Giovanni Enriques (1950), p. 240; Franco Fortini ad Adria-
no Olivetti (1950), p. 246; Geno Pampaloni a Franco Fortini (1954), p. 248;
Franco Fortini a Mario Alicata (1955), p. 252; Franco Fortini a Raniero Pan-
zieri (1955), p. 253; Geno Pampaloni a Franco Fortini (1956), p. 254; Franco
Fortini a Geno Pampaloni (1956), p. 255; Franco Fortini a Franco Momi-
gliano (1957), p. 257; Franco Fortini a Cesare Musatti (1958), p. 258; Geno
Pampaloni a Franco Fortini (1963), p. 261; Franco Fortini a Geno Pampaloni
(1963), p. 263

265 Franco Fortini


Le macchinazioni di una macchina e altri scritti olivettiani

«Cultura comunista?», p. 267; L’Oriente e la speranza, p. 271; Come è stata
lanciata la Lexikon, p. 275; L’organizzazione Olivetti. La Olivetti & la Lexikon
elettrica, p. 279; Da Visita ad una fabbrica, p. 287; Rileggendo I Miserabili, p.
293; «La morte sta anniscosta in ne l’orloggi», p. 297; Introduzione a Hen-
ri Rousseau, le douanier, p. 301; Prefazione a Carpaccio, p. 303; Preghiera di
pubblicazione, p. 305; La vecchiaia difficile, p. 307; La biblioteca immaginaria,
p. 311; Rue d’Anjou, p. 321; Herbert Bayer, p. 323; Lettere umane, p. 325; Am-
brogio Lorenzetti il pittore del Buongoverno, p. 331; Calendari ’55, p. 335; Il
significato di un nome, p. 337; Le macchinazioni della macchina, p. 339; Mosai-
co di Ravenna, p. 341; Olivetti 1908-1958, p. 345; Perché si chiama Diaspron?,
p. 355; Per la morte di Adriano Olivetti, p. 357; Manet, p. 359; A Ivrea caratteri
di mille anni fa, p. 361; Carattere e identità, p. 363; Segno e disegno di una firma,
p. 365; Introduzione all’uso grafico di un nome, p. 369; Walter Ballmer, p. 373

375 Bibliografia degli scritti olivettiani di Franco Fortini

379 Abstract dei saggi

387 Notizie sui collaboratori


Daniele Balicco

Introduzione

Missione dell’impresa; funzioni dello stato sociale; rapporto fra


impresa e territorio; politiche del lavoro; cultura industriale e cul-
tura senza aggettivi: in questi campi la maggior parte delle cose che
Adriano Olivetti realizzò nelle sue fabbriche e teorizzò nei suoi te-
sti appare in contrasto con molto di quanto oggi si pratica e si scri-
ve. Ma in simile confronto ad apparire davvero moderni, seppur in
un contesto economico e sociale profondamente mutato, non sono
sempre i contemporanei.
Luciano Gallino1

È molto difficile trovare studi teorici sull’Olivetti che non ne celebrino


l’eccezionalità. Soprattutto negli ultimi decenni2, da quando il successo mon-
diale della Apple di Steve Jobs ha portato studiosi e giornalisti di settore a
riconoscere nell’azienda italiana la sua verosimile anticipazione storica:

I rapporti fra Olivetti e Apple costituiscono uno dei capitoli più evocativi e sug-
gestivi della storia dell’informatica internazionale: nonostante la diversità morfologica,
derivante dall’appartenenza olivettiana alla storia del Novecento fordista europeo a cui
si contrappone invece la più recente radice americana Apple […], la forza creatrice e la
spinta metamorfica che hanno idealmente entrambe le società hanno fornito più di un
punto di contatto simbolico3.

Comune fra le due imprese, al di là dell’innovazione tecnologica, è


sicuramente la centralità data alla dimensione estetica nella progettazione di
macchine operatrici. In entrambi i casi, infatti, la tecnologia assume una postura
estremamente seducente, portatile; si umanizza. Basta anche solo concentrarsi

1
Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di Paolo Ceri,
Einaudi, Torino 2014, p. 4.
2
Il saggio più noto di radicale critica politica delle strategie aziendali Olivetti resta il lungo studio
di Romano Alquati, pubblicato sul secondo e terzo volume di «Quaderni rossi»: Romano Alquati,
Composizione del capitale e forza lavoro all’Olivetti, «Quaderni rossi», 2, 1962, pp. 63-98; «Quaderni
rossi», 3, 1963, pp. 119-185.
3
Paolo Bricco, L’Olivetti dell’ingegnere, il Mulino, Bologna 2014, p. 170. I contatti fra Apple e
Olivetti in realtà non sono solo simbolici: nel 1978 Carlo De Benedetti va a Cupertino per conoscere
di persona Steve Jobs e Steve Wozniak. In quell’occasione, viene proposto all’Olivetti di comprare il
20% di Apple, ma De Benedetti rifiuta, perdendo così l’occasione storica di rilanciare la casa italiana.

L’ospite ingrato ns 6
10 Daniele Balicco

su alcuni dettagli formali: nel mondo Olivetti, come poi in quello Apple, la
forma dei prodotti bandisce la squadratura degli angoli, che sono sempre arro-
tondati4. Così, le linee delle macchine diventano morbide, sinuose, e il mondo
algido del calcolo elettronico, altrove per lo più in bianco e nero, finalmente si
colora. Non stupisce che, benché in anni diversi, questi oggetti di alta tecnolo-
gia comunichino solidità, ma soprattutto leggerezza ed eleganza; a distanza di
mezzo secolo, gli uni dagli altri, possono essere osservati come una rara mani-
festazione di quel paradossale «classicismo del nuovo» che la tarda modernità,
con le sue dominanti culturali per lo più a tinta surrealista, renderà minoritario5.
Eppure, se fra Olivetti ed Apple i punti di contatto non mancano, non man-
cano neppure le divergenze. E si potrebbe partire proprio dall’uso dell’estetica,
che appare simile negli effetti ottenuti nel design dell’innovazione di prodot-
to – come nella sua commercializzazione – solo se accettiamo il punto di vista
esclusivo del consumatore sovrano, quello oggi culturalmente dominante. Un
confronto fra i due sistemi produttivi potrebbe mostrare, invece, come la comu-
ne attenzione alla forma sensibile assuma nelle due imprese un significato quasi
opposto. Partiamo dall’Olivetti. Nel progetto di Adriano la dimensione estetica
è coscientemente proposta come uno degli strumenti capaci di controbilanciare
quello «sradicamento involontario» – l’espressione è di Simone Weil, le cui ope-
re Adriano fa tradurre a Fortini già nel 1951 – che l’organizzazione del lavoro
fordista genera, non solo nella psiche dei lavoratori che direttamente patiscono
la catena di montaggio, ma, più in generale, nella cultura complessiva della so-
cietà moderna. Sta qui la ragione per cui, a partire da Ivrea, nel suo progetto
industriale l’attenzione alla forma estetica agisce a tutto campo: dalle macchine,
all’architettura delle officine; dall’organizzazione della vita dei lavoratori (case,
asili, scuole, biblioteche, colonie) alla pianificazione urbanistica del territorio.
Ecco perché è difficile considerare Olivetti come un semplice, per quanto ge-
niale, imprenditore: perché il livello a cui tende il suo progetto complessivo è
quello dell’autogoverno politico. Scrisse perfino un progetto di riforma costi-
tuzionale dello Stato: L’ordine politico delle comunità6. E sarebbe interessante
sapere se siano esistiti, nella storia del Novecento, altri imprenditori che si siano
confrontati, con la medesima ambizione teorica, con il problema della crisi della
democrazia liberale, proponendone una riforma così articolata7. Il progetto di
Adriano, di cui Ivrea è il primo esperimento, è quello di una confederazione di
autonomie locali, tecnologicamente avanzate e in grado, attraverso un comples-

4
Sul significato estetico delle linee arrotondate nel design italiano, si veda almeno: Walter Ballmer,
Franco Fortini, Olivetti: carattere e identità, Olivetti, Ivrea 1971; Barbara Carnevali, La ligne rouge:
le design come esthétique sociale, «Lettre de l’InSHS», mai 2020, pp. 27-29.
5
Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985, Einaudi, Torino 1986.
6
Adriano Olivetti, L’ordine politico delle comunità (1946), Edizioni di Comunità, 2014.
7
Per una ricostruzione complessiva del pensiero politico di Adriano Olivetti, si veda: Davide
Cadeddu, Adriano Olivetti politico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009.
Introduzione 11

so sistema di autogoverno e di selezione della classe dirigente, di determinare


una coincidenza possibile fra «interesse morale e interesse materiale».8
Se confrontiamo questo modello di civiltà del lavoro con quello praticato
oggi dalla Apple di Tim Cook, la differenza appare quasi incommensurabile.
Dalla fine degli anni Novanta, le officine industriali della società di Cuper-
tino si trovano, per lo più, in Cina: oggi, a Shenzen, la Foxconn produce
la linea degli Ipad e dei Macbook; mentre l’officina Chanshuo a Shanghai,
di proprietà della taiwanese Pegatron, ha il subappalto per gli Iphone. Nu-
merose inchieste – alcune delle quali celebri: per esempio, quella di Charles
Duhigg e David Barboz, pubblicata dal «New York Times»9 – restituiscono,
della condizione del lavoro in queste fabbriche, uno spaccato sociale ottocen-
tesco, engelsiano. Parliamo di luoghi dove un’altissima tecnologia si combina
a forme di sfruttamento premoderno, con stipendi da fame e in condizioni di
sussistenza ridotte a tal punto da mettere a rischio perfino la mera sopravvi-
venza fisica di chi lavora: la sede Foxconn di Shenzen è diventata, negli anni,
tristemente nota per l’altissimo numero di suicidi fra i suoi operai10.
Queste scarne informazioni sono sufficienti per capire come i due modelli
aziendali incarnino, in realtà, due forme di civiltà del lavoro opposte. Simile
è sicuramente la capacità di umanizzare le macchine, di renderle seducenti at-
traverso un uso intelligente dell’estetica e dell’ergonomia. E tuttavia, se all’O-
livetti l’attenzione alla forma sensibile dei prodotti è solo l’ultimo momento
di un processo di progettazione più ampio, che coinvolge la vita dei lavora-
tori stessi e il territorio in cui abitano, nel caso della Apple, l’uso dell’estetica
assomiglia piuttosto ad un’inquietante formazione di compromesso, dove
la bellezza delle macchine tecnologiche, proprio come il canto delle sirene
nell’Odissea, dissimula la violenza del processo produttivo.
Dedicare oggi un volume dell’«Ospite Ingrato» allo studio del laboratorio
Olivetti ci sembra importante almeno per due ragioni. La prima riguarda una do-
manda che, come abbiamo appena visto, la storia politica e sociale di questi ultimi

8
«Alle questioni che il realizzarsi della civiltà industriale imponeva, alla domanda di come fare ad
essere tecnicamente progrediti senza per questo essere interiormente imbarbariti, la via olivettiana af-
fermava la coincidenza tra interesse morale e interesse materiale» (Beniamino de Liguori, Rimozione
e riscatto di Adriano Olivetti, «l’ombra», n.s. IX, 2018, pp. 32-33).
9
Il reportage di Charles Duhigg e David Barboza dalla Foxconn di Shenzen è stato pubblicato il 26
gennaio 2012 sul «New York Times» e si può leggere a questo link: https://www.nytimes.com/2012/01/26/
business/ieconomy-apples-ipad-and-the-human-costs-for-workers-in-china.html. Simile, nella denuncia
delle estreme condizioni di lavoro e di vita degli operai, il reportage di Dejiang Zeng sull’officina Chanshuo
di Shanghai: https://www.carnegiecouncil.org/studio/multimedia/20161016-inside-an-apple-iphone-fac-
tory-in-china. Per una rappresentazione del lavoro operaio oggi in Cina, si veda anche il romanzo di Leslie
Chang: Leslie T. Chang, Factory girls: from Village to City in a Changing China, Spiegel & Grau, New
York 2009; trad. it. di Mariagrazia Gini, Operaie, Adelphi, Torino 2010.
10
Jenny Chan, Ngai Pun, Mark Selden, Apple, Foxconn, and China’s New Working Class in
Achieving Workers’ Rights in the Global Economy, edited by Nelson Lichtenstein, Richard Appel-
baum, Cornell University Press, Ithaca (NY) 2017, pp. 173-189.
12 Daniele Balicco

decenni ha lasciata disattesa – ovunque, non solo in Cina; e a cui, invece, l’Olivetti
di Adriano ha cercato ripetutamente soluzioni. La domanda è semplice: è ancora
realizzabile uno sviluppo tecnologico capace di progresso sostanziale, vale a dire
di uno sviluppo che sia, contemporaneamente, sostenibile e democratico, perché
cosciente dei propri limiti, e, per questa ragione, dotato di una postura autori-
flessiva? Inoltre: si può ancora immaginare un progresso scientifico fondato sul
dialogo fra scienze pure e cultura umanistica, unica strada per sperimentare un
equilibrio fra sviluppo e territorio, fra lavoro e democrazia, fra antropologia e si-
stema delle macchine? Lo studio del laboratorio Olivetti è importante perché of-
fre la possibilità di ricostruire la storia di alcune soluzioni pratiche, sperimentate
in quegli anni, ai problemi che, tuttora, queste domande lasciano invece sospesi.
La prima parte del volume è per questa ragione dedicata a un’indagine multi-
disciplinare sul mondo Olivetti. Il primo saggio è di Barbara Carnevali e ricostru-
isce la genealogia della modernità «gentile» del progetto estetico olivettiano, la sua
ricerca di un equilibrio fra razionalità e «grazia», in particolare attraverso lo studio
della riflessione teorica di uno dei suoi primi ispiratori: Edoardo Persico, proget-
tista geniale, critico d’arte, gallerista, scrittore, maestro di Marcello Nizzoli e fra
i primi collaboratori dell’Ufficio Sviluppo e Pubblicità. René Capovin imposta
invece un confronto fra l’idea di comunità concreta in Olivetti – come tentativo
di superamento della forma Stato moderna nell’autogoverno spaziale di una co-
munità territorialmente circoscritta – con la teoria estetico-sociale del filosofo te-
desco Peter Sloterdijk. Il terzo saggio è di Carlo Tombola e si concentra sul modo
attraverso cui Adriano ha provato a ripensare la dimensione politica come decen-
tramento di poteri, partendo da una nuova organizzazione del lavoro in fabbrica,
attraverso la lezione di Ford e soprattutto di Walther Rathenau, per poi arrivare
all’uso del piano urbanistico come strumento politico decisivo dell’organizzazio-
ne dello spazio sociale delle comunità. Segue il saggio di Tommaso Morawski che
riflette sul ruolo che design e architettura occupano nel mondo delle «bellezze
industriali» Olivetti, a partire da una celebre intervista televisiva RAI datata 1960:
è l’ultima intervista fatta ad Adriano, prima di morire. L’autore è un ancora gio-
vanissimo Emilio Garroni. Con il saggio di Emanuele Zinato entriamo invece nel
laboratorio della rappresentazione letteraria di Paolo Volponi, romanziere, poeta,
saggista, nonché direttore generale del personale Olivetti. Zinato mostra, in que-
sto studio, come la prolungata esperienza di Volponi quale dirigente industriale
sia alla base della trasfigurazione letteraria di romanzi come Memoriale, La mac-
china mondiale, Le mosche del capitale, e della sceneggiatura Annibale Rama; e
come spesso le «figure di invenzione» letteraria di questi testi entrino in conflitto
con l’ideologia pubblica di Volponi, manager integrato nel progetto di Comunità.
Il sesto saggio è di Giuseppe Alessi ed è uno studio su due cortometraggi aziendali
Olivetti scritti da Franco Fortini: il primo si intitola Incontro con Olivetti (1950)
ed è un reportage sulla vita operaia ad Ivrea, descritta ancora come un microco-
smo industriale capace di tenere in un equilibrio quasi simbiotico fabbrica, natura
Introduzione 13

e comunità; il secondo, girato a distanza di 18 anni dal primo ed intitolato Le re-


gole del gioco (1968), è invece una meditazione sul futuro dell’automazione e sulla
conseguente trasformazione del mondo del lavoro, sempre più affidato all’intelli-
genza delle macchine: la mutazione antropologica è iniziata. Con il testo di Erica
Bellia, il mondo culturale Olivetti viene invece osservato attraverso la lente della
questione coloniale: lo studio si concentra sulla linea editoriale esplicitamente an-
ticolonialista della rivista «Comunità», analizzando articoli, e interi numeri mo-
nografici, dedicati tanto alla difesa delle culture africane, asiatiche e sudamericane,
alle prese con i problemi politici della decolonizzazione, quanto alla critica della
strategia geopolitica statunitense. La rivista resta però per lo più ambivalente nel
giudizio politico sul «para-colonialismo» agito dall’industria italiana stessa; e non
solo al Sud. L’ottavo saggio, scritto da Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara e Fulvio
Perini, è un omaggio al magistero del sociologo Luciano Gallino, che all’Olivetti
si è formato e che proprio da questa prolungata esperienza lavorativa ha derivato
la sua impostazione teorica fondamentale: lo sviluppo tecnologico, per essere de-
mocratico, deve assumere una postura autoriflessiva, e cioè deve permettere una
verifica pubblica permanente di quell’area di «non sapere» da esso stesso creata:
è quest’ultima un’area di ignoranza sistemica che va riconosciuta e limitata, per
quanto possibile, da un accertamento continuo degli effetti nocivi dello sviluppo
industriale sull’ambiente e sulla vita delle persone. Il saggio successivo, di Cesare
Pomarici, indaga l’altro sapere che, insieme alla sociologia, nell’immediato dopo-
guerra ha trovato casa all’Olivetti: la psicologia. E, in particolare, analizza l’impat-
to che la lezione junghiana, mediata da Ernst Bernhard, ha avuto sullo sviluppo
creativo del pensiero di Adriano, sulla sua continua ricerca di antidoti, di contro-
bilanciamenti – estetici, spirituali, religiosi, politici – alla razionalità cieca dello
sviluppo fordista. Lo studio di Michele Pacifico ricostruisce invece la storia dello
sviluppo dell’elettronica all’Olivetti e della sua relativamente rapida eclissi, deter-
minata, al di là della concomitanza di alcuni eventi circostanziati, da una battaglia
industriale giocata ad armi impari con il gigante americano IBM. L’ultimo saggio
di questa prima sezione è di Alessandra Criconia ed è un’analisi complessiva del
pensiero urbanistico di Adriano Olivetti e dei progetti che fece realizzare, lavo-
rando a stretto contatto, fra gli altri, con architetti come Figini e Pollini, Ludovico
Quaroni, con lo studio BBPR, con Piero Bottoni e Luigi Cosenza. Senza dimen-
ticare il suo incardinamento, nell’immediato dopoguerra, a presidente dell’INU:
l’Istituto Nazionale di Urbanistica.
La seconda ragione per cui ci è parso importante dedicare un volume del-
l’«Ospite Ingrato» ad Olivetti è ovviamente legata all’importanza che ha avu-
to, nella formazione di Fortini, il suo impiego alla sede di Milano, nell’Ufficio
pubblicità di via Baracchini. La seconda parte del volume è dunque dedicata
alla ricostruzione di questa esperienza, lavorativa e culturale, ed è divisa in due
sezioni: nella prima, intitolata Fortini copywriter, sono raccolti una serie di te-
sti eterogenei sul lavoro di Fortini pubblicitario. Anzitutto, una rarità: un suo
14 Daniele Balicco

breve saggio datato 1961 e pubblicato su una rivista di settore: «L’ufficio mo-
derno». Si intitola Del copywriting come genere letterario ed è una riflessione
teorica sulla forma estetica del messaggio pubblicitario, sulla sua derivazione
dalla tradizione epigrammatica e sul nesso che lo imparenta, anche solo per
vincoli di committenza, alla postura celebrativa premoderna della poesia corti-
giana. Seguono: la trascrizione di un’intervista radiofonica per Radio Tre, dedi-
cata alla sua esperienza lavorativa all’Olivetti, registrata nel marzo 1988 insieme
a Renzo Zorzi; e due articoli di intellettuali suoi colleghi ad Ivrea e a Milano:
Giovanni Giudici e Sergio Bologna. La sezione comprende anche un saggio
teorico di Daniele Balicco, che ricostruisce il profilo complessivo del lavoro
di Fortini copywriter nel contesto pubblicitario dell’immediato dopoguerra,
posizionandolo nello scontro fra stile industriale italiano e nuova «scienza»
pubblicitaria statunitense. La seconda parte fortiniana di questo volume – che
segue la sezione Ospite dove sono raccolte nove poesie di Rodolfo Zucco –
è invece dedicata alla pubblicazione di materiali d’archivio e comprende: due
testi poetici (il primo inedito), 19 lettere e ben 29 testi, fra cui saggi, articoli,
materiali di lavoro inediti e prefazioni.
Fra le lettere di Fortini, il lettore ne troverà anche una ormai famosa: quel-
la inviata ad Adriano Olivetti convalescente, il 16 novembre nel 1950. La let-
tera era accompagnata da un regalo: un frisone in gabbia, dal mantello grigio,
«color novembre», a cui dar la libertà:

Mi sono chiesto quale esempio di vita poteva far piacere a un convalescente; e ho


pensato a una delle più allegre creature del mondo […]. Ma siccome un uccello in gabbia
può divertire per pochi minuti, tu dagli anche subito, se credi, la via; è piacere tanto raro,
al giorno d’oggi, dare la libertà.

Ringraziamenti

Il volume è stato integralmente curato da Daniele Balicco in un dialogo e confronto continuo


con Luca Lenzini. Il lavoro della sezione di Archivio è stato interamente supervisionato da Daniele
Balicco (Due poesie di Franco Fortini; Testi 1947-1974) e da Elisabetta Nencini (Lettere 1940-1963).
Alla trascrizione di alcuni testi di questa sezione hanno inoltre collaborato Emanuela Carbé e Matilde
Marzi, che qui ringrazio. Il saggio di Franco Fortini intitolato Letras Humanas, che introduce il ca-
talogo 25 años Hispano Olivetti 1929-1954 (Seix Barral, Barcellona 1954), è stato tradotto da Daniele
Balicco con la gentile supervisione di Paola Bellomi.
Un ringraziamento particolare va a inoltre a Beniamino de’ Liguori, segretario generale della
Fondazione Adriano Olivetti di Roma; Enrico Bandiera, direttore dell’Associazione Archivio Storico
Olivetti; Lucia Alberton, archivista dell’Associazione Archivio Storico Olivetti di Ivrea.
Umanesimo e tecnologia
Barbara Carnevali

Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti

L’inutile è logoro, ma il mero utile inaridisce il mondo.


Theodor W. Adorno

Sentieri interrotti

Verso la seconda metà degli anni Sessanta, con lo spegnersi dell’euforia


modernizzatrice e l’inizio dei movimenti di contestazione, gli ideali filosofici,
politici ed estetici della modernità sono diventati bersaglio di critiche sempre
più aggressive. Dato il ruolo che l’architettura e il design avevano svolto nel-
la fondazione del progetto moderno non stupisce che le più rilevanti anche
dal punto di vista teorico siano state elaborate nel seno delle due discipline.
Semplificando la riflessione ben più articolata di autori come Robert Venturi
e Denise Scott Brown, ed esasperando il rifiuto che le opere-manifesto del
design radicale avevano suggerito in forma di provocazione straniante, si è
generata una vulgata che accusa il modernismo, identificato senza residui col
funzionalismo, di essere complice delle istanze razionalizzatrici della società
tecnocratica, tanto nella sua versione capitalistica quanto in quella incarnata
dal socialismo reale. Secondo gli antimoderni, nell’idea di un’estetica sotto-
posta agli imperativi della Zweckrationalität, della standardizzazione, dell’e-
liminazione del superfluo, si compirebbe il processo storico diagnosticato
da Weber come destino del mondo occidentale e ribattezzato dalla Scuola di
Francoforte «dialettica dell’Illuminismo». L’annuncio della barbarie sarebbe
già contenuto nel principio-guida del modernismo, l’esaurirsi della distan-
za tra forma e funzione. Negata la gratuità dell’ornamento, la dimensione
espressiva che caratterizza l’arte finirebbe per dissolversi insieme alla libertà,
che nella definizione kantiana si incarnava nella «finalità senza scopo» pro-
pria della bellezza e del giudizio di gusto. Quando l’utile trionfa sul simboli-
co e l’economia sul gioco, cade l’ultima cittadella della concezione romantica
che riconosceva alla dimensione estetica la capacità di opporsi alla razionaliz-
zazione tecnico-economica e di creare squarci nella gabbia d’acciaio.
È evidente che questo racconto semplificatorio e involontariamente hege-
liano, che riconduce il vizio del modernismo allo sviluppo coerente e univoco

L’ospite ingrato ns 6
18 Barbara Carnevali

di una presunta essenza originaria, fa torto alla realtà storica: non rispetta
né la poetica né l’opera dei grandi maestri, nessuno dei quali, da Gropius
a Mies fino al più criticato, Le Corbusier, merita questo processo somma-
rio; appiattisce la pluralità di correnti riconducibili al Movimento moderno,
spesso confliggenti se non incompatibili tra loro, e cancella le contraddizioni
e la complessità che fanno la ricchezza delle singole opere1, come se ogni
singolo progetto moderno volesse dire sempre e solo una cosa, la stessa cosa
di tutti gli altri. È il limite di molti discorsi «anti», motivati dal militanti-
smo: il fantoccio del nemico serve a definire reattivamente i propri obiettivi,
a istituire per contrasto la propria differenza. Proprio la loro mancanza di
carità ermeneutica, d’altra parte, costituisce il lato politicamente interessante
dei «movimenti»: dobbiamo leggere un manifesto estetico innanzitutto come
una denuncia, un atto di accusa contro i fallimenti di ciò che lo ha preceduto.
E in questa prospettiva non possiamo negare che i problemi sollevati ormai
da più di mezzo secolo siano ancora drammaticamente reali. Le forme ano-
nime e aggressive dell’International Style, che dominano i distretti finanzia-
ri delle nostre metropoli, offrono una prova intuitiva di cosa si intenda per
funzionalismo alleato della burocrazia e del capitale, mentre per respirare il
sentimento di alienazione trasmesso da una modernità senz’anima basta pas-
seggiare per la periferia di Torino o nel vecchio centro direzionale di Milano.
Ora che anche il postmoderno ha esaurito il suo potenziale sovversivo,
tuttavia, è necessario rivolgersi nuovamente alla storia e ripercorrere le vicen-
de del modernismo in una prospettiva meno unilaterale. A essere entrato in
crisi, infatti, è solo un certo modello di modernità, rappresentato da una del-
le sue tante possibili declinazioni estetiche, che solo per ragioni contingenti
ha potuto concretizzarsi e imporsi come versione egemonica. Nella storia
dell’architettura e del design del ventesimo secolo si snodano percorsi alter-
nativi che meriterebbero di essere riscoperti ed esplorati. Esiste in particolare
un modernismo razionalista ma non funzionalista, nutrito della «speranza
progettuale», senza la quale non può darsi discorso filosofico e politico della
modernità2, che è l’antitesi della volontà di potenza e dell’imperialismo di una
ragione ridotta in chiave strumentale. È un modernismo gentile tanto quanto
l’altro è prepotente, ispirato da un desiderio di conciliazione e armonia invece
che di conquista e omologazione, il cui segreto estetico consiste in un gesto
non in prendere ma in levare. Propongo di definirlo all’insegna della catego-
ria – al contempo estetica, sociale e teologica – della grazia: esso concepisce la

1
Cfr. Robert Venturi in Complexity and Contradiction in Architecture (1966), che prima di am-
monire gli architetti a «imparare da Las Vegas» aveva cercato la cura del fallimento modernista nel
recupero della complessità dell’opera.
2
Si veda Tomás Maldonado, La speranza progettuale: ambiente e società, Einaudi, Torino 1971; e,
in dialogo con Habermas, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 19

forma come una dimensione strumentale ma soprattutto simbolica, attraver-


so cui si esprime una concezione del mondo fondata sulle relazioni, rispettosa
dei limiti e capace di tatto3.
Di questa via alternativa alla modernità è possibile tracciare una genealo-
gia italiana che parte dalla cultura razionalistica della prima metà degli Trenta
e, dopo l’interruzione bellica e postbellica, trova la sua entelechia nel design
degli anni Cinquanta e Sessanta (estendendosi, con risultati più occasionali,
fino agli ultimi decenni)4. Lungo questo arco temporale, lo Stile Olivetti ne ha
offerto alcune realizzazioni esemplari. Uso l’espressione cosciente del fatto
che all’interno dell’esperienza Olivetti si sono date esperienze estetiche non
sempre paragonabili: esiste una cesura tra il periodo prima e dopo la morte
di Adriano, esistono stili olivettiani diversi a seconda delle arti considerate
(le architetture, ad esempio, possono essere distinte dal design degli ogget-
ti e dalla comunicazione pubblicitaria, come già rilevava Manfredo Tafuri5);
infine, e soprattutto, i singoli architetti, designer e artisti olivettiani hanno
espresso con stili diversi immagini diverse della modernità: quella di Sottsass
non è ovviamente la stessa di Nizzoli. Eppure, da tutte le declinazioni dello
stile Olivetti emerge un’unica e riconoscibile aria di famiglia, un progetto
nutrito di valori etico-estetici traducibili in un «idioma» comune, come lo
definì la mostra del MoMA del 19526. E proprio la capacità di far giocare una
pluralità di prospettive senza cancellare le loro differenze è uno dei punti di
forza dello stile “relazionale” alternativo al linguaggio funzionalista. Nelle
pagine che seguono cercherò di tracciarne un primo, provvisorio ritratto.

3
In un libro a cui sto lavorando suggerisco di abbandonare il razionalismo funzionalista per
tornare ai principi di armonia classica che hanno alimentato la poetica del Movimento Moderno,
reinterpretandoli alla luce dei concetti di gioco, ibridazione e – valore che riassume i primi due – gra-
zia. Attingendo dalle tre tradizioni di pensiero – estetica, sociale e teologica – che hanno pensato
il concetto, intendo per grazia un valore decisamente relazionale, che supera la concezione di una
sovranità progettuale e protegge l’indisponibilità delle cose, dei corpi, del mondo. Equilibrio pre-
cario che si può trovare nelle forme espressive che possono comporre relazioni tra elementi diversi
ma anche conflittuali, la grazia armonizza, lega, favorisce il gioco. Ma le sue forme compositive non
devono essere concepite come conciliazioni che superano definitivamente un contrasto o che tanto-
meno cercano di camuffarlo. Sono l’espressione di una soluzione di compromesso temporaneo che
si presta all’espressione di richieste contraddittorie – un luogo ideale per il ritorno del represso e la
compensazione estetica che, nella mia visione, risponde al disagio del processo di modernizzazione.
Si veda La grazia delle macchine. Per un’estetica tecnologica, conferenza per il FestivalFilosofia 2020,
in rielaborazione per il Mulino.
4
Sulla specificità del caso italiano si vedano: Andrea Branzi, Introduzione al design italiano.
Una modernità incompleta, Baldini e Castoldi, Milano 1999; e Id., Modernità debole e diffusa, Ski-
ra, Ginevra-Milano 2006. Con un’attenzione particolare al made in Italy, si vedano anche Daniele
Balicco, Made in Italy e cultura: indagine sull’identità italiana contemporanea, Palumbo, Palermo
2016; e Id., Modernità Godibile, in Antonio Montefusco (a cura di), Italia senza nazione, Quodlibet,
Macerata 2019, pp. 145-158.
5
Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985, Einaudi, Torino 1986, pp. 47 sgg.
6
Caterina Toschi, L’idioma Olivetti 1952-1979, Quodlibet, Macerata 2018, p. 15. Sullo Stile Oli-
vetti si veda anche Carlo Vinti, Gli anni dello stile industriale 1948-1965, Marsilio, Venezia 2007.
20 Barbara Carnevali

Bellezza moderna. L’eredità di Persico

Per imboccare il sentiero italiano possiamo volgerci a uno dei suoi padri
spirituali, il critico d’arte e d’architettura, gallerista, scrittore e progettista
Edoardo Persico (1900-1936). Affascinante figura di outsider aureolato di
mistero e bohème, Persico è stato il maestro della generazione di architetti
razionalisti che, formatisi sotto il regime, rifiutarono la sua estetica ufficiale7.
Nel suo pensiero si fondevano, in una combinazione senza equivalenti, l’ispi-
razione religiosa cattolica, la fede nel ruolo salvifico dell’arte e un impegno
politico che, dopo averlo avvicinato a Piero Gobetti, lo porterà a combattere
il fascismo sempre più apertamente. Tanto i suoi articoli sulla rivista «Casa-
bella», di cui fu anche grafico e direttore insieme a Giuseppe Pagano dal 1932
fino alla morte, quanto i suoi originali allestimenti espositivi hanno contribu-
ito a far conoscere i valori del Movimento moderno nel nostro paese, aprendo
la cultura italiana a una dimensione europea, o per la precisione «europei-
sta» – come amava esprimersi il critico d’arte. Questo insegnamento è stato
decisivo per plasmare una variante italiana del modernismo, alternativa non
solo alla retorica monumentale e imperiale del fascismo ma anche al modello
futurista – movimento rispetto a cui Persico non ha mai nascosto una forte
antipatia. Quella di Persico è una modernità affermativa ma avversa a ogni
manifestazione di forza e di potenza, attraversata da un senso dell’ordine ma
anche di fragilità, di sospensione e di sacro: la sua razionalità impregnata di
rispetto dei limiti e della trascendenza illustra in modo ideale il valore etico,
estetico e sociale che definisco grazia8.
Tra Persico e l’esperienza Olivetti esiste una linea diretta che passa per
l’apertura nel 1931, a Milano, dell’Ufficio Sviluppo e Pubblicità, punto di
irradiazione della futura comunicazione olivettiana a cui Persico fu invitato
a partecipare. Due mediazioni personali sono poi decisive. In primo luogo,
Marcello Nizzoli, che ha collaborato con Persico a una pubblicità Olivetti,
e soprattutto a tre allestimenti che hanno fatto epoca nella storia del design
espositivo – la Sala delle Medaglie d’Oro all’Esposizione aeronautica italiana
(1934), il negozio Parker a Milano (1934) e il Salone d’onore alla VI Triennale
di Milano (1936, con Giancarlo Palanti): tutti esempi che, nella seconda metà
degli anni Cinquanta, hanno fortemente ispirato la concezione dei negozi
Olivetti. L’altra figura mediatrice è quella di Leonardo Sinisgalli, direttore
dell’Ufficio Tecnico Pubblicità dal 1936, che sul ruolo di guida spirituale
esercitato da Persico avrebbe detto: «Noi ci consideravamo tutti suoi disce-

7
Per questo ritratto si veda soprattutto Michele Dantini, Arte e politica in Italia. Tra fascismo e
Repubblica, Donzelli, Roma 2018. Il cap. I è interamente dedicato a Persico.
8
Sulla dimensione sacra dell’opera di Persico si veda sempre M. Dantini, Arte e politica in Italia
cit.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 21

poli perché fu lui, fu il suo esempio, i suoi discorsi, i suoi incoraggiamenti,


a farci considerare allo stesso livello la dignità del lavoro e la responsabilità
dell’arte»9. Se è possibile che la leggenda di Persico sia stata esagerata a causa
della sua vicinanza a Gobetti e della sua morte precoce e misteriosa10, di certo
la sua personalità intensa e la sua opera eccentrica hanno sedotto la genera-
zione di artisti e intellettuali formatasi negli anni Trenta tra Milano e Torino.
E non è difficile immaginare che molti di loro abbiano ritrovato un altro mo-
dello di riferimento nel carisma e nel progetto di Adriano Olivetti, animati da
una fusione per certi versi analoga di valori estetici, politici e religiosi11.
Lo scritto più famoso di Persico è la conferenza-testamento del 1935, Pro-
fezia dell’architettura – il genitivo è soggettivo –, in cui si invoca un’architet-
tura aperta al futuro e alla costruzione di un mondo migliore, capace di essere,
come recita la citatissima chiusa dantesca, una «sostanza di cose sperate»12.
Questo testo escatologico e politico offrirebbe una scorciatoia per ricollegarsi
al progetto olivettiano, che comincia a consolidarsi proprio negli stessi anni.
Ma per comprendere la peculiare visione modernista di Persico è più opportu-
no intraprendere la via lunga, cominciando da un testo meno noto ed enfatico:
la breve recensione, apparsa nel settembre 1931 su «La Casa Bella» (questo
il nome originario della rivista) che il critico dedicò alla sedia di Mies come
oggetto-simbolo del nuovo ideale di bellezza. È un articolo brillante, che ri-
corda i saggi sull’estetica moderna di Baudelaire e di Simmel, sia per la capacità
di dispiegare l’essenza di uno stile di vita dall’analisi di un singolo oggetto, sia
per il tono e il formato apparentemente minori. Leggiamone un lungo brano
tenendo in mente l’illustrazione che accompagnava il commento:

La sedia di metallo disegnata dall’architetto Mies van der Rohe è forse il simbolo più
vivo dello sforzo che il gusto moderno ha compiuto, fino ad oggi, verso la creazione di for-
me di bellezza nuova. […]. La sedia di Van der Rohe, infatti, non è soltanto la trovata di un
artista geniale, o un’espressione di quel gusto della purezza che presiede a tanta parte delle
opere moderne; ma anche il risultato di un meditato progresso che ha origine, per esempio,
nei sedili delle automobili. Il capriccio del decoratore è escluso nettamente da questa feli-
ce invenzione, in cui domina piuttosto la logica del costruttore moderno, che non risolve
soltanto un problema del gusto o della tecnica, ma che è influenzato da molteplici correnti
della vita nuova. Se la sedia di Van der Rohe, nella precisione della linea e nella logica della
struttura, può essere considerata come un esempio di stile attuale, il suo valore intimo è for-
se maggiore. Si consideri questo arredo nel complesso delle forme naturali […]. È evidente
che questa sedia è lo sviluppo infinitamente armonioso di un motivo naturale: il ramo che si

9
Cfr. Alberto Saibene, L’Italia di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2017, pp.
35, 38. La citazione è a p. 40.
10
Angelo d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001, pp. 146-253.
11
In questa affinità conta certamente molto la comune vicinanza al personalismo di Jacques Ma-
ritain ed Emmanuel Mounier, un tema che andrebbe approfondito anche nelle sue ricadute estetiche.
12
Edoardo Persico, Profezia dell’architettura, in Id., Notizie della modernità. Tutte le opere, vol.
II (1932-1935), Aragno, Torino 2016, pp. 1017-1035.
22 Barbara Carnevali

flette o il ruscello che si incurva. Non solo: ma


figura la linea del ginnasta che si piega nell’e-
sercizio e seconda soprattutto la curva che
disegna un corpo umano in libertà. Questi
accostamenti non sono arbitrari o parados-
sali: l’arte decorativa è nel suo intimo un’arte
di simboli umani. La sedia di Van der Rohe
è, così, un’espressione del gusto moderno per
la vita all’aria aperta e per la cultura fisica.
Ecco da che cosa può persino derivare il suo
ritmo spaziale; e come un semplice oggetto
può legarsi alla nostra vita più profonda, alle
nostre aspirazioni più incoscienti. Una sedia
nuova, non soltanto perché è la più comoda,
ma anche perché è quella che ci somiglia di
più. Nessuno ha mai notato che una poltro-
na liberty somiglia a una zia di provincia, di
trent’anni fa, coi piedi serrati negli stivaletti?
La sedia disegnata da Van der Rohe somiglia,
Mies van der Rohe, sedia MR (1929). invece, a nostra sorella in abito da tennis13.

Dopo un breve omaggio ai luoghi comuni sul moderno – la purezza delle


forme, l’elogio del progresso tecnico –, Persico scarta inaspettatamente dal
percorso divenuto convenzionale, accostando la sedia di Mies a esempi di
morfologia naturale. Questo richiamo alla natura segna una prima distanza
rispetto ai topoi funzionalisti: non è la celebrazione alla Philip Johnson della
machine art e del macchinismo industriale come perfetta sintesi utilitaria tra
forma e funzione14, ma l’idea di un design che non separa natura e cultura
e che, anzi, sembra sgorgare spontaneamente dall’intimo accordo tra le sue
dimensioni. Il ramo flesso, l’ansa del fiume, la schiena arcuata del ginnasta
o il fusto di acciaio cromato della seduta cantilever non sono separati da
un salto ontologico: l’arredamento moderno «imita» quello della casa ori-
ginaria dell’uomo come se ne fosse la legittima e spontanea prosecuzione,
garantendo un’armonia prestabilita tra le forme dell’ambiente naturale e di
quello artificiale. Riconoscendo come momento fondatore della modernità
architettonica non il cubismo ma il senso del coinvolgimento umano nel-
la natura proprio dell’impressionismo, Persico promuove una concezione
della modernità affine a quella organica di Frank Lloyd Wright15. All’esem-

13
Edoardo Persico, La sedia di Mies, in Id., Notizie della modernità. Tutte le opere, vol. I (1923-
1931), Aragno, Torino 2016, pp. 441-442, corsivi miei.
14
Si pensi alla distanza che separa questa poetica da quella della mostra curata da Johnson,
Machine Art, 6 marzo-30 aprile 1934, New York, Museum of Modern Art, 1934. Cfr. anche An-
dreas Broeckmann, Machine Art in the Twentieth Century, The MIT Press, Cambridge, MA 2016.
15
Cfr. E. Persico, Profezia dell’architettura cit., dove questo tema è esplicito. Si veda il classico
di Bruno Zevi, Verso un'architettura organica, Einaudi, Torino 1945. Cfr. anche Luigi Prestinenza
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 23

Veduta aerea del complesso industriale Olivetti a Ivrea, patrimonio Unesco (foto tratta dal Dossier di
Candidatura di «Ivrea Città Industriale del XX secolo» nella WHL UNESCO - Fotografie di Maurizio
Gjivovich - Fondazione Guelpa, Igor Nicola - Fondazione Guelpa, Francesca Tapparo).

plarità della sua opera saranno infatti dedicati i brani finali della Profezia
dell’architettura, in cui Persico spiega come la natura di Wright non sia lo
specifico e concreto spazio delle praterie americane ma un’idea metafisica
virtualmente riproducibile nel contesto italiano. Dello stile organico, con
una nota che si rivelerà interessante per lo stile olivettiano, Persico elogia
le soluzioni formali che per creare armonia con l’ambiente privilegiano li-
nee orizzontali e suggestioni provenienti dall’Oriente, soprattutto dall’arte
giapponese e cinese.
L’idea di una modernità che fa dialogare artificio e natura, architettura
e paesaggio senza negare la sua vocazione progettuale, volta al desiderio
di nuovo e alla fiducia nel futuro – il suo essere insomma absolument mo-
derne –, risorgerà dopo la guerra avvalendosi anche del ritorno in auge di
Wright promosso da Bruno Zevi, e rappresenterà una sorta di «filo verde»
dell’estetica Olivetti lungo tutto l’arco temporale che va dagli anni Trenta
fino ai primi anni Settanta: la ritroviamo nelle grandi finestre vetrate degli
stabilimenti di via Jervis progettati da Figini e Pollini (1934-1936) e poi
ripresi dai vari ampliamenti, tutte spalancate sulla luce e sul verde del Cana-
vese; nella fabbrica con vista mare di Pozzuoli progettata da Luigi Cosenza
(1951-1954), le cui forme geometriche vengono addolcite dalle anse dello

Puglisi, Edoardo Persico. Il critico, «Artribune», 5 febbraio 2019, https://www.artribune.com/proget-


tazione/architettura/2019/02/edoardo-persico-storia-italia/.
24 Barbara Carnevali

Stabilimento Olivetti di Luigi Cosenza, 1951-1954, Pozzuoli.

stagno e dalle rotondità dei pini marittimi; e ancora, in chiave forse ancora
più emblematica per la sua esplicita allusione morfologica, nell’anfiteatro
di Talponia progettato da Gabetti e Isola (1968-1971) come una delicata
schiena di vertebre appoggiata al dorso della collina. Il fatto che il pendio
sia stato creato artificialmente, sia dunque non una natura originaria ma
un costruito effetto di naturel, non fa che confermare la reciprocità tra le
due dimensioni. Nel rispetto del gusto di Persico, ma anche di quello di
Adriano, che, scomparso ai tempi del progetto, non amava la verticalità dei
grattacieli, gli architetti scelgono un semicerchio orizzontale, che non fende
il paesaggio ma, come suggerisce il soprannome affettuoso, vi sprofonda
dolcemente e mimeticamente come la tana di un animale.
Dalle pagine di Persico si sprigiona una poetica della vita secondo natura,
priva però di ogni connotazione romantica alla Rousseau: lo stile «naturale»
moderno non guarda indietro a un mondo più integro, a un’immediatezza e
a un’autenticità perdute, non tradisce diffidenza per il nuovo né timore per
le trasformazioni sociali e tecnologiche. È, al contrario, un invito a scoprire
la realtà del proprio tempo, a condurre, come in altro saggio scrive Persico
commentando gli interni del «nouveau monde» usciti dall’atelier Le Corbu-
sier, «un’esistenza viva, non melanconica, antisentimentale, dove l’uomo si
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 25

Unità Residenziale Ovest, detta Talponia, di Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola con Luciano
Re, 1968-1971, Ivrea. Veduta laterale.

sente d’accordo col suo tempo, senza la tragedia romantica del nido in cui si
sfugge ai mali del mondo»16.
A questo primo principio Persico ne affianca subito un altro ugualmente
importante: l’affermazione della funzione simbolica dell’oggetto di design, qui
definito arte decorativa secondo l’uso della critica del tempo, che ancora non
ha adottato il termine tecnico mutuato dall’inglese17. La rivendicazione può
servire da antidoto preventivo alle accuse antimoderne e postmoderne, marcan-
do un’ulteriore distanza dal funzionalismo e affermando a priori, da una pro-
spettiva antropologica e addirittura metafisica, la continuità tra arte e design.
Gli strumenti umani non potranno mai ridursi a puri mezzi utili a perseguire
un certo risultato secondo una strategia il più possibile razionale, economica,
ma racchiudono un surplus espressivo il cui paradigma è la pratica ornamentale

16
Edoardo Persico, All’estremità della modernità: Le Corbusier, in Id., Notizie della modernità
cit., p. 443. Una recente grande mostra parigina ha confermato l’interpretazione di Persico, mostrando
come questa concezione vitalistica della modernità fosse in particolare incentrata sull’arredamento degli
interni e dovuta al contributo di Charlotte Perriand, sulla cui rappresentatività ritornerò tra poco. Cfr.
Le monde nouveau de Charlotte Perriand, Fondation Louis Vuitton, Beaux-Arts Éditions, Paris 2019.
17
Le prime occorrenze dei termini «design» e «designer» sono apparse nella seconda metà degli anni
Cinquanta. Cfr. Gabriella Cartago, Design, Disegno, «Studi di lessicografia Italiana», III, 1981, pp. 167-189.
26 Barbara Carnevali

Talponia. Veduta aerea.

comune a ogni cultura umana. Questo significa che, diversamente da quanto


ha cercato di sostenere il modernismo macchinista, non è possibile scindere
nettamente la tecnica dall’arte, la forma-funzione dalla forma simbolica. Qui il
pensiero di Persico può essere accostato a quanto sostenuto oltre trent’anni più
tardi da Adorno nella celebre conferenza Sul problema del funzionalismo oggi
(1965). Le due riflessioni si fanno eco a vicenda anche per il ruolo fondatore che
assegnano all’impulso mimetico nei confronti della natura, momento espressi-
vo gratuito e superfluo, che precede quello strumentale, e in cui si fondono i
confini tra i regni dell’umano e quello del vivente:

solo schematicamente il momento espressivo può essere relegato nell’arte e separato dagli
oggetti d’uso […]. Non c’è forse forma pratica che accanto all’attitudine all’uso non abbia
anche un aspetto simbolico; ciò è già stato dimostrato dalla psicanalisi per le immagini
arcaiche dell’inconscio, tra cui figura in primo luogo la casa […]. Grazie all’impulso mi-
metico, il vivente si rende simile a ciò che lo circonda assai prima che gli artisti comincino
a produrre imitazioni; ciò che appare simbolo, quindi ornamento, infine accessorio su-
perfluo, ha origine dalle forme di natura a cui gli uomini si adattano coi loro manufatti18.

Gli esempi di simbolismo riportati da Adorno sono notturni, psicanali-


tici e sessuali (all’esempio della casa seguono quelli dell’automobile e del di-

18
Theodor W. Adorno, Funzionalismo oggi (1965), in Id., Ohne Leitbild: Parva Aesthetica,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967; trad. it di Elena Franchetti, Parva Aesthetica, Mimesis, Udine-
Milano 2011, pp. 152-153.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 27

rigibile). Gli esempi di Persico, che pure insiste sulla dimensione inconscia
precisando che «un semplice oggetto può legarsi alla nostra vita più profon-
da, alle nostre aspirazioni più incoscienti», attingono invece all’immagina-
rio diurno dello svago e del tempo libero, culminando nel colpo da maestro
del pittore della vita moderna: la sedia liberty sta a una vecchia zia come
quella di Mies a una sorella in abito da tennis. Gioco, sport, vita all’aper-
to, e dunque anche giovinezza, perché dove l’immaginario della psicanalisi
affonda nel passato arcaico delle relazioni familiari quello del modernismo
scommette sulle nuove generazioni, cui è affidato il compito di rompere
con la coazione a ripetere per costruire il mondo nuovo. Ma, oltre che ai
giovani, come prevede Persico, uno specifico ruolo simbolico è affidato alle
donne: ed è questo ultimo aspetto che ci conduce ancora più direttamente
alla questione della grazia.
Dalle varie definizioni che sono state date della grazia nella storia della
cultura occidentale, emerge una serie di temi comuni19: la grazia è una bellez-
za in movimento, leggiadra, che danza, caratterizzata dalla leggerezza e dallo
sgravio (Kleist la definiva «antigravitazionale»), da linee curve e sinuose. As-
sociata al principio femminile e alla gioventù, la grazia ha due caratteristiche
che la rendono preziosa come valore morale e metafisico: non può essere per-
seguita con la sola volontà ma comporta una dimensione di dono e di gratuità
che testimonia del rapporto con la trascendenza e con l’indisponibile; e ha
una funzione dialettica, essendo capace di conciliare gli opposti: arte e natura,
ragione e sentimento, forma e libertà. (È l’idea espressa, per esempio, dalla
sprezzatura di Castiglione, ma ancora più profondamente da Schiller, che la
riteneva capace di conciliare le antinomie kantiane).
Questa breve fenomenologia della grazia condensa l’idea di bellezza mo-
derna della recensione di Persico. E siccome ogni catena associativa contiene
un invito a proseguirla, il lettore si sente autorizzato ad attingere dall’atlante
della memoria e a richiamare in vita, intorno alla sedia di Mies trasformatasi
in madeleine, la schiera di sportive fanciulle in fiore che popolano il nostro
immaginario modernista: l’Albertine proustiana che sfreccia in bicicletta col
suo berretto da polo, l’anonima golfista di Warburg, Charlotte Perriand che
a seno nudo e con le guance arrossate scala le montagne, ma poi vestita si
adagia mollemente sulla sdraio da lei progettata, Dominique Sanda-Micòl del
Giardino dei Finzi Contini di De Sica – tutte figure di una gioia di vivere al
passo coi tempi e di un’eleganza salubre, allegra, un poco sfrontata, il cui cor-
relativo oggettivo sono gli agili tubolari metallici che dal telaio delle biciclette
sono migrati alla struttura dei mobili moderni:

19
Sulla grazia in una prospettiva di storia delle idee si vedano: Paolo d’Angelo, Ars est celare
artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, Macerata 2014 e Raffaele Milani, I volti della grazia, il
Mulino, Bologna 2009. Sulle origini estetico-teologiche del concetto, Martino Rossi Monti, Il cielo in
terra: la grazia fra teologia ed estetica, Utet, Torino 2008.
28 Barbara Carnevali

Charlotte Perriand posa sulla chaise longue basculante («La Machine à repos») B 306, da lei progettata
per l’atelier Le Corbusier, 1928-1929.

Alternanza dolce tra movimento e riposo, leggerezza, naturel: questa mo-


dernità rigetta la retorica virile della potenza, della velocità a tutto gas, della
macchina dalle prestazioni inaudite e dalle dimensioni mastodontiche. La sua
misura non sono i piroscafi e gli aeroplani bombardieri che illustrano le pa-
gine di Vers une architecture, ma le chaises longues, le racchette da tennis, le
lampade che infondono luce vitale. La sua dimensione ideale è l’arredamento
di interni più che la pianificazione urbana. La sua cifra estetica non è il subli-
me ma appunto la grazia armonica, relazionale, che vibra con il sentimento di
chi la usa e con l’ambiente circostante.
Nell’estetica Olivetti l’incarnazione suprema di questa aggraziata bellezza
modernista si è data proprio nell’oggetto che per definizione aveva incarnato il
modernismo tecnocratico e industriale: la macchina. Per trasformare le macchi-
ne in esemplare di grazia moderna è stata fondamentale un’alleanza totale tra
tutte le dimensioni costruttive ed espressive, tra l’ingegneria, il design, la comu-
nicazione pubblicitaria e gli allestimenti espositivi degli show-room, secondo
un grado spesso crescente di espressività e di lavoro sul sovrasignificante sim-
bolico. Il risultato a livello estetico-ideologico è forse ancora più interessante di
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 29

quello delle architetture, perché più stratificato e complesso, privo di sottintesi


pedagogici e paternalistici, più schiettamente e provocatoriamente sconfinante
nel mito. Come ha scritto Manfredo Tafuri, il design olivettiano «punta al dia-
logo, attraverso l’immagine incorporata del prodotto, non a un pubblico e una
società reali, bensì con un’ipotesi metastorica di pubblico e di società. Il “clas-
sicismo del nuovo”, instaurato da Nizzoli con la Lexikon 80 (1948), la Lettera
22 (1950), la Divisumma (1956), la Summa Prima 20 (1960), non costituisce
un’immagine credibile del prodotto, bensì fa entrare in circolo un’immagine
significante del progetto politico-culturale complessivo che si innesta sull’ope-
razione di mercato»20. Per dirla con due formule care al pensiero dialettico, se
nelle architetture organiche si poteva effettivamente scorgere, adornianamente,
una «conciliazione sforzata»21, il lavoro collettivo olivettiano sull’immagine del
prodotto e sulla sua comunicazione ed esposizione pubblicitaria sembra spo-
starsi sulla dimensione utopica del sogno ad occhi aperti cara a Ernst Bloch,
producendo un valore aggiunto che tende a cancellare la distinzione tra merce
e opera d’arte e che reinventa la nozione di aura in un’inedita veste moderna.
Tafuri segnala una rottura tra l’equilibrio ottenuto da questa sintesi negli
anni Cinquanta e il successivo sviluppo della comunicazione dell’azienda,
sempre più sbilanciato verso il mercato. Ma in realtà il tema della grazia rivela
nell’immaginario olivettiano una grande continuità, in particolare tra il periodo
degli anni Venti-Trenta e quello tra i Sessanta e Settanta. Sintesi di funzione
e simbolo, tecnologia ed eleganza, precisione matematica e giocosità infan-
tile, le macchine Olivetti, da scrivere, da calcolo, elettroniche, informatiche,
sono mobili e portatili (invertono dunque il rapporto che incatena l’umano
alla macchina), hanno dimensioni ridotte, e sono quasi tutte battezzate con
nomi femminili. Nelle campagne pubblicitarie vengono spesso accompagnate
da simboli naturali (fiori, frutta e animali), collocate all’aria aperta o in luoghi
diversi dall’ufficio e associate a figure di giovani donne. Si trattava all’inizio
di segretarie e dattilografe, le utilizzatrici delle macchine, rappresentate in un
compromesso ambivalente, in cui il modello della donna emancipata che lavora
(estraneo alla cultura fascista) si fonde col cliché sessista di una femminilità
ancillare subordinata e oggetto di desiderio22. Ma già a partire da una famosa

20
Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985 cit., pp. 50-51; Paolo Fossati, Les
transformations de l’image du produit, «L’architecture d’aujourd’hui», 188, 1976, p. 50.
21
Scrive infatti Tafuri a proposito della fabbrica di Pozzuoli: «Nulla di quel dramma [le speranze
frustrate del proletariato raccontate da Ottieri in Donnarumma all’assalto] traspare però dalle terse
volumetrie di Luigi Cosenza, preoccupato di inserire nel golfo di Napoli la sua “fabbrica verde”, edi-
ficio che vuole apparire “antindustriale”, luogo di integrazione tra spazio del lavoro e spazio sociale.
La “grande casa” della catena di montaggio si articola colloquiando con il paesaggio, con la natura e
con laghetti sinuosamente disegnati: la catarsi disalienante si rivela fatto privato dell’architetto e delle
sue forme» (Storia dell’architettura italiana, 1944-1985 cit., p. 50).
22
Cfr. Caterina Cristina Fiorentino, Millesimo di millimetro. I segni del codice visivo Olivetti
1908-1978, il Mulino, Bologna 2014, pp. 241 sgg.
30 Barbara Carnevali

pubblicità di Xanti Schawinsky, nel 1935, comincia una progressiva emancipa-


zione del binomio macchina-fanciulla dall’ambiente di lavoro, e la figura femmi-
nile, sempre più sensuale, sempre più esplicitamente associata alla moda, allo svago,
alla seduzione e al consumo, si trasfigura in una specie di ninfa che si serve della
macchina da scrivere non come uno strumento produttivo ma come un acces-
sorio ornamentale o un giocattolo.
Di tutte le macchine Olivetti, la più perfetta icona di grazia, ormai più
postmoderna che modernista, sportiva e giovanile è stata certamente la Valen-
tine: non meraviglia riconoscerla in mano all’«esemplare più completo della
ninfa moderna», come Simone de Beauvoir definì Brigitte Bardot. In veste di
inedita borsetta, la macchina da scrivere che ricorda un giocattolo accompa-
gna per un giro in città la fanciulla sexy e anticonformista, che col suo corpo
flessuoso di ballerina ama passeggiare scalza, simbolo di una vita più libera e
naturale e della gioia di vivere.

Stati di grazia

Mancano ancora due elementi importanti per tracciare i lineamenti del mo-
dernismo italiano «gentile» che attraverso tracciati incompleti e intermittenti si
è snodato a lato della versione convenzionale del modernismo: la sua capacità
di relazionarsi con la storia, e non solo, come abbiamo visto, con la natura,
e la sua dimensione epifanico-trascendente, che allude a una dimensione ol-
treumana. Anche a questi temi ci introducono le opere di Persico: non solo i
suoi scritti critici ma, ancora più parlanti, gli allestimenti da lui progettati con
Nizzoli, che hanno fornito il più importante modello di riferimento per quel-
l’«arte dell’esporre» che, nel dopoguerra, si trovò investita di una vera e propria
missione etica e politica. Dai musei italiani distrutti dai bombardamenti doveva
infatti cominciare una nuova visione della storia dell’arte, più democratica, più
accessibile nelle forme e più attuale nei contenuti, capace in altre parole di ga-
rantire una mediazione nel rapporto tra modernità e memoria, ricostruzione
e conservazione, particolarmente cruciale per la cultura italiana23. Per quanto
provenienti da una disciplina, il design espositivo, considerata ancillare e mi-
nore, gli allestimenti museali dei BBPR, di Carlo Scarpa e di Franco Albini fi-

23
Cfr. Patricia Falguières, L’arte della mostra. Per un’altra genealogia del white cube, prefazione a
Philippe Duboÿ, Carlo Scarpa, l’arte di esporre, Johan & Levi editore, Monza 2016, pp. 13-50. Su Per-
sico e Scarpa, Orietta Lanzarini, Carlo Scarpa, l'architetto e le arti: Gli anni della Biennale di Venezia,
1948-1972, Marsilio, Venezia 2003. Sull’arte museale come capolavoro del dopoguerra, si veda anche
Manfredo Tafuri, in Storia dell’architettura italiana, 1944-1985 cit., pp. 64 sgg.; e, sul ruolo delle esibi-
zioni private nel mediare tra arte e design di interni, Imma Forino, Private Exhibitions: Galleries, Art
and Interior Design, 1920-1960, in G. Lees-Maffei, K. Fallan (a cura di), Made in Italy: Rethinking a
Century of Italian Design, Bloomsbury, London-New Delhi-New York-Sydney 2013, pp. 163-177.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 31

Pubblicità della prima portatile, la MP1, progettata da Riccardo Levi: inserzione pubblicitaria e affiche
disegnate da Xanti Schawinsky, 1935.

gurano tra i massimi capolavori dell’arte italiana del Novecento. Sono gli stessi
architetti che hanno concepito i più bei negozi Olivetti degli anni Cinquanta, e
nessuno di loro sarebbe pensabile senza il modello di Persico.
Lo stile espositivo di Persico-Nizzoli è contraddistinto da strutture
reticolari, razionali, nette e definite, ma al tempo stesso delicate e leggere;
gli spazi vuoti e la luce ne sono parte integrante, e dialogano con le opere
esposte, creando un effetto-cornice dotato di significatività propria. I pat-
tern sono geometrici e costruttivistici, razionali e rigorosi, memori delle
avanguardie, di Mondrian, del Bauhaus e De Stijl; ma la fragilità delle
strutture (che, non dimentichiamolo, sono allestimenti da «interni»), e la
loro tensione verticale sembra alludere a un oltre, a una provvisorietà,
al rispetto per qualcosa che trascende la finitezza delle opere esposte ma
anche dell’allestimento stesso. Razionalismo e sacro convivono: la dignità
dei valori umani è affermata nel rispetto di ciò che la sovrasta e supera,
comunicando un’idea di ragione dignitosa e modesta, decisamente anti-
tetica alla prepotenza fascista – come appare evidente nel monumento ai
caduti nei campi di concentramento dei BBPR (1946), che del linguaggio
di Persico è esplicitamente debitore.
Dall’eterea vetrina del negozio Parker approdiamo invece agli showroom
Olivetti, e in particolare a quello veneziano progettato da Scarpa, che, negli
anni Trenta, alle prese con i suoi primi progetti, aveva intrecciato con Persico
32 Barbara Carnevali

A sinistra: Pubblicità della Olivetti Studio 45 disegnata da Ettore Sottsass, di Henry Wolf, con Twiggy
(1969). A destra: Brigitte Bardot fotografata a Roma nel 1969 con una Olivetti Valentine.

un personale dialogo sul destino dell’architettura moderna nella città laguna-


re. Nel 1932 il critico di «La Casa Bella» aveva infatti recensito un progetto
di Scarpa-Deluigi lodando l’iniziativa di osare il nuovo a Venezia: «L’impor-
tanza del gusto moderno è stata avvertita a Venezia come un rinnovamento
della bellezza di questa città, per conservarne nel tempo l’idea di una sublime
eleganza […] un incitamento per tutti i veneziani a dare sempre nuove forme
e nuovi significati a quella tendenza che nella storia ha creato il fasto meravi-
glioso della Laguna»24. Alla fine degli anni Cinquanta, grazie alla collabora-
zione con Olivetti, lo spazio veneziano di piazza San Marco realizza il sogno
della Venezia moderna in un miracoloso equilibrio compositivo.

24
Edoardo Persico, Arredamento a Venezia (luglio 1932), in Id., Notizie dalla modernità. Tutte le
opere, vol. I, cit. Si veda anche Philippe Duboÿ, Carlo Scarpa, l’arte di esporre cit., pp. 64 e 93.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 33

Sopra: Marcello Nizzoli


ed Edoardo Persico, al-
lestimenti della Sala delle
Medaglie d’Oro all’espo-
sizione dell’Aeronautica
Italiana, V Triennale di
Milano, 1934. A sinistra:
BBPR, Monumento ai
caduti nei campi di con-
centramento in Germa-
nia, 1946, Milano Cimi-
tero Monumentale.

Dove la modernità futurista si scagliava con disprezzo contro la Venezia


«cloaca massima del passatismo» – manifesto ironico ma urlato –, invitan-
do i veneziani ad accogliere treni e tramvai sui canali finalmente colmati e a
sventrare il Canal Grande per far spazio a un grande porto, Scarpa interpreta
la modernità industriale in tono minore e in continuità con l’identità cosmo-
polita e mercantile della città. Quelle del negozio Olivetti sono solo alcune
34 Barbara Carnevali

tra le mille vetrine incastonate nel


tessuto urbano di Venezia, da cui
occhieggiano alcune delle tante
seduttive mercanzie approdate
sui banchi della laguna: tra sete
dell’India, spezie, pietre prezio-
se, vetri di Murano, si esibiscono
anche le macchine da scrivere e i
calcolatori meccanici provenienti
da Ivrea, gioielli della più avan-
zata tecnologia. Ognuno di que-
sti prodotti è una testimonianza
della forza creatrice e dell’inge-
gnosità della cultura umana, anzi,
delle culture umane (la capacità di
preservare la pluralità distingue la
ragione accogliente da quella co-
loniale), e il commercio che per-
mette loro di presentarsi fianco a
fianco è possibile grazie a un’isti-
Marcello Nizzoli ed Edoardo Persico, allesti-
tuzione-simbolo della modernità:
mento del negozio Parker, 1934, Milano.
il mercato. La Venezia che mette
in mostra Olivetti è dunque tanto
poco un mito romantico quanto lo è la natura da cui sbucherà Talponia: è una
città imprenditoriale, sede di scambi e mediazioni, epicentro del lusso e del
consumo capitalistici, sorella e antesignana di New York, sulla cui Quinta
Strada aveva aperto nel 1954 il primo e il più famoso dei negozi internazionali
Olivetti, progettato dai BBPR, che i giornali dell’epoca definirono il più bello
della città. E poiché Venezia è una città moderna nel senso pieno del termine,
non può venir corrotta o alienata dalle merci, come vorrebbe il cliché dell’an-
ticapitalismo romantico.
Lo stesso può dirsi dello stile che distingue le architetture del negozio,
delle sue merci e delle opere d’arte, accostate disinvoltamente alle mercanzie
senza soluzione di continuità. Sono forme razionali, ma delicate e fragili, che
inquadrano gli oggetti nella filigrana di strutture geometriche, per poi subli-
marle con effetti di luce. Il design di Scarpa, funzionale e razionale ma anche
altamente espressivo, non reprime la componente simbolica ma la fa quasi
sgorgare spontaneamente dalla morfologia e dalle qualità organolettiche dei
materiali: sembra che una natura generosa e amante del lusso abbia disposto le
tessere di pasta di vetro del mosaico come un delicato tappeto rosso e affastel-
lato ordinatamente la cascata di lastre di marmo perché facesse da scala. E tan-
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 35

Negozio Olivetti di Venezia, piazza San Marco, allestimento di Carlo Scarpa (1957-1958).

to le sculture artistiche quanto le sculture meccaniche si inseriscono in questo


grande discorso ornamentale. Pur parlando un idioma decisamente moderno,
questo stile non rompe violentemente con il passato – lo suggeriscono le im-
perfezioni delle cornici, le venature del legno o le asimmetrie dei materiali, che
ricordano l’arte giapponese –, ma sembra presentarsi allo spettatore come uno
dei tanti frutti della storia umana, quello temporalmente più vicino, il più al
passo coi tempi, che un giorno sarà a sua volta passato25. Anche per questo la
modernità di Scarpa riesce a convivere discretamente con la tradizione, senza
aver bisogno di insultarla e offenderla al modo dei futuristi, e ad incarnarsi in
un linguaggio formale realmente cosmopolita, infinitamente distante da quello
che pretende di definirsi come stile internazionale: come il divano di Goethe,
potremmo definirlo un modernismo occidentale-orientale, che accorda le dif-
ferenze culturali senza dissolverle in un’idea omologante di ragione.
Un equilibrio simile, benché ottenuto con materiali e soluzioni formali
specifiche, si ritrova nello showroom di Parigi concepito da Franco Albini e
Franca Helg e inaugurato negli stessi anni di quello di Scarpa. L’allestimento
del negozio crea un forte effetto atmosferico in cui elementi potenzialmente
in conflitto riescono a convivere armonicamente, trasmettendo una delica-

25
Sulla capacità della modernità olivettiana di farsi storia e passato, si veda Antonella Tarpino,
Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il mondo nuovo, Einaudi, Torino 2020.
36 Barbara Carnevali

Negozio Olivetti di Parigi, rue Saint’Honoré, allestimento di Franco Albini e Franca Helg, inaugu-
rato nel 1959.

tezza e un senso del limite che ha un valore etico e metafisico. Per descrivere
l’ambiance del negozio parigino possiamo lasciare la parola alla recensione di
Franco Fortini da «Notizie Olivetti»:

Albini ha interamente ricoperto soffitto e pareti del negozio di panno verde; di un


verde spento prossimo al grigio è la moquette che ricopre il pavimento. Dal soffitto su esili
fili metallici sono sospesi bianchi lampadari (di Venini) in forma di campanule. Le mac-
chine della nostra produzione poggiano, a diversi livelli, su ripiani triangolari (che spesso,
accostati, formano trapezi) sorretti da montanti di mogano, leggeri, elegantissimi. Questa
attrezzatura ha il pregio di consentire spostamenti e cambiamenti di effetti prospettici ed
espositivi. Tutto il negozio è visibile dall’esterno e costituisce una unica grande vetrina, tra
cui il visitatore può aggirarsi agevolmente. Pochi altri mobili, disegnati da Albini (tavoli in
ebano, divani e poltrone in velluto grigio), completano l’arredamento del negozio; dietro
il quale, divisi da pareti scorrevoli, sono vasti locali per il ricevimento dei clienti e le di-
mostrazioni. Ma l’ornamento veramente prezioso dei locali di esposizione è costituito dai
quadri, una piccola preziosa galleria che accanto ai nomi internazionali di Klee e di Chagall
offre ai visitatori alcuni squisiti campioni dell’arte contemporanea italiana: due bellissimi
Mafai (un paesaggio e una natura morta), un paesaggio toscano di Rosai, una preziosa
natura morta del Morandi, e una composizione con figure di Campigli26.

26
Cfr. Franco Fortini, Rue d’Anjou, foglio dattiloscritto conservato nell’Archivio Olivetti di
Ivrea (DCUS-sec versam (36) 917).
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 37

Come negli allestimenti di Persico-Nizzoli e nel negozio veneziano di


Scarpa, la forma espositiva inquadra e valorizza le opere, conferendo loro la
stessa aura – un’aura moderna: i quadri di Morandi, le Divisumma e le Let-
tera 22 di Nizzoli sono prodotti della creatività umana ugualmente preziosi,
e non c’è una differenza di principio tra strumenti tecnici e opere d’arte vere
e proprie, dal momento che tutte sono circondate dall’identico nimbo27. Allo
stesso tempo, al di sopra di loro, si apre un orizzonte ulteriore evocato dalle
luci sospese e dalle aste e dai tiranti verticali, che puntano in alto come scale
verso il cielo. Albini è stato per molti versi l’allievo più fedele all’eredità di
Persico, come dimostrano le architetture aeree e a mezz’aria che caratteriz-
zano il suo stile – da lui stesso definito all’insegna della «leggerezza» e del
vuoto, e battezzato dalla critica una «modernità sospesa»28.
In questa atmosfera rarefatta – che ricorda quella del più sacro e metafisico
allestimento di Albini, il tesoro di San Lorenzo a Genova (1956) – si esprime
con intensità e modestia il messaggio dell’altro modernismo: esso mira a di-
stinguersi dall’arroganza del funzionalismo fondato sulla sottomissione del
mondo all’utile e al primato dell’interesse umano per aprirsi all’esperienza
dell’oltre e della relazione, sotto l’egida della grazia.
E questa resta una delle più preziose eredità dell’ideale estetico-politico
dell’altro modernismo: progettare degli strumenti umani, sia nel senso di cose
fatte dall’uomo per l’uomo, sia nel senso di cose gentili, come quando si dice
umano qualcosa di discreto e delicato, che rispetta e asseconda il nostro modo
di essere. L’idea di grazia moderna guarda al futuro e alla bellezza del nuovo,
cercando tuttavia di conciliarlo senza traumi con l’ambiente e con la tradizio-
ne. In una prospettiva ancora più ampia, ambisce a trascendere l’antropocen-
trismo per concepire un insieme di rapporti armonici che pongano l’umano
in risonanza con la natura e con tutto ciò che non è umano29.

27
Sottolineando la preziosità delle «vere» opere d’arte, Fortini non sembra cogliere fino in fondo
l’audacia della proposta di Albini e dello spirito olivettiano.
28
Albini aveva partecipato all’esposizione dell’Aeronautica con un allestimento che dialogava in
modo esplicito con la Sala delle Medaglie d’Oro di Persico. Sulla leggerezza e la sospensione come
chiavi dello stile di Albini, si vedano: Zero Gravity. Franco Albini, costruire le modernità, a cura di
Federico Bucci e Fulvio Irace, Electa, Milano 2006; Kay Bea Jones, Suspending Modernity: The Archi-
tecture of Franco Albini, Ashgate, New York 2014. Si veda anche I musei e gli allestimenti di Franco
Albini, a cura di Federico Bucci e Augusto Rossari, Electa, Milano 2005
29
Desidero ringraziare Daniele Balicco, Imma Forino e Alberto Saibene per le critiche e i sug-
gerimenti.
René Capovin

Questioni di spazio.
Olivetti attraverso Sloterdijk

Adriano Olivetti «troppo avanti» rispetto al suo tempo? Olivetti solo


oggi davvero «contemporaneo»? Contro l’olivettitudine, spesso sindrome da
affetto1 ma a volte maschera di superficialità se non di ipocrisia postuma2,
vorrei partire mettendo nel giusto risalto la rappresentatività storica di un
preciso modello imprenditoriale e culturale, per poi passare a ragionare sulla
sua attualità, spesso considerata evidente ma in realtà ben lontana dall’esserlo.
L’analisi si concentrerà su una dimensione, quella dello spazio, centrale
sia per l’evoluzione della fabbrica-Olivetti che per la proposta politica e cul-
turale. Olivetti, infatti, significa Ivrea città-fabbrica e, al contempo, una pro-
spettiva autenticamente globale, attestata dal viaggio di formazione negli Stati
Uniti e dal successivo orizzonte entro cui saranno pensati processi, prodotti
e vendite. Ma Olivetti rimanda anche all’ordine territoriale delle comunità e
al relativo distanziamento dal modello politico, e quindi spaziale, dello Stato
moderno. Infine, Olivetti è il simbolo di una continua mobilitazione del co-
dice dell’urbanistica e dell’architettura per dare corpo ai progetti imprendito-
riali, politici e culturali.
Questioni di spazio, quindi, che saranno prima schizzate e poi riconside-
rate utilizzando come punto di osservazione il pensiero di Peter Sloterdijk,
con particolare riferimento alle riflessioni su architettura e politica contenute
nell’ultima parte della sua trilogia Sfere. Queste spunti serviranno a delineare
un attraversamento del Novecento e una concezione della contemporaneità
da cui la sintesi olivettiana dovrebbe apparire meno familiare – anche meno
italiana, quindi – e più profondamente problematica.
Il tutto nell’idea che continuare a lasciare l’Olivetti sul palco dell’uto-
pia buona per tutta le stagioni (magari non in questo Paese) e puntualmen-
te approvata all’unanimità retroattiva sia poco rispettoso e, soprattutto,
inutile.

1
Il riferimento è a Marco Peroni, Ivrea. Guida alla città di Adriano Olivetti, Roma/Ivrea, Comu-
nità Editrice, 2016. Un libro curato, coinvolto, coinvolgente, bello.
2
I riferimenti sono troppi: giornali, riviste, interviste, si ha a volte l’impressione che tutti siano
con Olivetti, oggi uniti contro la solita, incorreggibile Italia.

L’ospite ingrato ns 6
40 René Capovin

Il tempo e gli spazi di Adriano Olivetti

Olivetti è una figura altamente rappresentativa del proprio tempo anzitut-


to nell’ambito che più ne segna l’identità personale e pubblica, cioè la sfera
economico-imprenditoriale.
Già negli anni Venti il giovane Olivetti va negli Stati Uniti, cioè nel Paese
di riferimento nel campo dell’organizzazione industriale, e delinea a partire
da un modello «di là» già attivo un vasto programma di progetti e innova-
zioni per modernizzare l’attività della fabbrica di famiglia. La nuova orga-
nizzazione farà in effetti subito aumentare, anche «di qua», la produttività
della fabbrica e le vendite dei prodotti. La vera trasformazione della Olivetti
si avrà dopo la guerra, ma sempre secondo le parole d’ordine («tecnica ed
organizzazione») apprese in America. In breve, quello che Adriano Olivetti,
almeno inizialmente, delinea è un modello imprenditoriale più up-to-date che
originale.
Dove più emerge la specificità dell’impronta di Olivetti è nel rappor-
to tra la fabbrica e il suo «fuori». Come noto, il baricentro ideale della
fabbrica olivettiana è fuori dalla fabbrica, nel territorio di una comunità
culturalmente omogenea e radicata: «La mobilitazione industrialista che
anche Adriano Olivetti vuole attuare si compie per lui sul territorio e
non entro il perimetro delle strutture produttive. Egli è convinto che l’e-
spansione economica si possa governare soltanto a condizione di pilotar-
la entro ambiti territoriali circoscritti – le comunità, appunto –, dove la
produzione industriale può essere incorporata in una cornice di relazioni
sociali differenziate»3.
Condizione necessaria (anche se non sufficiente) di un fruttuoso rapporto
fabbrica-ambiente è che la fabbrica apporti ricchezza materiale. Questo, come
ripeterà lo stesso Olivetti nella campagna elettorale del 1958, è il grande inse-
gnamento del processo economico operato negli Stati Uniti nella sua seconda
rivoluzione industriale incentrata sulla produzione e sul consumo di massa.
La simbiosi sistema produttivo-territorio è il fondamento materiale di
quella concezione che vede nelle «comunità» le unità di base di un nuovo
ordine politico. Si tratta di una visione radicale, che entra in contraddizione
tanto con i principi filosofici del pensiero politico moderno, quanto con la
loro incarnazione nella forma-Stato. È quindi filologicamente corretto, ma

3
Giuseppe Berta, L’Italia delle fabbriche: genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Nove-
cento, il Mulino, Bologna 2001, p. 107. Continua Berta: «L’ambito territoriale può così contenere l’ur-
to della trasformazione di fabbrica neutralizzandone le tensioni più acute e riassorbendo la sua carica
di mutamento, che può fare defluire in una pluralità di funzioni. È il principio col quale il Movimento
Comunità amministra i comuni del Canavese negli anni Cinquanta, mantenendo in equilibrio il cen-
tro industriale di Ivrea con un retroterra agricolo fondamentalmente povero, in modo che fra di essi
si instauri un flusso positivo» (ibid.).
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk 41

concettualmente fuorviante, dire che l’ordine politico delle comunità neghi


la storia risorgimentale4. L’attacco è portato inevitabilmente non soltanto allo
specifico e notoriamente travagliato diventare-Stato dell’Italia, ma al modo
con cui per secoli è stata pensata e realizzata l’Unità politica a partire dalla
moltitudine impolitica degli individui. Il tessuto delle comunità non va pen-
sato, quindi, come una sorta di integrazione partecipativa degli usuali mec-
canismi di rappresentanza politica, quanto come l’annuncio della loro pro-
gressiva destituzione. Anche contro la normalizzazione in chiave partitica,
operata dallo stesso Olivetti, dei principi espressi nella sua principale opera
politica, le comunità non vanno pensate come un ulteriore livello ammini-
strativo o deliberativo, ma come l’unico organismo in grado di esprimere una
volontà politica autentica e responsabile, cioè in grado di commisurarsi con
le esigenze della realtà economica e sociale.
Parallelamente, ma inseparabilmente dai successi imprenditoriali e dai tra-
vagli politici, corre la progettazione di piani urbanistici (Ivrea città-fabbrica,
piano regolatore della Valle d’Aosta, l’impegno per la Matera post-Sassi) e
di spazi architettonici (edifici industriali, uffici, case per dipendenti, mense,
asili). Le stesse tipologie e caratteristiche architettoniche degli edifici rispon-
dono, in maniera più o meno riuscita o esplicita, all’intenzione dichiarata del
committente di delineare una sintesi sostenibile (come diremmo oggi) tra in-
dustrializzazione e vita delle comunità.
Forse la costruzione dello stabilimento di Pozzuoli segna il punto più
avanzato, e quindi solitario, di questa ricerca di mediazione tra esigenze pro-
duttive, concezione politica e codice architettonico. Richiamiamo per esem-
pio le parole del romanzo-diario Donnarumma all’assalto di Ottiero Ottieri,
addetto alla selezione del personale nello stabilimento campano: «Quando il
presidente di questa società metalmeccanica [Adriano Olivetti] scese all’inau-
gurazione dello stabilimento di Santa Maria […] disse con la sua voce fredda
e rapida: “Così, di fronte al golfo più singolare del mondo, questa fabbrica si
è elevata, nell’idea dell’architetto, in rispetto alla bellezza dei luoghi e affin-
ché la bellezza fosse di conforto nel lavoro di ogni giorno […]. La fabbrica
fu quindi concepita sulla misura dell’uomo, perché questi trovasse nel suo
ordinato posto di lavoro uno strumento di riscatto e non un congegno di
sofferenza”»5.
I piani su cui si muovono l’evoluzione imprenditoriale, l’azione politica e
le proposte urbanistiche e architettoniche di Olivetti non hanno mai trova-
to una sintesi stabile; per alcuni versi, nemmeno nel Canavese. L’improvvisa

4
Sergio Ristuccia, La lezione politica di Adriano Olivetti. Conversazioni su Costruire le istitu-
zioni della democrazia di Sergio Ristuccia, Fondazione Adriano Olivetti – Collana Intangibili, vol. 9,
Roma 2009, pp. 72-73.
5
Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, Bompiani, Milano 1963, pp. 116-117.
42 René Capovin

morte di Olivetti interrompe una ricerca ricchissima, ma già segnata da alcuni


chiari scacchi.
Come valutare questo esperimento? Molto dipende dalla scelta dei termi-
ni di paragone, e qui, come anticipato, la proposta è di leggere la parabola di
Olivetti alla luce delle riflessioni di Peter Sloterdijk su alcuni capitoli-chiave
della storia politica e culturale del Novecento.

L’ordine delle schiume

Contro l’idea che la globalizzazione sia un processo di fine Novecento,


Sloterdijk propone un vasto periplo storico-concettuale in cui sono rico-
struite semantica e storia del «mondo come sfera». In estrema sintesi, la glo-
balizzazione viene fatta risalire all’origine stessa della modernità, in quan-
to somma di rivoluzione copernicana, navigazioni transoceaniche e rete di
commerci e assicurazioni estese su scala, appunto, globale: «è grazie a cir-
cumnavigatori, cartografi, geografi, marinai, commercianti, conquistatori e
missionari che il globo terrestre, in quanto nuova immagine della Terra,
diventa l’icona della visione del mondo dell’età moderna»6. L’enfasi posta
in anni recenti sul processo di «globalizzazione» indicherebbe, quindi, solo
la fine dell’agonia di una concezione tolemaica del mondo che gli europei
continentali hanno mantenuto per secoli contro ogni evidenza cosmologica,
politica ed economica7.
Il volume finale della trilogia dedicata all’articolazione di questa idea si in-
titola Schiume8. Con «schiuma» Sloterdijk indica la consistenza e la struttura
assunta dalla realtà sociale dopo secoli di globalizzazione. Bolle di schiuma,
ecco la forma assunta dalla presenza umana sul globo – non già membri di
«comunità» o «società», ma nemmeno nodi di una «rete», pur mondiale, o
flusso rizomatico. Rispetto a questi termini, «schiuma» presenta la specificità
di indicare l’esistenza di un ordine seriale coeso, ma non strutturato gerar-
chicamente e fatto di moduli individuali. Con «schiuma», infatti, Sloterdijk
non intende semplicemente staccarsi da immagini ancora legate a «centri» o
«vertici»: il tratto distintivo di questa metafora è il riferimento a una serialità
fatta di «spazi interni». La schiuma indica anzitutto una modalità di insedia-
mento, costituito da una pluralità di bolle a misura di individuo. Le pareti
delle bolle sono al contempo protezione (verso l’interno) e mezzo di comu-

6
Peter Sloterdijk, Die letze Kugel. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrichen Globali-
sierung, in Id., Sphären II. Globen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001; trad. it. L’ultima sfera. Breve
storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2005, p. 17.
7
Ivi, p. 26.
8
Peter Sloterdijk, Sphären III. Schäume, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2004; trad. it. Sfere III.
Schiume, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015.
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk 43

nicazione (verso l’esterno). In un senso, gli individui moderni abitano spazi


modulari che li immunizzano dall’ambiente circostante, svolgendo la stessa
funzione protettiva assicurata in passato da famiglia, comunità, impresa, clas-
se o altri collettivi: «lo scandalo del modello abitativo moderno dipende dal
fatto che esso risponde anzitutto ai bisogni d’isolamento e di relazione per
quegli individui flessibili e per i loro compagni di vita che non cercano più il
loro optimum immunitario nei collettivi immaginari e reali o nelle globalità
cosmiche»9. D’altro canto, ogni individuo nella bolla è sottratto a una deriva
autistica dal fatto che ciascuno possiede almeno una parete divisoria in comu-
ne con la cellula confinante. L’ordine della schiuma assicura quindi, al con-
tempo, chiusura in interni protettivi e apertura mediata verso l’esterno – una
sorta di ibrido autistico-cooperativo.
Queste riflessioni sono nutrite da un sistematico confronto con la storia
dell’architettura, soprattutto del XX secolo, attraversata selezionando autori e
forme a partire dalla tesi secondo cui sarebbe all’opera una generale containe-
rizzazione del vivere, un progressivo farsi-bolla-di-schiuma delle forme umane
di abitazione, lavoro e svago. Significativamente, Sloterdijk definisce l’architet-
tura della modernità come «il medium nel quale si esprime progressivamente
l’esplicitazione del soggiorno umano in intérieurs fatti dall’uomo»10. Proprio la
mobilitazione moderna di persone e beni su scala globale ha reso obsoleta l’au-
tocomprensione dell’uomo come abitante su terre natali, patrie e regioni: «fu
necessario che si stabilissero le condizioni moderne di trasporto perché nell’am-
bito dell’architettura, della tecnica dei trasporti e dell’esistenza apparissero del-
le alternative all’habitus postneolitico dell’abitare»11. L’appartamento è l’alleato
principale di questo trend generale, in quanto vettore di una «schiumizzazione
discreta della “società” in conglomerati egosferici di cellule»12. L’appartamento
è la forma egosferica elementare che, ripetuta, genera le schiume popolate da
individuali, trovando nella «macchina abitativa» di Le Corbusier una formula
che sarà poi resa più letterale dai suoi molti epigoni.
Questa tendenza viene ricostruita individuando due grandi opzioni alter-
native, una storica e una concettuale. Anzitutto, i totalitarismi del XX secolo
vengono concepiti come reazioni su vasta scala a questa disarticolazione di
ogni appartenenza in spazi immunitari individuali – reazioni che trovano il
loro simbolo in quei «grandi collettori» (gli stadi, le piazze etc.) chiamati a
mobilizzare masse attorno al fantasma di un «centro» politico. In questo sen-
so, il nazismo costituisce una forma recente (ma non l’ultima, né la prima) di
politica centrata sulla massa – il vero termine contrario rispetto a «schiuma».

9
Ivi, p. 509.
10
Ivi, p. 478.
11
Ivi, pp. 480-481.
12
Ivi, p. 598.
44 René Capovin

L’irruzione della massa nella storia, che Sloterdijk significativamente data al


tempo della Rivoluzione Francese, indica infatti il ricorrente tentativo di sov-
vertire la tendenza alla costituzione di «bolle» individuali comunicanti (le
«schiume»): se il modulo-base della schiuma è l’appartamento, quello della
massa è lo stadio (Sloterdijk dedica ampio spazio all’analisi dei Grandi Col-
lettori costruiti per le Olimpiadi di Berlino del 1936 e per le celebrazioni del
Reich svoltesi a Norimberga, tra il 1933 e il 1938)13.
La seconda opzione alternativa rispetto alla grande narrazione schiumo-
centrica è costituita dalla retorica prevalente in fatto di descrizione degli spa-
zi urbani contemporanei: il bersaglio sono le molte teorie fondate su quelle
che Sloterdijk qualifica come semplici finzioni – «città virtuale», «territorio
on-line», «City of Bits», «Cyberville», o altre metafore della disincarnazio-
ne. Tutte queste formule convergono nel non mettere a fuoco la realtà della
macro-schiuma urbana, senza peraltro aggiungere nulla al grande pensiero
utopico del Novecento, culminato nel progetto Neo-Babylon di Constant.
In quest’ultimo, invece, Sloterdijk vede la prefigurazione di spazi vitali che,
pur prescindendo dal principio di realtà costituito dal lavoro e dall’energia
necessari al loro funzionamento, davano corpo all’immaginario radicale della
Sinistra degli anni Cinquanta e Sessanta, finendo poi per essere vissuti dav-
vero da una parte, pur piccola, di cittadini contemporanei del Primo Mondo.
Lo sganciamento dalla superficie terrestre, tipico di Constant, nel senso della
costruzione di spazi pensili per la condivisione di atmosfere da parte di disoc-
cupati nomadi e felici, è diventata la sperimentazione di macro-serre in grado
di internalizzare interi paesaggi o biotopi. La bolla, da individuale, si fa qui
ambientale e si configura come traduzione della realtà esterna in allestimen-
ti interiori, sulla base di una tendenza verso l’artificializzazione radicale del
mondo umano14.

Tra Norimberga e Neo-Babylon

Per fare giustizia al livello di elaborazione e proposta di Olivetti non oc-


corre presupporre che la ricostruzione offerta da Sloterdijk sia vera: possia-
mo anche prenderla come una narrazione parziale, tendenziosa, disordinata
o apologetica, a patto di riconoscere in essa il rimando a processi reali della

13
La versione domesticata di questa esigenza assembleare è costituita dai convegni e dai relativi
spazi, una dimensione poco studiata, ma per Sloterdijk paradigmatica del «fare-società» contempo-
raneo.
14
Di tutto questo, il lavoro di Sloterdijk è non di rado un’apologia. Per una critica di questo im-
maginario, cfr. Pier Paolo Poggio, Tecnica e natura: contro il destino della crisi, in Massimo Cappitti,
Mario Pezzella e Pier Paolo Poggio, L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. VI:
Alle frontiere del capitale, Jaca Book-Fondazione Micheletti, Milano 2018.
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk 45

storia del Novecento – quegli stessi processi che rendono sensata e rilevante
l’azione di Olivetti.
In particolare, Olivetti e Sloterdijk condividono un medesimo assunto
di base: entrambi si collocano in una fase storica inedita, segnata dall’uscita,
per larghe fette dell’umanità, dall’età della Scarsità. Per questo la comunità
politica olivettiana non può essere pensata separatamente dallo sviluppo eco-
nomico del territorio e va vista non già come forma politica astrattamente
«giusta», ma come un luogo di mediazione concreto all’altezza di una società
del benessere. La penuria è alle spalle e là va lasciata; si tratta di capire come.
Il fordismo è un modo. Come detto, le fabbriche americane visitate da
Adriano Olivetti nel 1925-1926 sono il modello di quell’organizzazione
scientifica del lavoro subito importata nelle fabbriche di Ivrea.
Il fordismo è un modo, ma non è l’unico. Sempre nel 1926 viene messo
in carcere Antonio Gramsci, il futuro autore di: Americanismo e fordismo,
scritti dedicati ai modelli non socialisti di modernizzazione – in primis l’ame-
ricanismo, appunto, ma anche il fascismo e l’«economia nuova» di Rathenau.
Gli spazi politici e architettonici riconducibili all’attività di Olivetti pos-
sono essere pensati come risposte, insieme non individualistiche e non stata-
listiche, a uno sviluppo industriale che crea, oltre al necessario comfort, anche
abbrutimento, disuguaglianze e isolamento.
La sfida è ovviamente altissima e, giudicato a posteriori, il dispiegamento
di forze coordinato da Olivetti appare insieme grandioso e disarmante. Gran-
dioso perché Cappellaro, Ferrarotti, Figini, Fortini, Perotto… Una specie di
Grande Torino della modernizzazione pensata e, almeno in parte, realizzata.
Disarmante perché è sufficiente considerare le resistenze passive e le guerre
dichiarate di cui tale modello fu oggetto, in un Paese come l’Italia (centro del-
la periferia), per intuire l’ampiezza e la profondità delle forze effettivamente
necessarie, a voler radicare davvero un modello di sviluppo alternativo anche
solo nel Canavese. Figuriamoci a Matera15.
Le «schiume» descritte da Sloterdijk delineano una risposta pertinen-
te e radicale ad almeno due dei problemi affrontati da Olivetti nella sua
ricerca di un passaggio attraverso la società dell’abbondanza: individuali-
smo ed esternalizzazione dei residui. La struttura delle «bolle», infatti, è
l’inverso tanto della costituzione politica delle comunità, quanto di ogni
ricerca di equilibrio architettonico e urbanistico tra produzione, vita so-
ciale e territorio.
Anzitutto, le «bolle» sono habitat per individui: non sono una soluzione
per «collettivi», perché per Sloterdijk i collettivi, nei vari sensi di «comuni-
tà», «società», «classe» o «massa», non esistono, se non come fiction gestita

15
Si legga Francesco Paolo Francione, La voce di Matera. Storia da La Martella, Fondazione
Adriano Olivetti, Roma 2018 (ringrazio del suggerimento Marco Peroni).
46 René Capovin

da un’élite autoritaria. D’altro canto, pensare a un individuo autarchico nel-


la società del XX secolo sarebbe anche per Sloterdijk una robinsonata, ed
infatti le bolle si danno solo al plurale: l’ordine delle schiume è costituito da
una serie di bolle che stanno insieme, questo il punto cruciale, senza alcun
ordinamento o anche solo magnetismo propriamente politico. La connes-
sione tra le bolle è fabbricata direttamente a livello economico, burocratico
o tecnico. Il rapporto con l’alterità viene fornito sotto forma di servizio
«tutto incluso».
L’altro grande problema affrontato da Olivetti è di tipo (diremmo oggi)
ecologico. C’è la fabbrica, con i suoi «resti» (l’irriducibile quanto di tristez-
za operaia, i limiti necessari alla condivisione di scelte e profitti…), ma so-
prattutto c’è tutto quello che è «là fuori». La razionalità imprenditoriale ha
confini indubitabili, siano essi circoscrivibili ai muri della fabbrica o ai limiti
segnati dalla circolazione del capitale. Ma che farne, dell’esterno? Che farne,
del famoso territorio, con il suo carico di rifiuti materiali e umani? Qualcuno
o qualcosa, cogitano Adriano e i suoi, dovrà pure farsene carico.
La risposta fornita dalla schiuma è chiara e classica: «Nessuno». Nessuno
si deve far carico di qualcosa che, a ben guardare, non c’è. Il rapporto con l’e-
sterno non fa più problema, se l’interno si emancipa dall’ambiente per librarsi
nell’aria (Neo-Babylon) o per fiorire nel deserto (da Las Vegas a Dubai).

Conclusione

Se il percorso di Olivetti è avvenuto sotto il segno della visione, in senso


politico e progettuale, l’evoluzione ricostruita da Sloterdijk pare dominata
dalla cecità: le bolle sono cosmi chiusi, e le schiume non danno su alcunché –
niente finestre e nemmeno specchi, al limite schermi.
Il «giro lungo» compiuto attraverso la riflessione di Sloterdijk vorrebbe
contribuire a de-familiarizzare l’eredità di Olivetti, togliendola dalla lista del-
le occasioni mancate italiane per collocarla al centro delle contraddizioni del
XX secolo.
Carlo Tombola

Dalla fabbrica alla Comunità.


Brevi note sull’organizzazione dello spazio
sociale in Adriano Olivetti

Adriano Olivetti arriva abbastanza rapidamente, e coerentemente, a occu-


parsi di organizzazione del territorio e di urbanistica, cioè nella prima metà
degli anni Trenta, quindi – è nato nel 1901 – poco più che trentenne. Matura
questo interesse, apparentemente divergente rispetto ai compiti già assunti
nell’azienda fondata dal padre Camillo – la Ing. C. Olivetti & C. (ICO), la
«prima fabbrica nazionale macchine per scrivere» –, perché gli è chiaro il col-
legamento funzionale tra organizzazione del lavoro e organizzazione dello
spazio circostante, attorno alla fabbrica. Il passaggio successivo, l’organiz-
zazione dello spazio sociale e politico, sarà conseguente e assorbirà il meglio
delle sue energie fisiche e intellettuali negli anni Quaranta, sotto l’impellenza
del tempo di guerra e poi della ricostruzione postbellica.
Organizzare il lavoro, sia quello manuale di fabbrica che quello intellet-
tuale, ha rappresentato in realtà l’attività predominante di tutta la sua inten-
sa vita, durante la quale è sempre riuscito a radunare intorno a sé e ai suoi
progetti il meglio delle energie disponibili, seguendo strategie eclettiche ma
sempre secondo un disegno esplicito e un metodo razionale. Alla costruzione
di questo savoir faire hanno contribuito molti fattori, a partire dall’ambiente
famigliare e dalla forte figura del padre Camillo, ingegnere e geniale inventore
d’officina, nonché esponente di primo piano del socialismo piemontese. E poi
gli studi, dalla scuola parentale nell’infanzia all’istruzione tecnico-matemati-
ca (a Cuneo e a Milano, durante la Grande Guerra), quindi al Politecnico di
Torino, frequentato tra 1919 e 1924, prima iscritto a ingegneria meccanica ma
finendo laureato in chimica industriale.

La lezione americana

Il tema dell’organizzazione, strettamente connesso – come vedremo – a


quello del lavoro di fabbrica, è stato centrale nel viaggio di studio negli Stati
Uniti, che Adriano Olivetti intraprende tra agosto 1925 e gennaio 1926. Tra
New York e Detroit, visita ben 105 fabbriche (in 165 giorni!) e fa esperienza
diretta del più tumultuoso sviluppo capitalistico dell’epoca e del suo spazio

L’ospite ingrato ns 6
48 Carlo Tombola

d’elezione, la grande città metropolitana. L’esperienza gli serve a fondare


scientificamente un metodo di lavoro – sopralluoghi accuratamente preparati
in biblioteca, appunti e relazioni delle visite, successiva rimeditazione su testi
specifici – e insieme il suo personale progetto.
La più rilevante tra queste visite è allo stabilimento Ford di Highland
Park. In alcuni brani delle lettere scritte al padre, Adriano chiarisce che «il se-
greto non stava negli uomini, […] ma stava nella struttura della organizzazio-
ne e nel rigore dei metodi», e che l’officina «è un miracolo di organizzazione,
perché tutto marcia senza burocrazia… tutto corre e opera continuamente…
tutto è raggiunto con la enorme specializzazione operativa… tutto ordinato,
pulito, chiaro».1 Non riesce a incontrare Henry Ford, però gli attribuisce con
sicurezza il merito di aver lanciato una seconda rivoluzione industriale e di
avervi dato un determinante impulso nel 1914, con la decisione di pagare ai
propri operai un salario doppio rispetto a quello mediamente praticato allora.
Oggi il $5 Day – cinque dollari per otto ore giornaliere, invece di 2,35 per le
consuete nove ore – potrebbe essere considerato l’atto di nascita del consu-
mismo di massa, ma in realtà Ford aveva dovuto ricorrere alla leva salariale
per stabilizzare la forza lavoro in fabbrica, e mitigare l’effetto repulsivo e
disumanizzante della catena di montaggio: alla loro introduzione a Highland
Park, i nuovi metodi scientifici avevano causato le dimissioni in massa degli
operai, con alti costi per ricercare e addestrare i rimpiazzi.2
Quando il giovane Olivetti introduce nel montaggio delle macchine per
scrivere la razionalità dei «tempi e metodi» tayloristi, cioè il «cronometrista»
e l’«allenatore», lo fa distanziandosi dal modello di Henry Ford. Se, grazie
agli alti salari, il sistema fordista riesce a trattenere in fabbrica la quota in-
dispensabile di sapere operaio, in definitiva – anche in coerenza col sistema
tecnico del lavoro parcellizzato – punta però a inquadrare una manodopera
zelante e autodisciplinata, anzi irreggimentata e ricattata proprio grazie all’al-
ta retribuzione, secondo la visione paternalistica di Henry Ford e della sua
American way.3
Viceversa, Adriano ha avuto brevi ma formative esperienze nella reda-
zione dell’«Azione Riformista», la rivista di socialismo moderato finanziata

1
Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2013.
2
In un solo anno, il 1913, per riempire 14.000 posti di lavoro Ford aveva dovuto assumere 52.000
persone.
3
In realtà l’aumento si otteneva solo dopo sei mesi di lavoro, e doveva essere confermato da uno
speciale comitato (l’Organizzazione sociale Ford) che compiva visite ispettive a casa del lavoratore.
Il quale doveva dimostrarsi parsimonioso e sobrio, mostrare una casa ordinata e pulita, sposarsi (se
aveva meno di 22 anni) e, se sposato, impedire alla moglie di lavorare fuori casa, doveva mandare i figli
a scuola e, se straniero, parlare inglese. Da notare che, nella logica fordiana, l’efficacia stabilizzante
e professionalizzante di una paga alta si ha non in assoluto (cioè elargendo un «salario dignitoso»),
ma relativamente al livello salariale praticato dalle altre aziende: efficacia che non possono avere gli
aumenti contrattuali generalizzati del salario minimo, validi per tutte le aziende.
Dalla fabbrica alla Comunità 49

dal padre durante il «biennio rosso»; si avvicina all’ambiente intellettuale in-


fluenzato da Piero Gobetti; è testimone diretto dell’occupazione delle fabbri-
che torinesi nel settembre 1920. Di ritorno dall’America, comincia a pensare
sì a una società organizzata secondo criteri tecnici, ma nella quale i lavoratori,
il lavoro, siano anche «risarciti» della durezza della condizione di fabbrica,
peraltro personalmente provata nel breve apprendistato giovanile in officina4.

Tra metropoli e «piccole patrie»

Olivetti è sempre restato estraneo alle ideologie anti-operaie e al paterna-


lismo poliziesco di Henry Ford; semmai, tra le figure dei «capitani d’indu-
stria» prende a modello Walther Rathenau, di cui negli anni Quaranta penserà
di pubblicare l’opera omnia5. Nel suo personale «operaismo» ha contato il
profondo legame con Ivrea, città di piccole dimensioni al centro di un’area,
il Canavese, che ha conservato sin quasi ai nostri giorni un profilo socio-cul-
turale omogeneo e mantenuto i valori del mondo contadino e della tradizione
artigianale. Tutt’altro clima rispetto alle aree conurbate dei Grandi Laghi, di
Chicago, di New York, terreno, dalla fine dell’Ottocento alla prima metà del
Novecento, di un duro conflitto di classe e luogo della speranza di grandi
masse di lavoratori immigrati.
Nella città moderna, nella metropoli, Adriano Olivetti non si trova a suo
agio. Certo, è stato attratto dalle grandi città, mete di numerosi viaggi e brevi
soggiorni, però in definitiva ha trascorso quasi tutta la sua vita privata a Ivrea,
abitando per lo più nei pressi della fabbrica e in case unifamiliari, non molto
dissimili dal ciabòt in cui era nato, in un ambiente allo stesso tempo riservato
e confortevole. Fanno eccezione gli anni tra 1931 e 1934, quando si trasferisce
a Milano per assecondare il desiderio della prima moglie, Paola Levi. Torine-
se, figlia del noto patologo Giuseppe Levi, sorella di Natalia Levi Ginzburg
e di Gino Levi Martinoli – direttore tecnico aziendale all’ICO e principale
collaboratore di Adriano – nonché frequentatrice – tra gli altri – di Felice
Casorati e Giacomo Debenedetti e in seguito, dopo il divorzio nel 1938, com-
pagna di Carlo Levi e di Mario Tobino, Paola è insofferente dell’ambiente

4
«Una tortura per lo spirito, stavo imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel
buio di una vecchia officina» (in un manoscritto, indicato da Valerio Ochetto come una prima stesura
inutilizzata per Appunti per la storia di una fabbrica, in «Il ponte», agosto-settembre 1949). Dal suo
apprendistato, trasse la convinzione che «occorre capire il nero di un lunedì nella vita di un operaio,
altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa fanno gli
altri» (ibid.).
5
Adriano Olivetti raccolse nella sua biblioteca tutta l’opera in tedesco di Wather Rathenau, e in
particolare affidò a Franco Momigliano la traduzione di Von kommenden Dingen (1917), poi mai
pubblicata.
50 Carlo Tombola

provinciale eporediese, e a Milano anima un salotto in cui Adriano incontrerà


per la prima volta i coetanei architetti del Gruppo 7, in particolare Luigi Figi-
ni e Gino Pollini, e i più giovani architetti dello studio BBPR.
L’azienda ha già edificato nel 1926 un piccolo villaggio per dipendenti, le
sei villette unifamiliari con giardino del cosiddetto Borgo Olivetti. Lo stabi-
limento originario – i «Mattoni Rossi» – è invece ancora lo stesso costruito
nel 1896. Divenuto direttore generale (1932) e prossimo ad assumere la carica
di presidente della società (Camillo verrà «discriminato» dalle leggi razziali
del 1938), Adriano comincia a progettare un vero e proprio piano di amplia-
mento dello stabilimento, realizzato poi in quattro successive tappe da Figini
e Pollini tra il 1934 e il 19576.
Per la sua stessa concezione, la cosiddetta «fabbrica di vetro», che si deli-
nea a poco a poco, non ha nulla di comparabile alle cittadelle industriali otto-
novecentesche (di cui sono esempi, in Italia, Crespi d’Adda, Nuova Schio,
Torviscosa): non è uno spazio a sé, autonomo, né è progettato in blocco, si
vuole invece inserire con gradualità tra gli elementi già presenti (precedenti
costruzioni, viabilità, conformazione del terreno, coltivi ecc.). Non a caso
Figini e Pollini, che operano programmaticamente nel solco di Le Corbu-
sier, disegnano prismi in cemento armato e vetro e superfici specchianti, che
all’esterno riflettono il paesaggio e aprono al contempo gli spazi interni al
paesaggio: soluzioni non solo metaforiche, per una fabbrica che si apre verso
l’ambiente e la società circostanti, verso cui ha obblighi e responsabilità.

Dall’architettura all’urbanistica

Nella successiva progettazione urbana, questa responsabilità si trasforma


in piano urbanistico di Ivrea. Il nuovo quartiere operaio in zona Castella-
monte (1934, L. Figini, G. Pollini; poi nel dopoguerra anche Marcello Nizzo-
li e Gian Mario Olivieri), con il rifiuto della città-giardino e il disegno di edi-
fici geometrici inseriti nella natura senza mimetizzarsi, prefigura un moderno
piano regolatore della città: un tessuto socialmente misto – impianti sportivi,
la via Castellamonte divisa in tre carreggiate a circolazione separata (automo-
bilistica, ciclistica, pedonale). Al progetto potrebbe venire associato anche Le
Corbusier, che però ambisce a disegnare una città industriale ex novo, stronca
i disegni di Figini e Pollini («mi ricorda Sabaudia», «è una graziosa passeggia-
ta architettonica») e si autopropone come supervisore. Risultato: il progetto
si farà senza l’archistar, poiché l’investimento sarebbe stato fuori dalla portata

6
L’intero complesso delle Officine Olivetti ICO – restaurato tra il 2004 e il 2009 – è stato inserito
nel 2018 nella lista dei siti protetti dall’UNESCO quali patrimonio dell’umanità, insieme a una vasta
area di 71 ettari complessivi che oggi costituisce «Ivrea, città industriale del XX secolo».
Dalla fabbrica alla Comunità 51

anche di un industriale come Olivetti. Inoltre, avrebbe contrastato con i pic-


coli passi e il processo progressivo già avviato, che si irradiava dalla fabbrica:
centro di formazione aziendale, mensa aziendale, biblioteca, infermeria, asilo
nido, servizio bus scontato per i dipendenti, colonie marine e montane, con-
valescenziario. Tra la dimensione strettamente aziendale e quella cittadina,
inoltre, cominciò a operare la SACEPO, la cooperativa edilizia per il per-
sonale Olivetti, che praticava mutui a tasso dimezzato, da cui uscirono circa
trecento progetti sotto la supervisione di Emilio Tarpino.
Il «Piano regolatore della città di Ivrea» viene pubblicato su «Casabella»
nel maggio 1936 (n° 101). Applica il concetto di «città funzionale», anche se
declinato nella forma della «città corporativa», per essere accolto nella visione
dell’urbanistica fascista. Del resto, l’apparato concettuale dell’architettura mo-
dernista anni Trenta si colloca perfettamente nella cornice della «pianificazio-
ne» – dell’economia, del territorio, della demografia, della cultura… –, comu-
ne tanto all’Unione Sovietica, quanto agli Stati Uniti del New Deal e all’Italia
di Mussolini, dove rimarrà però soprattutto il campo dei «fascisti di sinistra».
Adriano Olivetti vi si avvicina anche attraverso la collaborazione a «L’orga-
nizzazione scientifica del lavoro», organo dell’Ente nazionale per l’organizza-
zione del lavoro (ENIOS) di Gino Olivetti7, ente a cui propone di aprire una
divisione urbanistica e un’università per formare dirigenti industriali.
Coerente con la visione funzionale del piano della città, Olivetti mette
contemporaneamente al lavoro una consistente équipe per realizzare il pia-
no regolatore della Val d’Aosta, regione a cui Ivrea era allora annessa. Ne
parla già nel 1935, quindi incarica Renato Zveteremich e Italo Lauro, en-
trambi triestini, di raccogliere attorno al progetto il gruppo degli architetti,
quasi tutti razionalisti milanesi e per la prima volta non tutti già cooptati in
azienda: oltre a Figini e Pollini, infatti, troviamo i BBPR, Nizzoli e Piero
Bottoni. L’équipe, in cui sono presenti anche ingegneri e tecnici, avvia sul
terreno un’approfondita inchiesta sul terreno di stampo sociologico, vertente
in particolare sullo sviluppo turistico. Il piano viene presentato a Roma nel
luglio 1937, nella galleria della Confederazione fascista artisti e professioni-
sti di piazza Colonna, ma nonostante i buoni uffici di Giuseppe Bottai non
riceve l’approvazione di Mussolini, e non verrà mai messo in atto. Riscuote
invece un largo consenso a Ivrea, Aosta, Torino e Parigi (Expo del 1937), e
sarà pubblicato in volume nel 19438. Sarà realizzato negli anni successivi solo
in minima parte, con finanziamento diretto di Olivetti, come il quartiere di
Canton Vesco, edificato tra il ’43 e il ’67.

7
Di famiglia eporediese ma non imparentato con Camillo e Adriano, Gino Olivetti fu massone,
deputato liberale e fondatore della Confindustria, di cui guidò l’allineamento al fascismo. Estromesso
alla nascita delle corporazioni, fuggì all’estero in seguito alle leggi razziali.
8
Studi e proposte preliminari per il piano regolatore della Valle d’Aosta, 1943.
52 Carlo Tombola

Il progetto complessivo di Comunità

Il sostanziale fallimento del piano della Val d’Aosta è un punto di svolta.


L’azione urbanistica, di per sé tanto tecnica quanto politica, mira a realizzare
un ordine generale attorno a cui organizzare le funzioni che si svolgono sul
territorio e nella società: è un passaggio quasi naturale all’invenzione di una
nuova architettura sociale. Nel ’37 Adriano Olivetti constata che da sola la
tecnica, sebbene integrata e anzi aggiornata da un moderno umanesimo e ani-
mata da spirito sociale, non basta a riformare il territorio e a razionalizzarne
le funzioni: diviene decisivo il rapporto con il potere politico. Constata anche
che il fascismo ha in mente ben altra relazione con il territorio, sul quale
per inciso si fonda lo strapotere della rendita fondiaria ed edilizia, e ben al-
tra monumentalità che quella à la Corbu. Inoltre, il piano della Val d’Aosta
preconizzava un’autonomia regionale del tutto incompatibile con lo Stato
centralizzato fascista, e guardava esplicitamente all’esperienza di pianifica-
zione regionale e pluralista di Roosevelt e della Tennessee Valley Authority
di George Norris. Nella corrispondenza di quel periodo, Adriano e Camillo
parlano già di welfare!
La guerra, Auschwitz e Hiroshima si incaricheranno di cancellare ogni re-
sidua illusione circa una Tecnica al servizio dello Stato, ma la cultura politica
occidentale avrà bisogno di parecchi anni per trarne le conseguenze e porre i
primi fondamenti di un discorso critico intorno al rapporto Tecnica-Potere.
Ora, le urgenze della ricostruzione post-bellica e la nascita dell’Italia repub-
blicana portano Adriano Olivetti ad accelerare il suo attivismo sul piano delle
istituzioni e del personale politico, snodo che si era rivelato assai problematico
al momento di fare avanzare le sue proposte urbanistiche. Su questi nodi aveva
già preso forma a partire dal 1942 il Memorandum sullo Stato Federale delle
Comunità in Italia, poi completato nell’esilio svizzero e pubblicato col titolo
L’ordine politico delle Comunità nel settembre 1945. Sottoposto alla discussio-
ne con interlocutori quali Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e soprattutto Luigi
Einaudi, il testo sviluppa il progetto di Stato federale e di una struttura ammi-
nistrativa in cui, abolite le obsolete province e soprattutto il ruolo del prefetto
come rappresentante locale del governo, il nuovo ente della «Comunità» si col-
lochi, per dimensione e funzioni, tra Comune e Regione. Si è notato che le cri-
tiche di Einaudi sono state più nette proprio sul ruolo che nel progetto olivet-
tiano aveva la pianificazione in economia, e di conseguenza nell’organizzazione
ordinata del territorio; nonché su aspetti «morali» apparentemente secondari,
quali l’ereditarietà dei pacchetti azionari e del potere aziendale, in realtà cruciali
per garantire rinnovamento e mobilità delle classi dirigenti.
I temi sollevati da L’ordine politico delle Comunità sono di tale rilevanza
da meritare grande attenzione ancora oggi, a settantacinque anni dalla loro
pubblicazione: valga per tutti il caso assai emblematico dei poteri, delle com-
Dalla fabbrica alla Comunità 53

petenze e dell’autonomia delle Regioni. Ma, per rimanere al tema dell’orga-


nizzazione del territorio, il testo contiene un punto molto importante, in-
serito nella prima sezione intitolata «Di una società fondata sull’idea di una
comunità concreta», che riportiamo integralmente:

10. La Comunità facilita i compiti dell’urbanistica moderna


Le comunità tendono a far cadere la distinzione tra città e campagna, assegnando ad
un’unica amministrazione centri urbani e vasti territori agricoli in modo da rendere possibile:
a) una simbiosi tra economia agricola ed economia industriale;
b) nelle zone agricole, un processo graduale di organizzazione di vita moderna a
contatto con la natura;
c) la trasformazione delle grandi città alveolari in organismi urbani in cui la natura
riprenda il suo grande posto e l’uomo abbia fuori del lavoro e nel lavoro il sentimento di
una vita più armonica e più completa (la formazione di grani oasi educative, ricreative,
culturali in tutti i quartieri della grande città);
d) l’estensione ai villaggi isolati delle provvidenze igieniche, culturali e ricreative,
privilegio dei centri più importanti, e loro generale perfezionamento.
Questo è il grande compito dell’urbanistica moderna. Senza un’adeguata trasforma-
zione politica ed amministrativa una simile realizzazione è impossibile9.

Al punto successivo, sotto il poco rassicurante titolo (Le grandi città


saranno trasformate e non distrutte), si coglie lo sforzo di sciogliere quella
diffidenza verso la metropoli a cui abbiamo già accennato, e anche il ten-
tativo di combattere il retaggio della propaganda ruralista del fascismo e la
sua battaglia contro la «tabe urbana», indicando nelle Comunità, in cui verrà
smembrato il comune di grandi dimensioni e forte densità demografica, i soli
organismi collettivi a cui compete il «perfezionamento» urbanistico.

Da occasione perduta a opportunità

Per realizzare il programma dell’Ordine politico si dimette dall’azienda e si


trasferisce per un anno a Roma, dove fonda riviste e una casa editrice, aderisce
a un partito, poi a un altro… È un tentativo che rimane infruttuoso, anche se
contribuisce in parte al dibattito sul decentramento politico-amministrativo e
all’inserimento in Costituzione dell’istituto regionale. Quando ritorna a Ivrea,
è per riprendere la guida dell’azienda e farla diventare – negli ultimi quindici
operosissimi anni della sua vita – una multinazionale con 45.000 dipendenti e
fabbriche in Europa, Stati Uniti e America del Sud, la prima ad avere introdotto
la settimana lavorativa di cinque giorni, l’unica a concentrarsi più sugli uomini
che sui numeri, sul capitale umano, sulla ricerca e la sperimentazione.

9
Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2014,
pp. 38-39.
54 Carlo Tombola

Dall’esperienza romana, però, è diventato chiaro che non bastano né un


buon programma politico, né l’azione coordinata di un gruppo di tecnici
engagés per rompere la continuità delle classi dirigenti precedenti. Adriano
Olivetti ha visto registrarsi sotto i propri occhi, nel passaggio dittatura-
repubblica, ciò che si è ripetuto e si ripeterà in altre occasioni «storiche»
(cioè simboliche) della vicenda italiana, a partire dall’Unità nazionale e fino
ai giorni nostri: momenti in cui si è aperto uno spiraglio realmente riformi-
stico all’iniziativa di leader e gruppi organizzati e alla formazione di un più
aggiornato e lungimirante personale politico, poi rapidamente chiuso – an-
che con il ricorso alla violenza di massa – da «ritorni all’ordine» imposti da
interessi di classe retrivi e da diversificate coalizioni conservatrici.
A partire da questo momento, Olivetti è costretto alla «via lunga», alla
speranza che un reale cambiamento possa venire attraverso un lento pro-
cesso educativo e l’apertura dell’orizzonte culturale degli italiani al di là del
provincialismo nazionale. Votato per temperamento all’azione e per metodo
all’organizzazione, rimarrà impegnato in molteplici campi, a cominciare dalla
presenza politica diretta sotto l’insegna del Movimento Comunità (sindaco
di Ivrea nel 1956, parlamentare per un anno dal ’58), oltre che in molteplici
attività «pre-politiche», innanzi tutto editoriali.
In azienda, contando sul carisma e sul suo «dirigismo estetico» (G. Pam-
paloni), guida i suoi valenti e flessibili progettisti, integrati da scrittori, so-
ciologi, filosofi, psicologi ecc., verso compiti che servono sì lo «sviluppo ne-
ocapitalistico» ma approdano anche ad altre linee portanti della riflessione
culturale novecentesca, cioè al rapporto tra Tecnica e Arte e in genere tra
Tecnica e scienze umane: nella grafica, nel design, nelle tecniche pubblicitarie,
nell’architettura industriale.
In quest’ultimo campo, il lascito di Olivetti non si limiterà a exempla, a
manufatti significativi, quasi modelli da riprendere e moltiplicare in un avve-
nire che potrebbe pur sempre realizzarsi.

Il lascito urbanistico di Olivetti

Tutta la sua promozione architettonica va intesa come appartenente a un


unicum coerente, a un solo «progetto di società» moderna e luminosa, quel-
la di Comunità, appunto. Dobbiamo però isolare due «opere» fondamentali
specifiche del piano urbanistico.
Innanzi tutto, i dodici anni di attività al vertice dell’INU, l’Istituto Na-
zionale di Urbanistica: dal 1948 nel direttivo e poi presidente dal 1950, con
Bruno Zevi quale segretario generale. In questa veste contribuisce alla rina-
scita della rivista «Urbanistica», ed è protagonista di primo piano dei con-
Dalla fabbrica alla Comunità 55

gressi annuali – in particolare quello di Venezia nell’ottobre 1952, in cui si


afferma il primato politico dell’urbanistica sulle altre discipline, e quello
di Roma nel 1960, in cui verrà presentato il Codice dell’urbanistica, che
simbolicamente chiude la ricostruzione italiana. Ma Olivetti non è solo il
testimonial prestigioso di una disciplina che si dà in quegli anni uno statuto
professionale, poiché aspira soprattutto a indicare ai decisori pubblici le
soluzioni per un’organizzazione del territorio più lungimirante e razionale
e a fornire loro gli strumenti anche pratici per la realizzazione di questi fini.
Così si batte per la creazione dell’ufficio studi INU, che si pone al servizio
dei ministeri, e localmente promuove il Gruppo Tecnico per il Coordina-
mento Urbanistico del Canavese (GTCUC), in cui replica il metodo già
applicato al piano regolatore della Val d’Aosta (inchiesta sociologica sul
territorio, incontri con la popolazione), in un approccio democratico che
sembra essere oggi ancora vivo grazie alla «scuola territorialista» di Alberto
Magnaghi.
Seconda grande operazione è la ristrutturazione di un borgo contadino
presso Matera, in località La Martella, in un’area depressa del Mezzogiorno
che dal romanzo di Carlo Levi ha assunto il valore emblematico della re-
sistenza del mondo contadino alla modernità. Olivetti coglie la sfida, a cui
comincia a pensare nel 1950 e che si concluderà quattro anni più tardi, con la
consegna a trecento famiglie materane di un quartiere alla cui progettazione
partecipano collaboratori fidati (Ludovico Quaroni), architetti locali (come
Ettore Stella), specialisti dell’edilizia pubblica (Michele Valori, Mario Ridolfi)
e giovani promettenti (Mario Fiorentino, Federico Gorio, Pier Maria Luglio)
in seguito inclusi nella corrente del Neorealismo architettonico. A precisare
la personale visione meridionalista, vi sarà poi la decisione di costruire uno
stabilimento Olivetti a Pozzuoli, inaugurato nel 1955 su progetto di Luigi
Cosenza e integrato dal quartiere INA per i dipendenti Olivetti10.
Un terzo pilastro del pensiero urbanistico di Adriano Olivetti è rimasto
sulla carta, e avrebbe finalmente sancito la collaborazione con Le Corbusier,
mancata venticinque anni prima. Si tratta della «città elettronica» che dove-
va sorgere nell’area milanese, a Pregnana di Rho, per ospitare il Centro di
Ricerca e Sviluppo degli elaboratori elettronici e il polo tecnologico che do-
veva guidare lo sviluppo dell’era informatica. Le Corbusier ha disegnato un
complesso avveniristico di edifici e giardini pensili armoniosamente inserito
e collegato agli svincoli autostradali.

10
Il sito dello stabilimento Olivetti di Pozzuoli è entrato nel Patrimonio UNESCO dal 2018.
56 Carlo Tombola

Conclusione

Sin dai suoi esordi, quella di Adriano Olivetti appare come un’avventura
essenzialmente elitaria, di cui peraltro – lo testimonia la sua biografia – il pro-
tagonista ha avuto piena coscienza. Del resto, fu liquidata già nella sua epoca
in quanto elitaria nonché tecnocratica, ed è stata pressoché cancellata dalla
memoria collettiva contemporanea, nonostante l’appassionata esegesi che ne
hanno fatto i suoi prestigiosi co-protagonisti (per ultimo Luciano Gallino).
Oggi, più che tentare un (impossibile?) recupero dei suggerimenti, delle
soluzioni, delle visioni olivettiane, ci rimane il compito di una storiografia
«civile» che esamini più da vicino l’azione delle forze avverse, dei nemici giu-
rati e dei falsi alleati che – per calcolo o per mancanza di generosità politica
– hanno affossato o sterilizzato l’entusiasmante processo avviato da questo
rinnovatore del panorama politico-culturale dell’Italia novecentesca, da inse-
rire a pieno titolo in un pantheon della nostrana Modernità, insieme a figure
come Enrico Mattei, Raffaele Mattioli, Giangiacomo Feltrinelli.
Tommaso Morawski

Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane»

Emilio Garroni (1925-2005) è stato uno dei più importanti e originali in-
terpreti dell’estetica italiana del secolo scorso1. Figura di intellettuale com-
plessa e sfaccettata, fin dal principio il suo percorso di ricerca è costellato
di incursioni nei più svariati ambiti della cultura. Ne è prova il fatto che tra
gli anni Cinquanta e Sessanta, ancor prima di conseguire la libera docenza
in estetica, Garroni inizia a lavorare per la RAI, collaborando in qualità di
esperto alla realizzazione di numerose rubriche culturali.
La RAI di quegli anni è un laboratorio di idee molto più vivo e ricco di
quanto non sia oggi, ma quello della televisione è un ambiente a cui il giovane
Garroni sente di non appartenere completamente. Del resto, è entrato a farne
parte più per spirito di «sopravvivenza»2 che per una reale vocazione. Eppure,
il lavoro per il servizio pubblico, oltre a garantirgli una certa stabilità economi-
ca in un’età in cui la laurea in filosofia lasciava pochi sbocchi professionali, si
rivela un’esperienza stimolante sotto diversi profili. Gli consente, anzitutto, di
lavorare con una certa autonomia alle sue prime pubblicazioni – si tratta per lo
più di brevi saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte uscite su riviste
specializzate, settimanali e quotidiani – e di preparare la sua prima monografia,
La crisi semantica delle arti, che licenzierà nel 1964. Ragionando sulla crisi dei
linguaggi artistici contemporanei, cioè sulla loro perdita di «significatività»3,
che Garroni in quegli anni interpreta come il sintomo di una problematica più
complessa che culmina nel malcostume e nella «pura e semplice perdita di inte-
resse» per le «cose culturali»4, la televisione si rivela allora una buona occasione
– dirà anni dopo anticipando il titolo di uno sei suoi ultimi libri, L’arte e l’altro
dall’arte5 – anche per «parlare d’arte senza parlare d’arte». Parlare di ciò che

1
Per un inquadramento dell’opera di Emilio Garroni nel contesto dell’estetica italiana del seco-
lo scorso cfr. Paolo D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 229 sgg.
2
Cfr. Emilio Garroni, Doriano Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni As-
sociate, Roma 2005, p. 2.
3
Cfr. Emilio Garroni, L’informale e la crisi semantica delle arti, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1962, p. 10.
4
Emilio Garroni, Semiotica ed estetica. L’eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematogra-
fico, Laterza, Bari 1968, p. V.
5
Interrogato da Doriano Fasoli sulla scelta di questo titolo, Garroni commenta: «Il titolo da me
scelto vuole mettere in evidenza che l’arte e la stessa estetica richiedono uno sguardo diverso, volto

L’ospite ingrato ns 6
58 Tommaso Morawski

nell’arte non è propriamente arte aiuta a richiamare l’attenzione del pubblico


televisivo sulla singola opera, intesa non più come un oggetto di consumo gra-
tuito, o come un mero «elemento di curiosità turistica», ma come un «elemen-
to di civiltà»: cioè come una «cosa che ha relazioni molteplici con altre cose,
persone, avvenimenti»6. Infine, l’esperienza televisiva gli permette di conoscere
e intervistare alcune delle personalità più importanti del panorama culturale
dell’epoca. Tra i personaggi che si occupano di «altro», cioè quelli che non sono
direttamente assimilabili al variegato mondo dei linguaggi artistici contempo-
ranei, spicca per importanza il nome di Adriano Olivetti (1901-1960), che il
giovane Garroni intervista per la serie Ritratti contemporanei nel febbraio del
1960, pochi giorni prima della sua improvvisa scomparsa7.
Per quanto breve e condensato, il materiale di questa intervista costitui-
sce una risorsa documentale di particolare valore. Non solo perché si tratta
dell’ultima intervista pubblica rilasciata da Adriano Olivetti, che ci viene mo-
strato – come fosse «la Lollobrigida»8, dirò alla moglie – nei diversi ambien-
ti del suo regno: Ivrea. Ma anche perché – ed è questa l’ipotesi di lavoro che
vorremmo esplorare – durante la sua passeggiata per la città in compagnia di
Olivetti, Garroni solleva alcune questioni che rimarranno aperte durante tutto
il suo percorso di ricerca, degne di essere ripensate e capite a partire da quel
«problema critico del senso»9, che è il vero nodo attorno a cui si articola la
riflessione filosofica garroniana. Adriano Olivetti, del resto, è un personaggio
sui generis, «industriale, uomo di cultura, scrittore, politico, ideologo e soprat-
tutto suscitatore di una infinità di attività ardite e intelligenti»10; il tentativo di
tratteggiarne il ritratto risulta dunque per il giovane filosofo una sfida per nulla
banale. Convinto che «il mezzo televisivo debba stare a disposizione del mez-
zo verbale» e che le migliori interviste siano quelle in cui «una persona […] ha
da dire qualcosa»11, Garroni sceglie di concentrarsi sull’«umanità» di Olivetti,
privilegiando – sia nei dialoghi, sia nella parte commentata – quegli aspetti della
sua attività che meglio evidenziano «la sua capacità umana di comprendere, il
suo realismo unito ad un’inguaribile inclinazione fantastica»12.

nello stesso tempo a ciò che nell’arte non è propriamente arte e a ciò che nell’estetica non riguarda
solo l’arte» (E. Garroni, D. Fasoli, Il mestiere di capire cit., p. 55).
6
Luisella Bolla, Flaminia Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino 1994, pp.
272-273.
7
Il documentario curato da Emilio Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti, Rai, 1961,
per la regia di Giorgio Moser, è visibile sul sito delle «Teche Rai» al seguente link: http://www.teche.
rai.it/2020/02/ritratti-contemporanei-1961-adriano-olivetti/. Ultimo accesso 27/10/2020.
8
Valerio Ochetto, Adriano Olivetti: la biografia, Edizioni di Comunità, e-pub, p. 426.
9
Emilio Garroni, Senso e non-senso, in Id., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda
Edizioni, Castrovillari 1994, p. 53.
10
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
11
L. Bolla, F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV cit., p. 274.
12
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 59

1.

Al pari di ogni altra figura – leggiamo in Immagine, linguaggio, figura,


un libro che ha molti punti di contatto con le tesi che Garroni espone in La
crisi semantica delle arti13 –, dalla più «banale immagine pubblicitaria» alla
«presenza fuggevole e impositiva di una piatta immagine televisiva», anche
il ritratto di Adriano Olivetti richiede un laborioso e complesso «processo
di riduzione ed esteriorizzazione», e deve quindi passare «attraverso un fil-
tro» che selezioni «tratti e caratteri storicamente e culturalmente motivati».
Infatti, è la scelta e l’uso che si fa di questo filtro che, a parità di costituzione,
segna la differenza, nella cosiddetta «civiltà dell’immagine», tra un «vivere
ottuso, abbandonato ai piccoli affari quotidiani e un vivere attento, pensante
e comprendente»14.
Ben consapevole delle difficoltà che lo attendono e del rapporto strettissimo
che lega l’attività di Olivetti al proprio territorio, Garroni decide di iniziare la
sua messa in figura dell’industriale piemontese facendo un giro per la città:

Non avevo mai visto Ivrea, me la immaginavo però come una tipica città industriale:
pensavo che il suo ritmo di vita, il suo volto, il modo di camminare e di muoversi dei suoi
abitanti si conformasse al ritmo imposto dalle sue industrie. E invece più mi guardavo
intorno e più mi si faceva netta, precisa, l’impressione di essere capitato in una bella pic-
cola città fuori del mondo: i muri vecchi, le strade strette e silenziose, gli abitanti gentili
e riservati, insomma come se Ivrea non fosse stata toccata dalla civiltà industriale15.

Ciò che fin da subito colpisce l’attenzione del giovane intervistatore è il


contrasto tra la vocazione industriale di Ivrea e la sua «bellezza»: come se il
profilo della città e il ritmo di vita dei suoi abitanti non fossero stati toccati
da quella concezione del vivere, «attivistica e dinamicista»16, che è tipica della
civiltà dei consumi e che il più delle volte si traduce in un «tipo di fruizio-
ne sensualistica e culturalmente inerte»17. Ma cosa ci racconta questo primo
sguardo sulla città della personalità di Adriano Olivetti? Suggerisce, anzi-
tutto, di guardare alle «preoccupazioni estetiche» dell’ingegnere: «uno degli
esponenti più simpatici del capitalismo industriale illuminato e progressista»,
che ha fatto del matrimonio tra efficienza e design, cultura e progetto, un mo-
dello pedagogico e industriale riconoscibile in tutto il mondo. Infatti, come
spiega lo stesso Garroni, l’espansione internazionale dell’azienda piemontese

13
Cfr. E. Garroni, D. Fasoli, Il mestiere di capire cit., p. 1.
14
Emilio Garroni, Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 116.
15
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
16
E. Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma 1964, p. 38.
17
Emilio Garroni, Risposta a 4 domande sulle problematiche artistiche di gruppo, in «Arte oggi»,
luglio-settembre, 5, 1963, p. 30.
60 Tommaso Morawski

– da Tokyo a New York, da Nairobi a Parigi, da Los Angeles a Buenos Aires


e Chicago – è stata sempre contraddistinta da «quei caratteri inconfondibili di
bellezza ed eleganza» che potremmo «definire addirittura olivettiani»18. Tra i
vari temi discussi durante l’intervista, sono due in particolare le questioni che
meritano la nostra attenzione, e sono entrambe legate al rapporto tra bellezza
e arti applicate. La prima trae spunto dagli importanti risultati ottenuti dalla
Olivetti nel campo del design industriale e, soprattutto, dagli sforzi del suo
presidente, Adriano, «per far sì che il prodotto industriale, nato come qual-
cosa di semplicemente utile, diventasse anche qualcosa di bello». La seconda
questione riguarda, invece, il ruolo dell’architettura in quanto «arte impegna-
ta». Quindi, la sua «funzione civile», il suo significato pratico per «gli uomini
che la adoperano e la abitano»19.
Nel complesso, si tratta, come detto, di problemi e domande che eccedono la
realizzazione di questo documentario e sui quali Garroni tornerà a riflettere lun-
go tutto il suo percorso di ricerca. Il motivo, lo spiega egli stesso nel testo di una
conferenza in cui ripercorre la propria biografia intellettuale. Lo scopo di chi si
occupa di filosofia, dice, è la «comprensione», e non esiste, non può esistere, una
«comprensione critica che non esiga sempre di nuovo una ricomprensione»20.
In via d’iperbole, e usando le sue stesse parole, potremmo dire che per seguire
il percorso di un autore come Garroni «si può partire da occasioni quali che
siano e ripensare problemi necessari-universali che eccedono quelle occasioni
al loro stesso interno». Ciò che conta infatti, non è la soppressione del carattere
contingente di una data questione, «ma il suo risalimento in vista di un’autentica
comprensione»21. Ora, stando così le cose, vediamo che anche se si tratta solo
di un prodotto realizzato per la televisione e di un personaggio che non viene
mai citato nei suoi scritti, l’incontro con Adriano Olivetti può essere a ragione
considerato un momento «esemplare», non di una «semplice cronaca culturale»,
ma di quella «storia interna di problemi, ancora aperti e sui quali conviene an-
cora riflettere»22, che è stato il percorso di ricerca di Emilio Garroni. Seguendo
questa ipotesi di lavoro e servendoci del documentario come principale punto
d’osservazione, proveremo a ricostruire alcune tappe di questa storia, cercando
di rintracciare come i temi legati alle «bellezze olivettiane» si siano via via in-
trecciati alla riflessione filosofica garroniana, contribuendo a mettere in chiaro
da «altre» angolature il senso della sua tesi più nota e impegnativa: che l’estetica
non è una speciale disciplina filosofica, per esempio una teoria dell’arte o una
scienza del bello, ma piuttosto un «uso critico del pensiero» che ha trovato in

18
E. Garroni, Ritratti contemporanei Adriano Olivetti cit.
19
Ivi.
20
E. Garroni, Dalla semiotica all'estetica, in Id., Osservazioni sul mentire e altre conferenze cit, p. 43.
21
Emilio Garroni, Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986, p. IX.
22
E. Garroni, Dalla semiotica all’estetica cit., p. 43.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 61

ciò chiamiamo «arte» un referente storico esemplare per risalire e indagare le


condizioni di possibilità dell’esperienza in genere.

2.

Nel 1957 l’Illinois Institute of Technology premiò una delle macchine da


scrivere Olivetti, la famosa Lettera 22 progettata da Marcello Nizzoli, come
uno dei i più bei prodotti di design realizzati nell’ultimo secolo. La stessa mac-
china da scrivere che si trova oggi nella collezione permanente del MoMa di
New York, che nel 1952 aveva ospitato la mostra Olivetti: Design in Industry.
Insomma, dai più importanti musei agli istituti di tecnologia più all’avanguar-
dia, negli anni Cinquanta e Sessanta tutti sottolineavano il valore estetico del-
l’«idioma Olivetti»23. Garroni nel documentario riassume così il punto:

ci sembra ancora più importante, per capire la personalità di Olivetti, sottolineare i


suoi sforzi per far sì che il prodotto industriale, nato come qualcosa di semplicemente
utile, diventasse anche qualcosa di bello. Bellezza e utilità non sono sempre andate d’ac-
cordo, ma questo è appunto lo sforzo della civiltà industriale più illuminata: far sì che
bello e utile vadano d’accordo. Queste macchine complicate che escono dalla fabbrica
entreranno nelle nostre case e dovranno portare una nota di bellezza. Anche in questo
campo Adriano Olivetti può vantare in Italia un suo primato. Il tema della bellezza, sia
nel campo dell’industria, sia in quello dell’architettura, dell’urbanistica è sempre stato
al centro delle sue preoccupazioni. La bellezza, mi ha detto, è un momento essenziale
dello spirito: senza la bellezza, l’esperienza della bellezza, un uomo non sarebbe com-
pleto. Ora, anche una macchina da scrivere può essere bella. Questa è stata inclusa da un
istituto tecnologico americano tra i cento prodotti industriali esteticamente più validi.

La definizione estetica del prodotto industriale è una problematica relativa-


mente giovane nella storia della filosofia24, riflesso di una rivoluzione insieme
tecnologica, economica e sociale, che ha contribuito a ridefinire le coordinate
del rapporto tra arte e industria, forma e funzione, bellezza e utilità. Garroni
non prende direttamente parte a questa dibattito, che in Italia si sviluppa so-
prattutto a partire dagli anni Cinquanta25, né si occupa mai esclusivamente di

23
La formula «idioma Olivetti» è stata usata per la prima volta nel catalogo-bollettino della mostra
Olivetti: Design in Industry per indicare un nuovo modo di «organizzare tutti gli aspetti visivi dell’in-
dustria sotto un unico ed elevato standard di gusto» (Olivetti: Design in Industry, «The Museum of
Modern Art Bulletin», 20, 1, Autumn, 1952, p. 5). Per uno studio più approfondito del linguaggio visivo
olivettiano, cfr. Caterina Toschi, L’idioma Olivetti 1952-1979, Quodlibet, Macerata 2018.
24
Cfr. Tonino Griffero, Design, teoria del, in Paolo D’Angelo, Gianni Carchia (a cura di), Dizio-
nario di Estetica, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 80-82.
25
In Italia, fu soprattutto il I Congresso Internazionale dell’Industrial Design alla Triennale di
Milano del 1954 – a cui presero parte Giulio Carlo Argan, Enzo Paci, Gillo Dorfles e Luciano Ance-
schi, per citare alcuni nomi – l’evento che portò «simbolicamente alla luce il design nella sua doppia
62 Tommaso Morawski

prodotti industriali o di teoria del design. Eppure possiamo trovare indizi di


una sua apertura ai nuovi problemi posti dal disegno industriale già a partire
dal suo primo libro, La crisi semantica delle arti. Qui, evidenziando la vocazio-
ne «artigianale» della maggior parte della produzione artistica novecentesca, e
recuperando l’intera estensione semantica della coppia concettuale ars/techne,
Garroni propone una nozione plurale e al tempo stesso sinottica delle arti, inte-
se come l’«insieme delle tecniche (e dei prodotti che ne conseguono), mediante
i quali l’uomo si rende culturalmente visibile sul mondo»26. Una definizione
formale e allargata che porta a includere sotto la categoria estetica di arti «anche
quei più modesti prodotti che una volta sarebbero caduti sotto categorie affatto
diverse (fino al limite del non artistico, come nel caso dei manufatti primitivi e
preistorici o dei prodotti dell’industrial design)»27.
L’analogia tra i manufatti primitivi e i prodotti del design industriale ci
può aiutare a seguire l’evolversi di una questione che attraversa tutto il pen-
siero di Garroni e che ha nella nozione di «creatività» uno dei suoi principali
punti d’approdo. Questo perché in entrambi i casi – e su questo punto svolge
un ruolo chiave l’interpretazione della Critica della facoltà di giudizio kantia-
na – ad essere chiamato in causa è quel «principio soggettivo ed estetico» che
è «responsabile della creatività umana». Ovvero: quella capacità di distanzia-
mento dagli scopi immediati che accumuna, pur nella loro diversità empirica,
l’attività pratico-intellettuale e quei prodotti che vengono detti «artistici» nel
senso moderno dell’espressione. Infatti, se per Garroni la nozione di crea-
tività indica, in generale, una procedura adattiva tipica dell’animale uomo,
l’attività artistica, in particolare, si esplica nella forma di una «creatività spe-
cializzata», cioè come un «gioco costruttivo» a «dominante metaoperativa».
Un gioco che, per quanto possa essere di volta in volta diverso, «dall’estremo
della musica pura o della pittura non figurativa fino all’architettura finalizza-
ta, al design, al romanzo, al romanzo-saggio», condensa sempre «la medesima
creatività che regola in generale la produzione culturale, quale che sia»28. Il
«principio estetico creativo» individuato da Garroni è, dunque, quell’inva-
riante del comportamento umano, quella condizione ubiqua ed eterna che
permette di «riannodare i nessi» tra ciò che è stato «prodotto intenzional-
mente come arte» e ciò che «sembra slittare per più versi su altri territori
culturali»29. E infatti, se prestiamo davvero attenzione al modo di «cresce-
re e divenire dominante della componente metaoperativa», allora anche una
macchina da scrivere potrà presentarsi in certi casi «come caratterizzat[a] da

veste di problema estetico e questione culturale» (Andrea Mecacci, Estetica e design, il Mulino, Bo-
logna 2012 p. 135).
26
E. Garroni, La crisi semantica cit., p. 172.
27
Ivi, p. 192.
28
Ivi, p. 182.
29
Emilio Garroni, Creatività, Quodlibet, Macerata 2010, p. 169.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 63

indici metaoperativi molto forti, tanto forti da contrastare talvolta le stesse


esigenze funzionali». Anche la forma dell’oggetto industriale potrà apparire,
insomma, attraverso indici e somiglianze, come una «configurazione dell’im-
plicito, cui non sono più associati significati relativamente stabili e distingui-
bili istituzionalmente e che rimanda perciò ai tanti significati possibili, anche
aleatori, che sono tuttavia possibili a certe condizioni culturali»30.
Seppure da un’angolatura particolare, trova qui un ulteriore motivo di svi-
luppo la tesi garroniana della non specialità dell’estetico, così come l’idea di
un’arte autre; altra, cioè, rispetto a quella nozione che presupponeva nell’arte
un oggetto epistemico sostanzialmente omogeneo. Questa linea di riflessione
ci porta direttamente alla seconda questione discussa nel documentario. Ov-
vero, al ruolo dell’architettura in quanto arte applicata, alla sua funzione civi-
le come «progettazione di oggetti in genere, dalla città alla casa, alla sedia»31;
ma anche alla sua collocazione rispetto al sistema tradizionale delle arti.

3.

Dopo aver discusso la centralità del tema della bellezza, Garroni sposta la
propria attenzione sull’architettura, un altro ambito caratterizzato da quelle
particolari preoccupazioni estetiche che prima abbiamo definito «olivettiane»:

Ed ecco che nella progettazione dello stupendo nido per i figli dei dipendenti, questa
preoccupazione estetica è ancora presente. Non basta accogliere i bambini, bisogna educarli
alla bellezza: farli vivere in ambienti belli, farli esprimere liberamente, nei giochi, nei dise-
gni, in modo che la loro personalità si formi compiutamente. Il tema della personalità è un
tema sempre ricorrente in Adriano Olivetti. Era inevitabile che questo discorso mi portasse
a domandargli chiaramente il suo pensiero sulle architetture. Anzi, più precisamente, in che
senso l’architettura si distingua per lui dalle altre arti tradizionali. OLIVETTI: L’architettura
è la forma in cui si esprime una certa società. GARRONI: Proprio la qualifica questa società!
OLIVETTI: Esattamente… Le altre arti invece sono una espressione libera, una manifesta-
zione dello spirito umano e quindi indipendentemente dal tempo e dal luogo32.

Come apprendiamo da questo dialogo, per Olivetti l’architettura, a diffe-


renza delle altre arti, è sempre inscindibile dall’ambiente in cui si colloca e stret-
tamente legata, in quanto sua forma di espressione, alla storia della comunità
che deve contribuire a costruire. Al punto che, come scrive in un breve saggio
di poco precedente all’intervista, il compito di un architetto «è intravedere se
le forme singole siano capaci per la loro stessa coerenza, per la loro natura, ad

30
E. Garroni, La crisi semantica cit., pp. 122-123.
31
E. Garroni, Arte e architettura, oggi, in Id., Osservazioni sul mentire e altre conferenze cit., p. 63.
32
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
64 Tommaso Morawski

assumere la loro giusta posizione nel luogo più vasto ove sono destinate a di-
ventare materia»33. Ora, più che le tesi di Olivetti, ciò che ci interessa sottoline-
are di questa parte del documentario sono le numerose analogie che si possono
riscontrare tra le domande poste dall’intervistatore e il contenuto di una confe-
renza intitolata Arte e architettura, oggi che Emilio Garroni ha tenuto nel 1993
presso la Facultad de Arquitectura, Diseño y Urbanismo della Universidad de
Beunos Aires. Infatti, come accade nell’intervista, anche in questa occasione
Garroni si sofferma sul rapporto tra arte e architettura. L’architettura, si chiede
Garroni, «è mai stata, è, può essere, deve essere “arte”?»34.
La risposta, ovviamente, non è così semplice. Anzitutto bisogna riconside-
rare l’idea stessa che esista «già da sempre e dappertutto, qualcosa come l’arte» e
questo significa valutare più attentamente come si è andata via via consolidando
la nozione di «arte in senso estetico moderno». Il sistema delle arti del XVIII
secolo, da cui, spiega Garroni, dipende l’uso sempre meno circoscrivibile che
facciamo oggi del termine arte, non si è formato sulla base di una definizione
prestabilita che consentisse di isolare, in base a una regola istituzionalizzata,
una classe omogenea di oggetti, le cosiddette «belle arti». Alle spalle della no-
stra nozione di arte c’è piuttosto «un intreccio di somiglianze (talvolta di forti
identità locali) e di differenze (talvolta anche di irriducibili disparità)». Ed infat-
ti nessuno dei principali esponenti della riflessione estetica settecentesca ha mai
definito le belle arti. Erano piuttosto le singole pratiche o i singoli prodotti che,
in virtù di un accordo pragmatico, e non teorico, venivano dette belle: «esem-
plari», cioè, di una totalità dell’esperienza, intellettualmente e conoscitivamente
inesperibile e inconoscibile, cioè del senso stesso di ogni esperienza determina-
ta». Insomma, riassume Garroni, da Kant a Goethe, da Leibniz a Vico, testi alla
mano, l’arte in senso estetico moderno nasce «come aspirazione, non suscetti-
bile di essere soddisfatta altrimenti, di “mostrare” dall’interno dell’esperienza
sensibile il principio soprasensibile che rende possibile questa»35. Un’aspirazio-
ne alla simbolizzazione delle condizioni di senso dell’esperienza a cui l’archi-
tettura partecipa solo tangenzialmente.
Per la sua funzione pratica e la sua utilità sociale l’arte architettonica nel
Settecento rappresentava infatti un caso non-tipico del sistema delle arti, un
soggetto ibrido a carattere misto da cui, in sostanza, non ci si aspettavano ope-
re d’arte belle. E così, del resto è ancora oggi. Infatti, fatta eccezione per un
architetto come Gaudí, che ha usato l’architettura «in tutte le sue possibilità
di esibizione simbolica», ai giorni nostri raramente si incontrano «architetti
e opere d’architettura che mirino a perpetuare l’idea di arte in “senso estetico

33
Adriano Olivetti, L’architettura, la comunità e l’urbanistica, in Id., Città dell’uomo, Edizioni
di Comunità, Ivrea 2015, p. 109.
34
E. Garroni, Arte e architettura, oggi cit., p. 64.
35
Ivi, p. 70.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 65

moderno”». Eppure, precisa subito Garroni, non si tratta necessariamente di


un difetto, perché oggi, che il vecchio sistema delle arti settecentesco appare
sempre più dilatato, anche l’arte in senso estetico moderno ha perso molto
della sua esemplarità ed è diventata piuttosto «un’arte di intrattenimento o
di consumo»; o, nel migliore dei casi, un’arte capace di instaurare il senso
solo «negativamente»36 – come dimostra, in letteratura, l’esperienza dei vari
Beckett, Bernhard, Perec o Calvino. Ebbene, l’architettura, proprio per la sua
atipicità e per il fatto di essere destinata a restare, non è, non può, e non deve
essere arte d’intrattenimento o di consumo; né può essere, come la letteratura
postmoderna, instauratrice di senso attraverso il non-senso. L’architettura,
spiega Garroni, deve essere esercitata piuttosto «come un’attività formatrice,
che esige di essere curata in tutti i suoi particolari e nelle sue multiple relazio-
ni con l’intorno». Essa deve dedicarsi

a quella bellezza indiretta e diffusa dell’arte nel senso antico, che è la progettazio-
ne pensata, l’uso accorto dei materiali, la collocazione dell’oggetto architettonico nello
spazio urbano, la sua effettiva utilizzabilità, non solo in senso pratico, ma come conte-
nitore simbolico di una vita civile. E, per concludere, credo che la massima aspirazione
di un architetto dovrebbe essere oggi di tornare a essere un demiourgos […] e cessare di
credersi innanzitutto un poeta. Il che non esclude che, proprio dalla sua attività di de-
miourgos, possa scaturire come che sia e quando che sia, se è ancora possibile, qualcosa
come un’opera d’arte, quasi in senso estetico moderno37.

La conferenza si conclude con l’auspicio da parte di Garroni che l’archi-


tetto torni ad essere un demiourgos, cioè un produttore di «oggetti a vantag-
gio della comunità»38.
Ritroviamo qui, formulato in altri termini, un principio che caratterizza
tutta l’attività di Olivetti: «la tecnica al servizio dell’uomo»39. Se per l’indu-
striale Adriano questo suggeriva di riconoscere l’«identità tra il costruire, il
produrre e fare cultura, il diffondere valori estetici»40, per il filosofo Garroni
questo principio regolativo rimanda – per usare le parole con cui si chiude il
suo ultimo libro – al «comportamento civile, le irrinunciabili esigenze etiche,
l’interesse alla comprensione delle cose, insomma: la mente dei cittadini, di
cui […] ci importa in primissima istanza»41.

36
Ivi, p. 75.
37
Ivi, pp. 75-76.
38
Ivi, p. 69.
39
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
40
Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di P. Ceri,
Einaudi, Torino 2014, p. 105.
41
Emilio Garroni, Immagine, linguaggio, figura, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 118.
Emanuele Zinato

L’Olivetti come figura

Se l’opera parla del mondo, lo fa selezionando materiali della realtà che


acquisiscono nel testo funzione estetica grazie alle convenzioni del codice:
Francesco Orlando parla, a questo proposito, di «figure dell’invenzione» e
di «ritagliamento» di porzioni di realtà codificate nel testo1. L’opera di Paolo
Volponi «ritaglia» dall’Olivetti diversi materiali di fabbrica. Sono referenti di
realtà, ad esempio, la lettera di un operaio afflitto da manie di persecuzione in
Memoriale o i documenti di riforma aziendale redatti dell’autore nell’epoca
del suo conflittuale rapporto con Visentini in Le mosche del capitale. Le ri-
codificazioni letterarie di questi materiali industriali e la loro messa in forma
danno luogo a una serie di immagini strutturanti.
Volponi del resto non è un consulente ma un dirigente delle fasce più alte e
proprio per questo – in modo solo in apparenza paradossale – la sua scrittura
non si traduce in una registrazione documentaria dell’Olivetti, o in una non
fiction come si direbbe oggi, ma in alcuni romanzi che «assimilano» e «pe-
netrano» la fabbrica. Anziché lavorare come pubblicitario o selezionatore,
come molti altri intellettuali a Ivrea, Volponi si occupa, a partire dal 1956, di
mense, trasporti, alloggi e assistenza dei dipendenti, fino a diventare nel 1966
il capo del personale. La sua è una scrittura d’invenzione e non d’inchiesta,
e come tale prevede un maggiore tasso di figuralità e maggiori collisioni fra
la professione, l’ideologia autoriale e il mondo rappresentato, e implica una
maggiore trasfigurazione e rifunzionalizzazione estetica dei dati di realtà.
Volponi, sul piano ideologico, per vent’anni anni nutre speranze «neoil-
luministe» nei confronti dell’industria, solo in parte interrotte dall’improv-
visa morte di Adriano nel 1960. Si può dunque tentare di analizzare queste
linee di tensione fra livello ideologico e rappresentazione romanzesca nei
testi di Volponi che più o meno direttamente tematizzano la fabbrica: Me-
moriale, La macchina mondiale, il racconto Annibale Rama e Le mosche
del capitale.

1
Cfr. Valentina Sturli, Figure dell’invenzione. Per una teoria della critica tematica in Francesco
Orlando, Quodlibet, Macerata 2020.

L’ospite ingrato ns 6
68 Emanuele Zinato

La follia e le calcolatrici elettromeccaniche

Fra le carte d’autore non è raro imbattersi in materiali aziendali. In Memo-


riale, ad esempio, la cui stesura durò dall’autunno del 1959 all’estate del 1961
e il cui manoscritto è conservato nell’Archivio Harry Ransom dell’Università
di Austin nel Texas, sono tali il volantino sindacale che chiude il romanzo e
l’autentica lettera dell’operaio da cui trae spunto l’intera vicenda. I conflitti,
che alla Fiat si risolvevano con i reparti confino e con i licenziamenti, a Ivrea
venivano ricomposti nell’azienda: gli operai in difficoltà giungevano agli psi-
cologi su proposta del medico di fabbrica, dell’assistente sociale o dell’ufficio
del personale. Volponi, che dirigeva i pionieristici Servizi Sociali, si trovava
nel cuore di questi processi: Memoriale, tuttavia, non è un reportage, ma un
prodotto dell’immaginario poetico-narrativo volponiano. Il romanzo sotto-
pone a un’ambigua verifica finzionale l’utopismo industriale del suo stesso
autore, partendo dalle contraddizioni, dagli equivoci e dagli scarti della ra-
gione aziendale più avanzata.
Il nucleo generativo della fabula del romanzo è dato da una vera breve
lettera indirizzata nel 1958 ad Adriano Olivetti da un operaio tisico, in preda
a delirio persecutorio. In mancanza del documento, si può far riferimento alla
dettagliata ricostruzione dell’autore:

una volta in ufficio, nel mio ufficio di responsabile dei servizi sociali dell’azienda
mi arrivò, assieme a tante lettere che arrivavano, una lettera che mi colpì perché era
molto dolorosa. Era proprio come un grido, un po’ insensato com’è un grido senza un
fine e senza un principio. Era una lettera indirizzata ad Adriano Olivetti e che Olivetti
mi aveva passato perché io vedessi il caso e decidessi che cosa si poteva fare per questa
persona. Era una lettera con una calligrafia di quelle elementari, da quinta elementare, su
un foglio protocollo, dentro una busta gialla, di una facciata e tre righe dietro; insomma
molto breve. In sostanza questo si rivolgeva al presidente dell’Olivetti, era un operaio
dell’azienda di cui non ricordo nemmeno il nome, per dire che lui stava male, che però
avrebbe continuato a lavorare volentieri nella fabbrica, ma che i medici di fabbrica non
volevano che lui lavorasse perché dicevano che era tubercoloso e doveva ricoverarsi e
che allora lui cacciasse quei medici cattivi e ne trovasse altri che provassero che lui stava
bene e che poteva lavorare nella fabbrica. Ecco, mi parve in nuce la storia di Memoriale;
allora io ho conservato questa lettera, mi sono interessato, ho mandato avanti il caso
come doveva essere mandato avanti e questa persona, che tra l’altro era davvero tuber-
colotica, con delle crisi, degli sbocchi di sangue si diceva una volta, ma era poco corretto,
addirittura durante le ore di lavoro, fu ricoverata, fu anche curata in termini di psicoa-
nalisi. Però quella lettera io l’ho conservata, ce l’avevo e da quella lettera mi è venuto in
mente di scrivere il libro che ho scritto, Memoriale2.

2
Paolo Volponi, La letteratura in fabbrica negli anni Cinquanta, in Saveria Chemotti (a cura di),
Gli intellettuali in trincea. Politica e cultura nell’Italia del dopoguerra, Cleup, Padova 1977, p. 39.
L’Olivetti come figura 69

La figura dell’invenzione che viene messa in forma a partire dai contenuti


della lettera è la malattia (fisica e psichica) del protagonista in rapporto all’al-
ternanza fra il suo desiderio di appartenenza e il suo senso di esclusione dalla
comunità della fabbrica. L’intero romanzo è strutturato su questo processo di
alternanza pendolare tra inclusione ed estraneità all’industria: una oscillazio-
ne del tutto omologa alla gestione pendolare dello spazio, poiché l’io narrante
transita quotidianamente in treno dal paesaggio rurale del lago di Candia alla
mai nominata città industriale dove lavora. Inoltre, chi nel testo dice «io», un
contadino-operaio, è anche portavoce delle lacerazioni dell’autore e intrattie-
ne con la biografia autoriale un legame non reciso: la sua, come ha scritto Pier
Paolo Pasolini, è a un tempo la voce di un operaio-contadino e la voce di un
poeta lirico.
I mali, a cui il protagonista si rivolge come fossero personaggi dotati di
soggettività autonoma, sono insieme il frutto della sua immaginazione alte-
rata e inattendibile e il documento di sofferenza operaia all’Olivetti, e una
simile rappresentazione, nell’ambito di un’azienda che sull’inclusione e sulla
valorizzazione del lavoro basava gran parte del suo programma, poteva risul-
tare eretica. Ne è prova, ad esempio, una delle prime recensioni del romanzo,
apparsa proprio sulla rivista olivettiana «Comunità» e scritta da un altro in-
tellettuale e poeta della «corte» di Ivrea, Giovanni Giudici, che dal 1958 con
Fortini lavorava a Milano presso la Pubblicità e Stampa dell’Olivetti diretta
da Riccardo Musatti. Giudici attribuisce i mali di Albino alla sua privata con-
dizione di incomunicabile solitudine:

Questo è il vero tema del Memoriale: la solitudine, la difficoltà del rapporto con gli
altri uomini che in Albino (al limite del tipico) è impossibilità. E in questo senso Albino
Saluggia diventa in realtà ciascuno di noi, in rapporto con la vita intera, tanto che la pa-
rola vita può ben sostituirsi alla parola fabbrica3.

Nella lettura di Giudici vi è il tentativo di rendere universale la vicenda


di Albino, trasponendone i mali su un piano esistenziale; eppure può sorge-
re il dubbio che il poeta, appartenente all’ambiente olivettiano, miri anche a
sganciare il testo dai suoi referenti di realtà (lo stabilimento di Ivrea in primo
luogo, di cui la fabbrica del romanzo è trasparente proiezione). Giudici af-
ferma infatti che la fabbrica, in Memoriale, non sarebbe che una scenografia
sulla quale si dispiega la vicenda del protagonista nella sua «struggente elegia
senza data»4. La lettura di Giudici, insomma, da un lato emancipa il testo dal
documentarismo ma dall’altro ne neutralizza l’istanza critica nei confronti

3
Giovanni Giudici, Note su «Memoriale», «Comunità», 99, 1962, poi in Id., La letteratura verso
Hiroshima e altri scritti 1959-1975, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 309. Corsivi originali.
4
Ivi, p. 311.
70 Emanuele Zinato

del presente industriale olivettiano, confinandola all’elegia metastorica. La


ricezione del romanzo tende a semplificare la posizione «liminare» di Albino:
prevalgono da un lato le letture esistenziali inerenti il male di vivere e l’in-
comunicabilità del protagonista Albino (come quella di Giudici) o dall’altro
quelle puramente sociologiche, appiattite sul tema dell’alienazione del lavoro:
entrambe le interpretazioni della vicenda non ne colgono le risorse cono-
scitive garantite dall’ambiguità del personaggio e dall’oscillazione dell’intera
struttura testuale fra opposte figure dell’invenzione.
Un altro documento del lavoro aziendale riutilizzato nel corpo del testo è
il volantino sindacale compreso nella parte conclusiva di Memoriale. Riguar-
do alla sequenza finale dello sciopero, al centro di un foglio, ben delimitata
da una cornice, compare tra le carte d’autore la seguente scaletta autografa:

li vedevo uscire come ghiottoni | sciopero | scioperate: mitragliatrice | manifesto |


porta biglietto (c. 242).

Dopo l’annotazione centrale in stampatello COPIARE MANIFESTINO


(c. 245), è incluso un volantino dattiloscritto firmato dalla «Sezione Sindaca-
le Fiom della Fabbrica Olivetti Inco», che denuncia i pericoli per l’integrità
psichica dei lavoratori connessi all’inasprimento dei ritmi produttivi imposti
dall’assemblaggio delle nuove calcolatrici MC 24. Le correzioni autografe
sul testo sindacale, incluso nel romanzo, sono mirate per lo più a occultare i
riferimenti all’Olivetti: MC 24 diventa a esempio B-Mon. Con la sigla MC-
24 penetriamo nel cuore stesso delle più importanti realizzazioni olivettiane
all’esordio del «miracolo»: si tratta di una serie di macchine da calcolo
elettromeccaniche con registro di memoria dinamica, prodotte proprio a
partire dal 1956, l’anno in cui si conclude la vicenda narrata in Memoria-
le. Questa linea comprende calcolatrici come Divisumma 24 e Tetractys, il
nome pitagorico scelto per questa macchina da Fortini: due oggetti industriali
in cui si coniugano l’estetica della modernità e l’efficienza tecnologica, costosi
allora quanto una Fiat 500 e divenuti un’icona del design industriale italiano
al punto tale che una Divisumma 24 fa parte della collezione permanente
del MoMa di New York. L’ingegner Natale Cappellaro, che ne inventò la
meccanica, è parte anch’egli del mito olivettiano: assunto come apprendista
operaio addetto al montaggio divenne nel 1943 il responsabile dell’Ufficio
progetti e nel 1962 conseguì la laurea ad honorem in ingegneria.
Il trattamento visionario e insieme realistico a cui il romanzo sottopone
questa icona industriale può sembrare irriverente o eretico rispetto alla mi-
tologia olivettiana: al volantino sindacale incorporato nel romanzo, che reca
modificato il nome della gloriosa calcolatrice, viene giustapposto un delirio di
annientamento del protagonista. Albino s’immagina al proprio posto di pian-
tone mentre spara raffiche mortali e lancia bombe che dilaniano i corpi degli
L’Olivetti come figura 71

altri operai chiamati dall’io narrante «ghiottoni» perché mossi dal desiderio
di uscire in fretta dalla fabbrica per gettarsi nel tempo libero e nel mondo dei
nascenti consumi di massa. Ogni raffica è ritmata dalla parola «sciopero» e se-
gna l’aggressivo rifiuto degli altri lavoratori, visti uscire dalla fabbrica con un
«gesto di furberia appagata come quello dei ghiottoni che si avvicinano alla
tavola» (c. 242), come esatto rovescio di ogni impegno solidale. Negazione e
affermazione, fantasia e realtà si giustappongono in queste pagine senza alcu-
na mediazione. «Sparavo su interi gruppi che cercavano di ripararsi in tutti i
modi. Lo spiazzo davanti alle porte era sempre pulito perché il sole divorava
i morti man mano che cadevano sotto la mia mitraglia». Inoltre, nell’ultima
pagina, l’io narrante decide di aderire allo sciopero e si reca ad avvertire i
cuochi del reparto mense, che ancora non aveva ricevuto la notizia, aggirando
l’accerchiamento della polizia, e perciò viene licenziato. L’azienda «dal volto
umano» che mette a disposizione del dipendente l’assistenza sanitaria gratu-
ita e i soggiorni pagati in località di villeggiatura per aiutare la sua convale-
scenza e che perdona le stranezze di Albino quando rifiuta di presentarsi alle
visite o quando inveisce contro i medici, non gli perdona di aver preso parte
attiva allo sciopero, grazie alla sua follia e alla sua visionarietà.
Ideologia d’autore e figure dell’invenzione possono così convivere solo
in tensione e in conflitto: se la visione del mondo di Volponi a quest’altezza
condivide con il pensiero di Adriano Olivetti l’idea di una fabbrica sempre
più a misura d’uomo e sempre meno coercitiva, nel romanzo fra la «follia» di
Albino e i dispositivi della fabbrica più avanzata si instaurano contraddizioni
che non prevedono una risoluzione.

Figure dell’elettronica olivettiana

La macchina mondiale fu creato «di getto», «come un lampo»: dettato nel


1964 a una segretaria stenodattilografa olivettiana nei ritagli di tempo che il
lavoro di dirigente concedeva a Volponi e interrompendo la stesura di Repub-
blica borghese (il romanzo che uscirà solo nel 1991 conquistando il Premio
Strega con il titolo La strada per Roma).
Per comprendere le ragioni di una così urgente spinta compositiva occor-
re far riferimento all’incontro fortuito dell’autore con il conterraneo Pietro
Mario Vallasciani, uno stravagante contadino marchigiano, compilatore di un
trattato fantascientifico-utopistico, giunto a Ivrea incuriosito dalla fabbrica-
zione dei calcolatori elettronici. La personalità extra-vagante di Vallasciani
accese la tensione affabulante della discorsività volponiana, sollecitando i
nessi, centrali nella ricerca dell’autore, tra scienza e poesia e tra letteratura e
utopia. Le elementari e strutturanti figure dell’invenzione che compaiono nel
testo hanno in Vallasciani il suo referente di realtà:
72 Emanuele Zinato

Avevo conosciuto un personaggio che da certe colline marchigiane, anche se della


Marca del sud e non della Marca di Urbino, era venuto a Ivrea. A Ivrea, perché? Perché a
Ivrea si facevano ricerche sulle macchine nuove, sui calcolatori, e lui aveva un’idea che gli
uomini fossero delle macchine costruite da esseri che erano venuti sulla Terra, avevano
costruito l’uomo come macchina imperfetta e l’avevano lasciata al suo destino5.

Il romanzo è il risultato della giustapposizione di due testi tipografica-


mente difformi: il «memoriale» di Anteo Crocioni, in tondo, e i brani in cor-
sivo di un libro «sulla genesi e la palingenesi». L’avvertenza introduttiva, pur
rivelando il nome dell’ispiratore del testo solo nelle iniziali («il signor P. M.
V.»), rende palese la derivazione delle idee del protagonista della Macchina,
Anteo Crocioni, da quelle del Vallasciani:

Le idee del protagonista sulla genesi e sulla palingenesi derivano da quelle che il
signor P. M. V. sta svolgendo e sistemando, insieme con altre, in un trattato «Per la costi-
tuzione di una nuova Accademia dell’Amicizia di qualificato popolo»6.

Non vi è ragione per dubitare della veridicità della dichiarazione, compre-


sa nell’avvertenza, circa la «libera estrazione» dei brani in corsivo dal trattato
del Vallasciani:

Da questo trattato sono liberamente estratti, pur con molto rispetto dello spirito
originale, i brani del romanzo in corsivo7.

Pretesto del romanzo è l’interesse di un contadino semianalfabeta, inna-


morato del mistero delle parole e compilatore di trattati scientifico-utopici,
per i calcolatori elettronici: per dar conto dell’invenzione di questo romanzo,
dunque, occorre far riferimento allo specifico contesto olivettiano, segnato a
sua volta dal fallimento del generoso progetto di una «macchina mondiale»
di fabbricazione italiana. Gli eventi aziendali maggiori, sincroni alla stesura
della Macchina, sono infatti la cessione di gran parte del capitale azionario
dell’Olivetti a un gruppo di salvataggio misto, e la vendita del settore della
grande elettronica alla statunitense General Electric.
L’avanguardia olivettiana è legata fin dagli anni ’50 all’avventura dell’intel-
ligenza artificiale. Nel 1956, all’arrivo di Volponi a Ivrea, era stato appena co-
stituito il laboratorio Olivetti per le ricerche elettroniche presso l’Università
di Pisa che condusse, nel 1958, alla fabbricazione dell’Elea 6000, il primo
calcolatore elettronico creato in Europa. Ma nel 1964, l’anno di stesura de

5
Paolo Volponi, Incontro con la Pantera, in Id., Scritti dal margine, Manni, Lecce 1994, p. 182.
6
Paolo Volponi, La macchina mondiale, in Id., Romanzi e prose, I, a cura di Emanuele Zinato,
Einaudi, Torino 2002, p. 234.
7
Ibid.
L’Olivetti come figura 73

La macchina mondiale, il gruppo (formato da Fiat, Pirelli, Imi, Mediobanca)


intervenuto per risanare il debito dell’Olivetti decise di sacrificare il settore
della grande elettronica, privando l’Italia dell’autonomia nel settore leader
del nuovo sviluppo tecnologico. All’interno dell’Olivetti resistette solo uno
sparuto gruppo di pionieri, inventori e ricercatori, che operarono nel tenta-
tivo di proseguire la progettazione elettronica ormai destinata al monopo-
lio americano. Nel 1964 Roberto Olivetti, figura di disturbo per il nuovo
management, rimasto membro del Comitato esecutivo, tentò ancora, quasi
in clandestinità, di salvare l’anima elettronica dell’azienda, osteggiata dagli
azionisti e dai «ragionieri». Sempre in quell’anno, il piccolo gruppo di Pier
Giorgio Perotto ideò e produsse il prototipo di una calcolatrice elettronica
considerato il primo personal computer, Programma 101.
La stesura della Macchina mondiale si può considerare reattiva rispetto
a questo clima di smobilitazione e di riassetto aziendale. Il testo risponde,
coi modi diegetici e finzionali che gli sono specifici, a una realtà industriale
emblematica nella storia dell’intera modernizzazione italiana. Il campo figu-
rale delle «macchine felici» è, nel romanzo, oppositivo rispetto a quello delle
istituzioni, e l’utopia è confinata nella follia.
Anteo Crocioni, come Vallasciani, è convinto che il corpo dell’uomo sia
un congegno smontabile e programmabile:

più oscillavo e più sentivo dentro di me comporsi chiaramente la macchina, delinearsi


le regole della meccanica; comporsi per prima la mia stessa macchina, nei gesti di una
gamba, di un ginocchio e nello scatto di un movimento, che partiva sempre da uno stimolo
anche minimo che io potevo accendere con un interruttore interno sopra gli occhi8.

Grazie a questa metafora, lucidamente delirante, compone un trattato


«Per la costituzione di una nuova Accademia dell’Amicizia di qualificato po-
polo». L’obiettivo del suo delirio è, dunque, «la felice convivenza degli uo-
mini, nell’eternità universale»9. «In che modo la meccanica, superata la fisica,
(possa) diventare filosofia»10. Il suo disegno è sintetizzato così: «Le macchine
vanno fermate e indirizzate dando loro un pensiero, dando loro cioè un siste-
ma felice, come è felice il sistema del pensiero»11.
Appena vinto il premio Strega con La macchina mondiale, Volponi riceve
dalla RAI la proposta di realizzare la sceneggiatura per un soggetto televisivo.
La lettera è datata «Roma, 23 settembre 1965»:

8
P. Volponi, La macchina mondiale, in Id., Romanzi e prose, I, cit., p. 259.
9
Ivi, p. 261.
10
Ibid.
11
P. Volponi, La macchina mondiale, in Id., Romanzi e prose, I, cit., p. 343.
74 Emanuele Zinato

Il lavoro dovrebbe imperniarsi su una problematica tipicamente moderna e attuale


e dovrebbe svolgersi in un ambiente italiano in modo da rispecchiare – sia pure lascian-
doLe ampia libertà nella forma – le condizioni dell’uomo di oggi visto nella società di
oggi12.

Volponi sceglie precocemente come tema l’elettronica. La vicenda compo-


sitiva di Annibale Rama, che si protrae per un anno, documentata da lettere
e da appunti, è di forte interesse per il trattamento che subisce l’argomento
«informatico».
La lettera inedita a Raffaele La Capria con cui nel dicembre 1966 Volponi
rinuncia all’incarico, dimostra come il progetto nel corso di quell’anno non
sia stato trascurato, nonostante gli impegni aziendali (l’autore è appena dive-
nuto il capo del personale dell’Olivetti), ma, anzi, sia lievitato oltre la forma
schematica della sceneggiatura assumendo i connotati di una vera e propria
narrazione.

Sono molto impegnato dall’ufficio, dove il mio incarico è diventato ancora più pres-
sante. Inoltre, ho dovuto constatare che non ho nessuna tendenza, oltreché esperienza,
a sceneggiare tanto che, affrontando un qualsiasi argomento, dialogo o ambiente, ho
sempre finito per complicarlo in senso letterario invece di semplificarlo secondo una
traccia da rappresentare. Se potessi ancora continuare questo lavoro finirei piuttosto per
scrivere un romanzo che una sceneggiatura. Credo che tu mi capisca bene, anche perché
avevi benissimo avvertito i rischi, proprio nel senso sopraindicato, del soggetto e avevi
capito la necessità di precisare personaggi e situazioni che erano soprattutto delle larve
di una possibile crescita letteraria. […] Naturalmente dopo questa rinuncia il soggetto
resta mio, anche perché ormai ho in mente di usarlo per un racconto13.

Dal carteggio con Pier Paolo Pasolini14 si può desumere inoltre che nell’ot-
tobre 1966 Volponi, insoddisfatto delle condizioni offerte dalla RAI, cercò di
proporre questo stesso soggetto ad Alfredo Bini, produttore di Accattone e di
Edipo re, e a Dino De Laurentiis. Il testo del racconto-sceneggiatura, dal titolo
Annibale Rama, rimasto nel cassetto15 e rinvenuto da Caterina Volponi tra le

12
Della vicenda si dà conto nell’introduzione a Paolo Volponi, I racconti, a cura di Emanuele
Zinato, Einaudi, Torino 2017.
13
Lettera dattiloscritta di Volponi a Raffaele La Capria, datata Ivrea, 12 dicembre 1966.
14
Paolo Volponi, Scrivo a te come guardandomi allo specchio. Lettere a Pasolini (1957-1975), a
cura di Daniele Fioretti, Polistampa, Firenze 2009, pp. 157-159.
15
Le due stesure dattiloscritte si trovano in una cartella dal titolo «Personale Paolo Volponi»
assieme a due poesie e a una lettera a Guttuso datata 19 novembre 1963. La prima versione è più breve
e priva di correzioni. Sulla seconda, qui riprodotta, scritta in parte su fogli intestati «Rotary club di
Ivrea», figurano numerose aggiunte autografe che manifestano l’intento dell’autore di complicare la
linearità schematica della sceneggiatura con la forma racconto. Un’altra sceneggiatura di Volponi,
scritta nel 1981 per Unitelefilm, è apparsa nel 1998 a cura di Guido Santato (G. Santato, Un racconto
inedito di Paolo Volponi. L’acqua e il motore. Film sull’Umbria, «Studi novecenteschi», 55, 1998, pp.
5-28. La vicenda è ambientata nel 1910 sulle colline intorno a Gubbio, e presenta alcune analogie con
L’Olivetti come figura 75

carte del padre, è, con Il versificatore di Primo Levi16, una delle primissime
attestazioni narrative della comparsa del computer fra gli oggetti letterari ita-
liani. Annibale Rama è un pioniere informatico, uno Steve Jobs ante litteram,
che progetta un piccolo calcolatore superiore a ogni altro esistente al mondo e
utilizzabile dai privati e dalle famiglie. Il progetto, rivoluzionario, non viene ac-
cettato dalle dirigenze aziendali e Annibale, costretto alle dimissioni, nei giorni
che precedono il licenziamento riesce a costruire di nascosto la macchina, a
trafugarla e a perfezionarla. Grazie alle previsioni del calcolatore, potrà vincere
illecitamente tutte le lotterie, incassando la smisurata somma di denaro con la
quale accingersi a una più alta, utopica e clandestina impresa elettronica e civile.

Con quel denaro, quando egli avrà raggiunto la somma necessaria, costruirà una
grande industria per fabbricare i più grandi calcolatori elettronici del mondo, i più gran-
di e anche i più piccoli, di tipo domestico, che servano alle famiglie, ad ogni uomo, per
risolvere i propri problemi di calcolo, di previsione e di programmazione17.

La fiducia nella scienza da parte di un inventore originale e l’ostilità delle


istituzioni davanti alla sua genialità progettuale, avvicinano questo raccon-
to a La macchina mondiale, mentre la ricerca minuziosa del luogo nascosto
e più favorevole dove impiantare la nuova fabbrica di calcolatori ricorda le
congetture di Gerolamo Aspri per la localizzazione del rifugio antiatomico
in Corporale.
La vicenda di Annibale Rama allude, in forma di apologo, a un preciso
referente di realtà: alle avventure dell’intelligenza artificiale alla Olivetti, di
cui l’autore fu diretto testimone, e in particolare alla realizzazione nel 1964
(quasi clandestina, perché l’elettronica era già stata venduta alla General Elec-
tric), da parte di Pier Giorgio Perotto e dei suoi collaboratori, di Programma
101, il primo personal computer al mondo, presentato con grande clamore
all’esposizione dei prodotti per ufficio di New York nell’ottobre 1965 e ac-
quistato in quarantacinque esemplari dalla NASA per elaborare la traiettoria
della missione Apollo 1118.

quella di Annibale Rama: ha come protagonista Gigler, un irregolare ambulante inventore di una
macchina che, portando l’acqua dalla valle al monte, potrà migliorare la vita dei contadini. Santato,
nella nota introduttiva, ricorda che Volponi gli aveva parlato di un altro suo precedente soggetto per
un film consegnato a Pasolini in cui si raccontava «la storia di un operaio che inventa un calcolatore
con il quale vince sempre al gioco e che sogna di creare una fabbrica di calcolatori organizzata in
modo diverso da quella in cui lavora» (p. 6).
16
Comparso su «il Mondo» il 17 maggio 1960 e poi compreso in P. Levi, Storie naturali, Einaudi,
Torino 1966. Anche Il versificatore di Levi suscitò l’interesse della RAI, che commissionò all’autore
una versione in forma di dialogo trasmessa il 17 febbraio 1971 per la regia di Massimo Scaglione e
recitata da Gianrico Tedeschi, Milena Vukotic e Angelo Bertolotti.
17
P. Volponi, I racconti cit., p. 17.
18
Cfr. Pier Giorgio Perotto, P101. Quando l’Italia inventò il personal computer, Edizioni di
Comunità, Roma-Ivrea 2015.
76 Emanuele Zinato

Figure dell’invenzione nel racconto-sceneggiatura Annibale Rama sono


l’azzardo geniale di un inventore irregolare vs. la norma istituzionale e azien-
dale uniformante. L’idea di arricchirsi «disonestamente» vincendo al totocal-
cio con il computer anticipa ciò che di lì a poco sarà il Murieta di Corporale,
il doppio irregolare del dirigente industriale fallito Gerolamo Aspri. L’idea di
attività illecite per finanziare progetti in sé meritori svela una faglia che si va
allargando nella visione del mondo del dirigente olivettiano: la consapevo-
lezza della necessità – e al tempo stesso della difficoltà – di radunare capitali
sufficienti per innescare un circolo virtuoso nell’industria italiana: Volponi
con la sua inquietudine poetica e figurale aveva già capito che dai salotti del
capitale italiano non ci si poteva aspettare nessun aiuto.
Questa consapevolezza negativa produrrà, nel 1989, la pubblicazione del-
le Mosche del capitale, una incandescente operetta morale dedicata a Adriano,
«maestro dell’industria mondiale», destinata a suscitare, anche fra gli ex oli-
vettiani, entusiasmi e polemiche.

Allegorie della sconfitta operaia

Nella vicenda delle Mosche persiste un personaggio non mutato: Antoni-


no Tecraso, l’operaio calabrese immigrato, il solo a non essere una marionetta
o una mosca cocchiera del capitale. L’invenzione di Tecraso è parte di un ro-
manzo volponiano sui detriti di quella che era stata la centralità operaia: fra le
carte urbinati relative alle Mosche è presente, infatti, un progetto romanzesco
inizialmente autonomo (variamente denominato negli appunti autografi «Via
dell’Orma», «L’operaio», «T. T.», «La ragazza») sulla sconfitta dell’antagoni-
smo operaio e sulla riarticolazione robotica delle fabbriche. Proprio perché
nel testo definitivo delle Mosche alla storia del dirigente si giustappone quella
dell’operaio, e agli interni «plastificati» della MFM (l’industria di carne in sca-
tola) si contrappongono gli esterni conflittuali di Via dell’Orma e dei cancelli,
il libro intero, includendo il processo traumatico che produce la mutazione, si
pone anche il compito di misurare i prezzi pagati per far sì che, nel Paese con
il partito comunista più forte dell’occidente e con la più forte combattività
operaia, si sia potuti passare repentinamente dalla critica del capitalismo alla
più supina, euforica accettazione delle sue regole e compatibilità. La raffigu-
razione dei prezzi sociali e politici della «modernizzazione» è resa dunque
possibile facendo ricorso a un personaggio conflittuale e subalterno. Non si
tratta, come nel caso dell’operaio folle Albino Saluggia (Memoriale), di un
doppio della voce autoriale, né tanto meno di un ritorno, fuori tempo massi-
mo, al protagonista proletario e «populista» del romanzo sociale. L’operaio
Tecraso è un «guerriero» allegorico che entra nel romanzo con grande energia
plastica e corporea, immettendo solennità e tragedia nel registro prevalente,
L’Olivetti come figura 77

comico e satirico (il suo nome stesso, del resto, è un anagramma di Socrate):
a dispetto di chi pensa che il capitale abbia vinto con la sola forza simbolica
dell’edonismo, la Tecraso rammenta la materialità spietata dello scontro, e ciò
avviene soprattutto grazie al «lasciapassare» dell’iperbole.
La sequenza iperbolica della battaglia ai cancelli della fabbrica non ha
come referente di realtà solo i 35 giorni dell’occupazione della Fiat dell’au-
tunno 1980, presenti nel testo delle Mosche con la marcia dei 40.000, quanto
piuttosto il precedente licenziamento di 61 lavoratori, il 9 ottobre del 1979,
che si tradusse nel primo vero e proprio processo al «decennio operaio». Per
riportare ordine nei reparti, smantellare il sindacato dei consigli e rovesciare
i rapporti di forza istituiti dall’autunno del 1969, la direzione aziendale e i
maggiori quotidiani misero in campo l’equazione conflitto = terrorismo,
smentita dall’esito delle indagini della magistratura, che in seguito accerta-
rono come solo quattro dei sessantuno licenziati avessero avuto qualcosa a
che spartire con le organizzazioni armate. L’attenzione generale si spostò
tuttavia dalla ristrutturazione che l’azienda stava per varare alle forme di
lotta lecite o illecite. Il dato documentario di realtà viene trasfigurato: nel
testo delle Mosche, all’arrivo delle lettere di licenziamento (cinquantasette
in luogo di sessantuno, che corrisponde al numero totale meno i quattro
casi di effettivo coinvolgimento nella lotta armata) segue una battaglia fu-
ribonda che nella realtà non ha avuto luogo, né con quella potenza né in
forme più moderate. In realtà, prima della consegna delle lettere, i vertici
Fiat avvertirono i sindacati e in tutti gli stabilimenti i responsabili del perso-
nale convocarono i membri degli esecutivi dei consigli di fabbrica, ai quali
fu chiesto (in nome della lotta al terrorismo) di tenere una posizione «re-
sponsabile». La FLM poté organizzare soltanto un’assemblea al Palazzetto
dello sport con Lama, Carniti e Benvenuto. Nelle figure dell’invenzione
romanzesca i licenziamenti assumono invece, già alla consegna delle lettere,
la forza d’urto di una guerra totale:

Cinquantasette furono considerati i casi intollerabili su una popolazione di cento-


sedicimila soggetti. Occorreva prevenire, isolare il contagio, alzare bandiera gialla per il
bene e la salute generale. A Tecraso, dopo circa un mese, arrivò la lettera gialla numero
diciannove. Quando la ebbe in mano gli pesava come un lingotto da cento chilogrammi,
però se la tenne lontana, a più di mezzo metro dalla faccia. La riprese per tutti e quattro i
lati, poi disse: – È come se l’avesse scritta e firmata Kissinger in persona. Quindi aggiun-
se: – È una vera dichiarazione di guerra. Una grande alleanza di potenze e di stati è scesa
in guerra contro uno schieramento di altri stati che odia e vuole distruggere. Distruggere
più ancora che sbaragliare e sottomettere19.

19
Paolo Volponi, Le mosche del capitale, in Id., Romanzi e prose, III, a cura di Emanuele Zinato,
Einaudi, Torino 2003, p. 135.
78 Emanuele Zinato

In Volponi la rappresentazione del conflitto assume la forma dell’amplifi-


cazione, che combina varie tipologie retoriche ma che, accumulando iperbo-
le su iperbole, vuole persuadere emotivamente il lettore che l’omologazione
planetaria, come un silenzio campale, è il risultato di una lotta epica, tanto
furiosa quanto invisibile e rimossa. La cronaca degli scontri si avvale di un
ritmo velocissimo, da finta radiocronaca sportiva: l’occhio del narratore si
sposta sul campo di battaglia con rapidi zoom come una telecamera; la sintassi
è dominata dall’asindeto e dall’enumerazione:

Volano biglie chiavi inglesi mozzi bottiglie stracci di fuoco […] esplodono colpi spa-
ri razzi urla sirene. Due morti al recinto nordovest, quattro ustionati gravi al cancello
est, tre saltati in aria, una decina investiti da autoblindo20.

Se idranti, molotov e lacrimogeni sono pertinenti al contesto delle rivol-


te nostrane, raffiche e lanciarazzi appartengono a scenari altri: nelle Mosche
il cortocircuito visionario che le iperboli spiazzanti rendono possibile finisce
col concentrare in un solo luogo allegorico, i cancelli della Fiat, e in un tempo
specifico, la fine degli anni Settanta, tutto il conflitto planetario di un decennio.

«In nome del popolo italiano», e io vidi uno dei nostri più vicini sparargli netta una
revolverata. Tech tech, come una piccola pressa ribaditrice. Il coperchio restò alto ma
l’elmetto sparì sotto. Le autoblindo spararono altre raffiche all’altezza delle lance del
recinto, una contro il muretto di cemento. Si videro le schegge di cemento e di ghisa, e si
vide cadere un altro dei nostri. Arrivarono camion e camionette, drappelli armati in piedi e
in posizione d’attacco. Noi fuggimmo via lungo i muri delle officine, cercando scampo fra
le porte, le tettoie esterne e i depositi. […] Lo scontro era largo e denso, sbandava sempre
più compatto da un punto all’altro, come lievitando. Alcuni giovani si scansarono per fare
un piano. Quasi subito si divisero scattando in ogni direzione dentro quella massa bestiale.
Le frecce provocarono squami e sussulti laceranti; esplosero colpi d’arma da fuoco e due tre
bombe, lampeggiarono coltelli e pugnali. Il mucchio cominciava a muoversi in diverse sfere
che reagivano ognuna a un proprio stimolo, a eruzioni dal fondo, a resezioni alla base21.

Alla smaterializzazione finanziaria del mondo, dominante nelle sequenze in cui


è al centro la marionetta olivettiana di Bruto Saraccini, Volponi accosta, nel raccon-
to della sconfitta operaia, la logica pesante del conflitto, rappresentabile grazie a un
personaggio ancora corporeo e «pre-elettronico», Antonino Tecraso, con esiti di
tragica ironia. Perché la società fosse pensabile solo come il paradiso del «terziario
onirico» (sembra rammentarci l’autore, da dirigente olivettiano sconfitto ma non
pacificato) è stata necessaria la vittoria sulla classe lavoratrice organizzata, i cui bi-
sogni di autogoverno erano incompatibili con la logica del capitale.

20
Ivi, p. 139.
21
Ivi, pp. 139-140.
Giuseppe Alessi

L’uomo e la macchina.
Fortini alla Olivetti

Tra il gruppo di intellettuali che dalla fine degli anni ’40 lavorano allo sta-
bilimento della Olivetti di Ivrea, centro del progetto innovativo di Adriano
Olivetti, industriale-intellettuale avvertito e sensibile alle istanze di promo-
zione sociale e culturale dell’Italia del dopoguerra, c’è anche Franco Fortini,
insieme, tra gli altri, a Giovanni Giudici, Giovanni Pintori, Ottiero Ottieri,
Giancarlo Buzzi e Paolo Volponi.
La storia di Fortini alla Olivetti comincia nel 1947, quando accetta l’offerta
di lavoro di Adriano e si trasferisce a Ivrea: il suo compito sarebbe stato quel-
lo di promuovere una serie di iniziative culturali per la compagnia, stimolato
anche dall’opportunità di lavorare a stretto contatto con gli operai di fabbrica.
Quando nel luglio 1948, in seguito all’attentato a Togliatti, si verificano a Ivrea
dei disordini in fabbrica, Fortini scrive una serie di ciclostilati per esprimere il
pieno sostegno agli operai incitandoli alla rivolta. Olivetti allora deve allonta-
narlo dal Canavese e lo manda a Milano, dove avrebbe lavorato come copywrit-
er presso l’Ufficio pubblicità. Fortini avrebbe raccontato così questo discusso
trasferimento: «Qualsiasi altro industriale mi avrebbe cacciato su due piedi, per
le noie che gli stavo procurando, e invece dopo una intemerata telefonica piut-
tosto aspra Olivetti mi condannò – mi condannò, sì, ma facendomi un regalo
straordinario, cioè trasferendomi a Milano, alla pubblicità»1.
Quella di Olivetti fu un’esperienza di imprenditorialità illuminata, secon-
do le testimonianze di chi ebbe l’opportunità di lavorare in azienda e di con-
frontare la propria situazione aziendale con altre. Come racconta Michele
Ranchetti, il gruppo di intellettuali che lavorava alla Olivetti aveva la perce-
zione di costituire un’avanguardia nel campo dell’editoria rispetto, per esem-
pio, ai colleghi della Einaudi: il loro coinvolgimento in un’impresa culturale
modernissima era profondo soprattutto perché si sentivano «ad un altro li-
vello, non di verità, perché la verità non c’era, né da una parte né dall’altra,
ma ad un livello di partecipazione al presente diverso»2. Fu un momento di

1
Franco Fortini, Cronologia, in Id., Saggi ed Epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Mi-
lano 2003, pp. xcvi-xcvii.
2
Testimonianza di M. Ranchetti a M. Scotti in M. Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista
italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Ediesse, Roma 2011, p. 114. Corsivo dell’autrice.

L’ospite ingrato ns 6
80 Giuseppe Alessi

grande crescita intellettuale, come scrive Mariamargherita Scotti: «Lavorare


nell’epicentro del neocapitalismo in anni in cui il modello dell’intellettuale
tecnico non era ancora diffuso rappresentò per i marxisti critici un’esperienza
fondamentale»3, i quali d’altra parte, lavorando lontano dal chiuso delle of-
ficine, erano consapevoli di rivestire una posizione di privilegio rispetto agli
operai di fabbrica.
Per Fortini quello pubblicitario sarebbe stato un campo di prova molto
formativo per il suo percorso intellettuale e per la sua scrittura. Proprio lì
avrebbe imparato a evidenziare i nuclei semantici del discorso, a dare rilievo
a un messaggio non in forza delle sue specifiche metriche ma da un punto di
vista grafico-retorico: la pubblicità infatti doveva catturare l’attenzione dello
spettatore e trasferire il messaggio attraverso un impianto retorico in cui le
pause e i silenzi hanno il compito di cooperare con il codice figurativo delle
pubblicità, la fotografia, la cornice dei colori. Franco Fortini e Giovanni Giu-
dici, infatti, lavorando a contatto con i grafici della Olivetti – come Albe Stei-
ner, responsabile della impaginazione del «Politecnico» e uno dei designer
più importanti di tutto il Novecento –, avevano la possibilità di concepire i
progetti insieme e svilupparli nell’ambito di un confronto diretto e costante.
È alla Olivetti che Fortini si mette alla prova per la prima volta nella ste-
sura di testi per film, iniziando qui un processo di ricerca estetica che sarebbe
arrivato a compimento nei documentari All’armi siam fascisti4 (1961), Scioperi
a Torino5 (1962), e La statua di Stalin6 (1963), dove i motivi tipici della poe-
sia fortiniana – la speranza, la scelta, la verità – saranno organizzati secondo
un’armatura retorica che non smette di farsi ispirare dalla radice etico-politica
del conflitto. Si tratta di un tipo di scrittura inedito per Fortini in cui la pa-

3
Ibid.
4
All’armi siam fascisti!, L. Del Fra, F. Fortini, C. Mangini, L. Miccichè, Italia, 1961. È il film
di montaggio che segna l’avvio del sodalizio artistico tra Fortini, Del Fra e Mangini e che racconta
cinquant’anni di storia italiana ed europea dagli anni ’10 al 1960. Moravia lo definì «il miglior film
documentario sul fascismo» (Alberto Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990,
a cura di A. Pezzotto, A. Gilardelli, Bompiani, Milano 2010, p. 429); Pasolini scrisse a caldo che si
trattava di «un film stupendo, una fra le più emozionanti opere cinematografiche che abbia mai visto»,
(Pier Paolo Pasolini, «Vie Nuove», 30 settembre 1961); per Gianni Rondolino, All’armi è «la migliore
interpretazione critica del fascismo che il cinema ci abbia dato» (Gianni Rondolino, voce su Franco
Fortini, in Dizionario del cinema italiano 1945-1969, Einaudi, Torino 1969, pp. 139-140).
5
Scioperi a Torino, P. Gobetti, A. Gobetti, Italia, 1962. Con i testi di Fortini e le musiche di S.
Liberovici, questo film di tipo testimoniale documenta gli scioperi della Lancia e della Michelin che
scoppiarono tra gennaio e febbraio del ’62 e che avrebbero portato, in estate, alla rivolta di Piazza
Statuto.
6
Si tratta del commento ideato da Fortini per il film di montaggio realizzato da C. Mangini e L.
Del Fra che avrebbe raccontato cinquant’anni di storia russa – e del movimento operaio – dall’Im-
pero Zarista, alla Rivoluzione d’ottobre, dalla guida di Lenin al ventennio di Stalin. I numerosi tagli
apportati alla pellicola dalla casa di produzione avrebbero indotto gli autori al ritiro della firma dal
film, uscito poi con il titolo di Processo a Stalin (1963) con le firme del produttore F. Lucisano e del
montatore R. May.
L’uomo e la macchina. Fortini alla Olivetti 81

rola costituisce il controcanto di una narrazione che è già in atto secondo le


modalità configurative che sono proprie del linguaggio delle immagini e del
montaggio. In questo senso, il commento deve riuscire a fornire una corni-
ce di «informazione cronistica e di interpretazione ideologico-storica»7: se
da un lato informa e chiarisce, dunque, dall’altro orienta in senso ideologico
convocando la partecipazione attiva dello spettatore.
Il primo lavoro che Fortini realizza per il cinema d’impresa risale al 1950:
inizialmente pubblicato solo in brossura, poi verrà utilizzato per il documen-
tario intitolato Incontro con l’Olivetti e diretto da Giorgio Ferroni. Altri tre
film per Olivetti vengono realizzati nel ’68: i primi due, Divisione controllo
numerico e Auctor. Meccanica a controllo elettronico, diretti da Aristide Bo-
sio, sono film tecnici; il terzo invece, Le regole del gioco, per la regia di Mas-
simo Magrì, è una pellicola molto interessante perché propone una visione di
sviluppo in relazione al rapporto tra uomo e macchina. Ancora nel ’68 e nel
’69 Fortini scrive i testi per due film, entrambi diretti da Valentino Orsini: il
primo è commissionato da Ansaldo, società industriale del settore metalmec-
canico, e si intitola Una strada d’acciaio; il secondo, Progetto 128, esce per la
Fiat, ma Fortini non firma il commento. In questa sede prenderemo breve-
mente in esame Incontro con Olivetti e Le regole del gioco per provare a indi-
viduare gli snodi stilistici di un tipo di scrittura che, sebbene nasca e si evol-
va in riferimento a contesti diversi da quelli pubblicitari, approda al cinema
d’impresa misurandosi con argomenti inediti; nondimeno, sarà interessante
capire come si sviluppa nell’uno e nell’altro film il rapporto uomo-macchina.
Prima, però, un cenno lo merita il commento a Una strada d’acciaio
(1968), il documentario sulla sopraelevata di Genova che attesta la pianifica-
zione e la costruzione della strada urbana a scorrimento veloce lunga seimila-
ottocento metri. Qui l’impronta di Fortini è la più riconoscibile, nonostante
il tema del documentario appaia distante dai motivi della sua poesia: il testo
ha la forma di una grande ballata metrica con un ritornello interno e con as-
sonanze e variazioni tipiche dell’impianto retorico fortiniano8, che predilige,
come vedremo di seguito più nel dettaglio, la disposizione dei sintagmi in
serie asindetiche:

La sopraelevata ha verbi al passato: è stata progettata, fu prevista, si iniziò, si finì.


La sopraelevata ha verbi all’imperfetto: la venivano costruendo, la innalzavano, la
portavano innanzi.
La sopraelevata ha verbi al presente: serrano bulloni, avanza, si coordina, vi corrono
auto, si va.
La strada si è fatta strada.

7
Franco Fortini, Tre testi per film, Edizioni Avanti!, Milano 1963, p. 6.
8
Cfr. Luca Lenzini, Fortini e il cinema, https://www.ospiteingrato.unisi.it/fortini-e-il-cinema,
16 dicembre 2010.
82 Giuseppe Alessi

E ancora:

Spazi ordinati, spazi mobili, spazi diretti, area da attraversare, da ordinare, da per-
correre, in blocchi, frazioni, frammenti, luci, lampi.

Il dettato di Fortini è inconfondibile: «Si avverte – scrive Lenzini – nel


rapporto tra decostruzione “sintattica” e costruzione architettonica, segmen-
to o sintagma e insieme del discorso, anche l’eco di un luogo concettuale e
poetico di primo piano nell’opera fortiniana»9.

1.1 Incontro con Olivetti (1950)

Incontro con Olivetti rappresenta il momento aurorale della scrittura per


film di Fortini. Si tratta del racconto di una giornata dentro il villaggio Oli-
vetti, un ecosistema autosufficiente in cui la vita delle operaie, degli operai e
delle loro famiglie si sviluppa tra il complesso residenziale e i luoghi del lavo-
ro, quelli della formazione e dello svago. La ricerca di una simbiosi tra uomo,
territorio e industria ispira il visionario progetto olivettiano che, da una parte,
rifiuta la massimizzazione dei profitti come fine ultimo dell’impresa, dall’al-
tra, si fonda sulla proposta di investire i ricavi per lo sviluppo culturale, socia-
le e materiale della comunità, oltrepassando così le logiche di accumulazione
capitalistica. Il testo di Fortini verrà pubblicato a parte e uscirà prima del film,
nel 1949, con il titolo Visita a una fabbrica10, mentre il progetto grafico sarà
curato da Brizzolara e Steiner.
All’inizio della narrazione, dunque, domina l’elemento naturale: il quadret-
to idilliaco incornicia le colline del Canavese dove scorre la Dora, la città di
Ivrea e il centro agrario Olivetti da cui escono le mucche per il pascolo. Il girato
si apre con scene che rivelano da subito l’intenzione spiccata di sottolineare il
legame con l’ambiente circostante. Viene quindi introdotto l’elemento umano
nella narrazione: si vedono i blocchi delle case per i dipendenti, i bambini che
vanno a scuola e le operaie e gli operai che affluiscono nelle officine. All’interno
della fabbrica non si trovano solo le officine: sorgono ambulatori e infermerie
in cui sono offerte visite gratuite, trattamenti e cure come l’aerosol-terapia. Ci
sono anche i consultori – ostetrico e pediatrico – dell’asilo nido, in cui i bimbi
sono educati a prendersi cura di sé stessi; degli infanti, invece, si occupano le
governanti. Si tratta di un ecosistema perfettamente equilibrato e diversificato,
in cui la formazione scolastica si rivolge ai piccoli e ai grandi.

9
Ibid.
10
Visita a una fabbrica, a cura di Franco Fortini, Carlo Brizzolara, Albe Steiner, Olivetti Editore,
Ivrea 1949.
L’uomo e la macchina. Fortini alla Olivetti 83

Con un passaggio diegetico raffinatissimo la voce narrante ci introduce


all’interno della fabbrica che, viene ricordato, si trova a stretto contatto con
la campagna circostante, generosa dispensatrice di aria fresca e luce cristallina.
Prima si passa attraverso l’antifabbrica: è lì che i raggi del sole battono sulle
carte degli ingegneri negli uffici progettazione e in quelli di attrezzaggio dove
vengono ideate «le macchine per costruire altre macchine». Si entra così nelle
officine, il cuore della fabbrica, e ci si concentra subito sui processi produttivi:
l’immagine è dominata sempre dall’uomo in posizione di rilievo, al centro o
in primo piano. E quando l’inquadratura si stringe nel dettaglio o vi è inclu-
sa la mano, o il braccio dell’operaio, oppure è la voce a ricordare la funzione
dell’uomo-artigiano che orchestra il processo che si dà a vedere nel frattempo.
Il racconto poi si immerge nel bagno del gergo tecnico – «[…] altre frese la
mordono, mentre un razionale sistema di aspiratori, libera la macchina dalla
limatura di ghisa. Una fresatrice speciale semiautomatica – continua – costruita
espressamente spicca in due parti la nostra doppia piastra portamartelletti»11;
tuttavia, un ruolo di primo piano ora è svolto dalla musica, che tiene alto il rit-
mo, prima incalzando e quindi risolvendosi nel finale: «e gli esatti intagli dove
si allocheranno i martelletti si schiudono delicatamente nel vivo della piastra».
I cambi di sequenza sono repentini, grazie a un montaggio dinamico, e lo
stile del racconto verbale diviene più espressivo grazie all’alternarsi dei tricolon:
«centinaia di presse tagliano, formano, curvano le lamiere di acciaio, le tranciano,
le forano, le coniano. Dalla forza massiccia dei grandi volani escono a milioni i
martelletti, leve dentate, capsule, rondelle». Appaiono anche delle quasi-rime e
delle consonanze interne: «il martelletto vola via sotto la trancia e ne residua una
frangia elegante di ritagli». Altre volte la dimensione ludica e divertita della dizio-
ne si iscrive all’attenzione dello spettatore in forza sia di un elementare processo
denominativo in cui è la voce a sottolineare che si tratta di un gioco, appunto –
«Un trapano apre i fori per il gioco degli snodi e, come in una danza bizzarra, un
martelletto dopo l’altro capriola nelle cassette» –, sia della drammatizzazione de-
gli elementi: «anche le molle escono da questo reparto, dai fili di acciaio armonico
spuntano i loro riccioli elastici a farsi recidere da queste crudeli cesoie».
È il momento della pausa pranzo e, accanto alle fabbriche, troviamo le
cucine e le mense, gli asili, l’infermeria, il convalescenziario e la biblioteca,
che è un centro vivace di attività culturale per tutto il Canavese. Nella scena
in cui giocano i bambini è ancora una volta sottolineata la simbiosi tra cultura
e natura: la giostra fra gli alberi, le pareti di vetro e il prato, la meraviglia per
la scoperta dei gessetti colorati e quella delle farfalle.

11
Le «frese» e lo scenario dell’officina torneranno in Sul primo numero di «quaderni rossi», in Pa-
esaggio con serpente: «[…] Acuminati / quei cirri che le frese / schizzano e gli incupiti olii convogliano
/ a lui nei sonni erano figura / di seme morto e di erba futura» (Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura
di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014, p. 397).
84 Giuseppe Alessi

Quindi si rientra in fabbrica e ricomincia il processo produttivo fino alla


fase dell’assemblaggio. Le immagini, bellissime, evidenziano le linee simme-
triche delle forme. Il miracolo della produzione è avvenuto: la macchina da
scrivere è nata, e dopo i vagiti della registrazione e del rodaggio potrà partire
per le case di tutto il mondo. È finito anche il turno di lavoro, gli operai sono
allegri e spensierati (di fatica non c’è traccia proprio perché sempre di filmato
promozionale si tratta). «Quelli che invadono spogliatoi e docce sono i pro-
tagonisti della vicenda»: il ruolo principale – si fa notare per l’ennesima volta
nel testo filmico, prima attraverso la configurazione delle immagini ora di
quella delle parole – spetta all’uomo, non alla macchina. Nel finale i lavorato-
ri-amici si salutano e tornano dalle rispettive famiglie. Intanto è calata la sera
e, in un’ambientazione da «sabato del villaggio», la lucerna si spegne e infine
domina un lustro di luna sulla Dora che rima con il riflesso del sole mattutino
con cui si era aperto il film.

1.2 Le regole del gioco (1968)

Le regole del gioco è un cortometraggio realizzato ancora per Olivetti in cui


subito si percepisce una più accentuata intonazione ideologica del discorso.
È il 1968, anno cruciale per i movimenti di protesta che coinvolsero il mondo
operaio e quello studentesco, e la contestuale temperie storico-politica è sen-
sibilmente mutata rispetto a diciotto anni prima, quando usciva Incontro con
Olivetti. Il boom economico e la modernizzazione industriale e tecnologica
avevano trasformato la struttura economica del paese, e la lotta di classe era
entrata in una fase nuova a partire dai primi anni ’60 con le mobilitazioni
contro il governo Tambroni e le lotte sindacali culminate con la rivolta di
Piazza Statuto (1962) fino alla lunga stagione dei movimenti culminata nel
’77. Il dettato allora si fa più denso e strutturato, ma i giochi linguistici non
mancano e sono da subito intriganti. L’incipit poi è efficacissimo:

Dicono che affogheremo nella carta straccia, nei barattoli vuoti o pieni. Dicono che il
profumo del carburante ha condannato l’odore di qualunque erba. Da venti, da trent’an-
ni ci spiegano che tutto è così complicato che la corsa al consumo consuma ogni specie di
corsa. Che in fondo ai corridoi del supermercato c’è un Minotauro a premi. […]
Ma ai mali del presente si rimedia con un po’ più di presenza: le macchine vinceranno
le macchine, ecco tutto.

La regia di Magrì è ricercata, il ritmo anche qui è molto elevato e il mon-


taggio veloce accosta l’ordine delle cose semplici – immagini del pane, del
vino e delle noci – con quelle complesse – elaboratori elettronici, nastri per-
forati. Le sequenze sono accattivanti e giocano con le linee e i colori delle
L’uomo e la macchina. Fortini alla Olivetti 85

forme. L’oggetto del racconto, si capisce, adesso è il rapporto tra uomo e


macchina, ma qual è il gioco a cui allude il titolo? Il «gioco è questo insieme
di regole a cui obbediscono tanto il tuo piede quanto la tua mano, quanto la
meccanica dell’auto». Le regole dunque le fanno le macchine che comunicano
con il loro sistema di segni e il loro linguaggio.
Sono quasi passati vent’anni e la relazione uomo-macchina verificata in
Incontro è cambiata, poiché ora le macchine stanno guadagnando sempre più
spazio: quei saldi rapporti di subalternità della macchina si sono tanto incrina-
ti che ormai alle porte è il futuro dell’automazione, l’acquisita indipendenza
della macchina dall’uomo. «Certo, non siamo arrivati ancora all’automazione
completa», ma ci arriveremo presto, lascia intendere il dirigente protagonista
del corto, per il quale, s’intende, l’automazione gioca a favore dell’uomo: pri-
ma l’opera delle macchine era svolta da «persone, molte e molto specializzate.
Era un lavoro noioso, […] una responsabilità in lotta con la noia. Oggi un
calcolatore conosce tutti i precedenti e può venire registrando via via quanto
gli strumenti controllano, misurano, modificano». Si noti anche qui il ritorno
del tricolon.
Rispetto alle inquadrature di Incontro con Olivetti, adesso cambia anche
il linguaggio figurativo del film: al centro delle riprese ci sono le macchine.
Il rapporto è ribaltato, quindi, e la presenza dell’uomo nell’inquadratura è
ancillare e accessoria. Tutt’a un tratto, però, la voce ristabilisce con uno scatto
d’orgoglio la primazia dell’uomo:

Senza la presenza, senza la corrente mentale e la correzione intellettuale degli uomi-


ni, le macchine hanno la perfezione astratta e deprimente degli strumenti abbandonati
nell’orchestra.

I termini del discorso sono così impostati: le macchine sostituiscono quello


che l’uomo sa fare e non vuole fare. La melodia che l’organo suona è Can’t help
falling in love di Elvis, a sottolineare l’armonia che regola questo legame. Ricapi-
toliamo, dunque: all’inizio è presentato il miracolo tecnologico e la potenza delle
macchine, poi viene profilata l’indipendenza delle stesse nella logica di un’auto-
mazione che potrà portare soltanto benefici all’essere umano; infine, viene ricon-
fermato il primato dell’essere umano. Interessante allora sarà esaminare questo
passaggio quando ormai ci accingiamo alla conclusione del documentario.

Ma cosa ha reso possibile un più immediato rapporto fra uomo e calcolatore?


La novità è il software, l’insieme delle istruzioni per l’uso con le quali le macchine
trattano le informazioni. Se non gli dài l’anima logica, le macchine sono inutili, ferraglia,
residuati, oggetti poveri, opera morta, anche quando sono lucide e linde. Gli americani
questo lo chiamano hardware. Il software è la serie di ordini che la macchina deve eseguire.
Oggi il nostro lavoro di routine è stato eliminato; tutte le lunghe sequenze d’istru-
zione elementare sono belle che pronte, basta richiamarle con poche semplici frasi in ita-
86 Giuseppe Alessi

liano o in inglese; evidentemente in questo modo il nostro lavoro risulta più stimolante,
più originale, in una parola meno monotono.

A dare il soffio vitale alla macchina è l’uomo demiurgo, senza l’intervento


del quale la macchina giace come materia inerte, «ferraglia», «opera morta».
Ma le maglie di questo superbo dominio si allentano man mano. L’uomo deve
presto ammettere l’insostituibilità delle macchine elettroniche, dei calcolatori,
come ausilio indispensabile allo studio che egli conduce sui «comportamenti
dei materiali, le resistenze, gli attriti, gli invisibili terremoti della materia»: in
quel caso, sottolinea il narratore, «la forza di sintesi degli elaboratori non è
solo necessaria, è unica».
Come la ragione e, anzi, sostituendosi a essa, allora, il computer diviene
principio ordinatore del caos informe prodotto dall’uomo:

Il calcolatore entra nel disordine inutile, nel disordine faticoso della produzione, dei
magazzini, dei ricambi. Lo divide, lo classifica, lo riduce ad ordine. Gli elaboratori non
sopportano perditempi, masticano le loro cifre oggi ma pensano solo al domani, quando
il loro ordine ci farà liberi per un felice disordine.

C’è da ricordare che si tratta nuovamente di un corto a fini pubblicitari,


quindi della rivoluzione tecnologica si vogliono evidenziare solo i benefici e
le migliorie apportate alla vita.

L’automazione è una realtà che comincia a vivere in vari settori, è il fine ultimo a cui
tendere, l’unica possibilità che abbiamo di risolvere convenientemente tutta una serie di
problemi: i problemi del disordine, i problemi della quantità, i problemi del numero. I
veri protagonisti dell’automazione sono i calcolatori elettronici: piccoli o giganteschi, da
installare sul proprio tavolo o da sistemare in locali specializzati.
Sarà come telefonare, come accendere la tv, come mettere in marcia l’auto e forse tra
pochi anni l’ironia sarà già vinta dalla realtà.

Si conclude così il film, mentre scorrono le immagini delle macchine da scri-


vere nell’ambiente domestico in una pervasiva ma divertente coabitazione.

1.3 L’uomo e la macchina

Questi due film sono davvero interessanti allorché mostrano due diffe-
renti modelli di rappresentazione del rapporto uomo-macchina. In Incontro
con Olivetti è presente la memoria di Tempi moderni (1936), in cui l’umano
si scopriva incapace di adattarsi al ritmo, all’intensità delle macchine, e così
finiva per turbare il processo di identificazione: l’uomo chapliniano sente un
profondo senso di vergogna quando si rende conto di essere fuori dagli stan-
L’uomo e la macchina. Fortini alla Olivetti 87

dard di perfezione e di efficienza della macchina. Si tratta essenzialmente di


quello che Günther Anders ne L’uomo è antiquato ha definito «vergogna
prometeica»12. L’uomo, secondo Anders, si confronta col fabbricato tecno-
logico e si scopre inferiore, imperfetto: questo «dislivello» è l’effetto della
mancata sincronizzazione tra lo sviluppo etico, sensibile, umano e l’evolu-
zione del mondo delle macchine, un’asincronia già evidenziata da Jameson13,
per cui i salti tecnologici avrebbero creato progressivamente un distacco fra
corpo e macchina. Il rapporto di forza tra le due componenti si è ora in-
vertito a svantaggio dell’essere umano. Per Anders, l’uomo, diventato ormai
appendice di un sistema di macchine, si trasforma da attore a spettatore di un
mondo che è riprodotto e che, ormai, presuppone la vita come appendice di
un processo senza soggetto. In un altro saggio sul lavoro14, il filosofo tedesco
sostiene inoltre che l’operaio non riesce a liberarsi dal condizionamento di
fabbrica: «[L’uomo] non è più abbastanza libero per liberarsi di questi mo-
vimenti non liberi»15. Nessuna traccia di questo pensiero apocalittico rimane
sul fondo del film di Olivetti, dove il nesso simbiotico tra natura e cultura è
anzi celebrato perché nell’idea olivettiana il lavoro è liberato dalla messa in
valore dell’accumulazione del capitale, e nondimeno partecipa pienamente a
un programma di sviluppo sociale, civile e culturale che inizia con l’uomo, e
all’uomo – e quindi alla collettività – è finalizzato.
Nel secondo film, invece, centrale è la riflessione sul mutamento antro-
pologico: qui l’elemento meccanico è assurto a una dignità superiore rispetto
a quella rappresentata vent’anni prima, e diventa dunque l’oggetto primario
della rappresentazione. La macchina è a disposizione dell’uomo, che le per-
mette di sostituirlo e, al contempo, rimane l’unico in grado di infonderle la
vita; tuttavia, ora la macchina esce dalla fabbrica e comincia a pervadere l’ha-
bitat umano. Come scrisse Toffetti: si tratta di «uno dei film “ideologici”, ti-
pici della produzione Olivetti, che non servono a pubblicizzare un prodotto,
ma sintetizzano una visione del rapporto tra tecnologia e sviluppo, con un in-
cipit che riafferma la fiducia nelle capacità dell’uomo di stringere il futuro nel-
le proprie mani e rifiuta ogni tentazione di arcadica fuga dalla modernità»16.
I gesti tipici della dizione fortiniana si ritrovano in entrambi i film: le frasi
brevi a effetto bucano lo schermo e, agevolate da ripetizioni, assonanze e
rime interne, si impongono all’attenzione dello spettatore, lo interrogano,
lo stimolano e gli profilano alcuni tratti della modernizzazione tecnologica.
Nell’opera di Fortini, che è totalmente inscritta dentro le coordinate etiche e

12
Cfr. Günter Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 33-54.
13
Cfr. Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi,
Roma 2007.
14
Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato cit., pp. 82-84.
15
Ivi, p. 83. Il corsivo è dell’autore.
16
L. Lenzini, Fortini e il cinema cit.
88 Giuseppe Alessi

politiche del conflitto, spetta al soggetto la scelta di reagire al modello di pro-


duzione e di riproduzione capitalistico, ovvero di aderire a un piano d’azio-
ne antagonistico, a un programma di emancipazione individuale e collettivo
come quello che Adriano Olivetti sperimentò con la sua impresa spalancando
all’esistente una possibilità, un’alternativa.
Erica Bellia

Colonizzati o colonizzatori?
L’anticolonialismo olivettiano sulle pagine di
«Comunità», 1954-1964

Nel ripercorrere le vicende del Movimento Comunità, fondato da Adria-


no Olivetti nel 1947 e sciolto all’indomani della sua morte, avvenuta nel 1960,
Umberto Serafini ne richiamava, a vent’anni dalla fine, il «deciso anticolonia-
lismo», affermato con forza già nella dichiarazione politica del Movimento1.
Questa, redatta nel 1953, contiene un paragrafo interamente dedicato ai po-
poli colonizzati e a ciò che la loro esperienza di emancipazione poteva rap-
presentare sullo scacchiere mondiale, fortemente polarizzato, della Guerra
Fredda. I Paesi in via di decolonizzazione incarnavano, alla vigilia della con-
ferenza di Bandung, la possibilità di una «terza via» fra egemonia statunitense
e sovietica e costituivano – agli occhi del socialismo europeo – un terreno
del quale osservare gli sviluppi economici, politici e sociali. La dichiarazione
politica del Movimento Comunità, inoltre, prospettava le possibilità attuative
di un progetto comunitario anche in realtà così distanti dal Canavese, in cui
quel progetto era idealmente radicato.
Tutto ciò appare pienamente coerente con l’ideale olivettiano, parzialmen-
te basato sul modello svizzero, di un mondo fatto di piccole comunità auto-
nome e confederate, amministrate in maniera partecipativa e attenta all’uso e
alla distribuzione delle risorse. È difficile dire in che misura questo antico-
lonialismo abbia effettivamente preso forma in termini di azioni di sostegno,
diretto o mediato, ai movimenti di decolonizzazione nel mondo degli anni
Cinquanta2. È comunque interessante metterlo a confronto con le parole che

1
Umberto Serafini, Adriano Olivetti e il Movimento Comunità, Edizioni di Comunità, Roma-
Ivrea 2015, Kindle Edition, posizione 3346 di 11334. La Dichiarazione Politica del Movimento Co-
munità è stata recentemente ripubblicata in Statuto e dichiarazione politica, a cura di Davide Caded-
du, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2016. I paragrafi 4 e 5, dedicati alla situazione internazionale,
sono di particolare interesse qui: cfr. pp. 68-74. Per una ricognizione puntuale dello sviluppo del
Movimento, si veda Giuseppe Iglieri, Storia del Movimento Comunità, Edizioni di Comunità, Roma-
Ivrea 2019.
2
Per quanto riguarda la prima metà degli anni Sessanta, ho avuto modo di verificare, attraverso
lo studio del «Fondo Carte Comitato Anticoloniale Italiano provenienti dall’archivio Fiap naziona-
le», conservato presso l’archivio dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri a Milano, che alcune delle
personalità vicine ad Adriano Olivetti intrattenevano contatti con il Comitato Anticoloniale Italiano
(CAI), un’associazione, con sede a Roma, che forniva sostegno materiale e ideologico alle lotte anti-
colonialiste nel mondo.

L’ospite ingrato ns 6
90 Erica Bellia

uno fra i più noti scrittori «olivettiani», Ottiero Ottieri, dedicava alla fabbri-
ca al centro del suo secondo romanzo industriale, Donnarumma all’assalto
(1959). Lo stabilimento in questione è, come è noto, trasparente trasposizio-
ne letteraria della sede Olivetti di Pozzuoli, progettata da Luigi Cosenza e
inaugurata nel 1955. Ottieri, nel descrivere il rapporto fra il narratore, «psi-
cotecnico», e l’ambiente con cui interagisce, si serve di un’allegoria coloniale,
ribadita in più punti del romanzo:

L’altro volto, l’ingannevole volto della fabbrica è di indurre noi impiegati e dirigenti
al colonialismo, e i candidati assunti all’orgoglio della aristocrazia operaia, la quale più
ancora che nel nord taglia i legami con la plebe: un pericoloso orgoglio aziendale e mai
politico, mai nazionale3.

Questa dimensione coloniale non caratterizza soltanto i rapporti fra Nord


e Sud Italia ma si manifesta agli occhi di Ottieri anche a Ivrea, cui allude il
Taccuino industriale uscito sul quarto numero del «Menabò» nel 1961 e am-
pliato e pubblicato in volume nel 1962 come La linea gotica4.
Le citazioni da Ottieri innescano un suggestivo cortocircuito con quelle
tratte dalla dichiarazione politica del Movimento e suggeriscono la possibilità
che l’industria italiana anche più genuinamente solidale con i popoli di recen-
te o imminente decolonizzazione non fosse esente essa stessa da atteggiamen-
ti coloniali, più o meno consapevoli. Ciò appare confermato, per esempio,
con riferimento al Sud Italia, dalle parole che Adriano Olivetti rivolse ai la-
voratori di Pozzuoli all’inaugurazione dello stabilimento5. La costruzione di
un’industria nel Mezzogiorno è ascritta paternalisticamente a «fardello»6 di

3
Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, in Id., Opere scelte, a cura di Giuseppe Montesano,
Maria Pace Ottieri e Cristina Nesi, Mondadori, Milano 2009, pp. 3-226: 37. Si veda anche il passo
seguente, in cui il riferimento al lavoro come «schiavitù» rinforza l’allegoria coloniale: «Quando si
sta in officina ognuno al proprio posto, si smorzano i loro fuochi pirotecnici e le nostre sciocche,
fredde presunzioni si riscaldano. Lo stabilimento fa gli uomini uguali, asciuga gli umori, riduce i vizi
del carattere. Gli organizzatori settentrionali si tolgono dal capo il cretino casco coloniale, con cui
sono scesi alla stazione di città, e cominciano a capire. C’è ovunque uno stesso silenzio di persone che
corrono dietro al tempo, e questa corsa costringe certamente alla schiavitù, ma mai come nel nostro
stabilimento compare l’altra faccia di questa schiavitù necessaria: la dura dignità, la costruzione gior-
naliera di una via di libertà» (ivi, p. 156).
4
Ottiero Ottieri, Taccuino industriale, «Il Menabò», 4, 1961, pp. 22-94: 57: «Così la sera, la notte, X
è deserta, con piccoli circoli di intellettuali, o di ingegneri, o di ragionieri, chiusi in difesa, in una atmo-
sfera coloniale. E la classe operaia, fuori del lavoro, si disperde, senza occasioni di nessun vero incontro
con gli intellettuali». Cfr. anche Id., La linea gotica: taccuino 1948-1958, Bompiani, Milano 1962.
5
Cfr. Adriano Olivetti, Ai lavoratori. Discorsi ai lavoratori di Pozzuoli e Ivrea presentati da
Luciano Gallino, Edizioni di Comunità, Roma 2020, Ebook Edition.
6
Ivi, p. 20: «Ma il problema non era nel nostro stabilirsi nel Mezzogiorno, esso consisteva piutto-
sto nella deviazione, impegnativa ed improvvisa, che ci avrebbe potuto distrarre dalla lotta durissima
che avevamo intrapresa in Europa, nelle due Americhe, in Sud Africa. Accettammo di buon grado il
nuovo fardello. Fu un atto di fede nell’avvenire e nel Progresso della nostra industria, ma soprattutto
un meditato omaggio ai bisogni di queste regioni».
Colonizzati o colonizzatori? 91

cui l’Olivetti si assumeva l’onere, nell’ambito di un progetto multinazionale.


Gli operai del Sud sono descritti come «fratelli» dei loro colleghi di Ivrea,
lasciando intendere la filiazione da un benevolo padre comune, in grado di
porre rimedio alla «malattia» cronica della disoccupazione. Tutto questo im-
maginario, che rimanda – se non altro linguisticamente – al «fardello dell’uo-
mo bianco» colonizzatore, complica ulteriormente il quadro.
Una fra le diverse strade percorribili per esplorare la contraddizione inne-
scata dai brani ottieriani citati è guardare alla rivista «Comunità», nata come
organo ufficiale dell’omonimo Movimento e poi sopravvissuta al suo sman-
tellamento sotto la direzione di Renzo Zorzi7. Esplorare la copertura riserva-
ta a questioni coloniali e anticoloniali su «Comunità» nel decennio che segue
la redazione della dichiarazione politica è utile per almeno due ragioni8. In-
nanzitutto, è possibile avere un’idea più chiara delle direzioni e delle implica-
zioni dell’anticolonialismo industriale olivettiano e comunitario. In secondo
luogo, dal momento che la rivista era aperta alla collaborazione di intellettua-
li, artisti e studiosi non appartenenti al Movimento, è possibile ottenere una
visione più sfumata e «plurale» delle idee che vi venivano promosse.
Ci si concentra qui su tre aspetti dell’anticolonialismo di «Comunità»,
attraverso il riferimento, inevitabilmente rapido, a una selezione di articoli
apparsi fra il 1954 e il 1964. Il primo aspetto è l’anticolonialismo esplicito del-
la rivista, nei suoi diversi riferimenti alle nazioni africane, asiatiche e sudame-
ricane in via di decolonizzazione, e alle forme di neocolonialismo. Ci si volge
poi agli articoli di critica all’imperialismo statunitense. Infine, si considera il
caso della letteratura e cultura afroamericana quale modello di un pensiero
anticolonialista generatosi ed espressosi all’interno di un’economia capitalista
occidentale. Il quadro che risulta da questa analisi conferma l’ambivalenza tra
l’anticolonialismo promosso da Olivetti e dagli intellettuali che gli gravitava-
no attorno e il para-colonialismo agito dall’industria italiana. Inoltre, restitu-
isce un’immagine più sfaccettata – e perciò, probabilmente, più concreta di
quella racchiusa in un programma politico – dell’anticolonialismo di Olivetti
e del Movimento Comunità.
Per quanto riguarda il primo aspetto, il contributo del giornalista e po-
litico socialista Paolo Vittorelli – pseudonimo di Raffaele Battino – è, negli
anni Cinquanta, cruciale. I suoi articoli coprono diversi aspetti del processo
di decolonizzazione su scala globale e ne snocciolano le contraddizioni, oltre
che i successi. Risale all’aprile 1954 l’articolo Vecchio e nuovo colonialismo,

7
Sulla rivista, si veda Beniamino de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le edizioni di Comunità
(1946-1960), Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2008.
8
Per avere un’idea di massima dello spazio occupato sulla rivista dalle riflessioni sulla situazione
internazionale e in particolare su questioni coloniali, si raccomanda la consultazione degli indici dal
1946 al 1960, reperibili al seguente URL: https://www.fondazioneadrianolivetti.it/la-rivista-comuni-
ta/ (consultato il 18 agosto 2021).
92 Erica Bellia

nel quale Vittorelli analizza il significato dei fenomeni di neocolonialismo nel


contesto della Guerra Fredda9. I legami fra discriminazione razziale e divi-
sioni di classe sono messi in luce e studiati nella loro natura dialettica – trat-
to, questo, in effetti caratteristico dell’anticolonialismo di matrice marxista e
socialista in Italia. A questo proposito, è interessante citare anche un pezzo
di Egidio Fermi uscito nel marzo 1957 come parte di una sua inchiesta sul-
la presenza della Chiesa cattolica nel mondo e dedicato alla Chiesa in Afri-
ca. Per dar conto del rapporto fra complesso di razza e complesso di classe,
Fermi cita il Sartre dell’Orphée Noir, oltre a menzionare, tra le sue fonti,
le riviste «Les Temps Modernes» e «Présence Africaine», organi attraverso i
quali il pensiero anticolonialista e della négritude conquista le sinistre euro-
pee10. Con riferimento all’operato della Chiesa in Africa, Fermi avverte che
«la grande tentazione del clero missionario è infatti ancora quella di occiden-
talizzare dapprima il clero indigeno e di tenerlo poi praticamente a un rango
subalterno».11 Anche una volta esauritasi l’esperienza coloniale propriamente
detta – sembra concludere Fermi –, le istituzioni occidentali, inclusa la Chie-
sa, trovano strade e strategie per esercitare influenza sui paesi decolonizzati.
Un altro scritto su cui vale la pena soffermarsi risale al novembre 1956 e
porta la firma di Giorgio Assan12. L’articolo affronta la questione del futu-
ro della Somalia, un nervo scoperto per l’Italia alla vigilia della fine del suo
mandato in un’area tanto contesa. Da una parte Assan smaschera l’ipocrisia
paternalista con la quale l’Italia e in generale l’Europa hanno gestito i rapporti
con i paesi colonizzati e condanna l’istituzione di relazioni di tipo neoco-
loniale. Dall’altra, nel farlo, riproduce una serie di luoghi comuni coloniali
nella descrizione dell’Africa, che in qualche modo minano la tenuta del suo
discorso anticolonialista:

Nel trattare con l’Africa, con la Somalia, è bene che diciamo con sincerità che la
nostra politica è basata sui nostri interessi, senza spolverare i Vangeli, dietro i quali,
ahinoi, sono state commesse troppo crudeli ingiustizie. E senza tentar di vendere palline
colorate con le quali neppure il maschietto somalo che all’angolo pulisce le scarpe vuol
più giuocare. Nessuno di questi interessi è disonorevole, né incompatibile con i loro se
questi interessi saranno esclusivamente basati sull’economia, su liberi scambi in liberi
mercati; e non già su ritorni palesi o meno di colonialismo, sia pure di colonialismo
all’acqua di rose. Al ragazzo che è cresciuto, anche se è cresciuto troppo in fretta, non si
può negare la chiave di casa: altrimenti se la prende da sé13.

9
Cfr. Paolo Vittorelli, Vecchio e nuovo colonialismo, «Comunità», 24, 1954, pp. 14-19.
10
Cfr. Egidio Fermi, La chiesa in Africa (I), «Comunità», 48, 1957, pp. 18-31; Id., La chiesa in
Africa (II), «Comunità», 50, 1957, pp. 47-61. Cfr. anche Jean-Paul Sartre, Orfeo nero: una lettura
poetica della negritudine, trad. di Santo Arcoleo, Marinotti, Milano 2009.
11
E. Fermi, La Chiesa in Africa (II), cit., p. 55.
12
Giorgio Assan, Presente e avvenire della Somalia, «Comunità», 44, 1956, pp. 18-32.
13
Ivi, p. 20.
Colonizzati o colonizzatori? 93

L’autore invita qui a non mistificare le ragioni e gli interessi economici che
spingono i paesi «occidentali» a intervenire in Africa. Tuttavia, l’immaginario
che associa ai paesi colonizzati gli attributi dell’infanzia è qui simultaneamen-
te contestato e adoperato (es. «palline», «maschietto», «ragazzo»).
Al di là di queste spie di qualcosa che accade sottotraccia, a un livello non
sempre conscio e perciò più interessante, «Comunità» si dimostra coerente
nella sua adesione all’anticolonialismo. Cesare Musatti, al ritorno dal noto
viaggio in Cina del ’55, cui presero parte – fra gli altri – anche Franco Fortini
e Carlo Cassola, scrive che

le nazioni occidentali, che pure hanno l’orgoglio di sentirsi portatrici di una più pro-
gredita civiltà, in questo paese, dove sono venute in cerca di traffici e di profitti, figurano
soltanto per gli elementi deteriori del loro modo di vita. Proprio per questo l’era del
colonialismo è destinata a finire in Cina e dovunque14.

Il senso di una fine dell’era coloniale è ribadito più volte sulla rivista,
man mano che ci si avvicina agli anni Sessanta. Il 1960 è definito da Mar-
cello Dell’Omodarme come «l’anno dell’Africa», in virtù del dispiegarsi del
processo di decolonizzazione in quel continente e del protagonismo storico
che ne conseguiva per i popoli decolonizzati15. Nel 1963, quando ormai l’espe-
rienza del Movimento Comunità poteva dirsi conclusa, lo storico Giampaolo
Calchi Novati cura un numero monografico dedicato non, neutralmente, alla
decolonizzazione, bensì esplicitamente all’«impegno dell’anticolonialismo»16.
I nomi di Frantz Fanon e Francis Jeanson fanno la loro comparsa per la prima
volta su un periodico che fino a quel momento aveva tenuto un atteggiamento
moderato. Il numero, d’altra parte, non fa riferimento all’esperienza coloniale
italiana in Africa, e il corredo di immagini – parte integrante della linea edi-
toriale di «Comunità» – sembra indugiare più su aspetti estetici che politici.
Un’altra direttrice lungo la quale la riflessione anticolonialista e anti-im-
perialista di «Comunità» si svolge riguarda il peso degli Stati Uniti e delle
loro politiche in Europa17. È ancora Paolo Vittorelli a portare avanti un ra-
gionamento sui rischi dell’imperialismo americano, segnalando come già nel
1955 l’influenza statunitense si configurasse nei termini di un «vero e proprio

14
Cesare Musatti, Cina 1955, «Comunità», 35, 1955, pp. 10-31: 31.
15
Marcello Dell’Omodarme, Il fallimento della federazione Rhodesia-Niassa, «Comunità», 87,
1961, pp. 27-31: 27.
16
L’impegno dell’anticolonialismo, «Comunità», 114, 1963, pp. 1-2.
17
Sull’egemonia culturale americana in Europa cfr. Victoria De Grazia, Irresistible Empire:
America’s Advance Through Twentieth-Century Europe, Harvard University Press, Cambridge
(MA) 2005; trad. it. di Andrea Mazza e Luca Lamberti, L’impero irresistibile: la società dei consumi
americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006. Cfr. anche Dominque Barjot e Christophe
Réveillard (a cura di), L’américanisation de l’Europe occidentale au XXe siècle: mythe et réalité, Pres-
ses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2002.
94 Erica Bellia

imperialismo»18. Per Olivetti – e per l’industria, la politica, l’economia e la


società italiane uscite dalla seconda guerra mondiale – il colosso americano
esercitava un indubbio fascino, ma anche qualcosa da cui emanciparsi. Già
nelle sue lettere dal primo viaggio in Nord America degli anni Venti, Adriano
Olivetti, accanto ai commenti positivi sulla statistica e sull’organizzazione,
collezionava «impressioni […] piuttosto cattive» rispetto al popolo norda-
mericano, dovute principalmente all’affarismo e alla «mania» del denaro19.
L’acquisizione olivettiana della Underwood – pilastro americano nella pro-
duzione di macchine da scrivere – fra il ’59 e il ’60 rappresentava in questo
senso una sfida, da parte dell’industria italiana dal volto umano, all’egemonia
economica e tecnica del capitalismo statunitense, oltre che un’inversione nella
direzione del flusso di capitale20.
È in un articolo dell’urbanista e sociologo Carlo Doglio che si ritrova
il senso di quanto la presenza americana fosse avvertita come incombente
e minacciosa nell’Italia in via di modernizzazione e industrializzazione,
ma quanto anche, d’altra parte, l’industrializzazione italiana stessa, guidata
dall’alto e senza attenzione alle comunità locali, potesse risultare altrettanto
opprimente. Riassumendo il pensiero sul petrolio abruzzese di socialisti e
comunisti fautori della nazionalizzazione delle risorse petrolifere, Doglio
mostra l’esistenza di una dimensione autoriflessiva di certo anticolonialismo:

Vogliamo [qui Doglio sta retoricamente adottando il punto di vista dei fautori co-
munisti e socialisti della nazionalizzazione, pur senza condividerlo] che l’ENI agisca
più attivamente di come fa, lasciando scoperte troppo larghe zone del territorio nazio-
nale e procedendo – in sede metano – in modi che non si differenziano da quelli di uno
sfruttamento monopolistico. Siamo assolutamente contrari all’intervento in Italia delle
Compagnie del Cartello, le «sette sorelle» (5 americane e 2 inglesi) che fanno il buono e
il cattivo tempo nel mondo e trattano tutti i paesi produttori di petrolio come paesi co-
loniali. Vogliamo la nazionalizzazione anche per far sì che il petrolio costi in Italia molto
meno del prezzo internazionale, sì da poterlo usare come fonte di energia per una reale
industrializzazione delle nostre aree sottosviluppate e anzitutto nel Mezzogiorno21.

Nell’atto di stigmatizzare la minaccia che, agli occhi di comunisti e so-


cialisti, il cartello petrolifero rappresentava per l’Italia, la sua autonomia e le
sue risorse, Doglio nomina l’ENI quale istituzione da cui veniva pretesa la
tutela della politica energetica italiana nonché del suo territorio. L’impegno

18
Paolo Vittorelli, I pericoli della sicurezza, «Comunità», 30, 1955, pp. 2-11: 3.
19
Adriano Olivetti, Dall’America: lettere ai familiari (1925-1926), Edizioni di Comunità, Roma
2020, Ebook Edition, pp. 48 e 96.
20
Per una valutazione economica dell’acquisizione, cfr. Federico Barbiellini Amidei e Andrea
Goldstein, Corporate Europe in the US: Olivetti’s Acquisition of Underwood Fifty Years On, «Busi-
ness History», 54.2 (2012), pp. 262–284.
21
Carlo Doglio, L’Abruzzo e il petrolio, «Comunità», 38 (1956), pp. 22-31: 24.
Colonizzati o colonizzatori? 95

anticolonialista dell’ENI di Enrico Mattei è noto e se ne trova traccia sulla


rivista aziendale «Il gatto selvatico» oltre che nei discorsi di Mattei e nella
produzione culturale e cinematografica dell’azienda22. D’altra parte, è inte-
ressante notare qui come Doglio appoggi piuttosto la proposta olivettiana
di un «Piano per l’industrializzazione del Mezzogiorno» basato sulla parte-
cipazione democratica dei lavoratori riuniti in comunità. Nell’ambito di un
interesse generalizzato e più o meno genuino verso le aree sottosviluppate
su scala globale, derivante dall’applicazione del quarto punto del discorso
di Harry Truman del ’49, anche le istituzioni italiane sembrano, agli occhi di
Doglio, praticare del colonialismo sul loro stesso territorio riducendo a mero
«oggetto» dello sviluppo le popolazioni che abitano le aree sottosviluppate23.
D’altra parte, pur nella critica a questo modello di sviluppo dall’alto, Doglio
sembra dare per scontata la presunta necessità di una industrializzazione delle
aree rurali e ascriverla, seguendo l’economista – socialista fabiano e liberta-
rio – George Douglas Howard Cole, a «una specie di libero missionariato
(laico, senza autoritarismi nel cuore) che i tecnici di qualunque professione
dovrebbero intraprendere. Si tratta di andar a portare le proprie cognizioni
ben sapendo che molte cose si potranno imparare anche là, nelle boscaglie
dell’Africa o sugli altipiani dell’America del Sud»24.
Se da una parte, dunque, permane una certa ambiguità tra rifiuto del mo-
dello americano e compromissione con le sue caratteristiche, il contrappunto
a questo modello è identificato da alcuni nella cultura afroamericana, quale
interprete di un’opposizione dall’interno al sistema capitalistico. È interes-
sante notare come, sulle pagine di «Comunità», ciò passi ancora una vol-
ta attraverso la letteratura. Nella prima puntata di un’inchiesta sull’operato
dell’Ente per la Colonizzazione del Delta Padano, il sociologo Luciano Gal-
lino descrive la condizione dei braccianti che abitavano le terre toccate dal
processo di riforma agraria alla vigilia della loro trasformazione in piccoli
proprietari terrieri. Il loro rapporto con l’impresa di cui erano dipendenti è
descritto come «sradicamento»25, e per dar conto della portata di questo sra-
dicamento, tutt’altro che letterario, Gallino ricorre a una metafora letteraria:

22
Cfr. almeno Enrico Mattei, Il complesso d’inferiorità, Edizioni di Comunità, Roma, 2020, e Luca Pe-
retti, L’Algeria e l’ENI, «Il lavoro culturale», 1° novembre 2017, reperibile al seguente URL: https://www.
lavoroculturale.org/algeria-eni-sentieri-decolonizzazione/luca-peretti/ (consultato il 1° dicembre 2020).
23
C. Doglio, L’Abruzzo e il petrolio cit., p. 27: «Quale ruolo era riservato alla gente d’Abruzzo?
Solo quello di oggetto del piano [non si allude qui a quello olivettiano ma a un piano elaborato da Cas-
sa del Mezzogiorno ed ENI], sicché la trasformazione di quella – sua – vita sociale avvenga secondo
una serie di meccaniche reazioni a catena di carattere puramente economico?».
24
Ivi, pp. 29-30.
25
Sul concetto di «sradicamento» negli ambienti olivettiani va ricordato che, per le Edizioni di Comu-
nità, era uscita nel 1954 la traduzione di Franco Fortini di: Simone Weil, L’Enracinement, prélude à une dé-
claration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Paris 1949; trad. it. di Franco Fortini, La prima radice:
preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954.
96 Erica Bellia

Lo sradicamento socioeconomico dei braccianti non è quindi un’espressione lette-


raria. Per ogni rispetto sociale ed economico essi sono «uomini invisibili» (quasi come i
negri d’America di cui parla Ellison), l’occupazione e il reddito medi dei quali, pur così
bassi, sono già tenuti a un livello forzosamente alto nei confronti della richiesta effettiva
di mano d’opera dalle pressioni dei sindacati e dalle varie forme di intervento dello stato,
a cominciare dall’imponibile di mano d’opera26.

Gallino era stato autore, insieme con Carlo Fruttero, di una traduzione
dell’Uomo invisibile dello scrittore afroamericano Ralph Ellison, cui si fa qui
riferimento27. La riforma agraria degli anni Cinquanta, pensata per trasforma-
re i braccianti in coloni, dotati di proprietà sulla terra, agli occhi di Gallino
temperava parzialmente lo sradicamento e l’«invisibilità» contadina anche
per mezzo dell’introduzione di cooperative, sebbene anche questo si configu-
rasse come un processo non spontaneo e autonomo ma indotto dall’alto per
scongiurare il rischio di esperimenti comunisti. È possibile osservare come,
ancora una volta, il riferimento a contesti coloniali o para-coloniali sia usa-
to in funzione autoriflessiva: gli «uomini invisibili», contrappunto del sogno
americano, sono allegoricamente assimilati ai braccianti sradicati, contrap-
punto del miracolo italiano.
Quasi dieci anni più tardi, quando l’opposizione all’imperialismo ame-
ricano prende il posto dell’anticolonialismo propriamente detto28, è ancora
Giampaolo Calchi Novati, nel 1964, a parlare della «condizione negra»29. Nel
contesto di una riflessione sul pensiero di James Baldwin, Louis E. Lomax e
Daniel Guérin, Calchi Novati legge le lotte degli afroamericani in continuità
con quelle dei popoli in via di decolonizzazione e arriva a concludere che «ai
negri spetta forse il compito d’essere la coscienza degli Stati Uniti, dell’occi-
dente, del mondo capitalista»30.
Alla luce di quanto emerso da questa analisi – per forza di cose cursoria
– di alcune annate della rivista «Comunità», è possibile comprendere meglio
quale fosse la reale portata dell’anticolonialismo proclamato nella dichiara-
zione politica del Movimento Comunità, osservarne le sfumature ideologiche
e culturali, coglierne la dimensione autoriflessiva e stratificata tra scala locale
e globale. Inoltre, grazie alla contraddizione innescata dalle allegorie coloniali
impiegate da Ottieri per parlare dell’industria, è possibile leggere il processo

26
Luciano Gallino, La riforma agraria nel Delta Padano (I), «Comunità», 54, 1957, pp. 20-33: 29.
27
Cfr. Ralph W. Ellison, Invisible Man, Random House, New York 1952; trad. it. di C. Fruttero
e L. Gallino, Uomo invisibile, Einaudi, Torino 1956.
28
Cfr. Marica Tolomelli, Dall’anticolonialismo all’anti-imperialismo yankee nei movimenti ter-
zomondisti di fine anni Sessanta, «Storicamente», 12, 2016, pp. 1-33, reperibile al seguente URL:
https://storicamente.org/tolomelli-dall-anticolonialismo-all-anti-imperialismo (consultato il 1° di-
cembre 2020).
29
Gian Paolo Calchi Novati, La condizione negra, «Comunità», 121, 1964, pp. 44-48.
30
Ivi, p. 48.
Colonizzati o colonizzatori? 97

di industrializzazione stesso in termini coloniali, al punto da domandarsi se,


nell’Italia del miracolo economico, le imprese industriali, che pure professa-
vano apertamente il loro anticolonialismo non ricoprissero piuttosto il ruo-
lo dei colonizzatori, non solo sull’asse del colonialismo interno Nord-Sud.
Quello della colonizzazione culturale da parte dell’industria, d’altronde, era
un pericolo lucidamente avvertito anche da un altro scrittore olivettiano, Pao-
lo Volponi, che alla fine degli anni Sessanta dichiarerà, fra bilancio e profezia:

Non è tanto l’industria come fabbrica o come società dei vari benesseri […]. Il peri-
colo è nella sua «cattolicità» etnocentrica (malattia di tutti gli organismi che si sentono
superiori) che vuole attrarre nella propria orbita e poi colonizzare tutte le culture di tipo
diverso, senza preoccuparsi se questo avvenga attraverso l’imperialismo di pace o di
guerra o attraverso la strategia leninista31.

31
Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore: conversazioni critiche, Garzanti, Milano 1973, pp.
133-134.
Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini

Magistero scientifico e impegno politico in Luciano


Gallino

Dovrebbe fare parte della razionalità di qualunque attore


sociale e delle collettività saper interpretare i segnali che si
moltiplicano attorno. Ho qualche dubbio che questo stia
accadendo, però se ne comincia a parlare in termini più im-
pegnativi di cinque anni fa. Possiamo sperare che i proces-
si di rovesciamento delle tecnologie in irrazionalità siano
sufficientemente lenti, in modo da riequilibrare in tempo il
rapporto fra i nostri comportamenti e le loro conseguenze
irrazionali complessive1.
Luciano Gallino

«Mi è caro confermarle l’oggetto della nostra conversazione di giovedì


sera a Torino. Ella riceverà dalle Edizioni di Comunità un impegno ufficiale
per la Sua attività presso il Centro di via Volpiano». Con queste parole –
scritte da Adriano Olivetti in una lettera del 4 febbraio 19562 – cominciava
l’avventura di Luciano Gallino presso la comunità Olivetti di Ivrea, intesa
dal fondatore come spazio di partecipazione nell’impresa e nel territorio e
rivelatasi, per chi la frequentava, luogo di formazione pratica e teorica a di-
mensione umana e sociale: un’esperienza comunitaria unica e irripetibile, non
solo nel panorama italiano.
Nella lettera, Olivetti si era raccomandato, inoltre, che «in linea di massi-
ma» il lavoro maggiore fosse quello di svolgere «inchieste sociali sulla vita che
si svolge in una comunità in fieri e, in modo particolare, quella che graviterà
sul centro stesso». Sostanzialmente, Gallino restò fedele a questo mandato
sociologico per tutta la sua carriera lavorativa, ben oltre la durata dell’espe-
rienza comunitaria di Ivrea. Nel corso della sua intera attività di ricerca, infat-
ti, si occupò delle relazioni fra tecnologie, cultura e formazione, oltre che di
sociologia economica del lavoro e dell’industria; tenendo sempre sullo sfon-
do i temi ineludibili dell’economia.

1
Tecnologia, democrazia e ignoranza. Intervista a Luciano Gallino, a cura di E. Ferrara, «Lo
Straniero», 89, 2007, p. 32; ripresa in «Altronovecento», 31, 2017 (http://www.fondazionemicheletti.
it/altronovecento).
2
Lettera del 4/2/1956, Adriano Olivetti al prof. Luciano Gallino, Associazione Archivio Storico
Olivetti, https://archividigitaliolivetti.archiviostoricolivetti.it/collections/object/detail/26534/.

L’ospite ingrato ns 6
100 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini

Quando cominciò a lavorare all’Ufficio Studi Sociali delle Edizioni di


Comunità di Ivrea, Luciano Gallino aveva 29 anni. Come lavoratore si im-
pegnò direttamente sui temi della democrazia delle organizzazioni socio-
economiche e sul significato della partecipazione dei lavoratori alla gestione
dell’impresa. Fu eletto nella Commissione interna alle elezioni del 1958 in
qualità di rappresentante degli impiegati e dei tecnici, nella lista di «Comu-
nità di fabbrica». Come ricordò nell’intervista rilasciata a Paolo Ceri, nel li-
bro L’impresa responsabile3, si candidò: «perché me l’aveva chiesto Adriano
Olivetti»4. Ebbe poi modo di partecipare al Consiglio di gestione dell’impre-
sa; al momento della presentazione delle liste scrisse un articolo intitolato
Partecipazione agli utili e azionariato operaio5, che, nell’evanescente dibattito
odierno sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, sarebbe
considerato radicale, se non addirittura estremista. Gallino avanzava infatti
una proposta non solo di carattere economico, ma di redistribuzione gene-
rale delle responsabilità, che come tale non poteva non interessare «chi crede
nella possibilità e necessità di procedere ad una redistribuzione del potere
di decisione delle aziende»6. In questo testo Gallino si era esposto in modo
molto chiaro sulla necessità di un impegno diretto dei lavoratori e dei loro
rappresentanti nella gestione dell’impresa, ricordando che già in altri Paesi
esistevano forme di partecipazione agli utili «graziosamente concessi dalle
direzioni ai dipendenti»7 e che dovevano essere evitate, agendo senza «rispar-
miare energie, sia sul piano dello studio che su quello dell’azione pratica, per
elaborare e far accettare dalla Direzione un piano che [fosse] veramente un
passo concreto verso forme più ampie di democrazia aziendale». E conclude-
va: «Non può, questo, essere un compito di pochi»8.
L’integrazione di Gallino nel lavoro socioculturale dell’Olivetti – vicino,
ma non (ancora) interno all’impresa – fu rapidissima; così come fu netta la sua
determinazione a entrare nei meccanismi di Comunità. Lo dimostra il rapido
scontro di opinioni con il sociologo Franco Ferrarotti (suo quasi coetaneo)
circa l’interpretazione della funzione degli studi e delle indagini sulle condi-
zioni di lavoro in fabbrica e sul ruolo dei sindacati. Una polemica aperta da
una lettera intitolata Condizione operaia e relazioni umane, apparsa su «Co-
munità» nel maggio 19569.

3
Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti (a cura di P. Ceri),
«Comunità», Torino, 2001.
4
Ivi, p. 73.
5
Luciano Gallino, Partecipazione agli utili e azionariato operaio, «Comunità di fabbrica», 9, 4,
1958, p. 1.
6
Ivi, p. 3.
7
Ibid.
8
Ivi, p. 4.
9
Luciano Gallino, Condizione operaia e relazioni umane. Punti per un dibattito, «Comunità»,
40, 1956, p. 30.
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 101

Su questa rivista, Gallino interverrà con approfondimenti sulla sociologia


contemporanea – come l’analisi sui saggi metodologici di Max Weber10 – e
con saggi sulla trasformazione del processo di lavoro; svolgendo contempo-
raneamente ricerche sociali sul campo, come in un saggio su lavoro e società
nell’eporediese11 o sulla riforma agraria nel delta padano12, e tenendo lezioni
per le attività culturali della Olivetti, fra le quali un ciclo dedicato alla storia
del movimento operaio. Dal 1960 al 1971, fu direttore del Servizio Ricer-
che Sociologiche e Studi sull’Organizzazione dell’azienda eporediese. Già in
quegli anni aveva iniziato a studiare il rapporto fra tecnologia e organizzazio-
ne dell’impresa e del lavoro in un’ottica storica – come testimonia il volume
Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti
1945-5913, pubblicato presso le edizioni Giuffrè nel 1960, nonostante le resi-
stenze di parte delle gerarchie aziendali. E si era anche già soffermato sugli
aspetti tecnici di macchine e impianti, in stretta relazione con i mutamenti or-
ganizzativi del lavoro, come per il «metodo cibernetico» nel trattamento delle
informazioni, già emerso negli Usa ma non ancora in Italia, e la sua applica-
zione nel più grande centro meccanografico presente nelle imprese italiane14.
Riflessioni su questi stessi temi, riguardanti le tecnologie e l’organizzazio-
ne democratica dell’impresa, così come l’informatica e la qualità del lavoro,
si ritroveranno disseminati negli scritti degli anni successivi. Anche dopo la
nomina a professore ordinario di sociologia presso l’Università di Torino nel
1970, nel pensiero di Gallino si rafforza – soprattutto nei suoi scritti sulle
tecnologie, non solo informatiche – l’eco del pensiero politico che permeava
la fabbrica di Ivrea: vale a dire l’adesione a quell’idea di democrazia diretta e
partecipata, così come l’aveva immaginata Adriano Olivetti in L’ordine politi-
co delle Comunità15. Seppure storicamente sconfitta da un’idea di democrazia
(e conseguentemente anche di sviluppo economico) affidata alla delega quasi
totale a piccole élite delle diverse forme di potere, la democrazia comunitaria
descritta in questo manifesto risuona sottotraccia negli scritti di Gallino: un
modello di democrazia adatto a comunità non sovradimensionate, all’interno
del quale ogni cittadino può essere messo nella condizione di partecipare alla
vita pubblica, controllando le decisioni fondamentali su industria, finanza,
urbanistica, educazione, amministrazione e arti.

10
Luciano Gallino, I saggi metodologici di Max Weber, «Rivista Comunità», 69, 1959, p. 91.
11
Luciano Gallino, Primi dati sul livello di vita delle famiglie operaie eporediesi, «Comunità di
fabbrica», 6, 4, 1958, p. 1.
12
Luciano Gallino, La riforma agraria nel Delta Padano, «Rivista Comunità» (2 articoli), 54,
1957, p. 20; 55, 1958, p. 30.
13
Luciano Gallino, Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti
1946-1959: ricerca sui fattori interni di espansione di un’impresa, Giuffrè, Milano 1960.
14
Ivi, p. 31.
15
Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Nuove Edizioni, Ivrea 1945.
102 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini

Come si può intuire, gli interessi di Gallino sono stati non solo inter-
disciplinari, ma sempre orientati su questioni teoriche di fondo; il suo stile
conoscitivo ha sempre abbinato una prospettiva storica ampia, ma arricchi-
ta da esperienze circoscritte, studiate in modo rigoroso nei minimi dettagli.
Gallino era capace di partire dall’analisi della struttura tecnologica di una
macchina per decifrarne l’impatto diretto sul processo lavorativo. Fra gli ar-
gomenti ricorrenti, grande importanza ha la riflessione sui limiti di ciascun
cittadino nella partecipazione alle attività socio-economiche. Perché, come
lui stesso sovente sottolineava, da un lato vi è il problema per cui le masse non
posseggono, né mai potranno possedere, la capacità o il tempo o il desiderio
di prendere decisioni complicate; dall’altro, la constatazione che, a differenza
di quanto pensava Schumacher16, secondo cui «piccolo è bello», il problema
delle dimensioni è cruciale, perché modifica la sostanza dei processi; ciò che
si proietta su scala estremamente grande ha un impatto sulla vita di tutti e si
manifesta perciò in modo differente da ciò che ha dimensioni contenute17; è
su scala globale, infatti, che le tecnologie rivelano la loro ingovernabilità e la
perdita di senso della razionalità strumentale di cui sono effetto; e lo stesso
purtroppo vale anche per gli strumenti finanziari dell’economia, se non addi-
rittura per il concetto stesso di democrazia.

1. L’economia e il lavoro

Dal punto di vista del pensiero economico, Luciano Gallino era un


keynesiano. Riteneva infatti possibili – e doverose – le politiche economi-
che, non considerando la spesa in deficit di per sé perniciosa; mentre ri-
vendicava la necessità di una più equa distribuzione di lavoro e moneta:
importante almeno quanto il pareggio dei bilanci. Come si deduce anche
solo dai titoli di alcuni fra i suoi ultimi saggi, Gallino aveva una posizione
fortemente critica nei confronti di quanto lui stesso ha definito «finanz-
capitalismo». Se nei suoi testi propone l’assunzione di lavoratori da parte di
enti pubblici, indica sempre un modo possibile per fare quadrare i conti, di-
mostrando che la spesa per il lavoro pubblico è essenziale e sostenibile. Per
comprendere la validità delle sue teorie economiche, è necessario impostare
una discussione a cavallo tra economia e sociologia, come dimostrano, so-

16
Come sosteneva Ernst F. Schumacher in Small is Beautiful: a Study of Economics as if People
Mattered, Blond & Briggs, London 1973, trad. it. di Daniele Doglio Piccolo è bello. Uno studio di
economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Venezia 2011.
17
Come spiegò benissimo il premio Nobel per la fisica Phil Anderson, nel suo saggio More is
different sulla complessità dei sistemi scientifici, uscito sulla rivista «Science» nel 1972 (Vol. 177,
4047, p. 393).
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 103

prattutto, i saggi Etica cognitiva e sociologia del possibile18 e Una sociologia


per la società mondo19.
Del resto, gli stessi principi e gli stessi convincimenti – e anche le stesse
preoccupazioni sulle possibili derive tecnologiche antidemocratiche – li ritro-
viamo già espressi nella postfazione al libro Informatica e qualità del lavoro20,
ben prima che l’avvento delle tecnologie della comunicazione di massa (ICT)
modificasse in modo invasivo quasi ogni aspetto della nostra vita di relazione,
lavorativa e privata. L’affermazione del punto di vista di Gallino su rischi e
opportunità connessi con le tecnologie informatiche era già netta:

La psicologia del suddito è stata in gran parte soppiantata da masse di persone che
sanno come influire sul corso delle proprie azioni, e hanno acquisito la cultura economi-
ca e politica necessaria per farlo, pur tra errori ed esasperazioni. Di tale inedita capacità
il loro lavoro usa mediamente una frazione minima. L’informatica offre un’opportunità
senza precedenti per avvicinare i due termini: per sviluppare il processo già in corso nelle
organizzazioni produttive, ma anche per evitare che esso assomigli al sistema politico
esterno, dove l’esercizio di una facoltà costituzionale appare vieppiù dissociato dalla
possibilità di esercitare nella pratica quotidiana quelle stesse capacità di decisione che
tale atto dovrebbe garantire21.

Solo percorrendo questa via, dunque, l’ambiguità strutturale dell’infor-


matica diventa risolvibile: la sua progettazione deve essere orientata a realiz-
zare una diversa qualità del lavoro. Il tema verrà ripreso nel libro-intervista di
Paola Borgna La lotta di classe dopo la lotta di classe22; qui, tuttavia, Gallino
sottolinea già come questa ambiguità di fondo non solo non sia stata risolta,
ma sia di fatto rimossa dal dibattito pubblico contemporaneo:

la qualità del lavoro, il grande tema degli anni Sessanta e Settanta su cui un’intera
generazione di sociologi ha discusso e fatto ricerca, è completamente scomparso dal loro
orizzonte. Ma perfino i sindacati non usano più discuterne23.

In questo ambito, l’insieme dei suoi studi su alcune delle tematiche oggi
più attuali – si pensi anche solo al già citato nesso fra informatica e qualità del
lavoro – possono aiutare a comprendere meglio gli orizzonti di possibilità
che si aprono nei periodi di profondi mutamenti sociali, come quello attuale;
a questo proposito, basta rileggere l’introduzione alla nuova edizione Einau-

18
Luciano Gallino, Etica cognitiva e sociologia del possibile, «Quaderni di Sociologia», 28, 2002, p. 25.
19
Luciano Gallino, Una sociologia per la società mondo, «Quaderni di Sociologia», 70-71, 2016, p. 47.
20
Luciano Gallino, Informatica e qualità del lavoro, Einaudi, Torino 1983.
21
Ivi, p. 135.
22
Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe (a cura di Paola Borgna), Laterza, Roma-
Bari 2012.
23
Ivi, p. 174.
104 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini

di (1991) del classico di Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione24; così


come la nota conclusiva del volume L’impresa responsabile, sulla necessità,
soprattutto in tempi di crisi, non solo di difendere e tutelare i diritti della per-
sona di fronte al lavoro, all’economia e alla tecnica, ma di cogliere l’occasione
per estenderli:

La mondializzazione di questi diritti, in luogo della loro erosione o del loro ottundi-
mento, è lo scopo che ancora oggi ci propone Adriano Olivetti. Un simile impegno può
subire sconfitte, più o meno durature. Ma queste appaiono leggere rispetto all’onta che
ci coglierebbe se ci sottraessimo a esso, e alla consapevolezza che dalla sua parte esso ha,
ancor più di ieri, la speranza di innumerevoli esseri umani25.

2. La tecnologia

Ma è Tecnologia e democrazia26 il volume in cui Gallino raccoglie l’insie-


me dei suoi saggi sul tema della conoscenza tecnologica come bene pubblico
globale. In questo libro, troviamo da un lato una riflessione articolata sugli
immensi vantaggi che la tecnologia può recare alla nostra esistenza; e però,
dall’altro, troviamo anche un monito severo sui pericoli di un suo uso irrifles-
sivo. La distanza tra crescita materiale e qualità dello sviluppo, così come gli
scarti fra capacità realizzatrici e predittive delle scienze moderne, dipendono,
secondo Gallino, dal prevalere delle logiche di breve periodo e da un inevi-
tabile velo d’ignoranza che si posa sugli effetti a lungo termine e confonde
gli scenari negativi, sovrastimando i fattori di sostenibilità. Nel testo sono
rilevanti le considerazioni sui contributi della tecnologia per una maggiore
formazione democratica, attuabile attraverso i mezzi della comunicazione,
l’informatica, Internet, ma soprattutto consolidando l’idea delle conoscen-
ze come produzione collettiva, e della scienza come bene pubblico globale.
All’interno di questa visione, esiste però un concetto fondamentale per Galli-
no: il concetto di «ignoranza». Gallino lo usa ricollegandosi a una corrente di
sociologia della scienza secondo cui, mano a mano che si acquisiscono nuove
cognizioni in ogni campo, si allarga però simmetricamente anche l’area delle
nozioni che sarebbe importante conoscere, ma che di fatto si ignorano:

Questo vale in un doppio senso: c’è l’area delle cose che sappiamo di non sapere,
importante ma tutto sommato definita, intorno alla quale si possono impostare filoni

24
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (già
tradotto da Luciano Gallino dall’inglese insieme con la moglie, Tilde Giani, per la prima edizione del
1967), Einaudi, Torino 1991.
25
L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti cit., p. 147.
26
Luciano Gallino, Tecnologia e democrazia, Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pub-
blici, Einaudi, Torino 2007.
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 105

di indagine, e ci sono le cose che non sappiamo nemmeno di non sapere e che quindi è
molto difficile cercare […]; preferisco usare il termine tedesco «nicht-wissen», perché è
meno peggiorativo: l’ignoranza connota una sorta di consapevolezza, mentre nel non-
sapere il soggetto è meno suscettibile di critiche27.

L’idea di non-sapere, di ignoranza tecnico-scientifica, è un’idea politica


fondamentale che dovrebbe rendere l’opinione pubblica un po’ più sensibile
agli avvertimenti anticipati, premonitori, prima che diventino disastri dichia-
rati. Nel suo libro, Gallino menziona alcune aree in cui stiamo procedendo
a grande velocità, come per esempio gli Ogm, le nano-tecnologie, le teleco-
municazioni, senza in realtà sapere bene cosa stiamo facendo; ma soprattutto
senza cercare di delimitare meglio l’area del non-sapere, trasferendola almeno
«dalle cose che non si sa di non sapere a quelle di cui si è coscienti di non
sapere»28. Come si vede, per Gallino la coscienza di entrambe queste aree di
non-sapere è fondamentale: dovrebbero essere vagliate da una discussione
pubblica e verificate da approfondimenti continui, per non trovarsi, magari
con un ritardo di decenni o addirittura di generazioni, nell’infelice posizione
di gestori costretti a sanare, per quanto sia possibile, gli effetti incontrollati di
un uso irriflessivo della tecnologia.
Da questa mancata volontà di ammettere la non-conoscenza come proble-
ma centrale di parti essenziali del nostro mondo tecnologico discende la quasi
totale assenza, nella discussione politica, di una verifica pubblica seria di ar-
gomenti scientifici e – soprattutto – del significato politico del concetto di
dubbio scientifico e del principio di precauzione. Per il senso comune l’idea
di «scienza» coincide, in genere, con le opinioni, talora contrastanti, di alcuni
«esperti» o «scienziati». Gallino, invece, ha sempre lavorato per mostrare,
all’opposto, come la scienza sia un bene pubblico che va verificato, in ogni
disciplina, a partire dal rapporto, oggi sempre più stringente, fra tecnologia,
democrazia e ignoranza – come bene dimostrano gli articoli epistemologici
ripubblicati su «Quaderni di sociologia»29. Gallino sta chiaramente affron-
tando problemi centrali – di vita o di morte – che accomunano ogni campo
del sapere, da quello medico e farmacologico a quello ambientale, tecnologico
ed ecologico; dal problema dei vaccini a quello delle scelte sul finanziamento
pubblico della ricerca.
A distanza di anni da questi scritti, non ci troviamo certo nel vuoto di una
discussione astratta, ma abbiamo ancora grosse carenze e pochissimi punti
di riferimento. Si prenda il problema degli algoritmi o dell’intelligenza ar-
tificiale – fra i più affrontati da Gallino; o quello, oltremodo emblematico,

27
Tecnologia, democrazia e ignoranza. Intervista a Luciano Gallino cit., p. 36.
28
Ibid.
29
Si vedano gli articoli su Metodologia ed epistemologia delle scienze sociali in «Quaderni di
sociologia», 57, 2013.
106 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini

dell’automazione: si pensi anche solo a tutti i sistemi automatici che usiamo


senza capirli, senza essere in grado di ripararli, sperando che funzionino, ma
senza sapere se hanno funzionato bene o male; e, soprattutto, ignorando i cri-
teri alla base della loro progettazione. Seguendo l’insegnamento di Gallino,
dovremmo cercare il più possibile di riportare il baricentro della discussione
pubblica sul piano politico e scientifico; mentre andrebbe abbandonato del
tutto – perché letale – quello propagandistico30.

3. Quale futuro

Allo scopo di rendere almeno immaginabili dei mutamenti che per ora immagina-
bili non sono, io penso che la sociologia possa dare dei contributi importanti. Penso
che a questo fine la sociologia dovrebbe, almeno in parte, trasformarsi in sociologia del
possibile. Non vedo a quale altra disciplina si potrebbe chiedere di individuare a quali
forme sociali, quali modalità di convivenza, quali comportamenti individuali e collettivi
oggi inesistenti, ma realisticamente possibili potranno permettere al mondo di uscire dal
binario senza ritorno che sembra avere imboccato31.

Ma quali sono le proposte di Gallino che ancora attendono una discussio-


ne pubblica, se portate all’altezza delle contraddizioni che stiamo vivendo?
Secondo Gallino dovremmo anzitutto rendere più razionali i nostri consumi,
cominciando col ridurre drasticamente gli inverosimili sprechi di cui siamo
protagonisti, «perché altrimenti la Terra non basterà»32. Su questo, una so-
luzione potrebbe venire dalla creazione di una sorta di governo mondiale
dell’ambiente; ma, come sappiamo, siamo ancora lontanissimi da questo
obiettivo; senza considerare che anche i Paesi in forte crescita – in primo
luogo la Cina – stanno lasciando in eredità alle nuove generazioni immani
problemi ambientali. Gallino registrava, negli ultimi anni, un qualche cam-
biamento, quanto meno nell’opinione pubblica occidentale; ma un cambia-
mento solo astrattamente culturale e non ancora coscientemente politico, vale
a dire non ancora orientato a razionalizzare come, cosa e per chi si produce:

Il problema è al tempo stesso ecologico, tecnologico, ma anche morale e politico.


Qualcosa si sta muovendo per via degli eventi climatici, forse anche per il prossimo

30
Si veda, come esempio, il saggio di Gabriele Lolli (I teoremi di incompletezza, il Mulino, Bo-
logna 2019) sul lavoro del matematico statunitense Kurt F. Gödel, che negli anni ’30 del Novecento
cambiò il corso della filosofia della scienza, svelando la natura della nuova logica, fatta anche di anti-
nomie e paradossi in grado di infrangere il sogno di Leibnitz del calcolo come risoluzione di qualsiasi
controversia.
31
Luciano Gallino, Etica cognitiva e sociologia del possibile, «Quaderni di Sociologia», 28, 2002,
p. 25.
32
Tecnologia, democrazia e ignoranza. Intervista a Luciano Gallino cit., p. 38.
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 107

esaurimento delle fonti fossili. La pubblicità è diventata verde, tutti si stanno occupando
dell’idrogeno o di cose del genere sul piano tecnologico, ma è chiaro che non si sta fa-
cendo abbastanza sul piano etico-politico33.

A questa cecità politica, secondo Gallino, si aggiunge un ulteriore pro-


blema: l’attitudine a manipolare, se non a censurare, i dati dei testi scientifici;
pratica diffusa non solo nei regimi totalitari, ma anche nelle democrazie oc-
cidentali. È una questione dirimente: dalla correttezza dei rapporti tecnici
derivano infatti le decisioni politiche sullo sviluppo o meno di determinate
tecnologie ed infrastrutture:

dal punto di vista della valutazione delle conseguenze delle tecnologie, comprese
quelle della diffusione di conoscenze e pratiche scientifiche, il nostro Paese è assai indie-
tro. L’unico paese dove si discute – e dove ministri hanno perso il posto per aver detto
che il primo ministro Mr. Blair manipolava l’informazione scientifica – è il Regno Unito.
Negli altri paesi, Italia in coda, si fa assai poco per garantire la produzione e la diffusione
di evidenza scientifica indenne da pressioni politiche o economiche34.

A questo riguardo, Gallino provò perfino ad elencare alcune azioni con-


crete possibili: dal tema della cosiddetta governance globale, alla possibilità di
introdurre incentivi e disincentivi, selettivamente orientati a sviluppare nuovi
tipi di tecnologia e modelli di consumo, capaci di sostituire quelli più ener-
givori e inefficienti. Immaginò, a questo proposito, tre regole fondamentali.
La prima considera la natura come fattore di produzione, imponendo a chi
preleva risorse naturali, di pagare i costi per ripristinarle, riportandole al loro
stato originario:

Ad esempio, il prezzo dell’acqua usata nei cicli industriali dovrebbe includere il co-
sto della sua depurazione. Lo stesso principio si può estendere ai boschi o ai terreni
agricoli destinati a usi industriali35.

La seconda valuta selettivamente i sistemi tecnologici in base ai loro costi


effettivi:

Per esempio: tangenziali, autostrade e strade provinciali, grazie al principio di orga-


nizzazione industriale che si chiama giusto in tempo, sono, di fatto, reparti di produzio-
ne di moltissime aziende e anche dei servizi. I costi delle tangenziali sono pagati solo in
parte dai rispettivi utenti, nel lessico della teoria delle imprese sono definiti esternalità.
Ma c’è esternalità ed esternalità, può trattarsi di un onere circoscritto, oppure di un one-
re rilevante com’è quello dei trasporti di un pianeta che produce giusto in tempo. Sulle

33
Ibid.
34
Ivi, p. 39.
35
Ibid.
108 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini

tangenziali di Torino e Milano arrivano merci prodotte in Cina, Tailandia o Sudafrica, le


spese però sono sostenute dall’amministrazione locale o da sistemi di gestione pubblica
e privata36.

La terza regola, infine, incentiva il riequilibrio fra le tecnologie intra mo-


enia e quelle extra moenia:

Le aziende che direttamente o indirettamente utilizzano tecnologie di smaltimento o


riciclaggio dei loro stessi prodotti dovrebbero ricevere un trattamento preferenziale. E
se si ottengono maggiori risorse queste potrebbero essere indirizzate al miglioramento
delle tecnologie extramoenia, per evitare un paradosso particolarmente evidente nelle
tecnologie moderne, che sono di profilo altissimo per la produzione ma di livello infimo
per lo smaltimento37.

Potremmo concludere ragionando sul lascito più importante della rifles-


sione di Gallino per il nostro presente: porre la sostenibilità ambientale del-
le tecnologie come problema politico centrale non eludibile. Basti solo un
esempio, che ci riguarda tutti da vicino: il caso dell’informatica. Negli anni
’90, quando iniziò la produzione in massa di computer, notebook e palmari, si
disse per lo più che si trattava di una nuova forma di produzione di strumenti
tecnici particolarmente rispettosi dell’ambiente. Oggi però sappiamo che la
verità è un’altra: anzitutto, le stesse tecnologie di produzione dei personal
computer, che sono efficientissime e da cui traiamo beneficio economico,
presentano in realtà gravi rischi di patologie, a causa dell’impiego di solventi
e di prodotti chimici nocivi. Inoltre, se il ciclo produttivo consuma grandissi-
me quantità di energia e di acqua, anche lo smaltimento dei rifiuti digitali sta
diventando un problema enorme, per ora risolto sbrigativamente con il loro
spostamento nelle aree più povere del mondo.

36
Ibid.
37
Ibid.
Cesare Pomarici

L’altro volto dell’inconscio:


tracce della psicologia analitica nel pensiero e
nella prassi di Adriano Olivetti

Ora che la fabbrica è compiuta a noi dirigenti spetta quasi tutta la


responsabilità di farla divenire a poco a poco una cellula operante
rivolta alla giustizia di ognuno, sollecita del bene delle famiglie,
pensosa dell’avvenire dei figli e partecipe, infine, della vita stessa
del luogo che trarrà dal nostro stesso progresso alimento econo-
mico e incentivo di elevamento sociale […]. L’uomo, strappato
alla terra e alla natura dalla civiltà delle macchine, ha sofferto nel
profondo del suo animo e non sappiamo nemmeno quante e pro-
fonde incisioni, quante dolorose ferite, quanti irreparabili danni
siano occorsi nel segreto del suo inconscio1.
Adriano Olivetti

Se si volesse trovare – in maniera arbitraria ma certamente non immoti-


vata – un punto di partenza idoneo ad avviare una nuova ricostruzione de-
gli elementi di contatto fra il pensiero olivettiano e la psicologia analitica di
matrice junghiana, un valido spunto riassuntivo potrebbe essere costituito
dalla presente formulazione, selezionata a titolo esemplificativo dalla ricca ed
eterogenea raccolta di saggi di Adriano Olivetti, intitolata Città dell’uomo.
Se da un lato, infatti, sono in gran parte note le applicazioni teoriche e gli
spazi operativi concessi, nell’arco del trentennio 1943-1973, alla psicologia
dell’inconscio negli stabilimenti eporediesi2, dall’altro lato rimangono invece
ancora da indagare – ad un livello soprattutto teorico e speculativo – i punti
di tangenza, e sotto determinati aspetti anche di influenza, che connettono
l’idea di «sradicamento traumatico» fra nucleo produttivo (cioè sistema in-
dustriale e alienazione individuale) e ambiente circostante (contesto naturale
e valori spirituali da esso generati) frequentemente denunciata negli scritti
di Olivetti3 e l’apparentemente antitetica ricerca di una «corrispondenza si-

1
Adriano Olivetti, Ai lavoratori di Pozzuoli, in Id., Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, Ro-
ma-Ivrea 2016, pp. 126-127.
2
Un dettagliato bilancio dell’esperienza degli psicologi olivettiani è contenuto in: Cesare Musatti,
Giancarlo Baussano, Francesco Novara, Renato Rozzi, Psicologi in fabbrica. La psicologia del lavoro
negli stabilimenti Olivetti, Einaudi, Torino 1980; Francesco Novara, Renato Rozzi, Roberta Garruc-
cio, Uomini e lavoro alla Olivetti, Mondadori, Milano 2005.
3
L’idea in questione è magistralmente riassunta in Olivetti, Urbanistica e libertà locali, in Id.,
Città dell’uomo cit., pp. 78-79: «gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori delle industrie debbono

L’ospite ingrato ns 6
110 Cesare Pomarici

gnificativa» fra i fenomeni della psiche inconscia e quelli cosmico-naturali


presente nell’ultima fase – quella ascrivibile al concetto-cardine di «sincro-
nicità» – della riflessione junghiana. A differenza però dell’operato storico-
tecnico degli psicologi in fabbrica, recentemente analizzato da chi scrive in
occasione del convegno Ambienti e comunità. Ripensare l’Olivetti oggi (Lo-
sanna, 14-16 novembre 2019), l’argomento che sarà affrontato all’interno del
presente scritto non è scindibile – come in un certo senso l’intera storia del
complesso industriale olivettiano – dall’eccentricità e dal carisma individuale
del presidente Adriano. Per questo motivo, nell’affrontare il rapporto fra il
pensiero di C.G. Jung e il modus operandi olivettiano, si è deciso di prendere
le mosse da un aspetto peculiare della biografia intellettuale di A. Olivetti,
ovvero dal suo radicato interesse per le discipline astrologiche ed esoteriche,
e di mostrare come questo – di pari passo con la sua presa di coscienza dei
profondi sbilanciamenti psicologico-ambientali causati dall’affermazione
del sistema industriale – lo abbia progressivamente portato ad avvicinarsi ad
alcuni concetti-guida caratteristici della riflessione dell’analista svizzero sul
rapporto tra psiche e astrologia. Al fine, dunque, di mettere in luce gli snodi
fondamentali e gli esiti di questo singolare iter conoscitivo, sarà opportuno in
primo luogo ricostruire il background storico-culturale che ha reso possibile
– mediante il comune denominatore dell’astrologia e, più in generale, dell’i-
dea di un’integrazione armonica fra microcosmo psichico-individuale e ma-
crocosmo naturale-planetario – l’incontro di Adriano Olivetti con il pensiero
junghiano, per passare poi, in conclusione, ad un’analisi più documentata dei
punti di contatto «teorici» fra le due figure.
Il rapporto fra Adriano e l’astrologia nacque negli anni della sua adole-
scenza piemontese, quando «da immediatamente prima della Grande guerra
a metà degli anni Venti, si manifesta, in Italia come in Europa, un crescente
interesse, in àmbito intellettuale, alto e medio borghese, per culture alter-

finalmente persuadersi che le loro ricerche e i loro sforzi devono essere al servizio dell’umana civiltà
e che vale la pena di affrontare una apparente perdita di rendimento se l’uomo potrà evitare l’aliena-
zione prodotta dalle fabbriche gigantesche, e dal distacco opprimente dalla natura. Nella millenaria
civiltà della terra il contadino guardando le stelle poteva vedere Dio, perché la terra, l’acqua, l’aria
esprimono in continuità uno slancio vitale, poiché l’acqua non serve soltanto a lavare il corpo, ma
essa riguarda anche l’anima perché come un battesimo purifica il cuore. Anche l’aria lievissima della
montagna è alimento dell’anima e la terra può allietare lo spirito perché in essa c’è la presenza con-
tinua del Dio vivente. Per questo, il mondo moderno avendo racchiuso l’uomo negli uffici, nelle
fabbriche, vivendo nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motori e il
disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco a una vasta, dinamica, assordante, ostile pri-
gione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere. Bisogna aver dunque il coraggio di affermare che la
nostra società è ammalata, è mentalmente ammalata, poiché ci troviamo dinnanzi a una vera, autentica
malattia dell’anima provocata dallo sradicamento, dallo sradicamento involontario. Quando un uomo
lascia la sua terra sotto la spinta della miseria, il villaggio che lo vide nascere, dove ancora lo attende il
sorriso di una madre e spesso ancora l’amore dei figli e l’appello di una sposa, si produce nella psiche
dell’esiliato un trauma».
L’altro volto dell’inconscio 111

native e per l’esoterismo» (Galli, Prefazione cit., p. 14). Tale interesse – che
accumunava già numerose personalità di spicco nell’Italia di inizio Nove-
cento (cfr. Galli, ivi, p. 12: dagli Agnelli ad «Amendola, Evola, D’Annunzio,
Reghini, sino a sfiorare Mussolini») – colse anche alcuni rami della famiglia
Olivetti. Nel caso di Adriano questa giovanile curiosità – ricordata in maniera
affettuosa anche da Gino Martinoli4 – si mantenne viva e fu oggetto di appro-
fondimento per tutto il suo arco biografico, diventando nel tempo una vera
e propria prassi orientativa. Come sostiene il suo biografo Ochetto (Adriano
Olivetti. Industriale e utopista cit., p. 190), infatti, «nella biblioteca personale,
accanto ai classificatori con gli oroscopi e le “expertise” di grafologia», ab-
bondavano «i testi iniziatici, parapsicologici, misterici da Annie Besant, alla
Blavatsky, allo Yoga»5. E non era certo una forma regressiva di superstizione,
questa inclinazione per le culture alternative, bensì la convinzione, quasi reli-
giosa, che fosse necessario mappare e interpretare – come se fossero continui
rimandi ad una dimensione «altra» e più grande – i numerosi e controversi
«segni» che costellavano la sua esperienza biografica6.
Di pari passo con la sua crescita professionale ed intellettuale7, si faceva
strada nel pensiero di Adriano Olivetti la percezione che il grande sviluppo
della società industriale da lui stesso incentivato recasse con sé – come con-

4
Le due citazioni inserite nel paragrafo in questione sono prese da Giorgio Galli, Prefazione,
in Erica Olivetti, Gli Olivetti e l’astrologia, Edizioni Mediterranee, Roma 2004, pp. 9-35. Questa la
testimonianza, non priva di un sottile (o forse affrettato) fraintendimento, riportata da Martinoli ad
Alberto Saibene (Ernst Bernhard e Adriano Olivetti: una traccia, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 120):
«mia madre era molto contenta di un genero come Adriano […]. Con lei parlava di argomenti – le
streghe, le chiromanti, la lettura della mano, la grafologia – banditi dal razionalismo di mio padre e
anche dal mio».
5
Per quanto Olivetti non fosse «affatto un bibliofilo» (cfr. Marco Maffioletti, La biblioteca di
Adriano Olivetti, Fondazione Adriano Olivetti, Roma-Ivrea 2012, p. 244), questi sono i titoli di
argomento strettamente astrologico presenti – insieme a numerose opere di Rudolf Steiner e ai due
volumi della Cosmogenèse di Helena Petrovna Blavatsky – nella sua biblioteca privata: Tommaso
Palamidessi, La medicina e gli influssi siderali: primi elementi di astrologia medica, Bocca, Milano
1940; Evans Colin, The new Waite’s Compendium of natal astrology: with ephemeris for 1870-1960
and Universal table of houses, Routledge & Paul, London 1953; Nicola Sementovsky Kurilo, Nuovo
trattato completo di astrologia: teorica e pratica, U. Hoepli, Milano 1955.
6
A questo proposito si veda il ritratto di Adriano fatto dalla nipote, Erica Olivetti, nel suo vo-
lume dedicato a Gli Olivetti e l’astrologia cit., p. 104: «era un estimatore delle discipline esoteriche
(Urano in Sagittario trigono al Sole) che non solo lo avevano sempre interessato, ma per le quali nutri-
va un profondo rispetto, traendone consigli utili e suggerimenti per la sua vita: ambiva essere l’uomo
nuovo che portava pace e benessere alla comunità e perciò consultava astrologi e altre persone degne
di fama, perché lo illuminassero in tal senso aiutandolo a esprimersi a fondo».
7
Un ottimo saggio delle esperienze e delle letture filosofiche che hanno guidato il processo for-
mativo-professionale di Adriano Olivetti è fornito dalla raccolta epistolare Dall’America: lettere ai
familiari (1925-26) e dai saggi raccolti in Città dell’uomo. In questi scritti, accanto al resoconto delle
concrete esperienze industriali, si coglie apertamente anche l’imprinting di alcuni autori fondamentali
per il pensiero olivettiano, quali soprattutto la Simone Weil di Prima radice e gli esponenti di punta
del personalismo cristiano quali Emmanuel Mounier e Jacques Maritain.
112 Cesare Pomarici

troparte negativa – un profondo, innaturale, squilibrio nei rapporti fra il mi-


cro-cosmo delle relazioni umane e il macro-cosmo naturale (e di conseguenza
universale) rispetto al quale queste ultime erano parte integrante8. Tale atti-
tudine di pensiero, sempre più articolata ed arricchita nel tempo, non venne
meno neanche nel suo ultimo decennio di vita, quando – «ben oltre la carica
di sindaco di Ivrea e di deputato e l’orizzonte statunitense»9 – l’astrologia,
come criterio dirimente, entrava anche nel suo operato aziendale, soprattutto
in un settore caratterizzato da una non lineare impostazione metodologica,
come quello della recluta del personale. Un peso determinante nella decisione
finale del colloquio di assunzione lo esercitava, infatti, «non solo il giudizio
dei grafologi, ma anche quello degli astrologi, perché» – come osservato da
Galli (Prefazione cit., p. 21) – «sulla strisciolina di carta il candidato» non
scriveva «solo la firma, ma anche la data e l’ora di nascita», dalla quale poteva
essere tratta «la “carta del cielo” al momento della nascita stessa»10. Come
già accennato all’inizio del presente paragrafo, dietro questa non convenzio-
nale procedura di selezione emergeva, nella sua declinazione più esoterica
e spirituale, il fulcro della visione filosofico-aziendale di Olivetti, ovvero la
necessità di un’integrazione globale dell’individuo-lavoratore – a maggior
ragione in seguito all’alterazione dovuta all’affermarsi del sistema industria-
le – all’interno non soltanto di macro-equilibri ambientali, ma addirittura
di quelli cosmico-astrali, di cui i primi dovevano essere, secondo la vulgata
astrologica, una manifestazione su scala ridotta. Alla pianificazione metodi-
ca di un «ordine» equilibrato fra la dimensione psichica-individuale e quella
sociale-produttiva, cioè a quanto concretamente teorizzato nel concetto oli-
vettiano di «Comunità»11, si aggiungeva quindi, in un orizzonte più ampio,

8
Cfr. A. Olivetti, Il momento dell’urbanistica, in Id., Città dell’uomo cit., p. 247: «divisioni orizzontali
e verticali, incrociandosi tra loro – in assenza di un vero coordinamento – finiscono per incasellare ogni
attività umana, costringendola entro limiti sempre più rigidi, sempre più ristretti, sempre più artificiosi. In
questa pesante, caotica situazione non vi è né vera libertà né traccia di armonia. Il conflitto fra individuo e
comunità, tra individuo e società non è risolto a favore di nessuno dei contendenti, mentre si è instaurato il
tempo del disordine. Ma vi è anche un’altra constatazione ugualmente immediata: che tutte le attività della
vita moderna, pur così sezionate e frazionate operano, tuttavia e necessariamente, in un unico ambiente e
su di un unico sostegno fisico fondamentale: la natura, lo spazio. Un indistruttibile principio di unità, con
invisibile filo lega insieme le attività che la vita moderna ha così artificiosamente separato».
9
Citazione presa da Antonio Vitolo, «Genius loci», individuazione, sacrificio, dono: Ernst Bern-
hard e Adriano Olivetti, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 153.
10
Cfr. Sandro Sartor in E. Garruccio, F. Novara, R. Rozzi, Uomini e lavoro alla Olivetti cit., p.
135: «però la selezione del personale laureato e diplomato era – non saprei come definirla – meno
scientifica, essendo appunto un processo di cooptazione. Devo dire che, fra i tanti selezionatori che
ho visto lavorare, non ci sono mai stati clamorosi insuccessi; anche perché, facendo molti colloqui, e
soprattutto vedendo fare molti colloqui, e da più persone, si finiva con l’acquisire una taratura: nella
selezione, l’importante è riuscire a capire quali siano i valori dell’azienda; a individuare “l’archetipo”
di persona che l’azienda cerca».
11
A questo proposito si legga l’ispirato discorso introduttivo che Olivetti scrisse per il lancio
della sua nuova rivista di architettura, non a caso chiamata «Zodiac» (1, 1957, pp. 5-6): «e allora bi-
L’altro volto dell’inconscio 113

l’esigenza latente di includere queste micro-dinamiche entro una dimensione


universale e cosmica che fosse in grado di ricondurle ad un’unità di armoni-
che corrispondenze.
Questa, dunque, fu per sommi capi la poliedrica funzione che la disciplina
astrologica ricoprì all’interno del percorso formativo e dirigenziale dell’inge-
gnere. Nel frattempo, nel 1952, vedeva la luce uno degli ultimi scritti di Carl
Gustav Jung, La sincronicità, pubblicato nella versione italiana da Bollati-
Boringhieri soltanto nel 1980. Uno scritto di grande portata filosofica, in cui
lo psichiatra svizzero tirava le somme della sua lunga esperienza di ricerca e
studio delle discipline esoteriche antiche, tra le quali un posto di rilievo era
sempre spettato proprio all’astrologia. A quest’ultima – così come ad altre arti
mantiche di varia tradizione – egli attribuiva un valore di mediazione e colle-
gamento fra i necessari avvenimenti del cosmo e quelli più oscuri e sotterra-
nei del microcosmo psichico – individuale e soprattutto collettivo – di ogni
individuo («presenza nel microcosmo di eventi macrocosmici»)12. Infatti, già
«nelle Riflessioni teoriche sull’essenza della psiche […] egli aveva tradotto un
trentennale lavoro sull’astrologia e l’alchimia in una disamina che rafforza-
va il postulato d’una stretta contiguità tra fisica e psicologia del profondo»
(Antonio Vitolo, Prefazione, in C.G. Jung, L’analisi dei sogni cit., p. 179). In
séguito, in un’opera più complicata e controversa come La sincronicità, aveva
tentato di dimostrare che le connessioni tra il sistema psichico e quello celeste
risiedevano in una relazione di tipo acausale13, in un legame cioè che trovava
la propria spiegazione – oltre i tradizionali rapporti di causa-effetto – in un

sogna ricorrere deliberatamente all’istanza felice, determinante, quella che presto o tardi è destinata
a trionfare delle incertezze, degli ostacoli, dell’immaturità: il bisogno, la necessità di radicamento,
di ritrovare nella terra, nel paesaggio, nelle tradizioni, anche le forme architettoniche, l’affetto degli
uomini per la loro comunità, il sentimento totale e naturale del luogo».
12
Cfr. Carl Gustav Jung, Die Traumanalyse. Uber die Archetypen des kollektiven Unbewussten.
Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, Foundation of the Works of C.G. Jung,
Zürich 2007; trad. it. di L. Personeni, S. Daniele, E. Schanzer, A. Vitolo, L’analisi dei sogni. Gli arche-
tipi dell’inconscio. La sincronicità, Bollati-Boringhieri, Torino 2011, p. 250. Fin dal 1912, la frattura
con Freud spinse Jung ad ampliare lo spettro della sua ricerca sull’inconscio, indagando nuovi campi,
concernenti, ad es., «il misticismo, le scienze occulte, l’alchimia, la storia delle religioni, la mitologia,
la ritualistica ed anche l’astrologia» (Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Astrolabio Ubaldini,
Roma 1977, p. 116). Dell’astrologia, intesa come «antichissima scienza intuitiva», Jung (ivi, p. 103)
parlava già nel saggio Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934/1954). Su questo tema, vedi anche
Nicola Sementovsky-Kurilo, Nuovo trattato completo di astrologia teorica e pratica, Hoepli, Milano
1955, pp. 47-48.
13
Cfr. C.G. Jung, L’analisi dei sogni cit., p. 205: «ho scelto questo termine perché la contemporanei-
tà di due eventi connessi quanto al significato, ma in maniera acausale, mi è sembrata un criterio essen-
ziale. Io impiego dunque in questo contesto il concetto generale di sincronicità nell’accezione speciale
di coincidenza temporale di due o più eventi non legati da rapporto causale, che hanno uno stesso o un
analogo contenuto significativo». Un’ampia esegesi storico-critica del concetto di sincronicità è conte-
nuta nel volume di Marie Louise Von Franz, Psyche und Materie, Daimon Verlag, Einsiedeln 1988; trad.
it. di Antonio Vitolo, Psiche e materia, Bollati-Boringhieri, Torino 2016, pp. 140-193.
114 Cesare Pomarici

concetto più prossimo, anche se non esattamente sovrapponibile, a quello


della «corrispondenza e della armonia prestabilita» (C.G. Jung, L’analisi dei
sogni cit., p. 192) fra le parti14. Questa idea di sincronicità, o di «corrispon-
denza significativa», era dunque sorretta dalla suggestiva ipotesi che «nel suo
fondo, la psiche dell’individuo» contenesse «i riflessi dell’universo più vasto»
e che quindi «l’esperienza di un simbolo archetipico» – ottenuta mediante
sogni, visioni, o fantasie mentali – desse luogo contemporaneamente «a un
senso di rapporto con le operazioni interiori della vita» e a «un senso di par-
tecipazione ai movimenti del cosmo»15. Ebbene, secondo la teoria di Jung
(L’analisi dei sogni cit., p. 250), il trait d’union fra questi due universi paralleli
– ma sottomessi al medesimo ordine – risiedeva proprio nel «sapere assoluto
dell’inconscio» e nei processi di emersione dei suoi archetipi. In altre parole,
sosteneva lo psicologo svizzero (C.G. Jung, ivi, p. 279) nelle pagine conclu-
sive del suo saggio, «la sincronicità nel senso più stretto» non era che «un
caso particolare del generale coordinamento acausale, e precisamente quello
dell’omogeneità di processi psichici e fisici nel quale l’osservatore si trova
nella situazione favorevole per conoscere il tertium comparationis».
Questo tertium comparationis era dunque rappresentato dall’inconscio,
racchiuso nel continuum del Sé – sede di tutti i contenuti della psiche – e
venuto a galla tramite un peculiare processo di abbassamento del livello men-
tale conscio16, che rendeva appunto possibile una sua connessione sincronica
con gli avvenimenti esterni. Un’esperienza cognitivo-simbolica resa possibi-
le mediante la manifestazione degli archetipi riemersi17, il cui ruolo secondo

14
Per dare una prima generica idea di come intende questo rapporto acausale, Jung (L’analisi dei
sogni cit., p. 252) propone un parallelismo con le teorie di Plotino (Enneadi) e di Pico della Mirandola
(Heptaplus): «come in un corpo vivente parti diverse fanno contemporaneamente e conformemente al
senso cose sintonizzate tra loro, così anche gli eventi del mondo stanno in reciproco rapporto guidato
da un senso, rapporto che non può essere dedotto da causalità immanente. La ragione di questo fatto
è che sia in un caso sia nell’altro il comportamento delle parti dipende da una direzione centrale che
sta al di sopra di esse».
15
Questa è la spiegazione di Ira Progoff, Jung, synchronicity, & human destiny: Noncausal dimen-
sions of human experience, Julian Press, New York City 1973; trad. it. di Jean Sanders, Le dimensioni
non causali dell’esperienza umana, Astrolabio Ubaldini, Roma 1975, pp. 53-55 che, per illustrare le
dinamiche alla base della sincronicità, chiama in causa la Monadologia di Leibniz e i principi cardine
del Tao: «le immagini esistenti all’interno della psiche individuale sono pertanto riflessi dell’univer-
so in miniatura. I loro moti all’interno di ogni persona impersonano processi della psiche. Sono le
espressioni sotto forma individuale dei processi e dei ritmi che si muovono nel macrocosmo della
natura […]. Il Sé dell’individuo, che significa la totalità della persona, è allora un riflesso del cosmo
nel suo complesso».
16
Cfr. I. Progoff (Le dimensioni non causali cit., p. 74): «il processo che abbiamo chiamato “ab-
bassamento” del livello mentale ha luogo tramite l’intensificazione dei contenuti archetipici e della
conseguente attrazione di grandi quote di energia psichica al conscio. Il suo effetto primario è che
apre lo strato più profondo del Sé, ossia lo psicoide, a tutti i fattori presenti nel continuum del Sé».
17
Sul concetto di archetipo si vedano – oltre alla definizione generale presente in Carl Gustav
Jung, Psychologische Typen, Foundation of the Works of C.G. Jung, Zürich 2007, trad. it. di Cesare
Musatti e Luigi Aurigemma, Tipi psicologici, Bollati-Boringhieri, Torino 2011, pp. 490-498 e all’ot-
L’altro volto dell’inconscio 115

Progoff – che li interpretava sulla base di una serie di postillati junghiani al


proprio saggio Le dimensioni non causali dell’esperienza umana cit., p. 86 –
«non è quello di un fattore causale che opera all’esterno dei contenuti dell’e-
vento sincronistico, ma piuttosto di un fattore di coesione interna e di inte-
grazione». «Sotto il suo aspetto esistenziale» – concludeva Progoff (ivi, p. 95)
al termine della suddetta trattazione – «la sincronicità fornisce un mezzo con
cui possiamo percepire e sperimentare le correlazioni tra le ampie strutture
dell’universo e il destino dell’individuo. Il medium di tale processo è il pro-
fondo della psiche, e il veicolo è costituito dagli archetipi quando questi sono
sperimentati sul terreno psicoide profondo del sé». All’interno di un quadro
come questo, l’astrologia diventava quindi una delle arti deputate ad analiz-
zare e tradurre il significato umano delle diverse connessioni cosmiche, di
cui gli archetipi dell’inconscio rappresentano un primo enigmatico segno. In
quest’ottica, ad esempio, anche il caso del tema natale che Olivetti richiedeva
durante i colloqui di assunzione costituirebbe il peculiare tentativo – otte-
nuto tramite la mappatura del «firmamento interiore archetipico»18 – di una
comprensione più ampia del soggetto esaminato.
Stabilite, dunque, le possibili affinità tematiche e gli interessi disciplina-
ri che accomunano i due protagonisti della presente ricerca, rimane ora da
mettere in luce quale potrebbe essere il legame concreto fra l’inedita funzio-
ne conferita da Jung all’astrologia all’interno della sua psicologia analitica e
l’esperienza di un singolare cultore di tale disciplina come Adriano Olivetti.
Il legame – al di là dei dettagli inerenti alla lettura diretta degli scritti jun-
ghiani da parte dell’imprenditore piemontese19 e della pionieristica attività

tima trattazione di Von Franz, Psiche e materia cit., pp. 3-32 – ancora Jung (L’analisi dei sogni cit.,
p. 100: «i contenuti dell’inconscio personale sono principalmente i cosiddetti “complessi a tonalità
affettiva” che costituiscono l’intimità personale della vita psichica. I contenuti invece dell’inconscio
collettivo sono i cosiddetti “archetipi”») e Progoff (Le dimensioni non causali cit., p. 99: «in questo
senso, quelli che Jung definisce archetipi sono dei fattori organizzativi specifici che operano nel regno
della psiche. Portano con sé strutture e modi definiti con cui organizzano i contenuti della psiche, ma,
come Jung rileva, la loro strutturazione è “sempre un processo inconscio che non può essere scoperto
che dopo”»).
18
Cfr. Roberto Sicuteri, Astrologia e mito. Simboli e miti dello zoodiaco nella psicologia del pro-
fondo, Astrolabio Ubaldini, Roma 1978, pp. 15 e 13: «la lettura del grafico oroscopico, infatti, agisce
in profondità soltanto attraverso il tempo e soltanto dopo ripetute interpretazioni ed elaborazioni
dei suoi simboli, in modo da suscitare le più profonde emozioni inconsce ed agganciare le formazioni
archetipiche».
19
Nella biblioteca personale di Olivetti figurano le seguenti opere di Jung (cfr. M. Maffioletti,
La biblioteca di Adriano Olivetti cit., pp. 91, 122, 125 e Riccardo Bernardini, Nota curatoriale,
«l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 14, n. 3): Modern Man in Search of a Soul (1933), The Integration of
the Personality (1940), Essays on Contemporary Events (1947) nell’edizione inglese di Paul Kegan;
Psicologia e Alchimia (1950), tradotto da R. Bazlen per l’editore romano Astrolabio; Psychological
Reflections: An Anthology of the Writings of Carl Gustav Jung (1953) nell’edizione newyorkese di
Pantheon Books; la Prefazione all’edizione italiana dell’I Ching (a cura di Bruno Veneziani, Roma,
Astrolabio 1950). Su questo tema scrive ancora M. Maffioletti, L’impresa ideale tra fabbrica e co-
116 Cesare Pomarici

di pubblicazione delle opere di Jung da parte delle due case editrici olivet-
tiane (Nuove Edizioni Ivrea e Edizioni di Comunità)20 – è profondamen-
te connesso alla figura storica di Ernst Bernhard, allievo di Jung e originale
interprete-divulgatore della teoria sincronica21, nonché, come si vedrà, figura
di riferimento – a partire all’incirca dal 1945 – nella vita privata dell’ingegne-
re. Emblematica a proposito del rapporto, almeno decennale, fra Olivetti e
il «maestro segreto» (R. Màdera, Maestri scomodi cit., p. 146) è la dichiara-
zione – confermata anche da svariati studiosi e biografi dell’ingegnere22 – di
Erica Olivetti, che, nella premessa del suo Gli Olivetti e l’astrologia cit., p. 7,
dichiarava: «mio zio Adriano frequentava con assiduità l’analista junghiano
Ernst Bernhard, esperto astrologo, cui spesso chiese di fare il piano natale dei

munità cit., p. 151: «tornato dal breve soggiorno a Londra, nel maggio 1927 Adriano Olivetti sposò
con rito civile Paola Levi, figlia di Giuseppe Levi e sorella dell’amico Gino, di cui si era innamorato
sin dal primo incontro. Insieme partirono per un lungo viaggio attraverso l’Europa. Andarono a
Interlaken, in Svizzera, dal dottor Charles Baudouin, uno psicanalista che egli avrebbe continuato
a seguire nei decenni seguenti, quando rileggeva in chiave personalista e socialdemocratica Jung,
Kant, Proudhon, Mounier, Keyserling, i tomisti e Charles Renouvier, tutti autori più o meno cari
ad Adriano Olivetti».
20
Per quanto riguarda l’iniziativa editoriale, Adriano Olivetti fu – insieme a Einaudi – tra i primi
titolari dei diritti delle opere di Jung in Italia: infatti, tra il 1942 e il 1948 uscirono prima per i tipi delle
Nuove Edizioni Ivrea – la casa editrice ideata nel 1941 insieme a Bernhard e Roberto Bazlen e sotto
la guida già menzionato psicoanalista Cesare Musatti – i Tipi psicologici (1942), poi, per le Edizioni di
Comunità – la società editrice che nacque a séguito della chiusura della N.E.I. –, Psicologia e religione
(1948). Questo primo dato di storia editoriale del gruppo Olivetti – per quanto non chiami in causa
direttamente la persona di Adriano Olivetti – attesta in maniera irrefutabile l’importanza di lunga
durata del pensiero junghiano, anche quello più mistico e controverso, all’interno di quella che è stata
definita «la biblioteca diffusa» – formata tanto dalle «biblioteche di fabbrica» e da quelle dei Centri
Comunitari, quanto grazie alla diffusione delle idee attraverso i dibattiti e i collaboratori ai progetti
comunitari, e all’iniziativa delle Edizioni di Comunità – della cittadella eporediese.
21
Come notato da Riccardo Bernardini (Ernst Bernhard: relazione analitica e guida spirituale,
«l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 85), lo stesso Jung si sarebbe giovato delle competenze astrologiche di Ber-
nhard per portare a termine il suo studio sulla sincronicità. In questo frangente, quindi, il pensiero
dello studioso berlinese, per quanto sempre ispirato dal giovanile apprendistato junghiano, si rivela
autonomo e complementare rispetto a quello del suo maestro svizzero. A questo proposito, si leggano
dall’epistolario Bernhard-Jung (Lettere fra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, a c. di Giovanni Sorge,
La biblioteca di Vivarium, Milano 2001, pp. 40 e 53) le lettere di Jung a Bernhard (20.07.1949: «caro Col-
lega, attualmente mi sto dedicando a una ricerca sulla sincronicità, per la quale ho bisogno di un deter-
minato materiale astrologico e precisamente di oroscopi di coniugi») e di Bernhard a Jung (14.10.1952:
«così queste righe di ringraziamento per la Sua gentile spedizione della “Sincronicità” […]. Spero che
l’incontro previsto in occasione della mia prossima visita in Svizzera offra l’opportunità di conoscere
più da vicino il Suo parere in relazione ad alcuni aspetti del problema della sincronicità».
22
Cfr. Valerio Ochetto, Adriano Olivetti, Mondadori, Milano 1985, pp. 189-190; Marcello Pi-
gnatelli, Uomini di buona volontà, in Romano Màdera, Maestri scomodi. Ernst Bernhard, Buber e
Jung, Astrolabio, Roma 1996, p. 87; Giovanni Sorge, Divagazioni minime intorno al carteggio, in E.
Bernhard, C.G. Jung, Lettere fra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung cit., p. 17; Mario Ganz, Ernst
Bernhard (1896-1965): un «maestro scomodo» della psicologia del profondo, Tesi di Laurea, Facoltà
di Psicologia, Università degli studi di Padova, a. a. 2003/2004, p. 64; A. Saibene, L’Italia di Adriano
Olivetti cit., pp. 45-63; R. Bernardini, Jung nelle Nuove Edizioni Ivrea (NEI) cit., p. 169; A. Vitolo,
«Genius loci», individuazione, sacrificio, dono: Ernst Bernhard e Adriano Olivetti cit., p. 152.
L’altro volto dell’inconscio 117

suoi dirigenti». Questo discepolo di Jung, nato a Berlino da famiglia ebraica


ed emigrato in Italia in séguito alle persecuzioni naziste, fu infatti una figura –
per quanto sotterranea e appartata – di grande rilievo nell’ambiente culturale
romano degli anni ’50. In quel periodo, nella sua casa-studio di via Gregoria-
na (cfr. A. Saibene, Ernst Bernhard e Ardiano Olivetti: una traccia cit., p. 129:
«a pochi passi dalla sede della Olivetti di piazza di Spagna»), Bernhard ebbe
in analisi alcuni dei massimi protagonisti della cultura italiana del tempo, tra
cui ad esempio Vittorio De Seta, Federico Fellini, Natalia Ginzburg e Amelia
Rosselli (cfr. e.g. A. Carotenuto, Jung e la cultura italiana). Nel medesimo
lasso temporale, ovvero «tra la fine del 1945 e l’inizio del 1946» (A. Saibene,
ivi, p. 128), cominciò anche il suo rapporto professionale con Olivetti, il qua-
le era solito incontrare l’analista durante i suoi frequenti soggiorni romani.
Dopo un primo breve percorso di analisi con Cesare Musatti, infatti, Olivetti
aveva conosciuto – probabilmente tramite il milieu romano di Bazlen e di
Angela Zucconi – Bernhard, un soggetto certamente a lui più affine «per certi
suoi elementi in certo modo misticheggianti» (C. Musatti, Un ricordo mol-
to particolare cit., p. 16)23, nonché «studioso dell’astrologia e dell’oroscopo
quale “radiografia di freni e risorse del soggetto”» (M. Ganz, Ernst Bernhard
[1896-1965]: un «maestro scomodo» cit., p. 84), e con esso aveva intrapreso un
nuovo e duraturo rapporto di psicoterapia.
«Mi chiese la data di nascita e, consultando un libro, guardò con attenzione
il mio quadro astrale. Dove ero capitato? Credevo di incontrare un analista
famoso ed invece mi trovavo davanti ad un astrologo?». Con queste parole,
simili a quelle di molti altri suoi pazienti e allievi24, Paolo Aite ricorda il suo
primo spaesato incontro con Ernst Bernhard. Ebbene, al di là di questo ec-
centrico approccio, la disciplina astrologica – che, come visto, era stata fin
da principio presente anche fra gli interessi personali di Olivetti – ricopriva
un ruolo di indubbio rilievo nel pensiero e nella prassi terapeutica dell’a-
nalista berlinese25. Come e più di Adriano, infatti, «lo studio dell’astrologia

23
Cesare Musatti, Un ricordo molto particolare, in Francesca Giuntella-Angela Zucconi (a cura
di), Fabbrica Comunità Democrazia. Testimonianze su Adriano Olivetti e il Movimento Comunità,
Fondazione Adriano Olivetti, Roma 1984, pp. 15-17.
24
Citazione presa da Paolo Aite, Ricordando Ernst Bernhard, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 66. Altre
dichiarazioni, di simile tenore, sono state raccolte da Ganz (Ernst Bernhard [1896-1965]: un «maestro
scomodo» cit., pp. 78-90). Tra esse spicca la testimonianza orale di Pignatelli: «al primo incontro –
racconta Marcello Pignatelli – mi chiese l’ora e la data di nascita […]; rimasi totalmente perplesso
[…], e mi pregò di recarmi all’anagrafe per conoscere l’ora esatta. La seduta più tardi mi compilò un
oroscopo personale, sulla base del tema natale, che fra l’altro io ritenni molto vicino all’immagine che
mi ero fatto di me».
25
Sul rapporto fra Bernhard e l’astrologia, si vedano ad es. Hélène Erba-Tissot, Introduzione,
in Ernst Bernhard, Mitobiografia, trad. it. di Gabriella Bemporad, Adelphi 1969, pp. XIX-XLIII; A.
Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., pp. 44-47 e 115-121; Giovanni Sorge, Ricordando Ernst
Bernhard. Frammenti di ritratto, in E. Bernhard, C.G. Jung, Lettere fra Ernst Bernhard e Carl Gu-
stav Jung cit., pp. 84-90; P. Aite, Ricordando Ernst Bernhard cit., p. 69; R. Bernardini, Ernst Bern-
118 Cesare Pomarici

accompagnò per decenni Bernhard», che «ne studiò la simbologia ed i mito-


logemi, ovvero la considerazione dello Zodiaco come proiezione di contenu-
ti archetipici interiori, appartenenti all’umanità» (M. Ganz, Ernst Bernhard
[1896-1965]: un «maestro scomodo» cit., p. 87). In una prospettiva, cioè, affine
a quella di Jung, anche negli scritti di Bernhard la funzione assegnata all’a-
strologia sarebbe stata dunque quella di consegnare all’individuo una chiave
per interpretare i contenuti collettivi del profondo. Pertanto, anche secondo
il giudizio dell’analista berlinese, «non vi sarebbe alcun rapporto di causa-
effetto tra astri e storia dell’uomo, bensì sarebbero i simboli [archetipici] ad
agire sulla base del principio di sincronicità e analogia: segni zodiacali e pia-
neti si porrebbero quindi come entità simboliche dello psichismo umano che
si attiverebbero in virtù del linguaggio astrologico» (M. Ganz, ibid.)26. Pur
secondo un’accezione più venata di religioso misticismo rispetto a quella poi
teorizzata da Jung (cfr. G. Sorge, Ricordando Ernst Bernhard cit., p. 78: «non
è possibile tracciare una linea di demarcazione fra la sua psicologia e la ricerca
religiosa»), l’astrologia era quindi anche per Bernhard uno dei parametri di
rispecchiamento sincronico fra i fatti psichici interiori, compresi nell’entele-
chia [sic] individuale, e quelli astrali del divenire cosmico (cfr. Mitobiografia

hard: relazione analitica e guida spirituale cit., p. 85; Roberta Bussa, Ernst Bernhard e l’artista: tra
entelechia, mitologema e mito, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, pp. 115-116; Vincenzo Loriga, Ritratto di
Ernst Bernhard, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 296; A. Vitolo, «Genius loci», individuazione, sacrificio,
dono cit., pp. 143 e 150. Per avere misura diretta delle peculiarità del pensiero bernhardiano in àm-
bito astrologico, è bene citare per esteso la parte conclusiva di una sua lunga annotazione, intitolata
Delle funzioni, datata 23-27.02.1944, e compresa nella postuma Mitobiografia (cit., pp. 87-89): «la
grande misteriosa legge del tempo regna anche nel cosiddetto sincronismo (Jung), si sperimenta nell’I
King, nel parallelismo psicofisico, nell’armonia prestabilita (Leibniz), e con accentuazione pratica
nella astrologia. Il luogo e il tempo della nascita sono il punto d’incidenza, ma c’è anche un fattore
individuale […]. Qui interferiscono diverse leggi, che infine trovano posto entro la legge individuale.
In tale modo gettiamo anche un po’ di luce sulla celebre formula astrologica: le stelle “inclinano” ma
non costringono; noi diremmo: la costellazione degli astri, a partire dal momento e dal luogo della
nascita e con riferimento a essi, si adempie come legge cosmica temporale, a cui tutto in quel momento
è soggetto; viene però utilizzata e indirizzata dalla legge entelechiale individuale che si realizza col
suo aiuto e attraverso essa. – Ora anche le stelle sono proiezioni, “organi” dell’uomo, create dalle sue
immagini […]. – Per l’uomo vivono tutte le stelle. Come la pianta anima il tempo terrestre, l’animale
lo spazio terrestre, così l’uomo anima il tempo e lo spazio dell’universo e vi ritrova tanto le proprie
immagini interne quanto il proprio destino esterno. Egli riconosce qui consapevolmente, nell’estrema
lontananza, la propria legge interna, che nella cornice del suo destino necessariamente si adempie,
plasmata però in un modo unico dalla vera e propria legge entelechiale […]. L’astronomia considera
soltanto le leggi inorganiche, l’astrologia invece è la biologia delle stelle, le quali poggiano sulla legge
inorganica: essa riconosce un altro ordine organico che si serve delle leggi naturali astronomiche per il
proprio compimento. Questa grande legge del tempo, che tutto abbraccia, non può essere scritta nel
cielo perché poi lo spirito umano non la riconosca».
26
Cfr. Giancarlo Magno, Eredità ed eredi di Bernhard, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 73: «il tema
delle corrispondenze, del mirroring, che ritroviamo nell’astrologia […], non deriva da un atteggia-
mento estrovertito, bensì dalla capacità di osservare sé stessi come epifenomeno degli altri, nell’ottica
dell’Unus Mundus».
L’altro volto dell’inconscio 119

cit., p. 104: «dunque tutto è riflesso delle nostre immagini [interiori]»)27. Le


due tipologie di fenomeni erano cioè omologamente poste sotto il dominio
della stessa legge, all’interno di un medesimo Unus Mundus. In questo senso,
quindi, la conoscenza degli uni giovava – in qualità di istanza sovra-personale
– alla comprensione degli altri, senza, come già detto, la necessità di postula-
re una relazione di tipo causale fra le due parti28. «L’essenziale» – ricordava
Bernhard in un appunto del 10.07.1955 (Mitobiografia cit., p. 159) – «è che
questa dipendenza sia sperimentata e che la vita individuale sia vissuta quale
espressione di quel “compito” che» – appunto – «è indicato nell’oroscopo».
Fu, dunque, grazie alla mediazione di Ernst Bernhard – ai tratti di origi-
nalità così come ai profondi debiti junghiani del suo pensiero – che Adriano
prese definitivo contatto con un modo nuovo ed estremamente sofisticato di
intendere l’astrologia, il quale coniugava perfettamente il suo tradizionale inte-
resse per le discipline psicologiche a quello, non meno rilevante e duraturo, per
l’esoterismo e lo studio degli astri29. Un interesse sintomatico dell’organicità
della sua concezione dell’individuo, inteso cioè «come essere anche spirituale e
non solo sociale» (M. Maffioletti, L’impresa ideale tra fabbrica e comunità cit.,
p. 215), ad un punto tale da richiedere – persino in qualità di criterio dirimente
nel delicato processo di selezione dei dirigenti d’impresa – una decifrazione
ottenuta mediante il ricorso al singolare binomio psiche-astrologia. Animava
Adriano – oltre alla necessità di cogliere ogni possibile dimensione dell’essere
umano che aveva di fronte – la convinzione profonda che, anche all’interno
delle dinamiche di fabbrica, ciascun uomo, specie quelli dotati di una maggiore
responsabilità, era parte integrante di una più vasta armonia universale, di un
unico grande ordine cosmico. In questo senso, dunque, tale e continua ricerca
di equilibrio tra destino individuale e dimensione collettiva trovava – come già,

27
Cfr. A. Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 116: «ora per Bernhard l’astrologia si do-
vrebbe occupare del senso diverso che le stelle assumono nel momento in cui sono coordinate da certe
leggi, e che permettono all’individuo, nato in un particolare momento, di sentirsi non una insignifi-
cante molecola, ma partecipante ad una totalità». In un altro appunto, datato 10.07.1955, Bernhard
scrive: «l’oroscopo, che già al momento della nascita o ancora prima determina il destino umano quale
espressione di una costellazione fondamentale, non lascia alcun dubbio che qui siamo davanti a una
“legge” che va molto al di là del caso e dell’arbitrio» (Mitobiografia cit., p. 159).
28
A tale proposito, in una nota intitolata Introversione, estroversione, identificazione, proiezione
e ritiro della proiezione, Bernhard scrive: «e insieme riconosco anche come il destino individuale si
serva di un necessario destino collettivo […] per raggiungere il proprio compimento. In tal senso le
immagini sono in realtà collettive, costellazioni, e il loro adempimento nella vita concreta è sempre
un compito individuale che ha più o meno buon esito, così come, ad esempio, anche le costellazioni
astrologiche sono forme che si presentano necessariamente, ma esigono un “ad-empimento” indivi-
duale» (Mitobiografia cit., p. 91). Sul medesimo tema, si veda anche Bianca Garufi, Una testimonian-
za, in R. Màdera, Maestri scomodi. Ernst Bernhard, Buber e Jung cit., pp. 75-76.
29
Cfr. Giulio Sapelli, Lo scandalo della memoria olivettiana, in F. Novara, R. Rozzi, E. Garruc-
cio, Uomini e lavoro all’Olivetti cit., p. 607: «Ernst Bernhard infatti fu la figura forse più importante
per consentire ad Adriano di convivere e coevolvere con l’ombra junghiana e quindi con i motivi
profondi del proprio operare».
120 Cesare Pomarici

su scala ridotta, nei criteri filosofici che ispiravano la sua idea di «Comunità» –
un suo peculiare riflesso anche nell’organizzazione aziendale30.

Conclusioni

Come accennato nella sezione iniziale del presente studio, il contributo


della disciplina psicologica dentro il laboratorio olivettiano ebbe, quanto
meno, un duplice merito. Da un lato, infatti, vi fu l’azione storica degli psi-
cologi in fabbrica, la quale ebbe in sintesi l’indiscutibile capacità di rivelare
a parte obiecti «le contraddizioni dell’organizzazione del lavoro» (Psicologi
in fabbrica cit., p. 390), e di ridefinire globalmente – sulla base di una me-
todologia di grande apertura interdisciplinare – l’immagine del salariato.
Un’immagine che, da allora in avanti, avrebbe dovuto tenere conto – oltre
che delle abilità produttive dell’operaio – anche e soprattutto della sua con-
creta unità biologico-storica, del bisogno inalienabile del suo Io di esercitare
un controllo qualitativo sulle proprie azioni, e del modo in cui quest’ultimo
percepiva e interiorizzava la propria dimensione sociale. Se, dunque, a livel-
lo psicologico-individuale, questa nuova concezione definiva il salariato alla
luce delle contraddizioni storiche e biologiche che esso incarnava come figura
professionale, l’altra visione, quella cosmico-astrologica ricostruita nel corso
della presente ricerca, costituiva invece il tentativo di proiettare la totalità
psichica del singolo individuo in una dimensione di metastorica armonia. La
psiche del soggetto-lavoratore diveniva così la sede di due opposte tensioni:
quella interna, teatro della dialettica tra necessità produttive e «bisogni reali»,
e quella esterna, volta a rivelare le possibilità di accordo con le dinamiche
dell’universo. Nel punto dove queste due rette si incrociano – fra psiche e tec-
nica produttiva, tra fabbrica e cosmo – si può intravedere pertanto, al termine
della presente indagine, la doppia cifra dell’umanesimo olivettiano31.

30
Un saggio complessivo di questa visione cosmico-spirituale di Olivetti può essere dedotto dallo
scritto Le forze spirituali, in Città dell’uomo cit., pp. 13-20.
31
Sull’immagine mistico-simbolica della croce insiste lo stesso Olivetti nel discorso Ai lavoratori
di Ivrea, in Città dell’uomo cit., p. 144: «in quest’epoca l’ansioso desiderio di rinnovamento e di
salvezza raggiunge una più grande intensità, e la luce di un’epoca nuova, per un ordine più giusto e
più umano, si accende ancor sempre dietro la croce che rimane pur sempre l’asse immobile intorno
al quale ruota la storia».
Michele Pacifico

«Alta tecnologia e cultura millenaria».


Il contributo di Olivetti allo sviluppo
dell’informatica in Italia

Nel 1949 Adriano Olivetti costituisce una società che chiama «Olivetti-
Bull», d’intesa con la società francese Compagnie des Machines Bull, con lo
scopo di commercializzare in Italia i macchinari per la meccanografia prodot-
ti dai soci francesi.
La Olivetti-Bull ha sede a Milano, si sviluppa molto bene e ottiene un
discreto successo vendendo e installando sistemi meccanografici a imprese
industriali e commerciali e a istituti di credito in tutta Italia. La società viene
guidata, nei suoi primi anni, da Ugo Galassi, negli anni Cinquanta Direttore
Generale di Olivetti; e successivamente da Ottorino Beltrami, che era stato
per qualche anno alle dirette dipendenze di Galassi e di Adriano. Fra i clienti
più significativi di Olivetti-Bull si possono ricordare la Fiat, la Manifattura
Marzotto di Valdagno, il Monte dei Paschi di Siena.
Nel 1952 Adriano affida al fratello Dino il compito di creare una base di
osservazione negli USA per seguire gli sviluppi dei calcolatori elettronici, che
stavano cominciando a diventare prodotti industriali. Viene costituito quindi
a New Canaan, nel Connecticut, un ufficio presidiato, agli inizi, da un gio-
vane ingegnere italiano, Michele («Mike») Canepa. Due anni dopo, Dino e
Adriano Olivetti conoscono a New York un professore della Columbia Uni-
versity, Mario Tchou, allora appena trentenne; lo assumono con il compito
di sviluppare ricerche nel campo dei calcolatori elettronici andando al di là
del presidio di New Canaan. Mario Tchou, cittadino italiano, nato nel 1924 a
Roma, dove si era laureato in ingegneria, era figlio di un diplomatico cinese
accreditato presso la Santa Sede.
Nel 1954, l’Università di Pisa si trova a disporre di una somma allora
importante – 150 milioni di lire – da investire in ricerca e decide di finanzia-
re il progetto di un calcolatore elettronico. Viene consultata la Olivetti per
avere qualche orientamento e Adriano mette a disposizione Mario Tchou
come persona di riferimento, affiancandolo ad alcuni tecnici selezionati per
l’occasione.
Il progetto dell’Università si sviluppa autonomamente, con qualche con-
tributo tecnico e organizzativo della Olivetti, mentre Tchou costituisce in lo-
calità Barbaricina, alle porte di Pisa, un Laboratorio di Ricerche Elettroniche

L’ospite ingrato ns 6
122 Michele Pacifico

impegnandosi con Adriano a ottenere un prototipo di calcolatore funzionan-


te, nel giro di tre anni.
Per realizzare questo obiettivo seleziona e assume una trentina di tecni-
ci di varie origini, alcuni stranieri, con le competenze adeguate al compito
da svolgere: ingegneri, matematici, fisici, periti industriali. Fra i neoassunti
spicca Giorgio Sacerdoti, ingegnere, che aveva di recente installato il primo
calcolatore elettronico importato in Italia dall’Inghilterra, un Ferranti Mk 1,
operativo presso il centro di calcolo del CNR a Roma. Mario Tchou si dimo-
strò un eccellente manager non soltanto nel campo tecnologico, ma anche e
soprattutto come guida del personale. Qualche anno dopo, Piergiorgio Pe-
rotto, che sarebbe diventato una delle colonne dello sviluppo dell’elettronica
Olivetti, così ricordava il suo primo incontro con l’ingegner Tchou:

I dirigenti che avevo incontrato mi erano sembrati persone di un altro mondo e


sprizzavano alta cultura da tutti i pori; il contrasto con gli uomini Fiat, tutto fabbrica
e dialetto e con modi di fare un po’ caserecci, era stato abissale. Per giunta il direttore
del laboratorio, l’ingegner Mario Tchou, che era figlio di un diplomatico cinese presso il
Vaticano, dava l’impressione di coniugare alta tecnologia e cultura millenaria; e il clima
del laboratorio, che avevo assaggiato durante una breve visita di qualche mese prima,
ricordava quello di Los Alamos dove era stata costruita la bomba atomica1.

Il gruppo di ricercatori guidato da Tchou procede speditamente nel suo


lavoro e ottiene un primo prototipo di calcolatore elettronico funzionante
già nel 1957, chiamato «Macchina Zero» e successivamente ribattezzata «Elea
9001». Il nome viene dall’acronimo ottenuto con le iniziali della definizio-
ne Elaboratore Elettronico Automatico (o Aritmetico, per distinguerlo da un
calcolatore analogico) e richiama deliberatamente l’antica Elea della Magna
Grecia, culla del pensiero pre-socratico.
Dopo un attento collaudo, la «Macchina Zero» viene smontata, trasferita
a Ivrea, e rimontata con qualche modifica; qui entra in funzione nel Centro
elaborazione dati e viene utilizzata per la gestione dei materiali.
Subito dopo questo exploit, la squadra di Tchou mette a punto un nuovo
prototipo, più ricco di funzionalità e arricchito di nuovi elementi, chiamato
Elea 9002 e, in gergo, interno «IV» (pronunciato «uno vi»), che sta per «pri-
ma macchina a valvole» (era a valvole anche la Macchina Zero).
La IV funziona perfettamente e potrebbe già essere offerta al mercato così
come è, ma Tchou si rende conto che la sua tecnologia costruttiva, basata
sull’uso di valvole termoioniche dette anche «tubi a vuoto», è ormai superata
(siamo nel 1958); quindi decide coraggiosamente di buttare tutto all’aria e ri-
cominciare da capo, mettendo a punto un calcolatore interamente nuovo, che

1
Pier Giorgio Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal computer: una storia appassio-
nante mai raccontata, Sperling & Kupfer, Milano 1991, p. 2.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 123

utilizza componenti allo stato solido (transistor e diodi), molto più affidabili
e moderni dei «tubi a vuoto».
Il terzo prototipo viene chiamato internamente «1T» («uno ti») in riferi-
mento ai suoi nuovi componenti principali, i transistor; e gli viene assegnato
il nome ufficiale di Elea 9003: siamo nel 1959 e Adriano Olivetti dà il via alla
diffusione commerciale di questa nuova macchina, che apre una pagina nuo-
va, senza precedenti, nel catalogo dei prodotti industriali della Olivetti.
Il passaggio dalla fase sperimentale a quella industriale è segnato da due
eventi: il trasferimento del Laboratorio di Ricerche Elettroniche da Barbari-
cina (Pisa) a Borgolombardo (Milano) e la creazione a Milano di una prima
task force finalizzata alla commercializzazione dell’Elea 9003, chiamata Divi-
sione Commerciale Elettronica.
Non si tratta di semplice logistica: nella visione a lungo termine di Adriano
Olivetti, a Milano, dove già operava con successo la Olivetti-Bull (che in dieci
anni aveva venduto e installato più di 450 centri meccanografici), avrebbe
dovuto svilupparsi un nuovo ramo della Olivetti, interamente dedicato alle
nuove tecnologie elettroniche; mentre a Ivrea avrebbe continuato a svolgersi
l’attività storica (e altamente redditizia) basata sulla produzione di macchine
per ufficio meccaniche ed elettromeccaniche.
Il compito di mettere insieme un gruppo di lavoro operativo destinato
a mettere sul mercato l’Elea 9003 viene affidato da Adriano Olivetti a un
brillantissimo tecnico proveniente dalla Olivetti-Bull e inquadrato come di-
rigente della Olivetti tre anni prima, quando aveva da poco compiuto 25 anni.
Elserino Piol (Pino per gli amici) è nato nel 1931 a Limana (BL), ha studiato
a Milano, ottenendo il diploma di perito industriale in uno dei più prestigiosi
Istituti tecnici di quella città, ed è un grande esperto di soluzioni meccanogra-
fiche maturate nella Olivetti-Bull. È dotato di grandi capacità di comunica-
zione e di leadership, che lo aiutano nel compito non banale di reclutare una
squadra di qualche decina di persone da destinare alla vendita del calcolatore
Elea 9003.
Piol riesce a farsi assegnare alcuni venditori già qualificati dalla potente
squadra di venditori della Olivetti. In particolare, fra quelli che apparten-
gono alla élite dei venditori di macchine contabili; ma non bastano. Quindi
decide di affidarsi agli uffici di reclutamento dei laureati e dei diplomati della
Olivetti per mettere in casa una importante pattuglia di neo-laureati e neo-di-
plomati. Il titolo di studio non è un vincolo: nel 1959 i calcolatori elettronici
non sono presenti neppure di nome nei piani di studio delle facoltà tecniche
e scientifiche delle università italiane, e men che meno nei programmi degli
istituti tecnici; quindi qualsiasi titolo di studio va bene, purché sia stato otte-
nuto nel migliore dei modi, come impone la regola Olivetti: massimo dei voti
e nei tempi istituzionali prestabiliti.
124 Michele Pacifico

Entrano, così, a far parte della Divisione Commerciale Elettronica inge-


gneri, architetti, laureati in matematica, fisica, economia e commercio, diritto,
scienze politiche e persino filosofia; insieme con diplomati delle più diverse
specializzazioni. Questi giovani senza esperienza non vengono assunti subi-
to, ma sono compensati per tre mesi con una borsa di studio, che diventerà
uno stipendio regolare quando avranno superato un periodo di addestramen-
to. A gruppi di 20/30 per volta, cominciando dal settembre del 1959, tutti i
nuovi arrivati partecipano a un corso di tre settimane, tenuto inizialmente
da alcuni tecnici del Laboratorio di Borgolombardo: il corso ha lo scopo di
far conoscere ai partecipanti le caratteristiche funzionali dell’Elea 9003 e il
suo linguaggio di programmazione. Contestualmente, si impartiscono alcuni
concetti di base sulla programmazione dei calcolatori in generale, basati sul
concetto di diagramma di flusso o flow-chart. Il corso è selettivo: ogni fine
settimana i partecipanti si sottopongono a un test. Quelli che lo superano
proseguono nello studio, gli altri vengono rimandati agli uffici di provenien-
za, se già assunti; o messi in libertà, se sono stati ingaggiati con una borsa di
studio.
La Divisione Commerciale Elettronica o DCE ha bisogno di due com-
petenze professionali diverse, accomunate da una buona conoscenza di base
delle funzionalità e delle potenzialità d’uso del calcolatore Elea 9003:

· servono persone fortemente inclini ai contatti umani e al lavoro commerciale


· occorrono tecnici molto orientati al lavoro di programmazione

Il corso di addestramento aiuta a individuare e distinguere i possibili


orientamenti, per cui i più estroversi, e spesso meno appassionati al lavoro
tecnico, vengono assegnati al ruolo di venditori o «commerciali», come si
diceva in gergo; per gli altri si creano, invece, gruppi di lavoro per realizzare i
programmi che dovranno essere eseguiti dagli Elea ordinati dai nuovi clienti.
Il lavoro della DCE si articola in tre fasi distinte:

1. l’aggancio di un cliente potenziale;


2. la preparazione di un’offerta e la successiva gestione della complessa trattativa
3. l’avviamento del nuovo centro di elaborazione dati del cliente basato sull’Elea

La prima fase è la più semplice e diretta: i commerciali prendevano contat-


to con un’azienda o un ente pubblico, avvantaggiati dal fatto che non esisteva
azienda o ente pubblico in Italia che non conoscesse l’Olivetti; e non avesse
una buona opinione delle sue macchine per ufficio. Conquistato l’accesso,
si trattava di spiegare al cliente potenziale – nella persona del direttore am-
ministrativo, o del direttore generale o del responsabile del centro mecca-
nografico – che cosa gli si proponeva e perché. Il calcolatore allora era una
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 125

macchina misteriosa, sconosciuta ai più, anche a chi aveva pratica di sistemi


meccanografici. Quindi, tutte le intelligenze aziendali, non soltanto quelle
dei venditori, vengono mobilitate per scrivere documenti esplicativi, veri e
propri manuali di istruzione, che accompagnano l’offerta commerciale con
l’obiettivo di rassicurare i pavidi e incoraggiare i disponibili; garantendo che
con un Elea in casa tutti i problemi aziendali, non soltanto gestionali, ma
anche commerciali e industriali, avrebbero trovato una soluzione moderna,
solida e di sicuro successo.
Per formulare un’offerta commerciale era necessario fare una rassegna
della realtà organizzativa del potenziale cliente, definire in che modo la nuova
macchina avrebbe potuto essere utilizzata, con quale combinazione di appa-
recchiature periferiche (unità a nastro e stampanti), per gestire con procedure
automatizzate la fatturazione, per esempio, o il calcolo di paghe e stipendi o
i movimenti dei magazzini oppure tutte queste attività insieme. Le procedure
da automatizzare dovevano essere descritte minuziosamente, con diagrammi
di flusso e schemi di archivi, per dimostrare al cliente che si faceva sul serio,
che si sapeva con sicurezza come ci si sarebbe mossi per assicurargli i risultati
promessi. In sostanza, si offrivano al cliente potenziale un sistema e una solu-
zione basata su quel sistema.
La gestione di una trattativa, quando tutto andava bene, durava da tre a sei
mesi, dalla prima presa di contatto alla presentazione dell’offerta-studio, alla
firma del contratto.
Subentrava poi la terza e ultima fase dell’operazione: mentre il Laborato-
rio di Ricerche Elettroniche, al quale era stata affiancata una struttura pro-
duttiva, procedeva a costruire un nuovo esemplare del calcolatore, in base alle
specifiche dell’ordine, una pattuglia di programmatori della Divisione Com-
merciale Elettronica si trasferiva presso gli uffici del cliente per preparare i
programmi e gli archivi magnetici che sarebbero stati utilizzati per eseguire le
procedure illustrate nell’offerta.
In questa fase, i tempi erano variabilissimi: l’allestimento di un nuovo
esemplare dell’Elea 9003, che veniva costruito interamente a mano, con po-
chissime operazioni meccanizzate, poteva richiedere uno o due mesi, ma la
preparazione del «software applicativo», cioè dei programmi per le procedu-
re gestionali, era un’impresa ardua, lentissima, a elevata intensità di mano d’o-
pera. I programmi si scrivevano, infatti, in linguaggio macchina, riempiendo
a mano pagine su pagine di moduli prestampati, con una griglia destinata a
contenere, riga per riga, gli otto caratteri che formavano ciascuna istruzione
dell’Elea 9003. Questi moduli venivano poi passati a diligenti signorine che
con l’aiuto di macchine speciali trascrivevano il codice su un nastro di carta
perforato (l’Elea non prendeva l’input da schede perforate, ma da nastro per-
forato o da nastro magnetico).
126 Michele Pacifico

Ottenuto il nastro perforato con il programma, bisognava provarlo, utiliz-


zando un Elea già installato e funzionante da qualche parte. Quindi: o su una
delle due macchine di prova disponibili una a Milano e l’altra a Borgolom-
bardo; oppure sulla macchina di un cliente, che la metteva gentilmente a di-
sposizione, bontà sua, da mezzanotte alle sei del mattino seguente, oppure la
domenica pomeriggio. Le prove, soprattutto nel primo anno, erano un’espe-
rienza allucinante: poteva capitare che il programma non funzionasse perché
conteneva errori, ma anche perché il calcolatore faceva le bizze, per un qual-
che suo misterioso ed erratico guasto interno. In circostanze del genere, non
erano rari gli scontri verbali fra programmatori e tecnici della manutenzione,
ciascuno fieramente convinto del fatto suo: che fosse tutta colpa di quella
macchina sgangherata (tesi dei programmatori) o che dipendesse dall’incom-
petenza di quegli sprovveduti pasticcioni (tesi dei tecnici). Con l’aiuto di Dio
(invocato spesso a sproposito e con appellativi poco riguardosi), in capo a
due o tre prove (quindi due o tre notti insonni) il programma dava i risultati
previsti; quindi lo si accantonava, dopo averlo opportunamente registrato su
un nastro magnetico e si passava a scrivere (e a provare) il programma suc-
cessivo. E questo per mesi e mesi, finché non arrivava la macchina nuova e si
poteva passare dalla fase preparatoria a quella di produzione vera e propria.
Il cliente affiancava il proprio personale a quello della Olivetti, che prepara-
va l’avviamento. Bisognava quindi anche addestrare quelle persone, cosa che
si faceva con un primo corso base negli uffici della Divisione Commerciale
Elettronica a Milano; e poi, con tanto e paziente lavoro di addestramento sul
campo, nella sede dell’impresa cliente.
Anche se i commerciali potevano beneficiare della luminosa immagine,
tecnica e professionale, che proveniva loro dal fatto di lavorare per la Olivetti,
il mercato nel quale si muovevano non era quello delle macchine per ufficio
tipico della Olivetti, ma quello della elaborazione dei dati, come lo si chiamò
in seguito, o della meccanografia, nel quale la Olivetti-Bull aveva lavorato
con successo nei dieci anni precedenti. E quel mercato era dominato, in Italia,
e nel resto del mondo, da una grande impresa americana nota col nome di
International Business Machines: in sigla IBM. Anche se Olivetti-Bull po-
teva vantare nel 1959 un portafoglio di 450 impianti meccanografici, il resto
del mercato – che valeva almeno 4000 clienti, fra potenziali ed effettivi – era
dominato, al 90 e più per cento, dalla agguerrita filiale italiana dell’america-
na IBM, che aveva aperto i suoi primi uffici nel nostro paese fin dagli Anni
Trenta del secolo scorso.
I venditori IBM – o «rappresentanti», come li qualificavano nella loro casa
madre – erano agguerritissimi, molto preparati professionalmente e spesso
giocavano con estrema pesantezza le loro carte. «Nessuno è mai stato licen-
ziato per aver scelto IBM»: con queste parole assicuravano, in tono vaga-
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 127

mente intimidatorio, i loro interlocutori, mentre sviluppavano trattative con


direttori amministrativi, di medie e grandi imprese, industriali e commerciali,
o responsabili del trattamento dei dati di banche e assicurazioni. E quando si
trattava di scegliere fra la proposta di Olivetti e quella di IBM, il messaggio
restava inciso nella mente dei loro interlocutori, che molto spesso optavano,
per tranquillità, in favore del leader del mercato.
Contro l’Elea 9003 della Olivetti, IBM schierava il suo calcolatore chia-
mato 1401, macchina di tutto rispetto, con caratteristiche funzionali di fatto
equivalenti a quelle del suo concorrente italiano. La battaglia commerciale
si svolse, quindi, ad armi pari in termini di macchine, ovvero di hardware,
come si cominciò a dire proprio in quei primi Anni Sessanta. Sempre in tema
di hardware, due anni dopo, nel 1961, Olivetti mise a punto un nuovo calco-
latore, che chiamò Elea 6001. Era di minori dimensioni rispetto all’Elea 9003
e concepito per i laboratori di ricerca e le imprese industriali medio-piccole:
IBM schierò a contrasto una sua ottima macchina con livelli di prestazioni
molto simili e orientata allo stesso mercato, chiamata 1620. Si può quindi
affermare, senza tema di smentita, che fra il 1959 e il 1964 la gara fra DCE
Olivetti e IBM Italia si svolse alla pari sul fronte dell’hardware.
E i risultati non mancarono: nei quattro/cinque anni in cui fecero parte
del listino Olivetti, si vendettero e installarono circa 40 Elea 9003 e 140 Elea
6001: in Italia. Diversamente dalla Olivetti storica, quella delle macchine per
ufficio, che aveva operato sempre nel mercato internazionale, la DCE fu at-
tiva soltanto in Italia. E la differenza non fu da poco: negli anni in cui il cal-
colatore 1401 rimase in catalogo, IBM ne vendette 12.000 esemplari in tutto
il mondo.
Mentre stava prendendo corpo con solidi risultati il piano generale con-
cepito da Adriano Olivetti e da Mario Tchou per la crescita della Olivetti nel
nuovo e promettente mercato dei calcolatori elettronici, un tragico destino
fece uscire di scena i due protagonisti: l’ingegner Adriano morì a soli 59 anni
per un infarto cardiaco il 27 febbraio del 1960; e l’ingegner Tchou rimase
vittima di un incidente stradale, alla giovane età di 37 anni, l’8 novembre del
1961. La perdita di Mario Tchou privò il Laboratorio di Ricerche Elettro-
niche della sua affascinante componente di «cultura millenaria», ma non in-
tralciò lo sviluppo dell’alta tecnologia, che continuò a operare con successo.
Lo dimostra l’uscita del nuovo calcolatore Elea 6001, al quale si affiancarono
ben presto altri due nuovi modelli, uno dei quali avrebbe avuto un grande
successo internazionale: l’Elea 4000, ribattezzato GE-115 e opportunamente
trasformato per integrarsi nel catalogo dei computer della General Electric,
vendette 5000 esemplari in tutto il mondo nel periodo 1966-1970.
La Olivetti del 1960 non era una fragile startup che la perdita del suo lea-
der carismatico avrebbe fatto crollare. Quindi, l’azienda continuò a presidia-
128 Michele Pacifico

re con successo i mercati internazionali nei quali si era affermata sotto la gui-
da di Adriano, ma la sua scomparsa favorì l’acuirsi di tensioni fra i familiari
azionisti che, unite alla difficoltà finanziarie provocate dall’acquisizione nel
1959 della società Underwood negli USA (un’operazione che si era rivelata
una specie di «incauto acquisto»), crearono le condizioni per una pericolosa
crisi di liquidità che si manifestò nel 1964. La crisi portò ad una serie di de-
cisioni strategiche che stravolsero completamente il futuro della Olivetti, in
particolare il futuro del settore che si occupava di calcolatori elettronici di
grandi dimensioni. Gli eventi sono noti e non è il caso di ricordarne gli intri-
cati dettagli: per capire il destino dei calcolatori Olivetti ci basterà ricordare
la decisione di scorporare tutte le attività derivate dall’ingresso di Olivetti nel
mercato dei calcolatori e della grande «elettronica», come la si chiamava allo-
ra (il termine «informatica» entrò nell’uso parecchio tempo dopo). Si decise
di trasferire tutte le risorse umane (circa 5000 persone), immobiliari, impian-
tistiche e patrimoniali, riconducibili al Laboratorio di Ricerche Elettroniche
e alla DCE (trasformata in Divisione Elettronica Olivetti incorporando le
risorse della disciolta Olivetti-Bull), conferendole a una nuova società costi-
tuita ad hoc e chiamata Olivetti General Electric (OGE), il cui capitale era:
per il 75 per cento di proprietà della americana General Electric Company;
e per il 25 per cento della Ing. C. Olivetti & C. SpA. Gli accordi in merito
prendono forma nell’estate del 1964 e si formalizzano nel luglio del 1965.
Nel giro vorticoso di carte e documenti che vennero scambiati in quel tor-
mentato frangente, divenne noto e famoso, al punto da essere famigerato, un
documento attribuito a Vittorio Valletta, allora a capo della Fiat, una delle
società che Mediobanca aveva coinvolto in un Gruppo di intervento, creato
per risolvere il problema di cassa della Olivetti. In quel documento si osser-
vava icasticamente:

La società di Ivrea è strutturalmente solida e potrà superare senza grosse difficoltà il


momento critico. Sul suo futuro pende però una minaccia, un neo da estirpare: l’essersi
inserita nel settore elettronico, per il quale occorrono investimenti che nessuna azienda
italiana può affrontare2.

Per quanto è dato di sapere, la decisione di scorporare il settore elettroni-


co/informatico dalla Olivetti e farlo confluire in una società a maggioranza
americana, venne presa sulla scorta di questa semplice annotazione. Non ci
fu una sua verifica con una valutazione obiettiva, basata su riscontri fattuali,
tratti dai libri contabili e da una analisi professionale del mercato in essere e

2
La dichiarazione di Valletta è riportata per la prima volta nel libro di Lorenzo Soria, Informa-
tica: un'occasione perduta. La Divisione Elettronica della Olivetti nei primi anni del centrosinistra,
Einaudi, Torino 1979, p. 55.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 129

delle sue tendenze, come sarebbe stato corretto fare, qualora si fosse trattato
di una decisione professionale. Ma palesemente non si trattò di una decisione
professionale: Vittorio Valletta nel 1964 ha 81 anni, interamente vissuti nel
settore industriale dell’auto. Verosimilmente è del tutto ignaro delle specifi-
cità del mercato dell’informatica/elettronica. La sua dichiarazione sul poten-
ziale di sviluppo di quel settore non è un giudizio professionale, ma uno sfo-
go rancoroso. Purtroppo per la Olivetti, il professor Valletta era un despota
assoluto, come ben sa chi abbia lavorato in posizioni di vertice nella Fiat di
allora. Quindi, per quanto gratuita e priva di fondamento professionale, la
decisione di Valletta divenne immediatamente operativa, con le conseguenze
che sappiamo. O, meglio, che crediamo di sapere. Perché, col senno di poi,
sullo scorporo della Divisione Elettronica dalla Olivetti, il suo conferimento
a una nuova società costituita d’intesa con la General Electric e gli sviluppi
che ne seguirono, si accese quasi subito una vivace discussione. Dapprima, in
sede di cronaca economica, politica e sindacale; e durò qualche settimana. Poi
riprese alla grande molti anni dopo, con la pubblicazione di una serie di studi
sul tema dell’informatica Olivetti e del suo destino, sviluppati da numerosi
ricercatori: alcuni di alta professionalità e non pochi fantasiosi disseminatori
di ubbie.
Il primo ricercatore a occuparsi seriamente della vicenda è Lorenzo So-
ria, un giornalista d’inchiesta che pubblica nel 1979 un libro intitolato Infor-
matica: un’occasione perduta. La divisione elettronica dell’Olivetti nei primi
anni del centrosinistra, Einaudi, Torino. Il riferimento al centrosinistra, che
compare nel titolo, lascia intuire che l’indagine di Soria cerca (e individua)
nella politica italiana di quel periodo, incertezze e lacune che favorirono lo
scorporo della Divisione Elettronica, per cui non si trovarono (e neppure si
cercarono seriamente) possibili soluzioni alternative: come per esempio far
confluire il ramo elettronico della Olivetti nel sistema delle partecipazioni
statali (segnatamente l’IRI) salvandone così l’italianità, invece di arrendersi
alla predominio degli USA nel settore industriale dei calcolatori o computer,
come si cominciavano a chiamare. Le argomentazioni di Soria sono molto
puntuali e interessanti, e meritano di essere lette – se non necessariamente
condivise – ancora oggi.
Molti anni dopo, un altro studioso, di alto livello, è intervenuto con ri-
gorose argomentazioni sull’argomento: stiamo parlando di Luciano Gallino,
sociologo di grande prestigio, profondo conoscitore della Olivetti in tutti i
suoi aspetti industriali e sociali, che nel 2003 pubblica un saggio importante:
La scomparsa dell’Italia industriale3. In questo testo Gallino affronta il tema
complesso della progressiva scomparsa dal panorama industriale ed econo-

3
Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.
130 Michele Pacifico

mico italiano delle maggiori imprese chimiche, siderurgiche, farmaceutiche


e aeronautiche; imprese che avevano svolto ruoli da protagoniste negli anni
successivi alla fine della guerra, contribuendo notevolmente allo sviluppo del
«miracolo economico». Non esistono più Montecatini, né Edison; e nemme-
no Montedison, che le aveva riunite per un breve ma intenso periodo.
Nel capitolo intitolato, non a caso, «Un neo da estirpare»: l’informatica,
Gallino esordisce in questo modo:

La scomparsa dell’industria informatica, ovvero della produzione su larga scala di


computer progettati e fabbricati nel nostro paese, si identifica con il disfacimento, attuato
con la partecipazione dei suoi ultimi gruppi dirigenti e proprietari, d’una delle aziende
italiane più avanzate e conosciute nel mondo che l’Italia abbia avuto: la Olivetti di Ivrea4.

Nel resto del capitolo Gallino ricostruisce con puntigliosa attenzione gli
eventi che abbiamo riepilogato anche noi e conclude con una condanna espli-
cita delle conclusioni in virtù delle quali si arrivò al il processo di scorporo
della Divisione Elettronica della Olivetti.
Un altro studioso e attento giornalista d’inchiesta, Marco Pivato, ha pub-
blicato nel 2010 un bel saggio intitolato Il miracolo scippato5, che ha per sot-
totitolo: Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni ses-
santa. Pivato ricostruisce quattro storie di successo della scienza italiana di-
rottate verso il fallimento da complessi e intricati eventi politici, nazionali e
internazionali. Fra queste quattro storie, c’è quella della Olivetti e della sua
disavventura informatica.
I contributi di questi studiosi meritano tutti di essere letti e meditati, per-
ché ciascuno contribuisce, con qualche spunto di chiarezza, a far capire quel-
lo che accadde nel momento dell’uscita della Olivetti dal business dei grandi
calcolatori. Ma il tema va approfondito andando al di là degli eventi del 1964 e
1965. Gli anni che seguirono il passaggio delle risorse informatiche della Oli-
vetti alla General Electric furono, per l’informatica italiana in generale, una
successione di sconfitte. Olivetti uscì dalla compagine azionaria e la OGE
assunse il nome di GEISI (General Electric Information Systems Italia). No-
nostante fosse la terza maggiore impresa industriale del mondo, in termini di
fatturato, anche General Electric non riuscì a crearsi una posizione di rilievo
nel mercato mondiale dei computer. Qualche anno dopo, l’intero comparto
informatico venne ceduto da General Electric alla Honeywell, per cui ci fu
un ulteriore cambio di ragione sociale; e la GEISI divenne HISI (Honeywell
Information Systems Italia). Poi anche Honeywell gettò la spugna e passò

4
Ivi, p. 64.
5
Marco Pivato, Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni
sessanta, Donzelli, Roma 2011.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 131

la mano ad altri. Insomma, uno sfacelo progressivo. Il quadro era sempre


più desolante: non si riusciva proprio a capire che cosa fosse successo e che
cosa stava succedendo. Se fosse stato semplicemente un problema di liquidità,
come sostenevano in molti, come mai General Electric, che pure aveva un
cash flow dell’ordine di grandezza del PIL di una media nazione industriale,
aveva deciso di abbandonare il campo? E come si spiegavano le successive cri-
si ricorrenti, non soltanto dell’erede italiano dell’eroica elettronica Olivetti,
ma anche di tutte le imprese, in Europa e nel mondo, che avevano cercato di
sfidare IBM e ne erano uscite con le ossa rotte?
A mio personale parere, la risposta più completa e articolata a questo in-
sieme di perplessità si può trovare in uno degli ultimi libri scritti dal più au-
torevole studioso mondiale di Business History, il professore della Harvard
Business School che ha fondato questa disciplina. Sto parlando di Alfred D.
Chandler Jr. e del suo studio Inventing the Electronic Century: The Epic Sto-
ry of the Consumer Electronics and Computer Industries6.
In questo libro, Chandler, con la magistrale capacità di sintesi che carat-
terizza tutte le sue opere, scrive alcune parole definitive sulla vicenda che
ha tanto appassionato tutti quelli che sono entrati in contatto, direttamente
(come chi scrive) o indirettamente, con la storia dell’elettronica Olivetti. Nel-
la parte introduttiva, l’autore afferma:

l’incapacità delle imprese inglesi, francesi, italiane e poi tedesche di competere con i
mainframe IBM […] negli anni Settanta […] condusse le industrie di computer europee
a una fine irrimediabile7.

E nel corpo del testo spiega con lucide analisi per quali ragioni strutturali le
cose andarono in questo modo, spazzando via tutte le imprese che tentarono, ne-
gli anni, di crearsi uno spazio nel mercato delle grandi macchine – i cosiddetti
computer mainframe –, una classe di macchine alla quale l’Elea 9003 apparteneva
a pieno diritto, anche se allora non esistevano neppure i termini «computer» e
«mainframe». Secondo Chandler, i settori industriali nascono per la capacità im-
prenditoriale di imprese che assumono il ruolo di iniziatrici di un nuovo processo:

Chiamo queste imprese first-mover […]. Non sono necessariamente le prime a ven-
dere il nuovo prodotto: sono state le prime a sviluppare un insieme integrato di capacità
funzionali essenziale per commercializzare il nuovo prodotto in grandi volumi sui mer-
cati mondiali8.

6
Alfred D. Chandler, Inventing the Electronic Century: the Epic Story of the Consumer Electro-
nics and Computer Industries, Free Press, New York 2001 (trad. it. di Michele Pacifico, La rivolu-
zione elettronica: i protagonisti della rivoluzione elettronica e dell’informatica, Egea, Milano 2003).
7
A.D. Chandler, La rivoluzione elettronica cit., p. 4.
8
Ibid.
132 Michele Pacifico

E la IBM, come Chandler dimostra puntualmente in tutto il libro, è stata


la first-mover nel settore industriale dei computer, riuscendo a consolidare
nel tempo i successi iniziali, prendendo iniziative sempre più innovative e co-
raggiose, che mantenevano incolmabile il distacco dalle concorrenti. A que-
sto proposito val la pena citare per intero il passo in cui Chandler racconta
l’uscita ingloriosa di General Electric dalla contesa:

Entro il 1968 la divisione computer della GE aveva costituito impianti di ricerca,


engineering e produzione in tredici sedi in cinque nazioni. Aveva impostato un’orga-
nizzazione internazionale per il marketing e l’assistenza tecnica formata da circa 8.000
persone. Nell’espandersi, fece uscire la nuova serie 100 e 200 di computer per le imprese.
In quell’anno, il 1968, i dirigenti della divisione riferirono che le vendite di sistemi infor-
mativi erano «ben al di sopra di quelle del 1967 e con perdite operative sostanzialmente
ridotte». Per migliorare la posizione competitiva della GE, la dirigenza approvò piani
di spesa per 400 milioni di dollari al fine di sviluppare una linea di prodotti avanzata
(Advanced Product Line: APL).
Verso la fine del 1969 il presidente del consiglio di amministrazione della GE, Fred J.
Borsch, costituì una New Venture Taskforce per valutare le prospettive dei tre maggiori
business a elevata tecnologia della società: energia nucleare, motori a reazione e compu-
ter. Dopo un’accurata valutazione, il gruppo di lavoro raccomandò di conservare i primi
due, ma insistette per la chiusura dei computer. «A fronte di una mancata crescita negli
utili […] la General Electric non può, a nostro parere, intraprendere alcuna iniziativa da
mezzo miliardo di dollari quale l’APL, che produce sostanziali perdite di utile netto a
medio termine».
Inoltre, continuava il rapporto, l’IBM rappresentava un «bersaglio in movimento».
Una volta raggiunta dalla GE, l’IBM si sarebbe trovata ancora più oltre nella sua traiettoria
di apprendimento. L’annuncio da parte dell’IBM del System 370 garantì l’approvazione
delle raccomandazioni del gruppo di lavoro. Nel maggio del 1970 il top management della
GE vendette il suo business nell’hardware dei computer, comprese Bull e Olivetti, alla
Honeywell, con una transazione che portò alla costituzione della Honeywell Information
Systems, nella quale GE conservava una quota del 18,5 percento. Un complesso scambio
di note e di azioni sembra abbia coperto le perdite di GE nei computer per 164 milioni di
dollari. La quota del 18,5 percento venne venduta durante gli anni Settanta.
Una delle ragioni di fondo dell’insuccesso di GE, riferì il gruppo di lavoro, era di
natura manageriale. I dirigenti della divisione computer mancavano dell’addestramento
e dell’esperienza specifici necessari per perseguire lo sviluppo a lungo termine dei pro-
dotti. La litania di errori, incidenti, false partenze e mancati approfondimenti espressa nel
rapporto documenta le difficoltà incontrate persino dall’impresa più esperta nella tecnica
nel costruire una divisione operativa integrata in un nuovo percorso di apprendimento a
elevata tecnologia. Inoltre, trattandosi di uno solo fra i tanti e svariati business importanti,
quello dei computer non riuscì a richiamare l’attenzione e l’impegno dell’alta dirigenza9.

Lorenzo Soria e Marco Pivato hanno fra altri avanzato l’ipotesi che a mina-
re dalle fondamenta le speranze di successo dell’impresa informatica Olivetti

9
Ivi, pp. 119-120.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 133

sia stato il mancato contributo dello Stato, sia sotto forma di finanziamenti
della ricerca, sia tramite robuste commesse, che avrebbero potuto creare un
forte volano economico-finanziario in grado di far crescere il business nel
settore privato. Ma anche questa ipotesi, non priva di fascino e di credibilità
(in fondo la stessa IBM negli USA si avvantaggiò di importanti commesse mi-
litari in più di un momento della sua storia di successo), non regge all’analisi
dei fatti; e soprattutto al confronto con quanto accadde in altri paesi europei,
dove l’intervento dello Stato, in varie forme, ci fu, prolungato e sostanzioso,
ma non riuscì a salvare dal declino le imprese informatiche nazionali. Sentia-
mo ancora Chandler:

[…] nel 1964 arrivò lo shock dell’annuncio del System 360 di IBM. Quell’annuncio
spinse il governo laburista di Harold Wilson ad attivare subito un piano per creare un
campione nazionale. Nel 1964 e nel 1965 il governo avviò svariate iniziative che fornirono
alla ICT (International Computers and Tabulators) cinque milioni di sterline per R&S.
Acquisizioni e fusioni continuarono. Il governo poi dispose rapidamente per la fusione
dei due costruttori indipendenti di computer che ancora restavano, Elliott-Automation
Associates e English Electric. La nuova società prese il nome di English Electric Compu-
ters. Prima di quella fusione, English Electric aveva acquisito Ferranti, che aveva installato
nel 1951 il primo computer analitico inglese, ma che aveva iniziato a produrre computer in
quantità industriali soltanto nei tardi anni Cinquanta. Infine il governo Wilson prese nel
1967 l’iniziativa di realizzare l’ultima fusione, che univa English Electric Computers con
ICT per formare la International Computers Ltd. Poi finanziò questo campione nazionale
con 35 milioni di sterline e gli diede la preferenza in tutti gli approvvigionamenti della
pubblica amministrazione. [corsivo mio]. […] Come ha evidenziato Kenneth Flamm, lo
storico della crescita globale di questo settore industriale, «la corsa alle fusioni finì per
lasciare ICL con una linea di prodotti altamente incompatibili, insieme con l’agglome-
razione in una sola impresa dei problemi di molte altre». Il nuovo campione nazionale
aveva ben poche speranze di diventare una efficace base di apprendimento nazionale. […]
La strategia del governo di costruire un campione nazionale tramite fusioni di svariate
piccole imprese fallì. Queste imprese fuse fra loro, con capacità tecniche in qualche modo
correlate, avevano ben poche capacità funzionali integrate: vale a dire, sviluppo prodotti,
produzione o persino marketing. ICL fornisce un classico esempio delle difficoltà che si
incontrano nel creare una forza competitiva mediante fusioni10.»

Risultati altrettanto fallimentari, puntualizza Chandler, si ebbero in Fran-


cia, dove un faraonico piano di rilancio dell’informatica nazionale voluto,
manco a dirlo, da Charles De Gaulle, e chiamato Plan Calcul non riuscì a
risollevare le sorti dei produttori nazionali.
In conclusione, la bella ed entusiasmante battaglia per l’elettronica Olivet-
ti era persa in partenza, senza che nessuno dei suoi protagonisti potesse sa-
perlo, da Adriano Olivetti e Mario Tchou ai più sprovveduti fra i neoassunti.

10
Ivi, pp. 215, 217.
Alessandra Criconia

Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di


Adriano Olivetti

In questo dopoguerra, la politica italiana non ha voluto […]


accettare il metodo scientifico e con esso le moderne tecniche
nella pianificazione urbana e rurale; non ha voluto né potuto
dar luogo ad audaci e preveggenti piani regolatori, per cui le
nostre città ora si stanno impaludando in un caotico disordi-
ne. L’urbanistica chiamata in causa alla undicesima ora, non vi
giunge privilegiata come il lavoratore del Vangelo, ma degrada-
ta, ridotta a ispiratrice di piccoli provvedimenti di polizia civica
per regolare la circolazione stradale. Ben altro volevamo!
Adriano Olivetti, Perché si pianifica?,
in Id., La città dell’uomo 2015, p. 65.

Architettura e comunità concreta

La centralità dell’architettura e dell’urbanistica nella visione olivettiana è


evidente. Gli edifici, i quartieri, i piani urbanistici promossi da Adriano Oli-
vetti nel corso dell’intera sua vita – dalla nuova città di Ivrea al piano della
Valle d’Aosta fino al Borgo della Martella –, sono tessere di un’intensa e in-
faticabile attività imprenditoriale che rivela una capacità, fuori dal comune,
di dare forma concreta alle idee e di prefigurare il cambiamento. Olivetti è
stato architetto e urbanista senza esserlo e, come ha giustamente scritto Luigi
Prestinenza Puglisi, «[…] era più di un semplice committente di architettura:
era un ideatore di spazi per la nuova società»1.
In tal senso, Adriano è tra quei pochi dirigenti di azienda che la storia
industriale del nostro Paese può vantare, ad aver avuto una visione di futuro,
per quanto utopica e irrealizzata, e ad aver colto quanto la costruzione dell’I-
talia moderna e democratica dovesse essere un processo culturale e sociale
poggiato sul rinnovamento profondo delle forme dell’abitare a partire dalle
nuove forme del lavoro. La «comunità concreta» non è, infatti, soltanto la
proposta di un federalismo di ispirazione gobettiana; è anche una riformu-

1
Luigi Prestinenza Puglisi, Architetti d’Italia. Adriano Olivetti, il committente, «Artribune»,
4 febbraio 2020 (https://www.artribune.com/progettazione/architettura/2020/02/adriano-olivetti-
storia-italia/).

L’ospite ingrato ns 6
136 Alessandra Criconia

lazione del rapporto urbs e civitas, città fisica e città sociale, all’interno di un
quadro di analisi socio-antropologico al cui centro si trova la fabbrica.
Nella Torino dei primi decenni del Novecento in cui la periferia industria-
le era cresciuta in maniera esponenziale, la fabbrica è lo spazio dei conflitti,
ma anche delle sintesi, tra le forze materiali del cambiamento – il movimento
operaio da un lato, la classe dirigente e gli intellettuali dall’altra –, e in quanto
tale, è il terreno di coltura di una coscienza moderna non puramente indivi-
dualistica ma comunitaria e solidale. È nel clima di questa «città laboratorio»2
che matura l’olivettismo dell’ingegnere Adriano. Il suo complesso e articola-
to pensiero contiene in sé i fermenti del dibattito e delle posizioni riformiste
della Torino di quei primi anni del Novecento: organizzazione razionale del
lavoro, gestione dei processi sociali e politici, educazione delle masse, svilup-
po industriale come agente della trasformazione. Ed è infatti la fabbrica, e
la sua architettura, il filo conduttore del progetto olivettiano: una fabbrica a
cavallo tra laboratorio artigianale e officina industriale radicata nel territorio,
che è allo stesso tempo una fabbrica di grandi fatturati che distribuisce i suoi
utili per lo stato sociale diffondendo benessere e bellezza attorno a sé.
Le parole di Adriano tratte dal discorso tenuto ai lavoratori di Pozzuoli
nel 1955, riassumono efficacemente il senso di questo ambizioso progetto di
capitalismo dal volto umano, non privo di contraddizioni3.

Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profit-
ti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione,
una vocazione, anche nella vita di una fabbrica?
Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come
a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo
dell’opera che abbiamo intrapresa. Perché una trama, una trama ideale al di là dei prin-
cipi dell’organizzazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del
suo fondatore [Camillo N.d.R.], l’opera della nostra Società.
Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancora del
tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là
del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme

2
Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino 1969,
p. 40. Così definisce Torino lo storico dell’architettura Giorgio Ciucci, che scrive anche: «La Torino
intellettuale degli anni Venti è ancora in bilico tra la realtà della condizione operaia e i programmi
di una imprenditorialità che vuole essere moderna e aggressiva. Da parte di gruppi di intellettuali, la
funzione sociale della classe operaia viene assunta attraverso l’adesione entusiasta alle idee “operaiste”
di Gobetti o identificata nella lotta rivoluzionaria per la creazione di un nuovo ordine sociale, mentre
la capacità imprenditoriale è valutata in termini di organizzazione razionale del lavoro e di funziona-
lità gestionale e direttiva, ossia in termini di positività sociale del moderno capitano d’industria o del
nuovo finanziere» (ivi, p. 38). Cfr. il capitolo secondo Torino negli anni venti, pp. 37-56.
3
In un recente libro, Maria Pace Ottieri propone un’immagine contrastante di Adriano, che:
«[…] appare spesso come un ossimoro: visionario e pragmatico, grandioso e umile, mite e autoritario,
schivo e affascinante» (Furio Colombo, Maria Pace Ottieri, Il tempo di Adriano Olivetti, Edizioni di
Comunità, Roma-Ivrea 2019, p. 13).
Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti 137

estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non
riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna.
La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole,
ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale,
sociale del luogo ove fu chiamata a operare, avviando quella regione verso un tipo di
comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue
vicende umane, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra
un avvenire, una vita più degna di essere vissuta4.

L’organizzazione scientifica della fabbrica: il metodo Olivetti

Come il padre Camillo, anche Adriano, una volta conseguita la laurea in


ingegneria chimica, viaggia negli Stati Uniti5. Il soggiorno americano passato
a visitare fabbriche, tra l’agosto del 1925 e il gennaio 1926, lasciò un’impronta
indelebile, come traspare nelle parole di una delle lunghe missive scritte alla
famiglia: «[…] il segreto non stava negli uomini perché certo i nostri non
erano da meno dei loro fratelli emigrati in America, ma stava nella struttura
dell’organizzazione e nel rigore dei metodi»6.
Sarà la razionalità del modello organizzativo fordista a imprimere il salto
di qualità dall’approccio empirico di Camillo a quello scientifico di Adriano:
ai capi officina saliti dalla gavetta ai posti di responsabilità, venne sostituita
una direzione di ingegneri laureati e un personale tecnico ripartito in base alle
competenze e alle funzioni. Alla fine degli anni Trenta, la Olivetti era diven-
tata un’industria diretta da un gruppo di dirigenti che oltre a gestire le attività
ordinarie della produzione, promuovevano ricerche e studi finalizzati a colti-
vare idee e sperimentare prodotti per rispondere a un mercato in espansione
e alle esigenze dei tempi a venire.
L’aspetto propulsivo della fabbrica non si limitava all’ascolto della do-
manda del mercato; esso presupponeva un progetto di più ampio respiro,
un’organizzazione, anche spaziale, dell’ambiente del lavoro, non solo per
dare ordine alla catena produttiva ma anche per assicurare benessere e armo-
nia alla vita degli operai. L’architettura diventò parte integrante della visione
di impresa: accanto, e intorno alla fabbrica, sorsero mense, scuole, asili nido,
ambulatori, biblioteche, parchi, centri culturali, servizi, nuove case e nuovi
quartieri. Figura indispensabile di questo progetto fu l’urbanista, «che assu-
merà il volto del demiurgo e del profeta investito di un carisma spirituale che

4
Adriano Olivetti, Città dell’uomo, a cura di A. Saibene, Edizioni di Comunità, Roma 2019, pp.
124-125.
5
Tutti i figli di Olivetti completarono la loro formazione con dei periodi di studio all’estero, in
Inghilterra, Germania e Stati Uniti, vale a dire nei paesi industrialmente più avanzati. Adriano passò
anche alcuni mesi a Londra per affinare la sua conoscenza della lingua inglese.
6
In Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Roma 2015, p. 40.
138 Alessandra Criconia

deve costruire la comunità e rendere felice l’umanità»7: è nelle mani del suo
sapere tecnico e pratico che Olivetti affida il disegno della città dell’uomo.

Tra il cucchiaio e la città: la visione integrale dell’architettura

Sullo sfondo del riformismo di Adriano si coglie, in filigrana, lo spirito


socialista del padre Camillo, che già aveva fatto della Olivetti un luogo di
solidarietà e mutuo soccorso. Adriano però si spinge oltre e integra le arti e
l’architettura nel programma dello stato sociale8. Animato dalla convinzione
che la fabbrica dovesse essere, anche in senso fisico, un ambiente luminoso in
grado di consentire agli operai di coltivare lo spirito e l’intelligenza e non solo
di assemblare dei pezzi, Adriano si fa interprete di una «direzione estetica»,
così la definisce Geno Pampaloni, che non riguarda solo il design del prodot-
to ma anche quello dello spazio di lavoro. Sotto la sua guida, l’Olivetti inca-
richerà una nutrita schiera di architetti e urbanisti – Figini e Pollini, Nizzoli,
Olivieri, BBPR, Bottoni, Gardella, Vittoria, Cosenza, Quaroni, Gorio, Lugli,
Valori e molti altri – di progettare edifici e piani regolatori che costituiscono
un patrimonio di esempi e uno spaccato del percorso di ricerca e rinnova-
mento dell’architettura italiana, prima e dopo la guerra.
Le tappe salienti di questo percorso coprono un arco temporale di circa
un trentennio, interrotto dal conflitto mondiale e dall’esilio di Adriano in
Svizzera. Gli inizi, negli anni Trenta-Quaranta, sono circoscritti ai primi due
ampliamenti (1934-36; 1939-42) della fabbrica ICO (acronimo di Ingegnere
Camillo Olivetti), al Borgo Olivetti (1941-42) e al piano della Valle d’Aosta
(1936-37). Il prosieguo, negli anni Cinquanta-Sessanta, includerà il terzo e il
quarto ampliamento della ICO (1947-49; 1955-57), la realizzazione del cen-
tro studi (1954-55), dei servizi sociali (1954-59), della mensa (1955-61), della
centrale elettrica (1956-59), il recupero delle officine meccaniche (1956-57),
il quartiere Castellamonte con le case per impiegati e dirigenti (1942-55), ma,
soprattutto, la costruzione della fabbrica di Pozzuoli (1951-54) e il piano del
Borgo La Martella nei pressi di Matera (1952-54), che rappresentano l’evolu-
zione meridionalista dell’ordine comunitario.
A questo vasto progetto, civile oltreché sociale, parteciperanno insieme
agli architetti e agli urbanisti anche designer, grafici, artisti, coadiuvati da so-
ciologi, psicoanalisti, scrittori, filosofi, critici e storici dell’arte e dell’archi-
tettura. I nomi di quanti hanno contribuito all’utopia pragmatica olivettia-
na sono numerosi, a conferma che l’ordinamento della comunità concreta è

7
Ivi, p. 79.
8
Così scrive Ochetto nella biografia: «Per tutta la vita Adriano sentirà come un dovere, una voca-
zione legata alla funzione del manager di migliorare l’intera società partendo dalla fabbrica», ivi, p. 83.
Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti 139

insito in una transdisciplinarità ante litteram che doveva intrecciare i saperi


delle scienze tecniche e umane per situare il progetto negli interstizi, «tra»
«il cucchiaio e la città»9: le inchieste sociologiche e le campagne fotografiche
volute da Adriano furono, così, modi per la partecipazione degli abitanti e la
conoscenza dei luoghi che dovevano fornire dati ed elementi conoscitivi su
cui tessere le trame del disegno della città dell’uomo.
I primi architetti a essere coinvolti nel progetto olivettiano furono Luigi
Figini e Gino Pollini, esponenti del Gruppo 7 uscito dalle aule del Politecnico
di Milano e ispirato dalle teorie razionaliste di Le Corbusier10. Olivetti volle
conoscere i due giovani architetti dopo aver visitato la villa-studio per artista
esposta nel giardino del parco Sempione, in occasione della V Triennale del
1933. Quel piccolo e raffinato edificio – in cui, come dissero Figini e Pollini,
«[…] gli spazi ritmici si seguono lungo le prospettive dei pilastri, evaden-
do dall’interno verso l’esterno» – combinava l’esattezza matematica di una
composizione modulare con la trasparenza e flessibilità delle grandi pareti
scorrevoli di cristallo aperte sugli spazi del cortile.
Fu l’intreccio tra il rigore e la luminosità della casa-studio a incantare Oli-
vetti, che immaginava altrettanto radiosa la nuova fabbrica di Ivrea. Concepi-
to come prolungamento della fabbrica in mattoni rossi costruita da Camillo
nei pressi della stazione, l’edificio di Figini e Pollini è un fabbricato lineare
di un centinaio di metri caratterizzato da una facciata vetrata continua che
permette alla luce naturale di entrare all’interno dell’ambiente di lavoro, la-
sciando trasparire la chiarezza spaziale del telaio trave-pilastro in cemento
armato leggermente arretrato. Ma l’autonomia della struttura secondo i det-
tami dei cinque punti di Le Corbusier, era anche un modo per svincolare la
pianta e consentire una maggiore libertà distributiva degli spazi interni, così
da ricongiungere le differenze di quote tra vecchia e nuova fabbrica con ram-
pe di raccordo intorno all’aula del «salone dei Duemila» (dal numero degli
allora occupati), cuore del nuovo stabilimento e agorà della vita pubblica del
personale e degli operai. Il razionalismo della fabbrica di Figini e Pollini, che
Camillo paragonò a una «gabbia di canarini eccessivamente monotona», non
è soltanto uno stile e un linguaggio: l’architettura della nuova ICO è anche
metafora della razionalità dell’organizzazione industriale della fabbrica mo-
derna, tassello di un nuovo insediamento, nella fattispecie il Borgo Olivetti,
che, seguendo il filo degli ideali olivettiani, doveva essere il nucleo di una co-
munità industriale e il prototipo del sistema di urbanizzazione del territorio:
dal Borgo Olivetti al piano regionale della Valle d’Aosta il passo è breve.

9
Si fa qui riferimento allo slogan di Ernesto Nathan Rogers, «dal cucchiaio alla città», con il quale
si intendeva un progetto integrale dell’architettura inclusivo di tutte le scale, da quella minima del
dettaglio, a quella media dell’edificio, fino a quella grande della città.
10
Gino Pollini fu il traduttore del libro di Le Corbusier Vers une architecture.
140 Alessandra Criconia

Per il piano della Valle d’Aosta, a cui collaborarono Renato Zvetere-


mich, direttore dell’ufficio pubblicità della Olivetti e l’ingegnere Italo Lau-
ro, Olivetti si rivolge nuovamente agli architetti Figini e Pollini, ma amplia
il gruppo con i BBPR e Piero Bottoni. L’obiettivo era disegnare un piano di
area vasta e rendere emblematico il nesso tra riforma sociale e forma fisica
del territorio. Coordinato dallo stesso Adriano e ispirato alle idee lecor-
buseriane espresse nel IV CIAM di Atene (il Congresso Internazionale di
Architettura Moderna), il piano articola una riorganizzazione del territorio
per ridurre l’isolamento e combattere lo spopolamento dei borghi e delle
piccole città montane. Sulla base di un ampio apparato di analisi preliminari
e di un’imponente campagna fotografica che illustravano la realtà geogra-
fica, produttiva, sociale e culturale della regione, il piano prefigurava uno
sviluppo tanto economico quanto turistico del territorio attraverso il raf-
forzamento della maglia infrastrutturale delle strade e delle ferrovie da un
lato, l’implementazione dei servizi e delle attrezzature turistiche dall’altro.
ll risultato fu un piano straordinariamente innovativo per la strumentazio-
ne adottata e gli studi messi in campo, che rappresenta un manifesto dell’in-
terdipendenza tra spazio e società, tra urbs e civitas: costituito da 450 tavole,
5 plastici e un copioso numero di fotografie, esso sarà esposto nella galleria
della Conferazione fascista degli artisti e professionisti nel luglio 1937, ri-
scuotendo molto interesse tra gli addetti ai lavori e gli intellettuali, ma rice-
vendo l’opposizione di Mussolini, che, schierato a favore di un’architettura di
propaganda di archi e colonne, lo affosserà.
Nonostante l’esito negativo, il piano della Valle d’Aosta fortificherà Adria-
no nell’idea «[…] dell’urbanistica come una disciplina diversa e superiore alle
altre, perché ordine politico capace di organizzare intorno a sé tutti gli altri
elementi (sociologici, architettonici, demografici, ambientali)»11, e che nel do-
poguerra lo porterà a sostenere le potenzialità riformiste del progetto di archi-
tettura e di urbanistica, questa volta nel sud dell’Italia. La fabbrica a Pozzuoli
di Luigi Cosenza (1951-54) e il piano del Borgo della Martella (1951-53) del
gruppo coordinato da Ludovico Quaroni, la corrente neorealista del razionali-
smo, saranno i due eventi cardine dell’olivettismo nel meridione.

Il sud

La discesa al sud della Olivetti coincide con l’incarico a Luigi Cosenza,


nel 1951, del progetto di uno stabilimento a Pozzuoli lungo la via Domi-

11
In V. Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia cit. La fiducia nel progetto urbano gli proviene
anche dalla lettura delle opere di Le Corbusier, che nel 1929 aveva scritto «[…] l’attrezzatura di un
Paese reclama l’intima connessione dell’architettura con l’economia generale», p. 79.
Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti 141

ziana. Costruita su un terreno affacciato sul golfo di Napoli, la fabbrica è


un basso volume a un piano immerso nel giardino mediterraneo disegnato
da Piero Porcinai articolato in parti opache e trasparenti in stretta rela-
zione con il paesaggio. La sua originalità sta nello schema compositivo a
croce che consente tanto la continuità e flessibilità spaziale della galleria
meccanica quanto una costante visibilità interno-esterno. Lo studio dei
colori affidato a Marcello Nizzoli completa l’armonia e la luminosità degli
ambienti interni.
Quasi contemporaneo alla fabbrica di Cosenza a Pozzuoli è il proget-
to per il Borgo La Martella nei pressi di Matera. Nonostante l’insuccesso
del piano della Valle d’Aosta, Adriano continuerà a partecipare attivamente
all’urbanistica: nel 1947 entra a far parte dell’UNRRA-Casas12 divenendone
vice-presidente nel 1959; nel 1949 sostiene la rivista «Urbanistica», a cui col-
laborano Giovanni Astengo, Bruno Zevi, Ludovico Quaroni; nel 1950 viene
eletto presidente dell’INU, l’Istituto Nazionale di Urbanistica, sostenuto da
una cordata promossa da Ludovico Quaroni e Michele Valori.
È con questi incarichi e nel clima della ricostruzione post-bellica che
Adriano si avventura nel piano di risanamento di Matera e nella costruzione
di villaggi rurali destinati ad accogliere gli abitanti dei Sassi. La Martella, a 7
km da Matera, è tra i borghi promossi dall’UNRRA-Casas e il primo della
serie13. Il progetto, affidato a un pool di urbanisti e architetti guidato da Qua-
roni14, fu preceduto, anche in questo caso, da studi e inchieste sociologiche
sulle condizioni di vita dei contadini del sud: al centro dell’indagine era la vita
rurale descritta da Carlo Levi in Cristo si è fermato a Eboli.
Il Borgo La Martella venne realizzato tra il 1951 e il 1953. Disegnato se-
condo uno schema planimetrico di strade curvilinee confluenti al centro della
piazza della chiesa sul culmine della collina e caratterizzato dai forni collettivi
al fondo di ciascuna strada per ricreare «un nodo sociale di ritrovo e di scam-
bio delle donne del vicinato»15, il nuovo insediamento era stato concepito
in continuità con l’habitat di provenienza. Per non creare una frattura nella
«tradizionale comunanza di vita tra uomini e animali»16, le case erano state
progettate in modo da avere una stalla separata per motivi igienici ma ancora

12
UNRRA-Casas, acronimo di United Relief and Rehabilitation Administration, è l’ente delle
Nazioni Unite preposto all’assistenza economica e civile delle popolazioni colpite dalla guerra.
Preposto ai progetti a Nurra nel sassarese, a Cutro nel catanzarese e a Matera, sarà soppresso con
legge 133/1963 e con la stessa legge verrà istituito l’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia
Sociale).
13
Al Borgo della Martella seguirono Borgo Venusio di Luigi Piccinato e il quartiere Spine bian-
che, capogruppo Carlo Aymonino con Giancarlo De Carlo, Federico Gorio, Mario Fiorentino e altri.
14
Facevano parte del gruppo Luigi Agati, Federico Gorio, Piero Maria Lugli e Michele Valori.
15
Ludovico Quaroni, Matera e La Martella: piani e progetti, in Id., La città fisica, a cura di A.
Terranova, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 59.
16
L. Quaroni, Matera e La Martella: piani e progetti cit., p. 60.
142 Alessandra Criconia

di pertinenza e un appezzamento di terra per l’orto. Completavano il villag-


gio una piazza, la chiesa, la posta, il tabaccaio, un emporio, una trattoria, la
scuola materna elementare, l’ambulatorio, un teatro.
Tuttavia, nonostante l’attenzione ai bisogni degli abitanti, e a dispetto
degli studi ispirati alle esperienze della Tennessee Valley e alle tesi di Lewis
Mumford, La Martella fu un fallimento: le case, costruite in tempi troppo
rapidi e con materiali scadenti, dapprima si inumidirono quindi si allagaro-
no, diventando inabitabili. La volontà di estendere la comunità nel meridio-
ne d’Italia si scontrò con un ostracismo che non fu soltanto culturale, ma
anche politico. Olivetti continuò ancora a sostenere altri piani comunitari,
ma furono dei colpi di coda di un progetto che con La Martella era ormai
naufragato e che concluse, per certi versi, l’incontro felice con l’architettura
e l’urbanistica.

Nota a margine

A distanza di sessant’anni dalla morte di Adriano è ancora difficile espri-


mere un giudizio sull’esperienza progettuale di Olivetti. Non certo perché
le sue iniziative siano state di scarsa qualità (al contrario, le architetture re-
alizzate sono dei capolavori), ma perché rimangono delle opere isolate che
non sono riuscite a incidere e a costruire quell’organicità urbana e sociale,
così com’era nelle intenzioni. Del modo in cui l’architettura abbia contribu-
ito, fattivamente, a fare comunità alla maniera di Adriano, non c’è traccia, e
quanto oggi rimane della ICO e del Borgo Olivetti a Ivrea, è sintomatico di
una sorta di impasse, quanto meno di un imbarazzo: gli edifici della città di
Olivetti, divenuti oggetti del museo dell’architettura moderna, sono luoghi
fermi nel tempo, congelati sotto l’etichetta del patrimonio Unesco. A vederli
così, chiusi, abbandonati, fatiscenti, è difficile immaginarli, secondo il dise-
gno originario, come dei luoghi di una nuova vita urbana e comunitaria: la
stessa Ivrea, vista dalla ICO, sembra una città lontana.
Resta la domanda di cosa sia veramente rimasto del progetto di Adriano.
Nonostante la molteplicità degli uomini e dei saperi messi in campo, nono-
stante le iniziative sostenute e le attività promosse, nonostante l’aspirazione a
un capitalismo dal volto umano, la trasformazione della società a partire dalle
persone, dal loro modo di stare insieme e da un principio di partecipazione
«orizzontale» alla cosa pubblica, sembra essersi arenato nelle pieghe di un
pragmatismo utopico. E infatti Furio Colombo, alla domanda su cosa resti
della vita e del mondo di Adriano, risponde: «Non resta nulla, non perché la
visione di Olivetti si sia rivelata inadeguata a durare e a servire per un mondo
che cambia. Ma perché il cambiamento è avvenuto in due tempi e due modali-
tà molto diverse, sventrando la storia, dilaniando il passato attraverso la scena
Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti 143

del mondo a cui il progetto Olivetti aderiva, con una paurosa e sconosciuta
dissociazione dalla realtà»17.
Forse, però, non bisognerebbe rinunciare a riesaminare criticamente l’o-
livettismo: è un fatto che quello di Adriano sia stato un progetto articolato,
soprattutto stratificato e, per questo motivo, complicato da raccogliere. E
non solo per l’ampiezza del campo di azione, ma per un programma politico-
sociale che, seppure proiettato nel futuro, era fortemente calato nel presente:
Olivetti è stato, nonostante tutto, un figlio del suo tempo.
Oggi abbiamo il vantaggio di una sana distanza critica e possiamo passare
al setaccio la mole di un’eredità ricca di suggestioni, ma gravosa, ricollocando
la figura di Olivetti nel contesto politico e culturale della Torino dei primi
decenni del Novecento e, quindi, nell’Italia repubblicana del dopoguerra e
traguardandolo dal punto di osservazione della contemporaneità. In questo
senso il progetto comunitario di urbs e civitas dovrebbe arricchirsi del terzo
elemento della polis, senza la quale è difficile riuscire a incastrare tutti i pezzi
del mosaico.

17
F. Colombo, M.P. Ottieri, Il tempo di Adriano Olivetti cit., p. 181.
Fortini copywriter
Daniele Balicco

Fortini copywriter

La crescita a macchia d’olio delle agenzie pubblicitarie, preferite agli


uffici autonomi di una volta, la metto tra i motivi della decadenza di
Milano. Alla città è venuto a mancare il sostegno dell’immaginazione1.
Leonardo Sinisgalli

Non ci sono pratiche senza teorie, né tecnologie senza una vi-


sione del mondo2.
Riccardo Falcinelli

Franco Fortini ha lavorato continuativamente all’Olivetti – anche se con


mansioni e contratti diversi – dal 1947 al 1963. È stato poi richiamato da Renzo
Zorzi, ma solo come collaboratore esterno, per altri sette anni: dal 1965 al 19743.
In tutto sono quasi 24 anni di lavoro: di fatto, il copywriter è stato il suo primo
mestiere; insieme all’insegnamento, la sua più importante attività professionale.
Per quanto politicamente distante dalle premesse ideologiche del movimento
di Comunità4, Fortini era ben consapevole di lavorare in un’azienda eccezionale,

1
Leonardo Sinisgalli, La decadenza di Milano, «Il Mattino», 10 febbraio 1976, cit. in Carlo Vinti,
Gli anni dello stile industriale. 1948-1965. Immagine e politica culturale nella grande impresa italiana,
Marsilio, Padova 2007, p. 348.
2
Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, Einaudi,
Torino 2014, p. 42.
3
Per una ricostruzione del rapporto lavorativo e teorico, fra Fortini e l’Olivetti, si vedano soprattut-
to: Luca Lenzini, Cronologia, in Franco Fortini, Saggi ed Epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Monda-
dori, Milano 2003, pp. xcv-cxiii; Giuseppe Lupo, La letteratura al tempo di Adriano Olivetti, Edizioni
di Comunità, Roma 2016, pp. 196-272; Davide Dalmas, Il significato dei nomi e le macchinazioni delle
macchine. Franco Fortini e l’industria, «Levia Gravia», 14, 2014, pp. 209-246; Sergio Bologna, Indu-
stria e cultura, in Uomini usciti di pianto in ragione. Saggi su Franco Fortini, a cura di Mavì de Filippis,
manifestolibri, Roma 1996, pp. 13-42; Simonetta Piccone Stella, Intellettuali e capitale nella società del
dopoguerra, De Donato, Bari 1972. Nell’archivio Franco Fortini di Siena possono inoltre essere consul-
tate due tesi di laurea: Alice Desirée Orlandi, Franco Fortini copywriter per l’Olivetti, Facoltà di Scienze
della Comunicazione e dello Spettacolo, Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, 2003-
2004; Francesca Bonanni, La dimensione politico-educativa e culturale dell’esperienza della Olivetti,
Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre, 2017-2018.
4
Sul rapporto fra Fortini e il movimento di Comunità, vedi: Alberto Saibene, Fortini vs Pampa-
loni, in Id., L’Italia di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Roma 2017, pp. 89-94; D. Dalmas, Il
significato dei nomi cit.; per una ricostruzione basata su fonti, si vedano, in questo volume, le lettere di
Fortini ad Adriano Olivetti, a Geno Pampaloni e a Raniero Panzieri (pp. 227-230; 246-247; 248-251;
253; 254-256; 261-263).

L’ospite ingrato ns 6
148 Daniele Balicco

in quegli anni unica al mondo per innovazione tecnologica e civiltà del lavoro; ed
era altresì ben consapevole che essere assunto nell’ufficio interno della Pubblicità
Olivetti (dal 1953 al 1957 sotto la direzione di Ignazio Weiss; successivamente,
sotto quella di Riccardo Musatti) offriva almeno due vantaggi conoscitivi rispetto
all’esperienza culturale standard degli scrittori della sua generazione.
Il primo vantaggio riguardava la possibilità di osservare dall’interno, e di
imparare a maneggiare, alcuni attrezzi specifici dell’industria culturale, speri-
mentati in un contesto d’avanguardia ancora orientato dalla cultura del pro-
getto, dunque dalla ricerca di uno «stile» e non di una semplice corporate
image5. Il secondo, di verificare la torsione che il sapere umanistico subiva,
una volta fatto reagire con il lavoro delle macchine industriali. Perfino la lirica
– come vedremo – si stava trasformando, esattamente come ogni altro mate-
riale fisico immesso in un’economia di scala. Secondo Fortini, infatti, la pra-
tica pubblicitaria imponeva alla creatività poetica vincoli esterni «salutari»6
– per esempio nella struttura obbligata degli slogan, come nel riutilizzo di
una postura epigrammatico-celebrativa; ma, nello stesso tempo, agiva anche
indirettamente sull’inconscio metrico dei poeti contemporanei, stabilizzando
un rapporto di tipo nuovo fra verità ritmica e menzogna metrica7.
Entrambi i vantaggi conoscitivi, di cui Fortini darà estesa prova nella sua
riflessione teorica e poetica, derivavano da un contesto culturale radicalmente
eccentrico, quale appunto l’Olivetti di Adriano. Laboratorio di una partico-
larissima forma di socialdemocrazia territoriale8, l’Olivetti appare oggi come
l’anticipazione di un futuro possibile – tecnologico e democratico – che non
avverrà. E non avverrà per due ragioni precise: perché l’equilibrio ghiacciato
della guerra fredda interdiceva, di fatto, qualsiasi ipotesi autonomista, qualsi-
asi progetto di terza via politicamente capace di auto-correggere le reciproche
distorsioni di capitalismo e socialismo reale; e non avverrà perché, all’interno
del blocco occidentale, vincoli geopolitici cogenti imponevano allo sviluppo
dell’economia europea il superamento dello scontro fra «cultura americana
dei consumi e civiltà europea del mercato»9 a favore della prima. Come si

5
Per una lettura che oppone «stile Olivetti» a corporate image, seguo: Enrico Morteo, Olivetti:
azzardare il futuro, in Universo Olivetti come utopia concreta, a cura di Pippo Ciorra, Francesca
Limana, Matilde Trevisani, Edizioni di Comunità, Roma 2020, pp. 98-109.
6
Franco Fortini, Del Copywriting come genere letterario, «L’Ufficio Moderno», 2, 1961.
7
Il miglior studio complessivo sulla metrica di Fortini, in rapporto alle questioni politiche implicite nel
concetto di forma, è la tesi di dottorato di Andrea Agliozzo, Mutarsi in altra voce. Funzioni della metrica
in Franco Fortini, tesi di dottorato 31° ciclo, Università di Cà Foscari – Paris Sorbonne; sempre sulla poesia
di Fortini si veda: Luca Lenzini, Un poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Manni, Lecce 1999;
Francesco Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Fortini, Quodlibet, Macerata 2017.
8
Cfr: Daniele Balicco, Costruire comunità, in Universo Olivetti cit., pp. 122-135.
9
Victoria de Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe,
Harvard University Press, Cambridge (MA) 2005; trad. it. di Andrea Mazza e Luca Lamberti, L’impero
irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006, p. 368.
Fortini copywriter 149

vedrà fra poco, quest’ultimo conflitto è quello decisivo per comprendere le


scelte estetiche e l’identità professionale di Fortini copywriter.

Stile industriale vs populismo capitalista

Proviamo dunque a mettere a fuoco il primo vantaggio conoscitivo di


quest’esperienza. Vale a dire, quello di essere, Fortini all’Olivetti, un «poeta
fra le macchine»10 negli anni dello stile industriale. Partiamo proprio da
quest’ultimo concetto che è quello fondamentale per iniziare a capire qua-
le fosse l’orizzonte culturale all’interno del quale Fortini iniziò a lavorare
come copywriter. Con stile industriale possiamo intendere il tentativo, te-
nacemente perseguito in Italia, a partire dagli anni ’30 – Leonardo Sini-
sgalli11 ne sarà la figura chiave per alcuni decenni – di provare a conciliare
sviluppo tecnologico e cultura umanistica, quanto meno nel design dell’in-
novazione di prodotto e nella comunicazione pubblica d’impresa12. L’Oli-
vetti di Adriano è un caso a sé, perché spinge quest’incontro – che connota
l’esperienza di alcuni grandi gruppi industriali italiani, come Pirelli, Italsi-
der, Rinascente, Eni, Motta, Finmeccanica, Montecatini, Rai – fino ad una
vera e propria integrazione: nel suo «fordismo dolce»13, infatti, la cultura
umanistica e, in particolare, l’estetica, occupano un ruolo centrale. Lo sco-
po coscientemente perseguito è quello di provare a contro-bilanciare, per
quanto possibile, gli effetti traumatici della catena di montaggio sulla vita
psichica di chi lavora, ri-territorializzando quello «sradicamento involon-
tario» di cui parla Simone Weil, che Fortini nel 1954 traduce proprio per le
edizioni di Comunità14.
Prima però di avvicinare ulteriormente lo «stile Olivetti»15, vanno com-
prese da un lato le forme specifiche dello «stile industriale», come incontro
fra umanisti e tecnici dell’industria; e, dall’altro, le ragioni della sua, tutto
sommato, breve durata. Partiamo dalle prime. In una conversazione radiofo-

10
Giovanni Giudici, Poeti fra le macchine. Alla Olivetti la parola era design, «la Repubblica»,
edizione di Milano, 28 ottobre 1992; in questo volume alle pp. 189-191.
11
Per una prima introduzione al lavoro di Sinisgalli, si veda: Alberto Saibene, Leonardo Sinisgalli.
Il dèmone dell’analogia, in Id., L’Italia di Adriano Olivetti cit., pp. 33-44.
12
Per il concetto di «stile industriale», vedi: C. Vinti, Gli anni dello stile industriale cit.
13
Cfr. Aldo Bonomi, Marco Revelli, Alberto Magnaghi, Il vento di Adriano. La comunità concre-
ta di Olivetti tra non più e non ancora, DeriveApprodi, Roma 2015.
14
Simone Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Galli-
mard, Paris 1949, trad. it di Franco Fortini, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri
verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954.
15
Sullo «Stile Olivetti» si vedano, almeno: Paolo Bricco, Olivetti, prima e dopo Adriano. Indu-
stria cultura estetica, L’ancora del Mediterraneo, Salerno 2005; Caterina Cristina Fiorentino, Con-
gegni sapienti. Stile Olivetti: il pensiero che realizza, Hapax Editore, Torino 2016; Caterina Toschi,
L’idioma Olivetti 1952-1979, Quodlibet, Macerata 2018; Universo Olivetti cit.
150 Daniele Balicco

nica del 1988 tra Franco Fortini e Renzo Zorzi, questi introduce con grande
chiarezza una questione fondamentale:

Ma arriviamo a questi letterati, di cui si è tanto ironizzato per decenni. Bisogna capire
bene cosa fosse la cultura italiana dell’immediato dopoguerra. Adriano, alla fine degli anni
Cinquanta, avrebbe chiamato ad Ivrea sociologi, psicologi e altri professionisti; ma in que-
gli anni, l’unico psicologo era Cesare Musatti, che di fatti era regolarmente in servizio ad
Ivrea. Adriano nei primi anni del dopoguerra aveva reclutato un gran numero di letterati
a cui faceva svolgere mansioni per le quali non esistevano ancora professioni specifiche. Li
chiamava dunque perché, fra gli intellettuali, erano, in fondo, i più intelligenti, i più aperti,
i più moderni…16.

Nell’immediato dopoguerra, e a maggior ragione negli anni ’30, non esi-


steva in Italia una cultura professionale specializzata nel campo del design e
della comunicazione pubblica d’impresa. Nel primo caso, il lavoro era svolto
per lo più da architetti in collaborazione con tecnici e artigiani; nel secondo,
da pittori e letterati. Lo stile industriale nasce come convergenza fra saperi
non ancora rigidamente codificati: ed è precisamente questo ritardo nella di-
visione sociale del lavoro a rendere possibile la creazione di uno spazio spe-
rimentale d’incontro fra umanisti e tecnici dell’industria. Va però considerato
un ulteriore aspetto, che agisce sulla particolare curvatura sociale che questo
tipo di confronto ancora presupponeva: l’implicita eredità fascista. Il sistema
della grande industria italiana, infatti, era ancora, nel secondo dopoguerra, un
sistema misto, per effetto delle scelte di politica economica volute da Alberto
Beneduce17 tra il 1925 e il 1936. Quest’architrave, come sappiamo, riuscirà a
superare la crisi della guerra e a traghettare l’Italia negli anni del boom; per
entrare definitivamente in crisi solo dalla fine degli anni Settanta.
Nel sistema economico misto, lo Stato ha un ruolo centrale di investitore
e di pianificatore strategico: in questo contesto, la comunicazione pubblica
d’impresa diventa, inevitabilmente, anche comunicazione pubblica di Stato;
e quindi, ricerca di un’identità visiva nazionale. È un processo che negli anni
del fascismo si era iniziato ad impostare, pretendendo dalla committenza
artistica una organicità politica di tipo nuovo, orientata a fondare estetica-
mente «il primato» della nazione. Ma quali potevano essere, in quegli anni,
le tradizioni artistiche privilegiate per iniziare a costruire questo paradigma

16
Franco Fortini, «Una bellissima e lunga esperienza di lavoro». Conversazione radiofonica con
Renzo Zorzi, Radio Tre, febbraio/marzo 1988 – riportata in questo volume alle pp. 181-187.
17
«L’architettura istituzionale costruita tra il 1925 e il 1936 fu capace di resistere al crollo del
fascismo così come aveva resistito all’arrivo del corporativismo. I rapporti tra privato e pubblico
cristallizzati nel 1936 si mantennero stabili fino alla fine degli anni sessanta» (Marcello de Cecco,
Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale dell’Italia dagli
anni venti agli anni sessanta, in Storia del capitalismo italiano, a cura di Fabrizio Barco, Donzelli,
Roma 2010, p. 394).
Fortini copywriter 151

estetico-visivo? La risposta è semplice: futurismo e classicità rinascimentale18.


Entrambe venivano proposte come argine contro tradizioni europee consi-
derate modelli di decadenza irrazionalistica: come, per esempio, il dadaismo,
l’espressionismo o il surrealismo.
Ridotta al suo minimo comune denominatore, questa proposta estetica ce-
lebrava l’identità italiana attraverso una sorta di classicismo moderno, inseren-
do l’entusiasmo futurista per la civiltà delle macchine in un orizzonte di equili-
brato razionalismo19 dove la comunità – fatta di uomini costruttori e guerrieri
– vinceva sempre sull’individuo isolato, irrimediabilmente perduto fra anarchia
e pulsioni20. Lo stile industriale continuerà di fatto questo paradigma, almeno
fino alla prima metà degli anni Sessanta, magari – come nel caso dell’Olivetti –
innestando su questa matrice generale elementi Bauhaus21. Quello che è certo
è che l’insieme di questo progetto culturale fece argine, per almeno un quindi-
cennio, alle nuove strategie di marketing consumer oriented, aggressivamente
adottate dalle agenzie pubblicitarie americane presenti in Italia:

Il carattere non ancora del tutto specializzato della cultura professionale pubblicita-
ria e la resistenza che gli ambienti industriali italiani manifestavano nei confronti degli
approcci statunitensi davano vita ad una situazione di sostanziale apertura nei confronti
degli apporti di intellettuali, artisti e designer, concepiti in un’ottica ancora molto distan-
te dagli specialismi professionali e dalle strategie di marketing22.

A partire dal 1948, l’Italia subisce quella che è stata definita come una
advertising colonization23: nel giro di pochi anni iniziano infatti ad instal-

18
Su questi temi, lo studio fondamentale è: Michele Dantini, Arte e politica in Italia. Tra fascismo e
Repubblica, Donzelli, Roma 2018. In particolare, sul Rinascimento come modello ispiratore di una nuo-
va classicità moderna, si legga questa riflessione di Dantini a partire dal discorso che Benito Mussolini
tenne a Milano, nel 1926, all’inaugurazione della prima mostra Novecento italiano: «per quanto generi-
co, questo richiamo al Rinascimento non è a mio avviso privo di significato, soprattutto per le esclusioni
che comporta (romanticismo, decadenza, art-pour-l’art, individualismo liberale, etc.)» (ivi, p. 83).
19
Cfr: Post Zang Tumb Tuum. Art Life Politics. Italia 1918-1943, a cura di Germano Celant, Fon-
dazione Prada, Milano 2018; Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva
nell’arte italiana del primo Novecento, Quodlibet, Macerata 2013; Sandro Scarrocchia, Albert Speer e
Marcello Piacentini: l’architettura del totalitarismo negli anni Trenta, Skira, Milano 2013.
20
«Per il fascismo nel campo dell’arte, così come nel campo della politica, il nemico era l’individualismo
che si sottraeva alla fusione dell’“armonico collettivo” e generava negli artisti scetticismo, neutralità,
indifferenza per lo Stato e per la religione fascista» (Emilio Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione
della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 199-200).
21
«Leonardo Sinisgalli, che fu negli anni Trenta e Quaranta direttore della pubblicità, ispiratore di
molte campagne e idee, è stato in quegli anni il tramite […], attraverso Persico, con la cultura militante
e le correnti tedesche che portò a lavorare per Olivetti uomini come Schawinsky e Herbert Bayer» in
Renzo Zorzi, Olivetti: a design story, two critical moments, soggetto-sceneggiatura per audiovisivo,
AASO, Fondo Renzo Zorzi, Personalità Olivetti Ex Zorzi, relazioni, 1-8.
22
C. Vinti, Gli anni dello stile industriale cit., p. 72.
23
Simona De Iulo, Carlo Vinti, The Americanization of Italian Advertising during the 1950s and
the 1960s: Mediations, Conflicts and Appropriations, 13th Biennial Conference on Historical Analysis
& Research in Marketing (CHARM), Durham, United States, May 2007.
152 Daniele Balicco

larsi, per lo più a Milano, agenzie pubblicitarie americane come Lintas and
Young & Rubicam, J. Walter Thompson, CPV. Il numero crescerà rapida-
mente lungo tutti gli anni ’50, fino ad arrivare, già all’inizio dei Sessanta, a
più di una quindicina di agenzie operanti sul mercato italiano. Due sono le
ragioni di fondo che giustificano uno sbarco così massiccio in un paese an-
cora devastato dalla guerra e in via di ricostruzione. Anzitutto, una ragione
geopolitica: nelle strategie del soft power americano, la pubblicità – insieme
ai film hollywoodiani – aveva il compito di costruire un nuovo immagina-
rio, esercitando una contro-egemonia sulle classi popolari, allora organiz-
zate dai partiti di sinistra alleati con l’Unione Sovietica24. La seconda ragio-
ne è invece interna al blocco occidentale, ed è di natura economica: lo scopo
– che il Piano Marshall imposta – è quello di costruire le basi europee di
una società di consumo pienamente inserita in un circuito di distribuzione
internazionale, gravitante sugli Stati Uniti. Il «populismo capitalista»25 della
nuova scienza pubblicitaria americana – fatta di statistiche, pianificazioni,
indagini di mercato, antropologia e psicologia del consumo – combatteva
dunque su due fronti contemporaneamente. Da un lato, contro il nemico
dei nemici: il realismo socialista. Dall’altro, contro l’ostinazione del capi-
talismo europeo a difendere una presunta superiorità culturale locale, per
esempio nello sviluppo di uno stile industriale modernista che magnificava
la forma estetica dei prodotti e la storia aziendale, ignorando però la rego-
la fondamentale della scienza pubblicitaria: l’induzione – scientificamente
programmata – al consumo.
Nel suo celebre studio sull’americanizzazione della cultura europea26, la
storica Victoria de Grazia descrive, proprio nello scontro con la comunica-
zione industriale del vecchio continente, l’emergere di una precisa autoco-
scienza strategica delle agenzie pubblicitarie americane in Europa:

La presenza delle agenzie americane in Europa ebbe l’effetto di rendere più consape-
voli gli Americani della peculiarità della loro prassi rispetto a quelle europee. In parole
povere, quella scoperta li rese più aggressivi nel propugnare una pretesa superiorità ri-
spetto alle tecniche locali, disdegnate come «arretrate» o da «sottosviluppo». A lungo

24
Cfr: Vanni Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, Carocci, Roma 2013; Daniele Pittèri,
Fabbriche del desiderio. Manuale delle tecniche e delle suggestioni della pubblicità, Luca Sossella,
Roma 2000.
25
«Autorevole senza essere accademico, intimo nei toni ma non paternalistico, il nuovo lin-
guaggio era contraddistinto da una sensibilità democratica propria di una lingua universale, parlata
indistintamente dal promotore commerciale come dal pubblico. Era questo lo stile del “realismo
capitalista” (in contrapposizione al “realismo socialista”), che in questa sede chiameremo piuttosto
“populismo capitalista” – a ricordo dell’“etica democratica del consumismo populista” […] – cui il
mondo degli affari si era affrettato a togliere ogni afflato autonomo per ridurlo ad una democrazia
esteriore, d’apparenza, di mero riconoscimento dell’uguaglianza sul piano dei comuni consumi» (V.
de Grazia, L’impero irresistibile cit., p. 280).
26
Ibid.
Fortini copywriter 153

andare, gli Americani divennero più cinici nell’estromettere le agenzie locali e nel pro-
spettare guerre su vasta scala – quando battere in ritirata, come durante la Depressione
degli anni Trenta; quando procedere all’avanzata, come all’inizio degli anni Sessanta, con
l’emergere del Mercato comune europeo27.

Per capire quali fossero le questioni di fondo impugnate dalla scienza


pubblicitaria contro lo stile industriale, bastano anche poche citazioni tratte
da un famoso articolo di Frank Backinger. Nel 1954, sulle pagine della rivista
«Pirelli»28 – ennesima creazione di Leonardo Sinisgalli e da poco passata sotto
la supervisione di Vittorio Sereni –, Backinger pubblica un articolo intitolato
Evoluzione o rivoluzione?29, in cui descrive con grande interesse la crescita ra-
pida del volume di investimenti nel nuovo mercato italiano; lamentando però
la presenza forte di una forma di comunicazione pubblicitaria ancora arretrata:

Le ditte italiane che fanno delle pubblicità si stanno sempre più accorgendo che la pub-
blicità deve vendere i loro prodotti allo stesso modo in cui li vendono i loro viaggiatori par-
lando al cliente della merce e dei vantaggi che egli ricaverebbe dall’acquisto. Quando questa
premessa fondamentale viene accettata da chi fa pubblicità, questi allora si rende conto che la
pagina pubblicitaria non è fatta per presentare bei disegni e fotografie artistiche30.

E se anche fosse indubbio il valore estetico dei «bei disegni e delle foto-
grafie artistiche» dello stile industriale, nonché la qualità letteraria dei suoi
slogan, siamo sicuri però – continua Backinger – che il pubblico, a cui questa
sofisticata comunicazione è rivolta, sia in grado di capire quello che vede, e
di coglierne il senso? E soprattutto di comprare poi il prodotto pubblicizza-
to? La scienza pubblicitaria americana non crea campagne dello stesso valore
estetico, ma «se consideriamo la grande massa del pubblico a cui essa è indi-
rizzata, che spesso non è capace né di apprezzamento estetico né di sufficiente
orecchio per lo stile letterario, dobbiamo ammettere che questo tipo di pubbli-
cità è congegnato in modo da seguire molto da vicino il gusto del pubblico»31.
Questo articolo scatenò un dibattito fra difensori dello stile industriale –
come Leonardo Sinisgalli, Gillo Dorfles, Xanti Schawinsky e Ignazio Weiss
– e pubblicitari già integrati alle pratiche del marketing strategico statuni-
tense, come per esempio Marco Bellavista, fondatore nel 1950 dell’agenzia

27
Ivi, p. 254.
28
La rivista «Pirelli» può essere considerata, insieme al «Notiziario Olivetti» e alla «Civiltà delle
macchine», come il più importante laboratorio teorico dello stile industriale; per un quadro generale
della rivista si consulti la bellissima antologia pubblicata nel 2019 dalla stessa Fondazione Pirelli:
Umanesimo industriale: antologia di pensieri, parole, immagini e innovazioni, a cura della Fondazione
Pirelli, Mondadori, Milano 2019.
29
Frank Backinger, Evoluzione o rivoluzione?, «Pirelli», 1, gennaio 1954.
30
Ibid. (corsivo mio).
31
Ibid. (corsivo mio).
154 Daniele Balicco

pubblicitaria Sigla, secondo cui «i tecnici pubblicitari non sono funzionari


della Pubblica istruzione»32 e dunque non spetta a loro il compito di elevare il
livello di cultura medio della popolazione. Ci troviamo ancora all’inizio degli
anni ’50, nel pieno della guerra fredda: lo scontro fra uffici pubblicitari interni
e agenzie è appena iniziato. Il conflitto durerà però molto poco, non più di
un decennio. Una serie di fattori eterogenei – fra cui la prima crisi economica
dopo il boom, già all’inizio degli anni ’60; la specializzazione professionale
dei pubblicitari e l’imporsi, con la nascita del mercato comune europeo, di
una nuova area di distribuzione integrata di beni di consumo di massa – por-
terà al progressivo smantellamento degli uffici interni – anche perché troppo
costosi – già a partire dalla seconda metà degli anni ’60.
Si passerà così dal classicismo moderno dello stile industriale al surrea-
lismo di massa33 della pubblicità consumer oriented; dall’identità pubblica
d’impresa, generata induttivamente dalla convergenza del lavoro di umanisti
e tecnici interni all’azienda, alla corporate image affidata al lavoro altamente
specializzato delle agenzie pubblicitarie esterne. La storia di questa forma
di cultura umanistica e industriale finisce, di fatto, dopo la crisi degli anni
Sessanta, con il progressivo smantellamento del sistema misto e con la rivo-
luzione dei distretti industriali. Il suo termine ultimo lo possiamo trovare in
una scelta aziendale altamente simbolica; quando, tra il 1971 e il 1977, perfino
Olivetti abbandonerà l’elaborazione interna del proprio stile, appaltando a
consulenti esterni la progettazione dei sistemi di identificazione dell’imma-
gine coordinata, i celebri Libri rossi di Hans Von Klier, Clino Trini Castelli e
Perry King:

alla stagione dello stile e delle generose illusioni che aveva portato con sé, veniva
progressivamente sostituendosi un approccio specialistico, che separava nettamente il
dominio della pubblicità da quello della comunicazione istituzionale, mostrandosi spes-
so esemplare dal punto di vista del controllo degli strumenti progettuali, ma non sempre
al riparo dai rischi di una ipercodificazione puramente burocratica34.

Sebbene concentrato in un microcosmo professionale, il passaggio dallo


stile industriale al sistema pubblicitario integrato assume – retrospettivamen-
te – un valore esemplare: questo movimento segna infatti il cambio di passo di
un’intera epoca, con le sue sperimentazioni tecniche e culturali, con un’idea
autoriflessiva dello sviluppo tecnologico, perfino con il tentativo di costruire
un’autonomia politica nazionale, benché stretta fra due blocchi belligeranti.
Gli anni che seguiranno – fra omicidio Mattei, movimenti anti-sistemici e

32
Marco Bellavista, Non rivoluzione ma lenta evoluzione, «Pirelli», 3, maggio-giugno 1954, p. 54.
33
Cfr. Daniele Balicco, Il surrealismo di massa, in Id., Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria
e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 27-54.
34
C. Vinti, Gli anni dello stile industriale cit., p. 347.
Fortini copywriter 155

«golpe Moro» – possono essere considerati, in fondo, come la coda tragica


di questa epoca storica ancora sospesa e potenziale; traccia sedimentata di un
futuro anteriore che non sarà.

Fortini e lo Stile Olivetti

Fortini viene assunto all’Olivetti nel settembre del 1947. Una parte del
lavoro di questi anni è nota, e tutto sommato, tradizionale. Sono gli anni dei
«dieci inverni»35. Tra Ivrea e Milano, lavora per le Edizioni di Comunità – per
le quali traduce Simone Weil, Sören Kierkegaard e Charles-Ferdinand Ra-
muz; e per la rivista omonima – dove terrà una rubrica intitolata Bibliografia
letteraria per cinque anni, dal 1950 al 1955. Inoltre, scrive brevi saggi e pre-
sentazioni per alcune pubblicazioni aziendali interne – come il «Giornale di
fabbrica Olivetti», il «Bollettino Olivetti» e il periodico «Notizie Olivetti»36.
Fortini però non viene assunto da Adriano per svolgere semplicemente lavori
editoriali, ma per partecipare – come tutti gli altri letterati ed umanisti im-
piegati in azienda nell’immediato dopoguerra – alla progettazione dello stile
Olivetti. Può essere utile, per iniziare a comprenderne la radicale originalità,
soprattutto rispetto agli altri esempi di stile industriale italiano, vedere come
Fortini stesso lo descriva nel 1958, all’interno di un catalogo dedicato a cele-
brare i primi cinquant’anni dell’azienda di Ivrea:

Quando, sulle riviste specializzate come nel linguaggio comune, si scrive e si parla di
stile Olivetti per far riferimento ad un gusto, ad una direzione, ad un clima, si può affer-
mare che si è al di là della moda e dell’improvvisazione geniale; che la ricerca, congiunta-
mente intrapresa e condotta avanti da una direzione industriale e da un gruppo di pittori
e di grafici, di scrittori e pubblicisti, di architetti e di industrial designers, è divenuta
una realtà della cultura. La Olivetti è stata ed è anche questo: il luogo dove è possibile
attribuire alla scelta di un colore per una copertina, di un aggettivo per uno slogan, di un
profilato per uno stand o di una linea per la carrozzeria d’una macchina un’importanza
non troppo diversa da quella che si dà alla scelta di una soluzione meccanica, di un accia-
io, di un procedimento di fusione37.

Fortini descrive lo stile Olivetti come uno stile già dotato di una postura
classica, perché «al di là della moda e dell’improvvisazione geniale». Uno stile
che è il risultato del lavoro di un’intera comunità di tecnici, di progettisti
industriali, di umanisti, di architetti, di grafici, di pittori. Dunque, non una

35
Franco Fortini, Dieci inverni. 1947-1957 [1957], Quodlibet, Macerata 2018.
36
Per una rassegna di tutte le pubblicazioni di Fortini per il mondo Olivetti, si veda la Bibliografia
degli scritti presente in questo volume alle pp. 375-378.
37
Franco Fortini, Olivetti 1908-1958, Ing. C. Olivetti & C., Zürich 1958, riportato in questo
volume alle pp. 345-353.
156 Daniele Balicco

semplice immagine coordinata progettata dall’esterno, magari da un’agenzia


di visual designers; ma l’espressione coerente, benché differenziata38, di un
atto comunitario. Seguendo questa ipotesi di lettura, potremmo definire lo
stile Olivetti come la forma simbolica attraverso cui una civiltà del lavoro
altamente specializzata riconosce sé stessa come «comunità concreta»; per
poi esprimersi in una poetica condivisa, nata all’interno della vita di fabbrica
e fondata sulla superiorità della relazione fra gli uomini, e fra gli uomini e
le cose, rispetto alla singolarità degli atti individuali e degli oggetti prodot-
ti39. Uno stile, insomma, che non si esaurisce nella dimensione estetica degli
oggetti, ma che presuppone una forma di vita industriale e umanistica. Non
solo: la propone. Per usare le stesse parole di un saggio di Fortini di questi
anni, lo stile Olivetti andrebbe infatti letto come una «proposta umana»40,
come un modo possibile di essere moderni; e, perché no, italiani41.
Fortini è una delle figure chiave di questo progetto. A partire dal 1948
– dopo il suo trasferimento «forzato» da Ivrea a Milano – inizia subito ad
auto-formarsi come copywriter, lavorando prima come consulente, poi come
impiegato, alla Direzione Pubblicità di via Baracchini. Fino al 1963, creerà
slogans, inventerà il nome delle macchine per scrivere e dei calcolatori, segui-
rà la comunicazione pubblica d’impresa (cartellonistica, cataloghi, inserzioni,
calendari, brochure, dépliant, perfino video promozionali) a stretto contatto
con Giovanni Pintori, Egidio Bonfante, Marcello Nizzoli, Walter Ballmer,
Franco Bassi, Giovanni Ferioli; e, dal 1958, Giovanni Giudici. Uno straordi-
nario laboratorio di intelligenze artistiche e grafiche che, già a partire dalla di-
rezione di Leonardo Sinisgalli nel 1938, si era caratterizzato come innesto di
cultura Bauhaus in Italia, portando a lavorare a Milano grafici come Herbert
Bayer e Xanti Schawinsky. L’attività di Fortini pubblicitario si inserisce dun-
que all’interno di questa tradizione estetica di matrice «weimeriana». Non

38
Secondo Tomás Maldonado, la qualità specifica dello stile Olivetti, rispetto, per esempio, a
quello della Braun, progettato negli anni ’50 dalla scuola di Ulm, stava nel fatto che il primo «ricer-
cava l’unità nella diversità» (Tomás Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano
2008, p. 68).
39
«La visione olivettiana è quella per cui le relazioni fra le cose, materiali o immateriali, sono
sempre da privilegiare, rispetto a prospettive concentrate su singole unità così da partecipare tutte
sempre a un atto comunitario» (Antonella Arpino, Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il
mondo nuovo, Einaudi, Torino 2020, p. 103).
40
«[…] Il compito di una politica di liberazione socialista può essere rivolto, oggi, solo alla utilizzazio-
ne funzionale dell’arte figurativa; ossia a promuovere la produzione di beni economici umanizzati, capaci
di alludere sempre più precisamente, e quindi implicitamente guidare, ad una condizione umana liberata
dalla mistificazione e dallo sfruttamento, in una pianificazione di bonifica figurativa» (Franco Fortini, Arti
e proposta umana, in Id., Dieci inverni 1947-1957 [1957], Quodlibet, Macerata 2018, p. 132).
41
Sulla forma specifica che ha assunto, nel secondo Novecento, la modernità in Italia, mi per-
metto di rimandare a Daniele Balicco, Modernità godibile, in Italia senza nazione. Lingue, culture,
conflitti fra Medioevo ed età contemporanea, a cura di Antonio Montefusco, Quodlibet, Macerata
2019, pp. 145-158.
Fortini copywriter 157

stupisce, del resto, che sia proprio di questi anni la sua traduzione di molte
opere di Bertolt Brecht, massimo poeta di quella stagione tedesca e, proprio
come lui, umanista copywriter per la fabbrica austriaca di automobili Steyr:

c’è un parallelismo curioso tra le traduzioni di Brecht che faccio in quel periodo e i
testi pubblicitari. In generale, è stata un’esperienza di metrica, una sorta di ginnastica, il
continuo passaggio da un tipo di composizione a un’altra, da uno spazio all’altro, da un
certo numero di righe all’altro; e questo lavoro ripetuto tutti i giorni diventava veramen-
te un modo di farsi i muscoli, dei muscoli formali. Ma è stata un’esperienza estremamen-
te positiva anche per un’altra ragione: come ho detto, io lavoravo a stretto contatto con
i grafici; e questa vicinanza soddisfaceva la mia passione per la grafica e per la pittura42.

Prestiamo attenzione alle due questioni che Fortini solleva in questo pas-
so, tratto dall’intervista del 1988 a Radio Tre: la prima riguarda il rapporto
che sperimenta, proprio in questi anni, fra poesia, metrica e pubblicità; la se-
conda ci permette invece di osservare l’addestramento ad una lettura, per così
dire, «ideogrammatica» dei fenomeni culturali, che l’integrazione fra scrittu-
ra, arti visive e composizioni di matrici, praticata negli uffici della Direzione
Pubblicità Olivetti, ha sicuramente corroborato.
Partiamo da quest’ultima. Fortini si è laureato, oltre che in giurispruden-
za, in storia dell’arte. Ama i pittori manieristi: la sua tesi di laurea è su Rosso
Fiorentino. Negli anni, sentirà sempre più affine alla sua poetica l’inquieto
classicismo di un pittore come Poussin, a cui dedicherà una delle sue ultime
raccolte di poesie, probabilmente la più bella: Paesaggio con serpente43. Ma la
sua passione per l’arte visiva non è solo teorica: Fortini disegna molto bene,
sa dipingere e sa perfino fare incisioni e acqueforti. Benché esercizio d’ar-
te minore, rispetto alla riflessione teorica e alla scrittura poetica, il disegno,
la pittura e l’incisione saranno pratiche estetiche che non abbandonerà mai,
per tutta la vita44. Lavorando come copywriter a stretto contatto con grafici
del livello di Giovanni Pintori o di Walter Ballmer, Fortini ha la possibilità,
dunque, di far dialogare la propria formazione pittorica con quella poetica45;

42
Franco Fortini, «Una bellissima e lunga esperienza di lavoro». Conversazione radiofonica con
Renzo Zorzi, in questo volume a p. 186.
43
Franco Fortini, Paesaggio con serpente, Einaudi, Torino 1983. Per una lettura critica di questa
raccolta, vedi: Damiano Frasca, Paesaggio con serpente, «Allegoria», 77, 2018, pp. 114-128; F. Diaco,
Dialettica e speranza cit., pp. 265-314.
44
Cfr. Franco Fortini, Disegni Incisioni Dipinti, a cura di Enrico Crispolti, Quodlibet, Macerata 2001.
45
In una lettera del 1950 indirizzata a Giovanni Enriques, allora Direttore generale dell’Olivetti,
Fortini chiede un maggior coinvolgimento nel lavoro di progettazione della comunicazione; ricor-
dando al suo interlocutore che ha una certa dimestichezza con «pennelli, colori, squadre»: «né dimen-
tichi, caro ingegnere, che – tra l’altro – so maneggiare pennelli, colori, squadre, colle e cartoni non
peggio di altri; che mi intendo benissimo con Pintori e che non mi sentirei affatto umiliato, anzi, di
stare ad incollare pannelli e pitturar bozzetti, con lo stipendio d’uno di loro, tra gli amici dell’Ufficio
Tecnico» (in questo volume a p. 254).
158 Daniele Balicco

inoltre, può perfezionare la sua «educazione politecnica», quella avvenuta


nell’immediato dopoguerra sotto la guida di Elio Vittorini e Albe Steiner, ini-
ziando a pensare la pagina non solo come un campo di forze integrato, dove
tutto è in relazione con tutto; ma anche come una matrice, la cui incarnazione
materiale, e successiva diffusione, va progettata in un ogni singolo dettaglio,
ben al di là di confini strettamente estetici.
Nell’archivio Olivetti di Ivrea sono conservati due documenti dattilo-
scritti molto interessanti46 che ci permettono di vedere da vicino come Fortini
lavorava. I due testi riguardano: il lancio della campagna pubblicitaria della
nuova macchina per scrivere Lexikon; e il resoconto dell’evoluzione della
produzione industriale delle macchine Olivetti, nei suoi primi 40 anni di at-
tività. Ci concentreremo sul primo. La Lexikon 80 è la nuova macchina per
scrivere del dopoguerra: progettata da Marcello Nizzoli e Giuseppe Beccio,
fu lanciata nel 1948 in sostituzione della M40. Il nome è un’invenzione di
Fortini. Questa macchina, «la cui carrozzeria pareva discendere dalla scultura
di Brancusi di Arp o di Moore»47 è tuttora esposta nella sezione design per-
manente del MoMa a New York. Il dattiloscritto che presenta il lancio della
campagna pubblicitaria è un documento perfetto di stile industriale italiano:
anzitutto per la linea di continuità pretesa fra tecnologia e modernismo este-
tico; quindi, per il pubblico ideale presupposto dalla comunicazione.

La presentazione pubblicitaria della nuova macchina per scrivere «Olivetti» conte-


neva due difficili aspetti: inserire una necessaria novità in una tradizione stilistica ormai
universalmente conosciuta; e creare, in una fase di mercato non favorevolissima, il biso-
gno di sostituzione del tipo vecchio col nuovo, senza tuttavia allarmare eccessivamente
coll’annuncio di una rumorosa novità48.

Come si vede, siamo molto lontani dalle strategie di marketing sensazio-


nalistico del populismo capitalista statunitense. Qui, all’opposto, si insiste
sulla necessaria qualità denotativa della comunicazione, sobriamente orien-
tata verso un «carattere dimostrativo e non spettacolare», tanto nella cartel-
lonistica, quanto nelle inserzioni sui giornali, quanto nella disposizione uni-
forme della Lexikon all’interno delle centotrenta vetrine Olivetti, rinnovate
per l’occasione del lancio. La macchina veniva esposta, infatti, su mensole
sorrette da simboli stilizzati della direzione del traffico, assecondando, con
l’eccezione di questi pochi elementi simbolici, la «linea geometrica e astratta

46
Franco Fortini, Come è stata lanciata la Lexikon, Archivio Olivetti, Fondo Direzione Comuni-
cazione Ufficio Stampa (DCUS), faldone 40, fascicolo 559; Id., L’organizzazione Olivetti. La Olivet-
ti & la Lexikon elettrica, Archivio Olivetti, DCUS, faldone 40, fascicolo 559; entrambi i documenti
sono riprodotti integralmente in questo volume alle pp. 275-286.
47
F. Fortini, Come è stata lanciata la Lexikon cit.
48
Ibid. (corsivi miei).
Fortini copywriter 159

cara alla severità meccanica della nostra fabbrica». La persuasione dell’effica-


cia di una campagna così impostata si basava su un dato presupposto, e cioè
sul fatto che «il pubblico italiano aveva raggiunto la maturità sufficiente per
poter essere toccato da una dimostrazione tecnica, ed anzi da ricercarla»49.
Lo slogan inventato da Fortini («scriverà le parole del vostro avvenire») è
composto da un verso doppio (settenario + senario) vincolato dal concetto
di avvenire, contemporaneamente inteso come futuro e come successo, car-
riera. Nel dattiloscritto si spiega molto bene anche il significato della scelta
del nome Lexikon, termine greco con cui si indicano, soprattutto nel mon-
do anglosassone e tedesco, vocabolari, repertori, enciclopedie: vale a dire, gli
strumenti che raccolgono la storia di tutte le parole di una lingua. E così, per
analogia, la Lexikon diventa «la macchina per scrivere che contiene tutte le
parole in tutte le lingue»50. Ultime tre osservazioni: il nome è stato scelto,
continua Fortini, non solo per il suo riferimento al mondo classico, ma anche
per il suo ritmo forte e per il fatto che si pronunci, allo stesso modo, in tutte
le lingue51.
Quest’idea di una macchina dove si concentra lo spazio e il tempo, perché
contiene tutte le parole del mondo, si trasformerà di lì a poco nella copertina
di un opuscolo promozionale, progettata da Giovanni Pintori: su una pagina
che riporta i tre alfabeti della stele di Rosetta (geroglifico, demotico e greco
antico) è sovrapposta una O nera (di Olivetti) seguita da un grande simbolo
stilizzato (la famosa spirale quadrata inventata da Marcello Nizzoli nel 1952)
e da quattro riquadri più piccoli, non simmetrici, di color pastello. Più che
ad una pubblicità, ci troviamo di fronte ad un magnifico manifesto di estetica
modernista che imposta una comunicazione puramente concettuale: nell’o-
puscolo, infatti, non solo non compare il soggetto a cui la pubblicità è rivolta;
ma non compare nemmeno l’oggetto di consumo pubblicizzato, se non come
nudo nome commerciale.
È molto probabile che Frank Backinger avesse in mente proprio un lavo-
ro come questo quando, nel 1954, tuonava dalle pagine della rivista «Pirelli»
contro lo stile industriale italiano, sostenendo, come abbiamo visto, che la
pubblicità «non è fatta per presentare bei disegni e fotografie artistiche».52
Del resto, può bastare un semplice confronto con una réclame americana

49
Ibid.
50
Ibid.
51
Sull’attenzione poetica di Fortini per la forma grafica e sonora dei nomi delle macchine, vedi
D. Dalmas, Il significato dei nomi cit., p. 219: «in diversi casi l’esplorazione del significato dei nomi si
manifesta anche nell’auscultazione intensa della forma delle singole parole, del suono, del grafismo,
o del materiale della scrittura, in evidente affinità con la natura specifica dell’industria per cui Fortini
lavora, che unisce il materiale e lo spirituale, le macchine con le parole e i numeri».
52
F. Backinger, Evoluzione o rivoluzione? cit.
160 Daniele Balicco

di una macchina per scrivere equi-


valente alla Lexikon, la Underwood
15053, per vedere come nel conflit-
to fra due estetiche precipiti in re-
altà non solo la distanza fra i due
mercati, ma, soprattutto, l’ideale di
civiltà del lavoro e di consumo pre-
supposto.
La campagna della Underwood
150 è una campagna consumer ori-
ented. Si rivolge esplicitamente alle
migliaia di segretarie che la terzia-
rizzazione del mercato statunitense
ha messo al lavoro, già alla fine de-
gli anni ’40. La macchina non ha un
nome greco altisonante e non viene
pubblicizzata facendo riferimento
Giovanni Pintori, Lexikon – stele di Rosetta (1953) ad Arp, Brâncuși, Moore o alla ste-
le di Rosetta; è un semplice oggetto
da lavoro, che, per essere venduto,
ricorre ad una precisa strategia di marketing: risolvere il problema delle unghie
scheggiate delle segretarie negli uffici. Il lancio è del 1955 e la réclame si sof-
ferma infatti non solo sulla nuova forma a mezzaluna dei tasti, che permette
alle dita di premerli senza che le unghie li sfiorino; ma sulla possibilità, per le
segretarie, di chiedere in regalo, insieme alla macchina, un nuovo smalto rosso
particolarmente resistente: l’Underwood’s Red.
Come si può vedere, la differenza fra i due modelli di réclame è radicale.
Da un lato ci troviamo di fronte ad un gesto estetico enigmatico, privo di un
destinatario individuato, dove confluiscono suggestioni e tecniche visive pro-
prie delle avanguardie artistiche di inizio Novecento. Dall’altro, siamo invece
testimoni di un invito esplicito, diretto, seducente, ma rivolto ad un pubblico
preciso di potenziali acquirenti: le donne impiegate. Dissimulata nell’atten-
zione ergonomica alle loro dita e alle loro unghie, la locandina pubblicitaria
esorta ad una richiesta di integrazione che potremmo leggere, seguendo Gün-

53
Nel 1959 Adriano Olivetti ottenne il controllo della Underwood Corporation, con un investi-
mento di quasi 9 milioni di dollari. Lo scopo era quello di entrare nel mercato americano, sfruttando
la sua rete di distribuzione consolidata e i suoi agenti di vendita. La morte di Adriano l’anno successi-
vo e i problemi finanziari, derivanti da questa acquisizione, diventeranno il pretesto per l’abbandono
«forzato» della ricerca sull’elettronica e il progressivo ridimensionamento dell’Olivetti come azienda
multinazionale: Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, Einaudi,
Torino 2001; Id., La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003; P. Bricco, Olivetti, prima
e dopo Adriano cit., pp. 36-54; M. Pivato, Il miracolo scippato cit., pp. 19-60.
Fortini copywriter 161

ther Anders, come un caso da ma-


nuale di «vergogna prometeica»:

mostrarsi con le «unghie nude» è


sconveniente; le unghie sono degne di
essere mostrate in società, in ufficio, per-
fino degne della cucina, soltanto quando
si trovino «alla pari» con gli arnesi che
devono maneggiare; quando mostrano
la stessa morta e lucida rifinitura da og-
getto che quelli hanno; quando possono
rinnegare la loro precedente vita organi-
ca; cioè quando danno l’impressione di
essere fabbricate54.

L’interpretazione di Anders ci
aiuta a rendere esplicita l’idea di la-
voro e di integrazione sociale che la
réclame statunitense implicitamente
Underwood 150 (1955)
presuppone: perfezionare il proprio
destino di semplici appendici mecca-
niche del nuovo processo di lavoro
razionalizzato. Se vale quest’ipotesi, l’Underwood’s Red non è solo un semplice
gadget, per altro geniale; ma l’esortazione inconscia ad una metamorfosi: le nuo-
ve lavoratrici imparino a rimuovere con questo rilucente smalto rosso la natura
organica ed imperfetta delle loro mani; dunque, della loro nuda, individuata e
potenzialmente politica soggettività.
Lo stile Olivetti, come abbiamo visto, presuppone tutt’altro. Ignazio
Weiss, che fu in quegli anni direttore dell’Ufficio Pubblicità, lo ribadisce ri-
spondendo55 all’attacco di Backinger con due argomenti. Primo: l’efficacia
di una comunicazione pubblicitaria che pretende associare alta tecnologia ad
alta cultura è testimoniata dal successo internazionale ottenuto: lo stile Oli-
vetti è famoso ormai in tutto il mondo. Secondo: questo tipo di «tessuto» cul-
turale viene ordito in realtà per perseguire non la semplice coazione al consu-
mo, ma un fine generale: «realizzare una più felice e completa vita dell’uomo
nel lavoro e per il lavoro»56. Dichiarazione sicuramente generica, se non fosse
che proprio a questo ideale è ispirata l’organizzazione territoriale del lavoro,
voluta da Adriano.

54
Günther Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Band I: Über die Seele im Zeitalter der
zweiten industriellen Revolution, C. H. Beck, München 1956; trad. it di Laura Dallapiccola, L’uomo
è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Bo-
ringhieri, Torino 1963, p. 64.
55
Ignazio Weiss, Stile di un’industria, «Sele Arte», 23, 1956, p. 18.
56
Ibid.
162 Daniele Balicco

Ma anche se volessimo circoscrivere il conflitto fra questi due modelli op-


posti di pubblicità al campo specifico del consumo, è difficile considerare i
protagonisti dello stile industriale italiano come professionisti ingenui, per-
ché difensori di una comunicazione modernista non più adeguata alle nuove
forme di consumo delle economie di scala. In realtà, a differenza di quanto
sostenuto da Backinger, i vari Sinisgalli, Musatti, Weiss, Castellani, Sereni,
Lionni, Schawinsky, sapevano molto bene che il mercato europeo, per altro
mezzo distrutto e in via di ricostruzione, non era quello nordamericano; così
come sapevano molto bene che le forme di consumo della classe operaia e del-
la middle-class europea non erano ancora quelle statunitensi. Fortini stesso,
intervenendo nel 1953 su «La civiltà delle macchine»57, ribadisce questa di-
sparità. Commentando un’inchiesta pubblicata nel maggio del 1952 su «Fac-
tory» – il tema è il trauma psichico del pensionamento per gli operai ameri-
cani –, ragiona proprio sulla differenza antropologica, e non semplicemente
politica, che separa ancora la classe operaia europea da quella statunitense:

Veduto dal nostro continente, l’operaio americano presenta senza dubbio un tipo di
produttore-consumatore ignoto o quasi al nostro occidente, dove si uniscono caratteri
propri della massima civiltà borghese del passato con caratteri nuovi e ancora mal defini-
ti, frutto d’un progresso tecnico del quale le nostre strutture economiche e sociali parte-
cipano con ben noto ritardo e adeguandosi, per così dire, più col corpo che con l’anima58.

Sviluppo tecnologico, organizzazione del lavoro, educazione politica,


comunicazione, consumo: se ci concentriamo su questi cinque fattori, il
confronto fra Stati Uniti ed Europa, ci dice Fortini, è un confronto fra due
mondi ancora incommensurabili; tesi che Adorno gli confermerà, con più
di un argomento, nei Minima Moralia59, letti l’anno successivo nella tradu-
zione dall’amico Renato Solmi. Se negli Stati Uniti, infatti, «la concezione
americana del consumatore sovrano» gode ormai di un’egemonia talmen-
te forte da essere introiettata perfino negli strati sottoproletari, al di qua
dell’Atlantico, invece, «la nuova visione europea del cittadino sociale»60 sta

57
Franco Fortini, La vecchiaia difficile, «La civiltà delle macchine», 2, 1953, pp. 62-63; sul tema
della vecchiaia in Fortini, vedi: Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Quodlibet,
Macerata 2008.
58
F. Fortini, La vecchiaia difficile cit, p. 62.
59
Theodor Wiesengrund Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1951, trad. it di Renato Solmi, Minima Moralia. Riflessione sulla vita
offesa, Einaudi, Torino 1954.
60
Sulla distinzione fra «consumatore sovrano» americano e «cittadino sociale» europeo seguo V.
de Grazia, L’impero irresistibile, p. 368: «Il modello europeo riteneva che i tenori di vita più elevati
fossero un diritto sociale, si appoggiava all’intervento statale per ridurre le diseguaglianze nell’accesso
ai consumi ed era fortemente condizionato dai valori solidaristici insiti nelle sottoculture politiche,
religiose e locali. Il modello americano, invece, […] confidava che fosse il mercato a espandere i con-
sumi e ben accoglieva la proliferazione di nuove identità legate agli stili di vita che si identificavano
Fortini copywriter 163

iniziando solo ora a strutturarsi, fra mille contraddizioni e controspinte,


non ultime quelle derivanti – soprattutto in Italia – dalla prossimità geogra-
fica del blocco orientale.
Per questa ragione, gli anni Cinquanta sono ancora anni sospesi, potenzia-
li, anni di transizione; anni dove non è ben chiaro quale modello sociale pre-
varrà: tutti i giochi sono aperti e possibili. O, almeno, così sembra. In questo
contesto, il sistema misto italiano si ricostruisce nel solco tracciato dall’ere-
dità fascista. Per un verso, riconquista spazi d’autonomia, magari sfruttando
a proprio vantaggio la nuova centralità geopolitica che la guerra fredda gli ha
inaspettatamente assegnato; per un altro, persegue un progetto di sviluppo
mercantilista che, nelle sue punte alte, è capace di strutturarsi attraverso un’i-
dentità culturale specifica: lo stile industriale. Di questo tentativo di reimpo-
stare su basi democratiche quella via italiana alla modernità a cui il fascismo
ha dato una prima forma, l’Olivetti rappresenta sicuramente il progetto più
avanzato. Il suo sistema aziendale si propone infatti come modello di una
modernizzazione alternativa, coscientemente proposta da Adriano come una
terza via61 capace di compensare quello «sradicamento involontario» di cui
proprio la modernità statunitense è matrice. E, se questa è la posta in gioco,
non stupisce che il campo della pubblicità diventi un campo di battaglia.
Come abbiamo visto, lo stile Olivetti difende un’idea di comunicazione
opposta a quella avanzata dal nuovo populismo capitalista alla Backinger.
Perché, se scopo del secondo è dissimulare nell’estetica l’induzione al consu-
mo per cui è progettato, obiettivo del primo è invece umanizzare nella pro-
gettazione di forme la razionalizzazione senz’anima della modernità fordista.
Sta qui la ragione per cui, come ci dice lo stesso Fortini, un testo pubblicitario
Olivetti è un artefatto ibrido: per un verso strumento di persuasione, per un
altro, «contributo ad un modo diverso di guardare e di far guardare»62:

ed ecco che, dove pensavate non ci fosse che una «cosa», un oggetto, presentato nel vellu-
to degli scrigni delle vetrine, c’è invece un problema, una domanda. […] Un’industria non si
esaurisce nell’oggetto e la «Olivetti» non si conclude nelle sue addizionatrici, nelle macchine
per scrivere e nelle telescriventi. Complesso organismo in progresso, questa industria che ha
vissuto […] tutta la scorsa storia convulsa della Nazione, articola ora, e anche negli strumenti
della democrazia di fabbrica, la sua ambizione più alta: la creazione cioè di un più genuino
rapporto umano, di una difficile unità morale pur nelle diversità e nei necessari contrasti63.

con il consumo di massa statunitense. I consumatori-cittadini europei che nacquero da questo con-
flitto erano dunque ibridi».
61
Sull’idea di terza via nel pensiero di Adriano Olivetti, a partire dal suo interesse per Nikolaj
Berdjaev, vedi Giuseppe Lupo, Teoresi della terza via, in Id., La letteratura cit., pp. 69-72.
62
Franco Fortini, Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di C. Brizzolara, F. Fortini, A.
Steiner, Officina d’Arte Grafica A. Lucini e C., Milano 1949, p. 10; riportato in questo volume alle
pp. 290-291.
63
Ibid.
164 Daniele Balicco

Può sembrare paradossale, ma, per l’insieme di queste ragioni, la comuni-


cazione Olivetti appare oggi in anticipo, e non certo in difetto, sui successivi
sviluppi del marketing pubblicitario occidentale: perché il suo stile non si
rivolge né ad una massa di consumatori generici, né tantomeno ad una fascia
individuata di acquirenti potenziali. La sua strategia è molto più sofisticata64:
proporre un modello ideale, un’atmosfera culturale in cui identificarsi, antici-
pando nello stile il sogno di una comunità concreta che si riconosce nei valori
che l’azienda incarna come laboratorio sociale:

il nome di un nuovo prodotto, l’impaginazione di una lettera di vendita, il progetto


di un padiglione per fiera campionaria, la tavola a colori per una rivista, il testo di un pie-
ghevole, lo studio dei particolari di un affresco per il prossimo calendario, ogni aspetto
insomma della pubblicità Olivetti è elaborato tenendo presente una generale prospettiva
che si è venuta sempre più ampliando nel corso degli ultimi decenni: e cioè che anche la
pubblicità è un servizio, e che la qualità stilistica ed estetica non è solo uno strumento di
persuasione ma una responsabilità; che se il colore di un manifesto o la forma di una mac-
china sono, come sono, una proposta al riguardante e all’utente, quei colori e quelle for-
me debbono fare appello alla lucidità, alla razionale responsabilità e capacità di scelta65.

Classicismo industriale: nomi, logotipi, matrici

Fin qui abbiamo ricostruito il campo all’interno del quale possiamo po-
sizionare lo stile Olivetti e il lavoro stesso di Fortini come copywriter. Pro-
viamo ora, invece, ad avvicinare la poetica di questa strategia comunicativa:
il classicismo moderno66. Pur essendo, infatti, un’azienda tecnologicamente
all’avanguardia, l’Olivetti ha sempre rappresentato la propria modernità con
due caratteristiche singolari: anzitutto come inveramento di una tradizione di
lungo periodo, e non come salto o rottura; quindi, come risultato di una co-
ordinazione creativa, neo-rinascimentale67, fra discipline scientifiche, tecni-
che e umanistiche. Dunque, una sorta di paradossale modernità antimoderna,
che non si oppone frontalmente al passato, ma semmai lo perfeziona; che non

64
Cfr: M. Tafuri, Storia dell’architettura cit., pp. 47-50.
65
F. Fortini, Olivetti 1908-1958 cit., riportato in questo volume a p. 353.
66
Sul classicismo moderno come categoria estetica, si vedano: Romano Luperini, «Nuove stanze»
e l’allegorismo umanistico di Montale, in Id, Il dialogo e il conflitto, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 136-
177; Pier Vincenzo Mengaldo, Grande stile e lirica moderna. Appunti tipologici, in Id., La tradizione
del Novecento (nuova serie), Vallecchi, Firenze 1987, pp. 7-24; Guido Mazzoni, Forma e solitudine.
Un’idea della poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2002; Tiziana de Rogatis, Montale e il
classicismo moderno, Iepi, Pisa-Roma 2002.
67
Sulla matrice rinascimentale dell’esperimento Olivetti, vedi: Ilaria Bussoni, Nicolas Martino,
Olivetti. Disegno della vita e comunità dell’intelligenza, in Olivetti. Comunità, conflitti, intelligenze,
forme di vita, a cura di Sara Agnoletto, Olivia Sara Carli, Roberto Masiero, «Engramma», 166, giugno
2019, pp. 11-20; A. Tarpino, Memoria imperfetta cit., pp. 92-106.
Fortini copywriter 165

rifiuta il fordismo e la sua estrema divisione del lavoro, ma prova a sanarne


l’unilateralità.
Un buon esempio per verificare questa postura è il progetto Tetractys, la
macchina calcolatrice elettrica, lanciata nel 1956, nata dalla collaborazione di
Natale Capellaro per la meccanica e di Marcello Nizzoli per la carrozzeria. Il
nome, di origine pitagorica, è un’invenzione di Fortini, che ne spiega il signi-
ficato in un articolo di «Notizie Olivetti»68, pubblicato in concomitanza del
lancio promozionale:

Il nome d’una macchina o di un prodotto deve avere un valore evocativo, deve poter
suggerire un’associazione, un’immagine: Lexicon è il nome dei dizionari, dove si rac-
colgono tutte le parole che la macchina per scrivere, in potenza, contiene; Synthesis è
il nome greco di quell’atto della mente che riunisce gli elementi dell’analisi ed è quindi
adatto a quei sussidi del lavoro burocratico che schedano e classificano; Refert (cioè:
riferisce) è la parola di sapore araldico per uno strumento che ripete e riporta suoni e
parole. Ebbene, la Tetractys è una gloriosa parola della cultura greca.

Partiamo da questa prima considerazione: che il nome di una macchina o


di un prodotto Olivetti, debba essere evocativo, debba cioè poter suggerire
immagini o associazioni di idee, è una costatazione ovvia di copywriting. Più
interessante è invece circoscrivere l’area semantica dei nomi scelti da Fortini,
tutti di origine greca o latina. Non è un gesto neutro riferirsi alla classicità per
nominare macchine tecnologicamente avanzate. L’idea guida, che i vari nomi
suggeriscono, è quella di pensare l’innovazione come compimento di un lun-
go processo storico di ricerca, insieme scientifico e umanistico. In particolare,
il rapporto mistico fra numero e ontologia, a cui allude il richiamo pitagorico
di Tetractys, culminerà pochi anni dopo nella scelta di chiamare Elea il primo
computer elettronico a transistor prodotto in Europa69. Evocando così, in
sorprendente anticipo sui tempi, il sospetto che nello sviluppo dell’elettro-
nica non sia in realtà in gioco una semplice innovazione di calcolo, quanto il
dispiegarsi di una nuova ontologia70. Pensare l’elettronica attraverso la scuola
eleatica, dunque come una rinnovata meditazione sull’essere, significa inter-
pretare l’innovazione tecnologica come un evento all’interno di una storia di
lunghissimo periodo, di cui ci si sente eredi. La stessa logica guida la scelta di
chiamare Tetractys la calcolatrice elettrico-meccanica lanciata nel 1956:

68
Franco Fortini, Il significato di un nome, «Notizie Olivetti», 35, marzo 1956, p. 4; in questo
volume alle pp. 337-338.
69
L’Elea (Elaboratore elettronico elettrico automatico) verrà progettato dalla Divisione Elettronica Oli-
vetti a partire dal 1955; il primo prototipo è del 1957; nel 1959 entrerà in produzione con il nome Elea 9003.
70
Sul rapporto fra informatica e ontologia, si vedano, almeno: Christoph Türcke, Erregte Gesell-
schaft. Philosophie der Sensation, C.H. Beck Verlag, München 2002, trad. it di Tommaso Cavallo, La
società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri, Torino 2012; Mark Alizart, Informati-
que céleste, PUF, Paris 2017; Paolo Zellini, La dittatura del calcolo, Adelphi, Torino 2018.
166 Daniele Balicco

Il numero quaternario formato dalla somma dei primi quattro numeri ed equivalen-
te a dieci fu detto dunque da Pitagora Tetractys (dal greco tètra che significa quattro).
La tetràtti o tetràttide fu considerata sacra e venerabile; un matematico e filosofo di
Taranto, Filolào, vissuto una cinquantina d’anni dopo la età nella quale si presume sia
vissuto Pitagora, chiama la Tetractys «grande, onnipotente, onniproducente»; i pitago-
rici giuravano su di essa e chi osava violare il giuramento era come se avesse violato e
tradito l’intero universo. Oggi la numerologia pitagorica è entrata a far parte della storia
della scienza e del pensiero; ma proprio per questo non ci è parso sconveniente che una
calcolatrice di eccezionali qualità come la Tetractys, che pur sempre si fonda sul calcolo
decimale, recasse come nome il simbolo stesso della matematica greco-italica, un nome
che allude sia alla componente umanistica della scienza e della tecnica italiana, sia alle
quattro operazioni che la macchina compie, sia finalmente, alla potenza e perfezione di
questo nuovo prodotto delle nostre officine71.

Il nome pitagorico scelto da Fortini ha almeno tre qualità specifiche:


anzitutto, ha una natura sacra, fattore da non sottovalutare in un progetto
come quello olivettiano che riconosce proprio nella religione e nell’estetica
due forze capaci di controbilanciare la razionalizzazione estrema del mon-
do contemporaneo; quindi, è un vettore di totalità, perché in questo nome
i pitagorici riconoscevano le quattro operazioni necessarie per impostare la
relazione fra soggetto e cosmo, inaugurando così in Occidente una conoscen-
za dell’essere fondata in termini matematici. Infine, Tetractys è un nome che
allude «alla componente umanistica della scienza e della tecnica italiana», un
nome dunque che onora un modello di conoscenza fondato su quell’unità dei
saperi che proprio la modernità europea disarticolerà, per poi bandire; unità
che il progetto complessivo dell’Olivetti di Adriano prova a ricostruire.
Il manifesto pubblicitario che Giovanni Pintori progetta per il lancio del
1956, conferma quell’idea di classicismo moderno che il nome della macchi-
na, così come la sua forma estetica, la sua carrozzeria senza spigoli, dalle linee
curve e addolcite72, incarnano. Pintori ancora una volta compone un manife-
sto di alto razionalismo modernista: sulla locandina non troviamo infatti né
l’immagine della macchina pubblicizzata, né tantomeno la fisionomia di un
ipotetico acquirente. La comunicazione è puramente concettuale. Al centro
del manifesto sta il logotipo Olivetti, nella versione che lui stesso ha appe-
na aggiornato; e il nome Tetractys. Tutto intorno, un labirinto di frecce in
quadricromia, disposte in un movimento spiraliforme di progressione verso
l’infinito. I quattro colori alludono al nome della macchina e alle quattro ope-
razioni per cui è programmata.

71
F. Fortini, Il significato di un nome cit.; in questo volume a p. 338.
72
Secondo Barbara Carnevali, sta proprio nella predominanza della linea curva sull’angolo squa-
drato uno degli elementi formali costitutivi dell’estetica tecnologica italiana: Barbara Carnevali, La
ligne rouge: le design come esthétique sociale, «Lettre de l’InSHS», mai 2020, pp. 27-29; Ead., Un altro
modernismo: la linea Persico-Olivetti, in questo volume alle pp. 17-37.
Fortini copywriter 167

La postura modernamente clas-


sica73 dell’estetica Olivetti ha dun-
que due caratteristiche distintive.
Primo: l’innovazione non è salto
o rottura, ma compimento di un
confronto selettivo con la tradizio-
ne. Secondo: l’innovazione è frutto
di una cooperazione attivamente
perseguita fra saperi umanistici,
tecnologia e scienza. Potremmo
forse considerare come un terzo
ingrediente di questa poetica, l’at-
titudine modernista a de-naturaliz-
zare gli oggetti e le forme, a consi-
derarli sempre come risultato di un
processo di lavoro, dunque come
accumulo di storia e di conoscen-
za. Un buon esempio di questa at-
Giovanni Pintori, Tetractys 1956 titudine lo troviamo, per esempio,
in alcuni lavori di Fortini dedicati
alla storia della tipografia e della grafica. Prendiamo Letras humanas74, un
saggio pubblicato nel 1954 in apertura del catalogo aziendale dedicato ai 25
anni della Hispano Olivetti. In questo testo, Fortini si cimenta in una sorta
di meditazione antropologica sulla storia della tipografia e, più in generale,
sul passaggio dalla scrittura manuale, con i suoi geroglifici, ideogrammi o
alfabeti, a quella meccanica, che moltiplica progressivamente la presenza
dalla parola scritta a tal punto da renderla, oggi, quasi identificabile con un
dato di natura:

Oggi le parole scritte e stampate ci immergono, e solo gli specialisti sembrano pre-
stare attenzione al segno, alla particolare disposizione di queste parole nello spazio, a
quella separazione che implica, come ogni altra, una decisione, una scelta e uno stile75.

73
Paolo Fossati, a proposito del classicismo moderno olivettiano, parla di estetica industriale
orientata da una forma di «classicismo della novità»: «questo nuovo classicismo non segue l’armonia
o la norma; ma cerca di ridurre le contraddizioni, in primo luogo quelle che contraddicono “il nuovo”
e che si appoggiano sulla norma, rifiutando la sintesi classica» (Paolo Fossati, Les transformations de
l’image du produit, in Bernard Huet, Georges Teyssot, Politique industrielle et architecture: le cas
Olivetti, «L’Architecture d’aujourd’hui», 188, 1976, pp. 50-51; cit. in C. C. Fiorentino, Congegni
sapienti cit., p. 159).
74
Franco Fortini, Letras humanas, in 25 años Hispano Olivetti 1929-1954, Seix Barral, Barcelona
1954; in questo volume alle pp. 325-330.
75
Ivi, p. 325.
168 Daniele Balicco

Si diceva, all’inizio di questo saggio, che l’apprendistato all’Olivetti con-


tribuì a corroborare in Fortini una lettura «ideogrammatica» dei fenomeni
culturali: cosa significa? Significa addestrare lo sguardo critico a de-naturaliz-
zare i prodotti culturali, riconoscendo sempre nella loro forma estetica, anche
microfisica, come nel caso dei segni della scrittura, un geroglifico sociale da
tradurre. È nei dettagli formali, infatti, che si manifesta l’inconscio politico
di un’epoca storica e di una cultura. Perfino da come si struttura la forma di
una lettera alfabetica nella progettazione di un font, è possibile riconoscere,
secondo Fortini, una postura, un modo simbolico di abitare lo spazio e dun-
que un’idea possibile di uomo. Così, se «le forze e gli impulsi della scrittura
gotica sembrano essere bilanciati dalle stesse leggi dei forti e dei contrafforti
che sostengono le cattedrali»76, nell’età fra le due guerre mondiali le propo-
ste neoromaniche Bauhaus – con tanto di eliminazione delle maiuscole come
metafora di una rivoluzione anti-gerarchica, gesto estetico particolarmente
radicale se portato in una lingua scritta come il tedesco dove tutti i sostantivi
vanno in maiuscolo77 – e quelle neogotiche di Hitler lottano le une contro le
altre, esprimendo due visioni del mondo contrapposte:

mentre il Bauhaus creava nuovi caratteri che possedevano allo stesso tempo qual-
cosa della grafia preromana e romanica, per l’assenza di «grazie» e chiaroscuri – espres-
sione polemica «avanguardista» e razionalista –, la grafica di Hitler accampò nel cuore
dell’Europa la foresta di ferro battuto dei suoi caratteri neogotici78.

Leggere i fenomeni culturali in modo «ideogrammatico» significa dun-


que addestrarsi a non separare mai forma da contenuto, riconoscendo nella
prima l’emersione di una latenza storica e politica, e decifrando nel secondo
un’ambivalente formazione di compromesso. Un buon esempio di questo
procedimento conoscitivo lo troviamo in due scritti di grafica pubblicitaria
che Fortini pubblica nel 197179 in collaborazione con il grafico svizzero Wal-
ter Ballmer. I testi introducono due cataloghi dedicati precisamente alla me-
tamorfosi storica di un ideogramma: il logotipo Olivetti.

Un nome che agisce perché trascrizione alfabetica di un complesso di suoni ma anche


per il suo aspetto grafico si chiama – non senza un poco di dotta intimidazione – logoti-
po. I logotipi che la pubblicità ci mette sotto gli occhi tutto il giorno e tutti i giorni sono
anche la riscoperta degli ideogrammi di scritture millenarie, l’egizia, la maya, la cinese.
Per un verso sono un aspetto della simbolica – medievale o barocca – che comprende
immagini, motti, rebus, sigle, sigilli e che oggi è rinata nella emblematica industriale e

76
F. Fortini, Letras humanas cit., p. 328.
77
Falcinelli, Critica portatile al visual design cit., p. 172.
78
Ibid.
79
Walter Ballmer, Franco Fortini, Olivetti: carattere e identità, Olivetti, Ivrea 1971; Walter
Ballmer, Franco Fortini, Segno e disegno di una firma, Olivetti, Ivrea 1971.
Fortini copywriter 169

negli slogan. Per un altro verso hanno a che fare


con l’uso stilistico ed enfatico della tipografia80.

Il logotipo è la forma estetica di un


marchio, la sua identità grafica e visiva.
Come ci dice Fortini, in questa parola-og-
getto confluiscono, sovrapponendosi, tre
diverse tradizioni culturali: la prima, anti-
chissima, la possiamo far risalire addirittu-
ra a quelle forme di scritture ideografiche
che precedono l’invenzione dell’alfabeto
fenicio; la seconda, alla comunicazione
simbolica medievale e barocca, in partico-
lare alla tradizione araldica e alle sue scrit-
ture cifrate che incastonano rebus, motti,
sigilli, tarocchi, allegorie; l’ultima, più re-
cente, deriva invece dall’uso autoriflessivo
dei caratteri tipografici, a partire quanto
meno dalla rivoluzione Bauhaus. Il logo-
tipo è dunque un oggetto estetico partico-
larmente interessante perché permette di
osservare da vicino come la nuova società
Logotipi Olivetti, in Corporate Image. Un
secolo di immagine coordinata dall’AEG industriale riutilizzi un sistema simbolico
alla Nike, a cura di Vanni Pasca, Dario antico per codificare l’identità moderna
Russo, Lupetti, Milano 2011, p. 74. dei soggetti che operano sul mercato ca-
pitalistico: le aziende. Sarà dunque impor-
tante, nell’analisi di questi marchi, riconoscere come il contenuto della forma
(il significato semantico del segno verbale) e la forma del contenuto (il signi-
ficato estetico del segno grafico) si associno in un meccanismo di ripetizione
seriale fino a stabilizzarsi in un ideogramma socialmente riconosciuto. La
fisionomia dei caratteri, la loro disposizione, il rapporto fra grazie ed aste, la
crenatura (vale a dire lo spazio fra le lettere) dovranno dunque essere capaci
di comunicare simbolicamente l’insieme di quei valori a cui l’azienda vuole
essere associata. Seguire la storia della trasformazione del logotipo Olivetti
significa dunque ricostruire le tappe di un processo storico di autocompren-
sione. Significa, in altre parole, riconoscere, magari nella progressiva scom-
parsa delle grazie, come nella contrazione della crenatura, la trasfigurazione
microfisica – insieme storica ed economica – di un’identità aziendale.
Il primo logotipo, inventato da Camillo Olivetti nel 1911, fu disegnato in
stile Liberty, adeguandosi dunque più all’atmosfera culturale dell’epoca che

80
W. Ballmer, F. Fortini, Olivetti: carattere e identità cit., p. 3; in questo volume a p. 363.
170 Daniele Balicco

alla codificazione estetica di una specifica identità aziendale. Per questa ragio-
ne nel 1934, Xanti Schawinsky, allievo di Gropius a Dessau, viene incaricato
di riprogettarlo, introducendo due innovazioni decisive: l’uso modernista del
solo minuscolo e il font Pica, lo stesso dei caratteri della tastiera Olivetti, so-
vrapponendo in questo modo identità grafica con identità aziendale. Fortini
ripercorre nell’introduzione al catalogo tutte le metamorfosi che il logotipo
ha successivamente subito: due negli anni Cinquanta, la prima ad opera di
Marcello Nizzoli (1950), quando l’Olivetti diventa un’azienda multinaziona-
le e si specializza, oltre che nella produzione di macchine per scrivere, nello
sviluppo di macchine calcolatrici; la seconda (1955) ad opera invece di Gio-
vanni Pintori, che riadatta l’ultima versione all’evoluzione del gusto grafico
contemporaneo:

È ancora verso la fine degli anni Cinquanta che parallelamente all’evolversi della
cultura figurativa si impone un rilancio del logotipo, una correzione. L’ambiente grafico
era venuto mutando. L’impiego di dati caratteri e corpi nei testi pubblicitari e nella
stampa, l’uso di blocchi di composizione come vere masse di manovra modificavano
il campo delle forze e del segno. Troppa aria che circolava fra l’una e l’altra lettera del
logotipo Olivetti: bisognava diminuire i bianchi fra una e l’altra lettera, addensare i neri,
tendere ad un corpo poco articolato ma intenso, dove il gruppo «li» e il gruppo «ti»
collegassero i propri elementi81.

Arriviamo così al 1971, all’ultima trasformazione, di matrice ulmiana,


operata da Walter Ballmer. Il problema ora è opposto a quello risolto da Pin-
tori nel 1955. Bisogna codificare un nuovo logotipo che esprima il nucleo
profondo dell’identità Olivetti, al di là delle mode grafiche: in altre parole,
bisogna trovare una forma capace di comunicare la postura classica e moder-
na dello Stile Olivetti.

Diveniva sempre più chiara la necessità di un equilibrio ma soprattutto di una for-


mula che si sottraesse alle mode, che nel giro di pochi anni non rivelasse la propria su-
bordinazione ad un momento particolare del gusto. Era necessario muoversi alla ricerca
di una direttiva che senza civettare con il passato conferisse al logotipo un carattere di
stabilità, di calma e di fermezza82.

Quali sono, dunque, le modifiche formali che Ballmer propone per il nuo-
vo logotipo? Ballmer aumenta lo spessore dei tratti, squadra le vocali, restrin-
ge le «t», che perdono la parte sinistra della barra, accentuando così il moto di
lettura verso destra; e arrotonda ogni spigolo perché «angoli arrotondati su

Ibid.
81

Walter Ballmer, Franco Fortini, Segno e disegno di una firma, Olivetti, Ivrea 1971; in questo
82

volume a p. 366.
Fortini copywriter 171

spessori ricchi dicono insieme agio e forza»83. In questo modo, può aumen-
tare la stabilità centrale del corpo grafico, dinamizzandone però, nello stesso
tempo, il movimento:

e si dovrà concludere che il nuovo logotipo tende ad unire una densità assai elevata,
quasi una natura plastica e aggettante, con un accentuato movimento nel senso della let-
tura, da sinistra a destra. Al peso delle prime tre e delle ultime tre lettere si contrappone
quello della sillaba centrale: da questo nasce un moto interno che anima la massa del
logotipo e ne corregge ogni eccesso di solidità. La formula che ora si propone conferma
uno dei caratteri essenziali della crescita d’una produzione e d’una ricerca come quella
Olivetti: l’intento di svilupparsi a partire da premesse costanti, di mutare senza perdere
mai di vista i valori di un nucleo originario84.

Dunque: agio, forza, robustezza, dinamicità. Nel logotipo progettato da


Ballmer il classicismo moderno Olivetti ha finalmente trovato una coinci-
denza possibile tra forma del contenuto e contenuto della forma. Resta para-
dossale, però, che questa conquista estetica avvenga proprio quando l’attività
aziendale sta iniziando a concludersi, mentre la sua storia passata inizia già
a trasfigurarsi in un mito, moderno e classico: proprio come il suo logotipo.
Introducendo questi due cataloghi sulla trasformazione del marchio Oli-
vetti, Fortini si sofferma su un aspetto centrale dell’estetica tecnologica: la
serialità. Ci dice infatti, quasi all’inizio della prima introduzione, che perché
un logotipo funzioni «ci vogliono la costanza, la ripetizione […] e il suo iso-
lamento da ogni altro discorso scritto»85. E costanza, ripetizione e visibilità
sono i tre attributi fondamentali presupposti nella progettazione di una ma-
trice. Partecipando alla costruzione dello Stile Olivetti, Fortini sperimenta,
infatti, nella propria attività quotidiana, la differenza che separa il lavoro ar-
tigianale sulla forma di un’opera dalla progettazione industriale di una matri-
ce. Che cosa significa? Significa che è testimone diretto di come la realtà del
mondo industriale retroagisca sulla produzione di forme estetiche, di come
il lavoro delle macchine vincoli necessariamente la creatività umana, impo-
nendo norme e parametri per la riproducibilità in serie di manifesti, ogget-
ti, artefatti, opuscoli, locandine. La differenza è radicale: nel caso dell’opera
d’arte, infatti, il lavoro estetico è ancora un lavoro artigianale. Nell’attività
dell’autore convergono progetto ed esecuzione. Costruire una matrice signi-
fica, all’opposto, sperimentare la separazione fra progettazione umana, per lo
più collettiva, e realizzazione, ora operata dalle macchine86. La matrice non

83
W. Ballmer, F. Fortini, Olivetti: carattere e identità cit., p. 4; in questo volume a p. 364.
84
W. Ballmer, F. Fortini, Segno e disegno cit., p. 5; in questo volume alle pp. 367-368.
85
W. Ballmer, F. Fortini, Olivetti: carattere e identità cit., p. 2; in questo volume a p. 363.
86
Nell’arte industriale «la messa in forma non è un atto dell’artista demiurgo, bensì
un processo, o più brutalmente, una procedura, nella quale varie istanze artistiche, tecniche,
produttive ed economiche convergono su un unico fine terminale – il consumo del bene – senza
172 Daniele Balicco

si esaurisce infatti, come l’opera d’arte, nell’esecuzione artigianale del pez-


zo singolo; ma vive nella sua potenziale riproducibilità infinita. Per questa
ragione, il lavoro sulla matrice diventa studio dell’intenzione seriale che pre-
cede il progetto. Nel laboratorio Olivetti, Fortini impara così a decodificare
le intenzioni implicite presupposte alle forme industriali, che all’opposto ri-
produzione in scala e pubblicità – quanto meno nella versione dominante del
populismo capitalista – dissimulano, naturalizzandole.
Il lavoro sulle matrici, sul rapporto fra estetica e tecnologia, non può non
assumere, in un intellettuale come Fortini, anche un significato politico. La
tradizione dell’autonomia socialista lo porta infatti a testare in prima persona
uno dei problemi politici centrali del rapporto fra lavoratori e tecnologia: il
controllo delle macchine87. È una questione importante che ci permette di
capire come Fortini stesso interpreti il proprio lavoro di copywriter, e come
questo addestramento continuo alla progettazione di forme industriali – vale
a dire di matrici – gli permetta di decifrare l’inconscio politico sedimenta-
to nelle forme estetiche della produzione di massa. In una lettera inviata a
Carlo Salinari nel 1955 e pubblicata nella raccolta Dieci inverni, con il titolo
Disegno industriale88, Fortini mostra molto bene come il suo apprendistato
all’Olivetti gli permetta di conquistare un punto di osservazione privilegiato
sull’industria culturale:

In tempi non lontanissimi, ho creduto non già che i designers fossero gli strumenti
della rivoluzione, ma che il controllo degli artisti sulle forme industriali fosse il compito
per eccellenza «artistico» del nostro tempo89.

Il controllo delle macchine, riformulato sul piano della dimensione este-


tica, conferisce un preciso mandato politico al lavoro degli artisti all’interno
di una società industrializzata: progettare le forme sensibili della vita di mas-
sa. Sebbene orientato in termini capitalistici, è questo, come abbiamo visto,
anche il progetto dello stile industriale. Per Fortini, però, la questione è più
complessa, perché nella forma dei mezzi di produzione, perfino nella loro

però esaurirsi in esso, perché il suo destino non si compie in quel termine estremo, ma si ribalta
sull’intero iter progettuale ripercorrendolo a ritroso e plasmandolo a sua volta in nome di inattese
esigenze» (Maurizio Vitta, Il rifiuto degli dèi. Teoria delle belle arti industriali, Einaudi, Torino
2012, pp. 62-63).
87
La questione del controllo operaio delle macchine è una questione centrale della tradizione
socialista a cui Fortini è legato, dalle celebri Sette tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini fino
alle Proposte per un’auto-organizzazione della cultura di sinistra che egli stesso contribuì a stilare, nel
1956, insieme al gruppo della rivista milanese «Ragionamenti». Per una prima ricostruzione del rap-
porto di Fortini con l’autonomismo socialista, vedi: Daniele Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini
intellettuale politico, manifestolibri, Roma 2007, pp. 73-101; Maria Margherita Scotti, Da sinistra. In-
tellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Ediesse, Roma 2011.
88
Franco Fortini, Disegno industriale, in Id., Dieci inverni cit.
89
Ivi, p. 149.
Fortini copywriter 173

specifica ergonomia, si cristallizza già l’intera dinamica dei rapporti di pro-


duzione:

L’operaio è «prodotto» dalla relazione che egli ha con la sua fresa, dal complesso di
movimenti, pause, sforzi, tempi, orari che lo legano a quella macchina; e dal luogo che
egli occupa nell’officina, dall’inserirsi dei pezzi che egli fabbrica nel prodotto compiuto;
e su questo particolare rapporto si fondano i rapporti che corrono poi tra l’operaio ed il
suo compagno, fra questi e il caposala, il tecnico, i dirigenti, la vita fuori dalla fabbrica…
Tuttavia la macchina e il suo esser-lì non sono un dato, un meteorite; quella macchina è
stata costruita da altri uomini e per un determinato fine; è storia e cultura […]90.

Siamo già, con questa premessa, al livello teorico dei «Quaderni rossi»,
vale a dire alla consapevolezza politica della non-neutralità della tecnologia, al
fatto che la razionalità incorporata nelle macchine non è mai generica, astratta
e universale, come invece pretende ancora la scienza positiva, ma, all’opposto,
è specifica, concreta, storicamente determinata dal comando del modo di pro-
duzione di cui è motore ed insieme effetto. Questa consapevolezza complica
di molto l’orizzonte marxista standard di quegli anni, tutto concentrato sul
conflitto fra mezzi di produzione e rapporti di proprietà. Perché Fortini non
separa i due piani: le macchine andranno riprogettate da capo con altre forme
e con l’impiego di un’altra scienza, se mai ci sarà una rivoluzione. Da questa
premessa discendono due conseguenze. La prima: compito dell’intellettua-
le dell’età tecnologica sarà quello di de-naturalizzare e rendere intellegibile
l’intenzione seriale come pedagogia implicita, sedimentata nelle forme della
produzione industriale di beni di consumo:

La forma, il colore ecc. della macchina cui l’operaio lavora, la forma, il colore ecc.
della bottiglia dalla quale beve, del pacchetto di sigarette che si cava di tasca, del biglietto
del tram che prende per tornare a casa fino alla sedia del cinema o del motoscooter sono
altrettanti aspetti di una «concezione del mondo», e quindi, se vogliamo, strumenti pe-
dagogici. Giustamente a questa «arte invisibile» si contrappone l’arte ben visibile, con
la sua ben più energica concezione del mondo; ma ci si rende sufficientemente conto
dell’immensa parte che quella «arte invisibile» va prendendo nella nostra vita?91

La seconda: la riproducibilità in serie cambia i rapporti di forza fra opera


d’arte ed estetica industriale. Ci troviamo di fronte ad un caso da manua-
le di dialettica hegeliana: con la progressione delle produzioni di massa, la
quantità si ribalta in qualità, perché l’invasione massiccia di oggetti industriali
modifica l’orizzonte generale dell’esperienza sensibile. Per questa ragione è
fondamentale, secondo Fortini, osservare come mutano le forme elementari
della vita quotidiana a contatto con l’intenzionalità seriale implicita dei beni

90
Ibid.
91
F. Fortini, Disegno industriale cit., p. 149.
174 Daniele Balicco

di consumo di massa; per far questo, va riconosciuta importanza ad oggetti


e fenomeni estetici che, proprio per essere effetto di economie di scala, in-
vadono il presente come forze naturali. Non lo sono: sono storia e cultura,
comando sul lavoro e scienza, accumulati. Compito dell’intellettuale politico
è continuare a ricordarlo:

i nuovi prodotti sintetici, quelli plastici, i sistemi di illuminazione, le cose insomma


che ci circondano trasmettono una ben precisa «proposta di vita», non diversamente del-
la «cultura di massa» industrializzata (rotocalco, radiotelevisione, ecc…); e questa «pro-
posta» di vita che ci avviluppa ha un potere formativo altrettanto forte quanto la lettura
di un buon romanzo o la contemplazione della Scuola d’Atene; essa è né più né meno
che la cattedrale del comune gotico, o il ritmo dei colori stagionali per il contadino92.

Del Copywriting come genere letterario

Nel 1960 Fortini partecipa, in quanto consulente Olivetti, alla premiazio-


ne del concorso «Premio L’ufficio Moderno per la migliore lettera di vendi-
ta». Può sembrare strano, soprattutto oggi, associare il nome di un intellet-
tuale marxista radicale, di un poeta come Fortini, ad un concorso di questo
tipo. Eppure, come testimonia anche solo la partecipazione a questo piccolo
evento, per molti anni il mondo dell’impresa è stato realmente un mondo
centrale nella sua vita lavorativa e culturale. Si forma, del resto, proprio da
questa esperienza prolungata il suo sguardo tutto sommato laico sul sistema
aziendale in sé; soprattutto se confrontato con quello della maggior parte de-
gli intellettuali comunisti di quegli anni. Per Fortini, l’impresa resterà sempre
il luogo privilegiato dove osservare la contraddizione che struttura la società
moderna: il rapporto di classe. Nello stesso tempo, però, non sottovaluterà
mai il fatto che l’impresa è anche un sistema culturale complesso, spesso in-
novativo. Come scrive Sergio Bologna,

in questo tipo di approccio credo abbia svolto un ruolo importante la sua esperienza
come consulente all’Olivetti. Fortini, a differenza di moltissimi intellettuali comunisti – ivi
compresi molti intellettuali della Nuova Sinistra –, aveva una visione estremamente «laica»
degli apparati produttivi, non considerava l’impresa un demonio, un «covo» del capitale
dentro la quale tutti soggiacciono ai comandi delle gerarchie ed ai valori del capitalismo.
Considerava l’impresa come uno che l’impresa l’aveva vissuta e vi aveva lavorato, che ave-
va venduto la propria forza-lavoro o il proprio skill a questa impresa in cambio di un de-
terminato salario, ma aveva capito anche che l’impresa non è soltanto produzione di merci
ma anche un sistema culturale complesso, talvolta dinamico e innovativo93.

92
Ibid.
93
S. Bologna, Industria e cultura cit., p. 22.
Fortini copywriter 175

Ma torniamo al concorso del 1960. L’evento fu organizzato dal periodico


«L’ufficio Moderno» che, come abbiamo visto, è stato, per tutti gli anni Cin-
quanta, uno dei luoghi principali dello scontro fra stile industriale e populi-
smo capitalista. E Fortini è sicuramente stato uno dei protagonisti del primo.
Il resoconto della sua partecipazione a questo concorso si trasformerà in un
piccolo saggio, pubblicato l’anno successivo, sempre sulla stessa rivista, dal
titolo Del Copywriting come genere letterario94. L’articolo è particolarmen-
te interessante per almeno due ragioni. Anzitutto, perché è un manifesto di
quello che è stato lo stile industriale italiano e, in particolare, quello Olivetti;
nello stesso tempo, perché è un testo che ci permette di vedere da vicino come
l’apprendistato all’Ufficio pubblicità di via Baracchini confluisca nella sua
riflessione estetica; e viceversa.
Il testo inizia indicando una continuità paradossale fra copywriting e for-
me premoderne della tradizione letteraria. Il pubblicitario, esattamente come
un poeta cortigiano, ha di fronte a sé un committente. Il suo lavoro deve as-
solvere ad una finalità celebrativa, indirizzandosi ad una platea di destinatari
precisi. Deve rispettare, come nei sonetti o nelle canzoni, limiti formali obbli-
gati. Dovrà, inoltre, servirsi dei poteri strategici della retorica, orientandoli,
proprio come in quella classica, alla persuasione e alla mozione degli affetti.
L’insieme di queste condizioni ripropone, dunque, nel compito del copywri-
ter contemporaneo, una forma di lavoro e uno spazio simbolico non troppo
distante da quello proprio della poesia celebrativa delle corti rinascimentali
o barocche:

Il testo pubblicitario e la lettera di vendita sono forse, nel tempo nostro, un vero e
proprio genere letterario, che più del giornalismo adempie ad alcune delle condizioni
proprie, una volta, alla poesia celebrativa. Hanno un committente, una finalità precisa,
dei destinatari; dei limiti formali – quasi rime obbligate – spesso rigorosi come quelli del
sonetto e della canzone95.

Ancora più precisa, continua Fortini, è la derivazione degli slogan dalla


millenaria tradizione dell’epigramma, che come l’ape doveva essere «esiguo di
corpo, armato di pungiglione, ma non senza miele»96. Difficile non pensare a
questo punto che derivi proprio dall’apprendistato all’Olivetti, dal suo lavoro
di inventore di slogan, la passione di Fortini per la scrittura epigrammatica;
e diventa forse più chiara la ragione per cui un testo politico, quasi tecnico,
come Lettera agli amici di Piacenza97 – che resta la sua analisi più lucida sulle
forme dello sfruttamento del lavoro all’interno dell’industria culturale e sulla

94
F. Fortini, Del Copywriting cit., p. 331; in questo volume a p. 179.
95
Ibid.
96
Ibid.
97
Franco Fortini, Lettera agli amici di Piacenza (1961), in Id., Saggi ed epigrammi cit., pp. 944-953.
176 Daniele Balicco

necessità, per gli intellettuali, di organizzare una politica sindacale attiva – sia
consegnato proprio ad una raccolta di epigrammi: L’ospite ingrato98.
Una volta indicate queste paradossali contiguità, il testo capovolge il pun-
to di osservazione e si chiede se la «resistenza del mezzo», che tanto i vincoli
tecnologici quanto la committenza impongono alla creatività del copywriter,
non sia, in realtà, per un poeta, un ottimo addestramento metrico e formale;
addestramento che la letteratura contemporanea ha ormai dismesso. Scrivere
slogan – e, fra quelli di Fortini, il più celebre resta probabilmente quello cre-
ato per la Lettera 22, «leggera come una sillaba / completa come una frase»
– significa dunque sperimentare una condizione ibrida, paradossale, insieme
moderna e antica, dove arcaici vincoli formali e posture celebrative cortigiane
si riattivano all’interno di un sistema industriale. E così accade che la riprodu-
zione in serie moltiplichi all’infinito la potenza grafica e semantica delle pa-
role, perché i versi ora invadono fisicamente le strade, le piazze; vengono letti
su riviste o cartelloni stradali, ascoltati alla radio o riprodotti in televisione
come nuovi ideogrammi industrializzati. Secondo Fortini, questa invasione
estetica dello spazio pubblico ha un effetto duplice: da un lato modifica le
forme comuni di lettura, dall’altro agisce direttamente sull’inconscio metrico
dei poeti contemporanei:

Voglio osservare finalmente che il testo pubblicitario è stato ed è, come tutti sanno,
un veicolo importante per certe novità formali del linguaggio letterario, come la grafica
pubblicitaria lo è stata per l’arte figurativa contemporanea; e che, in particolare, le com-
posizioni tipografiche cosidette «a bandiera» hanno abituato il pubblico ad una lettura
«epigrafica» dei testi, che facilita molto la lettura ritmica dei cosidetti «metri liberi» della
poesia contemporanea99.

La ritmicità degli slogan e la loro disposizione grafica a bandiera costru-


iscono uno spazio simbolico che, ripetuto all’infinito, non può non avere
effetti sulle forme comuni della lettura contemporanea, predisponendo una
sorta di inconscio metrico di massa con cui la poesia ha incominciato incon-
sapevolmente a confliggere.
Fortini ha pubblicato, alla fine degli anni Cinquanta, tre studi di metrico-
logia100 la cui tesi di fondo è proprio una verifica di questa ipotesi. Da un lato
esiste una tendenza dominante, all’interno della poesia italiana, per il verso
libero, per la disattivazione dei vincoli metrici; nello stesso tempo, però, ini-

98
Franco Fortini, L’ospite ingrato, in ivi, pp. 859-1126.
99
F. Fortini, Del Copywriting cit., p. 331; in questo volume alle pp. 179-180.
100
Gli studi di metrica che Fortini ha pubblicato su rivista alla fine degli anni Cinquanta, verran-
no poi raccolti nel 1974 nel primo volume di Saggi italiani. Qui di seguito i titoli: Metrica e libertà
(1957); Verso libero e metrica nuova (1958); Su alcuni paradossi della metrica moderna (1958); ora in
F. Fortini, Saggi ed epigrammi cit., pp. 783-817.
Fortini copywriter 177

ziano anche ad essere sempre più diffuse forme inedite di regolarità ritmica
che Fortini definisce come «isocronismo tendenziale degli accenti tonici»101.
La predilezione per il verso libero nella poesia contemporanea rivela dunque
un movimento sotterraneo che contraddice l’apparente semplicità di questa
scelta, nell’emersione, per lo più inconscia, di una tendenza comune orienta-
ta dalla ricerca di una nuova forma di regolarità, di una nuova convenzione
non più metrica, ma ritmica; come se si stesse costituendo una sorta di in-
consapevole alleanza fra i poeti contemporanei in risposta alla percezione di
un esproprio sempre più violento: l’imporsi di nuova metricità industriale di
massa102.
Già il fatto che l’insieme di questi problemi venga discusso in un testo
destinato ad una pubblicazione per la comunicazione d’impresa, ci mostra
il livello di legittimità conquistato, alla fine degli anni ’50, dai protagonisti
dello stile industriale italiano. Non a caso, in questo breve saggio, Fortini ri-
torna, come nei testi per i cataloghi Olivetti, sulla potenzialità pedagogica del
copywriting, come scrittura a forte destinazione pubblica e dunque capace di
proporre modelli non solo destinati alla persuasione, inducendo l’acquisto di
beni di consumo; ma anche orientati a mostrare «un modo coerente di ragio-
nare ed esprimersi», un modo possibile di «servire o disservire – la razionali-
tà, la discrezione, la spontaneità, il rispetto reciproco»103.

101
Franco Fortini, Verso libero e metrica nuova, in Id, Saggi ed epigrammi cit., p. 805.
102
«La velocità di formazione di un’attesa ritmica […] sta crescendo nella misura in cui il “metro
libero” tende ad assumere forme sempre meno “libere” e dunque ad istituzionalizzarsi; come prova,
tra l’altro, la tendenza – tanto sfruttata dalla tipografia pubblicitaria – ad una lettura fortemente rit-
mica, “lapidaria”, delle composizioni tipografiche cosiddette “a bandiera”» (F. Fortini, Verso libero
e metrica nuova cit., p. 807). Sull’insieme di questi problemi teorici si veda: A. Agliozzo, Mutarsi in
altra voce cit.
103
F. Fortini, Del Copywrting cit., p. 331; in questo volume a p. 179.
Franco Fortini

Del Copywriting come genere letterario1

Il testo pubblicitario e la lettera di vendita sono forse, nel tempo nostro,


un vero e proprio genere letterario, che più del giornalismo adempie ad al-
cune delle condizioni proprie, una volta, della poesia celebrativa. Hanno un
committente, una finalità precisa, dei destinatari; dei limiti formali – quasi
rime obbligate – spesso rigorosi come quelli del sonetto e della canzone. E,
per di più, caratteri della argomentazione, persuasione, mozione degli affet-
ti; che sono stati fra gli elementi fondamentali dell’antica arte retorica. (E
mi chiedo ora se il cosidetto slogan non risponda alla millenaria definizione
dell’epigramma che, come l’ape, doveva essere «esiguo di corpo, armato di
pungiglione, ma non senza miele»). Testo pubblicitario e lettera di vendita
possono quindi essere una straordinaria ginnastica letteraria: possono, con i
loro limiti rigorosi («le prigioni danno le ali», diceva Valéry), offrire quella
«resistenza del mezzo», che la letteratura contemporanea ha quasi del tutto
perduto. Ma soprattutto propongono dei modelli di linguaggio che hanno
(o potrebbero avere) uno straordinario valore educativo. Infatti alle diverse
categorie di destinatari non corrispondono soltanto diversi tipi di argomenti
e di tono, ma diversi piani linguistici, da quello burocratico a quello emozio-
nale, dal tecnico al bonario, dal nazionale al regionale etc. Quella omogeneità,
ottenuta attraverso le più varie scelte lessicali e sintattiche, che fa la ricchezza
e la tensione di una composizione letteraria, può ritrovarsi quindi nella let-
tera di vendita e nel copywriting ed indicare così, proporre al lettore, insieme
al suggerimento di un acquisto, anche un modo coerente di ragionare e di
esprimersi. Se pensiamo a quante innumerevoli occasioni di copywriting sono
offerte dalla vita quotidiana, ci possiamo render conto che i testi pubblicitari
(e le lettere di vendita) possono, come la stampa quotidiana e le colonne so-
nore del cinema e della TV, e più del libro, servire o disservire – la razionalità,
la discrezione, la spontaneità, il rispetto reciproco.
Voglio osservare finalmente che il testo pubblicitario è stato ed è, come
tutti sanno, un veicolo molto importante per certe novità formali del lin-

1
«l’Ufficio Moderno», 35, 2, febbraio 1961, p. 331. Il testo è preceduto dalla seguente presentazione:
«Riportiamo un sunto della conversazione tenuta da Franco Fortini in occasione della premiazione dei
vincitori del Concorso 1960 “Premio L’ufficio Moderno per la miglior lettera di vendita”».

L’ospite ingrato ns 6
180 Franco Fortini

guaggio letterario, come la grafica pubblicitaria lo è stata per l’arte figurativa


contemporanea; e che, in particolare, le composizioni tipografiche cosidette
«a bandiera» hanno abituato il pubblico ad una lettura «epigrafica» dei testi,
che facilita di molto la lettura ritmica dei cosidetti «metri liberi» della poe-
sia contemporanea. Certi testi pubblicitari hanno un ritmo interno, un senso
delle clausole, degli a-capo e degli accenti che si rifanno ad una antichissima
tradizione – quella, appunto, delle epigrafi – e, al tempo stesso, alla moderna
lirica breve; è raro, ma non eccezionale, che alcuni testi giungano, non dirò ad
un valore d’arte, ma a quello, socialmente altrettanto importante, di una buo-
na letteratura. E questo – dato che un testo pubblicitario non vende soltanto
un prodotto ma anche se stesso e quindi il livello intellettuale e morale che
l’ha concepito e che lo offre alla attenzione altrui – è, e mi auguro sempre più
diventi, davvero importante.
Franco Fortini

«Una bellissima e lunga esperienza di lavoro»1

Bene. Direi di chiudere un attimo questo discorso perché abbiamo un ospi-


te gradito, amico di Franco Fortini e testimone di un periodo della sua vita:
Renzo Zorzi. Lo saluto e lo ringrazio di essere qui con noi. Andiamo diretta-
mente al 1947, quando Fortini accetta l’offerta provvidenziale di Olivetti di
trasferirsi a Ivrea per svolgere un tipo di attività di cui poi ci parlerà. Parliamo
dunque del suo trasferimento ad Ivrea, in questa comunità, nel villaggio della
Olivetti. Magari accennando, se possibile, all’esperienza di «Comunità», non
solo come rivista, ma soprattutto come movimento.

fortini: Ad Ivrea ero già stato su invito di Adriano, che conoscevo da


prima della guerra e che poi ritrovai in Svizzera. Quando andai la prima volta
me ne ritrassi abbastanza rabbrividito… perché era chiaro che si trattava di
isolarsi: andare a Ivrea voleva dire isolarsi. In realtà, come ho detto prima, poi
accettai di andare e vi arrivai nel settembre del ’47, nel momento in cui Adria-
no stava veramente ricostruendo l’Olivetti ed iniziando l’enorme sviluppo di
quegli anni. Ad Ivrea ho trascorso un anno, un anno per me intensissimo che
passavo, più che nell’ufficio della pubblicità, direttamente nei reparti; anche
perché si trattava di fare un lavoro di descrizione fotografica e di scrittura di
testi. I contatti più importanti erano quelli con Adriano, quando lo vedevo.
Io e Ruth vivevamo in una stanza che si trovava nell’asilo nido per i bambini
dei dipendenti; come vicini immediatamente contigui avevamo Franco Mo-
migliano e sua moglie, con i quali si è stabilito un rapporto di amicizia che,
soprattutto per me, è stato straordinariamente utile: avevo solo da imparare
da un uomo come Momigliano. Questa esperienza ebbe due aspetti: per un
verso ci fu da parte di Adriano la proposta di iniziare a collaborare al movi-
mento di «Comunità» che stava iniziando allora a fare i primi passi. In quel
primo periodo si trattava soprattutto di un’attività di tipo culturale, centrata
intorno alla biblioteca di Ivrea. Mi fu però abbastanza facile capire che non
andavamo d’accordo dal punto di vista politico, sebbene allora Adriano fos-
se molto vicino al PSI. Quindi, da quel momento, la mia collaborazione è
stata piuttosto con la rivista «Comunità»: collaborazione di carattere lettera-

1
Conversazione radiofonica con Renzo Zorzi (Radio Tre, febbraio/marzo 1988).

L’ospite ingrato ns 6
182 Franco Fortini

rio, scrivevo di critica. Per un altro verso, c’erano degli eventi e degli scontri
politici in fabbrica estremamente interessanti, problemi che riguardavano il
consiglio di gestione. Mi sono trovato così in una situazione tutt’altro che
facile. Con Adriano avevo un rapporto personale di cordialità e amicizia; nel-
lo stesso tempo però con Adriano Olivetti imprenditore mi trovavo come
delegato a rappresentare la parte dei lavoratori. Tutto questo, per disgrazia o
per fortuna, si risolvette con l’estate del ’48. Prima di tutto, con il 18 aprile.
Quindi, con la grande vittoria democristiana e poi con l’attentato a Togliatti.
Ero ad Ivrea in quei giorni e qui si vissero alcune giornate di grande tensione.
In seguito ai postumi di queste tensioni politiche, postumi locali che erano
notevolmente sgradevoli, potei misurare la generosità, l’ampiezza di cuore
e di intelligenza di Adriano Olivetti. Qualsiasi altro industriale mi avreb-
be cacciato su due piedi per le noie che gli stavo procurando; invece, dopo
una intemerata conversazione telefonica piuttosto aspra, Adriano Olivetti mi
condannò, facendomi un regalo straordinario: mi fece trasferire a Milano, alla
pubblicità.

Il nome di Adriano Olivetti torna nella biografia di molti intellettuali del


vostro tempo. E fra questi c’è anche Renzo Zorzi. Possiamo dunque abbozza-
re un ritratto generale di Adriano Olivetti?

fortini: Mi sembra che in questi decenni il personaggio Olivetti è stato


sottoposto a molte deformazioni e che si sia data un’importanza eccessiva
all’Olivetti politico. Olivetti è stato moltissime altre cose; certamente per lui
la politica fu molto importante, o meglio le istituzioni, direi, più che la poli-
tica. Aveva cominciato da giovanissimo; era stato uno degli amici di Gobetti,
aveva collaborato ai giornali di Camillo e il padre, come tutti sanno, era uno
dei pochi socialisti di allora; certamente l’unico industriale. Adriano conosce-
va tutti i capi socialisti. Quando Turati dovette fuggire in Francia, per prima
cosa andò a rifugiarsi in casa Olivetti ad Ivrea. Poi fu Adriano, insieme a
Parri, Pertini e altri, a portarlo a Savona. Era Adriano a guidare la macchina
che permise a Turati di emigrare in Francia! Ma a partire dagli anni ’24/’25 la
sua principale passione è stata, almeno per un decennio, l’azienda e la sua or-
ganizzazione industriale. Nel ’25 fece un lungo viaggio negli Stati Uniti, dove
visitò le fabbriche più avanzate. Sono conservati documenti scritti di molte
sue relazioni a riguardo. Credo che fu il primo in Italia a parlare di taylorismo
e in un modo abbastanza nuovo, senza cioè recepire tutto quello che Tay-
lor aveva ipotizzato nel suo libro sull’organizzazione scientifica del lavoro.
Taylor era un personaggio molto severo ed aspro, in fondo era un quacche-
ro, tutt’altro che capace di vedere insieme i due lati della stessa medaglia: il
lato padronale, dell’organizzazione della fabbrica; e quello dei lavoratori, dei
«Una bellissima e lunga esperienza di lavoro» 183

sindacati. Riteneva che ci fosse una sola verità e che fosse incontestabile. Ol-
tre a Taylor, Adriano studiò anche un altro economista aziendale, il francese
Bedeaux2, su cui per altro scrisse articoli molto interessanti. Adriano visitò
tutte queste fabbriche proprio con l’idea che l’Italia avesse molto da impa-
rare da paesi che in quegli anni si trovavano più avanti nell’organizzazione
industriale del lavoro. E poi andò anche in Russia: nel 1927 visitò, insieme ad
un gruppo di industriali, l’Unione Sovietica e anche da questo viaggio rica-
vò molte riflessioni. Dobbiamo poi considerare che l’altra passione di questi
anni è l’urbanistica: Adriano vedeva lo spazio territoriale come opportunità
per l’integrazione della vita sociale e della vita industriale. Negli anni Trenta
studiò con un gruppo di giovani urbanisti appena laureati, fra cui Bottoni,
Rogers, Peressutti; collaborò anche con Renato Zveteremich che avrebbe poi
dato forma grafica al volume del ’38, quello sul piano regolatore della Valle
d’Aosta, che se fosse stato attuato, anche solo parzialmente, avrebbe sicu-
ramente risparmiato a quella regione i disastri a cui poi più tardi è andata
incontro, con uno sviluppo turistico molto disordinato.
Pensa che Bottai avrebbe voluto esporre queste tavole in occasione di una
delle grandi mostre che il fascismo stava organizzando al Palazzo delle Espo-
sizioni a Roma; perché gli sembrava potessero costituire un buon esempio
di soluzione ad alcuni problemi urbanistici. Mandò a Mussolini una lettera
spiegando le ragioni del progetto e chiedendo che uno dei gerarchi fascisti an-
dasse a inaugurare l’esposizione. Mussolini rispose inviando una lettera con
un grosso NO.

Sulla figura di Olivetti come imprenditore geniale e anticipatore credo ci


sia poco da discutere; è una figura che andrebbe soprattutto studiata e appro-
fondita. Tenterei ora di definire piuttosto la personalità di Olivetti come ani-
matore culturale; negli incontri preparatori che abbiamo avuto con Fortini per
fare questa trasmissione, Fortini ha risolutamente negato che Adriano Olivetti
fosse un mecenate. Tentiamo quindi di inquadrarlo piuttosto come una figura
nuova della civiltà italiana del secondo dopoguerra e di come il suo progetto, il
modello Ivrea, fosse rivolto anche alla classe degli intellettuali.

zorzi: Anche io sull’idea di mecenatismo, sono in genere abbastanza po-


lemico, già a partire dal termine e soprattutto dopo lo svilimento di questi
ultimi anni. È una parola che non si può più pronunciare; ormai si associa
solo al concetto di sponsorizzazione. Ma anche rispetto al passato è un termi-
ne difficile, equivoco. Non so. Credo che quando un Papa chiama uno come

2
Charles Eugène Bedaux (1886-1944) imprenditore francese e inventore del sistema Bedaux, una
froma di razionalizzazione del lavoro orientata ad aumentare la produzione industriale, eliminando
i tempi morti.
184 Franco Fortini

Michelangelo per progettare San Pietro non sta facendo del mecenatismo, ma
interpreta piuttosto il suo ruolo e quindi chiama il miglior professionista che
può reperire per affidargli un lavoro. Ma anche su altri casi meno clamorosi ci
sarebbe da dire. Si pensi anche solo a quando Monteverdi, chiamato dai Gon-
zaga, va a Mantova e regala, per qualche decennio, le più belle musiche che
siano mai state scritte, dietro un compenso tutto sommato modesto; tanto è
vero che poi Monteverdi se ne va a Venezia e diventa organista a San Marco.
Ecco, non so bene, a questo punto, se il vero mecenate siano stati i Gonzaga o
Monteverdi: perché molte cose relative alla corte Gonzaga le ricordiamo gra-
zie a lui. Parlando di Adriano vorrei veramente sgombrare il terreno da una
parola di questo tipo. Adriano credeva nei progetti, li strutturava, sceglieva le
persone adatte e glieli affidava. Era nella condizione di poter disporre di mez-
zi che altri non avevano. Per di più, considerava il denaro come una specie di
maledizione: il denaro doveva essere speso subito; non fu mai un accumula-
tore. Quando morì non possedeva neanche la casa in cui viveva. Non ha mai
posseduto niente, ha sempre fatto una vita agiata, ma con bisogni modestis-
simi. Ma arriviamo a questi letterati, di cui si è tanto ironizzato per decenni.
Bisogna capire bene cosa fosse la cultura italiana dell’immediato dopoguerra.
Adriano, alla fine degli anni Cinquanta, avrebbe chiamato ad Ivrea sociologi,
psicologi e altri professionisti; ma in quegli anni, l’unico psicologo era Cesare
Musatti, che di fatti era regolarmente in servizio ad Ivrea. Adriano nei primi
anni del dopoguerra aveva reclutato un gran numero di letterati a cui faceva
svolgere mansioni per le quali non esistevano ancora professioni specifiche.
Li chiamava dunque perché, fra gli intellettuali, erano, in fondo, i più intelli-
genti, i più aperti, i più moderni…

fortini: Se posso interromperti ricordo che uno dei progetti, uno dei po-
chi che ho fatto io direttamente per Adriano, era un progetto di un volume
sulle strutture della cultura italiana. Ho ancora queste carte: era stato pensato
abbastanza accuratamente, proponendo delle larghissime collaborazioni alle
persone più varie, adesso mi ricordo solo il nome di Bobbio; una cosa che
quindi non aveva niente a che fare col mio lavoro letterario, né tanto meno
con quello di pubblicitario.

zorzi: Pensiamo ad Ottieri, per esempio; non era certo lì per fare il let-
terato. Era il capo del personale a Pozzuoli, quando si aprì quella fabbrica.
Volponi lavorava negli uffici di assistenza sociale…

fortini: Voglio ricordare che prima della guerra, quando ho conosciuto


per la prima volta Adriano qui a Milano, perché non avevo né arte né par-
te e qualcuno mi aveva indirizzato a lui, abbiamo avuto una conversazione.
«Una bellissima e lunga esperienza di lavoro» 185

Allora avevo pubblicato poche cose, versi, raccontini, cose così; dopo la con-
versazione, Adriano, che io avevo guardato con grande rispetto, perché era
un personaggio importante, mi ha chiesto di mandargli le fotocopie, le ripro-
duzioni di questi testi. La cosa mi ha lasciato sbalordito. Cosa c’entravano i
miei versi con il lavoro che avrei dovuto fare? C’entravano in questo senso:
Adriano – non so se sei d’accordo – era un uomo che conosceva abbastanza
bene gli uomini…

zorzi: Beh sì; da questo punto di vista era una delle sue doti rabdomantiche…

fortini: E quindi a lui certe cose servivano per altro, erano sintomo di altro.

Sono venuti fuori dei nomi, forse potete ricordare qualcun altro?

zorzi: Sì, almeno Geno Pampaloni direi; che certamente ebbe una grossa
importanza a Ivrea, anche perché aveva un tipo di religiosità che era la più
vicina a certe intenzioni, se non ad un certo essere, di Adriano; in quegli anni
quindi fu certamente un uomo importante. Poi dobbiamo ricordare Doglio e
persone come Sinisgalli, che era alla pubblicità prima di te.

A questo punto, proprio a partire dall’impiego di Sinisgalli alla Olivetti,


parliamo della pubblicità. Come abbiamo visto, Fortini nel settembre del ’48
rientra a Milano, ma continua a lavorare per la Olivetti nel settore pubblicità.
Era un mestiere relativamente nuovo per lei. Come cominciò e quali erano
veramente le sue mansioni nell’ufficio?

fortini: Lavoravo nello stesso ufficio con i grafici Olivetti, che erano
professionisti di altissimo livello. Ricordo su tutti Giovanni Pintori che, di
fatto, ha creato tutta la pubblicità Olivetti del primo decennio del dopoguer-
ra. Io mi occupavo dei testi; cioè dovevo scrivere i testi, inventare gli slogan,
battezzare le macchine, i nuovi modelli che uscivano…

… Ne ha battezzata qualcuna?

fortini: Sì, certo. A cominciare dalla Lettera 22; ma anche la Lexikon e


poi altri modelli. Era spesso una lotta far passare il nome di una macchina; in
genere, devo dire, avevo dalla mia parte Adriano e contro una buona parte dei
commerciali. Tra l’altro, mi sono accorto negli anni che, avendo inventato più
nomi, questi stessi nomi ora me li vedo adesso, magari a distanza di decenni,
applicati a macchine che non so nemmeno che cosa siano. Comunque, devo
una riconoscenza enorme ad Adriano per questa esperienza: perché per me è
186 Franco Fortini

stata un’esperienza di metrica. C’è un parallelismo curioso tra le traduzioni


di Brecht che faccio in quel periodo e i testi pubblicitari. In generale, è stata
un’esperienza di metrica, una sorta di ginnastica, il continuo passaggio da un
tipo di composizione a un’altra, da uno spazio all’altro, da un certo numero
di righe all’altro; e questo lavoro ripetuto tutti i giorni diventava veramente
un modo di farsi i muscoli, dei muscoli formali. Ma è stata un’esperienza
estremamente positiva anche per un’altra ragione: come ho detto, io lavoravo
a stretto contatto con i grafici; e questa vicinanza soddisfaceva la mia passione
per la grafica e per la pittura. Poi ci sono dei ricordi per me indimenticabili. Io
ho visto letteralmente nascere, nell’ufficio di Pintori, a partire dallo sviluppo
del disegno, il famoso cane a sei zampe dell’AGIP, progettato, se non mi sba-
glio, dallo scultore Luigi Brodini. Ma di questi episodi potrei parlare per ore.
È stata una bellissima e lunga esperienza di lavoro che ho fatto credendoci e
impegnandomi tantissimo. Per un lungo periodo, la mia occupazione è stata
soprattutto l’invenzione della misura degli slogans per poi seguirne le tradu-
zioni in altre lingue.

Prima di chiudere questo discorso vorrei ricordare la sorte che ha accompa-


gnato la rivista «Comunità». So che la rivista esiste ancora.

zorzi: Sì, viene pubblicata in grossi fascicoli di cinque o seicento pagine


che escono una volta all’anno; nei nuovi numeri pubblicano soprattutto saggi
molto ampi. Il cambiamento è avvenuto dopo il ’68; in quegli anni ci fu un’e-
splosione di pubblicazioni che a me sembravano per lo più di pronto servizio;
così pensammo di trasformare la rivista e di accogliere saggi di rimeditazione
più lenta; da quel momento abbiamo deciso di fare una rivista annuale. Mi
ricordo, invece, che nei primi anni in cui io mi occupavo della rivista, Fortini
teneva una rubrica molto puntuale di biografia letteraria: poeti, scrittori e
tutto quello che usciva in Italia nel campo della narrativa e nel campo della
poesia, passava sotto il suo vaglio.

fortini: Non abbiamo detto nulla però delle edizioni. Ho tradotto molto:
tre libri di Simone Weil, uno di Ramuz…

zorzi: Sì, mi ricordo benissimo le discussioni che finirono poi con la scelta
di quel bellissimo titolo della Simone Weil che si chiamava L’Enracinement,
il radicamento; e Fortini diede alla traduzione questa accezione dantesca e
venne fuori La prima radice, che fu un titolo memorabile, credo…

fortini: … Questo non sta a me giudicarlo.


«Una bellissima e lunga esperienza di lavoro» 187

zorzi: Adesso tutti parlano di Simone Weil; sembra che tutti l’abbia-
no letta. A quell’epoca, ne tiravamo duemila copie. Adriano ne regalava un
migliaio in giro a biblioteche; era un personaggio così, decisamente strano.
Ad Ivrea c’era una biblioteca veramente esemplare, sotto moltissimi aspetti.
Spesso assumeva la fisionomia di vari direttori: quando ci fu alla direzione il
mio omonimo Ludovico Zorzi, che aveva una grande passione per la storia
del teatro, creò ad Ivrea una sezione teatrale che divenne, in quegli anni, una
tra le più importanti in Italia; venivano studenti da Torino, da Milano. Vor-
rei concludere con un piccolo aneddoto: quando Pampaloni, con un po’ di
turbamento, diceva ad Adriano «manca qualche libro, mi sa che li rubano»;
Adriano rispondeva: «Ah! Benissimo, benissimo, sono davvero contento. Se
rubano dei libri, vuol dire che hanno capito tutto!».

E anche questo è abbastanza singolare.

zorzi: Sì, abbastanza singolare.


Giovanni Giudici

Poeti fra le macchine.


Alla Olivetti la parola era design1

In principio fu un poster: la rosa in un calamaio. Per suggerire che il cala-


maio ormai non serviva più a intingervi la penna. Meglio scrivere a macchina.
Ecco forse l’immagine che segnò l’atto di nascita dello «stile Olivetti».
Correvano i tardi anni Trenta e l’invenzione era stata di un poeta ingegnere,
oggi un po’ troppo dimenticato, Leonardo Sinisgalli, che sarebbe ben presto
emigrato a Milano, alla Pirelli, e di qui a Roma dove fondò e diresse una rivista
famosa, «Civiltà delle macchine», in qualche modo simbolo dell’incontro fra
cultura tecnologica e intellettuali: un incontro di cui la Olivetti è stata per de-
cenni punto di convergenza; e non soltanto a Ivrea – dove comunque passaro-
no o lavorarono nel corso dei decenni alcuni dei più prestigiosi nomi dell’archi-
tettura mondiale (da Le Corbusier a Neutra), sociologi ed economisti di valore
(da Ferrarotti a Momigliano, da Gallino a Pizzorno) o scrittori come Volponi,
Pampaloni, Ottieri, Bigiaretti, Furio Colombo e Soavi –, ma anche a Milano.
Proprio da Milano, infatti, dove negli anni Cinquanta fu trasferita la Di-
rezione Pubblicità, partivano verso il mondo i «messaggi» di quello «stile».
«Dobbiamo fare bene le cose e farlo sapere», diceva l’«ingegner Adriano»,
com’era chiamato in azienda.
Del «connubio» tra Olivetti e «intellettuali» potranno parlare o scrivere
testimoni più autorizzati: per esempio, Renzo Zorzi, che, succeduto a Ric-
cardo Musatti, è stato per oltre venticinque anni a capo di quella Direzione e,
parallelamente, delle Edizioni di Comunità e dell’omonima rivista, e conti-
nua ancora oggi a prestare la sua collaborazione alle iniziative culturali della
società.

1
Giovanni Giudici, Poeti fra le macchine. Alla Olivetti la parola era design, «la Repubblica»,
edizione di Milano, 28 ottobre 1992; il testo è stato successivamente ristampato con il titolo Stile
Olivetti, in Giovanni Giudici, Un poeta del Golfo. Versi e prose di Giovanni Giudici, Longanesi, Mi-
lano 1994, pp. 263-265. Con l’articolo era presente il seguente sommario: «Una nuova “incursione”
del poeta Giovanni Giudici nella città della memoria e della memoria della cultura e delle lettere in
particolare. Dopo il ritratto di Vittorio Sereni, voce milanese sui fronti di guerra, ecco il capitolo delle
alte frequentazioni che l’autore di “Salutz” e di “Fortezza” ebbe ai tempi della sua permanenza nella
Olivetti dell’ingegner Adriano. Le poesie di Giudici sono state raccolte un anno fa in due volumi degli
Elefanti Garzanti»; e un catenaccio: «alcuni famosi manifesti dei prodotti Olivetti a cominciare dal
disegno realizzato da Savignac nel 1954 per la portatile “Lettera 22” qui accanto. In basso a sinistra e
a destra pubblicità e copertine firmate da Pintori negli anni Cinquanta».

L’ospite ingrato ns 6
190 Giovanni Giudici

Io posso appena cercare di raccontare che cosa stesse a farci un poeta in


un’industria con la quale aveva in comune, almeno in apparenza, soltanto una
cosa: la scrittura.
Non ero il primo, l’ho già detto. A parte Sinisgalli (morto a Roma nel
1981), a Milano ero stato preceduto da Franco Fortini: a lui si dovevano gli
impeccabili copy degli annunci pubblicitari della Olivetti di quegli anni: sem-
bravano quasi poesie.
Sbarcato io qui un quattordici di luglio del 1958 (la mia piccola «presa del-
la Bastiglia»), me lo trovai dirimpettaio in una grigia stanza di via Baracchini,
sede decentrata dove operavano i grafici coi loro collaboratori: Giovanni Pin-
tori, artista che metteva al servizio del messaggio una forte immaginazione
cromatica; e Walter Ballmer, Franco Bassi, Giovanni Ferioli…
Egidio Bonfante disegnava le architetture d’esposizione e faceva, per suo
conto, il pittore.
Non di rado venivano commissionati lavori ad artisti stranieri di chiara
fama: Savignac, André François, Paul Rand e, in seguito, Jean-Michel Folon,
Milton Glaser e altri. Anche Leo Lionni firmò più di un bozzetto.
Non è facile improvvisarsi copywriter. E anch’io, per qualche tempo, do-
vetti tenermi nei limiti dell’apprendista: scrivere, per esempio, articoli pro-
mozionali come faceva (ma nella sede di via Clerici) anche Nello Ajello, re-
duce come me dalla breve avventura della «Via del Piemonte», un settimanale
varato da Olivetti a Torino tra il ’57 e il ’58.
In più scrivevo opuscoli d’istruzione per l’uso delle macchine, curando
anche le bozze delle loro traduzioni nelle varie lingue (finlandese e turco non
esclusi).
Fortini non era tenuto a un orario: era già un consulente; e, nelle non rare
pause, un facondo conservatore. Mi parlava di Hegel e di Lukács, del Manzo-
ni e di Giacomo Noventa.
Dovevamo trovare anche i nomi delle macchine. I più belli restano quelli
di Fortini: come «Lettera» o anche «Lexikon», dove una delle ragioni di quel-
la «K» fu di evitare il finale in con, che sarebbe stato, per il mercato francese,
tra l’osceno e il ridicolo.
Come si sa, con significa in francese due cose: l’organo sessuale femminile
e, per singolare traslato, l’individuo a cui si dà (in italiano) del «coglione».
Quanto a me, credo che il nome migliore che ebbi a proporre fosse Mer-
cator, utilizzato prima per una fatturatrice elettronica di modesto successo e
poi trasferito a un registatore di cassa: mi era disceso da un «mercatores ven-
titant» del Bellum gallicum durante un mio andare e venire (appunto: «ven-
titare») tra via Baracchini e via Clerici. Quei «mercatores» attraversavano il
Reno; io, la piazza del Duomo.
Ma «stile Olivetti» voleva dire anche, e forse soprattutto, design: parola
inglese che, mal-tradotta come «disegno industriale», significa «progetto».
Poeti fra le macchine 191

Principe del design Olivetti era, a quel tempo, Marcello Nizzoli, inventore
di forme-macchina come la «Lexikon 80» e la «Lettera 22» («un parallelepi-
pedo puro» diceva lui di quest’ultima).
Anche Nizzoli è morto, ma altri designer gli erano succeduti: Sottsass,
Bellini, Bonetto e altri. Il concetto di design non va confuso con l’idea di «ab-
bellimento», che gli è addirittura antitetica e che corrisponde un po’ a quello
che in inglese è definito, con lieve sfumatura di spregio, styling.
Design è messa al bando del superfluo, per cui ogni «forma» deve essere
giustificata da una precisa funzione: Sottsass, per esempio, mi faceva notare
che una delle sue preoccupazioni, nel design di una certa macchina, era sta-
ta di ridurre al minimo il numero delle viti da svitare per accedere, in caso
di riparazione, ai congegni interni. Un modo, insomma, per economizzare:
tempi, fatica e costi.
Fra i grafici intorno a Sottsass, c’erano il giovane Roberto Pieracini, oggi
contitolare, insieme a Nanni Cagnone, di un suo studio.
Con lui e Gigi Fruttero realizzammo una campagna bellissima per la por-
tatile «Valentine»: una «Lettera 32» travestita da sessantottina, che presenta-
va l’unico inconveniente di costare un po’ troppo per l’abito che indossava.
Succede.
Così questo poeta, che per quasi un quarto di secolo ha lavorato a Milano
in Olivetti, ha potuto imparare che tutto è design. Anche un testo pubblicita-
rio dove, non soltanto bisogna saper dire con un minimo di parole, e dunque
di spazio, che cos’è un certo prodotto, a che cosa serve e quali vantaggi può
comportarne l’acquisto, ma anche organizzare il suo posto nell’economia
grafica di una pagina, senza con ciò sminuire o alterare il messaggio.
In un blocchetto di testo crescono tre righe rispetto agli altri blocchetti
che lo affiancano? «Se proprio non le puoi tagliare, lascia pure che crescano»,
mi disse una volta Pintori. Non saprei dire se certe cose possano valere anche
oggi, epoca degli spot.
E ho imparato, infine, che anche un testo poetico è design: un design per
cui ogni componente (significati delle parole, suono, ritmo, possibili allusi-
vità) deve convergere nella determinazione di un oggetto che, al pari di una
persona, altro non sia e non possa essere che se stesso.
«Ma anche in ufficio scrivevi le tue poesie?», mi sono sentito domandare
qualche volta.
Sì, ne scrivevo; o comunque ci pensavo. Ma neanche pochi sono stati i
copy che inventavo stando a casa o andando in giro per una Milano che adesso
ci muore addosso di giorno in giorno.
AFF, Schema di proposta per un volume sulle strutture della cultura italiana (1949), XVII, 22.
Sergio Bologna

I poeti e la pubblicità.
Note su Fortini copywriter per la Olivetti1

Sono stato assunto alla Direzione Pubblicità e Stampa dell’Olivetti nel


gennaio 1964 e ci sono rimasto poco, due anni soltanto. Avevo incontrato
Franco Fortini nelle riunioni di redazione dei «Quaderni rossi» e dei
«quaderni piacentini», quando il suo rapporto con l’azienda di Ivrea si era già
concluso. Adriano Olivetti era morto nel 1960, e la sua eredità stava per essere
smantellata, ma quattro anni dopo, se c’era un luogo dove la sua memoria era
custodita ancora con venerazione, quello era la Direzione Pubblicità e Stampa
in via Clerici, a Milano, all’ultimo piano. La dirigeva Riccardo Musatti e per
segretaria aveva quella che era stata la segretaria personale di Adriano, una
figura leggendaria in azienda, partigiana combattente, un pezzo di donna che
m’incuteva soggezione ed alla quale non ero proprio simpatico.
Non ho avuto pertanto esperienza diretta del rapporto di Franco con
l’Olivetti; tra di noi ne abbiamo parlato pochissimo, perché quando entrai
all’Olivetti s’era già consumata la frattura nei «Quaderni rossi» ed io avevo
seguito Mario Tronti e Toni Negri nella preparazione di «classe operaia»,
mentre lui era rimasto legato ai seguaci di Panzieri che avrebbero fatto uscire
ancora alcuni numeri di «Quaderni rossi». Le nostre occasioni d’incontro
erano diminuite, restavano quelle officiate da Grazia Cherchi e Piergiorgio
Bellocchio. Pertanto, ne parlo solo per dire qualcosa dell’atmosfera che si
respirava in azienda e che anche lui deve aver respirato, per dire com’era
organizzato il nostro lavoro, un sistema aziendale nel quale anche lui ha
operato, e per cercare di trasmettere le sensazioni e le esperienze di chi si
trovava a fare quel mestiere in un ambiente così particolare e così raffinato.
Procedo per deduzione, quindi.
La prima cosa che ricordo è il grado di libertà e di autonomia che veniva
lasciato al lavoro «creativo». In tutto il palazzo di via Clerici solo i componenti
del nostro ufficio non timbravano il cartellino, Franco perdipiù stabilì
dopo un certo tempo un rapporto di consulenza esterna e quindi godette
di un’indipendenza ancora maggiore. Ma questo non voleva dire distacco,

1
Testo tratto da: Sergio Bologna, Ritorno a Trieste. Scritti over 80, 2017-2019, Asterios Editore,
Trieste 2020, pp. 314-315 (ringraziamo l’editore per averci dato il permesso di ripubblicare questo
testo).

L’ospite ingrato ns 6
196 Sergio Bologna

anzi. All’Olivetti si era costretti ad imparare tanto sul sistema aziendale,


l’organizzazione della produzione, i suoi livelli tecnologici, così da capire
meglio le caratteristiche del prodotto che l’inventiva del copywriter doveva
saper comunicare al mercato. Non bastava prendere atto delle caratteristiche
funzionali della macchina, la pubblicità doveva esaltare sia le sue performances
che l’estetica del design. Nella gerarchia dei valori creativi il copywriter non era
certo al primo posto: prima di lui c’erano l’ingegnere progettista, il designer,
il grafico. Il copywriter doveva sentirsi integrato in questo processo, doveva
essere consapevole che il suo talento artistico e letterario era subordinato alla
sapienza tecnica dell’ingegnere. Doveva sapere di quale catena era un anello.
Quindi meglio se fosse un impiegato, un dipendente con orario d’ufficio
uguale a quello della segretaria. Come Giovanni Giudici.
Per il mio comportamento indisciplinato (non riuscivo ad arrivare puntuale
alle 9) dopo alcuni mesi mi trasferirono in via Baracchini, nel laboratorio
di produzione della pubblicità. Era il regno dei grandi grafici, di Giovanni
Pintori, di Egidio Bonfante e là aveva la sua stanza Giovanni Giudici.
Nell’intervallo di pranzo – durava un’ora e mezza! – scendevo un piano e
lo andavo a trovare. Approfittava dell’intervallo per scrivere le sue poesie,
me le leggeva, mi chiedeva un parere, si parlava spesso di Franco, oggetto
privilegiato della sua amorevole ironia. Si parlava assai poco di lavoro perché il
mio mestiere era diverso dal suo e da quello che era stato il mestiere di Fortini.
Loro dovevano fare la pubblicità a dei prodotti di ampio mercato, io ero stato
catapultato nel settore dell’elettronica, dovevo comunicare le caratteristiche e
le performances dei calcolatori Elea 9001, macchine che avevano un mercato
limitato, erano installate presso poche grandi aziende. Non dovevo cercare
slogan accattivanti, dovevo progettare e scrivere pubblicazioni similtecniche,
opuscoli in grado di descrivere i servizi che quelle macchine svolgevano
all’interno di un’organizzazione complessa. Erano dei main frame, non
erano dei personal computer. Pertanto non mi era richiesto di avere un
talento letterario ma semmai una conoscenza dell’organizzazione del lavoro
o almeno una capacità di comprensione delle problematiche organizzative e
gestionali di una grande impresa. Imparai moltissimo, visitando le fabbriche di
produzione Olivetti e passando settimane intere nelle aziende clienti, tessili o
siderurgiche, meccaniche o farmaceutiche. Franco Fortini e Giovanni Giudici
invece dovevano inventare i testi da collocare esattamente nello spazio che il
formato scelto dal grafico ti lasciava, dovevano trovare il nome alle macchine
da scrivere e alle macchine da calcolo, dovevano trovare le parole con cui dare
un senso ad uno stand fieristico, dovevano creare un linguaggio che fosse
espressione e crittogramma. I poeti abituati ai vincoli della metrica, i poeti
epigrammatici, si muovono a loro agio nel mondo della pubblicità. Franco,
che dell’epigramma era un maestro, doveva eccellere in quel mestiere ma,
I poeti e la pubblicità 197

ripeto, s’era dovuto creare quel background di conoscenza dell’ambiente


sociotecnico di fabbrica che la frequentazione dei «Quaderni rossi», negli
anni dopo la morte di Adriano, gli consentirà di leggere con occhio marxiano,
con uno sguardo rovesciato. Si è parlato molto del rapporto tra Olivetti e gli
intellettuali; io penso che l’esperienza all’interno dell’organizzazione di una
grande industria ha avuto un’importanza decisiva nella sprovincializzazione
di una parte della cultura italiana. Se non come poeta, l’esperienza all’Olivetti,
proprio per queste sue caratteristiche, a mio avviso per Fortini ha avuto un
grande peso nel suo modo di essere un intellettuale, deve avergli dato una
carica di modernità che faceva la differenza rispetto a tanti suoi colleghi,
Pasolini compreso, rimasto ancora legato all’immagine di un’Italia rurale che
s’inurba ma rimane lontana dall’industria.
Nella Germania di Weimar più di uno scrittore si mise al servizio della
pubblicità, Frank Wedekind per i dadi e le minestrine Maggi, Bertolt Brecht
per la fabbrica di automobili Steyr, Erich Kästner per il suo giornale. E
tuttavia sin dall’inizio di questo rapporto tra talento letterario e pubblicità
ci fu chi lo giudicò un «tradimento». Un’accusa toccata solo ai copywriter,
a nessuno è venuto in mente di rimproverare i grafici. Non so come Fortini
giudicasse la sua collaborazione con l’Olivetti: se ne parla così poco vuol dire
forse che non ne era tanto orgoglioso? Non saprei rispondere, ricordo solo
di essermene andato di mia iniziativa, per non essere al servizio del capitale.
Uno stupidotto? Probabile, ma se non lo avessi fatto mi sarei perso il maggio
francese e l’autunno caldo.
L’Ospite
Rodolfo Zucco

Nove poesie (2019-2021)


Tornare

«Tornare
sul luogo del delitto…»

Pare
a proposito qui venire in mente questo
modo di dire, se è vero che quadri
sculture e affini altro non sarebbero
che delitti mancati – secondo la teoria
che vuole l’arte una forma deviata
dell’impulso di uccidere.
204 Rodolfo Zucco

I vombati

«I vombati di Dante Gabriel Rossetti


in pochi mesi erano morti tutti e due.
Il più famoso, Top,
crepò
perché s’era mangiato
una scatola intera di Montecristo
Numero 1.
Fu tassidermizzato,
esposto a imperitura
memoria e fatto oggetto di innumerevoli
bozzetti a carboncino, schizzi,
ritratti ad acquerello, silhouettes…»

Terrifiche
apparizioni dal profondo –
esseri informi e vermi-
colari – bocche tese o spalancate
si torcono in un urlo di disperazione e
raccapriccio sul rosso pompeiano
di un sangue coagulato: metamorfosi
delle figure alla base di una
crocifissione.
Nove poesie (2019-2021) 205

Ordine

«Un incrocio
di tre fili d’acciaio – una base
ramificata, un fusto verticale
diritto, intersecato alla
sommità
da un ramo orizzontale a ghirigoro: un albero:
la vita stessa ricondotta a
geometria sostanziale, infinitamente
riproducibile e infinitamente
misteriosa…»

Ma ora
l’intonaco giallastro e sporco viene via
a pezzi e la credenza è invasa da un’accozzaglia
di oggetti che non hanno alcun legame
col loro scopo primitivo: pile
di vecchi giornali e riviste, giocattoli
rotti, pezzi di biscotto, uno
spazzolino da denti: «Non è facile, sa,
con un bambino: non si fa
che rimettere in ordine».
206 Rodolfo Zucco

Il gatto rosso

«È strano
partecipare disarmati
al sorgere di una catastrofe volendone
essere testimoni. Ci attraversano
passioni contrastanti…»

Due blocchi neri, di una simmetricità


sovrana e rigorosa.
Ma è lo spazio della loro assenza
a far paura – il vuoto
che lasciano e che forma
una voragine, un cunicolo
verticale.

Sull’alto di questa fragile


profondità c’è un gatto rosso.
Si affaccia, scruta il fondo
dove giace una testa. Sembra
la testa di una bambola.
Nove poesie (2019-2021) 207

Ricordo

«Era bellissimo.
Ricordo che una sera lo incontrai
al bar di un hotel di non so più
quale città. Era appoggiato al banco
e mi dava le spalle: alto, bianco
elegantissimo: un attore
del cinema, un dio. Pensai Chissà
che cosa beve un uomo
così. Mi avvicinai e lo sentii ordinare una
camomilla…»

Mia madre mi prese per mano e io sbirciai


di sottecchi il suo viso e quello di papà
cercando di capire
se quello che accadeva era normale, se
se lo aspettavano – e se sapevano
che cosa sarebbe successo.
Mio padre si voltò
verso di me ridendo e disse: «Oggi
non piove: è già qualcosa».
208 Rodolfo Zucco

Bronzo

«Intorno alle 14 di ieri


un’esplosione violentissima – una colonna
di fumo si è alzata dalla ADLER PLASTIC.
La zona devastata, la parte degli uffici
crollata, le finestre delle case intorno
divelte. Un dipendente è morto.
Altri due sono stati feriti…»

Fuori
le urla dei bambini: sulla spiaggia
è arrivata una foca.
Il profilo che affiora dall’acqua
è una curva perfetta –
sembra fatta di bronzo.
Nove poesie (2019-2021) 209

La vita degli insetti

«Lasciarsi intenerire da un insetto:


è possibile? La vita degli insetti
è un inferno. Per quel che ne sappiamo.
Eppure ci dev’essere un perché…»

Qui tra bambini nudi che si rotolano


nel fango squallidi venditori espongono
scarti di altri mercati,
frattaglie di arredi trafugati
da palazzi in rovina, tra gli effluvi
di calderoni dove
sobbollono molluschi giganteschi,
sbobbe di alghe.
210 Rodolfo Zucco

Evitare

«Evitare
lo sguardo dell’autostoppista.
Evitare gli sguardi reciproci per non trovare
nel viso dell’altro l’immagine
della propria riprovevole pigrizia.
Evitare un’inconfessabile
complicità…»

Non incontro
più nessuno da anni. È così.
E le lettere
non le apro neanche: non si sa mai
cosa può esserci scritto.
Magari sei tu che mi scrivi
che non puoi più venire.

Cosa dovrei rispondere?


Nove poesie (2019-2021) 211

Un’espressione

«Tutto è venuto dal colore: il nero


soprattutto – o forse
il grigio dei capelli
sullo sfondo violaceo?
Il volto della donna sembra esprimere
un sentimento tra il disgusto
e la rassegnazione – un’espressione
che coglie chiunque di noi
quando posiamo controvoglia
per una fotografia ufficiale…»

Io
non ho che dirvi
né voglio che mi rescriviate niente.
Archivio
Alberto Saibene

Fortini e Olivetti

Ricostruire i rapporti tra Franco Fortini e la Olivetti, ma prima ancora


tra Fortini e Adriano Olivetti, significa osservare da una prospettiva inedita
le trasformazioni del nostro Paese nella parte centrale del XX secolo. Fortini
conosce Olivetti nel 1938 a Milano. Dopo l’incontro Adriano gli chiede di
mandargli in copia i versi e i raccontini con cui l’allora ventunenne Franco
Lattes si affaccia sulla scena letteraria. Nel 1940, quando le leggi razziali han-
no reso precaria la sua posizione lavorativa, Fortini gli chiede una mano. Il
tramite è Piero Calamandrei, collega dell’avvocato Lattes, padre di Franco.
Non accadrà nulla, ma i due si ritrovano esuli a Zurigo, nel 1944. Sono insie-
me il giorno dello sbarco in Normandia. Olivetti è impegnato nella stesura
de L’ordine politico delle Comunità; Fortini, completata l’educazione lette-
raria, sta compiendo la sua educazione politica e sentimentale. Li accomuna
un’inquietudine, un’ansia di ricerca, per le cose dello spirito. Nel dopoguerra
Fortini tradurrà per le Edizioni di Comunità Simone Weil, Kierkegaard e
Charles-Ferdinand Ramuz. Non sappiamo se i due si ritrovano nella Milano
liberata del 1945; fatto sta che, finita in modo traumatico l’esperienza del
«Politecnico», Fortini chiede di nuovo aiuto all’industriale piemontese, che
questa volta lo assume alla Olivetti, a patto che si trasferisca a Ivrea. «Quando
andai per la prima volta me ne ritrassi abbastanza rabbrividito […] andare a
Ivrea voleva dire isolarsi». È il settembre 1947 ed è in carica il quarto governo
De Gasperi, il primo senza le sinistre al governo (Fortini, come noto, ha la
tessera del Partito socialista, allineato al PCI fino al 1956). Si preparano le
elezioni politiche dell’aprile 1948, le prime dell’Italia repubblicana. Fortini
con la moglie Ruth va a vivere nel Villaggio Olivetti; loro vicini di casa sono
Franco Momigliano – «un uomo fra i migliori della nostra generazione», già
valoroso comandante partigiano in Piemonte, reduce, come molti intellettuali
olivettiani, dall’esperienza del Partito d’azione – e la moglie Luciana Nissim,
che fu con Primo Levi ad Auschwitz. Difficile che si parlasse dei ricordi di
guerra in quelle serate canavesane. Olivetti stava arruolando una schiera di
intellettuali per costruire un mondo nuovo, un laboratorio dove dare forma a
una modernità di nuovo conio. Come ha dichiarato Renzo Zorzi, l’olivettiano
di più comprovata fedeltà: «Adriano nei primi anni del dopoguerra aveva re-
clutato un gran numero di letterati a cui faceva svolgere mansioni per le quali

L’ospite ingrato ns 6
216 Alberto Saibene

non esistevano ancora professioni specifiche. Li chiamava dunque perché, fra


gli intellettuali, erano, in fondo, i più intelligenti, i più aperti, i più moderni».
O, detto in altro modo, erano i meno specializzati, quindi i più versatili. For-
tini riceve il compito di scrivere un testo, che poi diventerà un documentario,
dal titolo Visita ad una fabbrica (1950). Ha così modo di osservare una gran-
de fabbrica meccanica dall’interno, reparto per reparto, un’occasione allora
molto rara tra gli intellettuali italiani (Daniele Balicco). Dal testo si capisce
che quello che Fortini e Olivetti hanno in comune è considerare la fabbrica
il luogo generatore della modernità, lo strumento primigenio per cambiare
le strutture della società italiana (all’epoca la nostra è ancora una nazione
in prevalenza agricola). Negli schemi della lotta di classe, tuttavia, Olivetti,
come padrone, rimane un nemico, e lo diventa ancora di più dopo la delusio-
ne delle elezioni politiche dell’aprile 1948. Il 14 luglio di quell’anno, a seguito
dell’attentato a Togliatti, Fortini fomenta l’insurrezione a Ivrea. I risultati
sono, come è ovvio, nulli, ma la sua presenza non è più gradita, almeno attor-
no alla fabbrica. Fortini ha poi ricordato tante volte come in quell’occasione
poté misurare: «la generosità, l’ampiezza di cuore e di intelligenza di Adriano
Olivetti, perché qualsiasi altro industriale mi avrebbe cacciato sui due piedi,
per le noie che gli stavo procurando, e invece dopo una intemerata telefonica
piuttosto aspra Olivetti mi condannò – mi condanno sì, ma facendomi un
regalo straordinario, cioè trasferendomi a Milano, alla pubblicità». All’inizio
non gli è tanto chiaro quello che deve fare. Protesta con Giovanni Enriques,
uno dei massimi dirigenti dell’azienda: «Mi si vuol forse pagare la consulenza
perché trovi il nome di battesimo delle macchine e degli “slogans”?». Ha già
dato il nome alla Lexikon, sarà poi la volta della Lettera 22, più avanti della
Tetractys e dell’Elea. Come esercizio di sintesi forse lo soccorre il ricordo dei
brani di Cesare e Tacito tradotti al liceo. Fortini usa le lingue classiche – l’O-
livetti è già una multinazionale e i nomi devono risuonare uguali in tutto il
mondo – come oggi si usa l’inglese.
Pur tra crisi e distinguo, inevitabili nel caso di Fortini, la collaborazione
diviene molto proficua nel corso degli anni Cinquanta. La posta in gioco è
alta: si tratta di inventare una tradizione della modernità, o, per dirla con
Antonella Tarpino, «un classicismo del nuovo». O ancora, come suggerisce
Barbara Carnevali, si tratta di rendere la modernità più dolce. È la premessa
del cosiddetto “Stile Olivetti”, che ha i suoi prodromi nell’ufficio pubblicità
milanese retto da Leonardo Sinisgalli sul finire degli anni Trenta, ma che si
precisa nel corso degli anni Cinquanta. Intensa è la collaborazione col grafi-
co principe dell’azienda, Giovanni Pintori. Nell’affiatamento tra i due conta
probabilmente anche la formazione pittorica di Fortini e la qualità dell’eser-
cizio in proprio in campo grafico. Ex post si è tentati di accostare il Fortini
creatore di slogan pubblicitari (la Lettera 22 è «leggera come una sillaba /
Fortini e Olivetti 217

completa come una frase») all’implacabile epigrammista, ma, in realtà, altre


mi paiono le conseguenze più durevoli dell’esperienza olivettiana di Fortini.
La prima, più tecnica, è il travaso del mestiere di copywriter nella produzione
poetica. «Un’esperienza di metrica» ha poi sintetizzato (e alle spalle sembra
di scorgere il temuto Contini). O, più distesamente: «per un lungo periodo,
la mia occupazione è stata soprattutto l’invenzione della misura degli slogans
per poi seguire le traduzioni in altre lingue».
La seconda conseguenza è di carattere più generale. Una possibile data
d’inizio della società dei consumi nel nostro Paese corrisponde al lancio sul
mercato della Fiat 600 (tra i primi clienti ci fu lo stesso Fortini). L’anno è il
1955 e la FIAT affida la realizzazione del manifesto pubblicitario a Felice
Casorati: un grande artista che avrebbe dovuto nobilitare con il suo nome un
prodotto industriale rivolto alle masse. In quel momento la Olivetti è avanti
anni luce. Attraverso il lavoro dell’ufficio pubblicità, coordinato con l’ufficio
vendite, la missione è accompagnare chi compra, il futuro cittadino consu-
matore, verso l’atto responsabile dell’acquisto. Una macchina per scrivere è
un investimento sul futuro dei propri figli, una macchina da calcolo sveltisce
qualsiasi pratica aziendale o commerciale, e l’elettronica è, secondo le dichia-
razioni di Adriano Olivetti, la porta d’ingresso a una nuova forma di moder-
nità che libera l’uomo dalla schiavitù dei gesti ripetuti. L’insieme suggerisce
l’ipotesi di una via italiana a una forma di consumismo consapevole di cui
l’Olivetti si propone come battistrada. Nel 1958, nel bellissimo volume che
celebra i 50 anni dell’azienda di Ivrea, Fortini scrive: «Anche la pubblicità
è un servizio e […] la qualità stilistica ed estetica non è solo uno strumen-
to di persuasione ma una responsabilità». Nello stesso anno Carlo Fruttero
traduce per Einaudi I persuasori occulti di Vance Packard, il primo grande
libro sul mondo della pubblicità, precoce nel rivelare il pericolo di un suo uso
distorto e il conseguente rischio per le libertà individuali. Il tema è oggi più
che mai attuale, ma la proposta olivettiana di una via italiana alla modernità
perde slancio dopo la morte di Adriano (1960), e anche il lavoro di Fortini per
Olivetti diviene più routinario. L’impressione è che l’intellettuale fiorentino
abbia compreso a fondo l’eccezionalità di quell’esperienza, la sua irripetibili-
tà, solo molti anni dopo, quando i giochi ormai erano fatti.
Due poesie di Franco Fortini
Olivetti

Olivetti
Produce l’unico calcolatore esistente
che non esegue solo le quattro operazioni
e il saldo negativo
ma scrive addendi totali fattori prodotti
dividendi divisorio quozienti e resti
e mi fa vivere.

Controllare un calcolo non scritto


vuol dire doverlo ripetere.
Invece la scrittura
dà l’immediata verifica
di ogni elemento delle operazioni.
È riprova, documento
risparmio di tempo e fatica
garanzia di esattezza.
Io lo so bene.
Per questo scrivo.

Archivio Franco Fortini, [1] c.; 29,5x21 cm. – Stampa da p.c. XXX, 5, 136.
222 Archivio

A metà1

A metà della strada – come avviene


Che i nidi di calce e di polvere, gli incastri
Si disfanno alle spalle, dei sobborghi, e le scene
Della campagna senza parola si illuminano;

A metà della strada – fra una città e l’altra


Fra una stazione e l’altra, fra due ore di notte
Quando non sai perché vai o ritorni
E rotto alla nuca il filo della ragione
Scendi fra i vecchi giornali e parole di fumo;

A metà della strada – quando il comando è lontano


E il foglio scritto è sbiadito di pioggia
E la battaglia è un’eco e la notte precipita
E chi porta il messaggio ha l’affanno del disertore;

A metà della strada – fra due distanze


Quando memoria e previsione hanno taciuto
Tra la fine del fiume e il principio del mare
Fra due orizzonti eguali e assoluti…

1
«Comunità», 3, 2, marzo-aprile 1949, p. 59 (poi in F. Fortini, Poesia ed errore, Feltrinelli, Milano
1959, p. 118; Id., Poesia e errore, Mondadori, Milano 1969, p. 60; ora in Id., Tutte le poesie, Monda-
dori, Milano 2017, p. 102).
Dal carteggio di Franco Fortini
(1940-1963)
Piero Calamandrei a Franco Fortini

Poveromo, 4.VIII.40

Caro Lattes,
ho scritto subito all’ingegner Olivetti, come d’accordo. Per ora non mi ha
risposto, ma spero che abbia risposto o che risponderà presto a lei in modo
indipendente. Saluti affettuosamente il babbo1 da parte mia, quando gli scri-
ve. Non si scoraggi: sono queste le contingenze in cui si provano gli uomini.

Io avrei intenzione di non tornare a Firenze per tutto agosto; ma se in


questo frattempo Ella avesse bisogno di me, anche nel senso che per superare
questo periodo di assestamento le occorra un’altra mia «amichevole» spinta,
Ella sa che mi dorrebbe molto se si ritenesse dall’avvertirmi. Appena avver-
tito, troverei modo di far provvedere a qualcuno del mio studio rimasto a
Firenze.

Ho dato i suoi saluti al mio Franco2.

Un’affettuosa stretta di mano dal


Suo

Pietro Calamandrei

AFF., [1] c.; 29x22 cm. III,6,1.

1
Dino Lattes (1888-1962), avvocato, probabile tramite per Olivetti presso Calamandrei (con cui
aveva rapporti professionali ma anche di ambito politico); in quel periodo in carcere come «ebreo
pericoloso» (cfr. Cronologia in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di
Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Mondadori, Milano 2003).
2
Franco Calamandrei (1917-1982), coetaneo e amico di Fortini, partecipò alla Resistenza, fu
redattore del «Politecnico» e de «l’Unità» e senatore in varie legislature.
226 Archivio

Piero Calamandrei a Franco Fortini

Poveromo per Ronchi


(Apuania)
24-VIII-40

Caro Lattes,

non ho risposto prima alla Sua lettera, perché speravo di vedere in questi
giorni il direttore della Azienda Olivetti1 che, in risposta alla mia lettera, mi
aveva cortesemente scritto preannunciandomi una sua visita. Ma poiché non
è più venuto, comincio a ritenere che la sua gita qui sia stata differita.
Intanto io riterrei che, se proprio non Le è di molto scomodo fare di per-
sona il viaggio al quale egli l’ha invitato, un colloquio con lui non possa che
essere utile, perché Ella potrà spiegargli a voce con tutta franchezza le sue
possibilità di lavoro. Da come mi è stato descritto, credo che sia persona pie-
na di comprensione e amante della franchezza: mi parrebbe quindi opportu-
no che Ella gli spiegasse senza lacune la Sua situazione.
Un’affettuosa stretta di mano dal Suo

Piero Calamandrei

AFF., [1] c.; 29x22 cm. – Ds. F.to su carta intestata. Sul r. annotazioni a matita. III, 6, 3.

1
In quel periodo Direttore Generale alla Olivetti era Giuseppe Pero.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 227

Franco Fortini ad Adriano Olivetti

Ivrea, il 21 settembre 1948

All’ing. Adriano

Conoscenti comuni mi han detto di attribuire ad un mio articolo1 la tua


volontà di non aver con me altri rapporti oltre quelli di impiego. Volontà
espressa in modo difficilmente dimenticabile dalla tua ultima telefonata. Cre-
do, con questa lettera, di non andar tuttavia contro tale volontà; né infatti le
aspetto risposta. Ma una richiesta, pressante, prima di continuare: voglia tu
credere alla amarezza e al dolore mio di questi giorni, pensando alla amarezza
provata da te. Il resto, in questa lettera è certo meno importante.
Debbo tuttavia chiarire qualcosa, per rispetto verso di me e per giustizia
verso di te. Mi si dice che tu abbia letto in quell’articolo una scorrettezza
grave da parte mia, per aver reso pubblico un tuo privato parere. Pure, era
stata mia cura allontanare il passo relativo alla «provincia» da quello relativo
all’«uomo assai noto che» ecc. E solo persone a noi molto vicine potevano
ravvisare in quelle parole il tuo nome. E, soprattutto, quel tuo parere era pre-
sentato come [singolare] o strano, ma come uno dei tanti consigli che ormai
(vedi il primo capoverso) sorgono anche dal profondo di noi stessi. Era, se
mai, documento di uno stato diffuso; e come tale citato da me; non, o non
appena, un privatissimo giudizio. Assimilare, come forse puoi fare, il mio
modo di agire, il mio modo di riportare una frase o una opinione che non
ha le qualità per essere firmata, con un vago accenno alle opinioni politiche
di chi l’ha pronunciata e con riferimento, in realtà, assai più a quelle opinio-
ni che alla persona portatrice; assimilarlo, dico, a quello del libellista senza
scrupoli o del diffamatore è tanto ingiusto che stento a crederlo possibile. Tu

1
F. Fortini, Un no fuori dai denti a Cristo trafficato, «Avanti!», 4 settembre 1948, p. 3 (poi in
«L’ospite ingrato», 2, 2006, pp. 166-168). Qui scriveva Fortini: «Anche pochi giorni fa, un uomo assai
noto in Italia fra gli “umanisti socialisti” consigliava a me e agli intellettuali di “sinistra” in genere, lo
studio e il silenzio. Non seppi rispondergli. Ricordavo gli anni del nostro silenzio o delle parole vane
che lo avevano voluto colmare, gli anni della vergogna. Oggi dunque prudenza!».
228 Archivio

sai – e l’ho scritto – che non mi piace ammantarmi di moralità. Ma sai anche
che se (come tu probabilmente pensi – spesso a torto – dei comunisti, ai quali
– certo a torto – mi assimili) davvero per noi i mezzi non contassero, non già
con la troppo patetica sintassi e con le preterizioni di quell’articolo io mi sarei
espresso. E a che scopo poi? Per gettare il discredito politico su di te? Via! Un
libellista simile sarebbe davvero un pover’uomo che non sa il suo mestiere, un
untore meschino.

Se qualcosa valgono poi le prove e le parole, ti dirò che l’articolo fu spe-


dito da me da Firenze, otto giorni dopo la nostra conversazione di Bocca di
Magra, all’«Avanti!» di Milano, dov’era davvero difficile che i tranvieri di
quella città, notoriamente socialisti, distinguessero nelle mie righe il nome
Olivetti. Poi, come talvolta avviene, l’articolo fu, a mia insaputa, ripreso col
titolo mutato, dal sempre «Avanti!» di Torino. Ma qual era l’origine di quella
allusione, e dell’articolo e della sua collera? In verità, per me, la crisi dei nostri
rapporti datava da quella tua serata a Bocca di Magra. Alle mie lettere (che
riconosco, certo, eccessive) tu avevi risposto con un fare distaccato, come si
fa con un energumeno. Da quella conversazione sono poi uscito con l’im-
pressione agghiacciante di chi non riconosce più la persona con la quale si sta
parlando. Fino allora, nelle nostre casuali conversazioni, si era potuto dissen-
tire, anche profondamente, nelle nostre valutazioni politiche; tuttavia «salvo
il galantuomo», come si dice. Cioè, io sapevo che dietro Adriano Olivetti
antifascista, mecenate di artisti e di giornali all’avanguardia, sé dichiarante
vicino a certe posizioni socialiste ecc., uomo aperto, insomma, non c’era sol-
tanto la durezza del capo di una grande industria, quella specie di dispregio
finale per i menestrelli che si scopre, quando dormono o si sfrenano, sui visi
dei potenti del mondo; e tu sapevi, o pensavo che tu sapessi, che dietro i furori
e gli sproloqui miei, in quel mio mischiarmi, con una demagogia che forse più
di ogni altra cosa t’è dispiaciuta, con i «ladri» e con gli «assassini», c’era pure
una volontà appassionata di «protesta» nel senso per il quale ci si dice «pro-
testanti»; una ambizione di integrità. Ma tutto questo, m’era parso sparire in
quella nostra conversazione. Era la prima volta che ti sentivo parlare al modo
che parlano appunto i diplomatici o gli uomini d’affari; «politicamente», cioè.
Le tue dichiarazioni di «scelta», le affermazioni sulla «immoralità» comuni-
sta, ad esempio, erano tanto candide e tanto enormi, da diventare, da essere,
inavvertitamente offensive, per l’intelligenza della persona con la quale parla-
vi, che, per quanto giovane, qualche anno allo studio dei rapporti fra morale
e politica l’ha dedicato. Io – e anche questo è forse un mio errore – mi rifiuto
tuttora di credere che tu possa davvero pensare certe cose «in quella forma»,
con quel semplicismo; che tu possa emettere quei giudizi con tanta illimita-
ta fiducia («alla mia anima ci penso io»: forse una bestemmia, Adriano!). E
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 229

mi sorprendeva, offendendomi, sentire che, in fondo, ricorrevi ai medesimi


argomenti di autorità (l’appetito peggiore di Berdjaev2) che aveva udito sulle
labbra di tuo fratello Massimo: l’età, l’esperienza, lo studio. Argomenti che
hanno certo il loro peso ma che hanno in comune una caratteristica: non si
può loro opporre nulla. A chi dice di essere una montagna non si può opporre
nulla per la buona ragione che con la montagna non si discute.
Ma ti sento dire che io ti avevo accusato, nelle mie lettere – a torto. Cer-
to, nell’irritazione di quel mare di calunnie concentriche che era sopravvenuto
dopo la tua partenza, posso aver ecceduto. E, certo, ciascuno è bene responsa-
bile delle sue azioni né io ho cercato di ripararmi dietro la tua autorità; nemme-
no, perdìo, con quell’ultima telefonata, che voleva, davvero e solo, una infor-
mazione. Ma le ingiurie più grossolane o meschine; e l’ostilità in fabbrica non
erano forse state rese possibili anche, e voglio dire, anche solo in parte, per il
fatto che si è supposto che l’ing. Adriano non potesse o volesse avallare, non
diciamo le idee politiche, ma la persona morale di quel «filibustiere piovuto di
chissà dove»? Una certa difficoltà, per me, a intendere l’evoluzione del tuo pen-
siero, abbastanza parallela, negli ultimi tempi, alla opinione pubblica italiana
ufficiale. Ho avuto il torto di non capire due cose: la prima, che in una persona
delle tue responsabilità pubbliche la cordialità e le stime private da una parte e
gli atteggiamenti pubblici nati da quelle responsabilità tendono necessariamen-
te a coincidere. La seconda, che in te (in molti) c’è una irresistibile tendenza,
arrivati a un certo punto precedente il «punto di rottura», a trasferire il giudizio
dal piano politico a quello morale, a condannare moralmente, a squalificare
moralmente l’avversario politico. Se avessi capito la prima cosa, avrei capito il
tuo atteggiamento di neutralità; non mi sarei aspettato, (come invece mi sono
aspettato) rimanendo poi amareggiato, che tu mi dicessi, a Bocca di Magra: «Si,
hai ragione, sono dei cialtroni, però, guarda, ho delle responsabilità, non posso
permettermi che si dica che prendo le parti di un “comunista”, credi alla mia
amicizia e vedi di sbrigartela come meglio puoi».
[…]
Mi recai a Firenze. E a darmi consigli di silenzio e di prudenza fu allora
mio padre. Narrandomi intanto storie quasi incredibili di arbitri polizieschi
successivi al 14 luglio, dei quali, come avvocato, era a conoscenza. Da quelle
sue parole in fondo, ben più che dalle tue, nacque quell’articolo. Dove non
c’è disprezzo: c’è ira. Dove il «rifiuto» del «vostro» non è appena il rifiuto del
mondo delle contraddizioni capitalistiche ma il rifiuto di tutta la slealtà e il
sangue venduto e pesato e mentito.

2
Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev (1874-1948), filosofo e scrittore russo. Dissidente anticomu-
nista, espulso dalla Russia dai Bolscevichi nel 1922, emigrò in Francia, dove visse fino alla morte. Fu
uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo e dell’anarchismo cristiano; nel 1947 le Edizioni di
Comunità avevano pubblicato Spirito e libertà. Saggio di filosofia cristiana.
230 Archivio

Insomma, che in quelle parole tu vi ravvisi opinioni nettamente contra-


stanti con le tue e con la luce di mezzogiorno che le bagna, lo concedo. Che
quelle opinioni mi assimilino a quella immagine del comunista-immorale-e-
senza-scrupoli-servo-del-partito che altri, con una letteratura spaventapasse-
ri, ha foggiato nell’ipocrisia per mascherare, a forza di moralismo, la dura ul-
tima istanza, il duro ultimo aut-aut del socialismo – lo nego. Che, soprattutto
si possa parlare di scorrettezza e di abuso di fiducia, lo rifiuto.

AFF, [3] c.; 29x21 cm. – Ds. con aggiunte e cassature autografe. X, 13,2.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 231

Franco Fortini a Giorgio Soavi [1949]

Milano, 16 [ott.] domenica sera

Caro Giorgio1,
sono andato a comprarmi «Botteghe Oscure»2.
Malinconia e vanità umiliata, naturalmente. Scarsissimo senso delle proprie
cose, eccetera. Oltre alla tua prima, l’ultima ha parti molto buone3. Capisci, il
«discorso», il modo del discorso, del «parlato» mi persuade poco (come poco
mi persuade in Mazzocchi4), mentre, all’interno di quello, indipendentemente
dal meccanismo che lega le immagini, hai cadenze, passaggi, fiati molto tuoi,
cioè nuovi, non più eco di qua e là. Mazzocchi ha qualcosa di molto generoso,
mi pare, «Suoni Albeniz» e altri passaggi, ma troppo presto spenti.
Il Montale5 – ha sempre alcuni versi molto notevoli, ma non pare che l’a-
mor nuovo (così pare) gli dia se non in superficie, in una volgarizzazione di
certi motivi che aveva benissimo esasperati in Finisterre. Ho letto anche il
Landolfi6, inferiore (eccetto qualche parte) al migliore.
Veniamo a «Comunità». Io devo proprio resistere alla tentazione di man-
dare al «Ponte» uno scritto sulla polemica Silone-Togliatti7 dove direi la mia
a tutti e due, al loro intollerabile – e identico – moralismo.

1
Giorgio Soavi (1923-2008), scrittore, critico d’arte, entrò in Olivetti prima come direttore del-
la rivista «Comunità», dal 1948 al 1952; in seguito (dal 1952 al 1956) della casa editrice delle Edizio-
ni di Comunità. Dal 1956 e fino agli anni Novanta fu il direttore dell’ufficio «Corporate Identity».
Tra i suoi romanzi di maggior successo si ricorda Un banco di nebbia (Mondadori, Milano 1955), il
cui titolo fu suggerito da Fortini. Per ulteriori notizie vedi il sito https://www.storiaolivetti.it/ e G.
Soavi, Adriano Olivetti, una sorpresa italiana, Rizzoli, Milano 2001, pp. 53-60.
2
È del 1949 la collaborazione di Fortini, tramite Giorgio Bassani, a «Botteghe oscure. Rivista seme-
strale di letteratura internazionale contemporanea»: F. Fortini, Poesie: Per una raccolta di versi, Falso so-
netto, Dichiara e scrivi, L’officina, L’amicizia, Alla moglie, «Quaderno IV», II semestre 1949, pp. 99-103.
3
Giorgio Soavi, Poesie: All’angelo custode, Figli, giovani morti, Viaggiatori, Io lascio il mondo,
All’amico, ivi, pp. 129-133.
4
Muzio Mazzocchi, Da «Suoni Albeniz»: Per il giorno di San Patrizio, Aprono un tempo…, A
mia sorella, La processione di Pasqua a Campi, Suoni Albeniz, Il telaio, Per B. conosciuta bambina e
ritrovata, Così, ivi, II semestre 1949, pp. 134-137.
5
Eugenio Montale, Poesie, ivi, pp. 9-11.
6
Tommaso Landolfi, Cancroregina, ivi, pp. 12-72.
7
Per la polemica a cui si riferisce Fortini (sui rapporti tra Silone e Pci) vedi «Comunità», 1, 5,
settembre-ottobre 1949, e la lettera di Togliatti su «l’Unità» del 6 gennaio 1950: Contributo alla psi-
cologia di un rinnegato. Come Ignazio Silone venne espulso dal Partito Comunista; nonché Polemica
Togliatti-Silone, «Comunità», 4, 6, gennaio-febbraio 1950, p. 9.
232 Archivio

Naturalmente, io non ho la minima idea di quali siano i libri di cui


parla il Geno8 nel numero in corso di stampa, il N° 69. Ne avrei bisogno.
Analogamente, avrei bisogno di sapere se è rigorosa la divisione estero-in-
terni.* Io vorrei, per poter fare una cosa ben fatta, che la rubrica «Biblio-
grafia letteraria»10 mi fosse affidata con i medesimi criteri di Pampaloni, la
cui forma vorrei proseguire, tanto più che ne sento dire un gran bene da
tutti.* In modo, dico, che avessi io, per l’atto di quel mio scrivere, a sapere
quali sono eventualmente le recensioni più lunghe extravaganti che Geno
o te o chi si sia vogliano fare; e non l’inverso. Non dico questo per vana
dignità; ma perché altrimenti la rubrica perderebbe la sua utilità, e unità.
In quanto ai libri: bisogna parlare, con una certa ampiezza, del «Doctor
Faustus» di Th. Mann11 (900 pag.!) che ho qui in tedesco e in italiano e che
leggeremo parallelamente con Ruth. Dei «Sette pilastri della saggezza» del
Lawrence Arabo12. Del «Tutti gli uomini del re» di Pen Warren13. Vedo an-
che Wiechert14, R. Hughes15. Un nuovo Gr. Greene16, e un nuovo Wright17,
la ristampa di «Dove fu temprato l’acciaio» di Ostrowsky18, il libretto della
Panova19 («L’officina sull’Ural»), l’edizione Einaudi del Twain20.

8
Discepolo di Giacomo Noventa nella Firenze degli anni ’30 e da allora amico – non senza
ricorrenti dissidi – di Fortini, con il quale condivise l’esperienza della rivista «Ansedonia» (1938-
1941, poi «Lettere d’oggi»), Pampaloni fu assunto in Olivetti nel 1947 come direttore della biblio-
teca aziendale, e in seguito divenne direttore delle relazioni culturali e capo dell’Ufficio della presi-
denza. La figura di Geno Pampaloni a capo dell’Ufficio della Presidenza fu carismatica a tal punto
che la «Olivetti S.p.a.» nella caricatura fortiniana suonava: «Se Pampaloni Acconsente». Fortini gli
dedicò numerosi epigrammi (vedi L’ospite ingrato primo e secondo, in F. Fortini, Saggi ed epigram-
mi cit., p. 876). Il suo libro più noto è Fedele alle amicizie (Camunia, Brescia 1984; poi Garzanti,
Milano 1992). Vedi https://www.storiaolivetti.it. Un suo ricordo di Fortini, scritto all’indomani
della morte, apparve l’11 gennaio 1995 su «La Voce»: Caro Fortini, p.3.
9
«Comunità», 1, 6, ottobre 1946.
10
Fortini curò su «Comunità» la rubrica di recensioni «Bibliografia letteraria» a partire dal n. di
marzo-aprile 1950 fino all’aprile 1954: vedi di seguito la Bibliografia.
11
Vedi la Bibliografia.
12
Thomas Edward Lawrence, I sette pilastri della saggezza, trad. di Erich Linder, Milano, Bom-
piani, Milano 1949.
13
Robert Pen Warren, Tutti gli uomini del re, trad. di Lugi Berti, Bompiani, Milano 1949.
14
Ernst Wiechert, Il campo dei poveri, Bompiani, Milano 1949.
15
Robert Hughes, Nel pericolo, Bompiani, Milano 1949.
16
Graham Greene, Un campo di battaglia, trad. di Fluffy Mazzucato, Mondadori, Milano 1949.
17
Come fu temprato l’acciaio (Как закалялась сталь) è un romanzo autobiografico dello scrittore
ucraino Nikolaj Ostrovskij (1904-1936), pubblicato nel 1932 in lingua russa e in italiano nel 1945;
Fortini si riferisce alla riedizione del libro da Mondadori nel 1949.
18
Vera Panova, L’officina sull’Ural, trad. di G. Langella, Einaudi, Torino 1949.
19
Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer e di Huckleberry Finn, trad. di Enzo Giachino,
Einaudi, Torino 1949.
20
Per l’editore milanese Cederna uscirono nel 1949: William Shakespeare, Amleto Principe di
Danimarca, tradotto per le scene italiane da Eugenio Montale; James Joyce, Poesie da un soldo.
Dall’Ulisse, a cura di Alberto Rossi; Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e altri scritti, a cura di Gior-
gio Zampa; Georg Trakl, Poesie, introduzione di Rodolfo Paoli, trad. di Leone Traverso; Samuel
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 233

Per gli italiani: traduzioni Cederna21, Coleridge, di Luzi22, Amleto, di


Montale23, George, di Traverso24. Il Tobino25, di «Meridiana». Il Vigolo26 di
Mondadori. C’è il Moravia27 di Bompiani («Amor coniugale»); la ristampa
di «Uomini e no»28, amputato dei corsivi; il nuovo Svevo29, un nuovo Co-
misso30, una ristampa delle vecchie poesie di Moretti31, una scelta di sonetti
quasi inediti del Belli32, il «Teatro religioso del medioevo straniero» a cura di
Contini33. E – la de Céspedes34.
A parte, qualcuno dovrebbe assolutamente parlare del 5° Gramsci, il vo-
lume politico sul Machiavelli35, eccezionalmente importante. Della ristampa
del Martinetti36 («Gesù e il cristianesimo») e di «Psicologia e alchimia» di
Jung37.
Questo risulta da una corsa in libreria, affrettata. Certo sarà opportuno
per il N° 7 parlare delle nuove riviste letterarie che, per allora, saranno uscite
a Firenze.
Dammi i tuoi lumi e ciao

Franco F.

* Con chi e come


* da troppi?

Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.

Taylor Coleridge, Poesie e prose, a cura di Mario Luzi; William Butler Yeats, Poesie, cur. Leone
Traverso.
21
Vedi la Bibliografia.
22
Vedi la Bibliografia.
23
Vedi la Bibliografia.
24
Vedi la Bibliografia.
25
Mario Tobino, ’44-’48, Edizioni della Meridiana, Milano 1949.
26
Vedi la Bibliografia.
27
Alberto Moravia, L’amore coniugale, Bompiani, Milano 1949.
28
Elio Vittorini, Uomini e no, Bompiani, Milano 1949.
29
Vedi la Bibliografia.
30
Vedi la Bibliografia. Nel 1949 di Comisso appaiono Gioventù che muore, Ed. Milano-Sera,
Milano e Viaggi felici, Garzanti, Milano.
31
Marino Moretti, Poesie scritte col lapis, Mondadori, Milano 1949.
32
Gioachino Belli, Li morti de Roma, presentazione e note di Ernesto Vergara Caffarelli; disegni
di Scipione, Ed. Milano-Sera, Milano 1949 (poi Parenti, Firenze 1949).
33
Teatro religioso del Medioevo fuori d’Italia. Raccolta di testi dal secolo VII al secolo XV, a cura
di Gianfranco Contini, Bompiani, Milano 1949.
34
Alba De Céspedes, Dalla parte di lei, Bompiani, Milano 1949.
35
Antonio Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi, Torino
1949 (Opere di Antonio Gramsci, vol. V).
36
Piero Martinetti, Gesù Cristo e il cristianesimo, Denti, Milano 1949.
37
Carl Gustav Jung, Psicologia e alchimia, trad. di Roberto Bazlen, Astrolabio, Roma 1949.
234 Archivio

Franco Fortini a Giorgio Soavi [1949]

Caro Soavi,
io aspetto sempre che tu ti faccia vedere qui. Fui a Ivrea ma tu eri per non
so quali luoghi. Il numero di «Comunità» è appassionante per quella cosa di
Silone1 (posso chiedere che tu me ne mandi un numero ancora, il mio l’ho
dovuto cedere ad un funzionario di via delle Botteghe Oscure, famelico, che
vedeva più rosso della copertina…), discutibile il Mann2, e la Garufi3. La tua
poesia4 non mi pare tutta leggera come dovrebbe, il vocativo finale è un po’
freddo.
Vieni dunque e dimmi o dammi per «Comunità» da fare, se ce n’è e se è
utile. Sui reportages uso Montemurro5 avrei anche da dir la mia, per piccola
che sia.
Accludo dei versi di Bellintani6. Il nome non ti deve essere sconosciuto,
ha vinto il primo premio Lugano per la poesia, Ferrata7 e altri critici lo hanno
tenuto in palma di mano, pubblicò sul Politecnico e su Rassegna, mi pare,
è un ex scultore, vive in campagna, mezzo pazzo (giovane, ha studiato con
Martini a Monza8, amico di Pintori9) e in fierissima miseria. Le prime due di

1
Ignazio Silone, Un’uscita di sicurezza, «Comunità», 3, 5, settembre-ottobre 1949, p. 44.
2
Thomas Mann, Omaggio a Kafka, ivi, p. 40.
3
Bianca Garufi, Poesia, ivi, p. 43.
4
Giorgio Soavi, Poesia, ivi, p. 56.
5
Leonardo Sinisgalli, Lavori in Lucania, ivi, p. 18.
6
Di Umberto Bellintani su «Comunità», 4, 8, maggio-giugno 1950 sono pubblicate Tre poesie,
p. 65. Nel 1946 Bellintani si era classificato al secondo posto, ex aequo con Vittorio Sereni, al Premio
Internazionale «Libera Stampa» di Lugano; del 1953 è la sua prima raccolta di versi, Forse un viso tra
mille (Vallecchi, Firenze), del 1955 la raccolta Pari, a cura di Vittorio Sereni, prefazione di Giansiro
Ferrata (Edizioni della Meridiana, Milano).
7
Giansiro Ferrata (1907-1986), critico letterario di spicco, attivo dagli anni di «Solaria» e amico
fraterno di Vittorini, con il quale condivise sia l’esperienza partigiana, sia quella di «Politecnico»;
diresse tra l’altro le collane «I Meridiani» e «I Classici» della Mondadori.
8
Arturo Martini (1889-1947), scultore tra i massimi del Novecento, insegnò all’Istituto superiore
per le industrie artistiche di Monza nel 1929-30.
9
Giovanni Pintori (1912-1999), disegnatore e grafico, dal 1936 lavorò per la Olivetti, del cui Ufficio
Tecnico per la Pubblicità fu direttore, fino al 1967. Il suo nome è legato ad una serie foltissima e altret-
tanto fortunata di manifesti, pagine pubblicitarie, copertine, insegne, allestimenti; le sue immagini ac-
compagnarono numerosi articoli sulla Olivetti, nonché le campagne pubblicitarie di alcuni tra i prodotti
di maggior successo dell’azienda, come le macchine per scrivere «Lexikon 80» e «Lettera 22».
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 235

queste che ti accludo mi paiono molto buone e forse potresti considerare di


pubblicarle.
Scusa e abbimi tuo

Fortini

Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.
236 Archivio

Franco Fortini a Giorgio Soavi

Milano, il 10 maggio 1949

Caro Soavi,
tra un mese e mezzo circa, ai primi di luglio, approfittando di un 10/15
giorni di vacanze non consumate dell’anno scorso, io e Ruth andiamo in Ger-
mania, invitati dal direttore britannico del Jugendhof VLOTHO an der We-
ser, in Westfalia (Hannover) per partecipare alle «rencontres» internazionali
periodiche che vengono tenute in questo centro che è il più importante fra
quelli in Germania. Ce ne sono a Freiburg e altrove, e finora ci sono state de-
legazioni francesi (pubblicano anche un periodico), olandesi, inglesi, svedesi;
ma nessun italiano. Avrei così la possibilità, oltre che di stare una settima-
na in contatto con tutti questi movimenti tedeschi (che comprendono anche
la costruzione di interi villaggi per ragazzi ecc.) di fermarmi a Darmstadt,
Frankfurt, Heidelberg.
Ora sto cercando di combinare per delle corrispondenze con qualche
giornale o settimanale. Vorrei sapere se, invece, la cosa potesse interessare
(per un grosso servizio, con foto ecc.) «Comunità»; se, eventualmente, in
esclusiva, e come.
Sappimi dare una risposta un po’ presto. Le corrispondenze le farei solo
per coprire, in parte, le spese del viaggio; non per altro.
Altrimenti preferirei un vero diario.
Ciao. Tuo
Fortini

Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 237

Franco Fortini a Giorgio Soavi [1950]

Caro Soavi
Ecco e grazie. Fai pure «Diario Tedesco»1.
Mi sono dimenticato di scrivere le dieci righe per la foto del cavaliere.
Debbo farle? O hai cambiato idea?
Mi raccomando molto le spaziature tra un pezzo e l’altro! Se non puoi
farle sufficienti, metti un pallino (°).
Pensa che libro di foto e testi farei se potessi esplorare sul serio una regio-
ne italiana (che so, Puglia).
Nessuna notizia di Bassani?
Tuo

Fortini

Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.

1
Diario tedesco di Fortini apparve su «Comunità» nel n. 6 (IV), gennaio-febbraio 1950, pp. 58-63;
poi ripreso dall’editore Manni di Lecce con Introduzione di Romano Luperini ed un’Appendice: F.
Fortini, Diario tedesco 1949, Manni, Lecce 1991.
238 Archivio

Franco Fortini a Giorgio Soavi [1950]

24 maggio – l’esercito
marciava per
raggiunger la
frontiera1

Caro Soavi
mi telefona in questo momento Bo2 per chiedere a te e ad Adriano se vi
interesserebbe un suo scritto/saggetto su Simone Weil3, quella scrittrice mor-
ta a Londra durante la guerra i cui libri stanno facendo assai scalpore. (Sono
opere di morale, filosofia e mistica). Siccome mi pare d’aver udito che l’ing.
Adriano abbia acquistato i diritti per quei libri, credo che lo scritto di Carlo
Bo potrebbe interessare. Prendi contatto con lui scrivendo in via Adelaide
Ristori 2 tel 271450 Milano.

Intanto ti dico che ho combinato con Mondadori per dei servizi sulla Pu-
glia e che, combinando con le mie vacanze (per forza), sarò in quelle terre
con un fotografo americano e un’auto dal xxxx nella seconda metà di giugno
e nei primi dieci giorni di luglio. Avrò tutto agosto a Milano, tranquillissimo
e in mutande mi leggerò il leggibile, in modo da poter presentare «la linea»
richiesta, cioè una visione unitaria della prima metà dell’annata. Pensa fin d’o-

1
Citazione da La canzone del Piave (1918), di Ermete Giovanni Gaeta, celebre canto patriottico,
adottato come inno nazionale italiano tra il 1943 ed il 1946 («Il Piave mormorava / Calmo e placido al
passaggio / Dei primi fanti, il ventiquattro maggio: / l’Esercito marciava / per raggiungere la frontiera,
/ per far contro il nemico una barriera…», vv. 1-6).
2
Carlo Bo (1911-2001), saggista, traduttore, francesista e ispanista, rettore dal 1947 al 2001
dell’Università di Urbino, figura di rilievo della cultura dell’Ermetismo, fu obiettivo polemico di vari
scritti di Fortini, tra i quali alcuni epigrammi raccolti in L’ospite ingrato primo e secondo (in F. Fortini,
Saggi ed epigrammi cit., pp. 888, 1016).
3
Di Simone Weil (1909-1943) Fortini tradusse La pesanteur et la grâce, 1948: L’ombra e la grazia,
introduzione di Gustave Thibon, Edizioni di Comunità, Milano 1951; La condition ouvrière, 1951:
La condizione operaia, introduzione di A. Thévenon, Edizioni di Comunità, Milano 1952; L’enraci-
nement: prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, 1949: La prima radice. Preludio
ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 239

ra, se te lo permettono le cure da sposo, allo spazio disponibile, in modo che


possa fare una cosa proprio organica (Poeti, romanzieri italiani, traduzioni di
alta forza, stranieri, saggisti). Non sarebbe male che, d’apertura, ci fosse uno
scritto riassuntivo sulla situazione poetica (A proposito di Gatto, Penna, i
«meridiani4», i Bottegoscuristi5, l’antologia di Fasola6 ecc.). Combiniamo
bene un piano tirato al millimetro così io blocco al 30 giugno le novità (te-
nendo presenti i premi letterari del luglio-agosto) e al 2/5 settembre ti mando
una cosa ben fatta.

Questa corsa in Puglia con Leidi7 veramente io la faccio in vista di fare un


libretto di appunti di viaggio + foto. I servizi (che usciranno probabilmente
l’anno venturo) sono un pretesto pratico.
Ciao. Saluti a tutti. Auguri a Lidia (io avevo una cugina che si chiama così).

tuo
Fortini

Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.

4
Gli autori delle edizioni La Meridiana di Eugenio Luraghi (1905-1991): nel 1949 vi apparvero
sia Mario Tobino (recensito su «Comunità» da Fortini, vedi n. 25), sia Sandro Penna (Appunti). Sulle
edizioni vedi C. Isnenghi in https://blog.maremagnum.com/i-ricercati-della-meridiana/.
5
I collaboratori del periodico «Botteghe oscure».
6
Roberto Fasola, Azimi, Guanda, Modena 1949.
7
Roberto Leydi (1928-2003), a lungo docente all’Università di Bologna, è stato un pioniere
dell’etnomusicologia e tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino; all’epoca era critico musicale
dell’«Avanti!», a cui collaborava regolarmente anche Fortini.
240 Archivio

Franco Fortini a Giovanni Enriques

Riservata personale
All’ingegner Enriques1
Ivrea

Milano, 11 febbraio 1950

Caro Ingegnere,
Le scrivo per richiederle – come del resto mi ha proposto jeri – una con-
versazione a quattr’occhi, sui temi che ho intenzione di toccare nella presente
lettera; dove spero di poter rispondere meno precipitosamente e meno uf-
ficialmente di quanto non abbia saputo questo venerdì alla proposta sua di
tramutare in consulenza il mio rapporto di impiego.
Quella proposta – lei se n’è accorto – m’ha sorpreso, per forma e sostan-
za; per forma, perché essa giungeva insieme alla risoluzione di interrompere
il Cembalo2, tanto da dare l’impressione di aver associato il mio compito a
quelli da «scrivano» dei redattori della fu rivista, quando invece io non ave-
vo responsabilità comune né altra contiguità fuor da quella affatto materiale
d’ufficio con essi, in modo che tale associazione, nella «purga», sembra esser
stata suggerita solo da una qualche complessiva intolleranza dei «pennaruli».
Per sostanza: perché essa, non ostante le cortesi parole sue che l’accompagna-
vano, non ha certo il significato di una rinnovata fiducia nella mia opera, ben-
sì è un passo che, nel mio caso, si ritiene preliminare ad un altro; e definitivo.
Del quale ultimo non avendo né desiderio né paura, mi permetto ricordarle
quali circostanze abbiano condotto a questa situazione; che spero ella vorrà

1
Giovanni Enriques (1905-1990) fu assunto nel 1930 in Olivetti, dove ebbe numerosi incarichi
fino a divenirne Direttore Generale nel 1947. Vedi Sandro Gerbi, Giovanni Enriques: dalla Olivetti
alla Zanichelli, Hoepli, Milano 2013.
2
Fortini curò la rubrica Due libri al mese del bollettino Olivetti «Il cembalo scrivano», dal n. 1
(I), dicembre 1949, p. 7 (rec. a G. Marotta, A Milano non fa freddo, Bompiani, Milano e A. Gide, La
sinfonia pastorale, trad. di E. Castellani, Frassinelli, Torino 1944) al n. 1, II, gennaio 1950, p. 7 (rec. a
Alain-Fournier, Il grande amico, Mondadori, Milano 1940 e Vasco Pratolini, Il quartiere, Vallecchi,
Firenze 1945). L’ultimo contributo di Fortini al periodico è Preghiera di pubblicazione, «Il Cembalo
scrivano», 7, 1955, p. 40.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 241

risolvere nell’interesse della Olivetti e mio personale. (strano, e indicativo,


comunque, che mentre per i responsabili del «Cembalo» non si è trattato che
di un esperimento sbagliato, con relativo ritorno alle primitive occupazioni,
per me, che non c’entravo per nulla, si sia pensato ad una eufemistica «libera-
zione dai doveri d’orario»).
Dopo numerosi e ripetuti inviti accettai di recarmi ad Ivrea nel settembre
del 1947 col compito di occuparmi dell’Ufficio Pubblicità; ma in pratica con
quello di contribuire a varie attività culturali connesse con la fabbrica. In re-
altà, l’ufficio assorbì quasi tutto il mio tempo. Lo trovai praticamente inattivo
dalla fine della guerra; e, nell’anno nel quale l’ho retto, posso dire di aver
avviato tutti gli elementi essenziali del suo sviluppo attuale, connesso con
l’aumentato numero di prodotti: impianti di cartelloni stradali ed urbani, rin-
novamento della pubblicità a stampa e di quasi tutti i contratti, progettazione
delle costruzioni tubolari, inchiesta Doxa, piano giornalistico per il lancio
della Lexikon, inizio della pubblicità radiofonica e cinematografica.
Il mio trasferimento a Milano nel settembre 1948, non è avvenuto, tengo
a sottolinearlo, per motivi inerenti alla mia attività di impiegato, per la quale
nessuno mi ha rivolto mai il minimo appunto; bensì per una serie di situazio-
ni collegate con le mie idee politiche3, con le antipatie che avevo generosa-
mente suscitate nell’ambiente di Ivrea e con la mia incomprensione – dicia-
mo – giovanile, di tale ambiente. Dove sono rimaste operanti, per espressa
dichiarazione dell’ingegner Adriano, inimicizie e rancori di chi non ha mai
tollerato i vizi delle mie virtù, o, se preferisce una formula più conciliante, le
virtù dei miei vizi.
Ma, col mio trasferimento a Milano, mi preoccupavo di non fare lo scalda-
sedie; non occorre essere da anni alla Olivetti, per sapere che questa «figura»
esiste. Per questo, appena riuscito a trovare, alla peggio, un alloggio a Milano
(autunno 1948), e mentre si sviluppava, ad opera del dr. Fazi4 e mia, la cam-
pagna di lancio della Lexikon, mi preoccupavo ripetutamente di far definire
i miei compiti.
Nelle intenzioni dell’ingegner Adriano le mie attribuzioni rimanevano
praticamente immutate; il dr. Fazi avrebbe avuto un compito prevalentemente

3
Dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio, a Ivrea si creò un clima di tensione interna all’azienda.
Fortini era tra i più convinti sostenitori di una rivolta degli operai ed Adriano Olivetti ne fu informa-
to. Come egli stesso ebbe a testimoniare successivamente, Fortini poté allora misurare «la generosità,
l’ampiezza di cuore e di intelligenza di Adriano Olivetti [conosciuto sin dal 1938], perché qualsiasi
altro industriale mi avrebbe cacciato su due piedi, per le noie che gli stavo procurando, e invece dopo
una intemerata telefonica piuttosto aspra Olivetti mi condannò – mi condannò, sì, ma facendomi un
regalo straordinario, cioè trasferendomi a Milano, alla pubblicità» (cfr. Cronologia in F. Fortini, Saggi
ed epigrammi cit.).
4
Tullio Fazi (1914-1989), economista di formazione, venne assunto in Olivetti nel 1946 e dal 1950
fu alla direzione del Servizio Pubblicità, ottenendo tra l’altro la «Palma d’Oro», il primo premio per
la pubblicità in Italia.
242 Archivio

amministrativo, destinato ai rapporti contrattuali e all’ Uff. Sviluppo. Io avrei


dovuto, con lui, formulare i programmi, i piani, le direttive del lavoro pubbli-
citario. Si richiedeva per questo un contatto costante, una deliberazione co-
mune, un reciproco rispetto della competenza e dell’intuito; il conferimento
non di una autorità che non mi interessava (Dio sa se mi ha mai interessato la
«carriera» o il guadagno; ma basta la sicurezza di un degno lavoro e il minimo
vitale. Il mio lavoro vero comincia dopo la fine degli obblighi di gagne-pain),
ma il riconoscimento di una preparazione se non di una competenza.
Invece tutto – a partire dall’inizio dell’anno passato – si è svolto in ben
altro modo, in un modo che non voglio supporre preordinato, del quale non
voglio accusare nessuno individualmente e men che meno il dottor Fazi che
ritengo lealissima persona; un modo che certo obbediva a quest’idea, vaga,
inconsciamente diffusa forse tra chi era stato punto dai miei epigrammi e
per la quale: «Fortini è in una specie di dorato esilio, persona turbolenta e
disordinata, opportuno lasciarlo alla sua letteratura, ai suoi furori politici, alle
indulgenze del Presidente, purché non secchi; poi vedremo. Conserviamolo
in vitro». E valgano le prove:
a) dai primi del 48 a oggi il mio intervento nelle cose dell’ufficio pubblicità
non è stato quasi mai richiesto; e nemmeno il mio parere;
b) non ho mai potuto avere una esauriente discussione sulle direttive pub-
blicitarie, sui progetti in corso di esecuzione e su quelli futuri. Non ho mai
ricevuto comunicazione di contratti conclusi e da concludere, né con chi né
come, dei piani di allargamento e moltiplicazione dei cartelloni; di nulla. Non
sono mai riuscito a saperne più di uno dei pittori dell’Ufficio Tecnico che
ricevono la commessa di un cliché di cm. tot per tot;
c) non una sola volta sono stato invitato ad una riunione di direttori di
filiale, a una riunione di collegamento o di programmazione pubblicitaria;
d) ripetutamente, secondo un modo di fare che ultimamente è divenuto
costume, i testi per dépliants o annunci ci sono stati trasmessi d’autorità o
totalmente modificati, senza nemmeno preoccuparsi di chiedere la mia opi-
nione o consiglio. Un intero manuale di dattilografia andava sotto gli occhi
del Presidente senza che il mio ufficio ne sapesse nulla. Progetti di pubblicità
cinematografica venivano proposti direttamente a Ivrea, e Ivrea non mi chie-
deva nulla;
e) ogni mia iniziativa è stata – come mostrerò più oltre – regolarmente
impastojata, rallentata, diminuita, giustificando ciò con l’idea preconcetta di
«lentezza», «pigrizia» ecc.;
Da quella data ad oggi, insomma, il comportamento di Ivrea nei miei ri-
guardi è stato diretto a persuadermi che il mio compito era quello di stendere,
a lunghissimi intervalli, qualche opuscolo o qualche articolo – dividendolo,
beninteso, con un numero imprecisato di altri impiegati di Ivrea – e di riveder
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 243

la tournure grammaticale degli altri; e basta. Catalogato come «bell’ingegno»


e messo a riposo, in attesa di liquidazione.
E qui riconosco la mia colpa: che è stata quella di aver parzialmente ac-
cettato una situazione indefinita, per amor di quieto vivere, per amorevoli
consigli di gente più addestrata di me alla politica di corridoio. Tuttavia, più
di una volta (in principio anche abbastanza energicamente con lei, mi sembra,
poi con lettera al dott. Fazi, in conversazioni con l’ingegner Adriano, nella
relazione sullo «stato della nostra pubblicità» da me redatta nell’ottobre scor-
so e a lei trasmesso in copia; e ultimamente ancora con l’ingegner Adriano)
ho cercato di far comprendere questo stato di disagio che non era solo mio,
che toglie sicurezza nell’avvenire e nel lavoro, che era la conseguenza della
mancanza di efficienza e di collegamento dell’Ufficio Pubblicità (non dite,
che si tratta di Milano!) – uno stato di cose al quale, indipendentemente dalla
mia persona e comunque, occorre porre urgente rimedio; e che, tra l’altro,
permetteva la nascita di funghi costosi come il Cembalo; e tenga presente che,
pur avendo alle proprie dipendenze uno scrittore e giornalista al quale (senza
inutile modestia) nessuno ha da insegnare il mestiere, mai da nessuno, fino
all’immediato jeri, è stato chiesto il mio avviso sul Cembalo nascituro, sulla
sua formula, sulla sua redazione…
E valga il vero, come si dice: scarsissima o nulla la collaborazione incontrata
a Ivrea per l’ultima fase della lavorazione della «Visita in fabbrica»5, onde ci vo-
levano mesi per avere una foto o una notizia; compiuta poi quella, mi vien data
l’impressione d’aver partorito un mostro d’errori e di omissioni (perbacco, ave-
vo scritto «maestranze» invece che «dipendenti»!). Ecco cosa accade a dar lavo-
ro ad un socialcominformista!) che poi – placata la tempesta – si riducono invero
a poca cosa; in omaggio a detto stile se ne vieta prima l’invio alle Filiali – per via
degli errori, poi lo si concede, con successo, pare; finalmente si danno disposi-
zioni per la seconda edizione e per l’edizione inglese; questa pronta, l’incarico di
raccogliere le correzioni e gli aggiornamenti vengono affidati ad un ragazzo pur
mo’ arrivato in fabbrica… e, «Fortini non presenta la nuova edizione». (M’han
detto che l’ingegnere Adriano avrebbe usato la parola «sabotaggio»; non vorrò
usarla io). Da quattro mesi è pronto il manuale di impaginazione, si fa a tira e
molla per sapere se lo si stampa o no e si decide di non stamparlo (ma è possibile
un contrordine, pare) quando già sono stati eseguiti i clichés. Da sei mesi avuta
l’approvazione di allegare alla corrispondenza degli uffici commerciali le strisce
delle nostre addizionatrici, non riesco ad avere la stampa delle strisce stesse; da
quattro mesi ho fatto invano richiedere in USA materiale psicotecnico e pub-
blicitario per nostre pubblicazioni, al dr. Galassi e ad Ivrea; non ho avuto altro
che l’opuscolo della Remigton! Quantité affatto négligeable, per lunghi periodi

5
Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di C. Brizzolara, F. Fortini, A. Steiner, Uff. Pub-
blicità della C. Olivetti & C., Ivrea 1949.
244 Archivio

il mio compito sembra stato quello di redigere degli articoli sciocchetti per il
Cembalo. Nulla di strano poi che i mistici della «cartolina» lamentino, che so,
le assenze, i ritardi o lo scarso rendimento del dr. Fortini. Certo che c’è stato, lo
scarso rendimento; ma mi chiedo e le chiedo se è tutta colpa mia. E quando lei,
ingegnere, mi loda per aver trovato il nome Lexikon (mi si vuol forse pagare la
consulenza perché trovi il nome di battesimo delle macchine e degli «slogans»?)
e poi, al tempo stesso, mi dimostra che i testi degli annunci li può benissimo
compilare lei e il dr. Fazi, fa della conscia o inconscia ironia: infatti ciò equivale a
dire che io rubo lo stipendio. E siccome, anche per le mie convinzioni politiche,
rubare il pane a nessuno, le dico: c’è da fare, e molto, volendo, all’Ufficio Pub-
blicità, che né lei né il dr. Fazi possono fare, e precisamente:
a) Manuale di dattilografia e impaginazione.
b) Manuale di corrispondenza commerciale.
c) Rifacimento di testi dépliants calcolatori.
d) Estensione di un lungo testo per la macchina el.
e) Programmazione della portatile.
f) Nuova edizione Visita alla Fabbrica.
g) Estensione articoli semiscientifici per la Elettr. e, in genere, sfruttamen-
to a mezzo inchieste dello schedario «Cembalo»; costituzione di una vera e
propria Biblioteca Olivetti per il Pers. D’Ufficio, plurilingue.
+ indagine psicotecnica sulla Lex. Elettrica.
Ma questo lavoro può essere compiuto utilmente (so perfettamente di non
essere indispensabile; di indispensabili pare non ci siano, a questo mondo,
altro che il buon Dio e, forse, Einstein) solo a condizione che:
1. Siano stabiliti meglio i compiti e rispettate le competenze.
2. Sia creata una consuetudine regolare di riunioni presiedute dal dr. Fazi
– che resta il coordinatore di tutto – per tutto il personale dell’Ufficio Pub-
blicità, in cui vengano
- comunicati gli elementi nuovi
- discussi i pareri
- impartiti compiti direttive termini.
3. Sia stabilito un collegamento permanente e non casuale con la Pubblici-
tà Estero – in particolare con l’arch. Bonfante6 – per evitare l’incrociarsi e il
sovrapporsi di iniziative. […] [illeggibile]
Se in questo lavoro c’è posto per me – e mi permetto di ricordarle che sono
alla Olivetti anche per imparare – e mi si affidano dei compiti, non vedo perché

6
Egidio Bonfante (1922-1994) entrò alla Olivetti nel 1948; fu incaricato di studiare la veste grafica
della nuova serie di «Comunità», il cui primo numero uscì nel gennaio del 1949. Curò la decorazione
di stabilimenti dell’azienda, campagne pubblicitarie e mostre, con un ruolo di primo piano nella pro-
duzione artistica e pubblicitaria. Vedi Rossana Bossaglia, Egidio Bonfante, Electa, Milano 1996; e il
sito: https://www.storiaolivetti.it/articolo/76-egidio-bonfante/.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 245

si debba trasformare il mio rapporto d’impiego in consulenza, se a quest’ultima


espressione non si vuol impartire il senso di «sarebbe bene lei si cercasse un
altro lavoro». È vero che adesso e non so per quanto tempo avrò assai da fare
per la rivista «Comunità»; è certo che molto difficilmente si potrà avere da me
il lavoro regolare e bigio di un impiegato d’ordine; ma è anche vero che l’ho
sempre detto, e anche recentemente ricordato, all’ingegnere Adriano; che se
poi la proposta di cambiamento parte da lui, le cose non mutano molto, si tratta
pur sempre di definire i miei compiti; e siccome l’ingegner Adriano mi ha fatto
intendere che lei, ingegnere Enriques, ha più possibilità di occuparsi dell’ufficio
pubblicità di quanta non ne abbia io, è a lei che mi rivolgo.
Se così non è, allora si dica chiaro che non si sa cosa fare o non si vuol
fare qualcosa di me. E agirò in conseguenza. Ma non si agisca come si è agi-
to: togliendomi uno dopo l’altro, con delicatezza, i mezzi per farmi sentire
presente ed utile e poi – implicitamente – accusandomi di assenza e di un
rendimento che non giustifica il rapporto di impiego.
E, aggiungo, se dovessi essere «consultato» l’ultimo anno – per poi giun-
gere inaspettatamente a certe proposte, a bruciapelo – cioè quasi mai, eviden-
temente la mia posizione sarebbe ancora più assurda.
Scrivo a lei, egregio ingegnere, in tutta e magari dura franchezza, perché la
cosa che ho sempre ammirato in lei – uomo europeo – è (indipendentemen-
te dai dissensi in materia politica e magari pubblicitaria) la franchezza delle
sue posizioni, che la necessaria diplomazia non corrompeva; e non ne scrivo
all’ingegnere Adriano, col quale ho maggiore confidenza, proprio per questo:
perché non chiedo confidenza ma fiducia; non autorizzazione al parassitismo
ma autorizzazione al lavoro. Né dimentichi, caro ingegnere, che – tra l’altro
– so maneggiare pennelli, colori, squadre, colle e cartoni non peggio di altri;
che mi intendo benissimo con Pintori e che non mi sentirei affatto umiliato,
anzi, di stare ad incollare pannelli e pitturar bozzetti, con lo stipendio d’uno
di loro, tra gli amici dell’Ufficio Tecnico.
Mi piace lavorare per l’Olivetti; ma a condizione di potervi lavorare con
dignità. «Se no, no»7, come disse – mi pare – un tale del Risorgimento.
Con i miei cordiali saluti e con quelli di mia moglie che, posso dire, ha
scritto con me questa lettera e aspetta con me la sua risposta, mi creda suo

AFF., 9 c.; 28,5x22 cm. – Copia di ds. Non f.ta su carta intestata Olivetti. XXVI, 71, 1.

7
La frase è di Giuseppe Mazzini, che nel giugno 1831 nella lettera A Carlo Alberto di Savoia,
edita in opuscolo a Marsiglia metteva in epigrafe il motto «Se no, no!». Mazzini si rivolgeva a Carlo
Alberto di Savoia dichiarandosi disposto a rinunciare alla repubblica, purché realizzasse l’unità d’Ita-
lia, e dicendogli: «fate l’unità d’Italia e siamo tutti con voi; se no, no».
246 Archivio

Franco Fortini ad Adriano Olivetti

[16 nov. 1950]

Caro Adriano,
mi dicono che sei entrato in una lunga convalescenza. La spero per te,
invece, breve – e ultima. Credo che non ti dispiacerà questo uccello vivo che
ti mando in una gabbia di fil di ferro. Mi sono chiesto quale esempio di vita
potesse far piacere ad un convalescente; ed ho pensato a una delle più allegre
creature del mondo. Forse è stato anche un pensiero egoistico; perché quag-
giù, diversamente da Ivrea, si vede solo qualche gatto, oltre ai soliti uomini.
Ma siccome un uccello in gabbia può divertire solo per pochi minuti, tu
dagli anche subito, se credi, la via; m’han detto che è un piacere tanto raro, al
giorno d'oggi, concedere una libertà. È una specie vivace ovunque, col peg-
gior freddo; è un frosone (phrygius, Asia minore), di becco robusto, un uccel-
lo di semplice naturale, come vedi: ma ben disposto e anche, credo, piuttosto
furbo. A me quel suo mantello color novembre piace; ho pensato che un
uccello più vanitoso non ti sarebbe andato a genio.
Stai meglio che puoi, caro Adriano; te lo augura insieme a Ruth il tuo

Franco Fortini

Ps. Sbattendo contro la gabbia s’è spelato alla fronte e alla coda; non acca-
de solo ai frosoni. Se si dovesse cavar di gabbia, tenerlo con l’indice sotto la
gola; perché becca forte.

AFF., [1] c.; 28x22 cm. – Margini lacerati. XXVIII, 13, 3.


248 Archivio

Geno Pampaloni a Franco Fortini1

Ivrea, 3 dic. 1954


Caro F.,
ricevo la tua lettera in questo momento. Posso cominciare dai tuoi difetti?
Il tuo principale è quello di voler discutere soltanto con quelli che hanno già
fatta la scelta che hai fatta tu. Le cose che mi chiedi per me sono difficili, e
ti confesso che non in ogni minuto darei le stesse risposte. Io non ho fatta
la scelta che hai fatta tu, e quello che mi guida è soltanto un istinto morale,
che spesso, purtroppo, può essere più debole delle mie debolezze, delle mie
facilità. Comunque io non sono capace di ghignare sulla Libertà americana e
mettere soltanto in un inciso le mie riserve sulla polizia segreta. E mi riesce
molto difficile giudicare dei miei simili «storicamente». Io voglio vivere con
i miei contemporanei e togliermi il gusto di avere le loro incertezze e le loro
contraddizioni. Se metto le virgolette a «compagni» è soltanto perché i nostri
amici organizzatori eporediesi non rispettavano per nulla affatto la «persona
umana» dei cinque giovani vietnamiti ma ne facevano evidentemente dei mi-
crofoni di Stalin, ed era clamorosamente casuale il fatto che parlassero di cose
dal medesimo nome, o di cose che avevano una traduzione comune. Se metto
«fascisti» tra virgolette è perché, storicamente, come piace a te, il fascismo
è una cosa, almeno per me, del tutto diversa dal diabolico anticomunismo,
moneta corrente, a cui la riconducono gli oratori comunisti. Se quello per
cui combattono i vietnamiti è «qualche cosa che somiglia alla libertà» e non
la Libertà come avresti voluto che avessi scritto, è proprio perché è così, e i
vietnamiti rischiano di passare dalla padella alla brace, di passare dalla Libertà
dei sacri principi alla libertà dei sacri testi moscoviti: che poi «storicamente»
questo sia anche a mio parere un passo necessario, un primo risorgimento,
era abbastanza chiaro nel mio povero testo. Io rimango a Valmy, caro Franco:
soprattutto perché dietro la Francia e la libertà francese non c’era, schierato e
pronto, nessun esercito straniero. Il tono «opaco» con cui i comunisti in ge-

1
Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, intro-
duzione di Romano Luperini, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 141-144, con il titolo Una lettera di
G.P., pp. 141-142.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 249

nere dicono la parola democrazia è proprio «opaco», gli manca quella limpi-
dezza (romantica?) che dà alle cose la libertà. E se la gente la sera «va a letto»,
anche questa è una abitudine borghese? Una volta tu scrivesti una cosa molto
bella a proposito degli ermetici che parlavano «così» anche levandosi la sera i
pantaloni per andare a dormire. Oggi, forse senza accorgertene, anche tu sei
stato punto da quella zanzara: oggi ti sembra un’operazione borghese quella
di andartene a letto a rimuginare le proprie impressioni: comincia a piacerti
un mondo in cui la gente stia notte e giorno sulle barricate. Io accetto da te
tutte le accuse che mi fai per varie ragioni […] e la principale delle quali è che
io non sono sicuro di essere nel giusto, non sono soddisfatto del mio pessimi-
smo forse egoista, e posso tutt’al più difendermi, mai controbattere; perché le
mie tentazioni verso l’«Umanesimo cristiano personalistico & C.» sono vera-
mente forse troppo forti. Ma tu certamente sbagli quando condanni uno che
esprime il proprio disagio e lo esprime in modo abbastanza evidente, anche se
«con un’ombra di fiele». Tu che conosci la gente del popolo, vai in giro per le
strade, interroga gli uomini nel loro profondo e non nelle loro convenienze e
nelle loro paure, e vedrai se nella maggior parte di loro non c’è proprio questo
disagio, questo senso di essere «invitati di pietra», questa estraneità, questo
sentirsi impotenti sino all’indifferenza, questa fondamentale ambiguità. Io,
per lo meno, sento così. E in fondo la tua lettera mi ha aiutato a chiarirlo in
modo definitivo.
[…] Un abbraccio affettuoso («Vigila!»)

AFF., [2] c.; 29,5x21 e 21x15 cm. – Ds. f.to. XI, 6, 3.

Da F. Fortini, Un giorno o l’altro2 [s. d.]

Questa lettera di Geno Pampaloni rispondeva ad una mia di replica ad un


suo intervento pubblicato (così mi pare di rammentare) su di un periodico di
Ivrea, commento ad una manifestazione organizzata dai sindacalisti locali,
dove erano intervenuti alcuni vietnamiti giunti da Parigi. Si era verso la fine
della guerra francese in Indocina e all’inizio dell’intervento americano, tra la
fine del 1953 e i primi dell’anno successivo.
Avevo poco più di vent’anni quando conobbi Geno Pampaloni, studente
di lettere. Anche per la comune vicinanza a Noventa ci siamo frequentati, a
Firenze, fra il 1937 e il 1941. Grazie a lui collaborai alla rivista «Ansedonia»
che poi prese il titolo di «Lettere d’oggi». Su quella rassegna scrivemmo insie-
me, nel 1941, in punto di andare militari, un editoriale antifascista. In pagine

2
Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro cit., pp. 142-144.
250 Archivio

molto belle egli poi raccontò sul «Politecnico» la vicenda del suo reparto
nella Corsica dai tedeschi occupata dopo l’armistizio. Con il contingente ita-
liano risalì la costiera adriatica combattendo fino alla fine della guerra. Ci si
rivide nel 1945, a Milano. Scriveva per il quotidiano del Partito d’Azione.
Poi andò insegnante a Biella. Nel 1948, o poco dopo, Adriano Olivetti lo
chiamò a Ivrea. Diresse la biblioteca della fabbrica. Si occupò attivamente e
a lungo del Movimento di Comunità. Dopo la morte di Olivetti lavorò per
più di una casa editrice, a Firenze. Seguii quanto veniva scrivendo finché non
prese a collaborare con giornali che non riuscivo a leggere senza disgusto.
Non ho mai dubitato della sua intelligenza critica eccezionale e della qua-
lità della sua scrittura. Più di una volta accadde che a vicenda ci si nominasse
con astio. Le nostre posizioni politiche si fecero sempre più divergenti. Col-
laboravo al «Corriere», diretto da Alberto Cavallari, quando, per averci scrit-
to contro lo sbarco Usa a Grenada (1983), mi ebbi da lui, sul suo giornale, una
nota che mi denunciava – ma, e questo mi parve il peggio, senza nominarmi
esplicitamente – come auspice di terrorismo antiamericano e rammentava la
riconoscenza che invece avrei dovuto avere verso i soldati degli Stati Uniti
la cui guerra antinazista, quarant’anni prima, aveva contribuito a scampare
mio padre ebreo. (Non diverso attacco mi venne allora da Giorgio Bocca e
da una parte dei redattori del «Corriere», che anzi ne trassero un comunicato
all’Ansa; vicenda che ho già raccontata). Mi promisi allora di non rivolgergli
più la parola.
Vorrei poter pubblicare alcune delle lettere che ci siamo scambiati in altri
tempi. Credo che le sue quasi sempre gli facciano onore. Ma al di là dei pri-
vati grovigli psicologici giustamente impalliditi, resta che quel rapporto, cui
mi bisogna dare il titolo di amicizia, andrebbe interpretato non cominciando
dalle nostre «anime» ma dalle opere. Né solo da quelle scritte. Quindi da una
biografia. Anzi da due biografie. O, molto meglio, da un libro di storia che
neanche ci elencasse nell’indice dei nomi.
La lettera che, non autorizzato, riproduco mi pare molto bella: contiene i
suoi più forti argomenti contro di me. È un esempio delle contraddizioni che
abbiamo subite e ricercate per tutta la vita. Non c’è quasi enunciato del mio
corrispondente cui i decenni successivi non abbiano dato apparente ragione.
Una ragione che continuo a giudicare apparente.
Non reconciliati e basta. Non è possibile altrimenti. Non potrei mai se-
dermi e conversare «civilmente», come si dice, con quell’antico coetaneo,
senza provare vergogna per coloro che da lui hanno ricevuto, credo, maligni
insegnamenti intellettuali e politici. Sebbene egli anteponga di sicuro gli af-
fetti alle inumane ideologie che io, come posso, continuo a servire, certo è
mosso anche lui da una somigliante preoccupazione e pensa a quanti il mio
insegnamento intellettuale e politico ha sospinti per una via di errore e colpa.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 251

La «scelta» che fu allora la mia è mutata di forme, non di oggetto e di


direzione. Così, credo, quella del mio corrispondente. Non c’entrano né gli
Stati Uniti né l’Unione Sovietica. Non la relazione con la fede religiosa: an-
che se, su questo tema definitivo, mi è sempre stato più vicino il pensiero di
un cattolico tradizionalista com’era Augusto Del Noce che non quello dei
socialdemocratici cristiani. C’entra semmai l’Italia, la gente che conosciamo
o crediamo conoscere meglio. Anzi e davvero: qualcosa di singolare e di in-
dividuale connesso con le nostre classi di origine e città e passati familiari,
con la nostra «cultura», come si dice; qualcosa che, per poterlo interpretare
in termini di storia e di sociologia o di metapsicologia, troppo lunghi se ne
farebbero il circuito e il discorso. Meglio interromperli presto.
L’istinto morale, ecco; di cui parla la lettera. Che non dà garanzia di verità
o autenticità ma non può essere respinto senza gravi perdite per la propria sa-
lute. Non vorrei lasciare intendere che il dubbio mio sulla verità o autenticità
della «voce della coscienza» morale fosse quel che più mi avvicina alla verità
e alla autenticità; né che l’inverso càpiti a chi crede di intendere quella voce
come assoluta. Non vorrei dirlo. Non voglio esaltare in alcun modo quel
tanto di estetistico che sempre (anche nella lettera del mio corrispondente,
in gioventù così orientato da Renato Serra) si accompagna alla celebrazione
dell’incertezza e del dubbio.
Che possa (debba) darsi, nel modo di vivere, qualcosa cui alcuni secoli
hanno dato nome di «comunismo»; e presso a poco nel senso che in un mio
breve scritto di qualche anno fa (mentre cadeva il Muro di Berlino) intesi dare
a quel termine, ossia come compito o mandato o dovere generalmente uma-
no; che tale convincimento mi escluda dalla comunione con parti nobilissime
della mia specie e della comune storia (parti che mi compongono, anche mio
malgrado, e mi determinano) ecco qualcosa che affermo e devo accettare. Col
cuore grave ma senza volermene alleggerire.
Il mio corrispondente ed io non abbiamo molto da vivere. Dovrei per-
donarlo ed essere perdonato? Sì, se fossimo soli al mondo. No, perché non
lo siamo. Per un «rispetto umano» verso quelli che verranno e anche da noi
potranno imparare. Se c’è chi toglie su di sé i peccati del mondo e dunque i
nostri, certo né lui né io siamo quello. A noi rimane la possibile grandezza e
miseria della contesa. Perché altri scelga a partire da noi e la contesa continui.
252 Archivio

Franco Fortini a Mario Alicata1

2 marzo 1955

Caro Alicata, vedo sull’ultimo numero di «Società» (p. 154) un attacco


bugiardo e basso alla mia persona. Non sono stato mai affiliato al Movimento
Comunità, sono iscritto da 10 anni al Psi; e quando si è chiesta la mia colla-
borazione alla lotta comune nessuno mi ha mai accusato di aver frugato «fra
i rimasugli dell’irrazionalismo». Ho scritto alla direzione di «Società» una
rettifica; e a Muscetta una lettera dove gli chiedo se questo è il modo di pro-
cedere e se non gli ha dato di volta il cervello.
Voi potete benissimo infischiarvi di me e del mio lavoro. Ma se così non è,
avete il dovere di non far stampare attacchi calunniosi e menzogneri su di una
rivista come «Società» che è, in largo senso, quasi una pubblicazione ufficiale
del partito comunista ed alla quale sono stato spesso invitato a collaborare.
È chiaro che finché non avrò ricevuto da te e dai direttori della rivista
(dico da te in quanto responsabile culturale del Partito) un chiarimento in
questo senso (non si collabora con chi è definito «missionario infaticabile
della religiosità e socialità comunitaria» nel momento in cui A. Olivetti
«lancia» il suo sindacato padronale!), riterrò doveroso astenermi da qualsiasi
collaborazione con gli organi di stampa e di cultura che si richiamano al tuo
Partito. E in questo senso scrivo al compagno Panzieri.
Cordialmente tuo
[Fortini]

AFF., [1] c.; 29,5x21 cm. – Minuta ds. non f.ta. XXV, 6, 1.

1
Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro cit., pp. 153-154 con il titolo Ad Alicata.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 253

Franco Fortini a Raniero Panzieri

Milano, 2 marzo 1955

Caro Panzieri, vedi a pag. 194 dell’ultimo numero di Società un ignobile


e bugiardo attacco contro di me. Mi chiedo se non son diventati tutti pazzi.
Chiamarmi «missionario infaticabile della religiosità e socialità comunitaria»
e cercatore dei «rimasugli dell’irrazionalismo» è puramente e semplicemente
una canagliata, per chi dovrebbe saper benissimo che non sono né mai sono
stato iscritto al Movimento Comunità, che non ne condivido le idee, quando
mi sarebbe stato facile far la carriera di certi ammirevoli compagni più flessi-
bili di me. E questo nel momento in cui Olivetti lancia il sindacato padronale!
Nel momento in cui io perdo l’impiego di Olivetti! Per tacere dell’ignobile
«taglio» operato nel mio scritto. La cosa mi puzza, ad esser franchi, di Papi.
Comunque ho scritto in data odierna 1) ai direttori, chiedendo una rettifica
2) a Muscetta per esprimergli il mio schifo 3) ad Alicata, chiedendogli un
chiarimento, perché non posso collaborare altrimenti con chi mi definisce a
quel modo 4) a Salinari, dicendogli che per le medesime ragioni sospendo la
mia collaborazione al Contemporaneo.
A te chiedo un intervento preciso presso i compagni comunisti. Ritengo
che la Giunta d’Intesa, se esiste ancora, dovrebbe occuparsene; e ti prego di
parlarne a Nenni o a chi credi meglio. Si critichino pure le mie opinioni; ma
non mi si calunni e soprattutto non si mettano in dubbio le mie opinioni.
Fortini, invitato più volte a collaborare a «Società», collaboratore del «Con-
temporaneo» e di «Mondo Operaio», consigliere della Casa della Cultura e
dell’Associazione Italia URSS, iscritto allo PSI da dieci anni, è il «missionario
infaticabile» delle dottrine religiose e sociali di Adriano Olivetti? E questo
solo perché scrive di critica letteraria su «Comunità»? Ma hanno mai letto
che cosa vi ho scritto?
Aspetto una tua sollecita e chiarificatrice risposta. Tuo
[Fortini]

AFF., [1] c.; 29,5x21 cm. Minuta di ds. non f.to. XXVIII, 19,2.
254 Archivio

Geno Pampaloni a Franco Fortini1

Ivrea, 9.1.56

Carissimo,
l’altro giorno Zorzi2 mi ha detto della tua decisione di intraprendere la tua
collaborazione a «Comunità», e oggi vedo il tuo articolo di rientro all’Avanti!
Mi dispiace, per la Rivista e per me: perché rompe un altro filo che ci
legavano a uomini diversi ma amici e compagni, e accentua, ai miei occhi,
quel moto di repulsa che la cultura di sinistra opera da qualche tempo nei
confronti di «Comunità». Ma riconosco che per te era giusto, e poteva darti
qualche imbarazzo.
Sappi comunque, e volevo dirtelo l’altra sera per la fine dell’anno, ma la
tua voce aveva un tono che mi mise in difficoltà, che, con tutta la severità
con la quale posso qualche volta giudicare di certe tue reazioni e di certi tuoi
atteggiamenti, la mia amicizia è ancora «amicizia».
Con molto affetto
Tuo Geno

AFF., [2] p. su 1 c.; 29,5x21 cm. XI, 6, 20.

1
La lettera è riprodotta in Francesca Barbera, «Dialogo di diffidenze»: il carteggio Fortini – Pam-
paloni (1940-1989), Tesi di laurea magistrale in Lettere Moderne, relatore Stefano Carrai, controrela-
trice Monica Marchi, Università degli Studi di Siena, a. a. 2014/2015, p. 97.
2
Renzo Zorzi (1921-2010) fu figura di primissimo piano all’Olivetti: direttore dal 1956 delle Edi-
zioni di Comunità, responsabile della «Corporate image» dell’azienda, in cui lavorò fino al 1986. Vedi
https://www.storiaolivetti.it/articolo/105-renzo-zorzi-una-vita-per-larte-e-la-cultura/.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 255

Franco Fortini a Geno Pampaloni1

Milano, 11 gennaio 1956

Carissimo Geno, se ho chiusa la collaborazione a «Comunità» non è stato


solo2 per incompatibilità di idee politiche o altre. Come «Comunità» mi aveva
sempre lasciata ogni libertà per le mie, così la mia affiliazione politica mi lascia-
va responsabile di decidere l’opportunità di questa o quella collaborazione. Se
tu credessi a pressioni o ad imbarazzo, ti sbaglieresti e faresti sbagliare. Nel cor-
so di quest’ultimo anno, ad esempio, la mia collaborazione al Contemporaneo3
è stata, ed a ragion veduta, inferiore a quella data a «Comunità».
I motivi sono stati altri: nell’ambito «Olivetti», l’accurata recinzione delle
competenze, con la quale certuni hanno provveduto a limitare, in ogni occa-
sione, la presenza mia e persino il ricordo della mia esistenza, mi era prova
indiretta di quanto dovesse essere gradito, allo zelo di coloro, ogni contributo
mio ad un effacement; nell’ambito della rivista «Comunità», lungo i sei anni
di assidua e impegnata collaborazione, il senso che la mia presenza o l’assenza
non aumentasse né diminuisse il buonumore di nessuno; e, sempre, per quei
sei anni, il significativo silenzio del direttore; silenzio che una sola volta m’è
avvenuto di sapere interrotto, – ma non già rivolgendosi a me, quasi fossi uno
sconosciuto –, per deplorare, l’estate scorsa, il giudizio che sul suo libro il
Soavi4, non senza petulanza, aveva preteso da me.
Se a te dispiace, più dispiace a me. È probabile che la divergenza di idee
politiche, e di giudizi morali, si sarebbe presto5 potuta fare così aspra da
portarmi, un giorno o l’altro, a questa stessa decisione; con amarezza minore,
però.

1
Lettera ds. con aggiunte manoscritte e firma di mano di Fortini, [1] f. su 1 c. Cfr. Francesca Bar-
bera, «Dialogo di diffidenze»: il carteggio Fortini – Pampaloni (1940-1989) cit., pp. 98-99.
2
Aggiunta manoscritta di solo.
3
Rivista politico-letteraria, nata a Roma, nel 1954, e diretta in origine da Antonello Trombado-
ri, Romano Bilenchi e Carlo Salinari. Nel 1965 affiancò «Rinascita», di cui divenne il supplemento
mensile fino al 1989.
4
Cfr. Lettera 46, nota 220, p. 95. Probabilmente si tratta di Un banco di nebbia, Mondadori,
Milano 1955.
5
Aggiunta manoscritta di presto.
256 Archivio

Per quanto riguarda le tue parole di amicizia, te ne sono sinceramente


riconoscente. Ma non senza cattiva coscienza; ché, «con tutta la severità con
la quale posso qualche volta giudicare di certe tue reazioni e di certi tuoi at-
teggiamenti», come anch’io dico, mi è difficile pensare ad un sentimento di
amicizia fondato solo sulla memoria di comuni esperienze. L’amicizia nasce
anche dal luogo dove quella severità si esprime; anzi abbisogna che quel luo-
go sia comune; dove quei giudizi severi possano perdere una parte almeno
della impurità che spesso convogliano con sé e dirigersi al bene non al male,
non6 al danno o7 alla solitudine dell’altro. Fu proprio su questa nozione del
giudizio e dell’amicizia che anni fa, se ricordi, ci siamo sentiti tanto divergen-
ti. Tuo affezionato
Franco Fortini

AFF., [1] c.; 30x21,5 cm. – Minuta ds. non f.ta. XXVIII, 18, 6.

6
Aggiunta manoscritta di non.
7
La o sostituisce una virgola scritta in precedenza.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 257

Franco Fortini a Franco Momigliano

Caro Momigliano1,

recenti episodi, tra i quali anche tutti quelle che hanno accompagnate le
trattative di Torino, mi decidono a sciogliere, come si dice, certe riserve e a
maturare formalmente quelle dimissioni che avevo, due mesi fa, solo riman-
date. Non credo più possibile tra noi un accordo fecondo; sospetti giustificati
o ingiustificati, personalismi – i miei tra gli altri – renderebbero difficile ogni
rapporto.
Mi dimetto, dunque, e desidero che fin da questo numero il mio nome non
compaia sulla copertina.
Credi alla mia sincera stima personale. So che tu hai sempre agito in modo
equanime e disinteressato e ti debbo essere gratissimo del lavoro che ci hai dato.
Tuo

Franco Fortini
5 luglio 1957

Archivio Olivetti, Lettera di dimissioni Fortini, Franco / Fascicolo 565, 13 MOM 0.

1
Franco Momigliano (1916-1988), responsabile delle Relazioni interne alla Olivetti, in colla-
borazione con Adriano Olivetti e con Fortini si occupò della redazione dello statuto del Consiglio
di fabbrica al fine di coinvolgere i lavoratori e le loro rappresentanze negli organismi aziendali e di
ampliare le materie oggetto di contrattazione sindacale. Dal 1971 fu docente all’Università di Torino
e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi. Vedi Franco Momigliano, in F.
Fortini, Un giorno o l’altro cit., p. 128.
258 Archivio

Franco Fortini a Cesare Musatti1

Milano, 9 luglio 1958

Caro Musatti, mi sembra di doverle chiedere un chiarimento allo sgrade-


vole episodio di ieri. La sua origine immediata, i particolari del suo svolgi-
mento, mi pare siano e di difficile ricostruzione e di inutile banalità. Avverti-
vo una mia irritazione crescente e ritenevo di averla fatta intendere per evitare
il suo aggravarsi. Ho fatto male a lasciarmi trascinare dalla collera, su questo
non ho dubbi, anche se, interiormente me ne sentivo, almeno in quel momen-
to, giustificato dalle sue insistenti «puntate» e, soprattutto, dalla improvvisa-
mente intuita condizione di «non parità»; quella appunto che avrebbe dovuto
meglio consigliarmi, a non andarmene.
Ma al di là dell’episodio mi pare si ponga il problema di una difficoltà
di comprensione o dell’esistenza di malintesi e prevenzioni reciproche che
sarebbe meglio chiarire. Per parte mia si tratta di questo: il passaggio frequen-
te, quando si determinino delle differenze di vedute, dal piano dei rapporti
non formali ed amichevoli a quelli ufficiali e burocratici, e viceversa. Ieri, ad
esempio, l’argomento della disputa esulava dal lavoro; ma mi è parso che,
nelle ultime battute scambiate, per sua volontà vi rientrasse ed io stesso mi vi
lasciassi trascinare, proprio al momento di uscire. Penso che sarebbe meglio,
senz’altro, sciogliere nella libera conversazione e in più frequenti contatti le
prevenzioni personali sulla «mens» dell’uno e dell’altro. (Lei può compren-
dere come sia sgradevole creder di intuire nell’interlocutore un giudizio com-
plessivo e negativo riguardante la propria personalità o gli interessi generali).
Dico questo perché il tipo di lavoro che son chiamato a svolgere non è di
quelli che si risolvono burocraticamente, che impegnano anzi una parte abba-
stanza larga della personalità; e credo tuttavia che proprio le distanze sempre

1
Cesare Musatti (1897-1989), considerato il padre della psicanalisi in Italia, nel 1942 venne con-
tattato da Adriano Olivetti che aveva manifestato un interesse editoriale nell’ambito della psicologia
e della psicanalisi; nel 1943 Musatti aveva avviato in Olivetti l’embrione di un centro aziendale di
psicologia del lavoro, prima di riprendere la carriera universitaria e l’attività di studioso e scrittore. Ha
curato l’edizione italiana delle opere di Freud edita da Boringhieri ed è stato direttore della «Rivista di
Psicanalisi», sempre mantenendo negli anni un rapporto di consulenza e collaborazione con il Centro
di Psicologia della Olivetti, di cui aveva gettato le basi.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 259

da me prese nei confronti dell’«universo» pubblicitario abbiano contribuito


alla qualità delle mie prestazioni. (Una parentesi: l’amico Mazzocchi2 mi dice
che lei trova poco opportuno che io esprima – e sarebbe comunque la prima
volta – mie personali opinioni sulla pubblicità in uno scritto per Mondadori;
ebbene, ecco una cosa che comprendo benissimo – e per di più si tratta di una
seccatura della quale tanto volentieri quanto facilmente mi libererei! – e se ieri
a colazione sono entrato in argomento è stato proprio per sentire se vi fossero
delle obiezioni in quel senso mentre invece lei mi ha fatto delle osservazioni,
interessanti e probabilmente pertinenti, ma di merito).
Che se invece dall’increscioso episodio di ieri lei intendesse risalire a con-
siderazioni generali riguardanti la qualità e i modi del mio lavoro Olivetti, è
chiaro che non avrei nulla, o ben poco da dire; ma, a maggior ragione, dovrei
chiederle osservazioni specifiche. (Come farle notare, ad esempio, a propo-
sito dei testi per il volume, che se essi mi fossero stati accollati al momento
opportuno e partecipando alla impostazione generale del volume, sarebbero
certo, a quest’ora, già a punto?).
Per parte mia c’è insomma l’intenzione e il giudizio di ricondurre lo
«scontro» di ieri alle sue origini soggettive e psicologiche, magari climatiche:
da una parte, mi consenta, atteggiamenti di sarcasmo non sempre bien placés
o di sufficienza pedagogica, volontà di aver sempre l’ultima parola e incapa-
cità di evitare che traspaia il rapporto gerarchico – o, più semplicemente, la
forza contrattuale – per di più in presenza d’altri e su temi che, se non diret-
tamente connessi col lavoro, in qualche modo coinvolgono le mie – diciamo
così – capacità professionali e la serietà del mio atteggiamento complessivo
di fronte alle cose e al mondo (lei avrà notato che alla mia pertinacia in que-
stioni «ideologiche» corrisponde una estrema capacità di accogliere critiche
particolari e specifiche); da parte mia invece, insieme ad una sciocca rigidità,
c’è una suscettibilità esagerata, un pundonor ridicolo, e scatti di umore che
riconosco francamente odiosi.
Queste incomprensioni possono risolversi, se lei crede, con un po’ di buo-
na volontà e di reciproco controllo; ma debbo farle notare che non debbono
lasciar ombre sul lavoro. Se lei non è contento me lo dica; posso far meglio ma
sono, voglio essere, affatto disarmato. Sono pagato anche per esser giudicato,
non è vero? I rapporti psicologici invece, come lei sa benissimo, possono
esser migliorati quando almeno si creda, come da parte mia credo senz’altro,
ad una buona fede dell’interlocutore, ad una sua onestà di fondo; quando, alla
mia volontà di capire e di conoscere che cosa fa esser l’altro quel che l’altro è,
avverto la reciproca: quell’atteggiamento insomma che dalla generalizzazione

2
Muzio Mazzocchi Alemanni (1920-2013). Studioso di Gioacchino Belli e della letteratura in dia-
letto, è stato giornalista e bibliotecario. Entrato alla Olivetti, ha lavorato a documentari quali Cristo
non si è fermato a Eboli (1952), e La via del lavoro (1961).
260 Archivio

talvolta deformante cui può giungere chi dirige più uomini e ne ha la re-
sponsabilità, passa alla individuazione e alla comprensione di quel che fa una
persona, il suo passato, il livello del suo impegno, i suoi errori e la sua verità.
Mi creda suo

AFF., 2 c.; 29,5x21 cm. Minuta ds. f.ta. XXVIII, 1, 2.


Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 261

Geno Pampaloni a Franco Fortini1

Firenze, 22.7.63

Caro Franco,
ci sono tre buone ragioni per scriverti. Ho letto il libro della Conti, «Ceci-
lia e le streghe», e ti ringrazio di avermelo segnalato. Certo, si può parlare con
verità della morte anche al di fuori del cattolicesimo: in verità, voglio dire, – e
senza orgoglio, qui –, cioè con accenti che risuonano dentro di noi con una
sorta di fedeltà interiore, in una sfera che, per chi come me crede in buona
fede a questa possibilità concettuale, semantica e umana, possiamo chiamare
«meta-ideologia».
O almeno: per me in questo senso, come tu mi suggerivi, quella lettura «è
valsa la pena».
Ho saputo (mi hanno detto) che i tuoi rapporti con la Olivetti sono cam-
biati o cessati del tutto, e se questo, come penso, ti dispiace e ti crea diffi-
coltà, almeno immediate, mi fa molto dispiacere, e vorrei dirtelo. Quando
ci fu la epurazione comunitaria nel ’582, una delle cose per me penose fu il
tuo silenzio. Significava, credo, da parte di chi, come sei stato tu, mi aveva
ritrovato in quel mondo, un giudizio di tradimento oggettivo, da parte mia,
delle ragioni che ti (ci) avevano indotto a introdurmici, oltre quelle sempli-
cemente amichevoli (e poi: tu hai, me lo hai scritto, un concetto interpeda-
gogico dell’amicizia). Siccome non condividevo quel tuo giudizio, sostituii
abbastanza facilmente la solidarietà che allora mi mancò, con l’orgoglio. Ma
amicizia è, secondo me, anche questo dialogo di diffidenze, quello che trama
e rompe comunque il silenzio o le parole di cui viviamo. Non credere ora che
voglia essere più generoso: sono semplicemente più sentimentale, e ricordo le
stanzette dell’ormai «vecchio» asilo dove ci rivedemmo, e dove maturò una
parte così importante della mia vita.

1
Lettera ms. a penna nera, [2] ff. su 1 c.; 22x29 cm. Cfr. Francesca Barbera, «Dialogo di diffiden-
ze»: il carteggio Fortini – Pampaloni (1940-1989) cit., pp. 115-116.
2
Il rapporto tra Pampaloni e la Olivetti si concluse nel 1958. Con la sconfitta dalle elezioni po-
litiche del Movimento Comunità, molti collaboratori, fra i quali Pampaloni stesso, furono licenziati.
262 Archivio

Infine, le tue poesie3. Ma di queste non sono ancora pronto a parlarti.


Delle cose che sento più ti piacciono non sono ancora venuto a capo.
Dirti chiaro quelle che più mi piacciono, potrebbe apparirti provocatorio.
Quella che mi segnali, pag. 91, mi è arrivata, credo, per intero, e ha toccato
il segno.
Questo, spero, farà piacere anche a te.
Affettuosamente
Geno

Hai visto la nostra collana «Saggi e documenti dei popoli nuovi»4 dove è
apparso Ferhat Abbas?
Hai qualche libro da suggerire, o da tradurre?

AFF, [3] p. su 1 c.; 29x21,5 cm. – Sul r. appunto d’altra mano. XI, 6, 31.

3
Probabile riferimento alle poesie di Una volta per sempre, Milano, Mondadori, 1963.
4
Ferhat Abbas, Dentro la notte del colonialismo: guerra e rivoluzione in Algeria, in Saggi e docu-
menti dei popoli nuovi, Vallecchi, Firenze 1963. Questa monografia è l’unica contenuta nella collana
appena citata. Ferhat Abbas (Taher, 25 ottobre 1899 – Algeri, 24 dicembre 1985) fu un politico, leader
del movimento d’indipendenza algerino.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 263

Franco Fortini a Geno Pampaloni1

Bocca di Magra, 14 agosto 1963

Caro Geno, scusa se ti rispondo con tanto ritardo. Ti ringrazio di quanto


mi dici. Quello della Conti2 mi sembra un bel libro, probabilmente unico, e
un caso tipico di «trionfo dell’irrealismo» o di un delirio represso dalle intui-
zioni razionali. In quanto ai miei versi, credo ve ne siano di buoni.
La Olivetti mi ha peggio che dimezzato la consulenza, sì che devo cercare
altrove e in un momento difficile. Non ti scrissi quando la Olivetti ti liquidò
perché mi parve, e tuttavia mi pare, fosse quello un evento o caso (come le tue
mansioni, d’altronde) più «politico» che professionale e poco diverso da un
mutamento di sottosegretario al governo. Non ti faccio colpa di alcun tradi-
mento di ideali. Mi sembra, tutto sommato, che tu sia stato e rimasto coerente
con te stesso, cioè con una «visione del mondo» che non condivido. In quan-
to all’amicizia, esiste forse contro di essa, come per certe forme letterarie, una
invidia dei nostri tempi; sì che certi vocativi («amici…») che puoi incontrare
nei miei versi vanno interpretati come vere e proprie figure retoriche, come
l’«amore» nella lirica cinquecentesca; o figurae absentiae.
Ciao; e pentiti, se puoi.* Tuo
Franco Fortini
* Scherzo, naturalmente

AFF., [1] c.; 29,5x21 cm. Fotocopia. XVI, 63, 34.

1
Lettera manoscritta, [1] f. su 1 c. Cfr. Francesca Barbera, «Dialogo di diffidenze»: il carteggio
Fortini – Pampaloni (1940-1989) cit., p. 117.
2
Laura Conti, Cecilia e le streghe, Einaudi, Torino 1963.
Franco Fortini

Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani


Cultura comunista?1

Non posso concordare, come vorrei, con l’amico Carocci nella sua valu-
tazione della «cultura comunista» (vedi «Comunità» del n. 21). La sua tesi
(identificazione della «vera» cultura comunista con quella di «avanguardia»,
anarchica, raffinata, ecc.; cultura comunista come frutto dell’incontro di intel-
lettuali senza pubblico con un pubblico proletario senza intellettuali; caduta
passionale di intellettuali borghesi di fronte al mito di una barbarie culturale
comunista) sarebbe probabilmente valida solo che Carocci avesse ristretto il
suo discorso alla cultura letteraria e artistica (pittori, poeti, romanzieri, musi-
cisti) e in particolare a quella italiana; e avesse distinto «comunismo» da «par-
tito comunista italiano del dopoguerra ’45 ’46». Il suo discorso generalizzato,
diventa falso. Primo, perché cultura nella sua più comune accezione, non si
identifica con cultura letteraria e artistica e sarebbe un po’ difficile a Caroc-
ci dimostrare che scienziati, economisti, filosofi, critici, storici (comunisti in
politica e anche nelle premesse teoriche del loro lavoro) appartengono a quel-
le sue categorie di anarchici, decadenti, raffinati, individualisti, ecc. Secondo,
perché comunismo non si identifica necessariamente con partito comunista,
ma, nel suo significato culturale è marxismo in una certa varietà di interpreta-
zioni e sfumature. Terzo, perché anche volendo tenersi a questa interpretazio-
ne restrittiva di comunismo e di cultura, l’ortodossia comunista nei riguardi
della cultura letteraria e artistica è stata tanto mutevole da considerare (oggi)
eretici gran parte di quegli anarchici, individualisti e avanguardisti. Così che,
o non si considerano più avanguardisti o non più comunisti. Il caso insegna,
di un forte gruppo di surrealisti, scomunicati o passati al trotskismo.
L’errore di Carocci è quello iniziale (e veramente grave) di voler parlare
di una «cultura comunista». Infatti, o egli vuol dire cultura marxista in senso
lato: e allora è manifestamente assurdo voler isolare questa dal contesto di
tutta la «cultura» occidentale o mondiale, della quale fanno validamente parte
necessaria tanto Marx quanto Lenin, tanto la Luxemburg quanto Politzer

1
«Comunità», 23, 15 novembre 1947, p. 4, 7. A conclusione dell’articolo la redazione di Comu-
nità inserisce una nota dove spiega: «Per mancanza di spazio rimandiamo al prossimo numero una
precisazione di Giampiero Carocci a conclusione della polemica operata da Fortini». La polemica si
conclude infatti con una lettera di Carocci, pubblicata nel numero del 29 novembre dello stesso anno,
che smorza nel toni la polemica ma ne sottolinea la distanza nelle posizioni e nelle idee.

L’ospite ingrato ns 6
268 Archivio

o Gramsci o, se volete, Labriola ma anche Malraux, Babel’, Ivanov, Brecht,


Esenin, Lorca, tutti nomi per i quali mi sembrerebbe un po’ difficile parla-
re di «avanguardismo» o di «individualismo anarchico»; o si vuole invece (e
questa ci sembra l’intenzione non abbastanza confessa) parlare di «cultura
comunista» in senso stretto e quindi di «direttive culturali» qui ed ora del
Partito Comunista Italiano e allora, evidentemente, chiunque potrà avere ab-
bastanza buon giuoco per dimostrare che la provenienza di molti scrittori o
artisti militanti del partito comunista è chiaramente borghese e che la loro
permanenza in quelle file è soltanto dovuta ad un equivoco, il quale per ragio-
ni contingenti e minori, né i dirigenti né gli adepti hanno interesse a chiarire;
così che la paradossale conseguenza del discorso di Carocci sarebbe quella di
affermare in principio di articolo l’esistenza di una «cultura comunista» come
corpo separato, per negarla alla fine e ridurla ad un equivoco interessato e a
un jeu de dupes.
Evidentemente, un equivoco c’è; ma è in questo discorrere di «cultura co-
munista» senza precisione. Se infatti, onestamente (né Carocci si rifiuterà di
farlo), si consideri che non si può tentare una definizione di «cultura comu-
nista» mettendo a paragone gli astratti e schematici «ordini di partito» (reali-
smo comunista oggi, ma surrealismo ieri, ma futurismo nel 1918, ecc.) con le
realizzazioni degli artisti sedicenti comunisti o rivoluzionari, per concludere
che non c’è una «cultura comunista», bisognerà riconoscere che, nonostante
tutto, esiste ed è esistita una imponente attività culturale, nel mondo intero,
validissima, anzi necessaria, che si richiama a premesse marxiste-rivoluziona-
rie. Ed è un giuoco di parole dire che quegli artisti o quei poeti sono, in fondo,
degli anarchici o dei ribelli individualisti o solo apparentemente dei comuni-
sti; questo presuppone un’idea (contestabilissima) di che cosa sia comunismo,
ma una idea astratta e astorica, tutta dottrinale. Mentre invece qualsiasi teori-
co serio del comunismo o dell’estetica marxista (ad esempio, György Lukács)
invece di supporre l’artista o lo scrittore comunista come colui che ha fatto
un salto fuori dalla storia e vive definitivamente nel mondo socialista, ne fa
il cittadino di questo mondo mescolato di progresso e di regresso, che non è
in crisi nel senso di cui parla Carocci (ponendo sul medesimo piano la «crisi»
di Rimbaud o Esenin), che non è dunque di crisi «spirituale» ma di crisi di
transito rivoluzionario. In questo senso un poeta comunista di provenienza
individualista, anarcoide, ecc. (Alfonso Gatto) ha potuto parlare di «diritto al
suicidio» del poeta comunista; e recentemente, alcuni intellettuali comunisti
napoletani hanno parlato di «diritto della disperazione». C’è insomma una
profonda, una radicale differenza tra il suicidio e la fuga dei nostri padri Rim-
baud o Lautréamont, fra la fuga distruttiva e anarcoide dell’intelligenza euro-
pea e parigina della avanguardia di trenta o quarant’anni fa e l’«avanguardia»
che ha avuto a che fare coi comunisti negli ultimi trent’anni. Anche se si è
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 269

trattato, talvolta, dei medesimi dal punto di vista anagrafico. I surrealisti, ad


esempio, hanno potuto certo trovarsi in contatto con le direttive estetiche
della «Pravda» o dei «Congressi degli Scrittori Sovietici»: ciò non impedisce
che essi avessero, come l’hanno oggi gli scrittori iscritti al Partito Comunista
e anche molti che non sono iscritti a quel partito (come lo scrivente, ad esem-
pio) una persuasione non più rivoltosa ma rivoluzionaria, fondata, a torto o
a ragione, su di una determinata dottrina o metodo d’indagine economico-
politico che i romantici non avevano. Onde fra la disperazione di Baudelaire
e quella dei moderni c’è una differenza capitale, anche se nessuno può negare
una continuità tecnica, di esperienza, una continuità che sarebbe d’altronde
ridicolo voler negare o distruggere astrattamente. Naturalmente, tutto quel
discorso di Carocci vuol concludere ad una sua cara tesi circa l’insuperata
contraddizione romantica implicita nel mondo moderno. Ma il suo è un po’
il sofisma del calvo che si strappava i capelli ad uno ad uno senza mai diven-
tare completamente calvo: così, siccome nelle forme della cultura moderna,
sopravvivono e sussistono le forme della cultura individualistica, borghese,
anarcoide e rivoltosa, Carocci continuerà a negare l’esistenza di una cultura
in via di superamento di quei caratteri; o l’affermerà incidentalmente per de-
prezzarla subito dopo e dichiararla equivoca. Così dunque, come da una par-
te rifiutiamo di identificare «cultura comunista» con «cultura accettata dalle
teorie in corso in Unione Sovietica» e preferiamo parlare più largamente di
cultura marxista, ci guarderemo bene, dall’altra, dall’imputare al comunismo
le contraddizioni di quest’ultima; ma vi vedremo invece la necessaria iden-
tificazione fra mezzi così detti culturali e mezzi così detti politici, come è
stato abbastanza chiarito nello recente polemica tra Vittorini, Felice Platone
e Togliatti.
Che poi quegli artisti di avanguardia si trovassero senza pubblico, lo han-
no smentito i loro successi nell’ambiente borghese, che ha goduto trent’anni i
loro insulti e ha riempito delle loro opere biblioteche e gallerie; che il proleta-
riato si trovasse senza élite intellettuale, lo smentisce il fatto che il proletariato
(almeno quello rivoluzionano) sa benissimo di esprimere da sé la propria éli-
te, come ha fatto ad esempio in Russia, e fa bene a meno di una cultura di pit-
tori né se ne decora come fa la borghesia, quasi fossero garofani all’occhiello.
Ciò fanno, semmai, i giornalisti di partito e le direzioni politiche, e per altri
motivi. Ma questo è un altro discorso.
L’Oriente e la speranza1

C’è una casa editrice che persegue, ormai da due anni un lavoro poco visi-
bile e severo, al di fuori delle strade battute dai grandi editori. La casa editrice
«Comunità», di Milano, ha ormai al suo attivo una ventina di volumi.
Nel nostro paese, la speculazione religiosa è sempre rimasta nell’orbita
economica; e di un cattolicesimo particolare che, nei tempi moderni, era di
prudenza e di avvedutezza piuttosto che di audacia e di iniziativa. Quando la
Francia, negli ultimi cinquant’anni, ha dato nomi come Péguy, Bloy, Claudel,
Mauriac, Du Bos, Maritain, Bernanos da noi c’è ancora qualcuno che si oc-
cupa di Giovanni Papini. In Francia esiste «Esprit», di Mounier, una rivista
cattolica che in Italia non potrebbe vivere. E non parliamo dell’eccezionale
forza del combattimento e della testimonianza dei cattolici anglosassoni. Da
noi, al di là dei termini consueti del pensiero religioso cattolico, non c’era che
l’idealismo, con la sua sufficienza; o il positivismo con la sua boria. La tra-
dizione giansenista italiana, le vene protestanti che dal rinascimento ai giorni
nostri hanno percorso la nostra società, sembravano assorbite nel laicismo
liberale e idealistico, come erano confluite in Mazzini. E invece fuori d’Italia,
nel centro e nel nord dell’Europa, continuava a svolgersi una vita del pensie-
ro religioso e morale della quale noi abbiamo percepito l’eco riflessa solo in
certo esistenzialismo. Ben pochi italiani conosceranno le opere di Barth, di
Otto, di Brunner, ad esempio, e il significato della «teologia della crisi»; la
moda di Kierkegaard è arrivata anch’essa come moda, come «caso». Tutto
questo è abbastanza naturale, d’altronde, a chi consideri la struttura della no-
stra società. Non si tratta soltanto di tradizione o di temperamento: si tratta
del fatto che la nostra piccola borghesia (quella stessa piccola borghesia che
ha fatto le rivoluzioni religiose ed individualistiche in Europa), si è sollevata
e si solleva con tanta fatica dal gorgo della miseria urbana o contadina, che
tutte le sue forze sono impegnate a salvarsi da quell’orrore del vuoto che
rappresenta per essa la «proletarizzazione»; perciò tutte le sue energie sono
rivolte ad una legalizzazione del proprio meschino potere in una alleanza
con le vecchie forze della gerarchia cattolica. Per un ’48 e un ’60 la borghesia

1
«Avanti!», 13 febbraio 1948.

L’ospite ingrato ns 6
272 Archivio

italiana ha dato, purtroppo, l’ultimo quarantennio. Per un Cavour e un Croce


ci ha dato un Cavour e un Mussolini. Stiamo riguadagnando qualcosa, alme-
no sul piano dell’informazione: Einaudi lancia una nuova collezione di studi
sociologici (l’Italia, patria di Pareto e di Mosca, s’era dimenticata che cosa
quegli studi fossero), Astrolabio, a Roma, ci dà i principali testi della psica-
nalisi moderna. E Comunità, oltre ad alcuni dei massimi testi di Kierkegaard
(La malattia mortale, Timore e tremore) ci ha dato la possibilità di leggere,
in accuratissime presentazioni grafiche, Le due fonti della morale e della re-
ligione di Bergson, Presenza e profezia di Claudel, Il mistero degli ebrei e
dei gentili nella chiesa di Eric Peterson: opere tutte di cattolici aperti verso
il futuro, con i quali una conversazione è possibile e necessaria. Libri come
questi, di difficile accesso e lettura, potrebbero diventare, se ci fosse un filo di
buona volontà, gli spunti di quegli incontri fra genti di fedi e di persuasioni
politiche diverse che dovrebbero avvenire non certo in nome di una tolleran-
za cortese e indifferente e «distinta», ma per un calore che sembra mancare
all’attuale match di insulti tribunizi e giornalistici. Ma l’aspetto più interes-
sante di questa attività editoriale è quello rappresentato da opere di scrittori
russi o interessanti la Russia. Del Berdjaev è stato stampato Spirito e libertà,
un grande sforzo di «salvare» minacciati valori in una sintesi valida anche per
i nostri tempi straziati; e del famoso – e ignorato – Solov’ëv è uscita un’opera
strana e conturbante (La Russia e la Chiesa universale) che apre a noi occi-
dentali una dimensione nuova del cristianesimo; il cristianesimo dello Spirito,
della Chiesa d’Oriente, di Mosca «terza Roma»; il cristianesimo ortodosso,
bianco ed estatico, eppure profondamente legato alla terra e alla gioia terrena,
è quasi sempre rimasto al di fuori della dialettica nostra, quella del dualismo
cattolicesimo-protestantesimo. Chiunque voglia comprendere qualcosa della
Russia deve passare attraverso un libro come questo e, diremmo, leggerlo in-
sieme a quel libro del gesuita Wetter sul materialismo dialettico sovietico (ed.
Einaudi) che è uscito un mese fa. E, quasi a conclusione di queste due opere
di pensatori russi, è comparso recentemente con i tipi di Comunità, un libro
di eccezionale interesse: L’Europa e l’anima dell’Oriente di Walter Schubart.
Si potrà dissentire, come dissente chi scrive, dal metodo idealistico dell’auto-
re, dalla terminologia immaginosa e letteraria; ma non si potrà fare a meno
di riconoscere una acutezza rara di analisi delle strutture dell’animo slavo e
russo, di attribuire un interesse capitale a questi giudizi sull’Occidente dati
da un uomo nel quale cultura occidentale e orientale si equilibrano in modo
raro. Il libro è tutto una tesi di speranza nell’Oriente, nell’uomo nuovo che
sormonterà anche la novità dell’uomo bolscevico e che risolverà in se stesso,
le contraddizioni delle due civiltà fondamentali, distruggendo l’immagine at-
tuale dell’uomo, che è l’«uomo prometeico». Naturalmente, leggendo que-
ste pagine, si è spesso portati a chiedersi se questa fenomenologia dell’anima
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 273

slava non guadagnerebbe ad incarnarsi maggiormente, a chiarirsi in termini


di storia economica, sicché si scorgessero partire, dalle solide assise storiche
del passato, le direttrici dell’azione avvenire. Tuttavia questa appassionata in-
dagine dell’uomo russo, del popolo portatore di Dio, di questo popolo nella
cui lingua il termine «verità» e quello «realtà» sono espressi dalla medesima
parola (pravda), quasi a segnare una unità che l’Occidente ha perduta, offre
quel materiale di meditazione del quale, da tempo, manchiamo. Si possono
fare le più vaste riserve sulle premesse ideologiche del libro, abbiamo detto;
e queste riserve ideologiche si estendono a tutti o a quasi tutti i volumi della
collezione di Comunità, tanto essi danno la impressione di parlare in termi-
ni anacronistici per troppa volontà di guardar lontano, oltre la contingenza
storica; si può anzi dire che, talvolta, si ha l’impressione che l’aria di cristiana
pace che vi spira sia l’aria di un chiostro interiore, di un «orto concluso»,
piuttosto che l’aria vivida e acre che fu quella delle testimonianze cristiane e
non cristiane lungo le carceri e i campi e gli assurdi strazi dell’ultimo mezzo
secolo; ma si deve riconoscere la composta dignità e severità dell’assunto, il
contributo di buona fede alla formazione di una statura morale per la quale ad
ogni richiesta di diritto corrisponda la precisione di un dovere verso gli altri
totalmente adempiuto.
Come è stata lanciata la Lexikon1

La presentazione pubblicitaria della nuova macchina per scrivere «Oli-


vetti» conteneva due difficili aspetti: inserire una necessaria novità in una tra-
dizione stilistica ormai universalmente conosciuta; e creare, in una fase di
mercato non favorevolissima, il bisogno di sostituzione del tipo vecchio col
nuovo, senza tuttavia allarmare eccessivamente coll’annuncio di una rumo-
rosa novità.
La nuova macchina nasceva in realtà con caratteristiche assolutamente ori-
ginali, quali lo scorrimento del carrello su cuscinetti a sfere, il nuovo sistema
di trasmissione degli impulsi, il loro controllo del tocco, la carrozzeria aspor-
tabile, ecc. La forma poi, e soprattutto il colore, erano tali da sovvertire addi-
rittura un’immagine popolare. Si trattava insomma di un prodotto di altissi-
ma qualità, le cui virtù richiedevano però una pubblicità tecnica e ragionata,
mentre invece le simpatie o antipatie istintive e di primo acchito del cliente
sarebbero state determinate dall’aspetto della carrozzeria e dall’inconsueta
elasticità dei tasti. Fu deciso quindi di far fiducia nell’interesse che il pubblico
avrebbe dimostrato alle qualità tecniche, piuttosto che cercare di imporre la
nuova linea ed il nuovo colore. D’altronde, quella linea era stata un atto di
previdenza del gusto, e nasceva da una persuasione culturale, dall’amore per
gli oggetti funzionali e naturali, la leva interlinea aveva le curve d’usura degli
scalmi veneziani e la carrozzeria pareva discendere dalla scultura di Brancusi
di Arp o di Moore. Ora, questo gusto, il dopoguerra lo aveva già in par-
te introdotto, di modo che la forma e il colore della Lexikon (il suo sapore
asciutto, per il valore verticale della parola sdrucciola) trovarono un pubblico
inconsciamente preparato; ciò non toglie che furono un gesto di coraggio.
L’ azione pubblicitaria doveva quindi avere i caratteri di una presentazio-
ne piuttosto che di una «campagna». Si pensò quindi di limitare i mezzi alla
stampa ed alle vetrine, oltre naturalmente i pieghevoli di accompagnamento.
Per la stampa fu adottato un piano molto semplice: una serie di quattro
annunci destinati ad alcuni grandi giornali di informazione e finanziari (il cui

1
Archivio Olivetti, Fondo Direzione Comunicazione Ufficio Stampa (DCUS), faldone 40, fa-
scicolo 559.

L’ospite ingrato ns 6
276 Archivio

numero è andato aumentando dal primo al quarto annuncio e precisamente


da sei a dodici) affiancata da una serie di altri annunci simultanei, di minori
dimensioni, destinati a minori giornali. Questa sarebbe stata la pubblicità di
rottura, cui avrebbe fatto seguito quella sui settimanali di maggiore diffusio-
ne e sulle riviste. Per gli annunci destinati ai maggiori quotidiani si scelse il
formato di quattro colonne intere, che, se presentava maggiori difficoltà di
impaginazione, sortiva maggiore efficacia della mezza pagina e della pagina
intera. Inoltre le sue misure imponevano discrezione ai corpi tipografici e si
adattavano bene al carattere dimostrativo e non spettacolare che si voleva
raggiungere. Per gli altri giornali si adottò invece un formato ridotto. Tale
formato fu abbandonato dopo la prima inserzione per unificare tutti gli an-
nunci sulle dimensioni massime: 4 colonne intere.
E siccome la macchina si inseriva ovviamente in un generale moto di
rinnovamento del dopoguerra, fu questo concetto a comandare lo slogan –
(«scriverà le parole del vostro avvenire») – dove il doppio valore della parola
avvenire, aggiungeva al senso di futuro quello, commerciale e industriale, di
carriera e di successo.
Il primo annuncio presentò la foto della macchina e, in un riquadro cen-
trale, le nuove caratteristiche del prodotto. Seguiva un testo che spiegava per-
ché fosse nata una nuova macchina per scrivere, da quali esigenze tecniche
si originasse. Una scritta in negativo richiamava poi un elemento capitale, il
prezzo, pari a quello del vecchio modello e basato sulle quotazioni interna-
zionali.
Il momento del lancio coincideva col mese natalizio. Tuttavia il colpo di
gong non andò disperso nella pubblicità di fine d’anno perché immediata-
mente affiancato dal rinnovo delle centotrenta vetrine Olivetti, in un mo-
mento di particolare attenzione del pubblico a vetrine e negozi. Queste, pur
inserendosi nella linea geometrica ed astratta cara alla severità meccanica del-
la nostra fabbrica, si ispiravano ad un concetto elementare e chiarissimo: la
mensola di presentazione che, sorretta dai simboli stilizzati della direzione
del traffico (dischi, bandierine) richiamava senza insistenza elementi antro-
pomorfi. L’ attenzione e i commenti del pubblico di fronte alle nuove vetrine
confermavano la giustezza della strada intrapresa: il pubblico italiano aveva
raggiunto la maturità sufficiente per poter essere toccato da una dimostra-
zione tecnica, ed anzi da ricercarla. Il secondo annuncio su quattro colonne
si impostava quindi sulla analisi (accompagnata dagli schemi al tratto) di tre
delle caratteristiche della nuova macchina; la carrozzeria amovibile su strut-
tura reticolare, il cinematico ad accelerazione progressiva e lo scorrimento del
carrello su cuscinetti a sfere.
Il terzo annuncio, comparso, come abbiamo detto, su di un più gran nu-
mero di quotidiani, lasciava la descrizione della macchina per un testo rias-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 277

suntivo della storia della Olivetti; ed il quarto finalmente era un annuncio di


prestigio destinato a far conoscere la nostra organizzazione commerciale, le
sue società alleate e le sue filiali.
Taluno potrà chiedere come mai, dopo solo quattro annunci di grandi di-
mensioni, la propaganda della nuova macchina abbia subito una pausa prima
di passare alla fase dei settimanali e delle riviste, che ha il compito ben noto di
intrattenere nel pubblico una coscienza già acquisita al momento dell’«urto»,
senza correre il rischio della dimenticanza; e come mai due degli annunci
maggiori siano stati, benché centrati sulla Lexikon, rivolti piuttosto a valoriz-
zare il quarantennio Olivetti e la sua portata mondiale.
La ragione si è che l’immediato elevatissimo numero delle ordinazioni
fece ritenere più opportuna una breve pausa nella pubblicità in modo da con-
sentire un più regolare afflusso della Lexikon ai mercati italiani, senza scapito
di quelli stranieri e della loro forte domanda.
Venivano quindi le fiere primaverili, l’estensione alla Lexikon della pub-
blicità a mezzo cartelloni urbani e stradali già impiegata per i nostri calcola-
tori scriventi; e, nel mese di giugno, a sei mesi dal lancio, la vittoria assoluta
della Lexikon nelle gare nazionali di dattilografia, vittoria diffusa da servizi
ed articoli su cinquantaquattro fra quotidiani e periodici vari, che concludeva
la presentazione e consolidava un successo mondiale.
Lèxicon (dal greco λέγω, dire e raccogliere) è il nome con il quale si in-
dicano i vocabolari, repertori, enciclopedie (non i dizionari che servono per
tradurre da una lingua in un’altra, ma soltanto quelli che raccolgono tutte le
parole di una lingua). Per analogia, la macchina per scrivere contiene tutte le
parole in tutte le lingue.
Il termine «léxicon» è assai più usato e noto all’estero che in Italia. Ne
fanno particolarmente uso le lingue anglosassoni (ricordiamo, fra i grandi
repertori enciclopedici tedeschi il Meyer Lexicon, il Brockhaus Lexicon ecc.)
Esso è stato scelto non solo per questo suo significato classico, per il suo
ritmo forte, ma perché in tutte le lingue del mondo si pronuncia allo stesso
modo. Il concetto di «Lexicon» è familiare a tutto il mondo colto anglo-ame-
ricano e centro europeo.
Nella lingua italiana, la parola «léxicon» esiste (in altro senso) nella pro-
nuncia e nella forma: Lèssico, che significa l’insieme dei vocaboli di una data
lingua o linguaggio. In questo senso si parla di «lessico marinaro», «lessico
popolare», «lessico militare» ecc. Dalla parola «lessico», derivavano: lessico-
grafo, lessicologo, lessicale.
L’organizzazione Olivetti.
La Olivetti & la Lexikon elettrica1

Storia di una fabbrica

Non v’è nessuno che non associ il nome della Olivetti alle macchine per
scrivere, ai calcolatori, alle telescriventi; ma non sono molti quelli che cono-
scono la storia della fabbrica d’Ivrea e il significato di quella storia.
Quando, l’anno scorso, le vetrine dei negozi Olivetti esposero quella Le-
xikon 80 che ha rivoluzionato i mercati delle macchine per scrivere, gli an-
nunci pubblicitari parlarono di quarantennio Olivetti. Si compivano infatti
quarant’anni dall’inizio della lavorazione della M1 che fu la prima macchina
per scrivere prodotta in Italia. Non veniva certo tra le prime l’industria dat-
tilografica. Era stata preceduta, in tutta l’Italia del nord, da altre e potenti
industrie meccaniche. Si riteneva forse che le maestranze ed i tecnici italiani
non sarebbero stati all’altezza di un lavoro di elevata precisione; e che, in
questo campo ancora, il nostro paese avrebbe dovuto limitarsi a registrare
il primato dell’invenzione. Il novarese Giuseppe Ravizza, l’avvocato idea-
tore del «Cembalo Scrivano» pareva essere rimasto una gloria provinciale,
il ricordo di una lapide polverosa, lasciando lo sfruttamento industriale alle
imprese di altre nazioni. Invece, possiamo dire oggi, l’iniziativa del giovane
ingegner Camillo Olivetti conteneva quello che doveva permanere carattere
distintivo del «lavoro Olivetti»; un’intensa fiducia nella ricchezza d’animo
dei suoi uomini, la volontà di fare un tutto unico dell’impresa industriale e
dell’ambiente umano nel quale quella si sarebbe dovuta attuare. Per questo i
primi collaboratori dell’ingegner Camillo Olivetti furono operai canavesani
che la vicinanza alla Torino industriale non aveva allontanati però troppo dal
campo e dalla vita agricola; e la prima officina nella quale poche decine di uo-
mini iniziarono la fabbricazione delle macchine per scrivere doveva apparire
quasi sperduta nella campagna circostante.
Non si trattava soltanto di audacia e di buona volontà. Chi scorra i no-
minativi dei marchi di fabbrica delle macchine per scrivere vi legge quelli di
centinaia di imprese scomparse senza quasi lasciare traccia. Se la Olivetti non
solo non ha partecipato a questo destino, ma anzi è salita fino a conquistarsi

1
Archivio Olivetti, DCUS, faldone 40, fascicolo 559.

L’ospite ingrato ns 6
280 Archivio

uno dei primissimi posti nel mercato mondiale, ciò è dovuto alla obbiettiva
qualità dei suoi prodotti. Se nel 1911 un concorso vinto presso il Ministe-
ro della Marina permetteva alla giovane impresa di farsi largo sul mercato
nazionale; e se l’avvedutezza di chi la dirigeva le permise di superare la fase
riorganizzativa che seguì la prima guerra mondiale, fu soprattutto la certezza
di poter disporre di un lavoro perfetto, unita all’audacia e alla larghezza di
concessioni dei dirigenti, a permetterle, più tardi, quell’amplificazione delle
lavorazioni e degli impianti che doveva portarne i nomi fuori dei confini. Nel
1924 si iniziava la costruzione delle Officine Meccaniche Olivetti, nel 1932, la
Fonderia, fino allora società indipendente, si riuniva alla fabbrica. Nell’anno
1933 quando poco più di 800 persone impiegate negli stabilimenti di Ivrea
producevano circa 25.000 macchine all’anno, la conquista del mercato ita-
liano poteva considerarsi conclusa. Era quella M 40 che è rimasta, fino alla
Lexikon, esemplare modello di docilità e di robustezza, a fondare il successo
della fabbrica e dei suoi tecnici. In quel medesimo anno si iniziava la fabbri-
cazione degli schedari e della macchina portatile; nel 1938 nasceva la Studio,
una forma intermedia tra la portatile e la macchina da ufficio, destinata ad
incontrare uno straordinario favore e a rimanere fino ad ora nerissima e dif-
fusa per la sua resistenza. Fino a questa data il nome Olivetti si era associato
quasi esclusivamente a quello delle macchine da scrivere; ma chi guidava la
fabbrica si era reso conto che un’industria come quella esigeva e permetteva
nello stesso tempo una coraggiosa esistenza. Cresceva la parete di cristallo
della fabbrica aggiungendo reparto a reparto, officina a officina; la popolazio-
ne operaia aumentava ogni giorno, e con essa si ponevano delicati problemi
di ordine sociale, quali l’assistenza sanitaria, la mensa, l’asilo-nido per i figli
dei dipendenti. Tale aumento della popolazione operaia e degli impiegati, dei
tecnici e dei dirigenti, si sommava al numero complessivo di diverse migliaia
di dipendenti.
Dicevamo, problemi di ordine sociale, problemi di abitazione anzitutto.
E quindi necessità di creare nuclei di edifici residenziali per i dipendenti, ab-
bastanza vicini alla fabbrica e al tempo stesso distanti quanto bastasse a ga-
rantire la necessaria diversità tra l’ambiente della famiglia e quello del lavoro.
Problemi di trasporto, per le centinaia e centinaia di dipendenti domiciliati,
in comuni e borgate spesso distanti molti chilometri dalle Officine. Problemi
di organizzazione interna, di distribuzione dei compiti, di studio dei tempi.
È stato insomma il modo ampio e coraggioso con il quale questi problemi
sono stati affrontati e risolti a dare alla organizzazione Olivetti quel signifi-
cato di progresso e di energia marciante che non solo è l’opinione italiana ad
attribuirle ma quella dei tecnici e degli studiosi stranieri che da ogni parte del
mondo si recano a visitare gli stabilimenti e il complesso dei servizi sociali di
Ivrea. Negli anni del dopoguerra fino a questo momento le attività Olivetti
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 281

non hanno cessato di arricchirsi di nuovi prodotti. La storia della fabbrica si


confonde dunque con la cronologia dei suoi risultati.

I calcolatori scriventi

Mentre i due modelli fondamentali di macchine per scrivere Olivetti, la


M 40 da ufficio e la Studio sono profili familiari, anche a chi non ha scritto
a macchina, i calcolatori scriventi appartengono ad una famiglia meno nota;
ma la loro nascita che è di queste ultime annate anche se i primi modelli sono
già in uso da una decina di anni, segna una svolta importante nella storia della
Olivetti. Le esigenze del mercato, anzitutto proponevano una gradualità di
bisogni ai quali si è voluto venire incontro con una pluralità di modelli, tutti
forniti di un numero elevato di servizi comuni, massimo quello della scrittura.
Si passa così da addizionatrici come la SUMMA 15, a funzionamento
manuale, capace di eseguire somme e sottrazioni (macchina particolarmente
adatta per piccole aziende, magazzini, negozi, alberghi, ecc.) alla ELET-
TROSUMMA 14, che fornisce tutte le prestazioni della SUMMA, ma elet-
trificata da un motore universale da 110 a 220 volts; e da questa si perviene
ad un vero calcolatore scrivente come la MULTISUMMA 14, che aggiunge
alle possibilità delle addizionatrici la moltiplicazione abbreviata con scrit-
tura automatica del risultato e dei fattori. Questa macchina, che consente
eccezionali semplificazioni delle organizzazioni contabili, amministrative,
bancarie, statistiche e tecniche in genere, è superata solo dalla DIVISUM-
MA, forse la vetta della attuale produzione mondiale, vera «macchina intel-
ligente», unica per il numero e la varietà delle sue prestazioni; macchina che
sta affermando le proprie eccezionali qualità anche negli Stati Uniti d’A-
merica, patria, com’è noto, delle più importanti fabbriche di addizionatrici.
La DIVISUMMA esegue e scrive le quattro operazioni; in particolare essa
scrive dividendo, divisore, quoziente e resto, consentendo così il controllo
delle singole operazioni senza bisogno di ripetere tutti i calcoli. Poi, quando
si consideri che alla ELETTROSUMMA e alla MULTISUMMA è possibile
aggiungere un carrello che permette di eseguire le operazioni direttamente
su moduli, schede o prospetti, di larghezza fino a cm. 32 e perciò di compi-
lare documenti contabili, bollette, estratti conto, stipendi, formulari bancari
e statistici; ed alla MULTISUMMA un rullo divisivo per uso contempora-
neo e indipendente di due colonne di operazioni, si comprenderà come la
produzione dei calcolatori scriventi abbia raggiunto una importanza ormai
pari a quella delle macchine da scrivere.
282 Archivio

L’Officina Meccanica Olivetti

Creata nel 1924, la Officina Meccanica Olivetti si specializzava nella pro-


duzione di macchine utensili di precisione, fornendo anche gran parte delle
macchine delle Officine Olivetti. Organizzazione separata, ma allo stesso
tempo unità della contiguità materiale e dalla unità di metodi costruttivi, la
O.M.O. annovera fra i suoi prodotti una Rettificatrice Universale Idraulica,
per operazioni di rettifica cilindrica e conica, interna esterna e di sfacciatura.
Si tratta di un prodotto di altissima qualità e precisione capace di rettificare
fino a 850 mm., i cui avanzamenti di mola possono essere realizzati a mano
oppure automaticamente, con operazioni della massima semplicità. Si tenga
presente che la testa porta pezzo presenta una gamma di velocità variabile in
modo contiguo ottenuta mediante dispositivo idraulico. A mezzo di pedale
si comanda, sempre idraulicamente, la contropunta, in modo da facilitare il
montaggio e lo smontaggio di pezzi pesanti.

La telescrivente

In quel periodo di tempo la Olivetti costruiva anche il suo primo modello


di telescrivente. Questa forma di trasmissione dattiloscritta doveva trovare una
larghissima applicazione in sostituzione o a fianco del servizio telegrafico e
telefonico. L’Italia è coperta da una rete di tele scrittori che forniscono notizie
alla stampa, alle banche, alle Direzioni Commerciali e Industriali. Attualmente
la nuova telescrivente Olivetti T.2., costruita secondo le norme del Comitato
Consultivo Internazionale Telegrafico con codice a 7 impulsi uguali, è la mac-
china più adeguata ai recenti progressi della meccanica ed alla evoluzione delle
telecomunicazioni che hanno aumentato vertiginosamente la loro intensità di
traffico nel corso degli ultimi anni. La velocità di trasmissione della telescri-
vente è di 428 segnali al minuto pari a circa 70 parole. I testi trasmessi vengono
scritti in rosso, e in nero quelli ricevuti. La T.2. può essere applicata a tutti i
sistemi di esercizio a corrente continua o a frequenza portante, e ad ogni im-
pianto di comunicazione manuale od automatico per il traffico telegrafico, tele-
fonico o con ponte radio. Per le esigenze dei suoi vari usi la T.2. viene costruita
per scrittura su zona o su foglio nelle due versioni di trasmittente-ricevente.

Gli schedari e i classificatori

Indirizzata ormai a coprire ogni esigenza della organizzazione moderna


del lavoro in ufficio, la Olivetti si volgeva anche alla produzione di schedari
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 283

e di classificatori metallici. E anche questa volta le ricerche si concludevano


nella unione di un’estrema efficacia funzionale con il massimo di sobria ele-
ganza e praticità. Gli schedari SYNTHESIS – che vengono fabbricati in uno
stabilimento distaccato ad Apuania – sono costruiti in acciaio, con cassetti
scorrevoli su rulli mobili che consentono anche di separare il cassetto dallo
schedario; e il loro porta schede è fornito di un attacco metallico in modo da
far ruotare la scheda su dei rulli, ottenendo così un’elevata rapidità di ricerca
e di eventuale estrazione della scheda. I classificatori verticali, con i cassetti
scorrevoli sono entrati largamente nell’uso dell’amministrazione e del mo-
derno lavoro di archivio.

La Lexikon 80

Negli anni immediatamente seguenti lo scorso conflitto, la Olivetti au-


mentava con rapido ritmo la serie dei suoi calcolatori scriventi; si elaborava
il nuovo modello di telescrivente e finalmente, alla fine del 1948, era la volta
della Lexikon 80, la nuova macchina per ufficio che, col suo solo apparire,
ha fatto invecchiare di colpo tutti i precedenti modelli per le innovazioni e
semplificazioni apportate alla struttura della trasmissione degli impulsi. La
Lexikon 80, è stato detto, rappresenta un ritorno alla semplicità, la riduzio-
ne al minimo di quelle dispersioni di energia che erano retaggio dei modelli
precedenti. Questa macchina che può spogliarsi della carrozzeria per rivelare
un’intelaiatura potente e leggera, deve la propria originalità a due fattori: il
carrello scorre su di un sistema di cuscinetti a sfere e il cinematico, dotato di
una elasticità eccezionale, è fornito del dispositivo di «controllo del tocco»
che consente di adattare allo stile dell’operatore la profondità della battuta.
Una macchina di altissimo rendimento come la Lexikon si è rapidamente af-
fermata in Italia e all’estero ed è destinata a durare nel tempo come odierno
esemplare limite delle possibilità della scrittura meccanica manuale.

La Lexikon elettrica

Era tutto questo moltiplicarsi di esperienze e di risultati che doveva con-


durre i tecnici della Olivetti alla creazione del primo modello italiano di mac-
china per scrivere elettrica.
Il criterio di applicazione dell’energia elettrica alla macchina per scrivere
è stato estremamente semplice: si trattava di sostituire alla fatica muscolare
umana la forza di un servomotore, di trasformare in una parola la tastiera
della macchina in un vero «quadro di comandi» riducendo al minimo la corsa
284 Archivio

dei tasti. (mm.4). «La tastiera della comune macchina per scrivere», scrive
il Direttore Generale Tecnico della Olivetti, ingegner Giuseppe Beccio, sul
«Giornale di Fabbrica Olivetti», presenta sotto le dita del dattilografo 45 ta-
sti che sono paragonabili ad altrettanti servi inerti per far muovere i quali
non basta una voce, occorre una spinta fino in fondo, che costa fatica; proprio
come quei ragazzi così servizievoli in casa che senza uno scapaccione non si
muovono. (I tasti della Lexikon richiedono però dal dito soltanto una carezza
morbida, una dolce insistenza).
Vogliamo ora brevemente vedere come ciò avviene: la macchina è munita
di un motore elettrico (che in questo caso si può con corretto termine meccanico
chiamare servomotore) il quale fa ruotare di moto continuo un lungo albero
dentato posto in basso attraverso la macchina. Questo albero ha nella mac-
china elettrica la stessa funzione che ha la mano della macchina a mano, cioè
trascina attraverso il rispettivo cinematico ciascun martelletto dalla posizione
di riposo alla posizione di battuta sul rullo. L’ingranamento fra il rullo e i ci-
nematici avviene per azione dei singoli tasti i quali compiono questa funzione
con uno spostamento di pochi millimetri e uno sforzo trascurabile, quindi un
lavoro (che è prodotto dallo sforzo per lo spostamento) quasi impercettibile.
Ecco spiegato in poche parole lo schema funzionale della macchina elettri-
ca.
Si tratta insomma di una macchina che garantisce una assoluta uniformità
di scrittura, e un numero elevato di copie senza aumento di pressione, me-
diante il «regolatore automatico di battuta» e che aumenta la velocità fino a
un terzo della velocità manuale, perché ridotta a mm. 4 la profondità di bat-
tuta è effettivamente reso possibile l’impiego costante di tutte e dieci le dita.
Basta qualche ora di impiego perché la dattilografia raggiunga sulla mac-
china elettrica la medesima velocità, che era abituale sulla macchina a mano;
ogni esercizio ulteriore non farà che aumentarla. Si tratta insomma di una
macchina che diventerà rapidamente indispensabile in tutte quelle aziende,
ditte ed imprese, che debbono fornire un notevole volume di dattiloscritti
giornalieri; e che eserciterà un’influenza capitale in tutta la dattilografia. Pun-
to di arrivo odierno della produzione Olivetti, la Lexikon Elettrica accoglie
in sé una lunga esperienza e apre al tempo stesso la via ad innumerevoli pos-
sibilità future.

La distribuzione nel mondo ed in Italia dei prodotti Olivetti

Le dimensioni delle produzioni, che per molti tipi raggiungono già il li-
vello delle più conosciute industrie americane, hanno imposto alla Olivetti
un’organizzazione commerciale retta dai medesimi principi di rigore tecni-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 285

co e morale che sostengono le officine di Ivrea. Due problemi, sempre vivi,


vennero successivamente risolti, nel tempo e nello spazio, e si ripresentano
in ogni nuova fase di espansione. La formazione dei quadri – ed a questo
proposito notiamo sin d’ora che i dirigenti delle Filiali, sia italiane che estere,
sono funzionari che hanno in passato vissuto la vita della fabbrica e che han-
no compreso e attuato quel particolare stile di lavoro e di rapporti umani che
è proprio di questa industria piemontese – e il problema degli investimenti.
Complessivamente il numero delle persone addetto a questa funzione distri-
butrice – comprendendovi il personale delle officine di riparazione – è dello
stesso ordine di grandezza del personale legato strettamente alla produzione.
In tutto più di dodicimila uomini e donne dedicano il loro lavoro quotidiano
a questo organismo mondiale.
L’organizzazione commerciale è disarticolata da Ivrea in tre grandi bran-
che territoriali: l’Italia, l’Europa e l’Oltremare. Una direzione per l’Italia
controlla le 14 filiali e più di 100 Concessionari, con 130 negozi e altrettante
officine di riparazione. Un Servizio Centrale di Assistenza Clienti – il «Ser-
vice» degli americani – garantisce attraverso Scuole per i Meccanici ispezioni,
pubblicazioni, premi ecc. una intima rispondenza tra l’elevato livello quali-
tativo mantenuto nelle officine e il controllo periodico durante la vita delle
macchine presso gli utenti.
Lo stesso concetto che ha guidato il disegno della rete di distribuzione ita-
liana – vale a dire la possibilità di un controllo regionale attraverso le proprie
Filiali – viene oggi seguito, sia pure a maglie più larghe, per la diffusione del
nome Olivetti nel mondo.
In Europa tre Società Alleate Olivetti in Francia, Belgio e Austria forma-
no i pilastri di un’organizzazione che ha come obiettivo di far conoscere agli
europei i prodotti della più grande fabbrica d’Europa, mentre una rete di So-
cietà specializzate con negozi e officine copre tutte le città di grande e media
grandezza della Svizzera, dell’Olanda, della Danimarca, della Norvegia, della
Svezia, della Cecoslovacchia ecc.
In Inghilterra e in Spagna, la British Olivetti e la Hispano Olivetti prov-
vedono anche in maniera autonoma alla fabbricazione di alcuni modelli su
licenza. Il lavoro di rifornimento dei Paesi Europei, così difficile in questi
ultimi anni, è facilitato dal decentramento di una Direzione per l’Europa con
sede a Milano.
Problemi analoghi, aggravati dalla distanza, si sono posti per un gran nu-
mero di Paesi – del gruppo «oltremare» – ove sino a qualche anno or sono
le macchine europee erano pressoché sconosciute e dove oggi operano più
di 60 agenti esclusivi. In Argentina la Olivetti Argentina ha una posizione
di predominio sin dal 1930, mentre recentemente la Olivetti Messicana, la
Olivetti Sud Africana, la Olivetti Corporation of America si sono affiancate
286 Archivio

alle altre esistenti Società cosicché a Mexico City, a Capetown a New York,
a Los Angeles sono apparsi «uomini» della Olivetti – personale commerciale
e amministrativo e tecnico – legati alla lontana fabbrica dal legame invisibile,
ma tenace, di una completa reciproca fiducia.
Da Visita a una fabbrica1

Li abbiamo visti passare

Quasi ogni giorno gli operai li vedono passare accanto alle loro macchine.
Visitatori della fabbrica: industriali dallo sguardo autorevole, tecnici attenti
ai particolari, comitive di studenti o di operai, uomini politici, giornalisti;
italiani o stranieri, competenti o incompetenti, curiosi o distratti. I visitatori
prendono appunti, ascoltano cifre e spiegazioni; domani, dalla visita, nascerà
una relazione di affari o un articolo giornalistico, una lettera commerciale o
una pagina di diario. I visitatori passano, gli operai si curvano sul lavoro.

Pure, fra quanti vari interessi guidano ad una fabbrica moderna numerosi
i visitatori, uno ce n’è, che li accomuna: quello per i luoghi dove si vive in-
tensamente il presente, dove l’uomo prosegue in collettività la lotta antica di
rendere le cose creature sue proprie. Ed è fra questi la fabbrica, luogo sociale,
per eccellenza, e moderno; luogo di nascita del mondo contemporaneo. A un
simile comune interesse è diretta questa pubblicazione. Non tecnica, quindi,
né appena pubblicitaria; ma documentaria di un rapporto troppo spesso di-
menticato; quello fra l’uomo e il prodotto del suo lavoro.

Visitare una fabbrica non è facile, essa non vive per ragioni di magnifi-
cenza o di stupore, né la sua efficienza si traduce necessariamente in ordine
e in armonia. E poi, nella fabbrica, sembra che il primo posto competa alla
macchina, agli strumenti che serbano per noi la meraviglia dell’automatico,
del congegno sapiente. La fabbrica è un organismo vivo che esiste nel tempo
(non per nulla il controllo dei tempi vi ha tanta importanza) regolato da leggi
ora rigide ora elastiche.

La Olivetti, come una parte delle grandi industrie moderne dell’Italia set-
tentrionale, è nata dalla volontà intelligente e coraggiosa di un uomo solo, che

1
Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di Carlo Brizzolara, Franco Fortini, Albe Steiner,
Officina d’Arte Grafica Achille Lucini e C., Milano 1949, pp. 7-10.

L’ospite ingrato ns 6
288 Archivio

impegnò le proprie conoscenze tecniche e umane nello sforzo di creare, pos-


siamo dire, dal nulla una industria meccanica di precisione che fosse capace
di porsi come pari e non come subalterna di fronte a quelle d’altri paesi, forti
d’una più lunga tradizione industriale. Altri dica come contribuirono all’o-
pera il carattere vecchio-piemontese, la felice intuizione dei valori umani e
della capacità di quanti con lui collaborarono, la consumata esperienza d’ogni
aspetto della fatica operaia; certo Camillo Olivetti è rimasto nella memoria
dei «vecchi» della fabbrica, come il capo energico e comprensivo, esigente e
giusto, che ha tracciato per il futuro le prospettive morali di questa industria.
Quando si consideri che la macchina per scrivere è un insieme di congegni
che esigono non solo precisione elevata e sicura, ma un continuo studio di
novità e perfezionamenti, s’intenderà quale somma di energie morali siano
necessarie al progresso continuo dell’impresa, e come essa si glori, giustamen-
te, del continuarsi del suo carattere d’origine.

Ed è proprio su questo elemento di «coscienza», non solo nell’accezione


di coscienziosità, ma in quella più elevata e meno tecnica, che si fonda questa
fabbrica. Il visitatore non può fare a meno di avvertirla, questa «coscienza»
un po’ severa, per niente brillante, e sostanziosa invece; ma che non rinuncia
tuttavia alla eleganza. Per chi abbia visto del Canavese e di Ivrea appena la si-
lenziosa calma della cittadina di provincia, delle sue case vecchie, dei conven-
ti, caserme e istituti, neri di corridoi, di androni e di volte, la grande facciata
di rigidi cristalli, e quella sua asciuttezza geometrica, elegante e decisa, (che
ritroviamo in tutto ciò che è «Olivetti»: dai blocchi di case operaie all’impa-
ginazione della carta da lettera), può essere una sorpresa, può dare il senso di
una rottura nel tempo e nella tradizione. Ma se egli considererà più da vicino
l’esistenza di questi lavoratori vedrà come il complesso «Olivetti» sia il risul-
tato di un innesto felice sulla natura tradizionale – che è contadina – di questa
regione. Una notevole parte di questi uomini e di queste donne che la mattina
entrano in fabbrica vi giungono da paesi della valle e delle colline, talvolta
distanti molti chilometri, con automezzi, micromotori, e innumerevoli bici-
clette; e con quei mezzi tornano a casa, la sera, lontano dalla fabbrica, in un
ambiente diverso, di tanto vicino alla natura ed alla individualissima fatica del
contadino di quanto ne è lontano il rigore matematico della macchina. Piccoli
coltivatori la più parte, nelle ore libere essi lavorano l’orto o il campo, e del
contadino hanno sovente col fisico, la mentalità e il costume.

Nei giorni di festa essi alternano i piaceri sportivi dell’operaio moderno


(lo sci, la montagna, la motocicletta, il calcio) con il gusto delle antiche con-
venzioni, dei balli paesani, delle scampagnate. Tutta la loro esistenza ed anche
il loro costume morale riceve luce da questo alternarsi di elementi; il medesi-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 289

mo operaio che in fabbrica s’adusa alla pratica della organizzazione razionale


del lavoro, a risoluzioni larghe o audaci, difficilmente sa risolversi ad alterare
la tradizionale frantumazione della sua proprietà agricola, ad affrontare una
rifusione delle mappe catastali. Quelle stesse voci che nell’ambito della fab-
brica si sentono una sola famiglia, sul crepuscolo si salutano dalle loro bici-
clette, ai bivi della campagna, verso le verità separate delle singole case.

L’orgoglio insomma della qualificazione tecnica, della superiorità delle


macchine, che qui poi si cresce della persuasione di appartenere ad una indu-
stria di altissima qualità, si tempera in semplicità paesana. Da tutto ciò, una
novità ed uno stupore che si rinnova anche per chi vive in fabbrica, uno stra-
no contrasto fra questo ambiente così moderno, e anzi d’avanguardia, segno
di un internazionale razionalismo confortato di certezze scientifiche e l’am-
biente esterno dove invece la storia sembra procedere col passo dei buoi e con
l’ambio della cavalleria in costume napoleonico che il Carnevale riporta ogni
anno, con i suoi sottili pifferi nell’aria fredda, sulle piazze della vecchia città.

Questa situazione della Olivetti, che non solo qui costruisce tutte le parti
della macchina, ma da qui anche dirige il prodotto finito in tutte le parti della
terra; situazione che, equilibrando vantaggi e svantaggi, isola tutta una co-
munità, è la causa della sua singolare autosufficienza. Non è solo un fatto di
«potenza»; è la conseguenza di volontà (quella dei dirigenti e dei dipendenti)
a più dimensioni; per cui avviene che la vita del «Centro Agrario» sia quasi
altrettanto importante che quella della Fonderia, e il problema delle abita-
zioni non meno sentito di quello dei «tempi» di produzione. Questo spiega
come, nella coscienza degli stessi dipendenti, «Olivetti» cessi d’essere un rife-
rimento alle macchine per scrivere (e queste, d’altronde, che pur hanno por-
tato ovunque quel nome, non bastano più a raffigurare gli aspetti complessi
della produzione d’Ivrea) per diventare un nome di luogo, il nome ricco di
armonici, complesso. C’è chi potrà replicare che questo avviene in molte altre
industrie; ma in poche, crediamo, con tanta naturalezza. O almeno di rado
si sente, come qui, che il lavoro, la produzione di beni, non dovrebbe essere
fine a se stessa.

Gli operai di questa fabbrica, legati fra loro da uno spirito di corpo, che si
riproduce nell’interno di ogni reparto, sanno di appartenere ad una società di
elezione; non sono soltanto consuetudini e ricorrenze – come l’annua con-
segna della «spilla d’oro» ai vecchi operai – o l’orgoglio di vedere il proprio
lavoro affermarsi sempre più in tutto il mondo. È la certezza che, se tanto
si è potuto fare, tanto di più si farà; che se il complesso delle attività sociali
della Olivetti – case, biblioteche, campi, ambulatori, colonie – è già tanto
290 Archivio

importante, sta solo nel lavoro e nel coraggio di tutti identificare sempre di
più la vita dell’organismo produttivo con la propria vita totale. Superare le
due verità sezionali – vita della fabbrica e vita privata – in una verità uni-
ca. A questo tende naturalmente il lavoratore italiano; l’uomo che con uno
straccio asciuga dalla emulsione oleata il pezzo uscito dal tornio automatico
e ve lo mostra, lucido e splendido, fiero della macchina che domina; l’altro
che piegato sulla spazzola ruotante delle pulitrici preme, all’altezza del petto,
il pezzo nichelato che brillerà sulla vostra portatile; la ragazza che salda i
caratteri all’asticciola metallica, mentre oltre le due vetrate s’apre una scena
di montagne e torri, bianche e nere di neve o verdi e turchine di sole, tutti
costoro che vi scortano con lo sguardo, mentre voi passate, non chiedono in
profondo se non la restituzione ad unità della dignità loro lungamente divisa.
E questo sa, con una acuta coscienza, chi vuole che l’Olivetti sia qualcosa di
più di una grande fabbrica di perfette macchine addizionatrici, di macchine
per calcolo e per scrittura. E quando il visitatore avrà lasciato Ivrea o quando
rivedrà, per le vie o nel suo lavoro, lucente su di una macchina per scrivere o
su di una insegna, la sigla di questa fabbrica, pensi a quello che ha veduto e a
quello che ha potuto soltanto intravvedere: l’estrema complessità umana che
ha prodotto l’oggetto esatto e felice. Dalle sale dei disegnatori e progettisti –
dove si combatte la lunga guerra della tecnica fra schemi ideali e possibilità
pratiche – allo studio degli architetti –, dove si progettano non solo le case
operaie e gli ampliamenti della fabbrica, ma anche quanto la moderna urba-
nistica può prevedere per il miglioramento della vecchia Ivrea e del contado;
dalla fatica della Fonderia ai cori puerili dell’Asilo Nido; dalle pupille dei tec-
nici che traguardano negli oculari la crudele delicatezza con cui le macchine
di precisione mordono i centesimi di millimetro di metallo o aprono le cavità
che i calibri di prova esattamente ricolmeranno, fino all’intelligente vivacità
artigianale dei tipografi, sembra che tutto abbia concorso all’opera sempre
più perfezionata e più bella.

Ma è soltanto questo il significato di un’industria, e di questa industria?


Se questo fosse, le nostre parole sarebbero allora e appena la moderna forma
dell’elogio e della amplificazione retorica: sarebbero solo pubblicità, di quella
che vuol far dimenticare il peso e la dimensione profonda del lavoro nell’e-
saltazione di un arido e perfetto congegno metallico. Crediamo di averlo già
fatto capire: esse vorrebbero invece essere un contributo ad un modo diverso
di guardare e di far guardare. Infatti che importano, finalmente, pubblicazio-
ni come la presente all’acquirente di un prodotto? Ma a chiunque invece può
importare la vita di una società umana come questa, e gli interrogativi che essa
pone; chiunque può, se non risolverli, intuirli almeno. Ed ecco che, dove pen-
savate non ci fosse che una «cosa», un oggetto, presentato nel velluto come
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 291

negli scrigni delle vetrine, c’è invece un problema, una domanda. Ecco che,
come dicevamo, un’industria non si esaurisce nell’oggetto e la «Olivetti» non
si conclude nelle sue addizionatrici, nelle macchine per scrivere e nelle tele-
scriventi. Complesso organismo in progresso, questa industria che ha vissuto,
pur nel suo angolo provinciale, tutta la scorsa storia convulsa della Nazione,
articola ora, e anche negli strumenti della democrazia di fabbrica, la sua am-
bizione più alta: la creazione cioè di un più genuino rapporto umano, di una
difficile unità morale pur nelle diversità e nei necessari contrasti.

In questo senso e in questa direzione (che è apertura verso la speranza e


verso il possibile) tutte le luci e le ombre dei nostri giorni, non si uniscono già
ad offrirvi una sorridente e falsa immagine di cera, ma il viso reale e integro di
uno di quegli uomini che avete scorto durante la vostra visita, e il cui ricordo
vi accompagnerà oltre l’uscita, quando il fragore delle officine si sarà spento
alle vostre spalle.
Rileggendo I Miserabili1

Quando si deve nominare un libro di grandissima popolarità, universal-


mente conosciuto, prima ancora di un titolo di Zola o di Gorki, di Dumas o
di London, viene spontaneo quello dei Miserabili. Questo enorme librone
vecchio di ottantotto anni (è stato stampato nel 1862), vede, nel nostro paese
almeno, costanti ristampe di ogni genere, riduzioni cinematografiche, persi-
no traduzioni a «fumetti». Recentemente lo scrittore Corrado Alvaro ne ha
curato una ristampa illustrata per le edizioni della Universale Economica, ed
un’altra edizione ne ha fatto, mi pare, Corticelli.
Si è cercato di trovare molte ragioni al successo straordinario e costante di
questo libro in Italia. La ragione principale è probabilmente questa: il libro è
una coerente rappresentazione delle correnti che agitavano la società francese
di cent’anni fa, tra industrializzazione e artigianato; fra razionalismo scienti-
fico e fede religiosa, riforme e rivoluzione, tradizione napoleonica e tradizio-
ne democratica, eseguita in nome di un ideale di giustizia sociale e umanitaria,
preoccupato soprattutto di salvare la società dall’intolleranza, la democrazia
dal bonapartismo, il libero pensiero scientifico tanto dall’aridità positivistica
quanto dallo spirito gesuita. Ora da quegli anni – che erano quelli di Napole-
one il piccolo – fino al 1914, attraverso le stragi che conclusero la Comune di
Parigi, la borghesia francese compì molto cammino, molte illusioni caddero
e alla genericità degli ideali umanitari si sostituì un più concreto senso dei
doveri delle classi.
Nel nostro paese invece, nonostante l’opera cinquantennale dei partiti po-
litici, una buona parte delle rivendicazioni umanitarie di origine giacobina,

1
«Giornale di fabbrica Olivetti», 1950, 12, p. 3. Sotto il titolo è riportato il seguente sommario a
firma c.d.: «Fortini, visto che abbiamo pubblicato un brano de I Miserabili, ci invia queste sue “Ri-
flessioni”: discutibili forse, acute e interessanti certamente (e chissà che non ne nasca un dialogo). E
poi è questa una buona occasione per mettermi pubblicamente orecchia d’asino; giacché l’altra volta
ho scritto che ne I Miserabili si descrive la Comune […] mentre questa ebbe luogo parecchi anni
dopo la pubblicazione del romanzo, e per quanto profeta a tanto Victor Hugo non ci poteva arrivare.
In realtà il brano che riportammo l’altra volta si riferiva alla rivolta proletaria del 1848, non a quella
del 1871. Evidentemente mi ha preso la mano e la memoria l’entusiasmo che sempre ho per le gesta
dei parigini comunardi, facendomi dimenticare che il primo moto di classe abbastanza cosciente era
avvenuto ventitré anni prima».

L’ospite ingrato ns 6
294 Archivio

nemiche al privilegio ed egualitarie serbano, almeno in qualche regione, una


potente energia d’urto. Questo spiega perché in Italia I Miserabili non appaio-
no un’opera totalmente superata.
È stato ed è insomma la mancanza della rivoluzione borghese, l’indiretto
e lentissimo sopraggiungere dei suoi riflessi dall’esterno, a far sì che per più di
ottanta anni una buona parte del popolo italiano continuasse a sognare sulle
pagine di Victor Hugo la Parigi delle barricate e delle «tempeste in un cranio».
Nulla commuove più l’anima di chi ha contratto una lunga abitudine con
l’ingiustizia e la sopraffazione (così da arrivare ad amarla e a ritenerla neces-
sario strumento della divinità) quanto la raffigurazione di eventi che vedono
l’innocenza, alla lunga, trionfatrice del vizio e la giustizia vittoriosa sul suo
contrario. E poi quel romanzo agita con la sua eloquenza burrascosa una
quantità di temi che, almeno fino alla prima guerra mondiale (e anche oltre,
tenuti come in fresco dal fascismo), suggestionavano potentemente le fanta-
sie: vogliamo dire Napoleone e i giacobini, i diritti dell’uomo e l’amore ro-
mantico, la rivolta cittadina e la giustizia astratta, il carcere e la prostituzione,
la bohème giovanile e l’immensa Capitale d’Europa.
Riprendo oggi in mano quei volumi. La voce dell’autore interviene con-
tinuamente, giudica e interroga, spiega, amministra giustizia; costruisce con
sicura lentezza i suoi personaggi, i colpi di scena, i contrasti drammatici nel
cuore di Javert e di Jean Valjean, apre le sue interminabili divagazioni didatti-
che. E si rimane sbalorditi, scorgendo la quantità incredibile di idee, opinioni,
giudizi sulla società passati nelle menti e nella tradizione del nostro paese
attraverso l’autorità del vecchio scrittore e poeta. In certi momenti il libro
sembra proprio un repertorio di luoghi comuni, di quelli, beninteso, che si
deridono facilmente, ma che ci sentiremmo pronti a difendere – molti alme-
no, se non tutti – quando li vedessimo, come spesso li vediamo, seriamente
minacciati. Ma il sorriso si ferma, quando pensiamo che una gran parte di
quella convenzionale banalità è ancora valida e vera per il nostro paese, che ci
sono ancora molte cose da fare nel nostro paese prima che quel libro divenga
totalmente inutile e vada a raggiungere la Capanna dello zio Tom, I tre mo-
schettieri e la Storia di Guerrino detto il Meschino.
E la lettura non riesce più a staccarsi dalla nostra adolescenza. Sembra sia
stato inutile aver guardato con i propri occhi la Senna e il Faubourg Saint-
Antoine e le stradette dov’era il convento di Cosette: l’immagine spaventosa e
buia come una litografia della città-piovra, continua a sovrapporsi a quella re-
ale e non sapremmo dire se il giardino del Lussemburgo è quello che abbiamo
attraversato, sparso di statue e di studenti, o quello sulla panchina di pietra
dove Marius lasciò il suo biglietto d’amore usando un ciottolo da fermacarte.
E un dubbio ancora: non è forse pericoloso che tanta parte del popolo italia-
no continui a sognare la giustizia, la pietà, la libertà, su quelle vecchie pagine?
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 295

Non v’è forse il rischio che, per una buona parte di quei lettori, il libro sia
divenuto, diciamo così, sottilmente reazionario, invitando a fantasticare più
che a vedere, a commuoverci intorno a cose che non ci toccano? Non è forse
possibile che quel libro venga letto ormai, almeno negli ambienti dell’Italia
nord-industriale come uno stanchissimo romanzo storico? E allora è un buon
segno che meno lo cerchino le più giovani generazioni. Se alcune delle esigen-
ze che lo fecero nascere non sono tuttavia quietate, è di un’opera equivalente
ma moderna, è dei Misteri d’Italia come ci furono quelli di Parigi, che avreb-
be bisogno la più giovane classe operaia.
Perché nulla è veramente venuto per essa dopo Zola e Gorki; e i Promessi
Sposi furono il capolavoro di un risorgimento cattolico che non poteva avere
le parole e le speranze di un librone francese.
Nulla, ci pare, fino a quell’episodio dei Miserabili che è Ladri di biciclette.
O forse neppure questo è vero; e chi di noi legge o rilegge I Miserabili lo fa
solo per nostalgia: quella del tempo in cui le barricate erano ancora possibili e
in cui la parola «libertà» aveva, o si credeva avesse, un solo significato.
«La morte sta anniscosta in ne l’orloggi»1

Dovrà aver successo, pensiamo, in Italia e all’estero, ed è bene che lo abbia;


anche se ben difficilmente gli americani e gli italo-americani si persuaderanno
di aver sbagliato limitando alla letteratura l’influenza di Carlo Levi e dei suoi
amici politici…
Che cos’è questo grosso libro, lungo un terzo più del Cristo si è fermato
a Eboli? La narrazione, in prima persona, di alcune giornate del ’45, quelle
della caduta del gabinetto Parri, come le ha vissute Levi, allora direttore di un
quotidiano a Roma; concluse con una gita a Napoli ed un notturno e tragi-
comico ritorno verso Roma dell’autore, sveglio fra due ministri – un demo-
cristiano e un comunista – che poggiano, dormendo, la testa sulle sue spalle.
Su questo asse si innestano moltissimi episodi minori, pranzi, gite in auto,
conversazioni con amici, cadaveri, quartieri malfamati; e ognuno di questi a
sua volta si ramifica in un numero ancor più grande di variazioni incidentali,
di intermittenza del cuore e della memoria, di pretesti, idilli, nature morte.
Ogni capitolo è una scatola che ne contiene cento altre, ogni motivo fron-
deggia a creare l’impressione dominante, che è di fecondità, di larghezza e
generazione costante, a getto continuo; di una vena effusa di pagina in pagina,
che accompagna il lettore, incuriosito e divertito, verso la fine. Che è poi an-
che l’intuizione che L. ha della realtà: vitalistica (bergsoniana, diciamo, anche
per gli espliciti imprestiti proustiani, di un Proust però più di ricordo che di
memoria, sincopato), entusiasta della varietà pittoresca del mondo, cosciente,
in ogni istante, del moto temporale della rapina degli attimi e della morte
delle cose (La morte sta anniscosta in ne l’orloggi). Il verso del Belli è l’esatta
epigrafe di questo libro dell’orologio). Si intende così come L. si senta a suo
agio nelle caotiche Roma e Napoli del dopoguerra, nei vecchi palazzi baroc-
chi, negli alberghi di terz’ordine, nelle corti dei miracoli della miseria, nelle
ore incerte, nella eccitazione delle redazioni e delle osterie. Egli ha il polso
energico e abile dello scrittore immediato, del saggista nato, cioè di quella
specie superiore di giornalista che è così rara tra noi; ha il senso ormai istinti-

1
«Comunità», 4, 8, maggio-giugno 1950, pp. 63-65 (Carlo Levi, L’orologio, Einaudi, Torino
1950); poi in Franco Fortini, Un giorno o l’altro cit., pp. 65-68.

L’ospite ingrato ns 6
298 Archivio

vo, ma tutto educato sui testi, delle clausole, dei moti interni del periodo, del
«volume» della pagina; si può esser certi che una gran parte del libro è stato
scritto senza esitazioni, con la medesima sicurezza che L. deve avere quando
imposta un suo quadro. E il possesso di un simile strumento gli permette
di mescolare in questo libro i toni più vari, il pamphlet e l’ironia politica, il
ritratto di una persona o di un ambiente, l’andirivieni dei ricordi, la medita-
zione, l’opinione «a proposito di…». Ad esempio, Levi è uno dei pochissimi
scrittori italiani che sappiano far discorrere i suoi personaggi di politica, di
filosofia o di psicanalisi, con la sua bravura a risolvere le esperienze più varie
del romanzo moderno, la sua dialettica mentale, la sua cordialità agitata e
concitata ed esplosiva in mezzo alla quale brilla e punge, ironica e distaccata,
una immobile pupilla di vetro.
Il libro, ambiziosissimo, ci sembra pieno di riuscite. E non vogliamo par-
lare delle innumerevoli trovate che lo affollano; dei ritratti, allegri e perfidi,
di giornalisti e politici assai noti e ben identificabili, che faranno la gioia dei
nostri pettegolezzi, come la descrizione della Garbatella o di Porta Capuana
(c’è perfino un Picasso dell’epoca blu, in queste pagine) saranno graditi agli
italianizzanti di mezzo modo. Vogliamo alludere invece a tutte le pagine cen-
trali (165-252) con la conferenza di Parri al Viminale, la conversazione sotto
il Traforo, la nottata in tipografia con i canti dei tipografi e le discussioni po-
litiche, il ritorno a casa con il cane impazzito e il morto per le scale. In tutta
questa parte l’ingegno narrativo di L. si esprime con gli «scoppi ritardati»
dei suoi motivi; ognuno di essi corre verso l’a-capo per placarsi in un denso
mare di parole, di aggettivi soprattutto. Ma si è appena arrivati in fondo che il
capoverso riprende il movimento.
Il libro, s’è detto, è fatto di materiali diversi. C’è la crisi del gabinetto Parri,
il fallimento dello sforzo della Resistenza, l’inizio del regresso democratico, il
trionfo dei «luigini» («luigini» e «contadini» coppia di neologismi furbeschi,
delizia romana), l’ironia sulle chiacchere, le sicumere e le sufficienze dei poli-
tici dei grandi partiti e insomma – forte, beninteso, del senno di poi – una di
quelle intelligenti, acute e negative lezioni di critica storica e politica che il P.
d. A. impartiva alla Nazione. C’è l’attrazione verso il tellurico, l’angoscioso,
il tragico del popolare e del primitivo o sacro, il fascino etnografico, vorrem-
mo dire, o psicanalitico alla Jung (visita alla Garbatella, la donna che allatta
il serpe, le scale e i corridoi del palazzo, le vipere dell’americano, il cane e il
morto, la conversazione sui santi, i visceri napoletani). Ci sono i ritratti di tipi
strani, bizzarri, anormali; c’è il gusto del macabro, del sogno, del magismo
(fin dalla frase che apre e chiude il libro, ruggito dei leoni della notte roma-
na) e un sovrapporsi di crittografie. La paura della provincia, la «coscienza
europea», giuocano strani scherzi: «così» senza volere facciamo, dell’onda
sconfinata del reale, di una persona che, come noi stessi, e identica a noi, non
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 299

ha limiti, un soggetto di novella, una tessera colorata di un mosaico disegnato


prima, un elemento di un astratto giuoco. C’è finalmente, su tutto, robusto
appetito di scrittura, una attrazione per quanto è fitto, abbondante, intricato:
elenchi, descrizioni di folle, di magazzini. E ogni tanto la pagina si dispone
come una gran natura morta, fra Van Gogh e Soutine, terremotata e satura di
grafismi, eccitata ma resa tetra dal nero d’avorio che, insieme alla biacca, è an-
dato a infettare, per troppo amor di rilievo, i colori solari. Son questi ultimi,
comunque, i migliori resultati di questa scrittura a olio.
Come dice ironicamente la nota in calce al libro, «la capacità di verosimi-
glianza della fantasia» permette la giunzione violenta di quel che è proprio
della coscienza pubblica dei suoi lettori (la cronaca politica, le discussioni
sulla struttura della società italiana, ecc.) con elementi della soggettività auto-
biografica e fantastica. Con minor discrezione però, di quel che operino certi
moderni romanzi francesi. Perché, qual è il resultato? Quello di ottenere –
quando avviene – con il solo tono della voce, con l’estro, il disfacimento (ma
solo parziale!) degli elementi obiettivi e di quelle passioni nel fiume dell’av-
ventura vitale – e verbale. Allora ci si avvede che l’ansia politica e l’impegno
sociale e la denuncia dello sfruttamento e dell’ingiustizia potrebbero esser
la maschera di un certo estetismo o di una vanità; e, retrospettivamente, si
illumina quel che avevamo dubitato anche nel Cristo, in quelle smaglianti
descrizioni: una certa fretta, una fiducia eccessiva nell’ingegno, un restare al
di qua della poesia. E, insomma, della verità; che è davvero lo stesso. Voglio
alludere alle pagine su Napoli, alla bellezza antica dei poveri, al coraggio di
una passione senza speranza, a tutti i ritratti e quadri di miseria e avvilimento
o degradazione che si trovano nel libro. L’autore passa tra queste sue creature,
persone e città, ma quel che in esse lo interessa è spesso, o pare, il «motivo»,
orrido o buffonesco o spettrale; e null’altro, se ne togli il dolore e il dispetto
d’una sfortunata vicenda politica. Eccettuata qualche figura di collaboratore,
quella dello zio e quella (indiretta) di Parri, quasi tutta la gente che passa tra
queste pagine è schernita o resa mostruosa: ricordiamo Giacinto, Teo, Jolan-
da, Marco, la Viterbese, Colitto… spesso fisicamente deforme. E, intendia-
moci, questo humour nero potrebbe giungere e talora giunge all’arte, alla sua
carità; ma dovrebbe sostare e insistere, sviluppare, scavare; farsi romanzo o
commedia, verso Gulliver o Le anime morte. E invece, solo qualche intel-
lettuale e qualche analfabeta trovano grazia agli occhi di Levi; che ha fretta
di passare oltre, in compagnia di se stesso, di coprir di colore altra tela; gli
uomini, sembra gli siano di breve uso.
È in questo apparire talvolta discorso di straniero a stranieri, il vizio di un
libro che pure è scritto nella migliore tradizione linguistica del nostro paese.
Il Cristo aveva assolto benissimo il compito di rivelare una Italia sconosciuta
agli italiani che non avevano letto o preso sul serio, non diremo Gramsci o
300 Archivio

Dorso o Salvemini, ma neppur Pirandello o Verga; e a moltissimi stranieri. Fu


interpretato alla luce di quegli anni quel che era solo in parte: il saggio di un
antifascista intellettuale sui «subalterni» meridionali. (E dunque non hanno
avuto tutti i torti gli stranieri che ne hanno messa in evidenza soprattutto la
qualità letteraria). Che dire però di questo libro, troppo spesso amara, bef-
farda e compiaciuta diatriba di «un degli usciti / cittadin bianchi di Firenze»
che hanno udienza nelle corti dell’intelligenza politica e letteraria italiana,
delegazioni o ambasciate di quelle (più laute) d’Europa e America? Non si
riproduce forse qui e non si ricrea, in questa intelligenza cartesiana curva sulle
caverne degli schiavi, il dramma e la contraddizione dell’antifascismo degli
intellettuali di quindici, dieci e cinque anni fa? In questo, nell’esser la storia
vissuta di una sconfitta politica e il postumo tentativo di un suo riscatto intel-
lettuale, è il vero valore positivo del libro, la sua ragion d’essere.
Così il critico è sospeso tra l’ammirazione per la ricchezza e l’elasticità
fantastica di questo scrittore, per il coraggio suo nel comporre e scomporre
gli schemi letterari, per la penetrazione dei giudizi, per quel che di stimolante
e di vivace viene dalle sue pagine, per la positiva utilità che probabilmente il
suo lavoro potrà avere verso una parte della borghesia italiana e straniera; e
il giudizio dubitativo che dev’esser pronunciato sulla carenza di «seconda
voce» della sua prosa, sull’arido senso di avventura di avventura che qui av-
volge, senza un attimo di «silenzio», con le sorti del nostro paese quelle della
nostra generazione; su quel non posse amare che, se vissuto davvero senza
compensi, potrebbe far cantare la corda più discreta e più fonda che si presen-
ta qui dietro le più squillanti, ma che finora è rimasta quasi immobile, o fioca.
Introduzione a Henri Rousseau, le douanier1

Lontana ormai la leggenda letteraria che dai primi anni del nostro secolo
coltivò la fortuna di Montmartre, l’opera di Henri Rousseau, separata da-
gli snobismi e dalle ironie, ha il suo luogo nella storia dell’arte moderna e
dell’animo contemporaneo. Un giudizio non polemico ne riconosce tanto
il valore di compiuta poesia quanto quello di necessario passaggio storico
della pittura da Delacroix a Klee. Per questo è bene dir subito che la pittura
di Rousseau non è, come si è creduto, un frutto patologico, un meteorite
storico, un relitto giunto a noi da secoli passati, un primitivo. Ogni età ha
avuto i suoi pittori popolareschi, i suoi «semplici»; ma essi rimangono, in
genere, ai margini della storia dell’arte; e invece l’età nostra si è riconosciuta
anche in Rousseau perché in lui, come nei suoi contemporanei Gauguin e
Cézanne sono confluiti, come ad una «porta stretta», alcuni secoli di pittura.
Il suo carattere specifico, semmai, è questo: che in lui, più evidentemente
che in altri, il rispetto verso il modo tradizionale di costruire il quadro, e di
dipingerlo, convive paradossalmente col rifiuto di alcune conquiste storiche
della pittura, con quella apparente negazione del passato (e dei nostri doveri
verso di esso) che è uno dei modi coi quali l’uomo moderno protesta con-
tro il proprio destino. L’attimo degli impressionisti e la fugacità dei divisio-
nisti non aveva alterato la tradizionale prospettiva lineare ed aerea, faticoso
frutto dell’arte occidentale: ecco invece che (come se la prospettiva pittorica
si sorreggesse sulla coscienza del passato, su quella che appunto chiamiamo
«prospettiva culturale») il mondo dell’industria moderna, offrendo a sempre
nuove e incerte masse mere informazioni, schemi, precetti, moralità e idee
«ricevute», crea quell’appiattimento e sfaldamento degli elementi culturali
che alcuni artisti, fra cui Rousseau, esprimeranno con tanta patetica forza.
La speranza di quegli anni ingannava e straniava gli uomini più diversi: fu-
ghe d’Oceania, esotismo da Jardin de Plantes, degradazione sentimentale alla
portata di tutti, nuovo «vino dei poveri». Il museo mentale di Rousseau (e
oggi sappiamo come egli copiasse davvero, pazientemente, i classici del suo
Louvre) è appunto – come nell’autodidatta, nel semicolto – senza prospettive,

1
Henri Rousseau, le douanier, Olivetti e C., Ivrea 1951.

L’ospite ingrato ns 6
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ma con la pretesa di averle; quadri, paesaggi, ritratti, nostalgie di un ordine e


di una civiltà, che sono incommensurabili con i quadri, i paesaggi, i ritratti dei
pittori «seri», eppure tentano, con la loro apparente umiltà, di imitarli, come
l’arte industriale di quei decenni imita l’arte «pura», come il panciotto dell’in-
segnante di «diction, musique, peinture et solfège», Henri Rousseau, abitante
in rue Perrel, imitava quello degli accademici alla Puvis de Chavannes. Solo
così si spiega l’ingenua pretesa di riconoscimenti ufficiali che corre attraverso
tutta la vita dell’ex-doganiere. Egli cerca di entrare nella pittura vera, di pia-
cere, insomma; e il suo spirito critico è tanto debole, tanto più forte di quelle
intenzioni è la sua spontaneità e sincerità di artista da non avvedersi di quella
incommensurabilità, come i suoi occhi chiari di vecchio pensionato sono lon-
tani da quelli dei professori, dei pittori cubisti e delle scrittrici internazionali
che inventeranno la sua fiaba. Egli non sapeva che quella pittura vera non
esisteva più, che le folle di pittori da lui immaginate nel quadro La Libertè
invitant les Artistes à prendre part au XXIIème Salon des Independents erano
folle di manichini e di fantocci.
Ma non è questa forse una condizione radicale dell’uomo moderno; que-
sto suo esser stato respinto dall’organismo della città, dalla vita integrata con
la vita altrui, verso l’informe dell’urbanesimo, delle barriere, delle periferie
industriali, verso il provvisorio di quei terreni fabbricativi dove passano tristi
viadotti e viandanti (e che in Francia si chiamano, con molta esattezza, ter-
rains vagues) e dove solo per i ragazzi e per i vecchi i fossati di una campagna
che sta inurbandosi possono parere natura selvaggia, giungla, avventura?
Una lunga luce di crepuscolo accompagna l’opera di Rosseau, la medesima
luce elegiaca degli altri «pittori della domenica», meritevoli di questo nome
più per la domenicale melanconia dei loro quadri che per il loro presunto
dilettantismo: Bombois, Séraphine Louis, Vivin… Pochi anni dopo che Rim-
baud aveva scritto le parole tanto spesso citate: «J’aimais les peintures idiotes,
dessus de portes, décors, toiles de saltimbanques, enseignes, enluminures popu-
laires…», Rousseau cominciava a firmare i suoi fiori votivi e le sue impossibili
foreste equatoriali. E negli anni medesimi in cui ci lasciava gli ultimi paesaggi
di banlieue, il suo amico Picasso, dopo aver popolato quelle medesime pe-
riferie coi suoi esangui e febbrili arlecchini, coi suoi amari mimi blu e rosa,
cominciava a disegnare gli spettri che ancora camminano in mezzo a noi.
Prefazione a Carpaccio1

Le interpretazioni della pittura di Carpaccio hanno oscillato a lungo fra


la contemplazione della sua grazia e di quella favola verginale, melanconica
e macabra tanto ammirata dagli scrittori dello scorso e del nostro secolo, da
Ruskin a D’Annunzio fino a Cocteau, e la tendenza (ad esempio, del Beren-
son) di limitare questo artista alle sue capacità narrative, di pittore di genere.
Ma oggi lo studio stilistico delle sue opere ha condotto alcuni dei nostri critici
più aperti a confermare, seppur traducendone i termini, l’una come l’altra
interpretazione. La sua formazione nell’ambito del Bellini ci dice perché ri-
manga sempre in Carpaccio l’amore per la narrazione analitica, minuziosa e
dispersiva dei particolari, per le vedute panoramiche, le architetture reali o
fantastiche, l’esotismo orientale; un amore sostenuto da un disegno preciso e
non di rado rigido, quasi memore di fratture gotiche. D’altronde, l’aggettivo
«feudale» è stato sovente ripetuto a proposito di Carpaccio; e questo «buon
uomo» di cui ci parlano i documenti, pare talvolta un viaggiatore di Terrasan-
ta che si rifugi in una fantasticata landa di delicati cavalieri crociati. È un di-
segno che circoscrive esattamente le forme e sottolinea le corse prospettiche;
un disegno devoto, che ora dice lo stendardo fluente, ora la galea, la gondola,
la gradinata marmorea, le selve di tiare e di vergini, le fughe di monaci bian-
chi, le spire dei draghi, i capricci delle nuvole. Ma l’elemento unificatore di
questo mondo di sole proposizioni coordinate è la luce diffusa e quieta, di
alba o di crepuscolo, sia essa quella che allunga il fantasma dell’angelo sul
sogno mattutino di Orsola o quella che dalla finestra di San Gerolamo fissa
gli innumerevoli oggetti della cella umanistica e ne accende, oltre la porta
del fondo, tarsìe rosse e verdi; sia infine quella velata e tiepida della maggior
parte delle sue composizioni. E, si potrebbe pensare, è proprio la difficoltà di
quella luce a far corpo con le forme, a diventar forma ed emanare dall’interno
dell’immagine, è proprio quella sua resistenza a dissolversi nell’aria e nella
vibrazione tonale – contrasto sempre rinnovato e tensione fra la dolcezza del
colore e il disegno minuto – ad insinuare nell’opera di Carpaccio la magia
commossa, quasi penosa, fra stenta e dolente, del suo accento. È un abbando-

1
Vittore Carpaccio, Olivetti e C., Ivrea 1953.

L’ospite ingrato ns 6
304 Archivio

no alla pienezza continuamente trattenuto dalla nostalgia d’una purezza. Per


questo la critica ha potuto leggere nella leggenda di Orsola, in quella infantia
predestinata alla morte precoce, un tema simbolico della maniera di Carpac-
cio. Tuttavia il nostro artista è talvolta andato oltre il suo cerchio magico, in
assoluti resultati: ed è (se non si sovrappone la nostra fantasia di moderni)
nello sguardo vuoto delle Cortigiane, nella severità fatale del San Giorgio
combattente, nel giovane in armi della collezione Kahn di New York, e in
quello che è forse il suo massimo capolavoro, la tragedia grigia della Lamen-
tazione sul Cristo Morto, del Museo Federico di Berlino.
Queste opere sorte nella Venezia impegnata tutta nella grande crisi politica
e militare del primo Cinquecento, son figlie d’una sensibilità che non poteva
né voleva la sanguigna luce di che Giorgione e il giovane Tiziano avrebbero
colorati i velluti e gli ori della potenza. Le sue verità, Carpaccio ce le narra
con la lingua d’un libro di devozione e di cavalleria; e si volge al secolo che
l’ha visto nascere. Una giovinezza offuscata dal declino della sera.
Preghiera di pubblicazione1

È un curioso lavoro quello di chi legge (in una redazione letteraria)


manoscritti e dattiloscritti di poesie e prose (più quelle che queste di regola,
perché si sa che da noi il «tutto o nulla» seduce più del «qualcosa»). Pacchi
postali contesti di spago o arrotolati come randelli; buste gonfie da esplodere:
al primo foglio della novella o della lirica, inalberata la bandierina di una lettera
(umile o altera, ma sempre preoccupata) che raccomanda la lettura o sollecita
il giudizio. Vi compare un’immagine ben nota d’Italia, ma come esasperata
per il fatto di trovarsi nell’estrema impudicizia (o nell’estremo pudore)
dell’espressione letteraria. Non dei testi mi ricordo ora; delle scritture, invece.
C’era tutta una scatola, dal manoscritto che pareva rinvenuto in una bottiglia,
scarabocchiato di endecasillabi indecifrabili su frazioni di carte da libro
mastro, di carta da imballo, di carta di quaderno, sugante e pelosa, su fino al
fascicolo di extra strong, con le «liriche» ben impaginate in un dattiloscritto
nitido (avrà comperato un nastro di seta, il poeta) alle virgole centellinate,
imitazione delle edizioni fuori commercio. Una scala che mostrava come in
trasparenza, i borghi lontani dove ancora la macchina per scrivere è orgoglio
del canonico o del maresciallo dei carabinieri e dove anche i veri poeti (perché
non è detto che in quei borghi apuli o alpini nascano soltanto i sonetti dei
barbieri o gli impeti futuristi delle guardie di finanza) debbono, come nelle
leggende dei prigionieri, scrivere con inchiostro di more, o semmai in rosso,
violetto, verde; inchiostri davvero simpatici. Ma il maresciallo o il segretario
comunale la prestano, qualche volta, la macchina; e il racconto: «Una sera»
o la poesia «Pupille notturne» è copiata, un dito dopo l’altro, su macchine
gemebonde come carri armati, dove le «n» e le «a» soffrono di tic nervosi e le
maiuscole strappano il loro inchiostro un po’ alla banda azzurra e un po’ alla
rossa, emergendo in costume fantasia dalla pagina, che spesso è il «verso» di
uno stampato amministrativo, uno di quei miliardi di fogli militari cresciuti
dalle tristi tipografie dei bagni penali. E, con lo stile della scrittura muta,
beninteso anche lo stile dei testi: il passaggio dalla carta uso bollo a quella
velina è un po’ il passaggio dai crepuscolari in ritardo all’ermetismo dell’altro

1
«Il Cembalo scrivano», Bollettino Olivetti, [Ivrea] 1955, p. 40.

L’ospite ingrato ns 6
306 Archivio

ieri. Da diffidare, beninteso, di quei dattiloscritti che portano in prima pagina


il titolo a mano, disegnato col pennino ronde: indicano una ovvia incertezza
stilistica…
Versi e racconti copiati come lettere d’amore di povera gente sui tavoli dove
il lavoro, la sera finisce; o battuti di nascosto sulla macchina dell’ufficio. Die-
tro ogni foglio la fantasia dell’autore vuole intravedere la dura solennità della
stampa, dove invece e ancora c’è solo il buio medioevo della scrittura a mano
o quello strano specchio che è, per le parole di fantasia, la scrittura a macchi-
na, con i suoi caratteri pieni d’aria e bianco. Gli sembra che solo il piombo
della tipografia potrà rendere definitive le immagini, le vicende. Ma intanto
a mezza via, la scrittura a macchina riesce già a distaccarle dal calore inquieto
della mano e del cuore; a darle quel tanto di freddezza che è necessaria ad ogni
tentativo d’arte: ecco perché spontaneamente, chi, nelle redazioni delle riviste
o nelle case editrici, deve ricevere e leggere i manoscritti, s’orienta subito verso
quelli copiati a macchina. Vi crede ravvisare, in quell’uso del mezzo meccanico
quasi una prima garanzia; se non artistica, culturale almeno.
Vogliamo dire che solo un grande scrittore può avere la discutibile civet-
teria di copiare a mano i propri testi, ma a un grande scrittore (o a un piccolo
scrittore in un grande momento) si può concedere anche, come faceva a Pie-
troburgo Alexander Bloch, di scrivere poemi sui muri col carbone.
La vecchiaia difficile1

L’operaio in pensione si sente allontanato dalla vita. Una rivista america-


na, dopo aver documentato con una inchiesta questa triste verità, propone ai
dirigenti di farlo partecipare ancora alle attività della sua azienda.

Non mi stupisco più quando, chiedendo ad un operaio, che per otto ore al
giorno è solo nel moto meccanico del suo braccio teso a nutrire la pressa o il
trapano di identici pezzi, se non preferirebbe invece di quello un lavoro più
impegnativo, capace di concentrare maggiormente la sua attenzione, mi sento
rispondere di no; o quando certi amici miei, animati da ottime intenzioni,
si dibattono contro le difficoltà insormontabili dell’attività culturale entro
l’ambito delle fabbriche; e nemmeno quando mi avviene di udire, commenta-
te dai melensi radiocronisti, le tristissime voci dell’operaio giubilato, o dell’o-
peraia che da quarant’anni «serve l’azienda», dichiarare che la loro massima
felicità sarebbe quella di poter continuare a lavorare come hanno sempre fatto
e che la loro riconoscenza per i datori di lavoro cesserà solo con la morte.
Come stupirsene, se è vero che la maggior vittoria è quella del far adottare al
vinto il proprio codice morale; se è vero che – ed è quanto testimonia la Weil
nel suo libro – l’unica possibilità di fuga di fronte all’assurdo del lavoro non
qualificato è nel non-pensiero, nella non-decisione, insomma nella minore,
non nella maggiore, umanità? Ora, il vecchio operaio, l’operaio che non sia
salito di grado, e non si senta un po’ maestro di più giovani, ma sia sempre
lì, alla sua macchina, legato a quella da una tenerezza che, malgrado tutto, è
ancora prova della sua umanità, non lo riconosco nella fabbrica, nell’orgoglio
un po’ finto, un po’ sincero, col quale mi mostra quello che la sua macchina sa
fare; ma nel tram della sera, le mani sul fagottino, tra il sonno che gli piega la
nuca; o quando, al circolo, alla sezione, si alza a ripetere le sue goffe domande,

1
«La civiltà delle macchine», 2, 1953, pp. 62-63. La seconda pagina del testo è quasi interamente
occupata da un’illustrazione di Giulio Turcato ed è corredata dalla seguente didascalia: «Giulio Turca-
to: Minatori del Valdarno. Turcato è nato a Mantova il 1912. Ha partecipato a varie mostre nazionali,
Venezia, Roma, e internazionali, Chicago, New York, Parigi, Manchester». Ha fatto parte del «Fronte
nuovo delle arti» che si proponeva di portare un programma antitradizionale nell’ambito della pittura
ufficiale. Ha vinto il premio Taranto col quadro intitolato Il cantiere.

L’ospite ingrato ns 6
308 Archivio

che han senso ormai solo per lui, a cui risponde l’educata pedanteria dei fun-
zionari sindacali o di partito. Per me, la vecchiaia dell’operaio nostro è forse
il luogo più definitivo e istruttivo d’una civiltà che da tante e opposte parti
predica la giovinezza. Una civiltà che onora, (e, ripeto, lo fa attraverso tante
e diverse ideologie, tutte concordi però nell’essere ideologie dell’uomo adul-
to, dell’uomo-lavoratore-efficiente) il bimbo in quanto «sarà» produttore e il
vecchio perché «lo è stato». Che ha dimenticato, nel suo pedagogico furore…
seppur ha mai saputo, l’onore dovuto al bimbo in sé e al vecchio in sé. Leggo
un’inchiesta sui lavoratori americani in pensione, su «Factory», maggio 1952;
e, per contrasto di ambienti e di prospettive, vedo i nostri, pensionati della
Previdenza Sociale (o della loro stessa azienda, come anche da noi, in qualche
caso, avviene). Perché – soprattutto nelle città, nei caseggiati di sfruttamento
costruiti venti o quarant’anni fa – la vita dell’operaio vecchio mi sembra
diventare così esemplare della condizione operaia? Forse perché, come quella
d’ogni altro vecchio, non è più una possibilità, ma un destino? («Un cane
vecchio non può imparare un gioco nuovo», dice, crudele come una smorfia
di Charlot, un proverbio americano). Non solo per questo: ma perché la vec-
chiaia dell’operaio fa splendere, come nessun’altra vecchiaia, un fallimento, fa
intendere che l’integrazione sociale fu apparente e che egli, se nella fabbrica,
nel luogo di lavoro, trovava in luogo d’una fraternità e d’un riconoscimento
almeno un cameratismo, e, se non uno spirito di classe quello alemeno «di
corpo», fuori di quello non però egli cessa di appartenere al «genere umano
operaio» con i suoi tristi statuti non scritti. Finché lavorava, aveva l’illusione
di una scelta; ora scopre – o, piuttosto, ed è più triste, non scopre affatto ma
solo subisce – d’essere un «minus habens»; nei figli, nei nipoti rivede il suo
aspetto stesso. E se scende verso la città più che sempre la città è degli altri.
E se ora mi chiedo che cosa fa tanto diversa da questa l’immagine corrente
dell’operaio americano, quale s’è venuta formando dalla lettura dei sociologi
e politici e romanzieri americani, non ho altra risposta da quella, ovvia, che
viene da un semplice sommario storico dei conflitti sociali in USA nello scorso
mezzo secolo e dalle loro interpretazioni sindacali. Penso, tra l’altro, al libro
di Daniel Guérin. L’operaio americano è integrato al corpo del suo paese, alla
sua nazione supernazionale; è una integrazione che continuano a compiere le
immagini-forza tradizionali della libertà democratica, del benessere, del pro-
gresso scientifico e morale. Tutti i residui, spesso molto gravi, di separazione
dall’«unicum» sociale (razza, nazione di origine, differenza fra Stato e Stato
dell’Unione) non paiono aver assunto permanentemente i caratteri ormai sta-
bili, quasi irriducibili, che son propri della classe operaia occidentale, compresa
quella inglese che tuttavia fruisce di tanto forti miti nazionali. «Anch’io sono
l’America!», il grido del «ragazzo negro» che vuota le sputacchiere nel grande
albergo, ne è la prova. Pensate come suonerebbe letterario o retorico – pur nella
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 309

sua assoluta verità – un «anch’io sono l’Europa!», del ragazzo delle solfatare
siciliane. E insomma, non è un caso che i massimi eroi del progresso america-
no, un Bryan o un La Follette, un James e un Dewey, un Vebren e un Dreiser,
siano tutti riformisti. Veduto dal nostro continente, l’operaio americano pre-
senta senza dubbio un tipo di produttore-consumatore ignoto o quasi al nostro
occidente, dove si uniscono caratteri propri della massima civiltà borghese del
passato con caratteri nuovi e ancora mal definiti, frutto d’un progresso tec-
nico del quale le nostre strutture economiche e sociali partecipano con ben
noto ritardo e adeguandosi, per così dire, più col corpo che con l’anima. Ma la
contraddizione che, anche da qui, è possibile intravvedere sorge appunto (e la
storia del «New Deal» sta a provarlo) sulla punta avanzata della cultura ameri-
cana, proprio nel lavoro dei sociologi: fin dove si concilia il tradizionale «way
of life» con le esigenze nuove dell’operaio? Finora la sociologia più esportata
e divulgata da noi tende a considerare indefinitamente valide quelle premesse;
e la «democrazia statistica» ad erigere in legge le sue maggioranze percentuali.
Uno studioso francese ha mostrato recentemente come il medesimo operaio
che in fabbrica e nei conflitti di lavoro è un sindacalista intransigente, se è con-
sultato dal suo giornale o da Gallup si pronuncia magari favorevole alla legge
Taft-Hardley perché si sente interrogato come «americano», come ideologo
di quel modo di vita americano che appunto le inchieste, la radio e la stampa
contribuiscono potentemente a formare. «Il bisogno di “comunicare” – o, in
altro linguaggio, la volontà di essere “riconosciuto” – che è un motivo di cre-
azione sociale, diventa un fattore di ristagno se l’operaio americano impara a
comunicare invece che con la storia universale del movimento operaio, con il
partito preso dei datori di lavoro; se impara a tenerne conto e si lascia vincere
dagli «slogans» della società nazionale come società chiusa». («Temps Moder-
nes», n. 69, p. 46).
Con simili precauzioni bisogna dunque avvicinare i resultati di quest’inchie-
sta condotta fra i pensionati – operai ed impiegati – di sei fabbriche di Cleve-
land. La prima impressione è che l’inchiesta sia stata compiuta, e sia presentata
dalla redazione della rivista, allo scopo di fornire alle direzioni del personale
consigli atti a rendere più facile il passaggio allo stato di pensionato dei lavora-
tori anziani (sessantacinque anni) e al tempo stesso a diminuire il numero degli
scontenti e favorirne l’«adjustement». Se la percentuale di coloro che hanno
una attitudine positiva nei confronti del loro stato di pensionati è il doppio di
quella di chi ha atteggiamento negativo, una forte percentuale (40%) afferma di
essersi sentita più felice prima del ritiro, circa la metà degli interrogati avrebbe
voluto lavorare più a lungo, il 70% ha lasciato l’azienda con l’impressione
che si desiderasse mantenerlo ai loro posti di lavoro, un 68% non ha nessun
programma per il futuro e la quasi totalità (91%!), se dovesse ricominciare,
vorrebbe lavorare ancora nella medesima azienda. Se a questi dati si aggiunge
310 Archivio

che una buona metà dei pensionati dichiara di non aver un «hobby», cioè (ma
la definizione è difficile) un passatempo, un «violon d’Ingres», un’attività
preferita, si dovrebbe concludere ad una fortissima somiglianza di situazione fra
l’operaio nostro e quello degli Stati Uniti: il luogo della maggiore integrazione
sociale resta la fabbrica e per l’operaio, tolto dal lavoro e dal luogo di lavoro,
c’è là, come qui (seppur con ben diverse condizioni di vita!) una specie di
«vacuum» sociale. Concludono i commentatori: è necessario che i dirigenti
industriali abbandonino i preconcetti e i luoghi comuni e si persuadano, sulla
base dei risultati dell’inchiesta, che è opportuno trattare individualmente i
casi dei lavoratori pensionabili; astenendosi, fin che è possibile, dalle decisioni
generali; suggerendo con tatto e garbo, senza l’aria di voler predisporre «piani»,
le attività più confacenti alla condizione di pensionato; facendo partecipare
ancora il pensionato a certe attività dell’impresa come ricevimenti, celebrazioni,
«parties». Evitare insomma, quant’è possibile, quel «trauma da divezzamento»,
che è il passaggio alla pensione; tanto più in quanto, sempre stando all’inchiesta,
il fatto che la pensione dell’impresa e quella della Previdenza congiunte siano
insufficienti per circa il 60% dei pensionati pare non costituisca la loro maggior
preoccupazione; ché infatti solo il 24% considera il denaro come il «maggior
problema».
In apparenza dunque l’inchiesta si situa a mezza strada fra tutto l’insieme
di problemi – ormai larghissimamente dibattuti in USA – conseguenti all’al-
lungamento medio della vita dei cittadini che ha raggiunto il settantesimo
anno (e quindi alla presenza d’una sempre crescente massa in età lavorativa) e
quello, taciuto ma non meno vitale, di anticipare il pensionamento dei lavora-
tori al fine di poter aumentare il tasso del rendimento lavorativo ed eliminare
i lavoratori di rendimento minore senza accrescere la disoccupazione. Ma
la realtà sulla quale si proietta l’inchiesta resta quella della contraddizione
propria del lavoro nella grande industria moderna, la sua impossibilità, per la
grande maggioranza degli operai, di esser quel che il lavoro dev’essere, cioè
creazione e amore, pena e dolore ma anche impegno ed espressione.
Finché, per la gran maggioranza della popolazione lavoratrice, la vita do-
vrà esser scissa tra la fatica del giovane e dell’adulto (che però non impiega in
quella tutte le sue facoltà) e l’ozio, se non la miseria, del vecchio, incapace di
lavoro solo perché incapace di «quel» lavoro che unico la società gli ha con-
cesso di apprendere, l’uomo sarà scisso in se stesso, obiettivamente infelice
d’una infelicità che non è gradino a nulla. Oggi l’èra della energia atomica e
dei cervelli elettronici annuncia forse la via d’uscita da questa contraddizione;
e forse non è lontanissimo il tempo nel quale sarà possibile rispettare l’infeli-
cità soggettiva e cosciente, quando l’uomo avrà più di un lavoro e quindi più
possibilità di esprimersi, tanto nelle singole età della sua vita quanto nella loro
successione.
La biblioteca immaginaria1

L’opera di poesia, coincidenza di valore e di funzione, proposta di una uma-


nità possibile; che significato può avere una lettura che non abdichi, che non si
nasconda quella possibilità? Gli ostacoli ad una lettura autentica sono obiettivi
e storici; che cosa può fare una critica che voglia aiutare a rimuoverli?

I. Uno studioso di estetica ci ha ricordato recentemente l’importanza della


vita complessa che le opere d’arte iniziano nella memoria di chi le contempla,
quando ne sia cessata l’apprensione diretta; ed ha insistito sulla distinzione fra
il momento estetico (lettura e contemplazione) e quello propriamente cultu-
rale o critico che si chiude col finire del primo. Certo, e se non sempre almeno
assai spesso, l’atto della lettura somiglia un po’ alla salita del Purgatorio; una
volta giunti, ci volgiamo intorno a cercare la cara guida, ma un silenzio pieno
di pericoli è succeduto al dialogo che correva fra noi e le pagine; siamo restitu-
iti al nostro tempo interiore, a quell’oscuro operaio che ci scandisce dentro gli
«eventi puntiformi» con un suo ritmo – interrotto dalla lettura – che è quello
medesimo della nostra vita, il segno indecifrabile e severo del destino indivi-
duale. Mentre la lettura durava avveniva una prima sistemazione dei risultati
del dialogo, una prima operazione critica, tanto più ricca di relazioni quanto
maggiore l’acuità del nostro sguardo mentale; perché non esiste un lettore
non prevenuto, e chiunque porta alla pagina, come d’altronde a qualsiasi altra
esperienza, la propria storicità e situazione. Ma è comunque opinione che la
lettura dovrebbe avvenire in una sosta momentanea, in un rallentamento, o
meglio in un corto circuito, dalla circolazione mentale; in una sospensione
ricettiva. Poi verrà il «frutto della lettura»: puro ricordo emozionale – la così
detta memoria patoeidetica – o la disgregazione degli elementi componenti
l’opera, secondo gli interessi e le passioni di ciascuno.
Questo prolungarsi delle figure artistiche nella vita morale, e quindi nel-
la pratica, è la normale vita dell’arte. L’esistenza teoretica dell’arte vive tra
una pratica e una pratica, vale a dire tra una cultura che si è raccolta in una

1
«Comunità», 7, 22, dicembre 1953, pp. 46-49. Cfr. Francesca Bonanni, La dimensione politico-
educativa e culturale nell’esperienza della Olivetti, tesi di laurea, Dipartimento di Scienze della For-
mazione, Università di Roma Tre, Relatore Donatello Santarone, a. a. 2017/2018, pp. 71-80.

L’ospite ingrato ns 6
312 Archivio

psicologia – quella dell’autore – ed un’altra cultura, quella dove si dissolverà


e risolverà, quella che andrà a conformare o arricchire. L’immagine che l’o-
pera letteraria o poetica ci lascia e che poco a poco finisce col diventare sigla
mentale e simbolo pratico, non è una degradazione, ma fa parte anzi di un
corretto metabolismo dell’opera d’arte. L’eccesso di rispetto, ossia un’ope-
razione di lettura e insieme di critica che si arresti troppo presto per paura
di distruggere l’intimità dell’opera, è, in fondo, un’offesa all’opera stessa. E
c’è da dire invece che non sarà mai sufficiente l’attenzione che porteremo al
distribuirsi della figura in immagine, a quella che si suole chiamare la fortuna
dell’opera, cioè alla sua vita di relazione, alla storia e alla psicologia della sua
esistenza per entro i lettori.
Tutto questo mi sembra abbastanza ovvio; e parrebbe inutile ripetere
che, quando ho scritto di una critica come servizio, di una critica che iden-
tifichi un suo pubblico e a quello risponda, volevo insistere su di una critica
che sottraesse la lettura all’arbitrio e alla pseudo spontaneità individuale.
La critica cui per molti anni ci ha abituato una parte della cultura italiana
tendeva a rifiutare questa degna e salubre mortalità dell’opera; la difendeva
dalla disgregazione in cultura, obbedendo apparentemente alla teoria cro-
ciana dei distinti, ma in realtà ad una difesa del suo nucleo segreto, del dio
ascoso; e, così facendo, difendeva, come dirò, qualcosa di realmente essen-
ziale e di vero, ma con le parole dell’equivoco. (Ed io stesso difendevo,
come la sua libertà più gelosa, la parte oscura dell’opera; mentre ora la vedo
come un’oscurità storica, come una profonda e insaziata esistenza reale che
non comprendiamo ancora e ci affascina perché enigmatica; sì che la critica
non deve rinunciare a parlarne, ma deve parlarne non dimenticando che la
irriducibilità dell’opera all’atto critico non è di natura metafisica e non cela
un dio ascoso, ma è bensì di carattere categoriale, e di categorie storiche).
Quella critica tendeva a fare della poesia un momento della vita religio-
sa, e della vita religiosa un analogo impreciso del senso del sacro; tendeva a
scambiare la fede col mito, e il mito con la psicologia aurorale. Questa coda
del decadentismo, come è noto, apparve di tanto in tanto, anche ad un Pavese,
ambigua e affascinante come quella del diavolo. Era la critica della capitola-
zione, un atto di amore ante foras. Aveva ragione quando insisteva, quando
diceva che la poesia non è un ragionamento sulla poesia, come il moto della
fede non è uno scritto della fede; ma in pratica finiva con l’esser la critica della
grazia, nella sua riduzione contemporanea; critica di cristiani senza teolo-
gia né chiesa, critica dell’incomunicabile; critica, con una contraddizione in
termini, ermetica. A quei consigli di lettura si continuerà ad opporre a buon
diritto una lettura attenta alle premesse e alle conseguenze extra artistiche; e
ad una fede ridotta ai turbamenti della «prima volta», una fede dell’adulto. Di
chi «sa in chi crede».
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 313

Ma è ora di parlare di un altro particolare modo di lettura, altrettanto falso;


di confessare che è il modo di lettura vizioso al quale conduce tutta la parte
volgare del nostro storicismo, che è quello della maggior parte di noi o della
maggior parte dei nostri momenti. Questo modo di lettura, come il preceden-
te, è un riflesso delle contraddizioni essenziali della produzione contempora-
nea. Esso genera ed alimenta la moderna biblioteca immaginaria, accelerando
artificiosamente la riduzione dei testi ad emblemi stilistici. Come il museo
immaginario di cui ci ha parlato Malraux è la condizione culturale dell’astrat-
tismo, appiattendo nella gradevole falsificazione della carta patinata o delle
quadricromie l’arte figurativa delle più diverse epoche e civiltà, trasformando
la storia dell’arte in storia delle forme e questa in una storia della cultura
(che sarebbe legittima se non portasse, della cultura, una definizione anche
più spiritualista che idealistica) così nel nostro lettore colto la confluenza di
qualche formula crociana (pseudo-crociana) con lo storicismo e relativismo
volgari tende a distruggere frettolosamente l’opera; e, più che personaggi, si-
tuazioni, pensieri, a residuarne un’eco, un empiema, una pallida copia della
sua facies integrale. Paradossalmente, quello che sarebbe potuto sembrare l’e-
lemento più difficile ad estrarre, cioè il diagramma ritmico, o quello che si è
convenuto chiamare il «tempo intero» dell’opera, è invece quello che prima
di ogni altro ci rimane nella memoria. Ogni opera si riduce, nella memoria
moderna, dopo esserlo stato nell’estetica, a lirica; ma interpretata come un
brivido frettoloso. Apparente nemica, una sottospecie di frequentatori della
moderna biblioteca immaginaria si genera da questa: la specie di chi legge al
solo scopo di collocare, il più rapidamente possibile, l’opera in un ordine,
in un sistema culturale prestabilito. L’opera non avrà allora più significato
proprio, ma significherà solo in relazione a qualcosa d’altro, a qualche altro
libro, a qualche altro «divertimento» del lettore. Che si tratti della passione
per i trasalimenti degli attimi lirici o della passione per il dovere culturale, è
lo stesso. Si cerca nel libro quello che si sa già. È il caso di «fréquente com-
munion», pericoloso come l’altro. Riducendolo a quintessenza stilistica o a
categoria storico-culturale, quello che soprattutto si vuole far tacere l’opera
letteraria o di poesia che si ha tra mano.

II. Fra i tre modi di letture considerati – quello antistoricistico, mistico,


ermetizzante; quello dell’astrattismo stilistico; quello della traduzione cul-
turalistica – esiste una radice comune; e lo conferma Lukács quando rivela
le comuni origini del formalismo e del rozzo contenutismo contemporaneo.
Se per un momento, e come ipotesi, riprendiamo il tema millenario che fa
dell’arte la repressione e la sconfitta degli interessi inferiori in nome degli in-
teressi più alti, la mortificazione dell’individualità in favore della personalità,
la rivelazione e la scoperta di quei valori che la moralità dovrà riconoscere in
314 Archivio

seguito, è altrettanto certo che l’uomo ripugna i valori ed a sentirsi insorgere


dentro le verità capaci di porre in crisi la sua sicurezza. L’opera d’arte, in
questo senso, ci offende; come la purezza l’impuro, come la virtù il vizioso;
e non viceversa. Per questo essa è essenzialmente tragica: perché, almeno in
un primo momento, con la sua sollevazione di interessi e passioni e la loro
distruzione ironica e formale, essa opera come l’amore per la bellezza fisi-
ca; e ogni amore – ci ricorda Pavese – rivela la nostra miseria. Non hanno
detto nulla di diverso le religioni quando ci hanno discorso della resistenza
alla preghiera o alla grazia, o la psicoanalisi quanto ha insistito sulle astu-
te costruzioni che l’inconscio erige a difesa. Ma, se si ricorda che leggiamo
per partecipare a verità che l’esperienza non ci offre se non disorganizza-
te e opache; e che l’opera avrà senso e valore in proporzione alla ricchezza
e complessità dell’esperienza e della verità – cioè nel complesso di direttri-
ci profonde e non occasionali – del criterio organizzativo; se si accetta con
Lukács l’idea centrale del realismo, secondo la quale, nella forma, si pongono
in evidenza le strutture intime e al tempo stesso le apparenze fenomeniche di
una reciproca dipendenza dialettica, l’effetto dell’opera non sarà tanto quello
di purificare l’animo dalle passioni e dalle contingenze, quanto di mostrare,
nella sua individualità (che è quanto dire in una individualità che riproduce
quella di ogni esperienza umana) le radici generali di quelle esperienze, i loro
significati ulteriori, il loro senso. Non svuotamento della passione, bensì una
esaltazione. E questo, fra parentesi, conferma il carattere ironico dell’opera
di poesia e di letteratura: perché a chi vada cercando conferma o risposta ai
propri privati interrogativi, essa avrà parole che a quelle domande lo strap-
peranno, per proporgliene altre, più complesse e pericolose: e a chi invece
vi vada cercando verità universali, offrirà solo la sua concreta, singolare e
limitata presenza. Certo, attraverso il carattere formale del testo, il lettore
intravede un ordine; ma non è già l’ordine di un modello trascendente, di
una virtù o valore divini – come più o meno si continua a sostenere in una
critica che manteneva valido per diversi momenti lo spirito del principio «cu-
ius regio eius religio» – bensì l’analogo di un ordine fino allora invisibile ed
opaco alla vita nostra, ma possibile. L’opera si propone come un esempio di
tale ordine: essa diviene un appello a sé stessa. L’appello alla conversazione, e
il suo «non indurite i vostri cuori», è pronunciato attraverso la desiderabilità
dell’opera stessa. È, ma in un senso non meccanico, il «vero condito in molti
versi», che persuade i più schivi. Il bene e il male, la passione, l’odio, l’amore,
tutti i sentimenti umani si propongono, al livello di energia e sintesi al quale
li ha portati l’autorità dell’opera, come avvenire possibile del lettore; in altri
termini, come una umanità possibile, che si incarna mediatamente nell’opera,
e che chiede al lettore l’incarnazione reale.
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 315

III. Questa «desiderabilità» dell’opera d’arte è, naturalmente, cosa affatto


diversa dalla sua tesi, o tendenza; essa è inerente alla sua artisticità, al suo
carattere formale; anche se – per parlare come Lukács – questo suo carattere
non sia un qualcosa di diverso dai suoi contenuti, ed anzi sia la forma del suo
contenuto supremo. L’opera, nel suo complesso, nella sua totalità, si presenta
come organismo che non soffre, come noi, delle contraddizioni del reale, per-
ché le ha tutte in sé comprese e accettate; di qui il «piacere», che è mero edo-
nismo solo se dimentica con quanta forza la figura generale dell’opera chieda
«l’imitazione». Tutta l’antica sapienza circa l’arte che ingentilisce i costumi
non vuole dire altro che questo. I costumi; vale a dire non appena l’individuo,
ma la società. Fin quando la realtà che l’opera configura e interpreta non è
concretamente oltrepassata dalla storia umana, la presenza dell’opera chiede,
come ho detto, l’incarnazione; quando lo sia (è il caso dell’arte greca, nell’e-
sempio, così spesso citato, di Marx), essa residua uno scheletro di relazioni
pure (di carattere esemplare, pedagogico: il così detto «classico») le quali non
possono intendersi se non sostituendo alle parti morte – che possono essere
ora quelle della struttura interpretativa e ideologica ora quelle delle appa-
renze fenomeniche – la loro traduzione, quasi sempre istintiva, irriflessa, in
termini vivi, recitandole, per così dire, in costumi moderni.
Ma, se così è, che cosa saranno, fuor di psicologia, quegli ostacoli all’acces-
so dei valori artistici, quelle remore esterne ed intime alla audizione profonda
delle opere, quella torbida volontà di non far parlare il libro? Gli ostacoli che
non favoriscono le letture mistificate e creano l’abbietta biblioteca immagi-
naria (distrazione, disattenzione, indifferenza, misticismo volgare, storicismo
volgare, estetismo volgare) sono forse appena altri modi di dire per indicare
il male, il negativo, la debolezza, il peccato, qualcosa contro cui sia possibile
lottare con l’energia morale o l’ascesi? Ma se così fosse, non mi distinguerei
per nulla dalle proposte di lettura degli spiritualisti. Una proposta di lettura
di questo tipo sarebbe possibile solo nella volontaria ignoranza degli altri;
sarebbe possibile solo accettando che «a ciascuno di noi è stata offerta una
parte di male da superare con le proprie forze, nel proprio tempo, e si badi,
una parte giustamente proporzionata alla nostra capacità di reazione: il limite
della salvezza o della condanna è nella volontà»; sarebbe possibile se non sa-
pessimo invece che la via retta a noi stessi passa attraverso gli altri e che solo la
prassi opera realmente sull’operatore. E dunque il modo migliore di vincere
gli ostacoli interni ad una lettura autentica – o almeno meno mistificata – è
quello di riconoscerli, fuori e dentro di noi, per ostacoli storici, concreti, isti-
tuzionali, nominabili per ostacoli che hanno cause precise (la divisione dell’u-
manità in classi, l’alienazione, la divisione del lavoro) e che si frappongono
alla manifestazione dell’uomo. L’azione per una società di liberi ed uguali o,
come si suol dire, per la unificazione del genere umano, non è affatto diver-
316 Archivio

sa, anzi coincide, con quella volta ad istituire una più alta, ricca e complessa
comunicazione fra gli uomini, a sostituirne una vera, o più vera, all’intreccio
demente di pseudo-comunicazioni in mezzo alle quali viviamo: e quindi an-
che una lettura più autentica, una lettura capace di sospendere lo sguardo
dalle grandi opere, per realizzarle. E dunque una simile azione o lotta è, im-
mediatamente, la più adeguata risposta all’appello contenuto in ogni opera
d’arte-verità e insieme il modo di intenderlo più nitidamente. La nota frase
«il proletariato è l’arma della filosofia» non significa altro che questo, perché
esso è anche l’arma della poesia e dell’arte. Ché se di proletariato diamo una
definizione tanto più rigorosa possibile; e cioè intendiamo quella parte degli
uomini e dell’uomo che più profondamente soffre, nel regime economico del
salariato o della divisione capitalistica del lavoro, di una inconsistenza spi-
rituale e materiale, e che la comincia a vincere organizzandosi in classe; che
non può aver dietro di sé se non saggezze e morali false o ipocrite; che, lette-
ralmente, non è al mondo ma comincia ad esserci; quella parte degli uomini
e dell’uomo cui l’irrazionalità e inumanità delle forze decisive e opache del
mondo contemporaneo è divenuta intollerabile e tuttavia continua a ricevere
degradati o stravolti i residui dei momenti supremi di civiltà o di individui
presenti o passati; quella parte cui ci iscriviamo non per natura ma per storia
e per scelta; quella parte, dico, ha il compito di distruggere – giorno per gior-
no e tutt’a un tratto quantitativamente e qualitativamente – le strutture del
presente e quindi di fondare non solo nuovi libri ma nuovi modi di leggere
quelli vecchi; ed ha il grande compito di prendere in parola le più alte forme
di comunicazione che gli uomini abbiano saputo esprimere.

IV. E come tuttavia le pagine della critica, maggiore e minore, dei periodici
e dei volumi, seguitano a parlarci dei libri senza volerci dire la verità, e cioè
che il libro è divenuto uno dei peggiori segni della nostra miseria, fingendo
invece ch’esso sia ancora immerso nella luce nitida degli studioli umanistici
o in quella verde che gli alti noci riflettono dai parchi di Weimar o almeno
nel conforto delle stanze ottocentesche; e quale condizione più miserabile
e grottesca di noi che parliamo e lavoriamo sui libri, avvezzi ormai a soffrir
più il loro numero e futilità. Essi son divenuti ormai l’esatto contrario della
comunicazione, un alibi, una ben tessuta menzogna e dissipazione.
Vi sono – così sappiamo – libri importanti, capitali, inesauribili; libri di
immagini grandi, di verità decisive; libri che vogliono quella virtù d’atten-
zione di cui ci ha parlato la Weil. Quando li abbiamo letti? Sono passati tanti
anni. O ci siamo promessi di leggerli; o di rileggerli. Ci siamo promessi di
essere calmi, savi; vecchi, o nuovamente giovani; di sfuggire, chissà per quale
miracolo e per quale merito, agli «impegni» della esistenza. Una estate di
vacanze, se non possiamo altro; un pomeriggio, un viaggio, una malattia. Li
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 317

leggeremo. Quando partiamo, quei libri rischiano di occupare la parte più


importante delle nostre valigie. Talvolta accade che li leggiamo davvero. Allo-
ra, se saremo riusciti ad accordare per un attimo il nostro cuore a quello delle
parole stampate, ci prenderà lo stupore dolente che ci avvolge talora innanzi a
un paesaggio, a un volto: come quando parla una musica, crediamo di sapere
che cosa vorrebbero da noi, quelle parole: che non perdessimo più la misura
d’amore e saggezza, di speranza o di dolore, di riso o demenza che viene, gra-
ve o sorridente, su delle pagine. È come se ci si mostrasse per la prima volta
la distanza fra la pigrizia alle apparenze del reale e il risoluto vivere cui invita
e allude quella forza di parole, che in sé ha certe promesse di adolescenza,
abbiamo imparato a vergognarci o mutarle in private, in sciagurate scommes-
se col mondo, così abbiamo imparato a trarre con la lettura qualche rigido
gemito; ed andar oltre. Talvolta, qualche ragionamento un po’ più comples-
so, qualche frettolosa sistemazione mentale, un segno in margine alla pagina,
una scheda, magari un articolo. Ma il viaggio è finito, il pomeriggio d’estate
porta le voci degli amici. Il libro, concluso o interrotto, si allontana sempre
più rapidamente da noi. E se vengono, ma sempre più rare e pensose, sere che
dissipano il tessuto delle cose da fare, quando pare molto lontana la mattina
seguente, ci avverrà di percorrere con lo sguardo il cimitero delle nostre let-
ture, allineate sugli scaffali; quasi chiedessimo uno stimolo ad esistere. Ma i
libri, come le anime dell’Ade, han bisogno, per parlare, di bere sangue. Allora
esitiamo; non vogliamo sacrificare il nostro scarso sangue; e, qualunque sia
per essere il libro sul quale stasera ci fermeremo, ci difenderemo da lui, pro-
tetti dall’imminenza del sonno; lo impiegheremo come un passaggio, come
un ponte su quelle poche ore. Poi dormiremo. Così passano gli anni, e i gran-
di libri dei morti ci guarderanno sempre più irraggiungibili, con la tristezza di
chi ha detto: «Così, non siete stati capaci di vegliar meco un’ora sola?».

V. Ma al di là di questa lettura e non-lettura dei nostri angoli, del nostro


disordine, del nostro umanesimo avvilito di privilegiati? In qualunque grado
sociale mi arresti, vedo letture come fughe dal reale, procedimenti volti a far
pensare la pagina invece del lettore, meccaniche della fantasia e del ragiona-
mento; o letture come oppio, come aroma spirituale. La condizione sociale
della lettura mi mostra il privato di fronte all’anarchia delle biblioteche e delle
librerie, la direzione culturale in mano allo sfruttamento e all’interesse com-
merciale delle case editrici, la critica dei grandi quotidiani ben ripartita fra la
sua funzione di prezioso fiore all’occhiello della volgarità; la lettura di chi ha
tempo, (lettura che imita ritmi di classi e di età sparite) e quella di chi non ha
tempo (nella luce-ombre dei tram, del subway, strumento nullificante). Misti-
ca per i privilegiati, superstiziosa magia per i diseredati, la lettura riproduce la
fenomenologia delle preghiere d’una religione senza fede, essa è una dei pro-
318 Archivio

dotti quotidiani d’una società che odia profondamente l’autentico; non nasce
solo dalla città moderna, ma, come questa, dall’associazione fra puro cinismo
liberista e il relativismo pseudo-storicistico. I modi della lettura moderna ri-
flettono soprattutto la divisione fra lavoro intellettuale e manuale, fra lavoro
per il guadagno (eseguito, direbbe la Weil, non appena con dolore ma con di-
sgusto) e loisirs; la divisione delle classi, dirò, per chi non avesse inteso. Agire
per modificare questi rapporti vuol dire agire per creare intorno alla parola
scritta aria, silenzio, tempo; creare una abitudine ritmica alla lettura dov’essa
non c’è ancora (e anzitutto le condizioni per una possibile lettura) e sfoltirla,
potarla, dov’essa è divenuta vizio e fretta. Vuol dire preparare una prospettiva
di meno libri e di libri migliori. E guardare con meno umanistica sufficienza
la tecnica di semplificazione, di lettura pragmatistica, che praticano gli Ame-
ricani, e la semplificazione di milioni di esemplari, che praticano i Sovieti-
ci. Si torna sempre allo stesso punto, al mio ridicolo e volenteroso delenda
Carthago: la posizione del critico-scrittore come dirigente cultural-politico,
l’inevitabile responsabilità verso gli alti, una responsabilità di giudizio, taglio,
rischio; non solo limitata all’articolo o al saggio; ma rivolta all’editoria e, più
in generale, a tutti i problemi pubblici della cultura. Bisogna fare aria intorno
ai libri e ai lettori: sì che i libri realmente capaci d’acqua di vita non siano solo
tramite tra se stessi e il lettore, ma tra lettore e lettore, buone novelle, evange-
li, oggetto d’una glossa perpetua. L’avvenire dovrà avere per l’opera di poesia
e di letteratura il medesimo rispetto (non uno superiore) che l’uomo dovreb-
be all’altro uomo; e forse più all’avversario che all’amico. «Non tocchi un
libro, tocchi un uomo», è certo il primo precetto d’una letteratura autentica.
Quali siano le soluzioni dei problemi di teoria della letteratura e della cri-
tica che si pongono quando si accetti un modo di lettura che direi di «sag-
gezza», una lettura assolutamente impegnata, non è qui il caso di parlare.
Troppo a lungo si è creduto da noi che le «saggezze» fossero appena forme
del privilegio perché si possa pensare di trattare, se non con molta cautela, i
problemi conseguenti ai rapporti fra la lettura (e la letteratura) e il sapienzia-
rio dell’uomo nuovo, dell’uomo che si ritrova oltre le negazioni e nell’azione;
e insomma quella teoria della felicità e della infelicità, dell’obbligo e della
verità morale che il movimento rivoluzionario ha vissuto, ma non formulato,
nei suoi ultimi cinquant’anni. Mi basta aver accennato con quanto ho scrit-
to, implicitamente, ad una prospettiva di lavoro critico, che non ha nulla di
nuovo, perché è stata sempre quella della critica maggiore, ma che frequente-
mente viene dimenticata: quella che è non un piccolo merito dell’ultimo libro
di Lukács averci proposto con molta energia: una critica del significato totale
dell’opera, della sua facies complessiva. Quando, sulla scorta di Gramsci, au-
spicavo una critica come servizio che, soprattutto sugli strumenti di più larga
comunicazione al pubblico (quotidiani e settimanali), tendesse, più che al giu-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 319

dizio di valore, a quello di direzione, di senso storico, cadevo nell’errore – che


è anche di Gramsci – di credere possibile tale distinzione; quando è chiaro
ormai che valore e direzione storica o tendenza coincidono nel significato
totale. Naturalmente, si è ancora ben lontani dalla creazione di un linguag-
gio critico che permetta l’applicazione di questi criteri alla attività critica dei
contemporanei. E diventa sempre più importante applicarsi, come appunto
Lukács ha fatto, alla riscoperta del significato unitario dei nostri classici, anti-
chi e moderni. Lavoro che chiede la fine delle «prefazioni» e di queste stesse
formulazioni generali; che, se non noi, così tardi giunti a comprenderne le
strutture possibili, altri dovrà compiere. Nella coincidenza di storia e di pre-
sente, di verità discorsiva e di «conversione» istantanea, di salvezza di classe
e di salvezza individuale (non paiono troppo gravi, queste locuzioni, in un
momento del nostro paese che è confuso, opaco e pericoloso anche per la
ostinata carenza di una direzione cultural-politica delle sinistre) si può dire
che, come lo scrittore deve volere una scrittura totale, nulla sacrificando ad
un calcolo prudente e ingenuo di «artisticità», così il critico deve volere una
lettura, ed un lettore, totali.
Rue d’Anjou1

Per chi venga dalla Concordia verso la Madeleine, rue Royale, diciamolo
pure, è francamente antipatica, così ufficiale e carica di ricordi ovvii, ridotta
ad esser poco più che un transito, un gran corridoio fra la Concorde e i bou-
levards. Intorno al gelido tempio napoleonico (ma le rastremature ingentili-
scono le colonne, le lasciano penetrare dalla nebbia azzurra) qualcosa si salva
alla rapina del traffico: banchi di fioraie – quelle che offrivano a Proust la gar-
denia bianca per le serate al Ritz, lasciatemi supporre –, un luccicante caffè,
uno straordinario sotterraneo con vetrate liberty (W.C. e Cireur). A questo
punto, se dai gradini della Madeleine guarderete verso la classica prospettiva
della Camera dei Deputati, come Bel-Ami alla fine del romanzo omonimo,
vi accorgerete di avere sulla destra, in alto, una scritta Olivetti. E infatti, rue
d’Anjou è appena ad un centinaio di metri sulla destra. Basterà schivare il
traffico che scende dal boulevard Malesherbes, infilare rue de Surène.
La SAMPO Olivetti, bisogna proprio dirlo, è in un quartiere trés digne, an-
che se non può vantare, dalle proprie finestre come la consociata di Londra, gli
alberi dell’elegante Berkeley Square. Basta pensare che rue d’Anjou nasce dal
Faubourg Saint Honoré, centro finanziario dell’ancien régime, dove si possono
vedere alcuni fra i più bei negozi di Parigi, che è a un passo dall’ambasciata d’In-
ghilterra e dal palazzo dell’Eliseo e dalla Pompaudor al presidente Coty, vi son
passati due secoli e mezzo di storia francese –; che, immediatamente ad ovest,
c’è il Ministero degli Interni, l’ambasciata Belga, il teatro della Madeleine: e tan-
ti antichi palazzi settecenteschi e hotels particuliers della bella epoca. Per queste
strade si respira aria di alta moda e alta banca, d’altronde, Lanvin e Worth non
sono lontani; le gallerie d’arte Charpentier e Bernheim sono a due passi; e mi
par di ricordare che qui avessero casa, ai tempi di Balzac, i Rothschild. Anche i
tabaccai hanno un aspetto insolitamente dignitoso. E il rivo d’acqua che lungo i
marciapiedi provvede alla pulizia di queste strade, più che proletari biglietti del
metrò porta con sé resti di sigarette inglesi.
È un angolo relativamente tranquillo, anche se il rombo dei boulevards
sale fino alle finestre ampie degli uffici; un poligono compreso tra rue de la

1
«Notizie Olivetti», 14 febbraio 1954.

L’ospite ingrato ns 6
322 Archivio

Ville-l’Évêque, rue de Saussaies, rue du Faubourg Saint Honoré e la Madalei-


ne. Ed ha un bel nome, questa via che ogni dipendente «Olivetti» in visita a
Parigi non mancherà di percorrere; meno celebre e meno bella dell’omonimo
quai a nord-est dell’isola San Luigi, devoto alla memoria di Voltaire e di Bau-
delaire, questa via dal gran nome di Francia, una volta scavalcato il boulevard
Malesherbes, si conclude in uno dei luoghi più melanconici e incantevoli di
Parigi; e se non avessi dimenticato il numero civico della nostra consociata,
costringendomi così a percorrere, quant’è lunga tutta la via, forse non me ne
sarei mai accorto: è più verde di un giardino romantico, la Cappella Espia-
toria dove sono sepolti Luigi XVI e Maria Antonietta. Chi può vada a rileg-
gersi nelle Mémoires d’Outre Tombe di Chateaubriand, libro 22°, cap. 25 la
descrizione dell’esumazione del 18 Gennaio 1815. Accanto a questo triste
momento del legittimismo sono sepolte altre 1500 vittime della ghigliottina e
i cinquecento svizzeri che si lasciarono uccidere sulle scalinate delle Tuileries
il 10 Agosto del 1792. Dalla tomba dei Capeto al palazzo del presidente della
repubblica la strada è davvero breve, ed è proprio rue d’Anjou.
Herbert Bayer1

Bayer è nato col secolo, in Austria. Soldato, ha vissuto la disfatta degli Im-
peri Centrali. Nel ’19 studiava architettura a Linz, nel ’20 a Darmstadt. Nel
’21 era alla Bauhaus di Weimar con Kandinskij. Sono stati quegli anni a far di
lui quel grafico e tipografo, quel pubblicitario e fotografo che consideriamo
a ragione uno dei massimi del nostro tempo. La seconda Bauhaus, quella di
Dessau, lo ha insegnante di tipografia e fotografia, tra il 1925 e il 1928. Un
decennio a Berlino e poi, dall’anno di Monaco, è l’America.
Bayer è un esempio di probità intellettuale. Qualunque sia l’opera cui
mette mano, una fotografia destinata ad una copertina, un catalogo per una
esposizione, un carattere tipografico – e non importa che l’opera abbia una
destinazione umile o una vita effimera – egli si pone il problema tecnico-
espressivo in modo integrale, ne fa un impegno di mestiere. Bayer è il dia-
gramma di quello che dovrebbe essere il grafico professionista, il pubblicita-
rio-dirigente, e non solo l’Art Director, troppo spesso nominale, delle impre-
se d’oltreoceano. Vedo nella pubblicazione che il Museo d’Arte Moderna di
New York ha dedicato alla Bauhaus, un suo progetto per una mostra mobile
di pubblicità per macchine agricole; è del 1928, ed è tutt’oggi un esempio di
sobria intelligenza e di gusto. E di quegli anni sono gli studi sulla semplifica-
zione dei caratteri tipografici, e l’esecuzione del carattere uni, di cui abbiamo
parlato nello scorso numero di questa pubblicazione, e che è divenuto il ca-
rattere Bauhaus per antonomasia.
Nessuna concessione alla gratuità decorativa, un preciso e austero rigore
mentale e, al tempo stesso, la capacità di non farsi schiavo di schemi preco-
stituiti ma anzi di rinnovarsi in diverse direzioni, assorbendo dai più diversi
spiriti (Mondrian, Klee, Kandinskj) moduli e forme apparentemente contrad-
dittori: questi i caratteri della grafica di Bayer. Ma, teniamo a ripeterlo, quello
che rende soprattutto valida la presenza di questo pioniere delle forme mo-
derne è la sua moralità professionale, la puntigliosa scrupolosità e vastità delle
sue conoscenze tecniche, il suo agile muoversi in mezzo agli strumenti dell’e-
spressione grafica. Dalla sua casa-studio nel Colorado a talune sue pagine

1
«Linea Grafica», 3-4, marzo-aprile 1954, pp. 67-68.

L’ospite ingrato ns 6
324 Archivio

accuratamente meditate fino alle franche e robuste invenzioni per esposizioni


e mostre, Bayer può ben dire di aver tenuto fede alla «modernità» ragionata
dell’esperienza Bauhaus, al gusto morale del «rischio calcolato».
Lettere umane1

Ἀρχὴ μεγίστη τοῦ βίου τὰ γράμματα.


Il principio supremo della vita è la scrittura.
(Attrib. a Eraclito)

Nella Cina di altri tempi – e forse anche in quella di oggi – chi trova una
striscia di carta con caratteri scritti la raccoglie e la brucia sugli altari consa-
crati al saggio Tsang-Chen, quello con il volto di un drago e quattro occhi,
che ha scoperto nelle stelle, nelle tracce degli uccelli e sul dorso delle tarta-
rughe i segni della scrittura, che ha offerto in dono agli uomini. Altri dra-
ghi si trovano nella leggenda greca di Cadmo, padre anche dell’alfabeto ed
eroe della razza di Prometeo. All’origine del fuoco e della parola scritta batte
un’operazione magica; e se l’India decifra la scrittura di Brahma sulle suture
dei crani e il Medioevo cristiano legge omo sul volto umano, solo sessant’an-
ni fa un poeta poteva dire che tutto il cosmo, così come è nato dalla Parola,
tende a diventare scrittura, libro: un livre de fer vêtu. Oggi le parole scritte e
stampate ci sommergono, e solo gli specialisti sembrano prestare attenzione
al segno, alla particolare disposizione di queste parole nello spazio, a quella
separazione che implica, come ogni altra, una decisione, una scelta e uno stile.
Non si tratta – come è successo ogni qualvolta l’esteticismo grafico e il gusto
ornamentale hanno prevalso – di considerare i caratteri della scrittura come
punti di partenza arbitrari per digressioni decorative. Ci sono stati, tuttavia,
esempi famosi di questo, sia nella tessitura gotica, sia nelle scritture cufiche,
indiane, cinesi, ecc. Ma la questione qui è se sia possibile rendere meno incer-
to il gusto della maggioranza nei confronti dei tipi e dei caratteri, abituando e
abituandoci a guardarli e a comprenderli.
«Il segno esprime, mentre la forma si esprime», scrive Focillon. Infatti,
quanto più profonda è la nostra abitudine a considerare che il segno “a” è il
suono “a”, così come un dato gruppo di segni è insieme parola e immagine,
tanto più inavvertitamente la forma di quel segno ci può passare davanti; ma

1
Letras Humanas, in 25 años Hispano Olivetti 1929-1954, Seix Barral, Barcelona 1954; la versio-
ne originale di questo testo è in spagnolo; la traduzione italiana è di Daniele Balicco con la supervi-
sione di Paola Belloni.

L’ospite ingrato ns 6
326 Archivio

se abbiamo davanti ai nostri occhi una scrittura sconosciuta, un segno arabo,


un ideogramma cinese, o un glifo maya, poiché il suo significato è per noi
muto, lo vedremo come forma, come elemento decorativo e stilema.
Se uno stile – per distinguerlo dallo stile – è uno sviluppo, un insieme
coerente di forme unite da una corrispondenza reciproca, la cui armonia è
ricercata, e realizzata o disfatta in mille modi diversi, sarà lecito confrontare
i fatti grafici con le cosiddette opere d’arte. In altre parole, è chiaro che gli
scritti e i caratteri tipografici di oggi (anche senza voler parlare dei problemi
dell’immaginazione) sono un caso di arte industriale e quindi sollevano gli
stessi problemi critici delle forme della ceramica attica o delle riproduzioni a
colori dei nostri giorni. Certo, riconosciamo che non c’è nulla di più perico-
loso di voler collocare una particolare fase della storia delle forme all’interno
di una formula facile da usare e che, appena esaminata con un po’ più di rigo-
re, ci appare illusoria («gotico», «barocco», «romantico»); ma usiamo costan-
temente tali forme; inoltre, si ha l’impressione che buona parte della critica
contemporanea parli ancora di stili e non di stile. E, d’altro canto, gran parte
della pittura moderna partecipa al segno della forma: Klee o Miró, per esem-
pio, hanno scritto i loro quadri nella stessa proporzione in cui li hanno dipinti.
Ma, anche senza voler appesantire la meravigliosa storia dell’alfabeto e del-
le scritture con tali problemi, ci venga consentito di ripetere una verità ovvia,
cioè che le forme grafiche sono un contributo straordinario alla storia di quella
elaborazione sociale della sensibilità che abbiamo preso l’abitudine di chiamare
gusto. È naturale che la traccia, il segno del cuneiforme sia identico al segno
che scava le membra dei mostri nei sigilli di Babilonia, e che i bassorilievi assiri
del British Museum si sviluppino con lo stesso ritmo di una scrittura cuneifor-
me. Le forze e gli impulsi della scrittura gotica sembrano essere bilanciati dalle
stesse leggi dei forti e dei contrafforti che sostengono le cattedrali. Anche senza
pretendere di ricordare i numerosi casi di stravaganti alfabeti barocchi, non sarà
inutile vedere, ad esempio, quale sia il filo che unisce gli ultimi virtuosismi della
grafica gotica, a metà del 1500, alle splendide volute barocche della Italienne-
Bâtarde di Barbedor, che appartiene al 1647, come è stato fatto, e in modo ma-
gnifico, per lo sviluppo delle modanature e degli stampi architettonici.
Tutti conoscono alcune iscrizioni romaniche in cui la mancanza di preme-
ditazione nella divisione dello spazio costringe l’incisore della pietra – come
se fosse un frettoloso schizzo a carboncino, e non una faticosa incisione – a
premere le lettere contro le estremità della pietra, ad annidarle e a inclinare
le linee; Non succede forse la stessa cosa, in modo simile, nella pianta di al-
cune chiese parrocchiali di quegli stessi secoli, in cui a volte sembra di essere
sul punto di «spontaneità», se vogliamo dare a questa parola il senso di un
progetto che nasce nell’atto stesso di essere realizzato? Si percepisce in essa
un modo inconfondibile di stare nello spazio, una «disposizione» dell’anima.
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 327

Bodoni, il grande contemporaneo di Joaquín Ibarra, ha stampato un Al-


fieri? Non lo so, ma di sicuro ha stampato Vincenzo Monti. La fredda e ra-
zionale enfasi del Grande Protettore delle Stamperie, il gusto dei suoi neri
sul ghiaccio della pagina hanno però l’amara solennità e la crudele dolcezza
tipica dello stile dell’Impero: come un Tacito tradotto da André Chénier. In
quegli anni Goethe aveva nel suo studio un enorme calco di Giunone, Cano-
va lusingava Bonaparte vestendolo con gli abiti di Traiano. Infatti «Sire», la
parola che si isola, come uno squillo di tromba della Guardia, in una pagina
di Bodoni, è composta da un carattere «garde-à-vous», nessuna piuma striscia
nella polvere di Versailles. Tra i colonnati di questa madeleine della tipografia
ci sembra di percepire il vago odore di una vecchia caserma, che si conserva
ancora oggi nei cortili degli Invalides, tra i bronzi dei cannoni di Austerlitz.

***

È noto che le iscrizioni romane del periodo classico sono gli archetipi
della nostra scrittura attuale. Mentre i caratteri cuneiformi sembrano essere
stati tracciati da una punta che è stata conficcata in profondità nella creta,
per poi allontanarsi agilmente a destra, lasciando un solco sempre più
sottile, i caratteri del lapidario romano sembrano essere stati tracciati con
una spatola, «scritti» con la stessa facilità della grafia su pergamena o papiro;
e, di conseguenza, presentano un’alternanza modulata di elementi larghi
ed elementi sottili, verticali i primi e orizzontali gli altri; a cui si aggiunge il
gioco dei chiaroscuri, determinato dalla convergenza dei due solchi aperti
in profondità dallo scalpello. Se passiamo da queste Capitali alla cosiddetta
scrittura Quadrata, notiamo la stessa cura per mostrare come varia la pres-
sione della mano; cura che, per aumentare la velocità, diventa minore nella
Rustica, e che nella vecchia scrittura Corsiva scompare completamente.
E proprio dall’incontro tra la libertà plebea del Corsivo, con i suoi movi-
menti irregolari, e il Rustico pagano, nasce l’Onciale cristiano e proliferano
le cosiddette «scritture nazionali» (visigote, merovingie, lombarde, beneven-
tane, ecc.). Ed è la Semi Onciale, con la sua variante irlandese-anglosassone,
che a San Gallo e a Tours ha creato le Minuscole Caroline, prototipo dei
caratteri moderni, e che con i suoi magnifici esempi di scrittura, trionfanti per
tre secoli, ha perfettamente bilanciato le lettere che emergono sopra e sotto
la linea di scrittura, armonizzandole attraverso la continuità dei collegamenti.
Poi, nell’epoca che segna il passaggio dal mondo medievale al nostro, mentre
il Gotico Bastardo e la Trama danno origine al tedesco Fraktur, le lettere mi-
nuscole umanistiche e la scrittura cancelleresca di Grifo e Manuzio emergono
dai duemila caratteri degli incunaboli, per arrivare quasi senza alterazione
fino a noi.
328 Archivio

***

Oggi sembra che il carattere tipografico ci costringa alle sue forme rigide
e agisca sulla scrittura a mano, ispirandola e regolandola. Ma all’inizio della
tipografia tutta la ricchezza della «mano libera» si è svuotata sull’invenzione
dei caratteri: quasi duemila solo negli incunaboli. La tipografia spagnola è
entrata coraggiosamente in questa selva di segni: meno di quindici anni dopo
la comparsa dei primi caratteri ebraici stampati, il rabbino Eliezer stampava
testi ebraici in Aragona; non è forse un segno dell’universalità, a cui gli spa-
gnoli dei primi decenni del secolo si sentivano chiamati, l’immensa impresa
del cardinale Cisneros, con la sua Bibbia Poliglotta, per la quale i Brocar di
Alcalá disegnavano ex professo i caratteri greci, ebraici, caldei e siriani? Le
ultime pagine furono consegnate solennemente nel 1517, lo stesso anno che
avrebbe assistito, in nome della Bibbia, alla ribellione luterana a Wittenberg;
appena vent’anni dopo, il viceré don Antonio de Mendoza affidò a Esteban
Martín e Juan Paoli la prima tipografia del continente americano, a Città del
Messico. Ma il primo cinquantennio del XVI secolo è una fioritura sfrenata
di segni tipografici; è l’invenzione ininterrotta di segni musicali per la stampa,
nelle tipografie di Arnaldo de Brocar, Juan Rosenbach, Jaime Cortey, Damián
Bages, che culminerà nella monumentale edizione madrilena delle Messe e dei
Mottetti di Victoria, alla fine del secolo. Esuberanza inventiva, fiducia nel se-
gno che avrebbe portato, un secolo dopo, lungo le rive del Río de la Plata, alla
prodigiosa impresa dei gesuiti, che crearono, dove esisteva solo la foresta ver-
gine, non solo una stamperia, ma anche nuovi caratteri per una nuova lingua,
e tradussero in guaraní uno dei grandi monumenti del misticismo castigliano,
le opere di Padre Nieremberg.
È curioso notare che, proprio come nelle cosiddette arti maggiori, le nuove
tendenze del gusto, in materia di caratteri, hanno quasi sempre il loro punto di
partenza in un movimento di «ritorno» al passato e all’antico, ma si distinguono
e si contrappongono l’una all’altra per l’interpretazione di quel passato, per lo
spirito con cui si accostano ad esso. Le Bibbie luterane a stampa esporranno
con orgoglio i loro caratteri gotici «nazionali», in contrapposizione alle odiate
cancelleresche romane, mentre gli umanisti faranno disegnare agli stessi artisti
che interpretano Vitruvio le loro lettere maiuscole; dal canto suo, la tipografia
romantica farà la corte al barocco e William Morris, in lotta con gli imborghesiti
e meschini caratteri della società utilitaristica, guarderà al Rinascimento con il
languore di un preraffaellita; ai nostri giorni, mentre il Bauhaus creava nuovi
caratteri che possedevano allo stesso tempo qualcosa della grafia preromana e
romanica, per l’assenza di «grazie» e chiaroscuri – espressione polemica «avan-
guardista» e razionalista –, la grafica di Hitler accampò nel cuore dell’Europa la
foresta di ferro battuto dei suoi caratteri neogotici…
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 329

Insomma, ci sono, nel gusto per i caratteri, dei «ritorni» positivi e dei
«ritorni» negativi. Tutti sanno, ad esempio, che qualche anno fa nel nostro
Paese un rinnovamento del carattere ironico-patetico ottocentesco, roman-
tico, rinascimentale o vittoriano ha avuto successo tra alcuni settori del no-
stro pubblico. È una nostalgia accompagnata da altri sentimenti che spesso
si manifestano, come l’amarezza, l’ironia e anche un po’ di cinismo. E non
è solo questo: c’è anche una tendenza, frequente oggi, a dissociare la forma
dal contenuto, il mezzo dalla sua funzione; una dissociazione che porta facil-
mente all’assurdo e alla mancanza di autenticità. Ho in mente alcuni caratteri
giganteschi, dalle linee spesse, ripetutamente moltiplicati e materializzati in
legno, metallo, tubi fluorescenti o lampadine colorate; e anche, a volte, in mo-
vimenti agitati, frammentati e riuniti dal cinema. Pare di trovarsi imprigionati
dalla nausea della materia camuffata e dalla pesantezza; dalla repellente hybris
nascosta nei suoni degli altoparlanti e delle orchestre cinematografiche. E
sappiamo anche che da quasi cento anni le insegne dei negozi sono per la po-
esia moderna un simbolo facile e fattibile dell’assurdo. Per questo motivo, chi
scrive ha avuto una particolare simpatia per il carattere meccanografico più
comune, quel Pica così burocratico e modesto, con i suoi tratti orizzontali ai
piedi di «i», «1», «d», «r» e di altre lettere, volti ad evitare gli inconvenienti di
un carattere troppo sottile e affilato e allo stesso tempo capaci di rendere più
omogenea la linea di scrittura con tali collegamenti; un carattere tipografico
tipico degli uffici, della carta certificata, di un: In risposta alla vostra cortese.
Un tipo che segnerà una data e che rimarrà legato alla vita d’ufficio della pri-
ma metà del secolo, così come la calligrafia inglese è legata agli uffici del XIX
secolo e ai personaggi di Dickens.
Oggi i caratteri dattilografici hanno offerto a tutti la possibilità di speri-
mentare individualmente la stessa intensa emozione dei tipografi dei primi
tempi della stampa: l’emozione di vedere davanti ai loro occhi come l’im-
pulso delle dita si trasforma in caratteri ordinati, come il pensiero si accorda
su segni che, liberi dall’arbitrarietà della penna, diventano sigle universali. E
così forse è segno benaugurante ricordare, nel venticinquesimo anniversario
dell’Hispano Olivetti, che nello stesso anno della scoperta dell’America fu
stampata a Salamanca un’opera di Nebrija, che per la prima volta porta l’au-
torizzazione del Re e dei Signori del Concilio, e porta lo stesso nome della
macchina da scrivere che oggi compone queste righe: Lexikon.

***

Molti secoli prima di Rimbaud, il poeta latino Ausonio scrisse ventisette


esametri, ognuno dei quali interpreta una lettera dell’alfabeto greco e latino e
termina con la stessa lettera; e in una predica del 17 aprile 1424, San Bernar-
330 Archivio

dino da Siena vide nella lettera «I» il «Figlioletto di Dio», nella «S», «la testa
reclinata del Signore»; mentre la «U» era «un grido di dolore mentale» e la
«E» urlava «Ehi, ehi, ehi! per tutti i nostri peccati». Il nostro secolo di potenti
avanzamenti non deve sorridere a queste interpretazioni magiche o mistiche.
Forse non è vero che l’enorme massa di caratteri stampati e scritti che circon-
da l’uomo moderno può in realtà degradare l’importanza del segno.
Forse non è un’adorazione magica per la parola scritta, come quando ba-
stava un errore di copiatura del Talmud per cancellare tutto il lavoro già fatto,
o quando il vescovo, nel consacrare un nuovo tempio, disegnava con il pa-
storale, su due superfici di cenere, tutte le lettere dell’alfabeto greco e latino;
negli scritti, l’uomo di oggi deve sentire una pietà storica per tutto ciò che i
secoli remoti ci hanno trasmesso nei segni degli alfabeti, e anche un rispetto
per tali simboli, che sono eminentemente razionali e umani. I caratteri scritti
del quotidiano, della busta, dell’imballaggio, e anche quelli che saltano fuori
dal «segmento mobile» della nostra macchina da scrivere davanti ai nostri
occhi non potranno mai esserci indifferenti.
E non ci sono ancora oggi tanti uomini, non così lontani da noi come pri-
ma, e il cui destino è legato al nostro, che hanno ragione di venerare anche i
segni della scrittura, e di considerarli pieni di misterioso potere, come i denti
del drago sparpagliati come semi da Cadmo, che hanno generato una stirpe di
combattenti? Ci basta pensare che i cinesi di venti lingue diverse, che al par-
larsi mai si capirebbero, mantengono ancora una fede comune negli antichi
e divini segni di Tsang-Chen; che ci sono popoli, di cui non si sa ancora se
riusciranno a passare rapidamente, o meno, dalla scrittura ideografica a quella
alfabetica, e a quale di queste ultime; e, infine, ricordiamo che ci sono genera-
zioni di milioni e milioni di uomini, per i quali il poliglottismo significa anche
pluralità di alfabeti. Certo,

«Ἀρχὴ μεγίστη τοῦ βίου τὰ γράμματα»2.

2
«Il principio supremo della vita è la scrittura» [n.d.c.].
Ambrogio Lorenzetti il pittore del
Buongoverno1

Dopo Rousseau il doganiere, dopo la pittura pompeiana e Carpaccio, il


nostro calendario per il 1954 è dedicato a un artista del ’300 senese, Ambrogio
Lorenzetti. Tra le numerose proposte che ci sono venute da molte ed auto-
revoli parti (non dimentichiamo che il calendario Olivetti è, possiamo dire,
un avvenimento culturale che, in Italia e all’estero, interessa come una vera e
propria pubblicazione d’arte ed è aspettato e valutato da un pubblico molto
vasto e non di rado molto qualificato), ci si è fermati su di uno dei maggiori
rappresentanti dell’arte d’una città universalmente conosciuta e in particolare
su affreschi che i visitatori del Palazzo Pubblico di Siena vedono certamente,
ma che forse rimangono meno nella loro memoria di quanto non avvenga con
la Maestà e col Guidoriccio da Fogliano di Simone Martini.
Negli ultimi trent’anni del ’200, la repubblica di Siena si avvia a quella
lenta decadenza della sua potenza politica che sarebbe durata tanto a lungo;
ma la ricchezza dei suoi banchieri (i Buonsignori, i Tolomei, i Salimbeni) dà
ancora notevole impulso alla vita economica della città e contribuisce non
poco allo sviluppo artistico. Sono gli anni in cui Giotto concludeva, tra Pa-
dova e Firenze, la sua rivoluzione artistica; e già operava, a Siena, chi avrebbe
potentemente impresso i caratteri del proprio stile sull’arte di tutto il secolo.
Nel 1315, infatti il grande Simone Martini affresca la Maestà del Palazzo Pub-
blico, inizio (si può dire) di tutta la pittura gotica europea.
Arabesco, colore da miniatura orientale, senso fantastico della linea, spiri-
tualità cavalleresca; queste sono le correnti formule critiche sugli artisti senesi
della prima metà del trecento. E fra questi si pongono i nomi dei fratelli Lo-
renzetti Pietro ed Ambrogio.
Ambrogio dev’essere nato proprio al principio del secolo, forse una quin-
dicina d’anni dopo suo fratello Pietro. I documenti ci danno notizia del suo
lavoro per un periodo di una ventina d’anni; e solo di poche opere si ha la
certezza che siano sue. Molte altre, con maggiore o minore sicurezza, gli ven-
gono attribuite. Quanto basta, tuttavia, per illuminare un artista eccezionale.
La sua prima opera nota è una Madonna nella chiesa di Sant’Angelo a
Vico l’Abate. Un documento del 1324 prova che Ambrogio era a Siena e vi

1
F. Fortini, Ambrogio Lorenzetti, Olivetti & C., Ivrea 1954.

L’ospite ingrato ns 6
332 Archivio

vendeva a tale F. Bandini la metà di un suo podere; ma negli anni successivi


Ambrogio dovette trasferirsi a Firenze, dove, nel 1332, firmava e datava un
polittico per la chiesa di San Procolo, del quale restano agli Uffizi quattro
storie di San Nicola di Bari, e, al Museo Bandini, due mezze figure. Fra il ’38
e il ’39 affrescava la Sala dei Nove a Siena, nel ’40 dipingeva un Madonna nella
Loggia del Palazzo Pubblico, nel ’42 una Presentazione di Gesù al tempio che
è agli Uffizi, nel ’44 la splendida Annunciazione della Pinacoteca di Siena e
una delle cosiddette «tavolette di Biccherna». Un’altra decina di opere sono
quasi certamente sue; e, tra queste, gli affreschi nella chiesa di S. Francesco a
Siena. Ambrogio morì probabilmente nella Grande Peste del 1348, che uccise
anche suo fratello Pietro e quasi due terzi della popolazione senese, quella
tremenda peste descritta dal Boccaccio, che interruppe bruscamente il corso
della pittura fiorentina e senese ed accelerò la decadenza inarrestabile della
città dei Lorenzetti.
Le opere più affascinanti di Ambrogio, per lo splendore del colore e anche
per lo stato di conservazione, sono senza dubbio le pitture su tavola, quelle
ad esempio che il visitatore può ammirare alla Pinacoteca di Siena, come la
Vergine in gloria, circondata dai rossi squillanti dei santi inginocchiati o la
Santa Dorotea, dalla veste color malva, lo squisito nastro in mezzo ai capelli
biondi e l’emblematico mazzolino di fiori nella mano, molle figura di calma
melanconia, una delle più straordinarie creazioni del nostro ’300. Ma il no-
stro calendario ha preferito portarci a contatto di un’opera ad affresco che,
notissima nel suo insieme (chiunque visiti il Palazzo Pubblico, passando dalla
porta che immette nella Sala del Mappamondo a quella dei Nove, si trova di
fronte agli affreschi di Ambrogio) lo è molto meno nei suoi particolari.
Questi affreschi furono eseguiti, come dimostrano le carte dei pagamenti;
fra l’aprile del 1338 e il maggio del 1339; e il pittore, conscio dell’importanza
della decorazione di una sala nella quale si adunava la più alta magistratu-
ra della repubblica (quel consiglio dei Nove che, oligarchia guelfa, avrebbe
dominato la vita cittadina fino al 1355) si propone di popolare le tre pareti
di allegorie ammonitrici e didascalie. Se è vero quanto, due secoli dopo, ci
racconta il Vasari, e cioè che Ambrogio era uomo di cultura e cittadino inte-
ressato alla vita pubblica, «carattere piuttosto di gentiluomo e di filosofo che
di artefice», è probabile che abbia tratto dalla Politica di Aristotele i motivi
allegorici degli affreschi.
Sulla parete di fondo egli raffigurò, appunto, una Allegoria del Buongover-
no, nella quale si vedono i magistrati repubblicani tenersi stretti ad una mede-
sima corda sotto lo sguardo delle virtù civili della Pace (la figura di quest’ul-
tima, riprodotta in questa pagina, ha fatto nominare la sala anche «Sala della
pace»), tutelati dagli armati che circondano la figura della Fortezza. Su due
pareti maggiori, gli affreschi raffigurano, rispettivamente, gli effetti del buono
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 333

e del cattivo governo nelle città e nelle campagne. Gravemente guasto è quello
degli Effetti del Cattivo Governo, e quasi indecifrabile; mentre quello più fa-
moso degli Effetti del Buongoverno non è quasi mai osservato nei particolari,
benché evidentemente il pittore intendesse proprio proporre all’ attenzione dei
magistrati una serie minuta di episodi, una particolareggiata lettura. A sinistra
è Siena, divenuta una città fantastica di torri e di altane, con le strade affollate
da cavalieri e borghesi, di gruppi di fanciulle danzanti e di file di muletti che
passano davanti alla gabella, mentre le donne guardano dalle finestre e gli ar-
tigiani lavorano nelle botteghe. Fuori delle mura, la campagna delle crete che
si stendono a Sud di Siena, fino all’Amiata e al mare, con le desolate gibbosità
delle colline, con rare case coloniche, episodi di caccia e di lavori agricoli; uno
straordinario paesaggio che ricorda l’arte orientale, coperto da un cielo unifor-
me, dove, a suggerire lo spazio, vola una figura allegorica reggendo un patibolo
ammonitore ed una scritta. Ma tutti gli affreschi sono accompagnati da sagge
strofe rimate che invitano alla giustizia e alla devozione civica.
Da questi affreschi il nostro calendario ha tratto dieci particolari: perché
come la composizione di essi è disorganica e quasi inafferrabile, così nei par-
ticolari splende la genialità di Ambrogio, la sua capacità di trasferire anche
nelle forme solenni e gravi dell’affresco il tepore e la luce dei suoi colori.
Vedi come gli siano congeniali le forme ellittiche, le curve molli, le stoffe
e le vesti intessute, che gli consentono di unire il senso dell’arazzo con quello
del volume morbido e placato. Vedi come la sua franca pittura respira moder-
namente quando si muove attorno a quel suo ideale di bellezza femminile, più
volte ripetuto, e che ha il volto della Pace.
Oltre ai particolari di questi affreschi il calendario riproduce due paesaggi,
forse parti di un unico quadro, interessanti e suggestivi per la strana fantasia
che li abita. Una città turrita, vicina al mare; ed un castello, sulle rive di un
mare grigio, con rade querce ed una barca, dove si è voluto vedere quel porto
di Talamone che, come già scrisse Dante, fu un fallito tentativo di espansione
senese verso il commercio marittimo. La critica li ha attributi, talvolta, al fra-
tello Pietro, ma oggi è concorde nel darli ad Ambrogio. Così anche quest’an-
no, le tavole del nostro calendario recheranno in tutto il mondo, con la pittu-
ra senese (come l’anno scorso con quella veneziana di Carpaccio), la presenza
di uno dei momenti maggiori della storia d’Europa; quello dei comuni e delle
repubbliche italiane, fra il XIV e il XV secolo.
Calendari ’551

Il museo immaginario, questa locuzione di Malraux, abita ormai stabil-


mente fra di noi. Le sue origini sono lontane: fa una curiosa impressione leg-
gere, nei Colloqui, come Goethe fosse lieto di mostrare ai suoi Eckermann e
Müller non solo la sua collezione di medaglie ma anche quella di incisioni e
stampe e come costoro argomentassero sul Trionfo della Morte di Pisa o su
Raffaello o Peter de Hooch grazie a tristi, dubbie, imprecise riproduzioni.
Oggi, tre quarti della cultura figurativa del pubblico è fatta sulle riproduzio-
ni. Il museo è un luogo scomodo; le cattedrali sono fredde e buie, il guardiano
(picc. mancia) è introvabile, Lascaux e Ajanta sono luoghi lontani… Il micro-
solco o il concerto immaginario; «mi mandi a casa le novità», ovvero la bi-
blioteca immaginaria. Non siamo ancora alla haute fidélité della riproduzione
a colori, ma ci stiamo avvicinando. Allora, come ha scritto Argan, il problema
dell’autentico e del non autentico si porrà in modo drammatico. Intanto, la
cartolina, il biglietto d’auguri con la riproduzione d’arte, diffondono la co-
noscenza dei tesori figurativi al punto che avviene di sentir discorrere gente
altrimenti di modesta cultura sull’arte del periodo magdaleniano o sulla scul-
tura dei Maya e di scoprire che serii signori dediti alla vendita di macchine
per l’irrigazione copiano con diligenza riproduzioni di Kee o di Miró. È un
bene? Mi permetto di dubitarne. La quantità dissipa. Siamo, da noi, in una
fase iniziale e tumultuosa; più tardi verrà l’ordine.
Intanto, da noi, la qualità dei calendari illustrati da opere d’arte migliora,
si può dire, ogni anno. Citiamo due esempi: il calendario Olivetti, fatto da
Pintori, e quello Ricordi. I calendari Olivetti si tengono, giustamente, ad una
formula precisa: un ciclo o una civiltà pittorica omogenea. Quest’anno si è
scesi nel buio delle tombe di Tarquinia e di Chiusi, dove lentamente le pitture
degli etruschi impallidiscono e si disgregano. I gruppi elettrogeni sono andati
a svegliare gli enormi, antichissimi rospi che riposano fra i demoni e i danza-
tori dipinti di uno dei popoli più strani e saggi dell’antichità. Ne hanno tratto
dodici quadricromie che sarà sufficiente confrontare con altre, di recenti e
celebri pubblicazioni, per misurare fedeltà e qualità.

1
«L’Ufficio Moderno», 1, 1956.

L’ospite ingrato ns 6
336 Archivio

La riproduzione di disegni, naturalmente, in confronto a quella di pitture


o affreschi ha, si potrebbe dire, le spalle coperte. È, in certo senso, una ripro-
duzione singolarmente più autorizzata dell’altra. Qui, Raffaello è scelto nella
sua eccezionale capacità di eclettismo, la sublime indifferenza per il plagio,
il tratto haché di Michelangelo accanto alla pastosa sanguigna di Andrea del
Sarto, le membra attorte e le orbite scopadèe che saranno del Pontormo e di
tutta la scuola di disegno del Bandinelli, l’esercizio di sfumato leonardesco, la
gracile ossatura del Perugino – e tutto per risolversi nella calibrata, cilindrica
e soffice volùta che è sua, di Raffaello, e che sembra persino sottintesa nella
dieresi del suo nome: Raphaël.
L’origine della formula di questi Calendari non è recente, basti ricordare
l’«Almanacco Dorico» per l’Anno Bisestile 1824, contenente un catalogo di
pitture e sculture e architetture della città di Ancona e l’«Almanacco Artistico
Italiano» edito da Alfieri e Lacroix, da cinquant’anni, che sono evidentemen-
te i precursori degli attuali calendari illustrati da stampe artistiche.
Il significato di un nome1

«Più d’uno si sarà chiesto che cosa significhi il nome Tetractys col quale
è stata battezzata la nuova calcolatrice scrivente. Cercheremo di spiegarlo. Il
nome d’una macchina o di un prodotto deve avere un valore evocativo, deve
poter suggerire un’associazione, un’immagine: Lexicon è il nome dei diziona-
ri, dove si raccolgono tutte le parole che la macchina per scrivere, in potenza,
contiene; Synthesis è il nome greco di quell’atto della mente che riunisce gli
elementi dell’analisi ed è quindi adatto a quei sussidi del lavoro burocratico
che schedano e classificano; Refert (cioè: riferisce) è la parola di sapore aral-
dico per uno strumento che ripete e riporta suoni e parole.
Ebbene, la Tetractys è una gloriosa parola della cultura greca. Nel quinto
secolo avanti Cristo, quando fioriva la civiltà delle colonie greche nell’Italia
Meridionale e in Sicilia (la cosiddetta magna Grecia) un genio religioso e ma-
tematico nato nell’isola di Samo, Pitagora, fondò a Crotone, in Calabria, una
celebre scuola a carattere iniziatico. Vi si insegnavano non solo le verità mate-
matiche e geometriche del Maestro – famoso ancor oggi per il noto teorema,
per la «tavola» omonima e per la scoperta dei numeri irrazionali – ma anche la
complessa magia dei numeri. Secondo tale interpretazione magico-filosofica
il numero è l’essenza stessa della realtà, la realtà è non solo misurabile ma essa
stessa è numero. Le relazioni fra i numeri sono, secondo i pitagorici, la chiave
medesima del mondo, la sua struttura. Questa concezione della realtà ha avu-
to una grandissima importanza nella storia del pensiero umano; basti pensare
che Platone, al quale dobbiamo tante notizie sul pensiero dei pitagorici, ne ha
trasmesso gli elementi alla cultura occidentale per oltre duemila anni.
Ora alla base dei numerosi e complicati significati simbolici che i pitago-
rici attribuirono ai numeri ed ai loro rapporti, stanno i primi quattro numeri
naturali, cioè l’uno, il due, il tre e il quattro. La loro somma – essi videro – ci
dà il numero dieci e con i primi dieci numeri noi misuriamo e contiamo tutto.
Non solo: ma dai primi quattro numeri si possono ottenere per somma o
moltiplicazione tutti i primi dieci.

1
«Notizie Olivetti», 35, marzo 1956, p. 4.

L’ospite ingrato ns 6
338 Archivio

2 = 1 + 1; 3 = 2 + 1; 4 = 2 x 2; 5 = 2 + 3; 6 = 2 x 3; 7 = 3 + 4; 8 = 2 x 4; 9 = 3
x 3; 10 = 1 + 2 + 3 + 4.

Si aggiunga che Pitagora faceva corrispondere al numero 1 il punto, al nu-


mero 2 la retta, al numero 3 il piano, al numero 4 i solidi: tutta la realtà fisica
appariva dunque contenuta nei primi quattro numeri. Pitagora aveva poi cer-
cato di rappresentare geometricamente i numeri e s’era accorto che facendo
corrispondere il numero dieci ad un triangolo equilatero (il più semplice dei
solidi, non dimentichiamolo è il tetraedro, che ha quattro punti come vertici
e quattro triangoli equilateri come facce) otteneva una figura che riassumeva
tutte le virtù dei primi quattro numeri:
1
23
456
7890

Il numero quaternario formato dalla somma dei primi quattro numeri ed


equivalente a dieci fu detto dunque da Pitagora Tetractys (dal greco tètra che
significa quattro). La tetràtti o tetràttide fu considerata sacra e venerabile;
un matematico e filosofo di Taranto, Filolào, vissuto una cinquantina d’anni
dopo la età nella quale si presume sia vissuto Pitagora, chiama la Tetractys
«grande, onnipotente, onniproducente»; i pitagorici giuravano su di essa e
chi osava violare il giuramento era come se avesse violato e tradito l’intero
universo. Oggi la numerologia pitagorica è entrata a far parte della storia della
scienza e del pensiero; ma proprio per questo non ci è parso sconveniente che
una calcolatrice di eccezionali qualità come la Tetractys, che pur sempre si
fonda sul calcolo decimale, recasse come nome il simbolo stesso della mate-
matica greco-italica, un nome che allude sia alla componente umanistica della
scienza e della tecnica italiana, sia alle quattro operazioni che la macchina
compie, sia finalmente, alla potenza e perfezione di questo nuovo prodotto
delle nostre officine».
Le macchinazioni della macchina1

La parola «macchina» dev’essere sempre piaciuta molto a Cocteau, se la


troviamo nel titolo di due sue commedie: La Machine infernale e La Ma-
chine à écrire. Una eredità del surrealismo, che era stato affascinato dagli au-
tomatismi – fin dalla celebre frase di Lautréamont sull’incontro fortuito d’un
ombrello e di una macchina per cucire – e della prima età delle macchine,
il Settecento di un Lamettrie (L’uomo-macchina) e delle «macchinazioni»,
gli intrighi psicologici che funzionano da trappola, come quello celebre del-
le Amicizie pericolose di Choderlos de Laclos. E di una «macchinazione» si
tratta appunto nella commedia messa in scena per la prima volta il 29 aprile
1941, a Parigi, al teatro Hébertot, con la partecipazione di Jean Marais e di
Gabrielle Dorzjat, e recentemente ripreso a Bruxelles, con la partecipazione
della nostra Lexikon; una macchinazione fabbricata a colpi di lettere anoni-
me che portano lo sgomento, la disperazione e il suicidio in una città della
provincia francese (e il medesimo tema, sullo sfondo sordido d’una provin-
cia nevrastenica, oziosa e ipocrita, ci fu dato di vedere nel film Il Corvo, di
Clouzot, con Fernand Gravey). Le lettere anonime sono scritte a macchina
ed un ticchettio dattilografico traversa, si può dire, i tre atti; ma si comprende
male come la nostra lucida Lexikon abbia potuto prestarsi a recitare la parte
dello strumento colpevole, quando la provincia francese che si vuol rappre-
sentare non può esser fornita che di vetuste macchine per scrivere monumen-
tali e polverose. Lo penserà, almeno, lo spettatore fino alla metà del terzo
atto, quando una impiegata statale, una povera folle, crederà confessarsi au-
trice delle lettere anonime; ma quando si saprà che la vera autrice è Solange,
la vedova castellana di Malemort, femme d’amour decisa a vendicarsi delle
meschinità dei piccoli borghesi e insieme bisognosa di consolare la propria
matura vedovanza con il giovane Maxime, mauvais garçon, mitomane, ex-
disertore e simulatore, come non pensare che invece di una Lexikon la gentile
signora non si sia servita di una Lettera 22?
Ma la macchina per scrivere di questa commedia – che fila come una com-
media poliziesca, salvo concludersi con un colpo di rivoltella ed il suicidio

1
«Notizie Olivetti», 36, aprile 1956.

L’ospite ingrato ns 6
340 Archivio

dell’appassionata dattilografa calunniatrice – è in verità una «macchina infer-


nale», uno degli strumenti del destino, un passatempo degli Dèi (e di Coc-
teau): «…immagino il colpevole che batte, che batte, che tira, che – manovra
la sua mitragliatrice – (è noto che typewriter sta anche a significare, e fin dalla
Prima Guerra Mondiale, l’arma micidiale)… mi par di sentire il ding della fine
riga. Ding! Andrà male. Ding! Mi prenderanno! Ding. Mi cercano! Ding…».
In verità, Cocteau odia la macchina per scrivere: ecco come Solange la de-
scrive nella grande confessione finale (Atto III, scena VII): «Ho fatto la mia
tela. L’odio mi usciva dal cuore come un filo di seta… sono stata moglie di
un alcoolizzato che mi bastonava, che è morto demente… sola, a Malemort,
in mezzo ad una società ignobile che mi invidiava e mi evitava… odiavo tut-
ta la città. Tutte quelle gioie false, quelle false felicità, quei falsi lussi, tutta
quella borghesia ipocrita, egoista, avara, inattaccabile. Ho voluto smuovere
quel fango, attaccare, smascherare. Che vertigine! Senza rendermene conto
ho scelto l’arma più sporca, più abbietta: la macchina per scrivere…». E, più
oltre, a Fred che le propone di gettare nel lago quella «orrenda macchina»,
Solange replica: «Anche in capo al mondo trasalirei ogni volta che sentissi
qualcuno scrivere a macchina».
Non è – siamo sinceri – una delle migliori commedie di Cocteau; come
tutte le commedie deboli, vien meno verso la fine, quando compare l’inutilità
della bravura e dell’eleganza; dirò di più, c’è qualcosa di moralmente discu-
tibile in quei facili attacchi alla borghesia retriva di Francia. Riesce difficile
credere che quella sera di aprile, al teatro Hébertot, non ci siano stati ad ap-
plaudire, in platea, alcuni ufficiali delle truppe d’occupazione naziste, amanti
di letteratura e di teatro francese; e che gli spettatori delle due nazionalità non
se ne uscissero, alla fine, confortati che la commedia si fosse conclusa con
l’autopunizione di colei che quella società aveva voluto combattere.
L’unico sottinteso che possa salvare questa commedia glielo attribuiamo,
molto probabilmente, noi, facendo della macchina per scrivere e della lette-
ra anonima una allegoria dell’attività letteraria e poetica, che realmente in-
via «lettere anonime», rivelazioni sconcertanti e sconvolgenti, agli uomini,
e messaggi insostenibili di denuncia e di verità. Con questa interpretazione,
anche la macchina per scrivere si riabilita; e invece di presentarsi come un’ar-
ma abbietta, finisce col somigliare all’arma, implacabile sì ma lucida, che ha
il nome medesimo d’un antico strumento di scrittura e di una qualità della
scrittura stessa e dell’animo: lo stile.
Mosaico di Ravenna1

La scoperta dell’arte bizantina è recente, non ha forse cinquant’anni; e


sarebbe interessante seguire le fila dei suoi influssi nelle nostre generazioni.
E quella sua parte – i mosaici di Ravenna – che più l’ha resa familiare all’Oc-
cidente, è essa stessa, come la nostra arte contemporanea, frutto d’una cultu-
ra composita e contradditoria, dove confluiscono forme tardo-alessandrine,
decorazioni sassanidi, pitture romane del terzo secolo e del quarto, estetiche
degli ultimi neoplatonici e della Gnosi, meditazioni della Patristica…
La terza dimensione, sparita dall’insieme delle scene, sopravvive per ogni
singolo oggetto o personaggio raffigurato. È come se si volesse affermare
che l’individualità è valida solo nell’ambito del particolare, mentre tra l’uno
e l’altro oggetto si insinua un’aura assoluta, il Respiro Santo. Alla terza di-
mensione, segno della solidarietà fra esseri umani e natura, si sostituisce una
dimensione x, ultraterrena. Di qui il carattere di apparizione e il relativo ano-
nimato di queste figure. Esse appaiono, vale a dire emergono da un contesto
arbitrario, sempre all’orlo di una esistenza autonoma e sempre sul punto di
perderla e di venir riassorbite dal silenzio dell’oro.
Le differenze – di fisionomia o di vesti, di espressione o di gerarchia – val-
gono solo entro un ambito ristretto; come se lo spettatore guardasse da una
distanza grandissima, dove le dissimiglianze fra gli esseri umani divengono
minime, e insieme le percepisse nitidamente. Così ha sentito Dante, proprio
in quella parte del poema che sembra nata da una frequentazione quotidiana
con le pareti ravennati: «che sua effigie – non discendea a me per mezzo mi-
sta» (Par. XXX, 77). All’assenza di un «punto di fuga» nell’oro corrisponde
l’assenza di uno stabile punto di vista del riguardante; si è, simultaneamente,
vicinissimi e remoti.
Di rado si è avuta una così prodigiosa tensione fra segno e significato come
nei mosaici ravennati. È un vero e proprio «effetto di straniamento», ottenuto
con un violento sovrapporsi di oggetto e di idea. L’unità espressiva elementa-
re è la pietra, il parallelepipedo di pasta vitrea o di marmo, che ha qui una sua
esistenza separata, esibita e distinta. A differenza del mosaico greco-romano

1
Mosaico di Ravenna, Olivetti, Ivrea 1957.

L’ospite ingrato ns 6
342 Archivio

(e anche di quelli del palazzo imperiale di Costantinopoli, che è del V secolo)


non si ha qui una imitazione della pittura.
Ad ogni stadio della loro agglomerazione le «materie prime» del mosaico
serbano il loro carattere di oggetto, la loro distanza dal significato. Alberi,
fiori, vesti, corone, armi, pareti, pupille sono sempre, e in modo divergente e
simultaneo, allusione ad una essenza e ad una esistenza, sono apparenze del
reale e sostanza dell’irreale, come i vivi topazi danteschi. Il paradosso è ot-
tenuto congiungendo due elementi contraddittori, la rigidità della pietra con
la labilità della luce colorata che l’attraversa e scintilla dalle superfici curve.
Contraddizione che nutre il fascino delle pietre preziose, chiamato orientale
solo perché la cultura asiatica lo ha teorizzato e ne ha fatto un simbolo, de-
stinato a risorgere continuamente nell’Occidente nostro insieme alla mistica
neoplatonica della luce, lungo i lapidarii medievali fino ai trecenteschi e oltre,
fino alla ispirazione orientale delle pierreries di un Mallarmé, nell’età che ri-
scoprì Bisanzio.
Il mosaico ripete in ogni sua parte la natura della propria «materia prima».
Acque, stoffe, capelli, carni, sono a un tempo un conglomerato di pietre e
un’unica pietra preziosa. Anche le serie di volti o di nimbi sono un esatto
equivalente della ripetizione che si ha negli elementi decorativi di un pallio
o di un fregio. La testa di Teodora è una borchia, una coppa decorata, dove
l’effigie umana è tornata ad essere mostro sacro, come una maschera di primi-
tivi. E finalmente un’intera figura umana o celeste è una tessera di più ampio
mosaico; i complessi ravennati non sono, al limite, se non l’espressione visiva
d’una verità di fede: che tutte le cose create, le visibili come le invisibili, en-
trano nei disegni di Dio.
Ma, si è detto, il miracolo stilistico di Ravenna è nel momento di equili-
brio instabile fra riduzione – ed esaltazione – dell’esistente a mero oggetto
o gemma dei tesori celesti, e l’accidentale, il fuggevole, l’individuato. Sono i
ritratti, e in genere i volti, dove i segni dell’ambizione o della fragilità, dell’or-
goglio o della pace ci fissano spietati, impronte di un’età torva e lacerata. Ché
la figura del giovane dignitario chiomato e barbato come uno dei goti o degli
ungheri che a Bisanzio imparavano quanto bastasse a conquistarsi una pro-
vincia d’Europa non è lontana da una guancia consunta di senatore o sacerdo-
te latino, e la pompa viziosa delle dame di Teodora è di splendore pari a quello
delle sante vergini coronate. Il momento dell’istantaneo e del fluido che si
intreccia a quello della eternità ed immobilità è la luce-colore, d’una qualità
che non è ottenuta solo con la divisione delle tessere e con i forti contrasti
ma con una sorta di fungibilità del colore stesso, sì che il confine d’una figura
può essere qua o là, senza pretesa di coerenza esteriore, ora viola, ora rosso
bruno, ora azzurro, le superficie avventurarsi in una policromia liberissima,
ogni valore emettere la sua frequenza luminosa con una indifferenza iniziale
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 343

per quella vicina, salvo esserne successivamente modificato da un intricatissi-


mo giuoco di rime e rimandi ed echi interni, o unificandosi alle altre grazie al
medium onnipresente dell’oro; una sorta di rapita certezza nell’armonia pre-
stabilita, che consente di avvicinare e sovrapporre il rosso e l’arancio, il verde
e il turchino, di emettere fosforescenze colorate, di negare incessantemente la
negazione, abolendo l’ombra.
È il momento mattutino del cristianesimo, tempo del giardino o parádeisos,
che pare ignorar la tenebra e non conoscere che il fiore: o non è forse dell’in-
nografo cristiano Venanzio Fortunato, nato quando questi mosaici nasceva-
no e vissuto in una corte merovingia, il titolo d’una poesia che accompagna
un’offerta di viole – Ad domnam Radegundem, de violis – che pare sinte-
si verbale della intarsiata cultura d’allora, romana, barbarica e orientale? La
Grazia, è stato detto; e la promessa del trionfo. Ma, si aggiunga, raffigurata
secondo il cerimoniale della corte e l’artificio della ritmica protocollare che
nel palazzo del Bosforo o sotto la tenda di Giustiniano doveva servire a di-
stinguere la natura semidivina dell’Autocrate Isapòstolos, simile agli Aposto-
li (e la sua gloria riflessa sui cortigiani e caudatari) dai mortali comuni. Per
questo l’iconografia della potenza teocratica, che non sa avere dell’invisibile
Grazia altra immagine fuor di quella, trasposta bensì e sublimata, della grazia
sovrana dei despòti, introduce nella letizia stupefatta della visione un sospetto
di amarezza o di illusione crudele, un baluginare di spettri. Prossimi alle sante
legioni dei martiri e delle vergini, accampano alle praterie celesti gli eserciti
di Belisario e di Narsete. Gli uomini corruttibili sognano d’esser conversi in
pietra e di continuarvi per sempre la vita col sangue tutto mutato in luce.
Olivetti 1908-19581

Le fabbriche

I luoghi del lavoro, il loro spazio; un’industria è anche questo e può dunque
esprimere se stessa anche nelle pareti, nelle ambientazioni, nell’architettura.
Dove con la valle d’Aosta cominciano le Alpi, ma aperta verso le colline
del Canavese e la pianura del Po, Ivrea fu in tempi remoti una città-castello,
a lungo una città militare, poi il cuore di una provincia agricola. L’industria
si sviluppò alla periferia del centro urbano. Anche la prima officina Olivetti
fu costruita a sud del ponte sulla Dora, dove cinquant’anni fa trovava fine un
sobborgo. Per questo gli stabilimenti, in tutto il loro lungo e ininterrotto svi-
luppo, sono venuti configurando un centro diverso. È quello che oggi appare
al visitatore se dalla via di Torino, prima ancora di entrare nella città, volge a
sinistra verso Castellamonte: là si prolungano le costruzioni delle prime of-
ficine fin dove, nel periodo 1938-1942, fu elevata, su progetto degli architetti
Figini e Pollini, la grande facciata di vetro che è divenuta quasi un emblema
del nome Olivetti. Oggi dietro quella facciata lavorano gli uffici direzionali e
amministrativi e le officine per l’attrezzatura, la fabbricazione e il montaggio.
Ma altre facciate di vetro si sono venute aggiungendo a quella: sul medesi-
mo asse dell’edificio principale, separato ed insieme congiunto da un passag-
gio aereo, un complesso di officine accoglie altre produzioni.
Dietro queste costruzioni, dove cominciano le colline – e intorno ad una
chiesa del XV secolo che conserva notevoli affreschi di Gian Martino Span-
zotti, restaurati di recente – è in via di completamento un insieme di edifici
destinati ai servizi sociali. Riconoscibile dalle sue pareti rivestite di maiolica
azzurra, il Centro Studi ed Esperienze (architetto Eduardo Vittoria), inaugu-
rato nel 1955, accoglie gli specialisti ed i tecnici che vi elaborano progetti di
macchine nuove e studiano nuovi procedimenti costruttivi.
Di fronte, lungo la via Jervis, sono invece le costruzioni che vedranno
riunite le istituzioni culturali, come la biblioteca aziendale, e quelle dell’as-

1
Olivetti 1908-1958, Olivetti Ing. & C., Zürich 1958 [in collaborazione con Libero Bigiaretti,
Riccardo Musatti, Giorgio Soavi].

L’ospite ingrato ns 6
346 Archivio

sistenza (infermeria, servizi sanitari, ecc.). E ancora oltre quest’ultime sono


le fonderie – della ghisa e delle leghe leggere – e l’officina che fabbrica parti
speciali, come i motori elettrici delle macchine per scrivere e da calcolo.
Questo il quartiere delle fabbriche. Ma negli ultimi dieci anni lo sviluppo
stesso dell’industria e l’affermarsi di una sua più ampia funzione economica
nella città e nel Canavese hanno indicato l’opportunità di un progressivo de-
centramento. Per questo in un’altra parte della città, in località San Lorenzo,
un’altra fabbrica produce e monta i diversi modelli di telescriventi. A San Ber-
nardo, a quattro chilometri da Ivrea, una grande officina, cui si affianca un edi-
ficio per i servizi sociali (architetto E. Vittoria), è destinata a sede della O.M.O.
(Officina Meccanica Olivetti) per la produzione di macchine utensili.
Secondo il medesimo piano di decentramento produttivo, che è anche pia-
no di rinnovamento economico e sociale, la Olivetti è intervenuta ad Agliè,
un piccolo comune piemontese colpito dalla crisi tessile. Impianti e macchi-
nari modernissimi vi producono in grande serie la portatile Lettera 22.
A Torino, uno stabilimento, interamente ricostruito dopo le distruzioni
della guerra, fabbrica a ciclo completo la Studio 44. In Toscana, nella pia-
nura fra il Tirreno e le Apuane, opera lo stabilimento «Synthesis» di Massa,
che negli anni recenti è venuto sempre più ampliando la superficie delle
sue officine, dove si producono schedari, classificatori, mobili metallici per
ufficio.
Nell’intento di contribuire allo sviluppo industriale delle nostre provincie
meridionali, uno stabilimento di produzione di macchine per scrivere e da
calcolo è sorto in uno dei luoghi di più felice bellezza naturale e di memorie
storiche: presso Pozzuoli, sulla via Domitiana, a pochi chilometri da Napoli.
Mentre ad Ivrea il nucleo industriale doveva necessariamente giustapporsi
alla città storica, a Pozzuoli la fabbrica, progettata dall’ingegner Luigi Co-
senza, doveva inserirsi in un’aperta natura; ed in questa capacità di accordo,
ed insieme di novità, si è provata l’esattezza di una compiuta soluzione ar-
chitettonica.
In cinque centri, dunque, e in regioni del Nord, del Centro e del Sud d’I-
talia, sono attive le fabbriche Olivetti. Ma con la costituzione della Hispano
Olivetti di Barcellona, che data ormai da quasi trent’anni, bisogna aggiungere
al gruppo degli stabilimenti italiani quelli situati all’estero, dove si produco-
no i medesimi modelli di macchine con eguali criteri tecnici e con gli stessi
materiali.
Per complessità di edifici il più importante è appunto quello di Barcellona,
dove officine di fabbricazione e di montaggio si sviluppano intorno al palaz-
zo degli uffici direzionali, ad una mensa, a campi sportivi e ad una piscina,
mentre nelle vicinanze si trovano la falegnameria, la fonderia e l’asilo-nido,
non senza una visibile analogia con il centro produttivo di Ivrea.
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 347

Un’altra fabbrica importante è quella della British Olivetti a Glasgow,


fondata nel 1947. Oltre ottocento persone vi lavorano nella sola organizza-
zione produttiva.
Altri stabilimenti sono quelli della Olivetti Argentina S.A. a Buenos Ai-
res, della Olivetti Industrial S.A. a San Paolo del Brasile, progettati dall’arch.
Marco Zanuso, e quello della Olivetti Africa (Pty) Ltd. a Johannesburg,
nell’Unione Sudafricana.
Questo sguardo d’insieme agli stabilimenti Olivetti nel mondo può appe-
na introdurre ad uno degli elementi distintivi di questi complessi industriali:
la tendenza ad un’unità di stile costruttivo pur nella varietà delle funzioni
e delle espressioni. Per quasi un trentennio, l’architettura industriale della
Olivetti ha prospettato soluzioni di avanguardia, e, per riconoscimento della
critica internazionale, ha creato edifici esemplari.
Architettura industriale o, più semplicemente: architettura. Perché quello
spirito unitario ha permesso di affrontare non solo i temi dell’officina e della
fabbrica, con i loro problemi di organizzazione produttiva e di rendimento,
ma ha stimolato e coordinato opere di architettura e di urbanistica ben al di
là della fabbrica, rifiutandosi di lasciare al caso e all’improvvisazione questo
capitale settore della vita civile: dagli edifici dei servizi sociali e culturali, ai
quartieri di abitazione per i dipendenti, dalle sedi maggiori degli uffici com-
merciali e di rappresentanza alle centinaia di negozi in Italia e all’estero, fino
al piano regolatore per la città di Ivrea e a quello di coordinamento dei co-
muni canavesani.

I servizi sociali

Le prime forme assistenziali della Olivetti sono nate con l’officina nel
1909; già nel 1919, prima di ogni provvidenza di stato, si introducevano gli
assegni familiari. Attraverso tutta la storia della fabbrica è possibile rilevare
una costante anticipazione nell’adempimento di esigenze che solo anni o de-
cenni più tardi sarebbero divenute, per la coscienza comune, ovvie. E lo svi-
luppo dell’azione sociale ha avuto, costantemente, un suo duplice e parallelo
carattere di attuazione: da un lato il successivo passaggio a forme giuridiche
sempre più ampie, certe ed articolate, delle provvidenze disposte, dall’altro
l’attivazione, accanto a quelle provvidenze particolari, di una politica di salari
e di rapporti con i dipendenti di cui l’espressione più recente e di risonanza
vastissima è stata la riduzione dell’orario a cinque giorni settimanali con pa-
rità di salario. E sempre, accanto a questi provvedimenti estesi oltre la lettera
degli statuti e delle convenzioni, si sono apprestati gli strumenti, molteplici
e diversi, della loro attuazione: edifici completamente attrezzati e piani ur-
348 Archivio

banistici, ad esempio, ovvero programmi di ampio raggio e di severo rigore


scientifico oppure, ancora, criteri per la formazione del personale destinato
ai servizi sociali.
«Il servizio sociale ha una funzione di solidarietà. Ogni lavoratore
dell’azienda contribuisce con il proprio lavoro alla vita dell’azienda medesima
e quindi a quella degli organismi istituiti nel suo seno e potrà pertanto
accedere all’istituto assistenziale e richiedere i relativi benefici senza che
questi possano assumere l’aspetto di una concessione a carattere personale
nei suoi riguardi». Con queste parole, fin dall’ottobre del 1949, il Consiglio
di Gestione aveva definito i caratteri dell’attività assistenziale, nei confronti
della quale lo statuto medesimo gli riconosce poteri deliberativi.
Il ciclo del servizio sociale Olivetti ha il suo ideale inizio nell’attività in
favore della maternità e dell’infanzia che prevede un particolare trattamen-
to per le lavoratrici madri stabilito dal Regolamento Assistenza Lavoratrici
Olivetti e si svolge nell’ambito di un consultorio pediatrico e dell’asilo nido
di Ivrea, che accoglie i bimbi dei dipendenti dai sei mesi ai sei anni. Oltre
alla organizzazione di un doposcuola aziendale per i ragazzi delle medie e di
uno comunale per quelli delle elementari, i figli dei dipendenti fruiscono di
colonie montane e marine, a Marina di Massa, sul Tirreno, e a San Giacomo di
Champoluc, in Val d’Aosta, oltre che di campeggi in Italia e all’estero, desti-
nati, tra l’altro, ad educare i giovani alle esperienze della vita collettiva. Negli
stabilimenti di Agliè, di Torino, di Apuania e di Pozzuoli, come anche nelle
fabbriche all’estero, vigono per le madri ed i bambini servizi e previdenze
analoghi a quelli di Ivrea, salvo le differenze dovute a particolari situazioni
locali e ambientali. La Scuola Olivetti prepara, con un corso di cinque anni,
allievi provenienti dalla scuola media inferiore o dall’avviamento. Ammessi
dopo prove di selezione, i giovani conseguono la qualifica professionale e
possono accedere all’Istituto Tecnico, completamente gratuito e parificato.
Gran parte dell’insegnamento vi viene svolta su dispense e libri preparati di-
rettamente dal personale insegnante e pubblicati a cura della Scuola. Per alun-
ni particolarmente meritevoli sono istituite borse di studio che permettono
loro di conseguire la licenza media superiore ed eventualmente di continuare
gli studi al Politecnico di Torino fino alla laurea in ingegneria. Presso la scuola
aziendale sono anche tenuti corsi di perfezionamento e serali per adulti.
Particolare sviluppo hanno assunto i cosiddetti «servizi di fabbrica», come
le undici linee di trasporti automobilistici che consentono agli operai residen-
ti in centri minori di raggiungere le officine di Ivrea e di tornare alle proprie
case dopo il lavoro; e come le mense, istituite a Ivrea, a San Bernardo, ad
Agliè, a Massa ed a Pozzuoli.
Una delle più importanti attività dei servizi sociali è quella rivolta al pro-
blema delle abitazioni. A partire da Ivrea (dove l’urgenza del problema è stata
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 349

particolarmente sentita in seguito all’aumento della popolazione, in parallelo


con lo sviluppo dell’industria), tale attività ha promosso sia la costruzione di
quartieri di abitazione unitariamente concepiti secondo organici criteri ur-
banistici, sia la costruzione di case individuali con assistenza tecnica e archi-
tettonica. Un primo edificio di abitazioni fu costruito nel 1940-41; ma nel
dopoguerra si sono sviluppati due intieri quartieri (in località Canton Vesco e
Via Castellamonte). Si tratta di abitazioni a quattro, tre e due piani, e di case
unifamiliari. Una commissione aziendale assegna le abitazioni ai richiedenti.
Il sistema di prestiti a lunga scadenza ha permesso la costruzione nella zona
di Ivrea di circa duecentocinquanta villette ed abitazioni individuali per i di-
pendenti. S’aggiunga il quartiere di abitazioni costruito a Pozzuoli assieme
alla fabbrica e quale indispensabile ed organico complemento dell’intervento
industriale.
Numerose iniziative culturali sono ormai naturalmente considerate «ser-
vizio sociale»; la biblioteca – con trentamila volumi e una media di oltre sei-
mila prestiti mensili –, il «Centro Culturale Olivetti» (che organizza confe-
renze, dibattiti, concerti, proiezioni, corsi di studio e di divulgazione, mostre
d’arte fra le quali alcune di rilievo nazionale), l’ufficio studi per le relazioni
sociali, il gruppo sportivo e ricreativo. Quest’ultimo organizza e coordina le
attività sportive e del tempo libero.
I servizi sanitari si propongono di integrare le provvidenze di legge. Un
gruppo di medici specialisti, affiancati da un più esteso gruppo di consulenti
e coordinati da un direttore sanitario, provvede alle visite ambulatoriali e do-
miciliari, svolge una larga attività preventiva, si occupa dell’igiene di fabbrica
e dello sviluppo della coscienza antinfortunistica. Un complesso di impianti
e di laboratori consente a tutti i dipendenti il controllo e la cura della propria
salute e di quella dei familiari. Un convalescenziario permanente situato in
collina, a pochi chilometri da Ivrea, accoglie gratuitamente per un periodo di
due o più settimane i dipendenti bisognosi di un periodo di convalescenza.
Particolari trattamenti assistenziali, integrativi di quelli stabiliti dai diversi
istituti nazionali di assistenza, sono posti in atto grazie ad un fondo aziendale
regolato dal Consiglio di Gestione e alimentato da contributi degli operai e
dell’azienda. Per tutti i casi individuali che non possono essere risolti nel qua-
dro delle opere sociali organizzate dalla ditta, un ufficio assistenti sociali inter-
viene per aiuto e consiglio e collabora con gli uffici del personale per quanto
riguarda assunzioni, cambi di posto e trasferimenti. I criteri che informano il
complesso dei servizi sociali di Ivrea si estendono anche alle altre fabbriche
Olivetti in Italia e all’organizzazione commerciale. Ad analoghi principi si ispi-
rano pure i servizi sociali delle consociate in Europa e nel resto del mondo.
Il momento dell’attività produttiva viene dunque ad essere considerato
come una parte della complessa vita di comunità umana, l’arco di un cer-
350 Archivio

chio più vasto. Un momento che si vuole quanto più è possibile integrato e
integratore; non una forza diretta a portare davanti alle macchine e ai tavoli
uomini e donne da restituire la sera ad un’esistenza impoverita e parziale, ma
una creazione collettiva volta ad assumere quelle responsabilità morali e civili
che la sua stessa realtà economica, in misura sempre crescente, le è venuta
conferendo.

L’organizzazione commerciale

La Direzione Commerciale, che opera dal palazzo di Via Clerici a Milano


e dagli stessi uffici della fabbrica di Ivrea, investe un’organizzazione che co-
pre il territorio nazionale e si dirama in tutti i continenti. È questa un’orga-
nizzazione che fin dagli inizi della fabbrica, quando venivano prodotte le pri-
me centinaia di macchine per scrivere, si mosse per vie diverse da quelle allora
abituali, creando anzitutto una rete propria di filiali dirette: uno strumento di
decisiva efficacia per affermare, di fronte alla concorrenza straniera, le mac-
chine della Olivetti. Si cercò di rendere più immediato possibile il rappor-
to tra produzione e vendita; comuni furono, con i criteri, le responsabilità;
si affermarono il principio ed il convincimento che chi vende una macchina
Olivetti è partecipe degli intenti di chi l’ha prodotta.
Lo sviluppo produttivo e quello commerciale hanno ricevuto, nel corso
degli anni, uno stesso impulso. Mutavano i modelli, cresceva il numero dei
prodotti, si allargava il campo di azione commerciale; e uomini formati per
assumere iniziative coraggiose affrontavano un mercato sempre più ampio,
con le sue prospettive aperte e le sue difficoltà. Si aprivano sempre nuove
filiali in Italia e nuove consociate all’estero, alle filiali si affiancavano conces-
sionari in esclusiva, si creavano organismi specializzati per particolari pro-
dotti o particolari categorie di clienti (come la Divisione Macchine Portatili,
quella delle Macchine Contabili e quella dei «Synthesis»). Furono così vinte
le diverse congiunture critiche di un mezzo secolo di storia e [fu] superato il
confronto con le più avanzate industrie di macchine per ufficio presenti sul
mercato mondiale.
Trenta filiali, oltre duecento concessionari, duecentotrentacinque nego-
zi; questa, ad oggi, la struttura commerciale in Italia, risultato di un’azione
propulsiva e organizzativa che gli anni recenti hanno veduto sempre più in-
tensa e articolata. Le filiali hanno sede ad Alessandria, Arezzo, Bari, Biella,
Bologna, Brescia, Cagliari, Catania, Catanzaro, Cosenza, Firenze, Genova,
Livorno, Messina, Milano, Napoli, Novara, Padova, Palermo, Perugia, Ra-
venna, Roma, Sassari, Siracusa, Torino, Trieste, Varese, Venezia, Verona e
Vicenza.
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 351

Il personale destinato alle filiali, selezionato su scala nazionale da una Di-


rezione Personale Filiali, viene inviato per la specifica preparazione al Centro
Istruzione Specializzazione Vendite (C.I.S.V.) che ha sede a Firenze; di là,
conclusi i corsi, raggiunge le filiali.
Sempre dalla Direzione Generale Commerciale dipende il Servizio Tec-
nico Assistenza Clienti (S.T.A.C.) alla cui formazione la Olivetti ha posto
fin dai suoi inizi un’attenzione particolare. I meccanici destinati alle filiali,
e anche ai concessionari, per il servizio di revisione periodica vengono tutti
preparati e perfezionati presso lo S.T.A.C. di Ivrea. Si assicura così un eguale
livello di conoscenze tecniche e un’identità di metodi.
Fuori d’Italia le Consociate hanno creato, nel corso del loro sviluppo,
proprie organizzazioni commerciali, ora sul modello di quella italiana, ora
secondo le esigenze del campo economico nel quale si sono trovate ad ope-
rare. Tuttavia un’unità di direttive, soprattutto per quanto riguarda la ripar-
tizione della produzione e l’impiego e formazione dei quadri organizzativi,
lega la Olivetti italiana e le Consociate, sì che la vita commerciale dei prodotti
Olivetti si innerva in un sistema diffuso in ogni parte del mondo.
La Hispano Olivetti di Barcellona (1929), la Olivetti Argentina S.A. di
Buenos Aires (1932), la British Olivetti Ltd. di Glasgow (1947), la Olivetti
Africa (Pty) Ltd. di Johannesburg (1949) e la Olivetti Industrial di San Pao-
lo del Brasile (1957) producono o montano con i medesimi metodi e mate-
riali gli stessi modelli delle officine italiane, destinandoli ai propri mercati.
Sono invece organismi di importazione e di vendita la S.A. Olivetti Belge di
Bruxelles (1930), la S.A.M.P.O. Olivetti di Parigi (1939), la Austro-Olivet-
ti Büromaschinen A.G. di Vienna (1949), la Olivetti Mexicana di Città del
Messico (1949), la Olivetti Corporation of America di New York (1950), la
Olivetti Australia (Pty) di Sydney (1952), la Olivetti Colombiana S.A. di Bo-
gotá (1953), la Deutsche Olivetti Büromaschinen A.G. di Francoforte (1953),
la Olivetti Canada Ltd. di Toronto (1955), la Olivetti de Venezuela C.A. di
Caracas (1956), la Olivetti de Centro America S.A. di Habana (1957) e la Oli-
vetti A.S. di Copenaghen (1958).
Queste le diciassette consociate. Nella maggior parte degli altri stati ope-
rano invece decine di concessionari; e in ogni importante città gli agenti e i
corrispondenti assicurano non solo la presenza dei prodotti ma il servizio
di assistenza alla clientela. Una clientela che per numero e qualità ha dato,
soprattutto nell’ultimo decennio, la conferma della bontà della via percorsa,
tanto come produzione quanto come attività commerciale, in un aperto con-
fronto, su tutti i mercati mondiali, con organismi di paesi di più forte capacità
produttiva.
352 Archivio

Il disegno industriale e la pubblicità

Quando, sulle riviste specializzate come nel linguaggio comune, si scrive


e si parla di stile Olivetti per far riferimento ad un gusto, ad una direzione,
ad un clima, si può affermare che si è al di là della moda e dell’improvvisa-
zione geniale; che la ricerca, congiuntamente intrapresa e condotta avanti da
una direzione industriale e da un gruppo di pittori e di grafici, di scrittori e
pubblicisti, di architetti e di industrial designers, è divenuta una realtà della
cultura. La Olivetti è stata ed è anche questo: il luogo dove è possibile attribu-
ire alla scelta di un colore per una copertina, di un aggettivo per uno slogan,
di un profilato per uno stand o di una linea per la carrozzeria d’una macchina
un’importanza non troppo diversa da quella che si dà alla scelta di una solu-
zione meccanica, di un acciaio, di un procedimento di fusione.
Dopo le prime prove, ancora legate al gusto medio del tempo e volte ad
accentuare il carattere nazionale della nuova industria, il linguaggio pubblici-
tario della Olivetti ed il disegno industriale dei suoi prodotti si sono proposti
una comunicazione quanto più diretta, autentica e razionale possibile, con
una persuasa fiducia nell’efficacia della semplicità.
«Una macchina per scrivere – si leggeva in un testo del 1912, dovuto
all’ing. Camillo Olivetti – non deve essere un gingillo da salotto con orna-
menti di gusto discutibile, ma deve avere un aspetto serio ed elegante nello
stesso tempo». Anche la pubblicità si è ispirata a questo medesimo criterio.
In tutto il secondo periodo di sviluppo della nuova industria, vale a dire da
quando la Presidenza della Società cominciò a intervenire in modo autonomo
e costante nell’indirizzo e nella promozione delle iniziative pubblicitarie, fino
alla fine della Seconda Guerra Mondiale, la pubblicità dei pieghevoli e quella
destinata alla stampa quotidiana o periodica si propose principalmente di con-
trapporre alla scrittura a mano i valori di modernità e di chiarezza propri della
scrittura a macchina. Fu pubblicità alla scrittura meccanica prima che ad un
prodotto: bisognava tendere a trasformare i calamai in portafiori, secondo una
delle più felici metafore pubblicitarie di quel periodo. Ne sorse un gusto che si
collegava alle espressioni più avanzate dell’arte di quegli anni, uno stile volto a
suggerire tutta una serie di rapporti ed allusioni con le scienze esatte e l’archi-
tettura, l’arte tipografica, l’arredamento. Fu anche l’inserzione del gusto cubi-
sta e surrealista, poi astrattista, nella severità dell’efficienza industriale. Nella
Milano delle prime Triennali, dov’era passato Edoardo Persico, la pubblicità
Olivetti – e ricordiamo qui i nomi, fra altri, di Renato Zveteremich, Leonardo
Sinisgalli e Giovanni Pintori – seppe essere un esempio di rigore culturale.
Il dopoguerra pose alla pubblicità Olivetti il problema di mantenere la me-
desima coerenza di gusto pur nel continuo aumento del numero dei prodotti,
nell’accresciuta diversità dei destinatari, nell’estensione a tutto il mondo del cam-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 353

po pubblicitario e nell’impiego di nuovi media, che andavano dalla costruzione


pubblicitaria semipermanente, alla scelta di riproduzioni d’arte, dal documenta-
rio al periodico di cultura. Parallelamente, il disegno industriale dei prodotti in-
contrava sempre più autorevoli riconoscimenti, a partire dal 1948 e precisamente
da quella carrozzeria della Lexikon 80, dovuta a Marcello Nizzoli, che è indicata
ormai come una delle più importanti espressioni dello stile Olivetti.
Le maggiori riviste di architettura e di disegno industriale di tutto il mon-
do hanno dedicato saggi e studi alla grafica ed al disegno industriale della Oli-
vetti: nel 1952 il Museo d’arte moderna di Nuova York invitava per la prima
volta un’industria, ed era la Olivetti, ad esporre i propri risultati nel campo
della pubblicità, del disegno industriale e dell’architettura. Il successo ottenu-
to si sarebbe ripetuto in occasione di congressi, esposizioni e mostre, in Italia
e all’estero, come la Mostra Internazionale di Arte Grafica di Berlino (1954),
quella del Louvre a Parigi (1955), dove venne esposta una scelta dell’opera
grafica di Giovanni Pintori, o quella tenuta presso l’Istituto d’Arte Contem-
poranea di Londra. Nel nostro paese l’annua «Palma d’Oro» per la pubblicità
venne conferita alla Olivetti, l’anno medesimo della sua istituzione, nel 1950.
Sotto il diretto controllo della Presidenza, una Direzione Pubblicità e
Stampa prepara i programmi pubblicitari; l’Ufficio Tecnico Pubblicità, con
il suo gruppo di specialisti, realizza quei programmi: sono lavori pubblicitari
che tutto il mondo conosce e che ovunque precedono o seguono il nome
dell’industria e i suoi prodotti. E di volta in volta, artisti di fama interna-
zionale sono stati chiamati a collaborare con l’Ufficio Tecnico di Pubblicità
(Schawinsky, Bayer, Lionni, Rand, Reiner, Cassandre, Savignac).
Il nome di un nuovo prodotto, l’impaginazione di una lettera di vendi-
ta, il progetto di un padiglione per fiera campionaria, la tavola a colori per
una rivista, il testo di un pieghevole, lo studio dei particolari di un affresco
per il prossimo calendario, ogni aspetto insomma della pubblicità Olivetti è
elaborato tenendo presente una generale prospettiva che si è venuta sempre
più ampliando nel corso degli ultimi decenni: e cioè che anche la pubblicità è
un servizio, e che la qualità stilistica ed estetica non è solo uno strumento di
persuasione ma una responsabilità; che se il colore di un manifesto o la forma
di una macchina sono, come sono, una proposta al riguardante e all’utente,
quei colori e quelle forme debbono fare appello alla lucidità, alla razionale
responsabilità e capacità di scelta. Questa via, apparentemente divergente da
quella corrente delle tecniche pubblicitarie, spiega le iniziative che, sempre
più numerose, la Olivetti ha intrapreso nella coscienza di un doveroso con-
tributo culturale e civile: come la rivista Sele Arte, diretta da C. L. Ragghianti,
una rassegna di informazione artistica che in cinque anni ha superato le cin-
quantamila copie bimestrali, e le molte altre attività nel campo delle discipline
tecniche e sociali, dell’urbanistica, dell’architettura.
Perché si chiama Diaspron?1

«Il nome della nuova macchina per scrivere standard – la Olivetti [Dia-
spron] 82 – è stato suggerito dall’associazione tra il design della carrozzeria,
ispirato ad una combinazione di volumi piani che ricorda le strutture polie-
driche dei cristalli, e il diaspro, minerale a struttura microcristallina apparte-
nente alla famiglia del quarzo. Sempre per associazione si sottolineano in tal
modo anche la robustezza e la solidità della macchina. La «n» finale è stata
aggiunta per assonanza col nome greco della Lexikon e non per voler tradurre
in modo arbitrario il vocabolo diaspro, che in greco e in latino suona iaspis, in
francese jaspe, in inglese e (con pronuncia evidentemente diversa) in tedesco
jasper, in spagnolo diáspero e in portoghese diaspro.
Diàspron non è tuttavia parola inesistente: appartiene al lessico greco-
bizantino ed è il neutro dell’aggettivo diàspros, composto dalla preposizione
dià (= attraverso) e dall’aggettivo àspros (= bianco) che non ha niente a che
vedere con il diaspro e che suggerisce piuttosto un’idea della trasparenza, os-
sia di una qualità propria di molti cristalli. Dall’aggettivo diàspros così inteso
sono poi derivati l’inglese diaper, il francese diapré, e anche l’italiano diaspro
(o diasprinetto), tutti vocaboli significanti un tipo di tessuto operato o anche
di decorazione a modulo reticolare poligonale, ispirato alle sfaccettature del
diamante e collegabile quindi nel disegno all’idea di una struttura cristallina».

1
«Notizie Olivetti», 67, dicembre 1959, p. 33.

L’ospite ingrato ns 6
Per la morte di Adriano Olivetti1

È molto difficile oggi, persino a chi per concordia o discordia gli è stato
vicino, dare un giudizio dell’opera di Adriano Olivetti. Era, la sua, una
personalità eccezionale; e chi vorrà saper qualcosa dello sviluppo della vita
italiana negli ultimi vent’anni, come chi indagherà sulle tendenze ideologiche
e culturali del nostro tempo, incontrerà certo, ad ogni passo, i segni della
sua presenza e dei suoi interventi. Crediamo che la formula dell’industriale
illuminato e umanista sia, tutto sommato, una formula di comodo. Olivetti si
era venuto a trovare in una contraddizione che ne ha segnata l’intera esistenza:
quella fra il potere derivante dalla sua eredità di industriale, che lo situava
nell’ambito del capitalismo, quello italiano, relativamente arretrato, e la co-
scienza della necessità d’un superamento socialista. La testimonianza di una
simile lacerazione, che egli non poté, né forse volle, sfuggire – e che ha fatto
di lui, pur tutto proteso al lavoro associato, tanto nella sua industria quanto
nelle sue attività culturali e politiche, un solitario in vita e in morte – non sta
soltanto nei tentativi di soluzione, ora utopistici ora pieni di concretezza,
che egli formulava nell’ambito della vita aziendale e proponeva alla comunità
nazionale; ma in una potente ed oscura dissociazione del suo spirito, sensibile
a chiunque l’abbia avvicinato, in una infelicità ora tormentosa ora geniale.
Olivetti non lascia soltanto una grande industria di dimensioni internazio-
nali, i contraddittori suoi tentativi di uscire dagli equivoci del paternalismo
d’avanguardia, una importante serie di proposte per la soluzione di alcuni dei
maggiori problemi sociali ed amministrativi del nostro paese, un serio segno
nella vicenda dell’urbanistica, dell’architettura e del disegno industriale, una
rivista ed una casa editrice che da oltre dieci anni mantengono un raro livello
di coerenza e dignità culturale; lascia un tema unico di meditazione storica e
psicologica, la traccia di un personaggio che Thomas Mann avrebbe amato,
tipico del rapporto tra Italia d’ieri e d’oggi, fra Europa d’oggi e di domani.
Cresciuto nei principi etici e nello spirito delle minoranze, per educazione
del padre ebreo e della madre valdese, e poi pervenuto al cattolicesimo; indu-
striale e padrone (quindi legato alle sorti di una classe e alla condanna del po-

1
«Avanti!», 1o marzo 1960, p. 3.

L’ospite ingrato ns 6
358 Archivio

tere) e insieme socialista per volontà di uscire da quella classe e da quella con-
danna, come chi voglia uscire da se stesso e non possa, Olivetti appare oggi ai
socialisti – che lo ebbero ora amico ora avversario – come una personalità che
solo dal tempo e dal frutto futuro del suo lavoro potrà essere giudicata; e oggi
essi vogliono ricordare di lui soprattutto l’antifascista che aiutò Turati nella
sua fuga, col lavoro dei suoi operai e suo promosse il benessere di una provin-
cia italiana, fu amico di molti dei migliori uomini di azione e di intellettuali, e
innumerevoli iniziative della società e della cultura promosse e aiutò.
Manet1

Manet è un pittore difficile. Apparentemente immediato, nasconde – ma


neppure troppo – un riserbo. Dispone d’un sistema difensivo. Respinge ogni
confidenza. In quei suoi quadri tutto sembra evidente e offerto, la luce è
frontale, le figure riconoscibili, le ciminiere di Argenteuil emettono nuvole
di vero fumo, la stagnola delle bottiglie nel quadro delle Folies è vera stagnola
e se – come ha detto Malraux – i suoi ritratti sono soprattutto autoritratti, si
può scommettere sulla «somiglianza» di Zola, di Clemenceau, di Mallarmé.
Ma si confrontino le sue con le tele di Pissarro, Monet, Sisley. Questi crede-
vano alla terza dimensione del quadro. Al di là della vibrazione dei toni e della
rete dei colpi di pennello, ti aprono profondità d’aria, di illusione. Ogni abbre-
viazione è abbreviazione di qualcosa, consegna intero l’oggetto. In un paesaggio
di Pissarro, come in uno di un qualsiasi «vero» impressionista, si può entrare e
non uscire più. Il quadro di Manet invece, dopo averti invitato a penetrare, ti
respinge con quella sua cortesia sempre un po’ sgradevole, quei verdi agri, quei
grigi metallici, quelle tonalità da pastello che allegano i denti. Anzi: ti espelle. Ti
sei appena avviato dentro la proposta ottica formulata dalle epidermidi delle sue
demi-mondaines e delle sue modelle, dei suoi parasoli, salmoni, limoni: ed ecco
che le acque della Senna, le pieghe del lenzuolo di Olympia, i riflessi dei boccali di
birra e persino le pupille di Berthe Morisot o di Merry Laurent paiono spegnersi,
richiudersi, tornare superficie di colore, scaglie. L’estrema sapienza confina allora
con l’eleganza della sbadataggine, la perfetta trasparenza del bock di birra si finge
maldestro sgorbio d’un pittore mediocre… Manet è uno degli artisti più decetti-
vi. È ispirato dalla musa del disinganno. Si capisce la sua passione per Velázquez:
ma dove lo spagnolo con un solo gesto grandioso sembra dissolvere il teatro del
mondo, il figlio dell’età di Luigi Filippo annienta i frammenti del reale ma, per
così dire, uno dopo l’altro. Manet è il primo che – ancora apparentemente parte-
cipe di un mondo naturalistico – insinui il sospetto di una infondatezza, di una
illegittimità degli oggetti e ne derivi il primo filo di fiele di una nausea che tanto
doveva poi dilagare nel nostro secolo.
Molti altri grandi pittori quel disinganno lo perseguono con la deforma-
zione dei volumi, l’alterazione dei profili, la violenza. Qui invece l’inserzione

1
Manet, Ing. C. Olivetti & C., Ivrea 1966.

L’ospite ingrato ns 6
360 Archivio

di irrealtà avviene a partire da realtà collaudate, come l’incisione di Marcan-


tonio Raimondi per il Déjeuner sur l’herbe e la Venere di Tiziano per l’Olym-
pia. Anche dove composizione e tema possono esser sembrati, allora, remo-
tissimi dalla consuetudine, anche dove vivono nell’indefinito del plein-air,
Manet non deforma, non ingiuria: la sua straordinaria flessione, la sua «aber-
razione», la introduce solo all’ultimo momento, quasi di soppiatto: tanto che,
in verità, alle folle di allora, indignate dai suoi quadri bisogna attribuire più
intelligenza di quanto di solito non si faccia, perché erano capaci di intendere,
sebbene oscuramente, il furto di «realtà» che Manet compiva ai loro danni.
Come ha scritto Georges Bataille in un suo saggio molto bello, Manet coglie
il reale («ce que je vois» come lo chiamava) nel momento stesso in cui gli sottrae
il significato, (bisognerebbe dire, con la lingua francese: nel momento in cui
glielo subtilise). Manet avrebbe dunque in comune con Mallarmé la volontà,
in grado eroico, di sopprimere ogni eloquenza, di eliminare dal quadro ogni
traccia di discorso precostituito. Al polo opposto delle iterazioni patetiche e
religiose e per schivare la vischiosità della memoria sentimentale, questa pittura
non tanto eliminerebbe l’aneddoto quanto tenderebbe a renderlo derisorio.
Eppure questa interpretazione, che in un certo senso è canonica, ci sembra
peccare in una direzione cui la nostra età ci ha fin troppo abituati: di attribuire
oltre il dovuto alle opere del passato gli intenti di quelle successive. E in Manet
vogliamo leggere così, esagerandole, quelle che saranno le rivoluzioni della pit-
tura contemporanea. Invece il soggetto, per lui, è molto importante; non è solo
ancora molto importante. È un «contenuto» predisposto ed essenziale. Le sue
tele dei ballerini spagnuoli, del ballo mascherato all’Opéra o del Café-Concert si
appoggiano anche al sarcasmo, all’assurdità, all’ironia; l’indifferenza alle grazie di
Nanà la sentiamo così forte proprio perché il baffuto rentier la sta considerando;
il lucido sprezzo con cui sono alluse la rosa o la vela si regge anche sulla citazio-
ne – a contrario – delle devote nature morte fiamminghe e dei navigli olandesi…
E ancora: l’ultima parola di Manet non è davvero il quieto soffocamento
dell’enfasi. Bisogna ricercarla nel risultato di quello. Ed è forse quel punto di scet-
ticismo, quasi cinico nella sua imperturbabilità, quel tenuissimo sapore di morte,
quel dandysmo insomma, che non si distrae e col quale il repubblicano, civile
e laico artista del Secondo Impero rammenta la propria ascendenza illuminista.
Non il tremito dell’attimo in fuga, la tristezza che accompagna l’eccesso di ple-
nitudine, la sensuale deperdizione, il pianto-e-riso, che sono degli impressionisti;
ma invece – come d’altronde in Degas – la continua presenza, ridotta a spettro e
quasi a rimorso, di realtà solide, di oggetti dell’operare umano, di cose-contenuti.
Ma salutati nel momento in cui, con beneducata disperazione, cominciano a tra-
sformarsi in scenario, frammento, impressioni, nulla. Manet faceva «solo quel
che vedeva»; ma certo prevedeva ben al di là di quanto credeva di fare.
A Ivrea i caratteri di mille anni fa1

Le iniziali miniate che qui si riproducono vengono da un manoscritto


membranaceo conservato ad Ivrea, che è noto come il codice del Beato War-
mondo. Warmondo fu eletto vescovo di Ivrea nell’anno 969, proprio novecen-
tonovantasette anni fa; il codice deve essere stato vergato, per sua disposizio-
ne, fra quell’anno e non oltre la data della morte dell’imperatore Ottone III di
Sassonia, che è il 1200. Fu Ivrea allora un centro vivissimo, soprattutto per la
personalità di Arduino, il quale, sebbene scomunicato da Warmondo – che gli
fu sempre aspro oppositore – e poi condannato anche dal papa Silvestro II e
dall’imperatore Ottone III, riuscì, nella primavera del 1000, a farsi incoronare
re d’Italia. La storia delle forme che vanno dal mondo classico a quello rina-
scimentale passa anche attraverso documenti come questo. Dai manoscritti
d’Irlanda, i più famosi, a quelli renani, a questo che è, geograficamente e sto-
ricamente, in una situazione di grandissima rilevanza, si svolge fra settimo e
undicesimo secolo uno sterminato repertorio di forme e di grafismi, come se
l’occidente cristiano stesse accogliendo o subendo un’onda e una frenesia di
duplicazioni, moltiplicazioni, contrapposizioni, scissioni, insomma di tutte
le operazioni fondamentali della grafica. Preme sull’occidente tutto l’oriente,
dai motivi scitici e della cosiddetta «arte delle steppe», alla miniatura slava e
bizantina, alle iniziali zoomorfe dei manoscritti greci e glagolitici del X e XI
secolo, ai mostri sassanidi, allo straordinario delirio grafico delle scuole ara-
be. Ma anche dallo stesso suolo europeo che porta i monasteri benedettini,
alla cui ombra si vengono fregiando codici come questo, paiono riemergere
i viluppi e le fluenze dell’arte celtica e contribuiscono ad infoltire ossessiva-
mente lo spazio; e accorrono i tessuti barbarici con l’ostinato contrappunto
delle linee che avanzano, spariscono, riaffiorano, tornano a scomparire. Per
intendere questi intrecci, convolvoli e masticazioni di mostri, si direbbe che
non tanto si debba fare attenzione alle ipotesi della storia comparata e alle
teorie della diffusione stilistica quanto dare ascolto ad un etnologo e a uno
psicanalista. Non riesco a togliermi dalla mente che queste geometrie ritorte
non debbano essere accostate ai grafismi che si tracciano telefonando, e lette

1
«Notiziario Olivetti», 86, maggio 1966, pp. 28-33.

L’ospite ingrato ns 6
362 Archivio

con lo stesso metodo. C’è in quelle forme di animali e di mostriciattoli, in


questi demoni repulsivi e soprattutto in quei contorcimenti del segno, un’in-
felicità così evidente, una nevrosi così tormentosa che vien fatto di chiedersi
se per caso non siano vere certe ipotesi di sociologi e storici secondo le quali,
in date società e in epoche date, il rapporto dell’uomo con l’uomo, facendosi
rapporto non critico dell’uomo con se stesso, si versa innocentemente nelle
istituzioni formali; e allora – come forse fa la nostra epoca con certi stilemi
di cinismo verbali, con le sue foto atroci e insieme banali, con taluni gesti
automatici (Th. W. Adorno rilevò la violenza ineliminabile con cui tutti noi
sbattiamo le portiere dell’auto…), quell’età penosa e quasi mutola che degli
imperatori sassoni esprimerebbe candidamente le proprie angosce coatte, la
propria labirintica miseria psicologica in queste devote spirali, in questi lavori
da ergastolani: dove, però, come un lampo che venga da un mosaico bizantino
o da uno smalto germanico, si accende qualche filo di colore o si inquartano
superfici di toni araldici. Ma nelle carte del Beato Warmondo (Hunc tibi dat
librum praesul Warmandus habendum… ci dice una di quelle) mi pare di ve-
dere, insieme ad una maestria non eccezionale, una mano meno esperta, meno
ossessionata: i mostri si masticano a vicenda con bonomia, il segno è largo e
grasso, gli arabeschi si fermano prima della allucinazione. E, soprattutto, i
caratteri della scrittura cui fanno guardia diavoli, mostri e reticolati di iniziali,
sono posti sulla pagina con bella franchezza, senza quell’aspetto tra meschino
e stento che è di tante carte altomedievali né ancora quelle impennate cavalle-
resche e quasi snobistiche che un secolo o due più tardi renderanno più aguz-
ze le scritture del primo gusto gotico. L’arte dei nostri decenni ci ha restituito,
anzi, diciamo meglio, ci ha dato un senso dei valori grafici e una capacità di
valutare le scritture e i caratteri, a mano e a stampa, che nel nostro occidente
erano da secoli quasi esclusivo privilegio di artisti, di tipografi e di amatori.
Quella coscienza del valore formale del tratto, che accompagna l’atto dello
scrivere nel mondo arabo e in quello dell’Estremo Oriente, aveva natural-
mente abbondonata la maggior parte della nostra cultura con i secoli della
stampa. Era necessario che l’arte moderna riscoprisse l’azione grafica, il gusto
dell’emblema, i valori elementari connessi con le procedure geometriche e
logiche della scrittura, il senso del suo decorso e della sua conduzione, perché
un settore sempre più vasto di pubblico imparasse a guardare e a valutare la
qualità della scrittura, manuale o meccanica, a sentirne il peso e la rilevanza.
Per questo siamo in condizione di guardare con occhio che non è solo quello
dello storico dell’arte o dell’erudito, la tradizione del manoscritto e della mi-
niatura, di cui è un prezioso momento, nella Ivrea della scrittura moderna, la
scrittura millenaria voluta dal Beato Warmondo.
Carattere e identità1

Quando una parola si concreta in un carattere a stampa e si fanno insepa-


rabili segno, significato e supporto grafico, allora non si ha più una semplice
parola, ma una parola oggetto, anzi una parola persona, l’espressione di una
identità.
Un nome che agisce perché trascrizione alfabetica di un complesso di suo-
ni ma anche per il suo aspetto grafico si chiama – non senza un poco di dotta
intimidazione – logotipo. I logotipi che la pubblicità ci mette sotto gli occhi
tutto il giorno e tutti i giorni sono anche la riscoperta degli ideogrammi di
scritture millenarie, l’egizia, la maya, la cinese. Per un verso sono un aspet-
to della simbolica – medievale o barocca – che comprende immagini, motti,
rebus, sigle, sigilli e che oggi è rinata nella emblematica industriale e negli
slogan. Per un altro verso hanno a che fare con l’uso stilistico ed enfatico della
tipografia. È un uso che accompagna la storia della stampa, soprattutto negli
ultimi sessant’anni di calligrammi di futurismi, di Bauhaus e neoavanguardie.
Ma perché un vero logotipo esista e «funzioni», non basta una strettissima as-
sociazione fra significato del segno grafico e significato della parola; ci voglio-
no la costanza, la ripetizione di quel nesso e il suo isolamento da ogni altro
discorso scritto. Nel caso della Olivetti occorre che il lettore – che non è più
soltanto un lettore – avverta nello stesso tempo il messaggio contenuto nel
nome dell’industria (con tutte le sue consonanze: di qualità tecnica, di dimen-
sione internazionale su radice italiana, di ricerca in tutti i campi dell’infor-
mazione e della comunicazione) e il messaggio del grafismo, fatto di solidità,
cordialità, immediatezza, durata. Ora va detto che questo tipo di associazione
è stato reso possibile, nel nostro secolo, proprio e paradossalmente dalla dif-
fusione culturale di un procedimento inverso od opposto. Quello cioè che
disgiunge segno e significato, che per una frazione di tempo toglie al carattere
tipografico la funzione di supporto di un valore verbale e gli lascia solo quello
grafico: in altri termini, è stata la moltiplicazione della parola scritta nella città
moderna a rendere separabili parola e scrittura; lo intuirono i pittori all’ini-
zio del secolo quando presero ad inserire nei loro quadri pezzi di giornali ed

1
Walter Ballmer, Franco Fortini, Olivetti: carattere e identità, Olivetti, Ivrea 1971.

L’ospite ingrato ns 6
364 Archivio

etichette attenuandone il valore semantico; lo viviamo noi ogni giorno, cam-


minando accanto a elementi alfabetici enormi, fra pubblicità e segnaletica.
Disgiungere e ricongiungere di continuo senza procedere oltre è proprio del
pensiero simbolico; e oggi ne viviamo. Si guardi l’ultima correzione impartita
al logotipo Olivetti: solidità senza durezza, pienezza ma non staticità, anzi
movimento nel senso stesso della scrittura, verso destra. Un marchio che si
impronta, un blocco circondato da un invisibile confine: ma anche qualco-
sa di dinamico, elastico, confidenziale. L’unico elemento tagliente è quello a
metà nella sillaba accennata della «v». Per il resto, i punti sulle «i» arrotondati
negli angoli in alto ma non in quelli in basso, incontrano un’asta dove uno
stesso rapporto c’è, ma invertito: e quindi la vocale si differenzia dalla «i»
che la precede solo per una banda di luce al primo quarto dell’altezza. Non
altrimenti la «e» si curva come la «o». Bisognerebbe dire: si volge su sé stessa.
Angoli arrotondati significano facilitazione; e angoli arrotondati su spessori
ricchi dicono insieme agio e forza, contengono il senso doppio della parola
«capacità». Che è insieme possibilità di fare e attitudine a comprendere, una
buona sintesi dei significati raccolti nel nome Olivetti.
Segno e disegno di una firma1

La Olivetti ha un suo marchio, un segno di identificazione. Quel segno è


un elemento grafico. È composto di caratteri. Lo si può leggere; e chi lo legge,
legge il nome Olivetti.
Marchi di questo genere vengono chiamati, nel linguaggio di chi li studia,
logotipi. Il logotipo è un elemento verbale alla cui forma scritta viene confe-
rita una fisionomia grafica costante. Questa comunica tre ordini di significati:
quello semantico del segno verbale, quello del segno grafico e quello pro-
dotto dalla associazione fra i due primi. La nostra memoria ne è ricca. Ogni
giorno ne vediamo, nelle pubblicità, sulla stampa, per la via. Nomi con una
fisionomia: questi sono i logotipi.
Nel proposito odierno di mutare alcuni dati del logotipo di Olivetti, senza
mutare però il significato ed i valori complessivi di quello precedente, interven-
gono motivi diversi. Fra questi il più evidente è quello di affermare, col mutamen-
to, il carattere innovatore proprio di una grande industria impegnata nel campo
dell’informazione e della comunicazione; ed affermarlo con un elemento che è,
contemporaneamente, di informazione semantica e di comunicazione simbolica.
La supposta legge di mercato che imporrebbe ad ogni industria una cor-
porate image o – in corrente italiano – «la fisionomia dell’azienda», non è
rigorosa, ai nostri giorni, se non per chi non sa o meglio non può raccoman-
dare la propria identità ai beni e ai servizi che produce; e tuttavia la Olivetti
ha sempre cercato che dai suoi prodotti non discordassero gli elementi grafici
e simbolici che li avrebbero dovuti accompagnare.
Le prime macchine per scrivere uscite più di sessant’anni fa dalle offici-
ne di Ivrea recavano un nome che nelle curve del corsivo e nei riccioli degli
svolazzi richiama un’età ben precisa del gusto europeo, quello floreale, che
ai nostri anni è stato universalmente ripreso e imitato. Ma quel grafismo non
ebbe a fissarsi, non divenne costante. Bisogna arrivare al 1934 perché nasca
una formula grafica per il nome Olivetti.
La disegnò Xanti Schawinsky e contenne una allusione ad una precisa sfe-
ra culturale, quel Bauhaus di Gropius, a Dessau, di cui egli era stato allievo,

1
Walter Ballmer, Franco Fortini, Segno e disegno di una firma, Olivetti, Ivrea 1971.

L’ospite ingrato ns 6
366 Archivio

come l’anno seguente non mancò di ricordare Edoardo Persico quando a To-
rino si inaugurò il negozio Olivetti, dovuto appunto a Schawinsky. L’influen-
za del «razionalismo» va scorta anche nel «tutto minuscolo», un costume gra-
fico che divenne e restò a lungo un segno abbreviato di comunanza nei gusti e
nelle intenzioni, anche ideologiche, per quasi un ventennio. Nel caso nostro,
il riferimento principale è alla dattilografia e al carattere «pica», allora il più
corrente sulle macchine per scrivere, con le larghe grazie destinato a rafforza-
re l’allineamento e ad evitare che la percussione incidesse il nastro e la carta.
È stato questo, insomma, il primo vero marchio Olivetti. È rimasto in
uso per quasi un quindicennio. Quanto più, in quel periodo, il carattere
tipografico che più gli era vicino, ossia il carattere «Etrusco», percorreva
la parabola della sua moda, dalla divulgazione alla senescenza, tanto più la
permanenza del marchio del 1934 ne fissava, come sempre avviene in questi
casi, il carattere di logotipo. Tra i suoi significati si inseriva anche quello,
ben noto in molti altri campi, della anzianità come segno di consolidamento,
sicurezza e fiducia.
Ma con gli anni della ricostruzione successiva al conflitto la Olivetti veni-
va rapidamente estendendo la sua attività produttiva. Dal settore delle mac-
chine per scrivere era già passata a quello delle macchine per il calcolo, alle
attrezzature per ufficio e alle macchine per utensili per giungere ad operare
nella zona delle più complesse apparecchiature contabili e a tutto l’ambito
della elaborazione elettronica dei dati. Questo comportava l’opportunità di
modificare il logotipo. Era possibile eliminare l’esclusivo riferimento alla dat-
tilografia che fino allora gli era stato associato. Si venne così ad una formula
grafica che squadrava i singoli caratteri pur mantenendo – grazie ad una spa-
ziatura allora molto di moda – un rapporto fra bianchi e nero non troppo
dissimile da quello del logotipo d’origine.
È ancora verso la fine degli anni Cinquanta che parallelamente all’evolversi
della cultura figurativa si impone un rilancio del logotipo, una correzione.
L’ambiente grafico era venuto mutando. L’impiego di dati caratteri e corpi
nei testi pubblicitari e nella stampa, l’uso di blocchi di composizione come
vere masse di manovra modificavano il campo delle forze e del segno. Troppa
aria che circolava fra l’una e l’altra lettera del logotipo Olivetti: bisognava
diminuire i bianchi fra l’una e l’altra lettera, addensare i neri, tendere ad un
corpo poco articolato ma intenso, dove il gruppo «li» e il gruppo «ti» colle-
gassero i propri elementi.
Ne è venuta una diversa formulazione, quella in uso fino ai nostri giorni,
capace di reggere per compattezza e peso grafico alle attrazioni circostanti,
stretta in sé e autonoma. Si è acquisito così un dato che non ha più avuto mo-
tivo di mutare; e cioè che il logotipo Olivetti per adempiere alla sua funzione,
per essere quindi leggibile e interpretabile anche nelle circostanze meno favo-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 367

revoli, deve situarsi là dove il carattere tipografico sta per diventare grafismo
autonomo. Ma non deve mai superarlo.

Questo dato è divenuto evidente quando la naturale usura ha cominciato a


farsi sentire anche ai danni della formulazione più recente. La ricerca poteva
portarsi verso caratteri tipografici tradizionali; ma si illanguidiva così la forza
complessiva del segno. Si impegnava allora verso la direzione opposta, quella
che altera il carattere tipografico fino a renderlo, sempre meno riconoscibile.
Per esempio, non chiudendo la «e» e saldando talora il taglio della «t» e la «i»
finale.
Oppure unendo la «v» alla «e» in modo da suscitare nel destinatario della
comunicazione l’urto per una imprevedibile novità. La congiunzione o la di-
sgiunzione impropria, atipica, suggerivano formule allusive ad altri alfabeti.
La moltiplicazione delle curve e la crasi fra la «I» e la «i» richiamavano le
fluenze della scrittura araba, le serpentine potevano suggerire le scritture al
neon, la contrapposizione fra angoli acuti e linee curve poteva richiamare ge-
ometrismi degli Anni Venti, la «v» poteva trasformarsi in un segno di radice
quadrata e un’altra figura retorica – la preterizione – interveniva nella «e»
mutandola in una specie di simbolo algebrico. Diveniva sempre più chiara la
necessità di un equilibrio ma soprattutto di una formula che si sottraesse alle
mode, che nel giro di pochi anni non rivelasse la propria subordinazione ad
un momento particolare del gusto. Era necessario muoversi alla ricerca di una
direttiva che senza civettare con il passato conferisse al logotipo un carattere
di stabilità, di calma e di fermezza.
Si consideri ora la formula prescelta e la si confronti con quella del periodo
che ora si sta concludendo. Le somiglianze sono nel rapporto fra lettere alte e
basse, fra i punti delle «i» e le aste, fra il peso rispettivo delle «o» e delle «e».
Le differenze sono anzitutto nella squadratura delle vocali «o» ed «e» nel-
la loro più solida base, in un accrescimento dello spessore di alcuni caratteri.
Ne viene che il lato destro della «o» si avvicina alla «i» e il lato destro della
«e» alla «t».
La sillaba centrale «ve» si dilata, grazie alla scomparsa del taglio sinistro
delle due «t». Si aggiunga che quasi tutti gli spigoli sono arrotondati; che non
lo sono quelli inferiori del punto sulle «i» né quelli superiori dell’asta della
«i» ottenendo quindi un blocco più compatto dell’intero carattere; e che il
maggiore sviluppo dell’arco di cerchio nella base delle due «t» accentua il
moto verso destra.
E si dovrà concludere che il nuovo logotipo tende ad unire una densità
assai elevata, quasi una natura plastica e aggettante, con un accentuato mo-
vimento nel senso della lettura, da sinistra a destra. Al peso delle prime tre e
delle ultime tre lettere si contrappone quello della sillaba centrale: da questo
368 Archivio

nasce un moto interno che anima la massa del logotipo e ne corregge ogni
eccesso di solidità.
La formula che ora si propone conferma uno dei caratteri essenziali della
crescita d’una produzione e d’una ricerca come quella Olivetti: l’intento di
svilupparsi a partire da premesse costanti, di mutare senza perdere mai di
vista i valori di un nucleo originario
Introduzione all’uso grafico di un nome1

In molte forme di pubblicità vediamo e leggiamo nomi cui viene conferita


una forma grafica costante. Chi guarda e legge associa la forma e la parola. La
memoria è resa più sicura e l’informazione è più veloce. Questi nomi-oggetto
si chiamano logotìpi.
Nelle pagine che seguono si propone come logotìpo il nome Wertheim. Esso
è il nome di un grande sistema di servizi commerciali. Il nome Wertheim non
indica un bene di consumo. È il nome di una qualità che si aggiunge a tutta una
vastissima famiglia di beni di consumo. La qualità di cui si parla è quella di essere
stati selezionati, prescelti e raccomandati – quindi garantiti – da quel nome.
Ad ogni singolo prodotto si aggiunge, come un riverbero, la serietà della
organizzazione che lo distribuisce, il valore del suo nome. Sui mercati della
distribuzione questo fenomeno è ben noto. Per questo è molto importante
che il nome sia riconoscibile come un marchio ma, nello stesso tempo, sfiori
l’anonimato, come un simbolo.
Nella sua lingua d’origine, Wertheim vale sede (o abitazione) del valore (o
del mercato); è quindi un nome proprio dai significati beneaguranti. Il lavoro
grafico per il logotìpo Wertheim ha voluto conservare la facile leggibilità di
un nome così positivo e insieme farne un segno di riferimento e di riconosci-
mento, soprattutto dove fosse importante identificare da lontano il conteni-
tore dei prodotti, il negozio che li offre, il vettore che il trasporta. Vale a dire,
sugli imballaggi, i negozi, gli autofurgoni.
La ragione sociale della Wertheim è Rapida S.A., il nome cioè di uno spe-
cifico prodotto, a partire dal quale si era venuto costituendo il catalogo Wer-
theim. La ragione sociale si accompagna al nome Wertheim ogni qual volta
esso compaia come fornito di responsabilità commerciale. La collocazione
della ragione sociale – come risulta dal disegno costruttivo – è in basso a si-
nistra del logotìpo.
Il problema grafico era anche un problema psicologico. Bisognava dise-
gnare il nome in modo che potesse diventare un grafismo ma che rimanesse
sempre leggibile. Doveva essere una cosa ma anche una parola. Questa non
doveva mai prevalere troppo su quella; e viceversa.

1
Walter Ballmer, Franco Fortini, Introduzione all’uso grafico di un nome, Grafiche Nava, Milano 1974.

L’ospite ingrato ns 6
370 Archivio

La base per la tramutazione del nome in grafismo è stata offerta dalla pri-
ma all’ultima lettera: infatti la doppia W quando sia capovolta, dà una M. Il
nome aveva dunque questa eccellente proprietà: cominciava e finiva con un
segno simmetrico e inverso e per di più si decomponeva in due parti, ognuna
di quattro lettere, essendo nome composto: Wert e Heim.
I due monosillabi si congiungono fra loro in modo che l’ultima lettera di
Wert e la prima di Heim si distacchino a formino un nucleo inatteso nel corpo
della parola. La ricorrenza della e aggiunge solidità al grafismo.
Il gruppo th ha insomma la funzione d’una sorpresa, d’una infrazione alla
monotonia, altrimenti inevitabile, delle robuste maiuscole in carattere basto-
ne. Quando il logotipo venga ripetuto di seguito, sarà proprio il nesso th a
determinare fasce verticali e oblique. Quando invece si affiancano le M e le W
su due lati paralleli, ognuna delle due lettere partecipando con i suoi tre ango-
li acuti, si determina una perfetta sequenza geometrica, capace di ricchissimi
sviluppi figurativi.
Il nesso WM, in proporzioni ridotte senza interruzioni, si costituisce in
sfondo, filigrana, intreccio. Se si introducono delle interruzioni, delle sma-
gliature, si possono variare senza limiti gli effetti e le sorprese. In molti casi
le sequenze di W e di M fungono da cornice o da sottolineatura del nome-
marchio.
Ma le applicazioni più interessanti sono quelle che possono nascere dalle
combinazioni di forma grafica e colore. Al valore verbale, la pupilla dovrà as-
sociare il valore grafico; ma questo e quello dovranno associarsi ad un colore,
anzi ad un rapporto di colori.
Il colore scelto per il logotipo è il blu. Lo sfondo prescelto è il bianco o il
nero o il blu.
Considerando il bianco e il nero dei non-colori, si vede che i soli colori
veri e propri sono il verde e il blu. E va detto che la scelta della qualità di blu
e di verde è stata anche compiuta tenendo presente la disponibilità più cor-
rente, in modo da rendere semplici il reperimento, la replica, il restauro. Sono
tonalità di blu e di verde che si trovano ovunque.
Per quanto è del rapporto fra blu e verde, esso è stato scelto con intenzio-
ne. Si è preferito congiungere due colori freddi invece che – secondo avrebbe
voluto la tradizione – un colore caldo ed uno freddo o due tonalità comple-
mentari: perché i due colori prescelti, soprattutto se associati, inducono a cal-
ma, senso di frescura e serenità (per essere quelli della vegetazione, del cielo
e delle acque). Li troviamo nei mosaici antichi e nelle ceramiche, a suggerire
distensione e riposo.
Il rapporto commerciale è per sua natura connesso al traffico e alla ten-
sione; nulla di più opportuno, quindi, di non esaltare con colori aggressivi la
dimensione dello sforzo ma di celebrare invece quella della calma.
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 371

Il nome Wertheim, nella forma grafica di cui abbiamo parlato, è destinato


ad una varietà di applicazioni. Per ognuna di esse sarà opportuno valutare
dimensioni, colori, materiali. Plastica, vetro, carta, metallo impongono questa
piuttosto che quella soluzione ma in ogni caso le proporzioni fra le parti dei
grafismi, lo stile, non potrà non essere quello del logotipo.
I negozi anzitutto; e le loro insegne. Insegne a caratteri tridimensionali,
scatole luminose ortogonali alle facciate, scritte per vetrine. E le fiancate dei
furgoni e degli automezzi.
Il nome e il grafismo troveranno applicazione sulla carta da imballo, sugli
imballaggi di cartone, sui sacchetti, sulle strisce gommate e i nastri adesivi, le
etichette per i prezzi, i certificati di garanzia, i libretti di istruzione ecc. Oltre,
naturalmente, alla carta da lettere, alle buste, ai moduli.
Walter Ballmer1

Ballmer vive a Milano da un quarto di secolo ma è nato a Liestal, in Sviz-


zera, nel 1923. Quattrocento anni fa sarebbe sceso dai suoi monti fra gli sten-
dardi dei Confederati, spada in spalla, come si vede nelle incisioni di Dürer e
di Urs Graf.

Ha la struttura fisica di quegli avi tenaci.


Ma nella pianura del ducato di Milano le sue conquiste sono state conqui-
ste di gusto, di meditati calcoli grafici. Subito dopo la guerra, fra macerie e
ricostruzioni, a Milano spirava vento elvetico. Portato da quel vento Ballmer
passò per lo studio Boggeri, si qualificò per una collaborazione con il mondo
dell’industria, con i prodotti, gli oggetti, le cose precise del secolo: Pirelli, La
Roche, Geigy, Montecatini e, dal 1956, Olivetti.

Il lavoro per Olivetti – materiali per fiere, pannelli murali, manifesti – gli
ha dato di esprimere una sua educata ricerca: il rapporto fra elementi foto-
grafici, elementi tipografici ed elementi grafici. Razionalismo e realismo, la
tradizione del Bauhaus, vi si conserva e si moltiplica per gusto di rigore e ni-
tidezza, per amor di coerenza, per rispetto dei destinatari. Questo «civismo»
di Ballmer si fa una regola di non abbagliare né distrarre chi riceve l’immagine
e il messaggio: ma persuadere, convincere. La linea retta prevarrà dunque su
quella curva, la logica prevarrà sulla emozione, due più due dovrà fare sempre
quattro. Ma la modulazione del colore avrebbe permesso a Ballmer quel che
la geometria non gli voleva concedere. Usare il colore liberamente sarebbe
stato però come perdersi. Ballmer grafico si faceva pittore a condizione di
avere una metrica, una regola. Altri come lui nel nostro tempo hanno deciso
di scegliere una misura esatta, una chiave certa, per saltare su quella in liber-
tà. Una ricognizione dell’universo degli angoli, una esplorazione del mondo
delle parallele: e gli spazi sono scritti perché il colore ad un altro colore si op-
ponga o concordi, si scontri o s’incontri; tenda, concentri, dilati lo spazio che

1
Franco Fortini, Walter Ballmer, in Catalogo dell’esposizione di Walter Ballmer, Galleria d’Arte
Contemporanea Sincron, Brescia, aprile 1974. AASO, Fondo Annibale Fiocchi, pubblicazioni, 116.

L’ospite ingrato ns 6
374 Archivio

lo porta. Ballmer lavora per sé come per l’industria: guardando al fine, all’og-
getto, allo scopo, al concreto. Non separare un’attività dall’altra. Un passo
dopo l’altro, di punta e di tacco, e la terza dimensione nasce dopo la seconda,
la geometria è sempre presente a evitare lirismi o a vigilarli. «Accumulazioni»
si chiamano; più che addizioni, tesori.
Bibliografia degli scritti olivettiani
di Franco Fortini
Nella bibliografia vengono raccolti in coda, dopo gli scritti pubblicati su «Comunità» e in altre sedi
editoriali, i nomi delle macchine che Fortini ha creato per l’Olivetti.
i. «Comunità»

Cultura comunista, «Comunità», 23, 15 novembre 1947, pp. 4-7.


Un minore: Valéry, «Comunità», 3, 2, marzo-aprile 1949, pp. 60-61.
A metà, «Comunità», 3, 2, marzo-aprile 1949, p. 59.
Diario tedesco, «Comunità», 4, 6, gennaio-febbraio 1950, pp. 58-63.
«Bibliografia letteraria», (Il «Doctor Faustus» di Thomas Mann; Marzo 1950: 30 anni
di «Riviere» [sulla poesia Riviere di E. Montale]; Poesie di Giorgio Vigolo e Sergio
Solmi [rec. a G. Vigolo, Linea della vita, Mondadori, Milano 1949 e S. Solmi, Poesie,
Mondadori, Milano]; I traduttori [sulle traduzioni di Montale, Luzi e Poggioli]; La
Terra Promessa [rec. a G. Ungaretti, La terra promessa, Mondadori, Milano]; Svevo
su carta intestata, a cura di Apollonio [rec. a I. Svevo, Corto viaggio sentimentale,
Mondadori, Milano 1949]; La bella estate [rec. a C. Pavese, La bella estate, Einaudi,
Torino]; Un diario di Berenson: Echi e riflessioni [rec. a B. Berenson, Echi e rifles-
sioni, Mondadori, Milano]; Due saggi [rec. a C. Caudwell, Illusione e realtà. Saggio
sulle origini della poesia; S. Aglianò, Questa Sicilia]), «Comunità», 4, 7, marzo-aprile
1950, pp. 49-52.
«Bibliografia letteraria», Sinisgalli. Furor mathematicus [rec. a L. Sinisgalli, Furor ma-
thematicus, Mondadori, Milano], «Comunità», 4, 8, maggio-giugno 1950, p. 63.
«Bibliografia letteraria», La morte sta anniscosta in ne l’orloggi [rec. a C. Levi, L’oro-
logio, Einaudi, Torino]; Saggi di Ferdinand Lion [rec. a F. Lion, Cartesio, Rousseau,
Bergson, Bompiani, Milano], «Comunità», 4, 8, maggio-giugno 1950, pp. 63-65.
«Bibliografia letteraria», Su questo momento di poesia [su G. Spagnoletti, Antologia
della poesia italiana 1909-1949, Guanda, Parma]; Biografia di Rimbaud e saggi di
Lukács [rec. a E. Starkie, Arthur Rimbaud, Rizzoli, Milano], G. Lukács, Saggi sul
realismo, Einaudi, Torino]; L’ultimo romanzo di Cesare Pavese [rec. a C. Pavese, La
luna e i falò, Einaudi, Torino] «Comunità», 4, 9, settembre-ottobre 1950, pp. 65-67.
«Bibliografia letteraria», Nuovi libri su Dostojevskj; Alvaro: Diario in un «tempo ruba-
to» [rec. a C. Alvaro, Quasi una vita, Bompiani, Milano 1950]; Un conformista [rec.
a A. Moravia, Il conformista, Bompiani, Milano]; Tre racconti di Mario Soldati [rec.
a M. Soldati, A cena col commendatore, Longanesi, Milano]; «I Gettoni»: una colle-
zione di narratori [sui primi quattro voll. della collana dei Gettoni], «Comunità», 5,
11, giugno 1951, p. 66.
«Bibliografia letteraria», Per una critica come servizio [su un art. di C. Bo, I pericoli della
letteratura; I premi Viareggio 1951 [su D. Rea, Gesù fate luce, Mondadori, Milano;
P. Sissa, La banda di Dören, Einaudi, Torino; M. Venturoli, R. Zangrandi, Il dizio-
nario della paura, Nistri-Lischi, Pisa; A. Bertolucci, La Capanna Indiana, Sansoni,
Firenze]; Il ragazzo morto e le comete [rec. a G. Parise, Il ragazzo morto e le comete,

L’ospite ingrato ns 6
378 Bibliografia degli scritti olivettiani di Franco Fortini

Neri Pozza, Venezia]; Gli annali di Comisso [rec. a G. Comisso, Gli anni, Treviso]),
«Comunità», 5, 12, ottobre 1951, pp. 68-72.
«Bibliografia letteraria» (Pavese critico, la cultura come lavoro [rec. a C. Pavese, La lette-
ratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1951]; I dispregi di Mario Tobino [rec.
a M. Tobino, L’angelo del Liponard, Vallecchi, Firenze 1951 e Il deserto della Libia,
Einaudi, Torino 1951]; Fausto e Anna [rec. a C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, To-
rino]; Nuovi racconti di Anna Banti [rec. a A. Banti, Le donne muoiono, Mondadori,
Milano]; Un racconto di Calvino: Il visconte dimezzato [rec. a I. Calvino, Il visconte
dimezzato, Einaudi, Torino]; Il vento nell’oliveto [rec. a F. Seminara, Il vento nell’o-
liveto, Einaudi, Torino 1951]; Poesia di Bassani [rec. a G. Bassani, Un’altra libertà,
Mondadori, Milano 1951]; Zanzotto: Dietro il paesaggio [rec. a A. Zanzotto, Dietro
il paesaggio, Mondadori, Milano 1951]; Neruda tradotto da Quasimodo [rec. a P.
Neruda, Poesie, a cura di S. Quasimodo, Einaudi, Torino; Tre antologie poetiche [su
Poesia latina medievale, Guanda, Parma, a cura di G. Vecchi; Nuova poesia francese,
Guanda, Parma, a cura di C. Bo; Linea lombarda, Varese, Magenta, a cura di L. An-
ceschi]), «Comunità», 6, 14, giugno 1952, pp. 73-77.
«Bibliografia letteraria», Su questo momento di poesia, «Comunità», 6, 16, dicembre
1952, pp. 64-66.
«Bibliografia letteraria», Due saggisti della inautenticità [?]; Fine dell’avanguardia [rec.
a C. Brandi, La fine dell’avanguardia e l’arte d’oggi, Edizioni della Meridiana, Mila-
no 1952]; Il nostro tempo [rec. a C. Alvaro, Il nostro tempo e la speranza, Bompiani,
Milano]), «Comunità», 7, 17, febbraio 1953, pp. 54-55.
«Bibliografia letteraria», Narrativa dell’annata. Stampe e ristampe [su C. Alvaro,
Vent’anni, Bompiani, Milano; G. Comisso, Un inganno d’amore, Giorni di guer-
ra, Mondadori, Milano; A. Palazzeschi, Roma, Vallecchi, Firenze; A. Soffici, Passi
tra le rovine, Vallecchi, Firenze; G. Rossi, Mezzo contadino, Neri Pozza, Venezia
1952; E. Emanuelli, La congiura dei sentimenti, Mondadori, Milano; C.E. Gadda,
Novelle del ducato in fiamme, Vallecchi, Firenze; M. Bontempelli, L’amante fedele,
Mondadori, Milano; C. Pavese, Notte di festa, Einaudi, Torino]; Tutti i nostri ieri [su
N. Ginzburg, Tutti i nostri ieri, Torino, Einaudi 1952; G. Rimanelli, Tiro al piccio-
ne, Milano, Mondadori; M. Rigoni Stern, Il sergente della neve, Einaudi, Torino];
Bassani e D’Arzo [su G. Bassani, La passeggiata prima di cena, Sansoni, Firenze; S.
D’Arzo, Casa d’altri, Sansoni, Firenze]; La birra del peccatore [su T. Landolfi, La
bière du pécheur, Vallecchi, Firenze; Bigiaretti, Parise [su L. Bigiaretti, La scuola dei
ladri, Garzanti, Milano 1952; G. Parise, La grande vacanza, Neri Pozza, Venezia]),
Comunità», 7, 20, settembre 1953, pp. 44-46.
«Bibliografia letteraria», Narrativa dell’annata [su C. Cassola, I vecchi compagni, To-
rino, Einaudi]; Un nuovo Rea [su D. Rea, Ritratto di maggio, Mondadori, Milano];
Il sonno della ragione [su A. M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Einaudi, Tori-
no]; Altri quattro narratori [su M. Tobino, Le libere donne di Magliano, Vallecchi,
Firenze; L. Romano, Maria, Einaudi, Torino; E. Bettiza, La campagna elettorale,
Bianchi-Giovini, Milano; R. Brignetti, Morte per acqua, Sansoni, Firenze 1952]),
«Comunità», 7, 20, settembre 1953, pp. 46-47.
Una risposta tedesca, «Comunità», VII, 21, novembre 1953, pp. 55-57.
La biblioteca immaginaria [rec. a E. von Salomon, Le questionnaire, Gallimard, Paris]
«Comunità», 7, 22, dicembre 1953, pp. 46-49.
«Bibliografia letteraria», Un’annata di poesia. I poeti di «Momenti» [sulla rivista «Mo-
menti»]; Forse un viso tra mille [rec. a U. Bellintani, Forse un viso tra mille, Vallecchi,
Bibliografia degli scritti olivettiani di Franco Fortini 379

Firenze 1953]; I genitori a teatro [rec. a G. Soavi, I genitori a teatro, Edizione della
Meridiana, Milano 1953]; La Linea del ’900, [rec. a L. Anceschi, S. Antonielli, Lirica
del Novecento, Vallecchi, Firenze 1953], «Comunità», 8, 24, aprile 1954, pp. 64-66.
Due poesie contemporanee: Poesia contemporanea e verità pratica; Ungaretti: «Sono una
creatura» 1916; Montale: «L’estate» 1935, «Comunità», 8, 26, agosto 1954, pp. 49-52.
La poesia di Mario Luzi, «Comunità», 8, 27, ottobre 1954, pp. 52-57.
Le giornate di Cecchi, «Comunità», 9, 29, febbraio 1955, pp. 57-58 [rec. a E. Cecchi, Di
giorno in giorno, Garzanti, Milano].
Il Metello di Pratolini, «Comunità» (Narratori italiani), 9, 30, aprile 1955, pp. 54-56 [rec.
a V. Pratolini, Metello, Vallecchi, Firenze].
Tre narratori: Pasolini; Soavi; Rea, «Comunità», 9, 31, giugno 1955, pp. 54-56 [rec. a P.P.
Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti, Milano; G. Soavi, Un banco di nebbia, Monda-
dori, Milano e D. Rea, Quel che vide Cummeo, Mondadori, Milano].
Giacomo Noventa e la poesia, «Il Ponte», 12, 8-9, agosto-settembre 1956, pp. 1393-1404
[rec. a G. Noventa, Versi e poesie, Edizioni di Comunità, Milano].
Rileggendo Pasternak, «Comunità», 12, 58, marzo 1958, pp. 71-74.
Un cuore arido di Cassola, «Comunità», 15, 94, novembre 1961, pp. 102-103; «Dal nulla
tutti i fiori»: il romanzo di Bassani [rec. a G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
Einaudi, Torino], «Comunità», 16, 98, marzo-aprile 1962, pp. 42-46.

ii. Altre sedi

Come è stata lanciata la Lexikon (1948), Archivio Olivetti, Fondo Direzione Comuni-
cazione Ufficio Stampa (DCUS), faldone 40, fascicolo 559.
L’organizzazione Olivetti. La Olivetti & la Lexikon elettrica (1948), Archivio Olivetti,
DCUS, faldone 40, fascicolo 559.
Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di C. Brizzolara, F. Fortini, A. Steiner, Of-
ficina d’Arte Grafica A. Lucini e C., Milano 1949, pp. 7-10.
Rileggendo I Miserabili, «Giornale di fabbrica Olivetti», Ivrea 1950, 12, p. 3.
Due libri al mese, «Il cembalo scrivano», 2, 1, gennaio 1950, p. 7 [rec. a Alain-Fournier,
Il grande amico, trad. dal francese di E. Piceni, Mondadori, Milano 1933 e V. Prato-
lini, Il quartiere, Vallecchi, Firenze 1945].
Introduzione a Henri Rousseau, le douanier, Olivetti & C., Ivrea 1951.
Introduzione a Vittore Carpaccio, Olivetti, Ivrea 1953.
La vecchiaia difficile, «La civiltà delle macchine», 2, 1953, pp. 62-63.
Ambrogio Lorenzetti, il pittore del «Buongoverno», Calendario Olivetti 1954.
Letras Humanas, in 25 años Hispano Olivetti 1929-1954, Seix Barral, Barcelona 1954.
Preghiera di pubblicazione, «Il Cembalo scrivano», Bollettino Olivetti, [Ivrea] 1955, p. 40.
Calendari 1955, «L’Ufficio moderno», gennaio 1956.
Il significato di un nome, «Notizie Olivetti», 35, marzo 1956, p. 4.
Le macchinazioni della macchina, «Notizie Olivetti», 36, aprile 1956.
Presentazione in Mosaico di Ravenna, Olivetti, Ivrea 1957.
Olivetti 1908-1958, Olivetti Ing. & C., Zürich 1958 [in collaborazione con Libero Bigia-
retti, Riccardo Musatti, Giorgio Soavi].
Perché si chiama Diaspron, «Notizie Olivetti», 67, dic. 1959, p. 33.
Per la morte di Adriano Olivetti, «Avanti!», 1o marzo 1960, p. 3.
Del copywriting come genere letterario, «L'Ufficio Moderno», 35, 2, febbraio 1961, p. 331.
380 Bibliografia degli scritti olivettiani di Franco Fortini

Manet, «Notizie Olivetti», 13, 85, marzo 1965, pp. 29-31.


Introduzione a Manet, Olivetti, Ivrea 1966.
A Ivrea caratteri di mille anni fa, «Notizie Olivetti», 14, 86, maggio 1966, pp. 28-33.
Walter Ballmer, Franco Fortini, Olivetti: carattere e identità, Olivetti, Ivrea 1971.
Walter Ballmer, Franco Fortini, Segno e disegno di una firma, Olivetti, Ivrea 1971.
Walter Ballmer, Franco Fortini, Introduzione all’uso grafico di un nome, Grafiche Nava,
Milano 1974.
Walter Ballmer, in Catalogo dell’esposizione di Walter Ballmer, Galleria d’Arte Con-
temporanea Sincron, Brescia, aprile 1974. AASO, Fondo Annibale Fiocchi, pubbli-
cazioni, 116.

iii. Traduzioni

Charles Ferdinand Ramuz, Statura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1947.


Søren Kierkegaard, Timore e tremore (Lirica dialettica di Johannes de Silentio), prefazione
di J. Wahl, Edizioni di Comunità, Milano 1948.
Simone Weil, L’ombra e la grazia, introduzione di Gustave Thibon, Edizioni di Comuni-
tà, Milano 1951.
Simone Weil, La condizione operaia, introduzione di A. Thévenon, Edizioni di Comunità,
Milano 1952.
Simone Weil, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura
umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954.

iv. Nomi delle macchine

Divisumma 14 (1948)
Lexikon 80 (1949)
Lettera 22 (1950)
Tetractys 24 (1955)
Elea 9001 (1957)
Diaspron 82 (1959)
Abstract dei saggi
Barbara Carnevali, Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti

Il saggio intende aprire una riflessione sull’“altro modernismo”, interrogandosi


sulle vie alternative allo stile funzionalista che si è imposto come l’equivalente estetico
della ragione strumentale moderna. Senza alcuna pretesa di esaustività e di completezza
storica, viene abbozzata una linea ideale italiana che collega la riflessione teorica e l’opera
di allestitore di Edoardo Persico ad alcune realizzazioni paradigmatiche dello «stile
Olivetti»: le architetture di Ivrea, i valori comunicati nelle campagne pubblicitarie, lo
stile espositivo dei negozi di Venezia e di Parigi allestiti da Carlo Scarpa e Franco Albini.
Attraverso queste diverse voci, il valore etico-estetico della grazia si delinea come il
principio formale che può permettere di ripensare l’eredità moderna in una chiave
contemporanea. La grazia modernista nasce dal senso di armonia tra soggetti umani
e ambiente, tra nuovo e tradizione; è aperta al futuro e alla «speranza progettuale” ma
in modo leggero e gentile, nel rispetto di ciò che non è interamente disponibile all’utile
umano.

The article aims to begin a reflection on the “other modernism”, questioning what
alternatives there have been to the functionalist style that has imposed itself as the
aesthetic equivalent of modern instrumental reason. Without any claim to exhaustiveness
or historical completeness, the article sketches an exemplary Italian genealogy, linking
Edoardo Persico’s theoretical reflections and work as a designer to some paradigmatic
achievements of the “Olivetti style”: the architecture in Ivrea, the values communicated
in the advertising campaigns and the atmosphere of the showrooms in Venice and Paris,
as designed by Carlo Scarpa and Franco Albini. It outlines how, in these different voices,
the ethical-aesthetic value of grace serves as a formal principle that can allow us to rethink
and re-evaluate the modern heritage from a contemporary perspective. Modernist grace
stems from a sense of harmony between human subjects and the environment, between
the new and the traditional; it is open to the future and to the “project of hope», but
in a manner that is light and considerate, that respects the limits of what is available for
human use.

René Capovin, Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk

Lo spazio è una parola-chiave nell’opera di Adriano Olivetti. Modello imprenditoriale,


proposta politica, sperimentazione architettonica e urbanistica saranno lette come
“questioni di spazio” e poi confrontate con il pensiero di Peter Sloterdijk, facendo
particolare riferimento alle riflessioni su architettura e politica contenute nell’ultima

L’ospite ingrato ns 6
384 Abstract dei saggi

parte della sua trilogia, Sfere. Tale confronto intende contribuire a de-familiarizzare
l’eredità di Olivetti, togliendola dalla lista delle occasioni mancate italiane per collocarla
al centro delle contraddizioni del XX secolo.

Space is a key-word in the work of Adriano Olivetti. Business model, political


proposal, architectural projects and urban planning will be read as “issues of space” and
then compared with the thought of Peter Sloterdijk, paying special attention making
to the reflections on architecture and politics contained in the last part of his trilogy,
Spheres. This comparison is intended to help de-familiarize Olivetti’s legacy, removing it
from the list of Italian missed opportunities to place it at the center of the contradictions
of the 20th century.

Carlo Tombola, Dalla fabbrica alla Comunita. Brevi note sull’organizzazione dello
spazio sociale in Adriano Olivetti

Giovane apprendista imprenditore, Adriano Olivetti costruì sui libri la propria


conoscenza dell’organizzazione del lavoro di fabbrica, in particolare applicandosi
ai case studies degli stabilimenti metalmeccanici americani. Per questa via andò ben
oltre l’insegnamento esperienziale e “inventivo” del padre Camillo, fino all’approdo
dell’organizzazione dello spazio sociale e politico attraverso l’urbanistica: la città
complemento della fabbrica, entrambe rese vive dal lavoro organizzato industrialmente.
Già nel passaggio tra fascismo e Repubblica si profilò il sostanziale fallimento
dell’“utopia urbanistica”, il cui superamento può essere trovato nella fondazione di una
nuova “comunità” modellata sulla piccola patria canavesana. Se oggi riconosciamo ad
Ariano Olivetti il contributo alla formazione di moderne élite di tecnocrati umanistici,
capaci di proporre originali soluzioni del nodo tra Tecnica e Cultura, resta ancora da
raccogliere la sfida verso un diverso rapporto tra Tecnica e Politica.

As a young apprentice entrepreneur, Adriano Olivetti built his knowledge of


the organisation of factory work on books, in particular by applying himself to the
case studies of American metalworking plants. In this way, he went well beyond the
experiential and ‘inventive’ teaching of his father Camillo, to the point of organising
social and political space through town planning: the city as a complement to the factory,
both brought to life by industrially organised work. Already in the transition between
Fascism and the Republic, the substantial failure of the ‘urban utopia’ emerged, the
overcoming of which can be found in the foundation of a new ‘community’ modelled on
the small Canavese homeland. If today we recognise Ariano Olivetti’s contribution to
the formation of modern elites of humanistic technocrats, capable of proposing original
solutions to the knot between Technology and Culture, his challenge to organise a
different relationship between Technology and Politics has yet to be taken up.

Tommaso Morawski, Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane»

Il presente saggio trae spunto da una docu-intervista del filosofo Emilio Garroni ad
Adriano Olivetti, realizzata per il programma RAI Ritratti contemporanei nel febbraio
del 1960, pochi giorni prima dell’improvvisa scomparsa di quest’ultimo. Seguendo la
Abstract dei saggi 385

traccia dell’intervista l’articolo cerca di rintracciare la sopravvivenza del tema delle


“bellezze olivettiane” nel pensiero di Garroni, concentrandosi in particolare sul rapporto
tra estetica, arti e design, e sulla funzione civile dell’architettura, cioè sul suo significato
partico, in quanto arte applicata, per gli uomini che la vivono e la abitano.

This essay is inspired by a docu-interview by philosopher Emilio Garroni with


Adriano Olivetti, made for the RAI program Ritratti contemporanei in February 1960,
a few days before the latter’s sudden death. Following the outline of the interview, the
article attempts to trace the survival of the theme of “Olivettian beauties” in Garroni’s
thought, focusing in particular on the relationship between aesthetics, the arts and
design, and on the civil function of architecture, that is, on its particular significance, as
applied art, for the people who live and inhabit it.

Emanuele Zinato, L’Olivetti come figura

Il saggio si propone di indagare alcune opere di Paolo Volponi per dimostrare come
vengano messi in forma e tematizzati i materiali olivettiani. L’esperienza di fabbrica
diviene così il serbatoio per una rete di metafore e di figure. A esempio, la vera lettera
scritta di un operaio afflitto da manie di persecuzione in Memoriale (1962) o i documenti
aziendali redatti dell’autore nell’epoca del suo conflittuale rapporto con Visentini in Le
mosche del capitale (1989). O, ancora, la produzione di calcolatrici elettromeccaniche e di
un pionieristico personal computer nella sceneggiatura-racconto Annibale Rama (1965)

The essay aims to investigate some works by Paolo Volponi to demonstrate how
Olivetti’s materials are put into literary form and themed. The factory experience
thus becomes the reservoir for a network of metaphors and figures. For example, the
real letter written by a worker afflicted by delirium of persecution delusions in the
Memoriale (1962) or the corporate documents drawn up by the author at the time of his
conflicting relationship with Bruno Visentini in Le mosche del capitale (1989) Or, again,
the production of electromechanical calculators and a pioneering personal computer in
the Annibale Rama script-story.

Giuseppe Alessi, L’uomo e la macchina. Fortini all’Olivetti

Nell’ambito di questo breve contributo ci siamo concentrati sul lavoro di copywriter


di Fortini per Olivetti, con l’intenzione di individuare in riferimento ai cortometraggi
Incontro con Olivetti (1950) e Le regole del gioco (1968) i gesti della sua scrittura per
film, il cui impianto formale è teso a evidenziare i nuclei semantici del discorso in
cooperazione con il linguaggio figurativo del film-documentario. L’analisi ha indotto
inoltre a sviluppare una riflessione intorno al diverso rapporto tra l’uomo e la macchina
che i due film propongono a distanza di quasi vent’anni, nell’ambito di una temperie
storica, politica e culturale segnata dalla modernizzazione capitalistica.

This paper aims at analyzing the copywriting work of Franco Fortini at Olivetti’s
group, in reference to two short films, Incontro con Olivetti (1950) and Le regole del
gioco (1968), whose text was written by Fortini. In this context, his style is focused on
386 Abstract dei saggi

remarking the semantic aspects of the text by combining it with the figurative language
typical of documentaries. More specifically, the analysis underlines the relation between
the man and the machine expressed by the films, in the context of a historical, political
and cultural atmosphere changed by capitalist modernization.

Erica Belia, Colonizzati o colonizzatori? L’anticolonialismo olivettiano sulle pagine


di «Comunita», 1954-1964

Il presente contributo intende offrire una riflessione sull’anticolonialismo di Adriano


Olivetti, del Movimento Comunità e degli intellettuali che fra anni Cinquanta e Sessanta
vi gravitavano attorno. Attraverso un’analisi dei numeri della rivista politico-culturale
«Comunità» usciti tra il 1954 e il 1964, negli anni cruciali che vedono il dispiegarsi del
processo di decolonizzazione su scala globale e la crescita del movimento per i diritti
civili negli Stati Uniti, è possibile mettere in luce le implicazioni dell’anticolonialismo
‘comunitario’ olivettiano nonché la sua evoluzione, anche in seguito alla morte di
Adriano nel 1960. L’ipotesi di fondo è che, sotto l’aperto anticolonialismo che emerge
dalle pagine della rivista, giacesse anche da un lato l’interesse per i paesi del Terzo Mondo
come modelli di una ‘terza via’ allo sviluppo tra capitalismo di stampo americano e
socialismo sovietico e, dall’altro, un riconoscimento soltanto parziale del carattere
potenzialmente coloniale dell’industrializzazione eterodiretta del Sud Italia e delle aree
‘sottosviluppate’.

This article aims to offer a reflection on the anticolonialism promoted by Adriano


Olivetti, by the Movimento Comunità and by those intellectuals who gravitated around
them between the 1950s and 1960s. The analysis of the issues of the journal Comunità
appeared between 1954 and 1964 – in the crucial years which saw a boost in the
decolonisation process and a growth of the Civil Rights Movement in the US – allows
for an understanding of Olivetti’s ‘communitarian’ anticolonialism and its implications
and evolution, before and after the death of Adriano in 1960. The central hypothesis
at the basis of this article is that the overt anticolonialism which transpires from the
pages of Comunità was also driven by a strategic interest in third-world countries as
models of a ‘third way’ to development, halfway between US-style capitalism and soviet
socialism. In addition, what emerges is an only partial recognition of the potentially
colonial character of the top-down controlled industrialisation of Southern Italy and
other ‘underdeveloped’ areas.

Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini, Magistero scientifico e impegno


politico in Luciano Gallino

Luciano Gallino entrò all’Olivetti di Ivrea giovanissimo su invito diretto del


fondatore, Adriano, e si formò in quella Comunità eclettica e straordinaria, integrando
conoscenze scientifiche, principi tecnici e convinzioni sociopolitiche che mantenne poi
nel corso della sua intera carriera. Fra i principali temi trattati da Gallino – di grande
attualità – vi sono quelli della democrazia e del lavoro in rapporto alle tecnologie e
alla loro co-evoluzione assieme alle ideologie che le hanno accompagnate e sostenute,
oppure osteggiate.
Abstract dei saggi 387

Luciano Gallino entered the Olivetti in young age, directly invited by its founder,
Adriano, at the plants in Ivrea where he grew and learned within that eclectic and
extraordinary Community, integrating sociological and scientific knowledge, technical
principles, and ideals of politics and economics, which he maintained almost unaltered
all along his career. Among the issues scrutinized by Gallino – yet deserving interest
for present and future times – are those about democracy and work in connection to
technologies and their co-evolution along with the ideologies that accompanied and
sustained, or opposed, them.

Cesare Pomarici, L’altro volto dell’inconscio: tracce della psicologia analitica nel pen-
siero e nella prassi di Adriano Olivetti

Nel segno del similare ruolo affidato all’inconscio e alla disciplina astrologica, il
presente studio propone un’ipotesi di raccordo fra il pensiero industriale-umanistico
di Adriano Olivetti e la psicologia analitica di matrice junghiana. Dalla pubblicazione
olivettiana di alcuni testi cardine dello psico-analista svizzero al tradizionale interesse
degli Olivetti per lo studio degli astri, giungendo infine alla mediazione storica
rappresentata dal rapporto terapeutico fra Adriano e Ernst Bernhard, la ricerca in
questione mira ad ampliare la comprensione dell’orizzonte teorico del pensiero di
Adriano alla luce, appunto, dell’inedito contributo fornitogli – accanto alla psicoanalisi
freudiana – dall’altra e più recente ‘scuola’ di psicologia del profondo.

By considering the analogous role attributed to the unconscious and to the astrology,
this essay offers an hypothesis of connection between the humanistic and industrial
thought of Adriano Olivetti and the analytical psychology, theorized by C. G. Jung.
Starting from the editing of some of the most important books written by the swiss
analyst and from the traditional interest of part of Olivetti’s family in the study of
stars, and finally coming to the historical mediation played by the therapeutic relation
between Adriano and Ernst Bernhard, this research aims to extend, in a partially new
direction, the understanding of the Adriano’s thought.

Michele Pacifico, “Alta tecnologia e cultura millenaria”. Il contributo di Olivetti allo


sviluppo dell’informatica in Italia

“Alta tecnologia e cultura millenaria” descrive la vicenda dell’iniziativa


imprenditoriale della Ing. C. Olivetti & C. SpA nel campo dei computer, che inizia nel
1949 con la creazione di una società chiamata Olivetti-Bull per commercializzare in
Italia i sistemi meccanografici della francese Compagnie des Machines Bull. Nel 1959
Olivetti conclude un processo di studio e sperimentazione iniziato nel 1954 presentando
al mercato italiano un computer di medie dimensioni chiamato Elea 9003, che ottiene
un buon successo vendendo una quarantina di esemplari nel giro di tre anni. Un nuovo
modello, Elea 6001, orientato ai laboratori di ricerca universitari e alle piccole imprese
esce nel 1962 e ottiene un discreto successo. Olivetti dedica uno sforzo notevole nello
sviluppo delle risorse umane necessarie per ottenere una posizione significativa nel
mercato italiano dei computer. Per complesse ragioni patrimoniali e di mercato Olivetti
esce dal mercato dei grandi computer cedendo nel 1965 la divisione che se ne occupava
388 Abstract dei saggi

alla americana General Electric. Si passano in rassegna le principali ipotesi che sono state
formulate sulle ragioni dell’uscita della Olivetti dal mercato dei grandi computer (libri
di Lorenzo Soria, Luciano Gallino e Marco Pivato) e si considera che l’analisi formulata
da Alfred D. Chandler Jr. nel libro Inventing the Electronic Century sia la spiegazione
più attendibile delle cause dell’insuccesso nel periodo 1960-1970 di tutti i concorrenti
europei della IBM nel mercato dei computer mainframe.

“High technology and millenary culture” describes the events which characterized
the initiatives of the Italian enterprise “Ing. C. Olivetti & C. SpA”, best known as
“Olivetti”, in the Italian market of mainframe computers. In 1949 Olivetti signed an
agreement with the French company Compagnie des Machines Bull, manufacturer of
punched card machines, for distributing their products in Italy through a new Italian
company named Olivetti-Bull. In 1959, after four years of research and development,
Olivetti presented to the Italian market its new mainframe computer, called Elea 9003,
followed in 1961 by a new model called Elea 6001. Both machines obtained good results
in the Italian marked, competing with their counterparts manufactured by IBM (models
1401 and 1620). Olivetti dedicated great efforts to the development of the human
resources needed for promoting its new computers in a national market dominated by
IBM, its main competitor in that field. For complex financial and marketing reasons,
Olivetti in 1965 gave up its business in the market of mainframe computers selling its
computer division to the American company General Electric. A number of hypothesis
have been formulated about the reasons that induced Olivetti to give up its computer
division (the most relevant books are those written by Lorenzo Soria, Luciano Gallino
and Marco Pivato). The analysis made by Alfred D. Chandler Jr. in his book of
2001 Inventing the Electronic Century is considered the most reliable explication of the
probable causes that provoked the failure in the 1960-1970 decade of all the competitors
of IBM in the market of mainframe computers.

Alessandra Cricoria, Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti

Adriano Olivetti non è stato soltanto un imprenditore illuminato; è stato anche


l’ispiratore di un concreto progetto di modernizzazione del Paese. La sua proposta di
comunità rivela un’intuizione e una sensibilità intellettuale fuori dal comune che getta le
basi di una sintesi tra urbs e civitas cioè tra spazio urbano e società. All’origine di questo
progetto culturale che trova un primo riscontro nella nuova città di Ivrea e nel piano
della Valle d’Aosta, c’è l’idea della fabbrica come luogo propulsivo di nuova urbanità,
sintesi della dialettica tra tradizione e modernità. La concatenazione delle attività che
ruotano intorno alla produzione industriale, fa del luogo di lavoro il perno di un cluster
di servizi sociali – la biblioteca, l’asilo nido, la scuola, la mensa, l’ambulatorio. Il luogo
del lavoro diventa cioè, il genius loci della città moderna: non però, una città di grattacieli,
freeways e centri commerciali ma una rete di comuni e borghi distribuiti sul territorio e
collegati tra loro dalle strade, fisicamente, e da uno spirito comunitario, socialmente. Il
saggio ripercorre le tappe salienti del progetto olivettiano e del legame con l’architettura
e l’urbanistica, considerati, a ragione, fattori indispensabili e ineludibili del processo
dell’emancipazione sociale, in una visione del progresso attenta ai contesti spaziali e alle
culture locali.
Abstract dei saggi 389

Adriano Olivetti was not only an enlightened entrepreneur; he was also the
inspiration behind a concrete project to modernise the country. His proposal for
territorial communities reveals an uncommon intuition and intellectual sensitivity
that lays the foundations for a synthesis between urbs, civitas, i.e. between space and
society. At the origin of this cultural project, which is reflected in the new city of Ivrea
and in the Valle d’Aosta plan, is the idea of the industrial building as a driving force
for a new urbanity, a synthesis of the dialectic between tradition and modernity. The
network of activities linked to industrial production makes the workplace the pivot
of a cluster of services - library, nursery, school, cafeteria, doctor’s office. In other
words, the workplace becomes the genius loci of the modern city: not, however, a city of
skyscrapers, freeways and shopping centres, but a network of municipalities and villages
spread across the territory and connected by roads, physically, and by a community
spirit, socially. The essay retraces the main features of Olivetti’s project and the link with
architecture and town design, viewed as indispensable and unavoidable factors in the
process of social emancipation, in a vision of progress that is attentive to spatial contexts
and local cultures.

Daniele Balicco, Fortini copywriter

Franco Fortini ha lavorato per l’Olivetti dal 1947 al 1963. Poi, solo come consulente
esterno, dal 1965 al 1974. Di fatto, il lavoro di copywriter è stato il suo primo mestiere,
insieme all’insegnamento, la sua attività professionale più importante. Scopo dell’articolo
è quello di indagare il rapporto fra creatività poetica e sistema pubblicitario nella
riflessione teorica e negli scritti letterari di Franco Fortini.

Franco Fortini worked for Olivetti from 1947 to 1963. Then, only as an external
consultant, from 1965 to 1974. In fact, working as a copywriter was his first job,
together with teaching, his most important professional activity. The aim of the article
is to investigate the relationship between poetic creativity and the advertising system in
the theoretical reflection and literary writings of Franco Fortini.
Notizie sui collaboratori
Giuseppe Alessi si è laureato all’Università di Siena nel 2020 con una tesi di laurea
magistrale intitolata «Mutare in libere scelte quello che ancora ci sembra destino». Fortini
e i testi per film. È tra i fondatori della sezione ANPI di Mussomeli e del collettivo fem-
minista intersezionale «Amarena».

Daniele Balicco è ricercatore in Teoria della letteratura presso l’Università di Roma


3. Il suo campo di ricerca si colloca fra teoria critica (estetica, psicoanalisi e marxismo),
letteratura e arte moderna. Fra le sue pubblicazioni: Non parlo a tutti. Franco Fortini in-
tellettuale politico (manifestolibri, 2006); Made in Italy e cultura. Indagine sull’identità
italiana contemporanea (Palumbo 2016); Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria e
capitalismo (Quodlibet 2018); Letteratura e mutazione. Pier Paolo Pasolini, Ernesto de
Martino, Franco Fortini (Artemide 2018). Fa parte del comitato scientifico del «Centro
di Ricerca Franco Fortini» di Siena. Collabora con il quotidiano «il manifesto» e con il
blog Le parole e le cose.

Erica Bellia è dottoranda in italianistica presso l’Università di Cambridge. I suoi


interessi di ricerca includono la letteratura industriale del Novecento, i rapporti fra let-
teratura e lavoro e la ricezione e produzione del pensiero anticolonialista in Italia. Ha
pubblicato contributi in riviste e in volumi su Paolo Volponi, Luciano Bianciardi e Tom-
maso Di Ciaula. Collabora con «Todomodo. Rivista internazionale di studi sciasciani»
come assistente alla direzione editoriale.

René Capovin è direttore del Musil – Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia
e collabora dal 2008 con la Fondazione Micheletti, curandone la progettazione nell’am-
bito scientifico e museologico. Fa parte di EMA – European Museum Academy. Ha
pubblicato articoli su riviste italiane e straniere, trattando soprattutto temi culturali e
politici. Fra le sue ultime pubblicazioni, Chi lo sa? Scienza e intellettuali alla prova del
Covid-19, in «Rivista di antropologia contemporanea» (in stampa).

Barbara Carnevali insegna filosofia all’École des Hautes Études en Sciences Sociales
di Parigi. Si occupa in particolare dei rapporti tra estetica, società e modernità. Ha pub-
blicato Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau (Il Mulino,
Bologna 2004); Le apparenze sociali (Il Mulino, Bologna 2012), uscito in una nuova edi-
zione in lingua inglese ampiamente rivista: Social Appearances. A Philosophy of Display
and Prestige (Columbia University Press, New York 2020) e sta ultimando due saggi di
estetica sociale del design: La linea rossa. Milano e il progetto della modernità, e La gra-
zia delle macchine. Per un’estetica tecnologica, in uscita, rispettivamente, da Feltrinelli e
dal Mulino a fine 2021.

L’ospite ingrato ns 6
394 Notizie sui collaboratori

Francesco Ciafaloni ha lavorato per Eni fino al 1966; poi presso la casa editrice Bo-
ringhieri di Torino. Dal 1970 alla crisi del 1983, è stato redattore della Einaudi. Si è occu-
pato di lavoro e di immigrati con IRES-CGIL. È stato presidente del Comitato «Oltre
il razzismo». Ricicordiamo, fra i suoi scritti, I diritti degli altri (minimum fax 1998),
Il destino della classe operaia (Edizioni dell’Asino 2012). Ha collaborato con le riviste
«Quaderni piacentini», «Linea d’ombra», «Lo straniero». Collabora con le redazioni di
«Una città», «Gli Asini», «L’ospite ingrato».

Alessandra Criconia professore associato, insegna alla Facoltà di Architettura presso


l’Università la Sapienza di Roma. Si occupa di architettura e città – con particolare in-
teresse per le trasformazioni dello spazio pubblico, per le infrastrutture ambientali, per
l’edificio ibrido – e di studi critici di figure della modernità. Tra le pubblicazioni: La
città per tutti (Donzelli 2019); La stazione della metropolitana propulsore di urbanità
diffusa (ArE 2018, con G. Bianchi); Lina Bo Bardi un’architetta romana in Brasile
(FrancoAngeli 2017).

Enzo Ferrara è ricercatore presso l’Istituto Nazionale di Ricerca Metrologica –


INRIM, presidente del Centro Studi Sereno Regis di Torino, direttore di redazione di
«Medicina Democratica»; collabora, sui temi dell’educazione, della scienza, della salute
e dell’ambiente con le riviste «Gli asini», «Una Città», «Altronovecento»; è nella dire-
zione aggiunta della rivista «Epidemiologia e Prevenzione» e delle Edizioni dell’Asino.

Tommaso Morawski ha studiato filosofia tra Berlino e Roma, dove nel 2017 ha conse-
guito il dottorato di ricerca in Filosofia e Storia della Filosofia presso la Sapienza – Uni-
versità di Roma. Dopo essere stato borsista alla Bibliotheca Hertziana – Max Plank Insti-
tut für Kunstgeschichte, dal 2020 è ricercatore post-doc presso la Bauhaus-Universität di
Weimar. Membro della direzione editoriale di «Pólemos. Materiali di Filosofia e Critica
sociale», dal 2013 collabora con la CiEG (Cattedra internazionale Emilio Garroni).

Michele Pacifico, laureato in filosofia all’Università degli Studi di Milano nel 1960,
dove è stato assistente volontario alla cattedra di Filosofia Morale, dal 1960 al 1974. Di-
ploma all’International Teachers Program della Harvard Business School nel 1971. Diri-
gente industriale dal 1960 al 1987 presso Olivetti, Fiat, Motta, GEPI e Pirelli. Ha scritto
54 libri di argomento informatico fra il 1985 e il 2020, pubblicati con diversi pseudonimi
da Mondadori, McGraw-Hill, Hoepli, Feltrinelli e Apogeo.

Fulvio Perini ha fatto parte della segreteria regionale della Cgil del Piemonte dal 1978 al
1988. Dal 1999 al 2015 ha svolto attività di collaborazione con la parte lavoratori, ACTRAV,
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Dal 2001 è stato Consigliere del Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro (VII e VIII Consiliatura). Nel 2006 è entrato nel
Comitato scientifico dell’ISPESL. Ha collaborato come esperto del Ministero della salute
alla stesura del Decreto Legislativo 81/2008.

Cesare Pomarici è dottorando di ricerca in Italianistica presso le Università di


Losanna e di Bologna, con una tesi sul rapporto fra la letteratura greca e l’opera di Paolo
Volponi. È tra i fondatori del collettivo artistico Olvidados.
Notizie sui collaboratori 395

Alberto Saibene, storico della cultura italiana del Novecento, lavora nell’editoria.
Per le Edizioni di Comunità ha curato gli scritti di Adriano Olivetti (Il mondo che nasce,
2013; Città dell’uomo, 2015) e ha pubblicato di L’Italia di Adriano Olivetti (2017). Ha
curato mostre sulla Olivetti in Italia e all’estero.

Carlo Tombola ha insegnato nei licei milanesi. Nel campo della geografia urbana e
dell’economia dei trasporti ha pubblicato: Grandi città e aree metropolitane in Italia
(con R. Mainardi, 1982), Il sistema mondiale dei trasporti (con S. Finardi, 1995), Le
strade delle armi (2002). Presso la Fondazione L. Micheletti ha curato le Lezioni sul
revisionismo storico (1999), Ventisei lezioni di storia del Novecento (2016) e L’ultima
rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto (con P. P. Poggio, 2019). È nella redazione
della rivista «Officina Primo Maggio».

Emanuele Zinato insegna Letteratura italiana contemporanea all’Università degli


Studi di Padova. Ha curato l’opera completa degli scritti di Paolo Volponi: Poesie 1947-
1994 (Einaudi, 2001) e Romanzi e prose (Einaudi, 2002-2003). Fra le sue ultime pub-
blicazioni: un saggio sulla retorica dei testi scientifici italiani settecenteschi (Il vero in
maschera. Dialogismi galileiani, Liguori, 2003); un testo sulla critica letteraria italiana
(Le idee e le forme. La critica italiana dal 1900 ai nostri giorni, Carocci, 2010); uno
studio sulla relazione fra letteratura e modernizzazione in alcuni scrittori del secondo
Novecento italiano: Fortini, Calvino, Morante, Sciascia (Letteratura come storiografia?
Mappe e figure della mutazione italiana, Quodlibet, 2015).

Rodolfo Zucco è nato a Fonzaso (BL) nel 1966; vive e insegna a Udine. Dopo Bubu-
luz (Milano, edizioni del verri, 2017) ha pubblicato le sequenze Vecchia talpa («Versodo-
ve. Rivista di letteratura», 20, 2018), Il Vallisnieri a Seuza («Zeta», gennaio-aprile 2019),
Dei sogni («La battana», gennaio-marzo 2021).
L’ospite ingrato
www.ospiteingrato.org

i 1998 Intellettuali e società


ii 1999 Memoria
iii 2000 Globalizzazione e identità
iv-v 2001-2002 La traduzione
vi 1 2003 Conflitto / lavoro
vi 2 2003 Conflitto / guerra / media
vii 1 2004 La responsabilità della critica
vii 2 2004 Editoria e industria culturale
viii 1 2005 Società / conoscenza / educazione
viii 2 2005 Altre letterature 1
ix 1 2006 Altre letterature 2
ix 2 2006 Il disagio nella civiltà cristiana

nuova serie
1 2008 Verità relativismo relatività
2 2011 Il volto dell’altro. Intellettuali ebrei e cultura europea del Novecento
3 2013 Walter Benjamin. Testi e commenti
4 2017 L’esperienza della musica
5 2019 «Per voci interposte». Fortini e la traduzione
6 2021 Umanesimo e tecnologia. Il laboratorio Olivetti
Finito di stampare nel mese di ottobre 2021
presso Print on web s.r.l., Isola del Liri (fr)
per conto delle edizioni Quodlibet

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