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Quodlibet
L’ospite ingrato
nuova serie
6
Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filologia e Critica delle Letterature Antiche
e Moderne (DFCLAM) dell’Università di Siena
direttore responsabile
Carlo Fini
redazione «l’ospite ingrato» on line
Luca Baranelli, Valeria Cavalloro, Ludovica del Castillo, Francesco Diaco, Gabriele Fichera, Damiano
Frasca, Marco Gatto, Francesca Ippoliti, Luca Lenzini, Elisabetta Nencini, Lorenzo Pallini, Sabatino
Peluso, Alessandra Reccia, Roberto Russo, Tiziano Toracca
sede
Biblioteca Umanistica (Università di Siena), Via Fieravecchia 19, 53100 Siena
www.ospiteingrato.unisi.it
9 Daniele Balicco
Introduzione
Umanesimo
e tecnologia
17 Barbara Carnevali
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti
39 René Capovin
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk
47 Carlo Tombola
Dalla fabbrica alla Comunità. Brevi note sull’organizzazione dello
spazio sociale in Adriano Olivetti
57 Tommaso Morawski
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane»
67 Emanuele Zinato
L’Olivetti come figura
79 Giuseppe Alessi
L’uomo e la macchina. Fortini all’Olivetti
89 Erica Bellia
Colonizzati o colonizzatori? L’anticolonialismo olivettiano sulle
pagine di «Comunità», 1954-1964
L’ospite ingrato ns 6
6 Sommario
Fortini
copywriter
147 Daniele Balicco
Fortini copywriter
L’Ospite
Archivio
a Giorgio Soavi (1950), p. 237; Franco Fortini a Giorgio Soavi (1950), p. 238;
Franco Fortini a Giovanni Enriques (1950), p. 240; Franco Fortini ad Adria-
no Olivetti (1950), p. 246; Geno Pampaloni a Franco Fortini (1954), p. 248;
Franco Fortini a Mario Alicata (1955), p. 252; Franco Fortini a Raniero Pan-
zieri (1955), p. 253; Geno Pampaloni a Franco Fortini (1956), p. 254; Franco
Fortini a Geno Pampaloni (1956), p. 255; Franco Fortini a Franco Momi-
gliano (1957), p. 257; Franco Fortini a Cesare Musatti (1958), p. 258; Geno
Pampaloni a Franco Fortini (1963), p. 261; Franco Fortini a Geno Pampaloni
(1963), p. 263
Introduzione
I rapporti fra Olivetti e Apple costituiscono uno dei capitoli più evocativi e sug-
gestivi della storia dell’informatica internazionale: nonostante la diversità morfologica,
derivante dall’appartenenza olivettiana alla storia del Novecento fordista europeo a cui
si contrappone invece la più recente radice americana Apple […], la forza creatrice e la
spinta metamorfica che hanno idealmente entrambe le società hanno fornito più di un
punto di contatto simbolico3.
1
Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di Paolo Ceri,
Einaudi, Torino 2014, p. 4.
2
Il saggio più noto di radicale critica politica delle strategie aziendali Olivetti resta il lungo studio
di Romano Alquati, pubblicato sul secondo e terzo volume di «Quaderni rossi»: Romano Alquati,
Composizione del capitale e forza lavoro all’Olivetti, «Quaderni rossi», 2, 1962, pp. 63-98; «Quaderni
rossi», 3, 1963, pp. 119-185.
3
Paolo Bricco, L’Olivetti dell’ingegnere, il Mulino, Bologna 2014, p. 170. I contatti fra Apple e
Olivetti in realtà non sono solo simbolici: nel 1978 Carlo De Benedetti va a Cupertino per conoscere
di persona Steve Jobs e Steve Wozniak. In quell’occasione, viene proposto all’Olivetti di comprare il
20% di Apple, ma De Benedetti rifiuta, perdendo così l’occasione storica di rilanciare la casa italiana.
L’ospite ingrato ns 6
10 Daniele Balicco
su alcuni dettagli formali: nel mondo Olivetti, come poi in quello Apple, la
forma dei prodotti bandisce la squadratura degli angoli, che sono sempre arro-
tondati4. Così, le linee delle macchine diventano morbide, sinuose, e il mondo
algido del calcolo elettronico, altrove per lo più in bianco e nero, finalmente si
colora. Non stupisce che, benché in anni diversi, questi oggetti di alta tecnolo-
gia comunichino solidità, ma soprattutto leggerezza ed eleganza; a distanza di
mezzo secolo, gli uni dagli altri, possono essere osservati come una rara mani-
festazione di quel paradossale «classicismo del nuovo» che la tarda modernità,
con le sue dominanti culturali per lo più a tinta surrealista, renderà minoritario5.
Eppure, se fra Olivetti ed Apple i punti di contatto non mancano, non man-
cano neppure le divergenze. E si potrebbe partire proprio dall’uso dell’estetica,
che appare simile negli effetti ottenuti nel design dell’innovazione di prodot-
to – come nella sua commercializzazione – solo se accettiamo il punto di vista
esclusivo del consumatore sovrano, quello oggi culturalmente dominante. Un
confronto fra i due sistemi produttivi potrebbe mostrare, invece, come la comu-
ne attenzione alla forma sensibile assuma nelle due imprese un significato quasi
opposto. Partiamo dall’Olivetti. Nel progetto di Adriano la dimensione estetica
è coscientemente proposta come uno degli strumenti capaci di controbilanciare
quello «sradicamento involontario» – l’espressione è di Simone Weil, le cui ope-
re Adriano fa tradurre a Fortini già nel 1951 – che l’organizzazione del lavoro
fordista genera, non solo nella psiche dei lavoratori che direttamente patiscono
la catena di montaggio, ma, più in generale, nella cultura complessiva della so-
cietà moderna. Sta qui la ragione per cui, a partire da Ivrea, nel suo progetto
industriale l’attenzione alla forma estetica agisce a tutto campo: dalle macchine,
all’architettura delle officine; dall’organizzazione della vita dei lavoratori (case,
asili, scuole, biblioteche, colonie) alla pianificazione urbanistica del territorio.
Ecco perché è difficile considerare Olivetti come un semplice, per quanto ge-
niale, imprenditore: perché il livello a cui tende il suo progetto complessivo è
quello dell’autogoverno politico. Scrisse perfino un progetto di riforma costi-
tuzionale dello Stato: L’ordine politico delle comunità6. E sarebbe interessante
sapere se siano esistiti, nella storia del Novecento, altri imprenditori che si siano
confrontati, con la medesima ambizione teorica, con il problema della crisi della
democrazia liberale, proponendone una riforma così articolata7. Il progetto di
Adriano, di cui Ivrea è il primo esperimento, è quello di una confederazione di
autonomie locali, tecnologicamente avanzate e in grado, attraverso un comples-
4
Sul significato estetico delle linee arrotondate nel design italiano, si veda almeno: Walter Ballmer,
Franco Fortini, Olivetti: carattere e identità, Olivetti, Ivrea 1971; Barbara Carnevali, La ligne rouge:
le design come esthétique sociale, «Lettre de l’InSHS», mai 2020, pp. 27-29.
5
Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985, Einaudi, Torino 1986.
6
Adriano Olivetti, L’ordine politico delle comunità (1946), Edizioni di Comunità, 2014.
7
Per una ricostruzione complessiva del pensiero politico di Adriano Olivetti, si veda: Davide
Cadeddu, Adriano Olivetti politico, Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 2009.
Introduzione 11
8
«Alle questioni che il realizzarsi della civiltà industriale imponeva, alla domanda di come fare ad
essere tecnicamente progrediti senza per questo essere interiormente imbarbariti, la via olivettiana af-
fermava la coincidenza tra interesse morale e interesse materiale» (Beniamino de Liguori, Rimozione
e riscatto di Adriano Olivetti, «l’ombra», n.s. IX, 2018, pp. 32-33).
9
Il reportage di Charles Duhigg e David Barboza dalla Foxconn di Shenzen è stato pubblicato il 26
gennaio 2012 sul «New York Times» e si può leggere a questo link: https://www.nytimes.com/2012/01/26/
business/ieconomy-apples-ipad-and-the-human-costs-for-workers-in-china.html. Simile, nella denuncia
delle estreme condizioni di lavoro e di vita degli operai, il reportage di Dejiang Zeng sull’officina Chanshuo
di Shanghai: https://www.carnegiecouncil.org/studio/multimedia/20161016-inside-an-apple-iphone-fac-
tory-in-china. Per una rappresentazione del lavoro operaio oggi in Cina, si veda anche il romanzo di Leslie
Chang: Leslie T. Chang, Factory girls: from Village to City in a Changing China, Spiegel & Grau, New
York 2009; trad. it. di Mariagrazia Gini, Operaie, Adelphi, Torino 2010.
10
Jenny Chan, Ngai Pun, Mark Selden, Apple, Foxconn, and China’s New Working Class in
Achieving Workers’ Rights in the Global Economy, edited by Nelson Lichtenstein, Richard Appel-
baum, Cornell University Press, Ithaca (NY) 2017, pp. 173-189.
12 Daniele Balicco
decenni ha lasciata disattesa – ovunque, non solo in Cina; e a cui, invece, l’Olivetti
di Adriano ha cercato ripetutamente soluzioni. La domanda è semplice: è ancora
realizzabile uno sviluppo tecnologico capace di progresso sostanziale, vale a dire
di uno sviluppo che sia, contemporaneamente, sostenibile e democratico, perché
cosciente dei propri limiti, e, per questa ragione, dotato di una postura autori-
flessiva? Inoltre: si può ancora immaginare un progresso scientifico fondato sul
dialogo fra scienze pure e cultura umanistica, unica strada per sperimentare un
equilibrio fra sviluppo e territorio, fra lavoro e democrazia, fra antropologia e si-
stema delle macchine? Lo studio del laboratorio Olivetti è importante perché of-
fre la possibilità di ricostruire la storia di alcune soluzioni pratiche, sperimentate
in quegli anni, ai problemi che, tuttora, queste domande lasciano invece sospesi.
La prima parte del volume è per questa ragione dedicata a un’indagine multi-
disciplinare sul mondo Olivetti. Il primo saggio è di Barbara Carnevali e ricostru-
isce la genealogia della modernità «gentile» del progetto estetico olivettiano, la sua
ricerca di un equilibrio fra razionalità e «grazia», in particolare attraverso lo studio
della riflessione teorica di uno dei suoi primi ispiratori: Edoardo Persico, proget-
tista geniale, critico d’arte, gallerista, scrittore, maestro di Marcello Nizzoli e fra
i primi collaboratori dell’Ufficio Sviluppo e Pubblicità. René Capovin imposta
invece un confronto fra l’idea di comunità concreta in Olivetti – come tentativo
di superamento della forma Stato moderna nell’autogoverno spaziale di una co-
munità territorialmente circoscritta – con la teoria estetico-sociale del filosofo te-
desco Peter Sloterdijk. Il terzo saggio è di Carlo Tombola e si concentra sul modo
attraverso cui Adriano ha provato a ripensare la dimensione politica come decen-
tramento di poteri, partendo da una nuova organizzazione del lavoro in fabbrica,
attraverso la lezione di Ford e soprattutto di Walther Rathenau, per poi arrivare
all’uso del piano urbanistico come strumento politico decisivo dell’organizzazio-
ne dello spazio sociale delle comunità. Segue il saggio di Tommaso Morawski che
riflette sul ruolo che design e architettura occupano nel mondo delle «bellezze
industriali» Olivetti, a partire da una celebre intervista televisiva RAI datata 1960:
è l’ultima intervista fatta ad Adriano, prima di morire. L’autore è un ancora gio-
vanissimo Emilio Garroni. Con il saggio di Emanuele Zinato entriamo invece nel
laboratorio della rappresentazione letteraria di Paolo Volponi, romanziere, poeta,
saggista, nonché direttore generale del personale Olivetti. Zinato mostra, in que-
sto studio, come la prolungata esperienza di Volponi quale dirigente industriale
sia alla base della trasfigurazione letteraria di romanzi come Memoriale, La mac-
china mondiale, Le mosche del capitale, e della sceneggiatura Annibale Rama; e
come spesso le «figure di invenzione» letteraria di questi testi entrino in conflitto
con l’ideologia pubblica di Volponi, manager integrato nel progetto di Comunità.
Il sesto saggio è di Giuseppe Alessi ed è uno studio su due cortometraggi aziendali
Olivetti scritti da Franco Fortini: il primo si intitola Incontro con Olivetti (1950)
ed è un reportage sulla vita operaia ad Ivrea, descritta ancora come un microco-
smo industriale capace di tenere in un equilibrio quasi simbiotico fabbrica, natura
Introduzione 13
breve saggio datato 1961 e pubblicato su una rivista di settore: «L’ufficio mo-
derno». Si intitola Del copywriting come genere letterario ed è una riflessione
teorica sulla forma estetica del messaggio pubblicitario, sulla sua derivazione
dalla tradizione epigrammatica e sul nesso che lo imparenta, anche solo per
vincoli di committenza, alla postura celebrativa premoderna della poesia corti-
giana. Seguono: la trascrizione di un’intervista radiofonica per Radio Tre, dedi-
cata alla sua esperienza lavorativa all’Olivetti, registrata nel marzo 1988 insieme
a Renzo Zorzi; e due articoli di intellettuali suoi colleghi ad Ivrea e a Milano:
Giovanni Giudici e Sergio Bologna. La sezione comprende anche un saggio
teorico di Daniele Balicco, che ricostruisce il profilo complessivo del lavoro
di Fortini copywriter nel contesto pubblicitario dell’immediato dopoguerra,
posizionandolo nello scontro fra stile industriale italiano e nuova «scienza»
pubblicitaria statunitense. La seconda parte fortiniana di questo volume – che
segue la sezione Ospite dove sono raccolte nove poesie di Rodolfo Zucco –
è invece dedicata alla pubblicazione di materiali d’archivio e comprende: due
testi poetici (il primo inedito), 19 lettere e ben 29 testi, fra cui saggi, articoli,
materiali di lavoro inediti e prefazioni.
Fra le lettere di Fortini, il lettore ne troverà anche una ormai famosa: quel-
la inviata ad Adriano Olivetti convalescente, il 16 novembre nel 1950. La let-
tera era accompagnata da un regalo: un frisone in gabbia, dal mantello grigio,
«color novembre», a cui dar la libertà:
Ringraziamenti
Sentieri interrotti
L’ospite ingrato ns 6
18 Barbara Carnevali
di una presunta essenza originaria, fa torto alla realtà storica: non rispetta
né la poetica né l’opera dei grandi maestri, nessuno dei quali, da Gropius
a Mies fino al più criticato, Le Corbusier, merita questo processo somma-
rio; appiattisce la pluralità di correnti riconducibili al Movimento moderno,
spesso confliggenti se non incompatibili tra loro, e cancella le contraddizioni
e la complessità che fanno la ricchezza delle singole opere1, come se ogni
singolo progetto moderno volesse dire sempre e solo una cosa, la stessa cosa
di tutti gli altri. È il limite di molti discorsi «anti», motivati dal militanti-
smo: il fantoccio del nemico serve a definire reattivamente i propri obiettivi,
a istituire per contrasto la propria differenza. Proprio la loro mancanza di
carità ermeneutica, d’altra parte, costituisce il lato politicamente interessante
dei «movimenti»: dobbiamo leggere un manifesto estetico innanzitutto come
una denuncia, un atto di accusa contro i fallimenti di ciò che lo ha preceduto.
E in questa prospettiva non possiamo negare che i problemi sollevati ormai
da più di mezzo secolo siano ancora drammaticamente reali. Le forme ano-
nime e aggressive dell’International Style, che dominano i distretti finanzia-
ri delle nostre metropoli, offrono una prova intuitiva di cosa si intenda per
funzionalismo alleato della burocrazia e del capitale, mentre per respirare il
sentimento di alienazione trasmesso da una modernità senz’anima basta pas-
seggiare per la periferia di Torino o nel vecchio centro direzionale di Milano.
Ora che anche il postmoderno ha esaurito il suo potenziale sovversivo,
tuttavia, è necessario rivolgersi nuovamente alla storia e ripercorrere le vicen-
de del modernismo in una prospettiva meno unilaterale. A essere entrato in
crisi, infatti, è solo un certo modello di modernità, rappresentato da una del-
le sue tante possibili declinazioni estetiche, che solo per ragioni contingenti
ha potuto concretizzarsi e imporsi come versione egemonica. Nella storia
dell’architettura e del design del ventesimo secolo si snodano percorsi alter-
nativi che meriterebbero di essere riscoperti ed esplorati. Esiste in particolare
un modernismo razionalista ma non funzionalista, nutrito della «speranza
progettuale», senza la quale non può darsi discorso filosofico e politico della
modernità2, che è l’antitesi della volontà di potenza e dell’imperialismo di una
ragione ridotta in chiave strumentale. È un modernismo gentile tanto quanto
l’altro è prepotente, ispirato da un desiderio di conciliazione e armonia invece
che di conquista e omologazione, il cui segreto estetico consiste in un gesto
non in prendere ma in levare. Propongo di definirlo all’insegna della catego-
ria – al contempo estetica, sociale e teologica – della grazia: esso concepisce la
1
Cfr. Robert Venturi in Complexity and Contradiction in Architecture (1966), che prima di am-
monire gli architetti a «imparare da Las Vegas» aveva cercato la cura del fallimento modernista nel
recupero della complessità dell’opera.
2
Si veda Tomás Maldonado, La speranza progettuale: ambiente e società, Einaudi, Torino 1971; e,
in dialogo con Habermas, Il futuro della modernità, Feltrinelli, Milano 1987.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 19
3
In un libro a cui sto lavorando suggerisco di abbandonare il razionalismo funzionalista per
tornare ai principi di armonia classica che hanno alimentato la poetica del Movimento Moderno,
reinterpretandoli alla luce dei concetti di gioco, ibridazione e – valore che riassume i primi due – gra-
zia. Attingendo dalle tre tradizioni di pensiero – estetica, sociale e teologica – che hanno pensato
il concetto, intendo per grazia un valore decisamente relazionale, che supera la concezione di una
sovranità progettuale e protegge l’indisponibilità delle cose, dei corpi, del mondo. Equilibrio pre-
cario che si può trovare nelle forme espressive che possono comporre relazioni tra elementi diversi
ma anche conflittuali, la grazia armonizza, lega, favorisce il gioco. Ma le sue forme compositive non
devono essere concepite come conciliazioni che superano definitivamente un contrasto o che tanto-
meno cercano di camuffarlo. Sono l’espressione di una soluzione di compromesso temporaneo che
si presta all’espressione di richieste contraddittorie – un luogo ideale per il ritorno del represso e la
compensazione estetica che, nella mia visione, risponde al disagio del processo di modernizzazione.
Si veda La grazia delle macchine. Per un’estetica tecnologica, conferenza per il FestivalFilosofia 2020,
in rielaborazione per il Mulino.
4
Sulla specificità del caso italiano si vedano: Andrea Branzi, Introduzione al design italiano.
Una modernità incompleta, Baldini e Castoldi, Milano 1999; e Id., Modernità debole e diffusa, Ski-
ra, Ginevra-Milano 2006. Con un’attenzione particolare al made in Italy, si vedano anche Daniele
Balicco, Made in Italy e cultura: indagine sull’identità italiana contemporanea, Palumbo, Palermo
2016; e Id., Modernità Godibile, in Antonio Montefusco (a cura di), Italia senza nazione, Quodlibet,
Macerata 2019, pp. 145-158.
5
Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985, Einaudi, Torino 1986, pp. 47 sgg.
6
Caterina Toschi, L’idioma Olivetti 1952-1979, Quodlibet, Macerata 2018, p. 15. Sullo Stile Oli-
vetti si veda anche Carlo Vinti, Gli anni dello stile industriale 1948-1965, Marsilio, Venezia 2007.
20 Barbara Carnevali
Per imboccare il sentiero italiano possiamo volgerci a uno dei suoi padri
spirituali, il critico d’arte e d’architettura, gallerista, scrittore e progettista
Edoardo Persico (1900-1936). Affascinante figura di outsider aureolato di
mistero e bohème, Persico è stato il maestro della generazione di architetti
razionalisti che, formatisi sotto il regime, rifiutarono la sua estetica ufficiale7.
Nel suo pensiero si fondevano, in una combinazione senza equivalenti, l’ispi-
razione religiosa cattolica, la fede nel ruolo salvifico dell’arte e un impegno
politico che, dopo averlo avvicinato a Piero Gobetti, lo porterà a combattere
il fascismo sempre più apertamente. Tanto i suoi articoli sulla rivista «Casa-
bella», di cui fu anche grafico e direttore insieme a Giuseppe Pagano dal 1932
fino alla morte, quanto i suoi originali allestimenti espositivi hanno contribu-
ito a far conoscere i valori del Movimento moderno nel nostro paese, aprendo
la cultura italiana a una dimensione europea, o per la precisione «europei-
sta» – come amava esprimersi il critico d’arte. Questo insegnamento è stato
decisivo per plasmare una variante italiana del modernismo, alternativa non
solo alla retorica monumentale e imperiale del fascismo ma anche al modello
futurista – movimento rispetto a cui Persico non ha mai nascosto una forte
antipatia. Quella di Persico è una modernità affermativa ma avversa a ogni
manifestazione di forza e di potenza, attraversata da un senso dell’ordine ma
anche di fragilità, di sospensione e di sacro: la sua razionalità impregnata di
rispetto dei limiti e della trascendenza illustra in modo ideale il valore etico,
estetico e sociale che definisco grazia8.
Tra Persico e l’esperienza Olivetti esiste una linea diretta che passa per
l’apertura nel 1931, a Milano, dell’Ufficio Sviluppo e Pubblicità, punto di
irradiazione della futura comunicazione olivettiana a cui Persico fu invitato
a partecipare. Due mediazioni personali sono poi decisive. In primo luogo,
Marcello Nizzoli, che ha collaborato con Persico a una pubblicità Olivetti,
e soprattutto a tre allestimenti che hanno fatto epoca nella storia del design
espositivo – la Sala delle Medaglie d’Oro all’Esposizione aeronautica italiana
(1934), il negozio Parker a Milano (1934) e il Salone d’onore alla VI Triennale
di Milano (1936, con Giancarlo Palanti): tutti esempi che, nella seconda metà
degli anni Cinquanta, hanno fortemente ispirato la concezione dei negozi
Olivetti. L’altra figura mediatrice è quella di Leonardo Sinisgalli, direttore
dell’Ufficio Tecnico Pubblicità dal 1936, che sul ruolo di guida spirituale
esercitato da Persico avrebbe detto: «Noi ci consideravamo tutti suoi disce-
7
Per questo ritratto si veda soprattutto Michele Dantini, Arte e politica in Italia. Tra fascismo e
Repubblica, Donzelli, Roma 2018. Il cap. I è interamente dedicato a Persico.
8
Sulla dimensione sacra dell’opera di Persico si veda sempre M. Dantini, Arte e politica in Italia
cit.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 21
La sedia di metallo disegnata dall’architetto Mies van der Rohe è forse il simbolo più
vivo dello sforzo che il gusto moderno ha compiuto, fino ad oggi, verso la creazione di for-
me di bellezza nuova. […]. La sedia di Van der Rohe, infatti, non è soltanto la trovata di un
artista geniale, o un’espressione di quel gusto della purezza che presiede a tanta parte delle
opere moderne; ma anche il risultato di un meditato progresso che ha origine, per esempio,
nei sedili delle automobili. Il capriccio del decoratore è escluso nettamente da questa feli-
ce invenzione, in cui domina piuttosto la logica del costruttore moderno, che non risolve
soltanto un problema del gusto o della tecnica, ma che è influenzato da molteplici correnti
della vita nuova. Se la sedia di Van der Rohe, nella precisione della linea e nella logica della
struttura, può essere considerata come un esempio di stile attuale, il suo valore intimo è for-
se maggiore. Si consideri questo arredo nel complesso delle forme naturali […]. È evidente
che questa sedia è lo sviluppo infinitamente armonioso di un motivo naturale: il ramo che si
9
Cfr. Alberto Saibene, L’Italia di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2017, pp.
35, 38. La citazione è a p. 40.
10
Angelo d’Orsi, Intellettuali nel Novecento italiano, Einaudi, Torino 2001, pp. 146-253.
11
In questa affinità conta certamente molto la comune vicinanza al personalismo di Jacques Ma-
ritain ed Emmanuel Mounier, un tema che andrebbe approfondito anche nelle sue ricadute estetiche.
12
Edoardo Persico, Profezia dell’architettura, in Id., Notizie della modernità. Tutte le opere, vol.
II (1932-1935), Aragno, Torino 2016, pp. 1017-1035.
22 Barbara Carnevali
13
Edoardo Persico, La sedia di Mies, in Id., Notizie della modernità. Tutte le opere, vol. I (1923-
1931), Aragno, Torino 2016, pp. 441-442, corsivi miei.
14
Si pensi alla distanza che separa questa poetica da quella della mostra curata da Johnson,
Machine Art, 6 marzo-30 aprile 1934, New York, Museum of Modern Art, 1934. Cfr. anche An-
dreas Broeckmann, Machine Art in the Twentieth Century, The MIT Press, Cambridge, MA 2016.
15
Cfr. E. Persico, Profezia dell’architettura cit., dove questo tema è esplicito. Si veda il classico
di Bruno Zevi, Verso un'architettura organica, Einaudi, Torino 1945. Cfr. anche Luigi Prestinenza
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 23
Veduta aerea del complesso industriale Olivetti a Ivrea, patrimonio Unesco (foto tratta dal Dossier di
Candidatura di «Ivrea Città Industriale del XX secolo» nella WHL UNESCO - Fotografie di Maurizio
Gjivovich - Fondazione Guelpa, Igor Nicola - Fondazione Guelpa, Francesca Tapparo).
plarità della sua opera saranno infatti dedicati i brani finali della Profezia
dell’architettura, in cui Persico spiega come la natura di Wright non sia lo
specifico e concreto spazio delle praterie americane ma un’idea metafisica
virtualmente riproducibile nel contesto italiano. Dello stile organico, con
una nota che si rivelerà interessante per lo stile olivettiano, Persico elogia
le soluzioni formali che per creare armonia con l’ambiente privilegiano li-
nee orizzontali e suggestioni provenienti dall’Oriente, soprattutto dall’arte
giapponese e cinese.
L’idea di una modernità che fa dialogare artificio e natura, architettura
e paesaggio senza negare la sua vocazione progettuale, volta al desiderio
di nuovo e alla fiducia nel futuro – il suo essere insomma absolument mo-
derne –, risorgerà dopo la guerra avvalendosi anche del ritorno in auge di
Wright promosso da Bruno Zevi, e rappresenterà una sorta di «filo verde»
dell’estetica Olivetti lungo tutto l’arco temporale che va dagli anni Trenta
fino ai primi anni Settanta: la ritroviamo nelle grandi finestre vetrate degli
stabilimenti di via Jervis progettati da Figini e Pollini (1934-1936) e poi
ripresi dai vari ampliamenti, tutte spalancate sulla luce e sul verde del Cana-
vese; nella fabbrica con vista mare di Pozzuoli progettata da Luigi Cosenza
(1951-1954), le cui forme geometriche vengono addolcite dalle anse dello
stagno e dalle rotondità dei pini marittimi; e ancora, in chiave forse ancora
più emblematica per la sua esplicita allusione morfologica, nell’anfiteatro
di Talponia progettato da Gabetti e Isola (1968-1971) come una delicata
schiena di vertebre appoggiata al dorso della collina. Il fatto che il pendio
sia stato creato artificialmente, sia dunque non una natura originaria ma
un costruito effetto di naturel, non fa che confermare la reciprocità tra le
due dimensioni. Nel rispetto del gusto di Persico, ma anche di quello di
Adriano, che, scomparso ai tempi del progetto, non amava la verticalità dei
grattacieli, gli architetti scelgono un semicerchio orizzontale, che non fende
il paesaggio ma, come suggerisce il soprannome affettuoso, vi sprofonda
dolcemente e mimeticamente come la tana di un animale.
Dalle pagine di Persico si sprigiona una poetica della vita secondo natura,
priva però di ogni connotazione romantica alla Rousseau: lo stile «naturale»
moderno non guarda indietro a un mondo più integro, a un’immediatezza e
a un’autenticità perdute, non tradisce diffidenza per il nuovo né timore per
le trasformazioni sociali e tecnologiche. È, al contrario, un invito a scoprire
la realtà del proprio tempo, a condurre, come in altro saggio scrive Persico
commentando gli interni del «nouveau monde» usciti dall’atelier Le Corbu-
sier, «un’esistenza viva, non melanconica, antisentimentale, dove l’uomo si
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 25
Unità Residenziale Ovest, detta Talponia, di Roberto Gabetti e Aimaro Oreglia d’Isola con Luciano
Re, 1968-1971, Ivrea. Veduta laterale.
sente d’accordo col suo tempo, senza la tragedia romantica del nido in cui si
sfugge ai mali del mondo»16.
A questo primo principio Persico ne affianca subito un altro ugualmente
importante: l’affermazione della funzione simbolica dell’oggetto di design, qui
definito arte decorativa secondo l’uso della critica del tempo, che ancora non
ha adottato il termine tecnico mutuato dall’inglese17. La rivendicazione può
servire da antidoto preventivo alle accuse antimoderne e postmoderne, marcan-
do un’ulteriore distanza dal funzionalismo e affermando a priori, da una pro-
spettiva antropologica e addirittura metafisica, la continuità tra arte e design.
Gli strumenti umani non potranno mai ridursi a puri mezzi utili a perseguire
un certo risultato secondo una strategia il più possibile razionale, economica,
ma racchiudono un surplus espressivo il cui paradigma è la pratica ornamentale
16
Edoardo Persico, All’estremità della modernità: Le Corbusier, in Id., Notizie della modernità
cit., p. 443. Una recente grande mostra parigina ha confermato l’interpretazione di Persico, mostrando
come questa concezione vitalistica della modernità fosse in particolare incentrata sull’arredamento degli
interni e dovuta al contributo di Charlotte Perriand, sulla cui rappresentatività ritornerò tra poco. Cfr.
Le monde nouveau de Charlotte Perriand, Fondation Louis Vuitton, Beaux-Arts Éditions, Paris 2019.
17
Le prime occorrenze dei termini «design» e «designer» sono apparse nella seconda metà degli anni
Cinquanta. Cfr. Gabriella Cartago, Design, Disegno, «Studi di lessicografia Italiana», III, 1981, pp. 167-189.
26 Barbara Carnevali
solo schematicamente il momento espressivo può essere relegato nell’arte e separato dagli
oggetti d’uso […]. Non c’è forse forma pratica che accanto all’attitudine all’uso non abbia
anche un aspetto simbolico; ciò è già stato dimostrato dalla psicanalisi per le immagini
arcaiche dell’inconscio, tra cui figura in primo luogo la casa […]. Grazie all’impulso mi-
metico, il vivente si rende simile a ciò che lo circonda assai prima che gli artisti comincino
a produrre imitazioni; ciò che appare simbolo, quindi ornamento, infine accessorio su-
perfluo, ha origine dalle forme di natura a cui gli uomini si adattano coi loro manufatti18.
18
Theodor W. Adorno, Funzionalismo oggi (1965), in Id., Ohne Leitbild: Parva Aesthetica,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1967; trad. it di Elena Franchetti, Parva Aesthetica, Mimesis, Udine-
Milano 2011, pp. 152-153.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 27
rigibile). Gli esempi di Persico, che pure insiste sulla dimensione inconscia
precisando che «un semplice oggetto può legarsi alla nostra vita più profon-
da, alle nostre aspirazioni più incoscienti», attingono invece all’immagina-
rio diurno dello svago e del tempo libero, culminando nel colpo da maestro
del pittore della vita moderna: la sedia liberty sta a una vecchia zia come
quella di Mies a una sorella in abito da tennis. Gioco, sport, vita all’aper-
to, e dunque anche giovinezza, perché dove l’immaginario della psicanalisi
affonda nel passato arcaico delle relazioni familiari quello del modernismo
scommette sulle nuove generazioni, cui è affidato il compito di rompere
con la coazione a ripetere per costruire il mondo nuovo. Ma, oltre che ai
giovani, come prevede Persico, uno specifico ruolo simbolico è affidato alle
donne: ed è questo ultimo aspetto che ci conduce ancora più direttamente
alla questione della grazia.
Dalle varie definizioni che sono state date della grazia nella storia della
cultura occidentale, emerge una serie di temi comuni19: la grazia è una bellez-
za in movimento, leggiadra, che danza, caratterizzata dalla leggerezza e dallo
sgravio (Kleist la definiva «antigravitazionale»), da linee curve e sinuose. As-
sociata al principio femminile e alla gioventù, la grazia ha due caratteristiche
che la rendono preziosa come valore morale e metafisico: non può essere per-
seguita con la sola volontà ma comporta una dimensione di dono e di gratuità
che testimonia del rapporto con la trascendenza e con l’indisponibile; e ha
una funzione dialettica, essendo capace di conciliare gli opposti: arte e natura,
ragione e sentimento, forma e libertà. (È l’idea espressa, per esempio, dalla
sprezzatura di Castiglione, ma ancora più profondamente da Schiller, che la
riteneva capace di conciliare le antinomie kantiane).
Questa breve fenomenologia della grazia condensa l’idea di bellezza mo-
derna della recensione di Persico. E siccome ogni catena associativa contiene
un invito a proseguirla, il lettore si sente autorizzato ad attingere dall’atlante
della memoria e a richiamare in vita, intorno alla sedia di Mies trasformatasi
in madeleine, la schiera di sportive fanciulle in fiore che popolano il nostro
immaginario modernista: l’Albertine proustiana che sfreccia in bicicletta col
suo berretto da polo, l’anonima golfista di Warburg, Charlotte Perriand che
a seno nudo e con le guance arrossate scala le montagne, ma poi vestita si
adagia mollemente sulla sdraio da lei progettata, Dominique Sanda-Micòl del
Giardino dei Finzi Contini di De Sica – tutte figure di una gioia di vivere al
passo coi tempi e di un’eleganza salubre, allegra, un poco sfrontata, il cui cor-
relativo oggettivo sono gli agili tubolari metallici che dal telaio delle biciclette
sono migrati alla struttura dei mobili moderni:
19
Sulla grazia in una prospettiva di storia delle idee si vedano: Paolo d’Angelo, Ars est celare
artem. Da Aristotele a Duchamp, Quodlibet, Macerata 2014 e Raffaele Milani, I volti della grazia, il
Mulino, Bologna 2009. Sulle origini estetico-teologiche del concetto, Martino Rossi Monti, Il cielo in
terra: la grazia fra teologia ed estetica, Utet, Torino 2008.
28 Barbara Carnevali
Charlotte Perriand posa sulla chaise longue basculante («La Machine à repos») B 306, da lei progettata
per l’atelier Le Corbusier, 1928-1929.
20
Manfredo Tafuri, Storia dell’architettura italiana, 1944-1985 cit., pp. 50-51; Paolo Fossati, Les
transformations de l’image du produit, «L’architecture d’aujourd’hui», 188, 1976, p. 50.
21
Scrive infatti Tafuri a proposito della fabbrica di Pozzuoli: «Nulla di quel dramma [le speranze
frustrate del proletariato raccontate da Ottieri in Donnarumma all’assalto] traspare però dalle terse
volumetrie di Luigi Cosenza, preoccupato di inserire nel golfo di Napoli la sua “fabbrica verde”, edi-
ficio che vuole apparire “antindustriale”, luogo di integrazione tra spazio del lavoro e spazio sociale.
La “grande casa” della catena di montaggio si articola colloquiando con il paesaggio, con la natura e
con laghetti sinuosamente disegnati: la catarsi disalienante si rivela fatto privato dell’architetto e delle
sue forme» (Storia dell’architettura italiana, 1944-1985 cit., p. 50).
22
Cfr. Caterina Cristina Fiorentino, Millesimo di millimetro. I segni del codice visivo Olivetti
1908-1978, il Mulino, Bologna 2014, pp. 241 sgg.
30 Barbara Carnevali
Stati di grazia
Mancano ancora due elementi importanti per tracciare i lineamenti del mo-
dernismo italiano «gentile» che attraverso tracciati incompleti e intermittenti si
è snodato a lato della versione convenzionale del modernismo: la sua capacità
di relazionarsi con la storia, e non solo, come abbiamo visto, con la natura,
e la sua dimensione epifanico-trascendente, che allude a una dimensione ol-
treumana. Anche a questi temi ci introducono le opere di Persico: non solo i
suoi scritti critici ma, ancora più parlanti, gli allestimenti da lui progettati con
Nizzoli, che hanno fornito il più importante modello di riferimento per quel-
l’«arte dell’esporre» che, nel dopoguerra, si trovò investita di una vera e propria
missione etica e politica. Dai musei italiani distrutti dai bombardamenti doveva
infatti cominciare una nuova visione della storia dell’arte, più democratica, più
accessibile nelle forme e più attuale nei contenuti, capace in altre parole di ga-
rantire una mediazione nel rapporto tra modernità e memoria, ricostruzione
e conservazione, particolarmente cruciale per la cultura italiana23. Per quanto
provenienti da una disciplina, il design espositivo, considerata ancillare e mi-
nore, gli allestimenti museali dei BBPR, di Carlo Scarpa e di Franco Albini fi-
23
Cfr. Patricia Falguières, L’arte della mostra. Per un’altra genealogia del white cube, prefazione a
Philippe Duboÿ, Carlo Scarpa, l’arte di esporre, Johan & Levi editore, Monza 2016, pp. 13-50. Su Per-
sico e Scarpa, Orietta Lanzarini, Carlo Scarpa, l'architetto e le arti: Gli anni della Biennale di Venezia,
1948-1972, Marsilio, Venezia 2003. Sull’arte museale come capolavoro del dopoguerra, si veda anche
Manfredo Tafuri, in Storia dell’architettura italiana, 1944-1985 cit., pp. 64 sgg.; e, sul ruolo delle esibi-
zioni private nel mediare tra arte e design di interni, Imma Forino, Private Exhibitions: Galleries, Art
and Interior Design, 1920-1960, in G. Lees-Maffei, K. Fallan (a cura di), Made in Italy: Rethinking a
Century of Italian Design, Bloomsbury, London-New Delhi-New York-Sydney 2013, pp. 163-177.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 31
Pubblicità della prima portatile, la MP1, progettata da Riccardo Levi: inserzione pubblicitaria e affiche
disegnate da Xanti Schawinsky, 1935.
gurano tra i massimi capolavori dell’arte italiana del Novecento. Sono gli stessi
architetti che hanno concepito i più bei negozi Olivetti degli anni Cinquanta, e
nessuno di loro sarebbe pensabile senza il modello di Persico.
Lo stile espositivo di Persico-Nizzoli è contraddistinto da strutture
reticolari, razionali, nette e definite, ma al tempo stesso delicate e leggere;
gli spazi vuoti e la luce ne sono parte integrante, e dialogano con le opere
esposte, creando un effetto-cornice dotato di significatività propria. I pat-
tern sono geometrici e costruttivistici, razionali e rigorosi, memori delle
avanguardie, di Mondrian, del Bauhaus e De Stijl; ma la fragilità delle
strutture (che, non dimentichiamolo, sono allestimenti da «interni»), e la
loro tensione verticale sembra alludere a un oltre, a una provvisorietà,
al rispetto per qualcosa che trascende la finitezza delle opere esposte ma
anche dell’allestimento stesso. Razionalismo e sacro convivono: la dignità
dei valori umani è affermata nel rispetto di ciò che la sovrasta e supera,
comunicando un’idea di ragione dignitosa e modesta, decisamente anti-
tetica alla prepotenza fascista – come appare evidente nel monumento ai
caduti nei campi di concentramento dei BBPR (1946), che del linguaggio
di Persico è esplicitamente debitore.
Dall’eterea vetrina del negozio Parker approdiamo invece agli showroom
Olivetti, e in particolare a quello veneziano progettato da Scarpa, che, negli
anni Trenta, alle prese con i suoi primi progetti, aveva intrecciato con Persico
32 Barbara Carnevali
A sinistra: Pubblicità della Olivetti Studio 45 disegnata da Ettore Sottsass, di Henry Wolf, con Twiggy
(1969). A destra: Brigitte Bardot fotografata a Roma nel 1969 con una Olivetti Valentine.
24
Edoardo Persico, Arredamento a Venezia (luglio 1932), in Id., Notizie dalla modernità. Tutte le
opere, vol. I, cit. Si veda anche Philippe Duboÿ, Carlo Scarpa, l’arte di esporre cit., pp. 64 e 93.
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 33
Negozio Olivetti di Venezia, piazza San Marco, allestimento di Carlo Scarpa (1957-1958).
25
Sulla capacità della modernità olivettiana di farsi storia e passato, si veda Antonella Tarpino,
Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il mondo nuovo, Einaudi, Torino 2020.
36 Barbara Carnevali
Negozio Olivetti di Parigi, rue Saint’Honoré, allestimento di Franco Albini e Franca Helg, inaugu-
rato nel 1959.
tezza e un senso del limite che ha un valore etico e metafisico. Per descrivere
l’ambiance del negozio parigino possiamo lasciare la parola alla recensione di
Franco Fortini da «Notizie Olivetti»:
26
Cfr. Franco Fortini, Rue d’Anjou, foglio dattiloscritto conservato nell’Archivio Olivetti di
Ivrea (DCUS-sec versam (36) 917).
Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti 37
27
Sottolineando la preziosità delle «vere» opere d’arte, Fortini non sembra cogliere fino in fondo
l’audacia della proposta di Albini e dello spirito olivettiano.
28
Albini aveva partecipato all’esposizione dell’Aeronautica con un allestimento che dialogava in
modo esplicito con la Sala delle Medaglie d’Oro di Persico. Sulla leggerezza e la sospensione come
chiavi dello stile di Albini, si vedano: Zero Gravity. Franco Albini, costruire le modernità, a cura di
Federico Bucci e Fulvio Irace, Electa, Milano 2006; Kay Bea Jones, Suspending Modernity: The Archi-
tecture of Franco Albini, Ashgate, New York 2014. Si veda anche I musei e gli allestimenti di Franco
Albini, a cura di Federico Bucci e Augusto Rossari, Electa, Milano 2005
29
Desidero ringraziare Daniele Balicco, Imma Forino e Alberto Saibene per le critiche e i sug-
gerimenti.
René Capovin
Questioni di spazio.
Olivetti attraverso Sloterdijk
1
Il riferimento è a Marco Peroni, Ivrea. Guida alla città di Adriano Olivetti, Roma/Ivrea, Comu-
nità Editrice, 2016. Un libro curato, coinvolto, coinvolgente, bello.
2
I riferimenti sono troppi: giornali, riviste, interviste, si ha a volte l’impressione che tutti siano
con Olivetti, oggi uniti contro la solita, incorreggibile Italia.
L’ospite ingrato ns 6
40 René Capovin
3
Giuseppe Berta, L’Italia delle fabbriche: genealogie ed esperienze dell’industrialismo nel Nove-
cento, il Mulino, Bologna 2001, p. 107. Continua Berta: «L’ambito territoriale può così contenere l’ur-
to della trasformazione di fabbrica neutralizzandone le tensioni più acute e riassorbendo la sua carica
di mutamento, che può fare defluire in una pluralità di funzioni. È il principio col quale il Movimento
Comunità amministra i comuni del Canavese negli anni Cinquanta, mantenendo in equilibrio il cen-
tro industriale di Ivrea con un retroterra agricolo fondamentalmente povero, in modo che fra di essi
si instauri un flusso positivo» (ibid.).
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk 41
4
Sergio Ristuccia, La lezione politica di Adriano Olivetti. Conversazioni su Costruire le istitu-
zioni della democrazia di Sergio Ristuccia, Fondazione Adriano Olivetti – Collana Intangibili, vol. 9,
Roma 2009, pp. 72-73.
5
Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, Bompiani, Milano 1963, pp. 116-117.
42 René Capovin
6
Peter Sloterdijk, Die letze Kugel. Zu einer philosophischen Geschichte der terrestrichen Globali-
sierung, in Id., Sphären II. Globen, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2001; trad. it. L’ultima sfera. Breve
storia filosofica della globalizzazione, Carocci, Roma 2005, p. 17.
7
Ivi, p. 26.
8
Peter Sloterdijk, Sphären III. Schäume, Suhrkamp, Frankfurt am Main 2004; trad. it. Sfere III.
Schiume, Raffaello Cortina Editore, Milano 2015.
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk 43
9
Ivi, p. 509.
10
Ivi, p. 478.
11
Ivi, pp. 480-481.
12
Ivi, p. 598.
44 René Capovin
13
La versione domesticata di questa esigenza assembleare è costituita dai convegni e dai relativi
spazi, una dimensione poco studiata, ma per Sloterdijk paradigmatica del «fare-società» contempo-
raneo.
14
Di tutto questo, il lavoro di Sloterdijk è non di rado un’apologia. Per una critica di questo im-
maginario, cfr. Pier Paolo Poggio, Tecnica e natura: contro il destino della crisi, in Massimo Cappitti,
Mario Pezzella e Pier Paolo Poggio, L’Altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. VI:
Alle frontiere del capitale, Jaca Book-Fondazione Micheletti, Milano 2018.
Questioni di spazio. Olivetti attraverso Sloterdijk 45
storia del Novecento – quegli stessi processi che rendono sensata e rilevante
l’azione di Olivetti.
In particolare, Olivetti e Sloterdijk condividono un medesimo assunto
di base: entrambi si collocano in una fase storica inedita, segnata dall’uscita,
per larghe fette dell’umanità, dall’età della Scarsità. Per questo la comunità
politica olivettiana non può essere pensata separatamente dallo sviluppo eco-
nomico del territorio e va vista non già come forma politica astrattamente
«giusta», ma come un luogo di mediazione concreto all’altezza di una società
del benessere. La penuria è alle spalle e là va lasciata; si tratta di capire come.
Il fordismo è un modo. Come detto, le fabbriche americane visitate da
Adriano Olivetti nel 1925-1926 sono il modello di quell’organizzazione
scientifica del lavoro subito importata nelle fabbriche di Ivrea.
Il fordismo è un modo, ma non è l’unico. Sempre nel 1926 viene messo
in carcere Antonio Gramsci, il futuro autore di: Americanismo e fordismo,
scritti dedicati ai modelli non socialisti di modernizzazione – in primis l’ame-
ricanismo, appunto, ma anche il fascismo e l’«economia nuova» di Rathenau.
Gli spazi politici e architettonici riconducibili all’attività di Olivetti pos-
sono essere pensati come risposte, insieme non individualistiche e non stata-
listiche, a uno sviluppo industriale che crea, oltre al necessario comfort, anche
abbrutimento, disuguaglianze e isolamento.
La sfida è ovviamente altissima e, giudicato a posteriori, il dispiegamento
di forze coordinato da Olivetti appare insieme grandioso e disarmante. Gran-
dioso perché Cappellaro, Ferrarotti, Figini, Fortini, Perotto… Una specie di
Grande Torino della modernizzazione pensata e, almeno in parte, realizzata.
Disarmante perché è sufficiente considerare le resistenze passive e le guerre
dichiarate di cui tale modello fu oggetto, in un Paese come l’Italia (centro del-
la periferia), per intuire l’ampiezza e la profondità delle forze effettivamente
necessarie, a voler radicare davvero un modello di sviluppo alternativo anche
solo nel Canavese. Figuriamoci a Matera15.
Le «schiume» descritte da Sloterdijk delineano una risposta pertinen-
te e radicale ad almeno due dei problemi affrontati da Olivetti nella sua
ricerca di un passaggio attraverso la società dell’abbondanza: individuali-
smo ed esternalizzazione dei residui. La struttura delle «bolle», infatti, è
l’inverso tanto della costituzione politica delle comunità, quanto di ogni
ricerca di equilibrio architettonico e urbanistico tra produzione, vita so-
ciale e territorio.
Anzitutto, le «bolle» sono habitat per individui: non sono una soluzione
per «collettivi», perché per Sloterdijk i collettivi, nei vari sensi di «comuni-
tà», «società», «classe» o «massa», non esistono, se non come fiction gestita
15
Si legga Francesco Paolo Francione, La voce di Matera. Storia da La Martella, Fondazione
Adriano Olivetti, Roma 2018 (ringrazio del suggerimento Marco Peroni).
46 René Capovin
Conclusione
La lezione americana
L’ospite ingrato ns 6
48 Carlo Tombola
1
Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2013.
2
In un solo anno, il 1913, per riempire 14.000 posti di lavoro Ford aveva dovuto assumere 52.000
persone.
3
In realtà l’aumento si otteneva solo dopo sei mesi di lavoro, e doveva essere confermato da uno
speciale comitato (l’Organizzazione sociale Ford) che compiva visite ispettive a casa del lavoratore.
Il quale doveva dimostrarsi parsimonioso e sobrio, mostrare una casa ordinata e pulita, sposarsi (se
aveva meno di 22 anni) e, se sposato, impedire alla moglie di lavorare fuori casa, doveva mandare i figli
a scuola e, se straniero, parlare inglese. Da notare che, nella logica fordiana, l’efficacia stabilizzante
e professionalizzante di una paga alta si ha non in assoluto (cioè elargendo un «salario dignitoso»),
ma relativamente al livello salariale praticato dalle altre aziende: efficacia che non possono avere gli
aumenti contrattuali generalizzati del salario minimo, validi per tutte le aziende.
Dalla fabbrica alla Comunità 49
4
«Una tortura per lo spirito, stavo imprigionato per delle ore che non finivano mai, nel nero e nel
buio di una vecchia officina» (in un manoscritto, indicato da Valerio Ochetto come una prima stesura
inutilizzata per Appunti per la storia di una fabbrica, in «Il ponte», agosto-settembre 1949). Dal suo
apprendistato, trasse la convinzione che «occorre capire il nero di un lunedì nella vita di un operaio,
altrimenti non si può fare il mestiere di manager, non si può dirigere se non si sa che cosa fanno gli
altri» (ibid.).
5
Adriano Olivetti raccolse nella sua biblioteca tutta l’opera in tedesco di Wather Rathenau, e in
particolare affidò a Franco Momigliano la traduzione di Von kommenden Dingen (1917), poi mai
pubblicata.
50 Carlo Tombola
Dall’architettura all’urbanistica
6
L’intero complesso delle Officine Olivetti ICO – restaurato tra il 2004 e il 2009 – è stato inserito
nel 2018 nella lista dei siti protetti dall’UNESCO quali patrimonio dell’umanità, insieme a una vasta
area di 71 ettari complessivi che oggi costituisce «Ivrea, città industriale del XX secolo».
Dalla fabbrica alla Comunità 51
7
Di famiglia eporediese ma non imparentato con Camillo e Adriano, Gino Olivetti fu massone,
deputato liberale e fondatore della Confindustria, di cui guidò l’allineamento al fascismo. Estromesso
alla nascita delle corporazioni, fuggì all’estero in seguito alle leggi razziali.
8
Studi e proposte preliminari per il piano regolatore della Valle d’Aosta, 1943.
52 Carlo Tombola
9
Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2014,
pp. 38-39.
54 Carlo Tombola
10
Il sito dello stabilimento Olivetti di Pozzuoli è entrato nel Patrimonio UNESCO dal 2018.
56 Carlo Tombola
Conclusione
Sin dai suoi esordi, quella di Adriano Olivetti appare come un’avventura
essenzialmente elitaria, di cui peraltro – lo testimonia la sua biografia – il pro-
tagonista ha avuto piena coscienza. Del resto, fu liquidata già nella sua epoca
in quanto elitaria nonché tecnocratica, ed è stata pressoché cancellata dalla
memoria collettiva contemporanea, nonostante l’appassionata esegesi che ne
hanno fatto i suoi prestigiosi co-protagonisti (per ultimo Luciano Gallino).
Oggi, più che tentare un (impossibile?) recupero dei suggerimenti, delle
soluzioni, delle visioni olivettiane, ci rimane il compito di una storiografia
«civile» che esamini più da vicino l’azione delle forze avverse, dei nemici giu-
rati e dei falsi alleati che – per calcolo o per mancanza di generosità politica
– hanno affossato o sterilizzato l’entusiasmante processo avviato da questo
rinnovatore del panorama politico-culturale dell’Italia novecentesca, da inse-
rire a pieno titolo in un pantheon della nostrana Modernità, insieme a figure
come Enrico Mattei, Raffaele Mattioli, Giangiacomo Feltrinelli.
Tommaso Morawski
Emilio Garroni (1925-2005) è stato uno dei più importanti e originali in-
terpreti dell’estetica italiana del secolo scorso1. Figura di intellettuale com-
plessa e sfaccettata, fin dal principio il suo percorso di ricerca è costellato
di incursioni nei più svariati ambiti della cultura. Ne è prova il fatto che tra
gli anni Cinquanta e Sessanta, ancor prima di conseguire la libera docenza
in estetica, Garroni inizia a lavorare per la RAI, collaborando in qualità di
esperto alla realizzazione di numerose rubriche culturali.
La RAI di quegli anni è un laboratorio di idee molto più vivo e ricco di
quanto non sia oggi, ma quello della televisione è un ambiente a cui il giovane
Garroni sente di non appartenere completamente. Del resto, è entrato a farne
parte più per spirito di «sopravvivenza»2 che per una reale vocazione. Eppure,
il lavoro per il servizio pubblico, oltre a garantirgli una certa stabilità economi-
ca in un’età in cui la laurea in filosofia lasciava pochi sbocchi professionali, si
rivela un’esperienza stimolante sotto diversi profili. Gli consente, anzitutto, di
lavorare con una certa autonomia alle sue prime pubblicazioni – si tratta per lo
più di brevi saggi, note e recensioni di filosofia e storia dell’arte uscite su riviste
specializzate, settimanali e quotidiani – e di preparare la sua prima monografia,
La crisi semantica delle arti, che licenzierà nel 1964. Ragionando sulla crisi dei
linguaggi artistici contemporanei, cioè sulla loro perdita di «significatività»3,
che Garroni in quegli anni interpreta come il sintomo di una problematica più
complessa che culmina nel malcostume e nella «pura e semplice perdita di inte-
resse» per le «cose culturali»4, la televisione si rivela allora una buona occasione
– dirà anni dopo anticipando il titolo di uno sei suoi ultimi libri, L’arte e l’altro
dall’arte5 – anche per «parlare d’arte senza parlare d’arte». Parlare di ciò che
1
Per un inquadramento dell’opera di Emilio Garroni nel contesto dell’estetica italiana del seco-
lo scorso cfr. Paolo D’Angelo, L’estetica italiana del Novecento. Dal neoidealismo a oggi, Laterza,
Roma-Bari 1997, pp. 229 sgg.
2
Cfr. Emilio Garroni, Doriano Fasoli, Il mestiere di capire. Saggio-conversazione, Edizioni As-
sociate, Roma 2005, p. 2.
3
Cfr. Emilio Garroni, L’informale e la crisi semantica delle arti, Edizioni dell’Ateneo, Roma 1962, p. 10.
4
Emilio Garroni, Semiotica ed estetica. L’eterogeneità del linguaggio e il linguaggio cinematogra-
fico, Laterza, Bari 1968, p. V.
5
Interrogato da Doriano Fasoli sulla scelta di questo titolo, Garroni commenta: «Il titolo da me
scelto vuole mettere in evidenza che l’arte e la stessa estetica richiedono uno sguardo diverso, volto
L’ospite ingrato ns 6
58 Tommaso Morawski
nello stesso tempo a ciò che nell’arte non è propriamente arte e a ciò che nell’estetica non riguarda
solo l’arte» (E. Garroni, D. Fasoli, Il mestiere di capire cit., p. 55).
6
Luisella Bolla, Flaminia Cardini, Le avventure dell’arte in TV, Nuova ERI, Torino 1994, pp.
272-273.
7
Il documentario curato da Emilio Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti, Rai, 1961,
per la regia di Giorgio Moser, è visibile sul sito delle «Teche Rai» al seguente link: http://www.teche.
rai.it/2020/02/ritratti-contemporanei-1961-adriano-olivetti/. Ultimo accesso 27/10/2020.
8
Valerio Ochetto, Adriano Olivetti: la biografia, Edizioni di Comunità, e-pub, p. 426.
9
Emilio Garroni, Senso e non-senso, in Id., Osservazioni sul mentire e altre conferenze, Teda
Edizioni, Castrovillari 1994, p. 53.
10
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
11
L. Bolla, F. Cardini, Le avventure dell’arte in TV cit., p. 274.
12
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 59
1.
Non avevo mai visto Ivrea, me la immaginavo però come una tipica città industriale:
pensavo che il suo ritmo di vita, il suo volto, il modo di camminare e di muoversi dei suoi
abitanti si conformasse al ritmo imposto dalle sue industrie. E invece più mi guardavo
intorno e più mi si faceva netta, precisa, l’impressione di essere capitato in una bella pic-
cola città fuori del mondo: i muri vecchi, le strade strette e silenziose, gli abitanti gentili
e riservati, insomma come se Ivrea non fosse stata toccata dalla civiltà industriale15.
13
Cfr. E. Garroni, D. Fasoli, Il mestiere di capire cit., p. 1.
14
Emilio Garroni, Immagine linguaggio figura. Osservazioni e ipotesi, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 116.
15
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
16
E. Garroni, La crisi semantica delle arti, Officina Edizioni, Roma 1964, p. 38.
17
Emilio Garroni, Risposta a 4 domande sulle problematiche artistiche di gruppo, in «Arte oggi»,
luglio-settembre, 5, 1963, p. 30.
60 Tommaso Morawski
18
E. Garroni, Ritratti contemporanei Adriano Olivetti cit.
19
Ivi.
20
E. Garroni, Dalla semiotica all'estetica, in Id., Osservazioni sul mentire e altre conferenze cit, p. 43.
21
Emilio Garroni, Senso e paradosso. L’estetica filosofia non speciale, Laterza, Roma-Bari 1986, p. IX.
22
E. Garroni, Dalla semiotica all’estetica cit., p. 43.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 61
2.
23
La formula «idioma Olivetti» è stata usata per la prima volta nel catalogo-bollettino della mostra
Olivetti: Design in Industry per indicare un nuovo modo di «organizzare tutti gli aspetti visivi dell’in-
dustria sotto un unico ed elevato standard di gusto» (Olivetti: Design in Industry, «The Museum of
Modern Art Bulletin», 20, 1, Autumn, 1952, p. 5). Per uno studio più approfondito del linguaggio visivo
olivettiano, cfr. Caterina Toschi, L’idioma Olivetti 1952-1979, Quodlibet, Macerata 2018.
24
Cfr. Tonino Griffero, Design, teoria del, in Paolo D’Angelo, Gianni Carchia (a cura di), Dizio-
nario di Estetica, Laterza, Roma-Bari 2002, pp. 80-82.
25
In Italia, fu soprattutto il I Congresso Internazionale dell’Industrial Design alla Triennale di
Milano del 1954 – a cui presero parte Giulio Carlo Argan, Enzo Paci, Gillo Dorfles e Luciano Ance-
schi, per citare alcuni nomi – l’evento che portò «simbolicamente alla luce il design nella sua doppia
62 Tommaso Morawski
veste di problema estetico e questione culturale» (Andrea Mecacci, Estetica e design, il Mulino, Bo-
logna 2012 p. 135).
26
E. Garroni, La crisi semantica cit., p. 172.
27
Ivi, p. 192.
28
Ivi, p. 182.
29
Emilio Garroni, Creatività, Quodlibet, Macerata 2010, p. 169.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 63
3.
Dopo aver discusso la centralità del tema della bellezza, Garroni sposta la
propria attenzione sull’architettura, un altro ambito caratterizzato da quelle
particolari preoccupazioni estetiche che prima abbiamo definito «olivettiane»:
Ed ecco che nella progettazione dello stupendo nido per i figli dei dipendenti, questa
preoccupazione estetica è ancora presente. Non basta accogliere i bambini, bisogna educarli
alla bellezza: farli vivere in ambienti belli, farli esprimere liberamente, nei giochi, nei dise-
gni, in modo che la loro personalità si formi compiutamente. Il tema della personalità è un
tema sempre ricorrente in Adriano Olivetti. Era inevitabile che questo discorso mi portasse
a domandargli chiaramente il suo pensiero sulle architetture. Anzi, più precisamente, in che
senso l’architettura si distingua per lui dalle altre arti tradizionali. OLIVETTI: L’architettura
è la forma in cui si esprime una certa società. GARRONI: Proprio la qualifica questa società!
OLIVETTI: Esattamente… Le altre arti invece sono una espressione libera, una manifesta-
zione dello spirito umano e quindi indipendentemente dal tempo e dal luogo32.
30
E. Garroni, La crisi semantica cit., pp. 122-123.
31
E. Garroni, Arte e architettura, oggi, in Id., Osservazioni sul mentire e altre conferenze cit., p. 63.
32
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
64 Tommaso Morawski
assumere la loro giusta posizione nel luogo più vasto ove sono destinate a di-
ventare materia»33. Ora, più che le tesi di Olivetti, ciò che ci interessa sottoline-
are di questa parte del documentario sono le numerose analogie che si possono
riscontrare tra le domande poste dall’intervistatore e il contenuto di una confe-
renza intitolata Arte e architettura, oggi che Emilio Garroni ha tenuto nel 1993
presso la Facultad de Arquitectura, Diseño y Urbanismo della Universidad de
Beunos Aires. Infatti, come accade nell’intervista, anche in questa occasione
Garroni si sofferma sul rapporto tra arte e architettura. L’architettura, si chiede
Garroni, «è mai stata, è, può essere, deve essere “arte”?»34.
La risposta, ovviamente, non è così semplice. Anzitutto bisogna riconside-
rare l’idea stessa che esista «già da sempre e dappertutto, qualcosa come l’arte» e
questo significa valutare più attentamente come si è andata via via consolidando
la nozione di «arte in senso estetico moderno». Il sistema delle arti del XVIII
secolo, da cui, spiega Garroni, dipende l’uso sempre meno circoscrivibile che
facciamo oggi del termine arte, non si è formato sulla base di una definizione
prestabilita che consentisse di isolare, in base a una regola istituzionalizzata,
una classe omogenea di oggetti, le cosiddette «belle arti». Alle spalle della no-
stra nozione di arte c’è piuttosto «un intreccio di somiglianze (talvolta di forti
identità locali) e di differenze (talvolta anche di irriducibili disparità)». Ed infat-
ti nessuno dei principali esponenti della riflessione estetica settecentesca ha mai
definito le belle arti. Erano piuttosto le singole pratiche o i singoli prodotti che,
in virtù di un accordo pragmatico, e non teorico, venivano dette belle: «esem-
plari», cioè, di una totalità dell’esperienza, intellettualmente e conoscitivamente
inesperibile e inconoscibile, cioè del senso stesso di ogni esperienza determina-
ta». Insomma, riassume Garroni, da Kant a Goethe, da Leibniz a Vico, testi alla
mano, l’arte in senso estetico moderno nasce «come aspirazione, non suscetti-
bile di essere soddisfatta altrimenti, di “mostrare” dall’interno dell’esperienza
sensibile il principio soprasensibile che rende possibile questa»35. Un’aspirazio-
ne alla simbolizzazione delle condizioni di senso dell’esperienza a cui l’archi-
tettura partecipa solo tangenzialmente.
Per la sua funzione pratica e la sua utilità sociale l’arte architettonica nel
Settecento rappresentava infatti un caso non-tipico del sistema delle arti, un
soggetto ibrido a carattere misto da cui, in sostanza, non ci si aspettavano ope-
re d’arte belle. E così, del resto è ancora oggi. Infatti, fatta eccezione per un
architetto come Gaudí, che ha usato l’architettura «in tutte le sue possibilità
di esibizione simbolica», ai giorni nostri raramente si incontrano «architetti
e opere d’architettura che mirino a perpetuare l’idea di arte in “senso estetico
33
Adriano Olivetti, L’architettura, la comunità e l’urbanistica, in Id., Città dell’uomo, Edizioni
di Comunità, Ivrea 2015, p. 109.
34
E. Garroni, Arte e architettura, oggi cit., p. 64.
35
Ivi, p. 70.
Emilio Garroni e le «bellezze olivettiane» 65
a quella bellezza indiretta e diffusa dell’arte nel senso antico, che è la progettazio-
ne pensata, l’uso accorto dei materiali, la collocazione dell’oggetto architettonico nello
spazio urbano, la sua effettiva utilizzabilità, non solo in senso pratico, ma come conte-
nitore simbolico di una vita civile. E, per concludere, credo che la massima aspirazione
di un architetto dovrebbe essere oggi di tornare a essere un demiourgos […] e cessare di
credersi innanzitutto un poeta. Il che non esclude che, proprio dalla sua attività di de-
miourgos, possa scaturire come che sia e quando che sia, se è ancora possibile, qualcosa
come un’opera d’arte, quasi in senso estetico moderno37.
36
Ivi, p. 75.
37
Ivi, pp. 75-76.
38
Ivi, p. 69.
39
E. Garroni, Ritratti contemporanei. Adriano Olivetti cit.
40
Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, a cura di P. Ceri,
Einaudi, Torino 2014, p. 105.
41
Emilio Garroni, Immagine, linguaggio, figura, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 118.
Emanuele Zinato
1
Cfr. Valentina Sturli, Figure dell’invenzione. Per una teoria della critica tematica in Francesco
Orlando, Quodlibet, Macerata 2020.
L’ospite ingrato ns 6
68 Emanuele Zinato
una volta in ufficio, nel mio ufficio di responsabile dei servizi sociali dell’azienda
mi arrivò, assieme a tante lettere che arrivavano, una lettera che mi colpì perché era
molto dolorosa. Era proprio come un grido, un po’ insensato com’è un grido senza un
fine e senza un principio. Era una lettera indirizzata ad Adriano Olivetti e che Olivetti
mi aveva passato perché io vedessi il caso e decidessi che cosa si poteva fare per questa
persona. Era una lettera con una calligrafia di quelle elementari, da quinta elementare, su
un foglio protocollo, dentro una busta gialla, di una facciata e tre righe dietro; insomma
molto breve. In sostanza questo si rivolgeva al presidente dell’Olivetti, era un operaio
dell’azienda di cui non ricordo nemmeno il nome, per dire che lui stava male, che però
avrebbe continuato a lavorare volentieri nella fabbrica, ma che i medici di fabbrica non
volevano che lui lavorasse perché dicevano che era tubercoloso e doveva ricoverarsi e
che allora lui cacciasse quei medici cattivi e ne trovasse altri che provassero che lui stava
bene e che poteva lavorare nella fabbrica. Ecco, mi parve in nuce la storia di Memoriale;
allora io ho conservato questa lettera, mi sono interessato, ho mandato avanti il caso
come doveva essere mandato avanti e questa persona, che tra l’altro era davvero tuber-
colotica, con delle crisi, degli sbocchi di sangue si diceva una volta, ma era poco corretto,
addirittura durante le ore di lavoro, fu ricoverata, fu anche curata in termini di psicoa-
nalisi. Però quella lettera io l’ho conservata, ce l’avevo e da quella lettera mi è venuto in
mente di scrivere il libro che ho scritto, Memoriale2.
2
Paolo Volponi, La letteratura in fabbrica negli anni Cinquanta, in Saveria Chemotti (a cura di),
Gli intellettuali in trincea. Politica e cultura nell’Italia del dopoguerra, Cleup, Padova 1977, p. 39.
L’Olivetti come figura 69
Questo è il vero tema del Memoriale: la solitudine, la difficoltà del rapporto con gli
altri uomini che in Albino (al limite del tipico) è impossibilità. E in questo senso Albino
Saluggia diventa in realtà ciascuno di noi, in rapporto con la vita intera, tanto che la pa-
rola vita può ben sostituirsi alla parola fabbrica3.
3
Giovanni Giudici, Note su «Memoriale», «Comunità», 99, 1962, poi in Id., La letteratura verso
Hiroshima e altri scritti 1959-1975, Editori Riuniti, Roma 1976, p. 309. Corsivi originali.
4
Ivi, p. 311.
70 Emanuele Zinato
altri operai chiamati dall’io narrante «ghiottoni» perché mossi dal desiderio
di uscire in fretta dalla fabbrica per gettarsi nel tempo libero e nel mondo dei
nascenti consumi di massa. Ogni raffica è ritmata dalla parola «sciopero» e se-
gna l’aggressivo rifiuto degli altri lavoratori, visti uscire dalla fabbrica con un
«gesto di furberia appagata come quello dei ghiottoni che si avvicinano alla
tavola» (c. 242), come esatto rovescio di ogni impegno solidale. Negazione e
affermazione, fantasia e realtà si giustappongono in queste pagine senza alcu-
na mediazione. «Sparavo su interi gruppi che cercavano di ripararsi in tutti i
modi. Lo spiazzo davanti alle porte era sempre pulito perché il sole divorava
i morti man mano che cadevano sotto la mia mitraglia». Inoltre, nell’ultima
pagina, l’io narrante decide di aderire allo sciopero e si reca ad avvertire i
cuochi del reparto mense, che ancora non aveva ricevuto la notizia, aggirando
l’accerchiamento della polizia, e perciò viene licenziato. L’azienda «dal volto
umano» che mette a disposizione del dipendente l’assistenza sanitaria gratu-
ita e i soggiorni pagati in località di villeggiatura per aiutare la sua convale-
scenza e che perdona le stranezze di Albino quando rifiuta di presentarsi alle
visite o quando inveisce contro i medici, non gli perdona di aver preso parte
attiva allo sciopero, grazie alla sua follia e alla sua visionarietà.
Ideologia d’autore e figure dell’invenzione possono così convivere solo
in tensione e in conflitto: se la visione del mondo di Volponi a quest’altezza
condivide con il pensiero di Adriano Olivetti l’idea di una fabbrica sempre
più a misura d’uomo e sempre meno coercitiva, nel romanzo fra la «follia» di
Albino e i dispositivi della fabbrica più avanzata si instaurano contraddizioni
che non prevedono una risoluzione.
Le idee del protagonista sulla genesi e sulla palingenesi derivano da quelle che il
signor P. M. V. sta svolgendo e sistemando, insieme con altre, in un trattato «Per la costi-
tuzione di una nuova Accademia dell’Amicizia di qualificato popolo»6.
Da questo trattato sono liberamente estratti, pur con molto rispetto dello spirito
originale, i brani del romanzo in corsivo7.
5
Paolo Volponi, Incontro con la Pantera, in Id., Scritti dal margine, Manni, Lecce 1994, p. 182.
6
Paolo Volponi, La macchina mondiale, in Id., Romanzi e prose, I, a cura di Emanuele Zinato,
Einaudi, Torino 2002, p. 234.
7
Ibid.
L’Olivetti come figura 73
8
P. Volponi, La macchina mondiale, in Id., Romanzi e prose, I, cit., p. 259.
9
Ivi, p. 261.
10
Ibid.
11
P. Volponi, La macchina mondiale, in Id., Romanzi e prose, I, cit., p. 343.
74 Emanuele Zinato
Sono molto impegnato dall’ufficio, dove il mio incarico è diventato ancora più pres-
sante. Inoltre, ho dovuto constatare che non ho nessuna tendenza, oltreché esperienza,
a sceneggiare tanto che, affrontando un qualsiasi argomento, dialogo o ambiente, ho
sempre finito per complicarlo in senso letterario invece di semplificarlo secondo una
traccia da rappresentare. Se potessi ancora continuare questo lavoro finirei piuttosto per
scrivere un romanzo che una sceneggiatura. Credo che tu mi capisca bene, anche perché
avevi benissimo avvertito i rischi, proprio nel senso sopraindicato, del soggetto e avevi
capito la necessità di precisare personaggi e situazioni che erano soprattutto delle larve
di una possibile crescita letteraria. […] Naturalmente dopo questa rinuncia il soggetto
resta mio, anche perché ormai ho in mente di usarlo per un racconto13.
Dal carteggio con Pier Paolo Pasolini14 si può desumere inoltre che nell’ot-
tobre 1966 Volponi, insoddisfatto delle condizioni offerte dalla RAI, cercò di
proporre questo stesso soggetto ad Alfredo Bini, produttore di Accattone e di
Edipo re, e a Dino De Laurentiis. Il testo del racconto-sceneggiatura, dal titolo
Annibale Rama, rimasto nel cassetto15 e rinvenuto da Caterina Volponi tra le
12
Della vicenda si dà conto nell’introduzione a Paolo Volponi, I racconti, a cura di Emanuele
Zinato, Einaudi, Torino 2017.
13
Lettera dattiloscritta di Volponi a Raffaele La Capria, datata Ivrea, 12 dicembre 1966.
14
Paolo Volponi, Scrivo a te come guardandomi allo specchio. Lettere a Pasolini (1957-1975), a
cura di Daniele Fioretti, Polistampa, Firenze 2009, pp. 157-159.
15
Le due stesure dattiloscritte si trovano in una cartella dal titolo «Personale Paolo Volponi»
assieme a due poesie e a una lettera a Guttuso datata 19 novembre 1963. La prima versione è più breve
e priva di correzioni. Sulla seconda, qui riprodotta, scritta in parte su fogli intestati «Rotary club di
Ivrea», figurano numerose aggiunte autografe che manifestano l’intento dell’autore di complicare la
linearità schematica della sceneggiatura con la forma racconto. Un’altra sceneggiatura di Volponi,
scritta nel 1981 per Unitelefilm, è apparsa nel 1998 a cura di Guido Santato (G. Santato, Un racconto
inedito di Paolo Volponi. L’acqua e il motore. Film sull’Umbria, «Studi novecenteschi», 55, 1998, pp.
5-28. La vicenda è ambientata nel 1910 sulle colline intorno a Gubbio, e presenta alcune analogie con
L’Olivetti come figura 75
carte del padre, è, con Il versificatore di Primo Levi16, una delle primissime
attestazioni narrative della comparsa del computer fra gli oggetti letterari ita-
liani. Annibale Rama è un pioniere informatico, uno Steve Jobs ante litteram,
che progetta un piccolo calcolatore superiore a ogni altro esistente al mondo e
utilizzabile dai privati e dalle famiglie. Il progetto, rivoluzionario, non viene ac-
cettato dalle dirigenze aziendali e Annibale, costretto alle dimissioni, nei giorni
che precedono il licenziamento riesce a costruire di nascosto la macchina, a
trafugarla e a perfezionarla. Grazie alle previsioni del calcolatore, potrà vincere
illecitamente tutte le lotterie, incassando la smisurata somma di denaro con la
quale accingersi a una più alta, utopica e clandestina impresa elettronica e civile.
Con quel denaro, quando egli avrà raggiunto la somma necessaria, costruirà una
grande industria per fabbricare i più grandi calcolatori elettronici del mondo, i più gran-
di e anche i più piccoli, di tipo domestico, che servano alle famiglie, ad ogni uomo, per
risolvere i propri problemi di calcolo, di previsione e di programmazione17.
quella di Annibale Rama: ha come protagonista Gigler, un irregolare ambulante inventore di una
macchina che, portando l’acqua dalla valle al monte, potrà migliorare la vita dei contadini. Santato,
nella nota introduttiva, ricorda che Volponi gli aveva parlato di un altro suo precedente soggetto per
un film consegnato a Pasolini in cui si raccontava «la storia di un operaio che inventa un calcolatore
con il quale vince sempre al gioco e che sogna di creare una fabbrica di calcolatori organizzata in
modo diverso da quella in cui lavora» (p. 6).
16
Comparso su «il Mondo» il 17 maggio 1960 e poi compreso in P. Levi, Storie naturali, Einaudi,
Torino 1966. Anche Il versificatore di Levi suscitò l’interesse della RAI, che commissionò all’autore
una versione in forma di dialogo trasmessa il 17 febbraio 1971 per la regia di Massimo Scaglione e
recitata da Gianrico Tedeschi, Milena Vukotic e Angelo Bertolotti.
17
P. Volponi, I racconti cit., p. 17.
18
Cfr. Pier Giorgio Perotto, P101. Quando l’Italia inventò il personal computer, Edizioni di
Comunità, Roma-Ivrea 2015.
76 Emanuele Zinato
comico e satirico (il suo nome stesso, del resto, è un anagramma di Socrate):
a dispetto di chi pensa che il capitale abbia vinto con la sola forza simbolica
dell’edonismo, la Tecraso rammenta la materialità spietata dello scontro, e ciò
avviene soprattutto grazie al «lasciapassare» dell’iperbole.
La sequenza iperbolica della battaglia ai cancelli della fabbrica non ha
come referente di realtà solo i 35 giorni dell’occupazione della Fiat dell’au-
tunno 1980, presenti nel testo delle Mosche con la marcia dei 40.000, quanto
piuttosto il precedente licenziamento di 61 lavoratori, il 9 ottobre del 1979,
che si tradusse nel primo vero e proprio processo al «decennio operaio». Per
riportare ordine nei reparti, smantellare il sindacato dei consigli e rovesciare
i rapporti di forza istituiti dall’autunno del 1969, la direzione aziendale e i
maggiori quotidiani misero in campo l’equazione conflitto = terrorismo,
smentita dall’esito delle indagini della magistratura, che in seguito accerta-
rono come solo quattro dei sessantuno licenziati avessero avuto qualcosa a
che spartire con le organizzazioni armate. L’attenzione generale si spostò
tuttavia dalla ristrutturazione che l’azienda stava per varare alle forme di
lotta lecite o illecite. Il dato documentario di realtà viene trasfigurato: nel
testo delle Mosche, all’arrivo delle lettere di licenziamento (cinquantasette
in luogo di sessantuno, che corrisponde al numero totale meno i quattro
casi di effettivo coinvolgimento nella lotta armata) segue una battaglia fu-
ribonda che nella realtà non ha avuto luogo, né con quella potenza né in
forme più moderate. In realtà, prima della consegna delle lettere, i vertici
Fiat avvertirono i sindacati e in tutti gli stabilimenti i responsabili del perso-
nale convocarono i membri degli esecutivi dei consigli di fabbrica, ai quali
fu chiesto (in nome della lotta al terrorismo) di tenere una posizione «re-
sponsabile». La FLM poté organizzare soltanto un’assemblea al Palazzetto
dello sport con Lama, Carniti e Benvenuto. Nelle figure dell’invenzione
romanzesca i licenziamenti assumono invece, già alla consegna delle lettere,
la forza d’urto di una guerra totale:
19
Paolo Volponi, Le mosche del capitale, in Id., Romanzi e prose, III, a cura di Emanuele Zinato,
Einaudi, Torino 2003, p. 135.
78 Emanuele Zinato
Volano biglie chiavi inglesi mozzi bottiglie stracci di fuoco […] esplodono colpi spa-
ri razzi urla sirene. Due morti al recinto nordovest, quattro ustionati gravi al cancello
est, tre saltati in aria, una decina investiti da autoblindo20.
«In nome del popolo italiano», e io vidi uno dei nostri più vicini sparargli netta una
revolverata. Tech tech, come una piccola pressa ribaditrice. Il coperchio restò alto ma
l’elmetto sparì sotto. Le autoblindo spararono altre raffiche all’altezza delle lance del
recinto, una contro il muretto di cemento. Si videro le schegge di cemento e di ghisa, e si
vide cadere un altro dei nostri. Arrivarono camion e camionette, drappelli armati in piedi e
in posizione d’attacco. Noi fuggimmo via lungo i muri delle officine, cercando scampo fra
le porte, le tettoie esterne e i depositi. […] Lo scontro era largo e denso, sbandava sempre
più compatto da un punto all’altro, come lievitando. Alcuni giovani si scansarono per fare
un piano. Quasi subito si divisero scattando in ogni direzione dentro quella massa bestiale.
Le frecce provocarono squami e sussulti laceranti; esplosero colpi d’arma da fuoco e due tre
bombe, lampeggiarono coltelli e pugnali. Il mucchio cominciava a muoversi in diverse sfere
che reagivano ognuna a un proprio stimolo, a eruzioni dal fondo, a resezioni alla base21.
20
Ivi, p. 139.
21
Ivi, pp. 139-140.
Giuseppe Alessi
L’uomo e la macchina.
Fortini alla Olivetti
Tra il gruppo di intellettuali che dalla fine degli anni ’40 lavorano allo sta-
bilimento della Olivetti di Ivrea, centro del progetto innovativo di Adriano
Olivetti, industriale-intellettuale avvertito e sensibile alle istanze di promo-
zione sociale e culturale dell’Italia del dopoguerra, c’è anche Franco Fortini,
insieme, tra gli altri, a Giovanni Giudici, Giovanni Pintori, Ottiero Ottieri,
Giancarlo Buzzi e Paolo Volponi.
La storia di Fortini alla Olivetti comincia nel 1947, quando accetta l’offerta
di lavoro di Adriano e si trasferisce a Ivrea: il suo compito sarebbe stato quel-
lo di promuovere una serie di iniziative culturali per la compagnia, stimolato
anche dall’opportunità di lavorare a stretto contatto con gli operai di fabbrica.
Quando nel luglio 1948, in seguito all’attentato a Togliatti, si verificano a Ivrea
dei disordini in fabbrica, Fortini scrive una serie di ciclostilati per esprimere il
pieno sostegno agli operai incitandoli alla rivolta. Olivetti allora deve allonta-
narlo dal Canavese e lo manda a Milano, dove avrebbe lavorato come copywrit-
er presso l’Ufficio pubblicità. Fortini avrebbe raccontato così questo discusso
trasferimento: «Qualsiasi altro industriale mi avrebbe cacciato su due piedi, per
le noie che gli stavo procurando, e invece dopo una intemerata telefonica piut-
tosto aspra Olivetti mi condannò – mi condannò, sì, ma facendomi un regalo
straordinario, cioè trasferendomi a Milano, alla pubblicità»1.
Quella di Olivetti fu un’esperienza di imprenditorialità illuminata, secon-
do le testimonianze di chi ebbe l’opportunità di lavorare in azienda e di con-
frontare la propria situazione aziendale con altre. Come racconta Michele
Ranchetti, il gruppo di intellettuali che lavorava alla Olivetti aveva la perce-
zione di costituire un’avanguardia nel campo dell’editoria rispetto, per esem-
pio, ai colleghi della Einaudi: il loro coinvolgimento in un’impresa culturale
modernissima era profondo soprattutto perché si sentivano «ad un altro li-
vello, non di verità, perché la verità non c’era, né da una parte né dall’altra,
ma ad un livello di partecipazione al presente diverso»2. Fu un momento di
1
Franco Fortini, Cronologia, in Id., Saggi ed Epigrammi, a cura di L. Lenzini, Mondadori, Mi-
lano 2003, pp. xcvi-xcvii.
2
Testimonianza di M. Ranchetti a M. Scotti in M. Scotti, Da sinistra. Intellettuali, Partito socialista
italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Ediesse, Roma 2011, p. 114. Corsivo dell’autrice.
L’ospite ingrato ns 6
80 Giuseppe Alessi
3
Ibid.
4
All’armi siam fascisti!, L. Del Fra, F. Fortini, C. Mangini, L. Miccichè, Italia, 1961. È il film
di montaggio che segna l’avvio del sodalizio artistico tra Fortini, Del Fra e Mangini e che racconta
cinquant’anni di storia italiana ed europea dagli anni ’10 al 1960. Moravia lo definì «il miglior film
documentario sul fascismo» (Alberto Moravia, Cinema italiano. Recensioni e interventi 1933-1990,
a cura di A. Pezzotto, A. Gilardelli, Bompiani, Milano 2010, p. 429); Pasolini scrisse a caldo che si
trattava di «un film stupendo, una fra le più emozionanti opere cinematografiche che abbia mai visto»,
(Pier Paolo Pasolini, «Vie Nuove», 30 settembre 1961); per Gianni Rondolino, All’armi è «la migliore
interpretazione critica del fascismo che il cinema ci abbia dato» (Gianni Rondolino, voce su Franco
Fortini, in Dizionario del cinema italiano 1945-1969, Einaudi, Torino 1969, pp. 139-140).
5
Scioperi a Torino, P. Gobetti, A. Gobetti, Italia, 1962. Con i testi di Fortini e le musiche di S.
Liberovici, questo film di tipo testimoniale documenta gli scioperi della Lancia e della Michelin che
scoppiarono tra gennaio e febbraio del ’62 e che avrebbero portato, in estate, alla rivolta di Piazza
Statuto.
6
Si tratta del commento ideato da Fortini per il film di montaggio realizzato da C. Mangini e L.
Del Fra che avrebbe raccontato cinquant’anni di storia russa – e del movimento operaio – dall’Im-
pero Zarista, alla Rivoluzione d’ottobre, dalla guida di Lenin al ventennio di Stalin. I numerosi tagli
apportati alla pellicola dalla casa di produzione avrebbero indotto gli autori al ritiro della firma dal
film, uscito poi con il titolo di Processo a Stalin (1963) con le firme del produttore F. Lucisano e del
montatore R. May.
L’uomo e la macchina. Fortini alla Olivetti 81
7
Franco Fortini, Tre testi per film, Edizioni Avanti!, Milano 1963, p. 6.
8
Cfr. Luca Lenzini, Fortini e il cinema, https://www.ospiteingrato.unisi.it/fortini-e-il-cinema,
16 dicembre 2010.
82 Giuseppe Alessi
E ancora:
Spazi ordinati, spazi mobili, spazi diretti, area da attraversare, da ordinare, da per-
correre, in blocchi, frazioni, frammenti, luci, lampi.
9
Ibid.
10
Visita a una fabbrica, a cura di Franco Fortini, Carlo Brizzolara, Albe Steiner, Olivetti Editore,
Ivrea 1949.
L’uomo e la macchina. Fortini alla Olivetti 83
11
Le «frese» e lo scenario dell’officina torneranno in Sul primo numero di «quaderni rossi», in Pa-
esaggio con serpente: «[…] Acuminati / quei cirri che le frese / schizzano e gli incupiti olii convogliano
/ a lui nei sonni erano figura / di seme morto e di erba futura» (Franco Fortini, Tutte le poesie, a cura
di Luca Lenzini, Mondadori, Milano 2014, p. 397).
84 Giuseppe Alessi
Dicono che affogheremo nella carta straccia, nei barattoli vuoti o pieni. Dicono che il
profumo del carburante ha condannato l’odore di qualunque erba. Da venti, da trent’an-
ni ci spiegano che tutto è così complicato che la corsa al consumo consuma ogni specie di
corsa. Che in fondo ai corridoi del supermercato c’è un Minotauro a premi. […]
Ma ai mali del presente si rimedia con un po’ più di presenza: le macchine vinceranno
le macchine, ecco tutto.
liano o in inglese; evidentemente in questo modo il nostro lavoro risulta più stimolante,
più originale, in una parola meno monotono.
Il calcolatore entra nel disordine inutile, nel disordine faticoso della produzione, dei
magazzini, dei ricambi. Lo divide, lo classifica, lo riduce ad ordine. Gli elaboratori non
sopportano perditempi, masticano le loro cifre oggi ma pensano solo al domani, quando
il loro ordine ci farà liberi per un felice disordine.
L’automazione è una realtà che comincia a vivere in vari settori, è il fine ultimo a cui
tendere, l’unica possibilità che abbiamo di risolvere convenientemente tutta una serie di
problemi: i problemi del disordine, i problemi della quantità, i problemi del numero. I
veri protagonisti dell’automazione sono i calcolatori elettronici: piccoli o giganteschi, da
installare sul proprio tavolo o da sistemare in locali specializzati.
Sarà come telefonare, come accendere la tv, come mettere in marcia l’auto e forse tra
pochi anni l’ironia sarà già vinta dalla realtà.
Questi due film sono davvero interessanti allorché mostrano due diffe-
renti modelli di rappresentazione del rapporto uomo-macchina. In Incontro
con Olivetti è presente la memoria di Tempi moderni (1936), in cui l’umano
si scopriva incapace di adattarsi al ritmo, all’intensità delle macchine, e così
finiva per turbare il processo di identificazione: l’uomo chapliniano sente un
profondo senso di vergogna quando si rende conto di essere fuori dagli stan-
L’uomo e la macchina. Fortini alla Olivetti 87
12
Cfr. Günter Anders, L’uomo è antiquato, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino 1992, pp. 33-54.
13
Cfr. Fredric Jameson, Postmodernismo. Ovvero la logica culturale del tardo capitalismo, Fazi,
Roma 2007.
14
Cfr. G. Anders, L’uomo è antiquato cit., pp. 82-84.
15
Ivi, p. 83. Il corsivo è dell’autore.
16
L. Lenzini, Fortini e il cinema cit.
88 Giuseppe Alessi
Colonizzati o colonizzatori?
L’anticolonialismo olivettiano sulle pagine di
«Comunità», 1954-1964
1
Umberto Serafini, Adriano Olivetti e il Movimento Comunità, Edizioni di Comunità, Roma-
Ivrea 2015, Kindle Edition, posizione 3346 di 11334. La Dichiarazione Politica del Movimento Co-
munità è stata recentemente ripubblicata in Statuto e dichiarazione politica, a cura di Davide Caded-
du, Edizioni di Comunità, Roma-Ivrea 2016. I paragrafi 4 e 5, dedicati alla situazione internazionale,
sono di particolare interesse qui: cfr. pp. 68-74. Per una ricognizione puntuale dello sviluppo del
Movimento, si veda Giuseppe Iglieri, Storia del Movimento Comunità, Edizioni di Comunità, Roma-
Ivrea 2019.
2
Per quanto riguarda la prima metà degli anni Sessanta, ho avuto modo di verificare, attraverso
lo studio del «Fondo Carte Comitato Anticoloniale Italiano provenienti dall’archivio Fiap naziona-
le», conservato presso l’archivio dell’Istituto Nazionale Ferruccio Parri a Milano, che alcune delle
personalità vicine ad Adriano Olivetti intrattenevano contatti con il Comitato Anticoloniale Italiano
(CAI), un’associazione, con sede a Roma, che forniva sostegno materiale e ideologico alle lotte anti-
colonialiste nel mondo.
L’ospite ingrato ns 6
90 Erica Bellia
uno fra i più noti scrittori «olivettiani», Ottiero Ottieri, dedicava alla fabbri-
ca al centro del suo secondo romanzo industriale, Donnarumma all’assalto
(1959). Lo stabilimento in questione è, come è noto, trasparente trasposizio-
ne letteraria della sede Olivetti di Pozzuoli, progettata da Luigi Cosenza e
inaugurata nel 1955. Ottieri, nel descrivere il rapporto fra il narratore, «psi-
cotecnico», e l’ambiente con cui interagisce, si serve di un’allegoria coloniale,
ribadita in più punti del romanzo:
L’altro volto, l’ingannevole volto della fabbrica è di indurre noi impiegati e dirigenti
al colonialismo, e i candidati assunti all’orgoglio della aristocrazia operaia, la quale più
ancora che nel nord taglia i legami con la plebe: un pericoloso orgoglio aziendale e mai
politico, mai nazionale3.
3
Ottiero Ottieri, Donnarumma all’assalto, in Id., Opere scelte, a cura di Giuseppe Montesano,
Maria Pace Ottieri e Cristina Nesi, Mondadori, Milano 2009, pp. 3-226: 37. Si veda anche il passo
seguente, in cui il riferimento al lavoro come «schiavitù» rinforza l’allegoria coloniale: «Quando si
sta in officina ognuno al proprio posto, si smorzano i loro fuochi pirotecnici e le nostre sciocche,
fredde presunzioni si riscaldano. Lo stabilimento fa gli uomini uguali, asciuga gli umori, riduce i vizi
del carattere. Gli organizzatori settentrionali si tolgono dal capo il cretino casco coloniale, con cui
sono scesi alla stazione di città, e cominciano a capire. C’è ovunque uno stesso silenzio di persone che
corrono dietro al tempo, e questa corsa costringe certamente alla schiavitù, ma mai come nel nostro
stabilimento compare l’altra faccia di questa schiavitù necessaria: la dura dignità, la costruzione gior-
naliera di una via di libertà» (ivi, p. 156).
4
Ottiero Ottieri, Taccuino industriale, «Il Menabò», 4, 1961, pp. 22-94: 57: «Così la sera, la notte, X
è deserta, con piccoli circoli di intellettuali, o di ingegneri, o di ragionieri, chiusi in difesa, in una atmo-
sfera coloniale. E la classe operaia, fuori del lavoro, si disperde, senza occasioni di nessun vero incontro
con gli intellettuali». Cfr. anche Id., La linea gotica: taccuino 1948-1958, Bompiani, Milano 1962.
5
Cfr. Adriano Olivetti, Ai lavoratori. Discorsi ai lavoratori di Pozzuoli e Ivrea presentati da
Luciano Gallino, Edizioni di Comunità, Roma 2020, Ebook Edition.
6
Ivi, p. 20: «Ma il problema non era nel nostro stabilirsi nel Mezzogiorno, esso consisteva piutto-
sto nella deviazione, impegnativa ed improvvisa, che ci avrebbe potuto distrarre dalla lotta durissima
che avevamo intrapresa in Europa, nelle due Americhe, in Sud Africa. Accettammo di buon grado il
nuovo fardello. Fu un atto di fede nell’avvenire e nel Progresso della nostra industria, ma soprattutto
un meditato omaggio ai bisogni di queste regioni».
Colonizzati o colonizzatori? 91
7
Sulla rivista, si veda Beniamino de’ Liguori Carino, Adriano Olivetti e le edizioni di Comunità
(1946-1960), Fondazione Adriano Olivetti, Roma 2008.
8
Per avere un’idea di massima dello spazio occupato sulla rivista dalle riflessioni sulla situazione
internazionale e in particolare su questioni coloniali, si raccomanda la consultazione degli indici dal
1946 al 1960, reperibili al seguente URL: https://www.fondazioneadrianolivetti.it/la-rivista-comuni-
ta/ (consultato il 18 agosto 2021).
92 Erica Bellia
Nel trattare con l’Africa, con la Somalia, è bene che diciamo con sincerità che la
nostra politica è basata sui nostri interessi, senza spolverare i Vangeli, dietro i quali,
ahinoi, sono state commesse troppo crudeli ingiustizie. E senza tentar di vendere palline
colorate con le quali neppure il maschietto somalo che all’angolo pulisce le scarpe vuol
più giuocare. Nessuno di questi interessi è disonorevole, né incompatibile con i loro se
questi interessi saranno esclusivamente basati sull’economia, su liberi scambi in liberi
mercati; e non già su ritorni palesi o meno di colonialismo, sia pure di colonialismo
all’acqua di rose. Al ragazzo che è cresciuto, anche se è cresciuto troppo in fretta, non si
può negare la chiave di casa: altrimenti se la prende da sé13.
9
Cfr. Paolo Vittorelli, Vecchio e nuovo colonialismo, «Comunità», 24, 1954, pp. 14-19.
10
Cfr. Egidio Fermi, La chiesa in Africa (I), «Comunità», 48, 1957, pp. 18-31; Id., La chiesa in
Africa (II), «Comunità», 50, 1957, pp. 47-61. Cfr. anche Jean-Paul Sartre, Orfeo nero: una lettura
poetica della negritudine, trad. di Santo Arcoleo, Marinotti, Milano 2009.
11
E. Fermi, La Chiesa in Africa (II), cit., p. 55.
12
Giorgio Assan, Presente e avvenire della Somalia, «Comunità», 44, 1956, pp. 18-32.
13
Ivi, p. 20.
Colonizzati o colonizzatori? 93
L’autore invita qui a non mistificare le ragioni e gli interessi economici che
spingono i paesi «occidentali» a intervenire in Africa. Tuttavia, l’immaginario
che associa ai paesi colonizzati gli attributi dell’infanzia è qui simultaneamen-
te contestato e adoperato (es. «palline», «maschietto», «ragazzo»).
Al di là di queste spie di qualcosa che accade sottotraccia, a un livello non
sempre conscio e perciò più interessante, «Comunità» si dimostra coerente
nella sua adesione all’anticolonialismo. Cesare Musatti, al ritorno dal noto
viaggio in Cina del ’55, cui presero parte – fra gli altri – anche Franco Fortini
e Carlo Cassola, scrive che
le nazioni occidentali, che pure hanno l’orgoglio di sentirsi portatrici di una più pro-
gredita civiltà, in questo paese, dove sono venute in cerca di traffici e di profitti, figurano
soltanto per gli elementi deteriori del loro modo di vita. Proprio per questo l’era del
colonialismo è destinata a finire in Cina e dovunque14.
Il senso di una fine dell’era coloniale è ribadito più volte sulla rivista,
man mano che ci si avvicina agli anni Sessanta. Il 1960 è definito da Mar-
cello Dell’Omodarme come «l’anno dell’Africa», in virtù del dispiegarsi del
processo di decolonizzazione in quel continente e del protagonismo storico
che ne conseguiva per i popoli decolonizzati15. Nel 1963, quando ormai l’espe-
rienza del Movimento Comunità poteva dirsi conclusa, lo storico Giampaolo
Calchi Novati cura un numero monografico dedicato non, neutralmente, alla
decolonizzazione, bensì esplicitamente all’«impegno dell’anticolonialismo»16.
I nomi di Frantz Fanon e Francis Jeanson fanno la loro comparsa per la prima
volta su un periodico che fino a quel momento aveva tenuto un atteggiamento
moderato. Il numero, d’altra parte, non fa riferimento all’esperienza coloniale
italiana in Africa, e il corredo di immagini – parte integrante della linea edi-
toriale di «Comunità» – sembra indugiare più su aspetti estetici che politici.
Un’altra direttrice lungo la quale la riflessione anticolonialista e anti-im-
perialista di «Comunità» si svolge riguarda il peso degli Stati Uniti e delle
loro politiche in Europa17. È ancora Paolo Vittorelli a portare avanti un ra-
gionamento sui rischi dell’imperialismo americano, segnalando come già nel
1955 l’influenza statunitense si configurasse nei termini di un «vero e proprio
14
Cesare Musatti, Cina 1955, «Comunità», 35, 1955, pp. 10-31: 31.
15
Marcello Dell’Omodarme, Il fallimento della federazione Rhodesia-Niassa, «Comunità», 87,
1961, pp. 27-31: 27.
16
L’impegno dell’anticolonialismo, «Comunità», 114, 1963, pp. 1-2.
17
Sull’egemonia culturale americana in Europa cfr. Victoria De Grazia, Irresistible Empire:
America’s Advance Through Twentieth-Century Europe, Harvard University Press, Cambridge
(MA) 2005; trad. it. di Andrea Mazza e Luca Lamberti, L’impero irresistibile: la società dei consumi
americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006. Cfr. anche Dominque Barjot e Christophe
Réveillard (a cura di), L’américanisation de l’Europe occidentale au XXe siècle: mythe et réalité, Pres-
ses de l’Université Paris-Sorbonne, Paris 2002.
94 Erica Bellia
Vogliamo [qui Doglio sta retoricamente adottando il punto di vista dei fautori co-
munisti e socialisti della nazionalizzazione, pur senza condividerlo] che l’ENI agisca
più attivamente di come fa, lasciando scoperte troppo larghe zone del territorio nazio-
nale e procedendo – in sede metano – in modi che non si differenziano da quelli di uno
sfruttamento monopolistico. Siamo assolutamente contrari all’intervento in Italia delle
Compagnie del Cartello, le «sette sorelle» (5 americane e 2 inglesi) che fanno il buono e
il cattivo tempo nel mondo e trattano tutti i paesi produttori di petrolio come paesi co-
loniali. Vogliamo la nazionalizzazione anche per far sì che il petrolio costi in Italia molto
meno del prezzo internazionale, sì da poterlo usare come fonte di energia per una reale
industrializzazione delle nostre aree sottosviluppate e anzitutto nel Mezzogiorno21.
18
Paolo Vittorelli, I pericoli della sicurezza, «Comunità», 30, 1955, pp. 2-11: 3.
19
Adriano Olivetti, Dall’America: lettere ai familiari (1925-1926), Edizioni di Comunità, Roma
2020, Ebook Edition, pp. 48 e 96.
20
Per una valutazione economica dell’acquisizione, cfr. Federico Barbiellini Amidei e Andrea
Goldstein, Corporate Europe in the US: Olivetti’s Acquisition of Underwood Fifty Years On, «Busi-
ness History», 54.2 (2012), pp. 262–284.
21
Carlo Doglio, L’Abruzzo e il petrolio, «Comunità», 38 (1956), pp. 22-31: 24.
Colonizzati o colonizzatori? 95
22
Cfr. almeno Enrico Mattei, Il complesso d’inferiorità, Edizioni di Comunità, Roma, 2020, e Luca Pe-
retti, L’Algeria e l’ENI, «Il lavoro culturale», 1° novembre 2017, reperibile al seguente URL: https://www.
lavoroculturale.org/algeria-eni-sentieri-decolonizzazione/luca-peretti/ (consultato il 1° dicembre 2020).
23
C. Doglio, L’Abruzzo e il petrolio cit., p. 27: «Quale ruolo era riservato alla gente d’Abruzzo?
Solo quello di oggetto del piano [non si allude qui a quello olivettiano ma a un piano elaborato da Cas-
sa del Mezzogiorno ed ENI], sicché la trasformazione di quella – sua – vita sociale avvenga secondo
una serie di meccaniche reazioni a catena di carattere puramente economico?».
24
Ivi, pp. 29-30.
25
Sul concetto di «sradicamento» negli ambienti olivettiani va ricordato che, per le Edizioni di Comu-
nità, era uscita nel 1954 la traduzione di Franco Fortini di: Simone Weil, L’Enracinement, prélude à une dé-
claration des devoirs envers l’être humain, Gallimard, Paris 1949; trad. it. di Franco Fortini, La prima radice:
preludio ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954.
96 Erica Bellia
Gallino era stato autore, insieme con Carlo Fruttero, di una traduzione
dell’Uomo invisibile dello scrittore afroamericano Ralph Ellison, cui si fa qui
riferimento27. La riforma agraria degli anni Cinquanta, pensata per trasforma-
re i braccianti in coloni, dotati di proprietà sulla terra, agli occhi di Gallino
temperava parzialmente lo sradicamento e l’«invisibilità» contadina anche
per mezzo dell’introduzione di cooperative, sebbene anche questo si configu-
rasse come un processo non spontaneo e autonomo ma indotto dall’alto per
scongiurare il rischio di esperimenti comunisti. È possibile osservare come,
ancora una volta, il riferimento a contesti coloniali o para-coloniali sia usa-
to in funzione autoriflessiva: gli «uomini invisibili», contrappunto del sogno
americano, sono allegoricamente assimilati ai braccianti sradicati, contrap-
punto del miracolo italiano.
Quasi dieci anni più tardi, quando l’opposizione all’imperialismo ame-
ricano prende il posto dell’anticolonialismo propriamente detto28, è ancora
Giampaolo Calchi Novati, nel 1964, a parlare della «condizione negra»29. Nel
contesto di una riflessione sul pensiero di James Baldwin, Louis E. Lomax e
Daniel Guérin, Calchi Novati legge le lotte degli afroamericani in continuità
con quelle dei popoli in via di decolonizzazione e arriva a concludere che «ai
negri spetta forse il compito d’essere la coscienza degli Stati Uniti, dell’occi-
dente, del mondo capitalista»30.
Alla luce di quanto emerso da questa analisi – per forza di cose cursoria
– di alcune annate della rivista «Comunità», è possibile comprendere meglio
quale fosse la reale portata dell’anticolonialismo proclamato nella dichiara-
zione politica del Movimento Comunità, osservarne le sfumature ideologiche
e culturali, coglierne la dimensione autoriflessiva e stratificata tra scala locale
e globale. Inoltre, grazie alla contraddizione innescata dalle allegorie coloniali
impiegate da Ottieri per parlare dell’industria, è possibile leggere il processo
26
Luciano Gallino, La riforma agraria nel Delta Padano (I), «Comunità», 54, 1957, pp. 20-33: 29.
27
Cfr. Ralph W. Ellison, Invisible Man, Random House, New York 1952; trad. it. di C. Fruttero
e L. Gallino, Uomo invisibile, Einaudi, Torino 1956.
28
Cfr. Marica Tolomelli, Dall’anticolonialismo all’anti-imperialismo yankee nei movimenti ter-
zomondisti di fine anni Sessanta, «Storicamente», 12, 2016, pp. 1-33, reperibile al seguente URL:
https://storicamente.org/tolomelli-dall-anticolonialismo-all-anti-imperialismo (consultato il 1° di-
cembre 2020).
29
Gian Paolo Calchi Novati, La condizione negra, «Comunità», 121, 1964, pp. 44-48.
30
Ivi, p. 48.
Colonizzati o colonizzatori? 97
Non è tanto l’industria come fabbrica o come società dei vari benesseri […]. Il peri-
colo è nella sua «cattolicità» etnocentrica (malattia di tutti gli organismi che si sentono
superiori) che vuole attrarre nella propria orbita e poi colonizzare tutte le culture di tipo
diverso, senza preoccuparsi se questo avvenga attraverso l’imperialismo di pace o di
guerra o attraverso la strategia leninista31.
31
Ferdinando Camon, Il mestiere di scrittore: conversazioni critiche, Garzanti, Milano 1973, pp.
133-134.
Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini
1
Tecnologia, democrazia e ignoranza. Intervista a Luciano Gallino, a cura di E. Ferrara, «Lo
Straniero», 89, 2007, p. 32; ripresa in «Altronovecento», 31, 2017 (http://www.fondazionemicheletti.
it/altronovecento).
2
Lettera del 4/2/1956, Adriano Olivetti al prof. Luciano Gallino, Associazione Archivio Storico
Olivetti, https://archividigitaliolivetti.archiviostoricolivetti.it/collections/object/detail/26534/.
L’ospite ingrato ns 6
100 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini
3
Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti (a cura di P. Ceri),
«Comunità», Torino, 2001.
4
Ivi, p. 73.
5
Luciano Gallino, Partecipazione agli utili e azionariato operaio, «Comunità di fabbrica», 9, 4,
1958, p. 1.
6
Ivi, p. 3.
7
Ibid.
8
Ivi, p. 4.
9
Luciano Gallino, Condizione operaia e relazioni umane. Punti per un dibattito, «Comunità»,
40, 1956, p. 30.
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 101
10
Luciano Gallino, I saggi metodologici di Max Weber, «Rivista Comunità», 69, 1959, p. 91.
11
Luciano Gallino, Primi dati sul livello di vita delle famiglie operaie eporediesi, «Comunità di
fabbrica», 6, 4, 1958, p. 1.
12
Luciano Gallino, La riforma agraria nel Delta Padano, «Rivista Comunità» (2 articoli), 54,
1957, p. 20; 55, 1958, p. 30.
13
Luciano Gallino, Progresso tecnologico ed evoluzione organizzativa negli stabilimenti Olivetti
1946-1959: ricerca sui fattori interni di espansione di un’impresa, Giuffrè, Milano 1960.
14
Ivi, p. 31.
15
Adriano Olivetti, L’ordine politico delle Comunità, Nuove Edizioni, Ivrea 1945.
102 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini
Come si può intuire, gli interessi di Gallino sono stati non solo inter-
disciplinari, ma sempre orientati su questioni teoriche di fondo; il suo stile
conoscitivo ha sempre abbinato una prospettiva storica ampia, ma arricchi-
ta da esperienze circoscritte, studiate in modo rigoroso nei minimi dettagli.
Gallino era capace di partire dall’analisi della struttura tecnologica di una
macchina per decifrarne l’impatto diretto sul processo lavorativo. Fra gli ar-
gomenti ricorrenti, grande importanza ha la riflessione sui limiti di ciascun
cittadino nella partecipazione alle attività socio-economiche. Perché, come
lui stesso sovente sottolineava, da un lato vi è il problema per cui le masse non
posseggono, né mai potranno possedere, la capacità o il tempo o il desiderio
di prendere decisioni complicate; dall’altro, la constatazione che, a differenza
di quanto pensava Schumacher16, secondo cui «piccolo è bello», il problema
delle dimensioni è cruciale, perché modifica la sostanza dei processi; ciò che
si proietta su scala estremamente grande ha un impatto sulla vita di tutti e si
manifesta perciò in modo differente da ciò che ha dimensioni contenute17; è
su scala globale, infatti, che le tecnologie rivelano la loro ingovernabilità e la
perdita di senso della razionalità strumentale di cui sono effetto; e lo stesso
purtroppo vale anche per gli strumenti finanziari dell’economia, se non addi-
rittura per il concetto stesso di democrazia.
1. L’economia e il lavoro
16
Come sosteneva Ernst F. Schumacher in Small is Beautiful: a Study of Economics as if People
Mattered, Blond & Briggs, London 1973, trad. it. di Daniele Doglio Piccolo è bello. Uno studio di
economia come se la gente contasse qualcosa, Mursia, Venezia 2011.
17
Come spiegò benissimo il premio Nobel per la fisica Phil Anderson, nel suo saggio More is
different sulla complessità dei sistemi scientifici, uscito sulla rivista «Science» nel 1972 (Vol. 177,
4047, p. 393).
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 103
La psicologia del suddito è stata in gran parte soppiantata da masse di persone che
sanno come influire sul corso delle proprie azioni, e hanno acquisito la cultura economi-
ca e politica necessaria per farlo, pur tra errori ed esasperazioni. Di tale inedita capacità
il loro lavoro usa mediamente una frazione minima. L’informatica offre un’opportunità
senza precedenti per avvicinare i due termini: per sviluppare il processo già in corso nelle
organizzazioni produttive, ma anche per evitare che esso assomigli al sistema politico
esterno, dove l’esercizio di una facoltà costituzionale appare vieppiù dissociato dalla
possibilità di esercitare nella pratica quotidiana quelle stesse capacità di decisione che
tale atto dovrebbe garantire21.
la qualità del lavoro, il grande tema degli anni Sessanta e Settanta su cui un’intera
generazione di sociologi ha discusso e fatto ricerca, è completamente scomparso dal loro
orizzonte. Ma perfino i sindacati non usano più discuterne23.
In questo ambito, l’insieme dei suoi studi su alcune delle tematiche oggi
più attuali – si pensi anche solo al già citato nesso fra informatica e qualità del
lavoro – possono aiutare a comprendere meglio gli orizzonti di possibilità
che si aprono nei periodi di profondi mutamenti sociali, come quello attuale;
a questo proposito, basta rileggere l’introduzione alla nuova edizione Einau-
18
Luciano Gallino, Etica cognitiva e sociologia del possibile, «Quaderni di Sociologia», 28, 2002, p. 25.
19
Luciano Gallino, Una sociologia per la società mondo, «Quaderni di Sociologia», 70-71, 2016, p. 47.
20
Luciano Gallino, Informatica e qualità del lavoro, Einaudi, Torino 1983.
21
Ivi, p. 135.
22
Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe (a cura di Paola Borgna), Laterza, Roma-
Bari 2012.
23
Ivi, p. 174.
104 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini
La mondializzazione di questi diritti, in luogo della loro erosione o del loro ottundi-
mento, è lo scopo che ancora oggi ci propone Adriano Olivetti. Un simile impegno può
subire sconfitte, più o meno durature. Ma queste appaiono leggere rispetto all’onta che
ci coglierebbe se ci sottraessimo a esso, e alla consapevolezza che dalla sua parte esso ha,
ancor più di ieri, la speranza di innumerevoli esseri umani25.
2. La tecnologia
Questo vale in un doppio senso: c’è l’area delle cose che sappiamo di non sapere,
importante ma tutto sommato definita, intorno alla quale si possono impostare filoni
24
Herbert Marcuse, L’uomo a una dimensione. L’ideologia della società industriale avanzata (già
tradotto da Luciano Gallino dall’inglese insieme con la moglie, Tilde Giani, per la prima edizione del
1967), Einaudi, Torino 1991.
25
L. Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti cit., p. 147.
26
Luciano Gallino, Tecnologia e democrazia, Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pub-
blici, Einaudi, Torino 2007.
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 105
di indagine, e ci sono le cose che non sappiamo nemmeno di non sapere e che quindi è
molto difficile cercare […]; preferisco usare il termine tedesco «nicht-wissen», perché è
meno peggiorativo: l’ignoranza connota una sorta di consapevolezza, mentre nel non-
sapere il soggetto è meno suscettibile di critiche27.
27
Tecnologia, democrazia e ignoranza. Intervista a Luciano Gallino cit., p. 36.
28
Ibid.
29
Si vedano gli articoli su Metodologia ed epistemologia delle scienze sociali in «Quaderni di
sociologia», 57, 2013.
106 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini
3. Quale futuro
Allo scopo di rendere almeno immaginabili dei mutamenti che per ora immagina-
bili non sono, io penso che la sociologia possa dare dei contributi importanti. Penso
che a questo fine la sociologia dovrebbe, almeno in parte, trasformarsi in sociologia del
possibile. Non vedo a quale altra disciplina si potrebbe chiedere di individuare a quali
forme sociali, quali modalità di convivenza, quali comportamenti individuali e collettivi
oggi inesistenti, ma realisticamente possibili potranno permettere al mondo di uscire dal
binario senza ritorno che sembra avere imboccato31.
30
Si veda, come esempio, il saggio di Gabriele Lolli (I teoremi di incompletezza, il Mulino, Bo-
logna 2019) sul lavoro del matematico statunitense Kurt F. Gödel, che negli anni ’30 del Novecento
cambiò il corso della filosofia della scienza, svelando la natura della nuova logica, fatta anche di anti-
nomie e paradossi in grado di infrangere il sogno di Leibnitz del calcolo come risoluzione di qualsiasi
controversia.
31
Luciano Gallino, Etica cognitiva e sociologia del possibile, «Quaderni di Sociologia», 28, 2002,
p. 25.
32
Tecnologia, democrazia e ignoranza. Intervista a Luciano Gallino cit., p. 38.
Magistero scientifico e impegno politico in Luciano Gallino 107
esaurimento delle fonti fossili. La pubblicità è diventata verde, tutti si stanno occupando
dell’idrogeno o di cose del genere sul piano tecnologico, ma è chiaro che non si sta fa-
cendo abbastanza sul piano etico-politico33.
dal punto di vista della valutazione delle conseguenze delle tecnologie, comprese
quelle della diffusione di conoscenze e pratiche scientifiche, il nostro Paese è assai indie-
tro. L’unico paese dove si discute – e dove ministri hanno perso il posto per aver detto
che il primo ministro Mr. Blair manipolava l’informazione scientifica – è il Regno Unito.
Negli altri paesi, Italia in coda, si fa assai poco per garantire la produzione e la diffusione
di evidenza scientifica indenne da pressioni politiche o economiche34.
Ad esempio, il prezzo dell’acqua usata nei cicli industriali dovrebbe includere il co-
sto della sua depurazione. Lo stesso principio si può estendere ai boschi o ai terreni
agricoli destinati a usi industriali35.
33
Ibid.
34
Ivi, p. 39.
35
Ibid.
108 Francesco Ciafaloni, Enzo Ferrara, Fulvio Perini
36
Ibid.
37
Ibid.
Cesare Pomarici
1
Adriano Olivetti, Ai lavoratori di Pozzuoli, in Id., Città dell’uomo, Edizioni di Comunità, Ro-
ma-Ivrea 2016, pp. 126-127.
2
Un dettagliato bilancio dell’esperienza degli psicologi olivettiani è contenuto in: Cesare Musatti,
Giancarlo Baussano, Francesco Novara, Renato Rozzi, Psicologi in fabbrica. La psicologia del lavoro
negli stabilimenti Olivetti, Einaudi, Torino 1980; Francesco Novara, Renato Rozzi, Roberta Garruc-
cio, Uomini e lavoro alla Olivetti, Mondadori, Milano 2005.
3
L’idea in questione è magistralmente riassunta in Olivetti, Urbanistica e libertà locali, in Id.,
Città dell’uomo cit., pp. 78-79: «gli ingegneri, i tecnici, gli amministratori delle industrie debbono
L’ospite ingrato ns 6
110 Cesare Pomarici
finalmente persuadersi che le loro ricerche e i loro sforzi devono essere al servizio dell’umana civiltà
e che vale la pena di affrontare una apparente perdita di rendimento se l’uomo potrà evitare l’aliena-
zione prodotta dalle fabbriche gigantesche, e dal distacco opprimente dalla natura. Nella millenaria
civiltà della terra il contadino guardando le stelle poteva vedere Dio, perché la terra, l’acqua, l’aria
esprimono in continuità uno slancio vitale, poiché l’acqua non serve soltanto a lavare il corpo, ma
essa riguarda anche l’anima perché come un battesimo purifica il cuore. Anche l’aria lievissima della
montagna è alimento dell’anima e la terra può allietare lo spirito perché in essa c’è la presenza con-
tinua del Dio vivente. Per questo, il mondo moderno avendo racchiuso l’uomo negli uffici, nelle
fabbriche, vivendo nelle città tra l’asfalto delle strade e l’elevarsi delle gru e il rumore dei motori e il
disordinato intrecciarsi dei veicoli, rassomiglia un poco a una vasta, dinamica, assordante, ostile pri-
gione dalla quale bisogna, presto o tardi, evadere. Bisogna aver dunque il coraggio di affermare che la
nostra società è ammalata, è mentalmente ammalata, poiché ci troviamo dinnanzi a una vera, autentica
malattia dell’anima provocata dallo sradicamento, dallo sradicamento involontario. Quando un uomo
lascia la sua terra sotto la spinta della miseria, il villaggio che lo vide nascere, dove ancora lo attende il
sorriso di una madre e spesso ancora l’amore dei figli e l’appello di una sposa, si produce nella psiche
dell’esiliato un trauma».
L’altro volto dell’inconscio 111
native e per l’esoterismo» (Galli, Prefazione cit., p. 14). Tale interesse – che
accumunava già numerose personalità di spicco nell’Italia di inizio Nove-
cento (cfr. Galli, ivi, p. 12: dagli Agnelli ad «Amendola, Evola, D’Annunzio,
Reghini, sino a sfiorare Mussolini») – colse anche alcuni rami della famiglia
Olivetti. Nel caso di Adriano questa giovanile curiosità – ricordata in maniera
affettuosa anche da Gino Martinoli4 – si mantenne viva e fu oggetto di appro-
fondimento per tutto il suo arco biografico, diventando nel tempo una vera
e propria prassi orientativa. Come sostiene il suo biografo Ochetto (Adriano
Olivetti. Industriale e utopista cit., p. 190), infatti, «nella biblioteca personale,
accanto ai classificatori con gli oroscopi e le “expertise” di grafologia», ab-
bondavano «i testi iniziatici, parapsicologici, misterici da Annie Besant, alla
Blavatsky, allo Yoga»5. E non era certo una forma regressiva di superstizione,
questa inclinazione per le culture alternative, bensì la convinzione, quasi reli-
giosa, che fosse necessario mappare e interpretare – come se fossero continui
rimandi ad una dimensione «altra» e più grande – i numerosi e controversi
«segni» che costellavano la sua esperienza biografica6.
Di pari passo con la sua crescita professionale ed intellettuale7, si faceva
strada nel pensiero di Adriano Olivetti la percezione che il grande sviluppo
della società industriale da lui stesso incentivato recasse con sé – come con-
4
Le due citazioni inserite nel paragrafo in questione sono prese da Giorgio Galli, Prefazione,
in Erica Olivetti, Gli Olivetti e l’astrologia, Edizioni Mediterranee, Roma 2004, pp. 9-35. Questa la
testimonianza, non priva di un sottile (o forse affrettato) fraintendimento, riportata da Martinoli ad
Alberto Saibene (Ernst Bernhard e Adriano Olivetti: una traccia, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 120):
«mia madre era molto contenta di un genero come Adriano […]. Con lei parlava di argomenti – le
streghe, le chiromanti, la lettura della mano, la grafologia – banditi dal razionalismo di mio padre e
anche dal mio».
5
Per quanto Olivetti non fosse «affatto un bibliofilo» (cfr. Marco Maffioletti, La biblioteca di
Adriano Olivetti, Fondazione Adriano Olivetti, Roma-Ivrea 2012, p. 244), questi sono i titoli di
argomento strettamente astrologico presenti – insieme a numerose opere di Rudolf Steiner e ai due
volumi della Cosmogenèse di Helena Petrovna Blavatsky – nella sua biblioteca privata: Tommaso
Palamidessi, La medicina e gli influssi siderali: primi elementi di astrologia medica, Bocca, Milano
1940; Evans Colin, The new Waite’s Compendium of natal astrology: with ephemeris for 1870-1960
and Universal table of houses, Routledge & Paul, London 1953; Nicola Sementovsky Kurilo, Nuovo
trattato completo di astrologia: teorica e pratica, U. Hoepli, Milano 1955.
6
A questo proposito si veda il ritratto di Adriano fatto dalla nipote, Erica Olivetti, nel suo vo-
lume dedicato a Gli Olivetti e l’astrologia cit., p. 104: «era un estimatore delle discipline esoteriche
(Urano in Sagittario trigono al Sole) che non solo lo avevano sempre interessato, ma per le quali nutri-
va un profondo rispetto, traendone consigli utili e suggerimenti per la sua vita: ambiva essere l’uomo
nuovo che portava pace e benessere alla comunità e perciò consultava astrologi e altre persone degne
di fama, perché lo illuminassero in tal senso aiutandolo a esprimersi a fondo».
7
Un ottimo saggio delle esperienze e delle letture filosofiche che hanno guidato il processo for-
mativo-professionale di Adriano Olivetti è fornito dalla raccolta epistolare Dall’America: lettere ai
familiari (1925-26) e dai saggi raccolti in Città dell’uomo. In questi scritti, accanto al resoconto delle
concrete esperienze industriali, si coglie apertamente anche l’imprinting di alcuni autori fondamentali
per il pensiero olivettiano, quali soprattutto la Simone Weil di Prima radice e gli esponenti di punta
del personalismo cristiano quali Emmanuel Mounier e Jacques Maritain.
112 Cesare Pomarici
8
Cfr. A. Olivetti, Il momento dell’urbanistica, in Id., Città dell’uomo cit., p. 247: «divisioni orizzontali
e verticali, incrociandosi tra loro – in assenza di un vero coordinamento – finiscono per incasellare ogni
attività umana, costringendola entro limiti sempre più rigidi, sempre più ristretti, sempre più artificiosi. In
questa pesante, caotica situazione non vi è né vera libertà né traccia di armonia. Il conflitto fra individuo e
comunità, tra individuo e società non è risolto a favore di nessuno dei contendenti, mentre si è instaurato il
tempo del disordine. Ma vi è anche un’altra constatazione ugualmente immediata: che tutte le attività della
vita moderna, pur così sezionate e frazionate operano, tuttavia e necessariamente, in un unico ambiente e
su di un unico sostegno fisico fondamentale: la natura, lo spazio. Un indistruttibile principio di unità, con
invisibile filo lega insieme le attività che la vita moderna ha così artificiosamente separato».
9
Citazione presa da Antonio Vitolo, «Genius loci», individuazione, sacrificio, dono: Ernst Bern-
hard e Adriano Olivetti, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 153.
10
Cfr. Sandro Sartor in E. Garruccio, F. Novara, R. Rozzi, Uomini e lavoro alla Olivetti cit., p.
135: «però la selezione del personale laureato e diplomato era – non saprei come definirla – meno
scientifica, essendo appunto un processo di cooptazione. Devo dire che, fra i tanti selezionatori che
ho visto lavorare, non ci sono mai stati clamorosi insuccessi; anche perché, facendo molti colloqui, e
soprattutto vedendo fare molti colloqui, e da più persone, si finiva con l’acquisire una taratura: nella
selezione, l’importante è riuscire a capire quali siano i valori dell’azienda; a individuare “l’archetipo”
di persona che l’azienda cerca».
11
A questo proposito si legga l’ispirato discorso introduttivo che Olivetti scrisse per il lancio
della sua nuova rivista di architettura, non a caso chiamata «Zodiac» (1, 1957, pp. 5-6): «e allora bi-
L’altro volto dell’inconscio 113
sogna ricorrere deliberatamente all’istanza felice, determinante, quella che presto o tardi è destinata
a trionfare delle incertezze, degli ostacoli, dell’immaturità: il bisogno, la necessità di radicamento,
di ritrovare nella terra, nel paesaggio, nelle tradizioni, anche le forme architettoniche, l’affetto degli
uomini per la loro comunità, il sentimento totale e naturale del luogo».
12
Cfr. Carl Gustav Jung, Die Traumanalyse. Uber die Archetypen des kollektiven Unbewussten.
Synchronizität als ein Prinzip akausaler Zusammenhänge, Foundation of the Works of C.G. Jung,
Zürich 2007; trad. it. di L. Personeni, S. Daniele, E. Schanzer, A. Vitolo, L’analisi dei sogni. Gli arche-
tipi dell’inconscio. La sincronicità, Bollati-Boringhieri, Torino 2011, p. 250. Fin dal 1912, la frattura
con Freud spinse Jung ad ampliare lo spettro della sua ricerca sull’inconscio, indagando nuovi campi,
concernenti, ad es., «il misticismo, le scienze occulte, l’alchimia, la storia delle religioni, la mitologia,
la ritualistica ed anche l’astrologia» (Aldo Carotenuto, Jung e la cultura italiana, Astrolabio Ubaldini,
Roma 1977, p. 116). Dell’astrologia, intesa come «antichissima scienza intuitiva», Jung (ivi, p. 103)
parlava già nel saggio Gli archetipi dell’inconscio collettivo (1934/1954). Su questo tema, vedi anche
Nicola Sementovsky-Kurilo, Nuovo trattato completo di astrologia teorica e pratica, Hoepli, Milano
1955, pp. 47-48.
13
Cfr. C.G. Jung, L’analisi dei sogni cit., p. 205: «ho scelto questo termine perché la contemporanei-
tà di due eventi connessi quanto al significato, ma in maniera acausale, mi è sembrata un criterio essen-
ziale. Io impiego dunque in questo contesto il concetto generale di sincronicità nell’accezione speciale
di coincidenza temporale di due o più eventi non legati da rapporto causale, che hanno uno stesso o un
analogo contenuto significativo». Un’ampia esegesi storico-critica del concetto di sincronicità è conte-
nuta nel volume di Marie Louise Von Franz, Psyche und Materie, Daimon Verlag, Einsiedeln 1988; trad.
it. di Antonio Vitolo, Psiche e materia, Bollati-Boringhieri, Torino 2016, pp. 140-193.
114 Cesare Pomarici
14
Per dare una prima generica idea di come intende questo rapporto acausale, Jung (L’analisi dei
sogni cit., p. 252) propone un parallelismo con le teorie di Plotino (Enneadi) e di Pico della Mirandola
(Heptaplus): «come in un corpo vivente parti diverse fanno contemporaneamente e conformemente al
senso cose sintonizzate tra loro, così anche gli eventi del mondo stanno in reciproco rapporto guidato
da un senso, rapporto che non può essere dedotto da causalità immanente. La ragione di questo fatto
è che sia in un caso sia nell’altro il comportamento delle parti dipende da una direzione centrale che
sta al di sopra di esse».
15
Questa è la spiegazione di Ira Progoff, Jung, synchronicity, & human destiny: Noncausal dimen-
sions of human experience, Julian Press, New York City 1973; trad. it. di Jean Sanders, Le dimensioni
non causali dell’esperienza umana, Astrolabio Ubaldini, Roma 1975, pp. 53-55 che, per illustrare le
dinamiche alla base della sincronicità, chiama in causa la Monadologia di Leibniz e i principi cardine
del Tao: «le immagini esistenti all’interno della psiche individuale sono pertanto riflessi dell’univer-
so in miniatura. I loro moti all’interno di ogni persona impersonano processi della psiche. Sono le
espressioni sotto forma individuale dei processi e dei ritmi che si muovono nel macrocosmo della
natura […]. Il Sé dell’individuo, che significa la totalità della persona, è allora un riflesso del cosmo
nel suo complesso».
16
Cfr. I. Progoff (Le dimensioni non causali cit., p. 74): «il processo che abbiamo chiamato “ab-
bassamento” del livello mentale ha luogo tramite l’intensificazione dei contenuti archetipici e della
conseguente attrazione di grandi quote di energia psichica al conscio. Il suo effetto primario è che
apre lo strato più profondo del Sé, ossia lo psicoide, a tutti i fattori presenti nel continuum del Sé».
17
Sul concetto di archetipo si vedano – oltre alla definizione generale presente in Carl Gustav
Jung, Psychologische Typen, Foundation of the Works of C.G. Jung, Zürich 2007, trad. it. di Cesare
Musatti e Luigi Aurigemma, Tipi psicologici, Bollati-Boringhieri, Torino 2011, pp. 490-498 e all’ot-
L’altro volto dell’inconscio 115
tima trattazione di Von Franz, Psiche e materia cit., pp. 3-32 – ancora Jung (L’analisi dei sogni cit.,
p. 100: «i contenuti dell’inconscio personale sono principalmente i cosiddetti “complessi a tonalità
affettiva” che costituiscono l’intimità personale della vita psichica. I contenuti invece dell’inconscio
collettivo sono i cosiddetti “archetipi”») e Progoff (Le dimensioni non causali cit., p. 99: «in questo
senso, quelli che Jung definisce archetipi sono dei fattori organizzativi specifici che operano nel regno
della psiche. Portano con sé strutture e modi definiti con cui organizzano i contenuti della psiche, ma,
come Jung rileva, la loro strutturazione è “sempre un processo inconscio che non può essere scoperto
che dopo”»).
18
Cfr. Roberto Sicuteri, Astrologia e mito. Simboli e miti dello zoodiaco nella psicologia del pro-
fondo, Astrolabio Ubaldini, Roma 1978, pp. 15 e 13: «la lettura del grafico oroscopico, infatti, agisce
in profondità soltanto attraverso il tempo e soltanto dopo ripetute interpretazioni ed elaborazioni
dei suoi simboli, in modo da suscitare le più profonde emozioni inconsce ed agganciare le formazioni
archetipiche».
19
Nella biblioteca personale di Olivetti figurano le seguenti opere di Jung (cfr. M. Maffioletti,
La biblioteca di Adriano Olivetti cit., pp. 91, 122, 125 e Riccardo Bernardini, Nota curatoriale,
«l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 14, n. 3): Modern Man in Search of a Soul (1933), The Integration of
the Personality (1940), Essays on Contemporary Events (1947) nell’edizione inglese di Paul Kegan;
Psicologia e Alchimia (1950), tradotto da R. Bazlen per l’editore romano Astrolabio; Psychological
Reflections: An Anthology of the Writings of Carl Gustav Jung (1953) nell’edizione newyorkese di
Pantheon Books; la Prefazione all’edizione italiana dell’I Ching (a cura di Bruno Veneziani, Roma,
Astrolabio 1950). Su questo tema scrive ancora M. Maffioletti, L’impresa ideale tra fabbrica e co-
116 Cesare Pomarici
di pubblicazione delle opere di Jung da parte delle due case editrici olivet-
tiane (Nuove Edizioni Ivrea e Edizioni di Comunità)20 – è profondamen-
te connesso alla figura storica di Ernst Bernhard, allievo di Jung e originale
interprete-divulgatore della teoria sincronica21, nonché, come si vedrà, figura
di riferimento – a partire all’incirca dal 1945 – nella vita privata dell’ingegne-
re. Emblematica a proposito del rapporto, almeno decennale, fra Olivetti e
il «maestro segreto» (R. Màdera, Maestri scomodi cit., p. 146) è la dichiara-
zione – confermata anche da svariati studiosi e biografi dell’ingegnere22 – di
Erica Olivetti, che, nella premessa del suo Gli Olivetti e l’astrologia cit., p. 7,
dichiarava: «mio zio Adriano frequentava con assiduità l’analista junghiano
Ernst Bernhard, esperto astrologo, cui spesso chiese di fare il piano natale dei
munità cit., p. 151: «tornato dal breve soggiorno a Londra, nel maggio 1927 Adriano Olivetti sposò
con rito civile Paola Levi, figlia di Giuseppe Levi e sorella dell’amico Gino, di cui si era innamorato
sin dal primo incontro. Insieme partirono per un lungo viaggio attraverso l’Europa. Andarono a
Interlaken, in Svizzera, dal dottor Charles Baudouin, uno psicanalista che egli avrebbe continuato
a seguire nei decenni seguenti, quando rileggeva in chiave personalista e socialdemocratica Jung,
Kant, Proudhon, Mounier, Keyserling, i tomisti e Charles Renouvier, tutti autori più o meno cari
ad Adriano Olivetti».
20
Per quanto riguarda l’iniziativa editoriale, Adriano Olivetti fu – insieme a Einaudi – tra i primi
titolari dei diritti delle opere di Jung in Italia: infatti, tra il 1942 e il 1948 uscirono prima per i tipi delle
Nuove Edizioni Ivrea – la casa editrice ideata nel 1941 insieme a Bernhard e Roberto Bazlen e sotto
la guida già menzionato psicoanalista Cesare Musatti – i Tipi psicologici (1942), poi, per le Edizioni di
Comunità – la società editrice che nacque a séguito della chiusura della N.E.I. –, Psicologia e religione
(1948). Questo primo dato di storia editoriale del gruppo Olivetti – per quanto non chiami in causa
direttamente la persona di Adriano Olivetti – attesta in maniera irrefutabile l’importanza di lunga
durata del pensiero junghiano, anche quello più mistico e controverso, all’interno di quella che è stata
definita «la biblioteca diffusa» – formata tanto dalle «biblioteche di fabbrica» e da quelle dei Centri
Comunitari, quanto grazie alla diffusione delle idee attraverso i dibattiti e i collaboratori ai progetti
comunitari, e all’iniziativa delle Edizioni di Comunità – della cittadella eporediese.
21
Come notato da Riccardo Bernardini (Ernst Bernhard: relazione analitica e guida spirituale,
«l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 85), lo stesso Jung si sarebbe giovato delle competenze astrologiche di Ber-
nhard per portare a termine il suo studio sulla sincronicità. In questo frangente, quindi, il pensiero
dello studioso berlinese, per quanto sempre ispirato dal giovanile apprendistato junghiano, si rivela
autonomo e complementare rispetto a quello del suo maestro svizzero. A questo proposito, si leggano
dall’epistolario Bernhard-Jung (Lettere fra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung, a c. di Giovanni Sorge,
La biblioteca di Vivarium, Milano 2001, pp. 40 e 53) le lettere di Jung a Bernhard (20.07.1949: «caro Col-
lega, attualmente mi sto dedicando a una ricerca sulla sincronicità, per la quale ho bisogno di un deter-
minato materiale astrologico e precisamente di oroscopi di coniugi») e di Bernhard a Jung (14.10.1952:
«così queste righe di ringraziamento per la Sua gentile spedizione della “Sincronicità” […]. Spero che
l’incontro previsto in occasione della mia prossima visita in Svizzera offra l’opportunità di conoscere
più da vicino il Suo parere in relazione ad alcuni aspetti del problema della sincronicità».
22
Cfr. Valerio Ochetto, Adriano Olivetti, Mondadori, Milano 1985, pp. 189-190; Marcello Pi-
gnatelli, Uomini di buona volontà, in Romano Màdera, Maestri scomodi. Ernst Bernhard, Buber e
Jung, Astrolabio, Roma 1996, p. 87; Giovanni Sorge, Divagazioni minime intorno al carteggio, in E.
Bernhard, C.G. Jung, Lettere fra Ernst Bernhard e Carl Gustav Jung cit., p. 17; Mario Ganz, Ernst
Bernhard (1896-1965): un «maestro scomodo» della psicologia del profondo, Tesi di Laurea, Facoltà
di Psicologia, Università degli studi di Padova, a. a. 2003/2004, p. 64; A. Saibene, L’Italia di Adriano
Olivetti cit., pp. 45-63; R. Bernardini, Jung nelle Nuove Edizioni Ivrea (NEI) cit., p. 169; A. Vitolo,
«Genius loci», individuazione, sacrificio, dono: Ernst Bernhard e Adriano Olivetti cit., p. 152.
L’altro volto dell’inconscio 117
23
Cesare Musatti, Un ricordo molto particolare, in Francesca Giuntella-Angela Zucconi (a cura
di), Fabbrica Comunità Democrazia. Testimonianze su Adriano Olivetti e il Movimento Comunità,
Fondazione Adriano Olivetti, Roma 1984, pp. 15-17.
24
Citazione presa da Paolo Aite, Ricordando Ernst Bernhard, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 66. Altre
dichiarazioni, di simile tenore, sono state raccolte da Ganz (Ernst Bernhard [1896-1965]: un «maestro
scomodo» cit., pp. 78-90). Tra esse spicca la testimonianza orale di Pignatelli: «al primo incontro –
racconta Marcello Pignatelli – mi chiese l’ora e la data di nascita […]; rimasi totalmente perplesso
[…], e mi pregò di recarmi all’anagrafe per conoscere l’ora esatta. La seduta più tardi mi compilò un
oroscopo personale, sulla base del tema natale, che fra l’altro io ritenni molto vicino all’immagine che
mi ero fatto di me».
25
Sul rapporto fra Bernhard e l’astrologia, si vedano ad es. Hélène Erba-Tissot, Introduzione,
in Ernst Bernhard, Mitobiografia, trad. it. di Gabriella Bemporad, Adelphi 1969, pp. XIX-XLIII; A.
Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., pp. 44-47 e 115-121; Giovanni Sorge, Ricordando Ernst
Bernhard. Frammenti di ritratto, in E. Bernhard, C.G. Jung, Lettere fra Ernst Bernhard e Carl Gu-
stav Jung cit., pp. 84-90; P. Aite, Ricordando Ernst Bernhard cit., p. 69; R. Bernardini, Ernst Bern-
118 Cesare Pomarici
hard: relazione analitica e guida spirituale cit., p. 85; Roberta Bussa, Ernst Bernhard e l’artista: tra
entelechia, mitologema e mito, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, pp. 115-116; Vincenzo Loriga, Ritratto di
Ernst Bernhard, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 296; A. Vitolo, «Genius loci», individuazione, sacrificio,
dono cit., pp. 143 e 150. Per avere misura diretta delle peculiarità del pensiero bernhardiano in àm-
bito astrologico, è bene citare per esteso la parte conclusiva di una sua lunga annotazione, intitolata
Delle funzioni, datata 23-27.02.1944, e compresa nella postuma Mitobiografia (cit., pp. 87-89): «la
grande misteriosa legge del tempo regna anche nel cosiddetto sincronismo (Jung), si sperimenta nell’I
King, nel parallelismo psicofisico, nell’armonia prestabilita (Leibniz), e con accentuazione pratica
nella astrologia. Il luogo e il tempo della nascita sono il punto d’incidenza, ma c’è anche un fattore
individuale […]. Qui interferiscono diverse leggi, che infine trovano posto entro la legge individuale.
In tale modo gettiamo anche un po’ di luce sulla celebre formula astrologica: le stelle “inclinano” ma
non costringono; noi diremmo: la costellazione degli astri, a partire dal momento e dal luogo della
nascita e con riferimento a essi, si adempie come legge cosmica temporale, a cui tutto in quel momento
è soggetto; viene però utilizzata e indirizzata dalla legge entelechiale individuale che si realizza col
suo aiuto e attraverso essa. – Ora anche le stelle sono proiezioni, “organi” dell’uomo, create dalle sue
immagini […]. – Per l’uomo vivono tutte le stelle. Come la pianta anima il tempo terrestre, l’animale
lo spazio terrestre, così l’uomo anima il tempo e lo spazio dell’universo e vi ritrova tanto le proprie
immagini interne quanto il proprio destino esterno. Egli riconosce qui consapevolmente, nell’estrema
lontananza, la propria legge interna, che nella cornice del suo destino necessariamente si adempie,
plasmata però in un modo unico dalla vera e propria legge entelechiale […]. L’astronomia considera
soltanto le leggi inorganiche, l’astrologia invece è la biologia delle stelle, le quali poggiano sulla legge
inorganica: essa riconosce un altro ordine organico che si serve delle leggi naturali astronomiche per il
proprio compimento. Questa grande legge del tempo, che tutto abbraccia, non può essere scritta nel
cielo perché poi lo spirito umano non la riconosca».
26
Cfr. Giancarlo Magno, Eredità ed eredi di Bernhard, «l’Ombra», n.s. 9, 2018, p. 73: «il tema
delle corrispondenze, del mirroring, che ritroviamo nell’astrologia […], non deriva da un atteggia-
mento estrovertito, bensì dalla capacità di osservare sé stessi come epifenomeno degli altri, nell’ottica
dell’Unus Mundus».
L’altro volto dell’inconscio 119
27
Cfr. A. Carotenuto, Jung e la cultura italiana cit., p. 116: «ora per Bernhard l’astrologia si do-
vrebbe occupare del senso diverso che le stelle assumono nel momento in cui sono coordinate da certe
leggi, e che permettono all’individuo, nato in un particolare momento, di sentirsi non una insignifi-
cante molecola, ma partecipante ad una totalità». In un altro appunto, datato 10.07.1955, Bernhard
scrive: «l’oroscopo, che già al momento della nascita o ancora prima determina il destino umano quale
espressione di una costellazione fondamentale, non lascia alcun dubbio che qui siamo davanti a una
“legge” che va molto al di là del caso e dell’arbitrio» (Mitobiografia cit., p. 159).
28
A tale proposito, in una nota intitolata Introversione, estroversione, identificazione, proiezione
e ritiro della proiezione, Bernhard scrive: «e insieme riconosco anche come il destino individuale si
serva di un necessario destino collettivo […] per raggiungere il proprio compimento. In tal senso le
immagini sono in realtà collettive, costellazioni, e il loro adempimento nella vita concreta è sempre
un compito individuale che ha più o meno buon esito, così come, ad esempio, anche le costellazioni
astrologiche sono forme che si presentano necessariamente, ma esigono un “ad-empimento” indivi-
duale» (Mitobiografia cit., p. 91). Sul medesimo tema, si veda anche Bianca Garufi, Una testimonian-
za, in R. Màdera, Maestri scomodi. Ernst Bernhard, Buber e Jung cit., pp. 75-76.
29
Cfr. Giulio Sapelli, Lo scandalo della memoria olivettiana, in F. Novara, R. Rozzi, E. Garruc-
cio, Uomini e lavoro all’Olivetti cit., p. 607: «Ernst Bernhard infatti fu la figura forse più importante
per consentire ad Adriano di convivere e coevolvere con l’ombra junghiana e quindi con i motivi
profondi del proprio operare».
120 Cesare Pomarici
su scala ridotta, nei criteri filosofici che ispiravano la sua idea di «Comunità» –
un suo peculiare riflesso anche nell’organizzazione aziendale30.
Conclusioni
30
Un saggio complessivo di questa visione cosmico-spirituale di Olivetti può essere dedotto dallo
scritto Le forze spirituali, in Città dell’uomo cit., pp. 13-20.
31
Sull’immagine mistico-simbolica della croce insiste lo stesso Olivetti nel discorso Ai lavoratori
di Ivrea, in Città dell’uomo cit., p. 144: «in quest’epoca l’ansioso desiderio di rinnovamento e di
salvezza raggiunge una più grande intensità, e la luce di un’epoca nuova, per un ordine più giusto e
più umano, si accende ancor sempre dietro la croce che rimane pur sempre l’asse immobile intorno
al quale ruota la storia».
Michele Pacifico
Nel 1949 Adriano Olivetti costituisce una società che chiama «Olivetti-
Bull», d’intesa con la società francese Compagnie des Machines Bull, con lo
scopo di commercializzare in Italia i macchinari per la meccanografia prodot-
ti dai soci francesi.
La Olivetti-Bull ha sede a Milano, si sviluppa molto bene e ottiene un
discreto successo vendendo e installando sistemi meccanografici a imprese
industriali e commerciali e a istituti di credito in tutta Italia. La società viene
guidata, nei suoi primi anni, da Ugo Galassi, negli anni Cinquanta Direttore
Generale di Olivetti; e successivamente da Ottorino Beltrami, che era stato
per qualche anno alle dirette dipendenze di Galassi e di Adriano. Fra i clienti
più significativi di Olivetti-Bull si possono ricordare la Fiat, la Manifattura
Marzotto di Valdagno, il Monte dei Paschi di Siena.
Nel 1952 Adriano affida al fratello Dino il compito di creare una base di
osservazione negli USA per seguire gli sviluppi dei calcolatori elettronici, che
stavano cominciando a diventare prodotti industriali. Viene costituito quindi
a New Canaan, nel Connecticut, un ufficio presidiato, agli inizi, da un gio-
vane ingegnere italiano, Michele («Mike») Canepa. Due anni dopo, Dino e
Adriano Olivetti conoscono a New York un professore della Columbia Uni-
versity, Mario Tchou, allora appena trentenne; lo assumono con il compito
di sviluppare ricerche nel campo dei calcolatori elettronici andando al di là
del presidio di New Canaan. Mario Tchou, cittadino italiano, nato nel 1924 a
Roma, dove si era laureato in ingegneria, era figlio di un diplomatico cinese
accreditato presso la Santa Sede.
Nel 1954, l’Università di Pisa si trova a disporre di una somma allora
importante – 150 milioni di lire – da investire in ricerca e decide di finanzia-
re il progetto di un calcolatore elettronico. Viene consultata la Olivetti per
avere qualche orientamento e Adriano mette a disposizione Mario Tchou
come persona di riferimento, affiancandolo ad alcuni tecnici selezionati per
l’occasione.
Il progetto dell’Università si sviluppa autonomamente, con qualche con-
tributo tecnico e organizzativo della Olivetti, mentre Tchou costituisce in lo-
calità Barbaricina, alle porte di Pisa, un Laboratorio di Ricerche Elettroniche
L’ospite ingrato ns 6
122 Michele Pacifico
1
Pier Giorgio Perotto, Programma 101. L’invenzione del personal computer: una storia appassio-
nante mai raccontata, Sperling & Kupfer, Milano 1991, p. 2.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 123
utilizza componenti allo stato solido (transistor e diodi), molto più affidabili
e moderni dei «tubi a vuoto».
Il terzo prototipo viene chiamato internamente «1T» («uno ti») in riferi-
mento ai suoi nuovi componenti principali, i transistor; e gli viene assegnato
il nome ufficiale di Elea 9003: siamo nel 1959 e Adriano Olivetti dà il via alla
diffusione commerciale di questa nuova macchina, che apre una pagina nuo-
va, senza precedenti, nel catalogo dei prodotti industriali della Olivetti.
Il passaggio dalla fase sperimentale a quella industriale è segnato da due
eventi: il trasferimento del Laboratorio di Ricerche Elettroniche da Barbari-
cina (Pisa) a Borgolombardo (Milano) e la creazione a Milano di una prima
task force finalizzata alla commercializzazione dell’Elea 9003, chiamata Divi-
sione Commerciale Elettronica.
Non si tratta di semplice logistica: nella visione a lungo termine di Adriano
Olivetti, a Milano, dove già operava con successo la Olivetti-Bull (che in dieci
anni aveva venduto e installato più di 450 centri meccanografici), avrebbe
dovuto svilupparsi un nuovo ramo della Olivetti, interamente dedicato alle
nuove tecnologie elettroniche; mentre a Ivrea avrebbe continuato a svolgersi
l’attività storica (e altamente redditizia) basata sulla produzione di macchine
per ufficio meccaniche ed elettromeccaniche.
Il compito di mettere insieme un gruppo di lavoro operativo destinato
a mettere sul mercato l’Elea 9003 viene affidato da Adriano Olivetti a un
brillantissimo tecnico proveniente dalla Olivetti-Bull e inquadrato come di-
rigente della Olivetti tre anni prima, quando aveva da poco compiuto 25 anni.
Elserino Piol (Pino per gli amici) è nato nel 1931 a Limana (BL), ha studiato
a Milano, ottenendo il diploma di perito industriale in uno dei più prestigiosi
Istituti tecnici di quella città, ed è un grande esperto di soluzioni meccanogra-
fiche maturate nella Olivetti-Bull. È dotato di grandi capacità di comunica-
zione e di leadership, che lo aiutano nel compito non banale di reclutare una
squadra di qualche decina di persone da destinare alla vendita del calcolatore
Elea 9003.
Piol riesce a farsi assegnare alcuni venditori già qualificati dalla potente
squadra di venditori della Olivetti. In particolare, fra quelli che apparten-
gono alla élite dei venditori di macchine contabili; ma non bastano. Quindi
decide di affidarsi agli uffici di reclutamento dei laureati e dei diplomati della
Olivetti per mettere in casa una importante pattuglia di neo-laureati e neo-di-
plomati. Il titolo di studio non è un vincolo: nel 1959 i calcolatori elettronici
non sono presenti neppure di nome nei piani di studio delle facoltà tecniche
e scientifiche delle università italiane, e men che meno nei programmi degli
istituti tecnici; quindi qualsiasi titolo di studio va bene, purché sia stato otte-
nuto nel migliore dei modi, come impone la regola Olivetti: massimo dei voti
e nei tempi istituzionali prestabiliti.
124 Michele Pacifico
re con successo i mercati internazionali nei quali si era affermata sotto la gui-
da di Adriano, ma la sua scomparsa favorì l’acuirsi di tensioni fra i familiari
azionisti che, unite alla difficoltà finanziarie provocate dall’acquisizione nel
1959 della società Underwood negli USA (un’operazione che si era rivelata
una specie di «incauto acquisto»), crearono le condizioni per una pericolosa
crisi di liquidità che si manifestò nel 1964. La crisi portò ad una serie di de-
cisioni strategiche che stravolsero completamente il futuro della Olivetti, in
particolare il futuro del settore che si occupava di calcolatori elettronici di
grandi dimensioni. Gli eventi sono noti e non è il caso di ricordarne gli intri-
cati dettagli: per capire il destino dei calcolatori Olivetti ci basterà ricordare
la decisione di scorporare tutte le attività derivate dall’ingresso di Olivetti nel
mercato dei calcolatori e della grande «elettronica», come la si chiamava allo-
ra (il termine «informatica» entrò nell’uso parecchio tempo dopo). Si decise
di trasferire tutte le risorse umane (circa 5000 persone), immobiliari, impian-
tistiche e patrimoniali, riconducibili al Laboratorio di Ricerche Elettroniche
e alla DCE (trasformata in Divisione Elettronica Olivetti incorporando le
risorse della disciolta Olivetti-Bull), conferendole a una nuova società costi-
tuita ad hoc e chiamata Olivetti General Electric (OGE), il cui capitale era:
per il 75 per cento di proprietà della americana General Electric Company;
e per il 25 per cento della Ing. C. Olivetti & C. SpA. Gli accordi in merito
prendono forma nell’estate del 1964 e si formalizzano nel luglio del 1965.
Nel giro vorticoso di carte e documenti che vennero scambiati in quel tor-
mentato frangente, divenne noto e famoso, al punto da essere famigerato, un
documento attribuito a Vittorio Valletta, allora a capo della Fiat, una delle
società che Mediobanca aveva coinvolto in un Gruppo di intervento, creato
per risolvere il problema di cassa della Olivetti. In quel documento si osser-
vava icasticamente:
2
La dichiarazione di Valletta è riportata per la prima volta nel libro di Lorenzo Soria, Informa-
tica: un'occasione perduta. La Divisione Elettronica della Olivetti nei primi anni del centrosinistra,
Einaudi, Torino 1979, p. 55.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 129
delle sue tendenze, come sarebbe stato corretto fare, qualora si fosse trattato
di una decisione professionale. Ma palesemente non si trattò di una decisione
professionale: Vittorio Valletta nel 1964 ha 81 anni, interamente vissuti nel
settore industriale dell’auto. Verosimilmente è del tutto ignaro delle specifi-
cità del mercato dell’informatica/elettronica. La sua dichiarazione sul poten-
ziale di sviluppo di quel settore non è un giudizio professionale, ma uno sfo-
go rancoroso. Purtroppo per la Olivetti, il professor Valletta era un despota
assoluto, come ben sa chi abbia lavorato in posizioni di vertice nella Fiat di
allora. Quindi, per quanto gratuita e priva di fondamento professionale, la
decisione di Valletta divenne immediatamente operativa, con le conseguenze
che sappiamo. O, meglio, che crediamo di sapere. Perché, col senno di poi,
sullo scorporo della Divisione Elettronica dalla Olivetti, il suo conferimento
a una nuova società costituita d’intesa con la General Electric e gli sviluppi
che ne seguirono, si accese quasi subito una vivace discussione. Dapprima, in
sede di cronaca economica, politica e sindacale; e durò qualche settimana. Poi
riprese alla grande molti anni dopo, con la pubblicazione di una serie di studi
sul tema dell’informatica Olivetti e del suo destino, sviluppati da numerosi
ricercatori: alcuni di alta professionalità e non pochi fantasiosi disseminatori
di ubbie.
Il primo ricercatore a occuparsi seriamente della vicenda è Lorenzo So-
ria, un giornalista d’inchiesta che pubblica nel 1979 un libro intitolato Infor-
matica: un’occasione perduta. La divisione elettronica dell’Olivetti nei primi
anni del centrosinistra, Einaudi, Torino. Il riferimento al centrosinistra, che
compare nel titolo, lascia intuire che l’indagine di Soria cerca (e individua)
nella politica italiana di quel periodo, incertezze e lacune che favorirono lo
scorporo della Divisione Elettronica, per cui non si trovarono (e neppure si
cercarono seriamente) possibili soluzioni alternative: come per esempio far
confluire il ramo elettronico della Olivetti nel sistema delle partecipazioni
statali (segnatamente l’IRI) salvandone così l’italianità, invece di arrendersi
alla predominio degli USA nel settore industriale dei calcolatori o computer,
come si cominciavano a chiamare. Le argomentazioni di Soria sono molto
puntuali e interessanti, e meritano di essere lette – se non necessariamente
condivise – ancora oggi.
Molti anni dopo, un altro studioso, di alto livello, è intervenuto con ri-
gorose argomentazioni sull’argomento: stiamo parlando di Luciano Gallino,
sociologo di grande prestigio, profondo conoscitore della Olivetti in tutti i
suoi aspetti industriali e sociali, che nel 2003 pubblica un saggio importante:
La scomparsa dell’Italia industriale3. In questo testo Gallino affronta il tema
complesso della progressiva scomparsa dal panorama industriale ed econo-
3
Luciano Gallino, La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003.
130 Michele Pacifico
Nel resto del capitolo Gallino ricostruisce con puntigliosa attenzione gli
eventi che abbiamo riepilogato anche noi e conclude con una condanna espli-
cita delle conclusioni in virtù delle quali si arrivò al il processo di scorporo
della Divisione Elettronica della Olivetti.
Un altro studioso e attento giornalista d’inchiesta, Marco Pivato, ha pub-
blicato nel 2010 un bel saggio intitolato Il miracolo scippato5, che ha per sot-
totitolo: Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni ses-
santa. Pivato ricostruisce quattro storie di successo della scienza italiana di-
rottate verso il fallimento da complessi e intricati eventi politici, nazionali e
internazionali. Fra queste quattro storie, c’è quella della Olivetti e della sua
disavventura informatica.
I contributi di questi studiosi meritano tutti di essere letti e meditati, per-
ché ciascuno contribuisce, con qualche spunto di chiarezza, a far capire quel-
lo che accadde nel momento dell’uscita della Olivetti dal business dei grandi
calcolatori. Ma il tema va approfondito andando al di là degli eventi del 1964 e
1965. Gli anni che seguirono il passaggio delle risorse informatiche della Oli-
vetti alla General Electric furono, per l’informatica italiana in generale, una
successione di sconfitte. Olivetti uscì dalla compagine azionaria e la OGE
assunse il nome di GEISI (General Electric Information Systems Italia). No-
nostante fosse la terza maggiore impresa industriale del mondo, in termini di
fatturato, anche General Electric non riuscì a crearsi una posizione di rilievo
nel mercato mondiale dei computer. Qualche anno dopo, l’intero comparto
informatico venne ceduto da General Electric alla Honeywell, per cui ci fu
un ulteriore cambio di ragione sociale; e la GEISI divenne HISI (Honeywell
Information Systems Italia). Poi anche Honeywell gettò la spugna e passò
4
Ivi, p. 64.
5
Marco Pivato, Il miracolo scippato. Le quattro occasioni sprecate della scienza italiana negli anni
sessanta, Donzelli, Roma 2011.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 131
l’incapacità delle imprese inglesi, francesi, italiane e poi tedesche di competere con i
mainframe IBM […] negli anni Settanta […] condusse le industrie di computer europee
a una fine irrimediabile7.
E nel corpo del testo spiega con lucide analisi per quali ragioni strutturali le
cose andarono in questo modo, spazzando via tutte le imprese che tentarono, ne-
gli anni, di crearsi uno spazio nel mercato delle grandi macchine – i cosiddetti
computer mainframe –, una classe di macchine alla quale l’Elea 9003 apparteneva
a pieno diritto, anche se allora non esistevano neppure i termini «computer» e
«mainframe». Secondo Chandler, i settori industriali nascono per la capacità im-
prenditoriale di imprese che assumono il ruolo di iniziatrici di un nuovo processo:
Chiamo queste imprese first-mover […]. Non sono necessariamente le prime a ven-
dere il nuovo prodotto: sono state le prime a sviluppare un insieme integrato di capacità
funzionali essenziale per commercializzare il nuovo prodotto in grandi volumi sui mer-
cati mondiali8.
6
Alfred D. Chandler, Inventing the Electronic Century: the Epic Story of the Consumer Electro-
nics and Computer Industries, Free Press, New York 2001 (trad. it. di Michele Pacifico, La rivolu-
zione elettronica: i protagonisti della rivoluzione elettronica e dell’informatica, Egea, Milano 2003).
7
A.D. Chandler, La rivoluzione elettronica cit., p. 4.
8
Ibid.
132 Michele Pacifico
Lorenzo Soria e Marco Pivato hanno fra altri avanzato l’ipotesi che a mina-
re dalle fondamenta le speranze di successo dell’impresa informatica Olivetti
9
Ivi, pp. 119-120.
«Alta tecnologia e cultura millenaria» 133
sia stato il mancato contributo dello Stato, sia sotto forma di finanziamenti
della ricerca, sia tramite robuste commesse, che avrebbero potuto creare un
forte volano economico-finanziario in grado di far crescere il business nel
settore privato. Ma anche questa ipotesi, non priva di fascino e di credibilità
(in fondo la stessa IBM negli USA si avvantaggiò di importanti commesse mi-
litari in più di un momento della sua storia di successo), non regge all’analisi
dei fatti; e soprattutto al confronto con quanto accadde in altri paesi europei,
dove l’intervento dello Stato, in varie forme, ci fu, prolungato e sostanzioso,
ma non riuscì a salvare dal declino le imprese informatiche nazionali. Sentia-
mo ancora Chandler:
[…] nel 1964 arrivò lo shock dell’annuncio del System 360 di IBM. Quell’annuncio
spinse il governo laburista di Harold Wilson ad attivare subito un piano per creare un
campione nazionale. Nel 1964 e nel 1965 il governo avviò svariate iniziative che fornirono
alla ICT (International Computers and Tabulators) cinque milioni di sterline per R&S.
Acquisizioni e fusioni continuarono. Il governo poi dispose rapidamente per la fusione
dei due costruttori indipendenti di computer che ancora restavano, Elliott-Automation
Associates e English Electric. La nuova società prese il nome di English Electric Compu-
ters. Prima di quella fusione, English Electric aveva acquisito Ferranti, che aveva installato
nel 1951 il primo computer analitico inglese, ma che aveva iniziato a produrre computer in
quantità industriali soltanto nei tardi anni Cinquanta. Infine il governo Wilson prese nel
1967 l’iniziativa di realizzare l’ultima fusione, che univa English Electric Computers con
ICT per formare la International Computers Ltd. Poi finanziò questo campione nazionale
con 35 milioni di sterline e gli diede la preferenza in tutti gli approvvigionamenti della
pubblica amministrazione. [corsivo mio]. […] Come ha evidenziato Kenneth Flamm, lo
storico della crescita globale di questo settore industriale, «la corsa alle fusioni finì per
lasciare ICL con una linea di prodotti altamente incompatibili, insieme con l’agglome-
razione in una sola impresa dei problemi di molte altre». Il nuovo campione nazionale
aveva ben poche speranze di diventare una efficace base di apprendimento nazionale. […]
La strategia del governo di costruire un campione nazionale tramite fusioni di svariate
piccole imprese fallì. Queste imprese fuse fra loro, con capacità tecniche in qualche modo
correlate, avevano ben poche capacità funzionali integrate: vale a dire, sviluppo prodotti,
produzione o persino marketing. ICL fornisce un classico esempio delle difficoltà che si
incontrano nel creare una forza competitiva mediante fusioni10.»
10
Ivi, pp. 215, 217.
Alessandra Criconia
1
Luigi Prestinenza Puglisi, Architetti d’Italia. Adriano Olivetti, il committente, «Artribune»,
4 febbraio 2020 (https://www.artribune.com/progettazione/architettura/2020/02/adriano-olivetti-
storia-italia/).
L’ospite ingrato ns 6
136 Alessandra Criconia
lazione del rapporto urbs e civitas, città fisica e città sociale, all’interno di un
quadro di analisi socio-antropologico al cui centro si trova la fabbrica.
Nella Torino dei primi decenni del Novecento in cui la periferia industria-
le era cresciuta in maniera esponenziale, la fabbrica è lo spazio dei conflitti,
ma anche delle sintesi, tra le forze materiali del cambiamento – il movimento
operaio da un lato, la classe dirigente e gli intellettuali dall’altra –, e in quanto
tale, è il terreno di coltura di una coscienza moderna non puramente indivi-
dualistica ma comunitaria e solidale. È nel clima di questa «città laboratorio»2
che matura l’olivettismo dell’ingegnere Adriano. Il suo complesso e articola-
to pensiero contiene in sé i fermenti del dibattito e delle posizioni riformiste
della Torino di quei primi anni del Novecento: organizzazione razionale del
lavoro, gestione dei processi sociali e politici, educazione delle masse, svilup-
po industriale come agente della trasformazione. Ed è infatti la fabbrica, e
la sua architettura, il filo conduttore del progetto olivettiano: una fabbrica a
cavallo tra laboratorio artigianale e officina industriale radicata nel territorio,
che è allo stesso tempo una fabbrica di grandi fatturati che distribuisce i suoi
utili per lo stato sociale diffondendo benessere e bellezza attorno a sé.
Le parole di Adriano tratte dal discorso tenuto ai lavoratori di Pozzuoli
nel 1955, riassumono efficacemente il senso di questo ambizioso progetto di
capitalismo dal volto umano, non privo di contraddizioni3.
Può l’industria darsi dei fini? Si trovano questi semplicemente nell’indice dei profit-
ti? Non vi è al di là del ritmo apparente qualcosa di più affascinante, una destinazione,
una vocazione, anche nella vita di una fabbrica?
Possiamo rispondere: c’è un fine nella nostra azione di tutti i giorni, a Ivrea, come
a Pozzuoli. E senza la prima consapevolezza di questo fine è vano sperare il successo
dell’opera che abbiamo intrapresa. Perché una trama, una trama ideale al di là dei prin-
cipi dell’organizzazione aziendale ha informato per molti anni, ispirata dal pensiero del
suo fondatore [Camillo N.d.R.], l’opera della nostra Società.
Il tentativo sociale della fabbrica di Ivrea, tentativo che non esito a dire ancora del
tutto incompiuto, risponde a una semplice idea: creare un’impresa di tipo nuovo al di là
del socialismo e del capitalismo giacché i tempi avvertono con urgenza che nelle forme
2
Giorgio Ciucci, Gli architetti e il fascismo. Architettura e città 1922-1944, Einaudi, Torino 1969,
p. 40. Così definisce Torino lo storico dell’architettura Giorgio Ciucci, che scrive anche: «La Torino
intellettuale degli anni Venti è ancora in bilico tra la realtà della condizione operaia e i programmi
di una imprenditorialità che vuole essere moderna e aggressiva. Da parte di gruppi di intellettuali, la
funzione sociale della classe operaia viene assunta attraverso l’adesione entusiasta alle idee “operaiste”
di Gobetti o identificata nella lotta rivoluzionaria per la creazione di un nuovo ordine sociale, mentre
la capacità imprenditoriale è valutata in termini di organizzazione razionale del lavoro e di funziona-
lità gestionale e direttiva, ossia in termini di positività sociale del moderno capitano d’industria o del
nuovo finanziere» (ivi, p. 38). Cfr. il capitolo secondo Torino negli anni venti, pp. 37-56.
3
In un recente libro, Maria Pace Ottieri propone un’immagine contrastante di Adriano, che:
«[…] appare spesso come un ossimoro: visionario e pragmatico, grandioso e umile, mite e autoritario,
schivo e affascinante» (Furio Colombo, Maria Pace Ottieri, Il tempo di Adriano Olivetti, Edizioni di
Comunità, Roma-Ivrea 2019, p. 13).
Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti 137
estreme in cui i due termini della questione sociale sono posti, l’uno contro l’altro, non
riescono a risolvere i problemi dell’uomo e della società moderna.
La fabbrica di Ivrea, pur agendo in un mezzo economico e accettandone le regole,
ha rivolto i suoi fini e le sue maggiori preoccupazioni all’elevazione materiale, culturale,
sociale del luogo ove fu chiamata a operare, avviando quella regione verso un tipo di
comunità nuova ove non sia più differenza sostanziale di fini tra i protagonisti delle sue
vicende umane, della storia che si fa giorno per giorno per garantire ai figli di quella terra
un avvenire, una vita più degna di essere vissuta4.
4
Adriano Olivetti, Città dell’uomo, a cura di A. Saibene, Edizioni di Comunità, Roma 2019, pp.
124-125.
5
Tutti i figli di Olivetti completarono la loro formazione con dei periodi di studio all’estero, in
Inghilterra, Germania e Stati Uniti, vale a dire nei paesi industrialmente più avanzati. Adriano passò
anche alcuni mesi a Londra per affinare la sua conoscenza della lingua inglese.
6
In Valerio Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia, Edizioni di Comunità, Roma 2015, p. 40.
138 Alessandra Criconia
deve costruire la comunità e rendere felice l’umanità»7: è nelle mani del suo
sapere tecnico e pratico che Olivetti affida il disegno della città dell’uomo.
7
Ivi, p. 79.
8
Così scrive Ochetto nella biografia: «Per tutta la vita Adriano sentirà come un dovere, una voca-
zione legata alla funzione del manager di migliorare l’intera società partendo dalla fabbrica», ivi, p. 83.
Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti 139
9
Si fa qui riferimento allo slogan di Ernesto Nathan Rogers, «dal cucchiaio alla città», con il quale
si intendeva un progetto integrale dell’architettura inclusivo di tutte le scale, da quella minima del
dettaglio, a quella media dell’edificio, fino a quella grande della città.
10
Gino Pollini fu il traduttore del libro di Le Corbusier Vers une architecture.
140 Alessandra Criconia
Il sud
11
In V. Ochetto, Adriano Olivetti. La biografia cit. La fiducia nel progetto urbano gli proviene
anche dalla lettura delle opere di Le Corbusier, che nel 1929 aveva scritto «[…] l’attrezzatura di un
Paese reclama l’intima connessione dell’architettura con l’economia generale», p. 79.
Tra il cucchiaio e la città: la visione urbana di Adriano Olivetti 141
12
UNRRA-Casas, acronimo di United Relief and Rehabilitation Administration, è l’ente delle
Nazioni Unite preposto all’assistenza economica e civile delle popolazioni colpite dalla guerra.
Preposto ai progetti a Nurra nel sassarese, a Cutro nel catanzarese e a Matera, sarà soppresso con
legge 133/1963 e con la stessa legge verrà istituito l’ISES (Istituto per lo Sviluppo dell’Edilizia
Sociale).
13
Al Borgo della Martella seguirono Borgo Venusio di Luigi Piccinato e il quartiere Spine bian-
che, capogruppo Carlo Aymonino con Giancarlo De Carlo, Federico Gorio, Mario Fiorentino e altri.
14
Facevano parte del gruppo Luigi Agati, Federico Gorio, Piero Maria Lugli e Michele Valori.
15
Ludovico Quaroni, Matera e La Martella: piani e progetti, in Id., La città fisica, a cura di A.
Terranova, Laterza, Roma-Bari 1981, p. 59.
16
L. Quaroni, Matera e La Martella: piani e progetti cit., p. 60.
142 Alessandra Criconia
Nota a margine
del mondo a cui il progetto Olivetti aderiva, con una paurosa e sconosciuta
dissociazione dalla realtà»17.
Forse, però, non bisognerebbe rinunciare a riesaminare criticamente l’o-
livettismo: è un fatto che quello di Adriano sia stato un progetto articolato,
soprattutto stratificato e, per questo motivo, complicato da raccogliere. E
non solo per l’ampiezza del campo di azione, ma per un programma politico-
sociale che, seppure proiettato nel futuro, era fortemente calato nel presente:
Olivetti è stato, nonostante tutto, un figlio del suo tempo.
Oggi abbiamo il vantaggio di una sana distanza critica e possiamo passare
al setaccio la mole di un’eredità ricca di suggestioni, ma gravosa, ricollocando
la figura di Olivetti nel contesto politico e culturale della Torino dei primi
decenni del Novecento e, quindi, nell’Italia repubblicana del dopoguerra e
traguardandolo dal punto di osservazione della contemporaneità. In questo
senso il progetto comunitario di urbs e civitas dovrebbe arricchirsi del terzo
elemento della polis, senza la quale è difficile riuscire a incastrare tutti i pezzi
del mosaico.
17
F. Colombo, M.P. Ottieri, Il tempo di Adriano Olivetti cit., p. 181.
Fortini copywriter
Daniele Balicco
Fortini copywriter
1
Leonardo Sinisgalli, La decadenza di Milano, «Il Mattino», 10 febbraio 1976, cit. in Carlo Vinti,
Gli anni dello stile industriale. 1948-1965. Immagine e politica culturale nella grande impresa italiana,
Marsilio, Padova 2007, p. 348.
2
Riccardo Falcinelli, Critica portatile al visual design. Da Gutenberg ai social network, Einaudi,
Torino 2014, p. 42.
3
Per una ricostruzione del rapporto lavorativo e teorico, fra Fortini e l’Olivetti, si vedano soprattut-
to: Luca Lenzini, Cronologia, in Franco Fortini, Saggi ed Epigrammi, a cura di Luca Lenzini, Monda-
dori, Milano 2003, pp. xcv-cxiii; Giuseppe Lupo, La letteratura al tempo di Adriano Olivetti, Edizioni
di Comunità, Roma 2016, pp. 196-272; Davide Dalmas, Il significato dei nomi e le macchinazioni delle
macchine. Franco Fortini e l’industria, «Levia Gravia», 14, 2014, pp. 209-246; Sergio Bologna, Indu-
stria e cultura, in Uomini usciti di pianto in ragione. Saggi su Franco Fortini, a cura di Mavì de Filippis,
manifestolibri, Roma 1996, pp. 13-42; Simonetta Piccone Stella, Intellettuali e capitale nella società del
dopoguerra, De Donato, Bari 1972. Nell’archivio Franco Fortini di Siena possono inoltre essere consul-
tate due tesi di laurea: Alice Desirée Orlandi, Franco Fortini copywriter per l’Olivetti, Facoltà di Scienze
della Comunicazione e dello Spettacolo, Libera Università di Lingue e Comunicazione IULM, 2003-
2004; Francesca Bonanni, La dimensione politico-educativa e culturale dell’esperienza della Olivetti,
Dipartimento di Scienze della Formazione, Università di Roma Tre, 2017-2018.
4
Sul rapporto fra Fortini e il movimento di Comunità, vedi: Alberto Saibene, Fortini vs Pampa-
loni, in Id., L’Italia di Adriano Olivetti, Edizioni di Comunità, Roma 2017, pp. 89-94; D. Dalmas, Il
significato dei nomi cit.; per una ricostruzione basata su fonti, si vedano, in questo volume, le lettere di
Fortini ad Adriano Olivetti, a Geno Pampaloni e a Raniero Panzieri (pp. 227-230; 246-247; 248-251;
253; 254-256; 261-263).
L’ospite ingrato ns 6
148 Daniele Balicco
in quegli anni unica al mondo per innovazione tecnologica e civiltà del lavoro; ed
era altresì ben consapevole che essere assunto nell’ufficio interno della Pubblicità
Olivetti (dal 1953 al 1957 sotto la direzione di Ignazio Weiss; successivamente,
sotto quella di Riccardo Musatti) offriva almeno due vantaggi conoscitivi rispetto
all’esperienza culturale standard degli scrittori della sua generazione.
Il primo vantaggio riguardava la possibilità di osservare dall’interno, e di
imparare a maneggiare, alcuni attrezzi specifici dell’industria culturale, speri-
mentati in un contesto d’avanguardia ancora orientato dalla cultura del pro-
getto, dunque dalla ricerca di uno «stile» e non di una semplice corporate
image5. Il secondo, di verificare la torsione che il sapere umanistico subiva,
una volta fatto reagire con il lavoro delle macchine industriali. Perfino la lirica
– come vedremo – si stava trasformando, esattamente come ogni altro mate-
riale fisico immesso in un’economia di scala. Secondo Fortini, infatti, la pra-
tica pubblicitaria imponeva alla creatività poetica vincoli esterni «salutari»6
– per esempio nella struttura obbligata degli slogan, come nel riutilizzo di
una postura epigrammatico-celebrativa; ma, nello stesso tempo, agiva anche
indirettamente sull’inconscio metrico dei poeti contemporanei, stabilizzando
un rapporto di tipo nuovo fra verità ritmica e menzogna metrica7.
Entrambi i vantaggi conoscitivi, di cui Fortini darà estesa prova nella sua
riflessione teorica e poetica, derivavano da un contesto culturale radicalmente
eccentrico, quale appunto l’Olivetti di Adriano. Laboratorio di una partico-
larissima forma di socialdemocrazia territoriale8, l’Olivetti appare oggi come
l’anticipazione di un futuro possibile – tecnologico e democratico – che non
avverrà. E non avverrà per due ragioni precise: perché l’equilibrio ghiacciato
della guerra fredda interdiceva, di fatto, qualsiasi ipotesi autonomista, qualsi-
asi progetto di terza via politicamente capace di auto-correggere le reciproche
distorsioni di capitalismo e socialismo reale; e non avverrà perché, all’interno
del blocco occidentale, vincoli geopolitici cogenti imponevano allo sviluppo
dell’economia europea il superamento dello scontro fra «cultura americana
dei consumi e civiltà europea del mercato»9 a favore della prima. Come si
5
Per una lettura che oppone «stile Olivetti» a corporate image, seguo: Enrico Morteo, Olivetti:
azzardare il futuro, in Universo Olivetti come utopia concreta, a cura di Pippo Ciorra, Francesca
Limana, Matilde Trevisani, Edizioni di Comunità, Roma 2020, pp. 98-109.
6
Franco Fortini, Del Copywriting come genere letterario, «L’Ufficio Moderno», 2, 1961.
7
Il miglior studio complessivo sulla metrica di Fortini, in rapporto alle questioni politiche implicite nel
concetto di forma, è la tesi di dottorato di Andrea Agliozzo, Mutarsi in altra voce. Funzioni della metrica
in Franco Fortini, tesi di dottorato 31° ciclo, Università di Cà Foscari – Paris Sorbonne; sempre sulla poesia
di Fortini si veda: Luca Lenzini, Un poeta di nome Fortini. Saggi e proposte di lettura, Manni, Lecce 1999;
Francesco Diaco, Dialettica e speranza. Sulla poesia di Fortini, Quodlibet, Macerata 2017.
8
Cfr: Daniele Balicco, Costruire comunità, in Universo Olivetti cit., pp. 122-135.
9
Victoria de Grazia, Irresistible Empire. America’s Advance through Twentieth-Century Europe,
Harvard University Press, Cambridge (MA) 2005; trad. it. di Andrea Mazza e Luca Lamberti, L’impero
irresistibile. La società dei consumi americana alla conquista del mondo, Einaudi, Torino 2006, p. 368.
Fortini copywriter 149
10
Giovanni Giudici, Poeti fra le macchine. Alla Olivetti la parola era design, «la Repubblica»,
edizione di Milano, 28 ottobre 1992; in questo volume alle pp. 189-191.
11
Per una prima introduzione al lavoro di Sinisgalli, si veda: Alberto Saibene, Leonardo Sinisgalli.
Il dèmone dell’analogia, in Id., L’Italia di Adriano Olivetti cit., pp. 33-44.
12
Per il concetto di «stile industriale», vedi: C. Vinti, Gli anni dello stile industriale cit.
13
Cfr. Aldo Bonomi, Marco Revelli, Alberto Magnaghi, Il vento di Adriano. La comunità concre-
ta di Olivetti tra non più e non ancora, DeriveApprodi, Roma 2015.
14
Simone Weil, L’enracinement. Prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, Galli-
mard, Paris 1949, trad. it di Franco Fortini, La prima radice. Preludio ad una dichiarazione dei doveri
verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954.
15
Sullo «Stile Olivetti» si vedano, almeno: Paolo Bricco, Olivetti, prima e dopo Adriano. Indu-
stria cultura estetica, L’ancora del Mediterraneo, Salerno 2005; Caterina Cristina Fiorentino, Con-
gegni sapienti. Stile Olivetti: il pensiero che realizza, Hapax Editore, Torino 2016; Caterina Toschi,
L’idioma Olivetti 1952-1979, Quodlibet, Macerata 2018; Universo Olivetti cit.
150 Daniele Balicco
nica del 1988 tra Franco Fortini e Renzo Zorzi, questi introduce con grande
chiarezza una questione fondamentale:
Ma arriviamo a questi letterati, di cui si è tanto ironizzato per decenni. Bisogna capire
bene cosa fosse la cultura italiana dell’immediato dopoguerra. Adriano, alla fine degli anni
Cinquanta, avrebbe chiamato ad Ivrea sociologi, psicologi e altri professionisti; ma in que-
gli anni, l’unico psicologo era Cesare Musatti, che di fatti era regolarmente in servizio ad
Ivrea. Adriano nei primi anni del dopoguerra aveva reclutato un gran numero di letterati
a cui faceva svolgere mansioni per le quali non esistevano ancora professioni specifiche. Li
chiamava dunque perché, fra gli intellettuali, erano, in fondo, i più intelligenti, i più aperti,
i più moderni…16.
16
Franco Fortini, «Una bellissima e lunga esperienza di lavoro». Conversazione radiofonica con
Renzo Zorzi, Radio Tre, febbraio/marzo 1988 – riportata in questo volume alle pp. 181-187.
17
«L’architettura istituzionale costruita tra il 1925 e il 1936 fu capace di resistere al crollo del
fascismo così come aveva resistito all’arrivo del corporativismo. I rapporti tra privato e pubblico
cristallizzati nel 1936 si mantennero stabili fino alla fine degli anni sessanta» (Marcello de Cecco,
Splendore e crisi del sistema Beneduce: note sulla struttura finanziaria e industriale dell’Italia dagli
anni venti agli anni sessanta, in Storia del capitalismo italiano, a cura di Fabrizio Barco, Donzelli,
Roma 2010, p. 394).
Fortini copywriter 151
Il carattere non ancora del tutto specializzato della cultura professionale pubblicita-
ria e la resistenza che gli ambienti industriali italiani manifestavano nei confronti degli
approcci statunitensi davano vita ad una situazione di sostanziale apertura nei confronti
degli apporti di intellettuali, artisti e designer, concepiti in un’ottica ancora molto distan-
te dagli specialismi professionali e dalle strategie di marketing22.
A partire dal 1948, l’Italia subisce quella che è stata definita come una
advertising colonization23: nel giro di pochi anni iniziano infatti ad instal-
18
Su questi temi, lo studio fondamentale è: Michele Dantini, Arte e politica in Italia. Tra fascismo e
Repubblica, Donzelli, Roma 2018. In particolare, sul Rinascimento come modello ispiratore di una nuo-
va classicità moderna, si legga questa riflessione di Dantini a partire dal discorso che Benito Mussolini
tenne a Milano, nel 1926, all’inaugurazione della prima mostra Novecento italiano: «per quanto generi-
co, questo richiamo al Rinascimento non è a mio avviso privo di significato, soprattutto per le esclusioni
che comporta (romanticismo, decadenza, art-pour-l’art, individualismo liberale, etc.)» (ivi, p. 83).
19
Cfr: Post Zang Tumb Tuum. Art Life Politics. Italia 1918-1943, a cura di Germano Celant, Fon-
dazione Prada, Milano 2018; Alessandro Del Puppo, Modernità e nazione. Temi di ideologia visiva
nell’arte italiana del primo Novecento, Quodlibet, Macerata 2013; Sandro Scarrocchia, Albert Speer e
Marcello Piacentini: l’architettura del totalitarismo negli anni Trenta, Skira, Milano 2013.
20
«Per il fascismo nel campo dell’arte, così come nel campo della politica, il nemico era l’individualismo
che si sottraeva alla fusione dell’“armonico collettivo” e generava negli artisti scetticismo, neutralità,
indifferenza per lo Stato e per la religione fascista» (Emilio Gentile, Il culto del Littorio. La sacralizzazione
della politica nell’Italia fascista, Laterza, Roma-Bari 1993, pp. 199-200).
21
«Leonardo Sinisgalli, che fu negli anni Trenta e Quaranta direttore della pubblicità, ispiratore di
molte campagne e idee, è stato in quegli anni il tramite […], attraverso Persico, con la cultura militante
e le correnti tedesche che portò a lavorare per Olivetti uomini come Schawinsky e Herbert Bayer» in
Renzo Zorzi, Olivetti: a design story, two critical moments, soggetto-sceneggiatura per audiovisivo,
AASO, Fondo Renzo Zorzi, Personalità Olivetti Ex Zorzi, relazioni, 1-8.
22
C. Vinti, Gli anni dello stile industriale cit., p. 72.
23
Simona De Iulo, Carlo Vinti, The Americanization of Italian Advertising during the 1950s and
the 1960s: Mediations, Conflicts and Appropriations, 13th Biennial Conference on Historical Analysis
& Research in Marketing (CHARM), Durham, United States, May 2007.
152 Daniele Balicco
larsi, per lo più a Milano, agenzie pubblicitarie americane come Lintas and
Young & Rubicam, J. Walter Thompson, CPV. Il numero crescerà rapida-
mente lungo tutti gli anni ’50, fino ad arrivare, già all’inizio dei Sessanta, a
più di una quindicina di agenzie operanti sul mercato italiano. Due sono le
ragioni di fondo che giustificano uno sbarco così massiccio in un paese an-
cora devastato dalla guerra e in via di ricostruzione. Anzitutto, una ragione
geopolitica: nelle strategie del soft power americano, la pubblicità – insieme
ai film hollywoodiani – aveva il compito di costruire un nuovo immagina-
rio, esercitando una contro-egemonia sulle classi popolari, allora organiz-
zate dai partiti di sinistra alleati con l’Unione Sovietica24. La seconda ragio-
ne è invece interna al blocco occidentale, ed è di natura economica: lo scopo
– che il Piano Marshall imposta – è quello di costruire le basi europee di
una società di consumo pienamente inserita in un circuito di distribuzione
internazionale, gravitante sugli Stati Uniti. Il «populismo capitalista»25 della
nuova scienza pubblicitaria americana – fatta di statistiche, pianificazioni,
indagini di mercato, antropologia e psicologia del consumo – combatteva
dunque su due fronti contemporaneamente. Da un lato, contro il nemico
dei nemici: il realismo socialista. Dall’altro, contro l’ostinazione del capi-
talismo europeo a difendere una presunta superiorità culturale locale, per
esempio nello sviluppo di uno stile industriale modernista che magnificava
la forma estetica dei prodotti e la storia aziendale, ignorando però la rego-
la fondamentale della scienza pubblicitaria: l’induzione – scientificamente
programmata – al consumo.
Nel suo celebre studio sull’americanizzazione della cultura europea26, la
storica Victoria de Grazia descrive, proprio nello scontro con la comunica-
zione industriale del vecchio continente, l’emergere di una precisa autoco-
scienza strategica delle agenzie pubblicitarie americane in Europa:
La presenza delle agenzie americane in Europa ebbe l’effetto di rendere più consape-
voli gli Americani della peculiarità della loro prassi rispetto a quelle europee. In parole
povere, quella scoperta li rese più aggressivi nel propugnare una pretesa superiorità ri-
spetto alle tecniche locali, disdegnate come «arretrate» o da «sottosviluppo». A lungo
24
Cfr: Vanni Codeluppi, Storia della pubblicità italiana, Carocci, Roma 2013; Daniele Pittèri,
Fabbriche del desiderio. Manuale delle tecniche e delle suggestioni della pubblicità, Luca Sossella,
Roma 2000.
25
«Autorevole senza essere accademico, intimo nei toni ma non paternalistico, il nuovo lin-
guaggio era contraddistinto da una sensibilità democratica propria di una lingua universale, parlata
indistintamente dal promotore commerciale come dal pubblico. Era questo lo stile del “realismo
capitalista” (in contrapposizione al “realismo socialista”), che in questa sede chiameremo piuttosto
“populismo capitalista” – a ricordo dell’“etica democratica del consumismo populista” […] – cui il
mondo degli affari si era affrettato a togliere ogni afflato autonomo per ridurlo ad una democrazia
esteriore, d’apparenza, di mero riconoscimento dell’uguaglianza sul piano dei comuni consumi» (V.
de Grazia, L’impero irresistibile cit., p. 280).
26
Ibid.
Fortini copywriter 153
andare, gli Americani divennero più cinici nell’estromettere le agenzie locali e nel pro-
spettare guerre su vasta scala – quando battere in ritirata, come durante la Depressione
degli anni Trenta; quando procedere all’avanzata, come all’inizio degli anni Sessanta, con
l’emergere del Mercato comune europeo27.
Le ditte italiane che fanno delle pubblicità si stanno sempre più accorgendo che la pub-
blicità deve vendere i loro prodotti allo stesso modo in cui li vendono i loro viaggiatori par-
lando al cliente della merce e dei vantaggi che egli ricaverebbe dall’acquisto. Quando questa
premessa fondamentale viene accettata da chi fa pubblicità, questi allora si rende conto che la
pagina pubblicitaria non è fatta per presentare bei disegni e fotografie artistiche30.
E se anche fosse indubbio il valore estetico dei «bei disegni e delle foto-
grafie artistiche» dello stile industriale, nonché la qualità letteraria dei suoi
slogan, siamo sicuri però – continua Backinger – che il pubblico, a cui questa
sofisticata comunicazione è rivolta, sia in grado di capire quello che vede, e
di coglierne il senso? E soprattutto di comprare poi il prodotto pubblicizza-
to? La scienza pubblicitaria americana non crea campagne dello stesso valore
estetico, ma «se consideriamo la grande massa del pubblico a cui essa è indi-
rizzata, che spesso non è capace né di apprezzamento estetico né di sufficiente
orecchio per lo stile letterario, dobbiamo ammettere che questo tipo di pubbli-
cità è congegnato in modo da seguire molto da vicino il gusto del pubblico»31.
Questo articolo scatenò un dibattito fra difensori dello stile industriale –
come Leonardo Sinisgalli, Gillo Dorfles, Xanti Schawinsky e Ignazio Weiss
– e pubblicitari già integrati alle pratiche del marketing strategico statuni-
tense, come per esempio Marco Bellavista, fondatore nel 1950 dell’agenzia
27
Ivi, p. 254.
28
La rivista «Pirelli» può essere considerata, insieme al «Notiziario Olivetti» e alla «Civiltà delle
macchine», come il più importante laboratorio teorico dello stile industriale; per un quadro generale
della rivista si consulti la bellissima antologia pubblicata nel 2019 dalla stessa Fondazione Pirelli:
Umanesimo industriale: antologia di pensieri, parole, immagini e innovazioni, a cura della Fondazione
Pirelli, Mondadori, Milano 2019.
29
Frank Backinger, Evoluzione o rivoluzione?, «Pirelli», 1, gennaio 1954.
30
Ibid. (corsivo mio).
31
Ibid. (corsivo mio).
154 Daniele Balicco
alla stagione dello stile e delle generose illusioni che aveva portato con sé, veniva
progressivamente sostituendosi un approccio specialistico, che separava nettamente il
dominio della pubblicità da quello della comunicazione istituzionale, mostrandosi spes-
so esemplare dal punto di vista del controllo degli strumenti progettuali, ma non sempre
al riparo dai rischi di una ipercodificazione puramente burocratica34.
32
Marco Bellavista, Non rivoluzione ma lenta evoluzione, «Pirelli», 3, maggio-giugno 1954, p. 54.
33
Cfr. Daniele Balicco, Il surrealismo di massa, in Id., Nietzsche a Wall Street. Letteratura, teoria
e capitalismo, Quodlibet, Macerata 2018, pp. 27-54.
34
C. Vinti, Gli anni dello stile industriale cit., p. 347.
Fortini copywriter 155
Fortini viene assunto all’Olivetti nel settembre del 1947. Una parte del
lavoro di questi anni è nota, e tutto sommato, tradizionale. Sono gli anni dei
«dieci inverni»35. Tra Ivrea e Milano, lavora per le Edizioni di Comunità – per
le quali traduce Simone Weil, Sören Kierkegaard e Charles-Ferdinand Ra-
muz; e per la rivista omonima – dove terrà una rubrica intitolata Bibliografia
letteraria per cinque anni, dal 1950 al 1955. Inoltre, scrive brevi saggi e pre-
sentazioni per alcune pubblicazioni aziendali interne – come il «Giornale di
fabbrica Olivetti», il «Bollettino Olivetti» e il periodico «Notizie Olivetti»36.
Fortini però non viene assunto da Adriano per svolgere semplicemente lavori
editoriali, ma per partecipare – come tutti gli altri letterati ed umanisti im-
piegati in azienda nell’immediato dopoguerra – alla progettazione dello stile
Olivetti. Può essere utile, per iniziare a comprenderne la radicale originalità,
soprattutto rispetto agli altri esempi di stile industriale italiano, vedere come
Fortini stesso lo descriva nel 1958, all’interno di un catalogo dedicato a cele-
brare i primi cinquant’anni dell’azienda di Ivrea:
Quando, sulle riviste specializzate come nel linguaggio comune, si scrive e si parla di
stile Olivetti per far riferimento ad un gusto, ad una direzione, ad un clima, si può affer-
mare che si è al di là della moda e dell’improvvisazione geniale; che la ricerca, congiunta-
mente intrapresa e condotta avanti da una direzione industriale e da un gruppo di pittori
e di grafici, di scrittori e pubblicisti, di architetti e di industrial designers, è divenuta
una realtà della cultura. La Olivetti è stata ed è anche questo: il luogo dove è possibile
attribuire alla scelta di un colore per una copertina, di un aggettivo per uno slogan, di un
profilato per uno stand o di una linea per la carrozzeria d’una macchina un’importanza
non troppo diversa da quella che si dà alla scelta di una soluzione meccanica, di un accia-
io, di un procedimento di fusione37.
Fortini descrive lo stile Olivetti come uno stile già dotato di una postura
classica, perché «al di là della moda e dell’improvvisazione geniale». Uno stile
che è il risultato del lavoro di un’intera comunità di tecnici, di progettisti
industriali, di umanisti, di architetti, di grafici, di pittori. Dunque, non una
35
Franco Fortini, Dieci inverni. 1947-1957 [1957], Quodlibet, Macerata 2018.
36
Per una rassegna di tutte le pubblicazioni di Fortini per il mondo Olivetti, si veda la Bibliografia
degli scritti presente in questo volume alle pp. 375-378.
37
Franco Fortini, Olivetti 1908-1958, Ing. C. Olivetti & C., Zürich 1958, riportato in questo
volume alle pp. 345-353.
156 Daniele Balicco
38
Secondo Tomás Maldonado, la qualità specifica dello stile Olivetti, rispetto, per esempio, a
quello della Braun, progettato negli anni ’50 dalla scuola di Ulm, stava nel fatto che il primo «ricer-
cava l’unità nella diversità» (Tomás Maldonado, Disegno industriale: un riesame, Feltrinelli, Milano
2008, p. 68).
39
«La visione olivettiana è quella per cui le relazioni fra le cose, materiali o immateriali, sono
sempre da privilegiare, rispetto a prospettive concentrate su singole unità così da partecipare tutte
sempre a un atto comunitario» (Antonella Arpino, Memoria imperfetta. La comunità Olivetti e il
mondo nuovo, Einaudi, Torino 2020, p. 103).
40
«[…] Il compito di una politica di liberazione socialista può essere rivolto, oggi, solo alla utilizzazio-
ne funzionale dell’arte figurativa; ossia a promuovere la produzione di beni economici umanizzati, capaci
di alludere sempre più precisamente, e quindi implicitamente guidare, ad una condizione umana liberata
dalla mistificazione e dallo sfruttamento, in una pianificazione di bonifica figurativa» (Franco Fortini, Arti
e proposta umana, in Id., Dieci inverni 1947-1957 [1957], Quodlibet, Macerata 2018, p. 132).
41
Sulla forma specifica che ha assunto, nel secondo Novecento, la modernità in Italia, mi per-
metto di rimandare a Daniele Balicco, Modernità godibile, in Italia senza nazione. Lingue, culture,
conflitti fra Medioevo ed età contemporanea, a cura di Antonio Montefusco, Quodlibet, Macerata
2019, pp. 145-158.
Fortini copywriter 157
stupisce, del resto, che sia proprio di questi anni la sua traduzione di molte
opere di Bertolt Brecht, massimo poeta di quella stagione tedesca e, proprio
come lui, umanista copywriter per la fabbrica austriaca di automobili Steyr:
c’è un parallelismo curioso tra le traduzioni di Brecht che faccio in quel periodo e i
testi pubblicitari. In generale, è stata un’esperienza di metrica, una sorta di ginnastica, il
continuo passaggio da un tipo di composizione a un’altra, da uno spazio all’altro, da un
certo numero di righe all’altro; e questo lavoro ripetuto tutti i giorni diventava veramen-
te un modo di farsi i muscoli, dei muscoli formali. Ma è stata un’esperienza estremamen-
te positiva anche per un’altra ragione: come ho detto, io lavoravo a stretto contatto con
i grafici; e questa vicinanza soddisfaceva la mia passione per la grafica e per la pittura42.
Prestiamo attenzione alle due questioni che Fortini solleva in questo pas-
so, tratto dall’intervista del 1988 a Radio Tre: la prima riguarda il rapporto
che sperimenta, proprio in questi anni, fra poesia, metrica e pubblicità; la se-
conda ci permette invece di osservare l’addestramento ad una lettura, per così
dire, «ideogrammatica» dei fenomeni culturali, che l’integrazione fra scrittu-
ra, arti visive e composizioni di matrici, praticata negli uffici della Direzione
Pubblicità Olivetti, ha sicuramente corroborato.
Partiamo da quest’ultima. Fortini si è laureato, oltre che in giurispruden-
za, in storia dell’arte. Ama i pittori manieristi: la sua tesi di laurea è su Rosso
Fiorentino. Negli anni, sentirà sempre più affine alla sua poetica l’inquieto
classicismo di un pittore come Poussin, a cui dedicherà una delle sue ultime
raccolte di poesie, probabilmente la più bella: Paesaggio con serpente43. Ma la
sua passione per l’arte visiva non è solo teorica: Fortini disegna molto bene,
sa dipingere e sa perfino fare incisioni e acqueforti. Benché esercizio d’ar-
te minore, rispetto alla riflessione teorica e alla scrittura poetica, il disegno,
la pittura e l’incisione saranno pratiche estetiche che non abbandonerà mai,
per tutta la vita44. Lavorando come copywriter a stretto contatto con grafici
del livello di Giovanni Pintori o di Walter Ballmer, Fortini ha la possibilità,
dunque, di far dialogare la propria formazione pittorica con quella poetica45;
42
Franco Fortini, «Una bellissima e lunga esperienza di lavoro». Conversazione radiofonica con
Renzo Zorzi, in questo volume a p. 186.
43
Franco Fortini, Paesaggio con serpente, Einaudi, Torino 1983. Per una lettura critica di questa
raccolta, vedi: Damiano Frasca, Paesaggio con serpente, «Allegoria», 77, 2018, pp. 114-128; F. Diaco,
Dialettica e speranza cit., pp. 265-314.
44
Cfr. Franco Fortini, Disegni Incisioni Dipinti, a cura di Enrico Crispolti, Quodlibet, Macerata 2001.
45
In una lettera del 1950 indirizzata a Giovanni Enriques, allora Direttore generale dell’Olivetti,
Fortini chiede un maggior coinvolgimento nel lavoro di progettazione della comunicazione; ricor-
dando al suo interlocutore che ha una certa dimestichezza con «pennelli, colori, squadre»: «né dimen-
tichi, caro ingegnere, che – tra l’altro – so maneggiare pennelli, colori, squadre, colle e cartoni non
peggio di altri; che mi intendo benissimo con Pintori e che non mi sentirei affatto umiliato, anzi, di
stare ad incollare pannelli e pitturar bozzetti, con lo stipendio d’uno di loro, tra gli amici dell’Ufficio
Tecnico» (in questo volume a p. 254).
158 Daniele Balicco
46
Franco Fortini, Come è stata lanciata la Lexikon, Archivio Olivetti, Fondo Direzione Comuni-
cazione Ufficio Stampa (DCUS), faldone 40, fascicolo 559; Id., L’organizzazione Olivetti. La Olivet-
ti & la Lexikon elettrica, Archivio Olivetti, DCUS, faldone 40, fascicolo 559; entrambi i documenti
sono riprodotti integralmente in questo volume alle pp. 275-286.
47
F. Fortini, Come è stata lanciata la Lexikon cit.
48
Ibid. (corsivi miei).
Fortini copywriter 159
49
Ibid.
50
Ibid.
51
Sull’attenzione poetica di Fortini per la forma grafica e sonora dei nomi delle macchine, vedi
D. Dalmas, Il significato dei nomi cit., p. 219: «in diversi casi l’esplorazione del significato dei nomi si
manifesta anche nell’auscultazione intensa della forma delle singole parole, del suono, del grafismo,
o del materiale della scrittura, in evidente affinità con la natura specifica dell’industria per cui Fortini
lavora, che unisce il materiale e lo spirituale, le macchine con le parole e i numeri».
52
F. Backinger, Evoluzione o rivoluzione? cit.
160 Daniele Balicco
53
Nel 1959 Adriano Olivetti ottenne il controllo della Underwood Corporation, con un investi-
mento di quasi 9 milioni di dollari. Lo scopo era quello di entrare nel mercato americano, sfruttando
la sua rete di distribuzione consolidata e i suoi agenti di vendita. La morte di Adriano l’anno successi-
vo e i problemi finanziari, derivanti da questa acquisizione, diventeranno il pretesto per l’abbandono
«forzato» della ricerca sull’elettronica e il progressivo ridimensionamento dell’Olivetti come azienda
multinazionale: Luciano Gallino, L’impresa responsabile. Un’intervista su Adriano Olivetti, Einaudi,
Torino 2001; Id., La scomparsa dell’Italia industriale, Einaudi, Torino 2003; P. Bricco, Olivetti, prima
e dopo Adriano cit., pp. 36-54; M. Pivato, Il miracolo scippato cit., pp. 19-60.
Fortini copywriter 161
L’interpretazione di Anders ci
aiuta a rendere esplicita l’idea di la-
voro e di integrazione sociale che la
réclame statunitense implicitamente
Underwood 150 (1955)
presuppone: perfezionare il proprio
destino di semplici appendici mecca-
niche del nuovo processo di lavoro
razionalizzato. Se vale quest’ipotesi, l’Underwood’s Red non è solo un semplice
gadget, per altro geniale; ma l’esortazione inconscia ad una metamorfosi: le nuo-
ve lavoratrici imparino a rimuovere con questo rilucente smalto rosso la natura
organica ed imperfetta delle loro mani; dunque, della loro nuda, individuata e
potenzialmente politica soggettività.
Lo stile Olivetti, come abbiamo visto, presuppone tutt’altro. Ignazio
Weiss, che fu in quegli anni direttore dell’Ufficio Pubblicità, lo ribadisce ri-
spondendo55 all’attacco di Backinger con due argomenti. Primo: l’efficacia
di una comunicazione pubblicitaria che pretende associare alta tecnologia ad
alta cultura è testimoniata dal successo internazionale ottenuto: lo stile Oli-
vetti è famoso ormai in tutto il mondo. Secondo: questo tipo di «tessuto» cul-
turale viene ordito in realtà per perseguire non la semplice coazione al consu-
mo, ma un fine generale: «realizzare una più felice e completa vita dell’uomo
nel lavoro e per il lavoro»56. Dichiarazione sicuramente generica, se non fosse
che proprio a questo ideale è ispirata l’organizzazione territoriale del lavoro,
voluta da Adriano.
54
Günther Anders, Die Antiquiertheit des Menschen. Band I: Über die Seele im Zeitalter der
zweiten industriellen Revolution, C. H. Beck, München 1956; trad. it di Laura Dallapiccola, L’uomo
è antiquato. 1. Considerazioni sull’anima nell’epoca della seconda rivoluzione industriale, Bollati Bo-
ringhieri, Torino 1963, p. 64.
55
Ignazio Weiss, Stile di un’industria, «Sele Arte», 23, 1956, p. 18.
56
Ibid.
162 Daniele Balicco
Veduto dal nostro continente, l’operaio americano presenta senza dubbio un tipo di
produttore-consumatore ignoto o quasi al nostro occidente, dove si uniscono caratteri
propri della massima civiltà borghese del passato con caratteri nuovi e ancora mal defini-
ti, frutto d’un progresso tecnico del quale le nostre strutture economiche e sociali parte-
cipano con ben noto ritardo e adeguandosi, per così dire, più col corpo che con l’anima58.
57
Franco Fortini, La vecchiaia difficile, «La civiltà delle macchine», 2, 1953, pp. 62-63; sul tema
della vecchiaia in Fortini, vedi: Luca Lenzini, Stile tardo. Poeti del Novecento italiano, Quodlibet,
Macerata 2008.
58
F. Fortini, La vecchiaia difficile cit, p. 62.
59
Theodor Wiesengrund Adorno, Minima moralia. Reflexionen aus dem beschädigten Leben,
Suhrkamp, Frankfurt am Main 1951, trad. it di Renato Solmi, Minima Moralia. Riflessione sulla vita
offesa, Einaudi, Torino 1954.
60
Sulla distinzione fra «consumatore sovrano» americano e «cittadino sociale» europeo seguo V.
de Grazia, L’impero irresistibile, p. 368: «Il modello europeo riteneva che i tenori di vita più elevati
fossero un diritto sociale, si appoggiava all’intervento statale per ridurre le diseguaglianze nell’accesso
ai consumi ed era fortemente condizionato dai valori solidaristici insiti nelle sottoculture politiche,
religiose e locali. Il modello americano, invece, […] confidava che fosse il mercato a espandere i con-
sumi e ben accoglieva la proliferazione di nuove identità legate agli stili di vita che si identificavano
Fortini copywriter 163
ed ecco che, dove pensavate non ci fosse che una «cosa», un oggetto, presentato nel vellu-
to degli scrigni delle vetrine, c’è invece un problema, una domanda. […] Un’industria non si
esaurisce nell’oggetto e la «Olivetti» non si conclude nelle sue addizionatrici, nelle macchine
per scrivere e nelle telescriventi. Complesso organismo in progresso, questa industria che ha
vissuto […] tutta la scorsa storia convulsa della Nazione, articola ora, e anche negli strumenti
della democrazia di fabbrica, la sua ambizione più alta: la creazione cioè di un più genuino
rapporto umano, di una difficile unità morale pur nelle diversità e nei necessari contrasti63.
con il consumo di massa statunitense. I consumatori-cittadini europei che nacquero da questo con-
flitto erano dunque ibridi».
61
Sull’idea di terza via nel pensiero di Adriano Olivetti, a partire dal suo interesse per Nikolaj
Berdjaev, vedi Giuseppe Lupo, Teoresi della terza via, in Id., La letteratura cit., pp. 69-72.
62
Franco Fortini, Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di C. Brizzolara, F. Fortini, A.
Steiner, Officina d’Arte Grafica A. Lucini e C., Milano 1949, p. 10; riportato in questo volume alle
pp. 290-291.
63
Ibid.
164 Daniele Balicco
Fin qui abbiamo ricostruito il campo all’interno del quale possiamo po-
sizionare lo stile Olivetti e il lavoro stesso di Fortini come copywriter. Pro-
viamo ora, invece, ad avvicinare la poetica di questa strategia comunicativa:
il classicismo moderno66. Pur essendo, infatti, un’azienda tecnologicamente
all’avanguardia, l’Olivetti ha sempre rappresentato la propria modernità con
due caratteristiche singolari: anzitutto come inveramento di una tradizione di
lungo periodo, e non come salto o rottura; quindi, come risultato di una co-
ordinazione creativa, neo-rinascimentale67, fra discipline scientifiche, tecni-
che e umanistiche. Dunque, una sorta di paradossale modernità antimoderna,
che non si oppone frontalmente al passato, ma semmai lo perfeziona; che non
64
Cfr: M. Tafuri, Storia dell’architettura cit., pp. 47-50.
65
F. Fortini, Olivetti 1908-1958 cit., riportato in questo volume a p. 353.
66
Sul classicismo moderno come categoria estetica, si vedano: Romano Luperini, «Nuove stanze»
e l’allegorismo umanistico di Montale, in Id, Il dialogo e il conflitto, Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 136-
177; Pier Vincenzo Mengaldo, Grande stile e lirica moderna. Appunti tipologici, in Id., La tradizione
del Novecento (nuova serie), Vallecchi, Firenze 1987, pp. 7-24; Guido Mazzoni, Forma e solitudine.
Un’idea della poesia contemporanea, Marcos y Marcos, Milano 2002; Tiziana de Rogatis, Montale e il
classicismo moderno, Iepi, Pisa-Roma 2002.
67
Sulla matrice rinascimentale dell’esperimento Olivetti, vedi: Ilaria Bussoni, Nicolas Martino,
Olivetti. Disegno della vita e comunità dell’intelligenza, in Olivetti. Comunità, conflitti, intelligenze,
forme di vita, a cura di Sara Agnoletto, Olivia Sara Carli, Roberto Masiero, «Engramma», 166, giugno
2019, pp. 11-20; A. Tarpino, Memoria imperfetta cit., pp. 92-106.
Fortini copywriter 165
Il nome d’una macchina o di un prodotto deve avere un valore evocativo, deve poter
suggerire un’associazione, un’immagine: Lexicon è il nome dei dizionari, dove si rac-
colgono tutte le parole che la macchina per scrivere, in potenza, contiene; Synthesis è
il nome greco di quell’atto della mente che riunisce gli elementi dell’analisi ed è quindi
adatto a quei sussidi del lavoro burocratico che schedano e classificano; Refert (cioè:
riferisce) è la parola di sapore araldico per uno strumento che ripete e riporta suoni e
parole. Ebbene, la Tetractys è una gloriosa parola della cultura greca.
68
Franco Fortini, Il significato di un nome, «Notizie Olivetti», 35, marzo 1956, p. 4; in questo
volume alle pp. 337-338.
69
L’Elea (Elaboratore elettronico elettrico automatico) verrà progettato dalla Divisione Elettronica Oli-
vetti a partire dal 1955; il primo prototipo è del 1957; nel 1959 entrerà in produzione con il nome Elea 9003.
70
Sul rapporto fra informatica e ontologia, si vedano, almeno: Christoph Türcke, Erregte Gesell-
schaft. Philosophie der Sensation, C.H. Beck Verlag, München 2002, trad. it di Tommaso Cavallo, La
società eccitata. Filosofia della sensazione, Bollati Boringhieri, Torino 2012; Mark Alizart, Informati-
que céleste, PUF, Paris 2017; Paolo Zellini, La dittatura del calcolo, Adelphi, Torino 2018.
166 Daniele Balicco
Il numero quaternario formato dalla somma dei primi quattro numeri ed equivalen-
te a dieci fu detto dunque da Pitagora Tetractys (dal greco tètra che significa quattro).
La tetràtti o tetràttide fu considerata sacra e venerabile; un matematico e filosofo di
Taranto, Filolào, vissuto una cinquantina d’anni dopo la età nella quale si presume sia
vissuto Pitagora, chiama la Tetractys «grande, onnipotente, onniproducente»; i pitago-
rici giuravano su di essa e chi osava violare il giuramento era come se avesse violato e
tradito l’intero universo. Oggi la numerologia pitagorica è entrata a far parte della storia
della scienza e del pensiero; ma proprio per questo non ci è parso sconveniente che una
calcolatrice di eccezionali qualità come la Tetractys, che pur sempre si fonda sul calcolo
decimale, recasse come nome il simbolo stesso della matematica greco-italica, un nome
che allude sia alla componente umanistica della scienza e della tecnica italiana, sia alle
quattro operazioni che la macchina compie, sia finalmente, alla potenza e perfezione di
questo nuovo prodotto delle nostre officine71.
71
F. Fortini, Il significato di un nome cit.; in questo volume a p. 338.
72
Secondo Barbara Carnevali, sta proprio nella predominanza della linea curva sull’angolo squa-
drato uno degli elementi formali costitutivi dell’estetica tecnologica italiana: Barbara Carnevali, La
ligne rouge: le design come esthétique sociale, «Lettre de l’InSHS», mai 2020, pp. 27-29; Ead., Un altro
modernismo: la linea Persico-Olivetti, in questo volume alle pp. 17-37.
Fortini copywriter 167
Oggi le parole scritte e stampate ci immergono, e solo gli specialisti sembrano pre-
stare attenzione al segno, alla particolare disposizione di queste parole nello spazio, a
quella separazione che implica, come ogni altra, una decisione, una scelta e uno stile75.
73
Paolo Fossati, a proposito del classicismo moderno olivettiano, parla di estetica industriale
orientata da una forma di «classicismo della novità»: «questo nuovo classicismo non segue l’armonia
o la norma; ma cerca di ridurre le contraddizioni, in primo luogo quelle che contraddicono “il nuovo”
e che si appoggiano sulla norma, rifiutando la sintesi classica» (Paolo Fossati, Les transformations de
l’image du produit, in Bernard Huet, Georges Teyssot, Politique industrielle et architecture: le cas
Olivetti, «L’Architecture d’aujourd’hui», 188, 1976, pp. 50-51; cit. in C. C. Fiorentino, Congegni
sapienti cit., p. 159).
74
Franco Fortini, Letras humanas, in 25 años Hispano Olivetti 1929-1954, Seix Barral, Barcelona
1954; in questo volume alle pp. 325-330.
75
Ivi, p. 325.
168 Daniele Balicco
mentre il Bauhaus creava nuovi caratteri che possedevano allo stesso tempo qual-
cosa della grafia preromana e romanica, per l’assenza di «grazie» e chiaroscuri – espres-
sione polemica «avanguardista» e razionalista –, la grafica di Hitler accampò nel cuore
dell’Europa la foresta di ferro battuto dei suoi caratteri neogotici78.
76
F. Fortini, Letras humanas cit., p. 328.
77
Falcinelli, Critica portatile al visual design cit., p. 172.
78
Ibid.
79
Walter Ballmer, Franco Fortini, Olivetti: carattere e identità, Olivetti, Ivrea 1971; Walter
Ballmer, Franco Fortini, Segno e disegno di una firma, Olivetti, Ivrea 1971.
Fortini copywriter 169
80
W. Ballmer, F. Fortini, Olivetti: carattere e identità cit., p. 3; in questo volume a p. 363.
170 Daniele Balicco
alla codificazione estetica di una specifica identità aziendale. Per questa ragio-
ne nel 1934, Xanti Schawinsky, allievo di Gropius a Dessau, viene incaricato
di riprogettarlo, introducendo due innovazioni decisive: l’uso modernista del
solo minuscolo e il font Pica, lo stesso dei caratteri della tastiera Olivetti, so-
vrapponendo in questo modo identità grafica con identità aziendale. Fortini
ripercorre nell’introduzione al catalogo tutte le metamorfosi che il logotipo
ha successivamente subito: due negli anni Cinquanta, la prima ad opera di
Marcello Nizzoli (1950), quando l’Olivetti diventa un’azienda multinaziona-
le e si specializza, oltre che nella produzione di macchine per scrivere, nello
sviluppo di macchine calcolatrici; la seconda (1955) ad opera invece di Gio-
vanni Pintori, che riadatta l’ultima versione all’evoluzione del gusto grafico
contemporaneo:
È ancora verso la fine degli anni Cinquanta che parallelamente all’evolversi della
cultura figurativa si impone un rilancio del logotipo, una correzione. L’ambiente grafico
era venuto mutando. L’impiego di dati caratteri e corpi nei testi pubblicitari e nella
stampa, l’uso di blocchi di composizione come vere masse di manovra modificavano
il campo delle forze e del segno. Troppa aria che circolava fra l’una e l’altra lettera del
logotipo Olivetti: bisognava diminuire i bianchi fra una e l’altra lettera, addensare i neri,
tendere ad un corpo poco articolato ma intenso, dove il gruppo «li» e il gruppo «ti»
collegassero i propri elementi81.
Quali sono, dunque, le modifiche formali che Ballmer propone per il nuo-
vo logotipo? Ballmer aumenta lo spessore dei tratti, squadra le vocali, restrin-
ge le «t», che perdono la parte sinistra della barra, accentuando così il moto di
lettura verso destra; e arrotonda ogni spigolo perché «angoli arrotondati su
Ibid.
81
Walter Ballmer, Franco Fortini, Segno e disegno di una firma, Olivetti, Ivrea 1971; in questo
82
volume a p. 366.
Fortini copywriter 171
spessori ricchi dicono insieme agio e forza»83. In questo modo, può aumen-
tare la stabilità centrale del corpo grafico, dinamizzandone però, nello stesso
tempo, il movimento:
e si dovrà concludere che il nuovo logotipo tende ad unire una densità assai elevata,
quasi una natura plastica e aggettante, con un accentuato movimento nel senso della let-
tura, da sinistra a destra. Al peso delle prime tre e delle ultime tre lettere si contrappone
quello della sillaba centrale: da questo nasce un moto interno che anima la massa del
logotipo e ne corregge ogni eccesso di solidità. La formula che ora si propone conferma
uno dei caratteri essenziali della crescita d’una produzione e d’una ricerca come quella
Olivetti: l’intento di svilupparsi a partire da premesse costanti, di mutare senza perdere
mai di vista i valori di un nucleo originario84.
83
W. Ballmer, F. Fortini, Olivetti: carattere e identità cit., p. 4; in questo volume a p. 364.
84
W. Ballmer, F. Fortini, Segno e disegno cit., p. 5; in questo volume alle pp. 367-368.
85
W. Ballmer, F. Fortini, Olivetti: carattere e identità cit., p. 2; in questo volume a p. 363.
86
Nell’arte industriale «la messa in forma non è un atto dell’artista demiurgo, bensì
un processo, o più brutalmente, una procedura, nella quale varie istanze artistiche, tecniche,
produttive ed economiche convergono su un unico fine terminale – il consumo del bene – senza
172 Daniele Balicco
In tempi non lontanissimi, ho creduto non già che i designers fossero gli strumenti
della rivoluzione, ma che il controllo degli artisti sulle forme industriali fosse il compito
per eccellenza «artistico» del nostro tempo89.
però esaurirsi in esso, perché il suo destino non si compie in quel termine estremo, ma si ribalta
sull’intero iter progettuale ripercorrendolo a ritroso e plasmandolo a sua volta in nome di inattese
esigenze» (Maurizio Vitta, Il rifiuto degli dèi. Teoria delle belle arti industriali, Einaudi, Torino
2012, pp. 62-63).
87
La questione del controllo operaio delle macchine è una questione centrale della tradizione
socialista a cui Fortini è legato, dalle celebri Sette tesi sul controllo operaio di Panzieri e Libertini fino
alle Proposte per un’auto-organizzazione della cultura di sinistra che egli stesso contribuì a stilare, nel
1956, insieme al gruppo della rivista milanese «Ragionamenti». Per una prima ricostruzione del rap-
porto di Fortini con l’autonomismo socialista, vedi: Daniele Balicco, Non parlo a tutti. Franco Fortini
intellettuale politico, manifestolibri, Roma 2007, pp. 73-101; Maria Margherita Scotti, Da sinistra. In-
tellettuali, Partito socialista italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Ediesse, Roma 2011.
88
Franco Fortini, Disegno industriale, in Id., Dieci inverni cit.
89
Ivi, p. 149.
Fortini copywriter 173
L’operaio è «prodotto» dalla relazione che egli ha con la sua fresa, dal complesso di
movimenti, pause, sforzi, tempi, orari che lo legano a quella macchina; e dal luogo che
egli occupa nell’officina, dall’inserirsi dei pezzi che egli fabbrica nel prodotto compiuto;
e su questo particolare rapporto si fondano i rapporti che corrono poi tra l’operaio ed il
suo compagno, fra questi e il caposala, il tecnico, i dirigenti, la vita fuori dalla fabbrica…
Tuttavia la macchina e il suo esser-lì non sono un dato, un meteorite; quella macchina è
stata costruita da altri uomini e per un determinato fine; è storia e cultura […]90.
Siamo già, con questa premessa, al livello teorico dei «Quaderni rossi»,
vale a dire alla consapevolezza politica della non-neutralità della tecnologia, al
fatto che la razionalità incorporata nelle macchine non è mai generica, astratta
e universale, come invece pretende ancora la scienza positiva, ma, all’opposto,
è specifica, concreta, storicamente determinata dal comando del modo di pro-
duzione di cui è motore ed insieme effetto. Questa consapevolezza complica
di molto l’orizzonte marxista standard di quegli anni, tutto concentrato sul
conflitto fra mezzi di produzione e rapporti di proprietà. Perché Fortini non
separa i due piani: le macchine andranno riprogettate da capo con altre forme
e con l’impiego di un’altra scienza, se mai ci sarà una rivoluzione. Da questa
premessa discendono due conseguenze. La prima: compito dell’intellettua-
le dell’età tecnologica sarà quello di de-naturalizzare e rendere intellegibile
l’intenzione seriale come pedagogia implicita, sedimentata nelle forme della
produzione industriale di beni di consumo:
La forma, il colore ecc. della macchina cui l’operaio lavora, la forma, il colore ecc.
della bottiglia dalla quale beve, del pacchetto di sigarette che si cava di tasca, del biglietto
del tram che prende per tornare a casa fino alla sedia del cinema o del motoscooter sono
altrettanti aspetti di una «concezione del mondo», e quindi, se vogliamo, strumenti pe-
dagogici. Giustamente a questa «arte invisibile» si contrappone l’arte ben visibile, con
la sua ben più energica concezione del mondo; ma ci si rende sufficientemente conto
dell’immensa parte che quella «arte invisibile» va prendendo nella nostra vita?91
90
Ibid.
91
F. Fortini, Disegno industriale cit., p. 149.
174 Daniele Balicco
in questo tipo di approccio credo abbia svolto un ruolo importante la sua esperienza
come consulente all’Olivetti. Fortini, a differenza di moltissimi intellettuali comunisti – ivi
compresi molti intellettuali della Nuova Sinistra –, aveva una visione estremamente «laica»
degli apparati produttivi, non considerava l’impresa un demonio, un «covo» del capitale
dentro la quale tutti soggiacciono ai comandi delle gerarchie ed ai valori del capitalismo.
Considerava l’impresa come uno che l’impresa l’aveva vissuta e vi aveva lavorato, che ave-
va venduto la propria forza-lavoro o il proprio skill a questa impresa in cambio di un de-
terminato salario, ma aveva capito anche che l’impresa non è soltanto produzione di merci
ma anche un sistema culturale complesso, talvolta dinamico e innovativo93.
92
Ibid.
93
S. Bologna, Industria e cultura cit., p. 22.
Fortini copywriter 175
Il testo pubblicitario e la lettera di vendita sono forse, nel tempo nostro, un vero e
proprio genere letterario, che più del giornalismo adempie ad alcune delle condizioni
proprie, una volta, alla poesia celebrativa. Hanno un committente, una finalità precisa,
dei destinatari; dei limiti formali – quasi rime obbligate – spesso rigorosi come quelli del
sonetto e della canzone95.
94
F. Fortini, Del Copywriting cit., p. 331; in questo volume a p. 179.
95
Ibid.
96
Ibid.
97
Franco Fortini, Lettera agli amici di Piacenza (1961), in Id., Saggi ed epigrammi cit., pp. 944-953.
176 Daniele Balicco
necessità, per gli intellettuali, di organizzare una politica sindacale attiva – sia
consegnato proprio ad una raccolta di epigrammi: L’ospite ingrato98.
Una volta indicate queste paradossali contiguità, il testo capovolge il pun-
to di osservazione e si chiede se la «resistenza del mezzo», che tanto i vincoli
tecnologici quanto la committenza impongono alla creatività del copywriter,
non sia, in realtà, per un poeta, un ottimo addestramento metrico e formale;
addestramento che la letteratura contemporanea ha ormai dismesso. Scrivere
slogan – e, fra quelli di Fortini, il più celebre resta probabilmente quello cre-
ato per la Lettera 22, «leggera come una sillaba / completa come una frase»
– significa dunque sperimentare una condizione ibrida, paradossale, insieme
moderna e antica, dove arcaici vincoli formali e posture celebrative cortigiane
si riattivano all’interno di un sistema industriale. E così accade che la riprodu-
zione in serie moltiplichi all’infinito la potenza grafica e semantica delle pa-
role, perché i versi ora invadono fisicamente le strade, le piazze; vengono letti
su riviste o cartelloni stradali, ascoltati alla radio o riprodotti in televisione
come nuovi ideogrammi industrializzati. Secondo Fortini, questa invasione
estetica dello spazio pubblico ha un effetto duplice: da un lato modifica le
forme comuni di lettura, dall’altro agisce direttamente sull’inconscio metrico
dei poeti contemporanei:
Voglio osservare finalmente che il testo pubblicitario è stato ed è, come tutti sanno,
un veicolo importante per certe novità formali del linguaggio letterario, come la grafica
pubblicitaria lo è stata per l’arte figurativa contemporanea; e che, in particolare, le com-
posizioni tipografiche cosidette «a bandiera» hanno abituato il pubblico ad una lettura
«epigrafica» dei testi, che facilita molto la lettura ritmica dei cosidetti «metri liberi» della
poesia contemporanea99.
98
Franco Fortini, L’ospite ingrato, in ivi, pp. 859-1126.
99
F. Fortini, Del Copywriting cit., p. 331; in questo volume alle pp. 179-180.
100
Gli studi di metrica che Fortini ha pubblicato su rivista alla fine degli anni Cinquanta, verran-
no poi raccolti nel 1974 nel primo volume di Saggi italiani. Qui di seguito i titoli: Metrica e libertà
(1957); Verso libero e metrica nuova (1958); Su alcuni paradossi della metrica moderna (1958); ora in
F. Fortini, Saggi ed epigrammi cit., pp. 783-817.
Fortini copywriter 177
ziano anche ad essere sempre più diffuse forme inedite di regolarità ritmica
che Fortini definisce come «isocronismo tendenziale degli accenti tonici»101.
La predilezione per il verso libero nella poesia contemporanea rivela dunque
un movimento sotterraneo che contraddice l’apparente semplicità di questa
scelta, nell’emersione, per lo più inconscia, di una tendenza comune orienta-
ta dalla ricerca di una nuova forma di regolarità, di una nuova convenzione
non più metrica, ma ritmica; come se si stesse costituendo una sorta di in-
consapevole alleanza fra i poeti contemporanei in risposta alla percezione di
un esproprio sempre più violento: l’imporsi di nuova metricità industriale di
massa102.
Già il fatto che l’insieme di questi problemi venga discusso in un testo
destinato ad una pubblicazione per la comunicazione d’impresa, ci mostra
il livello di legittimità conquistato, alla fine degli anni ’50, dai protagonisti
dello stile industriale italiano. Non a caso, in questo breve saggio, Fortini ri-
torna, come nei testi per i cataloghi Olivetti, sulla potenzialità pedagogica del
copywriting, come scrittura a forte destinazione pubblica e dunque capace di
proporre modelli non solo destinati alla persuasione, inducendo l’acquisto di
beni di consumo; ma anche orientati a mostrare «un modo coerente di ragio-
nare ed esprimersi», un modo possibile di «servire o disservire – la razionali-
tà, la discrezione, la spontaneità, il rispetto reciproco»103.
101
Franco Fortini, Verso libero e metrica nuova, in Id, Saggi ed epigrammi cit., p. 805.
102
«La velocità di formazione di un’attesa ritmica […] sta crescendo nella misura in cui il “metro
libero” tende ad assumere forme sempre meno “libere” e dunque ad istituzionalizzarsi; come prova,
tra l’altro, la tendenza – tanto sfruttata dalla tipografia pubblicitaria – ad una lettura fortemente rit-
mica, “lapidaria”, delle composizioni tipografiche cosiddette “a bandiera”» (F. Fortini, Verso libero
e metrica nuova cit., p. 807). Sull’insieme di questi problemi teorici si veda: A. Agliozzo, Mutarsi in
altra voce cit.
103
F. Fortini, Del Copywrting cit., p. 331; in questo volume a p. 179.
Franco Fortini
1
«l’Ufficio Moderno», 35, 2, febbraio 1961, p. 331. Il testo è preceduto dalla seguente presentazione:
«Riportiamo un sunto della conversazione tenuta da Franco Fortini in occasione della premiazione dei
vincitori del Concorso 1960 “Premio L’ufficio Moderno per la miglior lettera di vendita”».
L’ospite ingrato ns 6
180 Franco Fortini
1
Conversazione radiofonica con Renzo Zorzi (Radio Tre, febbraio/marzo 1988).
L’ospite ingrato ns 6
182 Franco Fortini
rio, scrivevo di critica. Per un altro verso, c’erano degli eventi e degli scontri
politici in fabbrica estremamente interessanti, problemi che riguardavano il
consiglio di gestione. Mi sono trovato così in una situazione tutt’altro che
facile. Con Adriano avevo un rapporto personale di cordialità e amicizia; nel-
lo stesso tempo però con Adriano Olivetti imprenditore mi trovavo come
delegato a rappresentare la parte dei lavoratori. Tutto questo, per disgrazia o
per fortuna, si risolvette con l’estate del ’48. Prima di tutto, con il 18 aprile.
Quindi, con la grande vittoria democristiana e poi con l’attentato a Togliatti.
Ero ad Ivrea in quei giorni e qui si vissero alcune giornate di grande tensione.
In seguito ai postumi di queste tensioni politiche, postumi locali che erano
notevolmente sgradevoli, potei misurare la generosità, l’ampiezza di cuore
e di intelligenza di Adriano Olivetti. Qualsiasi altro industriale mi avreb-
be cacciato su due piedi per le noie che gli stavo procurando; invece, dopo
una intemerata conversazione telefonica piuttosto aspra, Adriano Olivetti mi
condannò, facendomi un regalo straordinario: mi fece trasferire a Milano, alla
pubblicità.
sindacati. Riteneva che ci fosse una sola verità e che fosse incontestabile. Ol-
tre a Taylor, Adriano studiò anche un altro economista aziendale, il francese
Bedeaux2, su cui per altro scrisse articoli molto interessanti. Adriano visitò
tutte queste fabbriche proprio con l’idea che l’Italia avesse molto da impa-
rare da paesi che in quegli anni si trovavano più avanti nell’organizzazione
industriale del lavoro. E poi andò anche in Russia: nel 1927 visitò, insieme ad
un gruppo di industriali, l’Unione Sovietica e anche da questo viaggio rica-
vò molte riflessioni. Dobbiamo poi considerare che l’altra passione di questi
anni è l’urbanistica: Adriano vedeva lo spazio territoriale come opportunità
per l’integrazione della vita sociale e della vita industriale. Negli anni Trenta
studiò con un gruppo di giovani urbanisti appena laureati, fra cui Bottoni,
Rogers, Peressutti; collaborò anche con Renato Zveteremich che avrebbe poi
dato forma grafica al volume del ’38, quello sul piano regolatore della Valle
d’Aosta, che se fosse stato attuato, anche solo parzialmente, avrebbe sicu-
ramente risparmiato a quella regione i disastri a cui poi più tardi è andata
incontro, con uno sviluppo turistico molto disordinato.
Pensa che Bottai avrebbe voluto esporre queste tavole in occasione di una
delle grandi mostre che il fascismo stava organizzando al Palazzo delle Espo-
sizioni a Roma; perché gli sembrava potessero costituire un buon esempio
di soluzione ad alcuni problemi urbanistici. Mandò a Mussolini una lettera
spiegando le ragioni del progetto e chiedendo che uno dei gerarchi fascisti an-
dasse a inaugurare l’esposizione. Mussolini rispose inviando una lettera con
un grosso NO.
2
Charles Eugène Bedaux (1886-1944) imprenditore francese e inventore del sistema Bedaux, una
froma di razionalizzazione del lavoro orientata ad aumentare la produzione industriale, eliminando
i tempi morti.
184 Franco Fortini
Michelangelo per progettare San Pietro non sta facendo del mecenatismo, ma
interpreta piuttosto il suo ruolo e quindi chiama il miglior professionista che
può reperire per affidargli un lavoro. Ma anche su altri casi meno clamorosi ci
sarebbe da dire. Si pensi anche solo a quando Monteverdi, chiamato dai Gon-
zaga, va a Mantova e regala, per qualche decennio, le più belle musiche che
siano mai state scritte, dietro un compenso tutto sommato modesto; tanto è
vero che poi Monteverdi se ne va a Venezia e diventa organista a San Marco.
Ecco, non so bene, a questo punto, se il vero mecenate siano stati i Gonzaga o
Monteverdi: perché molte cose relative alla corte Gonzaga le ricordiamo gra-
zie a lui. Parlando di Adriano vorrei veramente sgombrare il terreno da una
parola di questo tipo. Adriano credeva nei progetti, li strutturava, sceglieva le
persone adatte e glieli affidava. Era nella condizione di poter disporre di mez-
zi che altri non avevano. Per di più, considerava il denaro come una specie di
maledizione: il denaro doveva essere speso subito; non fu mai un accumula-
tore. Quando morì non possedeva neanche la casa in cui viveva. Non ha mai
posseduto niente, ha sempre fatto una vita agiata, ma con bisogni modestis-
simi. Ma arriviamo a questi letterati, di cui si è tanto ironizzato per decenni.
Bisogna capire bene cosa fosse la cultura italiana dell’immediato dopoguerra.
Adriano, alla fine degli anni Cinquanta, avrebbe chiamato ad Ivrea sociologi,
psicologi e altri professionisti; ma in quegli anni, l’unico psicologo era Cesare
Musatti, che di fatti era regolarmente in servizio ad Ivrea. Adriano nei primi
anni del dopoguerra aveva reclutato un gran numero di letterati a cui faceva
svolgere mansioni per le quali non esistevano ancora professioni specifiche.
Li chiamava dunque perché, fra gli intellettuali, erano, in fondo, i più intelli-
genti, i più aperti, i più moderni…
fortini: Se posso interromperti ricordo che uno dei progetti, uno dei po-
chi che ho fatto io direttamente per Adriano, era un progetto di un volume
sulle strutture della cultura italiana. Ho ancora queste carte: era stato pensato
abbastanza accuratamente, proponendo delle larghissime collaborazioni alle
persone più varie, adesso mi ricordo solo il nome di Bobbio; una cosa che
quindi non aveva niente a che fare col mio lavoro letterario, né tanto meno
con quello di pubblicitario.
zorzi: Pensiamo ad Ottieri, per esempio; non era certo lì per fare il let-
terato. Era il capo del personale a Pozzuoli, quando si aprì quella fabbrica.
Volponi lavorava negli uffici di assistenza sociale…
Allora avevo pubblicato poche cose, versi, raccontini, cose così; dopo la con-
versazione, Adriano, che io avevo guardato con grande rispetto, perché era
un personaggio importante, mi ha chiesto di mandargli le fotocopie, le ripro-
duzioni di questi testi. La cosa mi ha lasciato sbalordito. Cosa c’entravano i
miei versi con il lavoro che avrei dovuto fare? C’entravano in questo senso:
Adriano – non so se sei d’accordo – era un uomo che conosceva abbastanza
bene gli uomini…
zorzi: Beh sì; da questo punto di vista era una delle sue doti rabdomantiche…
fortini: E quindi a lui certe cose servivano per altro, erano sintomo di altro.
Sono venuti fuori dei nomi, forse potete ricordare qualcun altro?
zorzi: Sì, almeno Geno Pampaloni direi; che certamente ebbe una grossa
importanza a Ivrea, anche perché aveva un tipo di religiosità che era la più
vicina a certe intenzioni, se non ad un certo essere, di Adriano; in quegli anni
quindi fu certamente un uomo importante. Poi dobbiamo ricordare Doglio e
persone come Sinisgalli, che era alla pubblicità prima di te.
fortini: Lavoravo nello stesso ufficio con i grafici Olivetti, che erano
professionisti di altissimo livello. Ricordo su tutti Giovanni Pintori che, di
fatto, ha creato tutta la pubblicità Olivetti del primo decennio del dopoguer-
ra. Io mi occupavo dei testi; cioè dovevo scrivere i testi, inventare gli slogan,
battezzare le macchine, i nuovi modelli che uscivano…
… Ne ha battezzata qualcuna?
fortini: Non abbiamo detto nulla però delle edizioni. Ho tradotto molto:
tre libri di Simone Weil, uno di Ramuz…
zorzi: Sì, mi ricordo benissimo le discussioni che finirono poi con la scelta
di quel bellissimo titolo della Simone Weil che si chiamava L’Enracinement,
il radicamento; e Fortini diede alla traduzione questa accezione dantesca e
venne fuori La prima radice, che fu un titolo memorabile, credo…
zorzi: Adesso tutti parlano di Simone Weil; sembra che tutti l’abbia-
no letta. A quell’epoca, ne tiravamo duemila copie. Adriano ne regalava un
migliaio in giro a biblioteche; era un personaggio così, decisamente strano.
Ad Ivrea c’era una biblioteca veramente esemplare, sotto moltissimi aspetti.
Spesso assumeva la fisionomia di vari direttori: quando ci fu alla direzione il
mio omonimo Ludovico Zorzi, che aveva una grande passione per la storia
del teatro, creò ad Ivrea una sezione teatrale che divenne, in quegli anni, una
tra le più importanti in Italia; venivano studenti da Torino, da Milano. Vor-
rei concludere con un piccolo aneddoto: quando Pampaloni, con un po’ di
turbamento, diceva ad Adriano «manca qualche libro, mi sa che li rubano»;
Adriano rispondeva: «Ah! Benissimo, benissimo, sono davvero contento. Se
rubano dei libri, vuol dire che hanno capito tutto!».
1
Giovanni Giudici, Poeti fra le macchine. Alla Olivetti la parola era design, «la Repubblica»,
edizione di Milano, 28 ottobre 1992; il testo è stato successivamente ristampato con il titolo Stile
Olivetti, in Giovanni Giudici, Un poeta del Golfo. Versi e prose di Giovanni Giudici, Longanesi, Mi-
lano 1994, pp. 263-265. Con l’articolo era presente il seguente sommario: «Una nuova “incursione”
del poeta Giovanni Giudici nella città della memoria e della memoria della cultura e delle lettere in
particolare. Dopo il ritratto di Vittorio Sereni, voce milanese sui fronti di guerra, ecco il capitolo delle
alte frequentazioni che l’autore di “Salutz” e di “Fortezza” ebbe ai tempi della sua permanenza nella
Olivetti dell’ingegner Adriano. Le poesie di Giudici sono state raccolte un anno fa in due volumi degli
Elefanti Garzanti»; e un catenaccio: «alcuni famosi manifesti dei prodotti Olivetti a cominciare dal
disegno realizzato da Savignac nel 1954 per la portatile “Lettera 22” qui accanto. In basso a sinistra e
a destra pubblicità e copertine firmate da Pintori negli anni Cinquanta».
L’ospite ingrato ns 6
190 Giovanni Giudici
Principe del design Olivetti era, a quel tempo, Marcello Nizzoli, inventore
di forme-macchina come la «Lexikon 80» e la «Lettera 22» («un parallelepi-
pedo puro» diceva lui di quest’ultima).
Anche Nizzoli è morto, ma altri designer gli erano succeduti: Sottsass,
Bellini, Bonetto e altri. Il concetto di design non va confuso con l’idea di «ab-
bellimento», che gli è addirittura antitetica e che corrisponde un po’ a quello
che in inglese è definito, con lieve sfumatura di spregio, styling.
Design è messa al bando del superfluo, per cui ogni «forma» deve essere
giustificata da una precisa funzione: Sottsass, per esempio, mi faceva notare
che una delle sue preoccupazioni, nel design di una certa macchina, era sta-
ta di ridurre al minimo il numero delle viti da svitare per accedere, in caso
di riparazione, ai congegni interni. Un modo, insomma, per economizzare:
tempi, fatica e costi.
Fra i grafici intorno a Sottsass, c’erano il giovane Roberto Pieracini, oggi
contitolare, insieme a Nanni Cagnone, di un suo studio.
Con lui e Gigi Fruttero realizzammo una campagna bellissima per la por-
tatile «Valentine»: una «Lettera 32» travestita da sessantottina, che presenta-
va l’unico inconveniente di costare un po’ troppo per l’abito che indossava.
Succede.
Così questo poeta, che per quasi un quarto di secolo ha lavorato a Milano
in Olivetti, ha potuto imparare che tutto è design. Anche un testo pubblicita-
rio dove, non soltanto bisogna saper dire con un minimo di parole, e dunque
di spazio, che cos’è un certo prodotto, a che cosa serve e quali vantaggi può
comportarne l’acquisto, ma anche organizzare il suo posto nell’economia
grafica di una pagina, senza con ciò sminuire o alterare il messaggio.
In un blocchetto di testo crescono tre righe rispetto agli altri blocchetti
che lo affiancano? «Se proprio non le puoi tagliare, lascia pure che crescano»,
mi disse una volta Pintori. Non saprei dire se certe cose possano valere anche
oggi, epoca degli spot.
E ho imparato, infine, che anche un testo poetico è design: un design per
cui ogni componente (significati delle parole, suono, ritmo, possibili allusi-
vità) deve convergere nella determinazione di un oggetto che, al pari di una
persona, altro non sia e non possa essere che se stesso.
«Ma anche in ufficio scrivevi le tue poesie?», mi sono sentito domandare
qualche volta.
Sì, ne scrivevo; o comunque ci pensavo. Ma neanche pochi sono stati i
copy che inventavo stando a casa o andando in giro per una Milano che adesso
ci muore addosso di giorno in giorno.
AFF, Schema di proposta per un volume sulle strutture della cultura italiana (1949), XVII, 22.
Sergio Bologna
I poeti e la pubblicità.
Note su Fortini copywriter per la Olivetti1
1
Testo tratto da: Sergio Bologna, Ritorno a Trieste. Scritti over 80, 2017-2019, Asterios Editore,
Trieste 2020, pp. 314-315 (ringraziamo l’editore per averci dato il permesso di ripubblicare questo
testo).
L’ospite ingrato ns 6
196 Sergio Bologna
«Tornare
sul luogo del delitto…»
Pare
a proposito qui venire in mente questo
modo di dire, se è vero che quadri
sculture e affini altro non sarebbero
che delitti mancati – secondo la teoria
che vuole l’arte una forma deviata
dell’impulso di uccidere.
204 Rodolfo Zucco
I vombati
Terrifiche
apparizioni dal profondo –
esseri informi e vermi-
colari – bocche tese o spalancate
si torcono in un urlo di disperazione e
raccapriccio sul rosso pompeiano
di un sangue coagulato: metamorfosi
delle figure alla base di una
crocifissione.
Nove poesie (2019-2021) 205
Ordine
«Un incrocio
di tre fili d’acciaio – una base
ramificata, un fusto verticale
diritto, intersecato alla
sommità
da un ramo orizzontale a ghirigoro: un albero:
la vita stessa ricondotta a
geometria sostanziale, infinitamente
riproducibile e infinitamente
misteriosa…»
Ma ora
l’intonaco giallastro e sporco viene via
a pezzi e la credenza è invasa da un’accozzaglia
di oggetti che non hanno alcun legame
col loro scopo primitivo: pile
di vecchi giornali e riviste, giocattoli
rotti, pezzi di biscotto, uno
spazzolino da denti: «Non è facile, sa,
con un bambino: non si fa
che rimettere in ordine».
206 Rodolfo Zucco
Il gatto rosso
«È strano
partecipare disarmati
al sorgere di una catastrofe volendone
essere testimoni. Ci attraversano
passioni contrastanti…»
Ricordo
«Era bellissimo.
Ricordo che una sera lo incontrai
al bar di un hotel di non so più
quale città. Era appoggiato al banco
e mi dava le spalle: alto, bianco
elegantissimo: un attore
del cinema, un dio. Pensai Chissà
che cosa beve un uomo
così. Mi avvicinai e lo sentii ordinare una
camomilla…»
Bronzo
Fuori
le urla dei bambini: sulla spiaggia
è arrivata una foca.
Il profilo che affiora dall’acqua
è una curva perfetta –
sembra fatta di bronzo.
Nove poesie (2019-2021) 209
Evitare
«Evitare
lo sguardo dell’autostoppista.
Evitare gli sguardi reciproci per non trovare
nel viso dell’altro l’immagine
della propria riprovevole pigrizia.
Evitare un’inconfessabile
complicità…»
Non incontro
più nessuno da anni. È così.
E le lettere
non le apro neanche: non si sa mai
cosa può esserci scritto.
Magari sei tu che mi scrivi
che non puoi più venire.
Un’espressione
Io
non ho che dirvi
né voglio che mi rescriviate niente.
Archivio
Alberto Saibene
Fortini e Olivetti
L’ospite ingrato ns 6
216 Alberto Saibene
Olivetti
Produce l’unico calcolatore esistente
che non esegue solo le quattro operazioni
e il saldo negativo
ma scrive addendi totali fattori prodotti
dividendi divisorio quozienti e resti
e mi fa vivere.
Archivio Franco Fortini, [1] c.; 29,5x21 cm. – Stampa da p.c. XXX, 5, 136.
222 Archivio
A metà1
1
«Comunità», 3, 2, marzo-aprile 1949, p. 59 (poi in F. Fortini, Poesia ed errore, Feltrinelli, Milano
1959, p. 118; Id., Poesia e errore, Mondadori, Milano 1969, p. 60; ora in Id., Tutte le poesie, Monda-
dori, Milano 2017, p. 102).
Dal carteggio di Franco Fortini
(1940-1963)
Piero Calamandrei a Franco Fortini
Poveromo, 4.VIII.40
Caro Lattes,
ho scritto subito all’ingegner Olivetti, come d’accordo. Per ora non mi ha
risposto, ma spero che abbia risposto o che risponderà presto a lei in modo
indipendente. Saluti affettuosamente il babbo1 da parte mia, quando gli scri-
ve. Non si scoraggi: sono queste le contingenze in cui si provano gli uomini.
Pietro Calamandrei
1
Dino Lattes (1888-1962), avvocato, probabile tramite per Olivetti presso Calamandrei (con cui
aveva rapporti professionali ma anche di ambito politico); in quel periodo in carcere come «ebreo
pericoloso» (cfr. Cronologia in F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura e con un saggio introduttivo di
Luca Lenzini e uno scritto di Rossana Rossanda, Mondadori, Milano 2003).
2
Franco Calamandrei (1917-1982), coetaneo e amico di Fortini, partecipò alla Resistenza, fu
redattore del «Politecnico» e de «l’Unità» e senatore in varie legislature.
226 Archivio
Caro Lattes,
non ho risposto prima alla Sua lettera, perché speravo di vedere in questi
giorni il direttore della Azienda Olivetti1 che, in risposta alla mia lettera, mi
aveva cortesemente scritto preannunciandomi una sua visita. Ma poiché non
è più venuto, comincio a ritenere che la sua gita qui sia stata differita.
Intanto io riterrei che, se proprio non Le è di molto scomodo fare di per-
sona il viaggio al quale egli l’ha invitato, un colloquio con lui non possa che
essere utile, perché Ella potrà spiegargli a voce con tutta franchezza le sue
possibilità di lavoro. Da come mi è stato descritto, credo che sia persona pie-
na di comprensione e amante della franchezza: mi parrebbe quindi opportu-
no che Ella gli spiegasse senza lacune la Sua situazione.
Un’affettuosa stretta di mano dal Suo
Piero Calamandrei
AFF., [1] c.; 29x22 cm. – Ds. F.to su carta intestata. Sul r. annotazioni a matita. III, 6, 3.
1
In quel periodo Direttore Generale alla Olivetti era Giuseppe Pero.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 227
All’ing. Adriano
1
F. Fortini, Un no fuori dai denti a Cristo trafficato, «Avanti!», 4 settembre 1948, p. 3 (poi in
«L’ospite ingrato», 2, 2006, pp. 166-168). Qui scriveva Fortini: «Anche pochi giorni fa, un uomo assai
noto in Italia fra gli “umanisti socialisti” consigliava a me e agli intellettuali di “sinistra” in genere, lo
studio e il silenzio. Non seppi rispondergli. Ricordavo gli anni del nostro silenzio o delle parole vane
che lo avevano voluto colmare, gli anni della vergogna. Oggi dunque prudenza!».
228 Archivio
sai – e l’ho scritto – che non mi piace ammantarmi di moralità. Ma sai anche
che se (come tu probabilmente pensi – spesso a torto – dei comunisti, ai quali
– certo a torto – mi assimili) davvero per noi i mezzi non contassero, non già
con la troppo patetica sintassi e con le preterizioni di quell’articolo io mi sarei
espresso. E a che scopo poi? Per gettare il discredito politico su di te? Via! Un
libellista simile sarebbe davvero un pover’uomo che non sa il suo mestiere, un
untore meschino.
2
Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev (1874-1948), filosofo e scrittore russo. Dissidente anticomu-
nista, espulso dalla Russia dai Bolscevichi nel 1922, emigrò in Francia, dove visse fino alla morte. Fu
uno dei maggiori esponenti dell’esistenzialismo e dell’anarchismo cristiano; nel 1947 le Edizioni di
Comunità avevano pubblicato Spirito e libertà. Saggio di filosofia cristiana.
230 Archivio
AFF, [3] c.; 29x21 cm. – Ds. con aggiunte e cassature autografe. X, 13,2.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 231
Caro Giorgio1,
sono andato a comprarmi «Botteghe Oscure»2.
Malinconia e vanità umiliata, naturalmente. Scarsissimo senso delle proprie
cose, eccetera. Oltre alla tua prima, l’ultima ha parti molto buone3. Capisci, il
«discorso», il modo del discorso, del «parlato» mi persuade poco (come poco
mi persuade in Mazzocchi4), mentre, all’interno di quello, indipendentemente
dal meccanismo che lega le immagini, hai cadenze, passaggi, fiati molto tuoi,
cioè nuovi, non più eco di qua e là. Mazzocchi ha qualcosa di molto generoso,
mi pare, «Suoni Albeniz» e altri passaggi, ma troppo presto spenti.
Il Montale5 – ha sempre alcuni versi molto notevoli, ma non pare che l’a-
mor nuovo (così pare) gli dia se non in superficie, in una volgarizzazione di
certi motivi che aveva benissimo esasperati in Finisterre. Ho letto anche il
Landolfi6, inferiore (eccetto qualche parte) al migliore.
Veniamo a «Comunità». Io devo proprio resistere alla tentazione di man-
dare al «Ponte» uno scritto sulla polemica Silone-Togliatti7 dove direi la mia
a tutti e due, al loro intollerabile – e identico – moralismo.
1
Giorgio Soavi (1923-2008), scrittore, critico d’arte, entrò in Olivetti prima come direttore del-
la rivista «Comunità», dal 1948 al 1952; in seguito (dal 1952 al 1956) della casa editrice delle Edizio-
ni di Comunità. Dal 1956 e fino agli anni Novanta fu il direttore dell’ufficio «Corporate Identity».
Tra i suoi romanzi di maggior successo si ricorda Un banco di nebbia (Mondadori, Milano 1955), il
cui titolo fu suggerito da Fortini. Per ulteriori notizie vedi il sito https://www.storiaolivetti.it/ e G.
Soavi, Adriano Olivetti, una sorpresa italiana, Rizzoli, Milano 2001, pp. 53-60.
2
È del 1949 la collaborazione di Fortini, tramite Giorgio Bassani, a «Botteghe oscure. Rivista seme-
strale di letteratura internazionale contemporanea»: F. Fortini, Poesie: Per una raccolta di versi, Falso so-
netto, Dichiara e scrivi, L’officina, L’amicizia, Alla moglie, «Quaderno IV», II semestre 1949, pp. 99-103.
3
Giorgio Soavi, Poesie: All’angelo custode, Figli, giovani morti, Viaggiatori, Io lascio il mondo,
All’amico, ivi, pp. 129-133.
4
Muzio Mazzocchi, Da «Suoni Albeniz»: Per il giorno di San Patrizio, Aprono un tempo…, A
mia sorella, La processione di Pasqua a Campi, Suoni Albeniz, Il telaio, Per B. conosciuta bambina e
ritrovata, Così, ivi, II semestre 1949, pp. 134-137.
5
Eugenio Montale, Poesie, ivi, pp. 9-11.
6
Tommaso Landolfi, Cancroregina, ivi, pp. 12-72.
7
Per la polemica a cui si riferisce Fortini (sui rapporti tra Silone e Pci) vedi «Comunità», 1, 5,
settembre-ottobre 1949, e la lettera di Togliatti su «l’Unità» del 6 gennaio 1950: Contributo alla psi-
cologia di un rinnegato. Come Ignazio Silone venne espulso dal Partito Comunista; nonché Polemica
Togliatti-Silone, «Comunità», 4, 6, gennaio-febbraio 1950, p. 9.
232 Archivio
8
Discepolo di Giacomo Noventa nella Firenze degli anni ’30 e da allora amico – non senza
ricorrenti dissidi – di Fortini, con il quale condivise l’esperienza della rivista «Ansedonia» (1938-
1941, poi «Lettere d’oggi»), Pampaloni fu assunto in Olivetti nel 1947 come direttore della biblio-
teca aziendale, e in seguito divenne direttore delle relazioni culturali e capo dell’Ufficio della presi-
denza. La figura di Geno Pampaloni a capo dell’Ufficio della Presidenza fu carismatica a tal punto
che la «Olivetti S.p.a.» nella caricatura fortiniana suonava: «Se Pampaloni Acconsente». Fortini gli
dedicò numerosi epigrammi (vedi L’ospite ingrato primo e secondo, in F. Fortini, Saggi ed epigram-
mi cit., p. 876). Il suo libro più noto è Fedele alle amicizie (Camunia, Brescia 1984; poi Garzanti,
Milano 1992). Vedi https://www.storiaolivetti.it. Un suo ricordo di Fortini, scritto all’indomani
della morte, apparve l’11 gennaio 1995 su «La Voce»: Caro Fortini, p.3.
9
«Comunità», 1, 6, ottobre 1946.
10
Fortini curò su «Comunità» la rubrica di recensioni «Bibliografia letteraria» a partire dal n. di
marzo-aprile 1950 fino all’aprile 1954: vedi di seguito la Bibliografia.
11
Vedi la Bibliografia.
12
Thomas Edward Lawrence, I sette pilastri della saggezza, trad. di Erich Linder, Milano, Bom-
piani, Milano 1949.
13
Robert Pen Warren, Tutti gli uomini del re, trad. di Lugi Berti, Bompiani, Milano 1949.
14
Ernst Wiechert, Il campo dei poveri, Bompiani, Milano 1949.
15
Robert Hughes, Nel pericolo, Bompiani, Milano 1949.
16
Graham Greene, Un campo di battaglia, trad. di Fluffy Mazzucato, Mondadori, Milano 1949.
17
Come fu temprato l’acciaio (Как закалялась сталь) è un romanzo autobiografico dello scrittore
ucraino Nikolaj Ostrovskij (1904-1936), pubblicato nel 1932 in lingua russa e in italiano nel 1945;
Fortini si riferisce alla riedizione del libro da Mondadori nel 1949.
18
Vera Panova, L’officina sull’Ural, trad. di G. Langella, Einaudi, Torino 1949.
19
Mark Twain, Le avventure di Tom Sawyer e di Huckleberry Finn, trad. di Enzo Giachino,
Einaudi, Torino 1949.
20
Per l’editore milanese Cederna uscirono nel 1949: William Shakespeare, Amleto Principe di
Danimarca, tradotto per le scene italiane da Eugenio Montale; James Joyce, Poesie da un soldo.
Dall’Ulisse, a cura di Alberto Rossi; Rainer Maria Rilke, Del paesaggio e altri scritti, a cura di Gior-
gio Zampa; Georg Trakl, Poesie, introduzione di Rodolfo Paoli, trad. di Leone Traverso; Samuel
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 233
Franco F.
Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.
Taylor Coleridge, Poesie e prose, a cura di Mario Luzi; William Butler Yeats, Poesie, cur. Leone
Traverso.
21
Vedi la Bibliografia.
22
Vedi la Bibliografia.
23
Vedi la Bibliografia.
24
Vedi la Bibliografia.
25
Mario Tobino, ’44-’48, Edizioni della Meridiana, Milano 1949.
26
Vedi la Bibliografia.
27
Alberto Moravia, L’amore coniugale, Bompiani, Milano 1949.
28
Elio Vittorini, Uomini e no, Bompiani, Milano 1949.
29
Vedi la Bibliografia.
30
Vedi la Bibliografia. Nel 1949 di Comisso appaiono Gioventù che muore, Ed. Milano-Sera,
Milano e Viaggi felici, Garzanti, Milano.
31
Marino Moretti, Poesie scritte col lapis, Mondadori, Milano 1949.
32
Gioachino Belli, Li morti de Roma, presentazione e note di Ernesto Vergara Caffarelli; disegni
di Scipione, Ed. Milano-Sera, Milano 1949 (poi Parenti, Firenze 1949).
33
Teatro religioso del Medioevo fuori d’Italia. Raccolta di testi dal secolo VII al secolo XV, a cura
di Gianfranco Contini, Bompiani, Milano 1949.
34
Alba De Céspedes, Dalla parte di lei, Bompiani, Milano 1949.
35
Antonio Gramsci, Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, Einaudi, Torino
1949 (Opere di Antonio Gramsci, vol. V).
36
Piero Martinetti, Gesù Cristo e il cristianesimo, Denti, Milano 1949.
37
Carl Gustav Jung, Psicologia e alchimia, trad. di Roberto Bazlen, Astrolabio, Roma 1949.
234 Archivio
Caro Soavi,
io aspetto sempre che tu ti faccia vedere qui. Fui a Ivrea ma tu eri per non
so quali luoghi. Il numero di «Comunità» è appassionante per quella cosa di
Silone1 (posso chiedere che tu me ne mandi un numero ancora, il mio l’ho
dovuto cedere ad un funzionario di via delle Botteghe Oscure, famelico, che
vedeva più rosso della copertina…), discutibile il Mann2, e la Garufi3. La tua
poesia4 non mi pare tutta leggera come dovrebbe, il vocativo finale è un po’
freddo.
Vieni dunque e dimmi o dammi per «Comunità» da fare, se ce n’è e se è
utile. Sui reportages uso Montemurro5 avrei anche da dir la mia, per piccola
che sia.
Accludo dei versi di Bellintani6. Il nome non ti deve essere sconosciuto,
ha vinto il primo premio Lugano per la poesia, Ferrata7 e altri critici lo hanno
tenuto in palma di mano, pubblicò sul Politecnico e su Rassegna, mi pare,
è un ex scultore, vive in campagna, mezzo pazzo (giovane, ha studiato con
Martini a Monza8, amico di Pintori9) e in fierissima miseria. Le prime due di
1
Ignazio Silone, Un’uscita di sicurezza, «Comunità», 3, 5, settembre-ottobre 1949, p. 44.
2
Thomas Mann, Omaggio a Kafka, ivi, p. 40.
3
Bianca Garufi, Poesia, ivi, p. 43.
4
Giorgio Soavi, Poesia, ivi, p. 56.
5
Leonardo Sinisgalli, Lavori in Lucania, ivi, p. 18.
6
Di Umberto Bellintani su «Comunità», 4, 8, maggio-giugno 1950 sono pubblicate Tre poesie,
p. 65. Nel 1946 Bellintani si era classificato al secondo posto, ex aequo con Vittorio Sereni, al Premio
Internazionale «Libera Stampa» di Lugano; del 1953 è la sua prima raccolta di versi, Forse un viso tra
mille (Vallecchi, Firenze), del 1955 la raccolta Pari, a cura di Vittorio Sereni, prefazione di Giansiro
Ferrata (Edizioni della Meridiana, Milano).
7
Giansiro Ferrata (1907-1986), critico letterario di spicco, attivo dagli anni di «Solaria» e amico
fraterno di Vittorini, con il quale condivise sia l’esperienza partigiana, sia quella di «Politecnico»;
diresse tra l’altro le collane «I Meridiani» e «I Classici» della Mondadori.
8
Arturo Martini (1889-1947), scultore tra i massimi del Novecento, insegnò all’Istituto superiore
per le industrie artistiche di Monza nel 1929-30.
9
Giovanni Pintori (1912-1999), disegnatore e grafico, dal 1936 lavorò per la Olivetti, del cui Ufficio
Tecnico per la Pubblicità fu direttore, fino al 1967. Il suo nome è legato ad una serie foltissima e altret-
tanto fortunata di manifesti, pagine pubblicitarie, copertine, insegne, allestimenti; le sue immagini ac-
compagnarono numerosi articoli sulla Olivetti, nonché le campagne pubblicitarie di alcuni tra i prodotti
di maggior successo dell’azienda, come le macchine per scrivere «Lexikon 80» e «Lettera 22».
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 235
Fortini
Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.
236 Archivio
Caro Soavi,
tra un mese e mezzo circa, ai primi di luglio, approfittando di un 10/15
giorni di vacanze non consumate dell’anno scorso, io e Ruth andiamo in Ger-
mania, invitati dal direttore britannico del Jugendhof VLOTHO an der We-
ser, in Westfalia (Hannover) per partecipare alle «rencontres» internazionali
periodiche che vengono tenute in questo centro che è il più importante fra
quelli in Germania. Ce ne sono a Freiburg e altrove, e finora ci sono state de-
legazioni francesi (pubblicano anche un periodico), olandesi, inglesi, svedesi;
ma nessun italiano. Avrei così la possibilità, oltre che di stare una settima-
na in contatto con tutti questi movimenti tedeschi (che comprendono anche
la costruzione di interi villaggi per ragazzi ecc.) di fermarmi a Darmstadt,
Frankfurt, Heidelberg.
Ora sto cercando di combinare per delle corrispondenze con qualche
giornale o settimanale. Vorrei sapere se, invece, la cosa potesse interessare
(per un grosso servizio, con foto ecc.) «Comunità»; se, eventualmente, in
esclusiva, e come.
Sappimi dare una risposta un po’ presto. Le corrispondenze le farei solo
per coprire, in parte, le spese del viaggio; non per altro.
Altrimenti preferirei un vero diario.
Ciao. Tuo
Fortini
Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 237
Caro Soavi
Ecco e grazie. Fai pure «Diario Tedesco»1.
Mi sono dimenticato di scrivere le dieci righe per la foto del cavaliere.
Debbo farle? O hai cambiato idea?
Mi raccomando molto le spaziature tra un pezzo e l’altro! Se non puoi
farle sufficienti, metti un pallino (°).
Pensa che libro di foto e testi farei se potessi esplorare sul serio una regio-
ne italiana (che so, Puglia).
Nessuna notizia di Bassani?
Tuo
Fortini
Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.
1
Diario tedesco di Fortini apparve su «Comunità» nel n. 6 (IV), gennaio-febbraio 1950, pp. 58-63;
poi ripreso dall’editore Manni di Lecce con Introduzione di Romano Luperini ed un’Appendice: F.
Fortini, Diario tedesco 1949, Manni, Lecce 1991.
238 Archivio
24 maggio – l’esercito
marciava per
raggiunger la
frontiera1
Caro Soavi
mi telefona in questo momento Bo2 per chiedere a te e ad Adriano se vi
interesserebbe un suo scritto/saggetto su Simone Weil3, quella scrittrice mor-
ta a Londra durante la guerra i cui libri stanno facendo assai scalpore. (Sono
opere di morale, filosofia e mistica). Siccome mi pare d’aver udito che l’ing.
Adriano abbia acquistato i diritti per quei libri, credo che lo scritto di Carlo
Bo potrebbe interessare. Prendi contatto con lui scrivendo in via Adelaide
Ristori 2 tel 271450 Milano.
Intanto ti dico che ho combinato con Mondadori per dei servizi sulla Pu-
glia e che, combinando con le mie vacanze (per forza), sarò in quelle terre
con un fotografo americano e un’auto dal xxxx nella seconda metà di giugno
e nei primi dieci giorni di luglio. Avrò tutto agosto a Milano, tranquillissimo
e in mutande mi leggerò il leggibile, in modo da poter presentare «la linea»
richiesta, cioè una visione unitaria della prima metà dell’annata. Pensa fin d’o-
1
Citazione da La canzone del Piave (1918), di Ermete Giovanni Gaeta, celebre canto patriottico,
adottato come inno nazionale italiano tra il 1943 ed il 1946 («Il Piave mormorava / Calmo e placido al
passaggio / Dei primi fanti, il ventiquattro maggio: / l’Esercito marciava / per raggiungere la frontiera,
/ per far contro il nemico una barriera…», vv. 1-6).
2
Carlo Bo (1911-2001), saggista, traduttore, francesista e ispanista, rettore dal 1947 al 2001
dell’Università di Urbino, figura di rilievo della cultura dell’Ermetismo, fu obiettivo polemico di vari
scritti di Fortini, tra i quali alcuni epigrammi raccolti in L’ospite ingrato primo e secondo (in F. Fortini,
Saggi ed epigrammi cit., pp. 888, 1016).
3
Di Simone Weil (1909-1943) Fortini tradusse La pesanteur et la grâce, 1948: L’ombra e la grazia,
introduzione di Gustave Thibon, Edizioni di Comunità, Milano 1951; La condition ouvrière, 1951:
La condizione operaia, introduzione di A. Thévenon, Edizioni di Comunità, Milano 1952; L’enraci-
nement: prélude à une déclaration des devoirs envers l’être humain, 1949: La prima radice. Preludio
ad una dichiarazione dei doveri verso la creatura umana, Edizioni di Comunità, Milano 1954.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 239
tuo
Fortini
Archivio Olivetti, Fondo Zorzi, Renzo / Edizioni di Comunità / Corrispondenza (in ordine
cronologico) Faldone 3, fascicolo 25.
4
Gli autori delle edizioni La Meridiana di Eugenio Luraghi (1905-1991): nel 1949 vi apparvero
sia Mario Tobino (recensito su «Comunità» da Fortini, vedi n. 25), sia Sandro Penna (Appunti). Sulle
edizioni vedi C. Isnenghi in https://blog.maremagnum.com/i-ricercati-della-meridiana/.
5
I collaboratori del periodico «Botteghe oscure».
6
Roberto Fasola, Azimi, Guanda, Modena 1949.
7
Roberto Leydi (1928-2003), a lungo docente all’Università di Bologna, è stato un pioniere
dell’etnomusicologia e tra i fondatori dell’Istituto Ernesto de Martino; all’epoca era critico musicale
dell’«Avanti!», a cui collaborava regolarmente anche Fortini.
240 Archivio
Riservata personale
All’ingegner Enriques1
Ivrea
Caro Ingegnere,
Le scrivo per richiederle – come del resto mi ha proposto jeri – una con-
versazione a quattr’occhi, sui temi che ho intenzione di toccare nella presente
lettera; dove spero di poter rispondere meno precipitosamente e meno uf-
ficialmente di quanto non abbia saputo questo venerdì alla proposta sua di
tramutare in consulenza il mio rapporto di impiego.
Quella proposta – lei se n’è accorto – m’ha sorpreso, per forma e sostan-
za; per forma, perché essa giungeva insieme alla risoluzione di interrompere
il Cembalo2, tanto da dare l’impressione di aver associato il mio compito a
quelli da «scrivano» dei redattori della fu rivista, quando invece io non ave-
vo responsabilità comune né altra contiguità fuor da quella affatto materiale
d’ufficio con essi, in modo che tale associazione, nella «purga», sembra esser
stata suggerita solo da una qualche complessiva intolleranza dei «pennaruli».
Per sostanza: perché essa, non ostante le cortesi parole sue che l’accompagna-
vano, non ha certo il significato di una rinnovata fiducia nella mia opera, ben-
sì è un passo che, nel mio caso, si ritiene preliminare ad un altro; e definitivo.
Del quale ultimo non avendo né desiderio né paura, mi permetto ricordarle
quali circostanze abbiano condotto a questa situazione; che spero ella vorrà
1
Giovanni Enriques (1905-1990) fu assunto nel 1930 in Olivetti, dove ebbe numerosi incarichi
fino a divenirne Direttore Generale nel 1947. Vedi Sandro Gerbi, Giovanni Enriques: dalla Olivetti
alla Zanichelli, Hoepli, Milano 2013.
2
Fortini curò la rubrica Due libri al mese del bollettino Olivetti «Il cembalo scrivano», dal n. 1
(I), dicembre 1949, p. 7 (rec. a G. Marotta, A Milano non fa freddo, Bompiani, Milano e A. Gide, La
sinfonia pastorale, trad. di E. Castellani, Frassinelli, Torino 1944) al n. 1, II, gennaio 1950, p. 7 (rec. a
Alain-Fournier, Il grande amico, Mondadori, Milano 1940 e Vasco Pratolini, Il quartiere, Vallecchi,
Firenze 1945). L’ultimo contributo di Fortini al periodico è Preghiera di pubblicazione, «Il Cembalo
scrivano», 7, 1955, p. 40.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 241
3
Dopo l’attentato a Togliatti del 14 luglio, a Ivrea si creò un clima di tensione interna all’azienda.
Fortini era tra i più convinti sostenitori di una rivolta degli operai ed Adriano Olivetti ne fu informa-
to. Come egli stesso ebbe a testimoniare successivamente, Fortini poté allora misurare «la generosità,
l’ampiezza di cuore e di intelligenza di Adriano Olivetti [conosciuto sin dal 1938], perché qualsiasi
altro industriale mi avrebbe cacciato su due piedi, per le noie che gli stavo procurando, e invece dopo
una intemerata telefonica piuttosto aspra Olivetti mi condannò – mi condannò, sì, ma facendomi un
regalo straordinario, cioè trasferendomi a Milano, alla pubblicità» (cfr. Cronologia in F. Fortini, Saggi
ed epigrammi cit.).
4
Tullio Fazi (1914-1989), economista di formazione, venne assunto in Olivetti nel 1946 e dal 1950
fu alla direzione del Servizio Pubblicità, ottenendo tra l’altro la «Palma d’Oro», il primo premio per
la pubblicità in Italia.
242 Archivio
5
Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di C. Brizzolara, F. Fortini, A. Steiner, Uff. Pub-
blicità della C. Olivetti & C., Ivrea 1949.
244 Archivio
il mio compito sembra stato quello di redigere degli articoli sciocchetti per il
Cembalo. Nulla di strano poi che i mistici della «cartolina» lamentino, che so,
le assenze, i ritardi o lo scarso rendimento del dr. Fortini. Certo che c’è stato, lo
scarso rendimento; ma mi chiedo e le chiedo se è tutta colpa mia. E quando lei,
ingegnere, mi loda per aver trovato il nome Lexikon (mi si vuol forse pagare la
consulenza perché trovi il nome di battesimo delle macchine e degli «slogans»?)
e poi, al tempo stesso, mi dimostra che i testi degli annunci li può benissimo
compilare lei e il dr. Fazi, fa della conscia o inconscia ironia: infatti ciò equivale a
dire che io rubo lo stipendio. E siccome, anche per le mie convinzioni politiche,
rubare il pane a nessuno, le dico: c’è da fare, e molto, volendo, all’Ufficio Pub-
blicità, che né lei né il dr. Fazi possono fare, e precisamente:
a) Manuale di dattilografia e impaginazione.
b) Manuale di corrispondenza commerciale.
c) Rifacimento di testi dépliants calcolatori.
d) Estensione di un lungo testo per la macchina el.
e) Programmazione della portatile.
f) Nuova edizione Visita alla Fabbrica.
g) Estensione articoli semiscientifici per la Elettr. e, in genere, sfruttamen-
to a mezzo inchieste dello schedario «Cembalo»; costituzione di una vera e
propria Biblioteca Olivetti per il Pers. D’Ufficio, plurilingue.
+ indagine psicotecnica sulla Lex. Elettrica.
Ma questo lavoro può essere compiuto utilmente (so perfettamente di non
essere indispensabile; di indispensabili pare non ci siano, a questo mondo,
altro che il buon Dio e, forse, Einstein) solo a condizione che:
1. Siano stabiliti meglio i compiti e rispettate le competenze.
2. Sia creata una consuetudine regolare di riunioni presiedute dal dr. Fazi
– che resta il coordinatore di tutto – per tutto il personale dell’Ufficio Pub-
blicità, in cui vengano
- comunicati gli elementi nuovi
- discussi i pareri
- impartiti compiti direttive termini.
3. Sia stabilito un collegamento permanente e non casuale con la Pubblici-
tà Estero – in particolare con l’arch. Bonfante6 – per evitare l’incrociarsi e il
sovrapporsi di iniziative. […] [illeggibile]
Se in questo lavoro c’è posto per me – e mi permetto di ricordarle che sono
alla Olivetti anche per imparare – e mi si affidano dei compiti, non vedo perché
6
Egidio Bonfante (1922-1994) entrò alla Olivetti nel 1948; fu incaricato di studiare la veste grafica
della nuova serie di «Comunità», il cui primo numero uscì nel gennaio del 1949. Curò la decorazione
di stabilimenti dell’azienda, campagne pubblicitarie e mostre, con un ruolo di primo piano nella pro-
duzione artistica e pubblicitaria. Vedi Rossana Bossaglia, Egidio Bonfante, Electa, Milano 1996; e il
sito: https://www.storiaolivetti.it/articolo/76-egidio-bonfante/.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 245
AFF., 9 c.; 28,5x22 cm. – Copia di ds. Non f.ta su carta intestata Olivetti. XXVI, 71, 1.
7
La frase è di Giuseppe Mazzini, che nel giugno 1831 nella lettera A Carlo Alberto di Savoia,
edita in opuscolo a Marsiglia metteva in epigrafe il motto «Se no, no!». Mazzini si rivolgeva a Carlo
Alberto di Savoia dichiarandosi disposto a rinunciare alla repubblica, purché realizzasse l’unità d’Ita-
lia, e dicendogli: «fate l’unità d’Italia e siamo tutti con voi; se no, no».
246 Archivio
Caro Adriano,
mi dicono che sei entrato in una lunga convalescenza. La spero per te,
invece, breve – e ultima. Credo che non ti dispiacerà questo uccello vivo che
ti mando in una gabbia di fil di ferro. Mi sono chiesto quale esempio di vita
potesse far piacere ad un convalescente; ed ho pensato a una delle più allegre
creature del mondo. Forse è stato anche un pensiero egoistico; perché quag-
giù, diversamente da Ivrea, si vede solo qualche gatto, oltre ai soliti uomini.
Ma siccome un uccello in gabbia può divertire solo per pochi minuti, tu
dagli anche subito, se credi, la via; m’han detto che è un piacere tanto raro, al
giorno d'oggi, concedere una libertà. È una specie vivace ovunque, col peg-
gior freddo; è un frosone (phrygius, Asia minore), di becco robusto, un uccel-
lo di semplice naturale, come vedi: ma ben disposto e anche, credo, piuttosto
furbo. A me quel suo mantello color novembre piace; ho pensato che un
uccello più vanitoso non ti sarebbe andato a genio.
Stai meglio che puoi, caro Adriano; te lo augura insieme a Ruth il tuo
Franco Fortini
Ps. Sbattendo contro la gabbia s’è spelato alla fronte e alla coda; non acca-
de solo ai frosoni. Se si dovesse cavar di gabbia, tenerlo con l’indice sotto la
gola; perché becca forte.
1
Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro, a cura di Marianna Marrucci e Valentina Tinacci, intro-
duzione di Romano Luperini, Quodlibet, Macerata 2006, pp. 141-144, con il titolo Una lettera di
G.P., pp. 141-142.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 249
nere dicono la parola democrazia è proprio «opaco», gli manca quella limpi-
dezza (romantica?) che dà alle cose la libertà. E se la gente la sera «va a letto»,
anche questa è una abitudine borghese? Una volta tu scrivesti una cosa molto
bella a proposito degli ermetici che parlavano «così» anche levandosi la sera i
pantaloni per andare a dormire. Oggi, forse senza accorgertene, anche tu sei
stato punto da quella zanzara: oggi ti sembra un’operazione borghese quella
di andartene a letto a rimuginare le proprie impressioni: comincia a piacerti
un mondo in cui la gente stia notte e giorno sulle barricate. Io accetto da te
tutte le accuse che mi fai per varie ragioni […] e la principale delle quali è che
io non sono sicuro di essere nel giusto, non sono soddisfatto del mio pessimi-
smo forse egoista, e posso tutt’al più difendermi, mai controbattere; perché le
mie tentazioni verso l’«Umanesimo cristiano personalistico & C.» sono vera-
mente forse troppo forti. Ma tu certamente sbagli quando condanni uno che
esprime il proprio disagio e lo esprime in modo abbastanza evidente, anche se
«con un’ombra di fiele». Tu che conosci la gente del popolo, vai in giro per le
strade, interroga gli uomini nel loro profondo e non nelle loro convenienze e
nelle loro paure, e vedrai se nella maggior parte di loro non c’è proprio questo
disagio, questo senso di essere «invitati di pietra», questa estraneità, questo
sentirsi impotenti sino all’indifferenza, questa fondamentale ambiguità. Io,
per lo meno, sento così. E in fondo la tua lettera mi ha aiutato a chiarirlo in
modo definitivo.
[…] Un abbraccio affettuoso («Vigila!»)
2
Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro cit., pp. 142-144.
250 Archivio
molto belle egli poi raccontò sul «Politecnico» la vicenda del suo reparto
nella Corsica dai tedeschi occupata dopo l’armistizio. Con il contingente ita-
liano risalì la costiera adriatica combattendo fino alla fine della guerra. Ci si
rivide nel 1945, a Milano. Scriveva per il quotidiano del Partito d’Azione.
Poi andò insegnante a Biella. Nel 1948, o poco dopo, Adriano Olivetti lo
chiamò a Ivrea. Diresse la biblioteca della fabbrica. Si occupò attivamente e
a lungo del Movimento di Comunità. Dopo la morte di Olivetti lavorò per
più di una casa editrice, a Firenze. Seguii quanto veniva scrivendo finché non
prese a collaborare con giornali che non riuscivo a leggere senza disgusto.
Non ho mai dubitato della sua intelligenza critica eccezionale e della qua-
lità della sua scrittura. Più di una volta accadde che a vicenda ci si nominasse
con astio. Le nostre posizioni politiche si fecero sempre più divergenti. Col-
laboravo al «Corriere», diretto da Alberto Cavallari, quando, per averci scrit-
to contro lo sbarco Usa a Grenada (1983), mi ebbi da lui, sul suo giornale, una
nota che mi denunciava – ma, e questo mi parve il peggio, senza nominarmi
esplicitamente – come auspice di terrorismo antiamericano e rammentava la
riconoscenza che invece avrei dovuto avere verso i soldati degli Stati Uniti
la cui guerra antinazista, quarant’anni prima, aveva contribuito a scampare
mio padre ebreo. (Non diverso attacco mi venne allora da Giorgio Bocca e
da una parte dei redattori del «Corriere», che anzi ne trassero un comunicato
all’Ansa; vicenda che ho già raccontata). Mi promisi allora di non rivolgergli
più la parola.
Vorrei poter pubblicare alcune delle lettere che ci siamo scambiati in altri
tempi. Credo che le sue quasi sempre gli facciano onore. Ma al di là dei pri-
vati grovigli psicologici giustamente impalliditi, resta che quel rapporto, cui
mi bisogna dare il titolo di amicizia, andrebbe interpretato non cominciando
dalle nostre «anime» ma dalle opere. Né solo da quelle scritte. Quindi da una
biografia. Anzi da due biografie. O, molto meglio, da un libro di storia che
neanche ci elencasse nell’indice dei nomi.
La lettera che, non autorizzato, riproduco mi pare molto bella: contiene i
suoi più forti argomenti contro di me. È un esempio delle contraddizioni che
abbiamo subite e ricercate per tutta la vita. Non c’è quasi enunciato del mio
corrispondente cui i decenni successivi non abbiano dato apparente ragione.
Una ragione che continuo a giudicare apparente.
Non reconciliati e basta. Non è possibile altrimenti. Non potrei mai se-
dermi e conversare «civilmente», come si dice, con quell’antico coetaneo,
senza provare vergogna per coloro che da lui hanno ricevuto, credo, maligni
insegnamenti intellettuali e politici. Sebbene egli anteponga di sicuro gli af-
fetti alle inumane ideologie che io, come posso, continuo a servire, certo è
mosso anche lui da una somigliante preoccupazione e pensa a quanti il mio
insegnamento intellettuale e politico ha sospinti per una via di errore e colpa.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 251
2 marzo 1955
AFF., [1] c.; 29,5x21 cm. – Minuta ds. non f.ta. XXV, 6, 1.
1
Da Franco Fortini, Un giorno o l’altro cit., pp. 153-154 con il titolo Ad Alicata.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 253
AFF., [1] c.; 29,5x21 cm. Minuta di ds. non f.to. XXVIII, 19,2.
254 Archivio
Ivrea, 9.1.56
Carissimo,
l’altro giorno Zorzi2 mi ha detto della tua decisione di intraprendere la tua
collaborazione a «Comunità», e oggi vedo il tuo articolo di rientro all’Avanti!
Mi dispiace, per la Rivista e per me: perché rompe un altro filo che ci
legavano a uomini diversi ma amici e compagni, e accentua, ai miei occhi,
quel moto di repulsa che la cultura di sinistra opera da qualche tempo nei
confronti di «Comunità». Ma riconosco che per te era giusto, e poteva darti
qualche imbarazzo.
Sappi comunque, e volevo dirtelo l’altra sera per la fine dell’anno, ma la
tua voce aveva un tono che mi mise in difficoltà, che, con tutta la severità
con la quale posso qualche volta giudicare di certe tue reazioni e di certi tuoi
atteggiamenti, la mia amicizia è ancora «amicizia».
Con molto affetto
Tuo Geno
1
La lettera è riprodotta in Francesca Barbera, «Dialogo di diffidenze»: il carteggio Fortini – Pam-
paloni (1940-1989), Tesi di laurea magistrale in Lettere Moderne, relatore Stefano Carrai, controrela-
trice Monica Marchi, Università degli Studi di Siena, a. a. 2014/2015, p. 97.
2
Renzo Zorzi (1921-2010) fu figura di primissimo piano all’Olivetti: direttore dal 1956 delle Edi-
zioni di Comunità, responsabile della «Corporate image» dell’azienda, in cui lavorò fino al 1986. Vedi
https://www.storiaolivetti.it/articolo/105-renzo-zorzi-una-vita-per-larte-e-la-cultura/.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 255
1
Lettera ds. con aggiunte manoscritte e firma di mano di Fortini, [1] f. su 1 c. Cfr. Francesca Bar-
bera, «Dialogo di diffidenze»: il carteggio Fortini – Pampaloni (1940-1989) cit., pp. 98-99.
2
Aggiunta manoscritta di solo.
3
Rivista politico-letteraria, nata a Roma, nel 1954, e diretta in origine da Antonello Trombado-
ri, Romano Bilenchi e Carlo Salinari. Nel 1965 affiancò «Rinascita», di cui divenne il supplemento
mensile fino al 1989.
4
Cfr. Lettera 46, nota 220, p. 95. Probabilmente si tratta di Un banco di nebbia, Mondadori,
Milano 1955.
5
Aggiunta manoscritta di presto.
256 Archivio
AFF., [1] c.; 30x21,5 cm. – Minuta ds. non f.ta. XXVIII, 18, 6.
6
Aggiunta manoscritta di non.
7
La o sostituisce una virgola scritta in precedenza.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 257
Caro Momigliano1,
recenti episodi, tra i quali anche tutti quelle che hanno accompagnate le
trattative di Torino, mi decidono a sciogliere, come si dice, certe riserve e a
maturare formalmente quelle dimissioni che avevo, due mesi fa, solo riman-
date. Non credo più possibile tra noi un accordo fecondo; sospetti giustificati
o ingiustificati, personalismi – i miei tra gli altri – renderebbero difficile ogni
rapporto.
Mi dimetto, dunque, e desidero che fin da questo numero il mio nome non
compaia sulla copertina.
Credi alla mia sincera stima personale. So che tu hai sempre agito in modo
equanime e disinteressato e ti debbo essere gratissimo del lavoro che ci hai dato.
Tuo
Franco Fortini
5 luglio 1957
1
Franco Momigliano (1916-1988), responsabile delle Relazioni interne alla Olivetti, in colla-
borazione con Adriano Olivetti e con Fortini si occupò della redazione dello statuto del Consiglio
di fabbrica al fine di coinvolgere i lavoratori e le loro rappresentanze negli organismi aziendali e di
ampliare le materie oggetto di contrattazione sindacale. Dal 1971 fu docente all’Università di Torino
e membro del Comitato scientifico della Fondazione Luigi Einaudi. Vedi Franco Momigliano, in F.
Fortini, Un giorno o l’altro cit., p. 128.
258 Archivio
1
Cesare Musatti (1897-1989), considerato il padre della psicanalisi in Italia, nel 1942 venne con-
tattato da Adriano Olivetti che aveva manifestato un interesse editoriale nell’ambito della psicologia
e della psicanalisi; nel 1943 Musatti aveva avviato in Olivetti l’embrione di un centro aziendale di
psicologia del lavoro, prima di riprendere la carriera universitaria e l’attività di studioso e scrittore. Ha
curato l’edizione italiana delle opere di Freud edita da Boringhieri ed è stato direttore della «Rivista di
Psicanalisi», sempre mantenendo negli anni un rapporto di consulenza e collaborazione con il Centro
di Psicologia della Olivetti, di cui aveva gettato le basi.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 259
2
Muzio Mazzocchi Alemanni (1920-2013). Studioso di Gioacchino Belli e della letteratura in dia-
letto, è stato giornalista e bibliotecario. Entrato alla Olivetti, ha lavorato a documentari quali Cristo
non si è fermato a Eboli (1952), e La via del lavoro (1961).
260 Archivio
talvolta deformante cui può giungere chi dirige più uomini e ne ha la re-
sponsabilità, passa alla individuazione e alla comprensione di quel che fa una
persona, il suo passato, il livello del suo impegno, i suoi errori e la sua verità.
Mi creda suo
Firenze, 22.7.63
Caro Franco,
ci sono tre buone ragioni per scriverti. Ho letto il libro della Conti, «Ceci-
lia e le streghe», e ti ringrazio di avermelo segnalato. Certo, si può parlare con
verità della morte anche al di fuori del cattolicesimo: in verità, voglio dire, – e
senza orgoglio, qui –, cioè con accenti che risuonano dentro di noi con una
sorta di fedeltà interiore, in una sfera che, per chi come me crede in buona
fede a questa possibilità concettuale, semantica e umana, possiamo chiamare
«meta-ideologia».
O almeno: per me in questo senso, come tu mi suggerivi, quella lettura «è
valsa la pena».
Ho saputo (mi hanno detto) che i tuoi rapporti con la Olivetti sono cam-
biati o cessati del tutto, e se questo, come penso, ti dispiace e ti crea diffi-
coltà, almeno immediate, mi fa molto dispiacere, e vorrei dirtelo. Quando
ci fu la epurazione comunitaria nel ’582, una delle cose per me penose fu il
tuo silenzio. Significava, credo, da parte di chi, come sei stato tu, mi aveva
ritrovato in quel mondo, un giudizio di tradimento oggettivo, da parte mia,
delle ragioni che ti (ci) avevano indotto a introdurmici, oltre quelle sempli-
cemente amichevoli (e poi: tu hai, me lo hai scritto, un concetto interpeda-
gogico dell’amicizia). Siccome non condividevo quel tuo giudizio, sostituii
abbastanza facilmente la solidarietà che allora mi mancò, con l’orgoglio. Ma
amicizia è, secondo me, anche questo dialogo di diffidenze, quello che trama
e rompe comunque il silenzio o le parole di cui viviamo. Non credere ora che
voglia essere più generoso: sono semplicemente più sentimentale, e ricordo le
stanzette dell’ormai «vecchio» asilo dove ci rivedemmo, e dove maturò una
parte così importante della mia vita.
1
Lettera ms. a penna nera, [2] ff. su 1 c.; 22x29 cm. Cfr. Francesca Barbera, «Dialogo di diffiden-
ze»: il carteggio Fortini – Pampaloni (1940-1989) cit., pp. 115-116.
2
Il rapporto tra Pampaloni e la Olivetti si concluse nel 1958. Con la sconfitta dalle elezioni po-
litiche del Movimento Comunità, molti collaboratori, fra i quali Pampaloni stesso, furono licenziati.
262 Archivio
Hai visto la nostra collana «Saggi e documenti dei popoli nuovi»4 dove è
apparso Ferhat Abbas?
Hai qualche libro da suggerire, o da tradurre?
AFF, [3] p. su 1 c.; 29x21,5 cm. – Sul r. appunto d’altra mano. XI, 6, 31.
3
Probabile riferimento alle poesie di Una volta per sempre, Milano, Mondadori, 1963.
4
Ferhat Abbas, Dentro la notte del colonialismo: guerra e rivoluzione in Algeria, in Saggi e docu-
menti dei popoli nuovi, Vallecchi, Firenze 1963. Questa monografia è l’unica contenuta nella collana
appena citata. Ferhat Abbas (Taher, 25 ottobre 1899 – Algeri, 24 dicembre 1985) fu un politico, leader
del movimento d’indipendenza algerino.
Dal carteggio di Franco Fortini (1940-1963) 263
1
Lettera manoscritta, [1] f. su 1 c. Cfr. Francesca Barbera, «Dialogo di diffidenze»: il carteggio
Fortini – Pampaloni (1940-1989) cit., p. 117.
2
Laura Conti, Cecilia e le streghe, Einaudi, Torino 1963.
Franco Fortini
Non posso concordare, come vorrei, con l’amico Carocci nella sua valu-
tazione della «cultura comunista» (vedi «Comunità» del n. 21). La sua tesi
(identificazione della «vera» cultura comunista con quella di «avanguardia»,
anarchica, raffinata, ecc.; cultura comunista come frutto dell’incontro di intel-
lettuali senza pubblico con un pubblico proletario senza intellettuali; caduta
passionale di intellettuali borghesi di fronte al mito di una barbarie culturale
comunista) sarebbe probabilmente valida solo che Carocci avesse ristretto il
suo discorso alla cultura letteraria e artistica (pittori, poeti, romanzieri, musi-
cisti) e in particolare a quella italiana; e avesse distinto «comunismo» da «par-
tito comunista italiano del dopoguerra ’45 ’46». Il suo discorso generalizzato,
diventa falso. Primo, perché cultura nella sua più comune accezione, non si
identifica con cultura letteraria e artistica e sarebbe un po’ difficile a Caroc-
ci dimostrare che scienziati, economisti, filosofi, critici, storici (comunisti in
politica e anche nelle premesse teoriche del loro lavoro) appartengono a quel-
le sue categorie di anarchici, decadenti, raffinati, individualisti, ecc. Secondo,
perché comunismo non si identifica necessariamente con partito comunista,
ma, nel suo significato culturale è marxismo in una certa varietà di interpreta-
zioni e sfumature. Terzo, perché anche volendo tenersi a questa interpretazio-
ne restrittiva di comunismo e di cultura, l’ortodossia comunista nei riguardi
della cultura letteraria e artistica è stata tanto mutevole da considerare (oggi)
eretici gran parte di quegli anarchici, individualisti e avanguardisti. Così che,
o non si considerano più avanguardisti o non più comunisti. Il caso insegna,
di un forte gruppo di surrealisti, scomunicati o passati al trotskismo.
L’errore di Carocci è quello iniziale (e veramente grave) di voler parlare
di una «cultura comunista». Infatti, o egli vuol dire cultura marxista in senso
lato: e allora è manifestamente assurdo voler isolare questa dal contesto di
tutta la «cultura» occidentale o mondiale, della quale fanno validamente parte
necessaria tanto Marx quanto Lenin, tanto la Luxemburg quanto Politzer
1
«Comunità», 23, 15 novembre 1947, p. 4, 7. A conclusione dell’articolo la redazione di Comu-
nità inserisce una nota dove spiega: «Per mancanza di spazio rimandiamo al prossimo numero una
precisazione di Giampiero Carocci a conclusione della polemica operata da Fortini». La polemica si
conclude infatti con una lettera di Carocci, pubblicata nel numero del 29 novembre dello stesso anno,
che smorza nel toni la polemica ma ne sottolinea la distanza nelle posizioni e nelle idee.
L’ospite ingrato ns 6
268 Archivio
C’è una casa editrice che persegue, ormai da due anni un lavoro poco visi-
bile e severo, al di fuori delle strade battute dai grandi editori. La casa editrice
«Comunità», di Milano, ha ormai al suo attivo una ventina di volumi.
Nel nostro paese, la speculazione religiosa è sempre rimasta nell’orbita
economica; e di un cattolicesimo particolare che, nei tempi moderni, era di
prudenza e di avvedutezza piuttosto che di audacia e di iniziativa. Quando la
Francia, negli ultimi cinquant’anni, ha dato nomi come Péguy, Bloy, Claudel,
Mauriac, Du Bos, Maritain, Bernanos da noi c’è ancora qualcuno che si oc-
cupa di Giovanni Papini. In Francia esiste «Esprit», di Mounier, una rivista
cattolica che in Italia non potrebbe vivere. E non parliamo dell’eccezionale
forza del combattimento e della testimonianza dei cattolici anglosassoni. Da
noi, al di là dei termini consueti del pensiero religioso cattolico, non c’era che
l’idealismo, con la sua sufficienza; o il positivismo con la sua boria. La tra-
dizione giansenista italiana, le vene protestanti che dal rinascimento ai giorni
nostri hanno percorso la nostra società, sembravano assorbite nel laicismo
liberale e idealistico, come erano confluite in Mazzini. E invece fuori d’Italia,
nel centro e nel nord dell’Europa, continuava a svolgersi una vita del pensie-
ro religioso e morale della quale noi abbiamo percepito l’eco riflessa solo in
certo esistenzialismo. Ben pochi italiani conosceranno le opere di Barth, di
Otto, di Brunner, ad esempio, e il significato della «teologia della crisi»; la
moda di Kierkegaard è arrivata anch’essa come moda, come «caso». Tutto
questo è abbastanza naturale, d’altronde, a chi consideri la struttura della no-
stra società. Non si tratta soltanto di tradizione o di temperamento: si tratta
del fatto che la nostra piccola borghesia (quella stessa piccola borghesia che
ha fatto le rivoluzioni religiose ed individualistiche in Europa), si è sollevata
e si solleva con tanta fatica dal gorgo della miseria urbana o contadina, che
tutte le sue forze sono impegnate a salvarsi da quell’orrore del vuoto che
rappresenta per essa la «proletarizzazione»; perciò tutte le sue energie sono
rivolte ad una legalizzazione del proprio meschino potere in una alleanza
con le vecchie forze della gerarchia cattolica. Per un ’48 e un ’60 la borghesia
1
«Avanti!», 13 febbraio 1948.
L’ospite ingrato ns 6
272 Archivio
1
Archivio Olivetti, Fondo Direzione Comunicazione Ufficio Stampa (DCUS), faldone 40, fa-
scicolo 559.
L’ospite ingrato ns 6
276 Archivio
Non v’è nessuno che non associ il nome della Olivetti alle macchine per
scrivere, ai calcolatori, alle telescriventi; ma non sono molti quelli che cono-
scono la storia della fabbrica d’Ivrea e il significato di quella storia.
Quando, l’anno scorso, le vetrine dei negozi Olivetti esposero quella Le-
xikon 80 che ha rivoluzionato i mercati delle macchine per scrivere, gli an-
nunci pubblicitari parlarono di quarantennio Olivetti. Si compivano infatti
quarant’anni dall’inizio della lavorazione della M1 che fu la prima macchina
per scrivere prodotta in Italia. Non veniva certo tra le prime l’industria dat-
tilografica. Era stata preceduta, in tutta l’Italia del nord, da altre e potenti
industrie meccaniche. Si riteneva forse che le maestranze ed i tecnici italiani
non sarebbero stati all’altezza di un lavoro di elevata precisione; e che, in
questo campo ancora, il nostro paese avrebbe dovuto limitarsi a registrare
il primato dell’invenzione. Il novarese Giuseppe Ravizza, l’avvocato idea-
tore del «Cembalo Scrivano» pareva essere rimasto una gloria provinciale,
il ricordo di una lapide polverosa, lasciando lo sfruttamento industriale alle
imprese di altre nazioni. Invece, possiamo dire oggi, l’iniziativa del giovane
ingegner Camillo Olivetti conteneva quello che doveva permanere carattere
distintivo del «lavoro Olivetti»; un’intensa fiducia nella ricchezza d’animo
dei suoi uomini, la volontà di fare un tutto unico dell’impresa industriale e
dell’ambiente umano nel quale quella si sarebbe dovuta attuare. Per questo i
primi collaboratori dell’ingegner Camillo Olivetti furono operai canavesani
che la vicinanza alla Torino industriale non aveva allontanati però troppo dal
campo e dalla vita agricola; e la prima officina nella quale poche decine di uo-
mini iniziarono la fabbricazione delle macchine per scrivere doveva apparire
quasi sperduta nella campagna circostante.
Non si trattava soltanto di audacia e di buona volontà. Chi scorra i no-
minativi dei marchi di fabbrica delle macchine per scrivere vi legge quelli di
centinaia di imprese scomparse senza quasi lasciare traccia. Se la Olivetti non
solo non ha partecipato a questo destino, ma anzi è salita fino a conquistarsi
1
Archivio Olivetti, DCUS, faldone 40, fascicolo 559.
L’ospite ingrato ns 6
280 Archivio
uno dei primissimi posti nel mercato mondiale, ciò è dovuto alla obbiettiva
qualità dei suoi prodotti. Se nel 1911 un concorso vinto presso il Ministe-
ro della Marina permetteva alla giovane impresa di farsi largo sul mercato
nazionale; e se l’avvedutezza di chi la dirigeva le permise di superare la fase
riorganizzativa che seguì la prima guerra mondiale, fu soprattutto la certezza
di poter disporre di un lavoro perfetto, unita all’audacia e alla larghezza di
concessioni dei dirigenti, a permetterle, più tardi, quell’amplificazione delle
lavorazioni e degli impianti che doveva portarne i nomi fuori dei confini. Nel
1924 si iniziava la costruzione delle Officine Meccaniche Olivetti, nel 1932, la
Fonderia, fino allora società indipendente, si riuniva alla fabbrica. Nell’anno
1933 quando poco più di 800 persone impiegate negli stabilimenti di Ivrea
producevano circa 25.000 macchine all’anno, la conquista del mercato ita-
liano poteva considerarsi conclusa. Era quella M 40 che è rimasta, fino alla
Lexikon, esemplare modello di docilità e di robustezza, a fondare il successo
della fabbrica e dei suoi tecnici. In quel medesimo anno si iniziava la fabbri-
cazione degli schedari e della macchina portatile; nel 1938 nasceva la Studio,
una forma intermedia tra la portatile e la macchina da ufficio, destinata ad
incontrare uno straordinario favore e a rimanere fino ad ora nerissima e dif-
fusa per la sua resistenza. Fino a questa data il nome Olivetti si era associato
quasi esclusivamente a quello delle macchine da scrivere; ma chi guidava la
fabbrica si era reso conto che un’industria come quella esigeva e permetteva
nello stesso tempo una coraggiosa esistenza. Cresceva la parete di cristallo
della fabbrica aggiungendo reparto a reparto, officina a officina; la popolazio-
ne operaia aumentava ogni giorno, e con essa si ponevano delicati problemi
di ordine sociale, quali l’assistenza sanitaria, la mensa, l’asilo-nido per i figli
dei dipendenti. Tale aumento della popolazione operaia e degli impiegati, dei
tecnici e dei dirigenti, si sommava al numero complessivo di diverse migliaia
di dipendenti.
Dicevamo, problemi di ordine sociale, problemi di abitazione anzitutto.
E quindi necessità di creare nuclei di edifici residenziali per i dipendenti, ab-
bastanza vicini alla fabbrica e al tempo stesso distanti quanto bastasse a ga-
rantire la necessaria diversità tra l’ambiente della famiglia e quello del lavoro.
Problemi di trasporto, per le centinaia e centinaia di dipendenti domiciliati,
in comuni e borgate spesso distanti molti chilometri dalle Officine. Problemi
di organizzazione interna, di distribuzione dei compiti, di studio dei tempi.
È stato insomma il modo ampio e coraggioso con il quale questi problemi
sono stati affrontati e risolti a dare alla organizzazione Olivetti quel signifi-
cato di progresso e di energia marciante che non solo è l’opinione italiana ad
attribuirle ma quella dei tecnici e degli studiosi stranieri che da ogni parte del
mondo si recano a visitare gli stabilimenti e il complesso dei servizi sociali di
Ivrea. Negli anni del dopoguerra fino a questo momento le attività Olivetti
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 281
I calcolatori scriventi
La telescrivente
La Lexikon 80
La Lexikon elettrica
dei tasti. (mm.4). «La tastiera della comune macchina per scrivere», scrive
il Direttore Generale Tecnico della Olivetti, ingegner Giuseppe Beccio, sul
«Giornale di Fabbrica Olivetti», presenta sotto le dita del dattilografo 45 ta-
sti che sono paragonabili ad altrettanti servi inerti per far muovere i quali
non basta una voce, occorre una spinta fino in fondo, che costa fatica; proprio
come quei ragazzi così servizievoli in casa che senza uno scapaccione non si
muovono. (I tasti della Lexikon richiedono però dal dito soltanto una carezza
morbida, una dolce insistenza).
Vogliamo ora brevemente vedere come ciò avviene: la macchina è munita
di un motore elettrico (che in questo caso si può con corretto termine meccanico
chiamare servomotore) il quale fa ruotare di moto continuo un lungo albero
dentato posto in basso attraverso la macchina. Questo albero ha nella mac-
china elettrica la stessa funzione che ha la mano della macchina a mano, cioè
trascina attraverso il rispettivo cinematico ciascun martelletto dalla posizione
di riposo alla posizione di battuta sul rullo. L’ingranamento fra il rullo e i ci-
nematici avviene per azione dei singoli tasti i quali compiono questa funzione
con uno spostamento di pochi millimetri e uno sforzo trascurabile, quindi un
lavoro (che è prodotto dallo sforzo per lo spostamento) quasi impercettibile.
Ecco spiegato in poche parole lo schema funzionale della macchina elettri-
ca.
Si tratta insomma di una macchina che garantisce una assoluta uniformità
di scrittura, e un numero elevato di copie senza aumento di pressione, me-
diante il «regolatore automatico di battuta» e che aumenta la velocità fino a
un terzo della velocità manuale, perché ridotta a mm. 4 la profondità di bat-
tuta è effettivamente reso possibile l’impiego costante di tutte e dieci le dita.
Basta qualche ora di impiego perché la dattilografia raggiunga sulla mac-
china elettrica la medesima velocità, che era abituale sulla macchina a mano;
ogni esercizio ulteriore non farà che aumentarla. Si tratta insomma di una
macchina che diventerà rapidamente indispensabile in tutte quelle aziende,
ditte ed imprese, che debbono fornire un notevole volume di dattiloscritti
giornalieri; e che eserciterà un’influenza capitale in tutta la dattilografia. Pun-
to di arrivo odierno della produzione Olivetti, la Lexikon Elettrica accoglie
in sé una lunga esperienza e apre al tempo stesso la via ad innumerevoli pos-
sibilità future.
Le dimensioni delle produzioni, che per molti tipi raggiungono già il li-
vello delle più conosciute industrie americane, hanno imposto alla Olivetti
un’organizzazione commerciale retta dai medesimi principi di rigore tecni-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 285
alle altre esistenti Società cosicché a Mexico City, a Capetown a New York,
a Los Angeles sono apparsi «uomini» della Olivetti – personale commerciale
e amministrativo e tecnico – legati alla lontana fabbrica dal legame invisibile,
ma tenace, di una completa reciproca fiducia.
Da Visita a una fabbrica1
Quasi ogni giorno gli operai li vedono passare accanto alle loro macchine.
Visitatori della fabbrica: industriali dallo sguardo autorevole, tecnici attenti
ai particolari, comitive di studenti o di operai, uomini politici, giornalisti;
italiani o stranieri, competenti o incompetenti, curiosi o distratti. I visitatori
prendono appunti, ascoltano cifre e spiegazioni; domani, dalla visita, nascerà
una relazione di affari o un articolo giornalistico, una lettera commerciale o
una pagina di diario. I visitatori passano, gli operai si curvano sul lavoro.
Pure, fra quanti vari interessi guidano ad una fabbrica moderna numerosi
i visitatori, uno ce n’è, che li accomuna: quello per i luoghi dove si vive in-
tensamente il presente, dove l’uomo prosegue in collettività la lotta antica di
rendere le cose creature sue proprie. Ed è fra questi la fabbrica, luogo sociale,
per eccellenza, e moderno; luogo di nascita del mondo contemporaneo. A un
simile comune interesse è diretta questa pubblicazione. Non tecnica, quindi,
né appena pubblicitaria; ma documentaria di un rapporto troppo spesso di-
menticato; quello fra l’uomo e il prodotto del suo lavoro.
Visitare una fabbrica non è facile, essa non vive per ragioni di magnifi-
cenza o di stupore, né la sua efficienza si traduce necessariamente in ordine
e in armonia. E poi, nella fabbrica, sembra che il primo posto competa alla
macchina, agli strumenti che serbano per noi la meraviglia dell’automatico,
del congegno sapiente. La fabbrica è un organismo vivo che esiste nel tempo
(non per nulla il controllo dei tempi vi ha tanta importanza) regolato da leggi
ora rigide ora elastiche.
La Olivetti, come una parte delle grandi industrie moderne dell’Italia set-
tentrionale, è nata dalla volontà intelligente e coraggiosa di un uomo solo, che
1
Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di Carlo Brizzolara, Franco Fortini, Albe Steiner,
Officina d’Arte Grafica Achille Lucini e C., Milano 1949, pp. 7-10.
L’ospite ingrato ns 6
288 Archivio
Questa situazione della Olivetti, che non solo qui costruisce tutte le parti
della macchina, ma da qui anche dirige il prodotto finito in tutte le parti della
terra; situazione che, equilibrando vantaggi e svantaggi, isola tutta una co-
munità, è la causa della sua singolare autosufficienza. Non è solo un fatto di
«potenza»; è la conseguenza di volontà (quella dei dirigenti e dei dipendenti)
a più dimensioni; per cui avviene che la vita del «Centro Agrario» sia quasi
altrettanto importante che quella della Fonderia, e il problema delle abita-
zioni non meno sentito di quello dei «tempi» di produzione. Questo spiega
come, nella coscienza degli stessi dipendenti, «Olivetti» cessi d’essere un rife-
rimento alle macchine per scrivere (e queste, d’altronde, che pur hanno por-
tato ovunque quel nome, non bastano più a raffigurare gli aspetti complessi
della produzione d’Ivrea) per diventare un nome di luogo, il nome ricco di
armonici, complesso. C’è chi potrà replicare che questo avviene in molte altre
industrie; ma in poche, crediamo, con tanta naturalezza. O almeno di rado
si sente, come qui, che il lavoro, la produzione di beni, non dovrebbe essere
fine a se stessa.
Gli operai di questa fabbrica, legati fra loro da uno spirito di corpo, che si
riproduce nell’interno di ogni reparto, sanno di appartenere ad una società di
elezione; non sono soltanto consuetudini e ricorrenze – come l’annua con-
segna della «spilla d’oro» ai vecchi operai – o l’orgoglio di vedere il proprio
lavoro affermarsi sempre più in tutto il mondo. È la certezza che, se tanto
si è potuto fare, tanto di più si farà; che se il complesso delle attività sociali
della Olivetti – case, biblioteche, campi, ambulatori, colonie – è già tanto
290 Archivio
importante, sta solo nel lavoro e nel coraggio di tutti identificare sempre di
più la vita dell’organismo produttivo con la propria vita totale. Superare le
due verità sezionali – vita della fabbrica e vita privata – in una verità uni-
ca. A questo tende naturalmente il lavoratore italiano; l’uomo che con uno
straccio asciuga dalla emulsione oleata il pezzo uscito dal tornio automatico
e ve lo mostra, lucido e splendido, fiero della macchina che domina; l’altro
che piegato sulla spazzola ruotante delle pulitrici preme, all’altezza del petto,
il pezzo nichelato che brillerà sulla vostra portatile; la ragazza che salda i
caratteri all’asticciola metallica, mentre oltre le due vetrate s’apre una scena
di montagne e torri, bianche e nere di neve o verdi e turchine di sole, tutti
costoro che vi scortano con lo sguardo, mentre voi passate, non chiedono in
profondo se non la restituzione ad unità della dignità loro lungamente divisa.
E questo sa, con una acuta coscienza, chi vuole che l’Olivetti sia qualcosa di
più di una grande fabbrica di perfette macchine addizionatrici, di macchine
per calcolo e per scrittura. E quando il visitatore avrà lasciato Ivrea o quando
rivedrà, per le vie o nel suo lavoro, lucente su di una macchina per scrivere o
su di una insegna, la sigla di questa fabbrica, pensi a quello che ha veduto e a
quello che ha potuto soltanto intravvedere: l’estrema complessità umana che
ha prodotto l’oggetto esatto e felice. Dalle sale dei disegnatori e progettisti –
dove si combatte la lunga guerra della tecnica fra schemi ideali e possibilità
pratiche – allo studio degli architetti –, dove si progettano non solo le case
operaie e gli ampliamenti della fabbrica, ma anche quanto la moderna urba-
nistica può prevedere per il miglioramento della vecchia Ivrea e del contado;
dalla fatica della Fonderia ai cori puerili dell’Asilo Nido; dalle pupille dei tec-
nici che traguardano negli oculari la crudele delicatezza con cui le macchine
di precisione mordono i centesimi di millimetro di metallo o aprono le cavità
che i calibri di prova esattamente ricolmeranno, fino all’intelligente vivacità
artigianale dei tipografi, sembra che tutto abbia concorso all’opera sempre
più perfezionata e più bella.
negli scrigni delle vetrine, c’è invece un problema, una domanda. Ecco che,
come dicevamo, un’industria non si esaurisce nell’oggetto e la «Olivetti» non
si conclude nelle sue addizionatrici, nelle macchine per scrivere e nelle tele-
scriventi. Complesso organismo in progresso, questa industria che ha vissuto,
pur nel suo angolo provinciale, tutta la scorsa storia convulsa della Nazione,
articola ora, e anche negli strumenti della democrazia di fabbrica, la sua am-
bizione più alta: la creazione cioè di un più genuino rapporto umano, di una
difficile unità morale pur nelle diversità e nei necessari contrasti.
1
«Giornale di fabbrica Olivetti», 1950, 12, p. 3. Sotto il titolo è riportato il seguente sommario a
firma c.d.: «Fortini, visto che abbiamo pubblicato un brano de I Miserabili, ci invia queste sue “Ri-
flessioni”: discutibili forse, acute e interessanti certamente (e chissà che non ne nasca un dialogo). E
poi è questa una buona occasione per mettermi pubblicamente orecchia d’asino; giacché l’altra volta
ho scritto che ne I Miserabili si descrive la Comune […] mentre questa ebbe luogo parecchi anni
dopo la pubblicazione del romanzo, e per quanto profeta a tanto Victor Hugo non ci poteva arrivare.
In realtà il brano che riportammo l’altra volta si riferiva alla rivolta proletaria del 1848, non a quella
del 1871. Evidentemente mi ha preso la mano e la memoria l’entusiasmo che sempre ho per le gesta
dei parigini comunardi, facendomi dimenticare che il primo moto di classe abbastanza cosciente era
avvenuto ventitré anni prima».
L’ospite ingrato ns 6
294 Archivio
Non v’è forse il rischio che, per una buona parte di quei lettori, il libro sia
divenuto, diciamo così, sottilmente reazionario, invitando a fantasticare più
che a vedere, a commuoverci intorno a cose che non ci toccano? Non è forse
possibile che quel libro venga letto ormai, almeno negli ambienti dell’Italia
nord-industriale come uno stanchissimo romanzo storico? E allora è un buon
segno che meno lo cerchino le più giovani generazioni. Se alcune delle esigen-
ze che lo fecero nascere non sono tuttavia quietate, è di un’opera equivalente
ma moderna, è dei Misteri d’Italia come ci furono quelli di Parigi, che avreb-
be bisogno la più giovane classe operaia.
Perché nulla è veramente venuto per essa dopo Zola e Gorki; e i Promessi
Sposi furono il capolavoro di un risorgimento cattolico che non poteva avere
le parole e le speranze di un librone francese.
Nulla, ci pare, fino a quell’episodio dei Miserabili che è Ladri di biciclette.
O forse neppure questo è vero; e chi di noi legge o rilegge I Miserabili lo fa
solo per nostalgia: quella del tempo in cui le barricate erano ancora possibili e
in cui la parola «libertà» aveva, o si credeva avesse, un solo significato.
«La morte sta anniscosta in ne l’orloggi»1
1
«Comunità», 4, 8, maggio-giugno 1950, pp. 63-65 (Carlo Levi, L’orologio, Einaudi, Torino
1950); poi in Franco Fortini, Un giorno o l’altro cit., pp. 65-68.
L’ospite ingrato ns 6
298 Archivio
vo, ma tutto educato sui testi, delle clausole, dei moti interni del periodo, del
«volume» della pagina; si può esser certi che una gran parte del libro è stato
scritto senza esitazioni, con la medesima sicurezza che L. deve avere quando
imposta un suo quadro. E il possesso di un simile strumento gli permette
di mescolare in questo libro i toni più vari, il pamphlet e l’ironia politica, il
ritratto di una persona o di un ambiente, l’andirivieni dei ricordi, la medita-
zione, l’opinione «a proposito di…». Ad esempio, Levi è uno dei pochissimi
scrittori italiani che sappiano far discorrere i suoi personaggi di politica, di
filosofia o di psicanalisi, con la sua bravura a risolvere le esperienze più varie
del romanzo moderno, la sua dialettica mentale, la sua cordialità agitata e
concitata ed esplosiva in mezzo alla quale brilla e punge, ironica e distaccata,
una immobile pupilla di vetro.
Il libro, ambiziosissimo, ci sembra pieno di riuscite. E non vogliamo par-
lare delle innumerevoli trovate che lo affollano; dei ritratti, allegri e perfidi,
di giornalisti e politici assai noti e ben identificabili, che faranno la gioia dei
nostri pettegolezzi, come la descrizione della Garbatella o di Porta Capuana
(c’è perfino un Picasso dell’epoca blu, in queste pagine) saranno graditi agli
italianizzanti di mezzo modo. Vogliamo alludere invece a tutte le pagine cen-
trali (165-252) con la conferenza di Parri al Viminale, la conversazione sotto
il Traforo, la nottata in tipografia con i canti dei tipografi e le discussioni po-
litiche, il ritorno a casa con il cane impazzito e il morto per le scale. In tutta
questa parte l’ingegno narrativo di L. si esprime con gli «scoppi ritardati»
dei suoi motivi; ognuno di essi corre verso l’a-capo per placarsi in un denso
mare di parole, di aggettivi soprattutto. Ma si è appena arrivati in fondo che il
capoverso riprende il movimento.
Il libro, s’è detto, è fatto di materiali diversi. C’è la crisi del gabinetto Parri,
il fallimento dello sforzo della Resistenza, l’inizio del regresso democratico, il
trionfo dei «luigini» («luigini» e «contadini» coppia di neologismi furbeschi,
delizia romana), l’ironia sulle chiacchere, le sicumere e le sufficienze dei poli-
tici dei grandi partiti e insomma – forte, beninteso, del senno di poi – una di
quelle intelligenti, acute e negative lezioni di critica storica e politica che il P.
d. A. impartiva alla Nazione. C’è l’attrazione verso il tellurico, l’angoscioso,
il tragico del popolare e del primitivo o sacro, il fascino etnografico, vorrem-
mo dire, o psicanalitico alla Jung (visita alla Garbatella, la donna che allatta
il serpe, le scale e i corridoi del palazzo, le vipere dell’americano, il cane e il
morto, la conversazione sui santi, i visceri napoletani). Ci sono i ritratti di tipi
strani, bizzarri, anormali; c’è il gusto del macabro, del sogno, del magismo
(fin dalla frase che apre e chiude il libro, ruggito dei leoni della notte roma-
na) e un sovrapporsi di crittografie. La paura della provincia, la «coscienza
europea», giuocano strani scherzi: «così» senza volere facciamo, dell’onda
sconfinata del reale, di una persona che, come noi stessi, e identica a noi, non
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 299
Lontana ormai la leggenda letteraria che dai primi anni del nostro secolo
coltivò la fortuna di Montmartre, l’opera di Henri Rousseau, separata da-
gli snobismi e dalle ironie, ha il suo luogo nella storia dell’arte moderna e
dell’animo contemporaneo. Un giudizio non polemico ne riconosce tanto
il valore di compiuta poesia quanto quello di necessario passaggio storico
della pittura da Delacroix a Klee. Per questo è bene dir subito che la pittura
di Rousseau non è, come si è creduto, un frutto patologico, un meteorite
storico, un relitto giunto a noi da secoli passati, un primitivo. Ogni età ha
avuto i suoi pittori popolareschi, i suoi «semplici»; ma essi rimangono, in
genere, ai margini della storia dell’arte; e invece l’età nostra si è riconosciuta
anche in Rousseau perché in lui, come nei suoi contemporanei Gauguin e
Cézanne sono confluiti, come ad una «porta stretta», alcuni secoli di pittura.
Il suo carattere specifico, semmai, è questo: che in lui, più evidentemente
che in altri, il rispetto verso il modo tradizionale di costruire il quadro, e di
dipingerlo, convive paradossalmente col rifiuto di alcune conquiste storiche
della pittura, con quella apparente negazione del passato (e dei nostri doveri
verso di esso) che è uno dei modi coi quali l’uomo moderno protesta con-
tro il proprio destino. L’attimo degli impressionisti e la fugacità dei divisio-
nisti non aveva alterato la tradizionale prospettiva lineare ed aerea, faticoso
frutto dell’arte occidentale: ecco invece che (come se la prospettiva pittorica
si sorreggesse sulla coscienza del passato, su quella che appunto chiamiamo
«prospettiva culturale») il mondo dell’industria moderna, offrendo a sempre
nuove e incerte masse mere informazioni, schemi, precetti, moralità e idee
«ricevute», crea quell’appiattimento e sfaldamento degli elementi culturali
che alcuni artisti, fra cui Rousseau, esprimeranno con tanta patetica forza.
La speranza di quegli anni ingannava e straniava gli uomini più diversi: fu-
ghe d’Oceania, esotismo da Jardin de Plantes, degradazione sentimentale alla
portata di tutti, nuovo «vino dei poveri». Il museo mentale di Rousseau (e
oggi sappiamo come egli copiasse davvero, pazientemente, i classici del suo
Louvre) è appunto – come nell’autodidatta, nel semicolto – senza prospettive,
1
Henri Rousseau, le douanier, Olivetti e C., Ivrea 1951.
L’ospite ingrato ns 6
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1
Vittore Carpaccio, Olivetti e C., Ivrea 1953.
L’ospite ingrato ns 6
304 Archivio
1
«Il Cembalo scrivano», Bollettino Olivetti, [Ivrea] 1955, p. 40.
L’ospite ingrato ns 6
306 Archivio
Non mi stupisco più quando, chiedendo ad un operaio, che per otto ore al
giorno è solo nel moto meccanico del suo braccio teso a nutrire la pressa o il
trapano di identici pezzi, se non preferirebbe invece di quello un lavoro più
impegnativo, capace di concentrare maggiormente la sua attenzione, mi sento
rispondere di no; o quando certi amici miei, animati da ottime intenzioni,
si dibattono contro le difficoltà insormontabili dell’attività culturale entro
l’ambito delle fabbriche; e nemmeno quando mi avviene di udire, commenta-
te dai melensi radiocronisti, le tristissime voci dell’operaio giubilato, o dell’o-
peraia che da quarant’anni «serve l’azienda», dichiarare che la loro massima
felicità sarebbe quella di poter continuare a lavorare come hanno sempre fatto
e che la loro riconoscenza per i datori di lavoro cesserà solo con la morte.
Come stupirsene, se è vero che la maggior vittoria è quella del far adottare al
vinto il proprio codice morale; se è vero che – ed è quanto testimonia la Weil
nel suo libro – l’unica possibilità di fuga di fronte all’assurdo del lavoro non
qualificato è nel non-pensiero, nella non-decisione, insomma nella minore,
non nella maggiore, umanità? Ora, il vecchio operaio, l’operaio che non sia
salito di grado, e non si senta un po’ maestro di più giovani, ma sia sempre
lì, alla sua macchina, legato a quella da una tenerezza che, malgrado tutto, è
ancora prova della sua umanità, non lo riconosco nella fabbrica, nell’orgoglio
un po’ finto, un po’ sincero, col quale mi mostra quello che la sua macchina sa
fare; ma nel tram della sera, le mani sul fagottino, tra il sonno che gli piega la
nuca; o quando, al circolo, alla sezione, si alza a ripetere le sue goffe domande,
1
«La civiltà delle macchine», 2, 1953, pp. 62-63. La seconda pagina del testo è quasi interamente
occupata da un’illustrazione di Giulio Turcato ed è corredata dalla seguente didascalia: «Giulio Turca-
to: Minatori del Valdarno. Turcato è nato a Mantova il 1912. Ha partecipato a varie mostre nazionali,
Venezia, Roma, e internazionali, Chicago, New York, Parigi, Manchester». Ha fatto parte del «Fronte
nuovo delle arti» che si proponeva di portare un programma antitradizionale nell’ambito della pittura
ufficiale. Ha vinto il premio Taranto col quadro intitolato Il cantiere.
L’ospite ingrato ns 6
308 Archivio
che han senso ormai solo per lui, a cui risponde l’educata pedanteria dei fun-
zionari sindacali o di partito. Per me, la vecchiaia dell’operaio nostro è forse
il luogo più definitivo e istruttivo d’una civiltà che da tante e opposte parti
predica la giovinezza. Una civiltà che onora, (e, ripeto, lo fa attraverso tante
e diverse ideologie, tutte concordi però nell’essere ideologie dell’uomo adul-
to, dell’uomo-lavoratore-efficiente) il bimbo in quanto «sarà» produttore e il
vecchio perché «lo è stato». Che ha dimenticato, nel suo pedagogico furore…
seppur ha mai saputo, l’onore dovuto al bimbo in sé e al vecchio in sé. Leggo
un’inchiesta sui lavoratori americani in pensione, su «Factory», maggio 1952;
e, per contrasto di ambienti e di prospettive, vedo i nostri, pensionati della
Previdenza Sociale (o della loro stessa azienda, come anche da noi, in qualche
caso, avviene). Perché – soprattutto nelle città, nei caseggiati di sfruttamento
costruiti venti o quarant’anni fa – la vita dell’operaio vecchio mi sembra
diventare così esemplare della condizione operaia? Forse perché, come quella
d’ogni altro vecchio, non è più una possibilità, ma un destino? («Un cane
vecchio non può imparare un gioco nuovo», dice, crudele come una smorfia
di Charlot, un proverbio americano). Non solo per questo: ma perché la vec-
chiaia dell’operaio fa splendere, come nessun’altra vecchiaia, un fallimento, fa
intendere che l’integrazione sociale fu apparente e che egli, se nella fabbrica,
nel luogo di lavoro, trovava in luogo d’una fraternità e d’un riconoscimento
almeno un cameratismo, e, se non uno spirito di classe quello alemeno «di
corpo», fuori di quello non però egli cessa di appartenere al «genere umano
operaio» con i suoi tristi statuti non scritti. Finché lavorava, aveva l’illusione
di una scelta; ora scopre – o, piuttosto, ed è più triste, non scopre affatto ma
solo subisce – d’essere un «minus habens»; nei figli, nei nipoti rivede il suo
aspetto stesso. E se scende verso la città più che sempre la città è degli altri.
E se ora mi chiedo che cosa fa tanto diversa da questa l’immagine corrente
dell’operaio americano, quale s’è venuta formando dalla lettura dei sociologi
e politici e romanzieri americani, non ho altra risposta da quella, ovvia, che
viene da un semplice sommario storico dei conflitti sociali in USA nello scorso
mezzo secolo e dalle loro interpretazioni sindacali. Penso, tra l’altro, al libro
di Daniel Guérin. L’operaio americano è integrato al corpo del suo paese, alla
sua nazione supernazionale; è una integrazione che continuano a compiere le
immagini-forza tradizionali della libertà democratica, del benessere, del pro-
gresso scientifico e morale. Tutti i residui, spesso molto gravi, di separazione
dall’«unicum» sociale (razza, nazione di origine, differenza fra Stato e Stato
dell’Unione) non paiono aver assunto permanentemente i caratteri ormai sta-
bili, quasi irriducibili, che son propri della classe operaia occidentale, compresa
quella inglese che tuttavia fruisce di tanto forti miti nazionali. «Anch’io sono
l’America!», il grido del «ragazzo negro» che vuota le sputacchiere nel grande
albergo, ne è la prova. Pensate come suonerebbe letterario o retorico – pur nella
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 309
sua assoluta verità – un «anch’io sono l’Europa!», del ragazzo delle solfatare
siciliane. E insomma, non è un caso che i massimi eroi del progresso america-
no, un Bryan o un La Follette, un James e un Dewey, un Vebren e un Dreiser,
siano tutti riformisti. Veduto dal nostro continente, l’operaio americano pre-
senta senza dubbio un tipo di produttore-consumatore ignoto o quasi al nostro
occidente, dove si uniscono caratteri propri della massima civiltà borghese del
passato con caratteri nuovi e ancora mal definiti, frutto d’un progresso tec-
nico del quale le nostre strutture economiche e sociali partecipano con ben
noto ritardo e adeguandosi, per così dire, più col corpo che con l’anima. Ma la
contraddizione che, anche da qui, è possibile intravvedere sorge appunto (e la
storia del «New Deal» sta a provarlo) sulla punta avanzata della cultura ameri-
cana, proprio nel lavoro dei sociologi: fin dove si concilia il tradizionale «way
of life» con le esigenze nuove dell’operaio? Finora la sociologia più esportata
e divulgata da noi tende a considerare indefinitamente valide quelle premesse;
e la «democrazia statistica» ad erigere in legge le sue maggioranze percentuali.
Uno studioso francese ha mostrato recentemente come il medesimo operaio
che in fabbrica e nei conflitti di lavoro è un sindacalista intransigente, se è con-
sultato dal suo giornale o da Gallup si pronuncia magari favorevole alla legge
Taft-Hardley perché si sente interrogato come «americano», come ideologo
di quel modo di vita americano che appunto le inchieste, la radio e la stampa
contribuiscono potentemente a formare. «Il bisogno di “comunicare” – o, in
altro linguaggio, la volontà di essere “riconosciuto” – che è un motivo di cre-
azione sociale, diventa un fattore di ristagno se l’operaio americano impara a
comunicare invece che con la storia universale del movimento operaio, con il
partito preso dei datori di lavoro; se impara a tenerne conto e si lascia vincere
dagli «slogans» della società nazionale come società chiusa». («Temps Moder-
nes», n. 69, p. 46).
Con simili precauzioni bisogna dunque avvicinare i resultati di quest’inchie-
sta condotta fra i pensionati – operai ed impiegati – di sei fabbriche di Cleve-
land. La prima impressione è che l’inchiesta sia stata compiuta, e sia presentata
dalla redazione della rivista, allo scopo di fornire alle direzioni del personale
consigli atti a rendere più facile il passaggio allo stato di pensionato dei lavora-
tori anziani (sessantacinque anni) e al tempo stesso a diminuire il numero degli
scontenti e favorirne l’«adjustement». Se la percentuale di coloro che hanno
una attitudine positiva nei confronti del loro stato di pensionati è il doppio di
quella di chi ha atteggiamento negativo, una forte percentuale (40%) afferma di
essersi sentita più felice prima del ritiro, circa la metà degli interrogati avrebbe
voluto lavorare più a lungo, il 70% ha lasciato l’azienda con l’impressione
che si desiderasse mantenerlo ai loro posti di lavoro, un 68% non ha nessun
programma per il futuro e la quasi totalità (91%!), se dovesse ricominciare,
vorrebbe lavorare ancora nella medesima azienda. Se a questi dati si aggiunge
310 Archivio
che una buona metà dei pensionati dichiara di non aver un «hobby», cioè (ma
la definizione è difficile) un passatempo, un «violon d’Ingres», un’attività
preferita, si dovrebbe concludere ad una fortissima somiglianza di situazione fra
l’operaio nostro e quello degli Stati Uniti: il luogo della maggiore integrazione
sociale resta la fabbrica e per l’operaio, tolto dal lavoro e dal luogo di lavoro,
c’è là, come qui (seppur con ben diverse condizioni di vita!) una specie di
«vacuum» sociale. Concludono i commentatori: è necessario che i dirigenti
industriali abbandonino i preconcetti e i luoghi comuni e si persuadano, sulla
base dei risultati dell’inchiesta, che è opportuno trattare individualmente i
casi dei lavoratori pensionabili; astenendosi, fin che è possibile, dalle decisioni
generali; suggerendo con tatto e garbo, senza l’aria di voler predisporre «piani»,
le attività più confacenti alla condizione di pensionato; facendo partecipare
ancora il pensionato a certe attività dell’impresa come ricevimenti, celebrazioni,
«parties». Evitare insomma, quant’è possibile, quel «trauma da divezzamento»,
che è il passaggio alla pensione; tanto più in quanto, sempre stando all’inchiesta,
il fatto che la pensione dell’impresa e quella della Previdenza congiunte siano
insufficienti per circa il 60% dei pensionati pare non costituisca la loro maggior
preoccupazione; ché infatti solo il 24% considera il denaro come il «maggior
problema».
In apparenza dunque l’inchiesta si situa a mezza strada fra tutto l’insieme
di problemi – ormai larghissimamente dibattuti in USA – conseguenti all’al-
lungamento medio della vita dei cittadini che ha raggiunto il settantesimo
anno (e quindi alla presenza d’una sempre crescente massa in età lavorativa) e
quello, taciuto ma non meno vitale, di anticipare il pensionamento dei lavora-
tori al fine di poter aumentare il tasso del rendimento lavorativo ed eliminare
i lavoratori di rendimento minore senza accrescere la disoccupazione. Ma
la realtà sulla quale si proietta l’inchiesta resta quella della contraddizione
propria del lavoro nella grande industria moderna, la sua impossibilità, per la
grande maggioranza degli operai, di esser quel che il lavoro dev’essere, cioè
creazione e amore, pena e dolore ma anche impegno ed espressione.
Finché, per la gran maggioranza della popolazione lavoratrice, la vita do-
vrà esser scissa tra la fatica del giovane e dell’adulto (che però non impiega in
quella tutte le sue facoltà) e l’ozio, se non la miseria, del vecchio, incapace di
lavoro solo perché incapace di «quel» lavoro che unico la società gli ha con-
cesso di apprendere, l’uomo sarà scisso in se stesso, obiettivamente infelice
d’una infelicità che non è gradino a nulla. Oggi l’èra della energia atomica e
dei cervelli elettronici annuncia forse la via d’uscita da questa contraddizione;
e forse non è lontanissimo il tempo nel quale sarà possibile rispettare l’infeli-
cità soggettiva e cosciente, quando l’uomo avrà più di un lavoro e quindi più
possibilità di esprimersi, tanto nelle singole età della sua vita quanto nella loro
successione.
La biblioteca immaginaria1
1
«Comunità», 7, 22, dicembre 1953, pp. 46-49. Cfr. Francesca Bonanni, La dimensione politico-
educativa e culturale nell’esperienza della Olivetti, tesi di laurea, Dipartimento di Scienze della For-
mazione, Università di Roma Tre, Relatore Donatello Santarone, a. a. 2017/2018, pp. 71-80.
L’ospite ingrato ns 6
312 Archivio
sa, anzi coincide, con quella volta ad istituire una più alta, ricca e complessa
comunicazione fra gli uomini, a sostituirne una vera, o più vera, all’intreccio
demente di pseudo-comunicazioni in mezzo alle quali viviamo: e quindi an-
che una lettura più autentica, una lettura capace di sospendere lo sguardo
dalle grandi opere, per realizzarle. E dunque una simile azione o lotta è, im-
mediatamente, la più adeguata risposta all’appello contenuto in ogni opera
d’arte-verità e insieme il modo di intenderlo più nitidamente. La nota frase
«il proletariato è l’arma della filosofia» non significa altro che questo, perché
esso è anche l’arma della poesia e dell’arte. Ché se di proletariato diamo una
definizione tanto più rigorosa possibile; e cioè intendiamo quella parte degli
uomini e dell’uomo che più profondamente soffre, nel regime economico del
salariato o della divisione capitalistica del lavoro, di una inconsistenza spi-
rituale e materiale, e che la comincia a vincere organizzandosi in classe; che
non può aver dietro di sé se non saggezze e morali false o ipocrite; che, lette-
ralmente, non è al mondo ma comincia ad esserci; quella parte degli uomini
e dell’uomo cui l’irrazionalità e inumanità delle forze decisive e opache del
mondo contemporaneo è divenuta intollerabile e tuttavia continua a ricevere
degradati o stravolti i residui dei momenti supremi di civiltà o di individui
presenti o passati; quella parte cui ci iscriviamo non per natura ma per storia
e per scelta; quella parte, dico, ha il compito di distruggere – giorno per gior-
no e tutt’a un tratto quantitativamente e qualitativamente – le strutture del
presente e quindi di fondare non solo nuovi libri ma nuovi modi di leggere
quelli vecchi; ed ha il grande compito di prendere in parola le più alte forme
di comunicazione che gli uomini abbiano saputo esprimere.
IV. E come tuttavia le pagine della critica, maggiore e minore, dei periodici
e dei volumi, seguitano a parlarci dei libri senza volerci dire la verità, e cioè
che il libro è divenuto uno dei peggiori segni della nostra miseria, fingendo
invece ch’esso sia ancora immerso nella luce nitida degli studioli umanistici
o in quella verde che gli alti noci riflettono dai parchi di Weimar o almeno
nel conforto delle stanze ottocentesche; e quale condizione più miserabile
e grottesca di noi che parliamo e lavoriamo sui libri, avvezzi ormai a soffrir
più il loro numero e futilità. Essi son divenuti ormai l’esatto contrario della
comunicazione, un alibi, una ben tessuta menzogna e dissipazione.
Vi sono – così sappiamo – libri importanti, capitali, inesauribili; libri di
immagini grandi, di verità decisive; libri che vogliono quella virtù d’atten-
zione di cui ci ha parlato la Weil. Quando li abbiamo letti? Sono passati tanti
anni. O ci siamo promessi di leggerli; o di rileggerli. Ci siamo promessi di
essere calmi, savi; vecchi, o nuovamente giovani; di sfuggire, chissà per quale
miracolo e per quale merito, agli «impegni» della esistenza. Una estate di
vacanze, se non possiamo altro; un pomeriggio, un viaggio, una malattia. Li
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 317
dotti quotidiani d’una società che odia profondamente l’autentico; non nasce
solo dalla città moderna, ma, come questa, dall’associazione fra puro cinismo
liberista e il relativismo pseudo-storicistico. I modi della lettura moderna ri-
flettono soprattutto la divisione fra lavoro intellettuale e manuale, fra lavoro
per il guadagno (eseguito, direbbe la Weil, non appena con dolore ma con di-
sgusto) e loisirs; la divisione delle classi, dirò, per chi non avesse inteso. Agire
per modificare questi rapporti vuol dire agire per creare intorno alla parola
scritta aria, silenzio, tempo; creare una abitudine ritmica alla lettura dov’essa
non c’è ancora (e anzitutto le condizioni per una possibile lettura) e sfoltirla,
potarla, dov’essa è divenuta vizio e fretta. Vuol dire preparare una prospettiva
di meno libri e di libri migliori. E guardare con meno umanistica sufficienza
la tecnica di semplificazione, di lettura pragmatistica, che praticano gli Ame-
ricani, e la semplificazione di milioni di esemplari, che praticano i Sovieti-
ci. Si torna sempre allo stesso punto, al mio ridicolo e volenteroso delenda
Carthago: la posizione del critico-scrittore come dirigente cultural-politico,
l’inevitabile responsabilità verso gli alti, una responsabilità di giudizio, taglio,
rischio; non solo limitata all’articolo o al saggio; ma rivolta all’editoria e, più
in generale, a tutti i problemi pubblici della cultura. Bisogna fare aria intorno
ai libri e ai lettori: sì che i libri realmente capaci d’acqua di vita non siano solo
tramite tra se stessi e il lettore, ma tra lettore e lettore, buone novelle, evange-
li, oggetto d’una glossa perpetua. L’avvenire dovrà avere per l’opera di poesia
e di letteratura il medesimo rispetto (non uno superiore) che l’uomo dovreb-
be all’altro uomo; e forse più all’avversario che all’amico. «Non tocchi un
libro, tocchi un uomo», è certo il primo precetto d’una letteratura autentica.
Quali siano le soluzioni dei problemi di teoria della letteratura e della cri-
tica che si pongono quando si accetti un modo di lettura che direi di «sag-
gezza», una lettura assolutamente impegnata, non è qui il caso di parlare.
Troppo a lungo si è creduto da noi che le «saggezze» fossero appena forme
del privilegio perché si possa pensare di trattare, se non con molta cautela, i
problemi conseguenti ai rapporti fra la lettura (e la letteratura) e il sapienzia-
rio dell’uomo nuovo, dell’uomo che si ritrova oltre le negazioni e nell’azione;
e insomma quella teoria della felicità e della infelicità, dell’obbligo e della
verità morale che il movimento rivoluzionario ha vissuto, ma non formulato,
nei suoi ultimi cinquant’anni. Mi basta aver accennato con quanto ho scrit-
to, implicitamente, ad una prospettiva di lavoro critico, che non ha nulla di
nuovo, perché è stata sempre quella della critica maggiore, ma che frequente-
mente viene dimenticata: quella che è non un piccolo merito dell’ultimo libro
di Lukács averci proposto con molta energia: una critica del significato totale
dell’opera, della sua facies complessiva. Quando, sulla scorta di Gramsci, au-
spicavo una critica come servizio che, soprattutto sugli strumenti di più larga
comunicazione al pubblico (quotidiani e settimanali), tendesse, più che al giu-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 319
Per chi venga dalla Concordia verso la Madeleine, rue Royale, diciamolo
pure, è francamente antipatica, così ufficiale e carica di ricordi ovvii, ridotta
ad esser poco più che un transito, un gran corridoio fra la Concorde e i bou-
levards. Intorno al gelido tempio napoleonico (ma le rastremature ingentili-
scono le colonne, le lasciano penetrare dalla nebbia azzurra) qualcosa si salva
alla rapina del traffico: banchi di fioraie – quelle che offrivano a Proust la gar-
denia bianca per le serate al Ritz, lasciatemi supporre –, un luccicante caffè,
uno straordinario sotterraneo con vetrate liberty (W.C. e Cireur). A questo
punto, se dai gradini della Madeleine guarderete verso la classica prospettiva
della Camera dei Deputati, come Bel-Ami alla fine del romanzo omonimo,
vi accorgerete di avere sulla destra, in alto, una scritta Olivetti. E infatti, rue
d’Anjou è appena ad un centinaio di metri sulla destra. Basterà schivare il
traffico che scende dal boulevard Malesherbes, infilare rue de Surène.
La SAMPO Olivetti, bisogna proprio dirlo, è in un quartiere trés digne, an-
che se non può vantare, dalle proprie finestre come la consociata di Londra, gli
alberi dell’elegante Berkeley Square. Basta pensare che rue d’Anjou nasce dal
Faubourg Saint Honoré, centro finanziario dell’ancien régime, dove si possono
vedere alcuni fra i più bei negozi di Parigi, che è a un passo dall’ambasciata d’In-
ghilterra e dal palazzo dell’Eliseo e dalla Pompaudor al presidente Coty, vi son
passati due secoli e mezzo di storia francese –; che, immediatamente ad ovest,
c’è il Ministero degli Interni, l’ambasciata Belga, il teatro della Madeleine: e tan-
ti antichi palazzi settecenteschi e hotels particuliers della bella epoca. Per queste
strade si respira aria di alta moda e alta banca, d’altronde, Lanvin e Worth non
sono lontani; le gallerie d’arte Charpentier e Bernheim sono a due passi; e mi
par di ricordare che qui avessero casa, ai tempi di Balzac, i Rothschild. Anche i
tabaccai hanno un aspetto insolitamente dignitoso. E il rivo d’acqua che lungo i
marciapiedi provvede alla pulizia di queste strade, più che proletari biglietti del
metrò porta con sé resti di sigarette inglesi.
È un angolo relativamente tranquillo, anche se il rombo dei boulevards
sale fino alle finestre ampie degli uffici; un poligono compreso tra rue de la
1
«Notizie Olivetti», 14 febbraio 1954.
L’ospite ingrato ns 6
322 Archivio
Bayer è nato col secolo, in Austria. Soldato, ha vissuto la disfatta degli Im-
peri Centrali. Nel ’19 studiava architettura a Linz, nel ’20 a Darmstadt. Nel
’21 era alla Bauhaus di Weimar con Kandinskij. Sono stati quegli anni a far di
lui quel grafico e tipografo, quel pubblicitario e fotografo che consideriamo
a ragione uno dei massimi del nostro tempo. La seconda Bauhaus, quella di
Dessau, lo ha insegnante di tipografia e fotografia, tra il 1925 e il 1928. Un
decennio a Berlino e poi, dall’anno di Monaco, è l’America.
Bayer è un esempio di probità intellettuale. Qualunque sia l’opera cui
mette mano, una fotografia destinata ad una copertina, un catalogo per una
esposizione, un carattere tipografico – e non importa che l’opera abbia una
destinazione umile o una vita effimera – egli si pone il problema tecnico-
espressivo in modo integrale, ne fa un impegno di mestiere. Bayer è il dia-
gramma di quello che dovrebbe essere il grafico professionista, il pubblicita-
rio-dirigente, e non solo l’Art Director, troppo spesso nominale, delle impre-
se d’oltreoceano. Vedo nella pubblicazione che il Museo d’Arte Moderna di
New York ha dedicato alla Bauhaus, un suo progetto per una mostra mobile
di pubblicità per macchine agricole; è del 1928, ed è tutt’oggi un esempio di
sobria intelligenza e di gusto. E di quegli anni sono gli studi sulla semplifica-
zione dei caratteri tipografici, e l’esecuzione del carattere uni, di cui abbiamo
parlato nello scorso numero di questa pubblicazione, e che è divenuto il ca-
rattere Bauhaus per antonomasia.
Nessuna concessione alla gratuità decorativa, un preciso e austero rigore
mentale e, al tempo stesso, la capacità di non farsi schiavo di schemi preco-
stituiti ma anzi di rinnovarsi in diverse direzioni, assorbendo dai più diversi
spiriti (Mondrian, Klee, Kandinskj) moduli e forme apparentemente contrad-
dittori: questi i caratteri della grafica di Bayer. Ma, teniamo a ripeterlo, quello
che rende soprattutto valida la presenza di questo pioniere delle forme mo-
derne è la sua moralità professionale, la puntigliosa scrupolosità e vastità delle
sue conoscenze tecniche, il suo agile muoversi in mezzo agli strumenti dell’e-
spressione grafica. Dalla sua casa-studio nel Colorado a talune sue pagine
1
«Linea Grafica», 3-4, marzo-aprile 1954, pp. 67-68.
L’ospite ingrato ns 6
324 Archivio
Nella Cina di altri tempi – e forse anche in quella di oggi – chi trova una
striscia di carta con caratteri scritti la raccoglie e la brucia sugli altari consa-
crati al saggio Tsang-Chen, quello con il volto di un drago e quattro occhi,
che ha scoperto nelle stelle, nelle tracce degli uccelli e sul dorso delle tarta-
rughe i segni della scrittura, che ha offerto in dono agli uomini. Altri dra-
ghi si trovano nella leggenda greca di Cadmo, padre anche dell’alfabeto ed
eroe della razza di Prometeo. All’origine del fuoco e della parola scritta batte
un’operazione magica; e se l’India decifra la scrittura di Brahma sulle suture
dei crani e il Medioevo cristiano legge omo sul volto umano, solo sessant’an-
ni fa un poeta poteva dire che tutto il cosmo, così come è nato dalla Parola,
tende a diventare scrittura, libro: un livre de fer vêtu. Oggi le parole scritte e
stampate ci sommergono, e solo gli specialisti sembrano prestare attenzione
al segno, alla particolare disposizione di queste parole nello spazio, a quella
separazione che implica, come ogni altra, una decisione, una scelta e uno stile.
Non si tratta – come è successo ogni qualvolta l’esteticismo grafico e il gusto
ornamentale hanno prevalso – di considerare i caratteri della scrittura come
punti di partenza arbitrari per digressioni decorative. Ci sono stati, tuttavia,
esempi famosi di questo, sia nella tessitura gotica, sia nelle scritture cufiche,
indiane, cinesi, ecc. Ma la questione qui è se sia possibile rendere meno incer-
to il gusto della maggioranza nei confronti dei tipi e dei caratteri, abituando e
abituandoci a guardarli e a comprenderli.
«Il segno esprime, mentre la forma si esprime», scrive Focillon. Infatti,
quanto più profonda è la nostra abitudine a considerare che il segno “a” è il
suono “a”, così come un dato gruppo di segni è insieme parola e immagine,
tanto più inavvertitamente la forma di quel segno ci può passare davanti; ma
1
Letras Humanas, in 25 años Hispano Olivetti 1929-1954, Seix Barral, Barcelona 1954; la versio-
ne originale di questo testo è in spagnolo; la traduzione italiana è di Daniele Balicco con la supervi-
sione di Paola Belloni.
L’ospite ingrato ns 6
326 Archivio
***
È noto che le iscrizioni romane del periodo classico sono gli archetipi
della nostra scrittura attuale. Mentre i caratteri cuneiformi sembrano essere
stati tracciati da una punta che è stata conficcata in profondità nella creta,
per poi allontanarsi agilmente a destra, lasciando un solco sempre più
sottile, i caratteri del lapidario romano sembrano essere stati tracciati con
una spatola, «scritti» con la stessa facilità della grafia su pergamena o papiro;
e, di conseguenza, presentano un’alternanza modulata di elementi larghi
ed elementi sottili, verticali i primi e orizzontali gli altri; a cui si aggiunge il
gioco dei chiaroscuri, determinato dalla convergenza dei due solchi aperti
in profondità dallo scalpello. Se passiamo da queste Capitali alla cosiddetta
scrittura Quadrata, notiamo la stessa cura per mostrare come varia la pres-
sione della mano; cura che, per aumentare la velocità, diventa minore nella
Rustica, e che nella vecchia scrittura Corsiva scompare completamente.
E proprio dall’incontro tra la libertà plebea del Corsivo, con i suoi movi-
menti irregolari, e il Rustico pagano, nasce l’Onciale cristiano e proliferano
le cosiddette «scritture nazionali» (visigote, merovingie, lombarde, beneven-
tane, ecc.). Ed è la Semi Onciale, con la sua variante irlandese-anglosassone,
che a San Gallo e a Tours ha creato le Minuscole Caroline, prototipo dei
caratteri moderni, e che con i suoi magnifici esempi di scrittura, trionfanti per
tre secoli, ha perfettamente bilanciato le lettere che emergono sopra e sotto
la linea di scrittura, armonizzandole attraverso la continuità dei collegamenti.
Poi, nell’epoca che segna il passaggio dal mondo medievale al nostro, mentre
il Gotico Bastardo e la Trama danno origine al tedesco Fraktur, le lettere mi-
nuscole umanistiche e la scrittura cancelleresca di Grifo e Manuzio emergono
dai duemila caratteri degli incunaboli, per arrivare quasi senza alterazione
fino a noi.
328 Archivio
***
Oggi sembra che il carattere tipografico ci costringa alle sue forme rigide
e agisca sulla scrittura a mano, ispirandola e regolandola. Ma all’inizio della
tipografia tutta la ricchezza della «mano libera» si è svuotata sull’invenzione
dei caratteri: quasi duemila solo negli incunaboli. La tipografia spagnola è
entrata coraggiosamente in questa selva di segni: meno di quindici anni dopo
la comparsa dei primi caratteri ebraici stampati, il rabbino Eliezer stampava
testi ebraici in Aragona; non è forse un segno dell’universalità, a cui gli spa-
gnoli dei primi decenni del secolo si sentivano chiamati, l’immensa impresa
del cardinale Cisneros, con la sua Bibbia Poliglotta, per la quale i Brocar di
Alcalá disegnavano ex professo i caratteri greci, ebraici, caldei e siriani? Le
ultime pagine furono consegnate solennemente nel 1517, lo stesso anno che
avrebbe assistito, in nome della Bibbia, alla ribellione luterana a Wittenberg;
appena vent’anni dopo, il viceré don Antonio de Mendoza affidò a Esteban
Martín e Juan Paoli la prima tipografia del continente americano, a Città del
Messico. Ma il primo cinquantennio del XVI secolo è una fioritura sfrenata
di segni tipografici; è l’invenzione ininterrotta di segni musicali per la stampa,
nelle tipografie di Arnaldo de Brocar, Juan Rosenbach, Jaime Cortey, Damián
Bages, che culminerà nella monumentale edizione madrilena delle Messe e dei
Mottetti di Victoria, alla fine del secolo. Esuberanza inventiva, fiducia nel se-
gno che avrebbe portato, un secolo dopo, lungo le rive del Río de la Plata, alla
prodigiosa impresa dei gesuiti, che crearono, dove esisteva solo la foresta ver-
gine, non solo una stamperia, ma anche nuovi caratteri per una nuova lingua,
e tradussero in guaraní uno dei grandi monumenti del misticismo castigliano,
le opere di Padre Nieremberg.
È curioso notare che, proprio come nelle cosiddette arti maggiori, le nuove
tendenze del gusto, in materia di caratteri, hanno quasi sempre il loro punto di
partenza in un movimento di «ritorno» al passato e all’antico, ma si distinguono
e si contrappongono l’una all’altra per l’interpretazione di quel passato, per lo
spirito con cui si accostano ad esso. Le Bibbie luterane a stampa esporranno
con orgoglio i loro caratteri gotici «nazionali», in contrapposizione alle odiate
cancelleresche romane, mentre gli umanisti faranno disegnare agli stessi artisti
che interpretano Vitruvio le loro lettere maiuscole; dal canto suo, la tipografia
romantica farà la corte al barocco e William Morris, in lotta con gli imborghesiti
e meschini caratteri della società utilitaristica, guarderà al Rinascimento con il
languore di un preraffaellita; ai nostri giorni, mentre il Bauhaus creava nuovi
caratteri che possedevano allo stesso tempo qualcosa della grafia preromana e
romanica, per l’assenza di «grazie» e chiaroscuri – espressione polemica «avan-
guardista» e razionalista –, la grafica di Hitler accampò nel cuore dell’Europa la
foresta di ferro battuto dei suoi caratteri neogotici…
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 329
Insomma, ci sono, nel gusto per i caratteri, dei «ritorni» positivi e dei
«ritorni» negativi. Tutti sanno, ad esempio, che qualche anno fa nel nostro
Paese un rinnovamento del carattere ironico-patetico ottocentesco, roman-
tico, rinascimentale o vittoriano ha avuto successo tra alcuni settori del no-
stro pubblico. È una nostalgia accompagnata da altri sentimenti che spesso
si manifestano, come l’amarezza, l’ironia e anche un po’ di cinismo. E non
è solo questo: c’è anche una tendenza, frequente oggi, a dissociare la forma
dal contenuto, il mezzo dalla sua funzione; una dissociazione che porta facil-
mente all’assurdo e alla mancanza di autenticità. Ho in mente alcuni caratteri
giganteschi, dalle linee spesse, ripetutamente moltiplicati e materializzati in
legno, metallo, tubi fluorescenti o lampadine colorate; e anche, a volte, in mo-
vimenti agitati, frammentati e riuniti dal cinema. Pare di trovarsi imprigionati
dalla nausea della materia camuffata e dalla pesantezza; dalla repellente hybris
nascosta nei suoni degli altoparlanti e delle orchestre cinematografiche. E
sappiamo anche che da quasi cento anni le insegne dei negozi sono per la po-
esia moderna un simbolo facile e fattibile dell’assurdo. Per questo motivo, chi
scrive ha avuto una particolare simpatia per il carattere meccanografico più
comune, quel Pica così burocratico e modesto, con i suoi tratti orizzontali ai
piedi di «i», «1», «d», «r» e di altre lettere, volti ad evitare gli inconvenienti di
un carattere troppo sottile e affilato e allo stesso tempo capaci di rendere più
omogenea la linea di scrittura con tali collegamenti; un carattere tipografico
tipico degli uffici, della carta certificata, di un: In risposta alla vostra cortese.
Un tipo che segnerà una data e che rimarrà legato alla vita d’ufficio della pri-
ma metà del secolo, così come la calligrafia inglese è legata agli uffici del XIX
secolo e ai personaggi di Dickens.
Oggi i caratteri dattilografici hanno offerto a tutti la possibilità di speri-
mentare individualmente la stessa intensa emozione dei tipografi dei primi
tempi della stampa: l’emozione di vedere davanti ai loro occhi come l’im-
pulso delle dita si trasforma in caratteri ordinati, come il pensiero si accorda
su segni che, liberi dall’arbitrarietà della penna, diventano sigle universali. E
così forse è segno benaugurante ricordare, nel venticinquesimo anniversario
dell’Hispano Olivetti, che nello stesso anno della scoperta dell’America fu
stampata a Salamanca un’opera di Nebrija, che per la prima volta porta l’au-
torizzazione del Re e dei Signori del Concilio, e porta lo stesso nome della
macchina da scrivere che oggi compone queste righe: Lexikon.
***
dino da Siena vide nella lettera «I» il «Figlioletto di Dio», nella «S», «la testa
reclinata del Signore»; mentre la «U» era «un grido di dolore mentale» e la
«E» urlava «Ehi, ehi, ehi! per tutti i nostri peccati». Il nostro secolo di potenti
avanzamenti non deve sorridere a queste interpretazioni magiche o mistiche.
Forse non è vero che l’enorme massa di caratteri stampati e scritti che circon-
da l’uomo moderno può in realtà degradare l’importanza del segno.
Forse non è un’adorazione magica per la parola scritta, come quando ba-
stava un errore di copiatura del Talmud per cancellare tutto il lavoro già fatto,
o quando il vescovo, nel consacrare un nuovo tempio, disegnava con il pa-
storale, su due superfici di cenere, tutte le lettere dell’alfabeto greco e latino;
negli scritti, l’uomo di oggi deve sentire una pietà storica per tutto ciò che i
secoli remoti ci hanno trasmesso nei segni degli alfabeti, e anche un rispetto
per tali simboli, che sono eminentemente razionali e umani. I caratteri scritti
del quotidiano, della busta, dell’imballaggio, e anche quelli che saltano fuori
dal «segmento mobile» della nostra macchina da scrivere davanti ai nostri
occhi non potranno mai esserci indifferenti.
E non ci sono ancora oggi tanti uomini, non così lontani da noi come pri-
ma, e il cui destino è legato al nostro, che hanno ragione di venerare anche i
segni della scrittura, e di considerarli pieni di misterioso potere, come i denti
del drago sparpagliati come semi da Cadmo, che hanno generato una stirpe di
combattenti? Ci basta pensare che i cinesi di venti lingue diverse, che al par-
larsi mai si capirebbero, mantengono ancora una fede comune negli antichi
e divini segni di Tsang-Chen; che ci sono popoli, di cui non si sa ancora se
riusciranno a passare rapidamente, o meno, dalla scrittura ideografica a quella
alfabetica, e a quale di queste ultime; e, infine, ricordiamo che ci sono genera-
zioni di milioni e milioni di uomini, per i quali il poliglottismo significa anche
pluralità di alfabeti. Certo,
2
«Il principio supremo della vita è la scrittura» [n.d.c.].
Ambrogio Lorenzetti il pittore del
Buongoverno1
1
F. Fortini, Ambrogio Lorenzetti, Olivetti & C., Ivrea 1954.
L’ospite ingrato ns 6
332 Archivio
e del cattivo governo nelle città e nelle campagne. Gravemente guasto è quello
degli Effetti del Cattivo Governo, e quasi indecifrabile; mentre quello più fa-
moso degli Effetti del Buongoverno non è quasi mai osservato nei particolari,
benché evidentemente il pittore intendesse proprio proporre all’ attenzione dei
magistrati una serie minuta di episodi, una particolareggiata lettura. A sinistra
è Siena, divenuta una città fantastica di torri e di altane, con le strade affollate
da cavalieri e borghesi, di gruppi di fanciulle danzanti e di file di muletti che
passano davanti alla gabella, mentre le donne guardano dalle finestre e gli ar-
tigiani lavorano nelle botteghe. Fuori delle mura, la campagna delle crete che
si stendono a Sud di Siena, fino all’Amiata e al mare, con le desolate gibbosità
delle colline, con rare case coloniche, episodi di caccia e di lavori agricoli; uno
straordinario paesaggio che ricorda l’arte orientale, coperto da un cielo unifor-
me, dove, a suggerire lo spazio, vola una figura allegorica reggendo un patibolo
ammonitore ed una scritta. Ma tutti gli affreschi sono accompagnati da sagge
strofe rimate che invitano alla giustizia e alla devozione civica.
Da questi affreschi il nostro calendario ha tratto dieci particolari: perché
come la composizione di essi è disorganica e quasi inafferrabile, così nei par-
ticolari splende la genialità di Ambrogio, la sua capacità di trasferire anche
nelle forme solenni e gravi dell’affresco il tepore e la luce dei suoi colori.
Vedi come gli siano congeniali le forme ellittiche, le curve molli, le stoffe
e le vesti intessute, che gli consentono di unire il senso dell’arazzo con quello
del volume morbido e placato. Vedi come la sua franca pittura respira moder-
namente quando si muove attorno a quel suo ideale di bellezza femminile, più
volte ripetuto, e che ha il volto della Pace.
Oltre ai particolari di questi affreschi il calendario riproduce due paesaggi,
forse parti di un unico quadro, interessanti e suggestivi per la strana fantasia
che li abita. Una città turrita, vicina al mare; ed un castello, sulle rive di un
mare grigio, con rade querce ed una barca, dove si è voluto vedere quel porto
di Talamone che, come già scrisse Dante, fu un fallito tentativo di espansione
senese verso il commercio marittimo. La critica li ha attributi, talvolta, al fra-
tello Pietro, ma oggi è concorde nel darli ad Ambrogio. Così anche quest’an-
no, le tavole del nostro calendario recheranno in tutto il mondo, con la pittu-
ra senese (come l’anno scorso con quella veneziana di Carpaccio), la presenza
di uno dei momenti maggiori della storia d’Europa; quello dei comuni e delle
repubbliche italiane, fra il XIV e il XV secolo.
Calendari ’551
1
«L’Ufficio Moderno», 1, 1956.
L’ospite ingrato ns 6
336 Archivio
«Più d’uno si sarà chiesto che cosa significhi il nome Tetractys col quale
è stata battezzata la nuova calcolatrice scrivente. Cercheremo di spiegarlo. Il
nome d’una macchina o di un prodotto deve avere un valore evocativo, deve
poter suggerire un’associazione, un’immagine: Lexicon è il nome dei diziona-
ri, dove si raccolgono tutte le parole che la macchina per scrivere, in potenza,
contiene; Synthesis è il nome greco di quell’atto della mente che riunisce gli
elementi dell’analisi ed è quindi adatto a quei sussidi del lavoro burocratico
che schedano e classificano; Refert (cioè: riferisce) è la parola di sapore aral-
dico per uno strumento che ripete e riporta suoni e parole.
Ebbene, la Tetractys è una gloriosa parola della cultura greca. Nel quinto
secolo avanti Cristo, quando fioriva la civiltà delle colonie greche nell’Italia
Meridionale e in Sicilia (la cosiddetta magna Grecia) un genio religioso e ma-
tematico nato nell’isola di Samo, Pitagora, fondò a Crotone, in Calabria, una
celebre scuola a carattere iniziatico. Vi si insegnavano non solo le verità mate-
matiche e geometriche del Maestro – famoso ancor oggi per il noto teorema,
per la «tavola» omonima e per la scoperta dei numeri irrazionali – ma anche la
complessa magia dei numeri. Secondo tale interpretazione magico-filosofica
il numero è l’essenza stessa della realtà, la realtà è non solo misurabile ma essa
stessa è numero. Le relazioni fra i numeri sono, secondo i pitagorici, la chiave
medesima del mondo, la sua struttura. Questa concezione della realtà ha avu-
to una grandissima importanza nella storia del pensiero umano; basti pensare
che Platone, al quale dobbiamo tante notizie sul pensiero dei pitagorici, ne ha
trasmesso gli elementi alla cultura occidentale per oltre duemila anni.
Ora alla base dei numerosi e complicati significati simbolici che i pitago-
rici attribuirono ai numeri ed ai loro rapporti, stanno i primi quattro numeri
naturali, cioè l’uno, il due, il tre e il quattro. La loro somma – essi videro – ci
dà il numero dieci e con i primi dieci numeri noi misuriamo e contiamo tutto.
Non solo: ma dai primi quattro numeri si possono ottenere per somma o
moltiplicazione tutti i primi dieci.
1
«Notizie Olivetti», 35, marzo 1956, p. 4.
L’ospite ingrato ns 6
338 Archivio
2 = 1 + 1; 3 = 2 + 1; 4 = 2 x 2; 5 = 2 + 3; 6 = 2 x 3; 7 = 3 + 4; 8 = 2 x 4; 9 = 3
x 3; 10 = 1 + 2 + 3 + 4.
1
«Notizie Olivetti», 36, aprile 1956.
L’ospite ingrato ns 6
340 Archivio
1
Mosaico di Ravenna, Olivetti, Ivrea 1957.
L’ospite ingrato ns 6
342 Archivio
Le fabbriche
I luoghi del lavoro, il loro spazio; un’industria è anche questo e può dunque
esprimere se stessa anche nelle pareti, nelle ambientazioni, nell’architettura.
Dove con la valle d’Aosta cominciano le Alpi, ma aperta verso le colline
del Canavese e la pianura del Po, Ivrea fu in tempi remoti una città-castello,
a lungo una città militare, poi il cuore di una provincia agricola. L’industria
si sviluppò alla periferia del centro urbano. Anche la prima officina Olivetti
fu costruita a sud del ponte sulla Dora, dove cinquant’anni fa trovava fine un
sobborgo. Per questo gli stabilimenti, in tutto il loro lungo e ininterrotto svi-
luppo, sono venuti configurando un centro diverso. È quello che oggi appare
al visitatore se dalla via di Torino, prima ancora di entrare nella città, volge a
sinistra verso Castellamonte: là si prolungano le costruzioni delle prime of-
ficine fin dove, nel periodo 1938-1942, fu elevata, su progetto degli architetti
Figini e Pollini, la grande facciata di vetro che è divenuta quasi un emblema
del nome Olivetti. Oggi dietro quella facciata lavorano gli uffici direzionali e
amministrativi e le officine per l’attrezzatura, la fabbricazione e il montaggio.
Ma altre facciate di vetro si sono venute aggiungendo a quella: sul medesi-
mo asse dell’edificio principale, separato ed insieme congiunto da un passag-
gio aereo, un complesso di officine accoglie altre produzioni.
Dietro queste costruzioni, dove cominciano le colline – e intorno ad una
chiesa del XV secolo che conserva notevoli affreschi di Gian Martino Span-
zotti, restaurati di recente – è in via di completamento un insieme di edifici
destinati ai servizi sociali. Riconoscibile dalle sue pareti rivestite di maiolica
azzurra, il Centro Studi ed Esperienze (architetto Eduardo Vittoria), inaugu-
rato nel 1955, accoglie gli specialisti ed i tecnici che vi elaborano progetti di
macchine nuove e studiano nuovi procedimenti costruttivi.
Di fronte, lungo la via Jervis, sono invece le costruzioni che vedranno
riunite le istituzioni culturali, come la biblioteca aziendale, e quelle dell’as-
1
Olivetti 1908-1958, Olivetti Ing. & C., Zürich 1958 [in collaborazione con Libero Bigiaretti,
Riccardo Musatti, Giorgio Soavi].
L’ospite ingrato ns 6
346 Archivio
I servizi sociali
Le prime forme assistenziali della Olivetti sono nate con l’officina nel
1909; già nel 1919, prima di ogni provvidenza di stato, si introducevano gli
assegni familiari. Attraverso tutta la storia della fabbrica è possibile rilevare
una costante anticipazione nell’adempimento di esigenze che solo anni o de-
cenni più tardi sarebbero divenute, per la coscienza comune, ovvie. E lo svi-
luppo dell’azione sociale ha avuto, costantemente, un suo duplice e parallelo
carattere di attuazione: da un lato il successivo passaggio a forme giuridiche
sempre più ampie, certe ed articolate, delle provvidenze disposte, dall’altro
l’attivazione, accanto a quelle provvidenze particolari, di una politica di salari
e di rapporti con i dipendenti di cui l’espressione più recente e di risonanza
vastissima è stata la riduzione dell’orario a cinque giorni settimanali con pa-
rità di salario. E sempre, accanto a questi provvedimenti estesi oltre la lettera
degli statuti e delle convenzioni, si sono apprestati gli strumenti, molteplici
e diversi, della loro attuazione: edifici completamente attrezzati e piani ur-
348 Archivio
chio più vasto. Un momento che si vuole quanto più è possibile integrato e
integratore; non una forza diretta a portare davanti alle macchine e ai tavoli
uomini e donne da restituire la sera ad un’esistenza impoverita e parziale, ma
una creazione collettiva volta ad assumere quelle responsabilità morali e civili
che la sua stessa realtà economica, in misura sempre crescente, le è venuta
conferendo.
L’organizzazione commerciale
«Il nome della nuova macchina per scrivere standard – la Olivetti [Dia-
spron] 82 – è stato suggerito dall’associazione tra il design della carrozzeria,
ispirato ad una combinazione di volumi piani che ricorda le strutture polie-
driche dei cristalli, e il diaspro, minerale a struttura microcristallina apparte-
nente alla famiglia del quarzo. Sempre per associazione si sottolineano in tal
modo anche la robustezza e la solidità della macchina. La «n» finale è stata
aggiunta per assonanza col nome greco della Lexikon e non per voler tradurre
in modo arbitrario il vocabolo diaspro, che in greco e in latino suona iaspis, in
francese jaspe, in inglese e (con pronuncia evidentemente diversa) in tedesco
jasper, in spagnolo diáspero e in portoghese diaspro.
Diàspron non è tuttavia parola inesistente: appartiene al lessico greco-
bizantino ed è il neutro dell’aggettivo diàspros, composto dalla preposizione
dià (= attraverso) e dall’aggettivo àspros (= bianco) che non ha niente a che
vedere con il diaspro e che suggerisce piuttosto un’idea della trasparenza, os-
sia di una qualità propria di molti cristalli. Dall’aggettivo diàspros così inteso
sono poi derivati l’inglese diaper, il francese diapré, e anche l’italiano diaspro
(o diasprinetto), tutti vocaboli significanti un tipo di tessuto operato o anche
di decorazione a modulo reticolare poligonale, ispirato alle sfaccettature del
diamante e collegabile quindi nel disegno all’idea di una struttura cristallina».
1
«Notizie Olivetti», 67, dicembre 1959, p. 33.
L’ospite ingrato ns 6
Per la morte di Adriano Olivetti1
È molto difficile oggi, persino a chi per concordia o discordia gli è stato
vicino, dare un giudizio dell’opera di Adriano Olivetti. Era, la sua, una
personalità eccezionale; e chi vorrà saper qualcosa dello sviluppo della vita
italiana negli ultimi vent’anni, come chi indagherà sulle tendenze ideologiche
e culturali del nostro tempo, incontrerà certo, ad ogni passo, i segni della
sua presenza e dei suoi interventi. Crediamo che la formula dell’industriale
illuminato e umanista sia, tutto sommato, una formula di comodo. Olivetti si
era venuto a trovare in una contraddizione che ne ha segnata l’intera esistenza:
quella fra il potere derivante dalla sua eredità di industriale, che lo situava
nell’ambito del capitalismo, quello italiano, relativamente arretrato, e la co-
scienza della necessità d’un superamento socialista. La testimonianza di una
simile lacerazione, che egli non poté, né forse volle, sfuggire – e che ha fatto
di lui, pur tutto proteso al lavoro associato, tanto nella sua industria quanto
nelle sue attività culturali e politiche, un solitario in vita e in morte – non sta
soltanto nei tentativi di soluzione, ora utopistici ora pieni di concretezza,
che egli formulava nell’ambito della vita aziendale e proponeva alla comunità
nazionale; ma in una potente ed oscura dissociazione del suo spirito, sensibile
a chiunque l’abbia avvicinato, in una infelicità ora tormentosa ora geniale.
Olivetti non lascia soltanto una grande industria di dimensioni internazio-
nali, i contraddittori suoi tentativi di uscire dagli equivoci del paternalismo
d’avanguardia, una importante serie di proposte per la soluzione di alcuni dei
maggiori problemi sociali ed amministrativi del nostro paese, un serio segno
nella vicenda dell’urbanistica, dell’architettura e del disegno industriale, una
rivista ed una casa editrice che da oltre dieci anni mantengono un raro livello
di coerenza e dignità culturale; lascia un tema unico di meditazione storica e
psicologica, la traccia di un personaggio che Thomas Mann avrebbe amato,
tipico del rapporto tra Italia d’ieri e d’oggi, fra Europa d’oggi e di domani.
Cresciuto nei principi etici e nello spirito delle minoranze, per educazione
del padre ebreo e della madre valdese, e poi pervenuto al cattolicesimo; indu-
striale e padrone (quindi legato alle sorti di una classe e alla condanna del po-
1
«Avanti!», 1o marzo 1960, p. 3.
L’ospite ingrato ns 6
358 Archivio
tere) e insieme socialista per volontà di uscire da quella classe e da quella con-
danna, come chi voglia uscire da se stesso e non possa, Olivetti appare oggi ai
socialisti – che lo ebbero ora amico ora avversario – come una personalità che
solo dal tempo e dal frutto futuro del suo lavoro potrà essere giudicata; e oggi
essi vogliono ricordare di lui soprattutto l’antifascista che aiutò Turati nella
sua fuga, col lavoro dei suoi operai e suo promosse il benessere di una provin-
cia italiana, fu amico di molti dei migliori uomini di azione e di intellettuali, e
innumerevoli iniziative della società e della cultura promosse e aiutò.
Manet1
1
Manet, Ing. C. Olivetti & C., Ivrea 1966.
L’ospite ingrato ns 6
360 Archivio
1
«Notiziario Olivetti», 86, maggio 1966, pp. 28-33.
L’ospite ingrato ns 6
362 Archivio
1
Walter Ballmer, Franco Fortini, Olivetti: carattere e identità, Olivetti, Ivrea 1971.
L’ospite ingrato ns 6
364 Archivio
1
Walter Ballmer, Franco Fortini, Segno e disegno di una firma, Olivetti, Ivrea 1971.
L’ospite ingrato ns 6
366 Archivio
come l’anno seguente non mancò di ricordare Edoardo Persico quando a To-
rino si inaugurò il negozio Olivetti, dovuto appunto a Schawinsky. L’influen-
za del «razionalismo» va scorta anche nel «tutto minuscolo», un costume gra-
fico che divenne e restò a lungo un segno abbreviato di comunanza nei gusti e
nelle intenzioni, anche ideologiche, per quasi un ventennio. Nel caso nostro,
il riferimento principale è alla dattilografia e al carattere «pica», allora il più
corrente sulle macchine per scrivere, con le larghe grazie destinato a rafforza-
re l’allineamento e ad evitare che la percussione incidesse il nastro e la carta.
È stato questo, insomma, il primo vero marchio Olivetti. È rimasto in
uso per quasi un quindicennio. Quanto più, in quel periodo, il carattere
tipografico che più gli era vicino, ossia il carattere «Etrusco», percorreva
la parabola della sua moda, dalla divulgazione alla senescenza, tanto più la
permanenza del marchio del 1934 ne fissava, come sempre avviene in questi
casi, il carattere di logotipo. Tra i suoi significati si inseriva anche quello,
ben noto in molti altri campi, della anzianità come segno di consolidamento,
sicurezza e fiducia.
Ma con gli anni della ricostruzione successiva al conflitto la Olivetti veni-
va rapidamente estendendo la sua attività produttiva. Dal settore delle mac-
chine per scrivere era già passata a quello delle macchine per il calcolo, alle
attrezzature per ufficio e alle macchine per utensili per giungere ad operare
nella zona delle più complesse apparecchiature contabili e a tutto l’ambito
della elaborazione elettronica dei dati. Questo comportava l’opportunità di
modificare il logotipo. Era possibile eliminare l’esclusivo riferimento alla dat-
tilografia che fino allora gli era stato associato. Si venne così ad una formula
grafica che squadrava i singoli caratteri pur mantenendo – grazie ad una spa-
ziatura allora molto di moda – un rapporto fra bianchi e nero non troppo
dissimile da quello del logotipo d’origine.
È ancora verso la fine degli anni Cinquanta che parallelamente all’evolversi
della cultura figurativa si impone un rilancio del logotipo, una correzione.
L’ambiente grafico era venuto mutando. L’impiego di dati caratteri e corpi
nei testi pubblicitari e nella stampa, l’uso di blocchi di composizione come
vere masse di manovra modificavano il campo delle forze e del segno. Troppa
aria che circolava fra l’una e l’altra lettera del logotipo Olivetti: bisognava
diminuire i bianchi fra l’una e l’altra lettera, addensare i neri, tendere ad un
corpo poco articolato ma intenso, dove il gruppo «li» e il gruppo «ti» colle-
gassero i propri elementi.
Ne è venuta una diversa formulazione, quella in uso fino ai nostri giorni,
capace di reggere per compattezza e peso grafico alle attrazioni circostanti,
stretta in sé e autonoma. Si è acquisito così un dato che non ha più avuto mo-
tivo di mutare; e cioè che il logotipo Olivetti per adempiere alla sua funzione,
per essere quindi leggibile e interpretabile anche nelle circostanze meno favo-
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 367
revoli, deve situarsi là dove il carattere tipografico sta per diventare grafismo
autonomo. Ma non deve mai superarlo.
nasce un moto interno che anima la massa del logotipo e ne corregge ogni
eccesso di solidità.
La formula che ora si propone conferma uno dei caratteri essenziali della
crescita d’una produzione e d’una ricerca come quella Olivetti: l’intento di
svilupparsi a partire da premesse costanti, di mutare senza perdere mai di
vista i valori di un nucleo originario
Introduzione all’uso grafico di un nome1
1
Walter Ballmer, Franco Fortini, Introduzione all’uso grafico di un nome, Grafiche Nava, Milano 1974.
L’ospite ingrato ns 6
370 Archivio
La base per la tramutazione del nome in grafismo è stata offerta dalla pri-
ma all’ultima lettera: infatti la doppia W quando sia capovolta, dà una M. Il
nome aveva dunque questa eccellente proprietà: cominciava e finiva con un
segno simmetrico e inverso e per di più si decomponeva in due parti, ognuna
di quattro lettere, essendo nome composto: Wert e Heim.
I due monosillabi si congiungono fra loro in modo che l’ultima lettera di
Wert e la prima di Heim si distacchino a formino un nucleo inatteso nel corpo
della parola. La ricorrenza della e aggiunge solidità al grafismo.
Il gruppo th ha insomma la funzione d’una sorpresa, d’una infrazione alla
monotonia, altrimenti inevitabile, delle robuste maiuscole in carattere basto-
ne. Quando il logotipo venga ripetuto di seguito, sarà proprio il nesso th a
determinare fasce verticali e oblique. Quando invece si affiancano le M e le W
su due lati paralleli, ognuna delle due lettere partecipando con i suoi tre ango-
li acuti, si determina una perfetta sequenza geometrica, capace di ricchissimi
sviluppi figurativi.
Il nesso WM, in proporzioni ridotte senza interruzioni, si costituisce in
sfondo, filigrana, intreccio. Se si introducono delle interruzioni, delle sma-
gliature, si possono variare senza limiti gli effetti e le sorprese. In molti casi
le sequenze di W e di M fungono da cornice o da sottolineatura del nome-
marchio.
Ma le applicazioni più interessanti sono quelle che possono nascere dalle
combinazioni di forma grafica e colore. Al valore verbale, la pupilla dovrà as-
sociare il valore grafico; ma questo e quello dovranno associarsi ad un colore,
anzi ad un rapporto di colori.
Il colore scelto per il logotipo è il blu. Lo sfondo prescelto è il bianco o il
nero o il blu.
Considerando il bianco e il nero dei non-colori, si vede che i soli colori
veri e propri sono il verde e il blu. E va detto che la scelta della qualità di blu
e di verde è stata anche compiuta tenendo presente la disponibilità più cor-
rente, in modo da rendere semplici il reperimento, la replica, il restauro. Sono
tonalità di blu e di verde che si trovano ovunque.
Per quanto è del rapporto fra blu e verde, esso è stato scelto con intenzio-
ne. Si è preferito congiungere due colori freddi invece che – secondo avrebbe
voluto la tradizione – un colore caldo ed uno freddo o due tonalità comple-
mentari: perché i due colori prescelti, soprattutto se associati, inducono a cal-
ma, senso di frescura e serenità (per essere quelli della vegetazione, del cielo
e delle acque). Li troviamo nei mosaici antichi e nelle ceramiche, a suggerire
distensione e riposo.
Il rapporto commerciale è per sua natura connesso al traffico e alla ten-
sione; nulla di più opportuno, quindi, di non esaltare con colori aggressivi la
dimensione dello sforzo ma di celebrare invece quella della calma.
Le macchinazioni della macchina e altri scritti olivettiani 371
Il lavoro per Olivetti – materiali per fiere, pannelli murali, manifesti – gli
ha dato di esprimere una sua educata ricerca: il rapporto fra elementi foto-
grafici, elementi tipografici ed elementi grafici. Razionalismo e realismo, la
tradizione del Bauhaus, vi si conserva e si moltiplica per gusto di rigore e ni-
tidezza, per amor di coerenza, per rispetto dei destinatari. Questo «civismo»
di Ballmer si fa una regola di non abbagliare né distrarre chi riceve l’immagine
e il messaggio: ma persuadere, convincere. La linea retta prevarrà dunque su
quella curva, la logica prevarrà sulla emozione, due più due dovrà fare sempre
quattro. Ma la modulazione del colore avrebbe permesso a Ballmer quel che
la geometria non gli voleva concedere. Usare il colore liberamente sarebbe
stato però come perdersi. Ballmer grafico si faceva pittore a condizione di
avere una metrica, una regola. Altri come lui nel nostro tempo hanno deciso
di scegliere una misura esatta, una chiave certa, per saltare su quella in liber-
tà. Una ricognizione dell’universo degli angoli, una esplorazione del mondo
delle parallele: e gli spazi sono scritti perché il colore ad un altro colore si op-
ponga o concordi, si scontri o s’incontri; tenda, concentri, dilati lo spazio che
1
Franco Fortini, Walter Ballmer, in Catalogo dell’esposizione di Walter Ballmer, Galleria d’Arte
Contemporanea Sincron, Brescia, aprile 1974. AASO, Fondo Annibale Fiocchi, pubblicazioni, 116.
L’ospite ingrato ns 6
374 Archivio
lo porta. Ballmer lavora per sé come per l’industria: guardando al fine, all’og-
getto, allo scopo, al concreto. Non separare un’attività dall’altra. Un passo
dopo l’altro, di punta e di tacco, e la terza dimensione nasce dopo la seconda,
la geometria è sempre presente a evitare lirismi o a vigilarli. «Accumulazioni»
si chiamano; più che addizioni, tesori.
Bibliografia degli scritti olivettiani
di Franco Fortini
Nella bibliografia vengono raccolti in coda, dopo gli scritti pubblicati su «Comunità» e in altre sedi
editoriali, i nomi delle macchine che Fortini ha creato per l’Olivetti.
i. «Comunità»
L’ospite ingrato ns 6
378 Bibliografia degli scritti olivettiani di Franco Fortini
Neri Pozza, Venezia]; Gli annali di Comisso [rec. a G. Comisso, Gli anni, Treviso]),
«Comunità», 5, 12, ottobre 1951, pp. 68-72.
«Bibliografia letteraria» (Pavese critico, la cultura come lavoro [rec. a C. Pavese, La lette-
ratura americana e altri saggi, Einaudi, Torino 1951]; I dispregi di Mario Tobino [rec.
a M. Tobino, L’angelo del Liponard, Vallecchi, Firenze 1951 e Il deserto della Libia,
Einaudi, Torino 1951]; Fausto e Anna [rec. a C. Cassola, Fausto e Anna, Einaudi, To-
rino]; Nuovi racconti di Anna Banti [rec. a A. Banti, Le donne muoiono, Mondadori,
Milano]; Un racconto di Calvino: Il visconte dimezzato [rec. a I. Calvino, Il visconte
dimezzato, Einaudi, Torino]; Il vento nell’oliveto [rec. a F. Seminara, Il vento nell’o-
liveto, Einaudi, Torino 1951]; Poesia di Bassani [rec. a G. Bassani, Un’altra libertà,
Mondadori, Milano 1951]; Zanzotto: Dietro il paesaggio [rec. a A. Zanzotto, Dietro
il paesaggio, Mondadori, Milano 1951]; Neruda tradotto da Quasimodo [rec. a P.
Neruda, Poesie, a cura di S. Quasimodo, Einaudi, Torino; Tre antologie poetiche [su
Poesia latina medievale, Guanda, Parma, a cura di G. Vecchi; Nuova poesia francese,
Guanda, Parma, a cura di C. Bo; Linea lombarda, Varese, Magenta, a cura di L. An-
ceschi]), «Comunità», 6, 14, giugno 1952, pp. 73-77.
«Bibliografia letteraria», Su questo momento di poesia, «Comunità», 6, 16, dicembre
1952, pp. 64-66.
«Bibliografia letteraria», Due saggisti della inautenticità [?]; Fine dell’avanguardia [rec.
a C. Brandi, La fine dell’avanguardia e l’arte d’oggi, Edizioni della Meridiana, Mila-
no 1952]; Il nostro tempo [rec. a C. Alvaro, Il nostro tempo e la speranza, Bompiani,
Milano]), «Comunità», 7, 17, febbraio 1953, pp. 54-55.
«Bibliografia letteraria», Narrativa dell’annata. Stampe e ristampe [su C. Alvaro,
Vent’anni, Bompiani, Milano; G. Comisso, Un inganno d’amore, Giorni di guer-
ra, Mondadori, Milano; A. Palazzeschi, Roma, Vallecchi, Firenze; A. Soffici, Passi
tra le rovine, Vallecchi, Firenze; G. Rossi, Mezzo contadino, Neri Pozza, Venezia
1952; E. Emanuelli, La congiura dei sentimenti, Mondadori, Milano; C.E. Gadda,
Novelle del ducato in fiamme, Vallecchi, Firenze; M. Bontempelli, L’amante fedele,
Mondadori, Milano; C. Pavese, Notte di festa, Einaudi, Torino]; Tutti i nostri ieri [su
N. Ginzburg, Tutti i nostri ieri, Torino, Einaudi 1952; G. Rimanelli, Tiro al piccio-
ne, Milano, Mondadori; M. Rigoni Stern, Il sergente della neve, Einaudi, Torino];
Bassani e D’Arzo [su G. Bassani, La passeggiata prima di cena, Sansoni, Firenze; S.
D’Arzo, Casa d’altri, Sansoni, Firenze]; La birra del peccatore [su T. Landolfi, La
bière du pécheur, Vallecchi, Firenze; Bigiaretti, Parise [su L. Bigiaretti, La scuola dei
ladri, Garzanti, Milano 1952; G. Parise, La grande vacanza, Neri Pozza, Venezia]),
Comunità», 7, 20, settembre 1953, pp. 44-46.
«Bibliografia letteraria», Narrativa dell’annata [su C. Cassola, I vecchi compagni, To-
rino, Einaudi]; Un nuovo Rea [su D. Rea, Ritratto di maggio, Mondadori, Milano];
Il sonno della ragione [su A. M. Ortese, Il mare non bagna Napoli, Einaudi, Tori-
no]; Altri quattro narratori [su M. Tobino, Le libere donne di Magliano, Vallecchi,
Firenze; L. Romano, Maria, Einaudi, Torino; E. Bettiza, La campagna elettorale,
Bianchi-Giovini, Milano; R. Brignetti, Morte per acqua, Sansoni, Firenze 1952]),
«Comunità», 7, 20, settembre 1953, pp. 46-47.
Una risposta tedesca, «Comunità», VII, 21, novembre 1953, pp. 55-57.
La biblioteca immaginaria [rec. a E. von Salomon, Le questionnaire, Gallimard, Paris]
«Comunità», 7, 22, dicembre 1953, pp. 46-49.
«Bibliografia letteraria», Un’annata di poesia. I poeti di «Momenti» [sulla rivista «Mo-
menti»]; Forse un viso tra mille [rec. a U. Bellintani, Forse un viso tra mille, Vallecchi,
Bibliografia degli scritti olivettiani di Franco Fortini 379
Firenze 1953]; I genitori a teatro [rec. a G. Soavi, I genitori a teatro, Edizione della
Meridiana, Milano 1953]; La Linea del ’900, [rec. a L. Anceschi, S. Antonielli, Lirica
del Novecento, Vallecchi, Firenze 1953], «Comunità», 8, 24, aprile 1954, pp. 64-66.
Due poesie contemporanee: Poesia contemporanea e verità pratica; Ungaretti: «Sono una
creatura» 1916; Montale: «L’estate» 1935, «Comunità», 8, 26, agosto 1954, pp. 49-52.
La poesia di Mario Luzi, «Comunità», 8, 27, ottobre 1954, pp. 52-57.
Le giornate di Cecchi, «Comunità», 9, 29, febbraio 1955, pp. 57-58 [rec. a E. Cecchi, Di
giorno in giorno, Garzanti, Milano].
Il Metello di Pratolini, «Comunità» (Narratori italiani), 9, 30, aprile 1955, pp. 54-56 [rec.
a V. Pratolini, Metello, Vallecchi, Firenze].
Tre narratori: Pasolini; Soavi; Rea, «Comunità», 9, 31, giugno 1955, pp. 54-56 [rec. a P.P.
Pasolini, Ragazzi di vita, Garzanti, Milano; G. Soavi, Un banco di nebbia, Monda-
dori, Milano e D. Rea, Quel che vide Cummeo, Mondadori, Milano].
Giacomo Noventa e la poesia, «Il Ponte», 12, 8-9, agosto-settembre 1956, pp. 1393-1404
[rec. a G. Noventa, Versi e poesie, Edizioni di Comunità, Milano].
Rileggendo Pasternak, «Comunità», 12, 58, marzo 1958, pp. 71-74.
Un cuore arido di Cassola, «Comunità», 15, 94, novembre 1961, pp. 102-103; «Dal nulla
tutti i fiori»: il romanzo di Bassani [rec. a G. Bassani, Il giardino dei Finzi-Contini,
Einaudi, Torino], «Comunità», 16, 98, marzo-aprile 1962, pp. 42-46.
Come è stata lanciata la Lexikon (1948), Archivio Olivetti, Fondo Direzione Comuni-
cazione Ufficio Stampa (DCUS), faldone 40, fascicolo 559.
L’organizzazione Olivetti. La Olivetti & la Lexikon elettrica (1948), Archivio Olivetti,
DCUS, faldone 40, fascicolo 559.
Olivetti di Ivrea. Visita a una fabbrica, a cura di C. Brizzolara, F. Fortini, A. Steiner, Of-
ficina d’Arte Grafica A. Lucini e C., Milano 1949, pp. 7-10.
Rileggendo I Miserabili, «Giornale di fabbrica Olivetti», Ivrea 1950, 12, p. 3.
Due libri al mese, «Il cembalo scrivano», 2, 1, gennaio 1950, p. 7 [rec. a Alain-Fournier,
Il grande amico, trad. dal francese di E. Piceni, Mondadori, Milano 1933 e V. Prato-
lini, Il quartiere, Vallecchi, Firenze 1945].
Introduzione a Henri Rousseau, le douanier, Olivetti & C., Ivrea 1951.
Introduzione a Vittore Carpaccio, Olivetti, Ivrea 1953.
La vecchiaia difficile, «La civiltà delle macchine», 2, 1953, pp. 62-63.
Ambrogio Lorenzetti, il pittore del «Buongoverno», Calendario Olivetti 1954.
Letras Humanas, in 25 años Hispano Olivetti 1929-1954, Seix Barral, Barcelona 1954.
Preghiera di pubblicazione, «Il Cembalo scrivano», Bollettino Olivetti, [Ivrea] 1955, p. 40.
Calendari 1955, «L’Ufficio moderno», gennaio 1956.
Il significato di un nome, «Notizie Olivetti», 35, marzo 1956, p. 4.
Le macchinazioni della macchina, «Notizie Olivetti», 36, aprile 1956.
Presentazione in Mosaico di Ravenna, Olivetti, Ivrea 1957.
Olivetti 1908-1958, Olivetti Ing. & C., Zürich 1958 [in collaborazione con Libero Bigia-
retti, Riccardo Musatti, Giorgio Soavi].
Perché si chiama Diaspron, «Notizie Olivetti», 67, dic. 1959, p. 33.
Per la morte di Adriano Olivetti, «Avanti!», 1o marzo 1960, p. 3.
Del copywriting come genere letterario, «L'Ufficio Moderno», 35, 2, febbraio 1961, p. 331.
380 Bibliografia degli scritti olivettiani di Franco Fortini
iii. Traduzioni
Divisumma 14 (1948)
Lexikon 80 (1949)
Lettera 22 (1950)
Tetractys 24 (1955)
Elea 9001 (1957)
Diaspron 82 (1959)
Abstract dei saggi
Barbara Carnevali, Un altro modernismo. La linea Persico-Olivetti
The article aims to begin a reflection on the “other modernism”, questioning what
alternatives there have been to the functionalist style that has imposed itself as the
aesthetic equivalent of modern instrumental reason. Without any claim to exhaustiveness
or historical completeness, the article sketches an exemplary Italian genealogy, linking
Edoardo Persico’s theoretical reflections and work as a designer to some paradigmatic
achievements of the “Olivetti style”: the architecture in Ivrea, the values communicated
in the advertising campaigns and the atmosphere of the showrooms in Venice and Paris,
as designed by Carlo Scarpa and Franco Albini. It outlines how, in these different voices,
the ethical-aesthetic value of grace serves as a formal principle that can allow us to rethink
and re-evaluate the modern heritage from a contemporary perspective. Modernist grace
stems from a sense of harmony between human subjects and the environment, between
the new and the traditional; it is open to the future and to the “project of hope», but
in a manner that is light and considerate, that respects the limits of what is available for
human use.
L’ospite ingrato ns 6
384 Abstract dei saggi
parte della sua trilogia, Sfere. Tale confronto intende contribuire a de-familiarizzare
l’eredità di Olivetti, togliendola dalla lista delle occasioni mancate italiane per collocarla
al centro delle contraddizioni del XX secolo.
Carlo Tombola, Dalla fabbrica alla Comunita. Brevi note sull’organizzazione dello
spazio sociale in Adriano Olivetti
Il presente saggio trae spunto da una docu-intervista del filosofo Emilio Garroni ad
Adriano Olivetti, realizzata per il programma RAI Ritratti contemporanei nel febbraio
del 1960, pochi giorni prima dell’improvvisa scomparsa di quest’ultimo. Seguendo la
Abstract dei saggi 385
Il saggio si propone di indagare alcune opere di Paolo Volponi per dimostrare come
vengano messi in forma e tematizzati i materiali olivettiani. L’esperienza di fabbrica
diviene così il serbatoio per una rete di metafore e di figure. A esempio, la vera lettera
scritta di un operaio afflitto da manie di persecuzione in Memoriale (1962) o i documenti
aziendali redatti dell’autore nell’epoca del suo conflittuale rapporto con Visentini in Le
mosche del capitale (1989). O, ancora, la produzione di calcolatrici elettromeccaniche e di
un pionieristico personal computer nella sceneggiatura-racconto Annibale Rama (1965)
The essay aims to investigate some works by Paolo Volponi to demonstrate how
Olivetti’s materials are put into literary form and themed. The factory experience
thus becomes the reservoir for a network of metaphors and figures. For example, the
real letter written by a worker afflicted by delirium of persecution delusions in the
Memoriale (1962) or the corporate documents drawn up by the author at the time of his
conflicting relationship with Bruno Visentini in Le mosche del capitale (1989) Or, again,
the production of electromechanical calculators and a pioneering personal computer in
the Annibale Rama script-story.
This paper aims at analyzing the copywriting work of Franco Fortini at Olivetti’s
group, in reference to two short films, Incontro con Olivetti (1950) and Le regole del
gioco (1968), whose text was written by Fortini. In this context, his style is focused on
386 Abstract dei saggi
remarking the semantic aspects of the text by combining it with the figurative language
typical of documentaries. More specifically, the analysis underlines the relation between
the man and the machine expressed by the films, in the context of a historical, political
and cultural atmosphere changed by capitalist modernization.
Luciano Gallino entered the Olivetti in young age, directly invited by its founder,
Adriano, at the plants in Ivrea where he grew and learned within that eclectic and
extraordinary Community, integrating sociological and scientific knowledge, technical
principles, and ideals of politics and economics, which he maintained almost unaltered
all along his career. Among the issues scrutinized by Gallino – yet deserving interest
for present and future times – are those about democracy and work in connection to
technologies and their co-evolution along with the ideologies that accompanied and
sustained, or opposed, them.
Cesare Pomarici, L’altro volto dell’inconscio: tracce della psicologia analitica nel pen-
siero e nella prassi di Adriano Olivetti
Nel segno del similare ruolo affidato all’inconscio e alla disciplina astrologica, il
presente studio propone un’ipotesi di raccordo fra il pensiero industriale-umanistico
di Adriano Olivetti e la psicologia analitica di matrice junghiana. Dalla pubblicazione
olivettiana di alcuni testi cardine dello psico-analista svizzero al tradizionale interesse
degli Olivetti per lo studio degli astri, giungendo infine alla mediazione storica
rappresentata dal rapporto terapeutico fra Adriano e Ernst Bernhard, la ricerca in
questione mira ad ampliare la comprensione dell’orizzonte teorico del pensiero di
Adriano alla luce, appunto, dell’inedito contributo fornitogli – accanto alla psicoanalisi
freudiana – dall’altra e più recente ‘scuola’ di psicologia del profondo.
By considering the analogous role attributed to the unconscious and to the astrology,
this essay offers an hypothesis of connection between the humanistic and industrial
thought of Adriano Olivetti and the analytical psychology, theorized by C. G. Jung.
Starting from the editing of some of the most important books written by the swiss
analyst and from the traditional interest of part of Olivetti’s family in the study of
stars, and finally coming to the historical mediation played by the therapeutic relation
between Adriano and Ernst Bernhard, this research aims to extend, in a partially new
direction, the understanding of the Adriano’s thought.
alla americana General Electric. Si passano in rassegna le principali ipotesi che sono state
formulate sulle ragioni dell’uscita della Olivetti dal mercato dei grandi computer (libri
di Lorenzo Soria, Luciano Gallino e Marco Pivato) e si considera che l’analisi formulata
da Alfred D. Chandler Jr. nel libro Inventing the Electronic Century sia la spiegazione
più attendibile delle cause dell’insuccesso nel periodo 1960-1970 di tutti i concorrenti
europei della IBM nel mercato dei computer mainframe.
“High technology and millenary culture” describes the events which characterized
the initiatives of the Italian enterprise “Ing. C. Olivetti & C. SpA”, best known as
“Olivetti”, in the Italian market of mainframe computers. In 1949 Olivetti signed an
agreement with the French company Compagnie des Machines Bull, manufacturer of
punched card machines, for distributing their products in Italy through a new Italian
company named Olivetti-Bull. In 1959, after four years of research and development,
Olivetti presented to the Italian market its new mainframe computer, called Elea 9003,
followed in 1961 by a new model called Elea 6001. Both machines obtained good results
in the Italian marked, competing with their counterparts manufactured by IBM (models
1401 and 1620). Olivetti dedicated great efforts to the development of the human
resources needed for promoting its new computers in a national market dominated by
IBM, its main competitor in that field. For complex financial and marketing reasons,
Olivetti in 1965 gave up its business in the market of mainframe computers selling its
computer division to the American company General Electric. A number of hypothesis
have been formulated about the reasons that induced Olivetti to give up its computer
division (the most relevant books are those written by Lorenzo Soria, Luciano Gallino
and Marco Pivato). The analysis made by Alfred D. Chandler Jr. in his book of
2001 Inventing the Electronic Century is considered the most reliable explication of the
probable causes that provoked the failure in the 1960-1970 decade of all the competitors
of IBM in the market of mainframe computers.
Adriano Olivetti was not only an enlightened entrepreneur; he was also the
inspiration behind a concrete project to modernise the country. His proposal for
territorial communities reveals an uncommon intuition and intellectual sensitivity
that lays the foundations for a synthesis between urbs, civitas, i.e. between space and
society. At the origin of this cultural project, which is reflected in the new city of Ivrea
and in the Valle d’Aosta plan, is the idea of the industrial building as a driving force
for a new urbanity, a synthesis of the dialectic between tradition and modernity. The
network of activities linked to industrial production makes the workplace the pivot
of a cluster of services - library, nursery, school, cafeteria, doctor’s office. In other
words, the workplace becomes the genius loci of the modern city: not, however, a city of
skyscrapers, freeways and shopping centres, but a network of municipalities and villages
spread across the territory and connected by roads, physically, and by a community
spirit, socially. The essay retraces the main features of Olivetti’s project and the link with
architecture and town design, viewed as indispensable and unavoidable factors in the
process of social emancipation, in a vision of progress that is attentive to spatial contexts
and local cultures.
Franco Fortini ha lavorato per l’Olivetti dal 1947 al 1963. Poi, solo come consulente
esterno, dal 1965 al 1974. Di fatto, il lavoro di copywriter è stato il suo primo mestiere,
insieme all’insegnamento, la sua attività professionale più importante. Scopo dell’articolo
è quello di indagare il rapporto fra creatività poetica e sistema pubblicitario nella
riflessione teorica e negli scritti letterari di Franco Fortini.
Franco Fortini worked for Olivetti from 1947 to 1963. Then, only as an external
consultant, from 1965 to 1974. In fact, working as a copywriter was his first job,
together with teaching, his most important professional activity. The aim of the article
is to investigate the relationship between poetic creativity and the advertising system in
the theoretical reflection and literary writings of Franco Fortini.
Notizie sui collaboratori
Giuseppe Alessi si è laureato all’Università di Siena nel 2020 con una tesi di laurea
magistrale intitolata «Mutare in libere scelte quello che ancora ci sembra destino». Fortini
e i testi per film. È tra i fondatori della sezione ANPI di Mussomeli e del collettivo fem-
minista intersezionale «Amarena».
René Capovin è direttore del Musil – Museo dell’Industria e del Lavoro di Brescia
e collabora dal 2008 con la Fondazione Micheletti, curandone la progettazione nell’am-
bito scientifico e museologico. Fa parte di EMA – European Museum Academy. Ha
pubblicato articoli su riviste italiane e straniere, trattando soprattutto temi culturali e
politici. Fra le sue ultime pubblicazioni, Chi lo sa? Scienza e intellettuali alla prova del
Covid-19, in «Rivista di antropologia contemporanea» (in stampa).
Barbara Carnevali insegna filosofia all’École des Hautes Études en Sciences Sociales
di Parigi. Si occupa in particolare dei rapporti tra estetica, società e modernità. Ha pub-
blicato Romanticismo e riconoscimento. Figure della coscienza in Rousseau (Il Mulino,
Bologna 2004); Le apparenze sociali (Il Mulino, Bologna 2012), uscito in una nuova edi-
zione in lingua inglese ampiamente rivista: Social Appearances. A Philosophy of Display
and Prestige (Columbia University Press, New York 2020) e sta ultimando due saggi di
estetica sociale del design: La linea rossa. Milano e il progetto della modernità, e La gra-
zia delle macchine. Per un’estetica tecnologica, in uscita, rispettivamente, da Feltrinelli e
dal Mulino a fine 2021.
L’ospite ingrato ns 6
394 Notizie sui collaboratori
Francesco Ciafaloni ha lavorato per Eni fino al 1966; poi presso la casa editrice Bo-
ringhieri di Torino. Dal 1970 alla crisi del 1983, è stato redattore della Einaudi. Si è occu-
pato di lavoro e di immigrati con IRES-CGIL. È stato presidente del Comitato «Oltre
il razzismo». Ricicordiamo, fra i suoi scritti, I diritti degli altri (minimum fax 1998),
Il destino della classe operaia (Edizioni dell’Asino 2012). Ha collaborato con le riviste
«Quaderni piacentini», «Linea d’ombra», «Lo straniero». Collabora con le redazioni di
«Una città», «Gli Asini», «L’ospite ingrato».
Tommaso Morawski ha studiato filosofia tra Berlino e Roma, dove nel 2017 ha conse-
guito il dottorato di ricerca in Filosofia e Storia della Filosofia presso la Sapienza – Uni-
versità di Roma. Dopo essere stato borsista alla Bibliotheca Hertziana – Max Plank Insti-
tut für Kunstgeschichte, dal 2020 è ricercatore post-doc presso la Bauhaus-Universität di
Weimar. Membro della direzione editoriale di «Pólemos. Materiali di Filosofia e Critica
sociale», dal 2013 collabora con la CiEG (Cattedra internazionale Emilio Garroni).
Michele Pacifico, laureato in filosofia all’Università degli Studi di Milano nel 1960,
dove è stato assistente volontario alla cattedra di Filosofia Morale, dal 1960 al 1974. Di-
ploma all’International Teachers Program della Harvard Business School nel 1971. Diri-
gente industriale dal 1960 al 1987 presso Olivetti, Fiat, Motta, GEPI e Pirelli. Ha scritto
54 libri di argomento informatico fra il 1985 e il 2020, pubblicati con diversi pseudonimi
da Mondadori, McGraw-Hill, Hoepli, Feltrinelli e Apogeo.
Fulvio Perini ha fatto parte della segreteria regionale della Cgil del Piemonte dal 1978 al
1988. Dal 1999 al 2015 ha svolto attività di collaborazione con la parte lavoratori, ACTRAV,
dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro. Dal 2001 è stato Consigliere del Consiglio
Nazionale dell’Economia e del Lavoro (VII e VIII Consiliatura). Nel 2006 è entrato nel
Comitato scientifico dell’ISPESL. Ha collaborato come esperto del Ministero della salute
alla stesura del Decreto Legislativo 81/2008.
Alberto Saibene, storico della cultura italiana del Novecento, lavora nell’editoria.
Per le Edizioni di Comunità ha curato gli scritti di Adriano Olivetti (Il mondo che nasce,
2013; Città dell’uomo, 2015) e ha pubblicato di L’Italia di Adriano Olivetti (2017). Ha
curato mostre sulla Olivetti in Italia e all’estero.
Carlo Tombola ha insegnato nei licei milanesi. Nel campo della geografia urbana e
dell’economia dei trasporti ha pubblicato: Grandi città e aree metropolitane in Italia
(con R. Mainardi, 1982), Il sistema mondiale dei trasporti (con S. Finardi, 1995), Le
strade delle armi (2002). Presso la Fondazione L. Micheletti ha curato le Lezioni sul
revisionismo storico (1999), Ventisei lezioni di storia del Novecento (2016) e L’ultima
rivoluzione. Figure e interpreti del Sessantotto (con P. P. Poggio, 2019). È nella redazione
della rivista «Officina Primo Maggio».
Rodolfo Zucco è nato a Fonzaso (BL) nel 1966; vive e insegna a Udine. Dopo Bubu-
luz (Milano, edizioni del verri, 2017) ha pubblicato le sequenze Vecchia talpa («Versodo-
ve. Rivista di letteratura», 20, 2018), Il Vallisnieri a Seuza («Zeta», gennaio-aprile 2019),
Dei sogni («La battana», gennaio-marzo 2021).
L’ospite ingrato
www.ospiteingrato.org
nuova serie
1 2008 Verità relativismo relatività
2 2011 Il volto dell’altro. Intellettuali ebrei e cultura europea del Novecento
3 2013 Walter Benjamin. Testi e commenti
4 2017 L’esperienza della musica
5 2019 «Per voci interposte». Fortini e la traduzione
6 2021 Umanesimo e tecnologia. Il laboratorio Olivetti
Finito di stampare nel mese di ottobre 2021
presso Print on web s.r.l., Isola del Liri (fr)
per conto delle edizioni Quodlibet