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ARMI DI STATO

La guerra fredda dello Stato parallelo

Massimo D’Agostino
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"In America è nota a tutti l'ubicazione di impianti militari anche delicati: se


doverosamente un'accurata sorveglianza esiste intorno ad essi, raggiungere
le località in cui hanno sede è assai semplice, come è semplice prendere
contatto con gli abitanti di quelle zone ed avere magari, innocentemente,
dettagli non essenziali ma ugualmente riservati.
E' molto rispetto al poco che si può ottenere nell'URSS dove non solo non si
parla degli obiettivi militari di qualunque tipo, ma neppure si possono avere
rapporti di qualsiasi genere con privati cittadini al di fuori delle strette
relazioni di ufficio. Molte notizie possono del resto apprendersi negli Stati
Uniti da un'attenta lettura delle innumerevoli riviste tecniche spesso ricche
di dati importanti. Lo 'spionaggio a tavolino' trova nei loro articoli
materiale ghiotto che invano si cercherebbe nelle analoghe pubblicazioni
sovietiche, soggette ad una rigorosa censura."
VINICIO ARALDI, “Guerra segreta in tempo di pace”, Mursia, 1969

ARMI DI STATO

Edizione aggiornata

2018
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Nei primi anni ‘90...

fui portato da alcuni compagni di classe in quella che allora era ancora una
zona militare: la collina del Cardeto di Ancona. Il portone era aperto e i due
miei “compari” ritenevano fosse divertente provare l’ebbrezza di camminare
al buio fino al parapetto che dà sul mare con il rischio di essere arrestati.
Una notte vidi dall’alto della collina delle luci intermittenti in fondo al mare,
seguite da un bagliore rosso che illuminava le nubi basse sull’orizzonte.
Scoprii il giorno dopo sul giornale che la città croata di Zara, che si trova di
fronte ad Ancona, era stata appena bombardata.
Recentemente una mia fonte estremamente attendibile mi ha raccontato che
in quello stesso periodo svolgeva il servizio militare esattamente in quella
zona. Racconta di aver percorso su di una jeep dei tunnel che collegano il
monte Conero con il distretto militare di Ancona, nella zona di via
Montebello, nel centro storico. Sarebbero tunnel pieni di radar militari. “Nel
periodo della guerra nell’ex Jugoslavia - ha detto - eravamo costretti
continuamente ad indossare il caschetto, come se fossimo in guerra anche
noi in Italia.”
Al tempo del liceo il Monte Cardeto, una collinetta a ridosso del centro, era
una zona buia e tenebrosa, e come tutte le cose tenebrose, io credo, poteva
sulle prime affascinare, anche se si trattava di un fascino illusorio e
pericoloso.
I due compagni di scuola mi parlavano di questa collina come di un luogo
militare abbandonato, nel senso che era zona militare solo sulla carta. Da
diversi anni il portone veniva lasciato aperto. I miei amici non sapevano
perché questo avveniva, però so che prima di portarci anche me avevano già
provato ad entrare con successo. Mi sembra di ricordare così.
Quando venni portato al Cardeto era notte fonda e non ricordo che periodo
fosse, né se fosse un fine settimana. Dopo aver bevuto un po’ andammo lì
con la macchina, che venne lasciata nel piazzale antistante il portone di
accesso. Naturalmente quel cancello molto alto era aperto e nessuno lo
controllava. Almeno apparentemente. Entravamo al buio e solo la luce della
luna ci guidava verso una salita molto buia, che sembrava non finire mai. Si
arrivava in un piazzale in cui non c’era nulla. Si intravedevano dei plessi
abbandonati e dei cancelli chiusi. Solo uno sembrava essere “vivo” ed era se
non ricordo male il cancello del nuovo faro, dove erano presenti dei nomi su
un citofono illuminato. Passando oltre si arrivava a un parapetto
sopraelevato, con due accessi per dei locali sotterranei, nei quali si entrava
attraverso delle scale, ovviamente buie. Mi pare che questi due accessi
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portassero a dei cancelli chiusi. La vista del mare era stupenda. Come tutte le
cose che non ti permettono di vedere, sembrava una parte della città più
bella che mai.
Fu la seconda volta che mi portarono in questo posto che accadde un
episodio molto particolare, che mi è rimasto in mente. Era il 1991 o forse
anche prima, proprio non ricordo l’anno. C’era la guerra tra Serbia e Croazia
che era appena esplosa, e Zara la città di mare croata era di fronte a noi, pur
se molto distante e non visibile a occhio nudo. Io ricordo che quella notte
vidi una luce bianca sul mare lampeggiare a intermittenza e a intervalli che
non so precisare. Per pochi minuti quella lucetta segnalava qualcosa, poi
smetteva. Quando sull’orizzonte vidi illuminarsi di rosso le nuvole capii che
non erano segnalazioni ma forse dei colpi di arma da fuoco. Ma come era
potuto accadere che tre ragazzi diciottenni stavano assistendo da Ancona a
un conflitto a fuoco? I bagliori sull’orizzonte si ripeterono più volte quella
sera e si vedevano bene a occhio nudo. Solo bisognava alzarsi un po’ sui
talloni. Era tutto molto basso sull’orizzonte, perché in fondo noi eravamo
solo a 100 metri sopra il livello del mare. Sapevo in quel momento che in
Croazia c’era la guerra, ma noi eravamo in Italia, lontani anni luce dall’idea
di partecipare a una guerra.
Forse quella volta per lo spavento fuggimmo più veloce del solito, perché
eravamo soliti fare così quando andavamo via. C’era la paura che quella
ragazzata fosse scoperta da qualcuno, ma non sapevamo proprio chi fosse
questo qualcuno. Forse solo le ombre che vedevamo scendendo di corsa per
quella discesa. Uno dei due ragazzi che erano con me era convinto che ci
fosse un’ombra che ci scrutasse al buio da uno di quei plessi abbandonati, da
una finestra. Ma io non vidi mai nessuno.
I miei due compagni di scuola oggi sono due avvocati, si sono laureati e le
loro strade lentamente si sono divise. Uno dei due è diventato un politico
diciamo di professione nel centro-destra. E’ proprio lui che dopo l’università
mi raccontò di aver svolto gli ultimi mesi del servizio militare facendo la
guardia al tunnel buio del Monte Conero. Non so se sia stato per quella sua
passione per le zone militari di Ancona che è finito su quel grande segreto
militare italiano. Non lo so, davvero. Io so soltanto che, il giorno dopo quella
incredibile visione di un presunto conflitto a fuoco in mare aperto, scoprii,
leggendo il Corriere Adriatico, che Zara era stata appena bombardata.
Collegai subito la notizia a quello che avevo visto dal vivo. Sbagliando? E’
possibile, perché Zara è più lontana, pensandoci ora col senno di poi, rispetto
a quanto immaginai da diciottenne idiota.
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Ma c’è dell’altro che non mi lascia tranquillo. Durante quel periodo abitavo
in una casa in affitto. Papà dirigeva una filiale di un importante gruppo (oggi
holding) bancario e quella casa ci veniva pagata dallo stesso istituto. La
nostra vera casa, molto grande e comoda era a Roma, con tanto di residenza,
ma rimaneva chiusa tutto l’anno e abbandonata come la casa del film The
Others, con le lenzuola bianche sulle poltrone. Ci tornavamo a Natale e
Pasqua. Eppure quella piccola casa anconetana mi piaceva, perché si vedeva
un panorama stupendo e soprattutto il mare, che d’inverno ha un fascino
particolare. Soprattutto, c’era la possibilità, tramite una piccola antenna da
interno, di vedere le tv croate, che trasmettevano un sacco di sport in diretta,
mentre la Rai era già sulla via del declino. Sì, avete capito bene, con
un’antenna da 20 mila lire captavo il segnale croato a seconda dei giorni e
del tempo. Il problema era che questo segnale non era previsto dal nostro
ordinamento legislativo, perché i tre canali croati si inserivano
sovrapponendosi alle frequenze di alcune piccole e grandi emittenti italiane.

I canali televisivi della Croazia

Il primo canale croato era l’unico che occupava uno spazio vuoto, subito
dopo la prima frequenza di Raiuno. Stiamo ovviamente parlando dei primi
anni ‘90, quando c’era solo l’analogico e non c’era nemmeno la pay-tv di
Sky. Il secondo canale croato invece ricordo che si accavallava su Elefante
TV, dove il venditore di tappeti, che tutto il giorno si esibiva nelle
televendite, scompariva, tra mille righe orizzontali, per far posto alla tv dello
sport della Croazia, HRT2. Adoravo quella televisione, anche se non capivo
nulla di quella lingua. Guardavo le partite del loro campionato, i grandi slam
di tennis, e dal 1996 anche i posticipi del campionato italiano. Una volta
decisi di scrivere ai responsabili di quell’emittente per pubblicare un
annuncio sul loro teletext (l’equivalente del nostro televideo) in modo da
cercare amici che collezionassero insieme a me materiale calcistico, come
maglie di calcio e album di calciatori. Con mia grande sorpresa non rispose
nessuno di questi appassionati di sport, invece la mia casella venne
letteralmente invasa da lettere con tanto di foto, in molti casi, di ragazze
croate, che cercavano pen-friends e sognavano l’Italia. Rimasi in contatto
solo con alcune di loro, perché era veramente impossibile intrattenere
contatti con tutte. Poi la cosa finì progressivamente. Poi c’era il terzo canale
croato, HRT3, che trasmetteva fiction in lingua originale e spesso questa era
l’inglese. Mi piaceva anche questo canale, che si sovrapponeva a Italia1,
anche se su una frequenza della Fininvest che appariva più debole delle altre.
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Ma come facevo da casa ad Ancona a vedere via terra o via mare quelle
emittenti? Ho sempre pensato che fosse il mare a permettere alle onde di
sconfinare nel nostro paese, ma oggi non ne sono più così sicuro. In quella
casa per di più vedevo anche altre emittenti che non sarebbe stato possibile
captare. Dal salotto, sempre con un’antenna da interno, si potevano vedere
diversi canali del Veneto. Sì proprio così: Teleadria, Serenissima TV, e poi
Rai tre Veneto. Ricordo che in certi giorni al posto di Raitre Marche
compariva questo canale, che era l’unico ricevibile in modo decente. Dove
poteva esserci un ripetitore così potente in grado di arrivare a casa mia in
modo perfetto? Non ho mai avuto risposta. Sul Monte Conero? Chissà, è
possibile. Ma la storia di un possibile parallelo tra Ancona-Conero e Croazia
non è finita qui, perché a metà degli anni ‘90 ebbi la brillante idea di portare
alcuni compagni di università a vedere il panorama del Cardeto.

L’uomo col cane ci voleva denunciare

Erano meridionali, non anconetani, e volevo che provassero le stesse


emozioni di quella sera durante il presunto conflitto a fuoco in Croazia. A
differenza di quelle ragazzate del liceo questa esperienza avvenne in pieno
giorno con un bel sole invernale di domenica. Mi ero convinto che il Cardeto
fosse un luogo accessibile, solo per il fatto che il portone era sempre aperto,
ma mi sbagliai. Lasciammo l’auto sul solito piazzale e entrammo. Uno dei
ragazzi che mi seguivano mi fece notare il cartello con scritto: “zona
militare”. Ridendo dissi: “ma cosa volete che succeda, mica siamo in
guerra!” Ed entrammo. Mentre pronunciavo quelle parole stavo varcando la
soglia del cancello dove c’era una specie di campanello, diverso da quello
che vi ho detto del faro nuovo in alto. E’ un particolare importante, in quanto
facemmo solo in tempo a vedere il panorama che sentimmo un uomo parlare
verso di noi mentre saliva dal portone. Aveva con sé un cane e io da quella
volta lo ricordo come “l’uomo col cane”. Era anziano e molto duro. Ci fece
notare con cattiveria che quel posto non era accessibile a tutti e, particolare
terribile, parlava come se si sentisse Dio in terra venuto a giudicare gli
uomini che sbagliano. Perché è evidente che se non si poteva entrare
eravamo in torto. E fece l’eco delle mie parole. Ripeté la mia frase, per farmi
capire che mi aveva sentito. Che lui era capace di sentire tutto. E mi fece
pure il verso con tono chiaramente ironico: “E mica siamo in guerra!”
Aveva già chiamato i carabinieri, i quali arrivarono dopo forse un minuto o
due da quella frase. Erano pronti a intervenire come nel fatto di Gianfranco
Guanti? Nel nostro caso ci presero i nomi dai documenti, poi
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sdrammatizzarono affermando che era solo un controllo. Dissero:


“l’importante è che non manchi niente” riferendosi all’interno della zona del
Cardeto. Ma cosa sarebbe dovuto mancare da un luogo abbandonato da anni?
Non saprei; comunque mi presi le mie responsabilità nei confronti dei miei
amici. Spiegai io ai carabinieri che era una gita domenicale e che sapevo
essere un luogo accessibile, perché il portone si diceva in città che era
sempre aperto. Non avevo mentito, in fin dei conti. La cosa incredibile fu
che “l’uomo col cane” cambiò umore in pochi secondi, come se avesse
capito che non eravamo quelli che cercava lui. Ci disse che era il guardiano
del faro ed era anche un ex carabiniere in pensione. Che quelli erano suoi
colleghi e li aveva chiamati per paura fossimo dei delinquenti. Ma voi siete
dei bravi ragazzi, disse buono come un agnellino e così ci tranquillizzò. Mi
passò di mente persino un fatto che oggi mi fa rabbrividire. Come poteva
aver sentito la mia voce mentre ero davanti al cancello se lui in quel
momento era fuori dalla zona del Cardeto? Infatti “l’uomo col cane” quando
ci venne incontro veniva dalla zona del cimitero degli ebrei, quindi al di
sotto del portone nel quale eravamo entrati. Noi invece scendevamo dal
pianoro del faro. Aveva una ricetrasmittente collegata al citofono? Io penso
che non potesse essere che così. Ma allora “l’uomo col cane” ci aveva
sempre visto mentre da diciottenni facevamo delle gite notturne nella zona
militare? Era lui l’ombra nascosta dietro quei plessi abbandonati e bui? Era
per caso lui a permetterci di entrare perché amico o conoscente del mio
compagno di scuola, divenuto avvocato e politico? Non lo so, perché questo
giovane è diventato col tempo, a detta di tutti i suoi colleghi politici di
centro-destra, molto evanescente, sfuggente, e anche svagato. Io dico che si
è perso un po’ per strada e mi dispiace, non tanto perché non mi ha aiutato
nei momenti miei difficili, quanto perché ha creduto troppo nei suoi mezzi e
non è stato abbastanza umile da capire che nella nostra vita non c’è mai
niente di sicuro. Anche “l’uomo col cane”, il quale sembrava così padrone
della situazione, finì sul Corriere Adriatico pochi anni dopo come
protagonista in negativo di un fatto di cronaca. Non lo ricordo bene
l’episodio, ma mi sembra che venne denunciato dai residenti del Cardeto,
perché dava loro fastidio con quel cane e ostacolava la normale vita del
quartiere. Fu la conferma che quel fatto del quale fummo protagonisti
intorno al 1995 era molto ma molto strano.
Anni dopo, quando l’amministrazione comunale si riappropriò della zona e
la trasformò in un parco, il quotidiano per il quale scrivevo mi inviò come
cronista a farci un servizio. Quindi mi ritrovai da quelle parti non per mia
scelta. Potei constatare la stranezza del posto: si trattava di un sito militare
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tenuto malissimo. Quella volta vidi anche strani personaggi girare per la
strada. C’erano degli abitanti abusivi che si erano costruiti delle baracche e
un signore, forse uno di questi strani abitanti del luogo, mi si avvicinò e mi
chiese se ero un giornalista, visto che avevo un taccuino in mano. Mi disse
allora di scrivere una cosa, che poi non ho voluto inserire nel servizio per un
po’ di timore e lo faccio solo adesso. Ero fuori da ciò che restava del palazzo
della Digos e questo signore, con la barba folta e nera, non alto, l’aspetto
quasi surreale, mi disse queste parole: “vede lì dentro... questa stanza? Lì ho
visto cose terribili. I poliziotti quando interrogavano davano tante di quelle
botte...”.
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Parte Prima: Monteconero

BASE CONERO

La comparsa su Wikipedia alla voce “Monte Conero” di un paragrafo


relativo a una presunta base militare sotterranea costituita da una serie di
tunnel fa scattare l’inchiesta. Cosa si nasconde vicino Ancona? La risposta
sta forse in un cartello fotografato da Google Earth in cima al monte.
L'insegna parla di una strada militare che porta alla sede del Terzo
Distaccamento Autonomo Interforze. Cercando notizie su questo corpo
militare emerge, da un sito di informazione su sicurezza difesa e giustizia,
che svolgerebbe azioni di spionaggio seguendo un progetto Nato chiamato
Echelon. La notizia di uno spionaggio della popolazione era trapelata negli
anni ’60 e coincidenza vuole che il responsabile della schedatura di 157mila
italiani fosse l'ex capo della sezione di Ancona del Controspionaggio, il
generale dei Carabinieri Giovanni Allavena. A queste rivelazioni pare sia
collegata anche la tragica fine di un colonnello del Sifar, Renzo Rocca,
ufficialmente morto suicida il 27 giugno 1968. Il monte Conero in pratica
sarebbe legato ai progetti oscuri di Gladio. L’imboccatura del tunnel si
troverebbe tra il Poggio e Massignano e sarebbe tuttora sorvegliata di notte.
In passato si era parlato di Ancona a proposito del tentato golpe De Lorenzo
che sarebbe dovuto scattare nel 1964, ovvero quando secondo La Stampa i
tunnel del Conero sarebbero divenuti di proprietà della Marina Militare
Italiana. L’obiettivo dei golpisti era di concentrare nel capoluogo
marchigiano e all’aeroporto di Falconara gli “enucleandi”, cioè i nemici
dello Stato.

Nel monte Conero c’è una base anti-Nato?

Ironicamente mi verrebbe da dire che ormai è ufficiale. La Guerra Fredda


continua, almeno nei pressi di Ancona. Le leggende, cioè, che da anni
vogliono che il capoluogo marchigiano sia stato in passato teatro della corsa
al riarmo per il predominio nel continente trovano adesso qualche riscontro e
non emergono più solo dai racconti di timorosi testimoni. Kruscev, Breznev,
insomma continuano a far paura? Perché dentro al Monte Conero potrebbe
essere stata costruita nella loro epoca una galleria segretissima che avrebbe
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portato a una base militare altrettanto segreta. Russa, americana, questo non
è facile dirlo perché documenti ufficiali non ce ne sono.
E’ possibile però fare una considerazione molto semplice: gli americani non
costruiscono basi nelle montagne, bensì in luoghi desertici come il Nevada.
Hanno semmai l'abitudine di monitorare e sorvegliare, ma non di nascondere.
E’ noto a tutti il fatto di Pearl Harbour, quando gli Usa vennero trafitti in
modo fin troppo facile dai Giapponesi a metà del secondo conflitto mondiale.
Anche la caduta delle Torri Gemelle nel 2001 è stato un esempio di come gli
Usa a volte si sentano troppo sicuri e non occultino affatto i punti strategici
del loro territorio. Così è la Nato. In un piccolo libro scritto a cura della
Democrazia Cristiana nel lontano 1953 si parlava di “spie comuniste in
occidente”. E tra i luoghi niente affatto segreti che il “Patto Atlantico”, cioè
il patto militare post-bellico anti-comunista dei paesi occidentali firmato il 4
aprile del 1949, considerava più a rischio per l’infiltrazione nel tessuto
sociale di spie russe interessate a informazioni militari non c’era Ancona. Vi
erano invece Roma, quale capitale, Napoli, perché sede del “quartier
generale mediterraneo dell’organizzazione atlantica”, Livorno, sede del
‘Centro sbarchi’ “per le truppe del corpo d’occupazione americano in
Austria”. C’erano anche Torino, che era un centro industriale che riceveva
“ordinazioni dagli Stati Uniti” (e qui chiaramente mi viene da pensare a
produzioni di stampo bellico), Trieste, per le sue caratteristiche di terra
‘snazionalizzata’ e quindi Brindisi e La Spezia, su cui non veniva specificato
nulla.
Eppure, a detta di alcuni coetanei conosciuti negli anni in cui abitavo nel
capoluogo marchigiano, in Guerra Fredda il Monte Conero era una zona
militare importante per la Nato.
Io ho al contrario sempre attribuito queste voci ai russi, al fatto cioè che il
Conero potesse essere stato sede di attività militari non della Nato, bensì
segrete e magari portate avanti dal Partito Comunista Italiano, uno dei più
forti dei paesi occidentali, tanto che la storiografia più recente tende a porre
l’Italia come Stato cuscinetto a metà tra ovest e est, un po’ come avviene per
la Jugoslavia di Tito. Non è un azzardo secondo me affermarlo, basti pensare
all’ostruzionismo anti-atlantico del PCI, ma anche di Craxi e del PSI negli
anni ’80 con il caso di Sigonella. Resta altrettanto segretissimo il tipo di
esperimenti che sarebbero stati fatti realmente all'interno della base:
costruzione di missili? sommergibili? Le testimonianze che avevo ascoltato
erano diverse, ma mai così convinte da pormi in condizione di scrivere
articoli, che non diventassero poi leggende metropolitane senza fondamento.
I racconti più coloriti venivano per lo più da pescatori i quali affermavano di
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aver visto per sbaglio la montagna aprirsi, salvo essere zittiti e minacciati da
presunti militari. Altre testimonianze volevano invece operai lavorare
segretamente dentro la montagna non si sa a quali scopi e sicuramente sotto
segreto militare. Una di queste testimonianze l’ho raccolta recentemente. C’è
anche un attuale esponente politico del centro-destra testimone del fatto che
all'interno del Monte Conero, ancora alla fine del millennio dunque dopo la
caduta del muro di Berlino, ci fosse un tunnel segreto, buio, che attraversava
da parte a parte il Monte Conero, il quale, va ricordato, è un parco naturale e
non avrebbe ufficialmente alcun tunnel, tanto meno sorvegliato da militari.
Pare che ad alcuni giovani sia stato offerto alla fine degli anni ’90 di
svolgere il proprio servizio militare nella zona del Monte Conero. Per le
persone con cui ero in rapporti di amicizia si trattava più che altro di un
avvicinamento a casa, visto che erano di Ancona, e non tanto quindi di una
missione segretissima che peraltro non avrebbe senso affidare a un giovane
neolaureato. Ma inserirei in questo elenco pure un giornalista di Novara, il
quale al sentir nominare Ancona ebbe un sussulto ricordando i tempi in cui
svolgeva il servizio militare e non erano infrequenti le umiliazioni, come
quella di pulire la tazza del gabinetto con un chiodo. Lui venne mandato per
un certo periodo alla Caserma Saracini di Falconara, oggi chiusa. Mi disse:
“C’erano voci secondo le quali Ancona era il posto dove venivano mandati i
militari che dovevano lavorare sui missili”.
Il compito di questi militari sarebbe stato quello di sorvegliare la zona
giorno e notte. Qualcuno forse su questo Monte Conero ha fantasticato un
po’ troppo, ma arrivano ora alcune conferme online. Intanto sul fatto che
siano stati i russi in passato a costruire basi sotto le montagne. Su
www.ditadifulmine.com si legge questo: “Nel 1996 il New York Times ha
riportato come fosse in costruzione una misteriosa base militare in Russia,
un enorme complesso sotterraneo sotto gli Urali nella zona di Beloretsk.
Citando alcuni ufficiali russi, il New York Times spiegava che il complesso
sotterraneo era un insieme di siti minerari, depositi di custodia per cibo ed
oggetti di valore nazionale, e bunker per le autorità in caso di guerra
nucleare.” E ancora: “Il problema sulla trasparenza riguardo alla costruzione
della base sta nel fatto che nel 1991 Leonid Akimovich Tsirkunov,
comandante delle due installazioni Beloretsk-15 e 16, dichiarò che la base
avesse lo scopo di estrarre minerali rari dagli Urali. Successivamente, lo
stesso Tsirkunov dichiarò che si trattasse di un deposito di cibo e vestiti,
senza chiarire ulteriormente lo scopo di avere un magazzino scavato in una
montagna. E ancora, nel 1992 un ufficiale di stanza nella regione affermò
che l'installazione nel monte Yamantau fosse un bunker destinato alla
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leadership russa in caso di guerra nucleare; mentre nel 1996, il quotidiano


Segodnya sostenne che il complesso fosse associato al sistema di controllo
di missili strategici "Dead Hand".”
Queste informazioni emerse dal New York Times venivano riportate, nel
1996, dai principali quotidiani italiani: La Stampa, Corriere della Sera,
Repubblica e L'Unità. Si lamentava in particolare il fatto che, nello stesso
periodo in cui gli americani finanziavano l'esercito russo per distruggere le
armi atomiche, la Russia stesse costruendo proprio una misteriosa base
segreta, che in realtà esisteva già dai tempi di Breznev. Una nuova corsa al
riarmo? La domanda rimase senza risposta.
Anche le informazioni sui militari del Conero compaiono e scompaiono, la
differenza è che negli ultimi tempi si sono fatte più insistenti. Su Yahoo nelle
classiche domande e risposte alcuni utenti parlano apertamente di questo
tunnel e affermano di aver visto dei camion entrare all'interno di questa
presunta base. Dove si troverebbe? Tra le località di Massignano e Poggio,
quindi nel lato ovest del Monte, nella zona verso Loreto. Da qui, se fosse
vero che attraversa il diametro del monte, arriverebbe dritto fino al mare. E
cosa dice l'utente? Sentiamolo:
"La base esiste eccome! E' pieno di cartelli di zona militare, bisogna essere
ciechi per non vederli, inoltre ancora ci sono militari che ti puntano i fucili
addosso, provate a raggiungere la cima del monte e aguzzate gli occhi cari
escursionisti che dite che il Conero è tutto visitabile: nessuno è potuto mai
andare in cima al monte a godersi il panorama... in un parco regionale
oltretutto! Esiste una galleria (zona del poggio) che si intravede con tanto di
enorme portone e torretta militare attiva , dentro ci entrano Camion! La
base è attiva. Vergogna a chi insabbia e minaccia. La gente lo sa al di là
delle minacce ricorrenti a chi ne discute. E comunque sono certo che questo
post non verrà riaperto".
Effettivamente l’utente ha ragione, sia sul tunnel che si vedrebbe dalla
statale che da Ancona porta a Sirolo, sia sul fatto che in cima al monte vi sia
una strada militare. Le istantanee di Google Earth mostrano chiaramente un
cartello in bianco e nero a pochi passi dall’hotel molto frequentato sulla
vetta del Conero.
A questo utente è stata data una risposta che non è confortante. Non
smentisce, come invece succedeva anni fa (è tanto tempo che faccio ricerche
online su questo tema e ho visto anche presunte risposte con minacce di
altrettanto presunti esponenti del Sisde), la presenza di una zona segreta
tutt'altro che trascurabile nel monte. Ecco la risposta giunta a questo post:
"Confermo ragazzi. esiste. Non è affatto smantellata, anzi è in costante
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manutenzione... andate se non credete e fate il percorso escursionistico 1A....


e occhio a quello che fate perché vi controllano... Ai piedi del monte inoltre
(località Massignano) si vede l'ingresso principale con tanto di torrette e
vedette riverniciate recentemente. Non c'è sicuramente il movimento che
c'era in guerra fredda, ma c'è personale e i cancelli scorrevoli sono nuovi,
con tanto di citofoni nuovi..."
Questi controlli sono un retaggio della Guerra Fredda. Non c'è ufficialmente
alcuna strada che porta nella zona del Conero ad alcun tunnel. Usando
tuttavia la funzione "Street View" e rifacendo la strada idealmente con
Google Earth aggiornato si scorge una zona che è simile a quella descritta
nelle domande di Yahoo: un cancello militare con una torretta. La zona
ovviamente non è transitabile con il "mouse" e non si può ulteriormente
avvicinare l'obiettivo.
Guardando meglio queste foto di Google Earth, bloccando l’obiettivo sul
tunnel è facile notare che questo posto di blocco, nascosto per carità, ma in
zona turistica, ha molte caratteristiche che lo rendono simile al checkpoint di
Berlino ai tempi della “Cortina di ferro”. Mi hanno colpito i lampioni e il
filo spinato che c'è vicino. Ha un sapore antico di Guerra Fredda, veramente.
Si intravedono nel tunnel delle luci a neon che porterebbero verso l’interno.
Verso un magazzino oppure verso il cuore del monte? Ciò che si capisce
bene è che questi sono elementi che incuriosiscono, che spingerebbero ad
approfondire. Se guardate la recinzione, inoltre, si vedono due livelli di
protezione, cioè due cancellate, come se vi fossero una linea verde e una
rossa.
Andando avanti verso Massignano nel fotoprint si nota una pattuglia dei
carabinieri che, forse è un caso, sta controllando le auto in transito. I
carabinieri li ritroveremo più avanti in questa storia. C’è poi il fatto che
Wikipedia, l'enciclopedia online così affidabile nel 90% dei casi, scrive
apertamente di Base Militare alla voce "Monte Conero". Eccone il testo che
si trova nella parte finale della descrizione, anche se preciso che tutti
possono modificare registrandosi il testo di ogni singolo vocabolo, e questo
deve far riflettere sull'utilità di questo strumento comunque per ora
affidabile:
"La base militare: Tra le località Poggio e Massignano, è presente un
ingresso di quella che era una delle basi strategiche per l'Adriatico. La sua
estensione, principalmente sotterranea, è costituita da grandi gallerie
scavate nella roccia."
E' un fatto rilevante, questo. I turisti che cercano informazioni sul Monte
Conero finiscono inevitabilmente per leggere informazioni su una base che
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ufficialmente non esiste e non è nemmeno visitabile, nonostante la Guerra


Fredda sia finita. Qualcuno potrebbe spingersi oltre e andare a curiosare di
persona, con quali conseguenze non si sa. Wikipedia è un’enciclopedia
affidabilissima, ma mostra a volte di avere conoscenze non condivise da tutti.
Del Monte Conero l’elemento militare pareva fosse confinato alla stazione
in alta quota, sulla cima, per telegrafi militari o ripetitori televisivi, che in
effetti ci sono, come quello della Rai o delle radio private marchigiane. Il
Monte Conero è una zona turistica, paesaggisticamente interessantissima ed
è un parco naturale a tutti gli effetti dal 1987.
Allora ho fatto altre ricerche con questo risultato: su un motore di ricerca
con sede negli USA, "Wolframalpha.com", compare un fantomatico "Conero
Tunnel" di cui viene scritta anche la lunghezza: 1,6 km. Diciamo anche che
il motore di ricerca scrive di altri tunnel importanti che attraversano dei
monti italiani: Gran Sasso Tunnel, Frejus Tunnel e via dicendo. Però il
problema resta che il Monte Conero non può avere e non ha tunnel
ufficialmente. Può trattarsi di un errore degli americani? E’ possibile:
possono cioè confondersi con il tunnel che per gli anconetani è chiamato
"del Montagnolo" perché attraversa, sulla strada Statale, la collina che
sovrasta Ancona che si chiama appunto Montagnola. Il nome del tunnel
dovrebbe essere: tunnel di Pontelungo e la lunghezza è di un chilometro
circa. Siamo anche parecchio distanti dal Monte Conero che è una collina di
nemmeno 600 metri a 20 km da questo tunnel di Pontelungo. Ma se gli
americani fossero stati così precisi e ci fosse realmente un tunnel di cui solo
loro sono a conoscenza e non gli abitanti del capoluogo?
Dalla foto di Google Earth è facile leggere anche un secondo cartello che
indica la cima e fa riferimento al nucleo militare misterioso che opererebbe
nella parte alta, ma non solo: si tratta del “Terzo D.A.I.” Di sicuro ci sono
loro lì sopra; una loro caserma viene segnalata pure nella zona di Sirolo e,
sempre leggendo Wikipedia, non è da escludersi che l’attività di questo
gruppo possa essere portata avanti dentro la pancia del monte.
Quindi, se è vero tutto quello che si narra, l’attività di questo movimento
militare, riferendoci al “Terzo Distaccamento D.A.I.” può essere descritta
come un compito di spionaggio da effettuare attraverso sistemi molto
sofisticati di radar e computer di ultima generazione.
Secondo il sito GrNet.it, che è un organo di informazione indipendente su
difesa, sicurezza e giustizia, il Terzo D.A.I. ovvero il “Terzo Distaccamento
Autonomo Interforze” del cartello sul Conero, apparterrebbe al Centro
Intelligence Interforze e farebbe parte del progetto Echelon Italia, nato nel
14

1947 e utilizzato dagli Usa per spiare i gusti e la vita dei privati cittadini.1
Un progetto totalmente illegale, specificano sul sito GrNet.it, che tuttavia sul
Monte Conero non è detto che oggi sia la stessa Nato a continuare a gestire
direttamente. Però c'è e chissà che quando Berlusconi dice che siamo tutti
spiati non si riferisca proprio a questo.
Tornando al sito GrNet.it l'attività spionistica dell'Interforze detto anche RIS
(che non c'entra con i Carabinieri) sarebbe effettuata con una serie di
strumenti di altissimo livello. A cosa servirebbero? "Computer di ultima
generazione sono la mente operativa – viene specificato -. Software
ultra-veloci in grado di entrare nelle nostre case, ascoltare e registrare le
telefonate, setacciare la posta elettronica e le altre forme di comunicazione
che viaggiano su Internet, aprire e decifrare tutto quanto viene trasmesso
dalle banche dati. Penetrare nel mondo della finanza, svelare i movimenti di
denaro, individuare le scelte strategiche dei gruppi industriali, rivelare
notizie riservate sulle indagini giudiziarie in corso, sui politici sotto
inchiesta, sui boss mafiosi sotto controllo, sui giornalisti ficcanaso".
Quindi spiega ancora il sito che si tratterebbe di "una concentrazione senza
precedenti di informazioni sensibili – inaccessibile ai parlamentari della
Repubblica – gestita da un ramo speciale dei servizi segreti e conservate
senza limiti di tempo. Il sistema – prosegue il documento - è attualmente in
grado di captare e analizzare miliardi di comunicazioni private al giorno
che passano attraverso il telefono, il fax, la rete internet."
I politici italiani non ne sarebbero al corrente, tutto sarebbe gestito da
militari del Sismi al servizio dello Stato Maggiore della Difesa Italiana e,
probabilmente, da elementi della ex loggia P2. Wikipedia dimostra di essere
a conoscenza di questa attività di spionaggio, che è coordinata dal Centro
Intelligence Interforze, da cui si snodano tutti i vari Distaccamenti Autonomi
Interforze compreso quello del Conero. Mette quindi a disposizione degli
utenti le info riguardanti questi siti. Sono presenti in tutto il territorio italiano,
da Lecce a Venezia alla Sardegna, e alcuni risultano chiusi. Sul Monte
Conero invece si parla di tunnel sotterranei presenti fin dall'Ottocento.
Riporto fedelmente il discutibile testo di Wikipedia, discutibile perché non si
capisce l'utilità nel passato non recente di questi presunti tunnel in una zona
impervia, lontana dal capoluogo, Ancona, e da altri centri abitati.
"Sotto il Monte Conero insistono gallerie e basi sotterranee già dalla fine
dell'Ottocento, ampliate per la prima guerra mondiale e per la seconda

1
Cfr: “RIS l’orecchio tecnologico dei servizi segreti italiani. Ecco il grande fratello militare”,
www.grnet.it, 14 settembre 2009.
15

guerra mondiale. La guerra Fredda ha visto un notevole ampliamento della


Base".
C'è anche l'indirizzo esatto della caserma: "Via delle Cave, 80/Bis -
Casermetta "Alfeo Brandimarte" sul Monte Conero tra Località Poggio e
Località Massignano", che dovrebbe essere una zona a breve distanza
dall'imboccatura di questo incredibile e fantomatico tunnel. Un’ipotesi,
come detto, che lascia diversi dubbi. In caso di bombardamento, sia nella
prima come nella seconda guerra mondiale, nessuno avrebbe avuto il tempo
di raggiungere questi luoghi. Però questo è quello che c'è scritto su
Wikipedia, e un dirigente scolastico di Stresa mi ha assicurato che
l'enciclopedia online non sbaglia ed è affidabile. A confermare queste ipotesi
ci sarebbe soprattutto un articolo pubblicato da La Stampa il 23 febbraio
1984 intitolato “Un mistero sotto il Conero”. Il giornalista che firmava
l’articolo, Remo Lugli, scriveva queste parole a proposito del Monte Conero:
“alle falde c’era la grotta degli schiavi, da qualche anno in parte ostruita da
un crollo; e più in alto si aprivano gallerie che in epoca di guerra furono
anche usate come rifugi antiaerei. Da una ventina d’anni questi tunnel sono
passati alla Marina Militare, la quale ha cintato gli ingressi ed eseguiti
lavori interni di ampliamento. Opere segrete ovviamente come ogni cosa
militare.” Lugli proseguiva facendo vaghi cenni a persone che si erano
avventurate in quella zona ed erano misteriosamente scomparse.
Il sito di questa presunta base, riprendendo la parte di Wikipedia relativa ai
Distaccamenti Autonomi Interforze, risulterebbe in attività ancora oggi;
affermazione, questa, che posso confermare personalmente, essendo passato
sulla statale che collega il Poggio con Massignano per andare a rispondere
alle domande dell'attore di Mistero, Marco Berry.
All’inizio del 2012, infatti, sono stato contattato via e-mail dal produttore del
noto programma di Italia 1, Ade Capone. “Abbiamo visto il tuo blog e
vorremmo intervistarti - mi ha detto velocemente tramite il sito
Linkedin.com. Intorno a marzo sarei dovuto andare nella zona del Conero,
dove avevano stabilito la location. Mi avrebbero rimborsato benzina e
autostrada per trasferirmi da Novara. Ho accettato, naturalmente. La cosa
che mi ha colpito è stata che il cast di Mistero, quando ormai era il momento
di “girare” la puntata, si è mostrato molto duro nei miei confronti. Ricordo
che quel pomeriggio sono arrivato nella piazzetta di Sirolo verso le 14, come
mi era stato chiesto da uno dei produttori di Italia 1. In quei minuti stavano
ancora intervistando un anziano signore al Poggio2. Poi sono arrivati anche

2
Vedendo la trasmissione, a maggio 2012, ho capito che questo anziano signore di cui mi
16

da me. Ho firmato un foglio per la liberatoria delle immagini e mi sono


messo davanti alle loro telecamere. C’era tanta gente a vederci. Ero convinto
che quell’esperienza avrebbe lanciato il mio blog verso il successo, che
sarebbe stata un’occasione unica. Ma non è stato così. Marco Berry e
l'autore Ade Capone, anziché ringraziarmi e fidarsi di ciò che gli potevo dire,
mi hanno rimproverato per non aver scavalcato la recinzione della presunta
base del Conero, e inoltre di non aver cercato di rintracciare i testimoni. Il
che è assurdo, perché nessuno me lo aveva chiesto. E poi c'è chi, ad Ancona,
dice che le sentinelle potevano aprire il fuoco nel caso avessi tentato di
scavalcare. Lo scriveva lo stesso quotidiano La Stampa a proposito di tre
presunte spie arrestate nel 1984 perché "curiosavano" alla ricerca dei tunnel.
Tornando alla mia intervista per “Mistero”, questa è poi stata censurata,
forse per la mia vena polemica che sfociava inevitabilmente nella politica,
piuttosto che nella fantascienza come vuole il programma. O forse perché
non volevano realmente intervistarmi, bensì capire quante cose sul Conero
potessi essere arrivato a scoprire. Una censura che, pur essendo un mistero
nel Mistero, mi ha salvato dalla figuraccia: non si è trattato, come avrete
capito, di una classica intervista all'esperto di turno, di quelle che si vedono
in tv, ma di un vero e proprio interrogatorio, o se vogliamo di
un'interrogazione scolastica umiliante. E alla fine non mi hanno nemmeno
rimborsato il viaggio.
Chiusa la parentesi televisiva, torno alle conferme circa la presenza di
checkpoint nella zona del tunnel. E’ molto grave che non vi siano
segnalazioni evidenti (contrariamente a quanto scrivono gli utenti di Yahoo),
perché quella è una zona turistica, dove la gente, anche di Ancona, va a
raccogliere funghi. Passando la sera stessa dell’intervista di Mistero per la
zona dove ora so per certo che nasce l'imboccatura di un tunnel, ho visto un
faro molto intenso illuminare di notte la strada in modo trasversale. Un
fascio di luce bianca che, come ho spiegato telefonicamente all'addetto
stampa delle Forze Armate, Riccardo Rizzotto, mi ha ricordato molto quello
che ho visto in televisione nei documentari sulla morte di Nicola Calipari a
Baghdad, il quale superò il faro di luce bianca e fu ucciso dal tristemente
noto militare statunitense Mario Lozano.
Una piccola curiosità è che, dopo aver superato per la prima volta il presunto
tunnel del Monte Conero, prima di girare l’intervista con Marco Berry, una
spia della mia auto ha cominciato a lampeggiare: era quella dell'emergenza,
avevo infatti la ruota posteriore destra completamente a terra. Mentre ero

parlavano era Americo Zoia, uno degli operai che scavò nei tunnel del Conero.
17

davanti alle telecamere ero preoccupato anche per questo: pensavo a qualche
attentato, o a qualche dispetto. Solo al ritorno ho scoperto che la gomma non
era bucata, ma solo sgonfia. Misteri del Monte Conero, come quello del
Golpe De Lorenzo di cui a puntate uscirono nei decenni scorsi le rivelazioni
o i carteggi militari compromettenti.

Il “Piano Solo” portava ad Ancona

Da alcune indagini d'archivio risulta interessante un articolo del 27 dicembre


1990 de La Stampa. Il quotidiano torinese riportava quel giorno rivelazioni
sul progetto del generale dei Carabinieri De Lorenzo, progetto, diciamo
bellico, noto con il nome di "Piano Solo". Il generale De Lorenzo aveva
infatti, secondo l'articolo, scritto 731 nomi di uomini che considerava nemici
e tra questi vi erano anche giornalisti, politici, e lo scrittore e regista Paolo
Pasolini, morto ammazzato, nel 1975, in circostanze non del tutto chiarite. Il
progetto venne subito accostato alla scoperta di Gladio, un’organizzazione
para-militare che la DC aveva creato nel dopo-guerra. Interpretando oggi
questi articoli si evince come Gladio, vale a dire quello "stay behind" di cui
si scrisse a proposito dell'attività di spionaggio di quelle persone, fosse solo
inizialmente diretta dagli Stati Uniti; i quali ne uscirono proprio nel 1956,
quando dall'altra parte del mondo politico, nell'Urss, il XX congresso del
PCUS decideva di prendere le distanze da Stalin e lo stalinismo.
Dal 1956 Gladio rimase quindi nelle mani della DC la quale ne fece il
proprio cavallo di battaglia della lotta al comunismo. Ma anche allo
stalinismo? Non mi pare chiarito questo punto, visto che lo stesso De
Gasperi in un suo noto discorso al teatro Brancaccio di Roma nel 1944 ebbe
parole di elogio per il capo di Stato Sovietico. Era solo propaganda bellica o
nella DC vi erano simpatie per lo statalismo di Stalin? Il piccolo libro della
DC scritto nel 1953 sembrerebbe escludere questa ipotesi, visto che le spie
comuniste da combattere erano al servizio diretto di Stalin, ma come detto la
data del 1956 è molto importante, quasi uno spartiacque tra due epoche
diverse della lotta al comunismo. I cambiamenti in quel periodo avvennero
anche nel comparto militare e qui c’è un punto fondamentale che permette di
attribuire con buona probabilità i tunnel del Conero alla Gladio della DC, sia
pure con scopi misteriosi. Esisteva infatti anche una Gladio Rossa e se ne
parlò in epoche recenti, nel 1991, dopo uno scoop giornalistico del
settimanale L’Europeo. Non solo era stata formata un’organizzazione
paramilitare del PCI opposta alla Gladio che poi sfocerà nella P2 di Licio
Gelli, ma questa era pronta a contrastare un tentativo di colpo di Stato della
18

destra. Tuttavia la stessa organizzazione comunista fu accertato che negli


anni ’60 era già in corso di smobilitazione e l’ammiraglio Fulvio Martini, ex
direttore del Sismi, ascoltato intorno al 2000 dalla Commissione Stragi del
Parlamento che indagava sul ‘dossier Mitrokhin’, aggiunse un particolare
importante. Egli affermò che il KGB premeva per avere in Italia un partito
comunista molto forte, ma fece sapere che l’URSS non avrebbe mai
permesso al PCI di andare “al potere”, nel quale caso sarebbe intervenuto
prendendo “misure attive”, come una disinformazione operata attraverso
falsi documenti e altri provvedimenti. L’Urss infatti non aveva alcuna
intenzione di violare i patti della Conferenza di Jalta del 4-11 febbraio 1945,
con la quale si stabilivano le zone di influenza delle superpotenze mondiali.
Un atteggiamento che portò ad una strana convergenza di interessi tra est e
ovest e che potrebbe aver dato alla presunta base del Conero i connotati non
propriamente ‘atlantici’ di cui ho parlato3.
Intanto, come dicevo a proposito dell’articolo del 27 dicembre 1990 de La
Stampa, era emerso in tempi recenti questo "Piano Solo". Si trattava di un
vero e proprio tentativo di Golpe da parte del generale dei carabinieri. La
data è casualmente la stessa in cui la Marina Militare, secondo La Stampa,
sarebbe diventata proprietaria dei tunnel del Monte Conero: il 1964. In un
rapporto chiamato, "Rapporto Manes", dal nome di un altro ufficiale dei
Carabinieri, comparivano degli omissis. Uno di questi omissis venne svelato
da La Stampa appunto il 27 dicembre del 1990. Gli "enucleandi", ovvero
questi pericolosi uomini di Stato da deportare, "avrebbero dovuto essere
concentrati nell'aeroporto di Falconara o nel porto di Ancona per poi essere
fatti proseguire per via aerea o via mare per un'isola di cui fu fatto vago
cenno". L'isola venne identificata allora come la Sardegna e la base come
quella arcinota di Capo Marrargiu, luogo di addestramento dei "gladiatori".
Tuttavia suona molto strano questo percorso verso Ancona per poi dirigersi
dalla parte opposta del mare. E se fosse stato il Monte Conero la vera
roccaforte in cui Gladio aveva deciso di "concentrare" i nemici dello Stato?
Nella relazione veniva spiegato che a preparare l'elenco degli "enucleandi"
avrebbe dovuto essere il Sifar mentre a consegnarla all'Arma dei Carabinieri
sarebbe poi stato il Controspionaggio. Il quale Controspionaggio non poteva
non sapere della presenza della Base del Conero, se è vero che nel 1970
andò ad arrestare a Roma la spia Carlo Biasci che stava per consegnare la
mappa con gli impianti Radar del Monte Conero all'Egitto. Un altro omissis
era: "Incontrammo ad Ancona in borghese" ed è il segno che Ancona per chi

3
Cfr: Wikipedia: “La rivelazione de L'Europeo: la ‘Gladio rossa’.”
19

preparava il "Piano Solo" aveva molta importanza.


O magari Ancona, e il Conero, erano solo uno dei tanti di questi luoghi
strategici. Tra gli altri, adibiti a depositi o, si disse, nascondigli per armi di
Gladio, ce n'è uno nella zona di Verbania, dove il sottoscritto leggeva il
telegiornale nel 2009; il piccolo luogo si trova sui monti a quota 1200-1300
metri a Trarego Viggiona. Un tunnel, anche questo, scavato si disse negli
anni ‘60 o forse molto prima, durante il primo conflitto mondiale. Se ne
parlò nel 1996 su La Stampa: dagli articoli pare di capire che nel tunnel
erano conservate sostanze sospette, forse radioattive, ma non fu mai stabilito
con certezza e la cavità venne richiusa. La storia assunse contorni ancora più
oscuri nel 1998, quando colui che segnalò la presenza di materiale
radioattivo, l’assessore Caretti, venne denunciato per procurato allarme e poi
solo multato.
Addentrandoci a questo punto nell'analisi del tentativo di Golpe di De
Lorenzo si torna a parlare della DC quale partito che più di tutti aveva
qualcosa da nascondere ad Ancona.
Nel rapporto del generale dei carabinieri Manes, che nel 1968 tanto fece
discutere i parlamentari visto che forniva la prova di un tentato golpe, ho
detto che c'erano degli omissis. Il quotidiano L'Unità pubblicava il
documento integrale il 14 gennaio 1968, documento sul quale tornò molti
anni dopo anche La Stampa, come vi ho riferito, in quel famoso 27 dicembre
1990. Perché sono importanti questi omissis? Perché si era tentato di coprire
una parte di questo piano di colpo di Stato. Un piccolo colpo di scena, per
me che arrivo tanti anni dopo a scoprire questo fatto, è che a imporre gli
omissis era stato l'onorevole Aldo Moro, della Democrazia Cristiana.
L'accusa partì da un altro onorevole, più famoso oggi come giornalista
(conflitto di interessi?), Scalfari, il quale nella seduta della Camera del 22
luglio 1968 ebbe una discussione significativa proprio con il deputato poi 10
anni dopo rapito e ucciso dalle Brigate Rosse. Sentiamo cosa scriveva il
giorno dopo il quotidiano molto preciso e imparziale La Provincia di
Cremona. "Scalfari è passato poi ad attaccare duramente l'onorevole Moro
per aver questi consentito i famosi ‘omissis’ nel rapporto Manes per la
tutela del segreto militare. Si è trattato - ha affermato Scalfari - di un vero e
proprio abuso di potere, un reato per il quale potrebbe essere posto in stato
di accusa". Riporterei anche la risposta di Almirante del MSI, il quale
ribatteva così a Scalfari: “Il neodeputato Scalfari ignora che la
responsabilità dei membri del governo è collegiale e non singola del
presidente del consiglio”.
Personalmente concordo, sia pure dopo 45 anni, con Scalfari. Quello era un
20

fatto grave o se vogliamo da approfondire, perché non si capisce cosa


l’onorevole Moro avesse da nascondere nel capoluogo marchigiano. Traduco
cosa ha fatto Moro con quegli omissis. Il massimo rappresentante di allora
della DC non voleva che gli italiani sapessero che, tra le altre cose, i golpisti
avrebbero voluto portare i deportati, detti "enucleandi", nel porto di Ancona
oppure all'aeroporto di Falconara. Per poi trasferirli in un'isola ignota anche
al generale Manes, colui che scriveva il suo resoconto dell'indagine interna.
Se fosse il Monte Conero nessuno può dirlo.
Tra le altre richieste di Scalfari, quel giorno di luglio 1968, c'era quella di
conoscere la verità sulla morte di un colonnello dell'esercito, Renzo Rocca
detto Pino Renzi, anche lui come i golpisti di De Lorenzo legato al
controspionaggio Sid. Dall'articolo de La Stampa del 22 febbraio 1976, che
ripercorreva tutta la storia del controspionaggio Sid dalle origini,
emergevano dettagli sulla morte del colonnello Rocca. Francesco Fornari, il
giornalista che firmava l'articolo, scriveva: "In uno di questi uffici di
copertura aveva lavorato per un certo tempo uno dei più famosi personaggi
del Sifar, il colonnello Rocca, che, ormai in pensione, era morto in
circostanze poco chiare quando venne scoperto, nel 1966, che il servizio
informazioni forze armate aveva "schedato" decine di migliaia di cittadini
italiani".
Il colonnello Rocca era morto ufficialmente sparandosi un colpo di pistola
alla tempia e il fatto che la stanza fosse stata trovata chiusa dall'interno
indusse gli inquirenti a pensare al suicidio, tuttavia rimasero molti dubbi
legati al fatto che sul luogo del fatto si erano precipitati uomini del Sid (l’ex
Sifar), i quali avevano a lungo interferito con le indagini.
E' un giallo che ho voluto ricordare perché questo militare, che è morto il 27
giugno 1968, aveva scoperto ciò che anche io sto riportando in questo
articolo, ovvero che molti italiani sarebbero stati spiati dai servizi segreti del
Ministero della Difesa. In questa mia ricerca riporto del progetto Echelon
Italia, Rocca morì quattro anni dopo il fallimento del golpe De Lorenzo. In
tutti e due, e non solo qui, c'era di mezzo il controspionaggio Sid.
Uno dei comandanti di questo Sifar, di cui faceva parte il colonnello Rocca,
si chiamava Giovanni Allavena ed era un generale dei Carabinieri. Un’altra
coincidenza vuole che costui fosse nel 1956 capo del controspionaggio di
Ancona quando, chiamato a Roma da De Lorenzo, divenne il responsabile di
quella schedatura degli italiani che arrivò a raccogliere dossier spionistici su
ben 157mila persone. Allavena partecipò poi al progetto di golpe fallito nel
21

1964.4
Sono tutte storie vecchie ma che possono ricondurre a una sorta di storia
militare del Monte Conero, il quale nel suo interno può nascondere altri
segreti di una guerra che non è stata mai combattuta ufficialmente.

Una spia della Rau sul Monte Conero

Non dovrebbe esserci altro che turismo sul Monte Conero e invece nel 1973,
esattamente il 9 febbraio, i misteri che si nascondono nel Conero portarono a
una condanna a ben 11 anni di carcere. Colpevole per il reato di spionaggio
militare fu un uomo nativo della Toscana, Carlo Biasci, rimasto noto per
questo episodio come "spia della Rau", il quale, lavorando a Monfalcone
come archivista dei Cantieri Navali della "Navalgenarmi", pare avesse
sottratto alla sua azienda documenti inerenti non solo alla costruzione di navi
da guerra della Marina, ma, fatto che l'uomo non riuscì a giustificare davanti
ai giudici, anche a informazioni sull'impianto della stazione Radar del Monte
Conero.
La storia iniziò nel 1970, il 10 marzo, con l’arresto in flagranza di reato della
spia alla stazione Termini di Roma. Arresto che fu effettuato dal servizio di
controspionaggio Sid. L'uomo era appena sceso dal treno, pare, e avrebbe
consegnato una valigetta con i documenti segreti ad un intermediario, per
fornirli all'Egitto e quindi alle Nazioni Arabe. Su La Stampa la notizia
veniva data il giorno 11 marzo a pagina 2 di spalla. Il titolo di questo ampio
servizio era: "Caso di spionaggio all'Italcantieri".
Avrebbero fatto da tramite con gli Arabi un interprete e un esponente
dell'ambasciata egiziana a Roma, tale Hamid Mohamed Helmy. La notizia
veniva riportata il 3 agosto 1971 anche dal giornale della Svizzera Italiana,
Libera Stampa, il quale riportava dell'indagine aperta dalla "magistratura"
sul "sottufficiale" italiano per spionaggio in favore dell'Egitto avendo fornito
"piani di costruzione di vascelli militari italiani". Questo Carlo Biasci aveva
all'epoca cinquant'anni, era sposato e aveva due figlie. Un uomo che da 25
anni secondo La Stampa lavorava ai Cantieri di Monfalcone ed era molto
stimato. Il compito che gli era stato affidato era molto prestigioso: doveva
gestire l'archivio dove venivano depositati i progetti e i disegni delle navi
militari. Biasci viaggiò spesso verso l'Egitto e questo, scriveva La Stampa,
aveva destato i sospetti del controspionaggio Sid. Vi era anche un interprete
il quale lavorava a Roma e avrebbe fornito le preziose notizie in possesso di

4
Cfr: La Repubblica del 27 settembre 1991: “E’ morto Allavena, l’uomo dei fascicoli Sifar.”
22

Carlo Biasci all'ambasciata egiziana. Qui i documenti pervenivano


all'addetto militare Helmy. Quando ai primi di marzo Biasci si recò
nuovamente a Roma trovò ad aspettarlo le spie del Sid che lo arrestarono e
gli trovarono addosso documenti compromettenti, un preventivo del suo
compenso e una macchina fotografica "Minox", in grado di scattare
fotografie a dei documenti alla luce di una lampadina. Questo misterioso
colonnello Helmy, destinatario finale dei documenti, riuscì invece a
dileguarsi in tempo per evitare l'arresto e sarebbe tornato al Cairo. Secondo
il resoconto de La Provincia di Cremona, che quell’11 marzo 1970 usciva
con un titolo simile a La Stampa: "Spionaggio all'Italcantieri", questo Helmy
era "addetto navale e aeronautico dell'Ambasciata della Repubblica Araba
Unita". Viveva a Roma, con la moglie e due figli, in via Cattaro nel quartiere
Trieste fin dal 28 gennaio 1967. Il quotidiano lombardo forniva ulteriori
dettagli sulle indagini, svolte, mi viene da dire pur se da profano della
giurisprudenza, in modo singolare: sarebbe stato lo stesso controspionaggio,
oltre che ad arrestare il dottor Biasci, a far aprire un'inchiesta alla Procura
della Repubblica di Roma. A ricevere le informazioni del Sid fu il
procuratore Augusto De Andreis. Questi analizzò i documenti e girò la
pratica al sostituto procuratore Mario Bruno, che avrebbe dovuto nei giorni a
venire occuparsi dell'interrogatorio della spia di Monfalcone. Secondo La
Provincia, Biasci era stato ufficiale dell'esercito e aveva partecipato nella
seconda guerra mondiale alle campagne dei reparti del Medio Oriente e nord
Africa. Gli uomini del Sid arrestarono Biasci e non lo mollarono fino a
quando non fu rinchiuso in una cella di isolamento del carcere di Regina
Coeli.
La storia proseguì e la nuova puntata andò in scena il 2 agosto 1971 quando
uscirono altri articoli di giornale. Il sostituto procuratore Mario Bruno aveva
ora tra le mani le prove che Carlo Biasci era una spia e stava fornendo alla
Rau, cioè alle Repubbliche Arabe Unite, dei documenti riservati. Fu in
questa occasione che su La Stampa uscì la notizia che coinvolgeva la zona di
Ancona. Carlo Biasci aveva nella sua valigetta "lo schema della stazione
radar di Monte Conero". Andando con ordine, cosa era successo quel giorno?
Che Mario Bruno aveva chiesto al giudice istruttore Antonio Alibrandi il
rinvio a giudizio di Carlo Biasci. Le accuse nei suoi confronti erano:
"Spionaggio militare, tentata rivelazione di segreti di Stato e notizie di cui è
vietata la divulgazione". I reperti trovati dagli uomini del Sid furono
analizzati da esperti del Ministero della Difesa i quali accertarono che nella
famosa valigetta c'erano carte molto dettagliate, come "il disegno
particolareggiato di una nave avviso-scorta tipo 'Centauro' con i dettagli
23

concernenti lo scafo, l'impianto elettrico, l'apparato motore, le mitragliere e i


radar".
Sto riportando tutti questi dettagli per capire meglio quali segreti celasse il
nostro paese all'epoca e perché fossero così preziosi per una spia che volesse
rivenderli all'estero. E quindi è molto importante la frase che troviamo a
metà dell'articolo de La Stampa di quel 2 agosto 1971. Biasci stava per
consegnare al colonnello Helmy anche "lo schema del quadro di
smistamento dei cavi d'antenna e sintonizzatori della stazione radar del
Monte Conero, nei pressi di Ancona". C'era quindi come abbiamo visto
anche una precisazione sulla località. Non ci siamo sbagliati, il Monte
Conero così prezioso per i militari è proprio quello vicino al capoluogo
marchigiano. Biasci nell'interrogatorio non negò di avere quei documenti,
ma sostenne che stava cercando di convincere la Rau a costruire navi a
Monfalcone. Ma ecco perché riveste importanza in questo processo il Monte
Conero: fu l'unico elemento che la spia della Rau non riuscì a spiegare nel
suo tentativo di difesa. Perché, se voleva far costruire navi a Monfalcone,
alla Rau stava cedendo lo schema dei radar del Monte Conero? La domanda
restò senza risposta e dal momento che il Sid aveva seguito a lungo anche
attraverso intercettazioni telefoniche il Biasci, la condanna per la spia fu
praticamente certa.
Ho fatto una piccola ricerca per capire cosa fossero esattamente questi
"schemi radar" di cui la spia di Monfalcone era entrato in possesso. Pare che
questo "quadro di smistamento dei cavi d'antenna" servisse a indicare come i
cavi che provengono dall'antenna si collegano ai sintonizzatori. In pratica in
questo modo si potrebbe selezionare il canale scelto tra tutti quelli trasmessi
in contemporanea. E' possibile, quindi, che Carlo Biasci volesse far costruire
all'Egitto delle navi in cui fosse possibile capire come evitare di essere
"selezionati" dal sistema di radar del Monte Conero. Intanto per la nostra
spia, Carlo Biasci, il processo arrivò a fine settembre di quel 1971 e il primo
ottobre La Stampa annunciava il suo rinvio a giudizio. Nel piccolo
articoletto c'era una precisazione su queste navi da guerra che l'Egitto
avrebbe costruito grazie a Biasci. Sarebbe nato il "primo mercantile a
propulsione atomica", su cui stava lavorando proprio la Navalgenarmi di
Monfalcone. Si sarebbe dovuta chiamare “Enrico Fermi”, una nave a
propulsione atomica che mai vide la luce in Italia a causa del mancato arrivo
di questo propulsore nucleare per il veto degli Usa.
Una commessa militare che sarebbe stata molto costosa e preziosa, tanto che
lo scambio della valigetta secondo La Stampa sarebbe avvenuto con la
consegna da parte della spia della Rau di uno scontrino nelle mani di un
24

colonnello dell'ambasciata egiziana; ma a questo punto la cronaca si fa un


po' confusa. Subentra il nome di un altro colonnello, che avrebbe lavorato
sempre come addetto navale e aeronautico per la Rau, tale Adam Bey.
Potrebbe trattarsi dell'interprete che avrebbe fatto da tramite, tant'è che
questo scontrino del deposito bagagli della stazione Termini, in cui sarebbe
stata depositata la valigetta famosa di Biasci, il colonnello Bey lo avrebbe
dovuto raccogliere con tutta calma in seguito. Invece intervenne il Sid, ma
anche qui c'è una modifica, perché il Sid ora nella cronaca de La Stampa
sono i "carabinieri", i quali avrebbero impedito al Biasci di portare a termine
lo scambio di valigetta. Anche il Corriere della Sera il giorno dell’arresto
della spia parlava proprio di carabinieri del Servizio Informazioni della
Difesa, i quali, quindi, avrebbero operato per difendere i radar del Monte
Conero, sequestrando una valigetta contenente documenti che il giornale
svizzero Popolo e Libertà, in un articolo del 3 agosto 1971, definiva “Top
Secret”.
Il processo seguì a questo punto il suo corso e la condanna fu molto dura,
anche se il massimo previsto per quei reati era addirittura di 30 anni di
carcere. Il 9 febbraio del 1973 su La Provincia di Cremona usciva un
articolo abbastanza esauriente sull'accaduto. Titolo: "L'archivista Biasci
condannato per spionaggio a favore della Rau". E, come detto all'inizio, la
spia si prese ben 11 anni di carcere. Dopo che il giudice istruttore Eugenio
Fusco ebbe raccolto le richieste del sostituto procuratore Mario Bruno, il
giudice, pur ritenendo il Biasci colpevole, gli riconobbe le attenuanti
generiche e il minimo della pena per la "lieve entità del fatto". La Provincia
di Cremona confermava in quel 9 febbraio 1973 che l'arresto avvenne il 3
marzo 1970 e ad effettuarlo erano stati gli uomini del "servizio informazioni
della Difesa". Veniva anche ribadito che l'uomo aveva in mano "notizie
dettagliate sui nostri impianti radar". Al momento della condanna Biasci era
da 15 giorni in libertà provvisoria.
La storia negli archivi sembra finire qui, non c'è traccia di appello, né di
cassazione. Stupisce anche che in un fatto raccontato in modo così
minuzioso da contenere persino i nomi delle vie in cui abitavano gli indagati
non si faccia riferimento a un avvocato difensore di Carlo Biasci.
Mi porrei un'altra domanda: si può dire che questo episodio possa avere dei
riflessi sulla politica internazionale del nostro paese? Io direi proprio di sì,
perché è la prova che il Monte Conero non è servito, negli anni della Guerra
Fredda, solo come groviglio di gallerie utilizzate come deposito di armi
tradizionali, per usare le parole dello scomparso sindaco di Ancona degli
anni ‘80 del partito Repubblicano di Spadolini Guido Monina, bensì era una
25

stazione militare a tutti gli effetti, che poteva intercettare movimenti aerei,
come di terra e di mare, almeno in teoria. Un'altra domanda che mi pongo è:
l'Aeronautica Militare Italiana ne era al corrente? Ne era al corrente il
Governo Italiano quando cadde il DC9 nel 1980 e si cercarono
disperatamente i tracciati radar alla ricerca di una prova sul presunto
abbattimento dell'aereo civile? Tracciati radar di cui recentemente si è
parlato su Il Resto del Carlino poco prima della sentenza del giudice di
Palermo di condanna dello Stato Italiano a pagare l'indennizzo ai parenti
delle vittime.
E oggi è ancora attivo questo radar? Ritengo che questo sia assolutamente
possibile, visto che si parla di sorveglianza armata della base, ma a cosa
servirebbe? Le nazioni di frontiera ormai, anche se non sono inserite
nell'area Euro, sono nazioni al riparo da guerre e da regimi dittatoriali quali
il Comunismo. Nel 2000 è nato un organismo internazionale di cooperazione
nel controllo delle acque del mar Adriatico, che coinvolge tutte le nazioni
"rivierasche". Sono stato presente come inviato stampa ad una di queste
conferenze nel 2000 o nel 2001.
Un’altra domanda è: da quanto tempo sarebbero attivi questi radar? Andando
a cercare delle analogie con l'incredibile storia della Spia della Rau spunta
un altro episodio isolato e stranissimo, che si era verificato nel 1953 e veniva
documentato da L'Unità. Era il 26 marzo 1953. Un maxi-sequestro della
polizia aveva colpito in questo caso il mondo dell'arte: alcuni pittori avevano
diffuso, con le loro opere esposte in una "mostra dell'arte contro la barbarie",
dei segreti militari. In mezzo a queste accuse ci finì al processo anche la
stessa L'Unità per degli articoli di Fausta Cialente a proposito di
"installazioni militari nel porto di Augusta e sul Monte Conero". Il sospetto
immediato è stato che la giornalista autrice di questa cronaca giudiziaria
volesse dire Montetauro, un quartiere di Augusta. Tuttavia va ricordato che
promotore di quella crociata contro il cosiddetto “Culturame” fu il
democristiano Mario Scelba, che secondo alcuni sarebbe il firmatario
dell’accordo bilaterale con gli Usa, stipulato pochi mesi dopo (ottobre 1954)
per la costruzione di una presunta base segreta nel Monte Conero.
Tornando ancora indietro nel tempo, a leggere gli articoli de La Stampa
emerge che nel 1933 il Monte Conero fosse ancora amato dagli anconetani
che si recavano senza paura fin sulla vetta ad ammirare le "belle aurore
dalmate". Che bello sarebbe stato poter vedere la Jugoslavia da casa nostra
anche ai tempi di Tito, ma forse questo fu il motivo per cui quel luogo, nel
dopoguerra, divenne sempre più estraneo alla vita quotidiana della città
principale delle Marche. Chi si fosse recato in quelle zone avrebbe inoltre
26

trovato, forse, anche i resti dei monaci del 1600 che pare andassero ad
attendere la morte in quelle grotte.
Mi auguro personalmente che si possa aprire un museo storico della Guerra
Fredda e che la gente possa dimenticare tutte le brutte storie, illazioni,
leggende su eventuali missili, armi batteriologiche e armi chimiche (fonte La
Stampa del 1984). Questo non tanto perché fu già il sindaco Monina a
smentire le armi batteriologiche (che brutta questa parola mi viene in mente
Saddam Hussein), ma perché oggi dai giornali di Ancona e d'Italia è sparita
anche la smentita stessa. E intanto ufficialmente la gente sul monte pare ci
possa andare lo stesso. Ecco, è una delle tante contraddizioni italiane del
dopoguerra.

Il Monte Conero al centro della crisi del Medio Oriente?

Ciò che appare sempre più certo è che il monte Conero nel 1970 finì al
centro di una vicenda di spionaggio di livello internazionale. Non fu solo La
Stampa, infatti, a parlare dei radar del Conero a proposito dei documenti
della spia Carlo Biasci, ma l’elenco comprendeva, da quello che emerge
dagli archivi, molti altri giornali: Il Messaggero, Il Tempo e soprattutto Il
Piccolo di Trieste. La notizia secondo cui Biasci aveva con sé, in quella
famosa valigetta sequestrata dal Sid il 3 marzo 1970 alla stazione Termini, lo
schema degli impianti radar del monte Conero diventò di dominio pubblico
solo tra agosto e ottobre 1971, nel momento in cui il sostituto procuratore
Mario Bruno chiese e ottenne il rinvio a giudizio per la spia della Rau.
Questa storia si snoda attraverso alcune date ben precise. Vediamole
ripartendo dall’antefatto: intorno all’11 marzo 1970 uscì su tutti i quotidiani
la notizia che alcuni giorni prima il Sid aveva arrestato a Roma un
dipendente della Navalgenarmi, che altro non era che il reparto militare
dell’Italcantieri. Il quotidiano maggiormente interessato a questa storia era Il
Piccolo di Trieste, poiché Carlo Biasci viveva in quel momento a
Monfalcone, in via Vespucci 6 con la moglie Norma Nonino di 47 anni
(Biasci al momento dell’arresto ne aveva 50) e due figlie, Giulia e Liliana di
26 e 24 anni. La notizia dell’arresto venne data in prima pagina con
amplissimo risalto e due articoli, il primo dei quali era a firma di Roberto
Perugini, con la foto della spia e il chiaro riferimento al posto di lavoro del
Biasci. Si trattava di un posto molto delicato quale l’impiego come
archivista alla Navalgenarmi. Il racconto di Perugini è molto dettagliato ma
non offre nulla di nuovo rispetto a ciò che avevamo appreso dagli altri
quotidiani. Sembra che Biasci, quando il Sid lo arrestò alla stazione Termini,
27

si difese parlando di un doppio gioco che avrebbe attuato per far cadere in
trappola le spie della Rau. Ma questa versione pare che cadde molto presto,
quando il Sid gli offrì di collaborare e lui finì per contraddirsi. Più
interessante il secondo articolo in cui Fulvio Fumis provava a tracciare per Il
Piccolo un profilo della spia di Monfalcone. Emerge in maniera più
dettagliata il ruolo della Navalgenarmi presso la quale Carlo Biasci avrebbe
lavorato dal 1953: era “in pratica l’ufficio della Marina Militare – così
descriveva Fumis la Navalgenarmi – che elabora i progetti delle costruzioni
navali. Un ufficio che è cresciuto d’ importanza con lo sviluppo del cantiere,
con la ricostruzione della nostra flotta e soprattutto con la ripresa delle
costruzioni di unità subacquee.”
Biasci doveva quindi aver visto molti documenti riservati e accadde così che
“una persona semplice, con un impiego apparentemente insignificante”
destasse “l’interesse di coloro che vogliono penetrare segreti dai quali sono
rigorosamente esclusi i ‘non addetti ai lavori’.” “Né in queste operazioni di
spionaggio ci si può rivolgere, di solito, a persone troppo in alto. Sono gli
uomini come Carlo Biasci che possono tornare utili: né troppo importanti né
troppo umili, passano quasi sempre inosservati.” E’ una descrizione, quella
di Fumis del Piccolo, che ci fa capire bene come la spia avesse un passato
molto più avventuroso di quanto il suo aspetto forse poteva far pensare.
Originario della Toscana, da giovanissimo aveva seguito il padre a
Casablanca e qui imparato l’arabo, che gli tornò utile in seguito, quando,
combattuta la seconda guerra mondiale in Medio Oriente e mostrato il suo
patriottismo a Monfalcone nel circolo “Italia”, nel 1968 pare che incontrò un
suo vecchio compagno di scuola che lavorava all’ambasciata del Marocco.
Qui la sua vita di modesto archivista della “Navalgenarmi” sarebbe cambiata
e Biasci avrebbe preso contatto con alcuni emissari della Rau. Questi ultimi
del resto erano a conoscenza dell’importante attività di costruzione militare
della “Navalgenarmi” e ne erano incuriositi. Così Carlo Biasci sarebbe stato
il tramite di un passaggio di documenti e progetti per navi militari, ma tutto
finì quando 14 agenti del Sid andarono ad arrestare la spia alla stazione
Termini. Ne seguirono gli interrogatori sia di Biasci sia della moglie
chiamata d’urgenza a Roma.
Il vero mistero sembra stia proprio nei documenti che il Sid avrebbe
sequestrato nella valigetta. Secondo la versione difensiva del Biasci del
doppio gioco, la valigetta non doveva contenere che finti progetti modificati
ad hoc dalla presunta spia per ingannare gli egiziani. Erano ipotesi
interessanti ma che nascevano quando ancora vigeva il riserbo degli
inquirenti. Vedremo come poi questa versione venne smentita dai fatti
28

successivi.
Stiamo dunque seguendo la vicenda della Spia della Rau dalle colonne de Il
Piccolo di Trieste, il quale tra l’11 e il 12 marzo trattava in modo
approfondito i fatti sconvolgenti della Navalgenarmi. Ma se il giorno 11 era
stato quello del lancio a tutta pagina dello scandalo, il 12 ci si affrettava a
smentire e gettare acqua sul fuoco delle polemiche. Ecco infatti il titolone di
quel giorno della cronaca nazionale: “La vicenda dell’archivista spia
considerata chiusa a Monfalcone”. Era il giorno delle smentite, come quella
secondo cui la Navalgenarmi non avrebbe avuto alle sue dipendenze alcun
Carlo Biasci, il quale invece lavorava per l’Italcantieri. Ma anche qui
nessuno all’indomani della notizia mostrava interesse per l’archivista, e lo
segnalava Il Piccolo in un approfondimento di cronaca locale. Titolo della
cronaca di Trieste era quel giorno: “L’uomo arrestato per spionaggio non è
alle dipendenze dell’Italcantieri”; all’interno la cronaca di una riunione di
questa azienda di Monfalcone, la quale smentiva categoricamente di
discutere circa la sorte di Biasci, bensì di aver programmato questo incontro
di routine da tempo. “Il riserbo è evidente” – commentava il giornalista de Il
Piccolo, riportando le laconiche parole dei colleghi dell’archivista – “tutto
quello che sappiamo lo abbiamo appreso stamane dai giornali. L’uomo che
sarebbe stato arrestato a Roma non è nostro dipendente. Possiamo anche
assicurare di non aver avuto alcuna comunicazione che un nostro dipendente
sia stato tratto in arresto. Né, d’altro canto – proseguiva la nota
dell’Italcantieri – abbiamo nessun assente ingiustificato. Questo è tutto
quello che noi possiamo dichiarare. Purtroppo questa vicenda è avvenuta –
sempre stando alle notizie dalla capitale – in un momento particolarmente
delicato per noi, come può essere quello rappresentato dalla riunione ad alto
livello che è tuttora in corso, e nella quale si parla di problemi che nulla,
assolutamente nulla, hanno a che fare con questo asserito caso di
spionaggio”.
Il 12 marzo era però anche il giorno di alcuni clamorosi retroscena che
andrebbero messi a confronto con i fatti successivi. Il mistero come
dicevamo sta proprio in quella famosa valigetta portata da Biasci alla
stazione Termini e lasciata al deposito bagagli affinché potesse essere
prelevata dall’addetto dell’ambasciata egiziana. Cosa poteva contenere?
Fulvio Fumis su Il Piccolo scrisse che la spia aveva preso il treno
direttissimo delle 22.57 che da Monfalcone portava a Roma. Era la sera del
2 marzo 1970. Pare fosse trapelato già nell’ambiente dell’Italcantieri il fatto
che il Sid stava tenendo sotto controllo l’archivista e che quindi in quella
valigetta di tipo diplomatico un dirigente avesse fatto in tempo a mettere
29

documenti privi di valore. Ma la voce di un’indagine del Sid avrebbe anche


impedito a questi ultimi di far arrestare l’uomo dell’ambasciata egiziana:
questo Hamid Mohamed Helmy, colonnello addetto militare dell’ambasciata
dell’Egitto che risiedeva in affitto in via Cattaro 28 e sulle cui vicende Il
Piccolo aveva dato ampio spazio il giorno 11 marzo 1970. In un’intervista la
signora Gabriella Dotti, moglie dell’ingegner Dotti a cui l’emissario
egiziano si era rivolto per avere un appartamento a Roma, parlava di questo
Helmy come di un uomo distinto che diceva di essere stato inviato da
un’agenzia d’affari e che parlava attraverso un segretario che conosceva
bene l’italiano; e che se ne andò all’inizio di febbraio 1970 senza lasciare
debiti. Sono particolari importanti anche questi, poiché nei mesi successivi
le cronache parlarono non più di un colonnello Helmy bensì di un certo
Adam Bey quale addetto dell’ambasciata della Rau. L’ipotesi che questo Bey
potesse coincidere con l’interprete a cui Biasci avrebbe dovuto far
riferimento pare tramontare leggendo sempre Il Piccolo di Trieste, il quale
affermò l’11 marzo 1970 a proposito di questo interprete che si trattava di un
cittadino italiano di cui si ignorava il nome.
Nei servizi giornalistici del 12 marzo 1970 spiccavano come si diceva le
smentite e l’incredulità di quanti conoscevano Carlo Biasci, a partire dai
colleghi, i quali dichiaravano a Il Piccolo che “la persona del Biasci, la sua
vita semplice, le sue idee, non potevano dare adito al minimo sospetto.” La
vita del Biasci, del resto, prima che questi fosse inserito nel reparto della
Marina della Navalgenarmi, era stata attentamente passata al setaccio in una
indagine interna.
Che cosa avrebbe dunque spinto questo uomo così insospettabile a fornire
notizie segrete alla Rau? Secondo Fulvio Fumis dietro di lui si sarebbero
nascosti interessi di alto livello per i progetti militari della Navalgenarmi,
interessi in particolare della Rau per un certo di tipo di navi da guerra a
propulsione nucleare e questo già lo avevamo appreso da La Stampa. Grande
interesse avrebbe suscitato la costruzione in Italia della nave Enrico Fermi,
che sarebbe stata dotata di un propulsore nucleare a cui l’Egitto era
particolarmente interessato. Il particolare secondo me interessante emerge
dall’altro articolo che il giorno 12 marzo compariva di spalla nelle pagine
nazionali de Il Piccolo. Biasci non stava vendendo all’Egitto disegni tecnici
di motori italiani, “si tratterebbe – scriveva Perugini – del segreto più segreto,
del frutto di anni di ricerche e di esperienze”. Sembra di capire perciò che
questo propulsore nucleare non fosse di provenienza statunitense come
leggiamo oggi online, bensì dovesse essere proprio ideato e costruito dai
tecnici militari italiani e di qui il grande clima di sospetto intorno ai
30

movimenti del Biasci che avrebbero portato all’indagine del Sid.


Perché allora quando il processo prese il via e arrivarono le accuse ufficiali
del sostituto procuratore Mario Bruno non ci furono ulteriori
approfondimenti da parte dei quotidiani che invece sembra abbiano solo
copiato l’agenzia Ansa?
Dicevo delle date di questa vicenda. Dal 12 marzo 1970 si passa
direttamente alla richiesta di rinvio a giudizio per Carlo Biasci che uscì sui
giornali il 2 agosto 1971. Su Il Piccolo, ma pure su Il Mesaggero e su Il
Tempo, giornali di Roma, che è il luogo in cui si erano svolti i fatti,
comparve per la prima volta il riferimento al Monte Conero. L’archivista
dell’Italcantieri in quella valigetta aveva documenti importanti. Era caduta la
versione difensiva del doppio gioco, eppure non veniva specificato se quei
documenti fossero effettivamente autentici. Contavano a questo punto della
storia le prove della colpevolezza del Biasci il quale avrebbe consegnato
all’addetto dell’ambasciata egiziana “progetti per la costruzione di navi
destinate alla Marina Militare Italiana – è la versione che uscì su Il
Messaggero il 2 agosto 1971 – ed altre notizie che dovevano rimanere
segrete nell’interesse della sicurezza dello Stato. Tra l’altro – proseguiva Il
Messaggero – nella valigia di Carlo Biasci c’era il disegno particolareggiato
di una nave avviso-scorta tipo “Centauro” con i dettagli concernenti lo scafo,
l’impianto elettrico, l’apparato motore, le mitragliere e il radar. E c’era anche
lo schema del quadro di smistamento dei cavi antenna e sintonizzatori della
stazione radar di Monte Conero (Ancona).” Queste notizie comparvero
anche su Il Tempo il giorno 4 ottobre 1971 nell’articolo di Marcello
Lambertini intitolato: “In Assise la spia di Monfalcone che rivelava segreti
agli egiziani”. Era il giorno del rinvio a giudizio dell’archivista
dell’Italcantieri il quale veniva specificato finalmente che era difeso
dall’avvocato Domenico Cassone. Alla fine del pezzo ecco di nuovo il
riferimento al Conero: “Inoltre nella valigia sequestrata furono trovati anche
gli schemi relativi alla stazione radar di Monte Conero. Il che – precisava
Lambertini su Il Tempo – ha dimostrato al giudice istruttore Antonio
Alibrandi la infondatezza delle argomentazioni difensive.”
Lo stesso giorno usciva anche su Il Piccolo di Trieste questa notizia presa
dall’Agenzia Ansa con l’incredibile collegamento tra le attività di
costruzioni militari della Navalgenarmi e “lo schema dell’impianto radar
installato sul Monte Conero, nei pressi di Ancona.” Ma era anche il giorno in
cui si iniziava a parlare di questo nuovo addetto dell’ambasciata egiziana
Adam Bey, al quale Carlo Biasci aveva tentato di trasferire i documenti
presenti nella valigetta. Qui i difensori dell’archivista erano due: Domenico
31

Cassone e Giuseppe Lanzieri. Era cambiata, forse su loro consiglio, anche la


versione difensiva che Biasci forniva agli inquirenti. Egli pare che cercò di
intrattenere buoni rapporti con la Rau non più per un fantomatico doppio
gioco bensì per fornire alla sua azienda una commessa di navi militari da
parte degli egiziani. Tuttavia l’ipotesi difensiva non convinse il giudice
Alibrandi il quale lo rimandò al processo. La sentenza come sappiamo fu per
l’archivista di condanna a 11 anni di carcere.
Pochi i dettagli sulla sentenza di primo grado anche da Il Piccolo, il quale in
questo caso pubblicava la notizia in fondo alla pagina in un piccolo articolo
intitolato: “Undici anni alla spia di Monfalcone”. L’accusa esatta fu “di
procacciamento continuato e di divulgazione continuata di notizie di cui era
vietata la pubblicità.” A nulla valsero le parole degli avvocati del Biasci che
erano diventati tre: Domenico Cassone, Giuseppe Lanzieri e Giuseppe
Giansi, i quali secondo Il Piccolo poterono solo presentare appello per
questa sentenza bloccando “l’esecutività della pena”. Carlo Biasci nella sua
valigetta secondo questa versione avrebbe avuto documenti autentici a tal
punto da dover essere una dimostrazione della bontà del lavoro svolto
dall’Italcantieri. Scopo della consegna all’Egitto dei documenti veniva
confermato che sarebbe stato quello di ottenere per l’Italcantieri una
commessa per la costruzione di navi da guerra e l’intermediario sarebbe
stato Hamid Mohamed Helmy, addetto dell’ambasciata dell’Egitto che
dunque ricompariva al posto di Adam Bey. Come abbiamo visto, erano
scomparse tutte le prime ipotesi che lo stesso quotidiano Il Piccolo di Trieste
faceva all’indomani dell’arresto dell’archivista: nessun doppio gioco del
Biasci. Ma non veniva formulata nell’articolo neppure l’ipotesi che nella
valigetta potessero starci documenti falsi. Questo probabilmente perché per i
giudici contavano ai fini della condanna le cattive intenzioni della spia, cioè
cosa il Biasci intendesse fare con gli egiziani e non tanto cosa riuscì a fare.
Non va inoltre dimenticato il fatto che, al di là della veridicità o meno dei
progetti della nave a propulsione nucleare, ciò che convinse il giudice
Alibrandi a rinviare a giudizio l’archivista di Monfalcone fu proprio la
presenza nella valigetta dello schema dei radar del monte Conero, a cui
l’imputato non seppe dare una spiegazione valida.
Non sapremo mai quindi se questi progetti di una nave a propulsione
militare nucleare poterono uscire dalla Navalgenarmi, né a cosa servisse lo
schema degli impianti radar del monte Conero, ma è certo che entrambi
questi documenti interessavano una nazione in guerra contro Israele come
l’Egitto.
32

Le oscure attività del controspionaggio italiano

Per capire l'attività del controspionaggio italiano in quegli anni, i primi anni
‘70 ovvero quelli dell'arresto di Carlo Biasci, ma pure del mancato golpe
Borghese e dell'attentato del 1969 a piazza Fontana a Milano in cui in
qualche modo potrebbe essere stato coinvolto il Sid, è necessario aggiungere
il prossimo episodio inquietante che emerge dalla lettura del quotidiano La
Stampa.
Il Controspionaggio nel gennaio del 1970 salvò Gheddafi da un attentato che
era stato organizzato dai suoi oppositori. Sembra una storia del 2011 con
Gheddafi in pericolo: la differenza è che in quel periodo l'Italia fu costretta a
dargli una mano. Perché? Guido Rampoldi il 3 gennaio del 1986 scrisse su
La Stampa: "Forse con qualche lustro di ritardo ci si domanda se sia stato
saggio instaurare un rapporto economico così forte da diventare
inevitabilmente un rapporto politico, fatto oggi di prudenze obbligate, ieri
anche di tolleranze e di aiuti: due volte, nel 1970 e nel 1980, il
controspionaggio italiano sabotò progetti di rivolta contro Gheddafi
organizzati dai suoi oppositori. "All'ombra dei traffici con la Libia - accusò
Yussef Magarif, ex ambasciatore di Gheddafi in India - prosperano forme
scandalose di connivenza."
Sull'episodio del 1970 ritornava pochi mesi dopo su La Stampa l'ex capo dei
servizi segreti militari, Ambrogio Viviani, intervistato l'11 maggio del 1986.
L'articolo iniziava con queste parole: "Dal ‘70 al ‘74, periodo in cui diressi
il controspionaggio italiano, la parola d'ordine fu 'salvare i nostri interessi
in Libia e impedire che l'Eni fosse buttato fuori', per questo - proseguiva il
quotidiano torinese - i servizi segreti italiani furono costretti dall'allora
presidente del consiglio Giulio Andreotti a collaborare con Gheddafi."
L'articolo ricordava il fatto che Viviani fosse iscritto alla P2, ma lui
nell'intervista asseriva che tale iscrizione doveva servire solo ad indagare su
Gelli. Mentre molto chiaro era sull'episodio del salvataggio di Gheddafi. "Fu
così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime,
a rifornirlo di armi, ad organizzargli un servizio di intelligence, a
circondarlo di consiglieri per l'ammodernamento delle forze armate."
L'articolo elencava una serie di collaborazioni e favori reciproci con la Libia
che erano iniziati proprio nel 1970 con l'operazione denominata "principe
nero". Ad essere coinvolto in questa torbida storia fu proprio il reparto dei
servizi segreti poi travolto dalle indagini sulla strategia della tensione, il
reparto "D". "La sezione del controspionaggio del reparto "D" del Sid -
scriveva La Stampa nel 1986 - riuscì a far fallire un'operazione ideata e
33

preparata da Abdullah Ben Abdid, un seguace del deposto re Idriss. Un


gruppo di suoi uomini era partito dall'Italia per sbarcare in Libia e
provocare una rivolta interna. Il Sid informò Gheddafi. Ad attendere i
congiurati sulla spiaggia c'erano le guardie del colonnello e furono tutti
presi."
Al di là del fatto che oggi le cose si sono ripetute con esito inverso, direi che
la considerazione va fatta sulla strana coincidenza dell'arresto nel 1970 e la
condanna nel 1973 di Carlo Biasci, per aver tentato di informare l'Egitto
sulle installazioni militari del Monte Conero, con questa terribile storia di un
corpo italiano di servizio segreto al servizio del colonnello libico Gheddafi.
E' evidente che si può facilmente pensare, dietro l'arresto della "spia della
Rau" Carlo Biasci, a un interesse della Libia nell'ostacolare un paese non
proprio amico quale l'Egitto. Entrambi miravano infatti alla leadership
all'interno della Federazione Araba, anche se sia l'Egitto di Nasser, sia la
Libia, soprattutto dopo la deposizione nel 1969 di re Idriss e l'avvio della
dittatura di Gheddafi, erano anti-americani.
Una notizia molto importante da sapere sulla Rau è che dopo la seconda
guerra mondiale alcuni nazisti si rifugiarono nell’Egitto. Lo scriveva Eddy
Bauer nel 1973 nell’enciclopedia sulla “Storia dello Spionaggio”, la cui
parte italiana fu curata da Enzo Biagi. I nomi di questi nazisti erano: Willy
Brenner, direttore del campo di Mauthausen, Oscar Dirlewanger, generale
delle SS, Von Leers, assistente di Goebbels, Leopold Greim, capo della
Gestapo a Varsavia. Questi militari ebbero il compito di organizzare le forze
armate della Rau e crearono strutture militari in grado di preparare i “razzi
di Nasser”. La Rau ebbe i suoi razzi anche grazie a fabbriche di armi
disseminate in Cecoslovacchia e Germania, così come in Svizzera e Spagna.
Disse Eddy Bauer che: “la Rau preparava una guerra batteriologica, un
raggio della morte e gas mortali; prodotti radioattivi sarebbero stati sparsi
nelle acque potabili”. Affermò nel suo libro sullo spionaggio anche questo:
“Nasser impiegava ex ufficiali della Wermacht per la riorganizzazione del
suo esercito, che aveva un gran bisogno di ordine e di consiglieri, e per
creare un servizio dell’armamento e dei materiali efficiente. Venne creata a Il
Cairo – proseguiva – una “città proibita” in cui i tecnici della Gestapo
provavano i razzi da lanciare contro Israele”. Ma questi scienziati nazisti
pare che lasciarono l’Egitto prima che avvenisse il tentativo di spionaggio di
Carlo Biasci nel 1970, periodo, quest’ultimo, durante il quale l’Egitto fu
sotto un nuovo attacco di Israele.
Anche la tremenda morte nel 1962 del marchigiano Enrico Mattei,
presidente discusso dell'Eni per le sue idee di politica economica troppo
34

rivoluzionarie e indirizzate verso i paesi africani, dopo aver letto le


dichiarazioni del capo dei servizi segreti militari Ambrogio Viviani va un
attimo ripresa e analizzata. E’ un altro episodio su cui è presente qualche
notizia interessante sul testo curato da Enzo Biagi sullo Spionaggio.
La teoria più accreditata per la morte del numero uno dell’Eni
coinvolgerebbe i servizi segreti francesi e in particolare un gruppo chiamato
“Azione” dello S.D.E.C.E. Furono loro ad organizzare l’attentato, almeno
stando alla testimonianza di una spia che portava come nome di battaglia
quello di “Lamia”. Questi ricostruì così il fatto in un paio di interviste: “Un
agente parigino ce l’ha fatta ad introdursi tra i meccanici dell’aeroporto di
Fontanarossa. Ha approfittato del fatto che chi doveva sorvegliare l’aereo
isolato sulla pista si è allontanato per fare una telefonata ed è montato sul
Morane Saulnier. In meno di un quarto d’ora ha aperto la scatola
dell’altimetro e ha staccato, riattaccando in modo sbagliato, alcuni fili dello
strumento. Ha creato insomma i presupposti per il disastro”.
Secondo questa ricostruzione l’agente che compì l’impresa delittuosa aveva
per nome di battaglia “Laurent”. Il motivo starebbe nella politica
anti-americana di Mattei. Va tuttavia aggiunto il fatto che lo stesso Biagi non
era convinto del tutto della veridicità di questa teoria, ritenendo difficile per
“Laurent” il compito di manomettere l’altimetro in soli quindici minuti, il
tempo che il sorvegliante effettuasse quella telefonata”. La morte di Enrico
Mattei meriterebbe un capitolo a parte.

I politici dibattevano sulle armi nel Monte Conero

La questione del Monte Conero ci lascia sospesi tra fantasia e realtà, un po'
come nei film di fantascienza, dove è difficile cogliere il senso e in genere ci
si accontenta delle belle immagini magari emozionanti.
Solo che qui è tutto vero: i fatti appaiono e scompaiono. E allora come fare
se non aggrappandosi alla realtà, a quel poco che ogni tanto è emerso?
Nel 1984 tre ecologisti di Ancona furono arrestati per presunto spionaggio
sul Conero e il consigliere verde Moruzzi li difese in consiglio comunale.
Ma non fu il solo. Anche i parlamentari verdi interrogarono il ministro e la
storia si allargò.
La discussione pubblica nel consiglio comunale di Ancona avvenne tra il
verde Marco Moruzzi, oggi responsabile anche del Corecom, e il sindaco
Guido Monina dei Repubblicani, che purtroppo è scomparso anni fa. E’ stato
possibile reperirla grazie alla gentilezza degli impiegati del comune dorico,
che mi hanno permesso di pubblicare il documento integralmente.
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Moruzzi fu perentorio: non solo difendeva gli arrestati ma temeva per la


salute dei cittadini. Nel Conero, denunciò, ci sono armi nucleari.
Ma la questione incredibilmente non ebbe strascichi. Dopo quel dibattito del
1984, che chiariva in parte la vicenda e non smentiva la presenza di armi,
anche se convenzionali, nella pancia del Monte Conero, nulla sembra essere
più riemerso. Senza seguito rimase del resto anche la storia dello stesso anno
della vendita di armi alla Libia, con i Verdi sempre pronti a ergersi a paladini
della cittadinanza. Ma questo comportamento, poi, dove è finito?
La discussione tra Moruzzi e Monina risale al 31 gennaio 1984. Nel 1987 il
Monte Conero, dopo anni di scontri politici, divenne Parco Naturale. Fu un
modo per allontanare i sospetti sull’interno del monte, che emergevano di
tanto in tanto con gli arresti per spionaggio, oppure veramente il consigliere
dei Verdi Marco Moruzzi ha creduto che con quella decisione si sarebbe
risolto il problema della sicurezza per i turisti?
Per aiutare la comprensione del lettore riassumo i fatti e i personaggi che
hanno portato all’interrogazione politica che leggerete.
Il 18 gennaio del 1984 era apparsa la notizia sul quotidiano nazionale La
Stampa dell'arresto di tre persone: Gianfranco Guanti, impiegato in Procura
e giornalista pubblicista, Fulvio Lanari operaio e la moglie Marcella Renzoni
pure lei impiegata in Procura. I tre stavano, pare, preparando una mappa
delle installazioni militari e avrebbe fatto da informatore l'operaio Elmo
Dubbini, il quale però aveva deciso di avvertire i carabinieri.
C’è subito un grosso mistero sulla data. Quando furono arrestati i tre
ecologisti? I primi articoli comparvero sul Corriere Adriatico e Il Resto del
Carlino, a livello locale, il 17 gennaio 1984, cioè un giorno prima del
quotidiano torinese La Stampa. Ma in un documento che poi vedremo, in cui
interveniva sulla questione persino il Ministro dell’Interno Oscar Luigi
Scalfaro, questi citò come data dell’arresto spiccato dalla Procura della
Repubblica di Ancona il 14 gennaio 1984, mentre le indagini sarebbero
partite diversi mesi prima a cura dei carabinieri di Ancona.
L’arresto dei tre sarebbe avvenuto in flagranza di reato, mentre veniva
disegnata la mappa. L’accusa era di procacciamento di informazioni
concernenti la sicurezza dello Stato con l’aggravante del sospetto di
spionaggio. Al processo prese parte poi quale PM il procuratore Di Filippo,
che era un conoscente della mia famiglia e che ho incontrato in alcune
occasioni. La mappa avrebbe dovuto essere pubblicata sul periodico tuttora
esistente: Il Pungitopo.
La condanna, apparsa su La Stampa il 30 maggio 1984, fu lieve: otto mesi di
reclusione con la condizionale. La difesa era rappresentata dagli avvocati,
36

altrettanto noti come il procuratore Di Filippo, Gusmitta Lucangeli e Scaloni.


La richiesta del PM Di Filippo era stata di poco superiore a quella applicata:
un anno e quattro mesi. Era intanto caduta l’accusa di spionaggio: fu solo
una leggerezza, si scrisse.
Ora andiamo al documento: dal testo di questa parte della seduta del
consiglio comunale si evincono alcune certezze, così come restano dei dubbi,
vediamoli:
1)Dalle parole di Monina emerge come vi fosse una netta differenziazione
tra la base Nato di Comiso, sulle cui installazioni militari si sapeva molto e
aveva inciso in maniera preponderante il voto in Parlamento, e questa del
Conero, che esisteva, i due protagonisti dell’interrogazione alla fine del
colloquio ne furono sicuramente consapevoli, ma su cui vigeva il segreto
militare. Nessuno ne poteva parlare, neanche la politica nelle sedi opportune.
2)Nell’interrogazione del consigliere Moruzzi notiamo una presa di
posizione che andava oltre la curiosità che aveva spinto i tre arrestati ad
indagare. Cioè Moruzzi non si chiedeva cosa ci fosse nel Conero, ma se la
popolazione dorica fosse in pericolo. E chiedeva piani di evacuazione. Non
era il caso, prima, di stabilire la verità e magari di pubblicare quelle
benedette mappe?
3)Le installazioni militari, secondo le parole di Monina, non avrebbero
contenuto né armi nucleari, né chimiche, né batteriologiche e sembra che i
due politici dibattessero per arrivare proprio a questa conclusione. Tuttavia
della base non si poteva parlare e nessuno più ne parlò. Cosa altro c’era nel
1984 nel tunnel del Conero?
4)Dalle parole del sindaco Monina emerge che la base del Conero potrebbe
essere stata collegata alle zone militari della Cittadella e del Cardeto.
Quest’ultima zona è stata resa fruibile solo dopo il 2000 e sono stato il primo
ad entrare nei plessi abbandonati dai militari con un fotografo. Anche qui si
è rischiato di mischiare la realtà con la fantasia. Le storie che sono emerse
parlavano di cimiteri profanati, conventi abbandonati da decenni, strani
personaggi che vi bivaccavano come barboni a pochi passi dal centro.
5)Si scopre dalle parole di Moruzzi anche la presenza o il passaggio di armi
nucleari nella zona di Rimini. Armi dirette verso Ancona?
La pubblicazione di questo materiale sicuramente scatenerà la curiosità di
alcuni mass media nazionali, e mi auguro che tutto ciò attiri verso il
capoluogo marchigiano investimenti di altri editori, che non siano i soliti tre
attuali. Questo al fine di allargare l’offerta di informazione che in quella città
ristagna da diversi anni, con il sito del Sigim che ne è testimone, in
condizioni non consone per organi di stampa a cui devono far riferimento
37

per la loro attività la politica e la cittadinanza.


“Titolo: n. 352, Interrogazione del consigliere Moruzzi in ordine ad
eventuali armi nucleari sotto il Conero5
Il sindaco dà lettura della seguente interrogazione, indi ne fruisce la
risposta. “Il sottoscritto Marco Moruzzi, consigliere comunale della Lista
Verde, chiede se la Giunta Comunale intende estraniarsi completamente dai
recenti fatti che hanno portato all’arresto del nostro concittadino
Gianfranco Guanti, redattore di un giornale ecologico locale, mentre sino a
prova contraria stava raccogliendo notizie sulle servitù militari del Conero
per un articolo destinato a Pungitopo.
2) Se si pensa che l’incolumità pubblica e la partecipazione democratica
possano essere garantite continuando a mantenere all’oscuro dei cittadini se
sotto Monte Conero siano custodite armi nucleari, sostanze radioattive,
armamenti di tipo chimico o batteriologico o solamente armi di tipo
convenzionale;
3) Quali garanzie ci sono che lungo le strade del Conero che portano agli
accessi della Base Militare, non vengano trasportate armi nucleari che il
territorio comunale non rischi la contaminazione a causa di incidenti che
possono sempre verificarsi.
4) Se esiste uno specifico piano di emergenza per lo sgombero ed il soccorso
agli abitanti della zona in caso di allarme per contaminazione radioattiva.
In caso di risposta negativa se tale piano non esista se si ha la certezza che
sotto il Conero non ci sono o non ci sono mai state testate nucleari e armi
batteriologiche o chimiche.
5) Se si può pensare ad un parco e conseguentemente ad un incremento del
flusso turistico proprio in un punto di massimo rischio.
6) Se si ritengono i cittadini ancora minorenni per decidere e scegliere circa
l’opportunità di una convivenza con base militare ed armi ad alto rischio”.
In merito a questa interrogazione sono in grado di comunicare che per
quanto riguarda le note vicende che hanno portato all’arresto di tre nostri
concittadini, la questione è in mano all’autorità giudiziaria di cui non si può
che attendere le decisioni non avendo il comune elementi a carico o a
discarico da segnalare alla stessa.
Per quanto riguarda il dubbio se sotto il Monte Conero nella zona occupata
dalla Marina Militare possano essere custodite armi nucleari, assicuro il
consigliere Moruzzi e la cittadinanza tutta, che fonti competenti,
opportunamente interpellate, hanno ufficialmente garantito l’assoluta

5
Fonte del documento è il Comune di Ancona.
38

assenza di tali armi nella predetta zona.


D’altra parte la cosa era impossibile per il fatto stesso che armi di tale tipo
non sono in dotazione all’esercito italiano. Infatti l’unica base che ospita
armi nucleari è quella di Comiso per l’installazione della quale è stato
pubblicamente espresso un voto in parlamento.
Pertanto le altre ipotesi di pericolo collegate all’eventuale deposito di armi
nucleari di cui è cenno nell’interrogazione, vengono a cadere. Per quanto
poi riguarda l’esistenza nella citata zona di altre attrezzature militari o di
comuni armi convenzionali, è evidente l’impossibilità di avere notizie
precise senza che il richiedente o l’eventuale informatore ricadano nei reati
previsti dalla legge sulla diffusione di segreti militari.
Per quanto riguarda infine l’esistenza di una struttura militare nell’ambito
di una zona destinata a parco, si tratta di un problema che ha caratterizzato
quasi tutte le zone verdi di Ancona, come la Cittadella e Monte Cardeto,
problema di fronte al quale l’amministrazione comunale non è rimasta
insensibile tanto è vero che nel giro di qualche anno, pari anche alla pari
sensibilità dell’Amministrazione militare, le suddette zone sono state
restituite alla fruizione pubblica.
Per quanto riguarda infine la zona militare di Monte Conero, la
amministrazione comunale, così come è avvenuto per le altre dianzi citate,
non tralascerà naturalmente alcun tentativo atto a poter trovare un accordo
con l’autorità militare per una totale utilizzazione del parco del Conero, nel
rispetto peraltro delle esigenze di carattere statale che ne regolano
l’occupazione di una piccola parte e consapevole che la cittadinanza
formata da persone maggiorenni, si rende perfettamente conto che
attrezzature militari, che non sono ad alto rischio, come è stato paventato,
non possono essere smantellate in breve tempo”.
Moruzzi: “Prendo atto dell’assicurazione che ci ha fornito il sindaco che
sotto Monte Conero non sono mai state custodite né lo sono attualmente,
armi nucleari, anche se lei, signor sindaco, cita una fonte di cui non ci vuole
rivelare il nome”.
Sindaco: “Comunque me ne assumo la responsabilità di fronte alla città.”
Moruzzi: “Si assume la responsabilità di non rivelare il nome di questa
fonte.”
Sindaco: “No, no, di essere certo che dalla risposta che le ho dato si esclude
nella maniera più categorica che esistano sotto il Conero depositi di armi
nucleari; per questa informazione mi assumo la responsabilità di fronte alla
città.”
Moruzzi: “Il dubbio che mi sorge è se questa sua domanda è stata formulata
39

attraverso canali ufficiali e quindi ha ricevuto una risposta ufficiale oppure


se è una informazione, una notizia informale che lei magari ha avuto
attraverso canali suoi privati o personali. Cioè se esiste una certificazione
da parte dell’autorità militare oppure se è un militare che per cortesia,
fiducia, visto l’incarico che lei riveste, vista la sua carica, le ha garantito
che non esistono armi nucleari sotto il Conero.”
Sindaco: “Persone opportunamente interpellate hanno ufficialmente
garantito l’assoluta assenza di tali armi nella predetta zona.”
Moruzzi: “Questa è una notizia positiva per i cittadini anconitani.”
Sindaco: “Io le ho risposto subito proprio perché tagliamo corto a tutto
questo folclorismo che si è creato su questo argomento.”
Moruzzi: “Io evidenziavo, e non penso di aver creato polverone, io ho agito
nell’interesse della cittadinanza.”
Sindaco: “No, lei no, io sono lieto che lei mi abbia dato la possibilità di fare
questa comunicazione.”
Moruzzi: “Ho agito nell’interesse della collettività perché nella mia
interrogazione parificavo il rischio derivante da armi nucleari, cioè da armi
che provocano la dispersione di sostanze radioattive, da armi di tipo
chimico convenzionalmente utilizzate in Vietman, in Afghanistan, sui cui
effetti esperti militari e scienziati hanno abbondantemente parlato e anche
di armi batteriologiche. Queste armi non possono essere considerate
convenzionali, non possono essere considerate armi non ad alto rischio e mi
dispiace che lei, signor sindaco, in questa sede, non abbia potuto
rassicurare i cittadini che sotto il Monte Conero non esistono armi di questo
genere, armi tranquillamente paragonabili a quelle atomiche, in quanto i
germi diffusi dalle armi batteriologiche, le sostanze diffuse dalle armi
chimiche, appunto, si concentrano attraverso le catene alimentari ed
entrano nei cicli biologici, al pari dei radio nuclei, di radioattivi. Per quello
che riguarda la sua affermazione che solo a Comiso esistono armi nucleari
non so se questo è stato detto dalla sua fonte di informazione, nel quale caso
io devo categoricamente smentirla perché è uscito un documento a cura
dell’Irdist, un istituto privato di ricerche militari, che basandosi su articoli
pubblici, su lettere sempre di dominio pubblico, redatte dalle autorità
militari, ha individuato la base aerea di Rimini come deposito di armi
nucleari.
Quindi ecco che a questo punto mi sorge un dubbio, se la sua fonte ha detto:
le armi atomiche esistono solo a Comiso, è fuor di dubbio che questo non è
vero, cioè a Rimini esistono armi nucleari ed ecco quindi che se da una
parte la sua risposta mi tranquillizza, dall’altra se è stata la sua fonte a dire
40

che armi atomiche esistono solo a Comiso, rimangono tutti i dubbi iniziali.
Detto questo mi fa piacere che la giunta e lei, signor sindaco, convenga che
il vincolo militare è difficilmente compatibile con la realizzazione di un
parco, in particolare del parco del Conero, perché aumentare il turismo in
una zona in cui possono esistere armi chimiche o armi batteriologiche, è
chiaro che comporta dei rischi, quindi rimane ancora l’interrogativo sul
piano d’emergenza e non credo che sia pretestuoso, ma se al Conero
abbiamo armi chimiche o armi batteriologiche, anche se non abbiamo armi
nucleari, dobbiamo in ogni caso pensare ad un piano di emergenza.
Una contaminazione di tipo chimico non è meno pericolosa di una
contaminazione di tipo radioattivo, se pur questa, al contrario di quella
radioattiva, può essere tamponata con determinati interventi, anche se non
facili e lunghi nel tempo. Il caso di Seveso ce lo ha dimostrato.”
Sindaco: “Questa discussione non è certamente molto agevole anche perché
si parla di cose che interessano la città ma ci sono anche dei limiti nelle
discussioni di questo tipo. Intanto lei aveva fatto nella sua interrogazione
domanda circa armi nucleari batteriologiche e chimiche e la esclusione di
questo tipo di armi si riferisce oltre che alle armi nucleari anche alle armi
batteriologiche e chimiche. Cosa c’è sotto non lo possiamo sapere perché ci
saranno altri tipi di armi, ci saranno altre cose ma la domanda specifica era
su questi tre tipi e io posso escluderli. La dichiarazione ufficiale finisce lì.
L’altra era un po’ una considerazione, cioè certi tipi di armi che lei
paventava che fossero sotto il Conero non sono in dotazione all’esercito
italiano; la Nato ha creato delle basi su cui si può essere più o meno
d’accordo ma sono state installate a Comiso con un voto del Parlamento
della Repubblica Italiana. Scusi Moruzzi, qui adesso ci può essere una
parola in più e una in meno ma anche questo deposito a Rimini che dice lei è
talmente alla luce del sole che lei ha citato i giornali, gli articoli che lo
avrebbero pubblicato. Invece il presupposto della sua interrogazione, di
tutta quest’altra agitazione che si è fatta in città parte dal presupposto che lì
ci sia qualcosa di nascosto, che i cittadini di Ancona dovrebbero essere
ignari di quello che c’è sotto. E io questo lo escludo.
In ogni modo in relazione alla sua interrogazione mi sembra che il succo sia
questo, lei e la città in questi giorni siete turbati da articoli, da convegni,
per quello che c’è sotto il Conero; e io le assicuro nella maniera più
assoluta che non ci sono armi nucleari, batteriologiche e chimiche. Più di
questo non posso dire.”

Le interrogazioni parlamentari
41

Nel 1985, precisamente il 25 febbraio alla Camera dei Deputati, in ritardo


quindi rispetto agli eventi, arrivava una misteriosa risposta del Ministro
dell’Interno Scalfaro a delle interrogazioni parlamentari. Un anno prima,
infatti, il 24 gennaio 1984 alcuni deputati che si chiamavano: Crucianelli,
Cafiero, Castellina, Magri, Serafini e Gianni avevano inviato
un’interrogazione su questa vicenda dei tre ecologisti, arrestati perché
sospettati di spionaggio. L’interrogazione era rimasta per tanto tempo priva
di risposta. Non solo. Due giorni dopo, il 26 gennaio 1984 ne era arrivata
un’altra di interrogazione, da parte di Pollice e Ronchi. Leggiamo per intero
il testo dei documenti.
Crucianelli, Cafiero, Castellina, Magri, Serafini e Gianni, 24 gennaio 1984,
interrogazione alla Camera dei Deputati6:
“Ai Ministri dell'interno, della difesa e per l'ecologia . - Per sapere -
premesso che: recentemente il consiglio regionale delle Marche ha
deliberato all'unanimità la costituzione di un parco naturale in località
Monte Conero (Ancona), corrispondente a zona attualmente utilizzata
dalla Marina Militare Italiana; tre ecologisti, Gianfranco Guanti, Marcella
Renzoni e Fulvio Lanari, collaboratori della rivista mensile Pungitopo della
Lega per l'ambiente ARCI di Ancona, sono stati arrestati con l'accusa
di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato per avere
disegnato le mappe delle gallerie che si estendono sotto le basi militari della
Marina militare italiana di stanza sul Monte Conero (Ancona); i signori
Guanti, Renzoni e Lanari stavano raccogliendo materiale giornalistico in
merito al danneggiamento recato alla zona dalle installazioni militari,
nella prospettiva della costituzione del parco naturale suddetto - se non
ritengano che l'arresto dei tre ecologisti appaia pretestuoso anche laddove
si interpretino restrittivamente le norme vigenti, che la loro partecipazione a
presunte attività spionistiche appare fantasiosa, mentre al contempo tale
atto unilaterale sembra palesemente ribadire la contrarietà all'istituzione
del parco naturale sul Monte Conero come tutto ciò sembri proprio una
provocazione grave ai danni del movimento ecologista.”
Pollice e Ronchi, 26 gennaio 1984, interrogazione alla Camera dei Deputati7:
“Al Ministro della difesa. — Per sapere - premesso che: il 14 gennaio 1984
ad Ancona venivano arrestati, con l'accusa di procacciamento di notizie
riguardanti la sicurezza dello Stato, Gianfranco Guanti, Marcella Renzoni, e

6
Fonte del documento è il sito della Camera dei Deputati.
7
Fonte del documento è il sito della Camera dei Deputati.
42

suo marito Fulvio Lanari, dopo una irruzione nella casa del Lanari, dove i
tre imputati sembrava stessero disegnando una mappa della zona del Monte
Conero; il Guanti, delegato regionale CGIL, è uno dei redattori della rivista
ecologica Il Pungitopo che, insieme con altre associazioni naturalistiche
della zona, richiede da diversi anni la costituzione di un parco protetto; il
caso potrebbe rappresentare l'inizio di una caccia alle streghe nei confronti
dei pacifisti e degli ecologisti - se ritenga che sia opportuno un esplicito
pronunciamento del Ministro della difesa relativamente alla funzione del
Monte Conero, affinché tutti i cittadini possano conoscere e valutare
esattamente le conseguenze, per la loro vita e la loro salute, delle scelte di
politica militare relative al Monte Conero .”
Si chiedevano in questi interventi i veri motivi dell’arresto di Gianfranco
Guanti.
La condanna per lui e gli altri due complici arrivò il 29 maggio 1984 dopo
un processo a cui i quotidiani locali dettero il giorno seguente ampio spazio
con fotografie. I tre venivano raffigurati alla sbarra, mentre il PM Silvio Di
Filippo nell’istantanea del Corriere Adriatico era intento con occhiali sul
naso a scrivere sulle sue carte. Duro il Corriere Adriatico nel suo titolo: “La
curiosità è costata cara: ecologi condannati in Assise”, e in alto nel
sottotitolo: “Volevano carpire i segreti della base del Conero”. Rispetto alle
richieste di condanna a un anno e quattro mesi per Guanti e otto mesi
ciascuno per il signor Lanari e la moglie Renzoni, il giudice inflisse otto
mesi a tutti e tre gli imputati, con i benefici di legge. Il quotidiano
anconetano riferì che gli avvocati si preparavano per l’appello, ma,
comunque sia andata questa vicenda processuale, su di essa intervenne
direttamente il Ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro.
Arrivò infatti nel 1985, come detto, una risposta del futuro Presidente della
Repubblica8. Qui appaiono singolari sia la durezza del Ministro sulla
violazione di quel segreto militare, sia il fatto che la pena sarebbe stata
cancellata dal casellario giudiziario dei tre. Pare di capire che, se pure si
fosse riuscito ad avere la fedina penale dei tre ecologisti, non si sarebbe
comunque trovato nulla del processo. Lo stesso valga per i quotidiani: non si
sarebbe trovato nulla di questa vicenda eccetto su quelli marchigiani e, come
abbiamo visto, La Stampa.
Serve a questo punto un ulteriore approfondimento. La storia dice che nel
1993 Oscar Luigi Scalfaro, divenuto Presidente della Repubblica, fu
indagato per dei soldi ricevuti dal Sisde. Fondi neri distribuiti ovunque dai

8
Ibidem.
43

servizi deviati, anche a San Marino. Riccardo Malpica, direttore dei servizi
posto agli arresti, raccontò che 100 milioni di vecchie lire erano destinati
ogni mese proprio ai Ministri dell’Interno. Affermò anche che Mancino e
Scalfaro gli volevano imporre di mentire. Oscar Luigi Scalfaro rispose a tutti
con il suo “Non ci sto” in un discorso televisivo a reti unificate, ma
quell’inchiesta poi risoltasi a favore dell’ex presidente non ha del tutto
convinto, a leggere Wikipedia. Inoltre questa prova che l’allora Ministro
dell’Interno intervenne nella vicenda del Monte Conero riapre
inevitabilmente la questione, non tanto sulla vicenda personale dell’ex
presidente appena deceduto, quanto sul ruolo dei Ministri dell’Interno.
Dietro l’occultamento di segreti militari nel Monte Conero ci sono i servizi
segreti deviati?
L’ex ministro Scalfaro il 25 febbraio 1985 cercava, a mio avviso non
riuscendovi, di conciliare le due vicende così diverse della battaglia
naturalistica per il parco e la presenza di tunnel segreti della Marina
Militare:
“Il 31 gennaio 1980 fu presentato un disegno di legge di iniziativa popolare
al consiglio regionale delle Marche per la Costituzione del Parco del
Conero, area di grande interesse naturalistico posta a sud di Ancona. Il
disegno di legge, assegnato per il preventivo esame alla commissione
competente, non è stato discusso in consiglio, dove, invece, è stata votata
una mozione a favore del progetto. In merito ai fatti indicati
dall’interrogante si deve rilevare preliminarmente che l’area occupata dalla
Marina Militare, di limitata estensione, non compromette l’utilizzazione, da
parte della popolazione, del comprensorio del Monte Conero, assai
frequentato da cacciatori e gitanti.
L’arresto delle persone indicate, avvenuto il 14 gennaio 1984, a seguito di
ordine di cattura dalla procura della Repubblica di Ancona, è stato eseguito
con l’accusa di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello
Stato. E in effetti è stato accertato che tali persone – impiegate presso la
locale procura della Repubblica – da tempo cercavano di procurarsi dettagli
di alcune opere militari esistenti sul Monte Conero, tanto che al momento
dell’arresto vennero trovati in possesso di schizzi planimetrici di opere
protette da segreto militare. Uno dei tre, Gianfranco Guanti, al momento
dell’arresto avrebbe effettivamente dichiarato che notizie e planimetrie
raccolte erano destinate soltanto alla pubblicazione di un articolo sulla
rivista locale, a carattere ecologico, il “Pungitopo”. Nel mese di giugno
1984 la corte d’assise di Ancona ha però condannato le tre persone indicate
a otto mesi di reclusione, con il beneficio della non menzione nel casellario
44

giudiziario e la sospensione condizionale della pena, per l’imputazione di


procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello Stato.”

Base Conero: nel 1984 tre arresti per spionaggio

Scavando alla ricerca di altre notizie riguardanti la base del Conero, noto con
piacere che i racconti online sono sempre più numerosi. Sono state aggiunte
su altri blog delle testimonianze recenti, e ho trovato persino un documento
del Ministero della Difesa, in cui si parla di un bando per dei lavori di
ingegneria da effettuare al Centro Nodale TLC Interforze del Monte Conero.
La scadenza era prevista per ottobre 2009, ma a noi questo non interessa.
Quello che appare probabile è che possa esserci qualcosa di molto
importante da quelle parti, basti pensare che un’altra base Interforze è attiva
a Perdasdefogu, in Sardegna, dove fino al 2005 venivano testati i missili
Hercules. In terra sarda la magistratura ha deciso di vederci più chiaro. Ma
anche noi ora abbiamo alcuni misteriosi articoli sui tre ecologisti del 1984,
che diventano una traccia preziosa per creare un ponte tra la situazione di 30
anni fa e quella di oggi.
"Procacciamento di dati riguardanti la sicurezza dello Stato", questa era la
terribile accusa con cui un giudice metteva in carcere, secondo La Stampa,
tre anconetani il 18 gennaio 1984; tra cui due funzionari della Procura della
Repubblica, uno dei quali collaboratore del periodico ecologista "Il
Pungitopo", e un operaio che 15 anni prima aveva lavorato all'interno del
Monte Conero. La loro colpa era di aver tentato di ricostruire con una mappa
le postazioni militari della Base del Monte Conero. Si ipotizzò anche lo
spionaggio e per i reati che vi ho menzionato si parlava di tre o anche dieci
anni di reclusione.
Erano i tempi della Guerra Fredda, ma allora come oggi c'erano pacifisti ed
ecologisti che, impegnati a difendere il patrimonio faunistico del Monte
Conero, cercavano di reperire informazioni lì sul posto per capire cosa si
celava dietro la voce della base militare sotterranea. I tre anconetani,
l'articolista Ermete Grifoni de La Stampa scriveva, "erano animati dal
proposito di rendere pubblico che nelle viscere del promontorio del Conero,
alle spalle di Ancona, ci sono installazioni militari. Il che non è una notizia
nuova - precisava il giornalista - anche se nessuno può documentarla con
una mappa esatta, coperta dal segreto militare".
Nell'articolo si svelava anche il particolare che i carabinieri avrebbero fatto
irruzione nella casa degli indagati proprio mentre disegnavano tale mappa.
Un caso veramente incredibile. I tre si presero alcuni mesi di reclusione in
45

primo grado, poi le notizie scomparvero dal quotidiano La Stampa. Fu


scritto anche nel pezzo che i tre indagati stavano effettuando la stessa
operazione di Pannella sulle basi Nato. Veniva riferito inoltre un particolare
che è importante oggi, e fa capire il perché divulgare queste informazioni sia
fondamentale. Intanto l'episodio: "una notte del settembre scorso - recitava
l'articolo - una sentinella aveva esploso raffiche di mitra contro alcune
persone che si dileguavano dopo aver tentato di superare la rete di cinta". Si
seppe, dalle indagini, che qualcuno andava nella zona a reperire
informazioni sui segreti militari chiedendo a contadini e passanti cosa
avevano visto. Ci fu anche una protesta con dei volantini da parte dei
pacifisti, poi più nulla. Ma il 23 febbraio del 1984 si parlava ancora di questi
tunnel del Monte Conero. Su La Stampa il giornalista Remo Lugli esprimeva
una certezza: "Da vent'anni i tunnel della montagna sono passati alla
Marina Militare", aggiungendo nel catenaccio che "Sicuramente ci sono
installazioni militari". Il pezzo era titolato: "Un mistero sotto il Conero".
Conferme su questo episodio dello strano arresto con l'ipotesi di spionaggio
arrivavano anche dal giornale L'Unità che il primo febbraio 1984 parlava di
una seduta del consiglio comunale in cui si era discusso dell'arresto dei tre
anconetani e della possibilità o meno che vi fossero armi chimiche o
batteriologiche sul Conero, cosa smentita in parte dal sindaco di allora,
Guido Monina. La Stampa riprendeva l’argomento il 30 maggio 1984 con un
articolo dal titolo: “Condannate le spie del Conero”, e all’interno il
corrispondente Ermete Grifoni riferiva degli otto mesi inflitti ai tre imputati
dal PM Di Filippo, così come delle proteste degli ecologisti.
Poi fu di nuovo silenzio sulla vicenda, per tanti e tanti anni. E la base è
ancora lì, pare di capire. Anzi, è stato deciso poco tempo fa, con una delibera
regionale, di mandare dei cacciatori sul Monte Conero a risolvere il
problema dei cinghiali, così come fatto in altri luoghi d'Italia. Una decisione
giusta, ma che alla luce di queste informazioni militari getta alcuni
interrogativi. C'è ancora qualche sentinella che spara, nella zona del Monte
Conero, a chi si avvicina alla base? Un uomo politico che potrebbe saperlo è
Marco Moruzzi dei Verdi, il quale nel 1984 fu tra coloro che difendevano le
ricerche giornalistiche dell’indagato principale, l’anconetano Gianfranco
Guanti, giornalista del Pungitopo e impiegato della Procura di Ancona.
Vediamo perché e analizziamo meglio questo caso di cronaca giudiziaria che
pare sia stato inghiottito nel nulla. Quello che appare certo è che la storia dei
tre ecologisti è stata una questione estremamente seria. Da una mia ricerca
nelle Marche emerge che i due principali quotidiani locali, Il Resto del
Carlino e Corriere Adriatico, si occuparono della cronaca dei fatti, che si
46

svolsero tra gennaio e maggio 1984, e forse anche oltre. Fu un vero giallo,
un rompicapo in cui tutti, a distanza di 28 anni, diventano potenziali
colpevoli o potenziali innocenti: giornalisti, carabinieri, magistrati,
ecologisti, abitanti di Ancona. Tante persone sapevano e poi hanno taciuto
agli anconetani più giovani la presenza della base.
Tutti "anche i bambini" sapevano che il Monte Conero "è una sorta di
groviera". La frase la pronunciò un mio collega dell’importante quotidiano
per il quale ho lavorato, il nerista più esperto, al quale addirittura queste
parole possono aver creato dei problemi. La collina del Rosso Conero è
bucata come una groviera? La zona più amata dai turisti stranieri, la perla
dell'Adriatico, la zona in cui nel 1987 è nato il Parco Naturale? La stessa
zona per di più considerata a rischio per delle frane? Ma allora sembra che
questi problemi fossero superflui, come ridicole appaiono leggendo i
giornali le battaglie degli ecologisti. Giornalisti si schierarono contro altri
giornalisti. Anche questo è importante sottolinearlo. I giornalisti dei due
grandi quotidiani si scagliarono con durezza contro i piccoli giornalisti del
"Pungitopo", il giornaletto dei Verdi che cercava notizie sul Monte Conero.
Bisogna rimettere indietro le lancette, come al solito, e cercare di entrare
nella vita dei primi anni '80. C'era ancora il rischio di una guerra nucleare9, il
mondo era diviso a metà e lo spionaggio era una guerra nella guerra, con il
fine di carpire quei segreti militari che assicuravano un precario equilibrio.
Anche i mezzi di informazione erano diversi da quelli di oggi. Si parlava il
meno possibile della crisi e dei debiti dello Stato, o si cercava di nascondere
tutto nel "politichese". Ero un bambino della quinta elementare nel 1984 e
vivevo a Roma. Ma ricordo un clima di grande protezione da parte della
politica, del presidente della Repubblica, che andammo a trovare in visita al
Quirinale con la scuola, e penso anche degli organi militari. La sovranità
nazionale era a mio avviso una grande sicurezza. Anche il Patto Atlantico
penso che lo fosse. Oggi non è più così. La Casta si fa sentire anche nelle
notizie, che non capiamo perché non ci appartengono, non appartengono agli
italiani, come non ci appartengono questi personaggi che entrano
all'improvviso nella cronaca e poi svaniscono quando non servono più.
Nel 1984 comunque si andava in vacanza come oggi. C'era Sirolo, come
c'era Numana. Ma gli anconetani sapevano che quel monte faceva paura. Un
articolo del Resto del Carlino, a firma di Paolo Marconi, spiegava allora
come era nato il mito, in negativo, del Monte Conero. Una collina su cui

9
La “distensione” iniziò con il famoso incontro Regan-Gorbachev, i due capi di Stato di Usa e
URSS, noto come il vertice di Reykjavík dell’11 ottobre 1986.
47

diverse generazioni di anconetani avevano cercato a lungo di avere


informazioni, ma invano. Ed era nata la leggenda che dentro le viscere della
terra rocciosa del Monte Conero vi fosse la "porta dell'Ade". E' chiaro che
cambia tutto: chi ci vorrebbe vivere vicino alla porta dell'inferno? E poi
perché i giornalisti e i magistrati quell'inferno dovevano difenderlo?
Nella storia raccontata da Alfredo Mattei per Il Resto del Carlino e da Bruno
Nicoletti per il Corriere Adriatico emergono altri particolari, anche se non
cambia la sostanza rispetto agli articoli più stringati de La Stampa. La
faccenda si fa seria.
Primo interrogativo: chi era veramente Gianfranco Guanti, il giornalista
pubblicista, impiegato anche nella Procura di Ancona, di 39 anni, articolista
del "Pungitopo", che venne sorpreso dai carabinieri mentre in casa degli altri
impiegati della Procura, Fulvio Lanari e la moglie Marcella Renzoni, stava
disegnando una mappa degli impianti militari? Non è stato chiarito
abbastanza. Pare, dal resoconto del Resto del Carlino, che l'inchiesta dei
carabinieri di Ancona della caserma di via Piave sia nata dalle dichiarazioni
di un pentito.
Ma qui stiamo entrando nella storia delle Brigate Rosse. Il pentito si
chiamava Roberto Buzzati e il processo era quello a carico delle BR
anconetane. Buzzati disse che aveva saputo da Senzani che Massimo Gidoni
aveva avuto ad Ancona un incontro con agenti del KGB sovietico. Questa
voce, scriveva Mattei, si aggiungeva a dei sospetti per la presenza prolungata
di un cargo russo nel porto di Ancona per riparazioni. I carabinieri a questo
punto seppero che un uomo si aggirava per la zona del Monte Conero
chiedendo agli abitanti delle case coloniche o delle villette della zona
informazioni sulla base all'interno del monte. Informazioni che gli vennero
date, fino al punto che l'uomo misterioso, ovvero il Guanti, contattò Elmo
Dubbini, che negli anni ‘50 aveva lavorato allo scavo di quelle che Mattei
definiva gallerie e caverne all'interno del Monte Conero. Dubbini era anche
cugino di Marcella Renzoni, quindi l'inchiesta giornalistica del "Pungitopo"
a mio avviso non fu così approfondita, visto che l’indagine era rimasta in
famiglia, come invece l'eco di questi fatti sui giornali farebbe pensare.
Per giorni fu dato ampio spazio in prima pagina sul Corriere Adriatico e su Il
Resto del Carlino all'arresto dei tre. C'è però il particolare dei disegni. Quelle
mappe, fu scritto, erano troppo dettagliate, elemento che complicò non poco
la posizione dei tre ecologisti. Ci furono ovviamente proteste di piazza anche
importanti di Verdi e Radicali. Vennero mandate simbolicamente alla polizia
tante mappe sui segreti militari del Monte Conero. La gente di Ancona,
insomma, era tutta con Guanti. Che anche io definirei un eroe, se non fosse
48

che qualcosa non mi torna. Ho fatto il giornalista per quei quotidiani e


conosco sia Mattei, sia Nicoletti, che è stato, quest’ultimo, esponente del
Sigim. Guanti oggi ad Ancona non è un eroe. Perché? Stava preparando solo
un articolo per il "Pungitopo" oppure veramente quelle mappe così
dettagliate dal punto di vista ingegneristico dovevano essere inviate a
qualche potenza straniera? C'è, non dimentichiamolo, il precedente della
Spia della Rau, Carlo Biasci, il quale nel 1970 alla vigilia di un tentativo di
golpe militare stava per cedere le mappe del Monte Conero all'Egitto.
Un altro interrogativo riguarda i magistrati e l'apparato di protezione dei
segreti militari. Il processo venne celebrato con una giuria popolare. Non
sono un esperto di processi e di giurisprudenza, ma mi pare una prassi,
quella dei giurati popolari, che riguarderebbe i reati che offendono
l’opinione pubblica. Fu un vero processo, quello istruito dal procuratore Di
Filippo, oppure fu un atto dimostrativo, un atto di propaganda militare per
allontanare la gente dalle importanti operazioni della guerra fredda sul
Monte Conero? Tanto imponenti queste operazioni dovevano essere da
spingere il consigliere comunale dei Verdi Marco Moruzzi a chiedere in
un'interrogazione se "i cittadini di Ancona sono tutti dei minorenni per
decidere e scegliere circa l'opportunità di una convivenza con basi militari
ed armi ad alto rischio". Una frase ad effetto che mi spingerebbe a votare
per lui, se solo fosse pronunciata oggi, non nel 1984.
Moruzzi temeva che le zone militari sotto il Monte Conero fossero un
ostacolo alla creazione del Parco, motivo per cui lui e il "Pungitopo"
lottavano strenuamente. La storia dice che vinsero la loro battaglia nel 1987.
Ma i tunnel della Marina se li scordarono lì? Perché ancora oggi quei tunnel
sembra siano occupati dai militari, eppure nessuno porta avanti le ricerche
del Guanti.
Un altro elemento curioso è che questi articoli sembrano fuori posto rispetto
alla cronaca di Ancona. Oltre al fatto che Ancona è una città tranquilla,
evidenzierei alcune contraddizioni nelle dichiarazioni di Moruzzi. Ad
esempio, l’esponente dei verdi passò da una protesta contro la potatura degli
alberi sul Monte Conero, pubblicata lo stesso giorno in cui i carabinieri
ipotizzavano che il Guanti si fosse recato sul Monte Conero in quanto
esperto di missili, a quella del giorno dopo in cui in un impeto di orgoglio
oratorio e risorgimentale chiedeva, come detto, se i cittadini di Ancona non
dovessero essere informati meglio delle operazioni belliche nella loro zona.
E’ tutto molto strano.
Altro elemento che mi incuriosisce è quello di vedere pubblicate foto del
Monte Conero non a scopo di divulgazione di un patrimonio naturalistico,
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bensì di illustrazione di una zona nota solo per le sue "installazioni" militari.
Come si vede è una storia molto più complicata di quanto sembri
all'apparenza. Si potrebbe ridere di questa favoletta, completamente avulsa
dalla storia del Monte Conero, o dalla storia delle battaglie politiche per il
parco che partirono negli anni '60, e anche estranea alla storia del turismo
della Riviera del Conero. Un episodio piccolo piccolo, ma forte come uno
schiaffo. E non è finita. Come accennato, dal racconto di Bruno Nicoletti del
Corriere Adriatico sembra di intuire che nell'interrogatorio molto estenuante
dei carabinieri, effettuato quando il 16 gennaio i tre vennero arrestati,
Gianfranco Guanti rispose di non essere un esperto di missili. Apriti cielo! E
cosa gli avevano chiesto i carabinieri? Se stava lavorando a un progetto sui
missili? Oppure se si aggirava nella zona del Monte Conero per studiare i
missili che, nel caso, sarebbero stati custoditi nelle cavità del monte? Sono
ipotesi tutt'altro che campate per aria, se solo si pensa che nelle loro indagini
i carabinieri della caserma di via Piave ad Ancona stavano anche cercando
delle ricetrasmittenti con cui le presunte spie si sarebbero tenute in contatto
tra di loro. Ricetrasmittenti di cui Craxi parlerà nel processo Enimont
riferendosi alla rete di spie del KGB che si annidavano in Italia.
Ricetrasmittenti che, posso testimoniarlo, effettivamente ad Ancona esistono
nelle redazioni dei quotidiani locali, giustificate con il fatto che si tratta di un
contatto legale tra le forze di polizia e chi deve occuparsi di cronaca nera.
Mio malgrado sono quindi diventato protagonista di un fatto di cronaca, cosa
che mai dovrebbe accadere. Il procuratore Di Filippo era pure un conoscente
della mia famiglia. Ricordo un fatto con precisione. Quando mio papà si
ammalò e si ricoverò, nell’estate del 200410, sono sicuro che mia mamma
disse che all’ospedale era andato a trovarlo il procuratore Di Filippo. Molto
probabilmente fu un lapsus. In seguito ho scoperto che il procuratore sarebbe
morto da tanti anni. Scrissi di lui anche quando raccontai la storia di Pepita,
che si era persa sul Conero nel 1981. Indovinate chi andò ad indagare...
Proprio Di Filippo, l’amico di papà.
Inoltre Alfredo Mattei è stato il mio vice-caporedattore nel periodo in cui ho
lavorato come giornalista ad Ancona e conosco la sua vicenda personale che
non posso riferire per motivi di privacy. Bruno Nicoletti è stato esponente di
quel Sigim che, pur essendo un loro iscritto, non ha approfondito come

10
Mio padre è morto nell’ottobre del 2009 dopo una malattia assurda. Gli diagnosticarono
all’ospedale di Torrette un idrocefalo. Gli aprirono il cranio per inserirgli una valvola, ma uscì
dal ricovero in condizioni mentali disastrose. Non si è più ripreso. Era un amante della
montagna, ma non è mai voluto salire sul Conero.
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doveva, con l'azienda (e lo sottolineo dieci volte questo) il perché di una


situazione contrattuale penalizzante. Sono tutti elementi che mi fanno
pensare male. A questi va aggiunto che la mia rubrica giornalistica “Le
nostre storie" verteva proprio su vicende di cronaca in linea con il giallo di
Guanti. Tuttavia come ho riferito a Marco Berry di Mistero, il programma di
Italia 1, nei faldoni d'archivio della redazione di Ancona del quotidiano
bolognese questi articoli non li ho mai trovati. Li avevano nascosti? Nessuno
dei colleghi più anziani mi poteva aiutare? Una storia davvero strana, ma
attuale. Emergono in questi articoli del 1984 delle certezze che capovolgono
la visione del Monte Conero. Cosa rimane di quello che per Alfredo Mattei
era un monte formato formaggio groviera? E la questione della sua stabilità,
della sicurezza, dei missili, della porta dell'inferno? Ancora una domanda.
Quanti quotidiani nazionali in quei giorni di inizio 1984 uscirono con questa
notizia sconvolgente? La risposta ce l’ho, nessuno: solo i giornali
marchigiani più La Stampa, dove lavorava però un corrispondente che
all'epoca era anche caporedattore della Rai Marche. Quindi solo i
marchigiani avevano questa importante conoscenza di carattere militare ed
erano tutti schierati a favore di chi lavorava in quel luogo di guerra. Tutti
tranne il Guanti e i suoi complici. Ho consultato quotidiani nazionali come
Repubblica, Avvenire, Il Mattino, Il Messaggero, Il Tempo, Il Corriere della
Sera, ma nessuno riportava nemmeno una breve su questo fatto che invece
nelle Marche usciva in primo piano.
Addirittura il 18 gennaio, giorno in cui si diffuse la notizia dell'arresto dei tre
ecologisti, nei pressi dell'altra base che nel consiglio comunale di Ancona
veniva accostata a questa marchigiana, ovvero la base missilistica di Comiso,
una giornalista americana, arrestata pochi giorni prima, veniva scarcerata. La
notizia era riportata in una breve da Avvenire. La giornalista Usa aveva
scattato delle foto all'interno della base Nato di Comiso e quindi era stata
posta agli arresti. Scherzo del destino o guerra fredda anche questa?
Ultima nota su Gianfranco Guanti: che fine avrà fatto, si staranno chiedendo
tutti. Su internet è presente una rassegna stampa del 10 aprile del 2003 a cura
de Il Giornale dei Parchi. Ebbene, era sempre lì anche a distanza di decenni e
pare facesse parte del consiglio direttivo del Parco del Conero, che era stato
fortemente voluto dal suo movimento ecologista. Chissà se lui e il suo
collega Moruzzi ricordano questa triste vicenda e quella mappa, così
preziosa per la Marina Militare.
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SCOPPIA LA GUERRA FREDDA

Il 22 marzo del 1967 il quotidiano La Stampa annunciava l’arresto, a Torino,


di una delle più importanti spie della “guerra fredda”, il paracadutista
Giorgio Rinaldi Ghislieri. Insieme a lui vennero fermati la moglie, Antoniola
Angela Maria detta la “zarina”, titolare di una bottega di antiquariato al
borgo medievale del Valentino, e il suo autista, Antonio Girard. Erano da
tempo seguiti dal controspionaggio perché sospettati di essere al servizio del
KGB. Vennero fermati e poi espulsi due funzionari sovietici che furono colti
mentre ritiravano dei microfilm che Rinaldi aveva nascosto sulla via Aurelia,
vicino Roma. La rete spionistica di Rinaldi era ampia: una ventina di altre
spie vennero identificate tra Italia, Francia, Svizzera, Spagna, Marocco,
Somalia, Cipro e Grecia.
L’Italia, già teatro di scontri parlamentari sull’installazione degli euromissili
Nato nel nord Italia, diventava tra il 1966 e il 1967 terreno di scontro per le
due superpotenze mondiali. USA e URSS dal 1945 al 1989 si fronteggiarono
sia sul piano economico, il capitalismo americano contro la pianificazione
economica comunista, sia militare, le basi missilistiche della Nato contro
quelle del Patto di Varsavia.

La chiave di molti segreti italiani era Giorgio Rinaldi

La soluzione di molti gialli italiani non è lontana e non sarà la Magistratura,


ormai, a scoprirla. Qualcosa sembra affacciarsi con la lettura del libro sul
KGB di Harry Rositzke, uno dei tanti usciti su questo tema. L'avevo scelto
perché ritengo più affidabili le versioni pubblicate prima della caduta del
muro di Berlino. Soprattutto prediligo quelle non scritte da cittadini russi.
All'interno di quel libro si parla di una spia italiana di Torino, della cui
attività segreta si seppe poco quando venne arrestata tanti anni fa e poi
processata. In pratica, i carabinieri del Sid portarono alla luce nel 1967 che
questo Giorgio Rinaldi Ghislieri, si chiamava così, era pieno di strumenti di
trasmissione e di documenti da consegnare ai russi. I quotidiani italiani, La
Stampa in primis, scrissero che Rinaldi e la moglie spiavano solo su segreti
militari della Spagna, invece non era vero. Al processo si parlò di un suo
obiettivo italiano: la base fantomatica di Avola, vicino Siracusa, rivelatasi
poi inesistente. Si pensò anche ad un bluff: che insomma il piemontese
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avesse millantato conoscenze con Andropov che non aveva. Morì a causa di
un'ischemia cerebrale, nel 1988, e secondo Repubblica si portò nella tomba i
suoi segreti.
Rositzke, che era una spia della Cia, in realtà affermava anni prima che
Rinaldi era stato fin dal 1956 una spia del KGB, con una rete spionistica che
copriva molti territori, anche esteri, e sottolineava che il suo ruolo specifico
era quello di trafugare segreti militari delle basi Nato in Italia. Il quotidiano
tedesco Der Spiegel aggiungeva fin dal 1967 che la spia operava sulle basi
Nato del nord Italia, specialmente su Aviano (e non Avola), in Friuli.
Un altro articolo del 1971, de L'Europeo, legava questa spia e i suoi segreti
alla morte in aereo dell'imprenditore di Pordenone, Zanussi. Legame ancor
più evidente se si pensa che Aviano non è distante da Pordenone. La tragica
fine di Zanussi avvenne dopo un colloquio in carcere tra Rinaldi, la spia del
KGB, e il colonnello Rocca, alias Pino Renzi, un alto membro del
controspionaggio italiano noto per aver scoperto la schedatura da parte del
Sid di 157mila italiani (un metodo, tra l'altro, tipico del KGB). Rocca/Renzi
chiese a Rinaldi la lista completa di nomi dei suoi agenti filo-russi e tra
questi pare vi fosse un uomo che morì nell'aereo di Zanussi, Talotti. Pochi
giorni dopo, quindi, morì "suicidato" anche il colonnello Rocca/Renzi.
Questa storia può portare a chiarire altri misteri, come la morte di Enrico
Mattei, sempre in aereo e sempre per un guasto all'altimetro come Zanussi, e
alle bombe della "Strategia della Tensione". Ma mancano ancora dei pezzi
del puzzle.
Secondo Rositzke, alla fine degli anni '60 furono espulsi dall'Italia due
"funzionari del KGB": chi erano? Sempre in questo libro Rinaldi veniva
definito "uno degli agenti più originali che i sovietici abbiano mai impiegato
contro le installazioni Nato". E gli altri? E le centinaia di agenti e
informatori di cui disponeva Rinaldi nelle basi Nato italiane? Che fine hanno
fatto? Come si vede non si può leggere niente, sulla storia contemporanea
dal 1922 in poi, che non porti a riflessioni sulla vera storia d'Italia.
A questo punto resto molto scettico anche sul dossier Mitrokhin, sicuramente
da rileggere confrontando la nomenclatura italiana emersa nel 1999 con il
modus operandi del KGB, descritto bene da Rositzke. Io credo che siano
stati forniti alla stampa solo i nomi più scontati che si potessero fare, cioè gli
agenti "legali" del KGB operanti sul territorio italiano. E non le spie illegali,
che rappresentavano e rappresenterebbero il piatto più gustoso da leggere.

Lo sfruttamento sullo sfondo delle tragedie


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Lino Zanussi era nel mirino della contestazione operaia quando cadde con il
suo aereo in Spagna. Il 9 marzo del 1968, solo tre mesi prima della tragedia,
sul quotidiano L'Unità si parlò di sfruttamento dei lavoratori. Al centro della
contestazione, in quell'anno così carico di proteste dei movimenti della
sinistra, c'era la Zanussi, un'azienda di Pordenone considerata in grande
crescita in tutta Europa. Crescita che, a leggere l'articolo di Ugo Baduel,
avveniva sulla pelle degli operai, costretti a dei turni di lavoro lunghissimi e
in un ambiente aziendale insalubre.
Gli stipendi? Le cifre che venivano fornite erano sconfortanti: un operaio
guadagnava mediamente 65mila lire al mese, lavorando su turni massacranti,
senza nemmeno la possibilità di andare a fare la pipì. Scriveva Baduel: "Una
<linea> conta settanta operai e circa cento operazioni: a ognuno la sua
parcella di operazioni sempre uguale. E' previsto un <soccorritore> o
sostituto ogni 33 operai (il 3 per cento)." Il che voleva dire che non ci si
poteva allontanare mai dal posto assegnato. "Che cosa può fare un sostituto
con 33 operai?" - si domadava il giornalista dell'Unità. Sono parole che a
distanza di ben 47 anni mi hanno colpito. E' passato quasi mezzo secolo ma
le cose non sono cambiate, segno che la recente crisi economica, ma anche
la crisi di valori nella sinistra, hanno riportato le lancette indietro di tanti
anni.
Zanussi morì esattamente il 18 giugno del 1968 in un incidente aereo,
mentre si trasferiva in Spagna insieme ad altri dirigenti della sua azienda.
Delle preziose testimonianze su questa tragedia le troviamo sul quotidiano
spagnolo ABC, perché sui nostri giornali non è che le notizie fossero così
dettagliate. Il 20 giugno a pagina 79 ABC riportava il numero esatto delle
vittime, che erano sei: Lino Zanussi (48 anni), Juan Bautista Talotti (48 anni),
Diego Hurtado De Mendoza (32 anni), Alcio De Ivora (43 anni), e i due
piloti: Albertazzi e il co-pilota Milic. L'aereo, un bimotore della Piaggio
ancora in fase di prova, era partito dall'aeroporto di Barajas alle 16.20, in
ritardo a causa delle condizioni meteo, e si dirigeva verso quello di
Fuenterrabia di Bilbao, verso il mare. Il tempo come detto era pessimo, con
pioggia e nebbia. Giunto in prossimità delle alture di Hendaya, nei Pirenei, il
pilota Albertazzi disse alla torre di controllo di voler scendere a un'altezza di
500 piedi, verso la pista 23. L'ultimo messaggio del pilota fu lanciato quando
si trovava a 5.010 piedi. A questo punto il bimotore si andò misteriosamente
a schiantare contro il monte Jaizquibel. E' strano perché sembra di capire che
Albertazzi sapesse di essere sopra i Pirenei. Vi fu un guasto all'altimetro? O
fu proprio manomesso? I testimoni parlarono di un'esplosione. I loro nomi
sono: Narciso Lizano, che vide la tragedia e disse al figlio, Juan José, di
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avvertire l'aeroporto; e poi Felix Ducha, il quale chiamò la polizia di Irùn.


La spia Giorgio Rinaldi tempo dopo gridò al complotto, perché l'ingegner
Talotti era nella sua lista di collaboratori del Politburo; il KGB in parole
povere si aggirava tra gli imprenditori italiani più contestati. Ma nessuno
indagò mai su questa terribile tragedia. Eppure qualcuno degli estremisti di
sinistra deve aver conservato gelosamente il ricordo della Zanussi e delle
proteste del 1968. Nel 2003 venne ucciso un collaboratore dell'azienda di
Pordenone che era allo stesso tempo giuslavorista del ministero del Welfare,
Marco Biagi. Non penso possa trattarsi di un semplice caso, e lo stesso Biagi
denunciò, invano, il pericolo rosso alle istituzioni.

Marco Biagi chiedeva aiuto prima di morire

Marco Biagi chiedeva aiuto alle istituzioni, ma non lo ottenne. E' quanto
emerge da un documento del Copasir del 19 luglio 2002, nel quale il
Comitato esponeva le sue conclusioni sulla vicenda della morte del
giuslavorista Marco Biagi.
Il collaboratore del Ministero del Welfare venne ucciso a Bologna il 19
marzo 2002 e l'attentato fu rivendicato, si legge nel foglio redatto su carta
intestata della Camera e del Senato, da "gruppi del terrorismo rosso", come
ben sappiamo. L'elemento che colpisce è che Biagi chiese aiutò "con più
missive inviate alla questura e alla prefettura della sua città". Questo
avvenne dopo la revoca della scorta decisa il 3 ottobre 2001, il cui iter però
partì l'8 giugno 2001.
Il Comitato, quindi, escludeva che sulla vicenda vi fossero delle
responsabilità del Ministero dell'Interno. Piuttosto, concludeva che a privare
Biagi della protezione furono un eccesso di burocrazia e la necessità di
mantenere un buon numero di poliziotti sul fronte della lotta al terrorismo
islamico. Il Copasir arrivava a queste affermazioni dopo aver effettuato
un'audizione del prefetto Sorge, che fu l'autore di quell’indagine sulla scorta
di Biagi, che venne in parte pubblicata sui giornali. La fuga di notizie,
nell'ottica del Copasir, costituì un altro inceppamento del sistema di
sicurezza italiano. Più volte nella sua relazione questo organo di controllo
dei servizi segreti faceva riferimento alla fitta rete di "dipartimenti" che sono
stati creati per garantire la sicurezza delle autorità. Dipartimenti e procedure
che al cittadino comune sono completamente ignoti.
Biagi, dunque, chiese aiuto e non fu ascoltato. Ma lo fece soprattutto in
seguito a un evento che ha attirato la mia attenzione. Nell'ultimo periodo
stava collaborando con una ditta privata, la Electrolux-Zanussi, la quale non
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solo è poi divenuta nota in seguito alla crisi economica, ma fu travolta il 19


giugno 1968 dallo sgomento per la morte in aereo dell'imprenditore Lino
Zanussi e di un suo collaboratore, Talotti, il cui nome, secondo il giornale
L'Europeo, sarebbe comparso nella lista di informatori della spia del KGB
Giorgio Rinaldi Ghislieri, arrestata a Torino nel marzo del 1967.
Alla stessa lista si interessò anche il colonnello Renzo Rocca, un influente
uomo del Sifar che morì per uno strano suicidio il 27 giugno del 1968, dopo
aver scoperto che 157mila italiani erano stati schedati dai servizi segreti.
Marco Biagi, prima di morire, richiamò l'attenzione delle autorità di polizia
"su un documento - scriveva il Copasir nel 2002 - proveniente da gruppi
terroristici nel quale - scriveva - ‘questa azienda e il dottor Castro (direttore
del personale della Zanussi n.d.r.) sono richiamati a simbolo di quanto tali
signori vorrebbero distruggere’."
Secondo il Copasir, il gruppo sarebbe identificabile nei Nuclei Territoriali
Antimperialisti che in certi comunicati del settembre 2000 menzionavano
"con giudizi violentemente negativi proprio il modello Zanussi." Su questi
Nuclei indagarono la polizia e il Sisde, e due note della Direzione Centrale
della Polizia di Prevenzione inviate a tutte le questure il 30 agosto e il 19
novembre del 2001 avvertivano sul rischio di attentati per dirigenti e
sindacalisti. I moniti non vennero recepiti, evidentemente.

Basi missilistiche italiane nel degrado

Le notizie si sono avvicendate nel tempo senza sollevare alcun dibattito


nell'opinione pubblica. L'Italia per decenni ha dovuto accettare, come
richiede la costituzione, una limitazione della propria sovranità nazionale da
parte della Nato, la quale aveva installato, e si spera ciò sia avvenuto
effettivamente a scopo difensivo, diverse basi per il lancio di missili
Hercules e Ajax. Non è stato fatto, da quanto mi pare di capire, un conto
esatto delle basi che erano state costruite.
Quello che è certo è che questi siti erano presenti soprattutto nel nord-est:
undici nel triangolo: Vicenza-Pordenone-Rimini, ma tanti altri di cui vi sono
oggi tracce sul web non figurano in questo elenco. Andrebbero aggiunte le
basi ancora misteriose di Ancona e del Conero, quelle della Sardegna e
andrebbe indagato anche il rapporto tra le basi Nato del nord-est e quella di
Comiso in Sicilia.
Quest’ultima infatti venne alla luce solo perché la politica italiana si trovò,
verso la metà degli anni ‘80, a dover aprire le porte ai missili Nato
anti-Gheddafi, in un periodo nel quale il nostro governo era alla ricerca di un
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dialogo che ponesse la Libia, e il pur temibile colonnello, nel ruolo


internazionale di terzo interlocutore alternativo a Usa e Urss. Ma qui si
aprirebbe un altro capitolo poco chiaro, con risvolti sul presente: lo smercio
nel 1984 di armi dall’Italia alla Libia, complici Andreotti e i capi dello stato
maggiore dell’esercito.
Ebbene, tornando alla Nato, molti di questi siti sono stati via via abbandonati
dopo la caduta del Muro di Berlino, ma senza che tali eventi rimanessero
scolpiti nelle memorie storiche dei cittadini, se non forse a livello locale.
Sono stato tra i primi giornalisti, ad esempio, a documentare la riapertura ai
civili del sito militare di Ancona noto con il nome di Monte Cardeto. Ma
tanti altri devono ancora essere abbandonati nella stessa Ancona, dove pare
che l'attività consistesse solo nel controllo dei radar, o aspettano una
riqualificazione ambientale. Aspettano magari anche uno straccio di
inchiesta della Magistratura, per accertare cosa sia effettivamente stato
occultato in queste basi. Se infatti la storia della siciliana Comiso colpì
l'opinione pubblica per i dissensi politici, delle basi missilistiche del Veneto
non mi pare che il Parlamento si sia occupato approfonditamente,
specialmente in tempi recenti.
Provo allora a riassumere la situazione prendendo spunto dall'articolo de La
Stampa del 18 giugno 1966 in cui si parlava di un sopralluogo nella zona.
Una delle strutture più importanti pare fosse chiamata Base Tuono ed era
presente sul Monte Toraro e sulle alture limitrofe. Attualmente è sede di un
museo, ma molti dei suoi siti pare giacciano in stato di abbandono. Stesso
discorso per la base non lontana del Monte Grappa su cui abbondano i video
su Youtube. Proseguendo verso est scopriamo da un articolo di
corrierealpi.geolocal.it del 7 giugno 2011 che la terza base d'alta montagna, a
Pian del Cansiglio, è stata demolita. In abbandono appare inoltre la base di
Ceggia, e anche qui troviamo molti video, poi quella di Chioggia, su cui
sappiamo che è in degrado da un articolo del quotidiano "La Nuova" di
Venezia e Mestre, il quale parla di tentato furto nel 2013 in quella ex base
militare. Un'altra base, la Ca' Tron, risulta sia stata comprata dalla
Fondazione Cassamarca per un milione e mezzo di euro, come scritto
nell'articolo di oggitreviso.it del 3 dicembre 2009. Della ex base Nato di
Zelo si sta occupando il Movimento 5 Stelle, che denuncia sul suo sito
l'intenzione del Ministero dell'Interno di costruire nell'ex base militare il
primo centro di identificazione ed espulsione per immigrati irregolari del
Veneto. Ancora: l'ex base militare di Calvarina giace abbandonata come
emerge dai siti che ne documentano lo stato di degrado, quella di Bovolone
dal sito dell'aeronautica risulta abbandonata dal 2 giugno 2010, la base di
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Cordovado è stata chiusa più o meno nello stesso periodo, visto che la
notizia è stata data il 22 gennaio del 2010 dal Messaggero Veneto, mentre
poche notizie si trovano a una rapida ricerca sulle basi di Montichiari, nel
bresciano, e di Bagnoli, sempre in Veneto. Infine sulla base di Monte Venda,
sui Colli Euganei, è stata aperta un'inchiesta per l'amianto presente
all'interno del tunnel dove lavoravano i militari dell'aeronautica, i quali
pertanto, secondo l'accusa, si sarebbero ammalati di cancro e alcuni di loro
sarebbero deceduti.
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L’ANTITERRORISMO DEI GLADIATORI

Il 17 marzo del 1981, nell’ambito dell’inchiesta sul falso rapimento di


Michele Sindona, gli inquirenti Colombo e Turone scoprirono nella villa di
Licio Gelli i documenti che provavano l’esistenza di una loggia massonica
deviata denominata, Loggia Propaganda 2, e una lunga lista dei suoi iscritti.
L’allora presidente del consiglio Arnaldo Forlani rese pubblica la lista dei
nomi solo il 21 maggio del 1981: tra i 962 iscritti a quella che poi fu nota
come la loggia P2 c’erano due ministri, Manca del PSI e Foschi della DC, e
molti militari. Si parlò anche di una domanda di iscrizione del generale Dalla
Chiesa.
Un’altra associazione clandestina fu svelata il 24 ottobre del 1990 dall’allora
presidente del consiglio Giulio Andreotti, Gladio. Fu giustificata come una
struttura parallela per la salvaguardia del Patto Atlantico della Nato da
un’invasione dell’Armata Rossa.
Queste deviazioni rispetto alla vita democratica condizionano ancora oggi la
politica e la stampa? Per poter rispondere al quesito bisogna tornare su
alcuni episodi che le cronache hanno dimenticato, cominciando da un
omicidio che risale al 1981.

L'attentato "fantasma" al generale Enrico "Calvaligi"

Che sulla storia delle Brigate Rosse ci sia ancora molto da scrivere lo
dimostra il vuoto di notizie sul generale dei carabinieri ucciso nel
Capodanno 1980-81.
Con tutti i rotocalchi di attualità che abbiamo a disposizione oggi sulla
nostra tv di Stato, sui canali privati di Mediaset e sui tanti canali digitali e
nei quotidiani online, personalmente, da giornalista esperto in storia
contemporanea resto sconcertato nell'apprendere per caso, consultando come
spesso faccio gli archivi online esteri, della morte del generale dei
carabinieri e capo dell'Antiterrorismo in Italia, Enrico Calvaligi.
Chi è mai costui? mi sono chiesto. Il New York Times martedì primo
gennaio 1981 scriveva, a proposito del suo efferato omicidio: "Italian
antiterrorist general is shot and killed in Rome". Tale era il titolo del
quotidiano americano.
Calvaligi era il braccio destro del generale Dalla Chiesa, morto come
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Calvaligi un anno dopo circa, ma a quanto pare molto più conosciuto, visto
che su Dalla Chiesa sono stati fatti anche dei film. E dire che fu un attentato
con una chiara rivendicazione. A quanto pare, l’omicidio del capo
dell’Antiterrorismo fu una risposta delle Brigate Rosse a una contemporanea
operazione dei carabinieri nel carcere di Trani. Enrico Calvaligi, secondo
Giuseppe Meroni, articolista del quotidiano svizzero Libera Stampa, era
responsabile del coordinamento dei servizi di sicurezza degli istituti di
prevenzione e pena. Fu ucciso con sei colpi alla testa nel giorno dell'ultimo
dell'anno, mentre tutti festeggiavano l'avvento del 1981. Racconta Meroni
che Calvaligi e la moglie stavano rientrando a casa a Roma in via Gerolamo
Segato nel quartiere Ardeatino, dopo aver assistito alla Messa. Non ebbero il
tempo di festeggiare il nuovo anno, perché due giovani attirarono il generale
in un agguato con l'inganno: gli consegnarono un pacco dono, e mentre lui
preparava la mancia estrassero le armi e fecero fuoco. Per Libera Stampa
furono tre i colpi mortali, per El Pais Espana furono ben sei. Il generale
Calvaligi aveva 61 anni. Secondo Meroni i due giovani delle Brigate Rosse
si allontanarono con una 128 Fiat verde che poi venne abbandonata.
Sembra, sempre leggendo il giornale svizzero, che il nome del generale
Calvaligi non fosse noto a nessuno se non agli inquirenti, ma che sarebbe
sfuggito ad un magistrato durante un "interrogatorio" delle Brigate Rosse, il
magistrato Giovanni D'Urso, rapito proprio in quel periodo dai terroristi. In
seguito, il 24 giugno del 1983 Libera Stampa pubblicò un altro articolo in
cui raccontava dell'arresto del brigatista Pietro Vanzi, 27 anni all'epoca dei
fatti, mentre era in una strada del quartiere Prati a Roma. Al Vanzi era stata
trovata addosso una pistola con i sigilli della Confederazione Elvetica,
perché, e così recitava il catenaccio del giornale, la pistola era in dotazione
all'esercito svizzero. Vanzi, scriveva Libera Stampa, lavorava per l'editore
Feltrinelli, e per i carabinieri poteva essere responsabile, tra i vari delitti,
anche della morte di Enrico Calvaligi.
Fin qui il fatto nudo e crudo secondo i giornali esteri, che erano molto
documentati. Potremmo essere soddisfatti se non fosse che nei database
italiani dei due giornali, i quali mettono a disposizione, su internet, i propri
archivi, parlo di La Stampa e L'Unità, il nome di Enrico Calvaligi non
compare. E se compare, su L'Unità ciò avviene, non nel 1981, ma il 10
marzo 1955, nell'ambito di un articolo su un'aggressione dei fascisti alla sede
del PCI a Roma. Calvaligi era intervenuto insieme alle forze della Polizia
per constatare i fatti.
Insomma, Calvaligi non compare da nessuna parte, e se si cerca su Google il
suo nome i risultati sono solo quelli dei giornali esteri, più alcune vie
60

intitolate al generale, e poco altro. Cosa c'era in questa storia che non poteva
essere raccontata, tanto da censurare, e mi riferisco qui solo a La Stampa e
L'Unità (ma non è poco), persino la notizia del suo omicidio nel gennaio
1981?
La risposta è sorprendente: il fatto non era per niente stato censurato, ma era
uscito un po’ ovunque. Tuttavia il nome del generale che era stato pubblicato
sui quotidiani italiani era diverso da quello dei quotidiani esteri. Così il
generale Calvaligi sui quotidiani italiani era diventato il generale Galvaligi.
O viceversa. Perché: qual era il nome giusto? Sono andato a cercare le prime
pagine di La Stampa e L'Unità. La Stampa apriva con l'attentato il 2 gennaio,
il primo gennaio il quotidiano non usciva. Il titolo spiegava che questo
generale stava collaborando con il giudice D'Urso, che era stato rapito dalle
BR. Quindi, Stampa Sera usciva con le indagini e spiegava come gli
inquirenti fossero riusciti a ricostruire i volti dei due attentatori. C’erano la
biografia del generale morto, e via via molti altri articoli sulle indagini.
Ovviamente cercando "Galvaligi" emergono molti più articoli anche su
L'Unità e pure su La Provincia di Pavia. Si tratta di un fatto che è stato poco
studiato, tant'è che del generale Galvaligi parla anche Gilberto Mastromatteo
nella sua tesi di laurea del 2004 diventata un libro: "Quando i media
staccano la spina". Mastromatteo è un giovane giornalista di Ancona che ha
collaborato con Il Corriere Adriatico e l'ho conosciuto in quanto partecipava
insieme a me alle riunioni del Sigim, il sindacato marchigiano dei giornalisti.
Nel suo libro incentrato sul sequestro D'Urso il giornalista Mastromatteo cita
solo in un paio di pagine il generale Galvaligi, chiamandolo appunto
generale dei carabinieri e associando al suo nome solo il ruolo di
responsabile della sicurezza nelle carceri. Un piccolo errore che tutti
avrebbero commesso senza leggere i quotidiani esteri. Dando una rapida
occhiata ai quotidiani già menzionati, Galvaligi, oltre ad essere chiamato con
la G iniziale, emerge nel “coccodrillo” delle varie redazioni italiane come un
generale dei carabinieri esperto di sicurezza nelle carceri. Se si era occupato
di terrorismo, ciò era avvenuto quando era stato braccio destro del generale
Dalla Chiesa o, appunto, perché riceveva rapporti su tutte le carceri più
pericolose d'Italia. E' proprio qui il punto. Per il New York Times quella
notte di Capodanno tra il 1980 e il 1981 non morì un personaggio di secondo
piano bensì il capo dell'Anti-terrorismo nel nord Italia. E morì un certo
generale Enrico Calvaligi, che a Jesi ha dato persino il nome a una via in cui
abitano delle persone.
Bruno Vespa nel suo libro, pubblicato nel 2004, dal titolo: “Storia d’Italia da
Mussolini a Berlusconi”, ha raccontato un dettaglio inedito. Galvaligi, ormai
61

possiamo chiamarlo ufficialmente così, fu ucciso per reazione alla dura


repressione attuata nel carcere di Trani dai carabinieri dei Gis. Ciò che il
noto giornalista della Rai non specifica è che i Gis (che noi riteniamo siano
confluiti nel Gos) erano un reparto speciale dei carabinieri che una decina di
anni dopo finì nel ciclone delle polemiche su Gladio. Secondo infatti la
commissione parlamentare di inchiesta sull’esercito segreto della Nato, di
cui si seppe l’esistenza solo nel 1990, il reparto speciale del Gos era un
gruppo scelto di militari i quali, oltre a contrastare il terrorismo in varie
occasioni, tra cui proprio la rivolta nel carcere di Trani, avevano anche
compiti di spionaggio a favore del Patto Atlantico. Ecco quindi che
l’omicidio del misterioso capo dell’Antiterrorismo si trasforma da semplice
giallo a un momento chiave di quella che possiamo chiamare la storia
italiana della guerra fredda.

SCANDALOSO: "Gladio" spiava tutti gli italiani negli anni '80

Gladio spiava tutti gli italiani. E' quanto emerge da un documento


parlamentare di 65 pagine che fu consegnato al Presidente del Senato
Spadolini il 22 aprile del 1992, pochi giorni prima delle dimissioni anticipate
di Cossiga da Presidente della Repubblica e poche settimane prima delle
stragi in cui morirono i giudici Falcone e Borsellino.
Il documento fu redatto da una specifica commissione, presieduta da Libero
Gualtieri, che fu creata ad hoc per fare luce sulle vicende della nota
organizzazione denominata "Gladio", la quale avrebbe operato nell'ombra
per fronteggiare militarmente una eventuale invasione dei sovietici.
Nel 1990 la notizia, scaturita dalle ammissioni del Presidente del Consiglio
Andreotti, fece scandalo, ma si sgonfiò rapidamente. Questa commissione,
invece, sequestrando una mole cospicua di documenti importanti presso il
Sismi, accertò che non solo Gladio era esistito con lo scopo militare che era
stato confessato, ma dal 1977 questo organo si era radicato nell'apparato
giudiziario italiano con compiti di spionaggio di soggetti civili.
Avete capito bene? Proprio negli anni del rapimento Moro, del quale ancora
si parla in questi giorni sui mass media, della strage di Bologna e di Ustica,
vi erano dei militari - sottolineava la stessa relazione - che, mentre
lavoravano per contrastare il terrorismo, svolgevano il doppio gioco
raccogliendo informazioni per Gladio. Questo è un punto chiave, che
dimostra una pericolosa e inconfessabile commistione tra politica e giustizia,
che potrebbe aver influito su tante indagini più recenti.
Dopo aver creato dei sottolivelli operativi, Gladio negli anni '80 impartì loro
62

dei compiti di polizia: "il «centro Ariete» di Udine doveva occuparsi di


antiterrorismo, il «centro Libra» di Brescia di crimine organizzato, il «centro
Pleiadi» di Asti di crimine organizzato e sicurezza industriale." Un corpo
speciale era denominato Gos. Fu impegnato nel servizio scorta a personaggi
importanti, tra cui il Pontefice, e venne "attivato" per il sequestro della nave
"Achille Lauro", "per la rivolta nel carcere di Trani", che precedette la morte
del generale Galvaligi11, "per il dirottamento su Malta di un jet egiziano e
per il sequestro Dozier." Tutti questi sottolivelli di Gladio facevano capo alla
Divisione 7 del Sismi, organo, quest'ultimo, che si occupava di spionaggio
militare e che dalla riforma del 1977 era separato dal Sisde, il quale invece
operava per la difesa della democrazia. Il documento specificava che,
nonostante le trame della P2 di Licio Gelli fossero divenute di dominio
pubblico, Gladio continuò a tramare nell'ombra, aggirando il controllo del
Copasir. Anzi, dal 1984 accrebbe, sotto la direzione dell'ammiraglio Martini,
"la sua sfera di attività". Questa si articolava attraverso il controllo
spionistico di sei settori: popolazione, amministrazione, politica, economia,
trasporti e comunicazione. Commentava quindi la Commissione: "Come si
può notare, netta è la prevalenza di temi del tutto «civili» che hanno ben
poca attinenza con la predisposizione di informazioni finalizzate ad
operazioni militari (sia pure in un contesto di «guerra non ortodossa»).
L'attenzione informativa - proseguiva - è posta sulle biografie degli
esponenti politici più influenti (dal livello locale a quello nazionale), su
movimenti, associazioni, partiti e sindacati, su giornali, agenzie di
informazione e agenzie di pubblicità, sugli organigrammi di industrie e
categorie produttive. - E concludeva così - : A differenza del passato, questo
schema non rappresentava solo uno strumento addestrativo: rispettando
l'articolazione della traccia numerata, le strutture periferiche furono infatti
invitate a produrre delle relazioni trimestrali."
Relazioni segrete, ma la cui presenza poteva essere sospettata dai politici.
Fin dai primi anni, il Sismi sceglieva a sua discrezione quali cariche dello
Stato informare, ma dal 1984 la nota sulla presenza di una struttura segreta
venne fatta firmare a quasi tutti i presidenti del Consiglio e ai loro principali
Ministri. Queste gravissime notizie avrebbero meritato un maggiore
approfondimento politico, che le vicende successive del 1992 e 1993 non
permisero. Da questa mancata resa dei conti nascono forse i problemi
politici di oggi: i processi di Berlusconi, le continue guerre ad un terrorismo

11
Questa annotazione su Galvaligi non è presente nel documento e resta il dubbio sul nome del
generale: Calvaligi o Galvaligi?
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invisibile per tutti, tranne che per i servizi, e una magistratura inconsistente.
Speriamo che questo libro possa rompere il muro di omertà che c'è nello
Stato.

La loggia P2 credeva nella manipolazione del cervello?

E' quanto emerge dopo la morte di Fabrizio Trecca, che si è spento pochi
giorni fa a 74 anni. Era medico, conduttore televisivo, ma soprattutto, come
ha sottolineato Il fatto quotidiano, un importante membro della Loggia P2 di
Licio Gelli. Trecca è stato inoltre uno scrittore di film per la televisione.
Uno in particolare, Gamma, è sconcertante. Trecca lo ha scritto alla metà
degli anni '70, ambientandolo nel futuro. In questa pellicola vi sono forse i
segreti della mentalità criminale della Loggia P2? Il film racconta la vita di
Jean Delafoy, un uomo che, dopo un incidente d'auto, sarebbe certamente
morto se il professor Duval non lo avesse sottoposto al primo trapianto di
cervello della storia. In un'atmosfera non tanto diversa da quella più famosa
di Ufo Shado, Trecca immaginava un mondo in cui il cervello sarebbe stato
un organo da poter trapiantare senza rischi, ma anche da poter manipolare
facilmente. Jean Delafoy dopo la sua operazione torna alla vita cambiato, e
uccide una donna, senza saperne il motivo.
Scenari paranormali? Fantasie sulla sopravvivenza dell'anima? Trecca non
credeva in niente di ciò. Il futuro era per lui un luogo in cui avrebbe dovuto
vincere la scienza, con i suoi esperimenti, e la giustizia, con il controllo del
pensiero durante gli interrogatori. Una perfetta macchina giudiziaria, capace
di condannare in modo inequivocabile. Ma anche di fermarsi di fronte a un
errore evidente, oppure alla bravura degli avvocati. Nessun pentimento
avrebbe alleviato la condanna, ma solo una strenua negazione della
colpevolezza. Jean Delafoy viene salvato dal procuratore mentre la
ghigliottina sta per giustiziarlo per l'omicidio di quella donna che non
conosceva. Aveva solo subito un lavaggio del cervello durante la
rieducazione, che aveva mandato in fumo la perfetta operazione del
professor Duval.
Rivedere queste scene mette paura e pone degli interrogativi. La loggia P2 di
Trecca, ed è un fatto accertato, credeva nel controllo dell'informazione. Ma a
questo punto viene da chiedersi se ciò servisse davvero per una propaganda
di tipo fascista, oppure per applicare le teorie sul controllo del cervello di cui
parla il film. Queste teorie recentemente sono emerse a margine delle
inchieste per il delitto di Melania Rea, nelle ipotesi del magistrato Paolo
Ferraro. Ma anche i processi sono al centro del dibattito sulle riforme della
64

nostra società reale. Processi che da vent'anni determinano la storia


dell'Italia e di uno dei leader politici che fu iscritto alla loggia di Gelli: Silvio
Berlusconi. La domanda è: tra coloro che chiedono di velocizzare e
riformare la giustizia, c'è anche chi assegnerebbe alla polizia il compito di
controllare il cervello delle persone?
I documenti, e quindi la storia, dicono che un progetto simile venne attuato
sul serio. Accadde negli Stati Uniti per opera della CIA, il servizio segreto di
Washington, che era assai vicino politicamente agli italiani della Loggia P2.
Il folle piano si chiamava MK Ultra, e consisteva nell’ipnotizzare o drogare
delle cavie, che in certi casi erano lasciate ignare della loro sorte. Lo scopo
era vedere se fosse possibile persuadere delle vittime a compiere atti violenti
contro la loro volontà. Secondo Wikipedia, fu attuato tra gli anni Cinquanta
e Sessanta su cittadini statunitensi e canadesi, poi nel 1973 fu abbandonato.

Qual è il vero nome del brigatista Cesare Battisti?

Chi è veramente Cesare Battisti, il brigatista che spesso vediamo nelle


immagini del telegiornale? Potrebbe non essere questo il suo vero nome. Lo
si apprende leggendo l'articolo del quotidiano La Stampa uscito il giorno
dopo il suo arresto, il 27 giugno del 1979. Questo criminale di nomi ne fornì
ben due: Cesare Battisti e Giuseppe Ferrari, che sono entrambi due illustri
esponenti del Risorgimento italiano. E se Giuseppe Ferrari, un politico,
filosofo e repubblicano di sinistra dell'Ottocento, non è un nome notissimo,
Cesare Battisti lo conoscono anche i bambini della scuola. Fu un patriota
italiano dell'irredentismo trentino e venne giustiziato dagli austriaci il 12
luglio 1916.
Quindi è chiaro che parlare di Cesare Battisti senza porsi scrupoli è
impossibile. Se poi si vanno a cercare nell'archivio notizie su questo
brigatista che, con il sorriso beffardo, saluta gli italiani dal Brasile, si scopre
che il suo nome è legato a una storia molto, ma molto complicata: quella del
delitto Torregiani (o Torreggiani). Come molti miei coetanei, che erano
bambini al momento dei fatti, mi sono chiesto se fosse mai stato compiuto
questo delitto. Ebbene sì, il delitto c'è stato, come è vero che in quella
sparatoria il figlio adottivo Alberto fu ferito e costretto a vivere su una sedia
a rotelle12. Ma è una storia che non è chiara per niente. Non è facile

12
Sembra che Alberto Torregiani, il figlio dell’orefice ucciso nel 1979 che spesso viene
intervistato dalle tv nazionali, viva a Novara, lavori come programmatore informatico e sia
iscritto al partito dei Fratelli d’Italia. E’ quanto si apprende cercandolo su Facebook.
65

ricostruire questo fatto di cronaca.


Il delitto avvenne il 16 febbraio del 1979 nella periferia nord di Milano, in
via Mercantini. Pier Luigi Torregiani, all'epoca 43enne, lavorava come
orefice ed era noto come il "gioielliere-pistolero". Aveva infatti partecipato a
una sparatoria nella pizzeria "Transatlantico" il precedente 22 gennaio del
1979. Ma nel corso di quell'episodio c'erano scappati due morti, un
rapinatore, tale Orazio Daidone, ucciso dall'orefice, e un cliente, Marcello
Vittorio Consoli, freddato da uno dei rapinatori mentre tentava la fuga. Il 16
febbraio vi fu quindi una specie di vendetta: un gruppo di uomini, quattro o
cinque, chiamò l'orefice e gli sparò più colpi. Pier Luigi Torregiani ebbe il
tempo di prendere la pistola e rispondere al fuoco, ma non riuscì a centrare i
banditi, bensì, pare di capire, colpì il figlio adottivo Alberto, che rimase
paralizzato. Torregiani ovviamente morì.
Ci fu subito una svolta nelle indagini, nelle quali emerse che il rapinatore
ucciso precedentemente da Torregiani era un uomo del clan mafioso dei
catanesi, che erano attivi anche nelle Marche nello stesso periodo e che non
erano affatto da sottovalutare. Scrissi un articolo per il Resto del Carlino su
una sparatoria avvenuta nel 1977 a Porto Recanati. Riguardo al delitto di
Milano, pertanto, si pensò subito a una vendetta, cosa abbastanza ovvia.
Scrisse La Stampa il 18 febbraio del 1979 che la polizia aveva mostrato le
foto di uomini, noti come appartenenti al clan dei catanesi, ai testimoni del
delitto Torregiani. Un uomo fu riconosciuto: era uno dei membri del
commando che aveva ucciso l'orefice. Ma le indagini presero subito dopo
una virata verso altre piste. Il clan dei catanesi fu sottovalutato.
La Stampa scrisse, nello stesso periodo, che erano giunti alla polizia dei
volantini di presunti brigatisti, i quali adoperavano varie sigle, e
rivendicavano il gesto. Tuttavia pare che i "Proletari armati per il
comunismo" smentissero, sulle prime, di essere coinvolti del delitto. Lo
fecero telefonando il 17 febbraio a Radio Popolare. Ma la polizia prese con
decisione quella strada, tant'è che scattarono arresti e denunce verso molti
giovani ritenuti membri di nuclei armati del terrorismo, praticamente una
dozzina. Tra questi non c'era alcun Cesare Battisti. A fine febbraio '79
sembrava già che l'inchiesta fosse chiusa, ma iniziarono le smentite. Gli
indagati, dapprima trovarono degli alibi convincenti, poi cominciarono ad
accusare i poliziotti della Digos: "Siamo stati torturati".
Il caso esplose in tutta la sua gravità il primo marzo del 1979. I presunti
terroristi finirono per essere quasi tutti scarcerati e sotto accusa ci finì la
Digos, per i metodi brutali adoperati, si disse, durante gli interrogatori. Il
clima diventò incandescente e a farne le spese fu un poliziotto, di soli 25
66

anni, che non c'entrava niente, Andrea Campagna. I "Proletari armati per il
comunismo" lo videro in televisione associato al delitto Torregiani e lo
uccisero con freddezza. Stava per sposarsi e cercava casa con la futura
moglie.
Questo fatto mi lascia molto perplesso, pensando alle immagini della
televisione di oggi. I volti di carabinieri e polizia sono visibili e associabili a
ogni pericolosa operazione anti-mafia. Ma lasciamo perdere questi cattivi
pensieri. In quel 1979 non si era ancora usciti dagli anni di piombo, dalle
sparatorie per strada e dalle pistole usate con troppa disinvoltura dai cittadini.
Tra polizia e brigatisti era guerra aperta. Quello che non si capì mai era cosa
c'entrasse con le Brigate Rosse questo orefice di Milano, la cui colpa era
solo quella di girare armato per paura di ritorsioni della malavita. La sua
reazione alla rapina del gennaio '79 e l'uccisione di Daidone lo avevano reso
un possibile bersaglio. Pare che il giorno dell'agguato usasse un giubbotto
antiproiettile e che riuscì ad estrarre la pistola proprio per questo. Ma fu un
gesto che non gli salvò la vita, perché gli assassini mirarono alla testa.
Avete visto cosa è successo? Che abbiamo perso di vista Cesare Battisti. Lui
infatti fu arrestato solo a giugno del 1979, in una retata che seguì l'omicidio
di Andrea Campagna. Lo trovarono insieme ad altri componenti di quella
banda di sinistra, che nei primi giorni dopo l'omicidio Torregiani era riuscita
a cavarsela con gli alibi e le accuse alla polizia. Cesare Battisti era all'epoca
un personaggio del tutto marginale. Perché oggi non è più così? E' diventato
un "eroe" solo per la sua fuga avventurosa dal carcere nel 1981? C'è un altro
particolare che deve far riflettere. Il 28 marzo del 1979 l'avvocato di un
brigatista coinvolto nel processo Feltrinelli paragonò il suo assistito, Giorgio
Semeria, a Cesare Battisti, ma facendo chiari riferimenti alla storia del
Risorgimento. Nell'articolo di Alfredo Venturi de La Stampa disse: "Cesare
Battisti era considerato un eroe al di qua del Piave, un traditore dall'altra
parte." Ma Cesare Battisti doveva essere già noto nell'ambiente malavitoso,
quindi perché fare proprio quel nome?
Il 2 febbraio del 1980 arrivò poi una confessione che complicava
ulteriormente le cose. Un 23enne W. A. confessò, e subito ritrattò, di aver
preso parte, insieme ai suoi compagni di "Autonomia operaia", sia
all'omicidio Torregiani, sia a quello del giudice Alessandrini, del quale nello
stesso anno fu incolpato Roberto Sandalo di Prima Linea. Ma una lettera
trovata dagli inquirenti dimostrava che la confessione di W. A. era
attendibile. Cosa c'entrava il delitto Alessandrini con la morte del povero
orefice di Milano? C'era una connessione tra mafia e Brigate Rosse che non
si volle far emergere? Il processo contro Cesare Battisti prese il via il 12
67

febbraio del 1981, con 23 imputati, molti dei quali erano gli stessi dei primi
arresti della Digos. Le denunce per le violenze in caserma furono tutte
archiviate dalla Magistratura.
68

GUANTI BIS

Il 28 ottobre del 2014 Il Messaggero e il Corriere Adriatico hanno pubblicato


la notizia secondo cui un videomaker, Matteo Montesi, era stato denunciato
dai carabinieri per essersi introdotto in un tunnel militare del Monte Conero
per girare delle immagini.
Il video era stato in effetti divulgato intorno al 10 di ottobre 2014 su Youtube
e testimoniava la presenza di una struttura molto ben attrezzata per
nascondere probabilmente delle armi pericolose.
Ben prima, in tempi meno sospetti, avevo pubblicato sul mio blog una
possibile ricostruzione della storia di questa fantomatica base militare o della
Nato. Ma nessuno dei colleghi mi aveva dato retta, nemmeno gli autori di
Mediaset, che a marzo del 2012 mi avevano intervistato a Sirolo.
La faccenda a questo punto si è terribilmente complicata.

Matteo Montesi, il predicatore del web

C'è chi nei forum del web lo considera un profeta, chi un ragazzo senza
lavoro abbandonato dalla moglie, e chi lo segue per i video anche esilaranti.
Di sicuro Matteo Montesi è il nuovo fenomeno della rete e viene dalla
provincia di Ancona. Ha racimolato in poco tempo oltre 24mila iscritti nel
suo canale di Youtube, e raccoglie decine di migliaia di visualizzazioni per
ogni video, degli oltre 1100 che ha caricato. Ne ho visti diversi e non so
nemmeno io se paragonarlo al professor Tonelli, della defunta longariniana
Galassia TV, oppure all'Ottusangolo del più noto Canale 5.
Ci sono tante parolacce in questi video, volgarità e saluti al Duce che doveva
evitare di accostare alla religione, ma ritengo che Montesi possa essere un
ragazzo che dice quello che pensa. Mi sembra di capire che cerchi di
veicolare, molto liberamente, spinto dalla rabbia e dalla scarsa solidarietà
delle imprese locali, dei contenuti cattolici. Racconta la sua vita di tutti i
giorni: dal pneumatico della macchina che si buca, alla gita sul Conero, fino
alla recitazione del rosario per oltre trenta minuti al cimitero. Una cosa che
mi inquieta è la sua grande dimestichezza con la telecamera, questa sua
capacità di far vedere agli spettatori esattamente ciò che vuole. E' molto più
abile di una semplice persona che protesta contro i politici, e quindi capace
di portare il teleutente verso una visione fuorviante della società.
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Ci sono anche persone che lo aiutano nella creazione dei suoi contenuti,
quindi può trattarsi di un fenomeno costruito ad arte. Nel video che ho
messo in condivisione c'è forse la sua protesta meno volgare e più
condivisibile, quella per il lavoro perso per mano degli extracomunitari.
Forse Montesi non sa che questi ultimi sono anche più propensi ad accettare
condizioni di lavoro illegali. Non immagina, o non gli interessa, il fatto che i
sindacati da tempo abbandonano chi lavora a una trattativa impari e senza
regole, ma ha capito benissimo che della politica e dei sindaci, i suoi
possibili datori di lavoro, non c'è proprio da fidarsi.

Un doppio tunnel nel Monte Conero?

Non finisce di stupire questa vicenda del Conero e nuove rivelazioni da


fonte anonima sono comparse da poco tempo su Wikipedia. Molte
informazioni sembrano tratte dal mio blog, ma mi dissocio completamente
da chi ha pubblicato sull'enciclopedia informazioni così dettagliate.
Gli elementi di approfondimento sono tantissimi. Innanzitutto il doppio
tunnel che esisterebbe sul Conero: uno nella zona militare alta, lungo 800
metri, l'altro tra Poggio e Massignano, che io stesso ho fotografato da
Google. Pare che si sia addirittura discusso di convertire l'area in museo
archeologico, ma leggo tutti i giorni i quotidiani di Ancona e non mi risulta
che questo dibattito pubblico sia effettivamente avvenuto. Un dibattito che,
del resto, non potrebbe mai partire senza aver informato adeguatamente i
cittadini dopo anni di oblio sulla vicenda. Semmai quella proposta era nata
da qualche mia e-mail mandata privatamente ai vari partiti (di entrambi gli
schieramenti).
Un’altra curiosità viene dalla storia di Gianfranco Guanti, l'ecologista
arrestato nel 1984 per spionaggio con altre due persone. Ebbene, viene citato
Spadolini, come ministro autore della risposta alle interrogazioni
parlamentari, e non Scalfaro, come invece compare in un documento del
Parlamento che ho trovato e pubblicato. Quindi sarebbe disponibile qualche
altro documento? Probabilmente sì, perché un'altra novità è che la vicenda
pare si sia chiusa dopo ben 22 anni! Il processo d'appello degli ecologisti
avrebbe avuto luogo nel 2006, con il proscioglimento degli imputati. Va
bene la lentezza della giustizia, però qualcosa di strano c'è, non siete
d'accordo? Anche perché i quotidiani di Ancona hanno sempre ignorato
l'argomento e Italia 1, dopo l'intervista fatta al sottoscritto e censurata, ha
chiuso la vicenda con una ricostruzione di Ade Capone, su Mistero
Magazine, che giudico davvero poco credibile; quasi un depistaggio.
70

Indagine sulle attività segrete del Conero

Una risposta inviata da un utente del sito Nikemissile, accessibile solo agli
iscritti di questo forum, conferma quanto avevo già anticipato. Nel Monte
Conero è stata svolta dai militari un'attività di monitoraggio radar, simile a
quella di cui ha parlato l'emittente Tv7 a proposito del Monte Venda, vicino
Padova. La differenza tra le due basi consisterebbe, a mio avviso, nel fatto
che probabilmente la base del monte Conero ha ancora un'utilità nell'ambito
del progetto Echelon, visto che l'utente di internet parla di un collegamento
con Ponte Galeria.
“Si tratta di installazioni completamente diverse e separate. Quella in
località Poggio è un deposito munizioni in sede protetta della Marina
Militare che prende il nome dalla stessa località. Il 3° DAI, che vuol dire
appunto Distaccamento Autonomo Interforze, è una delle stazioni
periferiche del CII (Centro Intelligence Interforze) di Ponte Galeria a Roma.
Il compito è quello di intercettare e registrare comunicazioni radio e radar
prevalentemente. Il CII nasce a seguito dell'unificazione dei Sios di forza
armata in un'unica struttura dipendente dal II reparto di Stamadifesa. Prima
di diventare 3° DAI, la stazione del Monte Conero dipendeva dallo SMM e
ancora oggi credo sia gestita da personale della Marina Militare. Buona
parte dei centri periferici del CII sono in effetti ex stazioni MM, come lo era
lo stesso CII già noto come Centro 057 prima dell'unificazione dei servizi.
Dei tre centri dell'Esercito dipendenti dall'8° Battaglione ricerca elettronica
di Anzio due non sono più in vita e così meno della metà delle Squadriglie e
Sezioni AES (Analisi ed elaborazioni speciali) dell'Aeronautica (ne restano
in attività tre, credo)”.13
Ricorderete che la citata Ponte Galeria è la sede del Centro Intelligence
Interforze, base romana dalla quale secondo il sito Gr.net verrebbero spiati
molti computer e telefoni privati.
"“Echelon” o strutture simili in Italia non esistono? Il cuore
dell’Intelligence fantasma – collegato a varie stazioni di ascolto distribuite
capillarmente nella Penisola – è mimetizzato all’interno di una caserma
dell’esercito nel territorio di Cerveteri in provincia di Roma. Un lungo
recinto e poi un muro protetto all’interno da un terrapieno, filo spinato e
telecamere difendono due palazzine basse, una decina fra antenne
paraboliche – in collegamento col sistema satellitare Sicral – e alcune

13
Cfr: il sito Nikemissile.forumfree.it
71

casematte per la sorveglianza. “La base viene utilizzata attualmente come


orecchio elettronico per intercettare comunicazioni radio militari e civili
(Sigint), segnali elettromagnetici militari (Elint), comunicazioni via satellite
(Comint), trasmissioni immagini (Imint), telefonia di vario genere” attesta
la documentazione riservata dello Stato Maggiore Difesa. I messaggi
vengono trasferiti, trascritti e analizzati a Roma, all’aeroporto militare di
Ciampino e a Forte Braschi. Ovviamente, tutto in nome della lotta al
terrorismo internazionale e della sicurezza generale. Ma al servizio di chi?
In Italia non si può intercettare nessuno senza l’autorizzazione della
magistratura. Nel caso dei Servizi Segreti occorre il nulla osta delle Procure
Generali della Repubblica presso le Corti d’Appello. L’assoluta
discrezionalità e l’assenza di regole democratiche sembrano essere i tratti
essenziali del RIS, peraltro mai sottoposto finora ad un controllo
parlamentare."14
In passato avevo espresso i miei dubbi anche sul fatto che nel Conero vi
siano effettivamente state installazioni della Nato. Pensavo piuttosto a
qualcosa di ostile al mondo occidentale. Pare che avevo ragione pure su
questo aspetto. In un video pubblicato su Youtube compare una panoramica
dell’interno della base Nato di Mondragone, denominata Proto. In una delle
sale ormai abbandonate compare una mappa di tutte le basi Nato costruite
decenni fa in Italia e in altre nazioni. Non risulta su questa cartina militare
alcuna base Nato nell’anconetano e sul Conero.

La base Conero è abbandonata? Le foto smentiscono

Ho fatto un piccolo confronto tra le immagini satellitari di Google e di


Yahoo, puntandole sulla base che c'è in cima al monte Conero. Si nota che
nell'immagine di Google, quella che ho già fotografato con il computer, ci
sono due auto. Una molto grande si trova nel parcheggio in basso, in uno
spazio probabilmente chiuso da un muretto. Mi sembra una Multipla Fiat,
comunque una monovolume. Vicino si riconoscono anche dei bidoni della
raccolta differenziata. Questi alieni di Mediaset insomma producono rifiuti e
magari vanno anche al bagno. Nell'immagine di Google, oltre a poter
ingrandire quelle che sembrano delle rampe missilistiche all'interno del finto
campo di calcetto, c'è un ulteriore dettaglio: in un altro parcheggio a destra,
verso l'uscita, si vede una specie di rimorchio nero; ma potrebbe trattarsi

14
Cfr: l’articolo: “Ris l’orecchio tecnologico dei servizi segreti italiani. Ecco il grande fratello
militare”, presente sul sito grnet.it.
72

anche di un'auto bruciata.15


Il bello di questo confronto, semplice semplice, ma molto importante, è che
tutto questo nell'immagine di Yahoo non si trova. Non ci sono né la
monovolume, né il rimorchio, ma sono visibili altre quattro normali auto.
Due, una chiara e una scura, parcheggiate verso il campo di calcetto, una,
grigia, nel piazzale davanti all'edificio quadrato nero, e un'altra, bianca, forse
un'altra monovolume, la trovate di fianco al posto in cui nell'immagine di
Google era presente il rimorchio nero. Di fronte all'edificio nero si vede
anche uno strano pullman con il tetto sporgente o un camion bianco, che
nella foto di Google non è presente. Il finto campo di calcetto su Yahoo
sembra sia stato coperto con un pallone bianco, di quelli che vengono
gonfiati durante la stagione fredda nei veri centri sportivi. Quindi le presunte
rampe non sono abbandonate, ma forse vengono ancora mantenute in
efficienza. Un'altra differenza è che i bidoni della raccolta differenziata
nell'immagine di Yahoo sono diminuiti di numero, non sono più 5 ma solo 3.
E' sparito il bidone verde, e quello giallo ha preso il posto di quello bianco,
che pure non c'è più. La cosa che non mi spiego è che la botola tondeggiante,
che si vede su Google, su Yahoo sembra sparita, ma va aggiunto che
l'immagine di Yahoo è meno dettagliata.
Per una base abbandonata mi sembrano notizie importanti. Su un altro sito,
chiamato Terra Server, esiste una terza foto, meno ravvicinata ma più
tridimensionale. E' facile notare che nel campo di calcetto ci sono delle
strutture che si sviluppano in altezza e queste a me sembrano rampe
missilistiche. Vi sono poche macchine, soprattutto una nella zona di ingresso
della base. Colpisce anche il verde molto curato della parte a sinistra della
base, segno che il luogo non è per niente abbandonato.

Inaccettabile atto dei carabinieri contro Matteo Montesi

Il giovane simpatico e un po' colorito di cui parlavo alcuni mesi fa, Matteo
Montesi, come molti sapranno per aver visto il suo video, il 10 ottobre 2014
è riuscito a documentare con immagini splendide la presenza della base
all'interno del Monte Conero (chi non lo ha visto lo cerchi online). In questi
mesi ho avuto modo di conoscere meglio questo videomaker e di dargli
anche dei consigli per migliorarsi.
Questo per dire che ora apprezzo di più il suo lavoro e trovo incredibile
quello che sta accadendo intorno alla vicenda del Conero. Matteo Montesi

15
In seguito un lettore mi ha spiegato che si tratta probabilmente di un pick-up.
73

oggi pare sia stato denunciato dai Carabinieri di Castelfidardo, e gli è stato
notificato con un documento che lui mi ha appena mandato via e-mail. A
prima vista mi pare più che altro il processo di Kafka, ossia nell'atto manca
totalmente l'accusa, mancano le indagini, mancano prove. C'è un processo,
lui ne è il colpevole unico e la Legione Carabinieri di Castelfidardo è partita
all'attacco, ma senza chiamare un magistrato.
Infatti a me pare che il documento sia privo della firma di un magistrato,
pertanto da quello che ho letto io, che pure sono ignorante in materia legale,
non ha valore. Anzi, mi convinco sempre di più che la vicenda del Conero
sia la chiave che apre molti segreti di questo Stato. I carabinieri si sono
preoccupati di punire severamente, e senza indagini, una persona che ha
svolto giustamente il suo lavoro di cronista, ma hanno chiuso tutti e due gli
occhi sulla gravità di quanto documentato dallo stesso Montesi e dai miei
post del blog.
Ricevo molti messaggi in questo periodo e molte persone segnalano cose che
si rivelano veritiere. Il vero nodo è che queste persone ritengono che i segreti
militari del Conero debbano prevalere sulle leggi civili, quindi anche,
evidentemente, sul parco naturale. Purtroppo per loro di ufficiale non c'è
nulla sulla base: non ci sono cartelli chiari, non c'è (e su questo ho la mia
parte di colpa) sui giornali alcuna notizia che renda la base del Conero un
elemento presente nella quotidianità della gente, non ci viene tramandata una
storia che sia attendibile. Ora questa presa di posizione rischia di aprire
proprio una guerra tra militari conniventi con situazioni clandestine, e la
base che Montesi mostra ha decisamente l'aria di esserlo, e civili inermi.
Speriamo che lo strappo venga ricucito senza che si scoprano altre trame
occulte degne più del generale De Lorenzo e del suo golpe piuttosto che di
una società tranquilla che vive di sole e di mare, ufficialmente.

Inaccettabile anche la foto a sfondo religioso di Montesi...

Per quella legge giornalistica secondo cui una notizia muore quando
l'interesse del pubblico diminuisce, oggi continuo ad interessarmi del
caso-Montesi. Il giovane di Castelfidardo il 29 ottobre 2014 ha pubblicato
l'ennesimo video in cui risponde all'articolo uscito sul Corriere Adriatico. Si
tratta di un monologo di un'ora e un quarto su cui io non intendo esprimermi,
perché significherebbe seguire questo stucchevole botta e risposta tra
giornalisti che, insieme, stanno facendo una pessima informazione.
Sbucano come nel 1984 dal nulla dei bunker all'interno del Monte Conero,
una storia che, se era assurda prima, lo è ancora di più adesso. Non c'è una
74

storia di questa base, non c'è un solo intervento di un esperto che abbia il
coraggio di dire il suo parere su cos'è quello schifo. Non c'è niente. Al centro
dell'attenzione c'è solo Matteo Montesi con i due giovani del sito web Italian
Ghost. Si finirà inevitabilmente per parlare di questo, e si finirà per sbagliare.
Perché, difeso il video giornalistico, che avrei potuto fare anche io, se non
avessi letto sui vecchi quotidiani la storia del Monte Conero, ci sono due
cose da dire: una, e a Montesi l'ho detta direttamente, è che la legge afferma
che l'attività giornalistica la può svolgere solo ed esclusivamente chi è
iscritto a uno degli elenchi dell'albo dei giornalisti. Chi non lo è, deve
seguire il percorso che l'ordine richiede per iscriversi. Quindi entrare in una
redazione e pubblicare articoli sotto il controllo di professionisti e pubblicisti
che possano fare da tutor. Dopo due anni di pratica da collaboratore, pagata
dall'azienda e con ritenuta d'acconto versata allo Stato, si diventa pubblicisti.
Se invece si lavora in redazione, come dipendente, ci si può iscrivere come
praticanti per diventare, dopo due anni, professionisti; a patto che la
redazione contenga almeno tre professionisti e due pubblicisti. Queste erano
le regole nel 2000 quando mi informai per la prima volta. Mi pare che oggi
ci sia un esame da svolgere per tutti e due i percorsi che ho detto.
Montesi pubblicando su Youtube dei video si espone a rischi e pericoli,
soprattutto in questo periodo in cui l'informazione è minacciata da tanti
poteri forti; forze dell'ordine comprese. La seconda considerazione è che
Montesi, mentre lamenta il dramma di dover subire un processo penale, pur
sapendo, come gli ho detto, che il documento dei carabinieri che mi ha fatto
vedere è contestabile e illegale, pubblica oggi sulla sua pagina Facebook una
foto in cui appare chiaramente travestito da suora. Personalmente mi sento
offeso da questa foto e non accetto che lui mi scriva "che Dio ti benedica"
via e-mail. Perché sono stato per 10 anni a scuola dalle suore da bambino e
l'educazione, oltre che a casa dai miei, l'ho ricevuta da quelle persone
squisite, sensibili, attente, ma molto dure dal punto di vista disciplinare.
Insomma è stato fatto una gran casino in questa informazione, e il servizio di
ieri di Raidue sui 3 euro a pezzo dei giornalisti non giustifica questo andazzo,
nemmeno ammettendo che per 3 euro a pezzo non c'è più la qualità
dell'informazione. Basta chiacchiere sui giornalisti e parli solo la legge, a
questo punto.

Base Conero: cosa c’entra l’Aeronautica?

Le cose che sono state pubblicate sul Corriere Adriatico riguardo al Monte
Conero sono molto gravi, e il seguito, che mi è stato letto per telefono ieri,
75

non cambia la situazione. A mio avviso la peggiora. Siamo tornati nel 1984 e
di nuovo spunta dal nulla una base di cui mai e poi mai la politica e la
stampa locale di Ancona parlano come tema di attualità, su questioni di
sicurezza specialmente. Il motivo è semplicissimo: il monte Conero è un
parco naturale dal 1987 e non può certo essere il Vietnam, se è vero, come è
vero, che ci sono cercatori di funghi, turisti in bicicletta, bagnanti a pochi
passi; e ci sono pure politici che vengono pagati molti quattrini per fare non
si sa che cosa nell'ente parco del Conero.
Questo è uno scandalo colossale, che per non avermi voluto ascoltare esce
sui giornali nel modo peggiore possibile. Ora cosa accadrà? Come andrà
quel processo di cui parla Montesi, il discutibile personaggio-santone che
attira moltissimi estimatori? E' un abilissimo comunicatore, ma volgare e,
ribadisco, costruito dal punto di vista mediatico da qualcuno, per scopi
tutt'altro che religiosi. E poi ci sono i militari. In molti mi hanno contattato,
prima per minacciarmi, poi per attirarmi sul monte Conero. Anche il cast di
Mistero ha cercato, in un fuori onda che mi auguro che la Magistratura
acquisisca, di istigarmi ad introdurmi nella base.
La questione più singolare di questa vicenda è che si sia inserita in questa
storia l'Aeronautica, nonostante i tunnel si fosse sempre detto che sono di
proprietà della Marina Militare. Aerei, d'altronde, lì non se ne vedono. Mio
nonno, quando nel 1968 era colonnello dell’Aeronautica, scrisse un libro,
sull'organizzazione a livello medico-legale dei distretti militari di leva. Il
diritto di cronaca mi impone, nonostante i 70 anni del segreto militare non
siano passati, di dire qualcosa. Per ora l'unico elemento significativo è che il
distretto di Ancona è direttamente collegato con quello di Forlì; anzi,
formano proprio un unico distretto. Guarda caso, sono stato contattato fino a
pochi giorni fa da un personaggio abbastanza strano che non ho mai voluto
incontrare, che si muove tra Forlì e il Conero. Mi invitava a fare delle
passeggiate sul monte, vicino alla base. Magari per fare la fine di Montesi,
ammesso che non sia tutta una montatura questa storia della denuncia.
Non è una bella situazione, mi pare un clima di congiura vergognoso dell'era
di Gladio. Esiste ancora questa falange armata della politica? Vedremo,
quello che è certo è che l'interessamento dell'Aeronautica non mi convince e
gli ho scritto anch'io per segnalare ciò che sto scrivendo. Forse si sta
giocando un po' troppo, e il mio nonno materno si starà rivoltando nella
tomba: non amava questa mancanza di serietà. Oggi è il 2 novembre e vorrei
ricordarlo pubblicando un suo ricordo. Quando da bambino ci portava, alla
domenica, all'aeroporto di Pratica di Mare mi ricordo che si mettevano tutti
sull'attenti. Mi auguro che almeno oggi qualcuno si ricordi di rispettarlo.
76

Caso Matteo Montesi, i carabinieri confermano la perquisizione

Questa è la mia lettera inviata ai carabinieri per approfondire il caso


Montesi.
Spettabile Arma dei Carabinieri, sono un laureato in Lettere che in questi
anni svolge l'attività giornalistica saltuariamente su un blog molto seguito.
La mia richiesta verte sul caso del videomaker, Matteo Montesi, il quale si
sarebbe introdotto in una zona che in precedenza era stata adibita a base
militare. Almeno, questo è quanto si evince dal video, ma anche da quanto
era stato scritto sui quotidiani del 1984 circa un episodio analogo. Matteo
Montesi, che non conosco personalmente, secondo me ha compiuto un
grande scoop giornalistico e questo al di là del suo modo di fare
informazione-spettacolo che non condivido affatto dal punto di vista
deontologico e religioso. Proprio in questi mesi ho infatti terminato una mia
ricerca sulla storia del Monte Conero e sull'attività spionistica legata alla
presenza di questa presunta base. Sono partito con decisione in questo lavoro
solo allorché ai racconti di un ex compagno di scuola di Ancona ho potuto
unire quelli più precisi che mi sono stati fatti dal giornalista di Borgomanero
Daniele Godio, con il quale ho lavorato ad AltaitaliaTV nel 2009. Per
quest'ultimo, e forse per i torinesi che leggevano La Stampa, Ancona sarebbe
la "città dei missili". Un legame, quello tra la città dorica e l'aspetto bellico,
che mi giungeva nuovo, anche perché ero arrivato ad Ancona, da Roma, solo
nel 1989 a causa di un trasferimento che mio padre accettò come direttore
del Sanpaolo IMI (mio padre è deceduto nel 2009 in seguito all'aggravarsi di
una malattia, che è stata talmente assurda da spingermi a raccontarne alcuni
dettagli alla polizia di Novara, dove sono residente).
Questa introduzione mi serve per arrivare al dunque. Ho ricevuto, il 28
ottobre 2014, una e-mail da Matteo Montesi, a cui in precedenza avevo fatto
i complimenti per ciò che stava pubblicando sul Conero. In questa e-mail il
videomaker mi annunciava di aver ricevuto una denuncia per ciò che aveva
registrato il precedente 10 ottobre nel presunto bunker, ma non solo. Aveva
subito una perquisizione da parte dei carabinieri a casa sua e persino la
censura del video sul bunker del Conero. In questa stessa e-mail mi aveva
allegato i due fogli della denuncia subita, che erano stati redatti su carta
intestata della "Legione Carabinieri di Castelfidardo".
Ho quindi scritto sul mio blog la mia opinione su questo fatto e mi sono
schierato decisamente contro il provvedimento attuato dall'Arma dei
Carabinieri su Matteo Montesi. Non condivido nemmeno l'informazione che
77

il Corriere Adriatico e il Messaggero hanno scelto di fare sull'argomento.


Ritengo sbagliato sia il punto di vista dei fatti, il porsi a difesa del bunker,
sia il tentativo tutt'altro che democratico di cancellare le prove che all'interno
del Conero vi sono dei tunnel militari, il cui scopo resta ignoto. Mi chiedo e
vi chiedo, pertanto, se questa non sia magari una trovata pubblicitaria dello
stesso Montesi o se sulla vicenda giudiziaria vi saranno degli sviluppi.
Questa la risposta dei carabinieri:
"1. In riferimento alla sua e.mail inviata in data 11 novembre 2014 al
Comando Legione Carabinieri Marche – Nucleo Relazioni con il Pubblico,
si comunica che il giorno 28 ottobre 2014, la dipendente Stazione
Carabinieri di Castelfidardo ha proceduto al controllo del Sig. MONTESI
Matteo, per identificazione ai sensi dell’art. 349 c.p.p., nell’ambito di
indagini di polizia giudiziaria preliminari, avviate dalla Stazione
Carabinieri presso il Centro di Formazione Aviation English
dell’Aeronautica Militare di Loreto (AN).
2. L’esito delle attività d’indagine svolte è stato doverosamente riferito
all’Autorità Giudiziaria per le valutazioni ed i provvedimenti di competenza.
Il Comandante della Compagnia Carabinieri di Osimo. Capitano Raffaele
Conforti"

Chi ha sfondato la “porta dell’ade”16?

Il discutibile videomaker Matteo Montesi l'ha combinata grossa, insomma,


ed è finito sotto processo. Il 10 ottobre 2014 si è introdotto, insieme a due
giovani di Italian Ghost, in un tunnel del Monte Conero che, si evince dal
suo video, sembrava non avere mai fine. Il tunnel del quale ho spesso letto
leggende e ipotesi sui vecchi giornali ora ha una sua fisionomia, e pare non
essere nemmeno l'unico. Questo che è stato ripreso sembra sia stato
dismesso da tempo. Si intuisce che ha più diramazioni e porta a un bunker, a
delle stranissime docce e a delle altrettanto incomprensibili stanze.
Le domande a questo punto sono tante. Affrontiamone due: uno, come ha
fatto Montesi a capire che poteva trattarsi di uno dei tunnel della Nato (o del
KGB)? Qui ci possono essere più risposte: una traccia poteva consistere nei
post del mio blog "E-cronaca", che Montesi conosce bene. Un'altra traccia
era il servizio della trasmissione Mistero, durante il quale Marco Berry
veniva ripreso, a un certo punto, davanti alla porta di un tunnel in cima al

16
L’Ade era per gli antichi l’aldilà. Nell’Eneide di Virgilio è famosa la discesa nell’Ade
dell’eroe Enea per incontrare il padre Anchise.
78

Conero. Questa porta, tuttavia, appariva chiusa ermeticamente. E l'attore


infatti non era entrato. Era il 2012. Domanda numero due: cosa è successo
nel frattempo? Non lo sappiamo. La zona boschiva ufficialmente non è
controllata da militari. Non c'è nessuno che possa dirci qualcosa. E ci
mancherebbe pure. Il monte Conero è un parco naturale e non vi dovrebbe
essere edificato nulla; la legge è molto severa su questo punto.
Un ex militare, che era in contatto con me, ha ipotizzato che sia stato lo
stesso Montesi a rompere quell'ingresso, mentre lui si difende sui giornali
dicendo che l'accesso era stato violato da almeno un mese. Ho chiesto quindi
al videomaker, mostrandogli delle foto, se la porta che veniva inquadrata a
Mistero sia la stessa che hanno varcato loro. A me, che non sono mai stato
lassù, apparivano diverse. Ma Montesi ha affermato che la porta è la stessa.
La verità sulla violazione di questo sito avrebbe dovuto svelarla un'inchiesta
delle forze di polizia, ma questa non c'è stata affatto. La ragione mi pare
chiara: un'inchiesta svelerebbe anche i nomi di coloro che occupano
abusivamente l'area. Ci si limita, al contrario, a difendere, come nel 1984, un
sito militare di cui ci si ostina a non voler svelare gli scopi.
E non è tutto, perché entro in gioco anche io. Da alcuni anni vengo
contattato da personaggi che cercano di fare amicizia con me, per poi
spingermi ad indagare sul monte Conero e magari a farmi una passeggiata da
quelle parti. Tra questi falsi amici c'è anche Ade Capone di Mistero. Secondo
le sue parole avrei dovuto collaborare con la trasmissione di Italia 1 dal 2012,
ma dopo che hanno scopiazzato dal mio blog alcuni pezzi, che sono usciti
nei loro servizi sul Conero, di Mistero e di Capone ho perso proprio le tracce.
E così è stato anche per gli altri falsi amici. La denuncia contro Montesi li ha
fatti fuggire? Eppure è la prova che il Conero è tuttora un sito molto
importante per chi cospira contro la libertà dei cittadini. La mia posizione è
questa: non scambiatela per passione per la storia militare!
Quindi, più che mettere in atto un revival del 1984, di Guanti e del suo
strano gesto, io mi aspetto che finalmente si possa capire meglio chi trama
nell'ombra dalle viscere del monte Conero. E se Guanti, che recentemente ha
fatto parte del Consiglio del Parco del Conero e mi pare venga citato
nell'articolo del Corriere Adriatico, ha un nuovo ruolo in questa brutta storia,
beh che si faccia finalmente avanti e dica la sua. Io lo sto aspettando da
tempo.

Altre denunce per Montesi, ma la colpa è dei giornalisti


79

Non ho mai visto questo video della King Plast. Comunque esprimo
solidarietà al videomaker Matteo Montesi per quanto gli sta succedendo,
sperando che non si stia facendo pubblicità falsificando atti giudiziari. Certo,
la proprietà privata è inviolabile, però è altrettanto vero che, se ci sono
segnalazioni di problemi per i cittadini, il cronista deve poter svolgere la sua
professione. In parole povere: ubi maior minor cessat. Io a differenza di
Montesi, che fa una sua pseudo-informazione da solo e senza tutele, conosco
i giornalisti delle Marche e mi sento di spezzare una lancia in suo favore,
nonostante di fatto sembri colpevole. I colpevoli morali secondo me sono i
giornalisti di Ancona, che stanno perdendo ogni giorno occasioni ottime per
fare un'informazione più attenta alle esigenze dei loro lettori.
Non nascondo che anche io ho fatto in passato servizi di denuncia di questo
tipo, anche se quasi sempre, se non ricordo male, i miei reportage si
svolgevano in luoghi pubblici. Oltre 10 anni fa rischiai qualcosa seguendo
una denuncia dell'ex presidente dell'Autorità Portuale ed entrando in una
caserma militare ormai dismessa nel porto di Ancona, che era piena di
immondizie e volatili morti. Il capo della Capitaneria di Porto mi voleva
denunciare, ma desistette grazie a una rettifica di Lucio Martino e della
cronista Frattagli. E' chiaro che uscire sul Resto del Carlino è molto diverso:
i carabinieri spesso invitano i redattori alle conferenze stampa, perché hanno
l'esigenza di promuovere la propria attività (me lo ha specificato per e-mail
la Guardia di Finanza). Il problema forse è un altro: Montesi è solo e dà
fastidio ai grandi editori. Anche Mediaset, che si interessò nel 2012 alla base
del Conero, pubblica questo tipo di irruzioni con Striscia la Notizia o con
Mistero, ma non prende denunce con altrettanta facilità. Anzi, alcuni
graduati dei carabinieri partecipano alle trasmissioni televisive per risolvere
(li risolvono?) i casi di omicidio e di violenza, che stanno comunque
aumentando.
Che dire? L'informazione che fa Matteo Montesi, seppure sia discutibile e
non condivisibile da parte mia per certi versi, in alcuni video sembra
essenziale, perché sostituisce quella che gli editori marchigiani, vuoi per
avarizia, vuoi per motivi politici, non fanno più, rinunciando ad assumere
collaboratori nelle zone più periferiche dell'anconetano. Mi auguro che
Matteo Montesi riesca ad iscriversi all'ordine dei giornalisti delle Marche e
che prenda contatto con altri giornalisti locali, in modo da riuscire ad evitare
di pubblicare foto e video che io ho trovato offensivi della stessa religione
che Montesi vuole praticare pubblicamente. In sostanza, c'erano tanti video
di Montesi da censurare, ma questi proprio non erano i più indicati.
80

SPIE MILITARI

Vendita di materiale bellico dall’Italia all’Iran, contatti dell’Italia anche con


Kazakistan, Libia e Somalia. Se ne parla su Globeresearch un sito di
presunte spie dell’intelligence italiana in cui spicca un omonimo e sosia non
perfetto dell’ex caporedattore de Il Resto del Carlino di Ancona, Lucio
Martino. Proprio mentre Berlusconi parlava a Capodanno del 2010 del
Kazakistan ecco quindi spuntare un sito nel quale gli italiani dimostrano di
conoscere nei dettagli l’armamento non solo del Kazakistan, e quindi
mettendo in crisi l’ex premier Berlusconi, ma pure della Libia della quale
veniva venduto un libretto per pochi euro in cui si illustravano dettagli delle
forze armate di Gheddafi. Sono notizie non ufficiali perché non compaiono
sui libri di storia, ma alcuni esponenti del PD hanno partecipato a conferenze
organizzate dai membri di Globeresearch. Internet inoltre dimostra di essere
pieno di informazioni a carattere militare che parlano di fabbriche di armi in
Italia. Tra le ultime notizie c’è quella della futura costruzione a Cameri, in
cui sorgerebbe una piccola Area 51, delle ali dei cacciabombardieri
acquistati dal Governo.

Le armi dell’Iran, del Kazakistan e della Libia viste dall’Italia

La notizia per noi sconcertante arriva da un sito di presunti agenti segreti di


varia nazionalità, nel quale mi sono imbattuto per
caso, www.globeresearch.it, dove uno di questi agenti segreti sarebbe un
sosia (non perfetto) del mio ex caporedattore: Lucio Martino; sosia e per di
più omonimo.
In questo sito si parla sia di Iran, sia di Kazakistan, nazione,
quest'ultima, divenuta di attualità per il discorso del presidente del consiglio
Berlusconi a capodanno del 2010.
Il nostro paese, secondo uno studio portato avanti da un membro italiano di
questo gruppo di intelligence, tale Vincenzo Palmieri, avrebbe rifornito
Teheran di materiale bellico fino al 1987, si legge nell'articolo datato 23
maggio 2008 e intitolato: "Iran: Valutazione generale sicurezza e Forze
Armate", e lo avrebbe fatto in compagnia di Stati Uniti, Gran Bretagna,
Francia e Germania. In pratica tutti i principali stati occidentali.
"Il materiale bellico del quale Teheran si avvale è stato fornito infatti – negli
81

anni – da numerosi partner militari: Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia,


Germania, Italia e Unione Sovietica hanno rappresentato i principali
fornitori sino al 1987"
"Dopo di allora - prosegue la nota - sono stati più attivi i contatti con
Brasile, Israele e Corea del Nord."
E ancora, nelle righe precedenti di questo lungo articolo, vi sono importanti
dati sull'armamento bellico dell'Iran, paese di cui si parla tanto, ultimamente,
sui giornali italiani in seguito ai presunti test nucleari. "L’Aeronautica è
organizzata in nove squadroni d’attacco a terra - scrive questo studioso -
cinque di contrattacco e uno di pattugliamento; la sua maggiore base è a ...
(ve la leggete su Globeresearch), dove sono stanziati jet di fabbricazione
statunitense – inclusi F-14 – ed elicotteri italiani Bell 205 e 206, costruiti da
Agusta e Panha." Dunque secondo questo studio l'Iran disporrebbe tuttora
nel proprio armamento anche di elicotteri fabbricati nel nostro paese.
Come sono state ottenute informazioni così segrete da questo gruppo di
intelligence chiamato Globe? Sono vere o è tutta una montatura? E' un
mistero, così come è strano che tutto questo sia stato pubblicato online a
disposizione di tutti, insieme a un altro studio, ancora più dettagliato, sul
Kazakistan, paese di cui, sarà un caso, ha parlato come ho già accennato il
presidente del consiglio Silvio Berlusconi nel suo discorso di fine 2010. Del
Kazakistan sappiamo, grazie a Globe, praticamente tutto: economia,
relazioni commerciali, storia, e ovviamente ciò che riguarda forze armate e
armamento, nella maniera più dettagliata possibile, comprese basi militari,
equipaggiamento e munizioni.
Non mancano inoltre su Globeresearch guide sulla Libia, la sua storia e le
sue forze armate, (a pagamento questo libro), e articoli sul transito di armi in
Somalia.
Va aggiunto, per essere il più possibile imparziali, che con questo gruppo di
studiosi o agenti di intelligence (non si capisce bene cosa siano) avrebbero
collaborato anche, ma diremmo soprattutto, membri del parlamento italiano
appartenenti al centro-sinistra. La prova starebbe in un pieghevole di una
conferenza di studio, avvenuta nel febbraio del 2007, sull'Iran e la sua storia,
ma che in realtà, ci sembra di capire dal testo in inglese, cercava di
analizzare le possibilità di investire capitali italiani in Iran, giusto o sbagliato
che fosse.

Asmae Dachan, dai servizi segreti al giornalismo

Con i suoi articoli e i reportage sta testimoniando la crudeltà della guerra in


82

Siria. Asmae Dachan è una giornalista da prima pagina per l'Ordine dei
Giornalisti delle Marche, tanto da comparire tra i professionisti dal giugno
2015.
La cultura di Ancona poteva a questo punto ignorarla? L'ha accolta a braccia
aperte ed ha esposto alla Mole Vanvitelliana una mostra con le foto delle
stragi siriane, per le quali la Dachan ha ricevuto un premio e sta girando
l'Italia per raccogliere applausi (per la verità le visite alla sua intervista sono
solo 30 per ora).
Ma dove ha fatto il praticantato Asmae Dachan? E' un bel mistero. Non
basterebbe certo la collaborazione con il mensile Mondo Lavoro, per il quale
sulla sua pagina Linkedin dice di lavorare dall'ottobre 2014. Non resta che
Globeresearch, per il quale afferma nel suo curriculum di aver collaborato.
Ma un attimo: quello era un sito di intelligence, e la legge vieta ai giornalisti
professionisti di aver a che fare con i Servizi!
Se non ricordo male Globeresearch non aveva molta sensibilità per i morti
delle guerre, bensì era concentrato nella vendita di armi all'estero. Vi
lavoravano un certo Lucio Martino, che si occuperebbe di strategia militare,
e Nicola Pedde, il quale collabora con Gnosis, il sito dell'AISI, che è
l'Intelligence del Presidente del Consiglio.
Su Globeresearch erano disponibili persino dei libri con l'elenco dettagliato
delle armi di Gheddafi in Libia e del Kazakistan. Si può considerare
giornalismo un’attività simile?
Notai quel sito nel 2007, perché un mio caporedattore al Resto del Carlino di
Ancona si chiamava proprio Lucio Martino e somigliava molto al collega
della Dachan. Tant'è che salvai quella foto, che oggi è sparita in quanto il
sito Globeresearch risulta chiuso. Ebbi la sensazione che il Lucio Martino
militare volesse somigliare al "mio" Lucio Martino. Come mai? Le leggi
italiane questi illustri signori le conoscono.
Ma Asmae Dachan è anche la figlia di Nour Dachan, il presidente della
comunità islamica in Italia, che intervistai più volte per il Carlino oltre dieci
anni fa. Sono rimasto male nello scoprire su altri quotidiani importanti che
questo Imam, apparentemente così mite, non sia considerato un uomo
pacifico come voleva far credere. Basterebbe leggere gli articoli che
scrissero Il Giornale e La Stampa. Lo definirono “oltranzista”, cioè un
fanatico dell’Islam radicale. Si ipotizzò che fosse anche implicato
nell’attacco al World Trade Center. E non è tutto. C'è un video su Facebook
che lo ritrae recentemente nella massoneria di Ancona, quella che nel
1943-44, secondo gli storici di fama come Massimo Papini, fu complice dei
nazisti.
83

Ho provato a scrivere sia ad Asmae Dachan, sia al Lucio Martino in versione


militare. A distanza di un anno sto ancora attendendo una risposta.

Quando il Carlino fu indagato per le indiscrezioni dei Servizi

La storia di Asmae Dachan ci riporta al 1979, quando si vociferava che i


servizi segreti intrattenessero rapporti con i giornalisti di Ancona.
All'epoca, il procuratore di Ancona Umberto Zampetti inviò un avviso di
garanzia a un giornalista del Resto del Carlino, Luciano Biliotti, accusandolo
della pubblicazione di notizie false e tendenziose. Biliotti aveva pubblicato il
10 agosto del '79 uno scoop sul capo dell'antiterrorismo Carlo Alberto Dalla
Chiesa. Scrisse che un suo uomo era stato arrestato dalla Digos perché
scambiato per un terrorista delle Brigate Rosse. Invece si trattava, pare, solo
di un infiltrato speciale, che in una casa di Montacuto (Ancona) intratteneva
rapporti con uomini di estrema sinistra.
Secondo un collega di allora di Biliotti, che preferisco non nominare, sembra
che il giornalista del Carlino avesse ricevuto quell'indiscrezione da un uomo
dei Servizi. Il contatto diretto con i Servizi sarebbe anche la spiegazione
della presenza, nei quotidiani più importanti di Ancona, della bassa
frequenza della Polizia di Stato. Potrebbe essere lì dalla fine degli anni ‘70, o
forse da prima ancora. Non mancarono nemmeno le tragedie in quel gruppo
di giornalisti, impeccabili dal punto di vista professionale. Nella primavera
del 1976 morì in un incidente d’auto, mentre si recava in autostrada da
Rimini ad Ancona per lavorare come ogni giorno, Valentini, il caporedattore
del Carlino. Un lutto troppo a lungo dimenticato.
Ma ecco cosa scrisse lo stesso quotidiano quel giorno del lontano 1979 sul
qui pro quo della Digos. L’articolo nella cronaca nazionale non era firmato.
Iniziava così: “Un sottufficiale dei carabinieri, in forza allo speciale nucleo
dell’antiterrorismo del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, che da qualche
tempo operava segretamente e sotto falso nome nelle Marche con l’intento
d’infiltrarsi nella ‘colonna marchigiana’ delle Brigate rosse, è stato
smascherato e quindi irrimediabilmente ‘bruciato’ dagli agenti della Digos
regionale che, dopo aver circondato l’appartamento che aveva preso in
affitto, vi hanno fatto irruzione armi alla mano e difesi dai giubbotti
antiproiettile.”
I poliziotti avrebbero agito in buona fede, convinti di essere alle calcagna di
un vero criminale. Accadde invece un “putiferio”, il Carlino gli dedicò
ampio risalto in cronaca, e la Procura della Repubblica, su denuncia della
Digos, decise di prendere dei provvedimenti. Perché lo fece? E’ possibile
84

che Biliotti fosse finito su una storia più grande di lui. Le più recenti
ricostruzioni storiche sul terrorismo degli anni di piombo cominciano a
parlare seriamente di una collusione tra i servizi segreti e le Brigate rosse. Il
metodo dell’infiltrazione all’interno dei gruppi eversivi risalirebbe al 1974,
agli arresti del nucleo storico di Franceschini-Curcio, mentre dal 1977 in poi
le Brigate rosse potrebbero essere state manovrate direttamente dai servizi
deviati o dalla P2.
Questa ipotesi sostenuta da storici come Roberto Bartali spiegherebbe la
parte finale dell’articolo del 1979 del Carlino. Il quale a proposito del
terribile errore della Digos scrisse: “Sembra - ma nessuno ha voluto
ufficialmente confermare - che la notizia dell’istituzione di una base segreta
dell’antiterrorismo nella nostra città sia stata tenuta nascosta a tutti,
Prefetto e Questore compresi, oltre naturalmente gli stessi funzionari
regionali della Digos.”
Il Resto del Carlino molti anni prima aveva parlato anche di un’altra base
della zona di Ancona, quella del Monte Conero. Il 4 ottobre del 1971 citò la
struttura segreta dei militari addirittura nel catenaccio del titolo sulla spia di
Monfalcone, Carlo Biasci, il quale aveva rubato lo schema degli impianti
radar "di Monte Conero" per venderlo all'Egitto.
Quel giorno Biasci veniva rinviato a giudizio dal giudice istruttore Antonio
Alibrandi, poi molto discusso per la sua appartenenza all'estrema destra e per
le accuse di Jannuzzi di aver pilotato il processo Anas. La notizia, partita da
Roma e non da Ancona, uscì in modo molto simile in parecchi quotidiani
nazionali. Emerge comunque un particolare nuovo. Solo due mesi prima, il 2
agosto del 1971, quando il PM Mario Bruno aveva richiesto l'incriminazione
della spia, su alcuni giornali si parlò di un altro giudice istruttore, Eugenio
Fusco. E fu così anche nel 1973 al momento della sentenza di condanna a 11
anni.
E' quindi possibile che Alibrandi fu chiamato solo temporaneamente per le
sue competenze in ambito spionistico-militare.

"Giornalista-spia è chi denuncia ai detentori del potere"

Queste bellissime parole furono pronunciate dal magistrato Giovanni Conso


su La Stampa del 15 settembre 1976. Era da poco scoppiato lo scandalo
delle spie del Sid (oggi Aisi) presenti nei grandi giornali. Secondo il
periodico Tempo, 186 giornalisti erano a libro paga dei Servizi. Si disse che
esistesse un elenco, nel quale 81 giornalisti risultavano arruolati tra il 1966 e
il 1968 e 65 dal 1975. L'indiscrezione fece nascere un'inchiesta giudiziaria,
85

che fu affidata al procuratore Alberto Dell'Orco. Questi aveva già un


fascicolo aperto sul cosiddetto Supersid, una struttura deviata che fu attiva
nel Sid tra il 1970 e il 1974, quando il Servizio era sotto la direzione di Vito
Miceli. Le prime indagini partirono ai tempi del fallito golpe di Junio Valerio
Borghese. Lo scandalo delle spie fece infuriare molti grandi nomi del
giornalismo, che querelarono il periodico Tempo. Su La Stampa intervenne
quindi, in un corsivo intitolato "Il nostro Stato", Giovanni Conso, ex
presidente della Corte Costituzionale, scomparso il 2 agosto 2015. Cercò di
distinguere il vero giornalismo, di chi cerca di divulgare notizie al pubblico
più ampio possibile, da chi trama nell'ombra.
Poco chiara è sicuramente la spiegazione che fu offerta da Oscar Luigi
Scalfaro, quando era ministro dell'interno, sulle attività militari nel monte
Conero. Nel 1985 affermò, rispondendo a un'interrogazione parlamentare dei
Verdi, che le zone militari del Conero potevano coesistere con i turisti. In
quello stesso periodo, tuttavia, è certo che si fece pagare una tangente di 250
milioni dai "servizi", i quali ancora oggi si dice che controllino la base.
E' quello che si può concludere in base alle affermazioni del generale
Cornacchia, ex dirigente del SISMI, presenti nel libro del 2013 di Antonella
Colonna Vilasi "Storia dei servizi segreti italiani". La richiesta ingiustificata
di denaro fu inoltrata dal capo di gabinetto del ministero dell'interno
Lattarulo al funzionario amministrativo del SISDE, Timpano, e venne
relazionata da Cornacchia ai suoi dirigenti.
Scoppiò lo scandalo. La tangente venne dapprima negata dall'ex ministro e
presidente della Repubblica, poi ammessa e giustificata in modo poco
credibile, secondo il generale Cornacchia, perché sarebbe stata devoluta a un
istituto di religiose. Oltre a quella vicenda dei fondi neri del SISDE, furono
scoperte dalla magistratura, tra il 1992 e il 1994, anche delle illegalità
finanziarie nei conti dei "servizi", e venne sventato un tentativo di
depistaggio da parte di un giudice, il procuratore Vinci. Non c'è una diretta
connessione con il Conero, tuttavia quelle parole di Scalfaro sulla
coesistenza possibile tra base militare e turisti non possono non essere
condizionate da quell'episodio di concussione di cui fu protagonista, negli
stessi anni, l'ex ministro.

E intanto il Conero diventa il Vietnam?

Preoccupa ciò che succede nel monte Conero, che nella sua versione
militaresca fa capolino in cronaca, e spaventa, solo quando un malcapitato si
fa arrestare. In quei casi scopriamo che sotto cinghiali, alberelli e uccellini
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c'è il Vietnam. Sì, c'è il Vietnam, cari signori. I militari secondo un noto
giornalista italiano che scrive contro la camorra avrebbero la licenza di
"sparare a vista" su chi entrasse nella base. Dobbiamo accettare un'assurdità
simile? L'ultima presunta spia è questo videoamatore di Castelfidardo,
Montesi, il quale in uno dei più recenti video ha ripreso dei furgoni che,
forse, portavano da mangiare ai militari del Conero. Ma possibile che dei
militari seri non abbiano una fureria, ossia una cucina con dei militari cuochi,
e si facciano portare le vivande da sconosciuti? Mi sembra strano.
Ma poco credibile è lo stesso videoamatore quando sostiene di essere stato
processato e minacciato dai servizi segreti. Pare che la porta d'accesso al
lunghissimo tunnel abbandonato sia stata murata e che sopra, ma solo ora, vi
sia un cartello militare. Come mai allora sul sito Vivereancona, che fa
pubblicità al comune dorico, è ancora presente una foto dell'8 maggio 2012
che ritrae l'interno del tunnel ripreso dal Montesi e poi censurato?
Nel frattempo Montesi mi ha confidato che teme di essere ucciso se sarà
divulgato il suo video sul bunker del Monte Conero. Racconta spesso, anche
nei suoi video, che un uomo dei servizi segreti, con un atteggiamento tra il
paternalistico e il minaccioso, entrò lo scorso anno in casa sua per cancellare
il video dal computer.
Anche a me erano state rivolte anni or sono, sul blog, minacce di morte se
mi fossi avventurato in quei posti: "Uscirai in una bara", tuonava il tipo.
Montesi precisa di avere un figlio di 8 anni e che sarebbe un dramma se
dovesse rimanere senza padre. Interpellato sulla situazione, il noto scrittore
Sergio Nazzaro, che compì un'incursione simile nella base di Mondragone,
ha assicurato l'interessamento di una deputata del Movimento 5 Stelle, ma si
è schierato dalla parte di questi fantomatici militari: "Nel caso quei luoghi
vengano violati possono sparare a vista". Eppure vedo in tutti questi fatti un
eccesso di violenza che avvalora le mie ipotesi più estreme: che il Monte
Conero sia oggi legato a misteriosi rituali mafiosi o massonici, coperti da
insospettabili complicità.

Intervista a Montesi: "L'agente segreto del Conero aveva un accento


inglese"

Montesi continua a far discutere con i suoi video trasgressivi, ma è


preoccupato. Come sappiamo, afferma di essere stato contattato da un agente
dei servizi segreti, che sarebbe andato a casa sua, a Castelfidardo, e gli
avrebbe cancellato dal computer di casa il video in cui documentava i tunnel
del monte Conero. Sulla vicenda è in corso un processo. Montesi ha
87

comunque risposto ad alcune mie domande:


Ciao Matteo, mi descrivi questo agente segreto? parlava in dialetto
anconetano?
<No, non parlava il dialetto anconetano, ma inglese, anche se parlava
italiano.>
Nei video parli spesso di religione, qual è il tuo rapporto con la chiesa
intesa come istituzione?
<Massimo, il mio rapporto con la chiesa è molto solidale. Dio mi dona
direttamente la grazia di portare avanti questa mia attività, ma i sacerdoti
della mia zona sono in disaccordo su ciò che faccio.>
Cioè cosa dicono?
<Il parroco della mia zona, Don Bruno Bottaluscio, mi ha detto di portare
avanti la mia opera di evangelizzazione, purché in modo equilibrato. Mentre
don Paolo mi ha detto che sono squilibrato. Don Andrea non mi può vedere
nemmeno camminare, mentre i catechisti di Castelfidardo non mi
sopportano...>
Matteo, mi hai incuriosito, perché un agente segreto non l'ho mai visto.
Cos'altro ricordi di lui?
<Era biondo con gli occhi verdi, alto, molto arrabbiato e con un portafoglio
strapieno di carte da 50.>
Tu prepari questi video perché ti ritieni un giornalista, oppure perché
vuoi fare spettacolo? O magari perché ti piace che la gente segua i tuoi
insegnamenti religiosi?
<Io riprendo e creo video dal 1989, per passione. Poi dal 2010 in Youtube,
perché sto portando avanti la missione di avvicinare più anime possibili
all'amore di Gesù. Ma non mi baso sulle religioni, perché sono guerra e
divisione.>
Mi hai detto che Youtube ti paga uno stipendio tramite Divimove. Io so
che è una ditta di Berlino che chiede almeno 70 mila contatti mensili per
offrire i suoi servizi. Tu come fai a garantirglieli?
<Divimove mi prende una percentuale, ma di più non posso dire.>
In precedenza avevo posto altre domande al videoamatore Montesi,
nell'ambito di una discussione privata. Ne sintetizzo alcuni passaggi e le
rendo pubbliche perché mi preoccupa il modo di comunicare di questo
personaggio. Nei video cerca proprio di catturare, ipnotizzare, l'utente
entrando di prepotenza nella sua vita. Certe volte le risposte non sono state
coerenti con le mie domande. La grammatica, poi, l'ho rimessa a posto,
perché non è il suo forte.
Matteo, ho detto sul mio blog che temi di essere ucciso. Ritengo che
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quell'informazione sia di interesse pubblico.


<Certamente, ma i militari stessi mi hanno eliminato la produzione video
direttamente a casa mia ed ho una denunzia penale e presto avrò la sentenza
in tribunale. Non mi invento niente, sono fin troppo sincero e dico troppo a
tutti e poi me la prendo dietro.>
Io nel mio blog avevo avvertito di aspettare che fossero le forze
dell'ordine a entrare nel monte Conero... comunque hai avuto più
coraggio di me e sicuramente Mediaset ti manderà in onda.
<Grazie Massimo sei molto gentile e corretto, Gesù ti benedica.>
Hai mai chiesto al vescovo di Ancona-Osimo cosa pensa della tua attività?
Cosa pensi del Papa?
<Sì, mia mamma aveva scritto a Giovanni Paolo Secondo ed esso ci ha
risposto con una benedizione e anche al Papa Benedetto. Ha risposto al mio
operato con una benedizione.>
Vorrei sapere la tua vera identità. Sei parente del Montesi del Resto del
Carlino?
<Sì è mio parente molto alla lunga da parte di mio padre Raimondo.>

La famiglia di una spia russa nell'anconetano

“Walter Litvinenko, padre di Alexander Litvinenko, la spia russa morta


avvelenata a Londra nel 2006, dopo la morte del figlio si è rifugiato in Italia,
a Senigallia, raggiungendo l'altro figlio Maxim.” Scriveva così il sito
Viveresenigallia.it il 10 marzo del 2010.
Non è una notizia nuova per me, visto che nel periodo della morte della spia,
nella redazione anconetana del quotidiano nazionale per cui scrivevo, si
parlò proprio di un fratello della vittima presente a Senigallia. Il Resto del
Carlino tornò sulla vicenda nello stesso periodo del sito senigalliese, nel
2010, quando il padre di Alexander, la vittima dell'avvelenamento, accusò
Berlusconi di “non essere meglio di Putin”.
L'articolo non spiegava tanto bene i fatti, cioè come fosse nato questo giallo,
chi fosse Litvinenko, quale ruolo avesse avuto come spia. Aggiungeva però
un elemento che, messo in relazione con le altre mie ricerche sui “Missionari
dell'atomo” di Ancona e gli Isotopi Radioattivi, rende il contorno piuttosto
torbido. Il Resto del Carlino scriveva nel 2010: “Alexander Litvinenko fu
ucciso a fine 2006 attraverso un avvelenamento avvenuto con un isotopo
radioattivo. Il suo assassinio portò molti a puntare il dito contro la Russia e il
Cremlino, al capo del quale allora era Putin. Un’inchiesta della polizia
britannica ha portato a una richiesta inevasa d’estradizione di un altro ex
89

agente del Kgb, Andrei Lugovoi.”


E' evidente che gli isotopi radioattivi diventano importanti, magari un
segnale degli assassini di Litvinenko verso qualcuno, la firma di un delitto
efferato.
La famiglia della spia russa a Senigallia aveva aperto un ristorante, “La
terrazza”, ma le cose non stavano andando bene, pare. La loro era una
richiesta di aiuto a cui i giornali italiani non si sottrassero, anche perché già
la notizia era uscita sul giornale inglese “The Guardian”.
Della storia di Litvinenko parlarono molto i mass media italiani nel 2006:
per la brutalità con cui venne ucciso e per quel video in cui la spia, già
malata e orrendamente deformata nel viso, accusava tutti e faceva dei nomi.
Non riprenderò queste accuse perché, come spesso mi è capitato di notare, in
quel periodo assunsero maggiore importanza le polemiche, i sospetti,
rispetto ai fatti.
Litvinenko era una spia e i suoi piani mi paiono ben esposti sul quotidiano
La Stampa in un articolo del lontano 20 ottobre 2003. Titolo: “Un cecchino
ceceno per uccidere Putin” All'interno veniva evidenziato come ci fosse un
complotto contro l'ex leader russo Putin, che sarebbe stato ucciso durante un
viaggio all'estero. Litvinenko sarebbe stato una specie di intermediario tra gli
organizzatori, nell'ambiente militare, e il finanziatore della “spedizione”, il
miliardario Berezovskij. Lo rivelava il giornale “Sunday Times”. Litvinenko
fu uno dei due uomini arrestati dalla polizia britannica in quell'occasione.
Dalle indagini di Scotland Yard risultò che l'obiettivo dell'omicidio sarebbe
stato quello di rovesciare un governatore che “stava portando il paese alla
bancarotta” arrestando anche tanta gente. Stando alla ricostruzione de La
Stampa la fuga di notizie dell'imminente attentato fu causata proprio da
Litvinenko che, temendo di finire in un'imboscata mortale, decise di inviare
una lettera alla polizia.
In Italia tenne banco, in seguito, come abbiamo letto all'inizio, il fatto che
potesse essere stato lo stesso Putin ad organizzare l'omicidio di Litvinenko
con gli isotopi radioattivi. L'uomo bevve il cocktail mortale in un Sushi Bar
di Londra mentre era insieme all'italiano Mario Scaramella. La storia ci dirà,
approfondendo di più la materia, se Litvinenko e la sua famiglia siano eroi
oppure guerriglieri. Di fatto le spie tramano nell'ombra, uccidono alle spalle,
e vivono a contatto con personaggi oscuri; quindi non è un punto in più in
favore della democrazia e della libertà leggere su Wikipedia o su
Viveresenigallia.it che la famiglia di Litvinenko aveva scelto l'Italia, e per
giunta la Provincia di Ancona, per chiedere asilo politico.
90

Il "Papago" delle BR era il cargo russo di cui si parlò nel 1984?

Il cargo russo che sostava ad Ancona mentre Gianfranco Guanti spiava i


tunnel del Conero è in realtà il famoso "Papago" delle BR? Nell'articolo di
Alfredo Mattei uscito sul Carlino nel 1984 sta scritto che ad Ancona era
attraccato un cargo "russo" che destava sospetti di un interesse nemico per la
base del Conero.
Questo cargo russo potrebbe coincidere con il "Papago" delle BR,
un'imbarcazione della quale si è parlato molto. Se n'è occupato recentemente
Giorgio Guidelli, che è uno studioso delle BR anconetane. Su La Stampa
emerse nel periodo del processo Peci (1986) che il "Papago" era
un'imbarcazione di proprietà del brigatista Massimo Gidoni ed era attraccata
ad Ancona vicino alla Mole Vanvitelliana. Era stata utilizzata per compiere
un viaggio dal Medio Oriente a Mestre per trasportare armi molto potenti,
anche missili terra-aria, che le BR avevano acquistato dai palestinesi
dell'Olp.
Tutto ruota intorno alla base del Conero, ma emergono da questi articoli solo
altri sospetti. Durante il processo Peci l'ex vice-questore di Genova Arrigo
Molinari disse mentre deponeva che la sua macchina era finita fuori strada a
Loreto, per un malfunzionamento dei freni. L'ex vicequestore parlò di un
attentato, che getta qualche ombra anche su un altro incidente, avvenuto
qualche anno prima, in cui perse la vita il caporedattore del Resto del
Carlino di Ancona, che era appunto il giornale di Alfredo Mattei.
Sembra che Ancona sia stata per anni il luogo segreto in cui servizi deviati,
brigatisti e uomini del KGB si incontravano per le loro trame occulte. La
notizia di un contatto tra brigatisti e servizi segreti sovietici uscì su La
Stampa il 4 maggio 1983, e poi il 4 settembre 1986. Il pentito Roberto
Buzzatti disse di aver visto Senzani (e non Gidoni come scrisse Mattei nel
1984) parlottare alla stazione di Ancona con un esponente del KGB.
Accadde l'8 giugno 1981, prima del rapimento Peci. Poi nel 1986 precisò
che questo uomo del KGB era, "impicciato con i servizi segreti italiani".
Aveva informato Senzani sui BR "sorvegliati" dalla polizia e sulle spie della
Cia nella Nato. Avrebbe pure indicato a Senzani una persona informata sulla
strage di Bologna del 1980, che Senzani avrebbe voluto rapire per farla
parlare.
Gidoni è comunque coinvolto: Buzzatti raccontò nel 1986 di aver ricevuto
una sua telefonata con cui gli raccomandava di dire a Senzani che Santini,
ossia l'agente del KGB, quel giorno del 1981 lo aspettava alla stazione di
Ancona. Si può ipotizzare che Ancona fosse per loro un ritrovo abituale
91

dagli anni '60? Secondo me sì. Infatti la frase "incontrammo ad Ancona in


borghese" fu l'oggetto degli omissis di Aldo Moro sul rapporto Manes
relativo al golpe De Lorenzo. La verità fu svelata solo dopo la caduta del
muro di Berlino.
E’ certo ormai che dai magistrati non ci si poteva aspettare granché. Il
giornalista di Tempo Lino Jannuzzi scrisse nel 1976 che i magistrati che
furono uccisi dalle BR negli anni '70 non erano estranei a quell'ambiente
malavitoso. Sapeva anche che la regia occulta poteva nascondersi nel
Supersid di Vito Miceli.
Fu un atto di accusa che venne confermato a mio parere con l'arresto nel
1982 di Giovanni Senzani, il criminologo e ideologo delle Brigate Rosse.
Andreotti nel suo libro "Governare con la crisi" scrisse nel 1991 di essere
rimasto sorpreso che un criminale come Senzani fosse un confidente di tanti
magistrati. Era molto di più, perché gli articoli de La Stampa parlarono
all'epoca di lui anche come un frequentatore di uomini vicini ai servizi
segreti e alle basi Nato. E' l'anello di congiunzione tra le Brigate Rosse e la
base del monte Conero. Nell'anconetano lavorava Massimo Gidoni, uno
psicanalista statale dorico legato alle BR, che secondo Alfredo Mattei del
Carlino aveva incontrato ad Ancona esponenti del KGB sovietico, proprio
nel periodo, il 1984, in cui una presunta spia, Gianfranco Guanti, si aggirava
per il Conero in cerca di notizie della base militare. Al processo contro le BR
anconetane il pentito Buzzatti aveva detto di aver ricevuto questa notizia
proprio da Giovanni Senzani.
Bisogna a questo punto ammettere che la ricerca di spie russe provenienti
dall’ambiente marchigiano, nell’archivio Mitrokhin, è stata molto deludente.
Ce ne sono soltanto due: Angelo Sferrazze di Fano (rapporto Impedian 22) e
Corrado Macioni di Macerata (rapporto Impedian 49)
Ci si poteva aspettare di più, in quanto si tratta di due personaggi legati alle
ambasciate e dunque riferibili alle Marche soltanto dal luogo di nascita.
Sferrazze era del 1937 ed era un esponente del Dipartimento Internazionale
del Partito Democratico Cristiano Italiano. Fu coltivato dalla residentura di
Roma del KGB dal 1975 al 1982 e soprannominato "Kant", ma l'operazione
venne smascherata dal controspionaggio occidentale. Macioni era del 1913 e
viveva a Roma. Era capomessaggero del direttorato politico generale e del
Dipartimento NATO del Ministero degli Esteri italiano. A differenza di
Sferrazze, Macioni collaborava per i servizi bulgari, con il nome di
"Masentsio". Il suo compito era di collocare "apparecchi di ascolto" al
ministero degli esteri e a Ginevra presso la conferenza sul disarmo.
Nell'archivio Mitrokhin al momento non ho trovato riscontri sul misterioso
92

uomo del KGB che Senzani delle BR incontrò nel 1981 alla stazione di
Ancona (ma non è detto che non ci sia). La Stampa riportò durante il
processo Peci l'identikit di questa spia fatto dal pentito Buzzatti: "Era un tipo
robusto, sui 45-50 anni, vestito di grigio, capelli corti brizzolati, carnagione
scura, occhiali con montatura metallica". Nell'archivio Mitrokhin non si
trova inoltre nessun cenno al famoso Giorgio Rinaldi (anche se il nome di
molti agenti non è stato rintracciato). Rinaldi secondo la Cia era la spia del
KGB che controllava le basi italiane e spagnole della Nato.
93

BASI GEMELLE

Un colpo di scena irrompe nelle vicende del bunker del Conero. Se da una
parte le istituzioni militari mantengono il massimo riserbo sulla storia e gli
scopi della base del “monte d’Ancona”, dall’altra in tutta Italia impazzano
sul web le immagini di videoamatori che riprendono decine di basi militari
italiane abbandonate. In una di queste ho trovato per caso una netta
similitudine con l’interno del famoso bunker del Conero ripreso da Matteo
Montesi e dagli Italian Ghost. Questo vuol dire che la base di Ancona
potrebbe essere stata disegnata dallo stesso architetto americano che lavorò
in Campania, nell’avellinese, nella base del Montevergine. Ma un parallelo è
possibile anche con il misterioso tunnel di Archia, nel verbano, in cui sembra
che nel 1960 vi fu una strana esplosione.

Scoop: è stato filmato un bunker simile al Conero

Un tunnel con caratteristiche militari simili al bunker del monte Conero è


stato ripreso e pubblicato su Youtube. Si tratta della base Nato costruita in
guerra fredda sul Montevergine, una vetta alta quasi 1500 metri che sovrasta
Avellino e offre una vista incantevole sul golfo di Napoli e Salerno.
Confrontando il video censurato (che avevo salvato nel pc) dei tre ragazzi
dell'anconetano poi denunciati dai carabinieri con quelli più recenti di
Montevergine, colpisce la presenza anche ad Avellino di quei pannelli
bianchi rettangolari, disposti ai lati della galleria, che erano ben visibili nel
video del Conero.
Ci sono altre similitudini impressionanti. L'architettura della galleria di
Montevergine, che viene ben mostrata dal video di Francesco M. De Venezia,
è identica a quella del Conero. L'arcata è molto stretta e sembra di
riconoscere lo stesso materiale edilizio utilizzato come rinforzo: forse
calcestruzzo. Ci sono anche a Montevergine le vie di fuga esterne e si
vedono pure quelle condutture, molto più consistenti a dire il vero, che
sembra dovessero portare dell'acqua o elettricità giù verso la cavità.
Non mancano di certo il mistero e l'occulto. Le notizie che sono state
pubblicate online parlano anche per Montevergine di alieni e di presenze
particolari. Entrambe le basi sorgono su monti in cui erano state edificate in
tempi antichi delle abbazie di monaci benedettini. Pare addirittura che il
94

nome originario di Montevergine fosse Monte di Virgilio. Lo scrive


Wikipedia spiegando che si riteneva che il poeta latino avesse in quel luogo
un suo orto. Ma anche il Conero ha a che fare con Virgilio. Infatti i
giornalisti hanno recentemente denominato la base del Conero: la porta
dell'ade, che è il nome del mondo dei morti in cui l'eroe virgiliano Enea
incontrò il padre Anchise.
Mitologia classica a parte, c'è chi ha già analizzato tecnicamente quella base
avellinese ed è in grado di fornirci risposte più precise dal punto di vista
militare. Si tratta pure nel caso di Montevergine di un bunker che fu
utilizzato dalla Nato dagli anni '60 per creare un ponte radio con altre basi
europee. Faceva parte del sistema di telecomunicazioni per l'allarme
immediato, come pare sia accaduto per il Conero già durante l'occupazione
nazista. Il sito «Spaziarendere.it» ha pubblicato dei preziosi dettagli tecnici,
come ad esempio il fatto che la base Nato di Montevergine adoperasse la
tecnologia Troposcatter, che è «un segnale irradiato nella troposfera» e
«raggiungibile in ogni condizione meteo». Pare che vi lavorassero un
centinaio di militari, una quarantina dei quali dormivano in vetta, mentre gli
altri alloggiavano «tra Mercogliano e i paesi limitrofi», quindi nei pressi del
capoluogo irpino. Il Montevergine - ha scritto sempre «Spaziarendere.it» -
era collegato via radio con altre stazioni che andavano dalla Spagna alla
Grecia, passando per il monte Libara in Sardegna, poi Napoli e
Martinafranca.

Riecco lo “Stay behind” di Gladio

Secondo un altro sito Orticalab.it, il Montevergine era un punto strategico


non soltanto della Nato, ma dell'operazione segreta denominata Gladio.
Giulia D'Argenio intervistando il professor Barra ha scoperto che
Montevergine potrebbe essere stato uno dei depositi Nasco in cui erano
conservate armi, insieme a radio trasmittenti, viveri, medicinali, esplosivi,
munizioni. Una pista, questa dei servizi segreti deviati, che conduce di
nuovo ad Ancona, agli omissis del rapporto dei carabinieri sul Piano «Solo»
e alle voci di armi nucleari nascoste nel monte Conero. Il professor Barra
nell'intervista di D'Argenio ha parlato di una monorotaia presente a
Montevergine per il trasporto di materiali, la stessa che si vede nel video dei
tre ragazzi anconetani. Questo elemento a parere dell'esperto lascia supporre
che quella avellinese fosse ben di più che una «comune base Nasco». Tanto
segreta da sorgere, come accade per il bunker del Conero, in un parco
naturale. L’ente regionale parco del Partenio, che è il nome di tutto il
95

comprensorio del Montevergine, è nato nel 1993, sei anni dopo l’abbandono
della cosiddetta servitù militare. Quello del Conero ha visto la luce nel 1987,
mentre il suo freddo cuore militare spariva solo dai giornali, di certo non
dalla realtà. Ciò che accomuna le due località in questo caso è la difficoltà
che hanno i politici nel creare degli autentici spazi verdi. Vengono
programmate spese, i bilanci ne risentono, ma le cose non cambiano. E la
gente ad Ancona nemmeno lo sa.
C'è tuttavia qualche differenza anche sotto l’aspetto tecnologico.
Analizziamola con attenzione. Quelli che io chiamo pannelli, ossia quei
rettangoli bianchi ai lati delle gallerie, nel monte Conero sembrano ancora
intatti, mentre sul Montevergine sono sparsi per terra come se fosse passato
un uragano. E' veramente abbandonato il bunker anconetano, ripreso dai
videomaker di Italian Ghost e poi censurato? Inoltre nel Conero erano
visibili delle strane docce, con delle ampie sale chiamate vasche e persino
una «sala eco», che non si vedono a Montevergine, anzi sono stati filmati in
quest'ultimo caso dei normalissimi bagni con resti di lavandini e delle
piastrelle di ceramica bianca in stile casalingo. Nel monte Conero poi, e
questo è importante, non sono presenti le strumentazioni elettroniche
caratteristiche di tante altre basi Nato abbandonate.
Non è facile trovare nei video di Youtube luoghi simili al bunker del Conero,
pertanto il ritrovamento di questa base avellinese ha del miracoloso.
L'accostamento Conero-Montevergine a dire il vero me lo aveva anticipato
telefonicamente lo scrittore Sergio Nazzaro, amico di Roberto Saviano.
L'ipotesi, dovendo azzardare discorsi di tipo politico-militare, resta la stessa
di prima. Ossia che la base del Conero, inizialmente prevista dal patto
bilaterale italo-statunitense, possa essere stata recentemente utilizzata per
altri scopi e da soggetti esterni alla Nato. E che ovviamente sia ancora
utilizzata, visto che di questa non si può assolutamente parlare.

Spionaggio al Montevergine, ma era la protesta di un prete

Anche il Montevergine ebbe il suo caso di spionaggio, che trattandosi di una


zona lontana dalla tranquilla Ancona ebbe ben altro risalto. Tutti i giornali
dopo la metà di agosto del 2001 parlarono di quanto era avvenuto sulla cima
del Montevergine. La storia letta su L'Unità narra che un gruppo di No
Global era salito in quei giorni fino ai 1500 metri di altezza a protestare
contro la base Nato. Era un periodo di guerra tra centri sociali e governo
Berlusconi, visto che pochi giorni prima era morto Carlo Giuliani in una
manifestazione contro il G8 di Genova. Si mise in luce in quella prima
96

protesta un prete, Don Vitaliano, parroco della zona di Mercogliano, che si


prese delle ammonizioni dal Papa per le proteste che stava portando avanti
con quei ragazzi. Il sit-in contro la base di Montevergine era un no alle
guerre globali degli Stati Uniti. Le proteste proseguirono, mentre intanto l'11
settembre del 2001 negli Usa erano state colpite dai terroristi le Twin Towers,
e le guerre, anziché interrompersi, erano riprese. Il 5 ottobre del 2002 vi fu
dunque un bis delle manifestazioni in Irpinia, con qualche modifica alle
cronache. Ho notato che sia L'Unità, sia l'agenzia Adnkronos omisero un
particolare della storia. La base di Montevergine non era più sulla vetta di
una delle montagne più alte dell'avellinese, bensì su una collina. L'avevano
scambiata per il monte Conero? Era la protesta per la guerra scatenata in
Afghanistan contro Bin Laden e per quella ventilata contro Saddam Hussein
in Iraq. Alla base di Montevergine quel giorno c'erano ancora il parroco don
Vitaliano della Sala, con il senatore di Rifondazione Comunista Giovanni
Russo Spena e Francesco Caruso, portavoce dei disobbedienti «No Global».
Cosa fecero? L'Unità scrisse che alcuni disobbedienti riuscirono a scavalcare
la recinzione della base e a sistemare alcuni striscioni sui quali veniva
«ribadito» il no alla guerra in Iraq. Adnkronos aggiunse il fatto che le forze
dell'ordine fermarono, non si sa come, dove e perché, Caruso e lo
identificarono. La storia proseguì con la notizia di alcuni provvedimenti
giudiziari presi dalla magistratura. Il 20 luglio del 2003 La Stampa pubblicò
in un trafiletto la terribile notizia che Francesco Caruso e altri tre giovani dei
No Global erano indagati per spionaggio militare e danneggiamento, per le
scritte contro la base di Montevergine. Non erano toccati dai provvedimenti
invece gli altri due protagonisti: don Vitaliano e Russo Spena. Quando la
vicenda si concluse, il 25 febbraio del 2008, il parroco "No Global" e Russo
Spena si trasformarono addirittura in testimoni del fatto del 5 ottobre del
2002, e non protagonisti come era stato detto in precedenza. La sentenza fu
di assoluzione per tutti e per tutte le accuse. Caruso promise di continuare la
battaglia per una bonifica ambientale dell'area militare. In fondo questa
vicenda poteva benissimo essere ambientata ad Ancona, perché altro non fu
che una ripetizione del caso Guanti, l'ambientalista dei Verdi che nel 1984 fu
condannato e poi assolto per spionaggio ai danni della base del Conero.
Nessuno però se n'è ricordato.

Montevergine, processo farsa per non svelare Gladio?

Francesco Caruso, il portavoce dei No Global che protestò contro la Nato a


Montevergine, fu assolto dalle accuse per non svelare le trame di Gladio? E'
97

l'ipotesi che emerge da un'analisi attenta di alcuni dettagli di questa storia,


che sembra mutare volto col passare del tempo. L'elemento chiave di questa
mia interpretazione è un passaggio dell'articolo del quotidiano L'Unità del 21
agosto 2001. Bisogna infatti rispondere ad alcune domande su questa storia.
Cosa c'era nella base del Montevergine quando vi fu la prima protesta di don
Vitaliano? E' stato scritto in questi mesi che la Nato abbandonò
Montevergine nel 1987, ma gli articoli d'archivio, più precisi, indicano come
data della smobilitazione il 14 agosto del 1992. L'Unità affermò che il
Pentagono aveva deciso quella volta di abbandonare sei basi «americane»,
tra cui San Vito dei Normanni, tre siti avellinesi, ossia «l'annesso di servizio
di Avellino e gli alloggi per le famiglie dei militari di Mercogliano e
Monteforte», e poi due depositi a Brindisi e Mesagne. In tutto in Europa
sarebbero state chiuse 69 basi della guerra fredda. Un momento epocale,
anche se sancito da un trafiletto di giornale. Dunque cosa poteva esserci sul
Montevergine nel 2001 e poi nel 2002, al momento dell'effettiva
occupazione? Lo disse L'Unità alla prima protesta dell'agosto 2001: la base
era «poco presidiata» dalla Nato, ma «una zona cuscinetto» era sorvegliata
«dai nostrani carabinieri». Quindi è per questo che Caruso fu fermato subito
e identificato? Secondo me è probabile. Purtroppo l'accusato
successivamente si limitò ad ironizzare sulle accuse di spionaggio, piuttosto
che raccontare bene i fatti. Ma come poteva emergere un fatto del genere
senza ulteriori polemiche? Come si poteva giustificare, poi, in un processo
che le nostre forze dell'ordine si erano sistemate nelle basi degli americani?
C'era un rapporto diretto tra Nato e carabinieri? Sarebbe stato inaccettabile
per la nostra legge e la libertà del nostro paese. Caruso questo avrebbe
dovuto denunciarlo. E magari c'era pure un legame tra Nato e antiterrorismo,
come ipotizzò nel 1992 la commissione parlamentare presieduta da Libero
Gualtieri su Gladio? All'epoca, poco prima della morte di Falcone e
Borsellino, il parlamento aveva accertato con una relazione di maggioranza
che Gladio nel tempo aveva modificato i suoi scopi, i quali solo inizialmente
consistevano nel prepararsi a un'invasione sovietica. Pare che dalla riforma
Andreotti dei servizi segreti del 1977 la struttura dei gladiatori allargò la sua
sfera di influenza anche sull'antiterrorismo, e tramava segretamente contro la
democrazia spiando la gran parte dei cittadini. La tremenda notizia non ebbe
alcun risalto. Questo connubio Nato-antiterrorismo è proseguito? E cosa ci
facevano i carabinieri in una base in alta montagna? La prima guerra
mondiale? Il processo contro Caruso, se avesse analizzato i fatti con
accuratezza, lo avrebbe potuto scoprire, ma le cose andarono diversamente.
98

Montevergine e Monteconero, due facce della stessa medaglia

Così simili e così diverse. Le basi del Montevergine e del Monteconero sono
due facce della stessa medaglia. Da una parte una Nato che ha permesso la
crescita economica di un territorio, almeno stando a quanto si legge sui
giornali di tanti anni fa, e dall'altra parte una Nato che si nasconde, che
inquina e non lo dice, che trasforma in leggende la sua storia.
Non è facile confrontare una città di montagna con un porto di mare, ma ci
proverò. Quando andavo con mio padre al suo paese natale, in Irpinia, lo
riconoscevamo subito il Montevergine. Lo vedevamo dall'autostrada svettare
sopra l'ampia vallata di Avellino, che è un posto dove piove sempre. Papà
usava un'espressione popolare non ripetibile per darmene un'idea molto
chiara. E a quel punto si ricordava dell'infanzia, quando saliva al santuario
seguendo le abitudini locali. Il santuario è situato proprio sotto le antenne
della Nato. Chissà quante volte mio padre e gli avellinesi le avranno viste.
Chissà se a qualcuno sarà saltato in mente di andare a vedere cosa c'era, sulla
vetta del Montevergine, ai tempi della guerra fredda. «Tutti gli avellinesi
almeno una volta sono saliti al santuario», mi ha detto un mio parente che fa
il politico a livello locale in Campania. Aggiungendo che in provincia tutti
sapevano anche della base militare. Ho fatto una ricerca nell'archivio e ho
constatato che ha ragione lui, anche se mi restano delle perplessità su cui
tornerò fra un attimo.
La Gazzetta del Mezzogiorno pubblicò due articoli che accennavano alla
base militare tra il 1977 e il 1981. Il primo riguardava un episodio curioso
che capitò all'ex presidente dell'Avellino, Antonio Sibilia. Il 30 aprile del
1977 alcuni banditi tentarono di rapirlo abbordandolo in un inseguimento
stradale nei pressi di Mercogliano. Ma un'auto con targa americana, «sulla
quale viaggiavano militari statunitensi della base Nato di Montevergine», si
inserì in fase di sorpasso, rompendo il blocco tentato dai criminali. Sibilia
guidando a tutta velocità la sua Mercedes riuscì a fuggire. Certamente fu un
caso singolare. Cosa ci faceva un'auto statunitense nel sud Italia? E'
plausibile che i militari americani avessero trasportato le loro autovetture a
bordo di una nave della Nato. Nulla di strano, pertanto. Anche perché il
primo dicembre del 1981 sulla Gazzetta del Mezzogiorno si riparlò della
base Nato avellinese. Accadde in un articolo intitolato «Un corpo estraneo»
di Gianni Raviele, scritto a proposito dell'attentato al giornalista della Rai
Luigi Necco, che fu attuato proprio a Mercogliano. Raviele scrisse che il vile
atto contro il giornalista era capitato, paradossalmente, in un posto
incantevole e ricco, che ebbe un sorprendente sviluppo economico con
99

l'arrivo degli americani, i quali - scriveva il quotidiano del meridione, ma


pur sempre pugliese - vi «impiantarono» una base Nato. Intorno fiorirono le
attività del terziario con alberghi, ristoranti, e si registrò un incremento
anche dell'immigrazione dalle campagne.
Questo mi ha fatto capire che la base Nato in quel contesto non era
nemmeno una notizia, ma un elemento di contorno tutt'altro che sgradito alla
popolazione. Perché portava benessere.
Ci sono comunque, come detto, delle cose da rivedere. Intanto diciamo che
in tutto l'archivio della Gazzetta del Mezzogiorno la base Nato compare solo
queste due volte, mentre negli archivi dei quotidiani nazionali va anche
peggio, perché ciò avviene in pochi trafiletti, quasi invisibili, per segnalare
la chiusura della base alla fine del conflitto Usa-Urss. Secondo il mio parere
è troppo poco per poter dire che tutti gli avellinesi erano informati. Se ciò
fosse stato vero ne sarebbe scaturita una grande curiosità per conoscere ogni
minimo dettaglio dell'attività degli americani. Ci sarebbero state domande a
cui sarebbero seguite ben poche risposte.
Uno dei siti internet che in questi mesi pubblica la storia della base Nato di
Montevergine, spaziarendere.it, ha scritto che nel novembre del 1980 gli
americani scesero dalle montagne per aiutare i terremotati. Tra di essi si
sarebbe distinto «il Maggiore Myron C. Proefrock», il quale stando alle
parole del sito, «dopo opportuni accertamenti, ha aperto il centro
comunitario di nuova costruzione, come un luogo di comando e centro di
assistenza.» Mi lascia molto perplesso questa storia, perché ho dei ricordi
nitidi di quel terremoto per averne sentito parlare in famiglia. Il fratello di
mio padre in quei tragici giorni era il sindaco di un comune irpino a mezzora
di macchina da Avellino: Torella dei Lombardi. La Stampa scrisse all'epoca
un articolo prendendo quel paese a emblema di una situazione vergognosa: i
soccorsi a Torella non arrivavano per niente. C'erano persone che scavavano
da tre giorni con le mani tra le macerie in cerca dei parenti. Mio zio era
l'unico, secondo La Stampa, a tentare di coordinare gli aiuti. Mio padre
ripeteva spesso che suo fratello si ammalò e morì pochi anni dopo proprio
per non essersi curato della propria salute, scegliendo di dormire nelle tende
con i senzatetto e non in una comoda casa che era già pronta per le autorità.
E me lo ripeteva in privato, non lo diceva attraverso i mass media. Ora
dovremmo credere a questa storia sugli aiuti degli americani, nonostante
nell'archivio dei giornali non ci sia niente di niente?
Io penso che su questi temi legati all'ambiente militare ci fossero degli
avellinesi che sapevano più degli altri. E che ora hanno un compito arduo:
cercare di far entrare in qualche modo la presenza della Nato nella nostra
100

storia. La stessa cosa deve essere accaduta ad Ancona con il Monteconero.


La differenza vera non la cercherei nel passato, ma nel presente. Oggi alcuni
siti internet hanno iniziato a pubblicare la storia militare del Montevergine.
Così gli ignari cittadini, per nulla avvertiti del pericolo, sono entrati nei
depositi abbandonati della Nato, magari contaminati da qualche sostanza
tossica, e hanno filmato con la telecamera i resti della base.
Ad Ancona non si può nemmeno parlare della zona militare. Ma poi lo si fa
quando qualche cittadino si mostra più curioso di altri e viene denunciato,
stimolando ancora di più la sete di conoscenza. Non solo. Sui giornali
nessuno si è mai azzardato a scrivere che la base Nato del Conero ha
permesso all'economia locale di crescere. E probabilmente ha sbagliato,
pensando a quanto è accaduto a Sirolo, Numana negli anni '80 e
confrontandolo con quanto appena detto per Mercogliano. Si è preferito
tacere per un motivo semplicissimo: per sposare i provvedimenti delle forze
dell'ordine e dei militari. Provvedimenti che sono a volte discutibili, se
pensiamo alla storia travagliata dei nostri servizi segreti.
Dai commenti che vengono lasciati sul mio blog ho capito che sul monte
Conero ci sarebbe molto da dire, ma prevale la paura. Sembra che questi
militari prima di entrare nella base abbiano ottenuto un Nos, che è un
documento rilasciato dai carabinieri che li autorizza a lavorare sui segreti di
Stato. Parliamo perciò di un mondo parallelo, che potrebbe aver perseguito
una finalità benefica, ma senza rispettare le leggi. Basti solo pensare che i
destinatari del Nos vengono poi indagati dai carabinieri come se fossero
colpevoli di qualche reato. O come avveniva agli agenti della Stasi, il
servizio segreto della Germania Est, sui quali prima di reclutarli veniva
aperta un'indagine per scoprire se tra i loro parenti potesse nascondersi
qualche criminale o qualche personaggio con idee sovversive.
Montevergine e Monteconero sono quindi due ambienti militarizzati
differenti in tante cose, ma penso che non si combattano come fecero Usa e
Urss nella guerra fredda.

Il ballo di Tosetto con i fantasmi di Montevergine

Potrebbe non essere casuale lo zampino degli americani nel salvataggio di


Antonio Sibilia dal rapimento. Sembra che tra l'Avellino calcio e gli
americani della base di Montevergine vi fosse un legame stretto. E' quanto
emerge da un articolo dell'archivio del Corriere della Sera del 30 gennaio
1979. L'Avellino aveva appena vinto 1-0 con il Milan capolista con un gol di
Romano. L'ala destra Tosetto, tra i migliori in campo, venne intervistata da
101

Antonio Corbo. Il biondo e riccioluto calciatore si stava prendendo una


rivincita sulla sua ex squadra, cioè proprio il Milan, che dopo averne
decantato le doti prelevandolo dal Monza lo aveva scaricato dopo una sola
stagione. E chi andò a festeggiare il ritrovato Tosetto ad Avellino? Proprio i
militari statunitensi della base militare, sbucati evidentemente dal nulla.
Corbo descrisse quella serata di festa senza fare alcun cenno al luogo esatto
in cui sorgeva la base: «Al brindisi hanno partecipato anche i militari della
base Nato di Mercogliano - scrisse -, omaccioni di tutti i colori e razze che
ballavano e cantavano intorno a Tosetto diventato ormai il «Keegan di
Montevergine». C'era grande entusiasmo per l'Avellino, che dopo essere
salito in serie A dimostrava di sapersi difendere anche con le grandi. E poi
c'erano quei tifosi così particolari. L'Avellino - disse Corbo - aveva dei
sostenitori internazionali. «Gli americani sembrano rapiti dal calcio.
Sostengono che 'l'Avellino è più forte dei Cosmos', che il vino batte anche il
miglior scotch canadese.» E ancora aggiunse: «Hanno trovato tra gol e
vernaccia la loro felicità. Dopo la vittoria dell'Avellino ci sono state orge.
Urla e brindisi in una notte che ad Avellino ha ormai anticipato il carnevale.»
Da qui in poi il giornalista passò il microfono a Tosetto, che sognava in
grande. Ma noi sappiamo che questa storia non ebbe alcun seguito. Gli
americani sparirono infatti dalle cronache dei giornali nazionali, e pure
Tosetto finirà nell'elenco delle meteore del calcio. Un'amicizia con degli
autentici fantasmi che evidentemente gli fu fatale.

I No global svelarono un doppio volto della Nato

Il 20 agosto del 2001, pochi giorni prima dell'attacco al World Trade Center,
si rischiò una guerra civile. In un bellissimo articolo di Claudio Lazzaro, il
Corriere della Sera descrisse il giorno dopo, in modo impeccabile, come
avvenne l'attacco dei «disobbedienti» alla Nato. Venne svelato per la prima
volta un particolare che pochi conoscevano e che nessuno tramandò ai
posteri. La base di Montevergine, teatro quel giorno di una delle tante
proteste per la morte di Carlo Giuliani a Genova, non era per niente
abbandonata, bensì era stata occupata dai carabinieri. Lazzaro scrisse che
l'obiettivo della protesta era proprio il «cocuzzolo» della montagna, a 1490
metri di altitudine, «sede di una base Nato abbandonata pochi anni fa dalle
truppe americane, ma tuttora attiva, col suo ripetitore, nel circuito di difesa
internazionale.» Vediamo a questo punto come si presentava in quel
momento ai manifestanti la zona militare: «Attorno alla base, un reticolato
impenetrabile - continuava a descriverla Lazzaro - che i no global
102

definiscono 'zona rossa', circondato da due chilometri di area militare, anche


quella proibita, che gli assalitori battezzano 'zona gialla'.» C'erano dieci
carabinieri a presidiare la zona gialla, ma la loro reazione alla protesta fu
morbida. Fu una manifestazione del tutto simbolica. Due o tre
«disobbedienti» riuscirono a scavalcare le reti di recinzione, e poi a
sgattaiolare sotto le reti della zona rossa, scavandosi dei piccoli varchi. A
quel punto vennero fermati. Ebbero solo il tempo di fissare la scritta «Nato
per uccidere». Il prete che li guidava, don Vitaliano, definì la protesta con
parole colorite: «Da questo campeggio viene un messaggio di pace, ma non
una pace senza coglioni». A posteriori si può dire che il gesto era del tutto
legittimo, visti i bombardamenti che già avevano martoriato l'ex Jugoslavia.
Quello che risulta strano è che a rappresentare la Nato in quel momento vi
fossero le forze dell'ordine italiane, non certo gli americani. E i no global
questo lo sapevano. Avevano probabilmente già studiato la zona. Fu «come
in un videogame», commentò Lazzaro nel suo articolo. Magari uno di quelli
sulla seconda guerra mondiale. I sindacati di polizia vennero infatti definiti
dal «disobbediente» Casarini dei «nazistelli in divisa», per via dell'assassinio
di Carlo Giuliani e delle successive diatribe mediatiche.

Che fine ha fatto "l'aurora artificiale" del Conero?

Che fine ha fatto l'aurora artificiale del misterioso professor Cutolo?


Nell'aprile del 1961 fu pubblicato, sul numero 4 del periodico "L'antenna
TV", un interessante articolo che parlava di esperimenti sullo spazio condotti
dal Monte Conero. Venne scritto che era stata "impiantata una stazione per
sondaggi ionosferici" nella zona che la Marina Militare gestiva, appunto,
sull'isolata collina che sorge a sud di Ancona.
Era il periodo della famosa eclissi solare totale, che fu osservata il 15
febbraio 1961, sul Conero, da migliaia di persone: studiosi italiani ed esteri,
ma anche semplici cittadini. Da questo episodio potrebbe essere nata quella
leggenda a cui si fa spesso riferimento (lo ha fatto in particolare la
trasmissione "Mistero" di Italia 1) per accostare il Conero agli alieni.
Leggenda che narra di una specie di Area 51 presente all'interno del bosco, o
di una "base aliena". In realtà, sulla ionosfera già nel 1961 si combatteva la
guerra fredda (il caso dell'U2 caduto nell'Unione Sovietica era di quel
periodo), e alla fine degli anni Settanta vi si propagavano già le onde degli
esperimenti statunitensi, di cui ho letto nel libro "La guerra elettronica",
trovato per caso in una bancarella di piazza Cavour ad Ancona.
Tornando a quegli esperimenti nella zona militare del Conero, il Corriere
103

Adriatico, il quale all'epoca pubblicava approfonditi resoconti sull'eclissi


solare, scrisse che vi avrebbe partecipato quello che per noi è un enigmatico
professore universitario. Si chiamava Mario Cutolo. Era alla guida di una
spedizione organizzata dal "Centro Studi di Fisica dello Spazio"
dell'Osservatorio astronomico di Monte Mario (o dell'Università di Napoli).
Il centro era diretto dal professor Cimino.
Cercando nel web il nome di Mario Cutolo si scopre che era molto
apprezzato negli Stati Uniti. Compaiono delle fotografie e una biografia in
inglese. C'è anche dell'altro. Nel 1938 Cutolo fu un assiduo frequentatore dei
corsi di Ettore Majorana all'università di Napoli, forse per amore di un'altra
studentessa di quei corsi: Nada Minghetti. Quindi, secondo certi studi recenti
Cutolo sarebbe stato uno degli uomini collegati, indirettamente, alla
sparizione misteriosa dello stesso Majorana.
Ma il professor Cutolo fece la sua strada, nel campo della fisica. La cosa
veramente incredibile è che in un articolo della Stampa, del 28 dicembre
1956, veniva annunciata una grande scoperta di questo professore; scoperta
che per noi è tuttora sconosciuta. Si trattava di una specie di seconda luna,
artificiale, che per il professor Cutolo era possibile creare dalla terra per
illuminare zone impervie del globo, non raggiungibili dalla luce elettrica.
L'idea consisteva nel trasformare le radio-onde di Guglielmo Marconi in
"energia luminosa". Luce vera e propria in orari notturni, insomma, ma a
basso costo.
Il sospetto che nutriamo, invece, con le conoscenze odierne, è che Mario
Cutolo avesse scoperto i satelliti spia, che effettivamente illuminano, ma non
come immaginava La Stampa. Infatti un altro articolo del 27 novembre 1957,
dello stesso quotidiano torinese, annunciava che il centro sperimentale di
Nola - dal quale secondo "L'antenna TV" erano stati ideati gli studi sulla
ionosfera poi replicati sul Monte Conero - era finanziato direttamente dal
Ministero della Difesa degli Stati Uniti, e controllato dalla NATO (veniva
fatto il nome del maggiore italiano di aeronautica Giovanni Corsaletti).
L'obiettivo dichiarato era proprio di creare "un'aurora artificiale", della quale,
tuttavia, in seguito si persero completamente le tracce. Invece nell'articolo
del 1957 appare evidente che a Nola gli americani volevano che fossero
condotti studi sui disturbi nelle comunicazioni con gli aerei dell'Air Force.
Sappiamo bene quanto fossero strategiche Napoli e la zona di Montevergine
(vicina a Nola) per la NATO.
La storia narra che il 31 gennaio del 1958 gli Stati Uniti avevano lanciato in
orbita il primo satellite denominato Explorer 1. L'URSS aveva tuttavia
preceduto gli americani con l'invio nello spazio, l'anno prima (4 ottobre
104

1957), dello Sputnik 1. L'ultima notizia sul professor Cutolo risale al 5


maggio 1972, allorché sulla Stampa fu scritto che uno studio sulla ionosfera
commissionato dal professore era stato venduto agli americani da un suo
collega, che era stato denunciato e condannato.

Caso Archia, conferme sui terremoti artificiali

Il terremoto artificiale di cui si parlò a proposito del tunnel di Archia, vicino


Verbania, è sicuramente avvenuto. Lo apprendiamo grazie a un articolo
presente nel nuovo archivio digitale del Corriere della Sera: un trafiletto che
annunciava proprio quell'esperimento il 22 settembre del 1960. Si parlò di
una considerevole quantità di tritolo pronta ad esplodere sia a Ciriè, sia due
giorni dopo a Intra, che è il cuore storico di Verbania. Alcuni rilevatori
dislocati in Piemonte avrebbero registrato gli effetti delle due potenti
deflagrazioni, cosa che effettivamente avvenne e fu testimoniata dal Corriere
della Sera con altri piccoli articoli. Lo scopo era quello di creare una «carta
geologica del sottosuolo».
Il caso dei tunnel di Archia fu scatenato molti anni dopo dalle accuse di un
consigliere provinciale del PDS di Verbania, Diego Caretti, il quale denunciò
che sul monte sopra Trarego Viggiona, a 1200 metri di altitudine, vi era un
tunnel pieno di contenitori con materiale esplosivo e pericoloso. Montò un
grande scandalo. Si ipotizzò anche un coinvolgimento di Gladio. La vicenda
fu chiarita da un testimone oculare, Alessandro Tedeschi, genero del padre
del proprietario del terreno dove sorgevano i presunti tunnel. Il 12 giugno
del 1996 affermò al cronista del quotidiano La Stampa di aver visto
nell'agosto del 1962 dei tecnici che scavavano un tunnel per creare un
terremoto artificiale. Quest'ultimo sarebbe stato effettuato dall'università di
Milano in occasione dell'anno geofisico. E questa è proprio la motivazione
che venne data anche dall'articoletto del Corriere della Sera, che adesso
viene alla luce grazie alla tecnologia. Ma perché produrre questi terremoti in
una montagna e non in laboratorio come avviene oggi? Si trattava forse di
esperimenti della guerra fredda, visto che lo stesso Corriere associò poi
queste pratiche al KGB? I giornali non forniscono una risposta precisa. Un
altro terremoto artificiale era avvenuto a Nizza, in Francia, nel 1958.
La faccenda è strana. Il giorno dopo aver parlato dei terremoti artificiali, il
13 giugno del 1996 il proprietario del terreno di Archia, Carlo Scarsetti,
disse a La Stampa anche un'altra cosa. Che suo padre raccontava di aver
visto ad Archia un viavai di camion militari. Il che confermerebbe l'ipotesi
che i terremoti fossero qualcosa di poco scientifico. Il 14 giugno 1996 un
105

certo Giovanni Cavalli aggiunse su La Stampa che i tunnel risalivano al


1943, alla guerra e non al 1962. Caretti aggiunse di voler indagare. Scoppiò
un putiferio. Fu infatti aperto un processo penale contro lo stesso Diego
Caretti. Motivazione: procurato allarme. Il pretore Paolo Barlucchi e i
carabinieri, secondo quanto scrisse La Stampa il 24 gennaio del 1998, non
credettero né a lui, né alle deposizioni della moglie del proprietario del
terreno. Ma ora è tutto chiaro: Caretti aveva ragione nella denuncia. Assurde
furono invece l'accusa di procurato allarme e la condanna a pagare una multa
che gli comminò il tribunale nel 1998.

Terremoti artificiali in Piemonte: un professore li conosceva

I terremoti artificiali del Piemonte hanno un nome e un cognome, sempre


grazie al Corriere della Sera. Si tratta di Orlando Vecchia, professore del
Politecnico di Milano. In un articolo del 14 luglio del 1964 il professore
ritornava sulle «grandi esplosioni fatte in Piemonte nell'estate del 1960»
nell'ambito di quella che lui chiamava la «sismica sperimentale». Dunque
Orlando Vecchia ne era al corrente. Forse ne aveva anche seguito le varie
fasi. Secondo quanto affermava, gli studiosi stavano cercando con quei
metodi di studiare gli strati della terra e la propagazione delle onde
sismiche.17
C'è però qualcosa che non convince. A un certo punto il professor Vecchia
parlò delle esplosioni belliche. Disse: «Alla fine della guerra colle grandi
esplosioni di polveriere e più tardi colle bombe atomiche si sono potute
utilizzare le onde sismiche di questi terremoti artificiali meglio di quelle dei
sismi veri.» Parole sicuramente poco adatte a un eminente scienziato. Come
si poteva pensare che le bombe atomiche potessero avere un'utilità
scientifica con quello che era successo in Giappone nel 1945? Stiamo
rivedendo lo stesso film degli isotopi radioattivi del professor Giocondo
Protti, che pretendeva di utilizzarli per curare i tumori nel lontano 1955. E
riviviamo anche le iniezioni di Penicillina degli anni '60 in seguito alle quali,
soprattutto in Piemonte, i pazienti morivano sul colpo. E' il lato oscuro degli
anni '60.

17
Il Politecnico di Milano ha confermato la notizia riemersa dal Corriere della Sera. Il
professor Orlando Vecchia si occupava di finti terremoti. Lo ha affermato una docente della
stessa università che ha conosciuto il professore. Il professor Vecchia, secondo ciò che mi è
stato riportato dall'infopoint della sede milanese, "provava a fare della geofisica per ricavare il
tipo di terreno", cioè appunto attraverso dei "finti terremoti". Pare tuttavia che nell'archivio della
fondazione Lerici non sia rimasta documentazione di questi esperimenti.
106

Questo professor Orlando Vecchia non c'è dubbio che sia uno stimato
scienziato. In biblioteca si possono leggere le sue numerose pubblicazioni.
Ma anche Giocondo Protti lo era, prima che venisse scoperto che fu
responsabile della Shoah. C'è qualcosa da rivedere nella nostra storia recente.
Perché ascoltare le onde sismiche dopo aver provocato enormi esplosioni
nelle montagne è come mandare una macchina nuova a sbattere contro un
muro per vedere se funziona l'airbag. Magari l'airbag funzionerà, ma a che
prezzo lo avremmo scoperto? Le grandi esplosioni piemontesi, per di più,
non servirono a niente, spiegò il professor Vecchia. Per questo sono più
propenso a pensare a un risvolto sconosciuto della guerra fredda. Su La
Stampa il 22 aprile del 1966 uscì una notizia curiosa. A Entracque, nel
cuneese, venne installato un macchinario per intercettare i terremoti. Era uno
strumento che proveniva dalla Germania Ovest ed era stato progettato per
«registrare» i terremoti artificiali. C'era di mezzo ancora una volta il
Politecnico di Milano. Era successo che nell'alta Valle Gesso da mesi la
gente si lamentava per dei terremoti. Era preoccupata. Così venne fatto
giungere da Stoccarda il terribile macchinario, che fu piazzato addirittura in
una chiesa, nella vecchia cappella di Sant'Antonino, sulla cima del monte.
Con quello che sappiamo la cosa ci fa preoccupare ancora di più.
Il contesto politico che fece da contorno a questi fatti è molto importante.
Non fu quello dei primi anni ‘60 un periodo sereno per la democrazia.
Proprio tra la primavera e l’estate del 1960 si concretizzò il primo e unico
governo di centro-destra della Prima Repubblica, il governo Tambroni, un
monocolore democristiano che ottenne la maggioranza con i voti dei missini.
Durò 123 giorni, concludendosi il 26 luglio del 1960. Nell’ombra
proseguivano fin dal 1958 le trame occulte dei servizi segreti. Antonella
Colonna Vilasi nel suo libro sulla storia dei servizi segreti italiani afferma
che “si cominciarono a costituire squadre di volontari con il compito di
provocare degli scontri nelle manifestazioni della sinistra”, come ad
esempio avvenne durante un comizio sindacale in occasione dello sciopero
degli edilizi dell’ottobre 1963 a Roma. Si trattava di ex carabinieri, ex
militari, civili che dovevano dare man forte al progetto di golpe del generale
De Lorenzo.

"Costruite ricoveri sui rilievi del lago Maggiore"

E' la richiesta che partì nel 1941-42 dalla prefettura di Novara quando ancora
i bombardamenti anglo-americani sembravano lontani e improbabili. Ho
fatto una piccola ricerca in archivio per trovare conferme circa il fatto che a
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Trarego Viggiona, sopra Verbania, possa essere stato costruito un bunker


antiaereo durante la seconda guerra mondiale. C'è una traccia che porta a
pensare alla possibile presenza fin dal lontano 1943 di un tunnel all'Alpe
Archia, nelle proprietà degli Scarsetti. All'epoca il prefetto segnalò ai
gerarchi del regime che non potevano essere costruiti ricoveri nelle località
intorno al lago Maggiore, perché erano troppo frequenti le inondazioni di
scantinati. Fu consigliato quindi di costruire questi rifugi per la popolazione
sui rilievi della zona. Il podestà di Verbania, peraltro, sempre in quel periodo
rispondeva al prefetto che i bombardamenti non erano considerati un serio
pericolo per la città. Motivo: la posizione non strategica di Verbania. La
storia dirà poi che non fu così. Ci furono le bombe e i morti anche a
Verbania, ma non c'è traccia di documenti sulla presenza di un ricovero
antiaereo all'Alpe Archia. Si sa soltanto che nel 1944 i tedeschi fecero saltare
una galleria della prima guerra mondiale a Mergozzo, danneggiando le
abitazioni vicine. Anche il tunnel di Archia secondo il testimone del
quotidiano La Stampa proverrebbe dalla Grande Guerra del 15-18.
Ma quali danni possono aver provocato queste esplosioni nelle montagne? I
terremoti artificiali ebbero ripercussioni anche a distanza di anni? Ebbene sì,
questo è quanto sembra sia avvenuto in seguito all'esperimento che fu messo
in atto nella zona di Nizza. Era l’estate del 1958. I giornali italiani
annunciarono e testimoniarono un avvenimento insolito. Sulle alpi francesi
al confine con l’Italia stavano per esplodere ben 200 tonnellate di esplosivo,
che sarebbero state utili per sperimentare gli effetti nell’aria e nella terra
delle onde sismiche. La notizia apparve in un trafiletto, che fu ancora più
invisibile quando scattò l’ora X: il 10 settembre del 1958.
Che cosa successe veramente quel giorno sulle montagne francesi?
Probabilmente vi furono gli stessi movimenti che videro i testimoni del
terremoto artificiale di Archia. Alcuni camion trasportarono l’esplosivo fino
ai 2400 metri di altitudine, costruendo addirittura una strada nella vallata del
Boreon perché ciò potesse avvenire. La località esatta della deflagrazione fu
scelta vicino Mollieres, che è un piccolo villaggio con una storia particolare:
prima della guerra apparteneva all’Italia, perché era il terreno di caccia di
Vittorio Emanuele II di Savoia. Passò ai francesi solo nel 1947. L’ingente
quantitativo di esplosivo venne inserito in profondità vicino al Lac Negr e
sicuramente saltò in aria. L’11 settembre del 1958 si parlò però soltanto di 5
tonnellate di esplosivo. Ma l’elemento più preoccupante è che, separato da
una montagna, a poca distanza sorge Entracque, il paese del cuneese dove
nel 1966 la gente era preoccupata per dei terremoti continui, e dove il
Politecnico di Milano installò dei rilevatori di terremoti artificiali. Si era
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dunque scoperto che questi esperimenti, oltre che inutili, potevano provocare
terremoti e frane anche nei decenni successivi? Guardate infatti andando
ancora indietro cosa emerge dall’archivio de La Provincia di Cremona. Uno
dei primi di questi esperimenti che si svolgevano per l’anno geofisico
internazionale avvenne negli Stati Uniti, nello Yucca Flat del Nevada. Un
articolo del 20 settembre del 1957 annunciava l’esplosione nella prima
bomba atomica nel sottosuolo statunitense. L’ordigno fu esploso in alcune
gallerie a 250 metri di profondità, e trattandosi di bombe nucleari la zona
sarebbe rimasta radioattiva per almeno 100 anni. Da quella volta tanti altri
esperimenti pericolosi furono attuati in quel territorio desertico, tanto che
Wikipedia considera lo Yucca Flat il posto più radioattivo della terra.

Terremoti artificiali? Ecco dove avvennero

Nel centro Italia si susseguono i terremoti, probabilmente naturali. Di certo


nel passato ve ne furono, però, altri provocati artificialmente. Come ad
esempio quello che avvenne nel 1960 nella zona di Intra. Scienziati italiani
ed esteri fecero esplodere, in occasione dell'anno geofisico, considerevoli
quantitativi di tritolo nel monte Bavarione, a quota 1100 metri sul livello del
mare.
Se si va a prendere la cartina, non si può non constatare che con il monte
Bavarione siamo esattamente nella zona dell'Alpe Archia di Trarego
Viggiona, la stessa di cui si parlò nel 1996 per la denuncia del consigliere
provinciale Diego Caretti.
La data esatta dell'esperimento fu il 26 settembre 1960. La prova ce la
fornisce un articolo del 27 settembre 1960 del quotidiano La Stampa.
Secondo quanto riportava la cronaca, quella che fu testimoniata dagli articoli
che abbiamo trovato potrebbe non essere nemmeno l'unica esplosione
avvenuta nel ventre di quel monte. Il 23 settembre del 1960, alle ore 11, "di
fronte ad una piccola folla di curiosi tenuti a debita distanza" altre due
tonnellate di tritolo erano esplose in località Levone, nei pressi di Cirié, nel
torinese. Gli scienziati cercavano di provocare onde che fossero dirette verso
Oropa-Intra, dove erano piazzati dei sistemi di rilevamento. A coordinare i
lavori c'era il professor Vecchia, del Politecnico di Milano, come già
avevamo anticipato. "E' un esperimento importante, forse decisivo per la
conclusione degli studi sulla formazione geologica di questa zona", aveva
dichiarato. Due giorni dopo gli scienziati avevano programmato di effettuare
l'esperimento nella direzione opposta.
Furono convocati i giornalisti, ma sembra che rimasero a bocca asciutta. La
109

Rai-tv a Cirié era pronta a riprendere l'esperimento, che tuttavia fu rinviato


al giorno dopo, il 23 appunto, per problemi tecnici. Sta di fatto che i giornali
uscirono senza alcuna foto.
L'esplosione di Intra provocò scosse telluriche del primo grado della scala
Mercalli. Ma quali conseguenze può aver avuto un simile terremoto negli
anni successivi? Può essere quella la causa delle numerose frane che si sono
verificate in anni più recenti per le forti piogge? Gli scienziati per ora non si
pronunciano. La materia è delicata. I monti sopra Intra fanno parte dal 1992
del parco nazionale della Val Grande. Toccare zone simili sarebbe un reato.
Un altro interrogativo che ci assilla è ancora peggiore: se è vero che
l'esplosione dell'Alpe Archia ci fu, e avvenne proprio in alcuni pozzi creati
nella montagna, come sostenuto durante il processo istruito contro Caretti
per procurato allarme, come è possibile che a distanza di quasi quarant'anni
questi residui dell'esperimento, gestito da equipe scientifiche internazionali,
erano ancora nello stesso posto, e in stato di totale abbandono, tanto da far
pensare che la zona fosse a rischio ambientale?
110

FASCISMO INEDITO

L’intolleranza che ho notato negli ultimi tempi nelle forze di polizia e nei
giornalisti italiani mi riporta molto indietro nel tempo. Sembra che si sia
ricreato un muro di gomma sull’informazione, che fu la caratteristica
principale della dittatura fascista. E’ come se avessi fatto un viaggio nel
tempo come il protagonista di Ritorno al futuro, che sale su una macchina e
scende nell’epoca dei nostri bisnonni. Ho capito cosa vuol dire vedere
calpestate le proprie idee e censurati i propri articoli. Probabilmente si tratta
di un rigurgito di dittatura passeggero, che deve avere contagiato in modo
fortuito anche altri ignari cittadini. Quando questa valanga nera si ritirerà
rimarrà sul campo un’Italia comunque diversa. La scopriremo più fascista di
prima, perché in fin dei conti i neofascisti (e i brigatisti) tornano sul luogo
dei misfatti come nei film di polizia. Nella nostra realtà il fascismo è
presente nelle istituzioni come nell’edilizia pubblica e privata. Eppoi sul
monte Conero. Si tratta solo di riconoscerne i segni.

La "grande mina" del Monte Conero

Diecimila chili di esplosivo dentro il Monte Conero. Un'esplosione di


dimensioni enormi con conseguenze tutte da verificare. Accadde nel 1933 e
la prova sta in un documento contenuto nell'archivio nazionale Braidense.
Nel 1932 il comune di Porto Recanati aveva stabilito la costruzione di una
scogliera formata da massi che, secondo uno studio preventivo, avrebbero
dovuto provenire da una cava del Monte Conero. Il documento partiva da
questa premessa per descrivere, nell'ambito di un testo intitolato “Il
Politecnico”, probabilmente di carattere accademico sull'ingegneria, la
messa in atto di un sistema di mine all'interno della montagna affinché il
materiale necessario al comune di Porto Recanati potesse essere prelevato.
Lo studio, a firma di Enrico Viola, era preciso in tutti i particolari: dalla
descrizione esatta del sito, ai cunicoli scavati nella roccia per installare le
mine, alla descrizione della roccia da cui sarebbero stati prelevati i
quantitativi di marmo per la costruzione della scogliera. E' evidente che oggi
questo studio non può passare inosservato, perché se delle cave romane si
sapeva bene, di quelle di epoca fascista, come quella che ora analizzeremo,
forse si sa un po' meno, soprattutto per il metodo con cui il marmo venne
111

prelevato.
Il punto esatto del prelievo venne stabilito tra lo scoglio delle Due Sorelle e
l'altra “punta” della costa situata all'altezza della Grotta degli Schiavi.
La roccia era infatti costituita da un costone a forma di piramide che
sporgeva dalla parete. Troppo invitante evidentemente per chi come questi
esperti della società chiamata “Ugo Colombo” di Imperia, che era stata
incaricata dei lavori, doveva prelevare in poco tempo tra le 250mila e le
280mila tonnellate di materiale.
Come pensava questa ditta “Ugo Colombo” di trasformare la roccia in
materiale per l'edificazione? Con un'esplosione piuttosto potente. Si trattava
di creare cunicoli, come detto, e piazzare più di un esplosivo, per provocare
una detonazione capace di scuotere la parte interessata. Così si intuisce dal
documento che è tecnico, ma abbastanza comprensibile per i meno esperti di
ingegneria o di esplosioni.
Lo studio passava quindi a spiegare che il lavoro venne diviso in più parti.
Una prima piccola detonazione fu predisposta al termine di cunicoli a forma
di “T”, creati nella montagna all'altezza del livello del mare, mentre una
seconda ben più potente detonazione fu preparata all'interno di un lungo
cunicolo a gomito, in grado di buttare giù, detto volgarmente, la piramide di
roccia. Il secondo cunicolo era quello più profondo: 14 metri perpendicolari
al costone, e un braccio molto lungo parallelo al costone di montagna, di
circa 70 metri. Qui dopo un lungo lavoro degli operai per scavare nella
montagna vennero piazzate le cariche di detonazione, più di una, per una
potenza totale stimata in quasi 10mila kg di dinamite “gomma antigelo”, a
cui andavano aggiunti 1500 kg di dinamite per le detonazioni “preparatorie”.
Una bella botta! Che in effetti venne data a questa montagna che, lo ricordo,
adesso è un Parco Naturale, considerato da tutti un ambiente da paradiso
terrestre. Evidentemente in questo paradiso c'è un peccato originale, che è
questo lavoro un po' a mio avviso sospetto. Adesso vi dirò perché.
Il documento terminava spiegando che la mina venne fatta esplodere non
prima che il cunicolo di circa 96 metri totali, quello a forma di gomito di cui
ho parlato poc'anzi, fosse stato tappato con 190 quintali di cemento. Dunque,
una volta richiuso il tunnel, la “Grande Mina”, questo il titolo del paragrafo,
venne fatta esplodere dall'esterno attraverso un sistema di miccia, con un
cavo lunghissimo (900 mt) che arrivava fino alla parte esterna della
montagna e poi ad un generatore elettrico nascosto in una piccola grotta
presso le Due Sorelle, a 400 mt di distanza dalla mina, si presume.
L'effetto si dice che fu ripreso da una cinepresa. Eccolo descritto nel
documento: “In un primo tempo la roccia subì un rigonfiamento lacerandosi
112

per grandi fratture. Subito dopo tutta la parte inferiore del massiccio fu
rovesciata verso l'esterno creando una voragine, la quale sia per il mancato
sostegno del piede, sia per effetto del sussulto che subì la montagna, provocò
fragorosamente il crollo degli strati superiori. Per un paio di minuti continuò
il franamento e il rotolamento dei massi; anche dal più alto picco dello
sperone, a quota 160 mt, precipitarono alcuni blocchi enormi”.
Il documento non ci ha spiegato cosa accadde dentro il monte.
Evidentemente a questi esperti interessava ottenere quel materiale con ogni
mezzo, e il dottor Viola era lieto di annunciare che il lavoro era terminato in
modo impeccabile, senza incidenti.
Ma siamo sicuri che questo documento dica esattamente ciò che è successo?
Non essendo un esperto di ingegneria la risposta esatta non ce l'ho, però mi
pongo una domanda, intanto: possibile che per ricavare del marmo da un
picco, piuttosto che ottenerlo picconando questa parte di roccia, fosse
necessario un lavoro così estenuante, durato un intero inverno, impiegando
numerosi operai, materiali, quindi un lavoro così costoso, per preparare un
tunnel affinché delle mine esplodessero dentro la montagna e facessero
cadere la roccia? Mamma mia che lavoro!
Il tunnel ovviamente era stato tappato per evitare che la denotazione
fuoriuscisse dallo stesso cunicolo, ma se, una volta chiuso con il cemento
questo tunnel, la mina non fosse esplosa cosa sarebbe successo, avrebbero
riscavato di nuovo per andarla a riparare? Mah, strano.
Inoltre dicevo dell'interno della montagna. Che effetto produce la
detonazione di 10mila chili di esplosivo? Beh, è sicuramente devastante, del
resto si trattava di provocare il movimento di una montagna alta 600 metri.
Che lavoro e soprattutto, che razza di studio deve esserci stato alla base di
questo prelievo di materiale roccioso!
Sono andato a curiosare tra i trattati scientifici che descrivono l'effetto di una
esplosione. C'è qualcosa su www.earmi.it. Ecco come viene descritta:
“L'esplosione è un fenomeno di trasformazione chimica o chimico-fisica che
avviene in un tempo rapidissimo, accompagnata da sviluppo di energia (per
buona parte termica) e, in genere, da sviluppo di gas.
Qualsiasi sistema che per somministrazione di piccolissime quantità di
energia termica o meccanica è capace di trasformarsi chimicamente, in un
tempo brevissimo, con sviluppo di energia, di gas e di vapori, costituisce un
sistema esplosivo. Un sistema esplosivo è omogeneo se costituito da una
sola specie chimica definita e invece eterogeneo quando è costituito da più
sostanze chimiche.
Gli esplosivi sono quindi sostanze ad alto contenuto energetico, che,
113

attraverso l'esplosione, si trasformano in sostanze stabili, a contenuto


energetico molto inferiore. Gli esplosivi solidi sono miscele o combinazioni
solide suscettibili di assumere il regime di detonazione; si riserva il nome di
polveri agli esplosivi che assumono il regime di deflagrazione.
I gas prodotti dalla reazione, a causa delle altissime temperature raggiunte
nell'esplosione, tendono ad occupare volumi enormemente superiori a quelli
corrispondenti alle sostanze di partenza. Se quindi una certa quantità di
esplosivo esplode quando è racchiusa in un ambiente ristretto, i gas
provocano sulle pareti una pressione istantanea ed elevatissima che,
qualora la resistenza delle pareti non sia adeguata, ne provocherà la rottura:
su questo principio è basato il funzionamento delle mine.”
Si parla chiaramente di innalzamento termico. Mi viene in mente il
superstite della tragedia di Linate, il quale parlava di pelle che gli gocciolava.
Una mole di calore enorme, ma non solo. La potenza di detonazione, lo dice
anche il documento dell'era fascista, aveva portato le rocce ad un
rigonfiamento. Provo a interpretare lo studio: la montagna si sarebbe aperta
come un mobile quando si apre un cassetto. Immaginiamo che si sia aperto
quello più in basso. La mancanza di appoggio provocò, mi pare di capire e
correggetemi se sbaglio, la caduta del costone su sé stesso, mentre il “piede”
era già scivolato in avanti. E' dunque possibile controllare in modo così
perfetto una detonazione di 10mila kg di dinamite, oppure le cose sono
andate in maniera diversa?
Cosa accadde veramente nel Monte Conero nel 1933? E cosa è accaduto dal
1933 a oggi? Perché ingrandendo verso sud, ma non nel punto "a-a" della
detonazione, sembra che oggi le rocce diano l'illusione di una cavità o come
di una porta. La porta di una base militare?
Mi auguro che gli ingegneri che leggono possano dare ulteriori risposte,
perché la foto del documento del 1933 lascia dei dubbi su come si
presentava allora la montagna subito dopo la detonazione: non sembrano
esserci tracce del lavoro del professor Viola...

Il parco del Conero? Fu un'idea di Mussolini

Lo hanno già fatto capire alcuni siti internet che si occupano di flora, come
casaledelconero.it. La conferma arriva però dal nuovo archivio digitale della
Gazzetta del Mezzogiorno. Il parco del Conero fu un'idea del Duce. Tra i
tanti articoli sul monte Conero presenti nel motore di ricerca spicca quello
del 9 gennaio 1934. Si scopre che i fascisti stavano predisponendo in quel
periodo ingenti lavori proprio per creare quel bellissimo bosco che vediamo
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oggi. L'articolo si intitolava: "Il Monte Conero riacquisterà il perduto


splendore". Si intuisce da queste righe che "il monte di Ancona" doveva
apparire ai marchigiani dell'epoca con un volto diverso: probabilmente come
una collina brulla e impervia.
Sappiamo che nel 1933 con una grande esplosione era stato ricavato da un
picco del Conero, senza tanti complimenti, il marmo per la banchina di Porto
Recanati. Il giornalista pugliese, allora, con aria sognante descriveva i
panorami splendidi che un tempo si potevano godere dalla vetta, dai monti
dell'Appennino alle Alpi Dinaridi della Croazia. Anche altri quotidiani come
La Stampa si stavano interessando nel 1933 alle bellezze del Conero. Ma era
solo una specie di spot moderno per delle opere fasciste. Mussolini aveva
deciso di restituire agli anconetani quello che i gerarchi consideravano,
sbagliando perché gli anconetani sono marinari, il loro monte.
Da due anni, ricordava la Gazzetta del Mezzogiorno, era attiva la strada che
portava all'eremo dei Camaldolesi, costata all'amministrazione pubblica
190mila lire e che permetteva già gite e passeggiate ai turisti. Ma nel 1934
era scattato un progetto più ambizioso: dare "stabilità alle terre" del Conero e
creare ben 229 ettari di bosco, per una spesa di 400mila lire. Al lavoro erano
già impegnate ogni giorno squadre di 25 operai, che stavano costruendo il
parco attraverso piantumazioni a gradoni di pini, cedri e cipressi, nonché
lavorando all'apertura di sentieri e strade.

Criminale nazista si nascose ad Ancona grazie ai polacchi

Emil Augsburg, uno dei più spietati criminali nazisti, responsabile del
genocidio degli ebrei polacchi, visse ad Ancona nel 1946. A testimoniarlo è
un documento del 23 ottobre del 1946 che è emerso dall'archivio della Cia.
Ma chi era Augsburg? Era nato in Polonia nel 1904, dove divenne un esperto
del giornalismo sovietico. Prima che Hitler invadesse il suo paese, nel 1937
si mise al servizio del Wannsee Institut, un istituto di ricerca nazista sulla
politica e l'economia dell'URSS. Tra il 1939 e il 1941 lavorò per la polizia e
fu responsabile delle esecuzioni degli ebrei polacchi. Fu quindi ferito
durante un bombardamento aereo a Smolensk e riparò in Germania,
nascondendosi in un monastero benedettino a Ettal, nella zona di Monaco di
Baviera. E' qui che inizia la storia del documento della Cia. Augsburg aveva
trafugato molti documenti sull'economia sovietica e gli Stati Uniti volevano
quelle carte a tutti i costi. In realtà più che di Augsburg, la Cia era alla
ricerca di un prete, monsignor Anton Kwiatowski. Fu quest'ultimo a
nascondere a Ettal i documenti anti-Comintern insieme a due complici: Emil
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Augsburg e Annemarie Buschmann. Augsburg e monsignor Kwiatowski


furono visti ad Ancona nel febbraio del 1946.
Come ci erano arrivati? Pare che il monsignore frequentasse gli ufficiali
polacchi e che furono questi militari a trasportare in macchina i fuggitivi in
Italia, prima a San Remo nel 1943, poi ad Ancona. Un altro prete che
secondo la Cia viveva ad Ancona, tale Kerschke, tornò nel 1946 a Ettal.
L'attenzione della Cia era puntata tutta su quei documenti. Dove li
nascondevano? Augsburg affermò di volerli mettere a disposizione del
Vaticano.
Nel 1947-48, secondo Wikipedia, Augsburg divenne una spia della stessa
Cia, proprio per la sua esperienza negli affari russi. C'è chi afferma che
Augsburg facesse il doppio gioco e che in realtà fosse al servizio del
Politburo. Una cosa è sicura: nell'immediato dopoguerra tra i polacchi del
generale Anders che «liberarono» Ancona c'erano dei criminali di guerra.
Nel documento della Cia su monsignor Kwiatowski traspare una certa
diffidenza degli americani verso questi alleati dell'est. Può essere la chiave
anche per decodificare i segreti e le ambiguità della base del monte Conero.
Augsburg tornò poi in Germania Ovest e lavorò nell'intelligence al servizio
di Reinhard Gehlen, un ex generale nazista, fino al 1966, quando fu
allontanato per attività «non autorizzate». Morì nel 1981.
Un caso ancora più imbarazzante fu quello di Friedrich Berger, detto il
«torturatore», capo degli assassini della Rue de la Pm. Secondo un giornale
francese che la Cia tradusse in inglese e coprì con il segreto, Berger ebbe
sulla sua coscienza ben 160 omicidi. Fu condannato a morte dal tribunale di
Algeri nel 1941 e catturato dagli inglesi nel 1945, che lo portarono nella
prigione di Ancona. Presumibilmente si tratta del campo di concentramento
per prigionieri di guerra delle Torrette di Ancona, del quale parlò l'archivista
Giuseppe Jannaci. Ma anche in questo caso il carnefice venne graziato.
Berger ad Ancona fu reclutato nel servizio segreto americano delle forze di
occupazione della Germania Ovest. La giornalista francese che scrisse
queste notizie, Marie Luiss Barr accusò il governo francese, la polizia e
alcuni magistrati di coprire un assassino. «Sono complici dei nazisti»,
affermò, aggiungendo: «Cosa si inventeranno ancora per salvarlo? Un
certificato di morte, magari».

Lo «zaratino» Gelli sognava le riforme di Renzi

Licio Gelli, il capo della Loggia P2, sognava riforme rivoluzionarie e


reazionarie, simili a quelle della politica attuale di Renzi. Da giovane era
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stato ispettore per l'organizzazione dei fasci in Jugoslavia e specialmente a


Zara, l'ex città italiana situata di fronte ad Ancona. Fu quindi un fascista
convinto e mai pentito, che operò come gerarca nei luoghi delle foibe e
dell'esodo, ma anche teatro dei peggiori crimini di guerra italiani. Sono
notizie molto importanti, che ho estrapolato dal libro autobiografico dello
stesso Gelli scritto nel 1989 e pubblicato in Svizzera. Persino Wikipedia
omette questi particolari.
Chi era dunque il Venerabile e quale ruolo ebbe nel periodo della guerra
fredda? Gelli e la sua organizzazione segreta, o meglio «riservata» come lui
chiamava la P2 dei tanti militari, furono anticomunisti, di un anticomunismo
filo-fascista che non coincide con le relazioni che la Cia inviava a
Washington. Se quest'ultima infatti sposò la politica berlingueriana del
compromesso storico per le riforme economiche, negli stessi anni il
Venerabile inviava al presidente Leone il suo particolare «schema R», con
cui proponeva la creazione in Italia di un regime reazionario contro l'ascesa
del comunismo.
A chi si ispirava? Perde sicuramente consistenza l'accusa che gli fu mossa da
Pecorelli di essere una spia dell'URSS. Sul famoso fascicolo dei servizi
chiamato Cominform, che era stato redatto intorno al 1950, gli storici sono
molto scettici. E lui naturalmente smentisce. Il libro di Gelli, «La verità»
nasce proprio con l'intento di scrivere un'apologia di sé stesso, che
giudicherei malriuscita e illeggibile, poiché molto raffazzonata e piena di
contraddizioni.
Gelli emerge quindi come il capo di un'organizzazione parallela alla
Massoneria, che non avrebbe dovuto far politica ma la faceva, e che non
doveva essere illegale ma lo era, perché il confine da lui rivendicato tra la
segretezza richiesta dalla Costituzione e la «riservatezza» non era così netto.
Fa piuttosto paura invece quel programma del 1976, che per molti versi
riflette le modifiche costituzionali che vengono attuate in questi anni da
entrambi gli schieramenti politici.
Gelli proponeva l'unificazione delle due camere in un unico parlamento,
suddiviso in due settori: politico e tecnico, con riduzione del numero dei
parlamentari. Mi pare di intravedere il nuovo Senato di Renzi.
Proponeva poi l'abolizione delle province e la modifica della legge elettorale,
altri provvedimenti recenti di Monti e Renzi; ripristino dell'autorità e del
potere dei prefetti, che in epoca fascista si occupavano di giustizia, e poi
sono diventati dirigenti dei Servizi Segreti e hanno indagato sulle mafie;
soppressione dei ministeri e riforma delle Partecipazioni Statali, nella forma
in cui oggi questo compare, cioè sparso in mille rivoli; snellimento della
117

burocrazia, come Berlusconi docet; rafforzamento del potere dei carabinieri,


che vediamo ogni giorno rigorosamente in divisa nei TG; istituzione del
fermo di polizia, poco dopo confermato da una legge della DC; sostituzione
della leva militare con un servizio volontario, nato in un programma in cui
però al posto di smilitarizzare ci si preparava a nuovi conflitti internazionali,
che infatti noi oggi stiamo vivendo, con non si sa quanti volontari; aumento
della propaganda per esaltare le virtù dei militari, che ricorda molto i nostri
servizi televisivi sulle forze dell'ordine; impiego delle Forze Armate nelle
operazioni di ordine pubblico, come accade nelle manifestazioni attuali;
inasprimento delle pene per chi spaccia e chi consuma droga, con questi
ultimi che, grazie a una legge dal 1990, vengono spediti proprio dal prefetto
senza un avvocato difensore; «rigida moralizzazione della vita pubblica» e
adozione di provvedimenti contro il reato di corruzione: anche qui non c'è
bisogno di aggiungere altro; revisione della riforma scolastica, poi distrutta
da continui cambiamenti peggiorativi; riduzione del numero dei quotidiani
con «revisione dei programmi della radio e della televisione» per
privilegiare programmi culturali: pensiamo ai giornali che non assumono
giornalisti e ai continui inutili talk show; attribuzione agli Ispettorati del
Lavoro delle vertenze sindacali, che dovevano quindi disincentivare, come
oggi in effetti avviene, l'uso del giudizio civile e penale; divieto per i
sindacati di prendere iniziative senza l'autorizzazione degli Ispettorati del
Lavoro, e io aggiungerei che infatti attualmente i sindacati difendono
soprattutto il datore di lavoro e lo Stato; infine soppressione di tutti gli enti
inutili o superati, che è stata un'iniziativa recente di Mario Monti. Ho saltati
altri punti di questo «Schema R» solo perché non li ho ancora riscontrati
nella nostra attualità, ma penso che tutto questo basti a fare della Loggia P2
un'organizzazione militare anticomunista, fascista, ma anche poco americana,
poco libertaria e poco liberista.

Scalfari: Aldo Moro punto di riferimento della P2

Aldo Moro fu ucciso per i suoi contatti con la P2? Leggendo un articolo di
Eugenio Scalfari intitolato "Da Sindona a Gelli" e uscito nel 1981 nel libro
"L'Italia della P2" questo sembra il movente di uno dei più gravi delitti del
secondo dopoguerra. La P2, quel sistema parallelo nato dallo scandalo Sifar
e impegnato a raccogliere tangenti sugli appalti pubblici, secondo il
giornalista di Repubblica e L'Espresso aveva quali referenti politici del suo
sistema, Andreotti e Moro. "Per anni i due clan si combatterono sordamente
ma duramente, al coperto degli occhi del pubblico. Poi - scrisse il
118

giornalista - scomparso Moro, è stato Bettino Craxi a diventare in sua vece il


punto di riferimento di quella parte dei Poteri occulti che non si riconosce in
Andreotti." Parole terribili, ma che sono state confermate dalla storia dei
processi successivi. Se Moro era nel sistema P2 è a questo punto possibile
che fu rapito e lasciato morire anche per gli omissis su Ancona.
Il punto di vista di Scalfari per certi versi ricalca le parole di Jannuzzi su
Tempo, ma se ne discosta sul ruolo di Andreotti, garante dei servizi segreti
onesti per il giornalista di Tempo, antagonista di Moro nel regolamento di
conti tra poteri occulti per Scalfari. Sono dunque queste illustri firme a
scrivere la vera storia d'Italia? Io credo di no, perché i loro giornali è stato
poi accertato che erano finanziati e condizionati dal KGB. Ma se Tempo
nell'archivio Mitrokhin risultava un giornale "usato" dai sovietici, L'Espresso
era proprio stato "pubblicato e finanziato dal KGB dal giugno del 1962".
Cioè era proprio cosa loro, un giornale non certo nato sotto una buona stella
e cresciuto con la nomea di corriere delle bufale, le più celebri delle quali
furono lo scandalo Giuffrè e lo scandalo Lockheed. In Italia c'è stata una
guerra tra spie, e una verità assoluta scaturirà solo al di fuori di quei
condizionamenti.
In guerra fredda vi fu anche l’ossessione del doppio gioco. Gli infiltrati non
mancarono nemmeno nella Loggia P2 di Licio Gelli. Nell'archivio Mitrokhin
ho trovato due doppiogiochisti di una certa importanza che erano iscritti alla
loggia massonica di Gelli, ma lavoravano in segreto per il Patto di Varsavia:
Enrico Aillaud ed Enrico Manca.
Aillaud, fascicolo P2 numero 560 (fonte www.strano.net), è un nome noto
agli storici della guerra fredda. Mitrokhin racconta che fu reclutato dal KGB
con il ricatto sessuale: fu raccolto del materiale compromettente su una sua
relazione amorosa e anche su delle speculazioni monetarie. Aillaud fu dal
1940 un diplomatico al servizio della presidenza del consiglio italiana, e un
ambasciatore italiano nell'est europeo. I russi riuscirono a farsi dare da lui
informazioni sulla Nato, sulla Cina, sulla CEE e sui diplomatici di Mosca. Il
KGB lo ricompensò con "preziosi regali" - ha scritto Mitrokhin - e se ne
andò in pensione serenamente nel 1980.
Enrico Manca, ex vicesegretario del PSI ed ex presidente della Rai, era nel
fascicolo P2 numero 860, ma tramite il suo segretario, che nell'archivio
Mitrokhin compare come "N Cona" e il nome in codice Bauer, si rivolse agli
ungheresi per fare affari con loro. Chiese aiuto per il suo "gruppo Manca" in
cambio di informazioni sulla politica estera italiana, aiutando così l'Ungheria
a fare affari nel commercio con l'estero. Ciò avvenne nel 1978. Questa
almeno è la mia interpretazione degli appunti di Mitrokhin che in questo
119

caso sono confusi. Il presidente Manca compare come "Enrico Manco" nel
rapporto impedian 80, ma è identificabile dalla carica in politica. Ci sarebbe
anche un terzo uomo della P2 nell'archivio Mitrokhin ed è il democristiano
Mario Pedini, tessera P2 numero 570, che fu implicato in uno scandalo sulle
armi di Stato. Mitrokhin lo cita nel rapporto impedian 15, a proposito
dell'agente Kanio. Questi fu il capo del dipartimento stampa della DC e
assistente personale di Pedini. Purtroppo si sa soltanto che Kanio nel 1972
era un contatto riservato del KGB di Roma.
Negli anni ‘60 vi fu persino uno scambio tra prigionieri, che fu drammatico.
Questi i fatti: un giovane italiano, Domizio Villa, venne fermato a Milano
dai carabinieri e dal controspionaggio nel gennaio del 1967, mentre in
cambio di denaro consegnava al segretario della delegazione commerciale
ungherese, Ferenc Budai, in piazza Duomo, degli schizzi topografici di basi
militari della zona di Verona e Vicenza. Di questa persona non si seppe più
nulla, dopo che si prese quattro anni di carcere in Assise.
Più complessa fu invece la storia dell'ungherese Budai, il quale secondo un
articolo siglato de La Stampa del 3 maggio 1967 venne scambiato con un
certo Giovanni Maria Gambella, 41 anni, genovese, professore italiano
arrestato in Ungheria il 13 dicembre del 1966 e condannato a cinque anni e
mezzo di reclusione. Motivo dell'arresto: probabilmente una rappresaglia per
il caso Villa-Budai. Una storia assurda e dimenticata che meritava più
attenzione e che, infatti, nei documenti di fonte statunitense è tenuta bene a
mente.
Penosa fu la situazione in cui si trovò il povero Villa. L'articolo de La
Stampa del 31 gennaio 1967 raccontava la disperazione del giovane che fu
portato «quasi» a braccia in aula d'Assise mentre urlava alla mamma: «Sono
un uomo finito». Processi terribili, a cui non siamo abituati. Tra i testimoni
c'era infatti anche Eugenio Henke, capo del Sid, che qui era la chiave per
risolvere il caso di spionaggio, mentre in seguito fu accusato da Lino
Jannuzzi, nel suo reportage di Tempo del settembre 1976, di aver nascosto ai
giudici la matrice fascista della strategia della tensione, e di aver assoldato
svariati giornalisti corrotti.

L’anima nera del terrorismo veniva dal Ministero degli Interni

Fu l’ “anima nera dei corpi separati dello Stato, legato a Gelli da un’amicizia
dalle radici lontane e oscure”. Federico Umberto D’Amato venne descritto
con queste parole da Andrea Barberi e Nazareno Pagani nel libro “L’Italia
della P2”, scritto poco dopo la scoperta da parte della magistratura
120

dell’esistenza della Loggia di Licio Gelli. Questo personaggio è l’elemento


chiave per capire la Strategia della Tensione degli anni Settanta. E’ l’anello
di congiunzione tra il Ministero degli Interni, il terrorismo e le basi della
Nato.
Quando Lino Jannuzzi lo inserì nel suo “Rapporto sui giornalisti spia” del
settembre 1976 molti gridarono allo scandalo. D’Amato veniva descritto
come un poliziotto, “nel senso più storicamente autentico del termine”, che
dirigeva il servizio di frontiera del Ministero degli Interni, ma che era stato
anche il capo della divisione “Affari Riservati”, fino alla soppressione di
quell’ufficio dopo la strage di Brescia del 1974. Jannuzzi aggiunse un
particolare per me interessante: D’Amato a suo dire fu “strettamente
collegato con l’ambasciata degli Stati Uniti e con tutti i servizi stranieri, ma
particolarmente, e fino al limite del doppio gioco, con il servizio segreto
francese”. Fu lui il principale responsabile della Strategia della Tensione, dal
tempo delle schedature del Sifar ai depistaggi delle inchieste giudiziarie, e
“trattava da pari a pari con le grandi firme, gli editori e i direttori dei
giornali”, così come faceva con i dirigenti delle grandi aziende private e
pubbliche: Fiat e Montedison.
Jannuzzi non sapeva che D’Amato (fascicolo 554, fonte il sito
www.strano.net) come Allavena (fascicolo 505) erano iscritti alla Loggia P2.
Quando ciò emerse, l’articolo di Barberi e Pagani si spinse anche oltre.
D’Amato fu accusato di essere l’ideatore dell’ultrasinistra italiana. I due
scrissero che quest’ultima venne “studiata a tavolino, creata dal nulla negli
uffici degli Affari Riservati, al Viminale”. Ed ecco come: “D’Amato arrivò a
inventare gli slogan più duri del maoismo anti-PCI, a farli comporre in
manifesti e, infine, a farli stampare.” Il compito venne affidato all’esponente
di “Avanguardia Nazionale” Stefano Delle Chiaie, che Barberi-Pagani
descrissero come “bombarolo terrorista”.
Dunque eccola la verità: estrema destra, estrema sinistra, funzionari
ministeriali, magistrati erano uniti dall’appartenenza alla Loggia P2 e si
fronteggiavano in quelli che anche Barberi e Pagani chiamarono
“regolamenti di conti in famiglia”.

La radio "nera" sul Conero che oscurava Radio Arancia

Nel novembre del 1978, a pochi mesi dal delitto Moro, destra e sinistra
entrarono in conflitto ad Ancona. Da una parte la radio del Movimento
Sociale che si chiamava Radio Mantakas, dall'altra la democratica Arancia,
ancora presente sul territorio. La causa del contendere fu la trasmissione del
121

segnale radiofonico in modulazione di frequenza. La legge Mammì che rese


più ricchi tutti gli editori non esisteva ancora, era il periodo delle onde libere
dei pionieri.
L'Unità in un suo servizio affrontò la questione quando Radio Arancia si
accorse che sulla sua frequenza c'era un nuovo operatore, che definì molto
arrongante: appunto Radio Mantakas. Era finanziata da Leonadro
Giovagnini, della sezione Centro del MSI. Pare che anche Almirante avesse
sborsato qualche liretta. Radio Mantakas trasmetteva da Osimo, mentre i
ripetitori erano piazzati sul Monte Conero e a Filottrano. Grazie anche ai
moderni impianti di riproduzione quei discorsi di Mussolini o gli inni nazisti
che irradiavano in gran parte della provincia si sentivano benissimo. L'Unità
chiese quindi alle forze dell'ordine di intervenire. Non so se lo fecero
all'epoca. Probabilmente no. Tant'è che di questa descrizione delle radio
"nere" qualcosa ad Ancona rimane. Direi che rimane nella grana (non so
quanto veritiera) della sovrapposizione delle frequenze estere e poi, in
particolar modo, in quel considerare la redazione un ritrovo abituale e non
un posto di lavoro. Chissà che non ci sia un nesso.
Un altro personaggio degli anni ‘70 che fu molto discusso è Antonio
Alibrandi, il giudice che istruì il processo contro la spia di Monfalcone,
Carlo Biasci, il quale aveva rubato lo schema degli impianti radar del monte
Conero. Fu scritto che era fascista e corrotto. L'accusa partì dal giornalista di
Tempo, Lino Jannuzzi, nel famoso reportage del settembre 1976 sui
giornalisti spia. Alibrandi secondo le indiscrezioni era un "propagandista" di
Almirante e avrebbe aperto un'inchiesta sull'Anas "pilotandola secondo gli
indirizzi e gli intrighi dell'ufficio 'I'' della Guardia di Finanza e del ministro
delle finanze dell'epoca, il socialdemocratico Luigi Preti". Secondo Jannuzzi
quella fu un'inchiesta creata per attaccare i socialisti. Ma Alibrandi violò
anche il segreto istruttorio "favorendo la fuga di notizie tendenziose tramite
il cronista giudiziario dei giornali della catena Monti, Guido Paglia".
Cosa c'è di vero in queste accuse? Alibrandi fu sicuramente un giudice
discusso, lo scrisse pure La Stampa nel 1981. Sua fu anche l'inchiesta
sull'Italcasse e, in particolar modo, quella sulla Sir di Rovelli, a proposito
della quale si disse in ambienti parlamentari che era stata partorita a casa di
Licio Gelli. Un'inchiesta della P2, quindi, voluta per screditare i nemici
privati della Montedison. Dai fondi neri di quest'ultima, secondo fonti di
sinistra, sarebbero usciti i soldi con cui Attilio Monti acquistò il Resto del
Carlino. E il cerchio si chiuderebbe. Su Alibrandi c'è inoltre l'ombra terribile
di un coinvolgimento del figlio nella strage di Bologna del 1980. Sono
notizie sconvolgenti soprattutto perché gettano dubbi sull'operato dei
122

magistrati che si interessarono del monte Conero e che ebbero rapporti con i
servizi segreti, ai quali con la legge 801 del 1977, voluta da Andreotti, fu
proprio vietato di entrare nelle indagini della magistratura.
Ma chi è Lino Jannuzzi, il grande accusatore dei giornalisti? Nel periodo di
quegli scoop era nella direzione del settimanale Tempo, che fu un grande
giornale, fondato nel 1939 dalla Arnoldo Mondadori. Nel 1976 Tempo era
edito ormai dalla Palazzi e diretto da Carlo Gregoretti. Con Jannuzzi
figuravano firme come Franco Ferrarotti, Gaio Fratini, Dacia Maraini,
Ruggero Orlando, Sandro Paternostro e molti altri, ma anche il futuro
inquisito Luigi Bisignani. Era un settimanale scandalistico che si occupava
di politica, cultura, arte. Leggendo gli articoli di Jannuzzi del 1976 ho
scoperto un raffinato scrittore e un pungente critico dei poteri forti. Come
nell'articolo sulle spie, nel quale arrivò a ipotizzare che il ministero degli
Interni, "non alleva più le 'Avanguardia nazionale', ma si cresce le 'Brigate
Rosse' e i 'Nap'. Che cosa aspettiamo? - fu la sua denuncia - di diventare
tutti 'brigatisti'?" Due anni dopo, quando Aldo Moro fu ucciso senza che il
mondo politico intervenisse, Tempo era già chiuso. Le sue pubblicazioni si
interruppero nel gennaio del 1977. Jannuzzi proseguì la carriera nei giornali
di centro-destra e quando scese in campo Berlusconi fu quello il suo modello,
dopo aver difeso Andreotti, sostenuto l'ascesa di Craxi al PSI e aperto a una
"primavera" del PCI per "applicare la Costituzione". Accusò invece Cossiga
di essere un accentratore di potere. Del resto anche il Copasir vide nella sua
relazione del 5 marzo 1996, sul dossier spionistico dell'ex capo del SISMI
Cogliandro, una contrapposizione netta tra De Benedetti, che acquistò nel
1987 uno dei bersagli di Jannuzzi e cioè L'Espresso, e l'asse
Andreotti-Craxi-Berlusconi, al punto che in una nota del settembre 1989 del
dossier Cogliandro - disse il Copasir - l'attacco a Berlusconi veniva
"considerato un pericolo per il Governo Andreotti". All'opinione pubblica
però è più nota, per le successive vicende giudiziarie-fiume, l'amicizia
diretta Craxi-Berlusconi. L'impressione è quindi che Jannuzzi e gli stessi
giudici di "Mani pulite" raccontino solo una parte di ciò che sanno.

Allavena, doppio gioco all'ombra del Conero?

Giovanni Allavena, l'uomo della schedatura di 157mila italiani, secondo


l'inchiesta di Jannuzzi del 1976 avrebbe "arruolato decine e decine di
giornalisti fascisti". Il redattore di Tempo lo definì un "colonnello, poi
generale, stretto collaboratore del generale De Lorenzo". Fu "coautore" del
"Piano Solo", quello che solo i carabinieri avrebbero dovuto attuare nel 1964,
123

e sostituto di De Lorenzo dopo il fallito golpe del Sifar. Questo militare


corrotto interessa da vicino la storia del Conero. Secondo altre fonti come
Repubblica, che parlò di lui quando morì il 27 settembre del 1991, Allavena
fu capo del controspionaggio di Ancona fino al 1956. Quindi, ne deduciamo,
proprio mentre nasceva la base del Conero e mentre al cinema Metropolitan
veniva attuata una strage dai risvolti poco chiari.
L'orientamento politico di questo militare non ci pare di estrema destra.
Allavena, dando per buone le accuse di Jannuzzi, avrebbe scelto tra i
giornalisti da lui assoldati per raccontare la cronaca anche Lando Dell'Amico,
socialdemocratico, il cui nome sarebbe collegato all'attuale editore del
quotidiano di Ancona, Il Resto del Carlino. Il militare avrebbe inoltre rubato
dei fascicoli del Sifar per darli a Licio Gelli. Ma soprattutto pare che fu
stimato da Agnelli, che gli regalò una concessionaria Fiat a Roma, proprio
nel periodo in cui la Fiat fondava una sede in Russia, in nome di un ponte
economico tra USA e URSS. Ulteriore conferma di un doppio gioco starebbe
nel fatto che Allavena, fondatore di un comitato per l'elezione di Nixon,
secondo Repubblica fu ascoltato dal PM Mastelloni nel novembre del 1990
nell'inchiesta su Argo 16, aereo che si disse fu fatto cadere dal Mossad
israeliano per vendetta contro la politica filopalestinese del governo italiano.
Conferme? Ce ne sono tante: Allavena comparve cinque anni dopo
l'inchiesta di Jannuzzi nella lista della Loggia P2 e si parlò di lui anche
quando nel 1990 scoppiò il caso Gladio.
Lando Dell'Amico viene descritto nel reportage di Tempo come un
"giornalista-ricattatore-spione", politicamente ex repubblichino, ma
convertito alla socialdemocrazia. Per questo pare che fu autore di un
tentativo di corruzione di un congresso repubblicano di Ravenna, su richiesta
del presidente dell'ENI Enrico Mattei e con l'aiuto del Sifar. Entrò poi nella
sfera di influenza del petroliere Attilio Monti, futuro editore del Resto del
Carlino. Per Monti fondò nel 1959 l'agenzia giornalistica "Montecitorio".
Nel 1957-58 avrebbe tentato di coinvolgere, con documenti falsi, Giulio
Andreotti nello scandalo Giuffré, facendosi aiutare dal Sifar e da "alcuni
ufficiali della Guardia di Finanza". Fu un dossieraggio falso, secondo
Jannuzzi, perché così stabilì la commissione parlamentare d'inchiesta. Ma c'è
una possibile bufera sugli attuali editori del Resto del Carlino. Jannuzzi
affermò che nel settembre del 1969, poco prima della strage di Piazza
Fontana, Monti avrebbe trasmesso, tramite il giornalista fidato di Allavena,
appunto Lando Dell'Amico, dei soldi a Pino Rauti. Il giornalista avrebbe poi
lasciato traccia di ciò in una lettera inviata al genero di Monti, Bruno
Riffeser. A quel punto, sempre Dell'Amico si sarebbe pentito, avrebbe
124

consegnato tutto al giudice Gerardo D'Ambrosio, ma alla fine avrebbe


ritrattato ogni accusa, costruendosi una villa. Di queste terribili ipotesi vorrei
dire che intanto mi vergogno, perché ho firmato dei pezzi sul Resto del
Carlino per alcuni anni. Monti voleva partecipare alla 'strategia della
tensione'? Io penso di no, ma non nego che l'ambiente di lavoro sia subdolo
e ostile. Posso confermare solo un contatto nei primi anni '80 tra la redazione
del Carlino di Ancona e i Servizi Segreti. Non sottovaluterei neanche il fatto
che nessuno di questi personaggi querelò il giornalista Jannuzzi.

Aldo Moro fu ucciso per gli "omissis" su Ancona?

Il leader DC fu assassinato per i segreti legati al Sifar? Perché non rivelasse


il doppio gioco dei servizi deviati? O perché poteva aver capito cosa si
nasconde nel monte Conero?
Una cosa è certa: Moro era ricattato da Vito Miceli, capo del famoso Sid
parallelo. La verità sulla sua morte sta probabilmente negli articoli scritti da
Lino Jannuzzi e Luigi Bisignani su Tempo tra luglio e dicembre 1976. Molti
dei loro scoop si sono in seguito avverati, e messi insieme formerebbero il
movente di quell'orrendo delitto. Miceli ricattava Moro, perché non rivelasse
i segreti del rapporto Manes sul golpe De Lorenzo, quelli riguardanti la città
di Ancona e l'aeroporto di Falconara. Jannuzzi scrisse parole di fuoco contro
il leader DC per quelle "bugie". Il Sifar interferì nella politica italiana anche
ricattando i politici dopo averne spiato le abitudini intime e private. Ma il
ricatto sessuale era tipico del KGB. Lo scrisse nel 1983 la spia della Cia,
Rositzke. Si parlò anche di un contatto diretto tra il Sifar e i presidenti della
Repubblica, che sarebbero stati informati dal 1964 fino al 1976 sulle
direttive che arrivavano dall'estero (dagli Usa? dall'URSS?) e sulle scelte da
adottare. Tant'è che Andreotti (atlantista) decise di riformare, quell'anno, i
servizi attribuendone il controllo al presidente del Consiglio e al nuovo
comitato parlamentare detto Copasir.
A questo punto entrerebbero in gioco i terroristi: prima l'Ordine Nuovo di
Rauti con tendenze "nazi-maoiste" (piazza Fontana nel '69), poi le Brigate
Rosse. Le loro attività eversive per Jannuzzi coinciderebbero con i governi
Moro. I mandanti sarebbero gli stessi: i servizi deviati, con la compiacenza
di qualche politico DC e la copertura di certi magistrati corrotti. Ci sarebbe
stato negli anni '70 un regolamento di conti mafioso tra pezzi deviati dello
Stato. Moro, apponendo il segreto, entrerebbe a mio parere
involontariamente in questo scenario. Il suo rapimento era annunciato.
Recenti documenti del Copasir, che parlano di una scissione nella P2,
125

avvalorano queste ipotesi di una guerra fratricida. Gli "omissis" furono


svelati solo nel 1990, alla fine della Guerra Fredda, quando si seppe anche
parte del segreto di Gladio. Resta invece il buio profondo sul monte Conero.

Giallo-Spagna, nel '67 non era nella Nato

C'è qualcosa fuori posto nell'affascinante storia di Giorgio Rinaldi, la spia


torinese che svelò ai russi i segreti delle basi Nato in varie zone d'Europa.
Nella concitazione del momento si parlò, e se ne parla tuttora, anche della
Spagna come territorio Nato messo a rischio dall'audacia di Rinaldi e dei
suoi seguaci. In realtà le cose stanno diversamente e l'articolo conservato per
anni dalla Cia, pubblicato a Washington sul The Sunday Star del 9 aprile
1967, lo spiegava sin troppo bene.
La Spagna nel 1967 non era una nazione Nato, anche perché in quel
momento si trovava ancora sotto la dittatura filo-fascista del «Caudillo»,
Francisco Franco. Fu infatti soltanto il 30 maggio del 1982, sette anni dopo
la morte di Franco, che la Spagna entrò formalmente nel Patto Atlantico, ma
fu molto tempo dopo, nel 1998, che essa entrò a far parte della «struttura
militare integrata» dell'Occidente.
Quindi aveva fatto un colpo bello grosso il buon Rinaldi con la sua rete
spionistica! Aveva messo le mani su un accordo segreto tra gli Usa e la
dittatura fascista di Franco. Eccole le parole esatte che probabilmente la CIA
non avrebbe voluto leggere sui giornali. Nel giornale statunitense si trova
scritto che nel territorio spagnolo vi erano installazioni militari «U. S.», cioè
statunitensi, a Sanjuro, vicino Saragozza; poi a El Ferrol, vicino Cartagena, a
Torrejon de Ardoz vicino Madrid, e a Rota vicino Cadice. Di queste -
proseguiva il pezzo anonimo - due erano quelle più importanti. Quella di
Torrejon era il quartier generale delle forze aeree statunitensi, mentre la base
di Rota era la più ampia installazione navale sempre degli Stati Uniti. Ma ciò
che più fece scalpore fu che nessuno negò la possibilità che quei velivoli e
quelle navi potessero trasportare armi atomiche.
Che scalpore deve aver fatto alla Casa Bianca questo articolo! E chissà quale
espressione deve aver mostrato ai suoi colleghi l'allora presidente Lyndon B.
Johnson nel leggerlo! Gli Stati Uniti alleati di Franco? Molti potevano
sospettarlo, ma ora tutto questo veniva alla luce del sole. Forse fu proprio il
caso-Rinaldi a mettere in allarme sullo scacchiere europeo certi personaggi
di destra. In Grecia, altra nazione che fu colpita dalla spy-story torinese, il
21 aprile del 1967, cioè poco meno di un mese dopo l'arresto delle spie in
Italia, si mossero i colonnelli, che con un colpo di Stato instaurarono una
126

dittatura anti-comunista. Alla fine degli anni '60, l'ex comandante della
Decima Mas, Junio Valerio Borghese, si rivolse agli Stati Uniti prima di
tentare, in Italia, quel colpo di Stato del dicembre del 1970 poi definito «da
operetta». Rapporti della CIA registrarono che Borghese chiese a dei
rappresentanti degli Stati Uniti un appoggio al suo piano politico fascista.
L'appoggio fu però negato. E poi Licio Gelli. Anche il «Venerabile» verso la
metà degli anni '70 del secolo scorso si ispirò agli Stati Uniti nello stilare il
suo programma politico dittatoriale, il famoso «Schema R», con il quale dei
militari corrotti intendevano contrastare l'ingresso del Partito Comunista nei
governi democristiani. Guarda caso, Licio Gelli fu uno dei reduci della
guerra di Spagna del 1936, che il futuro gran maestro della P2 ovviamente
combatté valorosamente dalla parte del «Caudillo»...
Ma, allora, se il caso delle spie di Torino non fosse emerso, quale avrebbe
potuto essere la politica americana in Europa? E quale progetto politico
sommerso avrebbero portato avanti le destre insieme con pezzi deviati degli
Stati Uniti?

Il nostro muro di gomma contro i migranti

I moralismi del presidente Renzi sui migranti coprono ormai a stento la


malattia degenerativa della politica europea. Le vittime dell’arroganza altrui
sono la punta dell’iceberg da tantissimi anni, non fanno quasi più notizia. E’
andato in onda in questi giorni un documentario sulla tv svizzera che
racconta una storia dell’Olocausto che a qualche nostro storico non deve
essere piaciuta nella sua crudezza. Perché la storia non ha mai un senso e un
vero vincitore morale, per come la vedo io. Una conferenza mondiale che fu
organizzata nel 1938 è stata del tutto dimenticata. Perché?
Nella cittadina francese di Evian i politici del mondo avrebbero dovuto
risolvere la questione degli ebrei cacciati da Hitler. Nessuno però li volle i
“migranti” prodotti dal nazismo, che nei lager trovarono a milioni il destino
che sappiamo, e nessuno in Italia se lo vuole ricordare. Tant’è che il
fenomeno del rifiuto dell’accoglienza si sta ripetendo non soltanto con gli
attuali profughi mediorientali e africani, ignobilmente parcheggiati dalla
Germania nell’ex lager di Dachau, ma lo abbiamo vissuto e dimenticato nel
nostro paese anche un’altra volta. Accadde nel 1991, quando dall’Albania e
poi dalla ex Jugoslavia arrivarono ad Ancona profughi usciti da un inferno di
fuoco, in quanto la guerra di religione stava devastando la loro civiltà. La
risposta italiana, come ironizzò anche Andreotti in un suo libro, furono solo
parole: “Accogliamoli nelle nostre famiglie”. Ma quando i ministri del
127

Pentapartito capirono che erano troppi li rispedirono tutti indietro. C’era


poco da ridere, riflettendoci bene, perché il muro allora lo aveva eretto la
famigerata legge Martelli. Andreotti finse di non ricordarlo. Il migrante
poteva arrivare in Italia solo se c’era un parente disposto ad accoglierlo. Nel
settembre del 1991 ad Ancona ne arrivarono a centinaia, nonostante la
polizia croata avesse evitato di imbarcare persone non in regola con la legge
italiana. Quelli che sbarcarono trovarono un ulteriore muro, fatto di controlli
che duravano ore. La polizia italiana fu dura e fiscale al punto da far dire a
una ragazza croata che attendeva il marito nel porto dorico: “L’Italia avrebbe
dovuto comportarsi come una nazione amica, qui invece non mi risulta che
ci sia un piano di accoglienza - disse al cronista dell’Unità -. Tutti questi
controlli - aggiunse - sono umilianti.”
Noi oggi sappiamo anche qualcos’altro e dobbiamo denunciarlo forte. I
croati abbandonarono la padella per trovare la brace. Questa è la verità. Nel
luglio del 2011 un articolo del settimanale “Why Marche” scrisse che
secondo alcune leggende il monte Conero era un “avamposto ben dotato e
proteso verso est, come una vigile sentinella dell’occidente contro il pericolo
rosso”. C’era una base militare ad Ancona, lì di fronte alla Croazia. Con dei
missili? Why Marche non si sbilanciava scrivendo che tra le dicerie c’era
“pure quella secondo la quale l’arsenale custodito nella pancia del monte
fosse comprensivo anche di qualche decina di testate nucleari.” Dunque i
migranti non li sappiamo accogliere ed è difficile dirlo apertamente. Ma se
poi volessimo spingerci oltre e comprendere che cosa siamo noi italiani? Per
ora ho capito cosa non siamo: non siamo democratici, perché ripetiamo gli
errori del fascismo, non siamo sinceri, per lo stesso motivo di prima, e non
siamo colti.
Tanto per dirne una: il settimanale marchigiano nel parlare del Conero in
guerra fredda ha dimenticato che l’ex Jugoslavia non era allineata con i russi.
Perché avremmo dovuto puntarle contro dei missili? Invece abbiamo in
Italia, nel nordest specialmente, decine di basi missilistiche che la politica
finge di non vedere. Sono della Nato? Quella del Conero non si direbbe
proprio. Anzi, il fatto che dalla vetta sia visibile la costa di Zara fa venire
alla mente un’altra vicenda, che è poi quella che la stampa di Berlusconi sta
utilizzando per fare politica con la storia. Zara durante il fascismo era una
città italiana, che ci fu assegnata con il trattato di Rapallo del 1920. Adesso
per Il Giornale è il simbolo insieme all’Istria delle foibe e dell’esodo. Ma
perché ricordarsene solo nel 2000? Chi per decenni ha lavorato sul Conero -
come ha scritto “Why Marche” - all’insaputa della gente, perché “nessuno
dei locali doveva sapere cosa avveniva veramente nei ventricoli della
128

montagna”, la storia di Zara ce l’ha avuta davanti agli occhi dalla mattina
alla sera, senza bisogno del binocolo. Qualcosa dovrà pur significare, non
credete?
129

L’ARCHIVIO DEI SERVIZI

La terribile strage di Parigi del 2 novembre 2015 ha confermato la


pericolosità del terrorismo islamico. Dobbiamo quindi ringraziare il Sisde se
da noi non è mai successo nulla di ciò? Perché nell'informativa numero 4
sono presenti le modalità di indagine dell'ex servizio civile sul terrorismo,
che nel 2006 fu estesa ovunque. Scrivevano testualmente i relatori sul finire
del 2006: "La ricerca informativa del SISDE volta a cogliere modalità e
luoghi delle iniziative di proselitismo, reclutamento e radicalizzazione non
ha mancato di rivolgersi, oltrechè ai tradizionali centri di aggregazione,
anche a esercizi commerciali, internet point e phone center. Il monitoraggio
effettuato dal Servizio ha evidenziato l’esistenza di correnti oltranziste in
talune località minori del Centro-Nord." Furono trovate 34 associazioni
islamiche nelle Marche, 91 in Lombardia, 53 in Piemonte, per fare degli
esempi. Ringraziamo allora il Sisde, e stiamo tranquilli: le telefonate che
faremo dai locali gestiti dagli stranieri saranno tutte controllate. L'uomo con
le cuffiette del film "Le vite degli altri" sarà la nostra realtà, dopo il giro di
vite del ministro Alfano. Ma saremo spiati per la nostra sicurezza.

Il clan Mazzarella fu sgominato illegalmente?

La polizia e i carabinieri si fecero aiutare dai "Servizi". E' quanto emerge


leggendo il documento numero 3 della nota informativa del SISMI, scritta
per il Parlamento intorno alla fine del 2006. Arrestare le persone grazie ai
"Servizi" è però illegale. Lo dice la legge sui servizi segreti, anche la più
recente del 2007, la quale esclude in maniera assoluta che i magistrati
possano dipendere dai "Servizi". Invece è accaduto almeno in due occasioni
che gli arresti fossero portati a termine "con il contributo" - recita il testo - di
SISMI e SISDE (oggi AISE e AISI).
Ci riferiamo all'operazione del 23 febbraio 2006 allorché furono scoperti e
arrestati, "con il contributo del SISDE", dei camorristi del clan Mazzarella
che operavano con dei criminali ucraini; e all'arresto nel leccese, sempre
"con il contributo del SISDE", il 22 febbraio 2006 del latitante Tommaso
Montedoro. Le parole della relazione lasciano supporre, non tanto a
un'informazione fornita dai "Servizi", ma a un loro concorso diretto nelle
indagini. Ciò è vietato e fece scandalo l'ipotesi che per le indagini
130

sull'omicidio di Marta Russo negli anni '90 la polizia potesse essersi avvalsa
di strumenti del SISDE. Il Copasir (che allora si chiamava Copasis)
interpretò così la legge nella relazione del 3 novembre 1999: "Nessun
rapporto diretto può intercorrere tra autorità giudiziaria e servizi di
informazione e sicurezza. Gli organi cui questi ultimi possono rapportarsi
debbono invece essere, necessariamente ed esclusivamente, quelli della
polizia giudiziaria. Per altro, la collaborazione che deve intercorrere tra
servizi e polizia giudiziaria riveste carattere eminentemente informativo: i
servizi di sicurezza, nelle forme viste sopra, mettono a parte la polizia
giudiziaria dei fatti e delle circostanze acquisiti nell'esercizio della propria
attività che ritengano integrare fattispecie di reato." Il titolo del quotidiano
La Stampa di allora fu: "Stop alle inchieste con gli 007". E invece pare che
ci risiamo.

Archivio Mitrokhin, tre funzionari della Farnesina rischiarono il posto

Tre funzionari di Stato "di medio livello" rischiarono il licenziamento per la


loro appartenenza al KGB. E' quanto i parlamentari seppero nel 1999 poco
prima della pubblicazione dell'archivio Mitrokhin, un dossier con i nomi
delle spie del KGB russo in Italia. Lo comunicava la relazione del Copasis
del 9 febbraio 2000, la quale specificava che due funzionari furono salvati da
una nota di un dirigente della Farnesina e del vicepresidente del consiglio, i
quali dettero conto della "piena affidabilità" dei funzionari stessi. Un terzo,
invece, aveva già smesso di lavorare sui documenti riservati dal 1997. Ma
altri due nomi del dossier Mitrokhin rivelarono la presenza di spie del KGB
proprio all'interno del Sismi. Uno è Polatov (rapporto Impedian 9), alla cui
identità il Sismi non seppe risalire, l'altro è una certa Iris (rapporto Impedian
177), spia cecoslovacca assunta dal Sismi nell'agosto del 1978 e poi
processata negli anni '90. Nell'archivio Mitrokhin il Sismi scoprì inoltre
alcuni parenti di agenti segreti italiani, che non vennero licenziati su
consiglio del Cesis. Trovò, ancora, 23 agenti del KGB che potevano
costituire un pericolo per la sicurezza nazionale, ma non eseguì su di loro
alcuna azione di controspionaggio. La causa fu l'apertura dell'inchiesta
giudiziaria sul dossier. Sempre il Sismi, a cui venne inizialmente recapitato
tutto il materiale, scoprì la presenza di 34 uomini politici. Su di essi tuttavia
non prese provvedimenti per non interferire nell'attività istituzionale. La
situazione era quindi molto seria, ma l'atteggiamento che tennero i nostri
organi di sicurezza desta molte perplessità.
Inoltre, molti nomi dell'archivio Mitrokhin sulle spie italiane furono
131

censurati. Lo avrete letto sui più importanti quotidiani. Si è alzato un gran


polverone, ma nessuno ha specificato quali nomi siano spariti e perché.
Eppure un articolo di Repubblica dell'11 ottobre 1999 testimonia che i
giornalisti ricevettero "oltre 200 schede". Che però nel libro della Bur, in
appendice, non ci sono.
In pratica sono scomparsi alcuni politici del PSI come De Martino e Accame,
e sono stati eliminati i giornalisti più importanti, tra cui Jas Gawronski e
Giuliano Zincone. Non c'è accenno a giornali come L'Espresso e Tempo
(quello dei giornalisti-spia del 1976), che venivano usati dal KGB. Poi
manca quasi tutto il capitolo delle aziende pubbliche, controllate dal PCI e
delle quali parlo nel mio libro "Consorzio di Stato". Non si parla dell'Efim,
che trafficava armi, di Finmeccanica e di uomini Montedison come l'editore
e petroliere Attilio Monti. Vengono elencati solo alcuni esponenti che
gravitavano nell'Eni e un uomo della P2. E manca pure Iris, la spia
cecoslovacca assunta dal Sismi nel 1978 di cui parlava la relazione del
Copasis.
Ricostruendo il puzzle si possono trarre delle conclusioni. La pista che
avevamo seguito della guerra fratricida tra uomini P2 e delle aziende
pubbliche a suon di stragi di Stato è assai verosimile. C'è stata anche una
guerra tra giornalisti ed editori, ma Attilio Monti, del Carlino, compare sia
nel dossier Mitrokhin sia in quello pro-KGB di Tempo. Si sono salvate solo
le storie presenti anche all'interno del libro.
E' certo che il KGB adottò una sorta di strategia della tensione nello stesso
anno, il 1969, in cui in Italia avvenne la strage di Piazza Fontana. Lo
affermano le carte dell'archivio Mitrokhin nella parte del libro che riguarda
l'Europa dell'est. Per contrastare la "Primavera di Praga" attuata dalla destra
politica antisovietica di Dubcek, l'URSS fece in modo che scoppiassero delle
bombe e che si diffondesse la voce che i servizi segreti statunitensi stessero
preparando nascondigli di armi per una rivoluzione. Tuttavia si scoprì, in
seguito, che le armi erano degli Usa, ma erano state nascoste in contenitori
fabbricati in Russia. Lo scopo del KGB era quello di giustificare con quelle
voci una svolta autoritaria in Cecoslovacchia.
Ci sono evidenti similitudini con quanto avvenne in Italia, nonostante la
matrice degli attentati fu, nel nostro paese, spesso coperta con dei depistaggi.
Solo oggi si può dire con certezza che i nostri "servizi" avevano contatti
diretti e finanziamenti illegali dagli Usa. A questo punto, è altrettanto
plausibile, anche se il rapporto sui giornalisti-spia del 1976 di Jannuzzi
accusava soprattutto Washington, che una parte di essi agisse per conto di
Mosca.
132

Altre prove che la lotta armata fosse un’idea dei russi la si trova nel recente
libro di Gianluca Falanga, “Spie dall’est”, incentrato sui dossier segreti della
Stasi sulla politica italiana. In una conversazione con le spie di Berlino est, il
responsabile delle relazioni internazionali del Pcus, Boris Ponomarev,
accusò i comunisti italiani di non essere disposti alla rivoluzione violenta.
Disse: "I compagni italiani non vogliono capire che non si può restare
sempre sulla difensiva. Anche se v'è l'opportunità di una via pacifica, ogni
partito comunista deve essere sempre pronto alla lotta armata"18. Era
l’ottobre del 1976, gli anni in cui il PCI si avviava verso il compromesso
storico con la DC. In un’intervista rilasciata a Pansa del Corriere della Sera
il 16 giugno 1976, alla vigilia delle storiche elezioni politiche, Berlinguer
aveva infatti disorientato la sinistra. Le sue parole erano state: “Io voglio che
l’Italia non esca dal Patto atlantico“... Mi sento più sicuro stando di qua,
sotto l’ombrello della NATO, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi
di limitare la nostra autonomia”.19 Timori più che fondati. Questa sua scelta
approfondì l’isolamento del PCI nel quadro degli equilibri internazionali. Il
partito guidato dal leader sardo, oltre ad essere tenuto sotto stretto controllo
dagli USA, divenne un bersaglio della disinformazione orchestrata dal KGB,
come dimostra il rapporto Impedian 130. Il KGB predispose un piano e una
raccolta di informazioni per compromettere la reputazione di Berlinguer, sia
per vicende della sua vita privata, sia sul piano politico. Nessuna prova
invece è per ora emersa su un coinvolgimento diretto di KGB e Stasi nelle
stragi italiane.

Sul dossier Sifar ci fu un depistaggio del KGB?

E' probabile che il KGB abbia cercato per anni di incolpare gli americani
dello spionaggio politico e delle stragi italiane. I sospetti nascono da un
articolo. Il settimanale L'Astrolabio, quando era diretto dall'eroe della
Resistenza Ferruccio Parri, pubblicò un rapporto segreto della CIA, che
risaliva al 1963. Vi si dimostrava che lo spionaggio degli italiani, che in
seguito si allargò fino a coinvolgere 157mila vittime, aveva un preciso scopo
politico. L'Astrolabio scrisse che era opera del Ministero dell'Interno: era
stato ideato da Scelba della DC e perfezionato da Tambroni, sempre della
DC. Questo è quanto si legge nel libro di Antonella Colonna Vilasi "Storia

18
Cfr: Walter Vecellio, “Mosca strigliava il Pci: pronti alla lotta armata”, notizie.radicali.it,
ottobre 2014.
19
Cfr: Giuseppe Formisano, “Enrico Berlinguer, il più amato”, www.instoria.it, luglio 2011.
133

dei servizi segreti italiani", edito da Città del Sole. L'Astrolabio auspicava
che i dossier spionistici fossero trasferiti dal Ministero dell'Interno al Sifar di
De Lorenzo, ma non escludeva che anche il Sifar potesse aver avviato
pratiche simili, come poi in effetti avvenne. Ciò che la Vilasi non dice è che
L'Astrolabio era un settimanale che dal 1974 al 1984 fu sicuramente "usato"
dal KGB. Lo scrisse Repubblica nel suo articolo dell'11 ottobre 1999. Il
nome in codice del settimanale di Parri era LOBI. Ma c'erano anche Tempo
(ALPHA) (quello di Jannuzzi e Bisignani), L'Avanti (GAMMA) del PSI e
molti altri. Erano le rivelazioni dell'archivio Mitrokhin, che però furono
misteriosamente cancellate dalla versione italiana del libro.
Ora la faccenda si fa più chiara, ma allo stesso tempo si preannuncia piena di
inconfessabili segreti di Stato. Collegando gli scoop di L'Astrolabio (e di
Tempo, che non fu da meno nel suo "Rapporto sui giornalisti-spia" del 1976)
al KGB si può supporre (anche se l'articolo di Parri fu pubblicato
sicuramente prima del 1974) che essi facessero parte dei numerosi
"provvedimenti attivi" dei russi: dossier scandalistici inseriti nella stampa
estera per screditare gli americani.
Mi sono letto molti articoli che uscirono nel 2000 sull'archivio Mitrokhin e
avendo analizzato la relazione del Copasis penso che sia stata messa in atto
una delle peggiori porcate della storia italiana. Una e neanche l'unica. Mi fa
rabbia il fatto che la relazione del Copasis dica tante cose che non sono poi
uscite sui giornali. Si è cercato di censurare certi nomi, evidentemente
intoccabili, e di togliere proprio credibilità al lavoro dell'ex-archivista del
KGB, dopo che la relazione ne affermava l'affidabilità. Allora mi chiedo:
quando è stata decisa la censura? Chi è il censore? Chi decide cosa esce sui
giornali?
Si poteva dubitare dell'archivio Mitrokhin, e io ho dubitato per primo. Ma
poi bisogna leggere, saper valutare un libro, distinguere tra libri di storia, di
narrativa o di romanzi di fantascienza. L'archivio Mitrokhin è attendibile,
molto attendibile. E' la chiave che apre tante porte per capire la storia
italiana, a partire dalla base del monte Conero, dalla Strategia della tensione
fino all'attualità. Anzi, coinvolge anche importanti esponenti della
Resistenza. Quindi si fa riferimento a fatti di oltre 70 anni fa. Se questa
storia non la si può raccontare è chiaro che è inutile e pericoloso fare il
giornalista. Avrei preferito che i miei insegnanti di Storia Contemporanea mi
avessero detto, al momento dell'esame di laurea: guarda caro studente, ti
promuoviamo, però sulla storia dal 1945 in poi devi stare zitto e muto,
perché è tutto segreto di Stato. Per fare un paragone, immaginate dei laureati
in ingegneria, specializzati sulla telefonia, che escono e si ritrovano con
134

telefonini che non funzionano. Vorrebbero fare qualcosa, ma li fanno stare


zitti. O laureati in Medicina che si specializzano sulla chirurgia, escono e
trovano che in sala operatoria vengono uccise un sacco di persone.
Vorrebbero fare qualcosa, ma li lasciano a casa. Questo è uno Stato di
delinquenti, anche pericolosi.
Trovo abbastanza comico che a seguire dopo 15 anni la pista della
cancellatura dei nomi dall'archivio Mitrokhin sia il quotidiano Il tempo, che
è uno dei giornali che furono "usati" dal KGB e poi "sbianchettati" dal Sismi,
forse, o da qualche politico. Forse da Berlusconi stesso, che magari starà
preparando una nuova versione del libro che sostituirà la precedente. Così
l'opera di capovolgimento della realtà sarà completata. In 15 anni sono
riusciti a dire tutto e poi il contrario di tutto. Per fortuna in archivio ci sono
gli articoli dell'ottobre del 1999 in cui venivano elencati tutti i nomi di
personaggi italiani molto noti coinvolti nel dossier. Nel libro pubblicato
dalla Rizzoli venne operata una censura che definirei scientifica, molto
accurata. La finalità mi sembra evidente: far credere che il KGB in Italia sia
stato tutto una questione di dattilografe dalla lingua biforcuta. Su 261 nomi,
quelli delle schede pubblicate effettivamente nell'appendice del libro saranno
anche meno di cento.
Ma con i numeri bisogna essere precisi. Negli articoli del 1999 i giornalisti
affermarono che furono mandate in anteprima alla stampa 227 schede, di cui
loro fecero un riassunto, a questo punto importante. Ma mancano una
quarantina di schede che nemmeno i giornalisti riuscirono a leggere. Quindi
bisognerebbe: intanto ritrovare le 227 che furono riassunte. E qui i giornali
d'archivio sono utili, ma non abbastanza. Riducono all'essenziale le
informazioni, che andrebbero approfondite. Ci si dovrebbe poter riuscire con
un pdf che ho appena trovato sul web. Invece per le 40 top secret sarà dura.
Però con un buon lavoro di ricerca storica si poteva ricostruire tutto il
materiale originale. Ma in Italia ci si deve complicare la vita. Ed ecco come
da un piccolo depistaggio si arriva a un gran caos. Sono state istituite
commissioni parlamentari, convocati dei ministri, istruiti processi infiniti e
scritte tonnellate di scemenze. Mi chiedo allora: a chi giova tutto questo
casino? Alla sinistra del PD (ex PCI) sicuramente, che governa approfittando
dell'ignoranza sul suo passato di partito sovvenzionato da una nazione
nemica. Ma non solo, perché tra le tante cose che in Italia stanno sparendo
c'è il ricatto del KGB a Berlinguer, che resta uno degli ispiratori della parte
sana della sinistra italiana. Riscrivere l'archivio Mitrokhin fa comodo poi
anche ai socialisti amici di Craxi. E alla fine torniamo sempre lì. Al
Berlusca.
135

Come saprete l'archivio Mitrokhin è costituito dagli appunti che un'ex spia
del KGB, che si chiamava appunto Mitrokhin, aveva preso segretamente
durante i lunghi anni nei quali aveva lavorato negli uffici del servizio segreto
russo. Una parte cospicua di questi appunti riguarda anche l'Italia, e fu per
questo che i servizi segreti inglesi, a cui Mitrokhin si era rivolto dopo essere
fuggito dall'URSS, avviarono nel 1995 un flusso di dati in via riservata verso
il Sismi, trasmettendo un po' per volta 261 schede, denominate per
convenzione Impedian, che riguardavano spie, vittime e operazioni del KGB
nel nostro paese.
Leggendo la relazione del Copasis su questi fatti, che è a disposizione di tutti
online, si intuisce che il Sismi avviò dei controlli sui nomi delle spie,
riscontrandone diversi sia tra i funzionari di Stato, sia tra i politici, ma non
agì con la necessaria determinazione, sottovalutando il pericolo o, chissà,
reputando lo spionaggio sovietico preferibile a quello americano, che è a
tutt'oggi il principale accusato delle stragi della Strategia della tensione.
Nell'ottobre del 1999 i giornali italiani fecero scoppiare lo scandalo e
fornirono di fatto i nomi più eclatanti della parte italiana dell'archivio
Mitrokhin. Nel frattempo in Inghilterra uscì il libro, che fu tradotto in
italiano e venduto anche nelle nostre librerie dalla Rizzoli. A questo punto le
cose, nella ricostruzione della vicenda, anziché chiarirsi si complicano. La
seconda edizione del 2007, che ho chiesto in prestito in biblioteca, presenta
solo una parte delle schede Impedian riguardanti l'Italia. Ma quasi
sicuramente è così anche la prima edizione del 1999. Il motivo ufficiale di
questa censura è scritto nella prefazione all'appendice documentaria:
l'editore decise di corredare il libro solo delle schede che l'autore, ovvero lo
studioso Andrew, aveva citato nel libro e che riguardavano i nomi in codice
delle spie. Vennero pertanto tagliate fuori tante informazioni su altre spie
eccellenti, su quasi tutti i politici del PSI coinvolti nello spionaggio a favore
dei russi, sui tanti giornalisti, giornali ed editori altrettanto colpevoli, su
certe aziende di Stato e sulle vittime.
Questa specie di censura ha scatenato un putiferio, che ha portato a una
commissione d'inchiesta e ai tanti veleni che si trascinano nelle pagine dei
giornali fino a oggi. D'Alema fu accusato di aver "sbianchettato" le schede, e
lui rispose querelando, ma non fu risparmiato il vice presidente del consiglio
di allora Mattarella. Il quotidiano il Tempo ha chiesto addirittura di poter
leggere la versione in russo delle schede Impedian, per tradurre il loro
contenuto senza passaggi intermedi. Nel frattempo si è scritto anche altro.
Mitrokhin negli articoli de La Stampa pare aver perso credibilità e la
136

faccenda dello spionaggio russo come accadde in altre occasioni è stata col
passare degli anni ridimensionata.
A questo punto bisogna dire alcune cose. Intanto i nostri giornali dovrebbero
far capire ai cittadini che le schede Impedian non sono che una parte grezza
del libro sull'archivio Mitrokhin. E' un po' quello che accadde a me con la
tesi di laurea, quando scrissi il mio libro sulla Repubblica di Salò mettendo
insieme le informazioni che trovai nell'archivio privato di un ex
repubblichino. Molti documenti rimasero fuori dalla narrazione, perché
superflui o del tutto estranei rispetto al filone di inchiesta che stavo
seguendo. Pur con tutto il rispetto per le ben più alte qualifiche di Andrew,
penso che anche l'illustre studioso possa aver proceduto così. La cosa più
importante in un libro di storia è la ricostruzione che viene fatta dall'esperto.
E di Christopher Andrew, che viene dall'Università di Cambridge, ci si può
senz'altro fidare. Dubitare di alcune o di tutte le informazioni presenti
nell'edizione della Rizzoli, come pretende una certa parte della nostra
politica, significa vanificare il lavoro di ricerca dello storico.
Il libro è lungo 650 pagine, quasi le stesse dell'archivio grezzo che riguarda
la parte italiana degli appunti di Mitrokhin. E io credo che nel libro le
censure non ci siano. Cari politici, perché questo libro non ve lo siete letto?
L'archivio Mitrokhin è la storia di una rivoluzione che aveva nello
spionaggio la sua prerogativa, la sua forza e allo stesso tempo il suo tallone
d'achille. Fin dal 1917 le spie sovietiche hanno permesso ai leader del
Politburo di sapere in anticipo quasi tutte le scelte degli avversari. E di
prenderne quindi le contromisure. Ma molte di esse hanno anche perso la
vita travolte dalla spirale di odio con cui il sistema era alimentato. Spiare
significava inevitabilmente poter essere spiati e tradire implicava
automaticamente poter essere traditi dai propri alleati. Fu per questo forse
che la più grande paura di Stalin era quella di essere vittima di congiure e
cospirazioni dei suoi connazionali. L'URSS non a caso è un sistema che è
imploso, perdendo una guerra fredda che dal punto di vista spionistico e
militare avrebbe stravinto. Per poter capire questa storia è quantomai
necessario pertanto leggere l'archivio Mitrokhin.
Ciò detto, non nego che Andrew sia stato meno abile sul fronte italiano. Mi
sembra che non sia riuscito ad inquadrare le tante notizie che aveva sulle
spie italiane nello scenario complesso della nostra politica. Ecco perché,
privato di quelle schede Impedian dell'appendice, il libro finisce per non
rivelare tutte le responsabilità italiane nella guerra fredda. Mancano come
detto i socialisti, mancano i giornalisti, ma mancano pure i neofascisti! E ora
vi dirò dove li ho trovati. Intanto però non dovevano essere sottovalutate nel
137

polverone della Commissione parlamentare d'inchiesta le pagine sul


rapimento Moro, che nel libro ci sono e sono chiarissime. Sarebbe servita
una commissione solo per quelle. Viene infatti svelato il rapporto che c'era
tra le Brigate Rosse e i servizi segreti cecoslovacchi. Lo stesso partito
comunista italiano ne esce con le ossa rotte. I comunisti conoscevano le
manovre estere delle Brigate Rosse ma le coprivano, perché non venissero a
galla anche i loro finanziamenti illegali e le radioline con cui spiavano la
polizia italiana.
Ma il partito di Berlusconi non si è evidentemente accontentato di questo
assist che gli arrivava dalla Russia e ha alzato un gran polverone per scoprire
anche gli altri nominativi. Mi chiedo allora come reagirebbe il Berlusca
nello scoprire che tra le spie del KGB c'erano molti uomini del PSI, il partito
del suo amico Craxi. E come titolerebbe la sua pagina il quotidiano Il Tempo,
il quale dovrebbe concludere l'inchiesta sui nomi "sbianchettati"
denunciando se stesso, tra le spie del KGB coperte da D'Alema.
Su una cosa comunque il giornale romano ha ragione. Quell'appendice
monca desta dei sospetti. Sembra che certe cancellature non siano state
operate per caso e che si sia voluto evitare di fornire ai lettori degli spunti
per ulteriori ricerche. Tra questi ci metto senza dubbio la scheda 61, nella
quale come dicevo si parla di un interesse del KGB per i neofascisti. Sì, gli
uomini delle stragi alla fine si scoprirà che agivano in combutta con i russi,
alla faccia di chi per anni ha voluto vedere nella stagione delle bombe solo la
faccia a stelle e strisce di quella medaglia che era la guerra fredda. Questi
nomi li ho trovati su un sito che si chiama cieliparalleli. La persona che lo
gestisce mi ha detto di aver trovato online alcuni anni fa tutte le 261 schede
Impedian di Mitrokhin e di averle salvate. Ora questo documento è diventato
uno scoop e sbugiarda spudoratamente i giornalisti che, senza nemmeno fare
una ricerca online, hanno continuato a montare la polemica sulle
"sbianchettature". I nomi ci sono tutti, non manca proprio niente. Su certi
risvolti preferisco però per ora glissare, in attesa di studiare meglio e con
calma i tanti nomi che spuntano dal documento.
Per il momento accontentatevi di queste certezze. L'archivio Mitrokhin è
attendibile ed è un libro di storia scritto da un esperto. Le "sbianchettature"
non mutano lo scenario mondiale ricostruito da Andrew e condannano il
partito comunista a fare pubblica ammenda per i propri reati, prima di tirare
in ballo la favoletta di Tangentopoli. Quelli che mancano sono i loro
complici nella guerra fredda che è stata combattuta a nostra insaputa sul
nostro territorio. E non era certo difficile scoprirli.
138

Il KGB "coltivava" l'estrema destra italiana

La notizia arriva dall'archivio Mitrokhin, o almeno dalla parte censurata


dalla Rizzoli. Secondo il rapporto Impedian 61, il KGB nel 1974 stava
"coltivando", cioè cercando di rendere spie dell'URSS, tutti i partiti
dell'estrema destra italiana. Ma in particolare, recita il rapporto 61, il KGB
intendeva avvicinarsi "al neofascista SDI".
Cercando informazioni su questo partito nell'archivio del quotidiano La
Stampa e su Wikipedia, si scopre che non è mai esistito qualcosa del genere
nella nostra estrema destra. Semmai è possibile che quella dicitura facesse
riferimento a dei neofascisti esistenti all'interno dello SDI, ovvero il
"Servizio Difesa Installazioni". Se così fosse si arriverebbe ai militari che
controllano tuttora il Monte Conero, perché questo SDI è un reparto militare
che fu istituito prima del 1974 e tra i vari siti che oggi sta controllando ci
sono pure le zone militari di Ancona e della base del Conero. A dare credito
a questa ipotesi c'è il fatto che, oltre all'estrema destra italiana, il KGB
coltivava anche membri italiani del collegio di difesa Nato. Ma lo faceva
usando una falsa bandiera, ossia non rivelando che lo spionaggio sarebbe
stato appannaggio dell'URSS. Tutte queste informazioni non solo mancano
dal libro della Bur, che ha pubblicato soltanto le schede citate dallo studioso
Andrew all'interno della sua ricostruzione storica, ma pure dagli articoli dei
giornali che uscirono nel 1999, che contenevano i nomi di molte altre spie
italiane del KGB.
La prova che è esistita, tra i militari italiani, una sigla come quella citata
dalla scheda 61 dell'archivio Mitrokhin arriva dall'archivio del quotidiano La
Stampa. Cercando le parole "fascista" più "SDI" compare un articolo del 17
febbraio 1974, che è il periodo a cui si riferisce, appunto, il rapporto
Impedian 61. La Stampa riportava le lamentele di una mamma di Varese, la
quale aveva visto recapitare a suo figlio, sottotenente degli Alpini ad Aosta,
un giornalino di stampo fascista. La signora disse che nella fascetta con
l'indirizzo del soldato, il nome e il cognome erano preceduti dalla sigla S.d.I.,
proprio la stessa del rapporto Impedian 61. La mamma del soldato scrisse di
aver interpretato quella sigla come "Soldato d'Italia" e di essersi indignata
per il contenuto marcatamente fascista di certi articoli, uno dei quali era
firmato da Amos Spiazzi. Il giornalino si intitolava "Primalinea". Questo
documento fa supporre che il KGB stesse coltivando non solo i soldati delle
installazioni militari, ma stava attirando verso di sé una delle organizzazioni
chiave della Strategia della tensione: l'organizzazione poi nota con il nome
di Rosa dei Venti, la quale pare fosse legata al golpe Borghese del 1970 e si
139

disse che fosse diretta dalla Nato.

La pista ceco-palestinese del Carlino

Sulla pista palestinese di cui ha parlato recentemente Il Resto del Carlino a


proposito dell’omicidio di Aldo Moro ci si poteva arrivare molto prima.
Perché nel libro dell'archivio Mitrokhin lo scenario è molto chiaro. C'era un
intero partito, il PCI, che sapeva dove andare a cercare i terroristi, ovvero in
Cecoslovacchia, dove si esercitavano nella base di Karlovy Vary. Non
trattare con i terroristi significò, praticamente, solo evitare che le indagini
scoprissero gli ingenti fondi russi diretti al PCI, e delle reti di
radiotrasmittenti sparse qua e là per seguire la polizia minuto per minuto.
Moralmente Moro lo hanno ucciso loro.
Che poi Berlinguer cercasse strade nuove, e poco gradite a Mosca,
nell'eurocomunismo e che queste siano oggi le basi del PD, e non quelle
intransigenti di Cossutta, mi importa poco. Significherebbe vedere solo la
punta dell'iceberg e guarda caso è ciò che fanno da decenni i giudici italiani.
Però materialmente penso che i comunisti Moro non lo abbiano ucciso. Né
che furono i mandanti. I mandanti erano all'estero e i giornalisti de La
Stampa lo scrissero già all'epoca, con Moro ancora vivo. Palestina, forse
anche Libia, tanto si esercitavano tutti in Cecoslovacchia. Vito Miceli, il
ricattatore di Moro, era filo libico, quindi siamo vicini alla soluzione del
giallo, forse, dopo 37 anni. Volevano qualcosa da Moro, che lui non poteva
dire o dare, né gli altri DC, né il PCI. Forse volevano le basi della Nato,
quelle di Miceli.
Il Sismi io credo che cercò di coprire tutto. Un personaggio chiave è questa
Iris, spia del KGB dagli anni '60, moglie dell'ambasciatore italiano a Praga.
Appena dopo il delitto Moro venne assunta come interprete dal Sismi. A
cosa gli serviva? Non lo possiamo sapere, perché il nome di questa donna è
stato censurato dal libro dell'archivio Mitrokhin. Né il Copasis o Copasir si è
degnato di spiegare il contenuto della sua relazione, che io ho trovato per
caso sul sito del Parlamento. E meno male che mi doveva servire solo per
capire se questo libro andava comprato o meno...

Quella spia distratta che conservava appunti

Una spia distratta con 300 agenti segreti tra gli ufficiali della Nato. Così fu
descritto il misterioso Giorgio Rinaldi Ghislieri dal giornale The Sunday Star,
il 9 aprile del 1967, quando i dettagli del suo arresto avvenuto in Italia
140

furono più chiari anche negli Stati Uniti. La pagina venne conservata dagli
agenti della Cia nei loro archivi ed è stata desegretata il 14 giugno del 2004.
Registrandomi sul loro sito, sono riuscito ad ottenere questo documento
cartaceo, che mi è stato inviato gratuitamente per raccomandata dall'
«Information and privacy coordinator».
Il foglio di giornale è utile innanzitutto per cogliere un dettaglio che mi era
sfuggito: Rinaldi era in contatto con il GRU, il servizio di informazioni dei
militari, e non con il KGB. Ecco quindi perché nell'archivio Mitrokhin il suo
nome non è presente, come non sono rintracciabili gli altri protagonisti della
spy-story italiana degli anni Sessanta: Yuri Pavlenko dell'ambasciata
sovietica a Roma, che mise Rinaldi in contatto con il GRU e Kir Lemzenko,
agente di commercio il quale cercò di carpire i segreti militari della base
napoletana di Bagnoli, e di conoscere i movimenti delle navi americane.
Entrambi i russi furono espulsi nel periodo a ridosso degli arresto del
paracadutista torinese Rinaldi, di sua moglie e dell'intermediario, Girard, tra
il 1966 e il 1967.
Secondo The Sunday Star l'apparato del quale Rinaldi fu probabilmente la
mente era molto ampio, e faceva capo a un colonnello del GRU che viveva a
Vienna, un certo Mikhail Badin. Il loro scopo, come scrisse Rositzke nel suo
libro, era quello di conoscere più informazioni possibile sulle basi Nato
spagnole, dove vi era la bomba atomica. Ma poi venivano nominate anche
quelle di Aviano, nel nord-est d'Italia, di Cipro e della Grecia, dove pure si
arrivò alla cacciata di alcuni ufficiali russi.
Harry Rositzke nel libro del 1983 sul KGB aggiunse un dettaglio da non
sottovalutare. Disse che svariati italiani impiegati nelle basi Nato del nostro
paese facevano il doppio gioco. Non si trattò quindi di un bluff, ma di una
solida struttura, con qualche stranezza, su cui il Sunday Star fece il suo titolo.
Rinaldi fu una spia un po' sbadata, che non seguì le regole del manuale dello
spionaggio. I servizi segreti italiani, che lo arrestarono a metà marzo del
1967, scoprirono nella sua «Bottega di Lagno» una marea di appunti,
istruzioni, lettere, che una buona spia avrebbe immagazzinato solo nella sua
mente. Dei 300 membri della Nato che avrebbero collaborato con i vertici
dell'organizzazione spionistica non si seppe mai niente. Si disse che, forse,
facevano solo parte di una lista di persone che i russi avrebbero voluto
reclutare.
In Italia il ricordo di questi fatti fu conservato per vent'anni. Nell'archivio
della Stampa è presente un articolo del 7 ottobre del 1979 nel quale il
cronista Domenico Quirico, che tempo dopo (2013) sarà rapito in Siria,
ripercorreva la vita avventurosa dell'ex paracadutista, per 21 anni al servizio
141

dei russi. In quell'occasione Rinaldi presentava una mostra con alcune sue
opere pittoriche che stava per essere inaugurata ad Asti. Qui morì il 3
novembre del 1988, dopo aver scontato solo una parte della pena (dieci anni)
e aver negato che il suo spionaggio fosse rivolto contro l'Italia.
142

CONERO STORY

A questo punto della nostra inchiesta siamo in grado di tracciare un breve


profilo storico della base militare del monte Conero, o Monteconero, se
preferiamo la dicitura dei tempi andati. C’era una volta un fortino militare,
sulla collina che sovrasta Portonovo, che era stato costruito dai piemontesi
dopo la battaglia di Castelfidardo, ed era collegato a un sistema
incredibilmente ingegnoso di fortificazioni. Quel fortino è oggi un mistero,
un segreto di Stato. Ma le informazioni che stanno emergendo dagli archivi
digitali dei quotidiani, quelle contenute nei documenti che la legge libera dal
segreto militare, nonché le fotografie satellitari, sempre più frequenti, hanno
accorciato le distanze tra gli ignari cittadini e i militari che tramano
nell’ombra.

Base Conero: tre operai morirono mentre la costruivano?

Tra i tanti incidenti che si verificarono sul monte Conero desta un certo
interesse quello che capitò il 20 ottobre del 1954 a tre operai di Sirolo.
Stavano lavorando come al solito nella Cava Maggi di Massignano, quando
improvvisamente un costone di roccia di 30 mila tonnellate di peso franò
loro addosso, uccidendoli sul colpo e ferendo altri due uomini. Le vittime si
chiamavano Egidio Latini, Emilio Baleani ed Eugenio Polenta, sui trent'anni
di età i primi due e sui quarantacinque l'altro. Rimasero soltanto feriti Mario
Giampieri di 45 anni di Sirolo e Mario Marcucci di 52 anni di Fonte d'Olio,
una piccola frazione ai piedi del Conero. Secondo l'impeccabile resoconto
del cronista dell'Unità Sirio Sebastianelli, le giovani vite dei tre sfortunati
cavatori furono spezzate per un'infiltrazione d'acqua, che fece staccare
inaspettatamente l'intero costone della montagna, dopo che gli operai
avevano fatto brillare una mina e si accingevano a raccogliere sotto il monte
il materiale marnoso. Potremmo archiviarlo come uno dei tanti incidenti sul
lavoro, ma c'è una coincidenza che merita attenzione: la data dell'incidente è
la stessa dello storico accordo che fu siglato proprio il 20 ottobre 1954 tra
l'Italia governata dalla DC e gli Usa. Il tema del giorno fu in quel caso la
costruzione delle basi Nato nel nostro territorio e secondo un lettore del mio
blog durante questo vertice fu programmata anche la costruzione della base
del Conero. Fatta questa considerazione si potrebbe pensare che la tragedia
143

di Massignano possa essere collegata all'inizio dei lavori per i tunnel militari.
E io non mi sento affatto di escluderlo, anche perché gli accordi tra Italia e
Usa per la costruzione delle basi erano iniziati molti anni prima, intorno al
1949. Però non ho in mano prove che ci sia effettivamente un nesso. C'è un
particolare, nel racconto di Sebastianelli, che mi ha colpito. Il fatto che la
ditta Maggi stesse facendo lavorare nella cava di marna pochi operai per
risparmiare qualche soldo, come se quei lavori fossero da portare avanti in
tutta fretta e senza rispetto per le leggi. Un ulteriore indizio, che già avevo
citato, lascia supporre che già nel marzo1953 la base in cima al monte
Conero fosse attiva. Mi riferisco al noto processo contro il culturame, che
vide pittori e scrittori o giornalisti accusati di aver diffuso con le loro opere,
tra le altre cose, notizie riguardanti i segreti militari italiani. A giudizio c'era
anche una giornalista dell'Unità, Fausta Cialente, la quale in un articolo che
le era stato pubblicato dal caporedattore Sergio Scuderi, pure lui inquisito
per questo, avrebbe parlato delle zone militari del monte Conero. Si tratta di
un episodio tutt'altro che chiaro. Nell'archivio digitale dell'Unità, cercando
con pazienza tutti gli articoli che ci sono sul Conero, non si trova traccia di
questo fantomatico «pezzo» della Cialente, che riguarderebbe i segreti
militari del Conero. Quindi non è facile stabilire se nel 1953, o anche prima,
vi fosse qualcosa di militare nel monte. Si può solo fare qualche
considerazione. Chi era Fausta Cialente? Wikipedia spiega che fu una delle
prime femministe, fu scrittrice e giornalista di sinistra. Era nata a Cagliari
nel 1898, ma si sposò nel 1921 con l'agente di cambio e compositore Enrico
Terni e insieme andarono a vivere in Egitto. Lì visse anche durante la guerra
aiutando gli antifascisti. Nel 1947 si separò dal marito, tornò in Italia, e andò
a vivere a Roma. Sull' enciclopedia non troviamo traccia della sua
incriminazione al processo contro il culturame. C'è tuttavia qualcosa che
unisce questa scrittrice alla spia del 1970, Carlo Biasci, l'archivista
dell'Italcantieri di Monfalcone che aveva con sé gli schemi del radar del
Conero. La spia stava cedendo quei dati proprio all'Egitto, la nazione
africana in cui visse la Cialente. Possiamo quindi azzardare un'ipotesi. Forse
gli egiziani sapevano fin dai tempi della seconda guerra mondiale che sul
Conero c'erano i radar dei nazisti. E probabilmente, in tempi di guerra fredda
nei quali l'Italia era filo-statunitense e l'Egitto appoggiato dall'Urss,
ritenevano importante entrare in possesso di quelle informazioni. Un altro
indizio da non sottovalutare è che con l'Egitto di Nasser collaboravano
alcuni ex gerarchi nazisti. Chissà, magari fu proprio per una loro iniziativa
che il colonnello Helmy reclutò Biasci e gli chiese notizie sul Conero. Certo,
sono solo ipotesi, il mistero è ancora molto fitto. Una domanda è: cosa
144

accadde sul Conero dall'arrivo dei polacchi ad Ancona, nel luglio 1944, alla
morte dei tre operai a Massignano nel 1954? Nessuno è stato in grado di
dirmelo. Si accorsero gli «alleati» che, come ha scritto prima di morire
l'archivista Giuseppe Jannaci, sulla cima del Conero c'erano degli impianti di
trasmissione dei nazisti, collegati con Loreto, dove ora c'è una base di
addestramento dell'Aeronautica?

Dieci milioni di dollari e una villa sul Conero

Dieci milioni di dollari in banca e una villa sul Conero. E' il tesoretto di un
«big» della vecchia Montedison. Secondo una notizia uscita il 13 febbraio
2015 sul sito lanotiziagiornale.it, uno dei dirigenti di spicco dell'ex colosso
pubblico della chimica, Raffaele Stracquadanio, conservava un tesoretto da
10 milioni di dollari nella banca Hsbc di Ginevra. Il conto era cointestato al
figlio Giorgio, un parlamentare del Pdl deceduto nel 2014. Stracquadanio
senior, che viene definito uno dei «fedelissimi» del presidente Eugenio Cefis,
sembra che fosse coinvolto nelle vicende della speculazione edilizia in
Sardegna.
I soldi, insomma, secondo lanotiziagiornale dovrebbero essere dovuti a
quella storia. O forse anche a un'altra, aggiungerei io, che porta negli oscuri
meandri del monte Conero. Era il terribile anno 1976. Durante l'estate la
squadra mobile di Ancona fece irruzione nella villa di Stracquadanio, che
non si trovava in Sardegna, bensì nella verde vegetazione del monte
d'Ancona, il Conero, protetta da un sofisticato sistema di allarme. Lo scrisse
il 25 agosto 1976 il quotidiano L'Unità, annunciando che Raffaele
Stracquadanio, allora dirigente della Montedison e della Standa, era ricercato
dal tribunale di Ivrea per falso in bilancio, associazione a delinquere e
qualcos'altro. Ma nella villa del Conero quel giorno il dirigente di Foro
Bonaparte non si fece trovare. La polizia perquisì l'abitazione, poi si spostò a
Numana, ma non emerse granché. Sembra, cercando altre notizie su La
Stampa, che Stracquadanio si costituì, fu rilasciato e poi assolto da queste
accuse. Ora il giallo potrebbe riaprirsi, ma non è questo il punto. Queste
novità in realtà hanno acceso i riflettori su un problema che ad Ancona è
stato dimenticato, come al solito. Mi riferisco alle ville sul monte Conero, a
quella speculazione edilizia tutta marchigiana che venne denunciata tanti, ma
proprio tanti, anni fa da un grande giornalista di Ancona, Walter Montanari.
La questione venne a galla nell'estate del 1963, all'apice del boom
economico. Gli estimatori della Riviera del Conero, valorizzata fino a quel
momento dagli artigiani locali con il loro «metodo artigianale e paesano»,
145

erano a un bivio: accettare l'invasione di miliardi dei grandi investitori


milanesi, che «omologano e standardizzano ambienti, gusti e paesaggi» -
commentava Montanari - oppure battersi per la difesa della natura
incontaminata. Montanari e L'Unità scelsero la seconda possibilità, creando
le premesse per quell'impegno ambientalistico che nel 1987 avrebbe
raggiunto l'obiettivo di fondare il parco naturale del Conero. Ciò non ha
tuttavia impedito che negli anni '60 e '70 la speculazione edilizia, che
L'Unità chiamava «il vetrocemento», tentasse di aggredire con le sue ruspe i
panorami della Riviera. Montanari ce l'aveva in particolare con una parte
della borghesia anconetana, il cui vezzo era costruirsi la villa sul Conero. «I
ricchi anconetani - protestava il giornalista il 15 agosto del 1963 - hanno
potuto insediarsi in una delle zone più belle della città», sconvolgendone il
panorama. Gli enti pubblici avevano messo avanti un piano paesistico, ma il
Consiglio di Stato aveva dato ragione ai privati che pretendevano la vista
mare e la piscina. Così ville, ma anche alberghi mastodontici ed ecomostri
erano un possibile futuro. Si parlò di progetti avveniristici: una funivia che
l'Ente Riviera del Conero fece progettare nel 1964 per creare un suggestivo
tragitto Portonovo-vetta del Conero-Sirolo. Cominciò in quegli anni la
doppia vita del Conero, per alcuni base militare, per molti altri un gioiello
turistico da valorizzare, ma anche preservare. La battaglia tra i comunisti
dell'Unità, difensori dell'ambiente, e i sordi governi democristiani di Ancona
fu lunga. Il 5 agosto del 1967 Walter Montanari lanciava ancora l'allarme.
Portonovo era assalita dalle ruspe per la costruzione di capanni e stabilimenti,
sul monte Conero si aprivano «piaghe bianche» per delle cave che venivano
scavate su diverse dorsali. Anche se molto di ciò che temeva Montanari non
fu realizzato, le ville continuarono a sorgere e a resistere alle proteste. Lo
dimostra la vicenda del 1976 di Stracquadanio. Andando al mare a Numana,
in questi ultimi anni, ne ho viste ancora tante nel lato sud della collina.
Nessuno le ha toccate, e nessuno ne parla. Il Corriere Adriatico nel gennaio
del 1984 le associò al caso Guanti. Scrisse che l'ecologista del Pungitopo,
cercando informazioni sui tunnel militari, stava intervistando proprio i
proprietari di quelle ville. «Parlando con gli abitanti del luogo e con quanti a
suo tempo avevano lavorato alla installazione militare - affermo il cronista
Bruno Nicoletti - i carabinieri apprendevano che un giovane aveva cercato di
farli parlare.» Chi abita oggi nelle ville a ridosso del monte Conero e quali
verità nasconde questa borghesia anconetana legata alle industrie milanesi
sulla base segreta?

Ressa di auto sul Monte Conero


146

I parcheggi sul Monte Conero sono strapieni. Ma non parliamo di Portonovo


e della gran voglia di mare degli anconetani, bensì della base militare segreta
della vetta, a 572 metri sul mare.
Le informazioni ci giungono da un'inedita foto scattata dal satellite per il sito
Tuttocittà. Nel parco del Conero non ci sono solo alberi e animali, ma anche
militari fantasma, che lavorano su un finto campo di calcetto che ora appare
protetto da una tensostruttura. Queste automobili che vediamo nella
fotografia sono in gran parte di colore bianco, a differenza della famosa base
di Vicenza dove ad esempio dal satellite sono distinguibili delle vetture o
camionette dell'esercito. Il colore bianco ricorrente è probabilmente segno
che sul Conero ci sono uomini della marina militare, la cui auto di servizio è
esattamente di quel colore.
L'attuale zona militare è nota anche con il nome di «sommità del semaforo».
L'ho appreso leggendo in biblioteca una guida storica del Conero scritta nel
1967 da Filippo Canaletti Gaudenti. E' solo cercando su Google questa
parola, associata al Conero, che compare una pagina fondamentale per
conoscere le radici storiche di queste zone, ancora precluse ai turisti. Sul
blog della Riviera del Conero è stato pubblicato nel 2010 uno stralcio di
un'antica guida ricordo di Numana. E' del 1927 e l'ha scritta un certo Cesare
Romiti, solo omonimo del recente dirigente della Fiat. Romiti affermava
durante il fascismo che la «sommità del semaforo» era in quel momento una
zona occupata dalla Regia Marina e il suo scopo era «la sorveglianza sul
mare e sulla costa e, in caso d’infortunio marittimo, il dare avvisi per il
salvataggio». E' interessante scoprire che il comandante di quel presidio,
detto anche capo-semaforista, dipendeva all'epoca direttamente dal comando
di Venezia. C'era quindi un collegamento telegrafico e ottico con la zona
costiera del Veneto e dell'Istria, ma poi anche del sud Italia, naturalmente.
Nel 1927 Romiti ci informava che la stazione in quegli anni non era attiva e
perciò il Comando aveva il compito soltanto di custodire l'archivio, le
apparecchiature e i materiali, per farli funzionare in caso di necessità. Il
punto più alto del Conero era occupato dai militari probabilmente da molto
tempo. Adesso possiamo dirlo con più precisione, almeno dal 1890, ma
Romiti sottolineava che fu utilizzato pure durante il Risorgimento.
Wikipedia alla voce «semaforo marittimo» elenca tra le numerosissime
località occupate da stazioni della Regia Marina anche il Conero, dove era
presente alla quota di 548 metri anche un osservatorio meteorologico. La
vetta, a 572 metri era riservata al Comando della Marina, come detto, ma
nonostante ciò - affermava Romiti - la gente poteva ancora salirvi con un
147

binocolo per ammirare il panorama. Cosa ne è stato di questo luogo dopo la


fine del fascismo? Perché il fascismo non copriva con il segreto le attività
militari, mentre dopo il 1945 non si è potuto sapere più nulla?
E' possibile che ciò sia dovuto all'arrivo dei nazisti. Nel libro dell'archivista
Giuseppe Jannaci su Ancona nel 1943-44 è documentato il fatto che i soldati
tedeschi, durante l'occupazione di Ancona, presero possesso dei telegrafi
della vetta del Conero e li collegarono alle zone dell'entroterra anconetano.
Lo scopo era quello di avvistare e segnalare l'arrivo degli aerei nemici. Lo
stesso fu fatto con un altro semaforo marittimo importante, quello del colle
Cardeto di Ancona. Poi i nazi-fascisti ripiegarono e del Conero non
sappiamo più nulla.
Una domanda che mi sono posto è se l'estensione attuale della zona militare
sia maggiore rispetto al tempo della guerra fredda. Per rispondere ho preso
in esame due foto, una delle quali è stata pubblicata nella guida storica di
Gaudenti. Su questo testo del 1967 c'è una bella immagine del Conero visto
da nord, dalla zona detta della Trave. Una foto molto simile, ma del tempo
attuale, è visibile online sul sito albergoconcorde.it. Se messe a confronto, le
due immagini offrono a vista d'occhio una differenza. Nel 1967 sulla
«sommità del semaforo» era presente una piccola edificazione, ma senza le
antenne molto alte che si possono distinguere nelle immagini recenti. Anche
la zona dove sono state installate le antenne della Rai, probabilmente la
stessa dove sorgeva l'osservatorio meteorologico, e quindi più all'interno
rispetto allo strapiombo sul mare, dal 1967 è cambiata. Le piccole antenne
del 1967 sono aumentate di numero e di estensione. Quindi con la nascita
del parco naturale le zone militari non sembrano affatto in stato di
abbandono e tanto meno in una fase di smantellamento. Siamo in guerra e la
natura come i turisti, passano decisamente in secondo piano.

Poggio e Monteconero, le due fortezze dimenticate

Due fortezze costruite dai piemontesi ad Ancona sono state cancellate. Si


chiamavano forte Monteconero e forte Poggio. Probabilmente erano le prime
costruzioni militari di quelli che oggi sono diventati punti inaccessibili del
demanio militare. Riemergono e le riscopriamo grazie all'archivio del
Corriere della Sera, in una piccola notizia del 25 maggio 1921. Si arriva così
alla notizia sconvolgente che questi forti erano collegati a un terzo elemento
piuttosto misterioso, di cui mi ero occupato il 28 settembre del 2003: il forte
Pezzotti, che si trova alle porte del capoluogo marchigiano.
Sono sincero: quando scrissi la notizia che il forte Pezzotti era stato posto a
148

guardia di Monte Acuto non immaginavo certo che fossi a un passo dallo
scoprire i segreti militari di Ancona e della Nato. Però un po' mi ero
insospettito, e descrivendo questa costruzione militare ottocentesca costruita
all'indomani dell'Unità d'Italia dissi che sembrava essere stata cancellata,
come se si trattasse di un errore di valutazione dei militari. Il forte Pezzotti
nel 2003 risultava affittato a delle famiglie private. Della sua imponenza dal
punto di vista architettonico e militare ben poco restava. Perché? Beh, oggi
una risposta posso fornirla. Secondo la notizia del Corriere della Sera, il
forte Pezzotti, il forte Poggio e il forte Monteconero erano sotto il comando
di un unico tenente della terza artiglieria: tale Stefano Gueirola di
Sampierdarena. Veniamo a sapere di questa organizzazione militare per una
stupidaggine del tenente. Stefano Gueirola aveva pensato bene di rubare 10
quintali di esplosivo di proprietà dell'esercito italiano, e per farlo aveva
chiesto l'aiuto di un soldato che collaborava alla direzione, un certo Casadia,
e di alcuni pescatori e contadini dei dintorni, che furono anch'essi arrestati.
Si chiamavano: Carletti, Cianfrollini e Sardelli. Gli esplosivi li avevano
sottratti, pare, da tutti e tre i forti, per poi rivenderseli e farci un bel
guadagno. Gueirola stando al racconto del Corriere della Sera aveva estratto
l'esplosivo, per aumentare il bottino, anche dai proiettili da cannone. Questo
ci fa pensare che non solo il forte Pezzotti, contrariamente a quanto scrissi
nel 2003, aveva partecipato alle guerre, ma lo aveva fatto in una linea
difensiva che lo vedeva unito anche al Poggio e al Monteconero. L'ipotesi è
che quei proiettili da cannone servirono durante la prima guerra mondiale
per rispondere agli attacchi che la marina militare dell'Austria sferrò nel
maggio del 1915, in una sua fulminea incursione lungo tutto il mar
Adriatico.

L'ex vice-sindaco: «I forti Poggio e Monteconero? Non li conosco»

L'ex vice-sindaco e storico di Ancona, Alfonso Napolitano, contattato per


saperne di più sui forti ritrovati nell'archivio del Corriere della Sera, sgonfia
la notizia. Che ci siano dei forti dimenticati ad Ancona a lui non risulta. Ha
detto: «Dei forti del Conero e del Poggio io non ne ho mai sentito parlare
con prove o dati certi». Mi ha inviato le fotocopie di un libro, nel quale il
forte Pezzotti non risulta affatto collegato al forte Poggio e al forte
Monteconero. Si tratta di un testo molto dettagliato sui forti di Ancona,
«Ancona città fortificata», scritto da Glauco Luchetti, uno studioso della
materia il cui lavoro, secondo l'ex vice-sindaco, piacque così tanto al
Ministero della Difesa, che questi pubblicò i suoi studi in un volume dal
149

titolo «Ancona piazzaforte del Regno d'Italia».


Ho dato un'occhiata alle fotocopie che Napolitano mi ha inviato e mi ha
colpito il fatto che il forte Pezzotti fosse secondo lo studioso nel punto in cui
si chiudeva la prima linea di difesa. Questo baluardo difensivo partiva dalla
zona nord di Ancona, all'altezza del Ghettarello, proseguiva per via della
Madonnetta, nella zona alle spalle di Ancona che prende il nome di
Pinocchio, e andava a chiudersi sulla via del Conero, all'altezza di Monte
Acuto. In questa prima linea vi erano cinque fortezze: il forte Montagnolo
chiesa, il forte Montagnolo torre, le opere occasionali di Torre d'Ago, la
Lunetta Lucarino, e il forte Pezzotti. Dunque come mai i più illustri storici
dell'architettura militare di Ancona ignorano la presenza dei due forti citati
da un autorevole giornale come il Corriere della Sera? E' veramente
misterioso, ma le ricerche non potranno chiudersi qui.
Un altro elemento certo è che la posizione strategica del monte Conero fu
considerata importante per uno sviluppo ulteriore dal punto di vista
tecnologico già dal 1903. Nell'archivio della Camera dei Deputati infatti è
presente una petizione, inviata nel febbraio del 1903 da Sirolo, con la quale
veniva chiesto al Ministero delle Poste e Telegrafi di installare sul Conero
una grande stazione radio-telegrafica «ultrapotente» del sistema Marconi.
Scopo: sembra servisse per una corrispondenza con l'America del Sud.
Quindi andando a ritroso nel tempo potremmo aggirare l'ostacolo del segreto
militare che vige oggi sulle installazioni del Conero. Ma ecco che anche su
questa via iniziano i problemi. Purtroppo non è stato possibile leggere la
petizione, perché all'interno della busta gli impiegati dell'archivio non ne
hanno trovato il testo. Sembra che questo fu inviato al Ministero competente.
Ma il mistero resta.

"La base del Conero? Il comune mi chiedeva di controllarla"

Il comune di Ancona sapeva. Chiedeva ad alcuni suoi dipendenti di


controllare la base del Conero. A rivelarmelo è stata una persona che aveva
un incarico molto importante alcuni anni fa nelle giunte di Galeazzi e anche
con Sturani, se non sbaglio. Ho raccolto la sua testimonianza in privato, ma i
recenti sviluppi della questione dei tunnel mi obbligano a renderla di
dominio pubblico. Dopo che il videoamatore di Castelfidardo è stato
denunciato, per aver filmato i bunker, il comune di Ancona ha deciso di
tacere. Dalla giunta Mancinelli non giunge alcuna risposta alle mie e-mail, a
dire il vero neanche tanto insistenti. Le prove sono ormai troppe per credere
agli asini che volano. Il comune di Ancona sapeva che la base era attiva e
150

mandava un suo uomo ogni tanto a controllare che tutto fosse a posto.
Controlli di routine, per carità, però c'erano. Quali legami esistevano, ed
esistono, tra la politica anconetana e i militari che spiano sui radar nelle
viscere del Conero? Speriamo di scoprirlo presto.
Di sicuro, la base del Monte Conero non era uno dei comandi principali
della Nato in Italia. Uno dei lettori del mio blog aveva ipotizzato che "Base
Conero" fosse stata costruita insieme a quella del monte Moscal e di
Mondragone. Questo sarebbe avvenuto dopo l'accordo bilaterale del 1954 tra
Italia e Stati Uniti. Ma da un articolo del quotidiano La Stampa del 15 luglio
1990, che parlava appunto della base di Mondragone, si evince che
quest'ultima era effettivamente collegata al monte Moscal, però il terzo
comando si trovava a Roma, nelle caverne Santa Rosa. Mondragone, Moscal
e Santa Rosa erano i punti chiave delle telecomunicazioni della Nato in Italia,
con collegamenti fino in Grecia e Turchia. Lo chiamavano il "Fronte sud", e
l'Italia pare che fosse l'anello debole del sistema. Lo affermavano sia il libro
della spia della Cia Rositzke, sia l'articolo del quotidiano La Stampa del
1990, a firma di Gianni Bisio e intitolato "Obiettivo russo". Anche dopo la
caduta del muro di Berlino, il GRU, lo spionaggio militare sovietico, cercava
infatti di entrare in possesso della chiave per decodificare le comunicazioni
Nato. Victor Dimitriev e l'italiana Maria Antonietta Valente ci erano quasi
riusciti. La guerra fredda non era affatto finita. Ma le due spie russe vennero
arrestate. Nel 1996 la base di Mondragone venne abbandonata. Il 24
novembre 2015, infine, in seguito ai reportage del giornalista Sergio Nazzaro,
la senatrice del Movimento 5 Stelle Vilma Moronese ha presentato
un'interrogazione al Senato per chiedere che la ex base di Mondragone sia
salvata dal degrado. Resta invece intatto il mistero sul Conero. Quale ruolo
ebbe quel tunnel anti-atomico di Ancona? Era una di quelle che Bisio
chiamava "basi" o "siti sensibili che osservano l'attività avversaria"? Oppure
non faceva proprio parte della Nato?

Tunnel del Conero, in prescrizione le accuse a Montesi?

Matteo Montesi, uno degli autori del famoso video del 2014 sui tunnel del
Conero (gli altri due usavano il nome d'arte di Italian Ghost), mi ha da poco
rivelato che il suo caso e' finito in prescrizione. Dopo un anno e mezzo
sembra davvero un record. Sara' vero? Fino a poco tempo fa temeva di
essere ucciso. Mi dispiace che ci siano di mezzo i carabinieri, perche' a me
questa denuncia sui segreti militari mi pare una presa in giro. In teoria
spulciando gli articoli del codice penale l'articolo 262 sembrerebbe quello
151

che avrebbero dovuto applicare contro i tre videoamatori imprudenti. Dice


cosi': "Chiunque rivela notizie, delle quali l’Autorità competente ha vietato
la divulgazione, è punito con la reclusione non inferiore a tre anni. Se il fatto
è commesso in tempo di guerra, ovvero ha compromesso la preparazione o
l’efficienza bellica dello Stato o le operazioni militari, la pena è della
reclusione non inferiore a dieci anni. Se il colpevole ha agito a scopo di
spionaggio politico o militare, si applica, nel caso preveduto dalla prima
parte di questo articolo, la reclusione non inferiore a quindici anni; e, nei
casi preveduti dal primo capoverso la pena dell'ergastolo. Le pene stabilite
nelle disposizioni precedenti ai applicano anche a chi ottiene la notizia. Se il
fatto è commesso per colpa, la pena è della reclusione da sei mesi a due anni,
nel caso preveduto dalla prima parte di questo articolo, e da tre a quindici
anni qualora concorra una delle circostanze indicate nel primo capoverso."
Insomma, avrete capito che lo spionaggio e' una faccenda estremamente
seria. Le domande a questo punto sarebbero molte: come si fa a sapere che
in un parco naturale ci sono tunnel di cui non si puo' divulgare l'esistenza, se
nessuno senza quel video poteva sospettare che il monte fosse stato scavato
dai militari? E poi: come mai i giudici furono cosi' indulgenti con i tre
ecologisti del 1984 e ora anche con Montesi, mentre la spia della Rau si
prese undici anni in primo grado, sempre per colpa del Conero?

C'è un missile sul monte Conero?

Una nuova sensazionale foto scattata via satellite dal sito gosur.com mostra
forse un missile in fase di collaudo.
Siamo sulla vetta del monte Conero, vicino Ancona, nel pieno della zona
militare. Come si vede nella foto di sinistra, dove prima c'erano delle specie
di rampe, ora si nota un telone bianco, o forse una copertura fotografica
imposta dai servizi segreti. E' trasparente al punto che si intravedono le linee
del finto campo di calcetto. Finto perché in realtà su quel campetto non si
gioca. Probabilmente il terreno non è pianeggiante, ma in pendenza e non ci
sono le porte. Il telone ha una forma che tradisce la natura dell'oggetto che vi
è nascosto. Si tratta forse di un missile in fase di collaudo?
Su quel campo si sta certamente lavorando. I due rettangoli, che sembravano
altre rampe di lancio pronte ad aprirsi, per far salire magari dei missili dal
sottosuolo, in realtà si sono mossi. Uno in particolare ha cambiato posizione
e si è avvicinato alle presunte rampe. La base è attiva anche nel 2016. Lo si
nota da alcune macchine parcheggiate, due nella parte a ovest, più il famoso
pick-up, che è sempre nella zona sud della base, ma in un'area diversa.
152

L'asfalto stradale sembra sia stato rifatto e la segnaletica è stata ridisegnata


da poco. Il verde è aumentato sensibilmente, rispetto al paesaggio brullo che
si vedeva prima. E la base torna a far paura.
Restano poi i dubbi circa il fatto che il monte Conero sia tuttora una base
della Nato. Negli elenchi delle oltre cento basi definite Usa e Nato, cioè
controllate dalla coalizione atlantica o direttamente dagli Stati Uniti, il
Conero non compare.
Abbiamo visionato i siti: kelebekler.com, disarmiamoli.org,
disinformazione.it e anche byebyeunclesam.files.wordpress.com, nei quali
viene segnalata nelle Marche la sola base di Potenza Picena, dotata di un
"Centro radar Usa con copertura Nato." Come mai pertanto a così breve
distanza, visiva e chilometrica, la Nato avrebbe installato un'altra stazione di
controllo radar?
In realtà in qualche sito come nogeoingegneria.com il monte Conero viene
segnalato e ne viene indicato lo stesso scopo che si può leggere su Wikipedia.
Il Conero avrebbe orientato i suoi radar, "forse", precisa il compilatore
dell'elenco, sul Medio Oriente. Cosa impedisce ai radar di Potenza Picena di
assolvere la stessa funzione? Le colline dell'ascolano? E' un fatto che,
durante le recenti guerre degli Stati Uniti, del Conero non si è mai parlato,
neanche nelle cronache locali.
Intanto sul Monte Conero proseguono le attività militari del cosiddetto Terzo
DAI, un gruppo di intelligence, quindi in parole povere di spionaggio, delle
forze armate, che dipende cioè dallo Stato maggiore della Difesa.
In un bilancio dettagliato delle spese sostenute nel 2016 e nel 2017, la
Direzione di Commissariato della Marina Militare di Ancona ha scritto che
nel secondo trimestre dell’anno in corso, il 2017, è stata pagata una fornitura
di due vasi d’espansione per il Terzo DAI del Monte Conero. Il costo di 740
euro ha coperto anche i lavori di installazione, che sono avvenuti il 16
maggio 2017.
Sul sito della ditta Caleffi si legge che “i vasi d'espansione sono dei
dispositivi atti alla compensazione dell'aumento di volume dell'acqua dovuto
all'innalzamento della temperatura della stessa, sia negli impianti di
riscaldamento che in quelli di produzione di acqua calda sanitaria.” Si legge
inoltre che “essi vengono utilizzati anche come autoclavi negli impianti di
distribuzione idrosanitari.”
La forma di questi vasi d’espansione è quella di uno scaldabagno domestico.
Sempre il Terzo DAI, il cui cancello di ingresso si trova sulla cima del
Conero, aveva usufruito il 24 maggio 2016 di un controllo periodico
dell’acqua potabile, del costo di 364,17 euro. Nel dicembre 2016 erano stati
153

spesi, inoltre, altri 2.050 euro per una fornitura di gasolio da riscaldamento
per la stazione meteo del Monte Conero. Non è finita. Il 24 novembre 2016
la Marina Militare di Ancona aveva speso altri 421,05 euro per “Acquisto
ricambi per riparazione/manutenzione automezzi vari in dotazione al 3°
D.A.I. M.te Conero”.
Tutte queste notizie devono far capire ai turisti che non bisogna
assolutamente scavalcare le recinzioni della zona militare, anche se
all’apparenza le caserme della base sembrano abbandonate. L’aspetto
esteriore ingannevole potrebbe essere la caratteristica di questo sito militare
fin dai tempi del fascismo. Infatti è interessante in tal senso un altro
documento reperibile su internet: la biografia del militare Edoardo Martino.
Durante la seconda guerra mondiale fu crittografo presso lo Stato Maggiore
della Difesa, quindi svolse un corso di perfezionamento ed entrò nel SIM, il
Servizio Informazioni Militari del Ministero della Guerra, il servizio segreto
di Benito Mussolini.
Lavorando all’ufficio informazioni dello Stato Maggiore del Regio esercito,
Edoardo Martino fu mandato, prima del settembre 1943, sul Monte Conero.
La sua biografia afferma che, nella zona in cui oggi opera il Terzo DAI,
diresse “una postazione di intercettazione dei messaggi provenienti dalla
costa dalmata” fino all’armistizio dell’8 settembre ‘43. E fu proprio mentre
era sul Conero, cioè il giorno 9 settembre ‘43, che questo militare aderì ai
gruppi cattolici di guerra partigiana, combattendo in seguito in Piemonte tra
il monferrato e l’alessandrino alle dipendenze dei soldati britannici.

Parla un ex militare di Monteconero

Se prima era un sospetto, ora è una certezza. I gladiatori pronti a combattere


contro il comunismo avevano delle basi militari in varie zone della penisola,
e tra queste c’è il Conero.
Me ne ha parlato un ex militare che ho rintracciato su internet. Ho deciso di
chiamarlo Rambo, adottando un nome di fantasia. Mi rendo conto che
un’intervista senza nome non vale niente, ma vi assicuro che qualsiasi
giornalista, magistrato, poliziotto o semplice cittadino potrebbe ripercorrere
la strada che ho fatto io per contattarlo.
Dunque parliamo di Rambo. Negli anni della Guerra Fredda fu in servizio
sul Monte Conero nello SDI, il servizio difesa installazioni. Lo contatto via
Messenger dopo aver letto una discussione su una pagina Facebook, piena di
bellissime foto, che è interamente dedicata ai militari di leva che difesero il
Conero. Gli dico che mi offro disponibile a regalargli una copia del mio libro:
154

"La porta dell'ade".


"Buona sera Dott D'Agostino. Mi farebbe piacere leggere il suo libro. Per
quanto riguarda il resto...la mia risposta già dovrebbe saperla."
Glielo regalo subito il mio libro, grazie di aver accettato il mio contatto.
Immagino già la sua risposta sul Monte Conero: non può parlare... ma
scoprirà che ho già trovato molte risposte da solo. Purtroppo restano
ancora parecchi misteri.
"Si ricordi che rimango sempre un Militare del Servizio Difesa
Installazioni...feci un giuramento e non è mia intenzione venirne meno. Ma
credo che lei abbia abbastanza elementi."
Lei lo ha letto l'archivio Mitrokhin? Non lo sa che i militari dello SDI
erano "coltivati" dal KGB sotto "false flag"? Avete scelto un servizio
militare pieno di insidie.
"Io con il KGB non andavo d'accordo."
Sì certo immagino che non ci andasse d'accordo col KGB, infatti ho letto
che quelli dello SDI erano considerati neofascisti. Come giornalista
anconetano avrei molto da chiederle su quel suo concetto di
"proteggere" (Rambo posta uno stemma con la frase: "Silendo
libertatem servo", che è il simbolo di Gladio-Stay Behind!), ad esempio
come mai tante persone sono scomparse o morte sul Conero dagli anni
'70. Eppoi le vorrei chiedere se era al corrente che due spie furono
arrestate tra il 1970 e il 1984 per i segreti del Conero e che la prima se li
stava vendendo all'Egitto. Inoltre vorrei sapere come possono convivere
oggi secondo lei un parco naturale e una zona militare nuovamente
attiva.
"Il Conero non potrà mai essere solo parco naturale..e forse questo lo
preserva dalla distruzione. Sul fatto delle morti sospette..il Conero è di per sé
un monte pericoloso..le disgrazie è facile che accadano."
Eh già... ha ragione... a parte quel militare che si prese nel 1979 un colpo
di arma da fuoco in fronte...
"Incidenti ne accadevano spesso...ad avere a che fare con le armi vetuste si
rischia anche questo."
La cosa che mi meraviglia, le devo confessare, è che mio nonno non mi
abbia mai parlato del monte Conero come zona militare... lui era un
generale dell'aeronautica e fino al 1972 si occupava del servizio di leva...
nel suo libro scrive soltanto che Ancona aveva lo stesso consiglio di leva
di Forlì. I segreti del Conero erano preclusi anche a lui?
"Guardi non ne ho idea. Ma Monte Conero non è poi così importante...molte
sono leggende."
155

Se era importante o no lo sapete solo voi che avete percorso quei tunnel.
"Io ero sopra i tunnel..."
Io ho visto il video di quel Matteo Montesi... mi hanno impressionato
quelle docce con i rubinetti strani... il bunker sembrava un ritrovo per le
messe nere... l'idea che mi sono fatto io e che non leggerà nel libro è che
gli americani dopo la guerra del 1945 volessero ricreare una nuova
Guantanamo, e nel Conero ci volevano conservare i missili. Poi però lo
smantellamento dell'aeroporto di Loreto li convinse ad abbandonare il
sito... Il resto della storia per ciò che ne so è nel libro...
"Non ho visto il video di Montesi..ha per caso il link?"
Eh no... non la sa la storia? l'hanno denunciato e il video è stato
censurato nel 2014 dopo pochi giorni. Lui racconta di essere stato
minacciato da una spia con accento inglese... è tutto nel pdf... Speravo
che con Mediaset nel 2012 si riuscisse a fare un lavoro più serio. Ecco, le
ho mandato il mio libro sul Conero e anche le prime pagine del volume
di mio nonno sul servizio di leva.
"Poi leggerò tutto con calma."
Certo certo non si preoccupi, non è un interrogatorio. Presumo
comunque che una parte della politica di Ancona non veda di buon
occhio voi SDI del Conero... Le dico presumo perché per ora nessuno ne
parla a parte me.
"A noi nessuno ci vedeva di buon occhio...nemmeno gli Ufficiali."
Senta, ma è vera la storia che se qualcuno non si fermava all'alt avevate
l'ordine di sparare?
"Su questo ci può contare."
Ah... ma è vero che eravate nascosti anche nei boschi?
"Che io ricordi..non ho mai giocato a moscacieca o a nascondino..."
Quindi eravate solo davanti al cancello?
"Dipende.."
Glielo chiedo perché molti anconetani sono sempre andati sul Conero a
far funghi e certo i giornali non li avvertivano che salendo avrebbero
trovato un fucile puntato contro.
"Io li ho sempre allontanati gentilmente, comunque la gente lo sa che è zona
militare, dato che ci sono i cartelli."
Capisco... beh i cartelli li vedono quando arrivano in alto...
"La canna del fucile è sempre ad altezza occhi."
Ma... scusi la domanda brutale: hanno mai sparato e ucciso qualcuno
sul Conero?
"Non mi pare di aver letto nulla di simile."
156

Meno male... Provo a fare un'altra domanda: lei avrà visto già che su
Youtube ci sono molti video di altre basi Nato abbandonate. Un lettore
del mio blog disse che il Conero era stato costruito insieme a base Proto
a Caserta e al Moscal di Affi. Mi conferma queste affinità con le altre
basi?
"Guardi...a me interessava solo il Conero..e in particolar modo il mio
difendere quella base dove operavo. Il resto non mi interessa."
Ah... bello il vostro inno di Lucio Dalla... essendo un classe 1973 quella
canzone non mi dice niente... però è certamente adatta...
"Cosa?"
Spulciando la pagina facebook da cui ho preso il suo nome c'è il link a
1983 di Lucio Dalla. La pagina da cui ho preso il suo nome è (...) o
qualcosa di simile.
"Eravamo in Caserme diverse... Io ero in cima al Monte."
Se dovessi fare un servizio su di voi SDI del Conero metterei come
sottofondo "Us and them" dei Pink Floyd, mi pare più giusto in un
paese che ripudia la guerra... ma detto senza polemica...
"Io metterei...sempre dei Pink Floyd ..aspetti che non ricordo il titolo...
"Shine on you crazy diamond."
Mi ha mostrato il simbolo dello SDI con la scritta "proteggere in
silenzio". Mi ricorda un mio compagno di liceo che in quel periodo si
iscrisse al Movimento Sociale Italiano di Almirante. Che lei sappia lo
SDI è collegato con i missini?
"No..solo con comunione e liberazione."
157

PARTE SECONDA: Montedison

10

LE RADICI DEL MALE

Vi chiederete perché ho intitolato così questo paragrafo: perché quando apro


la televisione e sento le notizie, succede che pur con tanta esperienza, tanti
studi, non le capisco e sono costretto ad andare online e fare delle ricerche.
Devo scavare, perché i giornalisti italiani buttano dentro le notizie senza
pensarci. Senza riassumerle. Del resto c'è poco tempo, bisogna andare in
onda, chiudere la pagina. Devo andare quindi alle radici del male, che io
ritengo siano quelle notizie che ad esempio mi impediscono di fare carriera
nel giornalismo. Me lo impediscono perché io per primo, se devo spiegarle
agli altri, devo capirle. E se devo essere sincero le notizie sul famoso
processo IMI-SIR, quando le sento in tv, non le capisco. Parlo di cose recenti,
pochi mesi fa, forse un anno. Come potrei dire quindi di sì ai miei capi,
come mi chiedono nelle redazioni, se ai lettori non posso spiegare perché
nelle loro case ogni tanto entra questo benedetto processo IMI-SIR? Dovrei
dire al caporedattore, no, non te lo inserisco il processo in pagina finché non
lo avrò capito io.

Chi c'è dietro lo scandalo IMI-SIR

Ecco, allora ho fatto una ricerca e ho scoperto le radici del male. Almeno, io
penso di averle scoperte. Ma scoprire le radici del male, ammesso che io le
abbia trovate, significa anche buttare all'aria quello che c'è sopra. E magari
buttare all'aria chi ce lo ha messo, quello che c'è sopra. Perché se ti
interessano le radici, devi prendere solo quelle. Le radici del processo
IMI-SIR? Vengono da lontano. Vengono a mio avviso dal 1967, minimo. La
procedura di ricerca è semplice, basta immettere le parole IMI e SIR nel
motore di ricerca di Google; scoprendo che ad esempio la SIR era
un'industria petrolchimica che alla fine degli anni Settanta era in grave
difficoltà, e che nel 1990 diede vita a un processo, in cui un certo Nino
Rovelli, titolare, diciamo così, della SIR, chiese un maxi-risarcimento
all'IMI, e questo in sede civile. Risarcimento da 1000 miliardi, che venne
effettivamente erogato verso il 1993 a conclusione della prima tranche della
vicenda giudiziaria. Ma quando i soldi arrivarono ai Rovelli, nel 1994, con
158

Berlusconi ormai inserito pienamente in politica, scoppiò un nuovo caso


giudiziario. L'IMI quei soldi li voleva indietro, non accettava più il processo
civile, perché Previti, uno degli avvocati di Rovelli e della SIR, aveva
intascato tanti miliardi, e questo significava che sotto ci poteva essere
qualcosa. C'era? Secondo i giudici sì, e partì, a leggere l'Unità, perché ora ho
inserito le stesse parole sui motori di ricerca degli archivi dei quotidiani, una
vera e propria caccia ai soldi dei Rovelli, nonché una battaglia giudiziaria
contro Previti il quale aveva, pare, corrotto i giudici per permettere a Rovelli
di vincere la causa. Ma la caccia al denaro in pratica era diretta contro i figli
e la moglie dell'imprenditore, in quanto Nino Rovelli, era passato a miglior
vita.
E mi auguro si sia pentito di quello che ha fatto prima di morire, in quanto
nell'archivio de La Stampa se ne leggono di tutti i colori sul suo conto. Ad
esempio emblematico è il pezzo del 1979 intitolato, “Rovelli, ‘principe dei
debiti’”20, in cui il giornalista effettua un riassunto interessante della carriera
pessima di cui è stato protagonista l'imprenditore nativo di Olgiate Olona,
nel varesotto. Si intuisce bene come quest'uomo abbia ricevuto tra il 1960 e
il 1979 tanti soldi da enti pubblici e banche, finanziatrici della SIR e dei suoi
progetti di ammodernamento delle infrastrutture della Sardegna, con un
esborso folle di 3500 miliardi di vecchie lire, finiti non si sa dove. Aveva
quindi fiutato puzza di bruciato il procuratore di Roma Luciano Infelisi, il
quale nel 1977 aveva avviato un'inchiesta che incriminava sia Nino Rovelli,
sia l'IMI, con il suo presidente Cappon in testa. Seguì un tentativo di
insabbiamento, poi nel 1979 un nuovo aggravarsi della situazione all'interno
della SIR fece riespoldere il problema, con tanto di mandati di arresto
spiccati per i due protagonisti in negativo della vicenda. Rovelli del resto,
vistosi pressato dai creditori e dalle banche, era preoccupato soprattutto di
perdere il potere e la leadership della SIR, ed era, guarda un po', anche
disposto a fare i nomi di politici e dirigenti bancari che erano in affari,
sporchi, con lui. Cose terribili. L'accusa, in particolare, era per Rovelli e
Cappon di aver sperperato i soldi degli italiani. E quanto avevano buttato al
vento i due personaggi? Pensa che caso, ben 1000 miliardi, ma forse anche
2000, quelli che poi Rovelli nel 1990 voleva intascare, e pare intascò, una
seconda volta in sede civile; ma erano successe altre cose.

I fondi pubblici dell’IMI

20
Pubblicato su Stampa Sera il 13 febbraio 1979.
159

Tornando al 1977, non si era capito bene, insomma, che fine avessero fatto
quei soldi. Di sicuro, scrisse La Stampa, non erano stati utilizzati per
risistemare la SIR, né per i programmi sul Mezzogiorno, come nei progetti
concordati con l'IMI. E chi era l'IMI? In quegli anni era un ente pubblico e si
chiamava Istituto Mobiliare Italiano. Per capire cosa facesse in quel periodo
bisogna tornare ancora indietro. Motore di ricerca e via: era un finanziatore
di progetti e di piccole e medie imprese, ma anche grandi come la Fiat,
specie quando nel 1966 andò in Russia a fondare Togliattigrad21, in piena
Guerra Fredda, ma all'economia e agli affari cosa gliene frega? Altra ricerca,
via: Rovelli più IMI ricompare nella storia di un grande processo, uno dei
più famosi processi della storia della prima repubblica, quello al presidente
del Milan, Felice Riva e il suo cotonificio Valle Susa. Che cosa era successo?
Era successo che nel 1965 questa ditta era fallita e ne era nato, come è
normale in questi casi, un processo penale a carico del titolare, ma anche una
procedura fallimentare per salvare gli operai. Perché dietro la storia dei
grandi uomini, ci sono anche le ricadute sulla società, non dimentichiamolo.
Riva venne dipinto in quegli anni, fine anni Sessanta, da L'Unità e La
Stampa, come un uomo poco attento alla sua azienda, più impegnato nelle
crociere e il lusso di cui godeva. Era senza dubbio il colpevole numero uno
se l'azienda aveva fatto segnare un passivo di circa 42 miliardi e lasciato
senza futuro 8000 operai. Chi li aveva salvati? Fu uno degli elementi cardine
del processo penale: il difensore di Riva, Michele Lener, poi difensore del
commissario Calabresi22, puntò su un fatto che colpì il giornale L'Unità, il
quale prese lo spunto da quelle arringhe per fare degli scoop. Per Lener, Riva
non aveva ricevuto gli aiuti promessi dall'IMI per salvare l'azienda dal crac.
L'IMI gli aveva offerto un prestito in cambio di una copertura a garanzia
dell'esborso che Riva non accettò di dare, o, come disse lui, mi pare di capire,
non ebbe il tempo di dare, perché l'ultimatum scadeva mentre era ancora
fuori Milano, sede dell'azienda e del processo. Una scadenza troppo breve.

21
I dirigenti della Fiat siglarono nel 1966 un accordo per fondare una fabbrica di automobili
nell’allora URSS. Sarebbero stati costruiti edifici e alla produzione dell’italiana Fiat 124
avrebbero contribuito anche operai italiani. L’IMI partecipò con 200 miliardi di finanziamento.
Cfr: “L’intervista con il capo della delegazione dell’Urss”, La Stampa, 6 maggio 1966.
22
Il commissario Luigi Calabresi è stato un poliziotto italiano con la qualifica di commissario
di pubblica sicurezza (Wikipedia). Indagò sulla strage di Piazza Fontana a Milano e rimase
coinvolto nella misteriosa morte di uno dei primi indagati, l’anarchico Giuseppe Pinelli. A sua
volta Calabresi fu ucciso il 17 maggio del 1972 quando era commissario di pubblica sicurezza.
Furono identificati come autori del delitto Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Giorgio
Pietrostefani e Adriano Sofri, esponenti di Lotta Continua (Wikipedia).
160

L'azienda fallì nel 1965 e, secondo Lener, l'IMI in autunno era già pronto a
impadronirsi del cadavere della Valle Susa con un'azienda nuova nuova
creata ad hoc insieme ad un personaggio nuovo, per quei tempi, Nino
Rovelli23. Al processo il fatto venne confermato dal direttore della Banca
d'Italia, Guido Carli, al quale venne contestato il fatto di aver fatto parte di
quella cordata di salvataggio in quanto amico di Rovelli e parente di alcuni
personaggi raccomandati dal Rovelli stesso per lavorare alla SIR24. Fu così,
non fu così? A me colpisce molto questo giro di amicizie in tempi non
sospetti. Non andò poi così, nel senso che la SEIT di Rovelli chiedeva di
affittare l'azienda Valle Susa per cinque anni, mentre l'ETI della Edison
assicurava maggiori garanzie per gli operai e nel giro di poco tempo vinse la
ETI quell'appalto sul cadavere di Riva. Per L'Unità si trattò di un tacito
accordo in cui la SEIT fungeva da apripista e l'ETI intascava i fondi dell'IMI,
quelli che la stessa IMI non diede a Riva.
Dicevo cadavere perché un fallimento non è un gioco: si va in galera e si
paga molto caro il danno. Riva dovette pagare, a livello penale, con sei anni
in primo grado ridotti a cinque in appello nel 1971, mentre a livello di pena
pecuniaria, visto che l'IMI aveva anche effettuato un accertamento ispettivo,
venne condannato lo stesso Riva a pagare 50 miliardi di tasse inevase per
una faccenda emersa anche al processo, ovvero la successione effettuata dal
padre di Felice Riva della stessa azienda Valle Susa non dichiarata allo Stato,
a quanto pare. Una condanna arrivata nel 198425 quando Riva pare fosse
tornato già in Italia. Da dove? Dalla prigione dorata del Libano, dove si era
rifugiato per sfuggire all'arresto. Secondo quanto da me riscontrato, in
Appello gli erano stati condonati tre dei cinque anni di galera che si sarebbe
dovuto fare. Ma due gliene mancavano ancora, tuttavia l'articolo de La
Stampa sul processo per l'eredità non dichiarata scriveva, nel 1984, che ogni
addebito penale gli era stato amnistiato. Beato lui, che santo proprio pare
non sia stato, e da Wikipedia risulta sia vivo e vegeto in Versilia.

Una valanga di debiti

Del resto, Rovelli, il personaggio oscuro di cui sto parlando in questa ricerca
storica, Felice Riva non lo conosceva, e semmai gli aveva creato un danno

23
Cfr: “Felice Riva non fu il solo a defraudare i suoi operai”, L’Unità, 2 ottobre 1969.
24
Cfr: “Anche parenti di Carli nella vicenda del CVS”, L’Unità, 11 luglio 1969.
25
Cfr: “Agli eredi dell’impero Riva toccherà pagare 50 miliardi”, La Stampa, 12 dicembre
1984.
161

insieme all'IMI. Perché Rovelli era attivo soprattutto in Sardegna dove nel
1966-67 pare avesse trovato una miniera d'oro. Specifichiamo però che l'oro
consisteva soprattutto nei finanziamenti dell'IMI, il quale pare accertato da
un testimone illustre, quale è L'Unità, che nel 1967 stesse distribuendo i
soldi dei cittadini in modo più facile rispetto al caso Valle Susa, con un tasso
del mutuo pari al 3%, per dei progetti fantomatici di cui L'Unità in quel
periodo non vedeva nemmeno l'ombra in Sardegna26. Ed era solo il 1967.
Dieci anni dopo l'IMI veniva accusata, come abbiamo visto, di aver pagato
migliaia di miliardi di vecchie lire, finiti non si sa dove per colpa di Rovelli.
Pare che Cappon non avesse nemmeno avvertito il suo direttivo delle
operazioni pericolose rivolte dall'IMI verso l'imprenditore di Olgiate Olona.
In quel momento, scriveva l'Unità nel 1977, Rovelli non era solo il principe
dei debiti ma pure il maggior azionista privato della Montedison, azienda
pubblica che altro non è che la vecchia Edison, quella della ETI, che già
conosciamo. Anche la Montedison era sommersa dai debiti.
Cosa successe? Non successe niente, anzi ci fu un improvviso cambio di
rotta delle vicende della SIR. L'azienda, pur con un buco pauroso, non fallì,
sembra di capire, e per fortuna degli operai, perché la SIR dava da mangiare
a tanta gente non solo in Sardegna, anche nel novarese, dove sono residente.
Rovelli aveva aperto anche dei quotidiani. Il periodo cruciale è il 1981. In
politica nel periodo del mandato di arresto, il 1979, era in atto il famoso
governo di Solidarietà Nazionale di Cossiga. Si era usciti dal periodo nero
delle Brigate Rosse, e parallelamente anche da questo dissesto finanziario.
Come? Era intervenuto il governo. Ecco l'articolo emblematico del 1981,
appunto: “Il piano Eni-Sir è pronto, lo Stato rinuncia a 1200 miliardi”27.
Ma che magnanimo lo Stato, pur di non colpire l'IMI e Rovelli non solo
lascia stare le sue pretese creditizie nei confronti della SIR ma la aiuta a
rinascere dal nulla. E chi si inserisce in questa trattativa? La Montedison,
che ha rilevato il nome della vecchia Edison. Il cerchio preannunciato da
L'Unità nel 1969 si è richiuso. Tutti uniti nel nome di Rovelli e dello Stato
Italiano. Rovelli che a differenza del povero presidente del Milan, Felice
Riva, non subisce nemmeno la virtuale condanna. Anzi, pochi anni dopo
tornerà alla carica alla ricerca di nuovo denaro dalla stessa IMI, e come
sappiamo le farà causa, vincendola nel 1990, quando Rovelli stesso era
morto da poco. Non solo, se torniamo un attimo indietro e leggiamo un

26
Cfr: “Da 1 a 1000 milioni le società Rovelli”, L’Unità, 22 gennaio 1967.
27
L’articolo è de La Stampa del 4 dicembre 1981.
162

articolo del gennaio 1980 de La Stampa28, scopriamo che lo Stato per la SIR
ha fatto molto più che rinunciare ai crediti. Ha proprio elargito denaro. Per
un'azienda che in effetti era con l'acqua alla gola avendo non 42 miliardi di
debiti come la Valle Susa, bensì alcune centinaia. Del resto erano passati
tanti anni dal fallimento della Valle Susa stessa e c'era stata un po' di
inflazione. E quanto aveva dato lo Stato alla SIR? Ben 81 miliardi di vecchie
lire, nel piano di salvataggio della GEPI. Altri 31 miliardi sarebbero serviti
nel 1981. E chi era che gestiva questa operazione? Proprio un uomo che
all'inizio del nuovo millennio sarà chiamato nella vertenza, causa, non so più
come chiamarla tra IMI e SIR, Pietro Schlesinger. Uomo di cui parlano
tuttora siti presenti online, come quello sui “Misteri d'Italia”, a proposito di
questa storia.
Per la precisione era il 2003 quando la Cassazione dava ragione alla Banca
IMI, che nel frattempo era diventata una banca, appunto, privata inglobata
nel Sanpaolo di Torino. L'IMI nella sua battaglia per recuperare i 1000
miliardi persi con la causa del 1990 aveva vinto. La caccia a quei soldi
poteva dirsi conclusa e questo nonostante la vicenda parallela di Previti,
sulle presunte tangenti, non fosse ancora chiara. Una battaglia condotta
dall'IMI per tutti gli anni Novanta, scrivevano i giornali di sinistra, al fine di
non rivalersi sui cittadini. E sarebbe del resto stato assurdo che i cittadini
avessero pagato con altre tasse per un ammanco di soldi causato da una
guerra feroce, che per ventanni si era protratta tra un'azienda che doveva
fallire ed era stata salvata dallo Stato, la SIR, e un ente di Stato che aveva
buttato via mille miliardi, forse di più, ma per il quale reato non aveva poi
pagato nessuno; mentre lo stesso ente aveva deciso di non fare più lo Stato e
di passare al settore privato. Diciamo una seconda vita di queste due aziende,
SIR e IMI, che parte nel 1990 con il processo all'interno del quale si erano
manifestate alcune assurdità. Vorrei dire quindi, venendo a oggi, che stiamo
vedendo sui tg un film, una specie di Truman Show, che non ci piace, se
pensiamo che questo film si doveva concludere non oggi, non nel 2003 con
la sentenza della cassazione e nemmeno nel 1990, ma nel 1979, quando io
personalmente facevo il terzo anno di asilo.
Dunque nel 1990, e torno così fra poco al finanziamento statale del 1980, era
emerso questo: che otto anni prima, nel 1982, Rovelli, il quale doveva finire
in galera per bancarotta fraudolenta e risarcire lo Stato dei danni prodotti
dall'ammanco suo e dell'IMI, aveva fatto causa alla stessa IMI. Non gli
bastavano i soldi che gli avevano dato per risanare la SIR, che continuerà la

28
Cfr: “La Sir ha trovato i soldi, ma avrà anche il petrolio?”, La Stampa, 12 gennaio 1980.
163

sua vita, tra mille paure testimoniate dagli scioperi della fine degli anni
Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, per lungo tempo con la felicità dei
sindacati e gli operai, Rovelli voleva essere risarcito. Per cosa? Non si sa
assolutamente, io bambino del terzo anno di asilo del 1979 non posso capirlo,
purtroppo.
Diciamo che intuisco questo: secondo Schlesinger emergeva già nel 1980
dagli articoli de La Stampa che l'IMI nel piano di risanamento non aveva
erogato i 700 miliardi richiesti, ma solo una parte. Su 773 miliardi ne aveva
infatti versati solo 137. E dire che Felice Riva, poveretto, si sarebbe
accontentato di molto meno. Di qui il processo civile e la condanna a pagare
questi soldi con gli interessi: 1000 miliardi, altri mille dall'IMI. E i prestiti?
Dico: e il concetto di prestito con interesse dov'è finito? La Valle Susa non
era forse fallita per una copertura al prestito IMI non adeguata? Vuol forse
dire che Riva diventa un santo? Rispetto a Rovelli, sì, perché a quest'uomo,
buon'anima che spero riposi in pace, i soldi come detto non bastavano mai.
Cosa ci doveva fare?

Gli imprenditori, lo Stato, la politica

Sembra la storia di Edoardo Longarini, una storia che, chi come me ha fatto
il giornalista ad Ancona sa bene, parla di un altro magnate dell'editoria il
quale ne aveva combinate di tutti i colori. Aveva creato i primi precari
giornalisti, innanzitutto, definiti sui giornali all'inizio degli anni Novanta
“braccianti del giornalismo” a cui faceva firmare contratti dell'edilizia, e
aveva soprattutto rubato i soldi dei cittadini lucrando sulle ricostruzioni post
terremoto del 1972 e post frana del 1982. Il Corriere della Sera nel 1992
titolava: "L’impero realizzato su una frana"29. Solo per quel disastro infatti si
parlò di 500 miliardi erogati dal Ministero, e dall'onorevole Nicolazzi in
particolare, alla “Adriatica Costruzioni” per edificare quelle che per anni ad
Ancona sono state delle Incompiute con la I maiuscola. “I” come la forma
dei piloni delle superstrade che hanno visto la luce con tanta, ma tanta
lentezza, solo pochi anni fa, quando Longarini era già in galera30. Ma questa

29
Pubblicato sul Corriere della Sera il 10 ottobre 1992.
30
Edoardo Longarini, dopo gli inizi come impiegato in una ditta petrolifera, è stato un
imprenditore edile, ma anche editore e dirigente sportivo. E’ stato proprietario di quotidiani e tv,
tra cui La Gazzetta di Ancona e Galassia TV. Viene descritto dai giornalisti dorici come uomo
burbero, che guidava i mass media da padre padrone. Quando la Gazzetta di Ancona chiuse, per
via dei guai giudiziari del magnate, molti giornalisti professionisti rimasero senza lavoro. E’
stato inoltre patron dell’Ancona calcio e della Ternana. Con l’Ancona è riuscito ad approdare
164

è un'altra storia e i giornalisti di Ancona la sapranno meglio di me. Siamo


solo in presenza di una Casta di imprenditori che fin dagli anni
Sessanta-Settanta aveva questa abitudine di farsi amici gli enti di Stato o i
Ministeri per poi intascare soldi a palate. Intascarli solo, non pagare le
tangenti, quella è un'altra storia, la storia di Tangentopoli, che parte dalla
fine degli anni Ottanta con le Carceri d'Oro di Nicolazzi, sempre lui, e alcuni
personaggi famosi soprattutto nella città in cui vivo, Novara, parlo di
Gabriele Di Palma. E prosegue con gli arresti operati da Di Pietro dal 1992 a
partire da Mario Chiesa e il suo Pio Albergo Trivulzio, fonte in questo caso i
libri di Montanelli e Travaglio. Storie di corruzione, che ancora devono
essere chiarite; e mi propongo di farlo, in parte, con questo libro.
No, Rovelli e Longarini volevano tanti soldi dallo Stato perché li ritenevano
dovuti, Rovelli in particolare faceva leva, e la fanno ancora oggi gli eredi
visto che è storia attuale, su un presunto piano di Risanamento del 1979 in
cui l'IMI si era impegnata a dare quel denaro e poi ne aveva data solo una
parte, il che mi risulta, in effetti, essere vero. Ma sappiamo che non doveva e
non poteva essere un regalo. Così l'IMI giustamente ci ha riempito la testa
con una serie infinita di servizi giornalistici sui processi fino a poco tempo fa,
perché parallelamente si parlò anche, e ovviamente, di Previti. Cesare Previti
era infatti entrato così come Rovelli nella vita dell'uomo più chiacchierato
del paese, Silvio Berlusconi. Il primo aveva aiutato il futuro premier a
vincere una causa per la maggioranza nel Lodo Mondadori (altro
tormentone), il secondo aveva rilevato nel 1983, dopo un arresto di massa
delle forze dell'ordine per sospetti di mafia, la proprietà della Banca Rasini
in cui fu dirigente il padre del Cavaliere31. Da latitante, si legge negli articoli
de L'Unità, dopo il proscioglimento del 31 marzo 1981, tornava ad essere un
manager di successo. Come? Grazie alla Banca Commerciale di Lugano, che
aveva rilevato e nella quale aveva inglobato la Banca Rasini32.
E così la guerra tra SIR e IMI è divenuta una vera e propria tempesta politica.

alla serie A nel 1992; i processi lo sorpresero proprio mentre la sua squadra se la vedeva con i
campioni della massima serie. Gli strascichi delle sue malefatte si protraggono fino a oggi, sia
sotto l’aspetto del degrado urbano della parte storica di Ancona, sia per i processi ancora in
corso.
31
Il padre di Silvio Berlusconi si chiamava Luigi Berlusconi e fu procuratore della Banca
Rasini dal 1957 (Wikipedia).
32
Cfr: “La Banca Commerciale di Lugano acquista la Banca Rasini”, Gazzetta Ticinese
(Svizzera), 11 maggio 1984. I giudici del pool di Mani Pulite indagheranno molto negli anni ‘90
sui conti correnti della Banca Commerciale di Lugano e i politici ne dibatteranno in Parlamento,
ma nessuno si ricorderà più, a quanto pare, del suo proprietario Rovelli.
165

Del resto si sa che Forza Italia è un organo in cui sono confluiti uomini di
tante correnti; ma soprattutto c'è questo zampino di Rovelli nella vita di
Berlusconi che preoccupa e non poco. Berlusconi vince sempre grazie a
Previti, avvocato amico di Rovelli, si è detto spesso in politica. Ma tutto
sarebbe stato vano, per lui, se nel 1979 le cose fossero andate diversamente.
Ecco come a volte un problema non risolto provoca grandi tragedie. Rovelli
è diventato più santo di Riva, e ha vissuto negli anni Ottanta un periodo di
rinascita personale, mentre la sua SIR venne inglobata come nulla fosse nel
1988, indovinate un po' dove? Nella Montedison, naturalmente. Titolo de La
Stampa: “La SIR nell'impero Gardini”33. Il costo dell'operazione di
acquisizione, ben 170 miliardi e 100 milioni. Un altro piano di salvataggio.
Senza prestiti e senza interessi. E' il periodo, già, delle scalate dei magnati al
possesso di una quota delle grandi aziende. Spariscono dai giornali gli operai,
spariscono le ricadute sociali, ma diciamo che, da quello che mi risulta,
nessun operaio apparentemente ha vissuto sulla propria pelle direttamente gli
effetti di questi problemi giudiziari, ed economici, dell'olimpo degli dei.
Peccato che anche la Montedison finirà nei guai come la Valle Susa e come
la SIR. Ma peccato anche che, dopo il suicidio di Gardini e quella enorme
vicenda giudiziaria, pure la Montedison sarà salvata dallo Stato, mentre alla
guida dell'azienda ci finiva Guido Rossi. Il debito era modestissimo, si fa per
dire: il 15 ottobre del 1993 La Stampa scriveva queste cifre: 22.617 miliardi
per la Ferfin, 16.218 la Montedison34. "Un buco nero", nel quale le banche
estere non vollero entrare, naturalmente, la Mediobanca di Cuccia, in passato
ente di Stato per le intermediazioni bancarie ma ormai in via di
privatizzazione, ci si buttò a capofitto.
Qual è il problema? Il problema in soldoni, a mio modesto avviso, non sono
per noi cittadini le tangenti di Gardini, come nemmeno quelle delle Carceri
d'oro. Il guaio vero è che lo Stato ha girato i nostri soldi per anni a questi
signori, ma non lo ha mai fatto capire, mascherando le operazioni, prima
come finanziamenti pubblici con prestiti SEIT, ETI, Piano Rinascita della
Sardegna, Ricostruzioni nelle Marche (anche in Irpinia?), poi come
operazioni di salvataggio delle aziende; e sia nel caso SIR sia in quello di
Tangentopoli della Montedison ha guidato a suon di miliardi le due aziende
non punendo i responsabili dei crac e facendosi carico dei debiti. L'esatto

33
L’articolo uscì l’8 ottobre del 1988.
34
Ma gli ingentissimi debiti riguardavano molte altre aziende, tra cui le pubbliche IRI e
Ferrovie dello Stato, la Fininvest, la Fiat, la Olivetti. Cfr: “L’azienda Italia affoga ne debiti” e
“Ferfin e Montedison varano il piano”, La Stampa, 15 ottobre 1993.
166

contrario del caso Valle Susa. Importante quindi il presidente del Milan, sì
ma quell'altro, Riva! Lo Stato, sempre in soldoni, ha salvato migliaia di
operai, forse, ma ha allargato sempre di più un buco nei bilanci pubblici.
Buco che non vuole rivelarci, o forse lo sta facendo Monti in questi mesi.
Come un bambino che ha preso un brutto voto a scuola e si vergogna, cerca
di rinviare un'ammissione di colpa che però va fatta, perché la crisi nostra è
anche questa. O solo questa. La realtà è che non siamo liberi di scrivere sui
giornali. Dobbiamo sorbirci notizie di guerre intestine, vere o false, non mi
interessa, ma dobbiamo stare zitti e aspettare che alcuni colossi finiscano di
litigare, senza che noi possiamo interferire, per nascondere il fatto che molti
nostri soldi non ci sono più. E se non li hanno fatti tornare con il commercio
delle armi, che è testimoniato dagli articoli di Repubblica, è possibile che li
stiamo pagando ora, noi, con le tasse, anche quelle sui carburanti. Sì, perché
Rovelli, amico e collega di Angelo Moratti nella ricostruzione in Sardegna
nel 1967, era anche un petroliere.

Scandalo, il parlamento italiano invischiato nell’affare IMI-SIR

Lo Stato italiano è come una mamma. Una mamma buona che non nega il
suo aiuto alle aziende in difficoltà. Su questi presupposti pare sia nato, nel
1982, un Consorzio in cui lo Stato italiano subentrava nella spinosa, a dire
poco, questione della voragine di debiti della SIR di Nino Rovelli. Come
sappiamo Rovelli si era indebitato fino al collo, non prima di aver sottratto
alla sua SIR mille o forse duemila miliardi elargiti dall'istituto statale IMI e
che sarebbero dovuti servire per progetti edilizi in Sardegna e nel Sud Italia.
Ne era nata una inchiesta giudiziaria condotta dal pm Luciano Infelisi che tra
il 1977 e il 1980 cercò di far arrestare, senza riuscirvi, il direttore dell'IMI
Giorgio Cappon e lo stesso titolare della SIR, Nino Rovelli, oltre ad altri
personaggi degli enti assistenziali dello Stato.
Ora la novità è che online, cercando su Google la Banca Commerciale di
Lugano35 si arriva non so come ad un documento importantissimo redatto in
Senato o alla Camera alcuni, pochissimi, anni fa. Secondo me si tratta di un
vero e proprio scandalo che coinvolgerebbe uomini dello Stato italiano che

35
Nel motore di ricerca di Google sono state immesse queste parole: “Banca Commerciale
Lugano+Senato”. Tra i primissimi risultati compaiono due indirizzi intitolati: “Senato della
Repubblica - 81- Camera dei deputati” e l’altro: “Senato della Repubblica - 321 - Camera dei
deputati”. Portano a due file pdf. Cambiando il numero di pagina alla fine dell’indirizzo URL si
può accedere anche ai fogli non indicizzati.
167

dal 1982 a oggi avrebbero gestito la liquidazione di una società privata come
la SIR accusata di “sperpero di denaro pubblico”. SIR che alla fine degli
anni ‘70 riuscì ad acquistare il 5% delle azioni dell'azienda pubblica
Montedison. Una scalata che risultò fatale a Nino Rovelli, si leggeva nei
quotidiani di allora. Venne a galla il debito spaventoso di alcune centinaia di
miliardi di vecchie lire. Sarebbe dovuto fallire, ma non fu così e nacque
questa procedura diciamo fallimentare di Stato molto ma molto dilazionata
nel tempo, se è vero che dura da 30 anni. All'interno del documento si evince
che, oltre al noto piano di risanamento della SIR, al centro poi del ricorso del
1990 di Rovelli, era nato anche quello che nel documento viene chiamato
“Vecchio Consorzio”, creato proprio perché, secondo chi scrive la nota, il
Piano di Risanamento non aveva fatto bene i conti sui debiti e gli oneri
inerenti alla SIR.

Gli scopi del “Nuovo Consorzio”

Fu il “Vecchio Consorzio” a negare l'attuazione del Piano di Risanamento


del 1979; e invocò un diverso intervento pubblico. Ma l'intervento pubblico
arrivò nel 1982 dopo la promulgazione di due leggi fatte ad hoc. Vi si
decideva in sostanza che rimaneva attivo il “Vecchio Consorzio” e questo
avrebbe dovuto far fronte a tutti i debiti e crediti. Si sarebbe proceduto a una
ricapitalizzazione diciamo di Stato con 100 miliardi di vecchie lire, 40 a
carico dei soci e 60 a carico del “Comitato”. Questo “Comitato” era stato
creato con un capitale di 500 miliardi di vecchie lire e si impegnava a sanare
la situazione di quello che si poteva ora chiamare “Nuovo Consorzio”. Nel
1982, in particolare, con la nascita del “Nuovo Consorzio”, e questo è un
punto importante che fa capire perché sia nata la vertenza giudiziaria, le
banche si sarebbero dovute tirare fuori dall'affare, esigendo quanto gli era
dovuto. L'IMI secondo questo pronunciamento avrebbe dovuto esigere dalla
liquidazione ben 1.269 miliardi di vecchie lire. Ecco quindi il punto a mio
avviso grave della nota: “L'operazione in sintesi trasferì il dissesto SIR e le
relative gravi cure nell'ambito pubblico non solo definitivamente, limitando
quantitativamente (alla copertura delle perdite al 30 giugno 1980 e alla
nuova capitalizzazione del Consorzio) e cronologicamente (al 30 giugno
1980), l'esborso degli istituti di credito coinvolti, ma consentendo a questi di
incassare crediti, di fatto in nessun modo esigibili, per migliaia di miliardi di
lire”.
Era impossibile esigere soldi, perché la SIR contava perdite, recita ancora la
nota, per 2.600 miliardi di lire. Il dissesto che calcolava il “Nuovo Comitato”,
168

a causa della errata valutazione iniziale, avrebbe continuato a produrre altre


perdite, che comunque il “Nuovo Comitato” decise di accollarsi mediante
una legge. Pare che si sia discusso sull'opportunità o meno di impegnarsi
nella copertura del debito accumulato dalla SIR prima del 30 giugno 1980,
ma in questo modo siamo già arrivati ai giorni nostri: è il 13 ottobre 2003.
L'IMI è diventato una banca privata e si è fuso con il Sanpaolo di Torino:
alla richiesta di far fronte a quei debiti ha detto un secco no. Del resto da
anni, come sappiamo e come ricorderà anche la nota del Parlamento, è
impegnato in una battaglia giudiziaria con gli eredi di Nino Rovelli, che
hanno vinto nel 1990 la causa civile per avere 1000 miliardi di indennizzo,
ma hanno poi visto annullata la sentenza da una nuova causa conclusasi
proprio nel 2003 in cassazione che chiede la restituzione di quei 1000
miliardi.
Il Comitato invece vuole riscuotere i debiti per liquidare e chiudere tutte le
società SIR. Siamo così alla riunione del 19 maggio 2005. Viene deciso dal
Comitato che, a prescindere dagli esiti delle cause penali nei confronti degli
eredi di Rovelli e di Previti, il quale avrebbe corrotto i giudici, i crediti
vanno esatti e restituiti ai legittimi destinatari, come la stessa banca
Sanpaolo IMI. Non solo, si chiede in questa sede di avviare, ma siamo già a
distanza siderale in fatto di anni, una azione giudiziaria nei confronti di chi
aveva formato il “Vecchio Consorzio” nel 1979. Il Sanpaolo IMI, in una
riunione del 30 maggio 2005, dà parere favorevole a questa delibera. Come
era possibile avviare un giudizio su un fatto così datato? Secondo il
documento con l'interruzione della prescrizione.

E arriviamo ai giorni nostri...

Il documento del Parlamento fa adesso il punto sulle successive assemblee


che superano anche l'anno 2007, ma che aggiornano sostanzialmente sulla
diatriba: SIR-Sanpaolo IMI, che abbiamo letto sui giornali. Di fatto la
liquidazione della SIR da parte del “Nuovo Consorzio” di Stato nel 2008
non era ancora conclusa come prova il grafico riportato nel documento
stesso.
Secondo una legge del 1999, e approvata dal Ministro del Tesoro nel 2000,
la liquidazione sarebbe dovuta avvenire nel seguente modo: chiuse tutte le
liquidazioni ed effettuate tutte le cessioni, il Comitato avrebbe versato
l'attivo nella Cassa Depositi e Prestiti, e al fondo di ammortamento.
Ma le società, gli operai, che fine hanno fatto? Il documento, almeno la parte
visibile, si ricorda di loro solo verso la fine: è rimasta attiva una sola società
169

della SIR, mentre la procedura sembra sia stata effettuata già per le altre 161
società. C'è ovviamente l'ostacolo, alla liquidazione, delle cause civili e
penali in corso. Ma l’altro ostacolo è alienare il patrimonio immobiliare
delle società anche a prezzo ridotto. Lo Stato sta comunque gestendo da solo,
senza l'intervento di un tribunale, una società privata e sospetta, la SIR di
Rovelli, che doveva fallire nel 1979. Perché? Che rapporti aveva Rovelli con
lo Stato? Quali obblighi c'erano da indurre i Ministri della Repubblica a
scrivere leggi fatte apposta per la gestione di un affare così circoscritto e non
certo di interesse pubblico? Per salvare gli operai? Io penso che non sia
questa la ragione, visto e considerato che una nuova società con capitali
freschi avrebbe già da tempo risolto i problemi della produzione del colosso
petrolchimico, di cui del resto si sono perse le tracce. Nel novarese e alto
novarese pare che la Rumianca ad esempio sia stata venduta nel 199736. Il
documento infatti scrive che la chiusura della liquidazione non avverrà
prima della chiusura delle vendite (ma presumo anche chiusura definitiva) di
tutte le aziende del gruppo SIR. Cosa ci si deve aspettare quindi ora da
questa vertenza? Per chi scrive il documento tutto dipende dalla
soddisfazione dei crediti del Sanpaolo IMI, oggi Intesa Sanpaolo, perché se
così non avvenisse il “Nuovo Consorzio” sarebbe costretto ad aprire, mi
sembra di aver compreso, nuove vertenze contro il “Vecchio Consorzio”, al
fine di evadere tutte le richieste. E così non si finirebbe più. Speriamo bene
insomma, nell'interesse, a questo punto è chiaro, di tutti i cittadini italiani!

Le stanze segrete del web

Questo documento proviene da un indirizzo web relativo alla Camera dei


Deputati del Parlamento italiano. Come mai sia finito online non si sa, ma
posso garantire che non c'è bisogno di aggirare le password per arrivarci. E
ce n'è anche un altro, di data, forse, anteriore, in cui il “Nuovo Consorzio”
della SIR fa il punto della vicenda giudiziaria tra i litiganti, la SIR e l'IMI.
Inutile ripetere i passaggi della vicenda, perché già li conosciamo. Qui io
porrei l'attenzione sul fatto che lo Stato, ovvero il Comitato all'interno del
Consorzio, si considera nel documento parte in causa nella vicenda
giudiziaria. Le cause del Sanpaolo IMI verso la SIR vengono intese come
cause per permettere al liquidatore di recuperare crediti. Il “Nuovo
Consorzio” in pratica dice questo: cara Banca Sanpaolo IMI, è giusto che tu

36
La Rumianca passò dalla Enichem all’azienda franco-belga Tessenderlo nel 1997. Cfr: “In
mostra a Vogogna la storia della Rumianca”, La Stampa, 6 ottobre 2002.
170

recuperi il denaro che ti spetta come da accordi del 1980, io ti posso al


massimo aiutare a dirimere la questione con il terzo incomodo, da cui prendo
le distanze per questioni penali: la famiglia di Nino Rovelli. Quindi il
“Nuovo Consorzio” si dice disposto ad azzerare le sue richieste verso la
famiglia Rovelli, girandole al Sanpaolo IMI per permettere alla banca di
essere risarcita. Addirittura, permette al Sanpaolo IMI di inserire un proprio
liquidatore di fiducia all'interno del “Nuovo Consorzio”. Questo in sede di
Corte d'Appello di Roma nel 2001. Quindi lo stesso Consorzio nel 2002
effettua ricerche all'estero, e per l'esattezza in Svizzera a Lugano dove
Rovelli ha acquistato la Banca Commerciale di Lugano e ha inglobato in
essa la fantomatica Banca Rasini di Milano (ma questo secondo dettaglio lo
aggiungo io), cedendo così i crediti vantati nei confronti dei “debitori finali”,
i Rovelli, al Sanpaolo IMI.
Sorge nel 2003 un dissidio però tra la Banca Sanpaolo IMI e il “Nuovo
Consorzio”: la banca non è stata soddisfatta dal lavoro di liquidazione e
chiede un maggiore esborso economico dai soci del Consorzio. Questi
rifiutano nell'assemblea del 16 luglio 2003. L'unico a farsi carico dei debiti è
rimasto il Comitato, che avevamo visto all'inizio, che è lo Stato. In pratica il
Consorzio mi sembra dia ragione a questo punto ai Rovelli i quali
rifiutavano le successive leggi del 1980 e 1982 e si richiamavano ai fatti del
19 luglio 1979, in cui l'accordo tra Cappon, Schlesinger e Rovelli imponeva
al Sanpaolo IMI un indennizzo per il buco di bilancio venutosi a creare. Una
bella mazzata insomma per il Comitato, che aveva cercato di allontanare
questa soluzione, positiva soprattutto per l'ingegner Rovelli. Il “Nuovo
Consorzio” trova quindi l'escamotage. Dice: il pregresso del 1979? Io lo ho
accertato ed è chiaro che quella somma deve essere corrisposta, ma ho anche
provveduto a coprire le tue perdite, caro Rovelli, con l'accertamento di cui
mi hai incaricato. Anzi, aggiunge: tu Rovelli non ti sei preoccupato, in quella
sede il 19 luglio 1979, di accertare le perdite, sei stato da questo punto di
vista negligente; e i mezzi predisposti dal “Vecchio Consorzio” sono stati
insufficienti.
Ecco perché nella relazione esaminata in precedenza Il “Nuovo Consorzio”
intendeva cautelarsi citando in giudizio il “Vecchio Consorzio”. Fatto che,
come abbiamo visto, portò all'intervento dello Stato con le leggi del 1980 e
1982. Le cifre le abbiamo già viste. Così come l'allontanamento dal “Nuovo
Consorzio”, creato dal “Comitato”, da parte delle Banche, tra cui Sanpaolo
IMI37.

37
Questo è l’elenco dei soggetti presenti nel 2005 all’interno del “Nuovo Consorzio” e le
171

In sostanza, e questo documento è chiarificatore in tal senso, lo Stato si


faceva garante di quei 1200 miliardi che comunque il Sanpaolo IMI doveva
ricevere, a prescindere dalle cause civili poi intraprese. Diciamo che il
“Nuovo Consorzio” era consapevole che, qualora le azioni legali intraprese
contro i Rovelli non avessero avuto l'esito sperato dal Sanpaolo IMI, il
“Nuovo Consorzio” avrebbe dovuto trovare al suo interno la soluzione
economica adeguata.
Ecco, spero di non aver annoiato il lettore, ma di aver chiarito quanto lo
Stato italiano si sia impelagato in una questione che dal 1980 al 2008, e forse
oltre, non ha prodotto risultati positivi, ma ha solo contribuito ad ingrandire
l'indebitamento dello Stato e rimbambire gli utenti dei mass-media con una
vicenda che ogni tanto entra nel nostro quotidiano.
E preciso che non sono entrato nel merito delle procedure penali e civili
descritte nel documento, che mi rendo disponibile a far reperire a chi intenda
approfondire l'indagine.

Una holding pubblica dei fallimenti

Sul documento del Parlamento relativo al caso IMI-SIR emergono ad attente


analisi ulteriori dettagli che aggravano di parecchio la situazione, già
peraltro compromessa dai due file pdf presenti online. Se infatti si prendono
questi file e si prova a cambiare il numero di pagina nell'indirizzo web, ecco
comparire anche i fogli “nascosti”, tanto da risalire in pochi minuti a tutto il
documento completo. Ho quindi salvato i 3038 file di cui si compone e posso
a questo punto affermare che non si tratta di un falso, ma il documento può
ritenersi attendibile. Proviene dalle pagine interne della Camera dei Deputati
e consiste in circa 500 fogli di materiale. Provo a fare un primo bilancio.
Le due parti ricercabili su Google riassumono in pratica il contenzioso tra il
Consorzio e l'Istituto Sanpaolo IMI, nonché i crediti da riscuotere dalla
famiglia Rovelli. Chi li ha messi online probabilmente voleva dare al proprio

relative quote di proprietà delle azioni, secondo un grafico del documento, che è stato redatto
dalla Corte dei Conti: Sanpaolo IMI (32,838889), Banca C.I.S. (5,627855), Isveimer (0,692665),
Comitato Intervento S.I.R. (60,000003), Banca Pop. Milano (0,01387), Banco Sicilia
(0,259804), Efibanca (0,132441), Banco Sardegna (0,242808), Banca Intesa (0,017704),
Capitalia (0,079464), Banca Pop. Novara (0,000884), Banca Pop. di Intra (0,044147),
Unicredito Italiano (0,009713), Banco di Brescia (0,017658), Banca Desio e Brianza (0,017658),
Banca Trento e Bolzano (0,004414), Cassa Risp. Alessandria (0,000022).
38
I numeri con i quali ho contrassegnato i vari file di questo documento sono un valore
arbitrario che ho dato per salvarli nel mio computer.
172

interlocutore un quadro completo delle linee programmatiche del “Nuovo


Consorzio”, ovvero l'organo istituito nel 1982 al fine di dirigere la
liquidazione del colosso petrolchimico privato SIR. Cosa emerge dunque
dagli altri fogli?
Sostanzialmente si delinea la figura di questo Comitato, che altro non è che
lo Stato stesso, che ha creato uno Stato nello Stato. Perché uso questa
espressione? Perché emerge chiaramente come il Comitato non è un mero
liquidatore, sia pure abusivo, in quanto non autorizzato da un tribunale
fallimentare. E' un'azienda pubblica a tutti gli effetti, il cui andamento è
quasi inverso rispetto alla direzione verso cui vanno gli affari della SIR e del
“Nuovo Consorzio”. Il Comitato è un organo autonomo, con un presidente,
che si chiama Giovanni Ruoppolo39, e un direttivo composto oltre a lui da
altre tre persone, tra cui un segretario e un rappresentante della Ragioneria
Generale dello Stato. Su di loro vigilano i Ministeri dell'Economia e delle
Attività Produttive. I dipendenti del Comitato sono 15, inquadrati con
contratti ISAI s.p.a., e questo risulterebbe al 2006, quando viene redatto il
file numero 3, ma ce ne saranno poi altri.
Cosa accade? Che se il nuovo consorzio bancario all'interno del quale vi è
anche il Comitato vede ancora nel 2006 un netto patrimoniale in perdita di
500 milioni di euro, il Comitato ha acquisito dopo oltre venticinque anni di
attività una sua autonomia di bilancio, per cui il presidente nella sua
relazione, per me molto importante, può parlare anche in positivo della sua
gestione. E quando deve girare, come nel 1999, il suo utile al Ministero del
Tesoro, può usare l'espressione di “perdita” in bilancio pari alle “attività”
girate a costo zero allo Stato. Diciamo che si sdoppiano le due figure: da una
parte lo Stato con il suo bilancio, dall'altra c'è il Comitato, con il suo utile e
le sue partecipazioni. Ecco, è importante questo ultimo passo, perché il
Comitato non si limita a liquidare le attività della SIR, bensì acquista
pacchetti di azioni anche in settori totalmente diversi. Sentiamo il presidente
direttamente: Ruoppolo dice che il Comitato sta liquidando anche il gruppo
REL ed ha acquistato tramite la MEI s.r.l.40 delle partecipazioni in
STMicroelectronics. Quindi l'utile del Comitato alla fine del 2005 era di 5
milioni di euro lordi. Cosa ha girato Ruoppolo al Tesoro? Gli ha girato anche
le partecipazioni in MEI s.r.l. E il suo bilancio potrebbe essere positivo, se

39
Giovanni Ruoppolo fu uno dei componenti della Commissione di esperti del governo italiano
per le Partecipazioni Statali nominata il 23 giugno 1975. Il 22 settembre del 1980 fu nominato
presidente del Consorzio Bancario SIR.
40
Sul documento questa ditta viene nominata senza i puntini: “MEI srl”.
173

non fosse che questa relazione non sembra essere in linea con quanto emerge
dagli articoli dei quotidiani.
Sì, perché la storia della SIR e del “Nuovo Consorzio” si sarebbe conclusa
già nel 1988 con la cessione ufficiale per oltre 170 miliardi della stessa
azienda, risanata dal Comitato, come annunciava su La Stampa lo stesso
Ruoppolo, alla Montedison di Gardini; elemento che nella relazione
parlamentare manca del tutto. La SIR è diventata ufficialmente un fantasma,
così come il Comitato, che avrebbe ultimato il suo lavoro sia con questa
cessione alla Montedison, sia con le vendite o svendite delle tante società
della SIR. Nel documento emerge infatti che tra gli obiettivi del Comitato
c'era la vendita delle aziende all'ente allora di Stato ENI, che oggi è
un'azienda quasi totalmente privata41. Un grafico nel documento fa capire
come la maggior parte del patrimonio di Rovelli sia finita in mano ad ENI
già nel 1982. Resta ben poco da fare per Ruoppolo, se non coprire quel buco
enorme del 1980 di SIR che si è accollato insieme al “Nuovo Consorzio”,
soddisfare Sanpaolo IMI per l'accordo sempre di quel periodo (1200 miliardi
per uscire dal Nuovo Comitato), e poi produrre utili per sé stesso.
Il profitto, limitatamente alle liquidazioni della SIR, nel 1989 risultava
essere di 254 milioni di euro. Però il Comitato non è un liquidatore, come
abbiamo detto, è un'azienda e come tale non ha il 100% del controllo di SIR,
ma solo il 60%. Il resto se lo dividono le Banche del “Nuovo Consorzio”. Il
controllo di SIR è ovviamente della maggioranza, e quindi del Comitato, che
però ha anche il 95% delle azioni di REL s.p.a. in liquidazione, mentre il 5%
rimanente è di Fintecna s.p.a. Qui siamo nel settore dell'elettronica. Dal 1999
come detto c'è la partecipazione in STMicroelectronics con il 22,9%, costata
al Comitato e messa a bilancio in negativo: 206,6 milioni di euro.
Sempre nel 1999 riemerge il fantasma del Comitato su La Stampa. C'è stato
infatti il decreto del Ministero con cui si chiede di girare gli utili delle
liquidazioni al Tesoro e nell'articolo si annuncia trionfalmente che il
Comitato sta per chiudere i battenti fornendo tanti soldi al bilancio dello
Stato. Però non è così, se non in parte. In realtà il Comitato è un'azienda che
vuole continuare a vivere e allo Stato gira anche partecipazioni in aziende
s.p.a. Altri utili sembra dalla relazione del presidente che stiano derivando
dal 1993 dalla liquidazione della REL s.p.a. E dalle parole di Ruoppolo
emerge chiaramente come il Comitato non ha provveduto “soltanto, in
attuazione dell'originario disegno, alla conveniente rivalutazione ed

41
Lo Stato deteneva fino al 2013 il 4,34% delle quote di ENI. Cfr il sito del Governo alla voce:
“partecipazioni dirette del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro”.
174

alienazione di un patrimonio, ma anche e soprattutto, alla creazione di valori


economici e finanziari prima insussistenti”. Nel 1988 infatti, e quindi in
corrispondenza con gli articoli della vendita di SIR a Montedison, il
Comitato ha venduto secondo la relazione di Ruoppolo, il 96% delle aziende
da liquidare. Ma le ha vendute a ENI che è un ente di Stato, quindi sono
rientrati sempre i soldi dei contribuenti. Così come, all'inizio, sempre dei
contribuenti erano i 500 miliardi di vecchie lire che lo Stato aveva ceduto al
Comitato per la sua attività. Soldi che, anzi, sono usciti dal Comitato per
acquisire partecipazioni.
Ruoppolo conclude affermando di aver girato allo Stato utili per 6.400
milioni di euro, ma il suo bilancio è in positivo anche grazie alla rinuncia
dello Stato stesso ai crediti per 834,9 milioni di euro della Cassa Depositi e
Prestiti. Quindi è un rapporto molto contraddittorio quello del presidente
Ruoppolo. Non mi soffermerei tanto sulle cifre del bilancio, perché non mi
convincono, ma occorrerebbe un revisore contabile. Diciamo che il Comitato
si aiuta come può chiedendo allo Stato di non rompere troppo le scatole con
le tasse. E per di più intervenendo come liquidatore-avvoltoio in situazioni
di dissesto di aziende private che dovevano fallire, essere gestite da un
tribunale e su cui dovevano nascere dei processi penali. I cittadini italiani
secondo me da questo giro di soldi non ci hanno guadagnato. Chi allora ci ha
guadagnato? Da dove arrivano quei 6.400 milioni di euro che Ruoppolo dice
di aver girato nel 2006 allo Stato? Da oscure attività di Stato?
Diciamo, inoltre, che restano al Comitato tre obiettivi rispetto a quelli
iniziali: uno è di far fronte al rimborso dei famosi 1000 miliardi di vecchie
lire che la Corte di Cassazione ha deciso nel 2003 che vengano erogati a
Sanpaolo IMI dal Consorzio, il quale eventualmente può rivalersi sulla
famiglia Rovelli, il secondo obiettivo è accontentare le pretese di Sanpaolo
IMI, che chiede indietro quei soldi che mancavano nel 1980 e che Rovelli
aveva fatto sparire; in pratica sono i 1200 miliardi di vecchie lire, per i quali
nessuno ha pagato penalmente. Il terzo è sistemare il bilancio del “Nuovo
Consorzio”, che conta ancora 500 milioni di euro di perdita netta. Perché la
situazione si è di molto complicata. Ma il Comitato detiene il 60% delle
azioni del “Nuovo Consorzio”, e dunque non è la sola voce di questo organo,
il quale abbiamo visto in precedenza vede i propri debiti restare rilevanti e
preoccupanti.
Non è una situazione facile da capire e non so se sono stato chiaro nel
riassumere. Il Comitato di Stato aveva il compito di fare cassa. Questo mi
sembra emerga dalla lettura dei file dall'8 al numero 15. Su tutta la serie di
bilanci non mi soffermo e invito alla lettura chi è più esperto in materia di
175

economia. Di sicuro desta meraviglia veder comparire in questa relazione,


penso non pubblica, i bilanci del 2005 e del 2006 della SIR, società che
sarebbe in teoria fallita da tempo, o almeno inglobata in un Consorzio
bancario su cui i giornali hanno scritto più volte; eppure venduta per ben due
volte, all'ENI e alla Montedison.
Bisogna poi fare distinzione tra il bilancio del Comitato e quello del “Nuovo
Consorzio”. In quest'ultimo emerge con chiarezza che al 2006 i debiti sono
di 499 milioni e 599mila euro per il trascinarsi di precedenti perdite, e che a
questi vanno aggiunti i 499 milioni e 850mila euro che la Banca Sanpaolo
IMI ha diritto ad avere indietro dal Consorzio per aver vinto la causa nel
2003, costo che il “Nuovo Consorzio” dovrebbe poi chiedere in giudizio
civile alla famiglia Rovelli.
Dunque sottolineo più che altro la strategia di questo Comitato, che ha nel
suo portafoglio oltre alla SIR, con una quota di proprietà che sappiamo
essere del 60%, anche il 95% della REL.

Il Comitato parassita entra in REL

Cos'è la REL? Mi sembra di capire che sia una società pubblica che all'inizio
degli anni ‘80 aveva il compito di gestire e sovvenzionare le industrie
italiane di elettronica, che davano lavoro a circa 12mila dipendenti. La REL,
dice la voce del Comitato nella relazione, non aveva gestito in modo valido
la situazione, avendo acquisito azioni di aziende che non registravano grandi
introiti, e avendo anche erogato prestiti agevolati senza chiedere adeguate
garanzie come copertura. Nel 1993, per la nota necessità di pareggiare le
perdite di SIR, lo stesso Comitato ha deciso quindi di entrare in possesso
della REL; l'obiettivo è solo uno: fare soldi.
Diciamo che quindi il Comitato non sembra agisca nell'interesse dei
lavoratori. Le aziende non si sa, da questa relazione, che fine faranno;
l'importante è che il Comitato porti a casa qualcosa. E così sarà: vengono
chiesti indietro i soldi delle azioni e dei prestiti. Ci sono due società in
difficoltà e sono la Seleco e la Hantarel. In seguito a questa azione ispettiva,
al fine di chiedere indietro i soldi, la Hantarel viene dichiarata fallita dal
tribunale di Firenze e questo impedirà alla REL di riscuotere fino in fondo i
soldi erogati in precedenza. Sulla Seleco, invece, la REL aveva delle azioni
in proprietà. Succede che quindi la REL deve azzerare le perdite in eccesso
rispetto al capitale della Seleco, rinunciando ai suoi crediti.
Si tratta di un fenomeno che avevo notato anche in precedenza, questo. Della
cessione da parte del “Nuovo Consorzio” degli impianti SIR all'ENI nel
176

1982 mi avevano colpito due elementi: il primo è che non entravano nel
Consorzio soldi all'attivo, ma debiti, ben 1000 miliardi di vecchie lire. La
seconda cosa che mi aveva colpito era il modo in cui il Comitato aveva
deciso di coprirli e cioè azzerando i crediti dello Stato nei confronti di ENI.
Anche i debiti di SIR erano spariti con questo sistema. Strano. Il 1984 era il
periodo in cui Craxi tagliava i punti sulla Scala Mobile. Periodo nero, come
il 1992-93, quando la lira rischiava il collasso; in quello stesso periodo la
REL entrava nel Comitato SIR.
Dicevo della Seleco: si evince dal documento che la società messa alle
strette rispetto agli altri crediti che la REL ha nei suoi confronti (36milioni di
euro), non avendo risanato l'azienda con la ricapitalizzazione chiede al
Ministero il beneficio di restituire a breve scadenza il prestito, cosa che
avviene, ma che non evita alla Seleco il fallimento dichiarato dal tribunale di
Pordenone. Ne nascono una serie infinita di cause, dove, vince uno o vince
l'altro, di sicuro vengono spesi soldi per avvocati e perso tempo in procedure
amministrative. Il bilancio finale di queste operazioni sarà positivo, a detta
del presidente del Comitato, ma con quanta fatica, quante aziende fallite (a
differenza della SIR) e con quante cause civili! Non è sicuramente un
Comitato amico del rilancio industriale e del futuro del mondo del lavoro.
Questo Comitato fa bene i suoi interessi.

La scatola vuota di MEI s.r.l.

Tant'è che l'altra operazione, ovvero l'acquisto di partecipazioni in MEI s.r.l.,


al 49%, per avere il 22,9% di STMicroelectronics, è di ben altro profilo.
L'esborso è di soli 206milioni di euro, l'utile dichiarato di oltre 6.400 milioni
di euro. Una cosa spaventosa. Un affare mostruoso. Qui io mi perdo. Ma un
po' tutti si perderebbero perché è un'operazione che, siamo nel 1999, porta a
un giro vorticoso di acquisizioni e vendite tra lo Stato, la MEI e
Finmeccanica. Lo Stato ha ora il 49% di MEI perché per via di un Decreto
Legge il Comitato ha potuto girare al Tesoro, a costo zero, questo utile in
partecipazioni statali42. Riceve, pare, anche questi 6.400 milioni di euro,

42
Il Ministero delle Partecipazioni Statali secondo Wikipedia fu istituito in Italia nel 1956 e
soppresso, con referendum abrogativo, nel 1993. Dell’abolizione di questo importante Ministero
si parlava già il primo ottobre 1991 con l’approvazione di un Decreto Legge voluto dall’allora
Ministro del Tesoro, Guido Carli. L’ipotesi che veniva formulata era che a gestire tutte le
imprese pubbliche e private sarebbero stati il Ministero dell’Industria e forse anche quello del
Bilancio, con l’obiettivo di trasformare le aziende pubbliche in s.p.a. Cfr: “Carli: via le
partecipazioni statali”, La Stampa, 1 ottobre 1991.
177

anche perché l'utile di STMicroelecronics, la società controllata come in una


bambola russa da MEI è enorme, 411 miliardi di dollari, fonte L'Unità di
quell'anno, sempre il 199943. Ma subito avviene una nuova fusione: MEI
viene inglobata in un'azienda, Finmeccanica, dove lo Stato è presente con
l'IRI, altro ente pubblico, e dove i debiti sono stati in precedenza altissimi.
Lo scopo è di dare ossigeno a questa azienda girandole circa 2.700 miliardi
di vecchie lire. Viene poi programmata, con conti risanati, la privatizzazione
di Finmeccanica, con altro giro di soldi questa volta per lo Stato in entrata.
Dal canto suo STMicroelecrtonics, che programmava nel 1999 aperture a
Catania, nel 2005 ha cambiato radicalmente strategia e ha deciso di emigrare
in Asia. Risultato: 1200 lavoratori devono essere licenziati su due piedi44.
Ma l'elemento sconvolgente non è solo la STMicroelectronics, bensì anche il
suo contenitore: la MEI s.r.l., quella di cui lo Stato deteneva il 49%. Ebbene,
cercando nell'archivio dei giornali notizie di questa ditta si finisce alla
periferia di Roma, a Tor di Quinto. Nel 1990 la MEI s.r.l. era un capannone
dove pare non lavorasse più nessuno e spesso era abbandonato, rifugio di
sbandati, drogati, omosessuali. In quel periodo il corpo di una donna venne
trovato in un freezer all'interno dell'azienda. La poveretta era una colf di
Capoverde che prima di essere uccisa era stata anche torturata in modo
terrificante. La MEI s.r.l. in un titolo divenne: “il capanno degli orrori”45. A
dare l'allarme erano stati i titolari della stessa MEI s.r.l. su cui gli
investigatori indagarono perché ritenevano che sapessero di più. Venne a
galla che l'omicidio aveva a che fare con il mondo della prostituzione e in
carcere ci finì tale Augusto Vera Cruz, condannato a 25 anni46. Ma si parlò
anche di satanismo. Se la MEI s.r.l. è questa, non c'è da stare allegri sugli
affari del Comitato. Tuttavia va precisato che oggi le omonimie tra le s.r.l.
sono possibili, soprattutto tra ditte di città diverse. Queste piccole aziende in
genere cercano una denominazione originale, ma non sempre ci riescono47.

43
Cfr: “StMicroelectronics, chip vincente”, L’Unità, 27 gennaio 1999.
44
Cfr: “StMicroelectronics conferma 1.200 esuberi”, L’Unità, 7 ottobre 2005.
45
Cfr: “Per vendetta, un delitto satanico”, La Stampa, 3 agosto 1990 e “Seviziata e uccisa nel
capanno degli orrori”, L’Unità, 2 agosto 1990.
46
Cfr: “Condannato a 25 anni Augusto Vera Cruz, fu lui ad uccidere la capoverdiana”, L’Unità,
8 giugno 1991.
47
Di MEI s.r.l. su infoimprese.it nel 2013 ne esistono in realtà non moltissime. A volte un
trattino in più o in meno fa la differenza. Con la scrittura che troviamo sul documento
compaiono cinque aziende, di cui una a Verbania (elaborazione dati contabili e date paghe), una
a Nuoro (commercio al minuto di materiali da costruzione), una a Bergamo (progettazione di
robot industriali) e due a Roma, delle quali una commercia in materiali elettronici e televisori,
un’altra senza una attività dichiarata. Purtroppo non sappiamo quale era la situazione negli anni
178

Non c'è nessuna certezza che questa ditta MEI di Roma possa essere il
contenitore vuoto dello Stato, poi inglobato in Finmeccanica. E' solo un
sospetto.
E poi c'è questa STMicroelectronics. Dagli articoli di quegli anni, come del
periodo successivo, emergerebbe come una ditta leader nella produzione di
hardware del computer o della telefonia. Ho fatto una prova andando su
Ebay, il sito di aste più diffuso al mondo. Ho cercato le sue concorrenti nella
produzione di processori: la Intel dà 25mila risultati, la AMD, 13mila, la
STMicroelectronics, solo 7. I prezzi, per la complessità di questi
microprocessori arm-based, sono ridicoli: circa 4 dollari l'uno. Infatti alcuni
prodotti di STM sono di uso militare come il Military 32K X 8 CMOS
EPROM48. E' un indizio forte che qualcosa non va, come per la MEI s.r.l.
Ultimo capitolo sono le tasse. La relazione allega una serie di interrogazioni
alla Camera effettuate nel 1999 in cui il deputato della Lega Nord, Giancarlo
Giorgetti49 aveva mostrato un buon udito. Già dal Senato erano arrivati
segnali che bisognava far presto. Dal senatore Morando era partita una
richiesta di annullamento di una legge. Questa richiesta era stata letta in gran
fretta, nessuno l'aveva capita, ed era stata quindi approvata. Vi si chiedeva di
annullare la chiusura del Comitato e nominare un Commissario Straordinario.
Il Comitato, insomma, doveva andare avanti senza ostacoli. La richiesta e la
legge venivano annullati. Tocca ora al documento sulla Camera dei Deputati.
Qui l'onorevole Giorgetti, dicevo, aveva fiutato che si stava realizzando una
furbata, ovvero si chiedeva che il Ministero e il Comitato potessero
accordarsi autonomamente sulle tasse da pagare. Per Giorgetti l'intento era
quello di annullare queste entrate nelle casse dello Stato dall'altra
fantomatica entità che è il Comitato. Giorgetti ovviamente non fu ascoltato.
Stiamo parlando insomma di una holding dei fallimenti con un unico grande
affare, quello messo a segno nel 1999 con l'incasso di 6.400 milioni di euro
derivanti dalla vendita della quota che la MEI s.r.l. deteneva della

‘90.
48
L’informazione è tratta da un documento tecnico in lingua inglese che ho scaricato dal web.
Si parla di parametri militari con cui sarebbero costruiti questi chip, ma mi è capitato di leggere
qualcosa, riguardo alla STM, anche a proposito di prodotti elettro-medicali.
49
Giancarlo Giorgetti è un parlamentare della Camera dei Deputati dal 1996 ed è sempre stato
votato con la Lega Nord Padania. Tra le curiosità che Wikipedia ci ricorda c’è la storia che
Giorgetti avrebbe rifiutato una tangente da 100 mila euro propostagli dal banchiere Gianpiero
Fiorani, al quale avrebbe risposto di darli al Varese Calcio per farlo iscrivere alla Serie C2. Dal
30 marzo 2013 è stato nominato membro del gruppo di lavoro per le proposte programmatiche
in materia economica e sociale.
179

STMicroelectronics. Introiti che con un Decreto Legge vennero girati dal


Comitato al Tesoro. Questo emerge anche dalla lettura dell'ultima parte del
documento riservato che è stato pubblicato, almeno in parte, su Google.
Premesso quindi che vengono esposti nei file dal 15 al 29 i bilanci consuntivi
del Comitato, della SIR finanziaria, e del “Nuovo Consorzio”, anche per
l'anno 2007, e che novità in tal senso non ce ne sono visto che restano i
debiti del Consorzio, resta l'attivo della REL, aumenta da 5 a 8 milioni
l'attivo del Comitato, e non emergono altri passaggi di denaro dalla MEI
s.r.l., ritengo opportuno porre l'accento sul riassunto delle vicende di questa
stessa MEI s.r.l. Dettagli che nel file numero 25 emergono attraverso un
racconto minuzioso. Mi pare inoltre interessante una raccomandata inviata
dal Comitato al Ministero del Tesoro il 26 maggio 1999, su cui tornerò dopo.
Dice il file numero 25 che l'investimento nella STMicroelectronics “è stato
effettuato nel mese di marzo 1993 dal Comitato tramite la MEI s.r.l., della
quale acquisì il 49,9% del capitale al costo di 206,6 milioni di euro. La
residua quota di maggioranza della MEI, pari al 50,1% era di proprietà
dell'IRI che, come detto, era da tempo presente, anche con sue controllate,
nella STMicroelectronics. In questa MEI esercitava i diritti della
maggioranza insieme alla corrispondente società di parte francese. Entrato
nella compagine azionaria, il Comitato, dopo aver collaborato alla
ristrutturazione della società, ne patrocinò, insieme a Finmeccanica-IRI, lo
sviluppo e la quotazione in borsa.” Ovviamente la voce del Comitato in
questa relazione sta parlando di STMicroelectronics, poiché la MEI s.r.l.,
come specificò in quei giorni La Stampa in un articolo, altro non era che un
contenitore; pieno di soldi, ma privo, forse, di attività imprenditoriali50. Da
quel momento la MEI s.r.l., società a relazioni limitate, che ha acquisito la
maggioranza di STM realizza una serie di introiti milionari dai dividendi
proprio di questa STM, il cui andamento ha del miracoloso. Dal 1992
secondo un grafico del documento, la STM effettua ricavi in crescendo a
partire da 1.568, fino ai 5.056 milioni di euro del 1999. Il patrimonio
societario? Risulta salito da 413 a 4.564 milioni di euro.
La storia a questo punto la conosciamo: la MEI finisce per essere girata dal
Comitato allo Stato nel 1999. E quindi inglobata in Finmeccanica. I soldi
della STM, una volta vendute dalla MEI le sue quote, vengono girati insieme
alla MEI allo Stato: ben 6.404,6 milioni di euro, di cui 253,3 milioni di euro
derivanti dai dividendi della MEI del 1998, 6.151,3 milioni di euro da “altre
attività agevolmente liquidabili a valori di borsa”.

50
Cfr: “Finmeccanica incorpora la Mei”, La Stampa, 24 settembre 1999.
180

La raccomandata del 26 maggio 1999 chiarisce ben poco, anzi complica il


calcolo: viene scritto, dal Comitato al Ministero del Tesoro, che gli utili della
MEI s.r.l. nel 1998 ammontano a 1.033 miliardi di vecchie lire di cui 982
miliardi sono derivanti dalla vendita delle azioni STMicroelectronics. Allo
Stato – prosegue la nota – vengono invece girati da parte del Comitato ben
5mila miliardi di vecchie lire, molto più dei circa mille miliardi dell'utile
della MEI. Insomma, una moltiplicazione dei pani e dei pesci miracolosa in
mezzo a un mare di fallimenti. E intanto dal 1999 al 2008 sono passate
alcune legislature, da Prodi a Berlusconi. Resta quindi il grosso mistero: chi
è il regista di questo giro d'affari poco chiaro che segue come un'ombra le
vicende politiche e giudiziarie del Cavaliere Berlusconi, di Previti, della
battaglia IMI-SIR e intanto continua a gestire il patrimonio societario
fallimentare di un privato che andava forse condannato nel 1979?
181

11

IL LIBRO DIMENTICATO

Il primo novembre del 1944 il re Umberto di Savoia promulgava il Decreto


Legislativo Luogotenenziale numero 367 che stabiliva un'agevolazione da
parte dello Stato nei confronti delle piccole e medie imprese. I loro progetti
sarebbero stati finanziati dall'Imi, Istituto Mobiliare Italiano, e il tasso di
interessi in parte coperto proprio dallo stesso Stato, fino al 3%. Tuttavia,
secondo un libro-denuncia uscito nel 1974 scritto da Diego Monteplana, la
maggior parte di questi fondi sarebbe finita con la complicità del presidente
dell'Imi Stefano Siglienti nelle tasche di un solo imprenditore privato:
Angelo Rovelli detto "Nino", nato a Solbiate Olona e vissuto in Brianza.
Questi divenne famoso per aver rilevato nel 1948 la Società Italiana Resine e
averla portata alla metà degli anni '70 al terzo posto tra le grandi industrie
del settore chimico, dopo le due aziende di Stato, Montedison e Eni. Ma
questa scalata è stata agevolata, secondo i dati riportati nel testo intitolato
"Nino Rovelli, Il Malaffare", soprattutto dai finanziamenti a fondo perduto
rubati da Rovelli con degli stratagemmi, il più importante dei quali fu di
suddividere in 50 aziende, tutte analizzate e citate nel libro, la produzione
del Petrolchimico della Sir a Porto Torres. Secondo Monteplana ciò fu utile
solo a moltiplicare i fondi di Stato erogati dall'Imi, dalla Cassa per il
Mezzogiorno e dalla Regione Sardegna che ammonterebbero a ben 500
miliardi di vecchie lire, mentre in realtà le 50 aziende non avrebbero potuto
contare sull'autonomia di produzione prevista dalla legge. Rovelli si mosse
anche in altre direzioni aprendo e chiudendo piccole società immobiliari con
cui speculava in vario modo. Tra i suoi collaboratori che figurano come
dirigenti fissi delle centinaia di ditte satelliti del gruppo Sir i più importanti
erano, Blasco Morvillo, solo omonimo, sembra, della moglie di Falcone,
Oscar Zuccolotto e Renzo Edefonti. Determinanti anche i commercialisti e le
loro peripezie per mascherare i conti, con in testa Paride Prearo. Questo libro
non fa che confermare l'importanza di Rovelli e l'attualità del suo sistema se
è vero che un documento online dimostra che lo Stato stava ancora gestendo
nel 2009 la chiusura di questi traffici illeciti.

Il libro dimenticato che condanna “il malaffare” di Nino Rovelli

Il primo novembre 1944 il re Umberto di Savoia promulgava il decreto


182

legislativo luogotenenziale n. 367 che stabiliva "provvidenze per agevolare il


riassetto della vita civile e la ripresa economica della nazione". Nella legge
era stabilito che lo Stato si accollava fino al 3% degli interessi sui prestiti
statali che l'IMI avrebbe erogato alle imprese medio-piccole del paese. A
capo di questo IMI alla fine della guerra c’era un uomo che si chiamava
Stefano Siglienti, la cui foto ancora oggi è presente sul sito online dell’IMI,
che adesso come sappiamo è una banca privata. Siglienti aveva un doppio
ruolo, perché era pure Ministro delle Finanze51.
Già un provvedimento preso durante la guerra e per giunta dal re desta dei
sospetti, se poi si va a leggere che questa legge venne applicata anche negli
anni ’60 e per giunta a favore di un solo uomo c’è di che preoccuparsi.
Quest’uomo naturalmente si chiamava Angelo Rovelli detto “Nino”. Su di
lui l’IMI, che per Rovelli fece diverse eccezioni, iniziò così a convogliare
sin dagli anni ’50 un fiume di denaro; verso la sua SIR e i suoi progetti di
rilancio. I soldi naturalmente erano quelli dei contribuenti, ma nei primi
tempi c’era dell’altro. Ad esempio soldi del Piano Marshall52, che non
torneranno più indietro, perché Rovelli poneva come garanzia sempre gli
stessi terreni e immobili, moltiplicando le sue ditte controllate al fine solo di
moltiplicare i prestiti.
Tutto questo lo si apprende leggendo uno dei libri più rari d’Italia, “Nino
Rovelli, il malaffare”53, ancor più raro se si pensa al fatto che è stato finito di
scrivere tra il 1974 e il 1975. Quindi il libro sarebbe un mistero nel mistero,
ma è sicuramente attendibile sia per la qualità stilistica dell’autore, Diego
Monteplana, sia per la precisione oserei dire certosina di questo giornalista o
scrittore; una persona che si è messa alla ricerca di tutte le informazioni
possibili e immaginabili sui movimenti non tanto bancari, ovviamente,
perché non si può, ma immobiliari e fiscali del protagonista, questo Nino
Rovelli nativo di Solbiate Olona, nella zona di Varese. Ne emerge un
panorama finanziario sconosciuto e incredibile. Un antefatto di Tangentopoli,
lo potremmo definire, in quanto Nino Rovelli viene definito un socialista che
in sostanza si faceva i fatti suoi, che chiedeva aiuto alla politica e intascava
soldi dallo Stato tramite l’IMI. Monteplana più volte torna sul concetto che

51
Stefano Siglienti era nato nel 1898 a Sassari. E’ stato un anti-fascista sardo, poi Ministro
delle Finanze nel governo Bonomi ed è morto nel 1971 (Wikipedia).
52
Il Piano Marshall fu uno dei piani politico-economici statunitensi per la ricostruzione
dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’Italia ricevette in totale, tra il 1948 e il 1951,
1.204 milioni di dollari (Wikipedia).
53
Il titolo completo è “Nino Rovelli, il malaffare: una storia di gatti e di volpi raccontata da
Diego Monteplana”, editore Everest, Milano 1974.
183

Rovelli senza i fondi statali avrebbe continuato a produrre caldaie come


faceva in tempo di guerra nel 1945, oppure a divertirsi costruendo modellini
di automobili.
Dal 1944 si crea a questo punto un tunnel oscuro di fatti a noi poco noti che
arriva fino al 2009 e forse oltre. Lo Stato erogò a Rovelli i fondi per far
decollare le numerosissime aziende aperte dal 1948 in poi, anno in cui
l’uomo di Solbiate entrò nella SIR (Società Italiana Resine), poi quando
l’ascesa si arrestò per le inchieste giudiziarie intervenne lo Stato che salvò
dal fallimento la SIR e dette vita a un Comitato d’affari che assunse la
maggioranza del Consorzio (di qui la mia definizione di Consorzio di Stato),
un Consorzio per il salvataggio della SIR noto oggi con il nome di
Consorzio Interbancario (risultano dentro, nei documenti online, anche la
Banca Popolare di Novara e la Banca di Intra, le quali sono un punto di
riferimento importante per chi vive nel novarese e Verbano Cusio Ossola);
direi, ancora, un Consorzio che, oltre a vendere le società del gruppo Rovelli,
avrebbe lucrato sui fallimenti delle società di tecnologia della REL e preso
soldi da una fantomatica ditta di Microelettronica.
Ma questa è storia recente e Monteplana non può arrivarci. Anzi è
incredibile che nel 1974 avesse già ben chiara la situazione della Società
Italiana Resine, della quale ripercorre la storia che parte nel lontano 1931
con ben altri proprietari e arriva al 1974, dopo aver fatto un grande salto di
qualità con l’ingresso del solbiatese. Direi che è una storia italiana, ma
soprattutto milanese. Di Rovelli Monteplana segue come un investigatore,
un segugio infaticabile, ogni movimento, dalla nascita nel varesotto, alla sua
vita nella Brianza, agli spostamenti dei suoi uomini fidati nel centro di
Milano, all’incoronazione di Rovelli quale re dell’industria privata degli
idrocarburi, al terzo posto dopo le aziende di Stato allora note, la
Montedison e l’ENI.
Nel 1974 le inchieste erano ancora lontane per Rovelli, il quale verrà
accusato ufficialmente solo intorno al 1977. Al momento della stesura del
suo libro, Monteplana sui quotidiani aveva potuto leggere i già citati sospetti
della presunta frode ai danni della Vallesusa, la quale sarebbe fallita per
mancati introiti dall’IMI, introiti che invece andavano regolarmente a
Rovelli (e il libro conferma questa ipotesi formulata in giudizio
dall’avvocato Lener), e aveva letto dei sospetti lanciati da L’Unità di come
gli affari della SIR venissero condotti in Sardegna da parte di Rovelli e di
Moratti senza i risultati promessi.
Con il libro abbiamo invece una vera e propria bibbia. Lo definirei, ecco: un
almanacco delle truffe di Rovelli, stagione per stagione. Ci sono dati, nomi,
184

giorni della stipula dei contratti, nomi dei notai, cifre, tasse pagate e tasse
non pagate. E’ un’indagine, ripeto, davvero incredibile, che non può essere
sfuggita ai magistrati che anni più tardi incriminarono Rovelli per aver
occultato oltre 1000 miliardi dell’IMI con la sua SIR.
I conti alla fine tornerebbero e questi soldi presi da Rovelli allo Stato
sarebbero una specie di viaggio di andata del fiume di denaro che poi, con la
SIR inglobata nel 1988 nella Montedison, i dirigenti di quest’ultima ditta in
via di privatizzazione girarono sotto forma di maxi-tangente Enimont al
Partito Socialista. Se non sono gli stessi soldi, poco ci manca.

Tutte le truffe di Rovelli

La storia delle truffe iniziò con i prestiti dai fondi americani del Piano
Marshall, stimabili sui 40mila dollari di allora, e proseguì con altri fondi
prelevati dalle casse dell’IMI con modalità diverse, a fondo perduto o con
interessi agevolati e in parte coperti dalla citata legge del Re Umberto di
Savoia, che continuò a far danni anche dopo la sua cacciata dall’Italia.
La parte più consistente di questo denaro arrivò con il piano per la
realizzazione di impianti per creare il colosso del petrolchimico a Porto
Torres, in Sardegna. Rovelli riuscì nel disegno di creare 50 aziende, se non
di più, che non erano autonome e capaci di produrre ognuna dei prodotti,
come chiedeva la legge sui finanziamenti pubblici, ma erano solo una
piccola porzione del grande colosso della SIR. Eppure Rovelli, nonostante
fosse stato citato in tribunale, riuscì a far prevalere la bontà del suo progetto
e a ricevere ben 500 miliardi di vecchie lire. Si potrebbe fare un conto esatto
dei soldi che l’IMI con Siglienti ha regalato gentilmente a Nino Rovelli per
creare il suo impero, ma lascio l’incombenza a chi vorrà perseguire
penalmente questi fatti, se è ancora lecito.
Il mio intento qui è di sottolineare quanto sia attuale questo libro e questo
problema, se è vero che lo Stato, quasi consapevole dell’iniquità dei
finanziamenti pubblici erogati, poi corse ad aiutare questo imprenditore
privato che alla fine degli anni ’70 riuscì ad entrare, con una piccola
percentuale, nell’azienda di Stato della Montedison. Si trattò, e questo
Monteplana lo sottolinea bene, di un aiuto ingiustificato a un ingegnere che
nulla aveva più di tanti altri imprenditori privati, se non il fatto di
distinguersi per essere non tanto un manager, bensì un padrone. Un uomo
solo capace di gestire un immane traffico legale e illegale di soldi e di
prodotti di vario genere.
Rovelli si interessò nella sua vita un po’ a tutti i prodotti, anche ai dadi del
185

brodo e al settore delle aspirine. Tentò di far soldi dove ne vedeva


l’opportunità, e il suo metodo era quello di acquisire più ditte possibile
mettendo alle strette, con la pretesa di crediti immediati, i proprietari ai quali
voleva espropriare beni immobili e le stesse ditte. E’ il caso delle ditte Saci e
Salcim, dalle quali Rovelli farà nascere il business dei lucidi delle scarpe.
Con i dadi gli andò meno bene e il vero successo il solbiatese lo raggiungerà
solo con l’imponenza (ma meno sul campo dei risultati, visto che per
Monteplana quella era ancora attualità) del petrolchimico di Porto Torres.
La Società Italiana Resine si è gonfiata con i finanziamenti pubblici a
pioggia e con un sistema di garanzie, come detto, fittizie, visto che i terreni e
gli immobili con cui si copriva le spalle presso Siglienti erano sempre gli
stessi, ma l’IMI chiudeva sempre tutti e due gli occhi. Rovelli ha pertanto
dato lavoro a 8000 persone, ma per Monteplana questo non è un vanto ma la
vera truffa. Con quei 500 miliardi di vecchie lire più i dollari e le decine di
milioni erogati negli anni ’50, lo Stato avrebbe potuto creare molto più
benessere, posti di lavoro più numerosi, nonché avrebbe accontentato più
imprenditori aventi diritto. Un altro concetto del libro è che Rovelli era un
imprenditore privato, pertanto gli utili derivanti da quei finanziamenti non
sarebbero mai finiti nelle casse statali, come invece sarebbe avvenuto con la
Montedison e l’ENI.
C’è inoltre il sottobosco di aziende, estranee al colosso della SIR, che
Rovelli apriva e chiudeva muovendo come pedine i propri uomini fidati e
corrotti: Blasco Morvillo (che non sembra essere parente della giudice
moglie di Falcone), Renzo Edefonti, Oscar Zuccolotto, Patrizio Rovelli (il
fratello), Felice Rovelli (il padre), Primarosa Battistella (la moglie) Teodoro
Oriundi Paleologo, Mario Pedrotti, Emilio Papasogli, Giovanni Winteler,
Enrico Tetaz, Alberto Beretta, Armando Valsecchi, Roberto Tonella,
Giuseppe Trani, Benedetto Calcagno, Gino Ziviani, Nicola Carlo Wagner.
Sono nomi che ai più giovani come me non dicono nulla, che forse non sono
mai stati indagati ma che si sono mossi, secondo il giudizio e le prove
numeriche messe nel libro del Monteplana, in un sistema illegale.
Il canovaccio era sempre lo stesso, e questo vale soprattutto per le
innumerevoli piccole aziende immobiliari in cui quella nomenclatura
risultava sempre, in un giro vorticoso di sostituzioni, l’unica presenza
nell’organigramma societario; una sorta di ubiquità molto sospetta. Questo
iter prevedeva l’apertura della ditta con 100mila lire, e poi una enorme
ricapitalizzazione dopo pochi anni, a fronte di attività, a volte molto
frenetiche di acquisto e cessione di terreni e immobili per speculare, ma a
volte anche inesistenti. Per fare questo Rovelli disponeva anche di una serie
186

di commercialisti pronti a tutto pur di servire il loro padrone. Il primo storico


commercialista si chiamava Paride Prearo, ma a un certo punto morì e fu
sostituito con molta fatica da altri piccoli eroi di questo libro di Monteplana,
in un elenco dai quali non vanno esclusi i procuratori Rossi, Radrizzani, e
Volpi, donne non di secondo piano del gruppo SIR.
Questi commercialisti crearono, come dice l’autore, “una frenesia
ininterrotta di società immobiliari costruite” e “un intreccio complesso di
affari e di trovate ingegnose, per mascherarli; stesure copiose di verbali
d’assemblee mai convocate, intese a deliberare fusioni, cambi di
denominazioni, nuovi oggetti sociali; quintali d’atti amministrativi, pratiche
burocratiche, bilanci addomesticati ad uso dei soliti idioti del fisco; centinaia
di cartelle classificate con ordine negli scaffali a segnare l’espansione a
macchia d’olio del reame Rovelli”.
Tra le gravi colpevolezze del sistema secondo l’autore ci sono anche le tasse
non pagate al fisco o sottopagate. La legge tributaria di allora prevedeva
ancora l’iscrizione ai ruoli nei comuni per il pagamento dell’imposta di
famiglia, alla vigilia, dice Monteplana, di un cambiamento epocale con il
1974 e l’inglobamento della stessa imposta in altre tasse nazionali. Grazie
alla possibilità per il contribuente di controllare i redditi e i pagamenti dei
cittadini, Monteplana visionò, riportandoli nel libro, tutti i dati delle
dichiarazioni dei redditi di Rovelli e dei suoi fidati amici all’inizio degli
anni ’70, gridando allo scandalo per i regali che il fisco faceva a questo
padrone dell’industria privata, non fossero bastati i finanziamenti a fondo
perduto e agevolato da parte del Re e dello Stato alla SIR.54

Il parallelo con Sindona

Tra le cose che Monteplana non poteva sapere c’è anche la fine che avrebbe
fatto Michele Sindona con la sua Banca Privata Italiana. La bravura di
questo autore è stata quella di riuscire a prevedere anche il malaffare di
quest’ultimo paragonandolo, pensate un po’, proprio all’operato di Rovelli55.

54
Un sistema molto simile venne descritto nel libro del fantomatico autore Giorgio Steimetz,
“Questo è Cefis, l’altra faccia dell’onorato presidente”, pubblicato nel 1972 e poi censurato. Il
protagonista di un giro d’affari illegale era in quel caso il presidente della concorrente pubblica
della Sir nell’industria petrolifera, l’Eni. Questi, Eugenio Cefis, un imprenditore vicino ai
servizi segreti di Miceli, aveva creato delle società private per lucrare illecitamente sul suo
ruolo di imprenditore del settore pubblico.
55
Michele Sindona è stato un banchiere corrotto, iscritto alla Loggia P2 e associato a Cosa
Nostra, specie alla famiglia statunitense dei Gambino. Mandante dell’omicidio Ambrosoli dopo
187

Di materiale per un’inchiesta ce n’era abbastanza, eppure questo libro è una


specie di Gronchi Rosa, come forse si aspettava proprio Monteplana mentre
scriveva le ultime righe e temeva l’oblio per la sua ricerca. Peccato, perché
Rovelli, una volta uscito indenne dal processo della fine degli anni ’70, aprì
una nuova era con la proprietà della Banca Rasini, proprio dopo che
quest’ultima era finita nell’occhio del ciclone nel 1983 per degli arresti
legati alla Mafia.
Una storia, quindi, che si incrocia con quella di Berlusconi ma sembra non
seguirla. Qui la politica fa da spettatrice e l’edilizia milanese dell’altro
Cavaliere per antonomasia (anche Rovelli fu nominato Cavaliere del Lavoro)
non ha molto a che fare con l’Edilnord, di cui tanto ha scritto in un libro
famoso il giornalista Ruggeri. Mentre Rovelli ascende al ruolo di leader
dell’industria, il socialismo a cui si appella il magnate di Solbiate Olona non
viene minimamente applicato nella gestione degli affari di famiglia. E’ solo
una questione di leggi che Rovelli vuole ottenere per usarle a proprio
piacimento finché è possibile, spingendosi anche oltre con grande alterigia.
Usa leggi e fondi che non sono privati ma dei cittadini, e questa è la grande
denuncia di Monteplana in molte parti del testo. Ci sono, dentro la SIR, i
soldi dell’Export-Import Bank di Washington, che passarono a Rovelli negli
anni ’50 tramite l’IMI e le trattative del Ministero del Tesoro Italiano con gli
Usa. Ma il padrone di Solbiate Olona prenderà molti soldi anche dalla Cassa
per il Mezzogiorno e dalla Regione Sardegna quando si troverà tra le mani
l’occasione di entrare nel settore primario della chimica italiana.
Sono tutti fondi, ripetiamo, pubblici, dei cittadini, a cui Rovelli ha rubato
tanto e dato molto poco, visto come sono poi andate le cose all’inizio degli
anni ’80 e le dismissioni gestite dal Consorzio di Stato. Per sé l’uomo di
Solbiate Olona si è tenuto, oltre alle ville della Brianza e del Varesotto, un
tre percento circa dell’isola di Capri, che tra terreni e ville acquistati con le
solite società immobiliari create ad hoc costituiscono il segno del passaggio
di un vero imperatore in Italia. Un Napoleone dell’industria privata italiana,
il cui cammino solo la morte nel 1990 ha potuto fermare definitivamente,
lasciando agli eredi la gestione delle beghe giudiziarie che ben conosciamo.

Il triangolo Rovelli-Savoia-Svizzera

Nino Rovelli aveva costruito un impero finanziario parallelo in Svizzera,

il fallimento della sua banca, è morto avvelenato in prigione il 22 marzo del 1986 mentre
scontava l’ergastolo. (Wikipedia).
188

non solo a Lugano ma anche a Ginevra. La notizia era uscita in Italia nel
1987, sul periodico Il Mondo, ed era rimbalzata rapidamente oltralpe.
Rovelli controllava sia la Banca Commerciale di Lugano, sia la Worms e la
Atlantis di Ginevra. La novità è che da questo indizio è stato possibile
scoprire, andando a scavare nell'emeroteca di Lugano, un intreccio che da
Rovelli porta fino al principe Vittorio Emanuele di Savoia. Il fulcro degli
affari di Rovelli sarebbe proprio la Banca Commerciale di Lugano, quella
che viene citata nel documento del parlamento italiano sul Consorzio
interbancario per il salvataggio della SIR, il quale ha operato nell'ombra
almeno fino al 2009. Nata nel 1963, la Banca Commerciale di Lugano
secondo un articolo dell'11 maggio 1984 uscito sul Corriere del Ticino fu
controllata fin da quel primo periodo da Nino Rovelli, ed ebbe in Vittorio
Emanuele di Savoia un finanziatore e collaboratore d'eccezione. Il principe
avrebbe lavorato alla BCL negli anni '60 come esperto di borsa. La storia di
questo gruppo entrò nelle cronache italiane verso la metà degli anni '80,
quando la Banca Commerciale di Lugano acquistò (nel 1984) la
maggioranza delle azioni della Banca Rasini, un istituto bancario su cui la
magistratura italiana aveva indagato nel 1983 per il sospetto che al suo
interno si nascondessero i soldi e i traffici della mafia; quella dei "Colletti
Bianchi" di Milano, facente capo tra gli altri anche a Vittorio Mangano,
amico di Marcello Dell'Utri e stalliere di casa Berlusconi. In quell'articolo
dell'11 maggio 1984, il Corriere del Ticino dava con ampio risalto la notizia
di questo sodalizio sospetto. Vennero fuori anche in Canton Ticino il buco di
Rovelli alla SIR e il collegamento con la casa reale dei Savoia. Nessuno però
immaginava che quella piccola banca milanese inglobata nella holding
svizzera di Rovelli fosse anche il datore di lavoro del padre del futuro
presidente del consiglio italiano. Altri dettagli emersero su L'Unità il 19
agosto del 1986, e l'anno dopo uscirono anche in Svizzera sul "Giornale del
Popolo": si seppe che la Rasini era la banca che aveva permesso alla
Montedison di scalare la Fondiaria Sai. Al timone di Foro Buonaparte in
quel momento c'era uno tra i migliori manager dello Stato italiano, Mario
Schimberni. La magistratura del nostro paese un occhio su questi soldi che
prendevano la strada della Svizzera li aveva buttati, in quel periodo. L'11
agosto del 1987, La Stampa pubblicò la notizia secondo cui c'erano sospetti
che la scalata alla Bi-Invest della Montedison fosse stata effettuata con fondi
neri depositati in Svizzera. Ma fu solo con le inchieste del 1996 che la storia
dei soldi sporchi della Rasini finì di prepotenza nel tritacarne giudiziario. Il
pm Piercamillo Davigo aveva appena concluso un'indagine per delle
mazzette date a dei pubblici ufficiali con lo scopo di aggirare le tasse italiane.
189

Tra i nomi di quegli indagati, secondo il resoconto del Corriere della Sera
del 6 febbraio 1996, c'erano Nello Celio, ticinese della BCL che era divenuto
presidente della Banca Rasini ed era deceduto da poco, e tanti nomi più noti
come Rusconi dell'omonima casa editrice, Rignano della casa discografica
Ricordi, nonché Mario Cal, vicedirettore del San Raffaele di Milano, morto
misteriosamente suicida nel 2011; nomi che creavano un filone d'inchiesta
capace di unire Nino Rovelli, la casa reale dei Savoia e la famiglia
Berlusconi (il cavaliere è stato socio d'affari del direttore del San Raffaele
don Verzè). Un percorso parallelo che, visto il caos politico attuale nel
centro-destra, desta non poca preoccupazione.

La via parallela che porta a De Morpurgo Varzi

Uno degli azionisti di maggioranza della Banca Commerciale di Lugano nei


primi anni '80 era Domenico De Morpurgo Varzi. Fu fatto il suo nome sui
giornali svizzeri (il Corriere del Ticino) nel momento in cui la BCL si
apprestava ad allargare la sua influenza anche su Zurigo, il 3 ottobre del
1985. Potrebbe aver lavorato al fianco di Rovelli, per poi essere sostituito
dall'industriale solbiatese al vertice del consiglio di amministrazione quando
fu il momento di inglobare la Banca Rasini, nel 1984. De Morpurgo Varzi
non è un nome di Tangentopoli, ma non lascia nemmeno pensare che fosse
estraneo a quell'ambiente occulto, fatto di mazzette e di ricatti. Forse ne era
addirittura il principale avversario. Secondo le rivelazioni dei giornali
italiani dei primi anni '90, lo stesso banchiere svizzero sarebbe il
protagonista di un fatto rimasto senza conseguenze. Stando infatti alle
accuse del finanziere italiano Florio Fiorini, direttore dell'ENI che fu
arrestato a Ginevra nel febbraio del 1993, De Morpurgo Varzi lo avrebbe
ricattato chiedendogli molti soldi, circa 6 miliardi di vecchie lire, per non
rivelare i segreti del "Conto Protezione". Stiamo parlando della vicenda che
porta dritto verso la Loggia P2 di Licio Gelli e quel conto bancario svizzero
le cui tracce furono trovate dai magistrati a casa del "Venerabile". Un fondo
nero segretissimo che avrebbe custodito i soldi del Partito Socialista Italiano.
Craxi cercò di coprire tutta la faccenda, anche perché su quel "Conto
Protezione" aperto all'UBS di Lugano erano stati depositati 7 milioni di
dollari dal banchiere Roberto Calvi, trovato impiccato sotto il ponte dei frati
neri a Londra nel 1982. Ma la copertura ordinata da Bettino Craxi non riuscì.
Fiorini venne arrestato su ordine dei magistrati milanesi tra cui Antonio Di
Pietro. Sotto accusa c'era anche un altro membro dei vertici ENI, il colosso
di Stato della chimica e del petrolio che costituiva il principale nemico di
190

Rovelli, "il piduista" Leonardo Di Donna e con lui venne processato il gotha
del mondo socialista dell'epoca di Craxi. Questo conferma tutti i sospetti
sull'ambiente privato-statale-savoiardo di Rovelli: quel giro di affari ha
seguito una strada parallela a quella dell'Eni-Montedison-P2, ma non meno
pericolosa.
191

12

LO STATO PADRONE

La Montedison finanziava nel 1970 il terrorismo economico e i nostalgici


del ventennio; e lo faceva con dei fondi neri gestiti direttamente dal
presidente Valerio. A riportare la notizia shock è un libro pubblicato nel 1971
da Angiolo Silvio Ori dal titolo: “L’affare Montedison, un giallo all’italiana”.
Questo interessante libro parte dalla storica fusione tra la Montecatini e la
Edison nel 1966: nasceva, grazie anche alle sovvenzioni statali, il colosso
della chimica Montedison. Pochi anni dopo, lo Stato riuscì a centrare un
colpo a sorpresa: comprò tante azioni dell’azienda da riuscire a conquistare
il controllo del sindacato di amministrazione. La Montedison diveniva di
fatto un’azienda di Stato, con Eni e Iri quali maggiori azionisti in assoluto
con il 14% delle azioni. Era il periodo di presidenza di Giorgio Valerio, ex
presidente della Edison e promotore della storica fusione insieme a Giorgio
Macerata, ex schermidore e manager della Montecatini. Valerio si portava
dietro tuttavia anche una storia di fondi neri che non tardò ad emergere. Fu il
suo successore Merzagora a parlarne al consiglio di amministrazione: aveva
trovato tutta una contabilità parallela sia in entrata sia in uscita per circa 17
miliardi di vecchie lire. L’ex senatore decise di formare una commissione
d’inchiesta che però non centrò l’obiettivo di fare chiarezza e lo stesso
accadde alla commissione Campilli. La storia dei Fondi Neri, che secondo il
giornalista Marchetti sarebbero serviti per finanziare il terrorismo
economico e i nostalgici del fascismo, tuttavia non scomparve. Nel 1972
partì per caso un’inchiesta della magistratura che aveva messo le mani sulla
contabilità sospetta della Montedison. I miliardi contestati a Valerio
divennero 50, ma la vera natura di quei finanziamenti non venne confessata
e il 29 aprile del 1980 il tribunale penale di Roma assolse i 29 imputati,
mentre Valerio era da poco deceduto. Secondo quei giudici non era reato
“usare soldi extra-bilancio”. L’andazzo invece riemerse ancora nel 1992-93
con l’inchiesta di Mani Pulite sugli ingenti fondi che il presidente
Montedison Garofano destinò ai partiti politici su volere di Gardini. E questa
volta furono dolori, con Gardini che si suicidò. Si stava scoprendo un tunnel
di denaro che avrebbe portato molto lontano, al 1970, a qualche altra
scoperta sconcertante forse; ma tanto lontano poi, dicono le sentenze, non si
andò.
192

Quei “fondi neri” della Montedison che finanziavano il terrorismo


economico

Quando il pm di Mani Pulite Antonio Di Pietro interrogava Sergio Cusani,


consulente di Ferruzzi e Gardini alla Montedison, avevo appena iniziato la
mia frequentazione dell’Università di Lettere. La sera a casa seguivo tutte le
puntate dei programmi televisivi che trasmettevano le immagini
dell’imputato più famoso d’Italia, quel Cusani appunto, il quale con grande
tranquillità, con il suo sguardo fermo, gli occhiali da intellettuale, la sua
consapevolezza di aver fatto qualcosa di molto grave, raccontava il modo in
cui quella montagna di soldi passava dalla Montedison ai partiti politici. Mi
colpì molto il fatto che Cusani prese nel modo migliore possibile quella
sventura capitatagli, affermando di meritare quella punizione e di andare in
carcere serenamente. Ricordo proprio queste parole di Cusani. Capii, pur
non conoscendo bene quei fatti, che il pm Di Pietro aveva scoperto
veramente qualcosa; e anche gli altri cittadini, protestando in piazza e
lanciando le monetine a Craxi, dimostrarono di approvare quella ventata di
giustizia. Indro Montanelli nel suo libro “L’Italia degli anni di fango”
descrisse Di Pietro come un poliziotto di destra che aveva svolto tanti
mestieri prima di riuscire ad approdare alla magistratura. Scrisse che
quell’ondata di arresti del 1992-1993 era nell’aria, perché di quel clima
politico non se ne poteva proprio più. Tuttavia non infierì su quegli uomini
che si suicidarono, tra cui anche Gardini. Li considerava vittime sacrificali
che potevano essere salvate; un prezzo eccessivo che i cattivi di
Tangentopoli dovettero pagare per le loro malefatte.
Marco Travaglio nel suo libro più recente “La scomparsa dei Fatti” è stato
più drastico del grande giornalista scomparso e ha detto di non accettare
ridimensionamenti per la vicenda di Tangentopoli, fiutando nei processi che
si trascinano stancamente in questi ultimi anni una sorta di “tana libera tutti”:
le inchieste drammatiche di quel periodo, che ricordo come fosse ieri, stanno
oggi diventando una farsa da operetta del teatro Alla Scala di Milano.
Credo che nessuno dei due giornalisti dicesse cose sbagliate. Mi sono andato
a leggere con i moderni mezzi della tecnologia alcuni articoli, e anche un
paio di libri, sulla Montedison a caccia della verità, dopo aver scoperto un
filone aureo di notizie nell’altra azienda italiana del settore della chimica,
comparto così importante in Italia, la SIR. La differenza tra le due aziende
ormai si perde nella fuga recente nel privato di ciò che un tempo era il
settore di intervento pubblico dell’economia. La Montedison era in pratica
un’azienda pubblica, la SIR un’azienda privata a tutti gli effetti.
193

Di cose ne ho scoperte parecchie, ma voglio prima chiarire le premesse ai


fatti che riguardano più direttamente Tangentopoli. L’Italia era nota negli
anni ’70 per essere un paese a economia mista, in quanto lo Stato con le
Partecipazioni Statali tendeva ad occupare spazi sempre più importanti nelle
aziende a capitale privato, di piccoli e grandi azionisti. Si cercava un difficile
equilibrio all’interno delle stesse aziende. Metà allo Stato e metà ai privati.
Sono differenze che oggi sfuggono, sottigliezze che però nel 1970
scatenarono risse terribili nelle assemblee pubbliche della Montedison.
L’economia mista era un ottimo sistema a mio avviso, ma il problema sentito
dall’opinione pubblica e dal mondo culturale alla fine degli anni ’60 era
totalmente inverso a quello attuale. Oggi lo Stato tende a non voler avere più
niente in mano, ieri accadeva l’opposto. Il problema di allora era che lo Stato
non si presentava così generoso, come i privati, quando si trattava di elargire
agli azionisti i dividendi. E per dividendi intendo, come molti sapranno, quei
soldi di interesse che l’azionista deve avere annualmente sul capitale
investito per le singole azioni. L’aggressione del capitale pubblico insomma
era molto temuta e direi osteggiata dai partiti politici estremisti, come l’MSI.

Quella fusione benedetta dallo Stato

Nel 1966 vi era stata una fusione storica tra due aziende tra le più importanti
del paese, in un periodo, come ben sappiamo, di grande boom economico.
L’azienda leader del settore chimico, Montecatini, si univa con la Edison
andando a formare la Montedison. Entrambe erano aziende con un passato
storico alle spalle, avevano attraversato la guerra e la Montecatini aveva
pagato maggiormente l’adesione al fascismo, tanto che il suo anziano
proprietario, Guido Donegani, fu processato nel dopo-guerra dai partigiani e
messo in carcere per un certo periodo. Pare che non si sia mai ripreso da
quella punizione, che riteneva ingiusta, poiché aveva aderito al fascio, sì, ma
solo “per la Montecatini”, per il bene della sua azienda e dei dipendenti,
ripeteva prima di morire alla fine degli anni ’4056. Negli anni successivi la
situazione finanziaria si aggravò e la dirigenza, con a capo ora un ex
campione sportivo di scherma come Giorgio Macerata, provò la strada della
fusione, visti anche gli incentivi statali verso questo tipo di strategia
economica. La Edison fu invece avvantaggiata dalla nazionalizzazione

56
Guido Donegani era nato a Livorno il 26 marzo del 1877 e morì a Bordighera il 16 aprile del
1947 (Wikipedia).
194

dell’energia elettrica57 e nello stesso periodo in cui la Montecatini perdeva


prestigio e denaro, l’azienda diretta da Giorgio Valerio aveva messo da parte
soldi importanti, quelli provenienti dallo Stato, appunto, per via della
nazionalizzazione dell’elettricità, che facevano gola alla Montecatini in vista
di un pareggio di bilancio.
L’idea di Macerata e Valerio fece storia e provocò un entusiasmo effimero58.
Negli anni successivi, mentre la dirigenza della Montedison passava a
Giorgio Valerio, lo Stato varò un’operazione finanziaria che fu considerata
spregiudicata, facendo comprare all’ENI, con i soldi dei contribuenti, una
grande mole di azioni della Montedison che fosse sufficiente per far
diventare lo Stato il maggiore azionista di quella grande azienda.
Quest’ultima veniva amministrata attraverso un sindacato di controllo, in cui
la maggioranza, in pratica, aveva la facoltà di decidere le strategie per l’anno
successivo e determinare anche la nomina del presidente e dei vari dirigenti.
Lo Stato attraverso l’IRI, l’istituto per la ricostruzione industriale, e l’ENI,
l’azienda di Stato della chimica diretta anni prima da Enrico Mattei, nel
1969 aveva raggiunto il suo obiettivo di controllare in modo indiscusso la
Montedison. Fu una manovra fatta sottobanco che non piacque ai maggiori
azionisti privati di allora, Pirelli e Agnelli, i quali appresero contrariati solo
nella prima assemblea del sindacato la riuscita di quell’operazione di
“scalata” dell’ENI. Ma non erano solo i grandi imprenditori privati a
storcere il naso in quel periodo. Nelle assemblee pubbliche volarono le
monetine dei piccoli azionisti verso i dirigenti di Stato, proprio come più di
vent’anni dopo sarebbe successo con Craxi. Non piacque a tal punto che
nacquero dei comitati, dei gruppi per la tutela del patrimonio dei privati
cittadini. Lo Stato che nazionalizzava le aziende faceva paura ai
risparmiatori, i quali pensavano soprattutto ai magri dividendi che sarebbero
potuti arrivare con lo Stato al timone della Montedison.
Questi comitati non sbagliarono le loro nere previsioni. Successe anche di

57
La nazionalizzazione dell’energia elettrica fu realizzata tra il 1962 e il 1963 per volontà
dell’allora governo di centro-sinistra, con lo scopo di evitare le disuguaglianze tariffarie che
andavano a discapito dei cittadini del meridione. Fu creato l’E.N.E.L. (Ente Nazionale per
l’Energia Elettrica) e le aziende, gestrici in precedenza del servizio, furono indennizzate con
parecchi milioni di vecchie lire. Tuttavia tutti concordano nel dire che queste aziende non
seppero investire il flusso di denaro pubblico in nuove iniziative imprenditoriali di successo. Per
maggiori dettagli cfr: “Razza Padrona”, di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani; Feltrinelli,
Milano, 1974.
58
Il processo di fusione fu lento. Iniziò nel 1966, periodo nel quale l’azienda fu denominata
Montecatini Edison s.p.a., e si chiuse nel 1969 quando si passò alla Montedison s.p.a.
195

peggio. I conti della Montedison non migliorarono affatto, ma andarono


verso una crisi da cui l’azienda di Foro Bonaparte si riprese solo per un
breve periodo intorno al 1973-1974 quando alla dirigenza andò Eugenio
Cefis, che era stato il successore di Mattei all’ENI. Giorgio Valerio intorno
al 1970 venne fatto fuori dalla sua carica e da quel periodo l’attenzione nelle
varie assemblee si concentrò sulle nomine dei dirigenti, come spesso è
capitato nella Prima Repubblica. La presenza dello Stato rese preponderante
la lotta per le poltrone, mentre per un certo periodo i dividendi vennero
addirittura sospesi con la scusa che i bilanci non erano a posto. Fu proprio
questo l’altro nodo da sciogliere con la cacciata di Valerio dalla carica di
presidente. I bilanci che lui consegnò ai suoi successori, Merzagora e
Campilli, per un breve periodo, e poi Cefis, nascondevano delle grosse
insidie che però solo un anno dopo, nel 1972, finirono nell’occhio del
ciclone della Magistratura.

La storiaccia dei “fondi neri”

A questo punto si entra in uno dei più grandi misteri del nostro paese, quello
dei fondi paralleli del bilancio Montedison, detti comunemente “fondi neri”.
Ed è qui che entra in ballo anche l’operato del famoso magistrato Antonio Di
Pietro, il quale nel 1992-1993 riprese proprio la storia dei “fondi neri”
Montedison e, dimostrando un passaggio di denaro dalla Montedison del
presidente Garofano ai partiti politici, riuscì ad arrivare a delle condanne,
cosa che nella precedente inchiesta non era avvenuta. Perché, come dicevo
in precedenza, nel 1972 c’era già stata un’inchiesta sui fondi della
Montedison. Si parlò in quel periodo di 50 miliardi elargiti nell’arco di sei
anni in vario modo dal presidente Valerio, uno dei maggiori accusati, verso
alcuni non ben precisati suoi interlocutori; si parlò con insistenza anche di
uomini politici. Scrisse Guido Guidi su La Stampa il 4 aprile del 1978: “Gli
uomini politici avevano bisogno di denaro per le esigenze dei loro partiti e
l’ingegner Valerio è sempre stato molto comprensivo e generoso.”59
L’accusa era partita da cinque azionisti della società e sul banco degli
imputati ci erano finiti leader dei partiti quali: Rumor, Piccoli, Segni, poi
altri nomi fra cui Folchi, Gino Colombo, Nencioni, Michelini, Malagodi,
l’ex senatore Reale, Mauro Ferri, Pucci e Dosi. Ad accusarli erano le
dichiarazioni dello stesso Valerio riportate da La Stampa in quel 4 aprile
1978: “Ogni volta – disse – nelle erogazioni figura il nome di un

59
Cfr: “Valerio ed altri 36 a giudizio per i “fondi neri” Montedison”, La Stampa 4 aprile 1978.
196

personaggio politico, la destinazione della somma non era personale, ma


riguardava il partito da lui rappresentato.” Tuttavia, alla domanda del
magistrato su quale motivo avesse per elargire quel denaro, Valerio rispose a
mio avviso con una bugìa. Disse che servivano a ritardare la
nazionalizzazione dell’energia elettrica, che nelle sue parole era vista come
una minaccia, mentre sappiamo dal libro “L’affare Montedison, un giallo
all’italiana” di Angiolo Silvio Ori, che è un libro molto documentato sui fatti
interni, le assemblee, i bilanci della Montedison, che quella
nazionalizzazione, come detto prima, permise a Valerio e alla Edison di
realizzare una grande fortuna proprio con i soldi dello Stato, soldi che fecero
gola alla Montecatini nell’ottica di una fusione. Insomma questa inchiesta
della magistratura sembra, dati alla mano, molto superficiale e inattendibile.
Pare che quell’operazione del 1972 fosse stata scatenata da un controllo su
una partita di ricetrasmittenti militari che una ditta, sull’orlo del fallimento,
aveva venduto all’esercito italiano facendole passare per nuove, mentre
erano state acquistate negli Stati Uniti e pare fossero del 1942. Questa ditta
appartenente ad un certo Aldo Scialotti era entrata nell’orbita della Edison e
il magistrato, frugando tra le carte, scrisse La Stampa sempre in
quell’articolo di Guido Guidi, aveva trovato anche questa miniera d’oro di
fondi neri della Montedison e delle società ad essa collegate. L’inchiesta
però fu molto lunga: dal 1972 eravamo già arrivati, per i rinvii a giudizio, al
1978 e nel 1980 arrivarono delle assoluzioni; forse annunciate. Intanto però
era stato fatto molto clamore sulla stampa.
Il 30 aprile del 1980 su La Stampa usciva la notizia60 dell’assoluzione di
tutti i 29 indagati, accusati di falso in bilancio. Erano state chieste condanne
tra due anni e sei mesi e un anno, ma l’ottava sezione penale del tribunale di
Roma non ne volle sapere proprio di condannare quegli intoccabili della
politica. Per di più il principale indagato, divenuto accusatore, Giorgio
Valerio, era morto da poco; e dunque per lui era scattata la prescrizione per
“morte del reo”. L’articolo anonimo ricordava come durante l’inchiesta molti
fossero stati i testimoni chiamati in causa, come l’ex ministro Valsecchi, l’ex
presidente dell’ENI, Girotti, l’allora presidente della Montedison, Medici,
ma anche Piccoli e Rumor e l’ex presidente della Montedison, Merzagora, il
quale, come vedremo, era stato colui che in tempi non sospetti aveva
sollevato all’interno dell’azienda il problema dei fondi neri. Gli estremi per
indagare c’erano, ma, chissà, forse questi testimoni non avevano voluto o
saputo fornire ulteriori spiegazioni, che invece andavano date, perché come

60
Cfr: “Fondi neri Montedison, assolti i 29 imputati”, La Stampa 30 aprile 1980.
197

dirò dopo erano state scritte sul libro di Ori sulla Montedison, libro che uscì
nel 1971 e quindi ben prima dell’avvio dell’inchiesta giudiziaria.
Le motivazioni di questa sentenza uscirono sui quotidiani a fine maggio del
1980 e vanno lette per bene poiché potevano creare un precedente, cosa che
invece non accadde. Il titolo de La Stampa del 31 maggio 1980 fu “Non è
reato usare soldi extra-bilancio” e la dice lunga sul parere dei giudici del
tribunale di Roma sull’uso dei “fondi neri”. Giusto o sbagliato che fosse, in
una vicenda molto simile tredici anni dopo il pm Antonio Di Pietro fece
finire in cella molte personalità del mondo industriale e della Montedison
stessa. Questi sono dati di fatto. Scrissero, i giudici del primo processo
Montedison, che “Il saltuario uso da parte dei funzionari di un’impresa di
somme degli amministratori non esposte in bilancio e su ordine di costoro,
non costituisce reato e la conoscenza di quest’ultima circostanza è
irrilevante.” Ad affermarlo era il presidente dell’ottava sezione penale di
Roma, Marchionne.
Si chiudeva così una vicenda che a mio avviso, fortunatamente, non ha fatto
giurisprudenza. Se poi il pm Di Pietro non fosse a conoscenza del precedente
è un altro discorso. Forse quest’ultima è una sua grande manchevolezza,
poiché non ha saputo inquadrare i fatti da lui riscontrati (lo ammisero gli
stessi giudici di Mani Pulite in un’intervista televisiva che avevano scoperto
solo un quinto degli imbrogli di Tangentopoli) in quello che era l’andazzo
della politica della Prima Repubblica61. Cioè, cerco di essere più preciso: è
mancato il movente del delitto, perché pagare tanti soldi verso i partiti
politici può significare tante cose. Può essere corruzione, ma anche
concussione, nel caso in cui, in quest’ultima circostanza, fosse il politico a
minacciare l’imprenditore per ottenere dei guadagni.
L’inchiesta sulla Tangentopoli degli anni ‘90 ebbe origine invece da una
famosa legge, quella sul finanziamento pubblico ai partiti. I giovani della
mia generazione l’hanno sentita nominare tante volte. Wikipedia spiega assai
bene la sua storia tormentata. Questa legge, la 195, nacque nel 1974 da una
proposta del democristiano Flaminio Piccoli. Essa doveva garantire che i
partiti percepissero un finanziamento equo e trasparente attraverso lo Stato,
senza collusioni con il potentato economico, soprattutto quello del settore
pubblico di cui faceva parte l’ENI. Si cercò così di evitare il ripetersi di

61
E’ interessante notare che il pm Gherardo Colombo, prima di lavorare insieme al pool di
Mani Pulite, fu protagonista della scoperta della Loggia massonica P2 di Licio Gelli, che
operava non solo sul piano politico, ma soprattutto nell’imposizione di tangenti sui lavori
pubblici. Come mai quando scoppiò il caso Tangentopoli questo non fu collegato all’affare P2?
198

grossi scandali, come quello delle banane e del petrolio. Nel 1965 il senatore
della DC Giuseppe Trabucchi aveva permesso alla Assobanane di acquisire
il monopolio delle banane. La stessa operazione era stata ripetuta per il
mercato del tabacco e così ci si accorse che tutto era da ricondurre a un
finanziamento ottenuto dal partito di Trabucchi62. Nel febbraio del 1974 era
scoppiato un nuovo scandalo. Stavolta a essere coinvolti erano stati tutti i
partiti di quel governo: DC, PRI, PSI e PSDI, i quali avevano percepito una
tangente del 5% sui vantaggi che l’Enel e le compagnie del petrolio
ricevevano da una politica contraria alle centrali nucleari.63 Era esploso in
pratica il famoso scandalo dei petroli, quello scoperto dai pretori d’assalto
come Mario Almerighi, i quali, nonostante questo nomignolo irriverente,
erano davvero dalla parte della gente. Se di fronte ad ogni inchiesta
giudiziaria ci chiedessimo: “cui prodest?”, a chi giova veramente questo
polverone? in quel caso la risposta sarebbe stata: alla gente, ai cittadini. Lo
scandalo dei petroli faceva infatti aumentare i prezzi della benzina, mentre i
politici e i petrolieri si accordavano per nascondere le scorte di greggio e
mettere in piedi un colossale giro illecito d’affari.
Dunque, Flaminio Piccoli cercò di offrire una via d’uscita da uno scandalo
vero, sconcertante, di cui era colpevole il suo stesso partito. Poteva riuscirci?
Ovviamente no. Sarebbe come accettare che un assassino possa stabilire
dopo il suo arresto le nuove leggi contro gli omicidi. Ci fideremmo poco
della sua imparzialità. E infatti i radicali provarono nel 1978 a cancellare
quella legge con un referendum. Ma al momento del voto, l’11 giugno del
1978, la percentuale di adesioni all’ipotesi di abrogazione si fermò al 43,6%,
a un passo dal quorum del 50%. E così si andò avanti con il palliativo. E’
solo in questo modo che la blanda legge sul finanziamento pubblico ai partiti
poté giungere nelle mani di Antonio Di Pietro e del suo pool di Mani Pulite.
Nel 1981 c’era stato un ulteriore alleggerimento. La nuova legge 659 aveva
raddoppiato i finanziamenti legali e aveva lasciato immutati i divieti per
aziende pubbliche o a partecipazione pubblica di erogare fondi ai partiti,
mentre i partiti stessi dovevano redigere rendiconti annuali su entrate e
uscite. Solo nel 1993 queste norme furono finalmente abrogate da un altro
referendum dei Radicali, che in seguito ai fatti di Tangentopoli si trasformò
in un autentico plebiscito. Le adesioni raggiunsero il 90,3%. Infine, con la
legge 2 del 1997 venne reintrodotto il finanziamento pubblico ai partiti
attraverso il 4 per mille dei contribuenti.

62
Cfr. l’articolo: “Storia d’Italia in tre scandali e una legge”, www.acmos.net
63
Cfr. Wikipedia alla voce: “Scandalo dei petroli.
199

Ma ora torniamo un attimo indietro con la storia. Non sappiamo se Di Pietro


quella legge Piccoli nel 1992 se la fosse letta bene. Fatto sta che pensò di
utilizzarla con lo scopo, utopistico, di incriminare i suoi stessi ideatori. La
norma su un punto era molto chiara, e a Piccoli va dato atto di questo: le
imprese pubbliche o a partecipazione pubblica non potevano sovvenzionare i
partiti. Potevano farlo solo, a patto che i partiti lo dichiarassero in bilancio,
le imprese private. Abrogando il “finanziamento pubblico” - spiegò lo stesso
Flaminio Piccoli in un suo articolo sulla Stampa prima del referendum del
1978 - “mancherebbe una normativa che mantenga liberi i partiti dai
pesanti condizionamenti che i potentati economici certamente cercherebbero
di imporre”. Come abbiamo visto in tempi più recenti le modifiche non
mancarono, ma Di Pietro aveva ragione a voler scartabellare nei bilanci.
Tuttavia bisognava capire meglio che azienda era la Montedison e chi ne
fosse il vero proprietario. Era necessario in termini più semplici e diretti
essere esperti dell’ambiente democristiano, o della Montedison.
Probabilmente Antonio Di Pietro non era e non è tutto questo. Non so se mi
spiego: erano scomparsi, ma vado ovviamente a memoria, negli anni di
Tangentopoli, tutti quei discorsi, tutte quelle polemiche di cui parlavo prima
sulla presenza del denaro pubblico nelle aziende private.64
La storia della Montedison è senza dubbio, dopo i primissimi anni ‘70 e quel
brusco ingresso dell’ENI nel sindacato di controllo, la storia di un’azienda
per metà pubblica e per metà privata. L’equilibrio fu ricercato per tutti gli
anni ’70, anni di difficoltà economiche per la Montedison che dovevano far
capire ai magistrati dell’ottava sezione penale di Roma, prima, e di Mani
Pulite, poi, che la questione dei fondi neri era molto rilevante e forse si
trascinava da tanto tempo.
Per ricostruire quegli anni si può fare riferimento al libro intitolato
“Montedison: il grande saccheggio” uscito nel 1976-77 e scritto da Giuseppe
Turani. La Montedison si era trasformata, secondo l’autore, in un mostro
mangiasoldi, quando sulla poltrona di presidente c’era ormai Eugenio Cefis.
La sua lunga permanenza pare fosse stata salutare per i conti Montedison
solo nei primi anni, quando le dichiarazioni fatte alla stampa erano trionfali:
la Montedison aveva coperto il suo disavanzo e fatto quel salto in avanti
investendo sul futuro. Però nel 1976 nacque quell’operazione di
rastrellamento di denaro che Turani chiamò appunto “grande saccheggio”.
La Montedison perdeva denaro a rotta di collo e non c’era rimedio che

64
Una distinzione che è riapparsa solo dopo il recente governo di Mario Monti e ancora di più,
dal 2014, con la presidenza del consiglio del filo-democristiano Matteo Renzi.
200

potesse risolvere la questione. Il sistema Cefis prevedeva la richiesta di


prestiti dalle banche per pagare, a sua volta, gli interessi sui prestiti
precedenti e magari pagare anche gli stipendi ai dipendenti. Così la caduta
nel buco nero diventava inarrestabile. Nel 1972 la grande azienda della
chimica italiana divenne ufficialmente per metà pubblica, con ENI e IRI, e
per metà privata, con grandi azionisti come Attilio Monti, poi proprietario
del quotidiano Il Resto del Carlino, e le centinaia di migliaia di piccoli
azionisti. Lo spiegò molto bene in una sua relazione alla commissione
bilancio della camera il Ministro del Bilancio, Giulio Andreotti, il 16 aprile
del 197565. L’obiettivo dello Stato era quello di risanare e rilanciare il gruppo;
così in un secondo momento il sindacato di controllo venne aperto alla
partecipazione di alcune banche: la Mediobanca, l’IMI (Istituto Mobiliare
Italiano) e l’Istituto di Credito per le Imprese di Pubblica Utilità.
Nel 1976, dice il libro di Turani, la Montedison cominciò a premere sui
politici alla ricerca di un finanziamento. Vennero attivati dei contatti, prima
delle cruciali elezioni politiche del 1976, anche con i comunisti, nell’ipotesi,
poi non verificatasi, che questi ultimi potessero effettuare il sorpasso. I soldi
da cercare nelle tasche dei cittadini erano tanti. Per risanare i bilanci
Montedison sarebbero serviti 2000 miliardi di vecchie lire. Una montagna di
soldi che non si sapeva proprio a chi chiedere, poiché i politici, tranne forse i
comunisti, i quali credevano nella nazionalizzazione delle imprese e
chiedevano la formazione di un ente unico statale di controllo, non è che
fossero così felici di elargire denaro all’azienda di Foro Bonaparte. C’era
comunque la volontà di risanare questo gruppo, consapevoli i politici del
Parlamento che la Montedison, oltre ad essere un’azienda in cui il capitale
pubblico deteneva la maggioranza di tutte le azioni (il 16% rispetto al 14%
degli anni di Valerio), fosse soprattutto un’impresa che dava lavoro a
centinaia di migliaia di operai, i quali in quel periodo si facevano sentire.
Alla fine pare che quei soldi furono trovati e ciò per merito di Cuccia, il
quale riuscì ad escogitare una manovra degna del miglior prestigiatore del
mondo: fu tutta una serie di acquisti e vendite di obbligazioni a permettere
alla fine a chi deteneva le azioni Montedison di poter usufruire di 2000
miliardi di lire a costo praticamente zero, con la sola necessità di sperare nei
cittadini. Un’ipotesi che però non piaceva molto allo scrittore Turani, molto
vicino alle idee di Repubblica e di Scalfari. La Montedison dal 1975 stava
divorando miliardi su miliardi ogni anno e con queste premesse non c’era da

65
Cfr l’appendice del libro: “Montedison, il grande saccheggio”, di Giuseppe Turani,
Mondadori, 1977.
201

sperare granché per il futuro. Si faceva strada il concetto di uno Stato che
doveva correre al capezzale delle grandi aziende in difficoltà, anziché
lasciare che la giustizia fallimentare facesse il suo corso. Un andazzo che,
abbiamo visto per quanto riguarda la SIR, creerà strascichi deleteri
addirittura fino al 2009.
A noi queste informazioni interessano quindi, non tanto per ricostruire la
politica economica italiana di quegli anni, quanto perché queste furono le
premesse all’approdo di Raul Gardini una diecina di anni dopo alla
Montedison. Ma non solo, perché l’altro libro già citato, “L’affare
Montedison un giallo all’italiana” aveva rivelato già nel 1971 notizie di
straordinaria importanza. E vengo qui al nocciolo del problema: la madre di
tutte le tangenti che nessuno, forse, è riuscito a scovare sta proprio nei conti
misteriosi di cui parla quel libro. Lì c’era il movente vero delle tangenti della
Montedison; colui che veniva finanziato con i miliardi di fondi neri.
Se infatti la storia della prima inchiesta giudiziaria partiva dal 1972, ben
prima, durante la gestione Valerio si era saputo che il presidente e il suo fido
Cavalli avevano tenuto in gran segreto una amministrazione “fuori bilancio”,
con cambiali che venivano firmate dai dirigenti e finivano nella cassaforte di
Valerio. Quando nel 1970 l’ex senatore Merzagora fu eletto presidente, egli,
onesto quale era, rimase molto colpito dal trovarsi di fronte a una contabilità
occulta e ordinò un’inchiesta interna. Dice il libro di Ori che Merzagora era
consapevole dell’illegalità di questi “fondi neri” e avrebbe voluto inserirli
nella contabilità ufficiale, ma questo intento non andò a buon fine.
Merzagora scoprì che i soldi distratti dal bilancio reale della Montedison
erano tanti: si parlò all’epoca di 17 miliardi di vecchie lire. Questi miliardi
entravano e uscivano, con il fine di “oliare” attività occulte e forse illecite.
Scrive testualmente il libro:
“L’insieme di questi movimenti lascia un saldo attivo e Merzagora si vede
infatti consegnare con un vero e proprio senso di sgomento un pacchetto di
libretti bancari al portatore, il cui ammontare complessivo supera i 17
miliardi. Una parte di questa cifra, per l’esattezza 5.300 milioni figura come
un debito dell’Italpi (una società controllata dalla Montedison) nei confronti
della sua capogruppo: un’altra parte, per 5.700, figura come un debito
d’una fantomatica “Montedison International”, società con sede legale in
Liberia e sede effettiva a Zurigo; mentre i restanti miliardi non risultano
contabilizzati in nessun modo: sono soltanto materialmente depositati sul
libretto al portatore, custodito nella cassaforte privata del presidente della
società.”
Merzagora convocò il consiglio di amministrazione e volle discutere di
202

questo problema per chiarirlo del tutto. Il compito di approfondire la


questione fu delegato a una commissione di esperti. Ma l’obiettivo non fu
centrato né durante la presidenza di Merzagora, né durante quella, altrettanto
breve, di Campilli. Sappiamo anche che la commissione di Merzagora si
insediò nell’aprile del 1970 e che vedeva come vice-presidenti Torchiani e
Girotti (uomo dell’ENI), un consigliere delegato quale Giorgio Macerata e
infine, presidente del collegio sindacale, Aldo Cicoletti. Non è escluso che
entrambi i presidenti dovettero dimettersi esattamente perché non si voleva o
non si poteva venire a capo del doppio binario su cui transitavano i soldi. E
perché questi problemi creavano scompiglio se poi un giudice, nel 1980, dirà
che il fatto non costituiva reato? La possibile spiegazione è a pagina 140 del
libro di Ori, dove l’autore riporta parole del giornalista Mario Marchetti
pubblicate sul giornale ufficiale del Partito Comunista. Si parla della
destinazione dei fondi neri, sentite:
“Ingenti cifre “fuori conto”, maneggiate da Valerio, sovvenzionarono alla
vigilia della nazionalizzazione elettrica, certe campagne di terrorismo
economico. Che altre notevoli fette di “fondi segreti” servirono a finanziare
le campagne di anticomunismo viscerale dei gruppi “Pace e Libertà” e dei
nostalgici del ventennio. Nel complesso le operazioni “irregolari” sui
“fondi segreti” hanno suscitato fondati sospetti sulla correttezza
amministrativa di chi ha diretto la più grande azienda chimica italiana.”
Come si vede, quando nel 1978 venne interrogato Giorgio Valerio non disse
la verità davanti ai giudici sui “fondi neri”. L’uso di questi soldi era noto,
come fu possibile negarlo? Ed è proprio questo fiume di denaro verso i
reduci del ventennio e il terrorismo economico che, è il caso di dirlo con un
gioco di parole, terrorizza. Leggere a distanza di tanto tempo queste notizie,
quando sappiamo che i responsabili, o, meglio, i mandanti della “strategia
della tensione” non sono stati trovati, mentre siamo alle prese con lo Spread,
o con una crisi economica sempre minacciata, ma senza mai un colpevole
vero e un problema reale da risolvere, e sapere, anche, che quel problema del
1970 di una contabilità parallela non fu mai chiarito, ecco, direi che mette la
questione Montedison di nuovo al centro, non soltanto della storia
contemporanea, ma dell’attualità politica italiana. La Montedison non è mai
scomparsa del tutto e forse nemmeno il suo buco nero di miliardi che negli
anni ’90 si accollò la Mediobanca. Troppi esperti sono serviti per coprire le
magagne di questi imprenditori che dagli anni ’60 a oggi non hanno mai
saputo risolvere i loro problemi, se non con la chiusura o la delocalizzazione
delle proprie aziende. Gli ex lavoratori della Acetati, una delle vecchie
aziende del gruppo Montedison degli anni d’oro, ne sanno qualcosa. Chissà
203

se il pm Di Pietro sapeva nel 1993 che, assieme alla Montedison, stava


mandando in galera tutta la politica economica dello Stato italiano della
Prima Repubblica, e che nella seconda non ne sarebbe stata trovata un’altra.
204

13

TERRORISMO DI STATO

Un dirigente della Montedison era tra gli indagati del giudice Alessandrini
per la Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Si trattava di Vittorio
De Biasi, il quale finì sulle cronache dei giornali quando, intorno a metà
maggio 1973, avvenne un attentato davanti alla questura di Padova. In
carcere ci finì un anarchico, Gianfranco Bertoli, ma gli inquirenti, Emilio
Alessandrini, poi ucciso in un attentato terroristico, e Gerardo D’Ambrosio
sospettarono come mandanti di tutti quegli attentati alcuni esponenti
dell’estrema destra; in pratica quelli che avevano partecipato a una famosa
riunione all’hotel Parco dei Principi di Roma tra il 3 e il 5 maggio del 1965,
tra cui Guido Giannettini, Pino Rauti, Giorgio Pisanò, poi anche lui
coinvolto nell’azionariato della Montedison, e appunto il dirigente di Foro
Bonaparte, Vittorio De Biasi. In un articolo del 22 maggio 1973 Guido
Mazzoldi scrisse con certezza che gli attentati terroristici, tra cui Piazza
Fontana a Milano, partirono poco dopo secondo le direttive di quegli uomini
di destra. In quello stesso periodo era nata anche l’altra inchiesta sui Fondi
Neri della Montedison, ma pochi mesi dopo l’attentato di Padova il giudice
che indagava scoprì di essere spiato dal Sid. Si trattava di Renato Squillante,
oggi noto soprattutto perché secondo i giudici sarebbe stato corrotto da
Berlusconi nell’affare Sme. Tempo dopo si scoprì che era proprio il
presidente di allora della Montedison, Eugenio Cefis, a servirsi all’Eni di
uomini del Sid e di generali coinvolti nel golpe De Lorenzo. Di fatto, il
giudice Squillante dovette dimettersi quando a inizio luglio 1975 l’istruttoria
sui Fondi Neri Montedison fu conclusa e per i giornalisti questo fu segno di
un possibile insabbiamento. Altra conseguenza di queste indagini che
stavano scoprendo una correlazione tra Fondi Neri e terrorismo neofascista
potrebbe essere stato l’Attacco alla Montedison dichiarato dalle Brigate
Rosse pochi anni dopo, quando in un duplice attentato furono trucidati i
dirigenti del petrolchimico di Porto Marghera, Silvio Gori e Giuseppe
Taliercio.

C’era la Montedison dietro la bomba di Piazza Fontana?

C’è un nome su cui si sono concentrate le mie ricerche ed è quello di


Vittorio De Biasi, considerato all’inizio degli anni ’70 uno dei maggiori
205

esponenti della Montedison, facendo egli parte del consiglio di


amministrazione. Fu proprio nel momento in cui l’inchiesta giudiziaria sui
miliardi di “fondi neri” Montedison stava prendendo piede, nel 1973, che vi
fu una battuta d’arresto, se non decisiva ai fini della prosecuzione degli
accertamenti, sicuramente importante per ricostruire oggi alcuni movimenti
che avvennero come al solito dietro le quinte.
C’è un articolo per me di grande importanza. Uscì su La Stampa il 22
maggio del 1973 a firma di Gino Mazzoldi66. E non era un articolo
sull’inchiesta relativa alla Montedison, ma partiva da un attentato avvenuto a
Padova pochi giorni prima, quando una bomba venne fatta esplodere davanti
alla questura. In carcere ci finì un anarchico, Gianfranco Bertoli, il quale non
fece altri nomi di complici. Era il periodo in cui quotidiani e inquirenti
sembravano non riuscire a dare una matrice politica a quegli attentati sempre
più insistenti. Di destra? Di sinistra? Non si sapeva nel 1973, però in mano
agli inquirenti c’erano i nomi dei partecipanti a una famosa riunione, di cui
ancora oggi sentiamo parlare nei documentari televisivi. E’ la riunione del
3-5 maggio 1965 all’hotel Parco dei Principi di Roma, alla quale, sosteneva
Mazzoldi, ne seguirono almeno altre due, una nel 1968 e una nel 1971. A
partecipare a questa che poi risultò una riunione programmatica della
strategia terroristica in Italia furono esponenti dell’estrema destra come Pino
Rauti, fondatore di Ordine Nuovo, Gino Ragno, dirigente dell’MSI, che
come scrisse il quotidiano divenne poi presidente dell’Associazione “Amici
delle Forze Armate”, il generale Alceste Nulli-Augusti, Guido Giannettini,
poi inquisito per le bombe della “strategia della tensione”, Enrico De
Boccard, ex repubblichino, il consigliere di Cassazione Salvatore Alagna,
Paolo Balbo, figlio di Italo Balbo e zio di Claudio Orsi, il quale era stato
arrestato per via degli attentati ai treni dell’inchiesta del 1969, e poi due
uomini Montedison: Giorgio Pisanò, poi senatore dell’MSI ma che sul libro
“L’affare Montedison, un giallo all’italiana” compariva quale leader di uno
dei comitati per la tutela dei risparmiatori privati, e quello più sconcertante
di Vittorio De Biasi, esponente di spicco della dirigenza.
De Biasi era importante anche all’epoca per i due magistrati che indagavano
sulla bomba di Piazza Fontana, a Milano, del 12 dicembre 1969. I giudici
erano Gerardo D’Ambrosio e il sostituto procuratore Emilio Alessandrini,
che verrà barbaramente assassinato in un attentato terroristico di matrice

66
Cfr: “Un’indagine unificata per chiarire l’oscura strategia degli estremisti”, La Stampa, 22
maggio 1973.
206

comunista alcuni anni più tardi67. Questi due inquirenti, secondo La Stampa,
erano arrivati infatti al presunto finanziatore della strage di Piazza Fontana,
ovvero De Biasi, che dopo gli esordi sulla stampa comunista sembra stesse
passando sull’altra sponda. Scalfari e Turani raccontarono così la sua storia:
“Vittorio De Biasi proviene dalle fila dell’”Ordine Nuovo” di Gramsci”.
Quando ormai era amministratore delegato della Edison scrisse
polemicamente al quotidiano “L’Unità” e quest’ultimo, nella sua risposta,
ironizzò sul ritorno del dirigente a “collaborare alla stampa comunista”. Fu
tra i principali sostenitori dell’inserimento da parte della vecchia Edison in
nuovi settori industriali come quello della chimica.68
Scriveva il quotidiano torinese il 22 maggio ‘73: “Sono stati proprio dei
fogli di alcuni gruppi di destra – forse scontenti degli aiuti – a svelare
l’esistenza di fondi neri sottratti al bilancio della Montedison.” Pare che le
autorità non sarebbero mai arrivate alla Montedison senza che alcuni
azionisti della società, proprio legati politicamente alla destra, non avessero
svelato questi conti segreti. Di qui, spiegava ancora Mazzoldi, si sarebbe
giunti all’inchiesta parallela, ma molto difficoltosa come abbiamo visto,
sull’ex presidente della Montedison Giorgio Valerio. Non solo. Secondo il
giornalista de La Stampa gli atti di terrorismo sarebbero iniziati proprio dopo
la riunione del maggio 1965 e secondo le direttive di questo summit, a cui
aveva preso parte anche Vittorio De Biasi. Questi sicuramente rimase nel
consiglio di amministrazione della Montedison fino al 31 luglio 1969, data
in cui dette le dimissioni, che furono testimoniate da un articolo di giornale
del giorno seguente, uscito sempre su La Stampa. De Biasi continuò tuttavia
a risultare nell’organico della Montedison nel Calepino dell’Azionista 1970,
che veniva curato dalla Mediobanca.
Abbiamo anche un identikit dal fondamentale articolo del 22 maggio 1973
dei possibili attentatori della “strategia della tensione”. Dice Mazzoldi che
“gli uomini usati da questi criminali sono i soliti sbandati, gente senza
scrupolo che sta indifferentemente a destra o a sinistra.” Ma a questo punto
dobbiamo abbandonare la storia dell’anarchico Bertoli, che lasciamo in
carcere per la bomba di Padova, per tornare ai “fondi neri” Montedison.

67
Il giudice Emilio Alessandrini morì a soli 36 anni il 29 gennaio del 1979 assassinato da un
gruppo di militanti dell’organizzazione comunista Prima Linea, (Wikipedia).
68
Cfr: Eugenio Scalfari, Giuseppe Turani, ”Razza Padrona”, Feltrinelli, 1974. Da una ricerca
effettuata nell’archivio della Provincia di Cremona, risulta che Vittorio De Biasi, cremonese di
nascita, morì a Milano l’8 novembre 1976.
207

Lo spionaggio su Squillante

Nella nostra storia c’è a questo punto un colpo di scena. Chi indagava sui
“fondi neri” nel periodo iniziale dell’inchiesta? Un certo Renato Squillante,
che nel recente processo SME sarebbe risultato dalle accuse quale vittima,
insieme al giudice Filippo Verde, della corruzione di Silvio Berlusconi69. Si
presume che si tratti della stessa persona, sia per motivi anagrafici, sia per la
relativa vicinanza temporale degli eventi. Renato Squillante risulta nato il 15
aprile del 1925. E’ stato un magistrato e capo dei giudici preliminari romani.
Nella vicenda del primo processo Montedison i quotidiani lo identificavano
come giudice istruttore di Roma. Di lui i siti web però ricordano solo gli
episodi degli anni ‘80 e ‘90 relativi alla corruzione. Si tratta del caso
IMI-SIR e dell’Affare SME70. Risultò in entrambi gli scandali condannato,
ma poi venne assolto in Cassazione poiché fu accertato che la sua “non fu
corruzione, ma intermediazione tra privati”.
Vedere questo giudice coinvolto anche nelle vicende di Foro Bonaparte fa
riflettere. Perché pochi mesi dopo l’uscita dell’articolo di Mazzoldi, che
creava un punto di intersezione tra i “fondi neri” degli anni ’60 e ’70 della
Montedison dati ai politici e le inchieste di Alessandrini e D’Ambrosio su
Piazza Fontana, accadde un fatto clamoroso. Il SID, che negli anni ’60 era
divenuto tristemente noto per aver spiato 157mila italiani ed essere stato

69
Cfr: Giorgio Dell’Arti, Massimo Parrini, “Catalogo dei Viventi 2009”, Marsilio, 2008.
70
La SME nacque anch’essa come azienda che operava nell’elettricità al pari della Edison. Il
nome sta per Società Meridionale di Elettricità e passò all’IRI negli anni ‘30, per poi negli anni
‘60 effettuare acquisizioni in campo agricolo e alimentare, fino a diventare il più grande gruppo
alimentare italiano (Wikipedia). Nel 1985 l’IRI, ente pubblico per la ricostruzione industriale
presieduto da Romano Prodi, era sul punto di realizzare un grosso affare. Si trattava di una delle
prime privatizzazioni miliardarie, che sfumò per l’intervento di Craxi e Darida. La storia dice
che PSI e DC per questioni procedurali non ratificarono quell’accordo da 497 miliardi di
vecchie lire per la vendita della SME a De Benedetti. La questione ebbe riflessi giudiziari
immediati, perché il 25 giugno 1985 l’ingegner De Benedetti denunciò in conferenza stampa
che un politico per telefono gli aveva chiesto tangenti per portare a termine quell’acquisto. Il
nome di questo faccendiere non lo si seppe mai. La storia che di recente è riapparsa sui
quotidiani è invece completamente diversa: un infinito processo contro Berlusconi che ha fatto
leva su vicende successive, quando De Benedetti si rivolse al Tar del Lazio e perse la sua
battaglia perché, sostengono i magistrati, Silvio Berlusconi attraverso Previti e Pacifico aveva
corrotto i giudici Filippo Verde e Renato Squillante. In mezzo all’affare SME c’era finito infatti
il Cavaliere, che aveva avanzato un’offerta con la cordata che faceva capo alla Barilla.
Un’offerta giunta però in ritardo rispetto ai termini. Il tutto fu inutile, e inutile appare anche
l’inchiesta recente. Sta diventando un’inchiesta sulla storia, la quale dice che la SME, anziché
per 497 miliardi, fu venduta per 2000 miliardi nel 1993 e nel 1994, smembrata e ceduta a
industriali, per lo più stranieri, estranei a questa vicenda tranne la Barilla (blog E-Cronaca).
208

implicato nel tentativo di golpe di De Lorenzo nel 1964, cominciò a spiare


proprio il giudice Squillante e la notizia uscì il 20 ottobre 1973 a tutta pagina
su La Stampa, con un titolone: “Il ‘SID’ avrebbe intercettato le telefonate del
giudice che indagava sulla Montedison”. Squillante si ritrovò in pratica il
telefono collegato a un pulmino da cui alcune spie del Servizio Segreto lo
avrebbero controllato per diverso tempo. Ci fu molta preoccupazione nel
Palazzo di Giustizia di Roma per questa intromissione e i giornalisti
fiutarono il tentativo di depistare e ostacolare le indagini sull’azienda di
Stato Montedison. Di fatto i Magistrati si stavano avvicinando a un canale di
finanziamenti misteriosi che riguardavano sia la Edison sia l’ENI, due
aziende che con la nascita di Montedison entrarono in contatto diretto. Molti
anni dopo si seppe, infatti, che il successore di Merzagora e Campilli alla
presidenza di Montedison, Eugenio Cefis, ai tempi in cui era il braccio
destro di Enrico Mattei all’ENI fu l’ideatore di quel giro di denaro che
andava all’estero, attraverso delle aziende satelliti, e poi veniva girato ai
partiti politici da finanziare. L’articolo de La Stampa uscito il 23 aprile del
1993 a firma di Alberto Statera71 parlava di un diario di un giornalista
americano, tale Cyrus Sulzberger, il quale di Cefis faceva questa descrizione
il 21 luglio 1959:
“Il suo incarico era comprare deputati. Otteneva ciò offrendo un incarico
ben pagato in un ente di Stato, un incarico nel quale non c’era niente da
fare. X72 controllava che votassero correttamente. In sostanza X si occupava
della parte finanziaria del particolare incarico di pubbliche relazioni di
Brazzà, cioè influenzare i socialisti di Nenni e comprare il giornale Il
Giorno.”
Nello stesso articolo è di particolare importanza la descrizione che il
giornalista Statera faceva di Cefis, allorché nel 1977 era leader indiscusso
della Montedison. Diceva che ‘l’ex granatiere’ era circondato dai suoi
mirabolanti ‘servizi di sicurezza’, ex ufficiali dei carabinieri, spioni dell’ex
SIFAR di De Lorenzo, investigatori, microspie elettroniche. Inevitabile
ripensare all’episodio di Squillante e alla possibile matrice di quello
spionaggio. Del resto sulla sponda privata della Edison c’era anche Giorgio
Valerio che non era meno impegnato su questo piano. Da lui erano partiti
altri finanziamenti occulti alla politica, e abbiamo visto anche al terrorismo
economico e ai nostalgici del fascismo, forse persino agli assassini della

71
Cfr: “L’ex granatiere che pagava i partiti per conto di Mattei”, La Stampa 23 aprile 1993.
72
La X stava per Eugenio Cefis.
209

“strategia della tensione”. Alcuni di questi finanziamenti discussi, che poi


proseguirono a Foro Bonaparte, secondo un articolo del 1971 di Marco
Marchetti de L’Unità73 portarono un azionista privato di maggioranza,
Attilio Monti, ad acquistare i quotidiani Il Resto del Carlino e La Nazione,
che recentemente sono confluiti nel Quotidiano Nazionale dell’editore
Monti-Riffeser, dove ai due citati quotidiani si è aggiunto proprio Il Giorno
che fu di Mattei.
Intanto nel novembre del 1973 andava avanti a fatica anche l’inchiesta
sull’attentato di Padova, che era condotta dal sostituto procuratore Fais. Nel
mirino degli inquirenti ci finirono il vice-questore di Pordenone Saverio
Molino e alcuni poliziotti. Il timore, che divenne presto realtà, era che i
burattinai di quegli attentati di matrice neofascista fossero così potenti da
riuscire ad insabbiare, sia queste inchieste, sia quella sui “fondi neri” della
Montedison. Il giornalista Umberto Zanatta faceva nuovamente riferimento a
quella riunione dell’hotel Parco dei Principi di Roma del 1965 a cui, ripeteva
l’articolo del 16 novembre 197374, prese parte anche il dirigente Montedison
Vittorio De Biasi.
Questi si era dimesso già da tempo quando nel 1975 l’inchiesta di Squillante
e del pm De Nicola raggiunse un traguardo importante: la fine dell’istruttoria
su Foro Bonaparte, che era durata dalla fine del 1971-inizio del 1972, fino al
giorno in cui L’Unità, da cui prendo spunto, dette la notizia. Le accuse erano
molto pesanti, se si pensa poi a come è andata a finire: si andava dalla
corruzione, alla frode in forniture militari, alla truffa, alla illegale
ripartizione degli utili. Era il 3 luglio 197575, ma stava accadendo anche
qualcosa al giudice Squillante. Questi era noto per aver in pratica contestato
alla commissione parlamentare che voleva indagare sugli stessi “fondi neri”
Montedison il fatto che non fosse quell’indagine compatibile con il ruolo dei
politici. Un magistrato dunque apparentemente tenace, Squillante, che aveva
capito quanto i politici fossero implicati nella storiaccia dei “fondi neri”,
destinati a tutti i partiti politici tranne il Partito Comunista. Non potevano
essere loro a decidere il proprio destino, ma doveva essere per forza la
magistratura. Questa, però, dovette andare avanti senza di lui, che decise
incredibilmente di dimettersi. Motivo: era stato nominato membro della
CONSOB (Comitato di Controllo sulla Borsa) e le due cariche erano
incompatibili. Ci furono pressioni su Squillante? C’è una correlazione tra

73
Cfr: “Montedison: è necessario far luce sui ‘fondi neri’”, L’Unità, 19 gennaio 1971.
74
Cfr: “Piste nere, indagati questore e poliziotti”, La Stampa, 16 novembre 1973.
75
Cfr: “’Fondi neri’ Montedison: l’istruttoria è finita”, L’Unità, 3 luglio 1975.
210

questi gravi fatti, lo spionaggio del SID e la sua presenza come vittima di
corruzione in uno dei principali processi contro Berlusconi, l’affare SME?
Di certo Paolo Gambescia, giornalista de L’Unità lo rimpiangeva in
quell’articolo, in vista della prosecuzione del processo contro Giorgio
Valerio. Ed ebbe pienamente ragione visto l’esito del processo nel 1980, di
cui ho ampiamente parlato.

L’attacco alla Montedison

Ma c’è un’altra conseguenza possibile di questi sospetti sull’estremismo di


destra, che comunque erano usciti sulla stampa nazionale: essi potrebbero
aver innescato una guerra civile sanguinosissima tra bande di estremisti di
destra e di sinistra. Potrebbe quindi non essere solo la morte degli operai di
Porto Marghera76 il motivo per il quale la Montedison divenne, negli anni
successivi, uno dei principali obiettivi della lotta terroristica delle BR, le
quali avevano l’abitudine di rivendicare tutti i loro attentati, dando
un’importanza maniacale alla comunicazione con la gente, vale a dire i loro
possibili sostenitori. La verità per ora appurata è che durante un processo, il
21 maggio 1981, le BR descrissero ufficialmente “l’attacco alla Montedison”
come un attacco al “cuore della produzione capitalistica”.77
L’ipotesi che le Brigate Rosse agissero per vendicare gli operai potrebbe
creare un alibi ai terroristi, in quanto nel 1996 questa polemica tornò di
attualità. Tra il 2001 e il 2004 la Montedison pagò, per la morte di cancro di
157 operai, dapprima con una transazione extra-giudiziale da 550 miliardi di
vecchie lire in favore del Ministero dell’Ambiente; poi con il riconoscimento
della colpevolezza, in Corte d’appello, di alcuni dirigenti Montedison per
omicidio colposo; condanna che però, nel frattempo, era caduta in
prescrizione. Nella lista degli accusati del pm Casson c’erano anche Eugenio
Cefis, presidente Montedison ed Eni, Alberto Grandi, amministratore
delegato della Montedison e poi presidente dell'Eni, Lorenzo Necci,
presidente Enichem ed Enimont, mentre ne erano esclusi Raul Gardini e
Mario Schimberni, perché deceduti. La loro colpa fu di aver arrecato un
danno all’ambiente, attraverso la produzione della plastica senza le dovute
precauzioni.
In questo paragrafo voglio quindi ricordare i due barbari omicidi del

76
Cfr: “Il dirigente ucciso per la trasmissione in tv”, Stampa Sera, 30 gennaio 1980 e
“Petrolchimico di Marghera, Montedison condannata”, La Repubblica, 15 dicembre 2004.
77
Cfr: “Esaltato dalle BR in aula ‘l’attacco alla Montedison’, La Stampa, 22 maggio 1981.
211

dirigente della Montedison Silvio Gori, assassinato dalle Brigate Rosse il 29


gennaio del 1980 nelle vicinanze di Marghera, in Veneto; e poi il
ritrovamento il 6 luglio 1981, sempre a Porto Marghera, del cadavere di un
altro dirigente Montedison, Giuseppe Taliercio, direttore del Petrolchimico,
che era stato rapito poche settimane prima dalle BR, il 20 maggio 1981, e
che fu ucciso con 14 colpi di pistola al petto.

La pista filocinese dimenticata per colpa del Sid

La strage di piazza Fontana del dicembre 1969, rimasta di fatto impunita, un


colpevole, in realtà, avrebbe potuto averlo subito. Tra i maggiori sospettati
della prima ora non c'erano solo gli anarchici come spesso si sente dire.
Leggendo le pagine del quotidiano La Stampa del 13 dicembre 1969 si
scopre che gli inquirenti pensarono subito ai filocinesi, degli italiani
appartenenti all'estrema sinistra che due anni prima erano finiti sui giornali
per un'inchiesta del Sid.
Nel febbraio del 1967 un operaio siciliano, Michele Savi, era stato arrestato
perché accusato di aver progettato in tutta Italia degli attentati dinamitardi su
ispirazione dei maoisti. Si trattava cioè di terroristi che probabilmente erano
in contatto con dei diplomatici cinesi presenti in Italia. Essendo estremisti,
avevano progettato inoltre l'omicidio del dirigente del Pci, Giancarlo Pajetta.
Si occupò di questa vicenda anche il libro sui servizi segreti scritto nel 1969
da Vinicio Araldi, intitolato "Guerra segreta in tempo di pace".
I filocinesi avevano depositi di armi proprio a Milano. I carabinieri guidati
dai servizi segreti scoprirono in uno scantinato dell'abitazione del Savi, un
modesto addetto alle pulizie, 420 candelotti di esplosivo. Michele Savi fu
condannato a un anno e mezzo di reclusione, ma non tutta la banda venne
sgominata. Il quotidiano La Stampa insistette sul fatto che una complice, una
certa Milena, era stata vista viaggiare su un'auto targata Modena con delle
valigie piene di esplosivo, che avrebbe trasportato dalla Sicilia verso Milano
e Roma (dove nello stesso giorno di piazza Fontana esplosero altre bombe).
Perché questa pista venne abbandonata? Probabilmente per degli oscuri
interessi dei servizi segreti italiani. Sui filocinesi indagava da tempo, infatti,
per conto del Sid, il giornalista Guido Giannettini, ovvero uno degli indagati
del processo per la strage di piazza Fontana. Fu lo stesso Giannettini ad
ammetterlo in una lettera, che inviò nel settembre 1973 al capo del Sid
Maletti e venne pubblicata su La Stampa un anno dopo. Le informazioni gli
arrivavano da due agenti del Sid infiltrati tra i filocinesi, Franco Freda e
Giovanni Ventura, cioè gli altri principali indagati neofascisti del processo su
212

piazza Fontana. Ma questi contatti tra Giannettini, Freda e Ventura per


indagare sui filocinesi, secondo il giornalista, avvennero soprattutto dal
settembre del 1971.
Quali oscuri legami, ci si chiede a questo punto, si erano creati tra queste
spie neofasciste ed i filocinesi, così profondi da impedire che la magistratura
indirizzasse le indagini sui principali sospettati dell'attentato? Le deviazioni
del Sid avevano portato anche a un doppio gioco dei servizi segreti?

"Preparavano attentati confondendosi con i fascisti"

Preparavano attentati confondendosi con i fascisti e con gli altoatesini.


Questa frase scritta sulle pagine dell'Unità il 7 febbraio del 1967 mette paura.
Perché è così' che le cose sono andate in tutti questi anni nella vicenda della
bomba di piazza Fontana.
La frase la pronunciò la polizia, che secondo il quotidiano del PCI stava
indagando insieme ai carabinieri sui filocinesi di Milano, due anni prima del
terribile attentato di Milano. Ci sono scritti altri nomi di indagati, il che vuol
dire che la vicenda non si concluse affatto con l'arresto dell'operaio di cui
parlava il libro di Araldi. Dai quotidiani La Stampa e l'Unità si evince che
intanto c'era un altro arrestato, e si trattava di Aldo Ciulla, 39 anni,
rappresentante originario di Tripoli. Poi c'era la fantomatica Milena, la
donna che con l'auto targata Modena se ne andava dalla Sicilia verso Roma e
Milano con la santabarbara del gruppo. Quindi L'Unità citava Giovanni
Sacchi, un 63enne nel cui laboratorio milanese la polizia aveva trovato il 10
gennaio del 1967 un altro arsenale di esplosivi. Sacchi era noto alla polizia
per aver cercato di attuare un attentato in una caserma Usa di Vicenza.
C'erano inoltre i fornitori di esplosivi della Sicilia, di cui non si seppe più
nulla. Tutti questi signori sembra fossero in contatto con il partito
marxista-leninista d'Italia, un importante gruppo politico extraparlamentare
vicino al PCI sorto proprio in quegli anni.
Come si puo' immaginare all'Unità non piacque che le accuse degli
inquirenti si concentrassero sui loro 'compagni', piuttosto che sulla destra.
Era il periodo dello scandalo Sifar, con i 157mila italiani spiati. Se i redattori
dell'Unità avessero dato un'occhiata agli altri giornali, si sarebbero accorti
che sui filocinesi indagavano proprio gli uomini dell'ex Sifar, ormai divenuto
Sid. E si sarebbero arrabbiati di più. Se poi avessero avuto in mente questo
articolo quando sette anni piu' tardi venne pubblicata la lettera di Giannettini
a Maletti, e si seppe che il Sid si era infiltrato da tempo nei filocinesi, e
proprio con gli indagati di piazza Fontana, ma che non stava più
213

denunciando nessuno alla magistratura, avrebbero realizzato che quella frase


della polizia aveva un senso. E le inchieste non avrebbero perso tanti anni
per assolvere tutti.
Tra le vittime degli attentatori in quel 12 dicembre 1969 alla banca nazionale
dell'agricoltura c'era anche un novarese, Giulio China, 57 anni,
commerciante di bestiame. Visto che abito e lavoro in quella città mi pare
doveroso ricordarlo. Il Sid avrebbe potuto fare chiarezza sull'intera vicenda,
ma preferì tacere. Mi piacerebbe sapere perché. Fino al 1969 l'attività del Sid
per contrastare lo spionaggio sovietico era stata secondo me esemplare, con
buona pace dell'Unità. Molte minacce furono sventate, ma a quel punto le
cose cambiarono e prevalse il segreto a oltranza. Ho validi motivi per
affermare che dai primi anni '70 il Sid non fece più gli interessi del governo
italiano.
214

14

LA VERA TANGENTOPOLI

La Montedison con la sua vendita della quota nell’Enimont realizzò una


plusvalenza di ben 645miliardi. A dirlo era la Corte dei Conti in una
relazione78 che venne inviata al Parlamento nell’aprile del 1991 e che oggi è
rintracciabile nel motore di ricerca online di Google. Si tratta di un
documento riservato di estrema importanza, che permette di conoscere il
punto di vista di un garante dei conti pubblici nell’ambito della vicenda che
ha fatto discutere per tutti gli anni ’90 per i suoi affari e specialmente quelli
illeciti, l’affare Enimont. Per quella fusione, ma che sarebbe più giusto
chiamare tentativo di fusione tra ENI e Montedison , poiché si ridusse a un
acquisto di impianti e di sotto-aziende da parte di ENI, nacque il filone
principale di Tangentopoli, noto come processo per la Maxitangente
Enimont. Si può dedurre dai nuovi elementi che la Montedison finanziò, tra
la fine degli anni ’80 e i primi anni ’90, gli uomini politici proprio per
realizzare quella plusvalenza di 645 miliardi, ‘oliando’ un sistema di
finanziamento ai partiti che, come sappiamo, esisteva fin dagli anni ’60, ai
tempi della Edison di Giorgio Valerio, con finalità poco chiare, ma molto
probabilmente rivolte al terrorismo economico. Raul Gardini si era
semplicemente adeguato, sia al momento di realizzare quella fusione,
versando svariati miliardi, sia quando la fusione non fu possibile portarla
avanti come lui voleva, privatizzando l’Enimont al di fuori del contratto con
ENI, e fu necessario uscire in modo decoroso e oneroso dalla faccenda,
ancora a colpi di mazzette.

La Montedison da Cefis a Gardini

Prima di approfondire meglio il documento della Corte dei Conti sarebbe


forse il caso di fare il punto della situazione. Della storia di questa grande
azienda della chimica italiana sappiamo già molto. Sappiamo che dal 1968 al
1976 l’ENI divenne azionista di maggioranza della Montedison, con una
scalata che portò al vertice aziendale un uomo determinato come Eugenio
Cefis. Sappiamo che la Montendison, frutto della fusione del 1966 tra

78
Cfr “Determinazione della Corte dei Conti n. 21”, Doc XV – bis n. 10 , Camera dei Deputati.
215

Edison e Montecatini, non navigava in buone acque e che perdeva palate di


miliardi ad ogni relazione annuale di bilancio, miliardi che nel 1976 Cefis
cercò di raccogliere attraverso la politica con il grande saccheggio raccontato
da Giuseppe Turani. Ma c’è dell’altro che va detto su questo dirigente.
Secondo lo stesso Turani e il giornalista Eugenio Scalfari, in un libro del
1974 dal titolo “Razza Padrona”, Cefis sarebbe da inquadrare politicamente
come un uomo di uno schieramento noto con il nome di “borghesia di Stato”,
che consisterebbe in un gruppo di manager i quali non avevano alle spalle
nessun gruppo industriale, ma che agivano per conto della politica, e con i
soldi della politica. Cefis, forse anche Mattei, e successivamente Schimberni,
impersonavano un certo di tipo di fare industria che a Scalfari e Turani
convinceva assai poco e nel loro libro questo concetto è molto chiaro. Mi ha
colpito in particolare il punto in cui nel corposo testo gli autori fanno capire
quanto poco importante stessero divenendo nel 1974 per Cefis l’industria e
gli impianti chimici che avrebbe dovuto gestire e quanto invece prendesse
corpo il contorno di quotidiani, di amicizie politiche, di miniscalate ad altre
industrie, di potere nel senso vero del termine che Cefis stava costruendo
intorno all’imponente gruppo industriale Montedison.
Tuttavia Cefis non riuscì laddove Scalfari pensava potesse arrivare: il suo
potere finì già nel 1977, dopo circa sei anni di presidenza della Montedison.
Finì per l’ascesa di un altro manager di quella razza padrona che negli
anni ’80 diventerà il primo protagonista della finanza italiana: Cuccia, che
Turani in un altro libro intitolato “Raul Gardini” chiamerà il “diavolo di via
Filodrammatici”. Cuccia era un abilissimo tessitore di alleanze che fu già
molto attivo nel lontano 1966 all’epoca della fusione Edison-Montecatini, al
punto da oscurare nei libri più recenti il nome di Giorgio Macerata quale
fautore dell’alleanza con la Edison; così tutti i meriti sono stati attribuiti
proprio al “diavolo” della Mediobanca. Quest’ultimo istituto bancario di
diritto pubblico è stato sempre l’ago della bilancia della finanza italiana;
dapprima, sembra di capire, a garanzia del sistema finanziario italiano e dei
suoi equilibri tra pubblico e privato; in un secondo momento per l’esclusivo
capriccio di quest’uomo, abile ma anche assetato di protagonismo e di potere.
Nella Montedison, anche negli anni ’70 proseguì quella lotta acerrima tra
l’industria delle partecipazioni statali, tanto odiosa per la sua politica della
concertazione lenta e poco redditizia per gli azionisti, ma a mio avviso
ancora molto utile allo Stato per sopravvivere alle crisi economiche, e
l’industria privata, che in Italia, come spiega Turani, non è mai stata
appannaggio di imprenditori giovani e rampanti, bensì di pochi eletti; una
elite che viene definita il salotto buono dell’economia italiana, quella per
216

fare dei nomi di Agnelli, Pirelli, Pesenti, Bonomi, De Benedetti. Ha


rappresentato il gotha dell’industria italiana del dopoguerra; oserei dire
anche quella meno spregiudicata e, se pensiamo alla Juventus di Agnelli, più
amata dalla gente. Diviene via via che si leggono i libri sempre più chiaro
che questa elite era ben diversa dalla “Razza Padrona” di cui parla Scalfari.
Di quest’ultima nei libri sulla Montedison si perdono le tracce: sembra
perdere la propria intraprendenza con la sconfitta di Cefis nel 1977. Quella
spregiudicatezza poco produttiva e molto prevaricatrice dei diritti altrui,
penso al sistema militare che si dice fosse alle spalle di Cefis e Mattei, venne
travolta dapprima dall’avvento di un uomo come Schimberni, il quale
credeva in un ritorno all’antico per la Montedison e che quindi avrebbe visto
volentieri inserita in una “public company”, intendendo con essa una società
con a capo un manager senza portafoglio e con una base di azionisti allargata,
non solo ai privati, ma ancora una volta, come al tempo delle monetine del
1970, ai piccoli azionisti. In un secondo momento la “Razza Padrona”
scomparve anche per l’emergere in Italia di un secondo boom economico,
che precedette di poco la distensione politica tra est e ovest, tra Urss e Usa, e
che si caratterizzava per una rinnovata euforia per le quotazioni in borsa
delle società. Era il 1985. In questo periodo erano accadute alcune cose nella
Montedison che bisogna raccontare brevemente: nel 1977, al posto di Cefis,
Cuccia aveva chiamato un certo Medici, che per la gran parte degli scrittori
che hanno narrato le vicende di questa industria non ha lasciato il segno del
suo passaggio. Alves Marchi nel suo libro sulla storia della Montedison dal
1966 al 1989 afferma che Medici ebbe il merito di arrivare al pareggio di
bilancio tra il 1978 e il 1979. Ma il prezzo da pagare fu alto e va letto in
termini di dismissioni di aziende e di ricorso massiccio alla cassa
integrazione. L’arrivo di Medici e la misteriosa, stando al libro di Sandro
Ruju “La parabola della petrolchimica”, partenza dello sconfitto Cefis per il
Canada corrispondono anche alla fine della cosiddetta “guerra chimica”, che
vide di fronte Montedison, ENI e SIR e che ebbe quale unico risultato quello
di indebolire la posizione italiana nella produzione chimica nel mondo. Si
crearono infatti dei doppioni e solo l’uscita di scena di Rovelli, nel 1977, in
seguito all’inchiesta giudiziaria di Infelisi, la quale secondo voci sarebbe
nata da un vertice della Loggia P2 ad Arezzo, permise alla Montedison di
respirare un po’.
Quello che risulta certo dai dati è che il passivo della società di Foro
Bonaparte (ma alcuni preferiscono la dicitura: Foro Buonaparte) non era
affatto diminuito con le acquisizioni di Cefis. E Medici poté solo tamponare
momentaneamente le perdite. La vera novità arrivò nel 1981: l’ENI, lo
217

sottolineo questo alla luce di quello che avverrà per l’affare Enimont, preferì
cedere la sua quota di azioni Montedison alla Gemina, un’azienda dove
sedevano tutti gli industriali che ho citato prima, quelli della elite
dell’imprenditoria privata. Ma questi signori tenevano più al prestigio che al
futuro della chimica italiana e la loro acquisizione della maggioranza della
società di Foro Bonaparte contava fino a un certo punto. Al timone c’era
forse l’ultimo di quella “Razza Padrona” che divorava miliardi e tanti altri
ne chiedeva ai politici, Schimberni. Questi fu un manager tanto abile e colto
da riuscire a illudere l’opinione pubblica di essere stato in grado di risanare
il maxi debito della Montedison. Ma la sua voglia di primeggiare cominciò
presto ad assomigliare all’intraprendenza di Cefis; e con la scalata alla
Bi-Invest, ma ancora di più con quella alla Fondiaria, che fece fare alla
Montedison con i soldi di una società a questo punto, è bene rimarcarlo,
privatizzata al 100%, si scontrò con gli equilibrismi e gli isterismi di Cuccia,
al quale non stava affatto bene che si smontasse il castello che aveva
costruito con tanta pazienza nel corso degli anni. Il “diavolo di via
Filodrammatici” cominciò a chiedere aiuto ai suoi amici, soprattutto cercò
un imprenditore che potesse impossessarsi di Foro Bonaparte con una
scalata spettacolare. Si rivolse a un uomo dell’elite degli industriali, De
Benedetti, ma non si era accorto, come gran parte dell’opinione pubblica,
che nell’ombra si era fatto strada un gruppo che fatturava molti miliardi, il
gruppo Ferruzzi, il quale con la morte del padre-padrone Serafino Ferruzzi
in un misterioso incidente aereo nel 1979 era ora nelle mani di un manager
di Ravenna, Raul Gardini, marito di una delle figlie di Serafino. Gardini era
spregiudicato come Cefis, ma appariva come prodotto del recente boom
degli anni ’80. Aveva una mentalità imprenditoriale che puntava sulle
privatizzazioni, in un periodo in cui la politica con le Partecipazioni Statali
aveva rinunciato alla Montendison, ma non a controllare l’industria pubblica
e anche ad avere influenze su quella privata con i propri uomini, come nel
caso del PSI di Craxi.
Gardini, come dice simpaticamente, Turani riuscì a mandare a gambe all’aria
Cuccia e De Benedetti, i quali si preparavano a lanciare un’OPA sulle azioni
Montedison, cioè un rastrellamento a prezzo maggiorato delle azioni della
Montedison presenti sul mercato. L’uomo di Ravenna offrì molto di più e,
sapendo giocare d’azzardo, chiuse la partita in due giorni. Veniva
considerato per questo un raider e non ne era affatto seccato.
Diventa evidente a questo punto della storia che dalle riunioni di Foro
Bonaparte del 1970 era passato un secolo. Il gioco dell’alta finanza a suon di
rilanci in borsa prendeva il sopravvento sulla programmazione e sulle
218

relazioni di quanto accadeva nel comparto industriale. E’ questo un elemento


che mi ha colpito molto. Cominciavano a mancare i dati, i numeri, le
lamentele della base operaia. E’ quanto avevo già sottolineato nel capitolo
sulle “Radici del male”. Anche perché questi uomini della “Razza Padrona”
assomigliano molto a quegli industriali del petrolio che avevo identificato
con una semplice ricerca d’archivio. Ricomparve Nino Rovelli e la sua fu
più di una comparsa, diciamo che, come avevo accennato in altre sedi, dopo
il suo fallimento ammorbidito dall’intervento dello Stato avvenne uno
sdoppiamento: gli impianti vennero ceduti all’ENI nel 1982 dal nuovo
consorzio interbancario (ma sappiamo ora che c’era dentro anche lo Stato
con il Comitato), ma nuovamente Rovelli li vendette alla Montedison e a
Gardini nel 1988. La curiosità compare nel libro di Turani su “Raul Gardini”.
Al momento di unire ENI e Montedison si ricompattava dietro le quinte
anche il dissestato impero finanziario della SIR. Diventa chiaro che Rovelli
faceva sicuramente parte della “Razza Padrona”, ma per Turani resta un
perdente, come lo era Cefis. Questi uomini, a distanza di anni possiamo
affermarlo, sono riusciti a lasciare tracce del loro passaggio nella nostra
attualità proprio grazie ai politici che li spalleggiarono e li foraggiarono, i
quali ne hanno condizionato il giudizio da parte dell’opinione pubblica, in
modo tale da farne figure positive, mentre si è persa memoria della loro
brama di conquista scriteriata dal punto di vista imprenditoriale e dei loro
metodi che definirei dittatoriali (in questo anche Longarini non faceva
eccezione). Qualcuno, come ho dimostrato in precedenza, nella Seconda
Repubblica si sta occupando ancora degli affari messi insieme da questi
manager di Stato; del resto Mani Pulite non ha chiuso il conto con quella
politica corrotta e ne risentiamo ancora oggi molti effetti.
Dicevo delle scalate della metà degli anni ’80. Il gioco si era fatto duro e
avvincente. Duro perché si trattava di una guerra da film, con telefonate per
chiedere rilanci di borsa, ripicche, acquisti a prezzi da record, e tanto altro
che avevano reso Gardini un uomo da copertina; avvincente perché c’era
indubbiamente positività nell’ambiente economico, non solo per
l’intraprendenza di questi nuovi manager della Ferruzzi, che erano molto
meno compassati dell’elite industriale guidata dalla Fiat, bensì perché
nasceva o rinasceva l’idea dell’azionariato popolare, anche se si trattava ora
di speculazione più pericolosa e meno garantita dalla politica. La “public
company” di Schimberni non si farà mai in termini di partecipazione della
gente a un sindacato di controllo come avvenne nel 1970, ma sicuramente
dal 1985 con i fondi comuni di investimento per i piccoli azionisti nasceva la
speranza di realizzare in poco tempo facili guadagni con acquisti e vendite in
219

borsa. Il periodo viene ribattezzato da Turani e forse nemmeno da lui ma dai


giornalisti dell’epoca: “Panino e listino”, perché la gente all’ora del pranzo
si fermava al bar a guardare sui monitor il listino della borsa con gli occhi
fissi sui propri investimenti. Non durerà molto, ma questo permetterà a
Gardini, con molti meno soldi di quanto si pensava potesse avere in cassa, di
scalare quante più aziende era possibile.
Nel 1973 c’era stata già un’esperienza del genere, con imprenditori
spregiudicati che avevano cercato di autofinanziarsi con i soldi della gente,
ma quello era stato solo fumo negli occhi e in poco tempo i colpevoli erano
stati quanto meno smascherati: un nome su tutti, Michele Sindona. Gardini
era diverso: piaceva di più alla gente e non solo perché nel 1991 porterà una
barca italiana alla Coppa America di Vela. Offriva un’immagine positiva.
Quello che convinceva di meno era il metodo con cui molti di questi
imprenditori nuovi amministravano le loro industrie. Si accentuò la tendenza
a utilizzare le scatole cinesi (o le bambole russe di cui parlavo in altre pagine)
per controllare a cascata tante aziende con l’obiettivo finale, nella fattispecie,
di arrivare in modo più sicuro al controllo della Montedison. Anche in
questo c’era la mano di Cuccia, il quale, dopo aver dato prova nel 1976, con
il reperimento miracoloso dei 2000 miliardi che servivano a Cefis, di saper
tessere contorte ma efficaci operazioni finanziarie, aveva messo in cassaforte
anche il suo castello di alleanze attraverso un controllo quasi incrociato di
aziende strategiche per l’Italia (la legge vietava acquisizioni di questo genere,
vale a dire: l’azienda x che comprava il 50% della azienda y, la quale a sua
volta comprava il 50% dell’azienda x). La Montedison come sappiamo
aveva accumulato partecipazioni in quotidiani e altri marchi importanti come
la Standa, ad esempio. Ma tutto questo portafoglio di azioni era stato messo
in una cassaforte vuota denominata Meta. Quando Gardini prese il controllo
della maggioranza di Meta e quindi di Montedison, scoprì che non poteva
fare a meno di due uomini in particolare: Schimberni e Garofano, i quali
erano i soli a poter ricostruire l’intricata tela delle scatole cinesi contenenti
in separata sede i gioielli di Foro Bonaparte.
L’uomo di Ravenna, detto anche il “Corsaro”, cercò in un primo momento di
proseguire con Schimberni, poi quando non si fidò più di lui lo licenziò. E
creò una importante fusione della Meta con la Finanziaria che controllava il
Gruppo Ferruzzi, la Ferfin. Con la scalata dell’ottobre 1986 alla Montedison,
Raul Gardini aveva insomma messo fuori gioco De Benedetti e si era
imposto come il leader dell’industria privata italiana. La sua idea in quel
periodo era ambiziosa e mai messa sul tavolo in termini di programmazione,
di concertazione con le parti sociali. Manca nei libri e nei documenti che ho
220

esaminato un resoconto trasparente dei conti della Montedison; sono sempre


più lontani i tempi di Merzagora. Riuscì comunque nel suo intendimento di
unire la grande competenza della Ferruzzi nel campo agroalimentare con
quel comparto così strategico per l’Italia che era la chimica.
Il problema erano sempre i debiti: in fondo fu il motivo per cui Schimberni
venne licenziato. Non è chiaro fino a che punto Gardini avesse valutato il
passato della Montedison, quanto sapesse dei “fondi neri” degli anni ’60
e ’70 e quanto gli fosse stato spiegato delle radici politiche di quella grande
azienda, che tutto stava diventando fuorché un’industria. Quando entrò al
vertice di Montedison Gardini pubblicò comunque per la prima volta il
bilancio consolidato del suo gruppo (la Ferruzzi) e dimostrò a tutti che era
molto meno competitivo di quanto si pensasse. Anche lui era un manager
senza portafoglio: il malloppo di azioni stava tutto nelle mani nella moglie,
la figlia di Serafino. Capì probabilmente troppo tardi che la situazione
finanziaria che gli aveva lasciato Schimberni non era rosea come poteva
apparire dall’esterno. Soprattutto Gardini si accorse che per governare quella
nave così ingombrante aveva bisogno di entrare nei salotti della politica, e a
lui i politici piacevano poco. Non era un uomo della “Razza Padrona”, anche
se Cuccia, vistosi impotente contro la testardaggine del “Corsaro” lo inserì
sotto la sua ala protettrice e con un nuovo circolo vizioso di vendite e
acquisizioni gli fece coprire alcune falle che si erano presentate nel bilancio
Montedison all’indomani della sua scalata. Eravamo nel 1987. Ma era una
grossa trappola anche questa: pur non sborsando una lira, il gruppo Ferruzzi
perse il 100% delle azioni della propria finanziaria Ferfin e questo volle dire
guadagni più che dimezzati. Fu un colpo pesante per un uomo che stava
puntando proprio sulla creazione di un impero, che convinse probabilmente
Gardini che era il momento di puntare a un accordo con l’industria pubblica;
proprio lui che si era messo in testa di fare della Montedison una azienda
leader della chimica privata.
Fu la politica a proporre a Gardini questo accordo con l’ENI per creare il
colosso Enimont, e lo dimostra oggi il documento della Corte dei Conti.
L’azienda pubblica che fu di Enrico Mattei, poi di Cefis, poi di Girotti (il
vice di Cefis all’ENI), dopo circa 8 anni tornava laddove era stata padrona di
casa dal 1968 al 1981. Siamo all’anno 1989, quello della caduta del muro di
Berlino. Eravamo dunque di fronte a una nuova fusione? Stava per andare in
scena una storia che si ripeteva ciclicamente? Sembra proprio così, anche se
sui libri i paragoni con lo storico accordo Edison-Montecatini mancano del
tutto. Perché in effetti le cose non andarono nello stesso modo. Se infatti le
due aziende degli anni ’60, pur tra mille diatribe, erano riuscite a far lavorare
221

insieme i propri impianti e i propri uomini, ENI e Montedison furono una


cosa sola solo sulla carta. Quella che nacque nel 1989 fu una creatura voluta
fortemente dal PSI di Craxi e De Michelis, i quali avevano in testa la stessa
cosa di Gardini: creare la più grande industria chimica d’Europa, ma una
industria che avesse al suo comando uomini dell’entourage del partito del
Garofano. Gardini invece continuava a sognare in grande e sperava di creare
il suo business nell’est europeo, dove la caduta del muro di Berlino aveva
creato un mercato nuovo e milioni di nuovi potenziali clienti. Le due visioni
sembravano vicine, ma finirono per divergere per la voglia di protagonismo
dell’uomo di Ravenna.

Nasceva il sogno Enimont

Gardini, pertanto, sembrava un manager della “Razza Padrona”, ma non lo


era, perché non amava compromessi con la politica. Eppure non era
nemmeno vicino all’elite dell’industria privata italiana, perché non aveva
azioni e aziende sue e pensava a costruire un impero più che a gestirlo.
Quando i socialisti gli proposero di creare l’Enimont pensando già a un
presidente come Necci, che negli anni ’80 guidava l’Enichem, un’altra
creatura dell’ENI, lui era alle prese con i debiti della Montedison e se
accettò fu anche per questo: per sbarazzarsi di aziende piene di debiti che ora
poteva girare al pozzo senza fondo dell’ENI79. Sulle origini di questo patto
tra ENI e Montedison oggi ci viene in soccorso il documento della Corte dei
Conti che citavo all’inizio del paragrafo. Si tratta della determinazione
numero 21 “relativa ai rapporti ENI-Montedison concernenti la
partecipazione alla società Enimont”. Fu trasmessa alla presidenza il 4 aprile
del 1991. Dice il rapporto a pagina 51 nelle conclusioni a proposito della
nascita del colosso ENI-Montedison: “E’ stato ricordato come sia nata in
ambiente ENI l’idea che porterà alla costituzione di Enimont. Un’idea di
collaborazione intensa, di messa a comune di importanti risorse, di

79
Questa la spartizione che venne stabilita: da parte di Enichem, confluirono nella nuova
grande struttura di Enimont le seguenti aziende: EniChem Anic e controllate, EniChem
Synthesis e controllate, EniChem Anic e controllate, EVC (50%), EniChem Tecnoresine,
EniChem Agricoltura e controllate, EniChem Augusta e controllate, EniChem Elastomeri e
controllate, EniChem Fibre e controllate, Raffineria siciliana, Nurachem, Sclavo, Bellico,
Boston, Alta, Sinel e altre società minori. Da parte di Montedison, invece, passarono in Enimont
le seguenti aziende: Auschem, Ausind, ACNA, Vinavil, Montedipe e controllate, Agrimont e
Conserv, Ausidet, Dutral, Montefibre (59,49%) e controllate, Raffineria e aromatici di SELM,
Istituto Guido Donegani, Sefimont, Sime, Segem (Facebook).
222

razionalizzazione di siti e di ripartizione di oneri di responsabilità per un


grande progetto industriale”.
La società venne a quel punto creata suddividendo il capitale delle due
aziende in due parti uguali pari al 40% del capitale della nuova Enimont,
mentre il restante 20% si decise che sarebbe stato collocato sul mercato
azionario. Rispetto al 1966 e alla fusione Edison-Montecatini non ci fu,
come sottolinea la relazione della Corte dei Conti, un sindacato di controllo,
bensì una rappresentanza di 10 delegati suddivisi in parti uguali tra i due
colossi: 5 delegati ENI e 5 delegati Montedison. Venne siglato un accordo
contrattuale molto ben architettato il quale prevedeva anche una possibile
privatizzazione, ma non prima di un triennio. Montedison avrebbe potuto
accrescere la propria quota in una data ben precisa, ma ENI avrebbe potuto
accettare o rifiutare queste eventuali modifiche. Erano dettagli che
sembravano riuscire ad imbrigliare Gardini in una marcatura stretta da parte
dell’ENI e dello Stato, ma non andò affatto così. Se nei primi anni ’70
all’ENI bastò acquistare un buon pacchetto di azioni pari al 16-17% del
capitale per dettare legge, adesso le cose si facevano più difficili. Il rischio di
scalata era molto più alto e meno calmierato dallo Stato. Gardini cominciò a
cercare alleati per trasformare quindi quel suo 40% in un 51% che avrebbe
voluto dire maggioranza assoluta. Cercò di vendere a industriali amici parte
del 20% di azioni destinate al mercato e pare che vi riuscì. Chiese in un
primo momento in assemblea di poter aumentare i delegati da 10 a 12 e gli
fu concesso da Cagliari, il presidente dell’ENI. Ma il Ministro alle
Partecipazioni Statali, Fracanzani, non ci stette e bloccò ogni richiesta. Era
in pratica la dichiarazione di guerra tra lo Stato e il “Corsaro”, al quale i
partiti non stavano concedendo soprattutto una cosa: gli sgravi fiscali sulle
plusvalenze derivanti dalla fusione della Montedison con l’ENI. Il
provvedimento fu più volte rinviato e pare che alla fine non se ne fece più
nulla. Questo punto è importante soprattutto alla luce di quanto i magistrati
di Mani Pulite scoprirono pochi anni dopo. Gardini per avere quegli sgravi
fiscali aveva finanziato i partiti con dei “fondi neri”, non dichiarati nel
bilancio Montedison e quindi al di fuori anche delle concessioni del Decreto
Legge sul Finanziamento ai partiti. Ecco quindi spiegato quel sacro furore
del “Corsaro” di Ravenna contro quei politici così esosi e poi privi di
memoria al momento dei ringraziamenti.
Torniamo al documento della Corte dei Conti. Gardini aveva dunque
conquistato una posizione di maggioranza all’interno dell’Enimont e lo Stato
attraverso l’ENI doveva intervenire. Dice la Corte attraverso il firmatario del
documento, Ristuccia, che: “Di fronte alla posizione forte di Montedison e al
223

suo conseguenziale potere di ‘veto’ è emersa l’esigenza, come riferisce


l’ENI, di ‘individuare un meccanismo di soluzione del contenzioso
imperniato sulla rimessione alla Montedison della scelta se divenire
acquirente o venditrice dell’intero complesso Enimont’. Soluzione di non
poco conto – commentava lo stesso relatore della Corte dei Conti Ristuccia –
rispetto a profili più generali di interesse pubblico in quanto con ciò veniva
rimessa a Montedison la decisione di privatizzare la chimica ENI”. La
Montedison poteva quindi decidere il suo destino e Gardini in una intervista
televisiva più volte riproposta affermava spavaldo: “Decido io”. Però l’ENI
aveva creato i presupposti affinché Gardini decidesse quello che faceva
comodo all’ENI. Quella vendita o acquisto che venne stabilito senza asta e
in modo automatico, e questo per decisione del CIPE80, doveva avvenire ad
un prezzo che solo il gruppo ENI stesso poteva concordare. Infatti,
proseguiva Ristuccia, “il carattere automatico del procedimento nulla ha a
che vedere con una supposta ‘neutralità’ dell’ENI nei confronti degli
interessi in gioco ai fini della fissazione del prezzo.” “Il prezzo – sta scritto
nel documento – deriva proprio dalla ponderazione degli interessi in gioco”,
interessi su cui viene specificato che l’ENI non è arbitro imparziale.
A pagina 57 la nota della Corte passa a descrivere l’attività della politica nel
cercare di risolvere questo contenzioso. Questi politici che si erano alternati
nella gestione dell’emergenza avevano finito con il confondere i propri ruoli.
“Si può anzi supporre che tale sovrapposizione di ruoli abbia suggerito alla
parte privata di rivolgersi agli interlocutori pubblici secondo le proprie
ritenute convenienze.” In poche parole, mi viene da interpretare, la Corte dei
Conti non aveva capito fino a che punto i politici avessero fatto da garanti e
quanto invece avessero favorito una certa soluzione, soluzione che ora
vedremo, non era stata certo un affare per lo Stato e per i contribuenti. In una
lettera del 25 ottobre 1990 infatti la Montedison chiedeva ai politici di non
favorire l’ENI, cioè l’industria pubblica su cui lo Stato aveva concreti
interessi.
Gardini si era accorto a questo punto che la politica era troppo schierata
contro di lui e che quel sogno di creare il polo chimico più forte d’Europa
non si poteva raggiungere. Il tribunale aveva bloccato ogni scalata e
rimandato al rispetto degli accordi contrattuali. Il “Corsaro” aveva così
deciso di vendere il suo 40%. Ma fu veramente una sua libera scelta? Dai
documenti sembra smentita questa ipotesi ed emergono responsabilità dei

80
CIPE vuol dire: Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. E’ stato
costituito nel 1967 con una legge, la 48 del 27 febbraio ‘67 (Treccani).
224

suoi più fidati dirigenti: il parente Carlo Sama, Giuseppe Garofano, cioè
l’uomo di Schimberni alla Meta, e Panzavolta. Furono loro molto
probabilmente a influire sulla determinazione del prezzo effettuata dall’ENI.
Sull’argomento il documento della Corte dei Conti si era soffermato a lungo
nelle pagine precedenti le conclusioni che sto esaminando. E’ molto
importante, ai fini di un confronto con quanto poi emerso in Tangentopoli,
capire come si sia arrivati a stabilire il costo delle azioni di Enimont. Alla
fine la Montedison venderà il suo 40% di Enimont al prezzo totale di 2.805
miliardi; una cifra molto alta. Come era stato possibile?
“Il 12 settembre del 1990 – recita il documento - non appena fu chiaro che
si sarebbe dovuto procedere a mettere fine alla collaborazione fra ENI e
Montedison in Enimont, il presidente dell’ente di gestione costituì, con
proprio ordine di servizio, un “Gruppo di valutazione interno” composto dal
direttore per lo sviluppo, programmazione e controllo e dai direttori
amministrativo e finanziario, e coordinato da un alto dirigente del gruppo
ENI. Tale gruppo di controllo – spiega ancora la relazione di Ristuccia –
ebbe il ‘compito di elaborare le valutazioni economiche per le trattative con
Montedison in esecuzione alle direttive ministeriali’ ed è stato chiamato a
riferire ‘direttamente al presidente’.” La procedura prevedeva che la giunta
al termine del suo lavoro riferisse il tutto al Ministro alle Partecipazioni
Statali, il quale sarebbe stato supportato nella valutazione finale da un
collegio di periti. Fu il ministro a stabilire, con la sua lettera del 17
novembre 1990, la forbice all’interno della quale sarebbe stato scelto il
prezzo, che poteva quindi oscillare al massimo tra 2.650 e 2.850 miliardi. Si
intuisce bene che i 2.805 miliardi sono una somma troppo vicina alle stime
più generose fatte dagli esperti della giunta e della stessa forbice stabilita dal
ministro.
Le valutazioni degli esperti sul prezzo della quota Montedison avevano dato
un esito nettamente inferiore ai 2.805 miliardi spesi dal presidente dell’ENI,
Cagliari. Eccole dalla pagina 33 del documento: “Goldman Sachs – valore
minimo: 2.125 miliardi, Merrill Lynch – prima ipotesi di minimo: 2.270
miliardi, Merrill Lynch – seconda ipotesi di minimo: 2.550 miliardi, Merrill
Lynch - prima ipotesi di massimo: 2.610 miliardi, prof. Jovenitti: 2.710,
Goldman Sachs – valore massimo: 2.720, Gruppo di valutazione interno:
2.750, Merrill Lynch – seconda ipotesi di massimo: 2.890.
Furono quindi espresse valutazioni che portarono indubbiamente a un
esborso dell’ENI per acquistare il 40% della quota Enimont di Gardini molto
più alto del normale. In una riunione del 18 novembre del 1990 il Ministro
giustificò questo prezzo con le prospettive di grande crescita che il gruppo
225

Enimont avrebbe potuto avere in un prossimo futuro, superando la soglia del


valore stabilito e arrivando magari anche a 3000 miliardi di vecchie lire. A
giudicarle con il senno di poi queste asserzioni c’è da essere molto scettici
sul fatto che il Ministro alle Partecipazioni Statali credesse veramente che
Gardini potesse rinunciare a un simile presunto affare. E’ più facile, alla luce
delle confessioni dei dirigenti Montedison al processo di Mani Pulite,
ipotizzare che il prezzo sia il frutto di un accordo sotto banco favorito dalla
maxitangente Enimont, che sappiamo ormai venne emessa dal gruppo
Montedison per uscire in quel modo da Enimont.

Mani pulite e Corte dei Conti a confronto

Secondo il documento di autorizzazione a procedere81 nei confronti di


Severino Citaristi diffuso recentemente su internet e reperibile su Google sul
sito del Senato, il pool di Mani Pulite scriveva a proposito di questa
maxi-tangente che fu erogata dalla Montedison, attraverso il direttore
finanziario dell’ENI, Enrico Ferrari, la somma di 12 milioni 400 mila dollari
in gran parte poi giunta nelle casse del Partito Socialista. Nelle dichiarazioni
di Sama e di Garofano, due dirigenti Montedison, veniva confermato inoltre
il fatto che dalle casse della loro azienda uscirono in totale per la sola
vicenda Enimont circa 100 miliardi di vecchie lire “utilizzando risorse
extracontabili originate in Italia”.
Ma c’è qualcosa che mi ha colpito particolarmente e verte sulla questione
del prezzo maggiorato della quota del 40% di Enimont. Molto significativa è
la dichiarazione resa ai giudici dal vice-presidente dell’ENI, Alberto Grotti,
contenuta sempre nell’autorizzazione a procedere nei confronti di Citaristi.
Veniva confermato in sostanza il sistema attraverso cui lo Stato stabilì la
cifra dei 2.805 miliardi di vecchie lire. Disse Grotti: “Voglio precisare un
particolare e cioè: il 16 o 17-11-1990, di sera, vengo contattato
telefonicamente da Panzavolta, che io avevo conosciuto per l’affare Imeg, il
quale mi dice che all’interno del gruppo Ferruzzi ci sono delle divisioni tra
coloro (intendendo la famiglia Ferruzzi) che vogliono vendere il 40% di
Enimont e Gardini che sarebbe più orientato ad acquistare il 40% di Enimont.
Inoltre nella medesima telefonata il Panzavolta mi dice anche che lui
rappresenta il gruppo che vuole vendere (quindi la famiglia Ferruzzi). In

81
Cfr “Domanda di autorizzazione a procedere contro il senatore Citaristi”, Doc IV, N. 221,
Senato della Repubblica.
226

definitiva mi spiega che mi sarebbe stato grato, come per la vicenda Imeg, se
io avessi fatto sì che anche con il mio atteggiamento si fosse arrivati al
risultato sperato dalla famiglia Ferruzzi.” A questo punto Grotti spiegò al suo
interlocutore che anche secondo lui Enimont era un’azienda strategica per
l’ente pubblico e che non andava venduta a Gardini, ma semmai comprata. Il
prezzo lo avrebbe dovuto stabilire Cagliari il quale, il giorno 18 novembre
1990, convocò la giunta. La determinazione del prezzo all’interno di quello
che era noto come “patto del cow-boy” si aggirava intorno alla cifra di
2.650-2.850 miliardi ed era frutto di quella procedura che abbiamo già visto
nel documento della Corte dei Conti. Tutto è confermato fedelmente in
questa dichiarazione giudiziaria, con l’aggiunta dei nomi del comitato di
periti nominati dal Ministro alle Partecipazioni Statali Piga, ovvero i
professori Zanda e Ferri. Il prezzo di 2.805 secondo Grotti era il frutto di una
media dei valori all’interno di quella forcella, che conteneva già delle
valutazioni di fascia medio-alta rispetto alle stime che ho riportato sopra. Era
perciò un prezzo che restava una seconda volta nella fascia alta della forcella.
Difatti ecco cosa accadde quando Cagliari disse a Grotti che a quella cifra da
lui stabilita l’ENI non solo poteva vendere, ma poteva anche comprare.
Grotti telefonò a Panzavolta e questi ringraziò sentitamente promettendo di
farsi vivo con le mazzette. Affermò Grotti ed è scritto nel documento: “Tra il
mese di dicembre 1990 ed il mese di maggio 1991 io ricevetti le visite di
Panzavolta, il quale ogni qualvolta ci incontravamo mi consegnava delle
borse contenenti dei soldi contanti per circa 3 miliardi, più, mi pare
nell’ultima occasione, titoli di Stato per circa un miliardo per un importo
totale quindi di 4 miliardi.”
La storia che l’opinione pubblica ben conosce per averla letta sui vari
quotidiani e libri a questo punto dice che Gardini, venduta l’Enimont, si
dimise da presidente del gruppo Ferruzzi e si dedicò alla vela e a una nuova
avventura finanziaria in Francia. Questo lo scagionerebbe solo in parte però
dalle responsabilità nel finanziamento ai partiti con i soldi della Montedison
attraverso i “fondi neri”. Le prove c’erano e Gardini, forse per questo, il 23
luglio 1993 si suicidò in un modo che non ha mai convinto del tutto. Nello
stesso periodo si tolsero la vita altri due personaggi coinvolti in questa storia:
il presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari, e, prima di loro, il direttore
generale del Ministero alle Partecipazioni Statali, Sergio Castellari.
Dicevo delle prove. Nella richiesta di autorizzazione a procedere per
Citaristi emerge che il “Corsaro” fu messo al corrente del sistema illecito di
finanziamento ai partiti, PSI e DC in primis, non appena ebbe messo piede a
Foro Bonaparte. Secondo una dichiarazione di Giuseppe Berlini, fiduciario
227

del gruppo Ferruzzi, per portare a termine la fusione tra ENI e Montedison
Gardini aveva bisogno di sgravi fiscali affinché l’operazione non fosse
economicamente svantaggiosa. In ballo c’erano plusvalenze da 800 miliardi
e fu chiesto a Ciriaco De Mita della DC di emanare un Decreto Legge.
Spiegò Berlini che si era a quel punto “tra la fine del 1988 e i primi del 1989.
In tale situazione Gardini mi fece presente che occorreva ‘oliare’ il sistema
dei partiti e quindi alcuni esponenti politici affinché nessuno frapponesse
ostacoli all’emanazione del decreto per poter ottenere lo sgravio fiscale
predetto. Gardini mi disse allora di approntare delle somme di denaro da
mettere a disposizione di colui che disse di essere il referente dei politici in
questione e che per loro conto avrebbe ricevuto il denaro: Sergio Cusani.”
Berlini spiegò anche che Gardini parlò con lui perché era l’uomo che gestiva
la contabilità riservata ed extra-bilancio del gruppo Ferruzzi, poiché i soldi
di cui “aveva bisogno Gardini non potevano uscire dalle casse del gruppo.”
Inoltre anche dopo la vendita del 40% della quota Montedison in Enimont,
Gardini si interessò secondo le dichiarazioni dell’inquisito alla questione
delle tangenti. Raccontò infatti Berlini nel corso dell’interrogatorio questi
fatti: “Come noto nel novembre del 1990 la Montedison cede le proprie
quote Enimont all’ENI per un importo di 2.805 miliardi alla fine di una
lunga diatriba che aveva visto il partner privato con il partner pubblico. Già
dal gennaio 1991 Gardini e Carlo Sama mi fecero entrambi presente che
avevano urgente necessità di reperire anche in questo caso una provvista
riservata che entrambi quantificarono in 35 miliardi di lire da far pervenire al
sistema dei partiti per il tramite di Sergio Cusani.” Spiegò l’interrogato che
alla base di questo esborso c’era, secondo Gardini e Sama, proprio “la
necessità di far fronte agli impegni presi con il sistema dei partiti”.
Sono cose che i giornali degli anni ’90 ci hanno ripetuto più volte, ma
assumono un ulteriore significato se andiamo oggi a leggere, come dicevo
all’inizio e ho ripetuto più volte, che quel prezzo era stato sovrastimato, non
solo dal Ministro, ma anche dalla stessa giunta dell’ENI che aveva potuto
contare sulle valutazioni degli esperti. Torniamo a questo punto al
documento della Corte dei Conti firmato dal signor o dottor Ristuccia.
Sappiamo che il Ministro alle Partecipazioni Statali aveva valutato al rialzo
il 40% di Enimont perché era ottimista circa il futuro della chimica e spiegò
nella riunione del 18 novembre 1990 anche che, non sapendo ancora se la
Montedison volesse vendere o comprare questo pacchetto di azioni, temeva
che potesse rivendere successivamente queste azioni stesse a un prezzo più
alto. Ma emergeva un altro elemento fondamentale in quella sede, la vera
prova che potrebbe dare ragione al pool di Mani Pulite, se mai fosse
228

possibile un revisionismo del processo a Tangentopoli: emergeva che l’ENI


auspicava un acquisto, piuttosto che una vendita (nonostante quel prezzo),
della partecipazione posseduta da Montedison.
Che insomma le cose potessero finire in quel modo, con l’acquisto dell’ENI
era nella natura dell’attività dell’ente di Stato. Nelle conclusioni Ristuccia
scriveva che c’erano due soli attori: da una parte la Montedison “disponibile
probabilmente da sempre ad un buon affare finanziario; dall’altra l’ENI,
ideatore della Joint-Venture, convinto della necessità di concentrare la
chimica italiana e delle proprie capacità di gestire la concentrazione, e
comunque obbligato, non solo e non tanto dalla legge, quanto dalla logica
industriale di ente petrolifero, a ‘fare chimica’.” I fatti alla fine erano
molto chiari alla Corte dei Conti, nonostante fossimo ancora lontani dal
ciclone di Mani Pulite. La Montedison aveva realizzato una plusvalenza e
Ristuccia ne esponeva l’entità. Se è vero, infatti, che Montedison aveva “a
libro” una quota Enimont di valore pari a 1.950 miliardi, con la vendita della
partecipazione pari al 40% al prezzo totale di 2.805 miliardi aveva realizzato
una plusvalenza lorda di 855 miliardi, e netta di 765 miliardi. C’è inoltre
un’altra valutazione che Ristuccia ricordava nel documento ed è quella
economica, basata cioè sul valore del patrimonio dell’azienda, che in totale
era stimato sui 5.400 miliardi, da cui andava dedotto il 40% della quota
Montedison, pari a 2.160 miliardi.
La differenza di prezzo con i 2.850 miliardi è evidente. Foro Bonaparte
aveva realizzato una plusvalenza economica di 645 miliardi di vecchie lire.
E questa plusvalenza veniva considerata una sorta di premio di maggioranza
che avrebbe dovuto ricevere la parte disposta ad acquistare il 100% di
Enimont. Una quota, a loro dire, superiore di 100 miliardi rispetto al normale.
Bastava a giustificare l’esborso da parte dell’ENI? E come andava valutato
questo prezzo?
Nelle conclusioni di Ristuccia c’erano anche le risposte a questi interrogativi.
Punto secondo: “Il prezzo pagato dall’ENI per acquistare da Montedison la
partecipazione del 40% di Enimont si colloca appena al di sotto del valore
più alto indicato dai valutatori indipendenti come possibile prezzo di
vendita/acquisto. La fissazione di tale prezzo, considerata nel quadro
complessivo della vicenda, deriva dall’esigenza di riacquistare il controllo
della società chimica”. In pratica la Corte dei Conti escludeva con questa
frase l’ipotesi che la valutazione di 2.805 miliardi per il 40% di Enimont
fosse regolare. La Corte stessa non era contenta delle conseguenze. Punto
quattro: Ristuccia forse si confonde a questo punto e scambia, io credo,
Enimont con Enichem, affermando che l’acquisto pressoché totale delle
229

azioni Enichem da parte dell’ENI era contrario ai principi delle


Partecipazioni Statali, i quali prevedevano sempre un adeguato spazio alla
parte privata. E a questo proposito andrebbe ricordato il sindacato di
controllo della Montedison degli anni ’70 diviso rigorosamente in parti
uguali. Punto cinque: “La realizzazione dell’obiettivo di una grande e
integrata società chimica italiana è, al momento, per l’ente pubblico molto
più onerosa di quanto inizialmente previsto nell’ipotesi di una Joint-Venture
almeno triennale. Ciò – spiegava Ristuccia nelle sue conclusioni – a ragione
sia dei costi affrontati per l’acquisto della partecipazione Montedison e per
l’offerta pubblica di scambio, sia per l’aumento dell’indebitamento del
gruppo ENI, sia infine per l’anticipato integrale accollo dei programmi di
investimento necessari per lo sviluppo della società chimica.”
Il documento si concludeva con altre due critiche: alla politica che era
intervenuta per offrire ‘coperture’ che non erano richieste, e alla mancanza di
regole nella privatizzazione delle aziende e nei rapporti tra settore pubblico e
settore privato, “sia nel caso di acquisizioni/dismissioni, sia in quello di
forme paritarie di cooperazione.” “La vicenda Enimont – era la conclusione
– suggerisce di considerare poco praticabili, per fondare l’auspicata e
necessaria cooperazione fra pubblico e privato, formule sia pur molto
elaborate di patti parasociali. Tali patti risultano troppo fragili di fronte alla
difficoltà, più volte provata, di tale cooperazione e mal gestibili da parte dei
soggetti pubblici.”

Un passato e un futuro densi di domande

Mi pare molto chiaro. Sono parole che colpiscono, se si pensa che solo due
anni più tardi il Ministero alle Partecipazioni Statali verrà soppresso, ma gli
investimenti dello Stato continueranno in modo poco chiaro e, se queste
erano le premesse, con assai scarse possibilità di buona riuscita.
Tangentopoli, come sappiamo, finirà con tanto clamore e condanne lievi per
i protagonisti di questa vicenda. La sensazione alla fine di questa analisi è
che fosse tutto vero, che insomma Di Pietro avesse ragione e avesse, come
abbiamo appurato, valutato anche la presenza del Decreto Legge sul
finanziamento pubblico ai partiti. Non aveva forse valutato appieno la storia
dei “fondi neri” dalle sue origini, perdendo di vista il movente di questo
andazzo, la natura dei rapporti tra imprenditoria e politica che portava
indietro di tanti anni, alla storia di un’amicizia molto forte che, io ne sono
sicuro, è sopravvissuta anche al ciclone di Mani Pulite. Un’amicizia che, lo
abbiamo dimostrato, ha finito per deragliare, non si sa bene come e perché,
230

nel finanziamento verso il terrorismo, attraverso oscuri personaggi di Edison


su cui purtroppo il giudice Alessandrini, che stava conducendo quelle
indagini, non poté mai fare chiarezza. Un altro punto poco chiaro è che fine
abbiano fatto quei 645 miliardi della plusvalenza Enimont. Si potrebbe dire,
per aggiungere altra suspance a questo giallo, che la maxitangente Enimont,
se aveva il solo scopo di alterare il prezzo di uscita dal colosso della chimica,
fece tanto rumore per nulla: Foro Bonaparte due anni dopo finì per essere
divorato da debiti incalcolabili e solo quel “diavolo” di Cuccia con i suoi
miracoli trovò la soluzione. Ma se la maxitangente non aveva questo scopo,
a cosa servì veramente? E a cosa servivano le tangenti dei primi “fondi neri”
dei tempi di Girogio Valerio, di Giorgio Macerata e di Merzagora? A queste
domande purtroppo non so rispondere. Sappiamo solo che la Montedison,
privata ormai della maggior parte delle sue sotto-aziende, che erano state
acquistate dall’ENI con il 40% del pacchetto Enimont, è stata dapprima
sgravata dagli ingentissimi debiti, quindi sottoposta nel 2002 ad un processo
di segmentazione dovuto alla scalata, nel 2001, del finanziere Romain
Zaleski e della francese EDF. La stessa Edison è tornata a nuova vita
puntando sulla liberalizzazione dell’energia elettrica, come se fossimo nei
primi anni ’50 o ’60. Questo, del resto, sembra fosse l’obiettivo dei suoi
nuovi proprietari di EDF, i quali, insieme a Zaleski, hanno ceduto tutte le
vecchie partecipazioni di Montedison e sono entrati nella nuova holding
chiamata Italenergia, di cui fa parte anche la Fiat82. Insomma, in tutta questa
vicenda giudiziaria chi ci ha rimesso ‘alla fine della fiera’, dicono i milanesi,
è stato, insieme al suo amico Cagliari, il povero “Corsaro” Gardini, un
manager che non era riuscito a essere né un industriale privato d’elite, né
uno dei duri della “Razza Padrona”.

82
Cfr Wikipedia alla voce “Montedison”.
231

15

ARMI DI STATO

Le tangenti su delle commesse militari destinate al Medio Oriente furono la


causa del suicidio di Sergio Castellari, direttore generale delle Partecipazioni
Statali trovato morto nelle campagne vicino Roma, il 26 febbraio del 1993?
Questo, almeno, è ciò che si intuisce comparando alcune indiscrezioni
pubblicate nel libro "Criminalità senza confini" dall'ex giudice Mario
Almerighi e svariati articoli dell'archivio del quotidiano La Stampa. Durante
la guerra fredda un'azienda dell'ente statale EFIM, la Oto Melara, pare che
vendette delle armi a Saddam Hussein tramite uomini di paglia nascosti in
un'anonima azienda di Ancona. In quell'affare una forte tangente si dice che
finì nelle tasche di un generale dell'esercito, Giuseppe Piovano. La
Magistratura tentò di indagare ma tutto si chiuse con un insabbiamento.

Sergio Castellari morì per le tangenti sugli euromissili?

Potrebbero essere le tangenti su delle commesse militari destinate al Medio


Oriente la causa del suicidio di Sergio Castellari, direttore generale delle
Partecipazioni Statali trovato morto nelle campagne vicino Roma, il 26
febbraio del 1993.
E' ciò che si intuisce comparando alcune indiscrezioni pubblicate nel libro
"Criminalità senza confini" dall'ex giudice Mario Almerighi e svariati
articoli dell'archivio del quotidiano La Stampa. Negli anni '80, nel periodo
della guerra tra Iran-Iraq, pur non potendo ufficialmente vendere armi a delle
nazioni in conflitto, l'Italia intrattenne dei rapporti con l'Iraq di Saddam
Hussein, che in quel periodo era una nazione sotto l'influenza degli Usa.
Secondo Almerighi una forte tangente fu intascata dal generale dell'esercito
italiano, Giuseppe Piovano, che era responsabile di uno di quei progetti di
smercio illegale di armi della Oto Melara. Quest'ultima era un'industria
bellica del bresciano, facente capo all'ente di Stato EFIM, delle
Partecipazioni Statali, delle quali Castellari divenne direttore generale.
Secondo quanto riporta Almerighi, il programma riguardava la produzione di
oltre 15mila euromissili Milan, che sarebbero stati prodotti da un consorzio
gestito dalla Oto Melara. La tangente ammontava al 3% del prezzo totale.
Pare che, per far sì che si inserisse nell'affare anche la ditta Caproni-Vizzola,
si intromise anche Giulio Lena, un malavitoso esperto di traffico di droga,
232

falsificazione di banconote e di terrorismo internazionale. Lena era un uomo


dei Servizi Segreti con agganci, sembra di capire dal libro dell'ex giudice,
persino con la Banda della Magliana e la banca Ior del Vaticano.
La vicenda risale all'inizio degli anni '80. La Magistratura italiana finì per
sapere della truffa e il Pubblico Ministero Paolo Dell'Anno indagò sul
generale Piovano, su Giulio Lena, e su un certo Cesare Manes, direttore del
Consorzio Area di Sviluppo Industriale di Frosinone. A quest'ultimo, venne
sequestrato un documento su cui era scritto testualmente: "La
Caproni-Vizzola aspira a far parte del costituendo consorzio Oto-Melara,
Matra e MBB. L'intervento, che deve avvenire in tempi brevissimi, deve
operarsi nei confronti delle seguenti persone: per la Oto-Melara, l'ing. Ricci
a La Spezia; per l'Esercito Italiano, il generale Piovano al Ministero della
Difesa. La tangente inciderà per ogni commessa con percentuale 3,50% da
erogarsi all'atto della firma del contratto."
Ma quando il PM richiese la documentazione al Ministero della Difesa, i
colleghi di Piovano insabbiarono la vicenda, costringendo la procura a
scarcerare gli indagati in quanto il reato era rimasto senza esito. Il flusso di
armi verso l'Iraq, tuttavia, non si arrestò. Almerighi parla di altre possibili
armi inviate all'Iraq attraverso una fittizia fornitura di scarpe di una ditta
fantasma di Ancona (o Civitanova Marche), la Max Vico. Nello stesso
periodo vi fu un'altra inchiesta giudiziaria, parallela a queste dell'ex giudice
e assai simile nella dinamica. Coinvolse di nuovo la Oto Melara e l'Iraq. In
questo caso la Magistratura portò avanti le indagini e coinvolse anche dei
Ministri, poi risultati estranei ai fatti. I fatti sono questi. Nel 1980 la
Oto-Melara e i Cantieri Riuniti di La Spezia ottennero una commessa dal
Governo di Baghdad. Si trattava di vendere 11 navi da guerra all'Iraq e
assegnare una commissione di 150-180 miliardi di vecchie lire al siriano
Merhej Al Talal e a due società con sede in Svizzera e Lussemburgo. La
Magistratura accertò che molti di quei miliardi di tangenti tornarono in Italia.
Erano per i Ministri socialisti Enrico Manca e Nicola Capria? Un'indagine
dell'allora Tribunale dei Ministri lo escluse. Era il 1988.
Le navi poi non giunsero mai in Iraq, prima bloccate dal conflitto con l'Iran,
quindi, il primo luglio del 1992, da una decisione del Governo italiano.
L'unico affare che andò in porto, caso del tutto singolare, fu la tangente. Si
ipotizzò in Parlamento che su questi traffici potesse esserci la mediazione
dei Servizi Segreti deviati della Loggia P2. Era quanto temeva nel 1987 Tina
Anselmi della Democrazia Cristiana. Le leggi proposte dal Governo italiano,
tuttavia, non furono mai in grado di tenere sotto stretta sorveglianza il triste
fenomeno della vendita di armi sia all'Iraq, sia all'Iran, sia alla Libia di
233

Gheddafi.
In questo disegno cosa c'entrerebbe il direttore delle Partecipazioni Statali
Sergio Castellari, che si suicidò mentre era indagato per la maxitangente
Enimont? Beh, mi pare che sia importante il ritrovamento, in una
perquisizione della Guardia di Finanza, di quel documento che Castellari
aveva sottratto al Ministero: un documento che parlava della fornitura di
uranio indirizzata, dopo una strana triangolazione, a una nazione del Medio
Oriente, forse l'Iran. In un altro suo libro sulle morti di Castellari, Gardini e
Cagliari, il giudice Almerighi ha parlato anche dell'ipotesi che Castellari sia
stato costretto a suicidarsi da due agenti dei Servizi Segreti, tra cui forse una
donna. E' per questo motivo che il documento sull'uranio può essere la
traccia più giusta. Ma a questo punto direi che anche le altre due morti, di
Cagliari e di Gardini, potrebbero essere connesse con le vendite di armi
all'estero, magari con delle tangenti inconfessabili. E' solo una mia
sensazione. Di sicuro sono tre suicidi a cui gli esperti non hanno mai creduto
del tutto e per i quali la maxitangente Enimont costituirebbe un debole
movente.

Elicotteri di Stato venduti a Siria e Giordania: l’inchiesta è scomparsa

Casa Savoia vendeva elicotteri da guerra della Agusta ai palestinesi? Detta


così la notizia oggi meriterebbe una serata di discussioni a “Porta a Porta”,
ma è una storia che i giornalisti italiani hanno voluto dimenticare
nell’archivio del quotidiano La Stampa. Giace lì da quando, ad agosto del
1988, pochi mesi dopo l’apertura dell’indagine, il procuratore Domenico
Sica fu promosso all’Antimafia, bruciando un candidato eccellente come
Giovanni Falcone.
Perché quell’inchiesta sulle armi non andò avanti? Di sospetti se ne
potrebbero tirare fuori tanti. Tra gli indagati per quel tradimento con un
nemico di Israele, e dunque del Patto Atlantico, c’era il generale Piovano,
guarda caso. Proprio lo stesso dell’altra inchiesta che, contemporaneamente,
portò il giudice Mario Almerighi sulle tracce di grosse tangenti, che si disse
furono pagate al Piovano per vendere gli euromissili della Oto-Melara
all’Iraq. In quest’ultimo caso la vicenda fu insabbiata dal Ministero della
Difesa.
Ma le vie degli arabi erano infinite, tant’è che la storia di questa seconda
commessa non fu meno intricata della precedente. L’origine dei rapporti tra i
principi di casa Savoia e la ditta Agusta risale agli anni ‘70, allorché Vittorio
Emanuele, dal suo esilio in Svizzera, si guadagnava da vivere come agente
234

di commercio. Almeno, lui si giustificò così, ma la ditta del conte Corrado


Agusta, che era di proprietà al 50% dell’ente statale EFIM, faceva parte di
un giro molto ben congegnato. Il principino di Savoia strinse amicizia con lo
scià di Persia, una nazione corrispondente all’attuale Iran, allora
politicamente filo-americana. L’idillio fu così intenso che i giornali nel 1974
parlarono di grandi prospettive per l’industria pubblica italiana dell’IRI e
dell’EFIM; e ciò avveniva grazie agli odiati Savoia. Era prevista la
costruzione di un porto commerciale a Bandar Abbas, con una nuovissima e
modernissima acciaieria. Si favoleggiò la cifra di 4000 miliardi per le casse
dello Stato. Ma la politica, si sa, è legata al vento che tira. Nel 1979 lo scià
Reza Palhavi fu scalzato dalla rivoluzione integralista di Khomeini e di
quelle palate di miliardi ne rimasero in bilancio preventivo non più di mille,
che con la successiva guerra probabilmente sfumarono del tutto.
L’Iran, in realtà, con la vendita di elicotteri da guerra non c’entrava un fico
secco. Era solo un paravento, per effettuare una triangolazione la cui vera
direzione era la Giordania e forse la Siria (pensate un po’, finiamo nella tana
dell’Isis). Queste, almeno, erano le accuse partite dal procuratore di Venezia,
Mastelloni, che stava già indagando su un’altra storia legata ad armi,
palestinesi e Gladio: il giallo per la caduta nel 1973 dell’aereo militare Argo
16, che si diceva fosse stato abbattuto dagli israeliani, finito in questo caso
con le solite assoluzioni.
Mastelloni girò a Sica il plico con le indagini sulle armi dei Savoia, e Sica
disse di voler indagare, anche se nel suo armadio, dopo la “promozione
all’antimafia”, rimase un po’ di tutto: morte di Pecorelli, scomparsa di
Emanuela Orlandi, Brigate Rosse, rapimento Moro. Un po’ tutto ciò che
ancora oggi ritorna sui quotidiani sotto forma di rivelazioni scottanti di
pentiti o testimoni.
La storia delle armi alla Giordania invece durò pochi mesi e si fermò sul più
bello. E dire che gli indagati non smentivano le ricostruzioni che La Stampa,
il 7 aprile 1988, formulava con grande sicurezza. Come indagati figuravano,
oltre a Vittorio Emanuele e al conte Agusta, un ministro democristiano,
Mario Pedini, e l’ex ambasciatore dello scià di Persia, Luigi Cottafavi. Il
vero tramite pare che fu comunque il solito Sid, il servizio segreto poi
suddiviso tra Sismi e Sisde. A parlare su La Stampa era il capitano di fregata
Angelo De Feo, il quale nell’articolo del bravo cronista Giovanni Bianconi
ammise: “Verso la Giordania, la Siria e un altro paese dell’area
mediorientale ci fu ordinato di non concedere autorizzazioni, in quanto
paesi belligeranti con Israele. Per questo era necessario aggirare
l’embargo.”
235

Tra questi affari del Sid c’erano anche gli elicotteri della Agusta, venduti a
decine all’Iran, in una fornitura che appariva regolare. Per saperne di più, nel
1987 pare che il giudice Mastelloni abbia usato il carcere preventivo con il
democristiano Pedini83. Servì per “fargli tornare la memoria”. Questo mi fa
capire che si trattava di un’inchiesta serissima, più di Tangentopoli, ma che
venne messa come al solito in naftalina. Anche questa è una pista che
potrebbe portare alla morte di Sergio Castellari, il quale aveva forse fiutato
qualcosa e stava per parlare con il giudice di Mani Pulite.
Prima, molto prima, era già uscito dall’inchiesta, per “morte del reo”, il
conte Agusta. Corrado Agusta morì mercoledì 14 giugno 1989 a soli 66 anni.
Sua moglie, la contessa Francesca Vacca Agusta, scomparve l’8 gennaio del
2001 in circostanze misteriose e fu ritrovata morta nel mare della Costa
Azzurra due giorni dopo. Il giallo a mio parere va rivisto alla luce di questi
documenti d’archivio.

Imi-Sir: il Consorzio salda il debito con il Sanpaolo?

Le cronache degli ultimi giorni (novembre 2015), in special modo del Sole
24 Ore, hanno evidenziato come Intesa-Sanpaolo abbia registrato nel
bilancio attuale, alla voce delle entrate, delle novità sul fronte del processo
Imi-Sir. Si è tornati così a parlare della guerra tra i Rovelli della Sir e la
banca Imi, che si trascina dagli anni '90.
A maggio del 2015 il tribunale civile di Roma ha stabilito che è la
magistratura ad aver sbagliato, per via della corruzione nel primo processo
vinto dai Rovelli nel 1990, costringendo così lo Stato a risarcire il danno,
173 milioni di euro più spese e interessi, ad Intesa Sanpaolo, visto che il
giudice Metta e l'avvocato Acampora risultano "incapienti" (gli altri
condannati sono gli avvocati Previti e Pacifico). Le cose stanno andando
come il Nuovo Consorzio voleva: il Sanpaolo ha vinto la causa e ora sarà
anche risarcito, in parte.
Non trapela nulla di ciò che noi abbiamo svelato, ossia le trame occulte
all'interno del Consorzio, che per conto dell'ex ministero del Tesoro era
controllato dal Comitato, detentore del 60% delle quote del Consorzio
Interbancario (il Nuovo Consorzio del 1982, appunto), nel quale figuravano
moltissime banche del nord Italia, ma non più Intesa Sanpaolo (che controlla
la vecchia banca pubblica Imi).

83
Mario Pedini è morto a 85 anni nel 2003 e secondo Wikipedia figurava nella lista degli
appartenenti alla loggia massonica P2.
236

Il Sanpaolo, come ricorderà chi ha letto i miei aggiornamenti, nel 2003


aveva litigato e chiesto comunque il pagamento dei danni del 1979, a
prescindere dalla causa con i Rovelli. Ora ha ottenuto una discreta somma,
ma siamo ancora lontani dai 1200 miliardi di vecchie lire che reclamava. Ci
pare che questa condanna indiretta per lo Stato sia una specie di regolamento
di conti all'interno di un forte, ma burrascoso sodalizio tra Stato e banche.

L’accordo segreto tra Intesa-Sanpaolo e i Rovelli

La lunga vicenda del Consorzio interbancario nato nel 1980 per il


salvataggio della Sir si può dire conclusa. La notizia arriva solo oggi, 2
febbraio 2016, ma è del 20 gennaio 2010. Quel giorno, secondo una
relazione della Corte dei Conti del 6 marzo 2012, vi fu uno storico accordo
tra la banca Intesa-Sanpaolo e gli eredi di Nino Rovelli per una transazione
extra giudiziale sui famosi mille miliardi.
I lettori sapranno per averlo letto nel mio primo libro Consorzio di Stato che
vi erano due vicende sovrapposte: la prima riguardava i 1000 miliardi pagati
dall'ex banca statale Imi a Rovelli per la sua Sir e mai restituiti, sui quali vi
fu un'inchiesta giudiziaria di Infelisi poi insabbiata, e la seconda che fu
provocata dalla causa che l'ormai defunto Rovelli vinse nel 1990 per ottenere
un risarcimento di altri 1000 miliardi dal Sanpaolo, soldi poi restuititi alla
banca torinese dalla Cassazione nel 2003. Sul verdetto della Cassazione pesò
e non poco la vicenda che tenne banco su tutti i quotidiani negli anni '90:
quella della corruzione operata dall'avvocato di Rovelli, Cesare Previti, poi
uomo di Berlusconi, per accomodare le sentenze in favore della Sir. Ebbene,
in quei giorni di gennaio del 2010 vi fu una strana coincidenza che unì le due
vicende parallele: il 19 gennaio fu pubblicata dai giornali la notizia della
bocciatura da parte della Corte di Strasburgo del ricorso di Previti. Questi
infatti riteneva di aver subito un ingiusto processo, ma la corte
internazionale gli diede torto. Incredibilmente il giorno dopo avvenne il già
citato accordo tra Intesa Sanpaolo e i Rovelli per i 1000 miliardi di prestito
Imi del 1977.
Cosa successe in poche parole? L'ipotesi più plausibile è questa: che la
famiglia Rovelli, cui Previti (e chissà forse anche Berlusconi) è legato,
subita la sconfitta a Strasburgo dal loro avvocato, deve aver ritenuto
inevitabile una transazione amichevole con il Sanpaolo. Questo ha
praticamente spianato la strada al Comitato, che deteneva il 60% delle quote
del Nuovo Consorzio Sir, mentre l'altro 40% era delle banche. Il Comitato
infatti l'avevamo lasciato nel bilancio 2008-09 alle prese soprattutto con una
237

preoccupazione: trovare quella valanga di soldi che il Sanpaolo, in lite con il


Consorzio, reclamava con forza. In una nuova relazione presente sul sito
online della Corte dei Conti, scritta il 6 marzo 2012 da Giuseppe Ginestra
della Corte dei Conti, si apprende che l'incubo durato trent'anni non
sussisteva più. Non solo: il Nuovo Consorzio poteva anche cancellare in
bilancio quei crediti verso la famiglia Rovelli. In pratica saltava l'eventuale
causa in tribunale per permettere al Consorzio di essere risarcito dai Rovelli
per il danno reclamato dal Sanpaolo. A questo punto il Comitato poteva
cessare di esistere. Il 31 maggio 2010, quindi, con la legge 122, veniva
ceduto l'intero pacchetto del Comitato nella Sir finanziaria, ma anche in Rel,
a un'altra grande ditta.
Il vero guaio è che la chiusura del Comitato, detentore del 60% delle azioni
del Consorzio interbancario Sir, potrebbe nascondere una finta cessione. Ciò
emerge leggendo attentamente i documenti ufficiali e indagando un po' su
internet. Quando il Comitato fu chiuso con la legge 122 del 31 maggio 2010,
quel 60% non venne ceduto a una società qualsiasi, ma alla Fintecna, che
incorporò subito la nuova arrivata nella sua controllata Ligestra Tre. Che
cosa sono queste due società? Wikipedia spiega che Fintecna è un'azienda
controllata al 100% da Cassa Depositi e Prestiti, a sua volta di proprietà
all'80,1% del Ministero dell'Economia e delle Finanze. Dunque non è altro
che un'azienda delle defunte Partecipazioni Statali. Si occupa di ristrutturare
le aziende in difficoltà.
Sembra di essere tornati agli anni della famosa Legge Prodi, la 95 del 1979,
allorché fu deciso che lo Stato sarebbe dovuto intervenire per salvare le
grandi aziende. Ma questo provvedimento fu abolito nel 1999 su richiesta
dell'Unione Europea e dello stesso Prodi, per un più rigoroso rispetto della
libera concorrenza. Come si spiega dunque la finalità attuale di Fintecna, che
è praticamente rimasta invariata? Per non parlare di Ligestra Tre. E' nata per
incorporare e gestire le quote del Comitato nel Consorzio-Sir. Lo scrive il
bilancio 2012 di Fintecna, da cui anch'essa dipende. Ebbene, sembra che
l'andamento dopo la chiusura del Comitato non filasse così liscio come
ipotizzava la Corte dei Conti. Scrive la relazione di Fintecna che nel 2012 il
Ministero dell'Economia e delle Finanze non aveva ancora nominato un
collegio dei periti per stimare il patrimonio passato dalle mani del Comitato.
Ligestra Tre, nota su internet come società ministeriale, ha pertanto
proseguito nel gestire le cause civili di Rel, la società statale di intervento
nell'elettronica, e poi ha effettuato una strana manovra. Ha operato una
"fusione inversa" con la quale la Sogemo spa in liquidazione ha incorporato
la sua controllante, la Sir finanziaria, a sua volta gestita dal Consorzio-Sir.
238

Mi sembra di intravedere un'altra irregolarità, che già fu denunciata negli


anni '20 del secolo scorso da Luigi Einaudi: l'incrocio di partecipazioni.
E c'è dell'altro. In un documento del 25 febbraio 1994 del Comitato
Interministeriale per la programmazione economica veniva ricordato che la
Sogemo spa (la ditta oggi di Ligestra Tre) all'epoca controllava la Rumianca
Sud, già ceduta nel 1982 dal Consorzio-Sir all'Eni. L'operazione di chiusura
del Comitato sembra in pratica una finta privatizzazione che nasconde un
ritorno al passato. Una doppia cessione dallo Stato allo Stato, nella quale ci
si perde. Con un grande punto interrogativo. Nei documenti di Fintecna
manca il riferimento alle banche, titolari del restante 40% del Consorzio-Sir.
Oggi le banche sono tutte in crisi. Vuoi vedere che lo stretto legame
banche-Stato le sta trascinando in quel grande buco nero delle eterne
liquidazioni?
Resta poi il mistero legato alla Rumianca, che ha un'importante sede nel
Verbano Cusio Ossola, a Pieve Vergonte. Sembra proprio che abbia avuto
una doppia vita. Secondo il sito Polimerica.it dal maggio 2013 lo
stabilimento del VCO è passato alla International Chemical Investors Group.
Gliel'ha ceduta la Tessenderlo, un gruppo chimico belga che l'aveva a sua
volta rilevata dall'Enichem l'1 luglio del 1997.
Il nodo cruciale però è quanto avvenne in precedenza. Nei documenti del
Comitato statale per la gestione del Consorzio-Sir, fino al 2007 non ho mai
trovato cenni alla Montedison, che per i giornali aveva invece acquistato
alcune società di Rovelli nel 1987. Finalmente, nel documento della Corte
dei Conti del 6 marzo 2012 è comparso il nome del colosso statale
ex-Montecatini-Edison. Secondo queste notizie ufficiali, il Consorzio
avrebbe ceduto all'Eni nel 1982 anche lo stabilimento di Pieve Vergonte, per
un esborso statale totale di 41 milioni di euro, cifra considerata dalla Corte
molto più bassa della quota di mercato. Ma subito dopo lo stesso documento
scrive che nel 1987 la Montedison acquistò dal Consorzio alcune società
"risanate", tra le quali la Rumianca S.p.a. di Torino, per un importo totale di
276 milioni di euro. Sembra una correzione fatta dopo aver letto le mie
perplessità, anche se non credo che la Corte dei Conti sia informata sulla mia
improvvisata inchiesta giornalistica.
Di fatto compare ufficialmente la Montedison, ma Wikipedia sembra non
tenerne conto. Alla voce Rumianca, l'informatissima enciclopedia spiega che
l'Eni, dopo aver salvato nel 1981 gli stabilimenti Sir-Rumianca, li cedette nel
1983 tramite l'Anic all'Enichem Secondaria, da cui passarono nell'84
all'Enichem Sintesi e dal 1987 all'Enichem Syntesys. Si intravede insomma
una malcelata scissione ideata dal Consorzio tra le finanziarie, cedute alla
239

Montedison di Raul Gardini, e gli impianti, passati all'Eni di Gabriele


Cagliari. Nel 1991 fu progettato Enimont, un matrimonio perfetto che
avrebbe sistemato le cose, ma che per qualcuno “non s'aveva da fare”.
Capitolo armi dell'Efim. Quel mostro di cui si favoleggiava timidamente
negli anni '80 è ricomparso. Molte armi le trovate, se lo volete, nella Ligestra
(o Ligestra Uno), che secondo Wikipedia è un'altra controllata di Fintecna. E'
nata con la legge finanziaria del 2007 con lo scopo di gestire il patrimonio e
le cause giudiziarie di Ente Partecipazioni e Finanziamento Industria
Manifatturiera, che erano sotto liquidazione coatta amministrativa.
In termini semplici sembra di capire che deve gestire situazioni statali
continuamente disperate. Tra le società ad essa collegate sembra vi possano
essere anche le industrie di armi del vecchio e indebitatissimo ente pubblico
Efim, come la Breda e la OtoBreda. C'è anche un'azienda per la quale ho
lavorato, che è spesso sui giornali per le continue minacce di massicci
licenziamenti, che a questo punto trovano un senso. In quell'azienda mi
occupavo di archiviare contratti, ma non sapevo di lavorare per lo Stato. Per
il Ministero dell'Economia, poi, meno che meno.
Tuttavia un sospetto lo avevo avanzato. Salendo al secondo piano finivo nel
call center del comune di Milano, che era gestito fuori Milano sempre da
questa controllata di Ligestra (che per ora non nomino). L'azienda sembrava
dover vendere contratti di energia elettrica con delle disperate e
dequalificanti telefonate a tappeto. Posta così la cosa fa fare una pessima
figura allo Stato italiano.

Il 60% del Consorzio-Sir valeva 228 milioni di euro?

La quota del Consorzio-Sir passata nel maggio 2010 a Ligestra Tre valeva
228 milioni di euro? Questa sembra sia stata la valutazione che i periti del
Ministero dell'economia e delle finanze hanno finalmente effettuato all'inizio
del 2014, dietro le insistite richieste dell'azienda acquirente.
Lo si apprende dal bilancio 2014 di chi controlla Ligestra Tre, ossia Fintecna,
di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, ma il cui maggiore azionista non
è altri che il Ministero dell'economia e delle finanze. Ci sono tante stranezze
in questa operazione. Intanto erano passati già ben quattro anni dalla
cessione di quella quota del 60% del Consorzio-Sir, che come si sa era nelle
mani del Comitato statale fin dal 1980, ai tempi della Democrazia Cristiana.
Ciò ha probabilmente permesso di far dimenticare ai dirigenti della Fintecna
che nel 2010 il Comitato al momento della chiusura aveva presentato un
utile netto molto più alto, e cioè di ben 448 milioni 861 mila 269 euro. Le
240

passività, infatti, una volta che si era risolta con una transazione la vertenza
SanpaoloIMI-Rovelli, si erano ridotte a soli 69 mila 813 euro. I costi totali di
quelle poche aziende ancora in mano al Comitato, relative ai Consorzi Sir e
Rel, erano di 755 mila 879 euro, con dei proventi netti di 70 milioni 323
mila 737 euro e un incremento rispetto al 2009 di oltre 69 milioni di euro.
Dunque come si spiega quella cifra che compare nel bilancio 2014 di
Fintecna? A leggere bene i dati, pare che quei 228 milioni siano in realtà la
stima di un «patrimonio separato» del Comitato, che però non si capisce
bene cosa sia. Si sa soltanto che Ligestra Tre ha subito provveduto a girare
quei soldi al Ministero.
Ma un'altra stranezza che ho notato è che, a seguito di quella stima dei tre
periti, Ligestra Tre ha ricevuto dalla sua controllante Fintecna un
finanziamento di «pari importo». Sono soldi che entrano ed escono dalla
stessa porta, con un risultato molto semplice: nelle casse del Ministero
dell'economia e delle finanze gli introiti aumentano, mentre le controllate
che lo foraggiano non vanno mai in perdita. Chi pagherà realmente per tutti
questi travasi? Quello che per ora è certo è che il Consorzio-Sir è tutt'altro
che defunto. Siamo ormai arrivati con questa ricostruzione al 2014 e il
Consorzio per il salvataggio dei Rovelli ha solo cambiato nome, ma le mani
che lo gestiscono sono sempre le stesse: quelle ministeriali. A che serve
tenere in vita questo cadavere?

Le singolari proteste dei lavoratori siciliani

Scioperare contro i concorrenti della propria azienda. E' la singolare protesta


che va in scena in questi mesi in Sicilia, a Palermo. I protagonisti sono i miei
ex colleghi, che lavorano cioè in quell'azienda che gestisce, tra le altre cose,
i contratti di Edison e di certi enti pubblici, anche del nord Italia.
Seguo con un certo interesse le loro vicende soprattutto perché è ormai
chiaro che quel percorso professionale porta dritto verso la logica delle
holding pubbliche costruite sui fallimenti. Mi riferisco al fenomeno che
avevo denunciato da queste colonne quando scoprii che sul lodo Imi-Sir, e
sulla crisi dell'impero dei Rovelli, lo Stato aveva costruito un immorale e
colossale giro di affari. Il Consorzio-Sir è ora nelle mani di Fintecna, ma
anche l'azienda dalla quale fui spedito tramite un'agenzia è "collegata" alle
aziende satelliti di questo cimitero degli enti pubblici (Fintecna la definirei
così, se permettete). Dall'immoralità siamo ormai arrivati al paradosso. E i
dipendenti scioperano da tempo.
Oggi 2 marzo 2016 ci sarà l'ennesimo sit-in dei lavoratori davanti alla
241

Regione Sicilia per scongiurare 1500 licenziamenti. Ma ecco la stranezza. Se


una volta si scioperava contro il datore di lavoro, adesso lo sciopero è
diventato politica economica. I lavoratori si sostituiscono alle istituzioni e
consigliano ai politici di contrastare il sistema delle delocalizzazioni,
evitando in questo modo il gioco al ribasso nella vendita delle commesse
alle aziende di outsourcing, ditte cioè che gestiscono per conto di altri alcuni
servizi, come le telefonate dei clienti, l'archiviazione dei contratti e persino il
fantozziano ufficio reclami. In questo modo la protesta dei sindacati si
trasforma in uno sciopero per i mancati affari dell'azienda, come se fossimo
nel fascismo, durante il quale le corporazioni univano lavoratori e
imprenditori nel segno del supremo bene nazionale.
Ho l'impressione che da questa situazione non se ne verrà fuori facilmente. Il
turn over dei lavoratori, che viene attuato con contratti a termine infiniti, è
nel dna di queste ditte di outsourcing. Eppure negli scioperi non trapela nulla
di tutto questo. Anzi, viene offerta una comoda giustificazione
all'imprenditore. Come mai?

Il mercato delle armi è in crisi, ma lo Stato guadagna

Raf si chiedeva in una sua fortunata canzone "cosa resterà degli anni '80",
del periodo cioè della guerra fredda. A quell'epoca lo Stato italiano non
interveniva sul campo, ma si occupava semmai di vendere le armi ai signori
della guerra, accertandosi che non venissero usate contro di noi. Sarebbe
stato il colmo. Beh, secondo me restano ancora tanti debiti, che per miracolo,
come nelle fiabe, nei più recenti bilanci si stanno trasformando in guadagni.
Vogliamo crederci?
Bisognerebbe parlarne meglio con Maurizio Prato. E' lui il grande esperto di
partecipazioni statali al timone della Fintecna. Prato in poche parole dirige
un contenitore statale di aziende in "liquidazione coatta amministrativa". C'è
dentro un po' di tutto, dalle controllate dell'Iri, a quelle dell'Efim, fino ai
debiti del comune di Roma e ai sogni infranti di Cinecittà. Fintecna è il
cimitero di quell'economia pubblica che non produceva altro che "buffi".
Curiosa è la storia della "Liquidazione coatta amministrativa". Si tratta di un
provvedimento stabilito da una legge di fine Ottocento. Per la precisione del
15 luglio 1888. Risale ai tempi dello scandalo della banca romana. Di quella
legge si servì soprattutto Mussolini per salvare l'Italia dalla crisi del 192984.

84
Risulta che la Liquidazione coatta amministrativa, che era un provvedimento varato con lo
scopo di salvaguardare gli interessi di una pluralità di cittadini, fu applicata anche più
242

Sarà un caso, ma le azioni di Fintecna sono oggi interamente in mano a una


storica banca dell'era liberale giolittiana: la Cassa Depositi e Prestiti, che a
sua volta è per un 80% in mano al Ministero dell'Economia e delle Finanze.
Quelle armi degli anni '80, che furono dell'Efim, sono state sbattute in gran
parte in un'altra sotto-azienda di Fintecna, la Ligestra s.r.l. Sono anch'esse in
grande difficoltà, nonostante le interminabili guerre in Medio Oriente.
Il sistema ormai lo si è capito. Seguendo il filo della storia dell'economia
pubblica, si arriva a un labirinto di scatole cinesi, in cui si vende, si licenzia,
si recuperano crediti. Ma senza fretta e senza progetti, solo per fare cassa e
tirare avanti. "Ex morte vita", affermò una volta Francesco Redi, scienziato
il quale nel 1600 era convinto che dai cadaveri degli animali morti nascesse
nuova vita. E lo dimostrò. Così anche Ligestra, dalla morte di svariate
aziende ha prodotto i suoi bei profitti, che secondo il bilancio 2014 di
Fintecna verranno girati per un 70% al Ministero dell'Economia e delle
Finanze. Il restante 30% rimarrà invece nelle tasche di Ligestra. Parliamo di
un giro d'affari consistente, ossia 25 milioni di euro di debito da restituire
allo stesso Ministero dell'Economia e delle Finanze, più altri 13 milioni di
aiuti pubblici concessi da Fintecna appunto a Ligestra. Il tutto non soltanto è
stato restituito, ma c'è rimasto pure del "surplus"!
Come è stato possibile? Il bilancio di Fintecna spiega questa maxioperazione
con uno storno: se ho ben capito si tratta della somma algebrica di alcuni
debiti con i crediti delle aziende facenti capo a Italtrade. Il che è interessante,
ma è stupefacente per ditte tutte accomunate da una disperata situazione
finanziaria, che quindi finiscono nel lazzaretto statale di Fintecna con poche
chance di salvezza.
Cos'è Italtrade? Dovrebbe trattarsi di uno degli istituti di credito che
avrebbero dovuto (ma non lo hanno fatto) promuovere il mezzogiorno. Ma
le armi? Quelle come si diceva dovrebbero essere ancora in mano a Ligestra.
Se si cercano infatti su Wikipedia i nomi delle ditte in cui si dirama la piovra
(nel vero senso del termine) di Ligestra si scopre che alcune di esse si sono
occupate di guerre mondiali, di ieri e di oggi. Ad esempio le Officine
Meccaniche Reggiane, che producevano aerei, la Finanziaria Ernesto Breda
che controllava a sua volta la Breda Fucine, nota per le armi e la costruzione
di aerei, poi la Otobreda Finanziaria, il cui nome conduce su Wikipedia a un
cannone prodotto dalla Oto Melara (altra azienda Efim) per la fregata

recentemente per gestire la fallimentare Banca Privata Italiana di Michele Sindona. Il


commissario liquidatore, Giorgio Ambrosoli, venne assassinato l’11 luglio 1979 da un sicario
ingaggiato dallo stesso Sindona.
243

Scirocco. E' tutto in crisi, come pure una singolare società che doveva
promuovere l'economia ligure, la Finanziaria Ligure spa, le ditte della
Alumix che si occupavano di alluminio o la Nuova Sopal che lavorava sui
prodotti agroalimentari meridionali. Tutto chiude, tranne coloro che
chiudono.

L’Italia di Renzi? Un ritorno all’epoca giolittiana

L'Italia del futuro guarda al passato con grande nostalgia e senza alcuna
innovazione. Questa è la verità, che vi piaccia o no. Questo, cari lettori, è ciò
che si cela dietro gli annunci di Renzi e le lamentele dell'inconcludente
Berlusconi: il vuoto politico. Lo dimostra la seconda giovinezza che sta
attraversando la Cassa Depositi e Prestiti. Questa società dal sapore antico è
ben nota a chi ha studiato la storia contemporanea. E' una cosa talmente
vecchia che fa a pugni con il ringiovanimento dello Stato di cui Renzi
andava fiero fino a qualche mese fa. Cdp (cioè la sigla di Cassa Depositi e
Prestiti) fu creata nel 1850 (!!!) per il finanziamento delle attività pubbliche
del Regno di Sardegna, prima ancora dell'Unità d'Italia. Le opere - spiega
Wikipedia nella pagina che compare tra i primi risultati di Google - venivano
attuate mediante la «raccolta del risparmio privato». Questo sistema
all'epoca funzionava. Divenne fondamentale nel primo dopoguerra, nel 1919,
in tempi di forte crisi della produzione e di pesante inflazione. Ecco perciò il
futuro propagandato dal renzismo dove va a finire. L'enciclopedia ci informa
che Cdp oggi non lavora diversamente dall'epoca pre-unitaria. Ma come
siamo potuti tornare all'Ottocento?
Una breve ricerca su internet svela che non abbiamo preso la macchina del
tempo di Ritorno al Futuro: il sistema liberale giolittiano di un secolo fa, che
si basava su un'interdipendenza tra banche, industrie private e governi, sta
tornando alla ribalta con preoccupante aggressività. Cosa faceva nel 1919 il
governo liberale? Quando un’industria privata o una banca entravano in crisi
escogitava delle società finanziarie pubbliche, simili a Cdp, come poteva
essere la Sofindit, le quali avevano il compito di farsi prestare i soldi dai
cittadini e di spenderli per acquistare azioni delle aziende da risanare.
Fermiamoci ora un attimo a pensare agli spot televisivi della Rai, quelli
recenti. Alcuni mesi fa venivano pubblicizzate le obbligazioni della Cdp, ma
è un evento che non capitava da tanto tempo. Eravamo abituati tutt’al più al
lancio di un fustino di detersivo, di un cioccolatino elegante, o di una
bevanda alcolica di successo, ma non a uno spot per titoli di Stato. Tra le
origini di Cdp e l'attualità c'è quindi un buco di parecchi decenni. La svolta
244

arrivò solo nel dicembre del 2003, quando Cdp fu trasformata per volontà
del Ministero dell'Economia e delle Finanze in una spa. Questa operazione
secondo l'enciclopedia rese Cdp più indipendente, consentendo alle banche
di acquistare alcune delle sue quote di mercato. Quote però che a mio avviso
non cambiano la sostanza, visto che, con l'80% delle azioni, il Ministero non
soltanto si garantisce la maggioranza di Cdp, ma la trasforma da ente di
controllo, quale fu per un secolo quando Cdp faceva parte della direzione del
Tesoro, a banca di stato ante litteram.
I dati che ho trovato su internet mi danno senz'altro ragione. La politica del
Pd e del Pdl è un qualcosa che sa di vecchio, che non innova ma casomai
ricicla ciò che già conosce. Sta di fatto che sia il centro-destra che il
centro-sinistra non sanno far altro che inondare le imprese private, o appena
privatizzate, di fondi pubblici, con la scusa di dover evitare che i grandi
marchi esteri acquistino la maggioranza delle nostre aziende più prestigiose.
E' nato con questi obiettivi nel 2010, su iniziativa di Giulio Tremonti, il
Fondo Strategico Italiano spa, il cui controllo è nelle mani di Cdp con l'80%
delle quote azionarie. Pochi anni prima, nel 2007, era stata creata una società
che mirava a investire nelle infrastrutture, la F2i Fondi Italiani per le
Infrastrutture, di cui Cdp detiene attualmente il 15,99%. La Simest spa,
Società Italiana per le Imprese all'Estero, nacque nel 1990 con una legge del
governo Andreotti per sostenere le aziende italiane che operano fuori
dall'Unione Europea. Anche di essa Cdp detiene la maggioranza, cioè il 76%
delle azioni, rendendo statali tutti questi investimenti.
In Italia e all'estero si spende con i soldi degli italiani. Non manca una
società simile all'Imi, per investire nelle piccole e medie imprese italiane: è il
Fondo d'Investimento Italiano, nato solo nel marzo 2010. A foraggiare
questo istituto non potevano mancare gli enti pubblici, come il Ministero
dell'Economia e delle Finanze e la Cdp, detentori di un 12,5% a testa delle
azioni del Fondo. Tra gli investimenti di Cdp c'è anche un'impresa che
spende e spande sullo sport e dal 2004 ha incrementato i suoi investimenti.
Parlo dell'Istituto di diritto pubblico per il Credito Sportivo, nato nel 1957
nell'era del centrismo DC, ma che come detto nel 2004 ha allargato la sua
sfera di influenza anche al settore culturale. In questo caso Cdp detiene una
piccola quota, mentre un consistente 80,4% è nelle mani del Ministero
dell'Economia e delle Finanze.
Cos'è cambiato dai tempi dello scandalo della banca romana o del fascismo?
A mio avviso quasi niente. Wikipedia spiega che l'attività di Cdp nel 1896
consisteva nella raccolta di investimenti per risanare gli enti pubblici. E dal
1924, ai tempi dell'assassinio di Matteotti, questo rastrellamento di denaro
245

raggiunse livelli record. Industrie private e banche in quel momento erano


una cosa sola, e una tirò l'altra nel baratro quando nel 1929 crollò la borsa di
Wall Street. Per uscirne, Mussolini creò l'Imi e l'Iri, una banca pubblica,
quest'ultima, che aveva il compito di acquistare le azioni delle nostre
industrie ormai prive di valore e tentare un rilancio. Non vi sembra di
leggere in questa descrizione la ragione sociale della Fintecna di Cdp, creata
nel 1993 esattamente per gestire le aziende in liquidazione coatta? Se ci
aggiungete che Cdp altro non è che la longa manus del Ministero stesso,
visto che quest'ultimo detiene l'80% dell'ex ente, ecco che una nuova era
giolittiana è servita in tavola. Con annessi e connessi.

I lavoratori di Almaviva licenziati dalla Nato?

Almaviva lavorava per la Nato nell'installazione di sofisticati e inquinanti


sistemi radar israeliani? Lo scriveva nel novembre del 2011 Antonio Mazzeo
Blog, denunciando che questa azienda di servizi era in realtà un importante
"contractor nel settore delle nuove tecnologie" della Nato e delle forze
armate italiane. E proprio a Melilli, nella base Nato siciliana dove in questi
giorni vengono identificate le salme dell'ennesimo naufragio di migranti,
pare che Almaviva stesse per installare dei radar molto potenti che avrebbero
messo a rischio la salute di uomini e animali. Il blogger li chiamava radar
anti-migranti, perché come accadeva da decenni da un'alta collina la base
americana teneva sotto osservazione tutto il Mediterraneo meridionale. A
occuparsi politicamente di questa vicenda dei radar israeliani fu il Ministro
Stefania Prestigiacomo, dell'area berlusconiana.
La notizia riletta oggi fa sensazione, non solo per l'intento ecologico
manifestato dallo scrittore, bensì soprattutto perché Antonio Mazzeo Blog
rivelava un doppio volto di Almaviva che è inaccettabile. E sul quale già
nutrivamo dei sospetti. Come si può pensare che una delle aziende più
criticate del momento, con migliaia di dipendenti in piazza e col governo che
scende in campo per scongiurare dei licenziamenti, sia stata al servizio della
Nato, che dovrebbe difenderci dal terrorismo islamico? Non voglio più
nasconderlo: questa è una delle aziende per cui ho lavorato nel 2008, e che
ho citato tempo fa perché mi ha trattato malissimo. Non fu l'unica. Quelle
che mi hanno fatto girare come un loro trofeo per un anno e mezzo sono
tutte accomunate, oggi, dalle proteste dei dipendenti, i quali rischiano
sempre dei licenziamenti che poi, fortuna loro, saltano all'ultimo istante.
Un altro pessimo esempio di datore di lavoro è E-Care. Ma con Almaviva
siamo saliti in alto. Parliamo di un "contractor" che, sempre stando a quanto
246

scrisse Antonio Mazzeo Blog, pare si interfacci anche con la Guardia di


Finanza. Nel 2011 l'azienda diretta allora da Alberto Tripi, "già manager
IBM ed ex consigliere IRI", pare che ricevette la commessa per questi radar
proprio dalle Fiamme Gialle, e senza alcuna gara d’appalto, tanto meno al
ribasso. Si dice che i finanzieri erano andati ad acquistare queste sofisticate
tecnologie di guerra in Israele. Se la storia è vera è un bel guaio. Le forze di
polizia non erano mai cadute così in basso. Ma non sarebbero solo loro a
fare una figuraccia. Secondo il blogger, nel pacchetto azionario di Almaviva
spiccavano cinque anni fa anche la Rai, alcune finanziarie, le associazioni di
categoria degli agricoltori, delle assicurazioni e poi Ligestra srl. La presenza
del gruppo Fintecna sappiamo già che vuol dire essenzialmente due cose:
eterne procedure di liquidazione ed essere equiparati alle aziende di armi
dell'Efim. Anche in questo caso i conti tornano.
Ma Almaviva cosa dice? L'azienda dichiara in realtà sul suo sito di essere
fondamentale per le attività di polizia. E' veramente così? Stiamo
precipitando nell'assurdo. Però se andiamo a leggere cosa c'è scritto sulla
home page ci spaventiamo, perché scopriamo che Almaviva non si limita ad
installare dei radar, come ha affermato Antonio Mazzeo Blog, bensì
partecipa a vasti progetti sulla sicurezza.
Scendendo ancora di più nei dettagli possiamo dire, in termini più spiccioli,
che Almaviva con una mano gestisce dei call center un po' strani, dove c'è
talmente poco lavoro che i dipendenti giocano per lo più a flipper, con l'altra
mano invece collabora con polizia, carabinieri e guardia di finanza. E cosa ci
fanno i dipendenti di Almaviva con le forze dell'ordine? Il sito spiega:
l'azienda sviluppa e gestisce sistemi per «operazioni terrestri, navali ed aeree
delle forze armate», e tra queste apparecchiature ci sono anche i radar e i
sensori elettro-ottici, che probabilmente, ma lo aggiungo io questo, sono stati
piazzati anche sul Conero. Poi, sempre Almaviva, sviluppa, alla faccia
dell'articolo 11 della Costituzione, «Sistemi per la logistica di piattaforme,
sistemi d’arma e materiali» e «Sistemi di comunicazione sicura per
applicazioni fisse e mobili in aderenza agli standard nazionali e NATO».
Addirittura, proseguendo con la lettura dal sito, entriamo nell'attività di
contrasto alla criminalità e al terrorismo, perché Almaviva si occupa di
«Tecnologie per l’identificazione sicura comprensive di documenti
elettronici e sistemi biometrici (acquisizione impronte digitali/palmari e
riconoscimento facciale)», di «Sistemi per il controllo dei confini e
protezione delle infrastrutture critiche», di «Sistemi di supporto alle
decisioni», e come ciliegina sulla torta di «Sistemi di supporto alle indagini».
Infatti il sito spiega nelle righe successive con ancora maggiore chiarezza
247

che quando si entra in Almaviva è come se si entrasse in una caserma di


polizia. Del resto lo Stato è tornato a fare l'imprenditore e gli enti sono
rimasti delle scatole vuote. Il lavoro che una volta era gestito direttamente
dal settore pubblico, a garanzia di equità e di legalità, adesso si perde in un
ginepraio di sotto-aziende, delle cui quote azionarie lo Stato resta silenzioso
detentore e controllore. Speravamo che certi servizi essenziali quali la sanità
e la polizia restassero al di fuori da questo sistema, ma ci sbagliavamo. «In
tale contesto - dice il sito - AlmavivA ha realizzato diversi progetti
tecnologicamente innovativi, come il sistema di Comando e Controllo C4I
per la Guardia di Finanza e il sistema AFIS utilizzato dalla Polizia
Scientifica per l’identificazione biometrica delle impronte digitali.» Ci
colpisce anche quest'altro dettaglio: «Attraverso la Cooperazione Applicativa
ha inoltre realizzato il sistema SISLAV (Sistema Informativo per la Tutela
Lavoro) per l’Arma dei Carabinieri in grado di costruire il “Fascicolo
dell’Impresa”».
Ma c'è un'attività che non poteva in alcun modo essere esternalizzata, come
si suol dire: la gestione dei beni sequestrati alla mafia. Almaviva secondo il
sito aziendale «ha informatizzato la banca dati dei beni sequestrati e
confiscati realizzando il SIPPI (Sistema Informativo Prefetture e Procure
dell’Italia) per il Ministero della Giustizia.» Siamo proprio in buone mani,
evidentemente. Sia per quello che si vede ultimamente in televisione, sia per
la mia esperienza diretta in quell'azienda, dove la vendita dei contratti
dell'energia elettrica dovrebbe avvenire telefonando, elenco alla mano, a tutti
gli italiani che se ne stanno a casa per i fatti loro. Un po' strana come vendita.
E' pensabile che ci siano 3000 persone a rischio licenziamento, come scritto
su tutti i principali quotidiani italiani, quando la stessa azienda potrebbe
spostare i propri dipendenti su altri settori ben remunerati della propria
attività? E' una prassi molto diffusa nello Stato. Sono vere proteste o è solo
un modo per destabilizzare il clima del mondo lavorativo? E cosa pensare di
chi lavora in Almaviva, se dovendo collaborare a progetti di carabinieri,
polizia e guardia di finanza queste persone sicuramente dovranno dotarsi di
un NOS dei carabinieri, cioè di un'autorizzazione a lavorare su documenti
riservati?
248

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SPIONAGGIO DI STATO

Il Consorzio interbancario della Sir di Angelo Rovelli è tutt'altro che defunto,


come anticipavamo. Il 27 aprile del 2016 si è tenuta a Roma, nella sua sede
di via Boncompagni 6, un'assemblea degli azionisti (banche per l'appunto)
per deliberare tra le altre cose la riassegnazione all'azienda PWC di attività
integrative di bilancio, note col nome di Reporting Package IFRS.
PricewaterhouseCoopers (PWC) è una multinazionale distribuita in 158
paesi con sede a Londra, nel Regno Unito. Stiamo parlando di un colosso
delle revisioni dei bilanci. Per Wikipedia è una delle «Big four» insieme alle
notissime Deloitte & Touche, Ernst & Young e KPMG. Quello che si può
dedurre da questa iniziativa è che all'interno del Consorzio, creato nel 1980
su iniziativa politica della Democrazia Cristiana, con il solo scopo di gestire
la liquidazione del polo chimico di Rovelli, vi siano ancora molti interessi. O
forse nuove partecipazioni, visto che lo Stato attraverso il suo Comitato lo
trasformò in una holding.
La nota, diffusa dal nuovo liquidatore Ligestra Tre il 30 marzo 2016, tramite
la Gazzetta Ufficiale, con la quale l'assemblea veniva convocata, ha
precisato che PWC lavorerà con il Consorzio Sir dal 2016 al 2018, periodo
per il quale sarà nominato dall'assemblea anche un nuovo collegio sindacale.
Secondo il documento della Gazzetta Ufficiale, il Consorzio Sir vanta un
capitale sociale interamente versato di un milione, 515 mila, 151 euro e 42
centesimi.

Fini indagato, la procura difende i suoi interessi

Gianfranco Fini, storico leader di Alleanza Nazionale, è indagato. Lo


abbiamo letto su tutti i giornali a febbraio del 2017. Il reato che gli viene
contestato dalla magistratura è ben spiegato dal Fatto Quotidiano: aver
sottratto soldi allo Stato, grazie alla moglie, per creare società private con
cui comprare case di lusso a Montecarlo. Sarà vero? Forse è vero.
Che cosa sta succedendo però realmente nella politica? Abbiamo già intuito,
leggendo tra le righe i vari articoli, che una ditta, collegata a Fini, gestisce
macchinette d'azzardo per conto dello Stato. Proviamo ad allargare
l'obiettivo, perché la vicenda merita un minimo di approfondimento. Non ci
vuole molto. E' sufficiente cercare su internet la Global Starnet, la principale
249

azienda citata nelle notizie. Ce l'avrà un sito, no? Ecco un annuncio sulla sua
pagina Facebook. La data è del 14 dicembre 2016, il giorno successivo
all'arresto di Francesco Corallo. Secondo un articolo dell'Espresso, infatti,
l'imprenditore catanese Corallo era stato arrestato su ordine della procura di
Roma per non aver pagato le tasse sui proventi della gestione delle
macchinette per il videopoker. Le indagini su Fini rappresentano in pratica la
seconda puntata del giallo.
Nel comunicato della Global Starnet c'è scritto che l'attività aziendale andrà
avanti come sempre. Al resto penseranno gli avvocati, come al solito. "Il
concessionario difenderà nelle opportune sedi gli interessi aziendali -
conclude la nota - a tutela della dignità di tutti i lavoratori, delle loro
famiglie e di tutti i partner aziendali. Tutte le attività concessorie
proseguono regolarmente con l'attuale amministratore Mike Chahal".
In pratica non sta succedendo niente. Non ci sono sequestri, non ci sono
problemi giudiziari immediati. Come è possibile? Ma è chiaro: sarebbe
accaduto qualcosa se il reato avesse riguardato il gioco d'azzardo, che il
codice penale punisce con l'arresto. Ma alla procura di Roma interessano i
soldi che mancano all'appello nelle casse dello Stato. Perciò l'attività
continuerà, poiché la ditta è libera di andare avanti con la distribuzione di
macchinette infernali.
Andiamo allora a cercare la Global Starnet su Google Notizie associandola
con la frase: "gioco d'azzardo". Ed ecco la vera notizia. Ce la fornisce senza
volerlo un articolo di Marco Di Blas del Messaggero Veneto, edizione di
Udine, del 22 ottobre 2015. Si parla della Novomatic, una ditta che produce
alcune delle macchinette commercializzate dalla Global Starnet. Ma a
Vienna le macchinette italiane sono state dichiarate illegali e fatte sparire!
Incredibile.
Tirando le somme ecco cos'è accaduto. Lo Stato italiano, attraverso il suo
concessionario che si chiama Global Starnet, il quale distribuisce videopoker
della Novomatic, fattura miliardi, illegalmente, autorizzando il gioco
d'azzardo, che crea dipendenza patologica e manda sul lastrico decine di
famiglie. In questo scenario, Gianfranco Fini diventerebbe un complice che
si è messo in tasca qualche migliaio di euro e lo ha riciclato in una villa a
Montecarlo. E la procura di Roma? Si trasformerebbe in un esattore spietato.
Da una parte il governo di Vienna, che combatte il gioco d'azzardo, dall'altro
la procura italiana, che difende i suoi interessi economici.
Probabilmente si è creato uno Stato nello Stato inaccessibile, pieno di soldi
sporchi, all'interno del quale le leggi non vengono rispettate. I giudici che
indagano da anni sulla corruzione vedono solo una piccola parte del
250

problema. Il danneggiato da venticinque anni a questa parte è sempre lo


Stato, non direttamente il cittadino. E' lo Stato Padrone in cui tutti sguazzano,
da Fini a Berlusconi, a D'Alema, a Veltroni, a Grillo. Se Di Pietro raccolse
nel 1992 una denuncia per avviare una condivisibile battaglia contro il
malaffare degli appalti milanesi, ormai sembra che le inchieste abbiano
preso un'unica strada obbligata. Nascono e muoiono all'interno di una
struttura parallela costruita su un'ideologia: il capitalismo di Stato, cioè il
controllo statale degli affari economici. Che avviene attraverso concessioni
governative, come nel caso della Global Starnet, oppure mediante
partecipazioni statali nell'azionariato, o ancora appaltando opere pubbliche e
la gestione di servizi al cittadino.
Un'idea fuori dal tempo, dalla storia, e nelle mani dei giudici sbagliati. Sono
coinvolti pure loro nel gioco? Perché il danno erariale compete alla Corte dei
Conti. E' quest'ultima a indagare? Non mi sembra. Ed è singolare. Adesso
l'indagine si è spinta oltre la "semplice" economia statale: siamo nel gioco
d'azzardo. Ma, guarda caso, giornali e giudici non se ne sono accorti. Come
mai?

La madre delle tangenti conduceva alle armi

Armi in cambio di droga, grazie alle tangenti pagate al partito socialista di


Bettino Craxi. Era probabilmente questa la madre di tutte le tangenti, di tutte
le trame sporche della prima repubblica. Venne scoperta nei primi anni ‘80
dal giudice Carlo Palermo, ma fu subito insabbiata.
E’ la Tangentopoli che nessuno ha voluto smascherare fino in fondo, che
rientra perfettamente nello scenario da guerra fredda che ho ricostruito in
questi anni parlando dei fondi neri della Montedison. Probabilmente
c’entrava anche quest’ultima nei traffici con l’estero. Infatti l’anello di
congiunzione tra l’azienda leader della chimica, con sede a Foro Bonaparte,
e il partito socialista era un faccendiere di cui si parlò anche nell’era di Mani
Pulite. Si chiamava Ferdinando Mach di Palmstein. Fu il mediatore di un
affare che fece pervenire nelle casse del partito socialista iberico e italiano
circa 50 miliardi di lire. Scopo di quell’operazione era far acquistare alla
Montedison di Schimberni un’azienda farmaceutica spagnola per un prezzo
di molto superiore alle cifre di mercato, la cui parte eccedente doveva finire
al PSI.
Ma, prima che il giudice Francesco Greco, nel 1994, scoprisse questo filone
di indagine di Mani Pulite, era successo molto di peggio, e vale la pena
tornarci un attimo.
251

Il giudice avellinese Carlo Palermo, fin dal 1980, indagava su uno smercio
di armi e droga che facevano la spola tra l’Italia e alcuni paesi dell’Africa.
Nel 1984 si cominciò a parlare anche di politica e tangenti. Pare che fosse
proprio Ferdinando Mach di Palmstein, uomo fidato di Craxi a Milano, a
rivestire un ruolo centrale nel giro illecito di denaro. Un articolo di
Repubblica del febbraio 1987 lo descriveva quale giovane faccendiere del
partito socialista, abile nel maneggiare il denaro e ben inserito in certi giri
d’affari. Frequentava il cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, l’architetto Silvano
Larini e l’agente generale dell’Ina di Milano, Gianfranco Troielli.
Su incarico di Craxi - sempre secondo Repubblica -, Mach di Palmstein si
trasferì a Roma e fondò un’azienda, la Coprofin, che diventò “l’eminenza
grigia” del partito socialista e la prima indiziata nell’inchiesta del giudice
Palermo. Indagando a Trento sul traffico armi-droga, e perquisendo
l’abitazione di Mach di Palmstein, Palermo scoprì nel 1983 che la Coprofin
e la Promit erano due aziende nelle mani della Sofin Immobiliare, una
società controllata dal Partito Socialista. Spiegava molto bene queste trame
un articolo della Stampa del 30 giugno 1984. Coprofin e Promit avevano
però favorito un vasto giro di scambi tra l’Italia e i paesi africani, tra cui
Mozambico, Somalia e paesi arabi. Le armi giungevano nel Terzo Mondo in
cambio di droga, e il partito socialista intascava delle tangenti. Una vicenda
gravissima, con possibili legami anche con i fatti di sangue del terrorismo.
Mach di Palmstein non era solo in questa attività di mediazione. Si parlò
anche di Vanni Nisticò, capo ufficio stampa del PSI e uomo nelle liste della
P2 di Licio Gelli. Furono travolti dai sospetti i vertici dei nostri servizi
segreti. Il parastato italiano trafficava in armi? Per quei tempi non era un
reato, ma destava molte preoccupazioni la possibile violazione della legge
sul finanziamento pubblico ai partiti.
E’ questo il punto cruciale. Non solo il giudice Palermo aveva scoperto gli
affari sporchi della P2 e forse della mafia siciliana, ma aveva messo le mani
sui finanziamenti che violavano la famosa legge Piccoli, la 195 poi
modificata nel 1981 dalla successiva legge 659.
Ma cosa significava veramente violare la legge sul finanziamento pubblico
ai partiti? Leggendo il testo integrale di quelle norme la verità comincia a
venire a galla integralmente. La prima cosa di cui si preoccupava il
legislatore era la pioggia di miliardi che i partiti avrebbero ricevuto
direttamente dallo Stato. Soldi puliti, evidentemente, e centellinati. Ma si
trattava pur sempre di soldi dei contribuenti, che per di più non finivano in
parti uguali nelle tasche dei politici. Dipendeva dai voti di ciascun partito nei
vari seggi. Ci furono gelosie, liti tra gli uni e gli altri? I giornali non ce lo
252

dicono apertamente, ma è chiaro che deve essere andata così. Se i politici


locali si pagavano da soli i comizi elettorali, le campagne elettorali dei
politici di livello nazionale venivano rimborsate, di fatto, a partire da quella
legge 195 in poi, da un'organizzazione burocratica di Stato. Fu scritto già nel
1983 che la legge non riusciva ad arginare le irregolarità. Erano state
scoperte da alcuni magistrati rimasti sconosciuti vicende locali di tangenti
soprattutto a Torino e a Venezia. Ma una cosa mi pare certa: applicare quella
legge equivaleva a mettersi dalla parte di chi, comunque, non avrebbe mai
estirpato il male alla radice. In pratica, si trattava di combattere i
finanziamenti sporchi, non verificabili, per continuare ad erogare legalmente
una valanga di miliardi ai potenti della politica nazionale. Al partito Radicale
questo dettaglio non passò mai inosservato, e riuscì come sappiamo a far
abrogare la legge nel 1993.
Ma chi doveva controllare la regolarità dei bilanci prima di quella data e
prima che Di Pietro desse il via ai processi di piazza? Il testo originale ci
dice anche questo: il presidente della camera d'intesa con il presidente del
senato. La corretta applicazione di quelle leggi 195 e 659, richiamate più
volte nei processi da Di Pietro, prevedevano una loro denuncia di eventuali
irregolarità. Quale ruolo ebbero nelle inchieste di Mani Pulite?
La risposta sta tutta in quell’indagine di Carlo Palermo su Mach di Palmstein.
Il giudice avellinese infatti non partì in quarta alla ricerca dei fondi neri dei
partiti. La legge gli imponeva di interpellare i presidenti di Camera e Senato,
e lui lo fece. All’epoca le procedure prevedevano che i processi sui
parlamentari fossero istruiti da una speciale Commissione Inquirente, mentre
i giudici di Mani Pulite dovettero, in seguito alla riforma, chiedere
l’autorizzazione a procedere. Ma a mio giudizio la sostanza non cambia.
Nel 1984 i giornali cominciarono a pubblicare indiscrezioni su un possibile
dossier della procura di Trento, dove indagava Palermo, sui finanziamenti
illeciti verso il partito socialista. In un articolo della Stampa del 3 luglio
1984 firmato da Giovanni Cerruti, si leggeva chiaramente che, per essere
certi che vi fossero irregolarità rispetto alla legge Piccoli, era necessario che
i presidenti delle due camere effettuassero delle verifiche. L’articolo 4 non
permetteva che fossero scavalcati. Questo era il testo: “Il Presidente della
Camera dei deputati, d'intesa con il Presidente del Senato della Repubblica,
controlla la regolarità della redazione del bilancio e delle relazioni,
avvalendosi di un comitato tecnico
composto da revisori ufficiali dei conti, iscritti nell'albo da almeno cinque
anni e nominati, all'inizio di ogni legislatura, in riunione congiunta, dalle
conferenze dei presidenti dei gruppi delle due Camere. Il comitato, per il
253

controllo di regolarità, può richiedere ai responsabili amministrativi dei


partiti chiarimenti nonché l'esibizione dai libri, delle scritture e dei
documenti di cui al decimo comma, con l'obbligo del segreto, e redige, al
termine,
un rapporto.” Quindi aggiungeva: “In caso di inottemperanza agli obblighi o
di irregolare redazione del bilancio, è sospeso fino alla regolarizzazione il
versamento di ogni contributo statale e si applica l'articolo 4 della legge 2
maggio 1974, n. 195.”
Dunque il giudice Palermo pare che inviò questo dossier agli onorevoli Jotti
e Cossiga, ma nei giorni successivi si accavallarono le smentite: da Trento
non è giunto alcun dossier, dissero i politici. Dall’articolo di Cerruti si
evince che non era per niente facile procedere con gli accertamenti, perché -
spiegavano a Montecitorio - il presidente della Camera è un notaio e non un
giudice. Come poter stabilire che fosse stato commesso un reato ministeriale?
La comunista Nilde Jotti, all’epoca presidente della Camera, girò la patata
bollente alla Commissione Inquirente. Era l’11 luglio del 1984. Il dossier di
20mila pagine su Mach di Palmstein e le sue aziende legate al PSI, era
giunto finalmente a destinazione. Ma nel giro di pochi mesi fu tutto
archiviato. Anzi, l’onesto giudice subì un procedimento disciplinare dal
Consiglio Superiore della Magistratura, gli fu tolta l’inchiesta e, come se non
bastasse, nel 1985 subì un attentato di matrice mafiosa nel quale morirono la
moglie e i figli. Lui si salvò per miracolo.
E’ fin troppo evidente che quella legge sul finanziamento pubblico ai partiti
non poteva fare giustizia, né poteva essere applicata con quella
determinazione che rese famoso il pm Antonio Di Pietro. Come mai al
giudice Palermo fu impedito di procedere, mentre le toghe degli anni ‘90
applicarono persino il carcere preventivo? Si trattò di processi politici, come
sostennero Craxi e in seguito Berlusconi? E’ possibile, nel senso che
l’iniziale indagine si trasformò in una bagarre politica che condusse a un
rinnovamento dei partiti e della classe dirigente. Ma a mio parere non stava
cambiando niente. Tutti si erano dimenticati, non si sa perché, dei fondi neri
Montedison e dei guai del giudice Palermo. I traffici della P2 e della mafia
con i paesi africani restavano sepolti nelle sabbie di Somalia e Mozambico.

Antonio Di Pietro e quel fascicolo del giudice Palermo

A ben guardare gli articoli che uscirono dal 1994 al 1996, c’è un momento
nel quale le vicende del giudice Di Pietro ricalcano quanto accadde a Carlo
Palermo. Ed è l’inchiesta sulle attività del partito socialista in Africa.
254

Secondo quanto scrisse Giovanni Bianconi il primo marzo del 1996 su La


Stampa, fu proprio Mach di Palmstein a lanciare le prime pesanti accuse
contro il giudice più famoso di Mani Pulite.
“Tonino” Di Pietro si stava avvicinando a grandi falcate verso gli affari di
Bettino Craxi nel Terzo Mondo. Era l’agosto del 1994. Tramite l’Interpol
aveva sbattuto in cella Mach di Palmstein, mentre a Parigi era ospite
dell’attrice Domiziana Giordano. Ma quando in Kenya si accingeva ad
arrestare anche l’ex agente dell’Ina di Milano, Gianfranco Troielli, che era
un altro nome noto dell’inchiesta del giudice Palermo, i servizi segreti fecero
sfumare l’operazione con una soffiata. A quel punto partì un’attività di
dossieraggio su Di Pietro con l’unico fine, non certo di fare giustizia, bensì
di eliminare dalla scena con delle rivelazioni scandalose colui che veniva
considerato il principale nemico dei socialisti.
Tutto questo venne appurato dal Copasir, il comitato di controllo del
parlamento sui servizi segreti, e reso noto tra la fine del 1995 e il 1996. L'ex
giudice Antonio Di Pietro - affermò il presidente del Copasir, Massimo
Brutti - fu spiato per diversi anni da uomini corrotti dei Servizi Segreti al
servizio di Bettino Craxi. Furono attuate pressioni nei suoi confronti fino a
costringerlo a dimettersi dalla magistratura.
Il documento venne scritto il 26 ottobre del 1995. Si trattava di una relazione
redatta sulla base di informazioni acquisite durante la perquisizione dei
magistrati nella sede della società "Giovine Italia", che avvenne l'8 luglio
1995. Gli inquirenti scoprirono un carteggio riservato dell'onorevole Bettino
Craxi, in cui questi annotava tutti i movimenti dei suoi possibili avversari
politici, e girarono il materiale al Comitato.
Ci sono elementi che destano sicuramente scalpore e gettano ombre che
nessuno in Italia renderebbe pubbliche sui Servizi Segreti. Questo è il
concetto terrificante: Bettino Craxi usava alcuni reparti deviati del Sisde a
proprio piacimento. Faceva pedinare gli avversari, li ricattava e li
minacciava. Tra questi il giudice Di Pietro, che Craxi considerava uno dei
principali nemici. Craxi - afferma il Comitato - per fermare i magistrati
ricorse alla disinformazione e alle insinuazioni spesso inverificabili. Il
carteggio su Di Pietro è diviso in tre parti: la prima riguarda il periodo in cui
Di Pietro lavorava in Polizia; la seconda si riferisce alle amicizie milanesi
del giudice; la terza parte riguarda il suo modo di indagare sui fatti di
corruzione. Ma al di là di questi appunti, Craxi riuscì a spiare le telefonate di
Di Pietro corrompendo uomini della Telecom per poi ricattare con delle
lettere il giudice.
Scrive il Comitato: "Si è trattato probabilmente di una raccolta di dati
255

relativi al traffico telefonico, che, in assenza di un provvedimento


dell'Autorità giudiziaria, può essersi realizzata soltanto attraverso l'attività
illegittima di uno o più funzionari della Telecom. Non può escludersi una
intercettazione delle telefonate."
L'elemento che solo il mio libro poteva rivelarvi è che quelle telefonate
furono usate dalla magistratura, evidentemente non onesta, per indagare e
processare Di Pietro, chiudendo la pagina principale di Tangentopoli. Dice
infatti il Comitato: "l'elenco analitico di quelle telefonate fa parte di un
dossier che ha costituito la base di avvio dell'attività ispettiva iniziata
nell'autunno del 1994 a carico del dottor Di Pietro e chiusa il 7 dicembre,
nel giorno successivo alle sue dimissioni."
Craxi rivelò poi pubblicamente queste informazioni nel momento in cui la
Procura di Brescia istruì il processo, ma - spiega la relazione del Comitato -
ci sono troppe coincidenze tra il dossier della magistratura e il carteggio
riservato di Craxi per non pensare a una macchinazione diffamatoria dell'ex
leader socialista. La relazione si conclude così: "E' possibile che settori o
singoli uomini degli apparati dello Stato abbiano lavorato per costruire
informazioni riservate su Di Pietro e per tenerlo sotto controllo? Il Comitato
ritiene che ciò sia verosimile."

Le pressioni inconfessabili di Giuliano Amato

Una seconda relazione del Comitato parlamentare, datata 5 marzo 1996,


permette di accendere un’ulteriore luce sulle indagini illegali di cui fu
vittima il giudice Di Pietro.
Si comincia a parlare non solo di reparti deviati del Sisde, ma di indagini
segrete della Guardia di Finanza, e persino di un interesse dell’ex presidente
del consiglio, il socialista Giuliano Amato, affinché l’attività dei giudici di
Mani Pulite fosse controllata e resa inefficace. Emerge in poche parole il
contenuto del dossier “Achille”, che divenne di dominio pubblico sui
giornali. Si trattava di un fascicolo spionistico che i Servizi Segreti del Sisde
avevano predisposto sul giudice Di Pietro con l’obiettivo di controllarne
ogni mossa, e poi di colpirne l’immagine di fronte a qualche sua eventuale
illegalità.
Scrisse nella relazione il Comitato: “Il Comandante generale escluse, "con
riferimento all'attività istituzionale svolta dal Comando generale", che vi
fossero state tali attività. Ma il Comitato ha acquisito documenti, provenienti
dall'Autorità giudiziaria di Milano e da quella di Brescia, i quali dimostrano
che singoli appartenenti alla Guardia di finanza hanno invece raccolto
256

informazioni su magistrati. Si è trattato evidentemente di un'attività


extraistituzionale, che non risulta delegata dai superiori, di cui occorre
tuttavia accertare puntualmente l'ampiezza e le motivazioni, anche al di là
dei profili penali..”
L’attività di dossieraggio nel momento in cui il pool di Milano lanciava la
sua sfida al mondo delle tangenti assunse dimensioni più consone alla guerra
fredda tra Usa e Urss che al paese del sole, del mare e dei maccheroni quale
è l’Italia politicamente parlando nell’immaginario degli stranieri. “Vi sono
state da più parti - accusa la relazione parlamentare - manovre per
intromettersi nelle indagini, per conoscere il loro svolgimento, per acquisire
in tempo reale informazioni riservate su atti giudiziari che dovevano essere
ancora compiuti, per esercitare un controllo illegittimo sui singoli magistrati
e sulla loro vita, per costruire dossier che servivano a delegittimarli.”
Una delle “interferenze” principali partì come già detto da Bettino Craxi,
leader del Psi. Il carteggio che fu trovato nell’ufficio della “Giovine Italia”
andava oltre ogni immaginazione. Craxi aveva tenuto sotto controllo persino
quelli che in seguito sarebbero stati gli obiettivi degli attentati delle Brigate
Rosse, ma senza che fosse fatto nulla per evitare che gli omicidi si
verificassero. In che rapporti era il segretario del partito socialista con i
brigatisti? Il Comitato sembra non interessato a rispondere su questo punto,
che aveva trattato nella precedente relazione del 26 ottobre 1995. Piuttosto
insiste sui pericoli che aleggiavano su Colombo, Borrelli e Di Pietro mentre
“decapitavano” il sistema politico italiano nel 1992. E’ chiaro che il punto di
vista dell’organo di controllo dei Servizi è lo stesso di “Tonino” Di Pietro,
anche quando le spiate di Craxi offrono un panorama poco edificante per il
giudice, intento a telefonare ai suoi amici imprenditori e ad avvertirli durante
lo svolgimento delle inchieste, nonché a confezionarsi passaporti falsi per
recarsi in vacanza all'estero, reato punito con due-cinque anni di carcere.
Queste le parole del Comitato: “Tra il febbraio e il maggio 1992, nella fase
cruciale delle indagini che hanno fatto esplodere il sistema di Tangentopoli,
Di Pietro avrebbe effettuato una serie di telefonate, in particolare con gli
avvocati Lucibello e D'Adamo, legati a lui da rapporti di amicizia. Questi a
loro volta e negli stessi giorni avrebbero avuto frequenti contatti telefonici
con persone coinvolte nei reati su cui vertevano le indagini; il tutto
attraverso apparecchi cellulari.” "Nell'estate del 1992, mentre procedono le
inchieste dopo che sono emersi indizi circa il rischio di un attentato contro
Di Pietro, egli parte per una vacanza in Costarica. Ragioni di sicurezza
inducono il Vicequestore vicario di Bergamo a procurargli per il viaggio un
passaporto di copertura, intestato ad altro nome."
257

A Di Pietro giunge in quel periodo un dossier anonimo con cui si intende


ricattarlo e spingerlo ad abbandonare la toga. Ha favorito degli indagati e
infierito su altri: si dimetta! Lui denuncia tutto e ne nascono inchieste su
inchieste, come nei grovigli più intricati delle misure, contromisure e contro
contromisure della guerra fredda. La consorteria che sviluppa il carteggio
craxiano conosce ormai ogni segreto di Antonio Di Pietro. Soprattutto
quando quest’ultimo si avvicina ai personaggi della vecchia inchiesta del
giudice Carlo Palermo. Il mancato arresto di Troielli in Kenya e le
rivelazioni di Mach di Palmstein alla polizia francese al momento del suo
arresto sarebbero secondo il Comitato da inserire in questo quadro
spionistico. C’è spazio anche per Silvano Larini, l’uomo che con le sue
confessioni spiana la strada al pool nella scoperta del conto “Protezione”, un
ombrello economico che la P2 di Gelli si era costruita in Svizzera. Su di lui
indagò se ben ricordate anche Palermo. Viene a galla una possibile presenza
di uomini Mediaset in questi ambienti massonici. Per il Comitato “Quando
l'indagine si sposta sui conti all'estero, l'attacco e l'uso di informazioni
riservate contro il dottor Di Pietro si fanno molto più intensi, fino alle sue
dimissioni.”
“Un capitolo a sé - prosegue testualmente la relazione - nelle complesse
vicende relative alla illegittima raccolta di notizie riservate sulle indagini
concernenti Tangentopoli e sui magistrati della Procura di Milano è
rappresentato dalle attività riconducibili al SISDE e più precisamente dal
così detto dossier "Achille".”
I vertici del Sisde dapprima negano, poi, di fronte all’evidanza degli
accertamenti del Comitato, ammettono le deviazioni. La procura di Brescia
consegna il fascicolo compromettente. Il Comitato scrive: “Il Direttore del
SISDE aveva trasmesso, il 9 novembre 1995, documenti riguardanti tra
l'altro Di Pietro ed altri magistrati, rinvenuti nei fascicoli di una fonte
informativa denominata "Achille" (operante tra il 1991 ed il 1993, in un
periodo durante il quale sono stati ministri dell'interno Vincenzo Scotti e
Nicola Mancino che hanno dichiarato di non aver avuto notizia della sua
attività). L'esistenza della fonte è stata recentemente segnalata dall'ex
agente del SISDE Roberto Napoli.” Un altro passaggio che vale la pena
sottolineare è questo: “Tra le carte del dossier "Achille" trasmesse alla
Procura della Repubblica di Brescia, cinque documenti non sono stati
inviati al Comitato, poiché su di essi erano in corso indagini. Essi
riguardavano, tra l'altro, le inchieste sulle tangenti, alcune iniziative del
giudice Gherardo Colombo, i contatti di Di Pietro con ambienti
internazionali, vicende relative alla Lega ed al cardinale Martini, altre
258

notizie di indagini ed indiscrezioni politiche.”


Di Pietro, dunque, fa paura a molti, perché va avanti come un treno. La
politica vuole fermarlo. “Le informazioni inviate al Servizio dalla fonte
"Achille", di cui il Comitato ha potuto prendere visione, riguardano
l'andamento delle indagini in corso a Milano, fin dalla primavera del 1992.
Una di esse riporta colloqui privati tra magistrati. E' del 10 giugno; risulta
consegnata a mano al Vicedirettore del SISDE (che era allora il prefetto
Fausto Gianni). Il tema dell'appunto è politico: esso riferisce l'intenzione di
Di Pietro di non fermarsi nelle indagini, pur in presenza di preoccupazioni,
che gli sono state espresse anche da alcuni colleghi ed amici, circa i rischi
di destabilizzazione derivanti dai procedimenti penali in corso. Le altre
informazioni riguardano il merito dell'attività giudiziaria.”
Ma chi vuole che “Tonino” Di Pietro non faccia luce sul mondo delle
tangenti? Qualcuno come detto all’interno del Sisde comincia a vuotare il
sacco. “Il dottor Francesco Falchi, già capo del Centro SISDE Roma 1 (dal
16 ottobre 1991 al 5 aprile 1994), il quale teneva il collegamento con la
fonte "Achille", ha affermato che un input a seguire le vicende di
Tangentopoli proveniva dai vertici del SISDE: dal direttore Voci o dal
vicedirettore Gianni. Quest'ultimo, sicuramente responsabile, come risulta
dalle carte, dell'acquisizione di alcune delle informazioni (egli afferma
perfino che alcune ne avrebbe distrutte) ha ammesso qualcosa di più: un
input dell'autorità politica: "C'era un interesse a sapere cosa stesse
succedendo a Milano ... C'era un interesse a capire cosa succedesse, a
comprendere meglio la situazione. Il SISDE era il terminale - di uomini al di
fuori del SISDE - e che occupavano posti più importanti di quelli ricoperti
dal SISDE, che volevano sapere cosa stesse succedendo a Milano"."
Le conferme si susseguono. Spunta il nome dell’ex presidente del Consiglio
Giuliano Amato. Il Comitato lo ascolta e poi esprime un giudizio molto
severo con cui si chiude il capitolo. “L'on. Amato riconosce di avere
espresso al Ministro dell'ambiente le sue "preoccupazioni sulla
delegittimazione che l'inchiesta in corso a Milano rischiava di provocare sui
partiti di maggioranza e su quello del Presidente del Consiglio in
particolare". Certo, queste preoccupazioni, come la segnalazione di episodi
negativi della vita privata di Di Pietro (episodi che Amato dice di avere
riferito allora, dopo aver ascoltato Craxi, e sono i medesimi che torneranno
nei dossier degli anni successivi), indicano un preciso orientamento politico:
un rigetto ed un'avversione per il lavoro dei magistrati che stavano
scoprendo i responsabili della corruzione italiana. Quella espressa dall'on.
Amato è stata ed è una posizione diffusa in settori significativi delle classi
259

dirigenti, anche non toccati direttamente dalla corruzione, che


consideravano e considerano come un danno il fatto che il controllo di
legalità vada avanti, in tutte le direzioni, con rigore e decisione; e perciò
hanno di fatto incoraggiato gli attacchi al lavoro dei giudici.”
Analizzato il documento facciamo alcune considerazioni. Il lettore avrà
compreso che il periodo di Mani Pulite si trasformò in una guerra senza
confini, senza rispetto per le procedure. Bisogna ammettere che i contenuti
del dossier Craxi o di “Achille”, sebbene entrambi fossero illegali, lasciano
diversi dubbi sull’estraneità di Di Pietro al contesto sul quale indagava, al
punto che la storia di D’Adamo e di Lucibello andò a finire sul libro di storia
contemporanea di Indro Montanelli.
Ma allora una domanda: perché bloccare Di Pietro impediva di procedere
con altri magistrati nelle indagini sui traffici di Craxi e Mach di Palmstein in
Africa? Era proprio necessario che la difesa della legalità, la quale
costituisce un dovere morale e apolitico, portasse alla spettacolarizzazione
delle figure istituzionali dei giudici, se è vero che neanche ai tempi dello
Scandalo dei Petroli si era giunti a tanto?
E ancora un’altra, stavolta di carattere archivistico: perché se esisteva un
fascicolo su Mach di Palmstein e sulla cooperazione, aperto dal giudice
Palermo, Di Pietro non se ne accorse? E poi una sui contenuti: come mai non
si parlò mai né di mafia, né di armi nelle nuove indagini del pool di Milano?
A questi legittimi interrogativi il Comitato non pensò neanche lontanamente
di dover rispondere.
260

17

PERESTROJKA ITALIANA

La mafia russa aveva legami con il Piemonte e sono certo che li ha ancora.
Nel libro del povero Paul Klebnikov «Godfather of the Kremlin» ce ne sono
parecchie di cose che in Italia non si possono dire. E' forse per questo che
non è stato tradotto nella nostra lingua. Un grosso scoop è che un partner
della ditta Avtovaz del mafioso Boris Berezovskij era a Torino. Si chiamava
Logo System. Fu il frutto di un vecchio accordo di joint-venture del 1989 tra
la vecchia ditta di Togliatti (città russa col nome dell'ex leader del PCI),
costruita dalla Fiat negli anni '60 e poi passata all'oligarca russo, e una delle
sue aziende satelliti di out-sourcing, che gli sarebbero servite per
l'informatizzazione degli obsoleti sistemi industriali sovietici.
Proprio l’outsourcing è un elemento tipico del Piemonte e della Lombardia.
Significa che una grossa azienda, per mancanza di tempo, delega e vende a
un’altra di più limitate dimensioni lo svolgimento di un singolo servizio. A
volte la cessione di una commessa può avere senso, in altri casi sembra
proprio una truffa, specialmente quando il servizio offerto è la gestione dei
reclami dei clienti. Un altro punto di contatto tra Piemonte e mafia russa
sono i bassi costi di molti beni. Con la caduta del regime sovietico il governo
russo di Eltsin decise di cedere, per modeste somme di rubli, le quote di
privatizzazione delle aziende più importanti, così come dei piccoli negozi.
Nell’ex URSS tutto era nelle mani dello Stato. Klebnikov commentò che
questo ribasso non agevolava i cittadini volenterosi, bensì gli speculatori che
compravano ingenti quantità di aziende senza poi preoccuparsi di dar loro un
futuro. Nel nostro caso riscontriamo in Italia la netta svalutazione del
mercato immobiliare, che viene creata arbitrariamente dai venditori senza
alcuna garanzia per i cittadini. Una simile situazione permetterebbe ad
agenzie senza scrupoli di acquisire con poche migliaia di euro diversi
immobili di un certo pregio. Al primo rialzo dei prezzi, quindi, sarebbe un
gioco da ragazzi rivendere questi appartamenti o ville lucrando sulla
differenza.

“Comdata? Ha requisiti aberranti”

“Comdata? Ha requisiti aberranti”. Ecco i commenti che si leggono su un


forum rumeno a proposito di una delle aziende più discusse del momento,
261

Comdata Care, che gestisce alcuni servizi commerciali di Vodafone anche a


Roma, Ivrea in Piemonte e Milano. I malcontenti italiani sono legati come
sappiamo ai licenziamenti. E c'è la speranza, lasciata aperta dai giornali, che
tutto possa risolversi.
Ma è guardando queste aziende con gli occhi degli stranieri, nei paesi in cui
queste ditte sono andate ad aprire stabilimenti, che si scopre la verità. “Salari
bassi, forte stress, requisiti aberranti.” Il sito è undelucram.ro e a parlare
sono i dipendenti, in forma anonima, con dei nickname. Tutti sconsigliano di
lavorare per Comdata, che in Romania si chiama Comdata Service.
Mi hanno colpito alcune frasi, che più o meno nella traduzione di Google
suonano così: “Siamo umiliati come in un match di calcio tra Milan e Farul
Constanta”. Nel senso che è umiliante essere maltrattati da stranieri nel
proprio paese. Oppure hanno commentato: “Vengono create gelosie tra
dipendenti, il team leader ha delle preferenze, quindi attenzione se siete
nuovi”, “i buoni vengono dati a seconda di quanto sei 'amichevole' con le
autorità di vigilanza e da quanti anni sei nella compagnia.” Un altro scrive:
“I salari sono bassi, se si considera che in Italia prendono 5-6 volte di più. I
programmi sono vecchi - prosegue parlando forse dei prodotti messi in
vendita da Comdata - e quindi è difficile realizzare l'obiettivo per ottenere
premi di risultato.” Poi mi piace questo commento: “Gli stipendi sono pagati
sulla carta, ma non nella tua mano”, il che vuol dire - spiega il dipendente -
che ciò che c'è in busta paga non sempre viene corrisposto dall'azienda. Un
forumista scrive questo consiglio: “Se si dispone di nervi saldi e di
resistenza (e il lavoro di ufficio può essere faticoso, alcuni sono morti, se
non lo sai) allora Comdata può essere un'opzione per un lavoro
temporaneo.” Altrimenti - conclude - è meglio fare il cameriere, “i redditi
sono più alti e compensano lo sforzo fisico.” Avendo lavorato in questa
azienda pure io, posso confermare tutti i commenti rilasciati dai rumeni.

Banche e aziende italiane del KGB

In Italia il KGB installò banche e aziende fittizie per dei traffici illeciti. Lo si
scopre dal libro di Paul Klebnikov, “Il padrino del Cremlino”, in un
paragrafo dedicato al collasso del vecchio regime sovietico. Dal 1980 -
denunciò lo scrittore assassinato nel 2004 - il KGB ebbe una nuova missione,
esportare capitali all’estero attraverso società off-shore.
Si tratta di un argomento che conosciamo, in quanto si è manifestato in tutta
la sua gravità nei recenti mesi. Ci riferiamo alle polemiche per i fondi del
presidente russo Putin a Panama. Ma non solo. Nel 2013 si parlò di una
262

banca cipriota i cui dirigenti facevano parte del KGB. Il libro di Klebnikov
aveva parlato già dal 2000 di questo sistema, che coinvolgeva proprio Cipro,
ma poi anche la Grecia, il Portogallo e l’Italia, che guarda caso sono le
nazioni più indebitate degli ultimi anni. Il traffico avveniva mediante il
trasferimento di miliardi di dollari, attraverso un sistema che coinvolgeva
aziende e banche fittizie. L’Urss avrebbe inviato petrolio, legname e metalli
a prezzo stracciato a queste aziende, le quali lo avrebbero rivenduto ai costi
di mercato trattenendo per sé i profitti. Lo scopo - stando a Klebnikov -
divenne chiaro quando il sistema politico sovietico fu abbattuto. Il KGB
aveva il compito di creare dei fondi segreti da destinare ai membri del KGB
e del PCUS.85
Ma quali aziende in Italia potevano prestarsi a questo gioco? Abbiamo fatto
una ricerca nell’archivio della Stampa. La risposta è che sono molte, perché
gli accordi commerciali Italia-URSS furono numerosissimi, fin dai tempi di
Mattei all’ENI. Ma c’è un articolo che ci ha colpito in particolare. E’ del 28
ottobre 1979. Venne siglato un accordo con cui l’Italia avrebbe fornito
impianti in cambio di petrolio e gas. Tra le aziende pronte a lavorare per
l’URSS in campo energetico c’erano la Montedison, la Fiat e la Snia
Viscosa.

E' tutto vero: nella Montedison c'erano le spie russe

Il colosso di Stato, quando ancora si chiamava Montecatini ed era un'azienda


privata, fu nel mirino dei russi del KGB. La conferma oggi è possibile sia
per il reperimento online dell'elenco completo dei rapporti dell'archivio
Mitrokhin, sia perché con il motore di ricerca nell'archivio digitale dei
quotidiani è possibile verificare ogni singolo nome di possibili spie del
KGB.
Il rapporto Impedian numero 65, ad esempio, parla di un vice-direttore della
Montecatini che fu addirittura reclutato dai servizi sovietici nel 1956. Si
chiamava Giovanni Gallina e il rapporto ci dice che era nato nel 1928. Fu
sicuramente molto attivo nello spionaggio, tanto che gli appunti di Mitrokhin
ci dicono che propose ai sovietici di aprire un ufficio della Montecatini in
Giappone. I dipendenti di quell'ufficio avrebbero dovuto essere tutti del
KGB, quindi si trattava di un'iniziativa imponente.
Sappiamo da un altro rapporto che riguarda la Montecatini, il numero 257,

85
La fonte di queste notizie sono interviste effettuate da Paul Klebnikov agli ex gerarchi del
Kgb.
263

che la ditta contribuì alla costruzione a Grodno di una fabbrica di


ammoniaca, fornendo però soltanto "i lavori di routine e i parametri stabiliti".
Si rifiutò invece di cedere ai russi "la ricerca scientifica relativa alla
deviazione dell'attività di routine dell'impianto, asserendo che la ricerca
costituiva un segreto commerciale."
Il KGB quindi poteva contare soprattutto sul contributo di alcuni singoli
dipendenti. Uno era Gallina, ma secondo Mitrokhin morì in un incidente
stradale nel 1966. L'archivista copiando a mano deve aver sbagliato la data,
ma non la sostanza. Nell'archivio del quotidiano La Stampa c'è la conferma
che Giovanni Gallina, vicedirettore della Montecatini, morì il 9 aprile del
1960, ucciso da quello che oggi chiameremmo un pirata della strada. Stava
viaggiando da solo con la sua Alfa Giulietta sprint sull'autostrada
Torino-Milano in direzione di Torino, quando si scontrò all'altezza di Santhià
con una Lancia Aprilia, alla quale era scoppiata una gomma e aveva invaso
le corsie opposte. Nella Lancia c'erano tre giovani torinesi che si recavano a
Milano, uno dei quali, che si chiamava Giovanni Vallero e aveva 22 anni,
morì sul colpo nell'impatto insieme al dirigente della Montecatini. Le auto
rimasero distrutte. La polizia indagò e arrestò uno dei tre giovani, Armando
Bianco di 22 anni, che venne condannato a un anno di reclusione per duplice
omicidio colposo. Fu una pena lieve se si considera che la polizia, poco
prima dell'incidente, aveva accertato che le gomme della sua Aprilia erano
"consumate come una suola vecchia".
Un’altra prova dell’autenticità delle informazioni di Mitrokhin viene fornita
dalla verifica delle sue informazioni relative alla figlia della spia Giorgio
Conforto, nome in codice “Dario”. Nel rapporto impedian 142, viene scritto
che la figlia di Conforto, Giuliana, fu arrestata alla fine di maggio 1979
insieme a due “terroriste” di spicco delle Brigate Rosse, Morucci e Faranda.
L’archivio del quotidiano La Stampa conferma tutto. Il 31 maggio del 1979
in un articolo di Silvana Mazzocchi fu scritto che durante un’irruzione in
viale Giulio Cesare a Roma la polizia trovò una mitraglietta nella borsa di
“Giuliana Conforto, 36 anni, proprietaria dell’appartamento, ex aderente a
Potere Operaio.” Nella stanza attigua dormivano Valerio Morucci e Adriana
Faranda, accusati di aver preso parte alla strage di via Fani. Mitrokhin ha
affermato che, poiché Giorgio Conforto era presente al momento dell’arresto,
pur non essendo a conoscenza delle frequentazioni della figlia, il KGB lo
“congelò” definitivamente.

Anche la Coeclerici fu nel mirino del KGB


264

Non si trova nulla negli archivi dei quotidiani dell'altro uomo della
Montecatini che compare nell'archivio Mitrokhin, lo scienziato Doctrinelli
(Impedian 257).
Forse l'archivista copiò male il nome, come spesso gli capitava. In questo
caso Doctrinelli non aveva alcuna intenzione di cedere i segreti industriali
della Montecatini al KGB, pertanto quando si recò a Grodno per la
costruzione della fabbrica di ammoniaca fu spiato continuamente. I servizi
russi volevano mettere le mani sulla sua valigetta, che però Doctrinelli
portava sempre con sé. Il KGB - dice Mitrokhin - organizzò allora una cena
di gala in suo onore, e quando questi nascose la valigetta sotto il suo letto le
spie russe corsero a fotografarne il contenuto. Furono scattate foto di ben
493 pagine di documenti, che "descrivevano l'attività tecnologica della
Società Gemarco-Vetrocock ed hanno fornito informazioni sulle
caratteristiche di assorbimento delle soluzioni a varie temperature e
pressioni."
I libri sullo spionaggio dell'est sottolineano spesso quanto fossero importanti
per i paesi del Comecon le informazioni scientifiche, che permettevano loro
di rimanere competitivi rispetto all'occidente anche senza grossi investimenti.
Fu per questo probabilmente che nei rapporti Impedian, al numero 48 e al
233, c'è spazio anche per la Coeclerici, con la quale ho un personale ricordo:
svolsi un colloquio alcuni anni fa per un impiego a Milano. E' una storica
ditta che si occupa di trasportare il carbone dalla Russia attraverso il porto di
Genova. Nel 1973-74 i russi contattarono Gioacchino De Feo, un suo
rappresentante all'estero, ma la collaborazione si interruppe presto perché -
spiega Mitrokhin - "le prospettive di utilizzarlo per informazioni scientifiche
e tecniche erano scarse." De Feo fu poi espulso dalla Russia nel 1978, per
aver contattato dei cittadini locali senza autorizzazione.
Se fosse vera la teoria di Enzo Biagi, scritta nel suo libro sulla storia dello
spionaggio, anche l'assassino del presidente marchigiano dell'ENI, Enrico
Mattei, avrebbe ora un identikit grazie all’archivio Mitrokhin. Il grande
Biagi parlò di una confessione. La rilasciò un certo Lamia, agente dello
SDECE, un servizio segreto francese. Disse che a uccidere Mattei era stato
Laurent, questo il nome di battaglia, il quale in quindici minuti avrebbe
manomesso l'altimetro sul Morane Saulnier, fermo all'aeroporto di Catania.
L'aereo precipitò tra le fiamme nei pressi di Pavia. Era il 27 ottobre 1962.
Ma Biagi era scettico riguardo a questa pista, perché quindici minuti gli
parvero troppo pochi. Questo Laurent però è esistito. Mitrokhin ne parla a
proposito delle spie del KGB in Francia. Il nome di battaglia in realtà glielo
diedero i sovietici. Laurent "era uno scienziato che lavorava in un istituto di
265

ricerche aeronautiche della Nato". Quindi era la persona ideale per


manomettere in poco tempo l'aereo di Mattei. Prove di un coinvolgimento
dello SDECE, che era pieno di spie russe, nell'attentato non sono emerse. Si
sa solo che Laurent ricevette nel 1973, 74 e 75 un premio dal KGB di 2000
franchi per il suo ottimo lavoro. E' probabile che questo tecnico aeronautico
negli anni '60 non lavorasse ancora per i russi. La mia ipotesi quindi è che
l'attentato, se fu lui a commetterlo, venne attuato per la politica
antiamericana di Mattei.

Non vogliamo tornare tra le braccia di Hitler

L'articolo di Stefano Sylos Labini uscito in questi mesi sul Sole24Ore,


intitolato: "L’ipotesi moneta fiscale in Italia? Il miglior precedente è…
tedesco", è imbarazzante quanto prevedibile. Offre una soluzione alla crisi
imitando il modello autarchico hitleriano. Il progetto prevede la messa in
circolo di una specie di buoni del Tesoro utilizzabili al posto dei soldi per
sconti sulle tasse. Ma con quale copertura? In pratica, carta straccia.
Dopo tanto odio seminato dalla politica di estrema destra e sinistra, ecco che
qualcuno si propone di risolvere in modo autoritario la questione economica.
Lo fa con una teoria affascinante, ingegnosa, ma diabolica, imitando Schacht,
non tenendo conto del contesto storico in cui l'economia tedesca trovò una
via d'uscita negli anni '30, e che non staremo a ripetere. Fu un'autostrada
verso l'autodistruzione, e in Italia andò anche peggio. Negli ultimi 70 anni il
mondo ha cercato con Bretton Woods, con la CEE, diventata UE, e con lo
SME, il sistema monetario europeo che precedette eurolandia, di evitare gli
egoismi degli anni '30. Chi ha tentato di rompere quegli accordi nel passato
non va visto in buona luce, perché avrebbe sacrificato, e in Francia e in Italia
ciò avvenne, gli interessi dei singoli, cioè i cittadini più deboli, in nome di
un supposto interesse superiore dello Stato. Quindi niente giochi sulla
svalutazione, come avvertiva Goria. Bisogna fare invece i conti con le nostre
deficienze. Nel 1983, quando il debito pubblico era ancora entro certi limiti,
l'ex ministro Giorgio La Malfa dei repubblicani gridava, attraverso le
colonne della Stampa, contro la facilità con cui il governo, per pagare i suoi
debiti, ricorreva all'emissione di nuova moneta, sforando il limite del 14%
sulla liquidità consentita per legge al Tesoro. Cosa direbbe La Malfa, nel
2016, constatando che negli ultimi 15 anni i governi bipolari, non solo non
hanno fatto ripartire le imprese italiane, ma hanno aperto una linea di credito
dello Stato verso giornali, imprese edili, grandi industrie solamente versando
gli oneri sul conto dello Stato, e quindi sulle generazioni future, come fece
266

Mussolini? Vogliamo ancora una volta far pagare le deficienze e le arroganze


dei politici tagliando i debiti statali con un'inflazione spaventosa? Perché
tornando alla Lira, dopo tre lustri di moneta europea, quantificheremmo la
nostra effettiva svalutazione. Oppure qualcuno è disposto a credere che,
seguendo questo Schacht, sconosciuto anche nei migliori libri di storia, lo
Stato possa trovare una bacchetta magica per azzerare il debito pubblico?
Se vogliamo poi aggiungere delle considerazioni di economia pura, che io da
profano ho letto qua e là, nel 1930 era a pieno regime il sistema Gold
Standard, nel quale l'inflazione poteva essere supportata da un incremento
della base aurea. Lo Stato avrebbe offerto maggiori garanzie per la nuova
linea creditizia. E infatti Hitler e Mussolini cercarono di ampliare le
conquiste per incamerare ricchezze. Dal 1971 le banconote non vengono più
convertite in oro, quindi hanno un valore intrinseco di mercato. Non credo
che Schacht abbia inventato qualcosa di magico. Ed è un errore pensare che
quell’esperienza sia ripetibile nel mercato libero.

La drammatica attualità delle inchieste farsa

“All’improvviso uno sconosciuto”, ironizzava il titolo di una rubrica della


Gialappas band ai tempi di Mai dire gol. Ma è ciò che avviene ogni giorno
sulle televisioni italiane quando inizia il telegiornale.
Siamo invasi da notizie di cronaca giudiziaria che pretendono di fare
scandalo come ai tempi dell’ormai remota Mani Pulite. Assistiamo passivi a
cronache prive delle più elementari norme del buon giornalismo, prive
dell’emotività di un testimone qual è il cronista, con nomi di illustri
sconosciuti assurti a protagonisti (non si sa se positivi o negativi), che
nessuno fino a poche ore prima aveva letto nelle stesse prime pagine e con lo
stesso risalto. Mi sono chiesto allora che senso abbia tutto questo, che valore
abbiano le notizie per la gente, e soprattutto chi siano questi protagonisti
dell’ultima storia, quella della Consip.
Per curiosità come un qualsiasi lettore-telespettatore sono andato a leggermi
qualcosa nel passato di questa azienda. Ho preso l’archivio online della
Stampa, perché il Corriere della Sera è a pagamento e L’Unità lo ha tolto,
forse dopo aver compreso che la rivoluzione comunista non può riuscire fino
in fondo lasciando aperti gli archivi, e mi sono messo a leggere. Qualcuno
mi accuserà: “con il motore di ricerca digitale sono bravi tutti”. Lo avrei
fatto lo stesso con i faldoni cartacei e impolverati!
E dopo aver letto le vecchie notizie arriva la solita inc... arrabbiatura. Siamo
al solito discorso: si lancia una notizia, ma per vedere quella vera
267

bisognerebbe allargare l'obiettivo a tutto il sistema. Cos'è la Consip? Un


organo di Stato che accentrava in un unico ente tutti gli acquisti della
pupblica amministrazione. Tutta una serie di appalti, insomma. Gli articoli
nei quali se ne parlava sono del 2003, al tempo del Governo Berlusconi due,
ma questa Consip era nata nel 1997 con il governo Prodi. Un sistema molto
criticato. Si diceva fosse simile a quello dell'ex URSS.
Un ricercatore del Politecnico di Torino, un certo Paolo Valabrega (se mi
legge spero che mi scriva) in una sua lettera spiegava il funzionamento di
questo ente in modo perfetto. “Tutti gli enti pubblici - scriveva - potevano
rivolgersi alla Consip per comprare o almeno per confrontarne i prezzi con
quelli di altri fornitori. Quindi anche gli enti e i fornitori che fanno ricerca
scientifica.” A questo punto nella storia della Consip di Valabrega c’è una
precisazione che chiama in ballo il Berlusca. Al tempo del suo governo il
mercato libero, sacro per l’Unione Europea, fu sacrificato in nome del
risparmio di Stato.
“Nella legge finanziaria 2003 - proseguiva il ricercatore - la Consip diventa
fornitore obbligatorio di tutti gli enti pubblici: non si può comprare al libero
mercato una gomma, un foglio di carta, un servizio di pulizie o un computer
se è presente nelle sue offerte. Solo quando si è certi che qualcosa non
compare fra i prodotti venduti dalla Consip si ha il diritto di rivolgersi al
libero mercato.”86 Tutto questo portava secondo il dottorando universitario
a un eccesso di burocrazia che rallentava ogni acquisto. Un altro docente del
Politecnico di Torino, Roberto Merletti, affermava in un’altra lettera più
meno questo concetto: i miei progetti aerospaziali sono in ritardo per colpa
della Consip. “Signor burocrate - si rivolgeva alla dirigenza dell’ente
centralizzato - pagherà lei l’eventuale penale per il lavoro non concluso nei
tempi pattuiti? Sarà la sua reputazione ad essere lesa? Sarà lei a perdere il
prossimo contratto a favore di un collega tedesco o francese privo delle
forche caudine a noi imposte?”87
Sembra evidente che in un’economia proiettata verso il mercato libero, c’era
nel 2003 uno zoccolo duro che guardava con nostalgia al comunismo di
Stalin. Per voler controllare l’economia il sistema sovietico implose, per
colpe esclusivamente sue, ben prima che i cittadini abbattessero il muro di
Berlino Est. Dal novembre 1989 crollarono, come nel gioco del domino,
tutte le dittature comuniste del Patto di Varsavia, nel giro di un anno e mezzo.
Non c’era più nulla da salvare. Nel 2003 erano già passati quattordici anni e

86
Cfr: “Se un ricercatore ha bisogno di un computer”, La Stampa, 26 febbraio 2003.
87
Cfr: “Solo impicci e ostacoli dalla nostra burocrazia”, La Stampa, 9 aprile 2003.
268

altri quattordici ci dividono dal nostro 2017.


Il ricercatore torinese a cui ci siamo affezionati, Paolo Valabrega,
aggiungeva quell’anno (sempre su La Stampa, che però con il tempo è
diventato un giornale di regime e si è uniformato ai licenziamenti come gli
altri quotidiani) dei dettagli politici che non possono passare inosservati.
“Dalle nostre (non approfondite) ricerche risulta che qualcosa di simile
fosse in funzione nell’ex Unione Sovietica.”
Lo stesso quotidiano piemontese pubblicò poco tempo dopo la replica della
Consip, attraverso le parole dell’amministratore delegato, Ferruccio Ferranti.
Il quale ribatté: “Non siamo l’Urss e non siamo la Corea”.88
Di queste tracce del passato cosa è rimasto nella storia di corruzione che
vede attualmente indagato, tra gli altri, anche il padre (ha un padre?) dell’ex
presidente del consiglio Matteo Renzi? Niente, non è rimasto nulla.
Praticamente tutta la stampa italiana segue la linea che tenne
l’amministratore delegato di Consip nel 2003. Cercando notizie su “cos’è
Consip”, ci si imbatte in un articolo di Sky News che contiene proprio
l'esaltazione di questo ente. Niente più politica, niente più polemiche, niente
economia.89 La magistratura indaga addirittura per risanare quel sistema che
il povero ricercatore del Politecnico di Torino (l’avranno ammazzato?) quasi
metteva in ridicolo col paragone con l’Urss. In pratica le inchieste servono a
questo: ripulita dalla corruzione, Consip dovrebbe funzionare a meraviglia,
perché il suo sistema di appalti è impeccabile. Figuriamoci! Se non ci fosse
uno scandalo al giorno avremmo un sistema staliniano di pianificazione
efficiente e uno Stato più accentrato che mai. Saremmo tutti felici, non
trovate? Nessuno, insomma, ti descrive la Consip come l'ha fatta lo
Stato-mamma, che accudisce i suoi sudditi privilegiati dai tempi della
Democrazia Cristiana.
Prima Prodi, D’Alema, poi Berlusconi. Il nostro, nella seconda repubblica, è
uno Stato, via via, sempre più autoritario, e che ovviamente non funziona. Si
indaga, si infanga, ma non si uscirà dalla visione particolaristica della realtà,
perché si difende un sistema fuori dal tempo e fuorilegge, magistrati inclusi.
Sembra di leggere sui nostri quotidiani quell’ossessione per le indagini a
tappeto che era tipica di Stalin. Roba di settant’anni fa e condannata dalla
storia.

88
Cfr: “Acquisti per gli enti di ricerca “Centralizzarli permette risparmi, non è burocrazia”, La
Stampa, 19 marzo 2003.
89
Cfr: “Consip, cos’è e come funziona la “centrale acquisti” della Pa”, Sky TG24, 6 marzo
2017.
269

Se i giornalisti avessero proceduto con il mio metodo di ricerca, a ritroso nel


tempo, anche per Mani Pulite, avrebbero scoperto che il vero scandalo, nel
1992, non erano i finanziamenti ai consiglieri comunali di Milano in cambio
di appalti, bensì i finanziamenti pubblici ai partiti elargiti generosamente con
i soldi delle tasse. Finanziamenti, questi ultimi, tutelati dalla legge tanto cara
a Di Pietro, al punto da renderlo famoso. E' una situazione grave, che
continua a ripetersi e che nessuno vede. Secondo me andava presa in tempo
venticinque anni fa, adesso può essere troppo tardi.

Il "consenso" ci salverà dalla crisi economica?

"Alla fine dell'anno scorso circolavano in Italia titoli di Stato e obbligazioni


per un valore che superava l'astronomica cifra di 40 mila miliardi.
L'incremento è ormai di diverse migliaia di miliardi ogni dodici mesi e, in
rapporto alle dimensioni della nostra economia, è forse il maggiore del
mondo. Ciò significa che — asfittico e fuori dalle sue funzioni istituzionali il
mercato azionario — è sul reddito fisso che sono incentrati l'interesse e le
cure sia delle autorità centrali, sia degli esperti finanziari."
Questa era nel 1972 l'introduzione che l'economista cieco e senza contratto
giornalistico della Stampa, Renato Cantoni, faceva nel suo articolo su
obbligazioni e debito pubblico. Grazie al suo straordinario talento, posso
confermare ancora una volta che la nostra visione della politica economica,
nel 2017, è assai limitata.
Lo Stato per pagare i suoi stipendi ormai non ha altra scelta che quella di
farsi prestare il denaro dai cittadini. Un'emergenza tira l'altra. E il cane si
morde da almeno venticinque anni la coda. In tempi diversi si trattava invece
di un'emergenza che si sostituiva ad altre soluzioni.
Bisogna quindi per forza tornare indietro, al 1972, per capire cosa accadeva
quando il debito pubblico era nella norma, quasi in una nostra vita
precedente. Leggendo l’ articolo di Cantoni intitolato “Obbligazioni e
inflazione” riaffiorano altri dettagli interessanti. Nel malaugurato caso in cui
le aste delle obbligazioni fossero andate storte, lo Stato avrebbe dovuto
intervenire direttamente, in modo tale da porre rimedio ai progetti pubblici
messi a bilancio preventivo. Toccava alla Banca d'Italia comprare i titoli
invenduti, oppure a un istituto statale di credito: l'Istituto Centrale fra le
Casse di Risparmio (ICCRI). Oggi si cerca l'aiuto della Banca Centrale
Europea, ed è più difficile spiegarle che per la nostra bella vita abbiamo
bisogno di altra liquidità.
Nel 1972 erano le nostre banche pubbliche, inoltre, in situazioni di crisi, a
270

garantire nuove emissioni di obbligazioni molto convenienti con cui


finanziare, con i soldi degli italiani, le opere infrastrutturali. E la cosa
avveniva alla luce del sole. Il cittadino era direttamente coinvolto nelle spese
pubbliche.
Oggi non è più così. Al centro di tutto, cioè a Roma, in questi ultimi decenni
c'è un occulto "convalescenziario" statale, tanto per rubare le parole di un
altro economista: Ernesto Cianci. Il governo Renzi ha escogitato una nuova
IRI, ma il sistema non si allontana dalla politica del fascismo. Può essere la
ragione per cui è risuscitata pure l'ottocentesca Cassa Depositi e Prestiti. E'
lei, sotto il controllo del Ministero dell’Economia e delle Finanze, a gestire
Fintecna, che è, appunto, una IRI di terza generazione, la quale racchiude al
suo interno una serie infinita di scatole cinesi. Qui come sappiamo vengono
assorbiti tutti i debiti pubblici, come dopo la grande crisi del 1929. Poi nel
pentolone troviamo gli investimenti degli enti locali, il mercato delle armi, il
lavoro precario di Almaviva, e anche la progettazione di opere pubbliche.
Persino i rimborsi per il terremoto del 2016 nel centro Italia vengono
controllati da Fintecna, che è alla ricerca di più di cento ingegneri per
studiare la ricostruzione degli edifici di Marche, Lazio e Umbria.
In sostanza, la garanzia dello Stato adesso viene offerta a costo zero, almeno
negli annunci dei politici. I rimborsi arrivano con estrema facilità, i controlli
sono centralizzati, ma l’impressione è che l’ombrello statale difficilmente
potrà contenere tutte le necessità immediate del paese. Chi salderà i conti?
In un recente articolo sul debito pubblico è stato scritto che i titoli di stato
permettono al governo di coprire il deficit. Ce lo auguriamo. Almeno
vorremmo continuare a sopravvivere. Secondo Radio Radicale, nel 1995 una
buona metà di essi veniva assorbita dal mercato italiano, composto di
famiglie private, banche, assicurazioni. Garantivamo con il nostro stipendio,
e garantiamo ancora perché le oscillazioni sono state minime, i soldi che il
nostro datore di lavoro nel settore pubblico avrebbe dovuto corrisponderci il
mese successivo. Radio Radicale non lo specificava, ma questo era il succo.
Dunque è implicito il fatto che senza bot, cct e btp lo Stato italiano fallirebbe.
Questi prodotti finanziari, che pagano interessi sempre più bassi, vengono
spalmati dal governo su scadenze sempre più lunghe, affinché si ritardi il più
possibile il momento di una loro restituzione. Una simile prospettiva, nel
complesso, li rende sempre meno convenienti, sia per le famiglie, sia per le
stesse banche, che continuano ad investire buona parte dei soldi dei cittadini
nei titoli pubblici. E infatti la crisi bancaria è sotto gli occhi di tutti.
Per piazzare questi bot, cct e btp, dopo la separazione voluta da Andreatta tra
la banca d’Italia e la politica del governo, serve per forza di cose il consenso
271

dei cittadini per lo Stato. In altre parole, molto più semplici da capire, per
sopravvivere abbiamo bisogno di una dittatura, di un consenso vastissimo.
Ogni crisi o scandalo vero potrebbe creare i presupposti per una crisi di
liquidità, che manderebbe a gambe all'aria tutti gli impiegati degli uffici
pubblici e i politici che si danno alla bella vita.
La gente deve credere nello Stato e investire sul suo debito. Ecco perché le
manovrine, con il Berlusca o con Renzi, non possono colpire i cittadini.
Devono mancare il colpo e finire sui fumatori, sugli alcolisti, ma non sui
loro “clienti”. La gente non può non credere nello Stato italiano, e questo
anche riguardo al sistema giudiziario. Lo Stato italiano è il bene assoluto, e il
Berlusca o gli altri politici indagati sono i martiri che pagano con la loro
reputazione affinché il gioco regga e vada avanti. Un prezzo che si può
anche pagare, visto che la galera questi signori non sanno manco cosa sia.
Altre soluzioni non si vedono. Il capitalismo del mercato azionario continua
a non piacerci. La politica parlamentare, sia di sinistra che di destra, non
favorisce affatto il libero mercato, ma semmai gli appalti, le scalate e le
nazionalizzazioni. Continuiamo a non saper immaginare qualcosa di diverso
dal finanziamento a pioggia dello Stato, senza tuttavia alcun ritorno di
fiamma per il comunismo. E idee nuove dagli economisti non arrivano.
Abbiamo un processo al giorno per gli appalti pubblici da venticinque anni,
dalla prima Mani Pulite, una corruzione che è devastante come ai tempi di
Catilina, ma a nessuno viene in mente di eliminare alla radice il problema.
Come è possibile? Forse è proprio questa attività di eterna indagine
mediatica che deve far nascere il consenso per lo Stato e il conseguente
successo nelle vendite dei titoli pubblici.
Sta di fatto che nel nostro giornalismo è difficile immaginare un'economia
che non preveda nel prossimo futuro una nuova grande asta di bot, cct, e btp.
E nessuno si è ancora accorto che Renato Cantoni è più importante del suo
quasi omonimo del fantozziano ufficio anticorruzione.
272

18

TANGENTI AMERICANE

Il caso ha voluto che nella seconda metà del 2008 mi trovassi a lavorare per
un'azienda di cui avete già letto l’intera storia. Si tratta della nuova Edison,
ma devo essere più preciso su colui che è stato il mio datore di lavoro
part-time per sei mesi. Il sistema di gestione della clientela di quel famoso
marchio, perché questo era il ruolo che mi venne assegnato da un'agenzia
interinale di Milano, alla quale non avevo certo nascosto di essere iscritto
all'albo dei giornalisti pubblicisti, prevedeva che ad occuparsi
dell’archiviazione dei contratti appena stipulati e del contatto con il cliente
fosse un'azienda esterna. Ho quindi sperimentato di persona quello che vuol
dire esternalizzare un servizio di un'impresa. E non è che sia rimasto molto
convinto della bontà di questo sistema. Come dire: vendono un prodotto e
poi se ne infischiano se il cliente resta insoddisfatto.
In questo caso, l'azienda che gestiva i clienti per conto di Edison mi spedì in
un grande ufficio, in cui avevo il compito di inserire al computer dei dati
provenienti da contratti scritti a mano. Fu un lavoro più facile di quanto
pensassi, e in fondo gli 800 euro mensili per quell'attività, che mi lasciava
anche libero di svolgere eventualmente il lavoro giornalistico, mi sono parsi
fin troppo generosi. Avevo la possibilità di distrarmi su ciò che accadeva
intorno a me nelle ore di lavoro, poiché i contratti arrivavano tutti nello
stesso momento e c'erano periodi anche lunghi in cui non c'era niente da fare.
Si era quasi costretti a trovare una persona con cui parlare o un passatempo
sul proprio computer. Diciamo che mi hanno colpito alcune cose: la prima è
che i giovani che lavoravano nel mio stesso ufficio non avevano una
concezione del loro lavoro molto positiva; eppure tutti i lavori, se affrontati
con spirito costruttivo, possono essere stimolanti e interessanti, a prescindere
dal livello culturale. Tra questi giovani, apro un inciso, c’era una ragazza che
raccontava di aver perso il marito in un brutto episodio di violenza: la
cosiddetta “Strage di Rozzano” (Rozzano è un comune poco distante da quel
luogo di lavoro). Andando poi a leggere sui giornali quel fatto, perché penso
di averlo identificato da alcuni particolari, ho scoperto che le cose sembra
siano andate diversamente da come mi era stato raccontato, e che non fu un
incidente casuale come avevo capito, bensì si era trattato di un “regolamento
di conti tra pregiudicati”. La seconda cosa che mi ha colpito è che i clienti
che telefonavano ai colleghi della sala accanto sembravano tutti arrabbiati; e
273

chi rispondeva mi è parso fosse predisposto alla litigata sul costo della
bolletta. Un terzo elemento l'ho notato salendo al piano superiore della stessa
azienda a prendere il caffè dalla macchinetta automatica: entravo
improvvisamente nel Comune di Milano, e dietro ad un'insegna del comune
meneghino vedevo, in un altro salone, delle persone con la cuffia indosso
che parlavano al telefono; ma io in quel momento ero nel Comune di
Basiglio! E la cosa mi è rimasta impressa nella memoria.
Cosa c'entra la nuova Edison in tutto questo? C'entra perché sentivo spesso
nominare Foro Bonaparte, e mi veniva spiegato che alcuni delegati di Edison
erano presenti come supervisori su alcune postazioni in fondo all'ufficio. Si
notavano, o volevano farsi notare, per l'abbigliamento elegante e l'aria
signorile che sfoggiavano quando si affacciavano nei vari uffici. Fu solo a
quel punto che compresi di avere a che fare con la Montedison e Gardini.
Ma erano passati tanti anni da Tangentopoli, potevano essere cambiate molte
cose. Oggi, dopo aver fatto degli approfondimenti so che non è detto sia così
e non intendo nascondermi; anche perché quelle esperienze
extra-giornalistiche (ce ne sono state altre) non si concludevano mai bene.
In quell'azienda, che lavorava per Edison, alla fine venni spostato in un altro
ufficio con una scusa umiliante, più adatta a un bambino di scuola
elementare: il fatto che ero troppo distratto a parlare con gli altri, più che a
scrivere i dati al pc. Venni mandato nell'ufficio di fianco al mio, nello stesso
ampio salone, e lì vidi il lavoro più duro e anche meno adatto a un'azienda
come Edison. Si trattava di telefonare, uno per uno, a tutti i potenziali clienti
di Edison, chiedere al cliente di mandare la bolletta del proprio gestore (in
genere Enel) e proporre un nuovo contratto Edison a prezzo bloccato per
diversi anni. Il sistema non mi convinse per vari motivi: Edison ha
abbastanza soldi per programmare la vendita della sua proposta commerciale
in modo più professionale. E poi perché io, come cliente, non accetterei mai
di inviare la mia bolletta a degli sconosciuti, tanto meno di farli entrare
dentro casa e firmare le loro proposte. Quindi scappai via senza neanche
salutare...

Quando la Edison vendeva armi al Pakistan

C’è una vecchia, vecchissima storia, che lega inaspettatamente la


Montedison, l’azienda poi indagata da Mani Pulite per la maxitangente
Enimont, e il Pakistan, in un sodalizio finalizzato al traffico di armi. Lo
scandalo scoppiò nell’ottobre del 1971 durante le indagini del magistrato Di
Nicola su quella fornitura truffaldina di ricetrasmittenti militari orchestrata
274

dalla vecchia Edison del presidente Giorgio Valerio, a metà degli anni
Sessanta. La Edison vendette all’esercito italiano delle ricetrasmittenti
spacciate per nuove, mentre invece erano riciclate da materiale delle seconda
guerra mondiale di origine statunitense. Da qui partirono le indagini che
portarono a scoprire i fondi neri anche nella nuova Montedison, scatenando
il primo scandaloso processo terminato con delle assoluzioni, perché il fatto
non costituiva reato.
Ma intanto erano passati otto anni durante i quali era stata insabbiata la
vicenda pakistana. Secondo uno dei tanti scoop di Giorgio Zicari del
Corriere della Sera, la Edison aveva ottenuto nel 1967 la licenza per vendere
materiale elettronico al Ministero della Difesa del Pakistan da una società
americana, la “Davis Co.”. Aveva poi ceduto i diritti a due società del gruppo
Scialotti, che era stato a sua volta assorbito dalla Edison. Le società si
chiamavano “C.I.V.” e “Lampel”.
Il Pakistan nel 1971 era finito sotto embargo per la guerra di liberazione
bengalese, scoppiata nel marzo per liberare l’est pakistano, che divenne il
Bangladesh. In Pakistan si formarono anche i primi guerriglieri mujaeddin,
sostenuti dagli Stati Uniti, come reazione all’invasione russa
dell’Afghanistan del dicembre 1979. E in Pakistan morì Osama Bin Laden, il
2 maggio 2011, nel corso di un’operazione dell’americana CIA. Il 1967 è
molto lontano, eppure negli anni Ottanta il giudice Palermo aveva scoperto
un traffico di armi molto simile che legava la Montedison al medioriente e
all’Africa. Anche questa vicenda fu insabbiata.
E' certo che il rapporto Montedison-Scialotti, con il nuovo nome di Elmer,
proseguì fino a Mani Pulite, e così anche la vendita di armi. Famosa una
fornitura per Saddam Hussein, che creò molti imbarazzi quando scoppiò la
prima guerra del golfo.

Il terrorismo islamico ha origini socialiste

E' giusto attribuire le colpe del terrorismo islamico alla religione di


Maometto? Sono diversi mesi che sui giornali italiani si leggono editoriali
che invitano la gente a non accogliere i musulmani, perché sarebbero
pericolosi per la società. La campagna denigratoria di questo gruppo etnico,
oltre a scontrarsi con la Carta dei diritti umani dell'Unione Europea, che è
vincolante dal 2009 con l'approvazione del Trattato di Lisbona, e che
sancisce la libertà di culto, non ha alcun fondamento nemmeno nella storia.
Delle origini del terrorismo islamico parlò in tempi non sospetti, quando il
fenomeno era sconosciuto, lo storico delle relazioni internazionali Ennio Di
275

Nolfo, il quale accennò alle radici del fondamentalismo islamico affrontando


la politica dell'Egitto degli anni Sessanta. Tutto nacque con l'affermarsi in
Siria e poi nel resto del mondo arabo del partito Baath, il quale stando a
Wikipedia propugnava una forma giacobina e 'spirituale' di socialismo, che
dapprima entrò in conflitto con il mondo comunista dei sovietici, quindi si
avvicinò progressivamente verso forme estreme simili al nazionalsocialismo
di Hitler. Per Di Nolfo il Baath, da cui proveniva anche Saddam Hussein, era
il "partito della resurrezione", "il cui principale teorico, il siriano Michel
Aflaq, aveva cercato di miscelare elementi di panarabismo con motivi di
ispirazione islamica e di riforma sociale come programma di un partito
delle classi medie (e dei militari) siriani e poi, con gli opportuni adattamenti,
di altre parti del mondo arabo."
In Egitto il tentativo di fondere il partito Baath con il regime di Nasser, che
era vicino ai russi e orientato verso un socialismo laico e nazionalista, fallì.
"Il laicismo nasseriano - spiega Di Nolfo - impediva di dar vita a una
coalizione con i membri della Fratellanza musulmana, che rimasero
sostanzialmente ostili al regime egiziano e furono una delle forze dalle quali
trasse vigore, pochi anni dopo, l'esplosione del cosiddetto fondamentalismo
islamico." Gli americani infatti riuscirono a stringere un'alleanza con il
successore di Nasser, Sadat, e a farsi aiutare nel formare un gruppo di
guerriglieri islamici per liberare l'Afghanistan dai sovietici. Ma Sadat
sperimentò per primo i voltafaccia di quegli estremisti, di fatto ingovernabili,
che lo uccisero nel 1981 in un attentato.
Dunque come si vede la religione non fu che un aspetto secondario e
strumentale di un fenomeno politico favorito dalla CIA fin dagli anni
Sessanta. Spiegando la rivoluzione del 1979 di Khomeini in Iran, Di Nolfo
afferma anche che gli sciiti, cioè gli iraniani, erano i "campioni della lotta
contro il privilegio e l'oppressione e quindi contro i detentori del potere", i
sunniti al contrario, che rappresentano il 90% dell'universo islamico,
"esaltano il valore del rispetto verso le autorità politico-religiose". Come
potrebbe l'Isis, che viene considerato un gruppo sunnita, costituire un
pericolo per le democrazie europee senza l'aiuto di qualche potenza
occidentale?

Almaviva ancora esclusivista sui radar israeliani

La notizia è del 30 gennaio 2016 in un avviso pubblicato sul sito della


Guardia di Finanza. Almaviva spa, nello stesso periodo in cui apriva
vertenze contro i propri lavoratori dei call center, minacciando ben 2500
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licenziamenti, ha continuato a ricevere svariati milioni di euro per acquisire


dagli israeliani e aggiornare con i propri sistemi i radar utilizzati dalle forze
militari della Nato. Sono per la precisione 2 milioni 624.939,26 euro, iva
esclusa, i fondi pubblici erogati ad Almaviva con l’appalto del dicembre
2015.
Il giro d’affari internazionale legato a sistemi elettronici militari, dunque,
crea un seguito rispetto a quanto fu scritto nelle notizie del 2011. L’oggetto
dell’appalto specificato nel documento della Guardia di Finanza è questo:
“Aggiornamento tecnologico del «Sistema C4i» in dotazione alle Sale
Operative dei Reparti Aeronavali del Corpo, mediante «la
reingegnerizzazione della componente server e delle strutture dati, la
fornitura delle componenti hardware/software che prevedono l’integrazione
di tipo embedded alla componente C4i-STAR (Surveillance, Target
Acquisition and Reconnaissance) e la relativa installazione.”
Non c’è stata alcuna gara d’appalto, l’unica offerta era quella di Almaviva
spa, che ha agito in regime di concessione esclusiva, un sistema di origine
fascista che ricorda il piano di ricostruzione di Ancona dell'imprenditore
Edoardo Longarini. Il motivo per cui è stata scelta ancora una volta
Almaviva spa viene riportato nelle righe successive dalla Guardia di Finanza,
che motiva così il provvedimento: “La «Almaviva» SpA è l'unica in grado di
realizzare il servizio in argomento, con i requisiti tecnici ed il grado di
perfezione richiesti.” Il lavoro di questa azienda non sembra limitarsi alla
fornitura dei sistemi, che comprendono lo sviluppo del software e
dell’hardware dei radar, bensì si occupa anche di formare i tecnici che vi
lavoreranno attraverso corsi “indetti dal Servizio Telecomunicazioni”. Deve
inoltre realizzare una “Rete di sensori radar di profondità per la
sorveglianza costiera del Corpo” e “integrare in un unico applicativo tutte
le funzioni operative” del sistema.
L'acquisto del materiale avviene grazie a un accordo stipulato da Almaviva
con la ditta israeliana "Elta Systems ltd", che opera nell'attivissima industria
bellica israeliana fin dal 1967, anno della guerra dei sei giorni. Nel 2003
presentò al salone aeronautico di Le Bourget un sofisticatissimo radar
antimissile da un milione di dollari. Cose che si vedono solo nei film di
James Bond.
Tutto ciò conferma quanto già sostenevo alcuni mesi or sono: che Almaviva
lavora in stretto contatto con la Guardia di Finanza e con la Nato, il che
lascia supporre che i suoi dipendenti, sebbene si trovino in altri rami
aziendali, potrebbero entrare in possesso di segreti militari. E allora come si
può parlare di sprovveduti impiegati alla ricerca di una ricollocazione?
277

Almaviva è una concorrente di ciò che resta della Scialotti, la ditta di


Pomezia che la Edison di Valerio usò per vendere sistemi elettronici al
Pakistan. La Scialotti, poi Elmer, oggi si chiama Selex ES e lavora per conto
di Finmeccanica, sempre nel sottobosco di aziende parzialmente pubbliche e
parzialmente militari. Entrambe concorrono in appalti nel settore della
sicurezza e della gestione dati, nel campo civile, e nella componentistica
elettronica in campo militare.
Almaviva da ciò che so lavorava nel 2008 per la nuova Edison francese.
Destini che insomma si incrociano, con esternalizzazioni, licenziamenti,
proteste, ma seguono vie traverse.

L’ombra della CIA sulle armi di Montedison

Un legame tra lo scandaletto delle radio taroccate della Edison, spacciate per
nuove, e il famoso affare Lockheed fu scoperto dal procuratore Ilario
Martella agli inizi del 1976. Cercando notizie sulla Scialotti, la ditta usata
dalla Edison per vendere armi al Pakistan, ci si imbatte nell’articolo di Fabio
Galvano della Stampa del 25 febbraio 1976. Il titolo era: “I legami segreti
della corruzione”.
La presenza nell’affare di un uomo della vecchia Edison, un certo Vittorio
Antonelli, aveva permesso al magistrato di capire che le tangenti pagate
dalla CIA ai partiti italiani, con lo scopo di favorire la vendita di aerei
americani da guerra, toccavano anche i dirigenti di Foro Bonaparte. Stando
alle parole del giudice Martella riportate da Galvano, il signor Antonelli
figurava sia nell’organismo della Com. El., la quale funse da intermediaria
per la vendita degli aerei americani, sia nella Page Europa, sussidiaria della
Northrop, la quale invece si era occupata delle tangenti.
Giorgio Valerio divenne in seguito presidente della Page Europa (che
inizialmente si chiamava Edison-page) e nominò tra i suoi collaboratori gli
stessi uomini che figuravano nello scandalo dei fondi neri della Montedison,
quelli del primo processo archiviato nel 1980, che era partito dalle radioline
di seconda mano della Edison.
Si venne così a sapere che all’interno di Foro Bonaparte vi era ampio spazio
per delle aziende che non soltanto lavoravano sulle armi, fatto all’epoca
tollerato, ma erano collegate al gruppo d’affari che faceva capo alla CIA. La
Montedison infatti aveva inglobato nell’azienda-contenitore Montedel anche
la Elmer, ossia il nuovo nome della Scialotti, la Stirer e la Gregorini, il cui
indirizzo coincideva con quello della Northrop. Il signor Antonelli figurava
come fondatore e amministratore anche nella Gregorini.
278

Negli articoli degli anni successivi, come sarà facile immaginare, questo
ramo della Montedison si eclissò all’interno di un giro vorticoso di vendite.
Anche l’erede della Scialotti, la Elmer, insieme a tutto il gruppo Montedel,
fu ceduta nel 1979 alla ditta inglese Marconi, poi alla Bastogi.
Eppure alcuni profili professionali online fanno pensare che le vendite non ci
furono. Nella biografia di Antonio Bontempi viene scritto che questi dal
1976 al 1984 lavorò come dirigente alla Elmer di Pomezia, “all’epoca
appartenente al gruppo Montedison”. La ditta era “specializzata nello
sviluppo e produzione di apparati di telecomunicazione per la Difesa”.
Anche un utente di Linkedin, Bruno Sbardella, che si definisce membro
dell’Italia dei Valori, lavorò alla “Elmer Montedison Elettronica spa” come
“project engeneer” dal 1979 al 1981. Le date sono importanti, come si vede.
Un opuscolo intitolato “L’industria militare nel Lazio”, della serie “Sistema
informativo a schede”, uscito ad agosto-settembre del 1993, descriveva così
l’attività della Elmer. “Strettamente dipendenti dalle attività di
Alenia-Finmeccanica sono quelle delle imprese collegate. L’Elmer di
Pomezia è presente nella progettazione e produzione di sistemi ed
equipaggiamenti radio, in particolare per applicazioni militari.” Come si
vede rispetto ai tempi della Scialotti non era cambiato nulla, se non forse
l’azienda madre, che era Finmeccanica, un gruppo pubblico, come la
Montedison degli anni ‘70, che solo nel 1993 si aprì alla partecipazione dei
privati. In Finmeccanica affluirono in quel periodo le partecipazioni della
STMicroelectronics, che facevano parte anche del portafoglio azionario del
Comitato di salvataggio della SIR. In qualche modo si era rimasti nelle
vicinanze della famiglia Montedison, che con la SIR si era fusa negli anni
‘80. Anche Finmeccanica era stata travolta dallo scandalo Lockheed del
1976. Il suo presidente Camillo Crociani era stato arrestato e poi condannato
dalla Corte Costituzionale a due anni e quattro mesi di carcere.
Ai tempi della prima guerra del golfo, i giornali specularono sulla notizia di
una fornitura di armi della Elmer a Saddam Hussein. Era il 22 gennaio del
1991. “Un bell'affare da 3.600 miliardi di lire che coinvolse anche Selenia
Elsag, Oto Melara, Elmer e gruppo Fiat”, lo descrisse Edoardo Borriello su
Repubblica. “La situazione è quindi disastrosa - commentò - se si
considerano le ostilità nel Golfo Persico e la battaglia legale in corso tra
aziende italiane e governo di Bagdad”.
Quando fu siglato l’accordo con l’Irak di Saddam era la fine del 1980, ai
tempi in cui la Elmer era nelle mani di Bastogi. Eppure l’impressione è che
Foro Bonaparte abbia sempre navigato in queste torbide acque. Un
documento pubblicato dal sito Kelebek citava la Montedison in un gruppo di
279

aziende sospettate di essere rimaste in affari con Saddam anche dopo la


prima guerra del golfo. Si trattava in particolare della Ausidet, del gruppo
Enimont-Montedison, che avrebbe prodotto per l’Irak il terribile gas Sarin.

La madre di tutte le tangenti... degli americani

La Page Europa spa, l’azienda che pagò le tangenti ai politici italiani per
vendere gli aerei della Lockheed, è ancora attiva, a quanto pare. Su internet
risulta che sia presente un’azienda con questo nome a Roma e anche nei
dintorni della Capitale. L’indirizzo dovrebbe essere cambiato, poiché la sede
di questa omonima sospetta è al quartiere Eur. Tuttavia è molto probabile
che si tratti della stessa Page Europa di Giorgio Valerio, infatti afferma sul
suo sito di occuparsi di telecomunicazioni. Proprio come la sua omonima del
1976, che distribuiva "bustarelle" ai politici, la quale su La Stampa veniva
così descritta dall’inviato Vittorio Zucconi: "è specializzata in
apparecchiature elettroniche, sistemi di telecomunicazioni, collegamenti via
satellite". Era la filiale italiana della "Page Communications Engineers Inc",
appartenente al gruppo Northrop, che produceva gli aerei caccia F5E Tiger,
al centro in quel momento di un vasto scandalo internazionale.
Riepiloghiamo quello che era accaduto dalle parole di Zucconi: la Page
Europa ammise di aver pagato tra il 1969 e il 1975 ben 861mila dollari, che
equivalevano a 600 milioni di vecchie lire. Il tutto servì per “commissioni
probabilmente illecite”. Tangenti, traduceva in termini semplici l’inviato
della Stampa, che furono pagate in Italia, Grecia, Portogallo, Turchia e
Somalia. La denuncia partiva, va evidenziato questo, dalla “Security and
exchange commission” degli Stati Uniti. Fu questo organo di vigilanza
sull’attività delle industrie americane a far partire lo scandalo, mentre
indagava insieme alla commissione del senato americano. Fu rilevato che
per le tangenti le responsabilità erano da ricercare proprio in Italia, presso la
sussidiaria della Northrop, anche perché le “bustarelle” erano andate avanti
anche dopo il 1975, quando la Northrop, a cui la Page Europa faceva capo, si
era impegnata con il governo statunitense a sospendere la corruzione ormai
messa a conoscenza dell’opinione pubblica.
L’ipotesi che la Page Europa spa sia ancora presente in Italia lascia piuttosto
perplessi, ma non è da escludere, visto che non vi fu un processo tradizionale
della magistratura ordinaria, all’epoca dei misfatti, bensì un rinvio piuttosto
inconsueto alla Corte Costutizionale. Il sistema delle scatole cinesi con cui
queste tangenti venivano coperte l’ho riscontrato personalmente in altri
settori nei quali fui chiamato a lavorare a Milano dal 2007 al 2009, dieci
280

anni fa ormai. Nessuno delle forze dell’ordine a cui avevo confidato i miei
sospetti mi ha preso sul serio, nonostante avessi chiamato i numeri di
emergenza per alcune preoccupanti intimidazioni che avevo ricevuto
personalmente. Lo ritengo un fatto gravissimo. Cosa dovrei pensare, che
ogni persona che chiama i numeri di emergenza viene trattata a urli in faccia
e lasciata senza possibilità di difesa, come è capitato a me? Non è possibile.
Tutto partì da Ancona, dal quotidiano Il Resto del Carlino, quando mi
accorsi che il contratto di collaborazione diventava un cappio al collo. Certi
giornalisti con cariche di rilievo nella redazione iniziarono a chiedermi in
modo pressante un impegno quotidiano, al di fuori delle regole e peraltro
non previsto dal contratto di pochi euro. La tassazione era irregolare e
tendeva a portarmi via, qualora avessi scelto la via della legalità e cioè di
versare i contributi (molti colleghi non lo facevano), più della metà dei
guadagni percepiti annualmente. Mi era stato proposto nei primissimi giorni
un contratto co.co.co., che avevo firmato volentieri nel 2001 per scrivere
qualche articolo e diventare pubblicista. Nel 2004 mio padre si ammalò.
Pochi mesi prima, sarà un caso, si era accorto delle irregolarità del mio
contratto. Nel 2006 mi licenziai e per non vivere nell’ansia cercai di
cambiare aria, portando il mio curriculum a Milano, presso agenzie del
lavoro, pubbliche e private, presso le scuole per fare l’insegnante, presso i
giornali, le televisioni, le radio.
Fui indirizzato e direi proprio incanalato verso un’azienda che allora
assumeva con facilità e pagava bene. Si chiamava E-Care. Lavorava nelle
telecomunicazioni. L’idea di guadagnare mi portò nel giro di due giorni a
imparare a gestire le telefonate in arrivo presso un importante marchio della
telefonia. Nei primi giorni mi parve fin troppo semplice prendere mille e
duecento euro al mese, dopo le fatiche enormi per guadgnare la metà di quei
soldi correndo a destra e sinistra per il Carlino Ancona. Poi mi accorsi che le
telefonate erano strane, insistenti, forse fatte dalle stesse persone, con
richieste assurde, sempre più martellanti, continue, assillanti. Un lavaggio
del cervello. Vidi alcuni nomi che mi colpirono, forse per caso, o forse no:
Antonio Saladino di Catanzaro, omonimo dell’indagato nell’inchiesta “Why
Not” di De Magistris, e poi mi telefonò anche uno che di cognome faceva
Messina Denaro, ma mi pare che chiamasse dal Piemonte. Negli anni ho
cercato continuamente notizie su E-Care, dovendomi sostituire in questo alle
forze dell’ordine e alla magistratura, finché non ho capito che quella E-care,
così maldestra nel gestire i clienti e i lavoratori, è un’azienda di Alfio
Marchini, che la controlla attraverso un contenitore che si chiama Astrim spa.
Marchini è stato il candidato di Silvio Berlusconi alle ultime elezioni
281

amministrative di Roma. In quei giorni si seppe sui giornali di indagini della


magistratura sulla Astrim spa, accertamenti che poi sono spariti dalla
circolazione. Come al solito.
In quel periodo ricevetti degli atti vandalici sulla mia auto, per due volte. E
cercai di denunciare, ma fui trattato dai carabinieri come un imbecille. Liberi
di agire, i personaggi che gestirono i miei impieghi in quelle aziende mi
fecero girare come una trottola in altri call center, che sempre dipendevano
da altri marchi famosi. Mi facevano vedere lo stipendio e me lo toglievano
dopo qualche mese. Tra queste anche Almaviva Contact, succursale della
Almaviva Spa, che da una parte guadagnava milioni di euro con i radar
israeliani, dall’altra aveva bisogno di rompere le scatole alla gente a casa per
vendere dei contratti della Edison, ma nello stesso tempo poteva permettersi
di mantenere degli impiegati che non facevano niente per tutto il giorno in
attesa dei contratti nuovi da inserire al computer.
L’idea che mi sono fatto è che il lavoro in Italia sia in gran parte gestito da
queste lobby di affari che coinvolgono anche le forze dell’ordine, tra cui la
Guardia di Finanza, che si occupa direttamente dei radar, e altri rami
aziendali dislocati sapientemente in Stati extracomunitari se non africani.
Perciò ho insistito in questi giorni nel cercare notizie sulla Page Europa,
visto che la Edison per la quale avrei dovuto lavorare nel 2008 non è che la
risultanza di una serie di fusioni e “sfusioni” tra la vecchia Edison di Giorgio
Valerio e la Montecatini. Valerio fu presidente della prima Edison-page e poi
della nuova Page Europa, che aveva sede a Roma in via Parigi 11. Aziende
come sappiamo nate solo per creare fondi neri da girare ai politici per conto
dell’americana CIA.
Pare, stando a quanto si legge cercando su Google, che una Page Europa spa
permise al governo dei colonnelli greci nel 1968 di creare una moderna rete
di canali televisivi. Un cablograma di Wikileaks del 24 giugno 1974
dimostra che la Page Europa di Roma era lo snodo delle comunicazioni tra il
governo di Washington e l'Italia. In quell'occasione fu utilizzata per trasferire
del personale in Somalia. Il Jack Edens di cui si parlava nella nota riservata
era lo stesso implicato nello scandalo degli aerei statunitensi. L’indirizzo
comunque non è lo stesso della Page Europa spa che esiste mentre scrivo
queste righe all’Eur di Roma. Nel cablogramma si parlava di via del Campo
Boario 11, Roma.
Sicuramente era la Page Europa implicata nello scandalo Lockheed l’azienda
che funse da tramite nel marzo del 1987 per una vendita di ponti radio
Troposcatter della Marconi al governo turco. La Page Europa fungeva da
“capo-commessa” su finanziamento della Nato. Si trattava degli stessi
282

sistemi radar che si vedono nei video di Youtube delle basi abbandonate
dalla Nato in Italia. Nel marzo del 2015, quindi tanti anni dopo, la stessa
scena si è incredibilmente ripetuta. Stavolta la Page Europa figurava come
intermediario tra la Selex ES, ossia la vecchia Scialotti, e il governo polacco.
Scopo dell'operazione una vendita di sistemi radar della Nato.
I contatti tra la Page Europa e le aziende italiane nel 1987 e 2015, e la
pubblicazione sui giornali di queste notizie, dimostrano che le condanne che
la Corte Costituzionale aveva comminato il primo marzo del 1979 ai
protagonisti dello scandalo degli aerei Lockheed erano state dimenticate. A
salvarsi furono proprio Giorgio Valerio, l’avvocato Vittorio Antonelli e la
signora Maria Fava, che guarda caso facevano parte del ramo dell’inchiesta
che conduceva alla Montedison. Valerio morì per una malattia cardiaca nel
dicembre dello stesso anno.
Il collettore di tutte le tangenti che arrivavano alla politica dalle commesse
militari, secondo quanto aveva accertato nelle prime indagini la magistratura
ordinaria, era la Com.El., gestita dalla signora Maria Fava, il cui collegio
sindacale coincideva con quello della Page Europa spa. La Com. El. era una
società fantasma di cui si serviva l'allora presidente di Finmeccanica,
Camillo Crociani, per incassare il denaro sporco.
283

Epilogo

La "legge salvaladri", un fantasma nell'attualità

Proseguono senza sosta le notizie di arresti domiciliari per politici più o


meno importanti, soprattutto quando inizia la settimana lavorativa. L'epoca
di Tangentopoli si trascina stancamente nell'attualità. I primi tentativi di
porvi un freno risalgono addirittura al governo Ciampi e al successivo
Berlusconi I del 1994, la cui famigerata legge "salvaladri" convinse il pool
di Mani Pulite a protestare pubblicamente. In un libro di Montanelli e Cervi
sulla storia italiana del novecento si legge che questa legge, nota come
decreto Biondi, prevedeva la revoca della custodia cautelare in carcere per i
reati che non destavano allarmi sociali, come quelli che colpivano
l'amministrazione pubblica. Un imputato in quel caso poteva essere tenuto
dietro le sbarre "solo se il rischio di fuga era effettivo e ogni altra misura
appariva inadeguata". E così accade nelle notizie che leggiamo negli ultimi
anni. Tutti indagati, tutti a casa. Tuttavia c'è un problema. Il decreto legge
deve poi essere trasformato in legge entro 60 giorni dalla sua pubblicazione,
altrimenti perde efficacia. E il decreto Biondi, afferma un articolo del 2013
de Il Giornale, non venne tramutato in legge: "Il 19 luglio 1994 - vi è scritto
- Giuliano Ferrara fu costretto ad annunciare che il decreto legge sarebbe
stato ritirato, come puntualmente avvenne." Come mai quindi i giudici
attuali stanno mettendo in pratica, apparentemente, quelle norme ormai prive
di valore? E' un bel mistero.
Nel frattempo il Consorzio interbancario della Sir di Angelo Rovelli è
tutt'altro che defunto, come anticipavamo. Il 27 aprile del 2016 si è tenuta a
Roma, nella sua sede di via Boncompagni 6, un'assemblea degli azionisti
(banche per l'appunto) per deliberare tra le altre cose la riassegnazione
all'azienda PWC di attività integrative di bilancio, note col nome di
Reporting Package IFRS. PricewaterhouseCoopers (PWC) è una
multinazionale distribuita in 158 paesi con sede a Londra, nel Regno Unito.
Stiamo parlando di un colosso delle revisioni dei bilanci. Per Wikipedia è
una delle «Big four» insieme alle notissime Deloitte & Touche, Ernst &
Young e KPMG. Quello che si può dedurre da questa iniziativa è che
all'interno del Consorzio, creato nel 1980 su iniziativa politica della
Democrazia Cristiana, con il solo scopo di gestire la liquidazione del polo
chimico di Rovelli, vi siano ancora molti interessi. O forse nuove
partecipazioni, visto che lo Stato attraverso il suo Comitato lo trasformò in
una holding. La nota, diffusa dal nuovo liquidatore Ligestra Tre il 30 marzo
284

2016, tramite la Gazzetta Ufficiale, con la quale l'assemblea veniva


convocata, ha precisato che PWC lavorerà con il Consorzio Sir dal 2016 al
2018, periodo per il quale sarà nominato dall'assemblea anche un nuovo
collegio sindacale. Secondo il documento della Gazzetta Ufficiale, il
Consorzio Sir vanta un capitale sociale interamente versato di un milione,
515 mila, 151 euro e 42 centesimi.

I soldi di Longarini sono dei contribuenti

I soldi di Longarini andrebbero restituiti ai contribuenti non al comune di


Ancona. Il costruttore Edoardo Longarini negli anni ‘90 fu accusato e
condannato dalla magistratura per aver fatto lievitare i costi del piano per la
ricostruzione di Ancona, e per esserseli poi intascati lasciando strade e ponti
incompiuti. Raccontava la storia in quel periodo sul Corriere della Sera il
giornalista Mario Di Tullio, che è stato un mio collega al Resto del Carlino.
Scrisse che lo Stato era stato derubato di 67 miliardi di vecchie lire. Il
governo aveva scelto Longarini sulla base di una legge che risaliva al 1951,
creata dalla DC per la ricostruzione post-bellica di varie zone d’Italia colpite
dai bombardamenti. Il progetto veniva assegnato in esclusiva, senza un
appalto pubblico, sulla base di un istituto, quello della concessione, che
risaliva ai tempi di Mussolini: al 1929. Longarini avrebbe dovuto rimettere
in piedi zone di Ancona che dopo i bombardamenti del 1944 avevano subito
anche un terremoto (nel 1972) e una frana (nel 1982). Ma concluse poco o
niente, come gli anconetani sanno.
A rimetterci a quel punto furono tutti gli italiani, a cui con la legge 317 del
1993 vennero chiesti attraverso un aumento della pressione fiscale i fondi
necessari al rifinanziamento dei progetti. Questi ultimi chiaramente furono
sottratti alla Adriatica Costruzioni di Longarini e finalmente assegnati ad
altre ditte mediante appalto. Enrico Marro del Corriere della Sera scrisse che
i contribuenti avrebbero pagato altri 230 miliardi di vecchie lire per
completare dopo ben 50 anni la ricostruzione post-bellica di Ancona,
Macerata e Ariano Irpino. Eppure una recente sentenza del tribunale di
primo grado ha assegnato gli oneri per la mancata ricostruzione soltanto al
comune di Ancona, che ha già pianificato di utilizzare quei fondi per la
sistemazione delle infrastrutture cittadine. Tutto ciò non basta, poiché i costi
per completare le strade di Ancona, non esistendo il federalismo fiscale che
reclama la Lega Nord, furono spalmati dal Parlamento su tutte le Regioni. Al
comune dorico va soltanto il merito di non aver allungato ulteriormente i
tempi per la ricostruzione, facendo peraltro emergere, involontariamente, i
285

tunnel che i fascisti avevano costruito per sfuggire ai bombardamenti. I


lavori che Longarini non concluse e che furono appaltati con la legge 317
nascondevano infatti alcune gallerie fasciste molto importanti: quella di
Posatora, che serviva per drenare la frana Barducci, e quelle di via San
Martino. Furono quindi riappaltate queste opere: il by-pass nel rione
Palombella, la Galleria S. Martino, l'asse Nord-Est, il complesso dei vincoli
stradali A e B e la relativa sopraelevata intermedia e la variante alla statale
16 dallo svincolo "B" allo svincolo Aspio esclusi.
Ma perché si era arrivati a prolungare così tanto la ricostruzione di Ancona?
In un vecchio articolo del Corriere della Sera firmato da Gino Cornali il 2
agosto del 1949 venivano pubblicati i numeri di quei primi anni di ritorno
alla normalità, dopo che le bombe “alleate” avevano raso al suolo il
capoluogo marchigiano. Delle 37mila 374 abitazioni distrutte, ne erano state
ricostruite 25mila 255. Il porto, che non esisteva più, era stato ricostruito per
un buon 80%, con il 45% delle banchine ricostruite, considerando che ne era
andato distrutto il 58%. I fondali del porto erano anch’essi distrutti e
risultavano “ripristinati” per il 48%. La viabilità era tornata regolare per un
25% e il porto aveva fatto registrare dal giugno 1948 al giugno 1949 un
traffico pari a 600mila tonnellate.
Se si fosse proseguito con quel ritmo e quella buona volontà probabilmente
non avremmo assistito al triste spettacolo delle incompiute. Dal 1951,
mediante la legge 1402, il piano per la ricostruzione fu delegato ai comuni.
L’articolo 2 sanciva: “Allo scopo di contemperare nei paesi danneggiati
dalla guerra le esigenze inerenti ai più urgenti lavori edilizi con la necessità
di non compromettere il razionale futuro sviluppo degli abitati, i Comuni che
saranno compresi negli appositi elenchi da approvarsi dal Ministro per i
lavori pubblici, devono, nel termine di tre mesi dalla relativa notificazione,
adottare un piano di ricostruzione.” Secondo l’articolo 15, inoltre, nei
comuni più piccoli che non fossero stati in grado di eseguire i piani di
ricostruzione, il Ministro dei Lavori Pubblici avrebbe potuto sostituirsi alla
giunta locale sia nelle espropriazioni, sia nella ricostruzione, anticipandone
la spesa, che il municipio avrebbe poi restituito in trenta rate annuali, senza
interessi, a partire dal terzo anno successivo al collaudo dell’opera.
Ancona non avrebbe potuto usufruire di quella norma, in quanto veniva pure
specificato che nei comuni con più di 25mila abitanti il Ministro sarebbe
potuto intervenire solo in casi eccezionali. Infatti, il presidente Giuseppe
Botta della commissione parlamentare istituita per indagare sulla
ricostruzione sottolineava che ad Ancona, date le circostanze di estremo
disagio per il terremoto e la frana, non si era applicato quell’articolo 15.
286

Cioè, specificava l’onorevole Botta, il Ministro avrebbe potuto provvedere


“all'attuazione ed al completamento del piano di ricostruzione” “in via
straordinaria, senza necessità di assenso da parte di altri Ministeri ed in
conformità delle richieste del comune.”
Quindi fu lo Stato ad anticipare i miliardi di lire che Longarini si mise in
tasca, stando alle inchieste giudiziarie e anche agli articoli di Mario Di Tullio,
senza portare a termine il lavoro. Ma, prima, altri lavori erano stati condotti
a termine da altre aziende dimenticate.
Nella ricostruzione storica della commissione si afferma che dal 1954 al
1969 furono portati a termine sei lotti del piano di ricostruzione di Ancona,
“tutti regolarmente collaudati”. Queste tranche di lavori furono realizzate
dalle ditte Encalpes di Roma, per il primo e secondo lotto, e dalla Alessio
Lanari di Ancona per il terzo, quarto, quinto e sesto. Lanari ottenne fondi
pubblici per 1 miliardo, 260 milioni di vecchie lire. Longarini entrò in scena
nel 1973, con il finanziamento del settimo lotto del piano, a cui la Alessio
Lanari non era interessata. Il progetto iniziale prevedeva uno stanziamento di
200 milioni di vecchie lire. Si era già nel periodo successivo al terremoto del
1972.
In realtà, secondo quanto specificava la commissione parlamentare, il
Ministero aveva soltanto proposto la concessione a Longarini, mentre a
Macerata era stato lo stesso comune ad affidarsi a lui. Secondo il ministro
Giovanni Prandini sarebbe stato il comune dorico a fare il nome della
Adriatica Costruzioni. In ogni caso, la concessione venne confermata solo
quando il comune di Ancona, il 7 gennaio del 1975, decise di avvalersi del
concessionario consigliato dal Ministero, modificando il piano di
ricostruzione precedente per realizzare una strada: l’Asse nord-sud. Il
Ministero ne fu molto scettico. Il parere favorevole ai nuovi lavori, per una
spesa di oltre 21 miliardi di lire, arrivò solo nel 1977 dal Consiglio superiore
dei lavori pubblici. In quel periodo Longarini chiuse la precedente ditta, la
“Adriatica Costruzioni srl”, per fondarne una nuova identica chiamata
“Adriatica Costruzioni Ancona srl”. Il Ministero nel 1980 era pronto a
finanziare quei lavori per 22 miliardi di vecchie lire, che sarebbero serviti
esclusivamente per l’intera tratta dell’Asse Nord-Sud. La strada sarebbe
stata utile a collegare il porto con la periferia sud, nella quale stava sorgendo
un nuovo quartiere pensato per i terremotati, in cui sarebbero stati dirottati,
pochi anni dopo, anche gli sfollati della frana. Il centro era destinato
evidentemente all’abbandono, nei disegni dei politici.
La frana nel dicembre 1982 si mosse con violenza, nonostante perizie
geologiche l’avessero prevista dal 1969. Il comune attuò delle ulteriori
287

modifiche al settimo lotto della ricostruzione post-bellica, che peraltro


chiedeva dal 1980. La commissione specificava che la durata di quei lavori
era stimata sui dodici anni, a partire dal 1980, un tempo giudicato
lunghissimo. La spesa comprensiva della cosiddetta seconda concessione era
lievitata a ben 173 miliardi e rotti, dai 22 precedenti.
I cambiamenti successivi al progetto, a causa pure dell’insorgere di
divergenze tra Longarini e i politici di Ancona, trascinarono l’iter dei
permessi burocratici fino al 1990. Nel 1986 il comune integrò il progetto con
dei lavori per il porto. La somma che veniva chiesta allo Stato era salita a
quasi 265 miliardi, dei quali il Ministero poteva soddisfare solo una parte.
Erano disponibili circa 180 miliardi. Altre modifiche che arrivavano a Roma
da Ancona fecero salire le spese da coprire a 450 miliardi di lire, che si
sommavano ai lavori del famoso settimo lotto del piano di ricostruzione che
erano pari a 62 miliardi di lire. Totale: 615 miliardi per completare un’opera
di ricostruzione post-bellica che nel 1969 era già quasi conclusa. Nelle casse
dello Stato erano rimasti soltanto 3 miliardi e 550 milioni di lire. Il prezzo
che chiedevano da Ancona era troppo alto, inoltre la legge del 1984
concedeva ai comuni troppa libertà di progettazione di nuove opere e di
spesa. Longarini si oppose e fece ricorso in tribunale al pretore. Vi fu un
dibattito tra il pretore, favorevole a Longarini, e la Ragioneria dello Stato e il
Consiglio di Stato, per i quali i progetti potevano essere approvati solo
limitatamente alla disponibilità economica dello Stato. Infatti in questa
ricostruzione emerge con chiarezza che il comune di Ancona, sulla
lievitazione del prezzo, aveva tante responsabilità quante ne aveva Longarini.
Scriveva il relatore del parlamento Giuseppe Botta: “il comune non si è
astenuto dall’approvare progetti di variante privi di copertura, né risulta
dagli atti che il comune abbia provveduto ad alcun collaudo parziale di
opere funzionali.” Anche il Ministero - sottolineava Giuseppe Botta - non
fece nulla per reperire i fondi che gli erano richiesti e non controllava
l’attività del concessionario. E poi diceva anche: “Irresponsabilità ed
omissioni ampiamente riscontrate nel corso dell’indagine conoscitiva”
“fanno presumere complicità diffuse ad ogni livello, dal comune di Ancona,
al provveditorato alle opere pubbliche di Ancona, al Ministero dei lavori
pubblici. Situazione - proseguiva la relazione - che ha favorito il
concessionario Longarini, con gravi danni per l’interesse pubblico e la
realizzazione delle opere con modalità, tempi e prezzi che garantissero
equità e trasparenza.”
Ma ecco la versione di Longarini. Nella relazione allegata agli atti della
commissione parlamentare del 1990, firmata dalla Adriatica Costruzioni,
288

risulta che l'attuazione iniziale del piano di ricostruzione della città di


Ancona fu eseguita dal Ministero dei Lavori Pubblici, in sostituzione del
Comune, con il decreto ministeriale 1573 del 31 marzo 1959, ai sensi
dell'articolo 15 della Legge del 27 Ottobre 1951 numero 1402. Ma solo dal
1973 il ministero dei Lavori Pubblici nominò la ditta di Longarini quale
concessionaria dei lavori.
Il municipio avrebbe dovuto comunque, almeno secondo quanto era previsto
dalla legge fino al 1984, restituire allo Stato gli oneri per quel poco che era
stato edificato, poiché non era certamente il sindaco a gestire le opere prima
della legge 317 del 1993, bensì il Ministero. Lo specificava la Adriatica
Costruzioni nell’allegato della commissione parlamentare, citando la
deliberazione 90 del 15 gennaio del 1980 del Comune di Ancona, il quale
aveva stabilito di “assumere pertanto l'impegno di rimborsare allo Stato
tutte le somme anche per revisione prezzi, che saranno dallo Stato anticipate
per l'attuazione dell'intero piano di ricostruzione in 30 annualità costanti
senza interessi, decorrenti dal terzo anno successivo a quello di redazione
del verbale di collaudo, ai sensi di legge ed in particolare della legge 1402
del 27 ottobre 1951.”
Resta da capire perché Longarini e la sua Adriatica Costruzioni non
portarono a termine il mandato. Sembra che tutto si arenò fin dal 1978 per le
modifiche chieste dalla giunta di Ancona sul piano originario. Scriveva la
Adriatica Costruzioni: “Tali lavori, pure consegnati ed iniziati, non hanno
però avuto corso in quanto gli stessi sono stati prima sospesi in attesa
dell'emissione del Decreto di occupazione d'urgenza da parte della
Prefettura” “e nuovamente sospesi a seguito della nota
dell'Amministrazione comunale del 10 Novembre 1978” “con la quale si
richiedeva la redazione di una variante progettuale che evitasse la
demolizione di un fabbricato". Era successo in sostanza, stando alla versione
di Longarini, che il Ministro ai Lavori Pubblici, l’onorevole Compagna, nel
1980 aveva approvato il progetto della Adriatica Costruzioni, tuttavia la
giunta aveva proposto una serie di modifiche, tutte a spese del Ministero,
che andavano nuovamente rivalutate. Senonché ci si mise anche la frana
Barducci, in seguito alla quale il comune di Ancona chiese di poter usufruire
dei lavori del piano di ricostruzione senza alcun rimborso rateale. Voleva
tutto gratis, insomma. E ottenne questo ulteriore favore dal governo di Roma
con la legge 363 del 24 luglio 1984.
Ma a quel punto qualcosa si ruppe. Il Comune dorico chiese di escludere
l’Asse attrezzato dal piano di ricostruzione della legge del 1951, e, mentre
Longarini faceva ricorso al Tar perché si vedeva decurtati i fondi, propose al
289

Ministero, inserendoli nel vecchio piano di ricostruzione, di aggiungere altri


lavori per la viabilità del porto. E poi altre varianti per miglioramenti vari da
apportare sui progetti precedenti, che erano già stati approvati dagli organi
competenti. Il tutto per un aggravio di spesa di altri 66 miliardi di vecchie
lire. Intanto, tra una chiacchiera e l’altra gli anni passavano inesorabilmente.
E al Ministero i fondi erano finiti. Perciò Longarini concluse, in una
relazione scritta prima che lo scandalo delle tangenti divenisse pubblico, che
la ricostruzione si fermò poiché venne, al netto di tutte le discussioni,
finanziata solo una piccolissima parte di ciò che, col passare degli anni, tra
una modifica e l’altra, era stato progettato, sognato, approvato, ma mai
realizzato.

IMI-SIR: lo Stato vince cause contro se stesso

E' veramente curioso quello che sta accadendo a ciò che resta del famoso
Consorzio interbancario della SIR. Lo Stato, per mezzo di una legge del
2017, incasserà del denaro grazie all’estinzione di vertenze giudiziarie. E fin
qui sarebbe tutto normale. Il problema è che le vertenze erano state attivate
dai suoi stessi Ministeri! Per di più, alcune di queste avevano uno scopo
sociale di enorme importanza: servivano per denunciare l’inquinamento
rilevato negli stabilimenti chimici di Rovelli. E ora, da quanto leggiamo,
queste inchieste giudiziarie non esistono più.
Avevamo già detto della finta cessione ai privati del Comitato. Questo
organo statale, creato dalla politica democristiana nel lontanissimo 1982, era
detentore del 60% di quella che avevamo chiamato la “holding dei
fallimenti”, la quale lucrava sulla chiusura degli impianti chimici della SIR e
sulla vittoria delle cause intentate dai creditori della famiglia Rovelli,
all’epoca proprietaria dell’azienda. Quando il Comitato fu chiuso con la
legge 122 del 31 maggio 2010, quel 60% non venne privatizzato, ossia
ceduto a una società qualsiasi, come fu scritto sui giornali, ma venduto alla
Fintecna, che incorporò subito la nuova arrivata nella sua controllata
Ligestra Tre. La Fintecna era già allora una società della Cassa Depositi e
Prestiti, a sua volta per un buon 80,1% nel portafoglio titoli del Ministero
dell’Economia e delle Finanze. Già questo bastava per capire quale giro
vorticoso vi fosse sulle aziende nazionalizzate.
Ma ciò che leggiamo nel bilancio 2017 di Fintecna sta superando ogni limite.
Ligestra Tre contiene tuttora, tra le voci di bilancio, la “Gestione Separata ex
SIR”, che - stando al documento - sta facendo registrare ottimi risultati
economici. Certo, questo avviene perché le cause che erano state intentate
290

contro Rovelli vengono regolarmente perse! Nel 2017 è stato registrato a


bilancio il positivo (per Fintecna) andamento della “vertenza attivata contro
la società (e contro il Consorzio Bancario SIR) da un ex Commissario
liquidatore del predetto Consorzio”. Inoltre - prosegue il documento presente
sul sito di Fintecna - si è estinta la “causa a suo tempo avviata dal Ministero
dell’ambiente e dal Comune di Carrara contro il Consorzio Bancario SIR in
ordine alla presenza di inquinamento ambientale all’interno di un sito
industriale ad Avenza in passato gestito da una società del gruppo SIR e poi
ceduto alla Syndial.” Cosa si intende per estinzione? Che l’inquinamento
non c’era o che la causa è stata, passateci il termine, insabbiata?
Vertenze giudiziarie chiuse significa certamente polemiche scongiurate. Ma
non è solo questo che conta per i dirigenti di Fintecna. La legge 205 del
2017 consente a un collegio di nuovi periti di redigere una “valutazione
estimativa intermedia” del patrimonio dell’ex SIR (e anche dell’ex EFIM, la
partecipata delle armi) e di distribuire gli utili rispetto alla precedente stima
in modo che il 30% finisca nelle tasche di Ligestra Due, la legittima
proprietaria, e il 70% vada direttamente al Ministero dell’Economia e delle
Finanze.
Ma allora ci si chiede: quanti soldi ci sono in ballo se viene varata una legge
apposta per questo scopo? E da dove emergeranno degli utili in un’azienda,
la SIR, defunta da tempo e smembrata fin dagli anni Ottanta del secolo
scorso? Non lo sappiamo proprio, però il giallo continua.

La polizia giudiziaria non esiste

Ho scritto un titolo provocatorio per far capire ai miei lettori che c’è
qualcosa che non va nell’attività giudiziaria italiana. La polizia giudiziaria
esiste, ma nei libri non viene affatto identificata come una categoria
autonoma. Chi si nasconde dunque dietro questo nome che sentiamo spesso
nei grandi processi nazionali? Secondo la legge, la polizia giudiziaria è
formata dalle stesse persone che possono fermare i cittadini per strada per
una multa: poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili urbani, agenti di custodia
e guardie della Provincia. Tutti i corpi di polizia che esistono nella nostra
nazione sono complessivamente classificati come polizia giudiziaria.
E’ bene sottolinearlo perché molte persone che vogliono denunciare
qualcosa devono pretendere che ciò avvenga in tutte le stazioni di polizia o
dei carabinieri o delle finanza. Poi vi sarà chiaro perché faccio questa
precisazione.
Il libro un po’ datato ma sempre utile “La legge è con noi” afferma che la
291

Polizia Giudiziaria è formata da due categorie di persone: gli ufficiali con


funzioni direttive e gli agenti con funzioni esecutive. Gli ufficiali di polizia
giudiziaria sono i graduati delle varie “forze pubbliche” (si chiamano anche
così), gli agenti sono tutti gli altri. Anche i sindaci dei comuni in cui non vi
siano ufficiali di polizia giudiziaria possono assolvere questa funzione.
Ma allora perché in Italia i notiziari parlano di polizia giudiziaria come di un
corpo estraneo? Sul sito Ilvelino.it c’è ad esempio un articolo molto ben
scritto nel quale, oltre ai nomi degli indagati della camorra, viene riportata la
seguente frase: “Apporto importante alle indagini, svolte dal Commissariato
di Scampia, emerge soprattutto dalle indagini tecniche e dagli accertamenti
operati dalla Polizia Giudiziaria”. Cosa vuol dire tutto ciò? Una volta mi è
capitato mentre mi trovavo nella redazione di un giornale per scrivere un
articolo di dover aprire la porta, perché ero lì davanti mentre bussarono. Mi
si presentò una donna con i capelli lunghissimi neri legati a forma di coda di
cavallo. Vestiva un completo blue jeans, eppure si qualificò come agente di
polizia giudiziaria. Doveva perquisire l’ufficio di un giornalista. Un fatto
grave. Ma a quale corpo di polizia apparteneva?
Per capirlo occorre leggere il sito della procura di Torino. Vi è scritto che
“Presso ogni Procura della Repubblica è costituita una Sezione di Polizia
Giudiziaria composta da personale appartenente alle varie Forze di Polizia.”
Quindi ciò significa che le indagini che vedete in televisione, quelle
importanti, avvengono partendo non da una qualsiasi caserma di polizia,
bensì da un ufficio di poliziotti scelti dalla procura, ed esclusi da altri
compiti. Specificano infatti i signori del tribunale: “Gli ufficiali e agenti di
polizia giudiziaria che appartengono alla sezione sono alla dipendenza
permanente, diretta e funzionale del Procuratore della Repubblica - che
dirige la sezione e ne coordina l'attività - e svolgono per lui e per i magistrati
della Procura tutte le attività di volta in volta loro delegate.” E ancora: “Gli
appartenenti alla sezione non possono essere distolti dall'attività di polizia
giudiziaria se non in casi eccezionali e per disposizione o con il consenso del
Procuratore della Repubblica.” Molto chiaro, mi sembra. Si tratta proprio di
un corpo scelto, nel quale secondo l’enciclopedia Wikipedia vengono inseriti
anche altri cittadini, probabilmente per carenza di personale, ovvero “alcuni
soggetti in servizio presso la pubblica amministrazione italiana, e in taluni
casi anche privati cittadini, nelle ipotesi tassativamente previste dalla legge”.
Qual è il problema che sorge a questo punto? Che tutte le caserme d’Italia
non comunicano direttamente con il magistrato, e dunque verrebbe meno
l’obbligo di legge di denunciare i reati all'autorità giudiziaria. Infatti il libro
“La legge è con noi” spiega bene la polivalenza del lavoro in polizia: si è da
292

una parte forza pubblica, e dall’altra polizia giudiziaria. Ovunque. Cito


testualmente: "Il carabiniere o l'agente che staziona dinanzi a una banca con
l'incarico generico di sorvegliare, svolge attività di polizia di sicurezza;
quello stesso carabiniere o agente di P.S. se poi arresta o insegue la persona
che si è introdotta nella banca per commettere una rapina, svolge un'attività
di polizia giudiziaria". Quindi dubbi non ce ne possono essere. La legge mi
pare che sia rimasta identica.
Cosa fanno allora tutti gli altri? Qualcuno su Facebook mi ha scritto:
“proteggono i politici”. Io mi auguro che facciano anche qualcos’altro.
Sicuramente suona molto strano che sul sito dei carabinieri e su quello della
polizia compaiano le solite notizie senza nomi dei protagonisti, dunque
inutili a livello giornalistico, di piccole operazioni contro la malavita. Intanto
perché diventa superfluo leggere i giornali se questi sono fatti con il copia e
incolla di avvenimenti presenti sui siti della “forza pubblica”. Ma ancora più
grave è il fatto che queste notizie siano contrassegnate dal nome del
Ministero della Difesa, per i Carabinieri, e del Ministero dell’Interno per la
Polizia. E’ chiaro a tutti che il Ministero della Difesa e il Ministero
dell’Interno hanno altro a cui pensare che inviare notizie ai giornali o alle
agenzie di stampa. Giusto? E allora cosa fanno se non rispondono al
Ministero della Giustizia? Nulla? E’ una domanda che mi piacerebbe porre a
una prossima conferenza stampa. Ma temo proprio che non sarò un inviato
gradito.
A me non piace parlare della mia vita personale, però quando sono vittima di
qualche reato (non considero nemmeno l'ipotesi di esserne colpevole) sono
pur sempre un cronista che deve raccontare i fatti. E allora forse oggi ho una
risposta alla domanda che mi ponevo da tempo: perché quando entro in una
caserma per denunciare le illegalità che subisco, e me ne succedono tante e
gravi di cose, non si attiva mai nessuna procedura? Mi dispiace che questa
risposta sia stato costretto a trovarmela da solo.

Indagine sulla Ligestra, anzi per la Ligestra

Tra l’8 e il 9 giugno del 2018 è stata pubblicata su tutti i giornali la notizia di
alcuni arresti che hanno colpito Fintecna e Ligestra. Sono finiti in carcere
l’ex direttore generale di Fintecna spa (controllata da Cassa depositi e
prestiti), Riccardo Taddei, e Vincenzo Eugenio Di Gregorio, ad della Sagest
Spa. Come al solito molti sono passati subito agli arresti domiciliari. Sono
Alessandro La Penna, ad della Ligestra srl e consigliere delegato della
Ligestra Due srl e Domenico Zambetti, collaboratore a contratto della
293

Ligestra srl.
Tutto è partito, secondo l’articolo di Ivan Cimmarusti del Sole 24 Ore, da
un’ispezione della Banca d’Italia, la quale ha riscontrato delle irregolarità ed
accusato questi dirigenti di aver cercato di sottrarre partecipazioni alle
società che dirigevano. Avrebbero in sostanza cercato di approfittare della
loro posizione aziendale per permettere al Di Gregorio di acquistare azioni
di aziende di Stato, quelle della famosa Efim, a prezzi vantaggiosi.
Questa inchiesta colpisce in pieno la Ligestra, di cui parlo in questo libro,
ma il magistrato sembra tutelare proprio gli interessi dell’azienda. La
magistratura in sostanza sembra non vedere lo scandalo più ampio
dell’anacronistico controllo statale dell’economia. Un controllo molto più
invadente ed aggressivo rispetto al passato.
Ma lo scandalo si intravede anche in altre inchieste che ci sono finite
sottomano. Per esempio nel libro di Claire Sterling, “Cosa non solo nostra”,
che uscì nel lontano 1990, si parlava di soldi della Montedison investiti nelle
banche mafiose di Michele Sindona. Ma la Montedison aveva anche una
controllata, la Montedel, che fabbricava armi (con tanto di tangenti
americane). Ebbene, pur non essendoci alcuna prova, si può ipotizzare che le
armi che furono scambiate con la droga dalla mafia siciliana, tramite la
mafia bulgara e una società, citata dalla Sterling, che si chiamava Kintex,
potessero appartenere alle aziende pubbliche dell’Efim, o della Montedison.
Parliamo del traffico che venne scoperto dal giudice Carlo Palermo, e poi
insabbiato.
Ora arriva l’indagine di questa magistratura, non certo incisiva, che ci dice
sostanzialmente due cose: che siamo finiti sulla strada giusta, e che oltre non
dovremmo spingerci, per non scoprire troppe cose. Ma noi, come avete visto,
lo abbiamo già fatto.
294

Fonti bibliografiche

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Vinicio Araldi, “Guerra segreta in tempo di pace: spionaggio e
controspionaggio”, Mursia, 1969.
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della Banca d’Italia, 2004.
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1953.
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Prospettivaeditrice, 2006.
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Fonti archivistiche

Archivio ACNP
Archivio del Consiglio Comunale di Ancona
Archivi dei quotidiani esteri in internet
Archivi dei quotidiani italiani in internet
Archivio della CIA (Central Intelligence Agency - Stati Uniti)
Archivio dell’FBI (Federal Bureau of Investigation - Stati Uniti)
Archivio dell’Istituto di Storia del Movimento di Liberazione delle Marche,
di Ancona
296

Archivio di Wikileaks
Archivio nazionale braidense di Milano
Archivio SBN
Biblioteca Cantonale di Lugano (Svizzera)
Biblioteca Comunale Federiciana di Fano
Biblioteca Comunale Mozzi Borgetti di Macerata
Biblioteca Negroni di Novara
Biblioteca Sormani di Milano
Google
Wikipedia

In copertina: Un Radar-Scope della guerra fredda nel 1955 (immagine in


pubblico dominio su Wikimedia Commons).
297

Indice

Nei primi anni ‘90...........................................................................................2

Parte prima: Monteconero...............................................................................8


1 - Base Conero...............................................................................................8
2 - Scoppia la Guerra Fredda.........................................................................51
3 - L’antiterrorismo dei gladiatori.................................................................58
4 - Guanti bis.................................................................................................68
5 - Spie militari.............................................................................................80
6 - Basi gemelle............................................................................................93
7 - Fascismo inedito....................................................................................110
8 - L’archivio dei servizi..............................................................................129
9 - Conero story...........................................................................................142

Parte seconda: Montedison..........................................................................157


10 - Le radici del male.................................................................................157
11 - Il libro dimenticato...............................................................................181
12 - Lo Stato padrone..................................................................................191
13 - Terrorismo di Stato...............................................................................204
14 - La vera Tangentopoli............................................................................214
15 - Armi di Stato........................................................................................231
16 - Spionaggio di Stato..............................................................................248
17 - Perestrojka italiana...............................................................................260
18 - Tangenti americane..............................................................................272

Epilogo........................................................................................................283

Fonti bibliografiche.....................................................................................294

Fonti archivistiche.......................................................................................295

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