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Massimo D’Agostino
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ARMI DI STATO
Edizione aggiornata
2018
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fui portato da alcuni compagni di classe in quella che allora era ancora una
zona militare: la collina del Cardeto di Ancona. Il portone era aperto e i due
miei “compari” ritenevano fosse divertente provare l’ebbrezza di camminare
al buio fino al parapetto che dà sul mare con il rischio di essere arrestati.
Una notte vidi dall’alto della collina delle luci intermittenti in fondo al mare,
seguite da un bagliore rosso che illuminava le nubi basse sull’orizzonte.
Scoprii il giorno dopo sul giornale che la città croata di Zara, che si trova di
fronte ad Ancona, era stata appena bombardata.
Recentemente una mia fonte estremamente attendibile mi ha raccontato che
in quello stesso periodo svolgeva il servizio militare esattamente in quella
zona. Racconta di aver percorso su di una jeep dei tunnel che collegano il
monte Conero con il distretto militare di Ancona, nella zona di via
Montebello, nel centro storico. Sarebbero tunnel pieni di radar militari. “Nel
periodo della guerra nell’ex Jugoslavia - ha detto - eravamo costretti
continuamente ad indossare il caschetto, come se fossimo in guerra anche
noi in Italia.”
Al tempo del liceo il Monte Cardeto, una collinetta a ridosso del centro, era
una zona buia e tenebrosa, e come tutte le cose tenebrose, io credo, poteva
sulle prime affascinare, anche se si trattava di un fascino illusorio e
pericoloso.
I due compagni di scuola mi parlavano di questa collina come di un luogo
militare abbandonato, nel senso che era zona militare solo sulla carta. Da
diversi anni il portone veniva lasciato aperto. I miei amici non sapevano
perché questo avveniva, però so che prima di portarci anche me avevano già
provato ad entrare con successo. Mi sembra di ricordare così.
Quando venni portato al Cardeto era notte fonda e non ricordo che periodo
fosse, né se fosse un fine settimana. Dopo aver bevuto un po’ andammo lì
con la macchina, che venne lasciata nel piazzale antistante il portone di
accesso. Naturalmente quel cancello molto alto era aperto e nessuno lo
controllava. Almeno apparentemente. Entravamo al buio e solo la luce della
luna ci guidava verso una salita molto buia, che sembrava non finire mai. Si
arrivava in un piazzale in cui non c’era nulla. Si intravedevano dei plessi
abbandonati e dei cancelli chiusi. Solo uno sembrava essere “vivo” ed era se
non ricordo male il cancello del nuovo faro, dove erano presenti dei nomi su
un citofono illuminato. Passando oltre si arrivava a un parapetto
sopraelevato, con due accessi per dei locali sotterranei, nei quali si entrava
attraverso delle scale, ovviamente buie. Mi pare che questi due accessi
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portassero a dei cancelli chiusi. La vista del mare era stupenda. Come tutte le
cose che non ti permettono di vedere, sembrava una parte della città più
bella che mai.
Fu la seconda volta che mi portarono in questo posto che accadde un
episodio molto particolare, che mi è rimasto in mente. Era il 1991 o forse
anche prima, proprio non ricordo l’anno. C’era la guerra tra Serbia e Croazia
che era appena esplosa, e Zara la città di mare croata era di fronte a noi, pur
se molto distante e non visibile a occhio nudo. Io ricordo che quella notte
vidi una luce bianca sul mare lampeggiare a intermittenza e a intervalli che
non so precisare. Per pochi minuti quella lucetta segnalava qualcosa, poi
smetteva. Quando sull’orizzonte vidi illuminarsi di rosso le nuvole capii che
non erano segnalazioni ma forse dei colpi di arma da fuoco. Ma come era
potuto accadere che tre ragazzi diciottenni stavano assistendo da Ancona a
un conflitto a fuoco? I bagliori sull’orizzonte si ripeterono più volte quella
sera e si vedevano bene a occhio nudo. Solo bisognava alzarsi un po’ sui
talloni. Era tutto molto basso sull’orizzonte, perché in fondo noi eravamo
solo a 100 metri sopra il livello del mare. Sapevo in quel momento che in
Croazia c’era la guerra, ma noi eravamo in Italia, lontani anni luce dall’idea
di partecipare a una guerra.
Forse quella volta per lo spavento fuggimmo più veloce del solito, perché
eravamo soliti fare così quando andavamo via. C’era la paura che quella
ragazzata fosse scoperta da qualcuno, ma non sapevamo proprio chi fosse
questo qualcuno. Forse solo le ombre che vedevamo scendendo di corsa per
quella discesa. Uno dei due ragazzi che erano con me era convinto che ci
fosse un’ombra che ci scrutasse al buio da uno di quei plessi abbandonati, da
una finestra. Ma io non vidi mai nessuno.
I miei due compagni di scuola oggi sono due avvocati, si sono laureati e le
loro strade lentamente si sono divise. Uno dei due è diventato un politico
diciamo di professione nel centro-destra. E’ proprio lui che dopo l’università
mi raccontò di aver svolto gli ultimi mesi del servizio militare facendo la
guardia al tunnel buio del Monte Conero. Non so se sia stato per quella sua
passione per le zone militari di Ancona che è finito su quel grande segreto
militare italiano. Non lo so, davvero. Io so soltanto che, il giorno dopo quella
incredibile visione di un presunto conflitto a fuoco in mare aperto, scoprii,
leggendo il Corriere Adriatico, che Zara era stata appena bombardata.
Collegai subito la notizia a quello che avevo visto dal vivo. Sbagliando? E’
possibile, perché Zara è più lontana, pensandoci ora col senno di poi, rispetto
a quanto immaginai da diciottenne idiota.
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Ma c’è dell’altro che non mi lascia tranquillo. Durante quel periodo abitavo
in una casa in affitto. Papà dirigeva una filiale di un importante gruppo (oggi
holding) bancario e quella casa ci veniva pagata dallo stesso istituto. La
nostra vera casa, molto grande e comoda era a Roma, con tanto di residenza,
ma rimaneva chiusa tutto l’anno e abbandonata come la casa del film The
Others, con le lenzuola bianche sulle poltrone. Ci tornavamo a Natale e
Pasqua. Eppure quella piccola casa anconetana mi piaceva, perché si vedeva
un panorama stupendo e soprattutto il mare, che d’inverno ha un fascino
particolare. Soprattutto, c’era la possibilità, tramite una piccola antenna da
interno, di vedere le tv croate, che trasmettevano un sacco di sport in diretta,
mentre la Rai era già sulla via del declino. Sì, avete capito bene, con
un’antenna da 20 mila lire captavo il segnale croato a seconda dei giorni e
del tempo. Il problema era che questo segnale non era previsto dal nostro
ordinamento legislativo, perché i tre canali croati si inserivano
sovrapponendosi alle frequenze di alcune piccole e grandi emittenti italiane.
Il primo canale croato era l’unico che occupava uno spazio vuoto, subito
dopo la prima frequenza di Raiuno. Stiamo ovviamente parlando dei primi
anni ‘90, quando c’era solo l’analogico e non c’era nemmeno la pay-tv di
Sky. Il secondo canale croato invece ricordo che si accavallava su Elefante
TV, dove il venditore di tappeti, che tutto il giorno si esibiva nelle
televendite, scompariva, tra mille righe orizzontali, per far posto alla tv dello
sport della Croazia, HRT2. Adoravo quella televisione, anche se non capivo
nulla di quella lingua. Guardavo le partite del loro campionato, i grandi slam
di tennis, e dal 1996 anche i posticipi del campionato italiano. Una volta
decisi di scrivere ai responsabili di quell’emittente per pubblicare un
annuncio sul loro teletext (l’equivalente del nostro televideo) in modo da
cercare amici che collezionassero insieme a me materiale calcistico, come
maglie di calcio e album di calciatori. Con mia grande sorpresa non rispose
nessuno di questi appassionati di sport, invece la mia casella venne
letteralmente invasa da lettere con tanto di foto, in molti casi, di ragazze
croate, che cercavano pen-friends e sognavano l’Italia. Rimasi in contatto
solo con alcune di loro, perché era veramente impossibile intrattenere
contatti con tutte. Poi la cosa finì progressivamente. Poi c’era il terzo canale
croato, HRT3, che trasmetteva fiction in lingua originale e spesso questa era
l’inglese. Mi piaceva anche questo canale, che si sovrapponeva a Italia1,
anche se su una frequenza della Fininvest che appariva più debole delle altre.
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Ma come facevo da casa ad Ancona a vedere via terra o via mare quelle
emittenti? Ho sempre pensato che fosse il mare a permettere alle onde di
sconfinare nel nostro paese, ma oggi non ne sono più così sicuro. In quella
casa per di più vedevo anche altre emittenti che non sarebbe stato possibile
captare. Dal salotto, sempre con un’antenna da interno, si potevano vedere
diversi canali del Veneto. Sì proprio così: Teleadria, Serenissima TV, e poi
Rai tre Veneto. Ricordo che in certi giorni al posto di Raitre Marche
compariva questo canale, che era l’unico ricevibile in modo decente. Dove
poteva esserci un ripetitore così potente in grado di arrivare a casa mia in
modo perfetto? Non ho mai avuto risposta. Sul Monte Conero? Chissà, è
possibile. Ma la storia di un possibile parallelo tra Ancona-Conero e Croazia
non è finita qui, perché a metà degli anni ‘90 ebbi la brillante idea di portare
alcuni compagni di università a vedere il panorama del Cardeto.
tenuto malissimo. Quella volta vidi anche strani personaggi girare per la
strada. C’erano degli abitanti abusivi che si erano costruiti delle baracche e
un signore, forse uno di questi strani abitanti del luogo, mi si avvicinò e mi
chiese se ero un giornalista, visto che avevo un taccuino in mano. Mi disse
allora di scrivere una cosa, che poi non ho voluto inserire nel servizio per un
po’ di timore e lo faccio solo adesso. Ero fuori da ciò che restava del palazzo
della Digos e questo signore, con la barba folta e nera, non alto, l’aspetto
quasi surreale, mi disse queste parole: “vede lì dentro... questa stanza? Lì ho
visto cose terribili. I poliziotti quando interrogavano davano tante di quelle
botte...”.
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BASE CONERO
portato a una base militare altrettanto segreta. Russa, americana, questo non
è facile dirlo perché documenti ufficiali non ce ne sono.
E’ possibile però fare una considerazione molto semplice: gli americani non
costruiscono basi nelle montagne, bensì in luoghi desertici come il Nevada.
Hanno semmai l'abitudine di monitorare e sorvegliare, ma non di nascondere.
E’ noto a tutti il fatto di Pearl Harbour, quando gli Usa vennero trafitti in
modo fin troppo facile dai Giapponesi a metà del secondo conflitto mondiale.
Anche la caduta delle Torri Gemelle nel 2001 è stato un esempio di come gli
Usa a volte si sentano troppo sicuri e non occultino affatto i punti strategici
del loro territorio. Così è la Nato. In un piccolo libro scritto a cura della
Democrazia Cristiana nel lontano 1953 si parlava di “spie comuniste in
occidente”. E tra i luoghi niente affatto segreti che il “Patto Atlantico”, cioè
il patto militare post-bellico anti-comunista dei paesi occidentali firmato il 4
aprile del 1949, considerava più a rischio per l’infiltrazione nel tessuto
sociale di spie russe interessate a informazioni militari non c’era Ancona. Vi
erano invece Roma, quale capitale, Napoli, perché sede del “quartier
generale mediterraneo dell’organizzazione atlantica”, Livorno, sede del
‘Centro sbarchi’ “per le truppe del corpo d’occupazione americano in
Austria”. C’erano anche Torino, che era un centro industriale che riceveva
“ordinazioni dagli Stati Uniti” (e qui chiaramente mi viene da pensare a
produzioni di stampo bellico), Trieste, per le sue caratteristiche di terra
‘snazionalizzata’ e quindi Brindisi e La Spezia, su cui non veniva specificato
nulla.
Eppure, a detta di alcuni coetanei conosciuti negli anni in cui abitavo nel
capoluogo marchigiano, in Guerra Fredda il Monte Conero era una zona
militare importante per la Nato.
Io ho al contrario sempre attribuito queste voci ai russi, al fatto cioè che il
Conero potesse essere stato sede di attività militari non della Nato, bensì
segrete e magari portate avanti dal Partito Comunista Italiano, uno dei più
forti dei paesi occidentali, tanto che la storiografia più recente tende a porre
l’Italia come Stato cuscinetto a metà tra ovest e est, un po’ come avviene per
la Jugoslavia di Tito. Non è un azzardo secondo me affermarlo, basti pensare
all’ostruzionismo anti-atlantico del PCI, ma anche di Craxi e del PSI negli
anni ’80 con il caso di Sigonella. Resta altrettanto segretissimo il tipo di
esperimenti che sarebbero stati fatti realmente all'interno della base:
costruzione di missili? sommergibili? Le testimonianze che avevo ascoltato
erano diverse, ma mai così convinte da pormi in condizione di scrivere
articoli, che non diventassero poi leggende metropolitane senza fondamento.
I racconti più coloriti venivano per lo più da pescatori i quali affermavano di
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aver visto per sbaglio la montagna aprirsi, salvo essere zittiti e minacciati da
presunti militari. Altre testimonianze volevano invece operai lavorare
segretamente dentro la montagna non si sa a quali scopi e sicuramente sotto
segreto militare. Una di queste testimonianze l’ho raccolta recentemente. C’è
anche un attuale esponente politico del centro-destra testimone del fatto che
all'interno del Monte Conero, ancora alla fine del millennio dunque dopo la
caduta del muro di Berlino, ci fosse un tunnel segreto, buio, che attraversava
da parte a parte il Monte Conero, il quale, va ricordato, è un parco naturale e
non avrebbe ufficialmente alcun tunnel, tanto meno sorvegliato da militari.
Pare che ad alcuni giovani sia stato offerto alla fine degli anni ’90 di
svolgere il proprio servizio militare nella zona del Monte Conero. Per le
persone con cui ero in rapporti di amicizia si trattava più che altro di un
avvicinamento a casa, visto che erano di Ancona, e non tanto quindi di una
missione segretissima che peraltro non avrebbe senso affidare a un giovane
neolaureato. Ma inserirei in questo elenco pure un giornalista di Novara, il
quale al sentir nominare Ancona ebbe un sussulto ricordando i tempi in cui
svolgeva il servizio militare e non erano infrequenti le umiliazioni, come
quella di pulire la tazza del gabinetto con un chiodo. Lui venne mandato per
un certo periodo alla Caserma Saracini di Falconara, oggi chiusa. Mi disse:
“C’erano voci secondo le quali Ancona era il posto dove venivano mandati i
militari che dovevano lavorare sui missili”.
Il compito di questi militari sarebbe stato quello di sorvegliare la zona
giorno e notte. Qualcuno forse su questo Monte Conero ha fantasticato un
po’ troppo, ma arrivano ora alcune conferme online. Intanto sul fatto che
siano stati i russi in passato a costruire basi sotto le montagne. Su
www.ditadifulmine.com si legge questo: “Nel 1996 il New York Times ha
riportato come fosse in costruzione una misteriosa base militare in Russia,
un enorme complesso sotterraneo sotto gli Urali nella zona di Beloretsk.
Citando alcuni ufficiali russi, il New York Times spiegava che il complesso
sotterraneo era un insieme di siti minerari, depositi di custodia per cibo ed
oggetti di valore nazionale, e bunker per le autorità in caso di guerra
nucleare.” E ancora: “Il problema sulla trasparenza riguardo alla costruzione
della base sta nel fatto che nel 1991 Leonid Akimovich Tsirkunov,
comandante delle due installazioni Beloretsk-15 e 16, dichiarò che la base
avesse lo scopo di estrarre minerali rari dagli Urali. Successivamente, lo
stesso Tsirkunov dichiarò che si trattasse di un deposito di cibo e vestiti,
senza chiarire ulteriormente lo scopo di avere un magazzino scavato in una
montagna. E ancora, nel 1992 un ufficiale di stanza nella regione affermò
che l'installazione nel monte Yamantau fosse un bunker destinato alla
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1947 e utilizzato dagli Usa per spiare i gusti e la vita dei privati cittadini.1
Un progetto totalmente illegale, specificano sul sito GrNet.it, che tuttavia sul
Monte Conero non è detto che oggi sia la stessa Nato a continuare a gestire
direttamente. Però c'è e chissà che quando Berlusconi dice che siamo tutti
spiati non si riferisca proprio a questo.
Tornando al sito GrNet.it l'attività spionistica dell'Interforze detto anche RIS
(che non c'entra con i Carabinieri) sarebbe effettuata con una serie di
strumenti di altissimo livello. A cosa servirebbero? "Computer di ultima
generazione sono la mente operativa – viene specificato -. Software
ultra-veloci in grado di entrare nelle nostre case, ascoltare e registrare le
telefonate, setacciare la posta elettronica e le altre forme di comunicazione
che viaggiano su Internet, aprire e decifrare tutto quanto viene trasmesso
dalle banche dati. Penetrare nel mondo della finanza, svelare i movimenti di
denaro, individuare le scelte strategiche dei gruppi industriali, rivelare
notizie riservate sulle indagini giudiziarie in corso, sui politici sotto
inchiesta, sui boss mafiosi sotto controllo, sui giornalisti ficcanaso".
Quindi spiega ancora il sito che si tratterebbe di "una concentrazione senza
precedenti di informazioni sensibili – inaccessibile ai parlamentari della
Repubblica – gestita da un ramo speciale dei servizi segreti e conservate
senza limiti di tempo. Il sistema – prosegue il documento - è attualmente in
grado di captare e analizzare miliardi di comunicazioni private al giorno
che passano attraverso il telefono, il fax, la rete internet."
I politici italiani non ne sarebbero al corrente, tutto sarebbe gestito da
militari del Sismi al servizio dello Stato Maggiore della Difesa Italiana e,
probabilmente, da elementi della ex loggia P2. Wikipedia dimostra di essere
a conoscenza di questa attività di spionaggio, che è coordinata dal Centro
Intelligence Interforze, da cui si snodano tutti i vari Distaccamenti Autonomi
Interforze compreso quello del Conero. Mette quindi a disposizione degli
utenti le info riguardanti questi siti. Sono presenti in tutto il territorio italiano,
da Lecce a Venezia alla Sardegna, e alcuni risultano chiusi. Sul Monte
Conero invece si parla di tunnel sotterranei presenti fin dall'Ottocento.
Riporto fedelmente il discutibile testo di Wikipedia, discutibile perché non si
capisce l'utilità nel passato non recente di questi presunti tunnel in una zona
impervia, lontana dal capoluogo, Ancona, e da altri centri abitati.
"Sotto il Monte Conero insistono gallerie e basi sotterranee già dalla fine
dell'Ottocento, ampliate per la prima guerra mondiale e per la seconda
1
Cfr: “RIS l’orecchio tecnologico dei servizi segreti italiani. Ecco il grande fratello militare”,
www.grnet.it, 14 settembre 2009.
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Vedendo la trasmissione, a maggio 2012, ho capito che questo anziano signore di cui mi
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parlavano era Americo Zoia, uno degli operai che scavò nei tunnel del Conero.
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davanti alle telecamere ero preoccupato anche per questo: pensavo a qualche
attentato, o a qualche dispetto. Solo al ritorno ho scoperto che la gomma non
era bucata, ma solo sgonfia. Misteri del Monte Conero, come quello del
Golpe De Lorenzo di cui a puntate uscirono nei decenni scorsi le rivelazioni
o i carteggi militari compromettenti.
3
Cfr: Wikipedia: “La rivelazione de L'Europeo: la ‘Gladio rossa’.”
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1964.4
Sono tutte storie vecchie ma che possono ricondurre a una sorta di storia
militare del Monte Conero, il quale nel suo interno può nascondere altri
segreti di una guerra che non è stata mai combattuta ufficialmente.
Non dovrebbe esserci altro che turismo sul Monte Conero e invece nel 1973,
esattamente il 9 febbraio, i misteri che si nascondono nel Conero portarono a
una condanna a ben 11 anni di carcere. Colpevole per il reato di spionaggio
militare fu un uomo nativo della Toscana, Carlo Biasci, rimasto noto per
questo episodio come "spia della Rau", il quale, lavorando a Monfalcone
come archivista dei Cantieri Navali della "Navalgenarmi", pare avesse
sottratto alla sua azienda documenti inerenti non solo alla costruzione di navi
da guerra della Marina, ma, fatto che l'uomo non riuscì a giustificare davanti
ai giudici, anche a informazioni sull'impianto della stazione Radar del Monte
Conero.
La storia iniziò nel 1970, il 10 marzo, con l’arresto in flagranza di reato della
spia alla stazione Termini di Roma. Arresto che fu effettuato dal servizio di
controspionaggio Sid. L'uomo era appena sceso dal treno, pare, e avrebbe
consegnato una valigetta con i documenti segreti ad un intermediario, per
fornirli all'Egitto e quindi alle Nazioni Arabe. Su La Stampa la notizia
veniva data il giorno 11 marzo a pagina 2 di spalla. Il titolo di questo ampio
servizio era: "Caso di spionaggio all'Italcantieri".
Avrebbero fatto da tramite con gli Arabi un interprete e un esponente
dell'ambasciata egiziana a Roma, tale Hamid Mohamed Helmy. La notizia
veniva riportata il 3 agosto 1971 anche dal giornale della Svizzera Italiana,
Libera Stampa, il quale riportava dell'indagine aperta dalla "magistratura"
sul "sottufficiale" italiano per spionaggio in favore dell'Egitto avendo fornito
"piani di costruzione di vascelli militari italiani". Questo Carlo Biasci aveva
all'epoca cinquant'anni, era sposato e aveva due figlie. Un uomo che da 25
anni secondo La Stampa lavorava ai Cantieri di Monfalcone ed era molto
stimato. Il compito che gli era stato affidato era molto prestigioso: doveva
gestire l'archivio dove venivano depositati i progetti e i disegni delle navi
militari. Biasci viaggiò spesso verso l'Egitto e questo, scriveva La Stampa,
aveva destato i sospetti del controspionaggio Sid. Vi era anche un interprete
il quale lavorava a Roma e avrebbe fornito le preziose notizie in possesso di
4
Cfr: La Repubblica del 27 settembre 1991: “E’ morto Allavena, l’uomo dei fascicoli Sifar.”
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stazione militare a tutti gli effetti, che poteva intercettare movimenti aerei,
come di terra e di mare, almeno in teoria. Un'altra domanda che mi pongo è:
l'Aeronautica Militare Italiana ne era al corrente? Ne era al corrente il
Governo Italiano quando cadde il DC9 nel 1980 e si cercarono
disperatamente i tracciati radar alla ricerca di una prova sul presunto
abbattimento dell'aereo civile? Tracciati radar di cui recentemente si è
parlato su Il Resto del Carlino poco prima della sentenza del giudice di
Palermo di condanna dello Stato Italiano a pagare l'indennizzo ai parenti
delle vittime.
E oggi è ancora attivo questo radar? Ritengo che questo sia assolutamente
possibile, visto che si parla di sorveglianza armata della base, ma a cosa
servirebbe? Le nazioni di frontiera ormai, anche se non sono inserite
nell'area Euro, sono nazioni al riparo da guerre e da regimi dittatoriali quali
il Comunismo. Nel 2000 è nato un organismo internazionale di cooperazione
nel controllo delle acque del mar Adriatico, che coinvolge tutte le nazioni
"rivierasche". Sono stato presente come inviato stampa ad una di queste
conferenze nel 2000 o nel 2001.
Un’altra domanda è: da quanto tempo sarebbero attivi questi radar? Andando
a cercare delle analogie con l'incredibile storia della Spia della Rau spunta
un altro episodio isolato e stranissimo, che si era verificato nel 1953 e veniva
documentato da L'Unità. Era il 26 marzo 1953. Un maxi-sequestro della
polizia aveva colpito in questo caso il mondo dell'arte: alcuni pittori avevano
diffuso, con le loro opere esposte in una "mostra dell'arte contro la barbarie",
dei segreti militari. In mezzo a queste accuse ci finì al processo anche la
stessa L'Unità per degli articoli di Fausta Cialente a proposito di
"installazioni militari nel porto di Augusta e sul Monte Conero". Il sospetto
immediato è stato che la giornalista autrice di questa cronaca giudiziaria
volesse dire Montetauro, un quartiere di Augusta. Tuttavia va ricordato che
promotore di quella crociata contro il cosiddetto “Culturame” fu il
democristiano Mario Scelba, che secondo alcuni sarebbe il firmatario
dell’accordo bilaterale con gli Usa, stipulato pochi mesi dopo (ottobre 1954)
per la costruzione di una presunta base segreta nel Monte Conero.
Tornando ancora indietro nel tempo, a leggere gli articoli de La Stampa
emerge che nel 1933 il Monte Conero fosse ancora amato dagli anconetani
che si recavano senza paura fin sulla vetta ad ammirare le "belle aurore
dalmate". Che bello sarebbe stato poter vedere la Jugoslavia da casa nostra
anche ai tempi di Tito, ma forse questo fu il motivo per cui quel luogo, nel
dopoguerra, divenne sempre più estraneo alla vita quotidiana della città
principale delle Marche. Chi si fosse recato in quelle zone avrebbe inoltre
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trovato, forse, anche i resti dei monaci del 1600 che pare andassero ad
attendere la morte in quelle grotte.
Mi auguro personalmente che si possa aprire un museo storico della Guerra
Fredda e che la gente possa dimenticare tutte le brutte storie, illazioni,
leggende su eventuali missili, armi batteriologiche e armi chimiche (fonte La
Stampa del 1984). Questo non tanto perché fu già il sindaco Monina a
smentire le armi batteriologiche (che brutta questa parola mi viene in mente
Saddam Hussein), ma perché oggi dai giornali di Ancona e d'Italia è sparita
anche la smentita stessa. E intanto ufficialmente la gente sul monte pare ci
possa andare lo stesso. Ecco, è una delle tante contraddizioni italiane del
dopoguerra.
Ciò che appare sempre più certo è che il monte Conero nel 1970 finì al
centro di una vicenda di spionaggio di livello internazionale. Non fu solo La
Stampa, infatti, a parlare dei radar del Conero a proposito dei documenti
della spia Carlo Biasci, ma l’elenco comprendeva, da quello che emerge
dagli archivi, molti altri giornali: Il Messaggero, Il Tempo e soprattutto Il
Piccolo di Trieste. La notizia secondo cui Biasci aveva con sé, in quella
famosa valigetta sequestrata dal Sid il 3 marzo 1970 alla stazione Termini, lo
schema degli impianti radar del monte Conero diventò di dominio pubblico
solo tra agosto e ottobre 1971, nel momento in cui il sostituto procuratore
Mario Bruno chiese e ottenne il rinvio a giudizio per la spia della Rau.
Questa storia si snoda attraverso alcune date ben precise. Vediamole
ripartendo dall’antefatto: intorno all’11 marzo 1970 uscì su tutti i quotidiani
la notizia che alcuni giorni prima il Sid aveva arrestato a Roma un
dipendente della Navalgenarmi, che altro non era che il reparto militare
dell’Italcantieri. Il quotidiano maggiormente interessato a questa storia era Il
Piccolo di Trieste, poiché Carlo Biasci viveva in quel momento a
Monfalcone, in via Vespucci 6 con la moglie Norma Nonino di 47 anni
(Biasci al momento dell’arresto ne aveva 50) e due figlie, Giulia e Liliana di
26 e 24 anni. La notizia dell’arresto venne data in prima pagina con
amplissimo risalto e due articoli, il primo dei quali era a firma di Roberto
Perugini, con la foto della spia e il chiaro riferimento al posto di lavoro del
Biasci. Si trattava di un posto molto delicato quale l’impiego come
archivista alla Navalgenarmi. Il racconto di Perugini è molto dettagliato ma
non offre nulla di nuovo rispetto a ciò che avevamo appreso dagli altri
quotidiani. Sembra che Biasci, quando il Sid lo arrestò alla stazione Termini,
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si difese parlando di un doppio gioco che avrebbe attuato per far cadere in
trappola le spie della Rau. Ma questa versione pare che cadde molto presto,
quando il Sid gli offrì di collaborare e lui finì per contraddirsi. Più
interessante il secondo articolo in cui Fulvio Fumis provava a tracciare per Il
Piccolo un profilo della spia di Monfalcone. Emerge in maniera più
dettagliata il ruolo della Navalgenarmi presso la quale Carlo Biasci avrebbe
lavorato dal 1953: era “in pratica l’ufficio della Marina Militare – così
descriveva Fumis la Navalgenarmi – che elabora i progetti delle costruzioni
navali. Un ufficio che è cresciuto d’ importanza con lo sviluppo del cantiere,
con la ricostruzione della nostra flotta e soprattutto con la ripresa delle
costruzioni di unità subacquee.”
Biasci doveva quindi aver visto molti documenti riservati e accadde così che
“una persona semplice, con un impiego apparentemente insignificante”
destasse “l’interesse di coloro che vogliono penetrare segreti dai quali sono
rigorosamente esclusi i ‘non addetti ai lavori’.” “Né in queste operazioni di
spionaggio ci si può rivolgere, di solito, a persone troppo in alto. Sono gli
uomini come Carlo Biasci che possono tornare utili: né troppo importanti né
troppo umili, passano quasi sempre inosservati.” E’ una descrizione, quella
di Fumis del Piccolo, che ci fa capire bene come la spia avesse un passato
molto più avventuroso di quanto il suo aspetto forse poteva far pensare.
Originario della Toscana, da giovanissimo aveva seguito il padre a
Casablanca e qui imparato l’arabo, che gli tornò utile in seguito, quando,
combattuta la seconda guerra mondiale in Medio Oriente e mostrato il suo
patriottismo a Monfalcone nel circolo “Italia”, nel 1968 pare che incontrò un
suo vecchio compagno di scuola che lavorava all’ambasciata del Marocco.
Qui la sua vita di modesto archivista della “Navalgenarmi” sarebbe cambiata
e Biasci avrebbe preso contatto con alcuni emissari della Rau. Questi ultimi
del resto erano a conoscenza dell’importante attività di costruzione militare
della “Navalgenarmi” e ne erano incuriositi. Così Carlo Biasci sarebbe stato
il tramite di un passaggio di documenti e progetti per navi militari, ma tutto
finì quando 14 agenti del Sid andarono ad arrestare la spia alla stazione
Termini. Ne seguirono gli interrogatori sia di Biasci sia della moglie
chiamata d’urgenza a Roma.
Il vero mistero sembra stia proprio nei documenti che il Sid avrebbe
sequestrato nella valigetta. Secondo la versione difensiva del Biasci del
doppio gioco, la valigetta non doveva contenere che finti progetti modificati
ad hoc dalla presunta spia per ingannare gli egiziani. Erano ipotesi
interessanti ma che nascevano quando ancora vigeva il riserbo degli
inquirenti. Vedremo come poi questa versione venne smentita dai fatti
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successivi.
Stiamo dunque seguendo la vicenda della Spia della Rau dalle colonne de Il
Piccolo di Trieste, il quale tra l’11 e il 12 marzo trattava in modo
approfondito i fatti sconvolgenti della Navalgenarmi. Ma se il giorno 11 era
stato quello del lancio a tutta pagina dello scandalo, il 12 ci si affrettava a
smentire e gettare acqua sul fuoco delle polemiche. Ecco infatti il titolone di
quel giorno della cronaca nazionale: “La vicenda dell’archivista spia
considerata chiusa a Monfalcone”. Era il giorno delle smentite, come quella
secondo cui la Navalgenarmi non avrebbe avuto alle sue dipendenze alcun
Carlo Biasci, il quale invece lavorava per l’Italcantieri. Ma anche qui
nessuno all’indomani della notizia mostrava interesse per l’archivista, e lo
segnalava Il Piccolo in un approfondimento di cronaca locale. Titolo della
cronaca di Trieste era quel giorno: “L’uomo arrestato per spionaggio non è
alle dipendenze dell’Italcantieri”; all’interno la cronaca di una riunione di
questa azienda di Monfalcone, la quale smentiva categoricamente di
discutere circa la sorte di Biasci, bensì di aver programmato questo incontro
di routine da tempo. “Il riserbo è evidente” – commentava il giornalista de Il
Piccolo, riportando le laconiche parole dei colleghi dell’archivista – “tutto
quello che sappiamo lo abbiamo appreso stamane dai giornali. L’uomo che
sarebbe stato arrestato a Roma non è nostro dipendente. Possiamo anche
assicurare di non aver avuto alcuna comunicazione che un nostro dipendente
sia stato tratto in arresto. Né, d’altro canto – proseguiva la nota
dell’Italcantieri – abbiamo nessun assente ingiustificato. Questo è tutto
quello che noi possiamo dichiarare. Purtroppo questa vicenda è avvenuta –
sempre stando alle notizie dalla capitale – in un momento particolarmente
delicato per noi, come può essere quello rappresentato dalla riunione ad alto
livello che è tuttora in corso, e nella quale si parla di problemi che nulla,
assolutamente nulla, hanno a che fare con questo asserito caso di
spionaggio”.
Il 12 marzo era però anche il giorno di alcuni clamorosi retroscena che
andrebbero messi a confronto con i fatti successivi. Il mistero come
dicevamo sta proprio in quella famosa valigetta portata da Biasci alla
stazione Termini e lasciata al deposito bagagli affinché potesse essere
prelevata dall’addetto dell’ambasciata egiziana. Cosa poteva contenere?
Fulvio Fumis su Il Piccolo scrisse che la spia aveva preso il treno
direttissimo delle 22.57 che da Monfalcone portava a Roma. Era la sera del
2 marzo 1970. Pare fosse trapelato già nell’ambiente dell’Italcantieri il fatto
che il Sid stava tenendo sotto controllo l’archivista e che quindi in quella
valigetta di tipo diplomatico un dirigente avesse fatto in tempo a mettere
29
Per capire l'attività del controspionaggio italiano in quegli anni, i primi anni
‘70 ovvero quelli dell'arresto di Carlo Biasci, ma pure del mancato golpe
Borghese e dell'attentato del 1969 a piazza Fontana a Milano in cui in
qualche modo potrebbe essere stato coinvolto il Sid, è necessario aggiungere
il prossimo episodio inquietante che emerge dalla lettura del quotidiano La
Stampa.
Il Controspionaggio nel gennaio del 1970 salvò Gheddafi da un attentato che
era stato organizzato dai suoi oppositori. Sembra una storia del 2011 con
Gheddafi in pericolo: la differenza è che in quel periodo l'Italia fu costretta a
dargli una mano. Perché? Guido Rampoldi il 3 gennaio del 1986 scrisse su
La Stampa: "Forse con qualche lustro di ritardo ci si domanda se sia stato
saggio instaurare un rapporto economico così forte da diventare
inevitabilmente un rapporto politico, fatto oggi di prudenze obbligate, ieri
anche di tolleranze e di aiuti: due volte, nel 1970 e nel 1980, il
controspionaggio italiano sabotò progetti di rivolta contro Gheddafi
organizzati dai suoi oppositori. "All'ombra dei traffici con la Libia - accusò
Yussef Magarif, ex ambasciatore di Gheddafi in India - prosperano forme
scandalose di connivenza."
Sull'episodio del 1970 ritornava pochi mesi dopo su La Stampa l'ex capo dei
servizi segreti militari, Ambrogio Viviani, intervistato l'11 maggio del 1986.
L'articolo iniziava con queste parole: "Dal ‘70 al ‘74, periodo in cui diressi
il controspionaggio italiano, la parola d'ordine fu 'salvare i nostri interessi
in Libia e impedire che l'Eni fosse buttato fuori', per questo - proseguiva il
quotidiano torinese - i servizi segreti italiani furono costretti dall'allora
presidente del consiglio Giulio Andreotti a collaborare con Gheddafi."
L'articolo ricordava il fatto che Viviani fosse iscritto alla P2, ma lui
nell'intervista asseriva che tale iscrizione doveva servire solo ad indagare su
Gelli. Mentre molto chiaro era sull'episodio del salvataggio di Gheddafi. "Fu
così che aiutammo il leader libico a sconfiggere gli oppositori al suo regime,
a rifornirlo di armi, ad organizzargli un servizio di intelligence, a
circondarlo di consiglieri per l'ammodernamento delle forze armate."
L'articolo elencava una serie di collaborazioni e favori reciproci con la Libia
che erano iniziati proprio nel 1970 con l'operazione denominata "principe
nero". Ad essere coinvolto in questa torbida storia fu proprio il reparto dei
servizi segreti poi travolto dalle indagini sulla strategia della tensione, il
reparto "D". "La sezione del controspionaggio del reparto "D" del Sid -
scriveva La Stampa nel 1986 - riuscì a far fallire un'operazione ideata e
33
La questione del Monte Conero ci lascia sospesi tra fantasia e realtà, un po'
come nei film di fantascienza, dove è difficile cogliere il senso e in genere ci
si accontenta delle belle immagini magari emozionanti.
Solo che qui è tutto vero: i fatti appaiono e scompaiono. E allora come fare
se non aggrappandosi alla realtà, a quel poco che ogni tanto è emerso?
Nel 1984 tre ecologisti di Ancona furono arrestati per presunto spionaggio
sul Conero e il consigliere verde Moruzzi li difese in consiglio comunale.
Ma non fu il solo. Anche i parlamentari verdi interrogarono il ministro e la
storia si allargò.
La discussione pubblica nel consiglio comunale di Ancona avvenne tra il
verde Marco Moruzzi, oggi responsabile anche del Corecom, e il sindaco
Guido Monina dei Repubblicani, che purtroppo è scomparso anni fa. E’ stato
possibile reperirla grazie alla gentilezza degli impiegati del comune dorico,
che mi hanno permesso di pubblicare il documento integralmente.
35
5
Fonte del documento è il Comune di Ancona.
38
che armi atomiche esistono solo a Comiso, rimangono tutti i dubbi iniziali.
Detto questo mi fa piacere che la giunta e lei, signor sindaco, convenga che
il vincolo militare è difficilmente compatibile con la realizzazione di un
parco, in particolare del parco del Conero, perché aumentare il turismo in
una zona in cui possono esistere armi chimiche o armi batteriologiche, è
chiaro che comporta dei rischi, quindi rimane ancora l’interrogativo sul
piano d’emergenza e non credo che sia pretestuoso, ma se al Conero
abbiamo armi chimiche o armi batteriologiche, anche se non abbiamo armi
nucleari, dobbiamo in ogni caso pensare ad un piano di emergenza.
Una contaminazione di tipo chimico non è meno pericolosa di una
contaminazione di tipo radioattivo, se pur questa, al contrario di quella
radioattiva, può essere tamponata con determinati interventi, anche se non
facili e lunghi nel tempo. Il caso di Seveso ce lo ha dimostrato.”
Sindaco: “Questa discussione non è certamente molto agevole anche perché
si parla di cose che interessano la città ma ci sono anche dei limiti nelle
discussioni di questo tipo. Intanto lei aveva fatto nella sua interrogazione
domanda circa armi nucleari batteriologiche e chimiche e la esclusione di
questo tipo di armi si riferisce oltre che alle armi nucleari anche alle armi
batteriologiche e chimiche. Cosa c’è sotto non lo possiamo sapere perché ci
saranno altri tipi di armi, ci saranno altre cose ma la domanda specifica era
su questi tre tipi e io posso escluderli. La dichiarazione ufficiale finisce lì.
L’altra era un po’ una considerazione, cioè certi tipi di armi che lei
paventava che fossero sotto il Conero non sono in dotazione all’esercito
italiano; la Nato ha creato delle basi su cui si può essere più o meno
d’accordo ma sono state installate a Comiso con un voto del Parlamento
della Repubblica Italiana. Scusi Moruzzi, qui adesso ci può essere una
parola in più e una in meno ma anche questo deposito a Rimini che dice lei è
talmente alla luce del sole che lei ha citato i giornali, gli articoli che lo
avrebbero pubblicato. Invece il presupposto della sua interrogazione, di
tutta quest’altra agitazione che si è fatta in città parte dal presupposto che lì
ci sia qualcosa di nascosto, che i cittadini di Ancona dovrebbero essere
ignari di quello che c’è sotto. E io questo lo escludo.
In ogni modo in relazione alla sua interrogazione mi sembra che il succo sia
questo, lei e la città in questi giorni siete turbati da articoli, da convegni,
per quello che c’è sotto il Conero; e io le assicuro nella maniera più
assoluta che non ci sono armi nucleari, batteriologiche e chimiche. Più di
questo non posso dire.”
Le interrogazioni parlamentari
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6
Fonte del documento è il sito della Camera dei Deputati.
7
Fonte del documento è il sito della Camera dei Deputati.
42
suo marito Fulvio Lanari, dopo una irruzione nella casa del Lanari, dove i
tre imputati sembrava stessero disegnando una mappa della zona del Monte
Conero; il Guanti, delegato regionale CGIL, è uno dei redattori della rivista
ecologica Il Pungitopo che, insieme con altre associazioni naturalistiche
della zona, richiede da diversi anni la costituzione di un parco protetto; il
caso potrebbe rappresentare l'inizio di una caccia alle streghe nei confronti
dei pacifisti e degli ecologisti - se ritenga che sia opportuno un esplicito
pronunciamento del Ministro della difesa relativamente alla funzione del
Monte Conero, affinché tutti i cittadini possano conoscere e valutare
esattamente le conseguenze, per la loro vita e la loro salute, delle scelte di
politica militare relative al Monte Conero .”
Si chiedevano in questi interventi i veri motivi dell’arresto di Gianfranco
Guanti.
La condanna per lui e gli altri due complici arrivò il 29 maggio 1984 dopo
un processo a cui i quotidiani locali dettero il giorno seguente ampio spazio
con fotografie. I tre venivano raffigurati alla sbarra, mentre il PM Silvio Di
Filippo nell’istantanea del Corriere Adriatico era intento con occhiali sul
naso a scrivere sulle sue carte. Duro il Corriere Adriatico nel suo titolo: “La
curiosità è costata cara: ecologi condannati in Assise”, e in alto nel
sottotitolo: “Volevano carpire i segreti della base del Conero”. Rispetto alle
richieste di condanna a un anno e quattro mesi per Guanti e otto mesi
ciascuno per il signor Lanari e la moglie Renzoni, il giudice inflisse otto
mesi a tutti e tre gli imputati, con i benefici di legge. Il quotidiano
anconetano riferì che gli avvocati si preparavano per l’appello, ma,
comunque sia andata questa vicenda processuale, su di essa intervenne
direttamente il Ministro dell’Interno, Oscar Luigi Scalfaro.
Arrivò infatti nel 1985, come detto, una risposta del futuro Presidente della
Repubblica8. Qui appaiono singolari sia la durezza del Ministro sulla
violazione di quel segreto militare, sia il fatto che la pena sarebbe stata
cancellata dal casellario giudiziario dei tre. Pare di capire che, se pure si
fosse riuscito ad avere la fedina penale dei tre ecologisti, non si sarebbe
comunque trovato nulla del processo. Lo stesso valga per i quotidiani: non si
sarebbe trovato nulla di questa vicenda eccetto su quelli marchigiani e, come
abbiamo visto, La Stampa.
Serve a questo punto un ulteriore approfondimento. La storia dice che nel
1993 Oscar Luigi Scalfaro, divenuto Presidente della Repubblica, fu
indagato per dei soldi ricevuti dal Sisde. Fondi neri distribuiti ovunque dai
8
Ibidem.
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servizi deviati, anche a San Marino. Riccardo Malpica, direttore dei servizi
posto agli arresti, raccontò che 100 milioni di vecchie lire erano destinati
ogni mese proprio ai Ministri dell’Interno. Affermò anche che Mancino e
Scalfaro gli volevano imporre di mentire. Oscar Luigi Scalfaro rispose a tutti
con il suo “Non ci sto” in un discorso televisivo a reti unificate, ma
quell’inchiesta poi risoltasi a favore dell’ex presidente non ha del tutto
convinto, a leggere Wikipedia. Inoltre questa prova che l’allora Ministro
dell’Interno intervenne nella vicenda del Monte Conero riapre
inevitabilmente la questione, non tanto sulla vicenda personale dell’ex
presidente appena deceduto, quanto sul ruolo dei Ministri dell’Interno.
Dietro l’occultamento di segreti militari nel Monte Conero ci sono i servizi
segreti deviati?
L’ex ministro Scalfaro il 25 febbraio 1985 cercava, a mio avviso non
riuscendovi, di conciliare le due vicende così diverse della battaglia
naturalistica per il parco e la presenza di tunnel segreti della Marina
Militare:
“Il 31 gennaio 1980 fu presentato un disegno di legge di iniziativa popolare
al consiglio regionale delle Marche per la Costituzione del Parco del
Conero, area di grande interesse naturalistico posta a sud di Ancona. Il
disegno di legge, assegnato per il preventivo esame alla commissione
competente, non è stato discusso in consiglio, dove, invece, è stata votata
una mozione a favore del progetto. In merito ai fatti indicati
dall’interrogante si deve rilevare preliminarmente che l’area occupata dalla
Marina Militare, di limitata estensione, non compromette l’utilizzazione, da
parte della popolazione, del comprensorio del Monte Conero, assai
frequentato da cacciatori e gitanti.
L’arresto delle persone indicate, avvenuto il 14 gennaio 1984, a seguito di
ordine di cattura dalla procura della Repubblica di Ancona, è stato eseguito
con l’accusa di procacciamento di notizie concernenti la sicurezza dello
Stato. E in effetti è stato accertato che tali persone – impiegate presso la
locale procura della Repubblica – da tempo cercavano di procurarsi dettagli
di alcune opere militari esistenti sul Monte Conero, tanto che al momento
dell’arresto vennero trovati in possesso di schizzi planimetrici di opere
protette da segreto militare. Uno dei tre, Gianfranco Guanti, al momento
dell’arresto avrebbe effettivamente dichiarato che notizie e planimetrie
raccolte erano destinate soltanto alla pubblicazione di un articolo sulla
rivista locale, a carattere ecologico, il “Pungitopo”. Nel mese di giugno
1984 la corte d’assise di Ancona ha però condannato le tre persone indicate
a otto mesi di reclusione, con il beneficio della non menzione nel casellario
44
Scavando alla ricerca di altre notizie riguardanti la base del Conero, noto con
piacere che i racconti online sono sempre più numerosi. Sono state aggiunte
su altri blog delle testimonianze recenti, e ho trovato persino un documento
del Ministero della Difesa, in cui si parla di un bando per dei lavori di
ingegneria da effettuare al Centro Nodale TLC Interforze del Monte Conero.
La scadenza era prevista per ottobre 2009, ma a noi questo non interessa.
Quello che appare probabile è che possa esserci qualcosa di molto
importante da quelle parti, basti pensare che un’altra base Interforze è attiva
a Perdasdefogu, in Sardegna, dove fino al 2005 venivano testati i missili
Hercules. In terra sarda la magistratura ha deciso di vederci più chiaro. Ma
anche noi ora abbiamo alcuni misteriosi articoli sui tre ecologisti del 1984,
che diventano una traccia preziosa per creare un ponte tra la situazione di 30
anni fa e quella di oggi.
"Procacciamento di dati riguardanti la sicurezza dello Stato", questa era la
terribile accusa con cui un giudice metteva in carcere, secondo La Stampa,
tre anconetani il 18 gennaio 1984; tra cui due funzionari della Procura della
Repubblica, uno dei quali collaboratore del periodico ecologista "Il
Pungitopo", e un operaio che 15 anni prima aveva lavorato all'interno del
Monte Conero. La loro colpa era di aver tentato di ricostruire con una mappa
le postazioni militari della Base del Monte Conero. Si ipotizzò anche lo
spionaggio e per i reati che vi ho menzionato si parlava di tre o anche dieci
anni di reclusione.
Erano i tempi della Guerra Fredda, ma allora come oggi c'erano pacifisti ed
ecologisti che, impegnati a difendere il patrimonio faunistico del Monte
Conero, cercavano di reperire informazioni lì sul posto per capire cosa si
celava dietro la voce della base militare sotterranea. I tre anconetani,
l'articolista Ermete Grifoni de La Stampa scriveva, "erano animati dal
proposito di rendere pubblico che nelle viscere del promontorio del Conero,
alle spalle di Ancona, ci sono installazioni militari. Il che non è una notizia
nuova - precisava il giornalista - anche se nessuno può documentarla con
una mappa esatta, coperta dal segreto militare".
Nell'articolo si svelava anche il particolare che i carabinieri avrebbero fatto
irruzione nella casa degli indagati proprio mentre disegnavano tale mappa.
Un caso veramente incredibile. I tre si presero alcuni mesi di reclusione in
45
svolsero tra gennaio e maggio 1984, e forse anche oltre. Fu un vero giallo,
un rompicapo in cui tutti, a distanza di 28 anni, diventano potenziali
colpevoli o potenziali innocenti: giornalisti, carabinieri, magistrati,
ecologisti, abitanti di Ancona. Tante persone sapevano e poi hanno taciuto
agli anconetani più giovani la presenza della base.
Tutti "anche i bambini" sapevano che il Monte Conero "è una sorta di
groviera". La frase la pronunciò un mio collega dell’importante quotidiano
per il quale ho lavorato, il nerista più esperto, al quale addirittura queste
parole possono aver creato dei problemi. La collina del Rosso Conero è
bucata come una groviera? La zona più amata dai turisti stranieri, la perla
dell'Adriatico, la zona in cui nel 1987 è nato il Parco Naturale? La stessa
zona per di più considerata a rischio per delle frane? Ma allora sembra che
questi problemi fossero superflui, come ridicole appaiono leggendo i
giornali le battaglie degli ecologisti. Giornalisti si schierarono contro altri
giornalisti. Anche questo è importante sottolinearlo. I giornalisti dei due
grandi quotidiani si scagliarono con durezza contro i piccoli giornalisti del
"Pungitopo", il giornaletto dei Verdi che cercava notizie sul Monte Conero.
Bisogna rimettere indietro le lancette, come al solito, e cercare di entrare
nella vita dei primi anni '80. C'era ancora il rischio di una guerra nucleare9, il
mondo era diviso a metà e lo spionaggio era una guerra nella guerra, con il
fine di carpire quei segreti militari che assicuravano un precario equilibrio.
Anche i mezzi di informazione erano diversi da quelli di oggi. Si parlava il
meno possibile della crisi e dei debiti dello Stato, o si cercava di nascondere
tutto nel "politichese". Ero un bambino della quinta elementare nel 1984 e
vivevo a Roma. Ma ricordo un clima di grande protezione da parte della
politica, del presidente della Repubblica, che andammo a trovare in visita al
Quirinale con la scuola, e penso anche degli organi militari. La sovranità
nazionale era a mio avviso una grande sicurezza. Anche il Patto Atlantico
penso che lo fosse. Oggi non è più così. La Casta si fa sentire anche nelle
notizie, che non capiamo perché non ci appartengono, non appartengono agli
italiani, come non ci appartengono questi personaggi che entrano
all'improvviso nella cronaca e poi svaniscono quando non servono più.
Nel 1984 comunque si andava in vacanza come oggi. C'era Sirolo, come
c'era Numana. Ma gli anconetani sapevano che quel monte faceva paura. Un
articolo del Resto del Carlino, a firma di Paolo Marconi, spiegava allora
come era nato il mito, in negativo, del Monte Conero. Una collina su cui
9
La “distensione” iniziò con il famoso incontro Regan-Gorbachev, i due capi di Stato di Usa e
URSS, noto come il vertice di Reykjavík dell’11 ottobre 1986.
47
bensì di illustrazione di una zona nota solo per le sue "installazioni" militari.
Come si vede è una storia molto più complicata di quanto sembri
all'apparenza. Si potrebbe ridere di questa favoletta, completamente avulsa
dalla storia del Monte Conero, o dalla storia delle battaglie politiche per il
parco che partirono negli anni '60, e anche estranea alla storia del turismo
della Riviera del Conero. Un episodio piccolo piccolo, ma forte come uno
schiaffo. E non è finita. Come accennato, dal racconto di Bruno Nicoletti del
Corriere Adriatico sembra di intuire che nell'interrogatorio molto estenuante
dei carabinieri, effettuato quando il 16 gennaio i tre vennero arrestati,
Gianfranco Guanti rispose di non essere un esperto di missili. Apriti cielo! E
cosa gli avevano chiesto i carabinieri? Se stava lavorando a un progetto sui
missili? Oppure se si aggirava nella zona del Monte Conero per studiare i
missili che, nel caso, sarebbero stati custoditi nelle cavità del monte? Sono
ipotesi tutt'altro che campate per aria, se solo si pensa che nelle loro indagini
i carabinieri della caserma di via Piave ad Ancona stavano anche cercando
delle ricetrasmittenti con cui le presunte spie si sarebbero tenute in contatto
tra di loro. Ricetrasmittenti di cui Craxi parlerà nel processo Enimont
riferendosi alla rete di spie del KGB che si annidavano in Italia.
Ricetrasmittenti che, posso testimoniarlo, effettivamente ad Ancona esistono
nelle redazioni dei quotidiani locali, giustificate con il fatto che si tratta di un
contatto legale tra le forze di polizia e chi deve occuparsi di cronaca nera.
Mio malgrado sono quindi diventato protagonista di un fatto di cronaca, cosa
che mai dovrebbe accadere. Il procuratore Di Filippo era pure un conoscente
della mia famiglia. Ricordo un fatto con precisione. Quando mio papà si
ammalò e si ricoverò, nell’estate del 200410, sono sicuro che mia mamma
disse che all’ospedale era andato a trovarlo il procuratore Di Filippo. Molto
probabilmente fu un lapsus. In seguito ho scoperto che il procuratore sarebbe
morto da tanti anni. Scrissi di lui anche quando raccontai la storia di Pepita,
che si era persa sul Conero nel 1981. Indovinate chi andò ad indagare...
Proprio Di Filippo, l’amico di papà.
Inoltre Alfredo Mattei è stato il mio vice-caporedattore nel periodo in cui ho
lavorato come giornalista ad Ancona e conosco la sua vicenda personale che
non posso riferire per motivi di privacy. Bruno Nicoletti è stato esponente di
quel Sigim che, pur essendo un loro iscritto, non ha approfondito come
10
Mio padre è morto nell’ottobre del 2009 dopo una malattia assurda. Gli diagnosticarono
all’ospedale di Torrette un idrocefalo. Gli aprirono il cranio per inserirgli una valvola, ma uscì
dal ricovero in condizioni mentali disastrose. Non si è più ripreso. Era un amante della
montagna, ma non è mai voluto salire sul Conero.
50
avesse millantato conoscenze con Andropov che non aveva. Morì a causa di
un'ischemia cerebrale, nel 1988, e secondo Repubblica si portò nella tomba i
suoi segreti.
Rositzke, che era una spia della Cia, in realtà affermava anni prima che
Rinaldi era stato fin dal 1956 una spia del KGB, con una rete spionistica che
copriva molti territori, anche esteri, e sottolineava che il suo ruolo specifico
era quello di trafugare segreti militari delle basi Nato in Italia. Il quotidiano
tedesco Der Spiegel aggiungeva fin dal 1967 che la spia operava sulle basi
Nato del nord Italia, specialmente su Aviano (e non Avola), in Friuli.
Un altro articolo del 1971, de L'Europeo, legava questa spia e i suoi segreti
alla morte in aereo dell'imprenditore di Pordenone, Zanussi. Legame ancor
più evidente se si pensa che Aviano non è distante da Pordenone. La tragica
fine di Zanussi avvenne dopo un colloquio in carcere tra Rinaldi, la spia del
KGB, e il colonnello Rocca, alias Pino Renzi, un alto membro del
controspionaggio italiano noto per aver scoperto la schedatura da parte del
Sid di 157mila italiani (un metodo, tra l'altro, tipico del KGB). Rocca/Renzi
chiese a Rinaldi la lista completa di nomi dei suoi agenti filo-russi e tra
questi pare vi fosse un uomo che morì nell'aereo di Zanussi, Talotti. Pochi
giorni dopo, quindi, morì "suicidato" anche il colonnello Rocca/Renzi.
Questa storia può portare a chiarire altri misteri, come la morte di Enrico
Mattei, sempre in aereo e sempre per un guasto all'altimetro come Zanussi, e
alle bombe della "Strategia della Tensione". Ma mancano ancora dei pezzi
del puzzle.
Secondo Rositzke, alla fine degli anni '60 furono espulsi dall'Italia due
"funzionari del KGB": chi erano? Sempre in questo libro Rinaldi veniva
definito "uno degli agenti più originali che i sovietici abbiano mai impiegato
contro le installazioni Nato". E gli altri? E le centinaia di agenti e
informatori di cui disponeva Rinaldi nelle basi Nato italiane? Che fine hanno
fatto? Come si vede non si può leggere niente, sulla storia contemporanea
dal 1922 in poi, che non porti a riflessioni sulla vera storia d'Italia.
A questo punto resto molto scettico anche sul dossier Mitrokhin, sicuramente
da rileggere confrontando la nomenclatura italiana emersa nel 1999 con il
modus operandi del KGB, descritto bene da Rositzke. Io credo che siano
stati forniti alla stampa solo i nomi più scontati che si potessero fare, cioè gli
agenti "legali" del KGB operanti sul territorio italiano. E non le spie illegali,
che rappresentavano e rappresenterebbero il piatto più gustoso da leggere.
Lino Zanussi era nel mirino della contestazione operaia quando cadde con il
suo aereo in Spagna. Il 9 marzo del 1968, solo tre mesi prima della tragedia,
sul quotidiano L'Unità si parlò di sfruttamento dei lavoratori. Al centro della
contestazione, in quell'anno così carico di proteste dei movimenti della
sinistra, c'era la Zanussi, un'azienda di Pordenone considerata in grande
crescita in tutta Europa. Crescita che, a leggere l'articolo di Ugo Baduel,
avveniva sulla pelle degli operai, costretti a dei turni di lavoro lunghissimi e
in un ambiente aziendale insalubre.
Gli stipendi? Le cifre che venivano fornite erano sconfortanti: un operaio
guadagnava mediamente 65mila lire al mese, lavorando su turni massacranti,
senza nemmeno la possibilità di andare a fare la pipì. Scriveva Baduel: "Una
<linea> conta settanta operai e circa cento operazioni: a ognuno la sua
parcella di operazioni sempre uguale. E' previsto un <soccorritore> o
sostituto ogni 33 operai (il 3 per cento)." Il che voleva dire che non ci si
poteva allontanare mai dal posto assegnato. "Che cosa può fare un sostituto
con 33 operai?" - si domadava il giornalista dell'Unità. Sono parole che a
distanza di ben 47 anni mi hanno colpito. E' passato quasi mezzo secolo ma
le cose non sono cambiate, segno che la recente crisi economica, ma anche
la crisi di valori nella sinistra, hanno riportato le lancette indietro di tanti
anni.
Zanussi morì esattamente il 18 giugno del 1968 in un incidente aereo,
mentre si trasferiva in Spagna insieme ad altri dirigenti della sua azienda.
Delle preziose testimonianze su questa tragedia le troviamo sul quotidiano
spagnolo ABC, perché sui nostri giornali non è che le notizie fossero così
dettagliate. Il 20 giugno a pagina 79 ABC riportava il numero esatto delle
vittime, che erano sei: Lino Zanussi (48 anni), Juan Bautista Talotti (48 anni),
Diego Hurtado De Mendoza (32 anni), Alcio De Ivora (43 anni), e i due
piloti: Albertazzi e il co-pilota Milic. L'aereo, un bimotore della Piaggio
ancora in fase di prova, era partito dall'aeroporto di Barajas alle 16.20, in
ritardo a causa delle condizioni meteo, e si dirigeva verso quello di
Fuenterrabia di Bilbao, verso il mare. Il tempo come detto era pessimo, con
pioggia e nebbia. Giunto in prossimità delle alture di Hendaya, nei Pirenei, il
pilota Albertazzi disse alla torre di controllo di voler scendere a un'altezza di
500 piedi, verso la pista 23. L'ultimo messaggio del pilota fu lanciato quando
si trovava a 5.010 piedi. A questo punto il bimotore si andò misteriosamente
a schiantare contro il monte Jaizquibel. E' strano perché sembra di capire che
Albertazzi sapesse di essere sopra i Pirenei. Vi fu un guasto all'altimetro? O
fu proprio manomesso? I testimoni parlarono di un'esplosione. I loro nomi
sono: Narciso Lizano, che vide la tragedia e disse al figlio, Juan José, di
54
Marco Biagi chiedeva aiuto alle istituzioni, ma non lo ottenne. E' quanto
emerge da un documento del Copasir del 19 luglio 2002, nel quale il
Comitato esponeva le sue conclusioni sulla vicenda della morte del
giuslavorista Marco Biagi.
Il collaboratore del Ministero del Welfare venne ucciso a Bologna il 19
marzo 2002 e l'attentato fu rivendicato, si legge nel foglio redatto su carta
intestata della Camera e del Senato, da "gruppi del terrorismo rosso", come
ben sappiamo. L'elemento che colpisce è che Biagi chiese aiutò "con più
missive inviate alla questura e alla prefettura della sua città". Questo
avvenne dopo la revoca della scorta decisa il 3 ottobre 2001, il cui iter però
partì l'8 giugno 2001.
Il Comitato, quindi, escludeva che sulla vicenda vi fossero delle
responsabilità del Ministero dell'Interno. Piuttosto, concludeva che a privare
Biagi della protezione furono un eccesso di burocrazia e la necessità di
mantenere un buon numero di poliziotti sul fronte della lotta al terrorismo
islamico. Il Copasir arrivava a queste affermazioni dopo aver effettuato
un'audizione del prefetto Sorge, che fu l'autore di quell’indagine sulla scorta
di Biagi, che venne in parte pubblicata sui giornali. La fuga di notizie,
nell'ottica del Copasir, costituì un altro inceppamento del sistema di
sicurezza italiano. Più volte nella sua relazione questo organo di controllo
dei servizi segreti faceva riferimento alla fitta rete di "dipartimenti" che sono
stati creati per garantire la sicurezza delle autorità. Dipartimenti e procedure
che al cittadino comune sono completamente ignoti.
Biagi, dunque, chiese aiuto e non fu ascoltato. Ma lo fece soprattutto in
seguito a un evento che ha attirato la mia attenzione. Nell'ultimo periodo
stava collaborando con una ditta privata, la Electrolux-Zanussi, la quale non
55
Cordovado è stata chiusa più o meno nello stesso periodo, visto che la
notizia è stata data il 22 gennaio del 2010 dal Messaggero Veneto, mentre
poche notizie si trovano a una rapida ricerca sulle basi di Montichiari, nel
bresciano, e di Bagnoli, sempre in Veneto. Infine sulla base di Monte Venda,
sui Colli Euganei, è stata aperta un'inchiesta per l'amianto presente
all'interno del tunnel dove lavoravano i militari dell'aeronautica, i quali
pertanto, secondo l'accusa, si sarebbero ammalati di cancro e alcuni di loro
sarebbero deceduti.
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Che sulla storia delle Brigate Rosse ci sia ancora molto da scrivere lo
dimostra il vuoto di notizie sul generale dei carabinieri ucciso nel
Capodanno 1980-81.
Con tutti i rotocalchi di attualità che abbiamo a disposizione oggi sulla
nostra tv di Stato, sui canali privati di Mediaset e sui tanti canali digitali e
nei quotidiani online, personalmente, da giornalista esperto in storia
contemporanea resto sconcertato nell'apprendere per caso, consultando come
spesso faccio gli archivi online esteri, della morte del generale dei
carabinieri e capo dell'Antiterrorismo in Italia, Enrico Calvaligi.
Chi è mai costui? mi sono chiesto. Il New York Times martedì primo
gennaio 1981 scriveva, a proposito del suo efferato omicidio: "Italian
antiterrorist general is shot and killed in Rome". Tale era il titolo del
quotidiano americano.
Calvaligi era il braccio destro del generale Dalla Chiesa, morto come
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Calvaligi un anno dopo circa, ma a quanto pare molto più conosciuto, visto
che su Dalla Chiesa sono stati fatti anche dei film. E dire che fu un attentato
con una chiara rivendicazione. A quanto pare, l’omicidio del capo
dell’Antiterrorismo fu una risposta delle Brigate Rosse a una contemporanea
operazione dei carabinieri nel carcere di Trani. Enrico Calvaligi, secondo
Giuseppe Meroni, articolista del quotidiano svizzero Libera Stampa, era
responsabile del coordinamento dei servizi di sicurezza degli istituti di
prevenzione e pena. Fu ucciso con sei colpi alla testa nel giorno dell'ultimo
dell'anno, mentre tutti festeggiavano l'avvento del 1981. Racconta Meroni
che Calvaligi e la moglie stavano rientrando a casa a Roma in via Gerolamo
Segato nel quartiere Ardeatino, dopo aver assistito alla Messa. Non ebbero il
tempo di festeggiare il nuovo anno, perché due giovani attirarono il generale
in un agguato con l'inganno: gli consegnarono un pacco dono, e mentre lui
preparava la mancia estrassero le armi e fecero fuoco. Per Libera Stampa
furono tre i colpi mortali, per El Pais Espana furono ben sei. Il generale
Calvaligi aveva 61 anni. Secondo Meroni i due giovani delle Brigate Rosse
si allontanarono con una 128 Fiat verde che poi venne abbandonata.
Sembra, sempre leggendo il giornale svizzero, che il nome del generale
Calvaligi non fosse noto a nessuno se non agli inquirenti, ma che sarebbe
sfuggito ad un magistrato durante un "interrogatorio" delle Brigate Rosse, il
magistrato Giovanni D'Urso, rapito proprio in quel periodo dai terroristi. In
seguito, il 24 giugno del 1983 Libera Stampa pubblicò un altro articolo in
cui raccontava dell'arresto del brigatista Pietro Vanzi, 27 anni all'epoca dei
fatti, mentre era in una strada del quartiere Prati a Roma. Al Vanzi era stata
trovata addosso una pistola con i sigilli della Confederazione Elvetica,
perché, e così recitava il catenaccio del giornale, la pistola era in dotazione
all'esercito svizzero. Vanzi, scriveva Libera Stampa, lavorava per l'editore
Feltrinelli, e per i carabinieri poteva essere responsabile, tra i vari delitti,
anche della morte di Enrico Calvaligi.
Fin qui il fatto nudo e crudo secondo i giornali esteri, che erano molto
documentati. Potremmo essere soddisfatti se non fosse che nei database
italiani dei due giornali, i quali mettono a disposizione, su internet, i propri
archivi, parlo di La Stampa e L'Unità, il nome di Enrico Calvaligi non
compare. E se compare, su L'Unità ciò avviene, non nel 1981, ma il 10
marzo 1955, nell'ambito di un articolo su un'aggressione dei fascisti alla sede
del PCI a Roma. Calvaligi era intervenuto insieme alle forze della Polizia
per constatare i fatti.
Insomma, Calvaligi non compare da nessuna parte, e se si cerca su Google il
suo nome i risultati sono solo quelli dei giornali esteri, più alcune vie
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intitolate al generale, e poco altro. Cosa c'era in questa storia che non poteva
essere raccontata, tanto da censurare, e mi riferisco qui solo a La Stampa e
L'Unità (ma non è poco), persino la notizia del suo omicidio nel gennaio
1981?
La risposta è sorprendente: il fatto non era per niente stato censurato, ma era
uscito un po’ ovunque. Tuttavia il nome del generale che era stato pubblicato
sui quotidiani italiani era diverso da quello dei quotidiani esteri. Così il
generale Calvaligi sui quotidiani italiani era diventato il generale Galvaligi.
O viceversa. Perché: qual era il nome giusto? Sono andato a cercare le prime
pagine di La Stampa e L'Unità. La Stampa apriva con l'attentato il 2 gennaio,
il primo gennaio il quotidiano non usciva. Il titolo spiegava che questo
generale stava collaborando con il giudice D'Urso, che era stato rapito dalle
BR. Quindi, Stampa Sera usciva con le indagini e spiegava come gli
inquirenti fossero riusciti a ricostruire i volti dei due attentatori. C’erano la
biografia del generale morto, e via via molti altri articoli sulle indagini.
Ovviamente cercando "Galvaligi" emergono molti più articoli anche su
L'Unità e pure su La Provincia di Pavia. Si tratta di un fatto che è stato poco
studiato, tant'è che del generale Galvaligi parla anche Gilberto Mastromatteo
nella sua tesi di laurea del 2004 diventata un libro: "Quando i media
staccano la spina". Mastromatteo è un giovane giornalista di Ancona che ha
collaborato con Il Corriere Adriatico e l'ho conosciuto in quanto partecipava
insieme a me alle riunioni del Sigim, il sindacato marchigiano dei giornalisti.
Nel suo libro incentrato sul sequestro D'Urso il giornalista Mastromatteo cita
solo in un paio di pagine il generale Galvaligi, chiamandolo appunto
generale dei carabinieri e associando al suo nome solo il ruolo di
responsabile della sicurezza nelle carceri. Un piccolo errore che tutti
avrebbero commesso senza leggere i quotidiani esteri. Dando una rapida
occhiata ai quotidiani già menzionati, Galvaligi, oltre ad essere chiamato con
la G iniziale, emerge nel “coccodrillo” delle varie redazioni italiane come un
generale dei carabinieri esperto di sicurezza nelle carceri. Se si era occupato
di terrorismo, ciò era avvenuto quando era stato braccio destro del generale
Dalla Chiesa o, appunto, perché riceveva rapporti su tutte le carceri più
pericolose d'Italia. E' proprio qui il punto. Per il New York Times quella
notte di Capodanno tra il 1980 e il 1981 non morì un personaggio di secondo
piano bensì il capo dell'Anti-terrorismo nel nord Italia. E morì un certo
generale Enrico Calvaligi, che a Jesi ha dato persino il nome a una via in cui
abitano delle persone.
Bruno Vespa nel suo libro, pubblicato nel 2004, dal titolo: “Storia d’Italia da
Mussolini a Berlusconi”, ha raccontato un dettaglio inedito. Galvaligi, ormai
61
11
Questa annotazione su Galvaligi non è presente nel documento e resta il dubbio sul nome del
generale: Calvaligi o Galvaligi?
63
invisibile per tutti, tranne che per i servizi, e una magistratura inconsistente.
Speriamo che questo libro possa rompere il muro di omertà che c'è nello
Stato.
E' quanto emerge dopo la morte di Fabrizio Trecca, che si è spento pochi
giorni fa a 74 anni. Era medico, conduttore televisivo, ma soprattutto, come
ha sottolineato Il fatto quotidiano, un importante membro della Loggia P2 di
Licio Gelli. Trecca è stato inoltre uno scrittore di film per la televisione.
Uno in particolare, Gamma, è sconcertante. Trecca lo ha scritto alla metà
degli anni '70, ambientandolo nel futuro. In questa pellicola vi sono forse i
segreti della mentalità criminale della Loggia P2? Il film racconta la vita di
Jean Delafoy, un uomo che, dopo un incidente d'auto, sarebbe certamente
morto se il professor Duval non lo avesse sottoposto al primo trapianto di
cervello della storia. In un'atmosfera non tanto diversa da quella più famosa
di Ufo Shado, Trecca immaginava un mondo in cui il cervello sarebbe stato
un organo da poter trapiantare senza rischi, ma anche da poter manipolare
facilmente. Jean Delafoy dopo la sua operazione torna alla vita cambiato, e
uccide una donna, senza saperne il motivo.
Scenari paranormali? Fantasie sulla sopravvivenza dell'anima? Trecca non
credeva in niente di ciò. Il futuro era per lui un luogo in cui avrebbe dovuto
vincere la scienza, con i suoi esperimenti, e la giustizia, con il controllo del
pensiero durante gli interrogatori. Una perfetta macchina giudiziaria, capace
di condannare in modo inequivocabile. Ma anche di fermarsi di fronte a un
errore evidente, oppure alla bravura degli avvocati. Nessun pentimento
avrebbe alleviato la condanna, ma solo una strenua negazione della
colpevolezza. Jean Delafoy viene salvato dal procuratore mentre la
ghigliottina sta per giustiziarlo per l'omicidio di quella donna che non
conosceva. Aveva solo subito un lavaggio del cervello durante la
rieducazione, che aveva mandato in fumo la perfetta operazione del
professor Duval.
Rivedere queste scene mette paura e pone degli interrogativi. La loggia P2 di
Trecca, ed è un fatto accertato, credeva nel controllo dell'informazione. Ma a
questo punto viene da chiedersi se ciò servisse davvero per una propaganda
di tipo fascista, oppure per applicare le teorie sul controllo del cervello di cui
parla il film. Queste teorie recentemente sono emerse a margine delle
inchieste per il delitto di Melania Rea, nelle ipotesi del magistrato Paolo
Ferraro. Ma anche i processi sono al centro del dibattito sulle riforme della
64
12
Sembra che Alberto Torregiani, il figlio dell’orefice ucciso nel 1979 che spesso viene
intervistato dalle tv nazionali, viva a Novara, lavori come programmatore informatico e sia
iscritto al partito dei Fratelli d’Italia. E’ quanto si apprende cercandolo su Facebook.
65
anni, che non c'entrava niente, Andrea Campagna. I "Proletari armati per il
comunismo" lo videro in televisione associato al delitto Torregiani e lo
uccisero con freddezza. Stava per sposarsi e cercava casa con la futura
moglie.
Questo fatto mi lascia molto perplesso, pensando alle immagini della
televisione di oggi. I volti di carabinieri e polizia sono visibili e associabili a
ogni pericolosa operazione anti-mafia. Ma lasciamo perdere questi cattivi
pensieri. In quel 1979 non si era ancora usciti dagli anni di piombo, dalle
sparatorie per strada e dalle pistole usate con troppa disinvoltura dai cittadini.
Tra polizia e brigatisti era guerra aperta. Quello che non si capì mai era cosa
c'entrasse con le Brigate Rosse questo orefice di Milano, la cui colpa era
solo quella di girare armato per paura di ritorsioni della malavita. La sua
reazione alla rapina del gennaio '79 e l'uccisione di Daidone lo avevano reso
un possibile bersaglio. Pare che il giorno dell'agguato usasse un giubbotto
antiproiettile e che riuscì ad estrarre la pistola proprio per questo. Ma fu un
gesto che non gli salvò la vita, perché gli assassini mirarono alla testa.
Avete visto cosa è successo? Che abbiamo perso di vista Cesare Battisti. Lui
infatti fu arrestato solo a giugno del 1979, in una retata che seguì l'omicidio
di Andrea Campagna. Lo trovarono insieme ad altri componenti di quella
banda di sinistra, che nei primi giorni dopo l'omicidio Torregiani era riuscita
a cavarsela con gli alibi e le accuse alla polizia. Cesare Battisti era all'epoca
un personaggio del tutto marginale. Perché oggi non è più così? E' diventato
un "eroe" solo per la sua fuga avventurosa dal carcere nel 1981? C'è un altro
particolare che deve far riflettere. Il 28 marzo del 1979 l'avvocato di un
brigatista coinvolto nel processo Feltrinelli paragonò il suo assistito, Giorgio
Semeria, a Cesare Battisti, ma facendo chiari riferimenti alla storia del
Risorgimento. Nell'articolo di Alfredo Venturi de La Stampa disse: "Cesare
Battisti era considerato un eroe al di qua del Piave, un traditore dall'altra
parte." Ma Cesare Battisti doveva essere già noto nell'ambiente malavitoso,
quindi perché fare proprio quel nome?
Il 2 febbraio del 1980 arrivò poi una confessione che complicava
ulteriormente le cose. Un 23enne W. A. confessò, e subito ritrattò, di aver
preso parte, insieme ai suoi compagni di "Autonomia operaia", sia
all'omicidio Torregiani, sia a quello del giudice Alessandrini, del quale nello
stesso anno fu incolpato Roberto Sandalo di Prima Linea. Ma una lettera
trovata dagli inquirenti dimostrava che la confessione di W. A. era
attendibile. Cosa c'entrava il delitto Alessandrini con la morte del povero
orefice di Milano? C'era una connessione tra mafia e Brigate Rosse che non
si volle far emergere? Il processo contro Cesare Battisti prese il via il 12
67
febbraio del 1981, con 23 imputati, molti dei quali erano gli stessi dei primi
arresti della Digos. Le denunce per le violenze in caserma furono tutte
archiviate dalla Magistratura.
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GUANTI BIS
C'è chi nei forum del web lo considera un profeta, chi un ragazzo senza
lavoro abbandonato dalla moglie, e chi lo segue per i video anche esilaranti.
Di sicuro Matteo Montesi è il nuovo fenomeno della rete e viene dalla
provincia di Ancona. Ha racimolato in poco tempo oltre 24mila iscritti nel
suo canale di Youtube, e raccoglie decine di migliaia di visualizzazioni per
ogni video, degli oltre 1100 che ha caricato. Ne ho visti diversi e non so
nemmeno io se paragonarlo al professor Tonelli, della defunta longariniana
Galassia TV, oppure all'Ottusangolo del più noto Canale 5.
Ci sono tante parolacce in questi video, volgarità e saluti al Duce che doveva
evitare di accostare alla religione, ma ritengo che Montesi possa essere un
ragazzo che dice quello che pensa. Mi sembra di capire che cerchi di
veicolare, molto liberamente, spinto dalla rabbia e dalla scarsa solidarietà
delle imprese locali, dei contenuti cattolici. Racconta la sua vita di tutti i
giorni: dal pneumatico della macchina che si buca, alla gita sul Conero, fino
alla recitazione del rosario per oltre trenta minuti al cimitero. Una cosa che
mi inquieta è la sua grande dimestichezza con la telecamera, questa sua
capacità di far vedere agli spettatori esattamente ciò che vuole. E' molto più
abile di una semplice persona che protesta contro i politici, e quindi capace
di portare il teleutente verso una visione fuorviante della società.
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Ci sono anche persone che lo aiutano nella creazione dei suoi contenuti,
quindi può trattarsi di un fenomeno costruito ad arte. Nel video che ho
messo in condivisione c'è forse la sua protesta meno volgare e più
condivisibile, quella per il lavoro perso per mano degli extracomunitari.
Forse Montesi non sa che questi ultimi sono anche più propensi ad accettare
condizioni di lavoro illegali. Non immagina, o non gli interessa, il fatto che i
sindacati da tempo abbandonano chi lavora a una trattativa impari e senza
regole, ma ha capito benissimo che della politica e dei sindaci, i suoi
possibili datori di lavoro, non c'è proprio da fidarsi.
Una risposta inviata da un utente del sito Nikemissile, accessibile solo agli
iscritti di questo forum, conferma quanto avevo già anticipato. Nel Monte
Conero è stata svolta dai militari un'attività di monitoraggio radar, simile a
quella di cui ha parlato l'emittente Tv7 a proposito del Monte Venda, vicino
Padova. La differenza tra le due basi consisterebbe, a mio avviso, nel fatto
che probabilmente la base del monte Conero ha ancora un'utilità nell'ambito
del progetto Echelon, visto che l'utente di internet parla di un collegamento
con Ponte Galeria.
“Si tratta di installazioni completamente diverse e separate. Quella in
località Poggio è un deposito munizioni in sede protetta della Marina
Militare che prende il nome dalla stessa località. Il 3° DAI, che vuol dire
appunto Distaccamento Autonomo Interforze, è una delle stazioni
periferiche del CII (Centro Intelligence Interforze) di Ponte Galeria a Roma.
Il compito è quello di intercettare e registrare comunicazioni radio e radar
prevalentemente. Il CII nasce a seguito dell'unificazione dei Sios di forza
armata in un'unica struttura dipendente dal II reparto di Stamadifesa. Prima
di diventare 3° DAI, la stazione del Monte Conero dipendeva dallo SMM e
ancora oggi credo sia gestita da personale della Marina Militare. Buona
parte dei centri periferici del CII sono in effetti ex stazioni MM, come lo era
lo stesso CII già noto come Centro 057 prima dell'unificazione dei servizi.
Dei tre centri dell'Esercito dipendenti dall'8° Battaglione ricerca elettronica
di Anzio due non sono più in vita e così meno della metà delle Squadriglie e
Sezioni AES (Analisi ed elaborazioni speciali) dell'Aeronautica (ne restano
in attività tre, credo)”.13
Ricorderete che la citata Ponte Galeria è la sede del Centro Intelligence
Interforze, base romana dalla quale secondo il sito Gr.net verrebbero spiati
molti computer e telefoni privati.
"“Echelon” o strutture simili in Italia non esistono? Il cuore
dell’Intelligence fantasma – collegato a varie stazioni di ascolto distribuite
capillarmente nella Penisola – è mimetizzato all’interno di una caserma
dell’esercito nel territorio di Cerveteri in provincia di Roma. Un lungo
recinto e poi un muro protetto all’interno da un terrapieno, filo spinato e
telecamere difendono due palazzine basse, una decina fra antenne
paraboliche – in collegamento col sistema satellitare Sicral – e alcune
13
Cfr: il sito Nikemissile.forumfree.it
71
14
Cfr: l’articolo: “Ris l’orecchio tecnologico dei servizi segreti italiani. Ecco il grande fratello
militare”, presente sul sito grnet.it.
72
Il giovane simpatico e un po' colorito di cui parlavo alcuni mesi fa, Matteo
Montesi, come molti sapranno per aver visto il suo video, il 10 ottobre 2014
è riuscito a documentare con immagini splendide la presenza della base
all'interno del Monte Conero (chi non lo ha visto lo cerchi online). In questi
mesi ho avuto modo di conoscere meglio questo videomaker e di dargli
anche dei consigli per migliorarsi.
Questo per dire che ora apprezzo di più il suo lavoro e trovo incredibile
quello che sta accadendo intorno alla vicenda del Conero. Matteo Montesi
15
In seguito un lettore mi ha spiegato che si tratta probabilmente di un pick-up.
73
oggi pare sia stato denunciato dai Carabinieri di Castelfidardo, e gli è stato
notificato con un documento che lui mi ha appena mandato via e-mail. A
prima vista mi pare più che altro il processo di Kafka, ossia nell'atto manca
totalmente l'accusa, mancano le indagini, mancano prove. C'è un processo,
lui ne è il colpevole unico e la Legione Carabinieri di Castelfidardo è partita
all'attacco, ma senza chiamare un magistrato.
Infatti a me pare che il documento sia privo della firma di un magistrato,
pertanto da quello che ho letto io, che pure sono ignorante in materia legale,
non ha valore. Anzi, mi convinco sempre di più che la vicenda del Conero
sia la chiave che apre molti segreti di questo Stato. I carabinieri si sono
preoccupati di punire severamente, e senza indagini, una persona che ha
svolto giustamente il suo lavoro di cronista, ma hanno chiuso tutti e due gli
occhi sulla gravità di quanto documentato dallo stesso Montesi e dai miei
post del blog.
Ricevo molti messaggi in questo periodo e molte persone segnalano cose che
si rivelano veritiere. Il vero nodo è che queste persone ritengono che i segreti
militari del Conero debbano prevalere sulle leggi civili, quindi anche,
evidentemente, sul parco naturale. Purtroppo per loro di ufficiale non c'è
nulla sulla base: non ci sono cartelli chiari, non c'è (e su questo ho la mia
parte di colpa) sui giornali alcuna notizia che renda la base del Conero un
elemento presente nella quotidianità della gente, non ci viene tramandata una
storia che sia attendibile. Ora questa presa di posizione rischia di aprire
proprio una guerra tra militari conniventi con situazioni clandestine, e la
base che Montesi mostra ha decisamente l'aria di esserlo, e civili inermi.
Speriamo che lo strappo venga ricucito senza che si scoprano altre trame
occulte degne più del generale De Lorenzo e del suo golpe piuttosto che di
una società tranquilla che vive di sole e di mare, ufficialmente.
Per quella legge giornalistica secondo cui una notizia muore quando
l'interesse del pubblico diminuisce, oggi continuo ad interessarmi del
caso-Montesi. Il giovane di Castelfidardo il 29 ottobre 2014 ha pubblicato
l'ennesimo video in cui risponde all'articolo uscito sul Corriere Adriatico. Si
tratta di un monologo di un'ora e un quarto su cui io non intendo esprimermi,
perché significherebbe seguire questo stucchevole botta e risposta tra
giornalisti che, insieme, stanno facendo una pessima informazione.
Sbucano come nel 1984 dal nulla dei bunker all'interno del Monte Conero,
una storia che, se era assurda prima, lo è ancora di più adesso. Non c'è una
74
storia di questa base, non c'è un solo intervento di un esperto che abbia il
coraggio di dire il suo parere su cos'è quello schifo. Non c'è niente. Al centro
dell'attenzione c'è solo Matteo Montesi con i due giovani del sito web Italian
Ghost. Si finirà inevitabilmente per parlare di questo, e si finirà per sbagliare.
Perché, difeso il video giornalistico, che avrei potuto fare anche io, se non
avessi letto sui vecchi quotidiani la storia del Monte Conero, ci sono due
cose da dire: una, e a Montesi l'ho detta direttamente, è che la legge afferma
che l'attività giornalistica la può svolgere solo ed esclusivamente chi è
iscritto a uno degli elenchi dell'albo dei giornalisti. Chi non lo è, deve
seguire il percorso che l'ordine richiede per iscriversi. Quindi entrare in una
redazione e pubblicare articoli sotto il controllo di professionisti e pubblicisti
che possano fare da tutor. Dopo due anni di pratica da collaboratore, pagata
dall'azienda e con ritenuta d'acconto versata allo Stato, si diventa pubblicisti.
Se invece si lavora in redazione, come dipendente, ci si può iscrivere come
praticanti per diventare, dopo due anni, professionisti; a patto che la
redazione contenga almeno tre professionisti e due pubblicisti. Queste erano
le regole nel 2000 quando mi informai per la prima volta. Mi pare che oggi
ci sia un esame da svolgere per tutti e due i percorsi che ho detto.
Montesi pubblicando su Youtube dei video si espone a rischi e pericoli,
soprattutto in questo periodo in cui l'informazione è minacciata da tanti
poteri forti; forze dell'ordine comprese. La seconda considerazione è che
Montesi, mentre lamenta il dramma di dover subire un processo penale, pur
sapendo, come gli ho detto, che il documento dei carabinieri che mi ha fatto
vedere è contestabile e illegale, pubblica oggi sulla sua pagina Facebook una
foto in cui appare chiaramente travestito da suora. Personalmente mi sento
offeso da questa foto e non accetto che lui mi scriva "che Dio ti benedica"
via e-mail. Perché sono stato per 10 anni a scuola dalle suore da bambino e
l'educazione, oltre che a casa dai miei, l'ho ricevuta da quelle persone
squisite, sensibili, attente, ma molto dure dal punto di vista disciplinare.
Insomma è stato fatto una gran casino in questa informazione, e il servizio di
ieri di Raidue sui 3 euro a pezzo dei giornalisti non giustifica questo andazzo,
nemmeno ammettendo che per 3 euro a pezzo non c'è più la qualità
dell'informazione. Basta chiacchiere sui giornalisti e parli solo la legge, a
questo punto.
Le cose che sono state pubblicate sul Corriere Adriatico riguardo al Monte
Conero sono molto gravi, e il seguito, che mi è stato letto per telefono ieri,
75
non cambia la situazione. A mio avviso la peggiora. Siamo tornati nel 1984 e
di nuovo spunta dal nulla una base di cui mai e poi mai la politica e la
stampa locale di Ancona parlano come tema di attualità, su questioni di
sicurezza specialmente. Il motivo è semplicissimo: il monte Conero è un
parco naturale dal 1987 e non può certo essere il Vietnam, se è vero, come è
vero, che ci sono cercatori di funghi, turisti in bicicletta, bagnanti a pochi
passi; e ci sono pure politici che vengono pagati molti quattrini per fare non
si sa che cosa nell'ente parco del Conero.
Questo è uno scandalo colossale, che per non avermi voluto ascoltare esce
sui giornali nel modo peggiore possibile. Ora cosa accadrà? Come andrà
quel processo di cui parla Montesi, il discutibile personaggio-santone che
attira moltissimi estimatori? E' un abilissimo comunicatore, ma volgare e,
ribadisco, costruito dal punto di vista mediatico da qualcuno, per scopi
tutt'altro che religiosi. E poi ci sono i militari. In molti mi hanno contattato,
prima per minacciarmi, poi per attirarmi sul monte Conero. Anche il cast di
Mistero ha cercato, in un fuori onda che mi auguro che la Magistratura
acquisisca, di istigarmi ad introdurmi nella base.
La questione più singolare di questa vicenda è che si sia inserita in questa
storia l'Aeronautica, nonostante i tunnel si fosse sempre detto che sono di
proprietà della Marina Militare. Aerei, d'altronde, lì non se ne vedono. Mio
nonno, quando nel 1968 era colonnello dell’Aeronautica, scrisse un libro,
sull'organizzazione a livello medico-legale dei distretti militari di leva. Il
diritto di cronaca mi impone, nonostante i 70 anni del segreto militare non
siano passati, di dire qualcosa. Per ora l'unico elemento significativo è che il
distretto di Ancona è direttamente collegato con quello di Forlì; anzi,
formano proprio un unico distretto. Guarda caso, sono stato contattato fino a
pochi giorni fa da un personaggio abbastanza strano che non ho mai voluto
incontrare, che si muove tra Forlì e il Conero. Mi invitava a fare delle
passeggiate sul monte, vicino alla base. Magari per fare la fine di Montesi,
ammesso che non sia tutta una montatura questa storia della denuncia.
Non è una bella situazione, mi pare un clima di congiura vergognoso dell'era
di Gladio. Esiste ancora questa falange armata della politica? Vedremo,
quello che è certo è che l'interessamento dell'Aeronautica non mi convince e
gli ho scritto anch'io per segnalare ciò che sto scrivendo. Forse si sta
giocando un po' troppo, e il mio nonno materno si starà rivoltando nella
tomba: non amava questa mancanza di serietà. Oggi è il 2 novembre e vorrei
ricordarlo pubblicando un suo ricordo. Quando da bambino ci portava, alla
domenica, all'aeroporto di Pratica di Mare mi ricordo che si mettevano tutti
sull'attenti. Mi auguro che almeno oggi qualcuno si ricordi di rispettarlo.
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16
L’Ade era per gli antichi l’aldilà. Nell’Eneide di Virgilio è famosa la discesa nell’Ade
dell’eroe Enea per incontrare il padre Anchise.
78
Non ho mai visto questo video della King Plast. Comunque esprimo
solidarietà al videomaker Matteo Montesi per quanto gli sta succedendo,
sperando che non si stia facendo pubblicità falsificando atti giudiziari. Certo,
la proprietà privata è inviolabile, però è altrettanto vero che, se ci sono
segnalazioni di problemi per i cittadini, il cronista deve poter svolgere la sua
professione. In parole povere: ubi maior minor cessat. Io a differenza di
Montesi, che fa una sua pseudo-informazione da solo e senza tutele, conosco
i giornalisti delle Marche e mi sento di spezzare una lancia in suo favore,
nonostante di fatto sembri colpevole. I colpevoli morali secondo me sono i
giornalisti di Ancona, che stanno perdendo ogni giorno occasioni ottime per
fare un'informazione più attenta alle esigenze dei loro lettori.
Non nascondo che anche io ho fatto in passato servizi di denuncia di questo
tipo, anche se quasi sempre, se non ricordo male, i miei reportage si
svolgevano in luoghi pubblici. Oltre 10 anni fa rischiai qualcosa seguendo
una denuncia dell'ex presidente dell'Autorità Portuale ed entrando in una
caserma militare ormai dismessa nel porto di Ancona, che era piena di
immondizie e volatili morti. Il capo della Capitaneria di Porto mi voleva
denunciare, ma desistette grazie a una rettifica di Lucio Martino e della
cronista Frattagli. E' chiaro che uscire sul Resto del Carlino è molto diverso:
i carabinieri spesso invitano i redattori alle conferenze stampa, perché hanno
l'esigenza di promuovere la propria attività (me lo ha specificato per e-mail
la Guardia di Finanza). Il problema forse è un altro: Montesi è solo e dà
fastidio ai grandi editori. Anche Mediaset, che si interessò nel 2012 alla base
del Conero, pubblica questo tipo di irruzioni con Striscia la Notizia o con
Mistero, ma non prende denunce con altrettanta facilità. Anzi, alcuni
graduati dei carabinieri partecipano alle trasmissioni televisive per risolvere
(li risolvono?) i casi di omicidio e di violenza, che stanno comunque
aumentando.
Che dire? L'informazione che fa Matteo Montesi, seppure sia discutibile e
non condivisibile da parte mia per certi versi, in alcuni video sembra
essenziale, perché sostituisce quella che gli editori marchigiani, vuoi per
avarizia, vuoi per motivi politici, non fanno più, rinunciando ad assumere
collaboratori nelle zone più periferiche dell'anconetano. Mi auguro che
Matteo Montesi riesca ad iscriversi all'ordine dei giornalisti delle Marche e
che prenda contatto con altri giornalisti locali, in modo da riuscire ad evitare
di pubblicare foto e video che io ho trovato offensivi della stessa religione
che Montesi vuole praticare pubblicamente. In sostanza, c'erano tanti video
di Montesi da censurare, ma questi proprio non erano i più indicati.
80
SPIE MILITARI
Siria. Asmae Dachan è una giornalista da prima pagina per l'Ordine dei
Giornalisti delle Marche, tanto da comparire tra i professionisti dal giugno
2015.
La cultura di Ancona poteva a questo punto ignorarla? L'ha accolta a braccia
aperte ed ha esposto alla Mole Vanvitelliana una mostra con le foto delle
stragi siriane, per le quali la Dachan ha ricevuto un premio e sta girando
l'Italia per raccogliere applausi (per la verità le visite alla sua intervista sono
solo 30 per ora).
Ma dove ha fatto il praticantato Asmae Dachan? E' un bel mistero. Non
basterebbe certo la collaborazione con il mensile Mondo Lavoro, per il quale
sulla sua pagina Linkedin dice di lavorare dall'ottobre 2014. Non resta che
Globeresearch, per il quale afferma nel suo curriculum di aver collaborato.
Ma un attimo: quello era un sito di intelligence, e la legge vieta ai giornalisti
professionisti di aver a che fare con i Servizi!
Se non ricordo male Globeresearch non aveva molta sensibilità per i morti
delle guerre, bensì era concentrato nella vendita di armi all'estero. Vi
lavoravano un certo Lucio Martino, che si occuperebbe di strategia militare,
e Nicola Pedde, il quale collabora con Gnosis, il sito dell'AISI, che è
l'Intelligence del Presidente del Consiglio.
Su Globeresearch erano disponibili persino dei libri con l'elenco dettagliato
delle armi di Gheddafi in Libia e del Kazakistan. Si può considerare
giornalismo un’attività simile?
Notai quel sito nel 2007, perché un mio caporedattore al Resto del Carlino di
Ancona si chiamava proprio Lucio Martino e somigliava molto al collega
della Dachan. Tant'è che salvai quella foto, che oggi è sparita in quanto il
sito Globeresearch risulta chiuso. Ebbi la sensazione che il Lucio Martino
militare volesse somigliare al "mio" Lucio Martino. Come mai? Le leggi
italiane questi illustri signori le conoscono.
Ma Asmae Dachan è anche la figlia di Nour Dachan, il presidente della
comunità islamica in Italia, che intervistai più volte per il Carlino oltre dieci
anni fa. Sono rimasto male nello scoprire su altri quotidiani importanti che
questo Imam, apparentemente così mite, non sia considerato un uomo
pacifico come voleva far credere. Basterebbe leggere gli articoli che
scrissero Il Giornale e La Stampa. Lo definirono “oltranzista”, cioè un
fanatico dell’Islam radicale. Si ipotizzò che fosse anche implicato
nell’attacco al World Trade Center. E non è tutto. C'è un video su Facebook
che lo ritrae recentemente nella massoneria di Ancona, quella che nel
1943-44, secondo gli storici di fama come Massimo Papini, fu complice dei
nazisti.
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che Biliotti fosse finito su una storia più grande di lui. Le più recenti
ricostruzioni storiche sul terrorismo degli anni di piombo cominciano a
parlare seriamente di una collusione tra i servizi segreti e le Brigate rosse. Il
metodo dell’infiltrazione all’interno dei gruppi eversivi risalirebbe al 1974,
agli arresti del nucleo storico di Franceschini-Curcio, mentre dal 1977 in poi
le Brigate rosse potrebbero essere state manovrate direttamente dai servizi
deviati o dalla P2.
Questa ipotesi sostenuta da storici come Roberto Bartali spiegherebbe la
parte finale dell’articolo del 1979 del Carlino. Il quale a proposito del
terribile errore della Digos scrisse: “Sembra - ma nessuno ha voluto
ufficialmente confermare - che la notizia dell’istituzione di una base segreta
dell’antiterrorismo nella nostra città sia stata tenuta nascosta a tutti,
Prefetto e Questore compresi, oltre naturalmente gli stessi funzionari
regionali della Digos.”
Il Resto del Carlino molti anni prima aveva parlato anche di un’altra base
della zona di Ancona, quella del Monte Conero. Il 4 ottobre del 1971 citò la
struttura segreta dei militari addirittura nel catenaccio del titolo sulla spia di
Monfalcone, Carlo Biasci, il quale aveva rubato lo schema degli impianti
radar "di Monte Conero" per venderlo all'Egitto.
Quel giorno Biasci veniva rinviato a giudizio dal giudice istruttore Antonio
Alibrandi, poi molto discusso per la sua appartenenza all'estrema destra e per
le accuse di Jannuzzi di aver pilotato il processo Anas. La notizia, partita da
Roma e non da Ancona, uscì in modo molto simile in parecchi quotidiani
nazionali. Emerge comunque un particolare nuovo. Solo due mesi prima, il 2
agosto del 1971, quando il PM Mario Bruno aveva richiesto l'incriminazione
della spia, su alcuni giornali si parlò di un altro giudice istruttore, Eugenio
Fusco. E fu così anche nel 1973 al momento della sentenza di condanna a 11
anni.
E' quindi possibile che Alibrandi fu chiamato solo temporaneamente per le
sue competenze in ambito spionistico-militare.
Preoccupa ciò che succede nel monte Conero, che nella sua versione
militaresca fa capolino in cronaca, e spaventa, solo quando un malcapitato si
fa arrestare. In quei casi scopriamo che sotto cinghiali, alberelli e uccellini
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c'è il Vietnam. Sì, c'è il Vietnam, cari signori. I militari secondo un noto
giornalista italiano che scrive contro la camorra avrebbero la licenza di
"sparare a vista" su chi entrasse nella base. Dobbiamo accettare un'assurdità
simile? L'ultima presunta spia è questo videoamatore di Castelfidardo,
Montesi, il quale in uno dei più recenti video ha ripreso dei furgoni che,
forse, portavano da mangiare ai militari del Conero. Ma possibile che dei
militari seri non abbiano una fureria, ossia una cucina con dei militari cuochi,
e si facciano portare le vivande da sconosciuti? Mi sembra strano.
Ma poco credibile è lo stesso videoamatore quando sostiene di essere stato
processato e minacciato dai servizi segreti. Pare che la porta d'accesso al
lunghissimo tunnel abbandonato sia stata murata e che sopra, ma solo ora, vi
sia un cartello militare. Come mai allora sul sito Vivereancona, che fa
pubblicità al comune dorico, è ancora presente una foto dell'8 maggio 2012
che ritrae l'interno del tunnel ripreso dal Montesi e poi censurato?
Nel frattempo Montesi mi ha confidato che teme di essere ucciso se sarà
divulgato il suo video sul bunker del Monte Conero. Racconta spesso, anche
nei suoi video, che un uomo dei servizi segreti, con un atteggiamento tra il
paternalistico e il minaccioso, entrò lo scorso anno in casa sua per cancellare
il video dal computer.
Anche a me erano state rivolte anni or sono, sul blog, minacce di morte se
mi fossi avventurato in quei posti: "Uscirai in una bara", tuonava il tipo.
Montesi precisa di avere un figlio di 8 anni e che sarebbe un dramma se
dovesse rimanere senza padre. Interpellato sulla situazione, il noto scrittore
Sergio Nazzaro, che compì un'incursione simile nella base di Mondragone,
ha assicurato l'interessamento di una deputata del Movimento 5 Stelle, ma si
è schierato dalla parte di questi fantomatici militari: "Nel caso quei luoghi
vengano violati possono sparare a vista". Eppure vedo in tutti questi fatti un
eccesso di violenza che avvalora le mie ipotesi più estreme: che il Monte
Conero sia oggi legato a misteriosi rituali mafiosi o massonici, coperti da
insospettabili complicità.
uomo del KGB che Senzani delle BR incontrò nel 1981 alla stazione di
Ancona (ma non è detto che non ci sia). La Stampa riportò durante il
processo Peci l'identikit di questa spia fatto dal pentito Buzzatti: "Era un tipo
robusto, sui 45-50 anni, vestito di grigio, capelli corti brizzolati, carnagione
scura, occhiali con montatura metallica". Nell'archivio Mitrokhin non si
trova inoltre nessun cenno al famoso Giorgio Rinaldi (anche se il nome di
molti agenti non è stato rintracciato). Rinaldi secondo la Cia era la spia del
KGB che controllava le basi italiane e spagnole della Nato.
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BASI GEMELLE
Un colpo di scena irrompe nelle vicende del bunker del Conero. Se da una
parte le istituzioni militari mantengono il massimo riserbo sulla storia e gli
scopi della base del “monte d’Ancona”, dall’altra in tutta Italia impazzano
sul web le immagini di videoamatori che riprendono decine di basi militari
italiane abbandonate. In una di queste ho trovato per caso una netta
similitudine con l’interno del famoso bunker del Conero ripreso da Matteo
Montesi e dagli Italian Ghost. Questo vuol dire che la base di Ancona
potrebbe essere stata disegnata dallo stesso architetto americano che lavorò
in Campania, nell’avellinese, nella base del Montevergine. Ma un parallelo è
possibile anche con il misterioso tunnel di Archia, nel verbano, in cui sembra
che nel 1960 vi fu una strana esplosione.
comprensorio del Montevergine, è nato nel 1993, sei anni dopo l’abbandono
della cosiddetta servitù militare. Quello del Conero ha visto la luce nel 1987,
mentre il suo freddo cuore militare spariva solo dai giornali, di certo non
dalla realtà. Ciò che accomuna le due località in questo caso è la difficoltà
che hanno i politici nel creare degli autentici spazi verdi. Vengono
programmate spese, i bilanci ne risentono, ma le cose non cambiano. E la
gente ad Ancona nemmeno lo sa.
C'è tuttavia qualche differenza anche sotto l’aspetto tecnologico.
Analizziamola con attenzione. Quelli che io chiamo pannelli, ossia quei
rettangoli bianchi ai lati delle gallerie, nel monte Conero sembrano ancora
intatti, mentre sul Montevergine sono sparsi per terra come se fosse passato
un uragano. E' veramente abbandonato il bunker anconetano, ripreso dai
videomaker di Italian Ghost e poi censurato? Inoltre nel Conero erano
visibili delle strane docce, con delle ampie sale chiamate vasche e persino
una «sala eco», che non si vedono a Montevergine, anzi sono stati filmati in
quest'ultimo caso dei normalissimi bagni con resti di lavandini e delle
piastrelle di ceramica bianca in stile casalingo. Nel monte Conero poi, e
questo è importante, non sono presenti le strumentazioni elettroniche
caratteristiche di tante altre basi Nato abbandonate.
Non è facile trovare nei video di Youtube luoghi simili al bunker del Conero,
pertanto il ritrovamento di questa base avellinese ha del miracoloso.
L'accostamento Conero-Montevergine a dire il vero me lo aveva anticipato
telefonicamente lo scrittore Sergio Nazzaro, amico di Roberto Saviano.
L'ipotesi, dovendo azzardare discorsi di tipo politico-militare, resta la stessa
di prima. Ossia che la base del Conero, inizialmente prevista dal patto
bilaterale italo-statunitense, possa essere stata recentemente utilizzata per
altri scopi e da soggetti esterni alla Nato. E che ovviamente sia ancora
utilizzata, visto che di questa non si può assolutamente parlare.
Così simili e così diverse. Le basi del Montevergine e del Monteconero sono
due facce della stessa medaglia. Da una parte una Nato che ha permesso la
crescita economica di un territorio, almeno stando a quanto si legge sui
giornali di tanti anni fa, e dall'altra parte una Nato che si nasconde, che
inquina e non lo dice, che trasforma in leggende la sua storia.
Non è facile confrontare una città di montagna con un porto di mare, ma ci
proverò. Quando andavo con mio padre al suo paese natale, in Irpinia, lo
riconoscevamo subito il Montevergine. Lo vedevamo dall'autostrada svettare
sopra l'ampia vallata di Avellino, che è un posto dove piove sempre. Papà
usava un'espressione popolare non ripetibile per darmene un'idea molto
chiara. E a quel punto si ricordava dell'infanzia, quando saliva al santuario
seguendo le abitudini locali. Il santuario è situato proprio sotto le antenne
della Nato. Chissà quante volte mio padre e gli avellinesi le avranno viste.
Chissà se a qualcuno sarà saltato in mente di andare a vedere cosa c'era, sulla
vetta del Montevergine, ai tempi della guerra fredda. «Tutti gli avellinesi
almeno una volta sono saliti al santuario», mi ha detto un mio parente che fa
il politico a livello locale in Campania. Aggiungendo che in provincia tutti
sapevano anche della base militare. Ho fatto una ricerca nell'archivio e ho
constatato che ha ragione lui, anche se mi restano delle perplessità su cui
tornerò fra un attimo.
La Gazzetta del Mezzogiorno pubblicò due articoli che accennavano alla
base militare tra il 1977 e il 1981. Il primo riguardava un episodio curioso
che capitò all'ex presidente dell'Avellino, Antonio Sibilia. Il 30 aprile del
1977 alcuni banditi tentarono di rapirlo abbordandolo in un inseguimento
stradale nei pressi di Mercogliano. Ma un'auto con targa americana, «sulla
quale viaggiavano militari statunitensi della base Nato di Montevergine», si
inserì in fase di sorpasso, rompendo il blocco tentato dai criminali. Sibilia
guidando a tutta velocità la sua Mercedes riuscì a fuggire. Certamente fu un
caso singolare. Cosa ci faceva un'auto statunitense nel sud Italia? E'
plausibile che i militari americani avessero trasportato le loro autovetture a
bordo di una nave della Nato. Nulla di strano, pertanto. Anche perché il
primo dicembre del 1981 sulla Gazzetta del Mezzogiorno si riparlò della
base Nato avellinese. Accadde in un articolo intitolato «Un corpo estraneo»
di Gianni Raviele, scritto a proposito dell'attentato al giornalista della Rai
Luigi Necco, che fu attuato proprio a Mercogliano. Raviele scrisse che il vile
atto contro il giornalista era capitato, paradossalmente, in un posto
incantevole e ricco, che ebbe un sorprendente sviluppo economico con
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Il 20 agosto del 2001, pochi giorni prima dell'attacco al World Trade Center,
si rischiò una guerra civile. In un bellissimo articolo di Claudio Lazzaro, il
Corriere della Sera descrisse il giorno dopo, in modo impeccabile, come
avvenne l'attacco dei «disobbedienti» alla Nato. Venne svelato per la prima
volta un particolare che pochi conoscevano e che nessuno tramandò ai
posteri. La base di Montevergine, teatro quel giorno di una delle tante
proteste per la morte di Carlo Giuliani a Genova, non era per niente
abbandonata, bensì era stata occupata dai carabinieri. Lazzaro scrisse che
l'obiettivo della protesta era proprio il «cocuzzolo» della montagna, a 1490
metri di altitudine, «sede di una base Nato abbandonata pochi anni fa dalle
truppe americane, ma tuttora attiva, col suo ripetitore, nel circuito di difesa
internazionale.» Vediamo a questo punto come si presentava in quel
momento ai manifestanti la zona militare: «Attorno alla base, un reticolato
impenetrabile - continuava a descriverla Lazzaro - che i no global
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Il Politecnico di Milano ha confermato la notizia riemersa dal Corriere della Sera. Il
professor Orlando Vecchia si occupava di finti terremoti. Lo ha affermato una docente della
stessa università che ha conosciuto il professore. Il professor Vecchia, secondo ciò che mi è
stato riportato dall'infopoint della sede milanese, "provava a fare della geofisica per ricavare il
tipo di terreno", cioè appunto attraverso dei "finti terremoti". Pare tuttavia che nell'archivio della
fondazione Lerici non sia rimasta documentazione di questi esperimenti.
106
Questo professor Orlando Vecchia non c'è dubbio che sia uno stimato
scienziato. In biblioteca si possono leggere le sue numerose pubblicazioni.
Ma anche Giocondo Protti lo era, prima che venisse scoperto che fu
responsabile della Shoah. C'è qualcosa da rivedere nella nostra storia recente.
Perché ascoltare le onde sismiche dopo aver provocato enormi esplosioni
nelle montagne è come mandare una macchina nuova a sbattere contro un
muro per vedere se funziona l'airbag. Magari l'airbag funzionerà, ma a che
prezzo lo avremmo scoperto? Le grandi esplosioni piemontesi, per di più,
non servirono a niente, spiegò il professor Vecchia. Per questo sono più
propenso a pensare a un risvolto sconosciuto della guerra fredda. Su La
Stampa il 22 aprile del 1966 uscì una notizia curiosa. A Entracque, nel
cuneese, venne installato un macchinario per intercettare i terremoti. Era uno
strumento che proveniva dalla Germania Ovest ed era stato progettato per
«registrare» i terremoti artificiali. C'era di mezzo ancora una volta il
Politecnico di Milano. Era successo che nell'alta Valle Gesso da mesi la
gente si lamentava per dei terremoti. Era preoccupata. Così venne fatto
giungere da Stoccarda il terribile macchinario, che fu piazzato addirittura in
una chiesa, nella vecchia cappella di Sant'Antonino, sulla cima del monte.
Con quello che sappiamo la cosa ci fa preoccupare ancora di più.
Il contesto politico che fece da contorno a questi fatti è molto importante.
Non fu quello dei primi anni ‘60 un periodo sereno per la democrazia.
Proprio tra la primavera e l’estate del 1960 si concretizzò il primo e unico
governo di centro-destra della Prima Repubblica, il governo Tambroni, un
monocolore democristiano che ottenne la maggioranza con i voti dei missini.
Durò 123 giorni, concludendosi il 26 luglio del 1960. Nell’ombra
proseguivano fin dal 1958 le trame occulte dei servizi segreti. Antonella
Colonna Vilasi nel suo libro sulla storia dei servizi segreti italiani afferma
che “si cominciarono a costituire squadre di volontari con il compito di
provocare degli scontri nelle manifestazioni della sinistra”, come ad
esempio avvenne durante un comizio sindacale in occasione dello sciopero
degli edilizi dell’ottobre 1963 a Roma. Si trattava di ex carabinieri, ex
militari, civili che dovevano dare man forte al progetto di golpe del generale
De Lorenzo.
E' la richiesta che partì nel 1941-42 dalla prefettura di Novara quando ancora
i bombardamenti anglo-americani sembravano lontani e improbabili. Ho
fatto una piccola ricerca in archivio per trovare conferme circa il fatto che a
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dunque scoperto che questi esperimenti, oltre che inutili, potevano provocare
terremoti e frane anche nei decenni successivi? Guardate infatti andando
ancora indietro cosa emerge dall’archivio de La Provincia di Cremona. Uno
dei primi di questi esperimenti che si svolgevano per l’anno geofisico
internazionale avvenne negli Stati Uniti, nello Yucca Flat del Nevada. Un
articolo del 20 settembre del 1957 annunciava l’esplosione nella prima
bomba atomica nel sottosuolo statunitense. L’ordigno fu esploso in alcune
gallerie a 250 metri di profondità, e trattandosi di bombe nucleari la zona
sarebbe rimasta radioattiva per almeno 100 anni. Da quella volta tanti altri
esperimenti pericolosi furono attuati in quel territorio desertico, tanto che
Wikipedia considera lo Yucca Flat il posto più radioattivo della terra.
FASCISMO INEDITO
L’intolleranza che ho notato negli ultimi tempi nelle forze di polizia e nei
giornalisti italiani mi riporta molto indietro nel tempo. Sembra che si sia
ricreato un muro di gomma sull’informazione, che fu la caratteristica
principale della dittatura fascista. E’ come se avessi fatto un viaggio nel
tempo come il protagonista di Ritorno al futuro, che sale su una macchina e
scende nell’epoca dei nostri bisnonni. Ho capito cosa vuol dire vedere
calpestate le proprie idee e censurati i propri articoli. Probabilmente si tratta
di un rigurgito di dittatura passeggero, che deve avere contagiato in modo
fortuito anche altri ignari cittadini. Quando questa valanga nera si ritirerà
rimarrà sul campo un’Italia comunque diversa. La scopriremo più fascista di
prima, perché in fin dei conti i neofascisti (e i brigatisti) tornano sul luogo
dei misfatti come nei film di polizia. Nella nostra realtà il fascismo è
presente nelle istituzioni come nell’edilizia pubblica e privata. Eppoi sul
monte Conero. Si tratta solo di riconoscerne i segni.
prelevato.
Il punto esatto del prelievo venne stabilito tra lo scoglio delle Due Sorelle e
l'altra “punta” della costa situata all'altezza della Grotta degli Schiavi.
La roccia era infatti costituita da un costone a forma di piramide che
sporgeva dalla parete. Troppo invitante evidentemente per chi come questi
esperti della società chiamata “Ugo Colombo” di Imperia, che era stata
incaricata dei lavori, doveva prelevare in poco tempo tra le 250mila e le
280mila tonnellate di materiale.
Come pensava questa ditta “Ugo Colombo” di trasformare la roccia in
materiale per l'edificazione? Con un'esplosione piuttosto potente. Si trattava
di creare cunicoli, come detto, e piazzare più di un esplosivo, per provocare
una detonazione capace di scuotere la parte interessata. Così si intuisce dal
documento che è tecnico, ma abbastanza comprensibile per i meno esperti di
ingegneria o di esplosioni.
Lo studio passava quindi a spiegare che il lavoro venne diviso in più parti.
Una prima piccola detonazione fu predisposta al termine di cunicoli a forma
di “T”, creati nella montagna all'altezza del livello del mare, mentre una
seconda ben più potente detonazione fu preparata all'interno di un lungo
cunicolo a gomito, in grado di buttare giù, detto volgarmente, la piramide di
roccia. Il secondo cunicolo era quello più profondo: 14 metri perpendicolari
al costone, e un braccio molto lungo parallelo al costone di montagna, di
circa 70 metri. Qui dopo un lungo lavoro degli operai per scavare nella
montagna vennero piazzate le cariche di detonazione, più di una, per una
potenza totale stimata in quasi 10mila kg di dinamite “gomma antigelo”, a
cui andavano aggiunti 1500 kg di dinamite per le detonazioni “preparatorie”.
Una bella botta! Che in effetti venne data a questa montagna che, lo ricordo,
adesso è un Parco Naturale, considerato da tutti un ambiente da paradiso
terrestre. Evidentemente in questo paradiso c'è un peccato originale, che è
questo lavoro un po' a mio avviso sospetto. Adesso vi dirò perché.
Il documento terminava spiegando che la mina venne fatta esplodere non
prima che il cunicolo di circa 96 metri totali, quello a forma di gomito di cui
ho parlato poc'anzi, fosse stato tappato con 190 quintali di cemento. Dunque,
una volta richiuso il tunnel, la “Grande Mina”, questo il titolo del paragrafo,
venne fatta esplodere dall'esterno attraverso un sistema di miccia, con un
cavo lunghissimo (900 mt) che arrivava fino alla parte esterna della
montagna e poi ad un generatore elettrico nascosto in una piccola grotta
presso le Due Sorelle, a 400 mt di distanza dalla mina, si presume.
L'effetto si dice che fu ripreso da una cinepresa. Eccolo descritto nel
documento: “In un primo tempo la roccia subì un rigonfiamento lacerandosi
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per grandi fratture. Subito dopo tutta la parte inferiore del massiccio fu
rovesciata verso l'esterno creando una voragine, la quale sia per il mancato
sostegno del piede, sia per effetto del sussulto che subì la montagna, provocò
fragorosamente il crollo degli strati superiori. Per un paio di minuti continuò
il franamento e il rotolamento dei massi; anche dal più alto picco dello
sperone, a quota 160 mt, precipitarono alcuni blocchi enormi”.
Il documento non ci ha spiegato cosa accadde dentro il monte.
Evidentemente a questi esperti interessava ottenere quel materiale con ogni
mezzo, e il dottor Viola era lieto di annunciare che il lavoro era terminato in
modo impeccabile, senza incidenti.
Ma siamo sicuri che questo documento dica esattamente ciò che è successo?
Non essendo un esperto di ingegneria la risposta esatta non ce l'ho, però mi
pongo una domanda, intanto: possibile che per ricavare del marmo da un
picco, piuttosto che ottenerlo picconando questa parte di roccia, fosse
necessario un lavoro così estenuante, durato un intero inverno, impiegando
numerosi operai, materiali, quindi un lavoro così costoso, per preparare un
tunnel affinché delle mine esplodessero dentro la montagna e facessero
cadere la roccia? Mamma mia che lavoro!
Il tunnel ovviamente era stato tappato per evitare che la denotazione
fuoriuscisse dallo stesso cunicolo, ma se, una volta chiuso con il cemento
questo tunnel, la mina non fosse esplosa cosa sarebbe successo, avrebbero
riscavato di nuovo per andarla a riparare? Mah, strano.
Inoltre dicevo dell'interno della montagna. Che effetto produce la
detonazione di 10mila chili di esplosivo? Beh, è sicuramente devastante, del
resto si trattava di provocare il movimento di una montagna alta 600 metri.
Che lavoro e soprattutto, che razza di studio deve esserci stato alla base di
questo prelievo di materiale roccioso!
Sono andato a curiosare tra i trattati scientifici che descrivono l'effetto di una
esplosione. C'è qualcosa su www.earmi.it. Ecco come viene descritta:
“L'esplosione è un fenomeno di trasformazione chimica o chimico-fisica che
avviene in un tempo rapidissimo, accompagnata da sviluppo di energia (per
buona parte termica) e, in genere, da sviluppo di gas.
Qualsiasi sistema che per somministrazione di piccolissime quantità di
energia termica o meccanica è capace di trasformarsi chimicamente, in un
tempo brevissimo, con sviluppo di energia, di gas e di vapori, costituisce un
sistema esplosivo. Un sistema esplosivo è omogeneo se costituito da una
sola specie chimica definita e invece eterogeneo quando è costituito da più
sostanze chimiche.
Gli esplosivi sono quindi sostanze ad alto contenuto energetico, che,
113
Lo hanno già fatto capire alcuni siti internet che si occupano di flora, come
casaledelconero.it. La conferma arriva però dal nuovo archivio digitale della
Gazzetta del Mezzogiorno. Il parco del Conero fu un'idea del Duce. Tra i
tanti articoli sul monte Conero presenti nel motore di ricerca spicca quello
del 9 gennaio 1934. Si scopre che i fascisti stavano predisponendo in quel
periodo ingenti lavori proprio per creare quel bellissimo bosco che vediamo
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Emil Augsburg, uno dei più spietati criminali nazisti, responsabile del
genocidio degli ebrei polacchi, visse ad Ancona nel 1946. A testimoniarlo è
un documento del 23 ottobre del 1946 che è emerso dall'archivio della Cia.
Ma chi era Augsburg? Era nato in Polonia nel 1904, dove divenne un esperto
del giornalismo sovietico. Prima che Hitler invadesse il suo paese, nel 1937
si mise al servizio del Wannsee Institut, un istituto di ricerca nazista sulla
politica e l'economia dell'URSS. Tra il 1939 e il 1941 lavorò per la polizia e
fu responsabile delle esecuzioni degli ebrei polacchi. Fu quindi ferito
durante un bombardamento aereo a Smolensk e riparò in Germania,
nascondendosi in un monastero benedettino a Ettal, nella zona di Monaco di
Baviera. E' qui che inizia la storia del documento della Cia. Augsburg aveva
trafugato molti documenti sull'economia sovietica e gli Stati Uniti volevano
quelle carte a tutti i costi. In realtà più che di Augsburg, la Cia era alla
ricerca di un prete, monsignor Anton Kwiatowski. Fu quest'ultimo a
nascondere a Ettal i documenti anti-Comintern insieme a due complici: Emil
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Aldo Moro fu ucciso per i suoi contatti con la P2? Leggendo un articolo di
Eugenio Scalfari intitolato "Da Sindona a Gelli" e uscito nel 1981 nel libro
"L'Italia della P2" questo sembra il movente di uno dei più gravi delitti del
secondo dopoguerra. La P2, quel sistema parallelo nato dallo scandalo Sifar
e impegnato a raccogliere tangenti sugli appalti pubblici, secondo il
giornalista di Repubblica e L'Espresso aveva quali referenti politici del suo
sistema, Andreotti e Moro. "Per anni i due clan si combatterono sordamente
ma duramente, al coperto degli occhi del pubblico. Poi - scrisse il
118
caso sono confusi. Il presidente Manca compare come "Enrico Manco" nel
rapporto impedian 80, ma è identificabile dalla carica in politica. Ci sarebbe
anche un terzo uomo della P2 nell'archivio Mitrokhin ed è il democristiano
Mario Pedini, tessera P2 numero 570, che fu implicato in uno scandalo sulle
armi di Stato. Mitrokhin lo cita nel rapporto impedian 15, a proposito
dell'agente Kanio. Questi fu il capo del dipartimento stampa della DC e
assistente personale di Pedini. Purtroppo si sa soltanto che Kanio nel 1972
era un contatto riservato del KGB di Roma.
Negli anni ‘60 vi fu persino uno scambio tra prigionieri, che fu drammatico.
Questi i fatti: un giovane italiano, Domizio Villa, venne fermato a Milano
dai carabinieri e dal controspionaggio nel gennaio del 1967, mentre in
cambio di denaro consegnava al segretario della delegazione commerciale
ungherese, Ferenc Budai, in piazza Duomo, degli schizzi topografici di basi
militari della zona di Verona e Vicenza. Di questa persona non si seppe più
nulla, dopo che si prese quattro anni di carcere in Assise.
Più complessa fu invece la storia dell'ungherese Budai, il quale secondo un
articolo siglato de La Stampa del 3 maggio 1967 venne scambiato con un
certo Giovanni Maria Gambella, 41 anni, genovese, professore italiano
arrestato in Ungheria il 13 dicembre del 1966 e condannato a cinque anni e
mezzo di reclusione. Motivo dell'arresto: probabilmente una rappresaglia per
il caso Villa-Budai. Una storia assurda e dimenticata che meritava più
attenzione e che, infatti, nei documenti di fonte statunitense è tenuta bene a
mente.
Penosa fu la situazione in cui si trovò il povero Villa. L'articolo de La
Stampa del 31 gennaio 1967 raccontava la disperazione del giovane che fu
portato «quasi» a braccia in aula d'Assise mentre urlava alla mamma: «Sono
un uomo finito». Processi terribili, a cui non siamo abituati. Tra i testimoni
c'era infatti anche Eugenio Henke, capo del Sid, che qui era la chiave per
risolvere il caso di spionaggio, mentre in seguito fu accusato da Lino
Jannuzzi, nel suo reportage di Tempo del settembre 1976, di aver nascosto ai
giudici la matrice fascista della strategia della tensione, e di aver assoldato
svariati giornalisti corrotti.
Fu l’ “anima nera dei corpi separati dello Stato, legato a Gelli da un’amicizia
dalle radici lontane e oscure”. Federico Umberto D’Amato venne descritto
con queste parole da Andrea Barberi e Nazareno Pagani nel libro “L’Italia
della P2”, scritto poco dopo la scoperta da parte della magistratura
120
Nel novembre del 1978, a pochi mesi dal delitto Moro, destra e sinistra
entrarono in conflitto ad Ancona. Da una parte la radio del Movimento
Sociale che si chiamava Radio Mantakas, dall'altra la democratica Arancia,
ancora presente sul territorio. La causa del contendere fu la trasmissione del
121
magistrati che si interessarono del monte Conero e che ebbero rapporti con i
servizi segreti, ai quali con la legge 801 del 1977, voluta da Andreotti, fu
proprio vietato di entrare nelle indagini della magistratura.
Ma chi è Lino Jannuzzi, il grande accusatore dei giornalisti? Nel periodo di
quegli scoop era nella direzione del settimanale Tempo, che fu un grande
giornale, fondato nel 1939 dalla Arnoldo Mondadori. Nel 1976 Tempo era
edito ormai dalla Palazzi e diretto da Carlo Gregoretti. Con Jannuzzi
figuravano firme come Franco Ferrarotti, Gaio Fratini, Dacia Maraini,
Ruggero Orlando, Sandro Paternostro e molti altri, ma anche il futuro
inquisito Luigi Bisignani. Era un settimanale scandalistico che si occupava
di politica, cultura, arte. Leggendo gli articoli di Jannuzzi del 1976 ho
scoperto un raffinato scrittore e un pungente critico dei poteri forti. Come
nell'articolo sulle spie, nel quale arrivò a ipotizzare che il ministero degli
Interni, "non alleva più le 'Avanguardia nazionale', ma si cresce le 'Brigate
Rosse' e i 'Nap'. Che cosa aspettiamo? - fu la sua denuncia - di diventare
tutti 'brigatisti'?" Due anni dopo, quando Aldo Moro fu ucciso senza che il
mondo politico intervenisse, Tempo era già chiuso. Le sue pubblicazioni si
interruppero nel gennaio del 1977. Jannuzzi proseguì la carriera nei giornali
di centro-destra e quando scese in campo Berlusconi fu quello il suo modello,
dopo aver difeso Andreotti, sostenuto l'ascesa di Craxi al PSI e aperto a una
"primavera" del PCI per "applicare la Costituzione". Accusò invece Cossiga
di essere un accentratore di potere. Del resto anche il Copasir vide nella sua
relazione del 5 marzo 1996, sul dossier spionistico dell'ex capo del SISMI
Cogliandro, una contrapposizione netta tra De Benedetti, che acquistò nel
1987 uno dei bersagli di Jannuzzi e cioè L'Espresso, e l'asse
Andreotti-Craxi-Berlusconi, al punto che in una nota del settembre 1989 del
dossier Cogliandro - disse il Copasir - l'attacco a Berlusconi veniva
"considerato un pericolo per il Governo Andreotti". All'opinione pubblica
però è più nota, per le successive vicende giudiziarie-fiume, l'amicizia
diretta Craxi-Berlusconi. L'impressione è quindi che Jannuzzi e gli stessi
giudici di "Mani pulite" raccontino solo una parte di ciò che sanno.
dittatura anti-comunista. Alla fine degli anni '60, l'ex comandante della
Decima Mas, Junio Valerio Borghese, si rivolse agli Stati Uniti prima di
tentare, in Italia, quel colpo di Stato del dicembre del 1970 poi definito «da
operetta». Rapporti della CIA registrarono che Borghese chiese a dei
rappresentanti degli Stati Uniti un appoggio al suo piano politico fascista.
L'appoggio fu però negato. E poi Licio Gelli. Anche il «Venerabile» verso la
metà degli anni '70 del secolo scorso si ispirò agli Stati Uniti nello stilare il
suo programma politico dittatoriale, il famoso «Schema R», con il quale dei
militari corrotti intendevano contrastare l'ingresso del Partito Comunista nei
governi democristiani. Guarda caso, Licio Gelli fu uno dei reduci della
guerra di Spagna del 1936, che il futuro gran maestro della P2 ovviamente
combatté valorosamente dalla parte del «Caudillo»...
Ma, allora, se il caso delle spie di Torino non fosse emerso, quale avrebbe
potuto essere la politica americana in Europa? E quale progetto politico
sommerso avrebbero portato avanti le destre insieme con pezzi deviati degli
Stati Uniti?
montagna”, la storia di Zara ce l’ha avuta davanti agli occhi dalla mattina
alla sera, senza bisogno del binocolo. Qualcosa dovrà pur significare, non
credete?
129
sull'omicidio di Marta Russo negli anni '90 la polizia potesse essersi avvalsa
di strumenti del SISDE. Il Copasir (che allora si chiamava Copasis)
interpretò così la legge nella relazione del 3 novembre 1999: "Nessun
rapporto diretto può intercorrere tra autorità giudiziaria e servizi di
informazione e sicurezza. Gli organi cui questi ultimi possono rapportarsi
debbono invece essere, necessariamente ed esclusivamente, quelli della
polizia giudiziaria. Per altro, la collaborazione che deve intercorrere tra
servizi e polizia giudiziaria riveste carattere eminentemente informativo: i
servizi di sicurezza, nelle forme viste sopra, mettono a parte la polizia
giudiziaria dei fatti e delle circostanze acquisiti nell'esercizio della propria
attività che ritengano integrare fattispecie di reato." Il titolo del quotidiano
La Stampa di allora fu: "Stop alle inchieste con gli 007". E invece pare che
ci risiamo.
Altre prove che la lotta armata fosse un’idea dei russi la si trova nel recente
libro di Gianluca Falanga, “Spie dall’est”, incentrato sui dossier segreti della
Stasi sulla politica italiana. In una conversazione con le spie di Berlino est, il
responsabile delle relazioni internazionali del Pcus, Boris Ponomarev,
accusò i comunisti italiani di non essere disposti alla rivoluzione violenta.
Disse: "I compagni italiani non vogliono capire che non si può restare
sempre sulla difensiva. Anche se v'è l'opportunità di una via pacifica, ogni
partito comunista deve essere sempre pronto alla lotta armata"18. Era
l’ottobre del 1976, gli anni in cui il PCI si avviava verso il compromesso
storico con la DC. In un’intervista rilasciata a Pansa del Corriere della Sera
il 16 giugno 1976, alla vigilia delle storiche elezioni politiche, Berlinguer
aveva infatti disorientato la sinistra. Le sue parole erano state: “Io voglio che
l’Italia non esca dal Patto atlantico“... Mi sento più sicuro stando di qua,
sotto l’ombrello della NATO, ma vedo che anche di qua ci sono seri tentativi
di limitare la nostra autonomia”.19 Timori più che fondati. Questa sua scelta
approfondì l’isolamento del PCI nel quadro degli equilibri internazionali. Il
partito guidato dal leader sardo, oltre ad essere tenuto sotto stretto controllo
dagli USA, divenne un bersaglio della disinformazione orchestrata dal KGB,
come dimostra il rapporto Impedian 130. Il KGB predispose un piano e una
raccolta di informazioni per compromettere la reputazione di Berlinguer, sia
per vicende della sua vita privata, sia sul piano politico. Nessuna prova
invece è per ora emersa su un coinvolgimento diretto di KGB e Stasi nelle
stragi italiane.
E' probabile che il KGB abbia cercato per anni di incolpare gli americani
dello spionaggio politico e delle stragi italiane. I sospetti nascono da un
articolo. Il settimanale L'Astrolabio, quando era diretto dall'eroe della
Resistenza Ferruccio Parri, pubblicò un rapporto segreto della CIA, che
risaliva al 1963. Vi si dimostrava che lo spionaggio degli italiani, che in
seguito si allargò fino a coinvolgere 157mila vittime, aveva un preciso scopo
politico. L'Astrolabio scrisse che era opera del Ministero dell'Interno: era
stato ideato da Scelba della DC e perfezionato da Tambroni, sempre della
DC. Questo è quanto si legge nel libro di Antonella Colonna Vilasi "Storia
18
Cfr: Walter Vecellio, “Mosca strigliava il Pci: pronti alla lotta armata”, notizie.radicali.it,
ottobre 2014.
19
Cfr: Giuseppe Formisano, “Enrico Berlinguer, il più amato”, www.instoria.it, luglio 2011.
133
dei servizi segreti italiani", edito da Città del Sole. L'Astrolabio auspicava
che i dossier spionistici fossero trasferiti dal Ministero dell'Interno al Sifar di
De Lorenzo, ma non escludeva che anche il Sifar potesse aver avviato
pratiche simili, come poi in effetti avvenne. Ciò che la Vilasi non dice è che
L'Astrolabio era un settimanale che dal 1974 al 1984 fu sicuramente "usato"
dal KGB. Lo scrisse Repubblica nel suo articolo dell'11 ottobre 1999. Il
nome in codice del settimanale di Parri era LOBI. Ma c'erano anche Tempo
(ALPHA) (quello di Jannuzzi e Bisignani), L'Avanti (GAMMA) del PSI e
molti altri. Erano le rivelazioni dell'archivio Mitrokhin, che però furono
misteriosamente cancellate dalla versione italiana del libro.
Ora la faccenda si fa più chiara, ma allo stesso tempo si preannuncia piena di
inconfessabili segreti di Stato. Collegando gli scoop di L'Astrolabio (e di
Tempo, che non fu da meno nel suo "Rapporto sui giornalisti-spia" del 1976)
al KGB si può supporre (anche se l'articolo di Parri fu pubblicato
sicuramente prima del 1974) che essi facessero parte dei numerosi
"provvedimenti attivi" dei russi: dossier scandalistici inseriti nella stampa
estera per screditare gli americani.
Mi sono letto molti articoli che uscirono nel 2000 sull'archivio Mitrokhin e
avendo analizzato la relazione del Copasis penso che sia stata messa in atto
una delle peggiori porcate della storia italiana. Una e neanche l'unica. Mi fa
rabbia il fatto che la relazione del Copasis dica tante cose che non sono poi
uscite sui giornali. Si è cercato di censurare certi nomi, evidentemente
intoccabili, e di togliere proprio credibilità al lavoro dell'ex-archivista del
KGB, dopo che la relazione ne affermava l'affidabilità. Allora mi chiedo:
quando è stata decisa la censura? Chi è il censore? Chi decide cosa esce sui
giornali?
Si poteva dubitare dell'archivio Mitrokhin, e io ho dubitato per primo. Ma
poi bisogna leggere, saper valutare un libro, distinguere tra libri di storia, di
narrativa o di romanzi di fantascienza. L'archivio Mitrokhin è attendibile,
molto attendibile. E' la chiave che apre tante porte per capire la storia
italiana, a partire dalla base del monte Conero, dalla Strategia della tensione
fino all'attualità. Anzi, coinvolge anche importanti esponenti della
Resistenza. Quindi si fa riferimento a fatti di oltre 70 anni fa. Se questa
storia non la si può raccontare è chiaro che è inutile e pericoloso fare il
giornalista. Avrei preferito che i miei insegnanti di Storia Contemporanea mi
avessero detto, al momento dell'esame di laurea: guarda caro studente, ti
promuoviamo, però sulla storia dal 1945 in poi devi stare zitto e muto,
perché è tutto segreto di Stato. Per fare un paragone, immaginate dei laureati
in ingegneria, specializzati sulla telefonia, che escono e si ritrovano con
134
Come saprete l'archivio Mitrokhin è costituito dagli appunti che un'ex spia
del KGB, che si chiamava appunto Mitrokhin, aveva preso segretamente
durante i lunghi anni nei quali aveva lavorato negli uffici del servizio segreto
russo. Una parte cospicua di questi appunti riguarda anche l'Italia, e fu per
questo che i servizi segreti inglesi, a cui Mitrokhin si era rivolto dopo essere
fuggito dall'URSS, avviarono nel 1995 un flusso di dati in via riservata verso
il Sismi, trasmettendo un po' per volta 261 schede, denominate per
convenzione Impedian, che riguardavano spie, vittime e operazioni del KGB
nel nostro paese.
Leggendo la relazione del Copasis su questi fatti, che è a disposizione di tutti
online, si intuisce che il Sismi avviò dei controlli sui nomi delle spie,
riscontrandone diversi sia tra i funzionari di Stato, sia tra i politici, ma non
agì con la necessaria determinazione, sottovalutando il pericolo o, chissà,
reputando lo spionaggio sovietico preferibile a quello americano, che è a
tutt'oggi il principale accusato delle stragi della Strategia della tensione.
Nell'ottobre del 1999 i giornali italiani fecero scoppiare lo scandalo e
fornirono di fatto i nomi più eclatanti della parte italiana dell'archivio
Mitrokhin. Nel frattempo in Inghilterra uscì il libro, che fu tradotto in
italiano e venduto anche nelle nostre librerie dalla Rizzoli. A questo punto le
cose, nella ricostruzione della vicenda, anziché chiarirsi si complicano. La
seconda edizione del 2007, che ho chiesto in prestito in biblioteca, presenta
solo una parte delle schede Impedian riguardanti l'Italia. Ma quasi
sicuramente è così anche la prima edizione del 1999. Il motivo ufficiale di
questa censura è scritto nella prefazione all'appendice documentaria:
l'editore decise di corredare il libro solo delle schede che l'autore, ovvero lo
studioso Andrew, aveva citato nel libro e che riguardavano i nomi in codice
delle spie. Vennero pertanto tagliate fuori tante informazioni su altre spie
eccellenti, su quasi tutti i politici del PSI coinvolti nello spionaggio a favore
dei russi, sui tanti giornalisti, giornali ed editori altrettanto colpevoli, su
certe aziende di Stato e sulle vittime.
Questa specie di censura ha scatenato un putiferio, che ha portato a una
commissione d'inchiesta e ai tanti veleni che si trascinano nelle pagine dei
giornali fino a oggi. D'Alema fu accusato di aver "sbianchettato" le schede, e
lui rispose querelando, ma non fu risparmiato il vice presidente del consiglio
di allora Mattarella. Il quotidiano il Tempo ha chiesto addirittura di poter
leggere la versione in russo delle schede Impedian, per tradurre il loro
contenuto senza passaggi intermedi. Nel frattempo si è scritto anche altro.
Mitrokhin negli articoli de La Stampa pare aver perso credibilità e la
136
faccenda dello spionaggio russo come accadde in altre occasioni è stata col
passare degli anni ridimensionata.
A questo punto bisogna dire alcune cose. Intanto i nostri giornali dovrebbero
far capire ai cittadini che le schede Impedian non sono che una parte grezza
del libro sull'archivio Mitrokhin. E' un po' quello che accadde a me con la
tesi di laurea, quando scrissi il mio libro sulla Repubblica di Salò mettendo
insieme le informazioni che trovai nell'archivio privato di un ex
repubblichino. Molti documenti rimasero fuori dalla narrazione, perché
superflui o del tutto estranei rispetto al filone di inchiesta che stavo
seguendo. Pur con tutto il rispetto per le ben più alte qualifiche di Andrew,
penso che anche l'illustre studioso possa aver proceduto così. La cosa più
importante in un libro di storia è la ricostruzione che viene fatta dall'esperto.
E di Christopher Andrew, che viene dall'Università di Cambridge, ci si può
senz'altro fidare. Dubitare di alcune o di tutte le informazioni presenti
nell'edizione della Rizzoli, come pretende una certa parte della nostra
politica, significa vanificare il lavoro di ricerca dello storico.
Il libro è lungo 650 pagine, quasi le stesse dell'archivio grezzo che riguarda
la parte italiana degli appunti di Mitrokhin. E io credo che nel libro le
censure non ci siano. Cari politici, perché questo libro non ve lo siete letto?
L'archivio Mitrokhin è la storia di una rivoluzione che aveva nello
spionaggio la sua prerogativa, la sua forza e allo stesso tempo il suo tallone
d'achille. Fin dal 1917 le spie sovietiche hanno permesso ai leader del
Politburo di sapere in anticipo quasi tutte le scelte degli avversari. E di
prenderne quindi le contromisure. Ma molte di esse hanno anche perso la
vita travolte dalla spirale di odio con cui il sistema era alimentato. Spiare
significava inevitabilmente poter essere spiati e tradire implicava
automaticamente poter essere traditi dai propri alleati. Fu per questo forse
che la più grande paura di Stalin era quella di essere vittima di congiure e
cospirazioni dei suoi connazionali. L'URSS non a caso è un sistema che è
imploso, perdendo una guerra fredda che dal punto di vista spionistico e
militare avrebbe stravinto. Per poter capire questa storia è quantomai
necessario pertanto leggere l'archivio Mitrokhin.
Ciò detto, non nego che Andrew sia stato meno abile sul fronte italiano. Mi
sembra che non sia riuscito ad inquadrare le tante notizie che aveva sulle
spie italiane nello scenario complesso della nostra politica. Ecco perché,
privato di quelle schede Impedian dell'appendice, il libro finisce per non
rivelare tutte le responsabilità italiane nella guerra fredda. Mancano come
detto i socialisti, mancano i giornalisti, ma mancano pure i neofascisti! E ora
vi dirò dove li ho trovati. Intanto però non dovevano essere sottovalutate nel
137
Una spia distratta con 300 agenti segreti tra gli ufficiali della Nato. Così fu
descritto il misterioso Giorgio Rinaldi Ghislieri dal giornale The Sunday Star,
il 9 aprile del 1967, quando i dettagli del suo arresto avvenuto in Italia
140
furono più chiari anche negli Stati Uniti. La pagina venne conservata dagli
agenti della Cia nei loro archivi ed è stata desegretata il 14 giugno del 2004.
Registrandomi sul loro sito, sono riuscito ad ottenere questo documento
cartaceo, che mi è stato inviato gratuitamente per raccomandata dall'
«Information and privacy coordinator».
Il foglio di giornale è utile innanzitutto per cogliere un dettaglio che mi era
sfuggito: Rinaldi era in contatto con il GRU, il servizio di informazioni dei
militari, e non con il KGB. Ecco quindi perché nell'archivio Mitrokhin il suo
nome non è presente, come non sono rintracciabili gli altri protagonisti della
spy-story italiana degli anni Sessanta: Yuri Pavlenko dell'ambasciata
sovietica a Roma, che mise Rinaldi in contatto con il GRU e Kir Lemzenko,
agente di commercio il quale cercò di carpire i segreti militari della base
napoletana di Bagnoli, e di conoscere i movimenti delle navi americane.
Entrambi i russi furono espulsi nel periodo a ridosso degli arresto del
paracadutista torinese Rinaldi, di sua moglie e dell'intermediario, Girard, tra
il 1966 e il 1967.
Secondo The Sunday Star l'apparato del quale Rinaldi fu probabilmente la
mente era molto ampio, e faceva capo a un colonnello del GRU che viveva a
Vienna, un certo Mikhail Badin. Il loro scopo, come scrisse Rositzke nel suo
libro, era quello di conoscere più informazioni possibile sulle basi Nato
spagnole, dove vi era la bomba atomica. Ma poi venivano nominate anche
quelle di Aviano, nel nord-est d'Italia, di Cipro e della Grecia, dove pure si
arrivò alla cacciata di alcuni ufficiali russi.
Harry Rositzke nel libro del 1983 sul KGB aggiunse un dettaglio da non
sottovalutare. Disse che svariati italiani impiegati nelle basi Nato del nostro
paese facevano il doppio gioco. Non si trattò quindi di un bluff, ma di una
solida struttura, con qualche stranezza, su cui il Sunday Star fece il suo titolo.
Rinaldi fu una spia un po' sbadata, che non seguì le regole del manuale dello
spionaggio. I servizi segreti italiani, che lo arrestarono a metà marzo del
1967, scoprirono nella sua «Bottega di Lagno» una marea di appunti,
istruzioni, lettere, che una buona spia avrebbe immagazzinato solo nella sua
mente. Dei 300 membri della Nato che avrebbero collaborato con i vertici
dell'organizzazione spionistica non si seppe mai niente. Si disse che, forse,
facevano solo parte di una lista di persone che i russi avrebbero voluto
reclutare.
In Italia il ricordo di questi fatti fu conservato per vent'anni. Nell'archivio
della Stampa è presente un articolo del 7 ottobre del 1979 nel quale il
cronista Domenico Quirico, che tempo dopo (2013) sarà rapito in Siria,
ripercorreva la vita avventurosa dell'ex paracadutista, per 21 anni al servizio
141
dei russi. In quell'occasione Rinaldi presentava una mostra con alcune sue
opere pittoriche che stava per essere inaugurata ad Asti. Qui morì il 3
novembre del 1988, dopo aver scontato solo una parte della pena (dieci anni)
e aver negato che il suo spionaggio fosse rivolto contro l'Italia.
142
CONERO STORY
Tra i tanti incidenti che si verificarono sul monte Conero desta un certo
interesse quello che capitò il 20 ottobre del 1954 a tre operai di Sirolo.
Stavano lavorando come al solito nella Cava Maggi di Massignano, quando
improvvisamente un costone di roccia di 30 mila tonnellate di peso franò
loro addosso, uccidendoli sul colpo e ferendo altri due uomini. Le vittime si
chiamavano Egidio Latini, Emilio Baleani ed Eugenio Polenta, sui trent'anni
di età i primi due e sui quarantacinque l'altro. Rimasero soltanto feriti Mario
Giampieri di 45 anni di Sirolo e Mario Marcucci di 52 anni di Fonte d'Olio,
una piccola frazione ai piedi del Conero. Secondo l'impeccabile resoconto
del cronista dell'Unità Sirio Sebastianelli, le giovani vite dei tre sfortunati
cavatori furono spezzate per un'infiltrazione d'acqua, che fece staccare
inaspettatamente l'intero costone della montagna, dopo che gli operai
avevano fatto brillare una mina e si accingevano a raccogliere sotto il monte
il materiale marnoso. Potremmo archiviarlo come uno dei tanti incidenti sul
lavoro, ma c'è una coincidenza che merita attenzione: la data dell'incidente è
la stessa dello storico accordo che fu siglato proprio il 20 ottobre 1954 tra
l'Italia governata dalla DC e gli Usa. Il tema del giorno fu in quel caso la
costruzione delle basi Nato nel nostro territorio e secondo un lettore del mio
blog durante questo vertice fu programmata anche la costruzione della base
del Conero. Fatta questa considerazione si potrebbe pensare che la tragedia
143
di Massignano possa essere collegata all'inizio dei lavori per i tunnel militari.
E io non mi sento affatto di escluderlo, anche perché gli accordi tra Italia e
Usa per la costruzione delle basi erano iniziati molti anni prima, intorno al
1949. Però non ho in mano prove che ci sia effettivamente un nesso. C'è un
particolare, nel racconto di Sebastianelli, che mi ha colpito. Il fatto che la
ditta Maggi stesse facendo lavorare nella cava di marna pochi operai per
risparmiare qualche soldo, come se quei lavori fossero da portare avanti in
tutta fretta e senza rispetto per le leggi. Un ulteriore indizio, che già avevo
citato, lascia supporre che già nel marzo1953 la base in cima al monte
Conero fosse attiva. Mi riferisco al noto processo contro il culturame, che
vide pittori e scrittori o giornalisti accusati di aver diffuso con le loro opere,
tra le altre cose, notizie riguardanti i segreti militari italiani. A giudizio c'era
anche una giornalista dell'Unità, Fausta Cialente, la quale in un articolo che
le era stato pubblicato dal caporedattore Sergio Scuderi, pure lui inquisito
per questo, avrebbe parlato delle zone militari del monte Conero. Si tratta di
un episodio tutt'altro che chiaro. Nell'archivio digitale dell'Unità, cercando
con pazienza tutti gli articoli che ci sono sul Conero, non si trova traccia di
questo fantomatico «pezzo» della Cialente, che riguarderebbe i segreti
militari del Conero. Quindi non è facile stabilire se nel 1953, o anche prima,
vi fosse qualcosa di militare nel monte. Si può solo fare qualche
considerazione. Chi era Fausta Cialente? Wikipedia spiega che fu una delle
prime femministe, fu scrittrice e giornalista di sinistra. Era nata a Cagliari
nel 1898, ma si sposò nel 1921 con l'agente di cambio e compositore Enrico
Terni e insieme andarono a vivere in Egitto. Lì visse anche durante la guerra
aiutando gli antifascisti. Nel 1947 si separò dal marito, tornò in Italia, e andò
a vivere a Roma. Sull' enciclopedia non troviamo traccia della sua
incriminazione al processo contro il culturame. C'è tuttavia qualcosa che
unisce questa scrittrice alla spia del 1970, Carlo Biasci, l'archivista
dell'Italcantieri di Monfalcone che aveva con sé gli schemi del radar del
Conero. La spia stava cedendo quei dati proprio all'Egitto, la nazione
africana in cui visse la Cialente. Possiamo quindi azzardare un'ipotesi. Forse
gli egiziani sapevano fin dai tempi della seconda guerra mondiale che sul
Conero c'erano i radar dei nazisti. E probabilmente, in tempi di guerra fredda
nei quali l'Italia era filo-statunitense e l'Egitto appoggiato dall'Urss,
ritenevano importante entrare in possesso di quelle informazioni. Un altro
indizio da non sottovalutare è che con l'Egitto di Nasser collaboravano
alcuni ex gerarchi nazisti. Chissà, magari fu proprio per una loro iniziativa
che il colonnello Helmy reclutò Biasci e gli chiese notizie sul Conero. Certo,
sono solo ipotesi, il mistero è ancora molto fitto. Una domanda è: cosa
144
accadde sul Conero dall'arrivo dei polacchi ad Ancona, nel luglio 1944, alla
morte dei tre operai a Massignano nel 1954? Nessuno è stato in grado di
dirmelo. Si accorsero gli «alleati» che, come ha scritto prima di morire
l'archivista Giuseppe Jannaci, sulla cima del Conero c'erano degli impianti di
trasmissione dei nazisti, collegati con Loreto, dove ora c'è una base di
addestramento dell'Aeronautica?
Dieci milioni di dollari in banca e una villa sul Conero. E' il tesoretto di un
«big» della vecchia Montedison. Secondo una notizia uscita il 13 febbraio
2015 sul sito lanotiziagiornale.it, uno dei dirigenti di spicco dell'ex colosso
pubblico della chimica, Raffaele Stracquadanio, conservava un tesoretto da
10 milioni di dollari nella banca Hsbc di Ginevra. Il conto era cointestato al
figlio Giorgio, un parlamentare del Pdl deceduto nel 2014. Stracquadanio
senior, che viene definito uno dei «fedelissimi» del presidente Eugenio Cefis,
sembra che fosse coinvolto nelle vicende della speculazione edilizia in
Sardegna.
I soldi, insomma, secondo lanotiziagiornale dovrebbero essere dovuti a
quella storia. O forse anche a un'altra, aggiungerei io, che porta negli oscuri
meandri del monte Conero. Era il terribile anno 1976. Durante l'estate la
squadra mobile di Ancona fece irruzione nella villa di Stracquadanio, che
non si trovava in Sardegna, bensì nella verde vegetazione del monte
d'Ancona, il Conero, protetta da un sofisticato sistema di allarme. Lo scrisse
il 25 agosto 1976 il quotidiano L'Unità, annunciando che Raffaele
Stracquadanio, allora dirigente della Montedison e della Standa, era ricercato
dal tribunale di Ivrea per falso in bilancio, associazione a delinquere e
qualcos'altro. Ma nella villa del Conero quel giorno il dirigente di Foro
Bonaparte non si fece trovare. La polizia perquisì l'abitazione, poi si spostò a
Numana, ma non emerse granché. Sembra, cercando altre notizie su La
Stampa, che Stracquadanio si costituì, fu rilasciato e poi assolto da queste
accuse. Ora il giallo potrebbe riaprirsi, ma non è questo il punto. Queste
novità in realtà hanno acceso i riflettori su un problema che ad Ancona è
stato dimenticato, come al solito. Mi riferisco alle ville sul monte Conero, a
quella speculazione edilizia tutta marchigiana che venne denunciata tanti, ma
proprio tanti, anni fa da un grande giornalista di Ancona, Walter Montanari.
La questione venne a galla nell'estate del 1963, all'apice del boom
economico. Gli estimatori della Riviera del Conero, valorizzata fino a quel
momento dagli artigiani locali con il loro «metodo artigianale e paesano»,
145
guardia di Monte Acuto non immaginavo certo che fossi a un passo dallo
scoprire i segreti militari di Ancona e della Nato. Però un po' mi ero
insospettito, e descrivendo questa costruzione militare ottocentesca costruita
all'indomani dell'Unità d'Italia dissi che sembrava essere stata cancellata,
come se si trattasse di un errore di valutazione dei militari. Il forte Pezzotti
nel 2003 risultava affittato a delle famiglie private. Della sua imponenza dal
punto di vista architettonico e militare ben poco restava. Perché? Beh, oggi
una risposta posso fornirla. Secondo la notizia del Corriere della Sera, il
forte Pezzotti, il forte Poggio e il forte Monteconero erano sotto il comando
di un unico tenente della terza artiglieria: tale Stefano Gueirola di
Sampierdarena. Veniamo a sapere di questa organizzazione militare per una
stupidaggine del tenente. Stefano Gueirola aveva pensato bene di rubare 10
quintali di esplosivo di proprietà dell'esercito italiano, e per farlo aveva
chiesto l'aiuto di un soldato che collaborava alla direzione, un certo Casadia,
e di alcuni pescatori e contadini dei dintorni, che furono anch'essi arrestati.
Si chiamavano: Carletti, Cianfrollini e Sardelli. Gli esplosivi li avevano
sottratti, pare, da tutti e tre i forti, per poi rivenderseli e farci un bel
guadagno. Gueirola stando al racconto del Corriere della Sera aveva estratto
l'esplosivo, per aumentare il bottino, anche dai proiettili da cannone. Questo
ci fa pensare che non solo il forte Pezzotti, contrariamente a quanto scrissi
nel 2003, aveva partecipato alle guerre, ma lo aveva fatto in una linea
difensiva che lo vedeva unito anche al Poggio e al Monteconero. L'ipotesi è
che quei proiettili da cannone servirono durante la prima guerra mondiale
per rispondere agli attacchi che la marina militare dell'Austria sferrò nel
maggio del 1915, in una sua fulminea incursione lungo tutto il mar
Adriatico.
mandava un suo uomo ogni tanto a controllare che tutto fosse a posto.
Controlli di routine, per carità, però c'erano. Quali legami esistevano, ed
esistono, tra la politica anconetana e i militari che spiano sui radar nelle
viscere del Conero? Speriamo di scoprirlo presto.
Di sicuro, la base del Monte Conero non era uno dei comandi principali
della Nato in Italia. Uno dei lettori del mio blog aveva ipotizzato che "Base
Conero" fosse stata costruita insieme a quella del monte Moscal e di
Mondragone. Questo sarebbe avvenuto dopo l'accordo bilaterale del 1954 tra
Italia e Stati Uniti. Ma da un articolo del quotidiano La Stampa del 15 luglio
1990, che parlava appunto della base di Mondragone, si evince che
quest'ultima era effettivamente collegata al monte Moscal, però il terzo
comando si trovava a Roma, nelle caverne Santa Rosa. Mondragone, Moscal
e Santa Rosa erano i punti chiave delle telecomunicazioni della Nato in Italia,
con collegamenti fino in Grecia e Turchia. Lo chiamavano il "Fronte sud", e
l'Italia pare che fosse l'anello debole del sistema. Lo affermavano sia il libro
della spia della Cia Rositzke, sia l'articolo del quotidiano La Stampa del
1990, a firma di Gianni Bisio e intitolato "Obiettivo russo". Anche dopo la
caduta del muro di Berlino, il GRU, lo spionaggio militare sovietico, cercava
infatti di entrare in possesso della chiave per decodificare le comunicazioni
Nato. Victor Dimitriev e l'italiana Maria Antonietta Valente ci erano quasi
riusciti. La guerra fredda non era affatto finita. Ma le due spie russe vennero
arrestate. Nel 1996 la base di Mondragone venne abbandonata. Il 24
novembre 2015, infine, in seguito ai reportage del giornalista Sergio Nazzaro,
la senatrice del Movimento 5 Stelle Vilma Moronese ha presentato
un'interrogazione al Senato per chiedere che la ex base di Mondragone sia
salvata dal degrado. Resta invece intatto il mistero sul Conero. Quale ruolo
ebbe quel tunnel anti-atomico di Ancona? Era una di quelle che Bisio
chiamava "basi" o "siti sensibili che osservano l'attività avversaria"? Oppure
non faceva proprio parte della Nato?
Matteo Montesi, uno degli autori del famoso video del 2014 sui tunnel del
Conero (gli altri due usavano il nome d'arte di Italian Ghost), mi ha da poco
rivelato che il suo caso e' finito in prescrizione. Dopo un anno e mezzo
sembra davvero un record. Sara' vero? Fino a poco tempo fa temeva di
essere ucciso. Mi dispiace che ci siano di mezzo i carabinieri, perche' a me
questa denuncia sui segreti militari mi pare una presa in giro. In teoria
spulciando gli articoli del codice penale l'articolo 262 sembrerebbe quello
151
Una nuova sensazionale foto scattata via satellite dal sito gosur.com mostra
forse un missile in fase di collaudo.
Siamo sulla vetta del monte Conero, vicino Ancona, nel pieno della zona
militare. Come si vede nella foto di sinistra, dove prima c'erano delle specie
di rampe, ora si nota un telone bianco, o forse una copertura fotografica
imposta dai servizi segreti. E' trasparente al punto che si intravedono le linee
del finto campo di calcetto. Finto perché in realtà su quel campetto non si
gioca. Probabilmente il terreno non è pianeggiante, ma in pendenza e non ci
sono le porte. Il telone ha una forma che tradisce la natura dell'oggetto che vi
è nascosto. Si tratta forse di un missile in fase di collaudo?
Su quel campo si sta certamente lavorando. I due rettangoli, che sembravano
altre rampe di lancio pronte ad aprirsi, per far salire magari dei missili dal
sottosuolo, in realtà si sono mossi. Uno in particolare ha cambiato posizione
e si è avvicinato alle presunte rampe. La base è attiva anche nel 2016. Lo si
nota da alcune macchine parcheggiate, due nella parte a ovest, più il famoso
pick-up, che è sempre nella zona sud della base, ma in un'area diversa.
152
spesi, inoltre, altri 2.050 euro per una fornitura di gasolio da riscaldamento
per la stazione meteo del Monte Conero. Non è finita. Il 24 novembre 2016
la Marina Militare di Ancona aveva speso altri 421,05 euro per “Acquisto
ricambi per riparazione/manutenzione automezzi vari in dotazione al 3°
D.A.I. M.te Conero”.
Tutte queste notizie devono far capire ai turisti che non bisogna
assolutamente scavalcare le recinzioni della zona militare, anche se
all’apparenza le caserme della base sembrano abbandonate. L’aspetto
esteriore ingannevole potrebbe essere la caratteristica di questo sito militare
fin dai tempi del fascismo. Infatti è interessante in tal senso un altro
documento reperibile su internet: la biografia del militare Edoardo Martino.
Durante la seconda guerra mondiale fu crittografo presso lo Stato Maggiore
della Difesa, quindi svolse un corso di perfezionamento ed entrò nel SIM, il
Servizio Informazioni Militari del Ministero della Guerra, il servizio segreto
di Benito Mussolini.
Lavorando all’ufficio informazioni dello Stato Maggiore del Regio esercito,
Edoardo Martino fu mandato, prima del settembre 1943, sul Monte Conero.
La sua biografia afferma che, nella zona in cui oggi opera il Terzo DAI,
diresse “una postazione di intercettazione dei messaggi provenienti dalla
costa dalmata” fino all’armistizio dell’8 settembre ‘43. E fu proprio mentre
era sul Conero, cioè il giorno 9 settembre ‘43, che questo militare aderì ai
gruppi cattolici di guerra partigiana, combattendo in seguito in Piemonte tra
il monferrato e l’alessandrino alle dipendenze dei soldati britannici.
Se era importante o no lo sapete solo voi che avete percorso quei tunnel.
"Io ero sopra i tunnel..."
Io ho visto il video di quel Matteo Montesi... mi hanno impressionato
quelle docce con i rubinetti strani... il bunker sembrava un ritrovo per le
messe nere... l'idea che mi sono fatto io e che non leggerà nel libro è che
gli americani dopo la guerra del 1945 volessero ricreare una nuova
Guantanamo, e nel Conero ci volevano conservare i missili. Poi però lo
smantellamento dell'aeroporto di Loreto li convinse ad abbandonare il
sito... Il resto della storia per ciò che ne so è nel libro...
"Non ho visto il video di Montesi..ha per caso il link?"
Eh no... non la sa la storia? l'hanno denunciato e il video è stato
censurato nel 2014 dopo pochi giorni. Lui racconta di essere stato
minacciato da una spia con accento inglese... è tutto nel pdf... Speravo
che con Mediaset nel 2012 si riuscisse a fare un lavoro più serio. Ecco, le
ho mandato il mio libro sul Conero e anche le prime pagine del volume
di mio nonno sul servizio di leva.
"Poi leggerò tutto con calma."
Certo certo non si preoccupi, non è un interrogatorio. Presumo
comunque che una parte della politica di Ancona non veda di buon
occhio voi SDI del Conero... Le dico presumo perché per ora nessuno ne
parla a parte me.
"A noi nessuno ci vedeva di buon occhio...nemmeno gli Ufficiali."
Senta, ma è vera la storia che se qualcuno non si fermava all'alt avevate
l'ordine di sparare?
"Su questo ci può contare."
Ah... ma è vero che eravate nascosti anche nei boschi?
"Che io ricordi..non ho mai giocato a moscacieca o a nascondino..."
Quindi eravate solo davanti al cancello?
"Dipende.."
Glielo chiedo perché molti anconetani sono sempre andati sul Conero a
far funghi e certo i giornali non li avvertivano che salendo avrebbero
trovato un fucile puntato contro.
"Io li ho sempre allontanati gentilmente, comunque la gente lo sa che è zona
militare, dato che ci sono i cartelli."
Capisco... beh i cartelli li vedono quando arrivano in alto...
"La canna del fucile è sempre ad altezza occhi."
Ma... scusi la domanda brutale: hanno mai sparato e ucciso qualcuno
sul Conero?
"Non mi pare di aver letto nulla di simile."
156
Meno male... Provo a fare un'altra domanda: lei avrà visto già che su
Youtube ci sono molti video di altre basi Nato abbandonate. Un lettore
del mio blog disse che il Conero era stato costruito insieme a base Proto
a Caserta e al Moscal di Affi. Mi conferma queste affinità con le altre
basi?
"Guardi...a me interessava solo il Conero..e in particolar modo il mio
difendere quella base dove operavo. Il resto non mi interessa."
Ah... bello il vostro inno di Lucio Dalla... essendo un classe 1973 quella
canzone non mi dice niente... però è certamente adatta...
"Cosa?"
Spulciando la pagina facebook da cui ho preso il suo nome c'è il link a
1983 di Lucio Dalla. La pagina da cui ho preso il suo nome è (...) o
qualcosa di simile.
"Eravamo in Caserme diverse... Io ero in cima al Monte."
Se dovessi fare un servizio su di voi SDI del Conero metterei come
sottofondo "Us and them" dei Pink Floyd, mi pare più giusto in un
paese che ripudia la guerra... ma detto senza polemica...
"Io metterei...sempre dei Pink Floyd ..aspetti che non ricordo il titolo...
"Shine on you crazy diamond."
Mi ha mostrato il simbolo dello SDI con la scritta "proteggere in
silenzio". Mi ricorda un mio compagno di liceo che in quel periodo si
iscrisse al Movimento Sociale Italiano di Almirante. Che lei sappia lo
SDI è collegato con i missini?
"No..solo con comunione e liberazione."
157
10
Ecco, allora ho fatto una ricerca e ho scoperto le radici del male. Almeno, io
penso di averle scoperte. Ma scoprire le radici del male, ammesso che io le
abbia trovate, significa anche buttare all'aria quello che c'è sopra. E magari
buttare all'aria chi ce lo ha messo, quello che c'è sopra. Perché se ti
interessano le radici, devi prendere solo quelle. Le radici del processo
IMI-SIR? Vengono da lontano. Vengono a mio avviso dal 1967, minimo. La
procedura di ricerca è semplice, basta immettere le parole IMI e SIR nel
motore di ricerca di Google; scoprendo che ad esempio la SIR era
un'industria petrolchimica che alla fine degli anni Settanta era in grave
difficoltà, e che nel 1990 diede vita a un processo, in cui un certo Nino
Rovelli, titolare, diciamo così, della SIR, chiese un maxi-risarcimento
all'IMI, e questo in sede civile. Risarcimento da 1000 miliardi, che venne
effettivamente erogato verso il 1993 a conclusione della prima tranche della
vicenda giudiziaria. Ma quando i soldi arrivarono ai Rovelli, nel 1994, con
158
20
Pubblicato su Stampa Sera il 13 febbraio 1979.
159
Tornando al 1977, non si era capito bene, insomma, che fine avessero fatto
quei soldi. Di sicuro, scrisse La Stampa, non erano stati utilizzati per
risistemare la SIR, né per i programmi sul Mezzogiorno, come nei progetti
concordati con l'IMI. E chi era l'IMI? In quegli anni era un ente pubblico e si
chiamava Istituto Mobiliare Italiano. Per capire cosa facesse in quel periodo
bisogna tornare ancora indietro. Motore di ricerca e via: era un finanziatore
di progetti e di piccole e medie imprese, ma anche grandi come la Fiat,
specie quando nel 1966 andò in Russia a fondare Togliattigrad21, in piena
Guerra Fredda, ma all'economia e agli affari cosa gliene frega? Altra ricerca,
via: Rovelli più IMI ricompare nella storia di un grande processo, uno dei
più famosi processi della storia della prima repubblica, quello al presidente
del Milan, Felice Riva e il suo cotonificio Valle Susa. Che cosa era successo?
Era successo che nel 1965 questa ditta era fallita e ne era nato, come è
normale in questi casi, un processo penale a carico del titolare, ma anche una
procedura fallimentare per salvare gli operai. Perché dietro la storia dei
grandi uomini, ci sono anche le ricadute sulla società, non dimentichiamolo.
Riva venne dipinto in quegli anni, fine anni Sessanta, da L'Unità e La
Stampa, come un uomo poco attento alla sua azienda, più impegnato nelle
crociere e il lusso di cui godeva. Era senza dubbio il colpevole numero uno
se l'azienda aveva fatto segnare un passivo di circa 42 miliardi e lasciato
senza futuro 8000 operai. Chi li aveva salvati? Fu uno degli elementi cardine
del processo penale: il difensore di Riva, Michele Lener, poi difensore del
commissario Calabresi22, puntò su un fatto che colpì il giornale L'Unità, il
quale prese lo spunto da quelle arringhe per fare degli scoop. Per Lener, Riva
non aveva ricevuto gli aiuti promessi dall'IMI per salvare l'azienda dal crac.
L'IMI gli aveva offerto un prestito in cambio di una copertura a garanzia
dell'esborso che Riva non accettò di dare, o, come disse lui, mi pare di capire,
non ebbe il tempo di dare, perché l'ultimatum scadeva mentre era ancora
fuori Milano, sede dell'azienda e del processo. Una scadenza troppo breve.
21
I dirigenti della Fiat siglarono nel 1966 un accordo per fondare una fabbrica di automobili
nell’allora URSS. Sarebbero stati costruiti edifici e alla produzione dell’italiana Fiat 124
avrebbero contribuito anche operai italiani. L’IMI partecipò con 200 miliardi di finanziamento.
Cfr: “L’intervista con il capo della delegazione dell’Urss”, La Stampa, 6 maggio 1966.
22
Il commissario Luigi Calabresi è stato un poliziotto italiano con la qualifica di commissario
di pubblica sicurezza (Wikipedia). Indagò sulla strage di Piazza Fontana a Milano e rimase
coinvolto nella misteriosa morte di uno dei primi indagati, l’anarchico Giuseppe Pinelli. A sua
volta Calabresi fu ucciso il 17 maggio del 1972 quando era commissario di pubblica sicurezza.
Furono identificati come autori del delitto Ovidio Bompressi, Leonardo Marino, Giorgio
Pietrostefani e Adriano Sofri, esponenti di Lotta Continua (Wikipedia).
160
L'azienda fallì nel 1965 e, secondo Lener, l'IMI in autunno era già pronto a
impadronirsi del cadavere della Valle Susa con un'azienda nuova nuova
creata ad hoc insieme ad un personaggio nuovo, per quei tempi, Nino
Rovelli23. Al processo il fatto venne confermato dal direttore della Banca
d'Italia, Guido Carli, al quale venne contestato il fatto di aver fatto parte di
quella cordata di salvataggio in quanto amico di Rovelli e parente di alcuni
personaggi raccomandati dal Rovelli stesso per lavorare alla SIR24. Fu così,
non fu così? A me colpisce molto questo giro di amicizie in tempi non
sospetti. Non andò poi così, nel senso che la SEIT di Rovelli chiedeva di
affittare l'azienda Valle Susa per cinque anni, mentre l'ETI della Edison
assicurava maggiori garanzie per gli operai e nel giro di poco tempo vinse la
ETI quell'appalto sul cadavere di Riva. Per L'Unità si trattò di un tacito
accordo in cui la SEIT fungeva da apripista e l'ETI intascava i fondi dell'IMI,
quelli che la stessa IMI non diede a Riva.
Dicevo cadavere perché un fallimento non è un gioco: si va in galera e si
paga molto caro il danno. Riva dovette pagare, a livello penale, con sei anni
in primo grado ridotti a cinque in appello nel 1971, mentre a livello di pena
pecuniaria, visto che l'IMI aveva anche effettuato un accertamento ispettivo,
venne condannato lo stesso Riva a pagare 50 miliardi di tasse inevase per
una faccenda emersa anche al processo, ovvero la successione effettuata dal
padre di Felice Riva della stessa azienda Valle Susa non dichiarata allo Stato,
a quanto pare. Una condanna arrivata nel 198425 quando Riva pare fosse
tornato già in Italia. Da dove? Dalla prigione dorata del Libano, dove si era
rifugiato per sfuggire all'arresto. Secondo quanto da me riscontrato, in
Appello gli erano stati condonati tre dei cinque anni di galera che si sarebbe
dovuto fare. Ma due gliene mancavano ancora, tuttavia l'articolo de La
Stampa sul processo per l'eredità non dichiarata scriveva, nel 1984, che ogni
addebito penale gli era stato amnistiato. Beato lui, che santo proprio pare
non sia stato, e da Wikipedia risulta sia vivo e vegeto in Versilia.
Del resto, Rovelli, il personaggio oscuro di cui sto parlando in questa ricerca
storica, Felice Riva non lo conosceva, e semmai gli aveva creato un danno
23
Cfr: “Felice Riva non fu il solo a defraudare i suoi operai”, L’Unità, 2 ottobre 1969.
24
Cfr: “Anche parenti di Carli nella vicenda del CVS”, L’Unità, 11 luglio 1969.
25
Cfr: “Agli eredi dell’impero Riva toccherà pagare 50 miliardi”, La Stampa, 12 dicembre
1984.
161
insieme all'IMI. Perché Rovelli era attivo soprattutto in Sardegna dove nel
1966-67 pare avesse trovato una miniera d'oro. Specifichiamo però che l'oro
consisteva soprattutto nei finanziamenti dell'IMI, il quale pare accertato da
un testimone illustre, quale è L'Unità, che nel 1967 stesse distribuendo i
soldi dei cittadini in modo più facile rispetto al caso Valle Susa, con un tasso
del mutuo pari al 3%, per dei progetti fantomatici di cui L'Unità in quel
periodo non vedeva nemmeno l'ombra in Sardegna26. Ed era solo il 1967.
Dieci anni dopo l'IMI veniva accusata, come abbiamo visto, di aver pagato
migliaia di miliardi di vecchie lire, finiti non si sa dove per colpa di Rovelli.
Pare che Cappon non avesse nemmeno avvertito il suo direttivo delle
operazioni pericolose rivolte dall'IMI verso l'imprenditore di Olgiate Olona.
In quel momento, scriveva l'Unità nel 1977, Rovelli non era solo il principe
dei debiti ma pure il maggior azionista privato della Montedison, azienda
pubblica che altro non è che la vecchia Edison, quella della ETI, che già
conosciamo. Anche la Montedison era sommersa dai debiti.
Cosa successe? Non successe niente, anzi ci fu un improvviso cambio di
rotta delle vicende della SIR. L'azienda, pur con un buco pauroso, non fallì,
sembra di capire, e per fortuna degli operai, perché la SIR dava da mangiare
a tanta gente non solo in Sardegna, anche nel novarese, dove sono residente.
Rovelli aveva aperto anche dei quotidiani. Il periodo cruciale è il 1981. In
politica nel periodo del mandato di arresto, il 1979, era in atto il famoso
governo di Solidarietà Nazionale di Cossiga. Si era usciti dal periodo nero
delle Brigate Rosse, e parallelamente anche da questo dissesto finanziario.
Come? Era intervenuto il governo. Ecco l'articolo emblematico del 1981,
appunto: “Il piano Eni-Sir è pronto, lo Stato rinuncia a 1200 miliardi”27.
Ma che magnanimo lo Stato, pur di non colpire l'IMI e Rovelli non solo
lascia stare le sue pretese creditizie nei confronti della SIR ma la aiuta a
rinascere dal nulla. E chi si inserisce in questa trattativa? La Montedison,
che ha rilevato il nome della vecchia Edison. Il cerchio preannunciato da
L'Unità nel 1969 si è richiuso. Tutti uniti nel nome di Rovelli e dello Stato
Italiano. Rovelli che a differenza del povero presidente del Milan, Felice
Riva, non subisce nemmeno la virtuale condanna. Anzi, pochi anni dopo
tornerà alla carica alla ricerca di nuovo denaro dalla stessa IMI, e come
sappiamo le farà causa, vincendola nel 1990, quando Rovelli stesso era
morto da poco. Non solo, se torniamo un attimo indietro e leggiamo un
26
Cfr: “Da 1 a 1000 milioni le società Rovelli”, L’Unità, 22 gennaio 1967.
27
L’articolo è de La Stampa del 4 dicembre 1981.
162
articolo del gennaio 1980 de La Stampa28, scopriamo che lo Stato per la SIR
ha fatto molto più che rinunciare ai crediti. Ha proprio elargito denaro. Per
un'azienda che in effetti era con l'acqua alla gola avendo non 42 miliardi di
debiti come la Valle Susa, bensì alcune centinaia. Del resto erano passati
tanti anni dal fallimento della Valle Susa stessa e c'era stata un po' di
inflazione. E quanto aveva dato lo Stato alla SIR? Ben 81 miliardi di vecchie
lire, nel piano di salvataggio della GEPI. Altri 31 miliardi sarebbero serviti
nel 1981. E chi era che gestiva questa operazione? Proprio un uomo che
all'inizio del nuovo millennio sarà chiamato nella vertenza, causa, non so più
come chiamarla tra IMI e SIR, Pietro Schlesinger. Uomo di cui parlano
tuttora siti presenti online, come quello sui “Misteri d'Italia”, a proposito di
questa storia.
Per la precisione era il 2003 quando la Cassazione dava ragione alla Banca
IMI, che nel frattempo era diventata una banca, appunto, privata inglobata
nel Sanpaolo di Torino. L'IMI nella sua battaglia per recuperare i 1000
miliardi persi con la causa del 1990 aveva vinto. La caccia a quei soldi
poteva dirsi conclusa e questo nonostante la vicenda parallela di Previti,
sulle presunte tangenti, non fosse ancora chiara. Una battaglia condotta
dall'IMI per tutti gli anni Novanta, scrivevano i giornali di sinistra, al fine di
non rivalersi sui cittadini. E sarebbe del resto stato assurdo che i cittadini
avessero pagato con altre tasse per un ammanco di soldi causato da una
guerra feroce, che per ventanni si era protratta tra un'azienda che doveva
fallire ed era stata salvata dallo Stato, la SIR, e un ente di Stato che aveva
buttato via mille miliardi, forse di più, ma per il quale reato non aveva poi
pagato nessuno; mentre lo stesso ente aveva deciso di non fare più lo Stato e
di passare al settore privato. Diciamo una seconda vita di queste due aziende,
SIR e IMI, che parte nel 1990 con il processo all'interno del quale si erano
manifestate alcune assurdità. Vorrei dire quindi, venendo a oggi, che stiamo
vedendo sui tg un film, una specie di Truman Show, che non ci piace, se
pensiamo che questo film si doveva concludere non oggi, non nel 2003 con
la sentenza della cassazione e nemmeno nel 1990, ma nel 1979, quando io
personalmente facevo il terzo anno di asilo.
Dunque nel 1990, e torno così fra poco al finanziamento statale del 1980, era
emerso questo: che otto anni prima, nel 1982, Rovelli, il quale doveva finire
in galera per bancarotta fraudolenta e risarcire lo Stato dei danni prodotti
dall'ammanco suo e dell'IMI, aveva fatto causa alla stessa IMI. Non gli
bastavano i soldi che gli avevano dato per risanare la SIR, che continuerà la
28
Cfr: “La Sir ha trovato i soldi, ma avrà anche il petrolio?”, La Stampa, 12 gennaio 1980.
163
sua vita, tra mille paure testimoniate dagli scioperi della fine degli anni
Settanta e l'inizio degli anni Ottanta, per lungo tempo con la felicità dei
sindacati e gli operai, Rovelli voleva essere risarcito. Per cosa? Non si sa
assolutamente, io bambino del terzo anno di asilo del 1979 non posso capirlo,
purtroppo.
Diciamo che intuisco questo: secondo Schlesinger emergeva già nel 1980
dagli articoli de La Stampa che l'IMI nel piano di risanamento non aveva
erogato i 700 miliardi richiesti, ma solo una parte. Su 773 miliardi ne aveva
infatti versati solo 137. E dire che Felice Riva, poveretto, si sarebbe
accontentato di molto meno. Di qui il processo civile e la condanna a pagare
questi soldi con gli interessi: 1000 miliardi, altri mille dall'IMI. E i prestiti?
Dico: e il concetto di prestito con interesse dov'è finito? La Valle Susa non
era forse fallita per una copertura al prestito IMI non adeguata? Vuol forse
dire che Riva diventa un santo? Rispetto a Rovelli, sì, perché a quest'uomo,
buon'anima che spero riposi in pace, i soldi come detto non bastavano mai.
Cosa ci doveva fare?
Sembra la storia di Edoardo Longarini, una storia che, chi come me ha fatto
il giornalista ad Ancona sa bene, parla di un altro magnate dell'editoria il
quale ne aveva combinate di tutti i colori. Aveva creato i primi precari
giornalisti, innanzitutto, definiti sui giornali all'inizio degli anni Novanta
“braccianti del giornalismo” a cui faceva firmare contratti dell'edilizia, e
aveva soprattutto rubato i soldi dei cittadini lucrando sulle ricostruzioni post
terremoto del 1972 e post frana del 1982. Il Corriere della Sera nel 1992
titolava: "L’impero realizzato su una frana"29. Solo per quel disastro infatti si
parlò di 500 miliardi erogati dal Ministero, e dall'onorevole Nicolazzi in
particolare, alla “Adriatica Costruzioni” per edificare quelle che per anni ad
Ancona sono state delle Incompiute con la I maiuscola. “I” come la forma
dei piloni delle superstrade che hanno visto la luce con tanta, ma tanta
lentezza, solo pochi anni fa, quando Longarini era già in galera30. Ma questa
29
Pubblicato sul Corriere della Sera il 10 ottobre 1992.
30
Edoardo Longarini, dopo gli inizi come impiegato in una ditta petrolifera, è stato un
imprenditore edile, ma anche editore e dirigente sportivo. E’ stato proprietario di quotidiani e tv,
tra cui La Gazzetta di Ancona e Galassia TV. Viene descritto dai giornalisti dorici come uomo
burbero, che guidava i mass media da padre padrone. Quando la Gazzetta di Ancona chiuse, per
via dei guai giudiziari del magnate, molti giornalisti professionisti rimasero senza lavoro. E’
stato inoltre patron dell’Ancona calcio e della Ternana. Con l’Ancona è riuscito ad approdare
164
alla serie A nel 1992; i processi lo sorpresero proprio mentre la sua squadra se la vedeva con i
campioni della massima serie. Gli strascichi delle sue malefatte si protraggono fino a oggi, sia
sotto l’aspetto del degrado urbano della parte storica di Ancona, sia per i processi ancora in
corso.
31
Il padre di Silvio Berlusconi si chiamava Luigi Berlusconi e fu procuratore della Banca
Rasini dal 1957 (Wikipedia).
32
Cfr: “La Banca Commerciale di Lugano acquista la Banca Rasini”, Gazzetta Ticinese
(Svizzera), 11 maggio 1984. I giudici del pool di Mani Pulite indagheranno molto negli anni ‘90
sui conti correnti della Banca Commerciale di Lugano e i politici ne dibatteranno in Parlamento,
ma nessuno si ricorderà più, a quanto pare, del suo proprietario Rovelli.
165
Del resto si sa che Forza Italia è un organo in cui sono confluiti uomini di
tante correnti; ma soprattutto c'è questo zampino di Rovelli nella vita di
Berlusconi che preoccupa e non poco. Berlusconi vince sempre grazie a
Previti, avvocato amico di Rovelli, si è detto spesso in politica. Ma tutto
sarebbe stato vano, per lui, se nel 1979 le cose fossero andate diversamente.
Ecco come a volte un problema non risolto provoca grandi tragedie. Rovelli
è diventato più santo di Riva, e ha vissuto negli anni Ottanta un periodo di
rinascita personale, mentre la sua SIR venne inglobata come nulla fosse nel
1988, indovinate un po' dove? Nella Montedison, naturalmente. Titolo de La
Stampa: “La SIR nell'impero Gardini”33. Il costo dell'operazione di
acquisizione, ben 170 miliardi e 100 milioni. Un altro piano di salvataggio.
Senza prestiti e senza interessi. E' il periodo, già, delle scalate dei magnati al
possesso di una quota delle grandi aziende. Spariscono dai giornali gli operai,
spariscono le ricadute sociali, ma diciamo che, da quello che mi risulta,
nessun operaio apparentemente ha vissuto sulla propria pelle direttamente gli
effetti di questi problemi giudiziari, ed economici, dell'olimpo degli dei.
Peccato che anche la Montedison finirà nei guai come la Valle Susa e come
la SIR. Ma peccato anche che, dopo il suicidio di Gardini e quella enorme
vicenda giudiziaria, pure la Montedison sarà salvata dallo Stato, mentre alla
guida dell'azienda ci finiva Guido Rossi. Il debito era modestissimo, si fa per
dire: il 15 ottobre del 1993 La Stampa scriveva queste cifre: 22.617 miliardi
per la Ferfin, 16.218 la Montedison34. "Un buco nero", nel quale le banche
estere non vollero entrare, naturalmente, la Mediobanca di Cuccia, in passato
ente di Stato per le intermediazioni bancarie ma ormai in via di
privatizzazione, ci si buttò a capofitto.
Qual è il problema? Il problema in soldoni, a mio modesto avviso, non sono
per noi cittadini le tangenti di Gardini, come nemmeno quelle delle Carceri
d'oro. Il guaio vero è che lo Stato ha girato i nostri soldi per anni a questi
signori, ma non lo ha mai fatto capire, mascherando le operazioni, prima
come finanziamenti pubblici con prestiti SEIT, ETI, Piano Rinascita della
Sardegna, Ricostruzioni nelle Marche (anche in Irpinia?), poi come
operazioni di salvataggio delle aziende; e sia nel caso SIR sia in quello di
Tangentopoli della Montedison ha guidato a suon di miliardi le due aziende
non punendo i responsabili dei crac e facendosi carico dei debiti. L'esatto
33
L’articolo uscì l’8 ottobre del 1988.
34
Ma gli ingentissimi debiti riguardavano molte altre aziende, tra cui le pubbliche IRI e
Ferrovie dello Stato, la Fininvest, la Fiat, la Olivetti. Cfr: “L’azienda Italia affoga ne debiti” e
“Ferfin e Montedison varano il piano”, La Stampa, 15 ottobre 1993.
166
contrario del caso Valle Susa. Importante quindi il presidente del Milan, sì
ma quell'altro, Riva! Lo Stato, sempre in soldoni, ha salvato migliaia di
operai, forse, ma ha allargato sempre di più un buco nei bilanci pubblici.
Buco che non vuole rivelarci, o forse lo sta facendo Monti in questi mesi.
Come un bambino che ha preso un brutto voto a scuola e si vergogna, cerca
di rinviare un'ammissione di colpa che però va fatta, perché la crisi nostra è
anche questa. O solo questa. La realtà è che non siamo liberi di scrivere sui
giornali. Dobbiamo sorbirci notizie di guerre intestine, vere o false, non mi
interessa, ma dobbiamo stare zitti e aspettare che alcuni colossi finiscano di
litigare, senza che noi possiamo interferire, per nascondere il fatto che molti
nostri soldi non ci sono più. E se non li hanno fatti tornare con il commercio
delle armi, che è testimoniato dagli articoli di Repubblica, è possibile che li
stiamo pagando ora, noi, con le tasse, anche quelle sui carburanti. Sì, perché
Rovelli, amico e collega di Angelo Moratti nella ricostruzione in Sardegna
nel 1967, era anche un petroliere.
Lo Stato italiano è come una mamma. Una mamma buona che non nega il
suo aiuto alle aziende in difficoltà. Su questi presupposti pare sia nato, nel
1982, un Consorzio in cui lo Stato italiano subentrava nella spinosa, a dire
poco, questione della voragine di debiti della SIR di Nino Rovelli. Come
sappiamo Rovelli si era indebitato fino al collo, non prima di aver sottratto
alla sua SIR mille o forse duemila miliardi elargiti dall'istituto statale IMI e
che sarebbero dovuti servire per progetti edilizi in Sardegna e nel Sud Italia.
Ne era nata una inchiesta giudiziaria condotta dal pm Luciano Infelisi che tra
il 1977 e il 1980 cercò di far arrestare, senza riuscirvi, il direttore dell'IMI
Giorgio Cappon e lo stesso titolare della SIR, Nino Rovelli, oltre ad altri
personaggi degli enti assistenziali dello Stato.
Ora la novità è che online, cercando su Google la Banca Commerciale di
Lugano35 si arriva non so come ad un documento importantissimo redatto in
Senato o alla Camera alcuni, pochissimi, anni fa. Secondo me si tratta di un
vero e proprio scandalo che coinvolgerebbe uomini dello Stato italiano che
35
Nel motore di ricerca di Google sono state immesse queste parole: “Banca Commerciale
Lugano+Senato”. Tra i primissimi risultati compaiono due indirizzi intitolati: “Senato della
Repubblica - 81- Camera dei deputati” e l’altro: “Senato della Repubblica - 321 - Camera dei
deputati”. Portano a due file pdf. Cambiando il numero di pagina alla fine dell’indirizzo URL si
può accedere anche ai fogli non indicizzati.
167
dal 1982 a oggi avrebbero gestito la liquidazione di una società privata come
la SIR accusata di “sperpero di denaro pubblico”. SIR che alla fine degli
anni ‘70 riuscì ad acquistare il 5% delle azioni dell'azienda pubblica
Montedison. Una scalata che risultò fatale a Nino Rovelli, si leggeva nei
quotidiani di allora. Venne a galla il debito spaventoso di alcune centinaia di
miliardi di vecchie lire. Sarebbe dovuto fallire, ma non fu così e nacque
questa procedura diciamo fallimentare di Stato molto ma molto dilazionata
nel tempo, se è vero che dura da 30 anni. All'interno del documento si evince
che, oltre al noto piano di risanamento della SIR, al centro poi del ricorso del
1990 di Rovelli, era nato anche quello che nel documento viene chiamato
“Vecchio Consorzio”, creato proprio perché, secondo chi scrive la nota, il
Piano di Risanamento non aveva fatto bene i conti sui debiti e gli oneri
inerenti alla SIR.
della SIR, mentre la procedura sembra sia stata effettuata già per le altre 161
società. C'è ovviamente l'ostacolo, alla liquidazione, delle cause civili e
penali in corso. Ma l’altro ostacolo è alienare il patrimonio immobiliare
delle società anche a prezzo ridotto. Lo Stato sta comunque gestendo da solo,
senza l'intervento di un tribunale, una società privata e sospetta, la SIR di
Rovelli, che doveva fallire nel 1979. Perché? Che rapporti aveva Rovelli con
lo Stato? Quali obblighi c'erano da indurre i Ministri della Repubblica a
scrivere leggi fatte apposta per la gestione di un affare così circoscritto e non
certo di interesse pubblico? Per salvare gli operai? Io penso che non sia
questa la ragione, visto e considerato che una nuova società con capitali
freschi avrebbe già da tempo risolto i problemi della produzione del colosso
petrolchimico, di cui del resto si sono perse le tracce. Nel novarese e alto
novarese pare che la Rumianca ad esempio sia stata venduta nel 199736. Il
documento infatti scrive che la chiusura della liquidazione non avverrà
prima della chiusura delle vendite (ma presumo anche chiusura definitiva) di
tutte le aziende del gruppo SIR. Cosa ci si deve aspettare quindi ora da
questa vertenza? Per chi scrive il documento tutto dipende dalla
soddisfazione dei crediti del Sanpaolo IMI, oggi Intesa Sanpaolo, perché se
così non avvenisse il “Nuovo Consorzio” sarebbe costretto ad aprire, mi
sembra di aver compreso, nuove vertenze contro il “Vecchio Consorzio”, al
fine di evadere tutte le richieste. E così non si finirebbe più. Speriamo bene
insomma, nell'interesse, a questo punto è chiaro, di tutti i cittadini italiani!
36
La Rumianca passò dalla Enichem all’azienda franco-belga Tessenderlo nel 1997. Cfr: “In
mostra a Vogogna la storia della Rumianca”, La Stampa, 6 ottobre 2002.
170
37
Questo è l’elenco dei soggetti presenti nel 2005 all’interno del “Nuovo Consorzio” e le
171
relative quote di proprietà delle azioni, secondo un grafico del documento, che è stato redatto
dalla Corte dei Conti: Sanpaolo IMI (32,838889), Banca C.I.S. (5,627855), Isveimer (0,692665),
Comitato Intervento S.I.R. (60,000003), Banca Pop. Milano (0,01387), Banco Sicilia
(0,259804), Efibanca (0,132441), Banco Sardegna (0,242808), Banca Intesa (0,017704),
Capitalia (0,079464), Banca Pop. Novara (0,000884), Banca Pop. di Intra (0,044147),
Unicredito Italiano (0,009713), Banco di Brescia (0,017658), Banca Desio e Brianza (0,017658),
Banca Trento e Bolzano (0,004414), Cassa Risp. Alessandria (0,000022).
38
I numeri con i quali ho contrassegnato i vari file di questo documento sono un valore
arbitrario che ho dato per salvarli nel mio computer.
172
39
Giovanni Ruoppolo fu uno dei componenti della Commissione di esperti del governo italiano
per le Partecipazioni Statali nominata il 23 giugno 1975. Il 22 settembre del 1980 fu nominato
presidente del Consorzio Bancario SIR.
40
Sul documento questa ditta viene nominata senza i puntini: “MEI srl”.
173
non fosse che questa relazione non sembra essere in linea con quanto emerge
dagli articoli dei quotidiani.
Sì, perché la storia della SIR e del “Nuovo Consorzio” si sarebbe conclusa
già nel 1988 con la cessione ufficiale per oltre 170 miliardi della stessa
azienda, risanata dal Comitato, come annunciava su La Stampa lo stesso
Ruoppolo, alla Montedison di Gardini; elemento che nella relazione
parlamentare manca del tutto. La SIR è diventata ufficialmente un fantasma,
così come il Comitato, che avrebbe ultimato il suo lavoro sia con questa
cessione alla Montedison, sia con le vendite o svendite delle tante società
della SIR. Nel documento emerge infatti che tra gli obiettivi del Comitato
c'era la vendita delle aziende all'ente allora di Stato ENI, che oggi è
un'azienda quasi totalmente privata41. Un grafico nel documento fa capire
come la maggior parte del patrimonio di Rovelli sia finita in mano ad ENI
già nel 1982. Resta ben poco da fare per Ruoppolo, se non coprire quel buco
enorme del 1980 di SIR che si è accollato insieme al “Nuovo Consorzio”,
soddisfare Sanpaolo IMI per l'accordo sempre di quel periodo (1200 miliardi
per uscire dal Nuovo Comitato), e poi produrre utili per sé stesso.
Il profitto, limitatamente alle liquidazioni della SIR, nel 1989 risultava
essere di 254 milioni di euro. Però il Comitato non è un liquidatore, come
abbiamo detto, è un'azienda e come tale non ha il 100% del controllo di SIR,
ma solo il 60%. Il resto se lo dividono le Banche del “Nuovo Consorzio”. Il
controllo di SIR è ovviamente della maggioranza, e quindi del Comitato, che
però ha anche il 95% delle azioni di REL s.p.a. in liquidazione, mentre il 5%
rimanente è di Fintecna s.p.a. Qui siamo nel settore dell'elettronica. Dal 1999
come detto c'è la partecipazione in STMicroelectronics con il 22,9%, costata
al Comitato e messa a bilancio in negativo: 206,6 milioni di euro.
Sempre nel 1999 riemerge il fantasma del Comitato su La Stampa. C'è stato
infatti il decreto del Ministero con cui si chiede di girare gli utili delle
liquidazioni al Tesoro e nell'articolo si annuncia trionfalmente che il
Comitato sta per chiudere i battenti fornendo tanti soldi al bilancio dello
Stato. Però non è così, se non in parte. In realtà il Comitato è un'azienda che
vuole continuare a vivere e allo Stato gira anche partecipazioni in aziende
s.p.a. Altri utili sembra dalla relazione del presidente che stiano derivando
dal 1993 dalla liquidazione della REL s.p.a. E dalle parole di Ruoppolo
emerge chiaramente come il Comitato non ha provveduto “soltanto, in
attuazione dell'originario disegno, alla conveniente rivalutazione ed
41
Lo Stato deteneva fino al 2013 il 4,34% delle quote di ENI. Cfr il sito del Governo alla voce:
“partecipazioni dirette del Ministero dell’Economia e delle Finanze – Dipartimento del Tesoro”.
174
Cos'è la REL? Mi sembra di capire che sia una società pubblica che all'inizio
degli anni ‘80 aveva il compito di gestire e sovvenzionare le industrie
italiane di elettronica, che davano lavoro a circa 12mila dipendenti. La REL,
dice la voce del Comitato nella relazione, non aveva gestito in modo valido
la situazione, avendo acquisito azioni di aziende che non registravano grandi
introiti, e avendo anche erogato prestiti agevolati senza chiedere adeguate
garanzie come copertura. Nel 1993, per la nota necessità di pareggiare le
perdite di SIR, lo stesso Comitato ha deciso quindi di entrare in possesso
della REL; l'obiettivo è solo uno: fare soldi.
Diciamo che quindi il Comitato non sembra agisca nell'interesse dei
lavoratori. Le aziende non si sa, da questa relazione, che fine faranno;
l'importante è che il Comitato porti a casa qualcosa. E così sarà: vengono
chiesti indietro i soldi delle azioni e dei prestiti. Ci sono due società in
difficoltà e sono la Seleco e la Hantarel. In seguito a questa azione ispettiva,
al fine di chiedere indietro i soldi, la Hantarel viene dichiarata fallita dal
tribunale di Firenze e questo impedirà alla REL di riscuotere fino in fondo i
soldi erogati in precedenza. Sulla Seleco, invece, la REL aveva delle azioni
in proprietà. Succede che quindi la REL deve azzerare le perdite in eccesso
rispetto al capitale della Seleco, rinunciando ai suoi crediti.
Si tratta di un fenomeno che avevo notato anche in precedenza, questo. Della
cessione da parte del “Nuovo Consorzio” degli impianti SIR all'ENI nel
176
1982 mi avevano colpito due elementi: il primo è che non entravano nel
Consorzio soldi all'attivo, ma debiti, ben 1000 miliardi di vecchie lire. La
seconda cosa che mi aveva colpito era il modo in cui il Comitato aveva
deciso di coprirli e cioè azzerando i crediti dello Stato nei confronti di ENI.
Anche i debiti di SIR erano spariti con questo sistema. Strano. Il 1984 era il
periodo in cui Craxi tagliava i punti sulla Scala Mobile. Periodo nero, come
il 1992-93, quando la lira rischiava il collasso; in quello stesso periodo la
REL entrava nel Comitato SIR.
Dicevo della Seleco: si evince dal documento che la società messa alle
strette rispetto agli altri crediti che la REL ha nei suoi confronti (36milioni di
euro), non avendo risanato l'azienda con la ricapitalizzazione chiede al
Ministero il beneficio di restituire a breve scadenza il prestito, cosa che
avviene, ma che non evita alla Seleco il fallimento dichiarato dal tribunale di
Pordenone. Ne nascono una serie infinita di cause, dove, vince uno o vince
l'altro, di sicuro vengono spesi soldi per avvocati e perso tempo in procedure
amministrative. Il bilancio finale di queste operazioni sarà positivo, a detta
del presidente del Comitato, ma con quanta fatica, quante aziende fallite (a
differenza della SIR) e con quante cause civili! Non è sicuramente un
Comitato amico del rilancio industriale e del futuro del mondo del lavoro.
Questo Comitato fa bene i suoi interessi.
42
Il Ministero delle Partecipazioni Statali secondo Wikipedia fu istituito in Italia nel 1956 e
soppresso, con referendum abrogativo, nel 1993. Dell’abolizione di questo importante Ministero
si parlava già il primo ottobre 1991 con l’approvazione di un Decreto Legge voluto dall’allora
Ministro del Tesoro, Guido Carli. L’ipotesi che veniva formulata era che a gestire tutte le
imprese pubbliche e private sarebbero stati il Ministero dell’Industria e forse anche quello del
Bilancio, con l’obiettivo di trasformare le aziende pubbliche in s.p.a. Cfr: “Carli: via le
partecipazioni statali”, La Stampa, 1 ottobre 1991.
177
43
Cfr: “StMicroelectronics, chip vincente”, L’Unità, 27 gennaio 1999.
44
Cfr: “StMicroelectronics conferma 1.200 esuberi”, L’Unità, 7 ottobre 2005.
45
Cfr: “Per vendetta, un delitto satanico”, La Stampa, 3 agosto 1990 e “Seviziata e uccisa nel
capanno degli orrori”, L’Unità, 2 agosto 1990.
46
Cfr: “Condannato a 25 anni Augusto Vera Cruz, fu lui ad uccidere la capoverdiana”, L’Unità,
8 giugno 1991.
47
Di MEI s.r.l. su infoimprese.it nel 2013 ne esistono in realtà non moltissime. A volte un
trattino in più o in meno fa la differenza. Con la scrittura che troviamo sul documento
compaiono cinque aziende, di cui una a Verbania (elaborazione dati contabili e date paghe), una
a Nuoro (commercio al minuto di materiali da costruzione), una a Bergamo (progettazione di
robot industriali) e due a Roma, delle quali una commercia in materiali elettronici e televisori,
un’altra senza una attività dichiarata. Purtroppo non sappiamo quale era la situazione negli anni
178
Non c'è nessuna certezza che questa ditta MEI di Roma possa essere il
contenitore vuoto dello Stato, poi inglobato in Finmeccanica. E' solo un
sospetto.
E poi c'è questa STMicroelectronics. Dagli articoli di quegli anni, come del
periodo successivo, emergerebbe come una ditta leader nella produzione di
hardware del computer o della telefonia. Ho fatto una prova andando su
Ebay, il sito di aste più diffuso al mondo. Ho cercato le sue concorrenti nella
produzione di processori: la Intel dà 25mila risultati, la AMD, 13mila, la
STMicroelectronics, solo 7. I prezzi, per la complessità di questi
microprocessori arm-based, sono ridicoli: circa 4 dollari l'uno. Infatti alcuni
prodotti di STM sono di uso militare come il Military 32K X 8 CMOS
EPROM48. E' un indizio forte che qualcosa non va, come per la MEI s.r.l.
Ultimo capitolo sono le tasse. La relazione allega una serie di interrogazioni
alla Camera effettuate nel 1999 in cui il deputato della Lega Nord, Giancarlo
Giorgetti49 aveva mostrato un buon udito. Già dal Senato erano arrivati
segnali che bisognava far presto. Dal senatore Morando era partita una
richiesta di annullamento di una legge. Questa richiesta era stata letta in gran
fretta, nessuno l'aveva capita, ed era stata quindi approvata. Vi si chiedeva di
annullare la chiusura del Comitato e nominare un Commissario Straordinario.
Il Comitato, insomma, doveva andare avanti senza ostacoli. La richiesta e la
legge venivano annullati. Tocca ora al documento sulla Camera dei Deputati.
Qui l'onorevole Giorgetti, dicevo, aveva fiutato che si stava realizzando una
furbata, ovvero si chiedeva che il Ministero e il Comitato potessero
accordarsi autonomamente sulle tasse da pagare. Per Giorgetti l'intento era
quello di annullare queste entrate nelle casse dello Stato dall'altra
fantomatica entità che è il Comitato. Giorgetti ovviamente non fu ascoltato.
Stiamo parlando insomma di una holding dei fallimenti con un unico grande
affare, quello messo a segno nel 1999 con l'incasso di 6.400 milioni di euro
derivanti dalla vendita della quota che la MEI s.r.l. deteneva della
‘90.
48
L’informazione è tratta da un documento tecnico in lingua inglese che ho scaricato dal web.
Si parla di parametri militari con cui sarebbero costruiti questi chip, ma mi è capitato di leggere
qualcosa, riguardo alla STM, anche a proposito di prodotti elettro-medicali.
49
Giancarlo Giorgetti è un parlamentare della Camera dei Deputati dal 1996 ed è sempre stato
votato con la Lega Nord Padania. Tra le curiosità che Wikipedia ci ricorda c’è la storia che
Giorgetti avrebbe rifiutato una tangente da 100 mila euro propostagli dal banchiere Gianpiero
Fiorani, al quale avrebbe risposto di darli al Varese Calcio per farlo iscrivere alla Serie C2. Dal
30 marzo 2013 è stato nominato membro del gruppo di lavoro per le proposte programmatiche
in materia economica e sociale.
179
50
Cfr: “Finmeccanica incorpora la Mei”, La Stampa, 24 settembre 1999.
180
11
IL LIBRO DIMENTICATO
51
Stefano Siglienti era nato nel 1898 a Sassari. E’ stato un anti-fascista sardo, poi Ministro
delle Finanze nel governo Bonomi ed è morto nel 1971 (Wikipedia).
52
Il Piano Marshall fu uno dei piani politico-economici statunitensi per la ricostruzione
dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. L’Italia ricevette in totale, tra il 1948 e il 1951,
1.204 milioni di dollari (Wikipedia).
53
Il titolo completo è “Nino Rovelli, il malaffare: una storia di gatti e di volpi raccontata da
Diego Monteplana”, editore Everest, Milano 1974.
183
giorni della stipula dei contratti, nomi dei notai, cifre, tasse pagate e tasse
non pagate. E’ un’indagine, ripeto, davvero incredibile, che non può essere
sfuggita ai magistrati che anni più tardi incriminarono Rovelli per aver
occultato oltre 1000 miliardi dell’IMI con la sua SIR.
I conti alla fine tornerebbero e questi soldi presi da Rovelli allo Stato
sarebbero una specie di viaggio di andata del fiume di denaro che poi, con la
SIR inglobata nel 1988 nella Montedison, i dirigenti di quest’ultima ditta in
via di privatizzazione girarono sotto forma di maxi-tangente Enimont al
Partito Socialista. Se non sono gli stessi soldi, poco ci manca.
La storia delle truffe iniziò con i prestiti dai fondi americani del Piano
Marshall, stimabili sui 40mila dollari di allora, e proseguì con altri fondi
prelevati dalle casse dell’IMI con modalità diverse, a fondo perduto o con
interessi agevolati e in parte coperti dalla citata legge del Re Umberto di
Savoia, che continuò a far danni anche dopo la sua cacciata dall’Italia.
La parte più consistente di questo denaro arrivò con il piano per la
realizzazione di impianti per creare il colosso del petrolchimico a Porto
Torres, in Sardegna. Rovelli riuscì nel disegno di creare 50 aziende, se non
di più, che non erano autonome e capaci di produrre ognuna dei prodotti,
come chiedeva la legge sui finanziamenti pubblici, ma erano solo una
piccola porzione del grande colosso della SIR. Eppure Rovelli, nonostante
fosse stato citato in tribunale, riuscì a far prevalere la bontà del suo progetto
e a ricevere ben 500 miliardi di vecchie lire. Si potrebbe fare un conto esatto
dei soldi che l’IMI con Siglienti ha regalato gentilmente a Nino Rovelli per
creare il suo impero, ma lascio l’incombenza a chi vorrà perseguire
penalmente questi fatti, se è ancora lecito.
Il mio intento qui è di sottolineare quanto sia attuale questo libro e questo
problema, se è vero che lo Stato, quasi consapevole dell’iniquità dei
finanziamenti pubblici erogati, poi corse ad aiutare questo imprenditore
privato che alla fine degli anni ’70 riuscì ad entrare, con una piccola
percentuale, nell’azienda di Stato della Montedison. Si trattò, e questo
Monteplana lo sottolinea bene, di un aiuto ingiustificato a un ingegnere che
nulla aveva più di tanti altri imprenditori privati, se non il fatto di
distinguersi per essere non tanto un manager, bensì un padrone. Un uomo
solo capace di gestire un immane traffico legale e illegale di soldi e di
prodotti di vario genere.
Rovelli si interessò nella sua vita un po’ a tutti i prodotti, anche ai dadi del
185
Tra le cose che Monteplana non poteva sapere c’è anche la fine che avrebbe
fatto Michele Sindona con la sua Banca Privata Italiana. La bravura di
questo autore è stata quella di riuscire a prevedere anche il malaffare di
quest’ultimo paragonandolo, pensate un po’, proprio all’operato di Rovelli55.
54
Un sistema molto simile venne descritto nel libro del fantomatico autore Giorgio Steimetz,
“Questo è Cefis, l’altra faccia dell’onorato presidente”, pubblicato nel 1972 e poi censurato. Il
protagonista di un giro d’affari illegale era in quel caso il presidente della concorrente pubblica
della Sir nell’industria petrolifera, l’Eni. Questi, Eugenio Cefis, un imprenditore vicino ai
servizi segreti di Miceli, aveva creato delle società private per lucrare illecitamente sul suo
ruolo di imprenditore del settore pubblico.
55
Michele Sindona è stato un banchiere corrotto, iscritto alla Loggia P2 e associato a Cosa
Nostra, specie alla famiglia statunitense dei Gambino. Mandante dell’omicidio Ambrosoli dopo
187
Il triangolo Rovelli-Savoia-Svizzera
il fallimento della sua banca, è morto avvelenato in prigione il 22 marzo del 1986 mentre
scontava l’ergastolo. (Wikipedia).
188
non solo a Lugano ma anche a Ginevra. La notizia era uscita in Italia nel
1987, sul periodico Il Mondo, ed era rimbalzata rapidamente oltralpe.
Rovelli controllava sia la Banca Commerciale di Lugano, sia la Worms e la
Atlantis di Ginevra. La novità è che da questo indizio è stato possibile
scoprire, andando a scavare nell'emeroteca di Lugano, un intreccio che da
Rovelli porta fino al principe Vittorio Emanuele di Savoia. Il fulcro degli
affari di Rovelli sarebbe proprio la Banca Commerciale di Lugano, quella
che viene citata nel documento del parlamento italiano sul Consorzio
interbancario per il salvataggio della SIR, il quale ha operato nell'ombra
almeno fino al 2009. Nata nel 1963, la Banca Commerciale di Lugano
secondo un articolo dell'11 maggio 1984 uscito sul Corriere del Ticino fu
controllata fin da quel primo periodo da Nino Rovelli, ed ebbe in Vittorio
Emanuele di Savoia un finanziatore e collaboratore d'eccezione. Il principe
avrebbe lavorato alla BCL negli anni '60 come esperto di borsa. La storia di
questo gruppo entrò nelle cronache italiane verso la metà degli anni '80,
quando la Banca Commerciale di Lugano acquistò (nel 1984) la
maggioranza delle azioni della Banca Rasini, un istituto bancario su cui la
magistratura italiana aveva indagato nel 1983 per il sospetto che al suo
interno si nascondessero i soldi e i traffici della mafia; quella dei "Colletti
Bianchi" di Milano, facente capo tra gli altri anche a Vittorio Mangano,
amico di Marcello Dell'Utri e stalliere di casa Berlusconi. In quell'articolo
dell'11 maggio 1984, il Corriere del Ticino dava con ampio risalto la notizia
di questo sodalizio sospetto. Vennero fuori anche in Canton Ticino il buco di
Rovelli alla SIR e il collegamento con la casa reale dei Savoia. Nessuno però
immaginava che quella piccola banca milanese inglobata nella holding
svizzera di Rovelli fosse anche il datore di lavoro del padre del futuro
presidente del consiglio italiano. Altri dettagli emersero su L'Unità il 19
agosto del 1986, e l'anno dopo uscirono anche in Svizzera sul "Giornale del
Popolo": si seppe che la Rasini era la banca che aveva permesso alla
Montedison di scalare la Fondiaria Sai. Al timone di Foro Buonaparte in
quel momento c'era uno tra i migliori manager dello Stato italiano, Mario
Schimberni. La magistratura del nostro paese un occhio su questi soldi che
prendevano la strada della Svizzera li aveva buttati, in quel periodo. L'11
agosto del 1987, La Stampa pubblicò la notizia secondo cui c'erano sospetti
che la scalata alla Bi-Invest della Montedison fosse stata effettuata con fondi
neri depositati in Svizzera. Ma fu solo con le inchieste del 1996 che la storia
dei soldi sporchi della Rasini finì di prepotenza nel tritacarne giudiziario. Il
pm Piercamillo Davigo aveva appena concluso un'indagine per delle
mazzette date a dei pubblici ufficiali con lo scopo di aggirare le tasse italiane.
189
Tra i nomi di quegli indagati, secondo il resoconto del Corriere della Sera
del 6 febbraio 1996, c'erano Nello Celio, ticinese della BCL che era divenuto
presidente della Banca Rasini ed era deceduto da poco, e tanti nomi più noti
come Rusconi dell'omonima casa editrice, Rignano della casa discografica
Ricordi, nonché Mario Cal, vicedirettore del San Raffaele di Milano, morto
misteriosamente suicida nel 2011; nomi che creavano un filone d'inchiesta
capace di unire Nino Rovelli, la casa reale dei Savoia e la famiglia
Berlusconi (il cavaliere è stato socio d'affari del direttore del San Raffaele
don Verzè). Un percorso parallelo che, visto il caos politico attuale nel
centro-destra, desta non poca preoccupazione.
Rovelli, "il piduista" Leonardo Di Donna e con lui venne processato il gotha
del mondo socialista dell'epoca di Craxi. Questo conferma tutti i sospetti
sull'ambiente privato-statale-savoiardo di Rovelli: quel giro di affari ha
seguito una strada parallela a quella dell'Eni-Montedison-P2, ma non meno
pericolosa.
191
12
LO STATO PADRONE
Nel 1966 vi era stata una fusione storica tra due aziende tra le più importanti
del paese, in un periodo, come ben sappiamo, di grande boom economico.
L’azienda leader del settore chimico, Montecatini, si univa con la Edison
andando a formare la Montedison. Entrambe erano aziende con un passato
storico alle spalle, avevano attraversato la guerra e la Montecatini aveva
pagato maggiormente l’adesione al fascismo, tanto che il suo anziano
proprietario, Guido Donegani, fu processato nel dopo-guerra dai partigiani e
messo in carcere per un certo periodo. Pare che non si sia mai ripreso da
quella punizione, che riteneva ingiusta, poiché aveva aderito al fascio, sì, ma
solo “per la Montecatini”, per il bene della sua azienda e dei dipendenti,
ripeteva prima di morire alla fine degli anni ’4056. Negli anni successivi la
situazione finanziaria si aggravò e la dirigenza, con a capo ora un ex
campione sportivo di scherma come Giorgio Macerata, provò la strada della
fusione, visti anche gli incentivi statali verso questo tipo di strategia
economica. La Edison fu invece avvantaggiata dalla nazionalizzazione
56
Guido Donegani era nato a Livorno il 26 marzo del 1877 e morì a Bordighera il 16 aprile del
1947 (Wikipedia).
194
57
La nazionalizzazione dell’energia elettrica fu realizzata tra il 1962 e il 1963 per volontà
dell’allora governo di centro-sinistra, con lo scopo di evitare le disuguaglianze tariffarie che
andavano a discapito dei cittadini del meridione. Fu creato l’E.N.E.L. (Ente Nazionale per
l’Energia Elettrica) e le aziende, gestrici in precedenza del servizio, furono indennizzate con
parecchi milioni di vecchie lire. Tuttavia tutti concordano nel dire che queste aziende non
seppero investire il flusso di denaro pubblico in nuove iniziative imprenditoriali di successo. Per
maggiori dettagli cfr: “Razza Padrona”, di Eugenio Scalfari e Giuseppe Turani; Feltrinelli,
Milano, 1974.
58
Il processo di fusione fu lento. Iniziò nel 1966, periodo nel quale l’azienda fu denominata
Montecatini Edison s.p.a., e si chiuse nel 1969 quando si passò alla Montedison s.p.a.
195
A questo punto si entra in uno dei più grandi misteri del nostro paese, quello
dei fondi paralleli del bilancio Montedison, detti comunemente “fondi neri”.
Ed è qui che entra in ballo anche l’operato del famoso magistrato Antonio Di
Pietro, il quale nel 1992-1993 riprese proprio la storia dei “fondi neri”
Montedison e, dimostrando un passaggio di denaro dalla Montedison del
presidente Garofano ai partiti politici, riuscì ad arrivare a delle condanne,
cosa che nella precedente inchiesta non era avvenuta. Perché, come dicevo
in precedenza, nel 1972 c’era già stata un’inchiesta sui fondi della
Montedison. Si parlò in quel periodo di 50 miliardi elargiti nell’arco di sei
anni in vario modo dal presidente Valerio, uno dei maggiori accusati, verso
alcuni non ben precisati suoi interlocutori; si parlò con insistenza anche di
uomini politici. Scrisse Guido Guidi su La Stampa il 4 aprile del 1978: “Gli
uomini politici avevano bisogno di denaro per le esigenze dei loro partiti e
l’ingegner Valerio è sempre stato molto comprensivo e generoso.”59
L’accusa era partita da cinque azionisti della società e sul banco degli
imputati ci erano finiti leader dei partiti quali: Rumor, Piccoli, Segni, poi
altri nomi fra cui Folchi, Gino Colombo, Nencioni, Michelini, Malagodi,
l’ex senatore Reale, Mauro Ferri, Pucci e Dosi. Ad accusarli erano le
dichiarazioni dello stesso Valerio riportate da La Stampa in quel 4 aprile
1978: “Ogni volta – disse – nelle erogazioni figura il nome di un
59
Cfr: “Valerio ed altri 36 a giudizio per i “fondi neri” Montedison”, La Stampa 4 aprile 1978.
196
60
Cfr: “Fondi neri Montedison, assolti i 29 imputati”, La Stampa 30 aprile 1980.
197
dirò dopo erano state scritte sul libro di Ori sulla Montedison, libro che uscì
nel 1971 e quindi ben prima dell’avvio dell’inchiesta giudiziaria.
Le motivazioni di questa sentenza uscirono sui quotidiani a fine maggio del
1980 e vanno lette per bene poiché potevano creare un precedente, cosa che
invece non accadde. Il titolo de La Stampa del 31 maggio 1980 fu “Non è
reato usare soldi extra-bilancio” e la dice lunga sul parere dei giudici del
tribunale di Roma sull’uso dei “fondi neri”. Giusto o sbagliato che fosse, in
una vicenda molto simile tredici anni dopo il pm Antonio Di Pietro fece
finire in cella molte personalità del mondo industriale e della Montedison
stessa. Questi sono dati di fatto. Scrissero, i giudici del primo processo
Montedison, che “Il saltuario uso da parte dei funzionari di un’impresa di
somme degli amministratori non esposte in bilancio e su ordine di costoro,
non costituisce reato e la conoscenza di quest’ultima circostanza è
irrilevante.” Ad affermarlo era il presidente dell’ottava sezione penale di
Roma, Marchionne.
Si chiudeva così una vicenda che a mio avviso, fortunatamente, non ha fatto
giurisprudenza. Se poi il pm Di Pietro non fosse a conoscenza del precedente
è un altro discorso. Forse quest’ultima è una sua grande manchevolezza,
poiché non ha saputo inquadrare i fatti da lui riscontrati (lo ammisero gli
stessi giudici di Mani Pulite in un’intervista televisiva che avevano scoperto
solo un quinto degli imbrogli di Tangentopoli) in quello che era l’andazzo
della politica della Prima Repubblica61. Cioè, cerco di essere più preciso: è
mancato il movente del delitto, perché pagare tanti soldi verso i partiti
politici può significare tante cose. Può essere corruzione, ma anche
concussione, nel caso in cui, in quest’ultima circostanza, fosse il politico a
minacciare l’imprenditore per ottenere dei guadagni.
L’inchiesta sulla Tangentopoli degli anni ‘90 ebbe origine invece da una
famosa legge, quella sul finanziamento pubblico ai partiti. I giovani della
mia generazione l’hanno sentita nominare tante volte. Wikipedia spiega assai
bene la sua storia tormentata. Questa legge, la 195, nacque nel 1974 da una
proposta del democristiano Flaminio Piccoli. Essa doveva garantire che i
partiti percepissero un finanziamento equo e trasparente attraverso lo Stato,
senza collusioni con il potentato economico, soprattutto quello del settore
pubblico di cui faceva parte l’ENI. Si cercò così di evitare il ripetersi di
61
E’ interessante notare che il pm Gherardo Colombo, prima di lavorare insieme al pool di
Mani Pulite, fu protagonista della scoperta della Loggia massonica P2 di Licio Gelli, che
operava non solo sul piano politico, ma soprattutto nell’imposizione di tangenti sui lavori
pubblici. Come mai quando scoppiò il caso Tangentopoli questo non fu collegato all’affare P2?
198
grossi scandali, come quello delle banane e del petrolio. Nel 1965 il senatore
della DC Giuseppe Trabucchi aveva permesso alla Assobanane di acquisire
il monopolio delle banane. La stessa operazione era stata ripetuta per il
mercato del tabacco e così ci si accorse che tutto era da ricondurre a un
finanziamento ottenuto dal partito di Trabucchi62. Nel febbraio del 1974 era
scoppiato un nuovo scandalo. Stavolta a essere coinvolti erano stati tutti i
partiti di quel governo: DC, PRI, PSI e PSDI, i quali avevano percepito una
tangente del 5% sui vantaggi che l’Enel e le compagnie del petrolio
ricevevano da una politica contraria alle centrali nucleari.63 Era esploso in
pratica il famoso scandalo dei petroli, quello scoperto dai pretori d’assalto
come Mario Almerighi, i quali, nonostante questo nomignolo irriverente,
erano davvero dalla parte della gente. Se di fronte ad ogni inchiesta
giudiziaria ci chiedessimo: “cui prodest?”, a chi giova veramente questo
polverone? in quel caso la risposta sarebbe stata: alla gente, ai cittadini. Lo
scandalo dei petroli faceva infatti aumentare i prezzi della benzina, mentre i
politici e i petrolieri si accordavano per nascondere le scorte di greggio e
mettere in piedi un colossale giro illecito d’affari.
Dunque, Flaminio Piccoli cercò di offrire una via d’uscita da uno scandalo
vero, sconcertante, di cui era colpevole il suo stesso partito. Poteva riuscirci?
Ovviamente no. Sarebbe come accettare che un assassino possa stabilire
dopo il suo arresto le nuove leggi contro gli omicidi. Ci fideremmo poco
della sua imparzialità. E infatti i radicali provarono nel 1978 a cancellare
quella legge con un referendum. Ma al momento del voto, l’11 giugno del
1978, la percentuale di adesioni all’ipotesi di abrogazione si fermò al 43,6%,
a un passo dal quorum del 50%. E così si andò avanti con il palliativo. E’
solo in questo modo che la blanda legge sul finanziamento pubblico ai partiti
poté giungere nelle mani di Antonio Di Pietro e del suo pool di Mani Pulite.
Nel 1981 c’era stato un ulteriore alleggerimento. La nuova legge 659 aveva
raddoppiato i finanziamenti legali e aveva lasciato immutati i divieti per
aziende pubbliche o a partecipazione pubblica di erogare fondi ai partiti,
mentre i partiti stessi dovevano redigere rendiconti annuali su entrate e
uscite. Solo nel 1993 queste norme furono finalmente abrogate da un altro
referendum dei Radicali, che in seguito ai fatti di Tangentopoli si trasformò
in un autentico plebiscito. Le adesioni raggiunsero il 90,3%. Infine, con la
legge 2 del 1997 venne reintrodotto il finanziamento pubblico ai partiti
attraverso il 4 per mille dei contribuenti.
62
Cfr. l’articolo: “Storia d’Italia in tre scandali e una legge”, www.acmos.net
63
Cfr. Wikipedia alla voce: “Scandalo dei petroli.
199
64
Una distinzione che è riapparsa solo dopo il recente governo di Mario Monti e ancora di più,
dal 2014, con la presidenza del consiglio del filo-democristiano Matteo Renzi.
200
65
Cfr l’appendice del libro: “Montedison, il grande saccheggio”, di Giuseppe Turani,
Mondadori, 1977.
201
sperare granché per il futuro. Si faceva strada il concetto di uno Stato che
doveva correre al capezzale delle grandi aziende in difficoltà, anziché
lasciare che la giustizia fallimentare facesse il suo corso. Un andazzo che,
abbiamo visto per quanto riguarda la SIR, creerà strascichi deleteri
addirittura fino al 2009.
A noi queste informazioni interessano quindi, non tanto per ricostruire la
politica economica italiana di quegli anni, quanto perché queste furono le
premesse all’approdo di Raul Gardini una diecina di anni dopo alla
Montedison. Ma non solo, perché l’altro libro già citato, “L’affare
Montedison un giallo all’italiana” aveva rivelato già nel 1971 notizie di
straordinaria importanza. E vengo qui al nocciolo del problema: la madre di
tutte le tangenti che nessuno, forse, è riuscito a scovare sta proprio nei conti
misteriosi di cui parla quel libro. Lì c’era il movente vero delle tangenti della
Montedison; colui che veniva finanziato con i miliardi di fondi neri.
Se infatti la storia della prima inchiesta giudiziaria partiva dal 1972, ben
prima, durante la gestione Valerio si era saputo che il presidente e il suo fido
Cavalli avevano tenuto in gran segreto una amministrazione “fuori bilancio”,
con cambiali che venivano firmate dai dirigenti e finivano nella cassaforte di
Valerio. Quando nel 1970 l’ex senatore Merzagora fu eletto presidente, egli,
onesto quale era, rimase molto colpito dal trovarsi di fronte a una contabilità
occulta e ordinò un’inchiesta interna. Dice il libro di Ori che Merzagora era
consapevole dell’illegalità di questi “fondi neri” e avrebbe voluto inserirli
nella contabilità ufficiale, ma questo intento non andò a buon fine.
Merzagora scoprì che i soldi distratti dal bilancio reale della Montedison
erano tanti: si parlò all’epoca di 17 miliardi di vecchie lire. Questi miliardi
entravano e uscivano, con il fine di “oliare” attività occulte e forse illecite.
Scrive testualmente il libro:
“L’insieme di questi movimenti lascia un saldo attivo e Merzagora si vede
infatti consegnare con un vero e proprio senso di sgomento un pacchetto di
libretti bancari al portatore, il cui ammontare complessivo supera i 17
miliardi. Una parte di questa cifra, per l’esattezza 5.300 milioni figura come
un debito dell’Italpi (una società controllata dalla Montedison) nei confronti
della sua capogruppo: un’altra parte, per 5.700, figura come un debito
d’una fantomatica “Montedison International”, società con sede legale in
Liberia e sede effettiva a Zurigo; mentre i restanti miliardi non risultano
contabilizzati in nessun modo: sono soltanto materialmente depositati sul
libretto al portatore, custodito nella cassaforte privata del presidente della
società.”
Merzagora convocò il consiglio di amministrazione e volle discutere di
202
13
TERRORISMO DI STATO
Un dirigente della Montedison era tra gli indagati del giudice Alessandrini
per la Strage di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969. Si trattava di Vittorio
De Biasi, il quale finì sulle cronache dei giornali quando, intorno a metà
maggio 1973, avvenne un attentato davanti alla questura di Padova. In
carcere ci finì un anarchico, Gianfranco Bertoli, ma gli inquirenti, Emilio
Alessandrini, poi ucciso in un attentato terroristico, e Gerardo D’Ambrosio
sospettarono come mandanti di tutti quegli attentati alcuni esponenti
dell’estrema destra; in pratica quelli che avevano partecipato a una famosa
riunione all’hotel Parco dei Principi di Roma tra il 3 e il 5 maggio del 1965,
tra cui Guido Giannettini, Pino Rauti, Giorgio Pisanò, poi anche lui
coinvolto nell’azionariato della Montedison, e appunto il dirigente di Foro
Bonaparte, Vittorio De Biasi. In un articolo del 22 maggio 1973 Guido
Mazzoldi scrisse con certezza che gli attentati terroristici, tra cui Piazza
Fontana a Milano, partirono poco dopo secondo le direttive di quegli uomini
di destra. In quello stesso periodo era nata anche l’altra inchiesta sui Fondi
Neri della Montedison, ma pochi mesi dopo l’attentato di Padova il giudice
che indagava scoprì di essere spiato dal Sid. Si trattava di Renato Squillante,
oggi noto soprattutto perché secondo i giudici sarebbe stato corrotto da
Berlusconi nell’affare Sme. Tempo dopo si scoprì che era proprio il
presidente di allora della Montedison, Eugenio Cefis, a servirsi all’Eni di
uomini del Sid e di generali coinvolti nel golpe De Lorenzo. Di fatto, il
giudice Squillante dovette dimettersi quando a inizio luglio 1975 l’istruttoria
sui Fondi Neri Montedison fu conclusa e per i giornalisti questo fu segno di
un possibile insabbiamento. Altra conseguenza di queste indagini che
stavano scoprendo una correlazione tra Fondi Neri e terrorismo neofascista
potrebbe essere stato l’Attacco alla Montedison dichiarato dalle Brigate
Rosse pochi anni dopo, quando in un duplice attentato furono trucidati i
dirigenti del petrolchimico di Porto Marghera, Silvio Gori e Giuseppe
Taliercio.
66
Cfr: “Un’indagine unificata per chiarire l’oscura strategia degli estremisti”, La Stampa, 22
maggio 1973.
206
comunista alcuni anni più tardi67. Questi due inquirenti, secondo La Stampa,
erano arrivati infatti al presunto finanziatore della strage di Piazza Fontana,
ovvero De Biasi, che dopo gli esordi sulla stampa comunista sembra stesse
passando sull’altra sponda. Scalfari e Turani raccontarono così la sua storia:
“Vittorio De Biasi proviene dalle fila dell’”Ordine Nuovo” di Gramsci”.
Quando ormai era amministratore delegato della Edison scrisse
polemicamente al quotidiano “L’Unità” e quest’ultimo, nella sua risposta,
ironizzò sul ritorno del dirigente a “collaborare alla stampa comunista”. Fu
tra i principali sostenitori dell’inserimento da parte della vecchia Edison in
nuovi settori industriali come quello della chimica.68
Scriveva il quotidiano torinese il 22 maggio ‘73: “Sono stati proprio dei
fogli di alcuni gruppi di destra – forse scontenti degli aiuti – a svelare
l’esistenza di fondi neri sottratti al bilancio della Montedison.” Pare che le
autorità non sarebbero mai arrivate alla Montedison senza che alcuni
azionisti della società, proprio legati politicamente alla destra, non avessero
svelato questi conti segreti. Di qui, spiegava ancora Mazzoldi, si sarebbe
giunti all’inchiesta parallela, ma molto difficoltosa come abbiamo visto,
sull’ex presidente della Montedison Giorgio Valerio. Non solo. Secondo il
giornalista de La Stampa gli atti di terrorismo sarebbero iniziati proprio dopo
la riunione del maggio 1965 e secondo le direttive di questo summit, a cui
aveva preso parte anche Vittorio De Biasi. Questi sicuramente rimase nel
consiglio di amministrazione della Montedison fino al 31 luglio 1969, data
in cui dette le dimissioni, che furono testimoniate da un articolo di giornale
del giorno seguente, uscito sempre su La Stampa. De Biasi continuò tuttavia
a risultare nell’organico della Montedison nel Calepino dell’Azionista 1970,
che veniva curato dalla Mediobanca.
Abbiamo anche un identikit dal fondamentale articolo del 22 maggio 1973
dei possibili attentatori della “strategia della tensione”. Dice Mazzoldi che
“gli uomini usati da questi criminali sono i soliti sbandati, gente senza
scrupolo che sta indifferentemente a destra o a sinistra.” Ma a questo punto
dobbiamo abbandonare la storia dell’anarchico Bertoli, che lasciamo in
carcere per la bomba di Padova, per tornare ai “fondi neri” Montedison.
67
Il giudice Emilio Alessandrini morì a soli 36 anni il 29 gennaio del 1979 assassinato da un
gruppo di militanti dell’organizzazione comunista Prima Linea, (Wikipedia).
68
Cfr: Eugenio Scalfari, Giuseppe Turani, ”Razza Padrona”, Feltrinelli, 1974. Da una ricerca
effettuata nell’archivio della Provincia di Cremona, risulta che Vittorio De Biasi, cremonese di
nascita, morì a Milano l’8 novembre 1976.
207
Lo spionaggio su Squillante
Nella nostra storia c’è a questo punto un colpo di scena. Chi indagava sui
“fondi neri” nel periodo iniziale dell’inchiesta? Un certo Renato Squillante,
che nel recente processo SME sarebbe risultato dalle accuse quale vittima,
insieme al giudice Filippo Verde, della corruzione di Silvio Berlusconi69. Si
presume che si tratti della stessa persona, sia per motivi anagrafici, sia per la
relativa vicinanza temporale degli eventi. Renato Squillante risulta nato il 15
aprile del 1925. E’ stato un magistrato e capo dei giudici preliminari romani.
Nella vicenda del primo processo Montedison i quotidiani lo identificavano
come giudice istruttore di Roma. Di lui i siti web però ricordano solo gli
episodi degli anni ‘80 e ‘90 relativi alla corruzione. Si tratta del caso
IMI-SIR e dell’Affare SME70. Risultò in entrambi gli scandali condannato,
ma poi venne assolto in Cassazione poiché fu accertato che la sua “non fu
corruzione, ma intermediazione tra privati”.
Vedere questo giudice coinvolto anche nelle vicende di Foro Bonaparte fa
riflettere. Perché pochi mesi dopo l’uscita dell’articolo di Mazzoldi, che
creava un punto di intersezione tra i “fondi neri” degli anni ’60 e ’70 della
Montedison dati ai politici e le inchieste di Alessandrini e D’Ambrosio su
Piazza Fontana, accadde un fatto clamoroso. Il SID, che negli anni ’60 era
divenuto tristemente noto per aver spiato 157mila italiani ed essere stato
69
Cfr: Giorgio Dell’Arti, Massimo Parrini, “Catalogo dei Viventi 2009”, Marsilio, 2008.
70
La SME nacque anch’essa come azienda che operava nell’elettricità al pari della Edison. Il
nome sta per Società Meridionale di Elettricità e passò all’IRI negli anni ‘30, per poi negli anni
‘60 effettuare acquisizioni in campo agricolo e alimentare, fino a diventare il più grande gruppo
alimentare italiano (Wikipedia). Nel 1985 l’IRI, ente pubblico per la ricostruzione industriale
presieduto da Romano Prodi, era sul punto di realizzare un grosso affare. Si trattava di una delle
prime privatizzazioni miliardarie, che sfumò per l’intervento di Craxi e Darida. La storia dice
che PSI e DC per questioni procedurali non ratificarono quell’accordo da 497 miliardi di
vecchie lire per la vendita della SME a De Benedetti. La questione ebbe riflessi giudiziari
immediati, perché il 25 giugno 1985 l’ingegner De Benedetti denunciò in conferenza stampa
che un politico per telefono gli aveva chiesto tangenti per portare a termine quell’acquisto. Il
nome di questo faccendiere non lo si seppe mai. La storia che di recente è riapparsa sui
quotidiani è invece completamente diversa: un infinito processo contro Berlusconi che ha fatto
leva su vicende successive, quando De Benedetti si rivolse al Tar del Lazio e perse la sua
battaglia perché, sostengono i magistrati, Silvio Berlusconi attraverso Previti e Pacifico aveva
corrotto i giudici Filippo Verde e Renato Squillante. In mezzo all’affare SME c’era finito infatti
il Cavaliere, che aveva avanzato un’offerta con la cordata che faceva capo alla Barilla.
Un’offerta giunta però in ritardo rispetto ai termini. Il tutto fu inutile, e inutile appare anche
l’inchiesta recente. Sta diventando un’inchiesta sulla storia, la quale dice che la SME, anziché
per 497 miliardi, fu venduta per 2000 miliardi nel 1993 e nel 1994, smembrata e ceduta a
industriali, per lo più stranieri, estranei a questa vicenda tranne la Barilla (blog E-Cronaca).
208
71
Cfr: “L’ex granatiere che pagava i partiti per conto di Mattei”, La Stampa 23 aprile 1993.
72
La X stava per Eugenio Cefis.
209
73
Cfr: “Montedison: è necessario far luce sui ‘fondi neri’”, L’Unità, 19 gennaio 1971.
74
Cfr: “Piste nere, indagati questore e poliziotti”, La Stampa, 16 novembre 1973.
75
Cfr: “’Fondi neri’ Montedison: l’istruttoria è finita”, L’Unità, 3 luglio 1975.
210
questi gravi fatti, lo spionaggio del SID e la sua presenza come vittima di
corruzione in uno dei principali processi contro Berlusconi, l’affare SME?
Di certo Paolo Gambescia, giornalista de L’Unità lo rimpiangeva in
quell’articolo, in vista della prosecuzione del processo contro Giorgio
Valerio. Ed ebbe pienamente ragione visto l’esito del processo nel 1980, di
cui ho ampiamente parlato.
76
Cfr: “Il dirigente ucciso per la trasmissione in tv”, Stampa Sera, 30 gennaio 1980 e
“Petrolchimico di Marghera, Montedison condannata”, La Repubblica, 15 dicembre 2004.
77
Cfr: “Esaltato dalle BR in aula ‘l’attacco alla Montedison’, La Stampa, 22 maggio 1981.
211
14
LA VERA TANGENTOPOLI
78
Cfr “Determinazione della Corte dei Conti n. 21”, Doc XV – bis n. 10 , Camera dei Deputati.
215
sottolineo questo alla luce di quello che avverrà per l’affare Enimont, preferì
cedere la sua quota di azioni Montedison alla Gemina, un’azienda dove
sedevano tutti gli industriali che ho citato prima, quelli della elite
dell’imprenditoria privata. Ma questi signori tenevano più al prestigio che al
futuro della chimica italiana e la loro acquisizione della maggioranza della
società di Foro Bonaparte contava fino a un certo punto. Al timone c’era
forse l’ultimo di quella “Razza Padrona” che divorava miliardi e tanti altri
ne chiedeva ai politici, Schimberni. Questi fu un manager tanto abile e colto
da riuscire a illudere l’opinione pubblica di essere stato in grado di risanare
il maxi debito della Montedison. Ma la sua voglia di primeggiare cominciò
presto ad assomigliare all’intraprendenza di Cefis; e con la scalata alla
Bi-Invest, ma ancora di più con quella alla Fondiaria, che fece fare alla
Montedison con i soldi di una società a questo punto, è bene rimarcarlo,
privatizzata al 100%, si scontrò con gli equilibrismi e gli isterismi di Cuccia,
al quale non stava affatto bene che si smontasse il castello che aveva
costruito con tanta pazienza nel corso degli anni. Il “diavolo di via
Filodrammatici” cominciò a chiedere aiuto ai suoi amici, soprattutto cercò
un imprenditore che potesse impossessarsi di Foro Bonaparte con una
scalata spettacolare. Si rivolse a un uomo dell’elite degli industriali, De
Benedetti, ma non si era accorto, come gran parte dell’opinione pubblica,
che nell’ombra si era fatto strada un gruppo che fatturava molti miliardi, il
gruppo Ferruzzi, il quale con la morte del padre-padrone Serafino Ferruzzi
in un misterioso incidente aereo nel 1979 era ora nelle mani di un manager
di Ravenna, Raul Gardini, marito di una delle figlie di Serafino. Gardini era
spregiudicato come Cefis, ma appariva come prodotto del recente boom
degli anni ’80. Aveva una mentalità imprenditoriale che puntava sulle
privatizzazioni, in un periodo in cui la politica con le Partecipazioni Statali
aveva rinunciato alla Montendison, ma non a controllare l’industria pubblica
e anche ad avere influenze su quella privata con i propri uomini, come nel
caso del PSI di Craxi.
Gardini, come dice simpaticamente, Turani riuscì a mandare a gambe all’aria
Cuccia e De Benedetti, i quali si preparavano a lanciare un’OPA sulle azioni
Montedison, cioè un rastrellamento a prezzo maggiorato delle azioni della
Montedison presenti sul mercato. L’uomo di Ravenna offrì molto di più e,
sapendo giocare d’azzardo, chiuse la partita in due giorni. Veniva
considerato per questo un raider e non ne era affatto seccato.
Diventa evidente a questo punto della storia che dalle riunioni di Foro
Bonaparte del 1970 era passato un secolo. Il gioco dell’alta finanza a suon di
rilanci in borsa prendeva il sopravvento sulla programmazione e sulle
218
79
Questa la spartizione che venne stabilita: da parte di Enichem, confluirono nella nuova
grande struttura di Enimont le seguenti aziende: EniChem Anic e controllate, EniChem
Synthesis e controllate, EniChem Anic e controllate, EVC (50%), EniChem Tecnoresine,
EniChem Agricoltura e controllate, EniChem Augusta e controllate, EniChem Elastomeri e
controllate, EniChem Fibre e controllate, Raffineria siciliana, Nurachem, Sclavo, Bellico,
Boston, Alta, Sinel e altre società minori. Da parte di Montedison, invece, passarono in Enimont
le seguenti aziende: Auschem, Ausind, ACNA, Vinavil, Montedipe e controllate, Agrimont e
Conserv, Ausidet, Dutral, Montefibre (59,49%) e controllate, Raffineria e aromatici di SELM,
Istituto Guido Donegani, Sefimont, Sime, Segem (Facebook).
222
80
CIPE vuol dire: Comitato Interministeriale per la Programmazione Economica. E’ stato
costituito nel 1967 con una legge, la 48 del 27 febbraio ‘67 (Treccani).
224
suoi più fidati dirigenti: il parente Carlo Sama, Giuseppe Garofano, cioè
l’uomo di Schimberni alla Meta, e Panzavolta. Furono loro molto
probabilmente a influire sulla determinazione del prezzo effettuata dall’ENI.
Sull’argomento il documento della Corte dei Conti si era soffermato a lungo
nelle pagine precedenti le conclusioni che sto esaminando. E’ molto
importante, ai fini di un confronto con quanto poi emerso in Tangentopoli,
capire come si sia arrivati a stabilire il costo delle azioni di Enimont. Alla
fine la Montedison venderà il suo 40% di Enimont al prezzo totale di 2.805
miliardi; una cifra molto alta. Come era stato possibile?
“Il 12 settembre del 1990 – recita il documento - non appena fu chiaro che
si sarebbe dovuto procedere a mettere fine alla collaborazione fra ENI e
Montedison in Enimont, il presidente dell’ente di gestione costituì, con
proprio ordine di servizio, un “Gruppo di valutazione interno” composto dal
direttore per lo sviluppo, programmazione e controllo e dai direttori
amministrativo e finanziario, e coordinato da un alto dirigente del gruppo
ENI. Tale gruppo di controllo – spiega ancora la relazione di Ristuccia –
ebbe il ‘compito di elaborare le valutazioni economiche per le trattative con
Montedison in esecuzione alle direttive ministeriali’ ed è stato chiamato a
riferire ‘direttamente al presidente’.” La procedura prevedeva che la giunta
al termine del suo lavoro riferisse il tutto al Ministro alle Partecipazioni
Statali, il quale sarebbe stato supportato nella valutazione finale da un
collegio di periti. Fu il ministro a stabilire, con la sua lettera del 17
novembre 1990, la forbice all’interno della quale sarebbe stato scelto il
prezzo, che poteva quindi oscillare al massimo tra 2.650 e 2.850 miliardi. Si
intuisce bene che i 2.805 miliardi sono una somma troppo vicina alle stime
più generose fatte dagli esperti della giunta e della stessa forbice stabilita dal
ministro.
Le valutazioni degli esperti sul prezzo della quota Montedison avevano dato
un esito nettamente inferiore ai 2.805 miliardi spesi dal presidente dell’ENI,
Cagliari. Eccole dalla pagina 33 del documento: “Goldman Sachs – valore
minimo: 2.125 miliardi, Merrill Lynch – prima ipotesi di minimo: 2.270
miliardi, Merrill Lynch – seconda ipotesi di minimo: 2.550 miliardi, Merrill
Lynch - prima ipotesi di massimo: 2.610 miliardi, prof. Jovenitti: 2.710,
Goldman Sachs – valore massimo: 2.720, Gruppo di valutazione interno:
2.750, Merrill Lynch – seconda ipotesi di massimo: 2.890.
Furono quindi espresse valutazioni che portarono indubbiamente a un
esborso dell’ENI per acquistare il 40% della quota Enimont di Gardini molto
più alto del normale. In una riunione del 18 novembre del 1990 il Ministro
giustificò questo prezzo con le prospettive di grande crescita che il gruppo
225
81
Cfr “Domanda di autorizzazione a procedere contro il senatore Citaristi”, Doc IV, N. 221,
Senato della Repubblica.
226
definitiva mi spiega che mi sarebbe stato grato, come per la vicenda Imeg, se
io avessi fatto sì che anche con il mio atteggiamento si fosse arrivati al
risultato sperato dalla famiglia Ferruzzi.” A questo punto Grotti spiegò al suo
interlocutore che anche secondo lui Enimont era un’azienda strategica per
l’ente pubblico e che non andava venduta a Gardini, ma semmai comprata. Il
prezzo lo avrebbe dovuto stabilire Cagliari il quale, il giorno 18 novembre
1990, convocò la giunta. La determinazione del prezzo all’interno di quello
che era noto come “patto del cow-boy” si aggirava intorno alla cifra di
2.650-2.850 miliardi ed era frutto di quella procedura che abbiamo già visto
nel documento della Corte dei Conti. Tutto è confermato fedelmente in
questa dichiarazione giudiziaria, con l’aggiunta dei nomi del comitato di
periti nominati dal Ministro alle Partecipazioni Statali Piga, ovvero i
professori Zanda e Ferri. Il prezzo di 2.805 secondo Grotti era il frutto di una
media dei valori all’interno di quella forcella, che conteneva già delle
valutazioni di fascia medio-alta rispetto alle stime che ho riportato sopra. Era
perciò un prezzo che restava una seconda volta nella fascia alta della forcella.
Difatti ecco cosa accadde quando Cagliari disse a Grotti che a quella cifra da
lui stabilita l’ENI non solo poteva vendere, ma poteva anche comprare.
Grotti telefonò a Panzavolta e questi ringraziò sentitamente promettendo di
farsi vivo con le mazzette. Affermò Grotti ed è scritto nel documento: “Tra il
mese di dicembre 1990 ed il mese di maggio 1991 io ricevetti le visite di
Panzavolta, il quale ogni qualvolta ci incontravamo mi consegnava delle
borse contenenti dei soldi contanti per circa 3 miliardi, più, mi pare
nell’ultima occasione, titoli di Stato per circa un miliardo per un importo
totale quindi di 4 miliardi.”
La storia che l’opinione pubblica ben conosce per averla letta sui vari
quotidiani e libri a questo punto dice che Gardini, venduta l’Enimont, si
dimise da presidente del gruppo Ferruzzi e si dedicò alla vela e a una nuova
avventura finanziaria in Francia. Questo lo scagionerebbe solo in parte però
dalle responsabilità nel finanziamento ai partiti con i soldi della Montedison
attraverso i “fondi neri”. Le prove c’erano e Gardini, forse per questo, il 23
luglio 1993 si suicidò in un modo che non ha mai convinto del tutto. Nello
stesso periodo si tolsero la vita altri due personaggi coinvolti in questa storia:
il presidente dell’ENI, Gabriele Cagliari, e, prima di loro, il direttore
generale del Ministero alle Partecipazioni Statali, Sergio Castellari.
Dicevo delle prove. Nella richiesta di autorizzazione a procedere per
Citaristi emerge che il “Corsaro” fu messo al corrente del sistema illecito di
finanziamento ai partiti, PSI e DC in primis, non appena ebbe messo piede a
Foro Bonaparte. Secondo una dichiarazione di Giuseppe Berlini, fiduciario
227
del gruppo Ferruzzi, per portare a termine la fusione tra ENI e Montedison
Gardini aveva bisogno di sgravi fiscali affinché l’operazione non fosse
economicamente svantaggiosa. In ballo c’erano plusvalenze da 800 miliardi
e fu chiesto a Ciriaco De Mita della DC di emanare un Decreto Legge.
Spiegò Berlini che si era a quel punto “tra la fine del 1988 e i primi del 1989.
In tale situazione Gardini mi fece presente che occorreva ‘oliare’ il sistema
dei partiti e quindi alcuni esponenti politici affinché nessuno frapponesse
ostacoli all’emanazione del decreto per poter ottenere lo sgravio fiscale
predetto. Gardini mi disse allora di approntare delle somme di denaro da
mettere a disposizione di colui che disse di essere il referente dei politici in
questione e che per loro conto avrebbe ricevuto il denaro: Sergio Cusani.”
Berlini spiegò anche che Gardini parlò con lui perché era l’uomo che gestiva
la contabilità riservata ed extra-bilancio del gruppo Ferruzzi, poiché i soldi
di cui “aveva bisogno Gardini non potevano uscire dalle casse del gruppo.”
Inoltre anche dopo la vendita del 40% della quota Montedison in Enimont,
Gardini si interessò secondo le dichiarazioni dell’inquisito alla questione
delle tangenti. Raccontò infatti Berlini nel corso dell’interrogatorio questi
fatti: “Come noto nel novembre del 1990 la Montedison cede le proprie
quote Enimont all’ENI per un importo di 2.805 miliardi alla fine di una
lunga diatriba che aveva visto il partner privato con il partner pubblico. Già
dal gennaio 1991 Gardini e Carlo Sama mi fecero entrambi presente che
avevano urgente necessità di reperire anche in questo caso una provvista
riservata che entrambi quantificarono in 35 miliardi di lire da far pervenire al
sistema dei partiti per il tramite di Sergio Cusani.” Spiegò l’interrogato che
alla base di questo esborso c’era, secondo Gardini e Sama, proprio “la
necessità di far fronte agli impegni presi con il sistema dei partiti”.
Sono cose che i giornali degli anni ’90 ci hanno ripetuto più volte, ma
assumono un ulteriore significato se andiamo oggi a leggere, come dicevo
all’inizio e ho ripetuto più volte, che quel prezzo era stato sovrastimato, non
solo dal Ministro, ma anche dalla stessa giunta dell’ENI che aveva potuto
contare sulle valutazioni degli esperti. Torniamo a questo punto al
documento della Corte dei Conti firmato dal signor o dottor Ristuccia.
Sappiamo che il Ministro alle Partecipazioni Statali aveva valutato al rialzo
il 40% di Enimont perché era ottimista circa il futuro della chimica e spiegò
nella riunione del 18 novembre 1990 anche che, non sapendo ancora se la
Montedison volesse vendere o comprare questo pacchetto di azioni, temeva
che potesse rivendere successivamente queste azioni stesse a un prezzo più
alto. Ma emergeva un altro elemento fondamentale in quella sede, la vera
prova che potrebbe dare ragione al pool di Mani Pulite, se mai fosse
228
Mi pare molto chiaro. Sono parole che colpiscono, se si pensa che solo due
anni più tardi il Ministero alle Partecipazioni Statali verrà soppresso, ma gli
investimenti dello Stato continueranno in modo poco chiaro e, se queste
erano le premesse, con assai scarse possibilità di buona riuscita.
Tangentopoli, come sappiamo, finirà con tanto clamore e condanne lievi per
i protagonisti di questa vicenda. La sensazione alla fine di questa analisi è
che fosse tutto vero, che insomma Di Pietro avesse ragione e avesse, come
abbiamo appurato, valutato anche la presenza del Decreto Legge sul
finanziamento pubblico ai partiti. Non aveva forse valutato appieno la storia
dei “fondi neri” dalle sue origini, perdendo di vista il movente di questo
andazzo, la natura dei rapporti tra imprenditoria e politica che portava
indietro di tanti anni, alla storia di un’amicizia molto forte che, io ne sono
sicuro, è sopravvissuta anche al ciclone di Mani Pulite. Un’amicizia che, lo
abbiamo dimostrato, ha finito per deragliare, non si sa bene come e perché,
230
82
Cfr Wikipedia alla voce “Montedison”.
231
15
ARMI DI STATO
Gheddafi.
In questo disegno cosa c'entrerebbe il direttore delle Partecipazioni Statali
Sergio Castellari, che si suicidò mentre era indagato per la maxitangente
Enimont? Beh, mi pare che sia importante il ritrovamento, in una
perquisizione della Guardia di Finanza, di quel documento che Castellari
aveva sottratto al Ministero: un documento che parlava della fornitura di
uranio indirizzata, dopo una strana triangolazione, a una nazione del Medio
Oriente, forse l'Iran. In un altro suo libro sulle morti di Castellari, Gardini e
Cagliari, il giudice Almerighi ha parlato anche dell'ipotesi che Castellari sia
stato costretto a suicidarsi da due agenti dei Servizi Segreti, tra cui forse una
donna. E' per questo motivo che il documento sull'uranio può essere la
traccia più giusta. Ma a questo punto direi che anche le altre due morti, di
Cagliari e di Gardini, potrebbero essere connesse con le vendite di armi
all'estero, magari con delle tangenti inconfessabili. E' solo una mia
sensazione. Di sicuro sono tre suicidi a cui gli esperti non hanno mai creduto
del tutto e per i quali la maxitangente Enimont costituirebbe un debole
movente.
Tra questi affari del Sid c’erano anche gli elicotteri della Agusta, venduti a
decine all’Iran, in una fornitura che appariva regolare. Per saperne di più, nel
1987 pare che il giudice Mastelloni abbia usato il carcere preventivo con il
democristiano Pedini83. Servì per “fargli tornare la memoria”. Questo mi fa
capire che si trattava di un’inchiesta serissima, più di Tangentopoli, ma che
venne messa come al solito in naftalina. Anche questa è una pista che
potrebbe portare alla morte di Sergio Castellari, il quale aveva forse fiutato
qualcosa e stava per parlare con il giudice di Mani Pulite.
Prima, molto prima, era già uscito dall’inchiesta, per “morte del reo”, il
conte Agusta. Corrado Agusta morì mercoledì 14 giugno 1989 a soli 66 anni.
Sua moglie, la contessa Francesca Vacca Agusta, scomparve l’8 gennaio del
2001 in circostanze misteriose e fu ritrovata morta nel mare della Costa
Azzurra due giorni dopo. Il giallo a mio parere va rivisto alla luce di questi
documenti d’archivio.
Le cronache degli ultimi giorni (novembre 2015), in special modo del Sole
24 Ore, hanno evidenziato come Intesa-Sanpaolo abbia registrato nel
bilancio attuale, alla voce delle entrate, delle novità sul fronte del processo
Imi-Sir. Si è tornati così a parlare della guerra tra i Rovelli della Sir e la
banca Imi, che si trascina dagli anni '90.
A maggio del 2015 il tribunale civile di Roma ha stabilito che è la
magistratura ad aver sbagliato, per via della corruzione nel primo processo
vinto dai Rovelli nel 1990, costringendo così lo Stato a risarcire il danno,
173 milioni di euro più spese e interessi, ad Intesa Sanpaolo, visto che il
giudice Metta e l'avvocato Acampora risultano "incapienti" (gli altri
condannati sono gli avvocati Previti e Pacifico). Le cose stanno andando
come il Nuovo Consorzio voleva: il Sanpaolo ha vinto la causa e ora sarà
anche risarcito, in parte.
Non trapela nulla di ciò che noi abbiamo svelato, ossia le trame occulte
all'interno del Consorzio, che per conto dell'ex ministero del Tesoro era
controllato dal Comitato, detentore del 60% delle quote del Consorzio
Interbancario (il Nuovo Consorzio del 1982, appunto), nel quale figuravano
moltissime banche del nord Italia, ma non più Intesa Sanpaolo (che controlla
la vecchia banca pubblica Imi).
83
Mario Pedini è morto a 85 anni nel 2003 e secondo Wikipedia figurava nella lista degli
appartenenti alla loggia massonica P2.
236
La quota del Consorzio-Sir passata nel maggio 2010 a Ligestra Tre valeva
228 milioni di euro? Questa sembra sia stata la valutazione che i periti del
Ministero dell'economia e delle finanze hanno finalmente effettuato all'inizio
del 2014, dietro le insistite richieste dell'azienda acquirente.
Lo si apprende dal bilancio 2014 di chi controlla Ligestra Tre, ossia Fintecna,
di proprietà della Cassa Depositi e Prestiti, ma il cui maggiore azionista non
è altri che il Ministero dell'economia e delle finanze. Ci sono tante stranezze
in questa operazione. Intanto erano passati già ben quattro anni dalla
cessione di quella quota del 60% del Consorzio-Sir, che come si sa era nelle
mani del Comitato statale fin dal 1980, ai tempi della Democrazia Cristiana.
Ciò ha probabilmente permesso di far dimenticare ai dirigenti della Fintecna
che nel 2010 il Comitato al momento della chiusura aveva presentato un
utile netto molto più alto, e cioè di ben 448 milioni 861 mila 269 euro. Le
240
passività, infatti, una volta che si era risolta con una transazione la vertenza
SanpaoloIMI-Rovelli, si erano ridotte a soli 69 mila 813 euro. I costi totali di
quelle poche aziende ancora in mano al Comitato, relative ai Consorzi Sir e
Rel, erano di 755 mila 879 euro, con dei proventi netti di 70 milioni 323
mila 737 euro e un incremento rispetto al 2009 di oltre 69 milioni di euro.
Dunque come si spiega quella cifra che compare nel bilancio 2014 di
Fintecna? A leggere bene i dati, pare che quei 228 milioni siano in realtà la
stima di un «patrimonio separato» del Comitato, che però non si capisce
bene cosa sia. Si sa soltanto che Ligestra Tre ha subito provveduto a girare
quei soldi al Ministero.
Ma un'altra stranezza che ho notato è che, a seguito di quella stima dei tre
periti, Ligestra Tre ha ricevuto dalla sua controllante Fintecna un
finanziamento di «pari importo». Sono soldi che entrano ed escono dalla
stessa porta, con un risultato molto semplice: nelle casse del Ministero
dell'economia e delle finanze gli introiti aumentano, mentre le controllate
che lo foraggiano non vanno mai in perdita. Chi pagherà realmente per tutti
questi travasi? Quello che per ora è certo è che il Consorzio-Sir è tutt'altro
che defunto. Siamo ormai arrivati con questa ricostruzione al 2014 e il
Consorzio per il salvataggio dei Rovelli ha solo cambiato nome, ma le mani
che lo gestiscono sono sempre le stesse: quelle ministeriali. A che serve
tenere in vita questo cadavere?
Raf si chiedeva in una sua fortunata canzone "cosa resterà degli anni '80",
del periodo cioè della guerra fredda. A quell'epoca lo Stato italiano non
interveniva sul campo, ma si occupava semmai di vendere le armi ai signori
della guerra, accertandosi che non venissero usate contro di noi. Sarebbe
stato il colmo. Beh, secondo me restano ancora tanti debiti, che per miracolo,
come nelle fiabe, nei più recenti bilanci si stanno trasformando in guadagni.
Vogliamo crederci?
Bisognerebbe parlarne meglio con Maurizio Prato. E' lui il grande esperto di
partecipazioni statali al timone della Fintecna. Prato in poche parole dirige
un contenitore statale di aziende in "liquidazione coatta amministrativa". C'è
dentro un po' di tutto, dalle controllate dell'Iri, a quelle dell'Efim, fino ai
debiti del comune di Roma e ai sogni infranti di Cinecittà. Fintecna è il
cimitero di quell'economia pubblica che non produceva altro che "buffi".
Curiosa è la storia della "Liquidazione coatta amministrativa". Si tratta di un
provvedimento stabilito da una legge di fine Ottocento. Per la precisione del
15 luglio 1888. Risale ai tempi dello scandalo della banca romana. Di quella
legge si servì soprattutto Mussolini per salvare l'Italia dalla crisi del 192984.
84
Risulta che la Liquidazione coatta amministrativa, che era un provvedimento varato con lo
scopo di salvaguardare gli interessi di una pluralità di cittadini, fu applicata anche più
242
Scirocco. E' tutto in crisi, come pure una singolare società che doveva
promuovere l'economia ligure, la Finanziaria Ligure spa, le ditte della
Alumix che si occupavano di alluminio o la Nuova Sopal che lavorava sui
prodotti agroalimentari meridionali. Tutto chiude, tranne coloro che
chiudono.
L'Italia del futuro guarda al passato con grande nostalgia e senza alcuna
innovazione. Questa è la verità, che vi piaccia o no. Questo, cari lettori, è ciò
che si cela dietro gli annunci di Renzi e le lamentele dell'inconcludente
Berlusconi: il vuoto politico. Lo dimostra la seconda giovinezza che sta
attraversando la Cassa Depositi e Prestiti. Questa società dal sapore antico è
ben nota a chi ha studiato la storia contemporanea. E' una cosa talmente
vecchia che fa a pugni con il ringiovanimento dello Stato di cui Renzi
andava fiero fino a qualche mese fa. Cdp (cioè la sigla di Cassa Depositi e
Prestiti) fu creata nel 1850 (!!!) per il finanziamento delle attività pubbliche
del Regno di Sardegna, prima ancora dell'Unità d'Italia. Le opere - spiega
Wikipedia nella pagina che compare tra i primi risultati di Google - venivano
attuate mediante la «raccolta del risparmio privato». Questo sistema
all'epoca funzionava. Divenne fondamentale nel primo dopoguerra, nel 1919,
in tempi di forte crisi della produzione e di pesante inflazione. Ecco perciò il
futuro propagandato dal renzismo dove va a finire. L'enciclopedia ci informa
che Cdp oggi non lavora diversamente dall'epoca pre-unitaria. Ma come
siamo potuti tornare all'Ottocento?
Una breve ricerca su internet svela che non abbiamo preso la macchina del
tempo di Ritorno al Futuro: il sistema liberale giolittiano di un secolo fa, che
si basava su un'interdipendenza tra banche, industrie private e governi, sta
tornando alla ribalta con preoccupante aggressività. Cosa faceva nel 1919 il
governo liberale? Quando un’industria privata o una banca entravano in crisi
escogitava delle società finanziarie pubbliche, simili a Cdp, come poteva
essere la Sofindit, le quali avevano il compito di farsi prestare i soldi dai
cittadini e di spenderli per acquistare azioni delle aziende da risanare.
Fermiamoci ora un attimo a pensare agli spot televisivi della Rai, quelli
recenti. Alcuni mesi fa venivano pubblicizzate le obbligazioni della Cdp, ma
è un evento che non capitava da tanto tempo. Eravamo abituati tutt’al più al
lancio di un fustino di detersivo, di un cioccolatino elegante, o di una
bevanda alcolica di successo, ma non a uno spot per titoli di Stato. Tra le
origini di Cdp e l'attualità c'è quindi un buco di parecchi decenni. La svolta
244
arrivò solo nel dicembre del 2003, quando Cdp fu trasformata per volontà
del Ministero dell'Economia e delle Finanze in una spa. Questa operazione
secondo l'enciclopedia rese Cdp più indipendente, consentendo alle banche
di acquistare alcune delle sue quote di mercato. Quote però che a mio avviso
non cambiano la sostanza, visto che, con l'80% delle azioni, il Ministero non
soltanto si garantisce la maggioranza di Cdp, ma la trasforma da ente di
controllo, quale fu per un secolo quando Cdp faceva parte della direzione del
Tesoro, a banca di stato ante litteram.
I dati che ho trovato su internet mi danno senz'altro ragione. La politica del
Pd e del Pdl è un qualcosa che sa di vecchio, che non innova ma casomai
ricicla ciò che già conosce. Sta di fatto che sia il centro-destra che il
centro-sinistra non sanno far altro che inondare le imprese private, o appena
privatizzate, di fondi pubblici, con la scusa di dover evitare che i grandi
marchi esteri acquistino la maggioranza delle nostre aziende più prestigiose.
E' nato con questi obiettivi nel 2010, su iniziativa di Giulio Tremonti, il
Fondo Strategico Italiano spa, il cui controllo è nelle mani di Cdp con l'80%
delle quote azionarie. Pochi anni prima, nel 2007, era stata creata una società
che mirava a investire nelle infrastrutture, la F2i Fondi Italiani per le
Infrastrutture, di cui Cdp detiene attualmente il 15,99%. La Simest spa,
Società Italiana per le Imprese all'Estero, nacque nel 1990 con una legge del
governo Andreotti per sostenere le aziende italiane che operano fuori
dall'Unione Europea. Anche di essa Cdp detiene la maggioranza, cioè il 76%
delle azioni, rendendo statali tutti questi investimenti.
In Italia e all'estero si spende con i soldi degli italiani. Non manca una
società simile all'Imi, per investire nelle piccole e medie imprese italiane: è il
Fondo d'Investimento Italiano, nato solo nel marzo 2010. A foraggiare
questo istituto non potevano mancare gli enti pubblici, come il Ministero
dell'Economia e delle Finanze e la Cdp, detentori di un 12,5% a testa delle
azioni del Fondo. Tra gli investimenti di Cdp c'è anche un'impresa che
spende e spande sullo sport e dal 2004 ha incrementato i suoi investimenti.
Parlo dell'Istituto di diritto pubblico per il Credito Sportivo, nato nel 1957
nell'era del centrismo DC, ma che come detto nel 2004 ha allargato la sua
sfera di influenza anche al settore culturale. In questo caso Cdp detiene una
piccola quota, mentre un consistente 80,4% è nelle mani del Ministero
dell'Economia e delle Finanze.
Cos'è cambiato dai tempi dello scandalo della banca romana o del fascismo?
A mio avviso quasi niente. Wikipedia spiega che l'attività di Cdp nel 1896
consisteva nella raccolta di investimenti per risanare gli enti pubblici. E dal
1924, ai tempi dell'assassinio di Matteotti, questo rastrellamento di denaro
245
16
SPIONAGGIO DI STATO
azienda citata nelle notizie. Ce l'avrà un sito, no? Ecco un annuncio sulla sua
pagina Facebook. La data è del 14 dicembre 2016, il giorno successivo
all'arresto di Francesco Corallo. Secondo un articolo dell'Espresso, infatti,
l'imprenditore catanese Corallo era stato arrestato su ordine della procura di
Roma per non aver pagato le tasse sui proventi della gestione delle
macchinette per il videopoker. Le indagini su Fini rappresentano in pratica la
seconda puntata del giallo.
Nel comunicato della Global Starnet c'è scritto che l'attività aziendale andrà
avanti come sempre. Al resto penseranno gli avvocati, come al solito. "Il
concessionario difenderà nelle opportune sedi gli interessi aziendali -
conclude la nota - a tutela della dignità di tutti i lavoratori, delle loro
famiglie e di tutti i partner aziendali. Tutte le attività concessorie
proseguono regolarmente con l'attuale amministratore Mike Chahal".
In pratica non sta succedendo niente. Non ci sono sequestri, non ci sono
problemi giudiziari immediati. Come è possibile? Ma è chiaro: sarebbe
accaduto qualcosa se il reato avesse riguardato il gioco d'azzardo, che il
codice penale punisce con l'arresto. Ma alla procura di Roma interessano i
soldi che mancano all'appello nelle casse dello Stato. Perciò l'attività
continuerà, poiché la ditta è libera di andare avanti con la distribuzione di
macchinette infernali.
Andiamo allora a cercare la Global Starnet su Google Notizie associandola
con la frase: "gioco d'azzardo". Ed ecco la vera notizia. Ce la fornisce senza
volerlo un articolo di Marco Di Blas del Messaggero Veneto, edizione di
Udine, del 22 ottobre 2015. Si parla della Novomatic, una ditta che produce
alcune delle macchinette commercializzate dalla Global Starnet. Ma a
Vienna le macchinette italiane sono state dichiarate illegali e fatte sparire!
Incredibile.
Tirando le somme ecco cos'è accaduto. Lo Stato italiano, attraverso il suo
concessionario che si chiama Global Starnet, il quale distribuisce videopoker
della Novomatic, fattura miliardi, illegalmente, autorizzando il gioco
d'azzardo, che crea dipendenza patologica e manda sul lastrico decine di
famiglie. In questo scenario, Gianfranco Fini diventerebbe un complice che
si è messo in tasca qualche migliaio di euro e lo ha riciclato in una villa a
Montecarlo. E la procura di Roma? Si trasformerebbe in un esattore spietato.
Da una parte il governo di Vienna, che combatte il gioco d'azzardo, dall'altro
la procura italiana, che difende i suoi interessi economici.
Probabilmente si è creato uno Stato nello Stato inaccessibile, pieno di soldi
sporchi, all'interno del quale le leggi non vengono rispettate. I giudici che
indagano da anni sulla corruzione vedono solo una piccola parte del
250
Il giudice avellinese Carlo Palermo, fin dal 1980, indagava su uno smercio
di armi e droga che facevano la spola tra l’Italia e alcuni paesi dell’Africa.
Nel 1984 si cominciò a parlare anche di politica e tangenti. Pare che fosse
proprio Ferdinando Mach di Palmstein, uomo fidato di Craxi a Milano, a
rivestire un ruolo centrale nel giro illecito di denaro. Un articolo di
Repubblica del febbraio 1987 lo descriveva quale giovane faccendiere del
partito socialista, abile nel maneggiare il denaro e ben inserito in certi giri
d’affari. Frequentava il cognato di Craxi, Paolo Pillitteri, l’architetto Silvano
Larini e l’agente generale dell’Ina di Milano, Gianfranco Troielli.
Su incarico di Craxi - sempre secondo Repubblica -, Mach di Palmstein si
trasferì a Roma e fondò un’azienda, la Coprofin, che diventò “l’eminenza
grigia” del partito socialista e la prima indiziata nell’inchiesta del giudice
Palermo. Indagando a Trento sul traffico armi-droga, e perquisendo
l’abitazione di Mach di Palmstein, Palermo scoprì nel 1983 che la Coprofin
e la Promit erano due aziende nelle mani della Sofin Immobiliare, una
società controllata dal Partito Socialista. Spiegava molto bene queste trame
un articolo della Stampa del 30 giugno 1984. Coprofin e Promit avevano
però favorito un vasto giro di scambi tra l’Italia e i paesi africani, tra cui
Mozambico, Somalia e paesi arabi. Le armi giungevano nel Terzo Mondo in
cambio di droga, e il partito socialista intascava delle tangenti. Una vicenda
gravissima, con possibili legami anche con i fatti di sangue del terrorismo.
Mach di Palmstein non era solo in questa attività di mediazione. Si parlò
anche di Vanni Nisticò, capo ufficio stampa del PSI e uomo nelle liste della
P2 di Licio Gelli. Furono travolti dai sospetti i vertici dei nostri servizi
segreti. Il parastato italiano trafficava in armi? Per quei tempi non era un
reato, ma destava molte preoccupazioni la possibile violazione della legge
sul finanziamento pubblico ai partiti.
E’ questo il punto cruciale. Non solo il giudice Palermo aveva scoperto gli
affari sporchi della P2 e forse della mafia siciliana, ma aveva messo le mani
sui finanziamenti che violavano la famosa legge Piccoli, la 195 poi
modificata nel 1981 dalla successiva legge 659.
Ma cosa significava veramente violare la legge sul finanziamento pubblico
ai partiti? Leggendo il testo integrale di quelle norme la verità comincia a
venire a galla integralmente. La prima cosa di cui si preoccupava il
legislatore era la pioggia di miliardi che i partiti avrebbero ricevuto
direttamente dallo Stato. Soldi puliti, evidentemente, e centellinati. Ma si
trattava pur sempre di soldi dei contribuenti, che per di più non finivano in
parti uguali nelle tasche dei politici. Dipendeva dai voti di ciascun partito nei
vari seggi. Ci furono gelosie, liti tra gli uni e gli altri? I giornali non ce lo
252
A ben guardare gli articoli che uscirono dal 1994 al 1996, c’è un momento
nel quale le vicende del giudice Di Pietro ricalcano quanto accadde a Carlo
Palermo. Ed è l’inchiesta sulle attività del partito socialista in Africa.
254
17
PERESTROJKA ITALIANA
La mafia russa aveva legami con il Piemonte e sono certo che li ha ancora.
Nel libro del povero Paul Klebnikov «Godfather of the Kremlin» ce ne sono
parecchie di cose che in Italia non si possono dire. E' forse per questo che
non è stato tradotto nella nostra lingua. Un grosso scoop è che un partner
della ditta Avtovaz del mafioso Boris Berezovskij era a Torino. Si chiamava
Logo System. Fu il frutto di un vecchio accordo di joint-venture del 1989 tra
la vecchia ditta di Togliatti (città russa col nome dell'ex leader del PCI),
costruita dalla Fiat negli anni '60 e poi passata all'oligarca russo, e una delle
sue aziende satelliti di out-sourcing, che gli sarebbero servite per
l'informatizzazione degli obsoleti sistemi industriali sovietici.
Proprio l’outsourcing è un elemento tipico del Piemonte e della Lombardia.
Significa che una grossa azienda, per mancanza di tempo, delega e vende a
un’altra di più limitate dimensioni lo svolgimento di un singolo servizio. A
volte la cessione di una commessa può avere senso, in altri casi sembra
proprio una truffa, specialmente quando il servizio offerto è la gestione dei
reclami dei clienti. Un altro punto di contatto tra Piemonte e mafia russa
sono i bassi costi di molti beni. Con la caduta del regime sovietico il governo
russo di Eltsin decise di cedere, per modeste somme di rubli, le quote di
privatizzazione delle aziende più importanti, così come dei piccoli negozi.
Nell’ex URSS tutto era nelle mani dello Stato. Klebnikov commentò che
questo ribasso non agevolava i cittadini volenterosi, bensì gli speculatori che
compravano ingenti quantità di aziende senza poi preoccuparsi di dar loro un
futuro. Nel nostro caso riscontriamo in Italia la netta svalutazione del
mercato immobiliare, che viene creata arbitrariamente dai venditori senza
alcuna garanzia per i cittadini. Una simile situazione permetterebbe ad
agenzie senza scrupoli di acquisire con poche migliaia di euro diversi
immobili di un certo pregio. Al primo rialzo dei prezzi, quindi, sarebbe un
gioco da ragazzi rivendere questi appartamenti o ville lucrando sulla
differenza.
In Italia il KGB installò banche e aziende fittizie per dei traffici illeciti. Lo si
scopre dal libro di Paul Klebnikov, “Il padrino del Cremlino”, in un
paragrafo dedicato al collasso del vecchio regime sovietico. Dal 1980 -
denunciò lo scrittore assassinato nel 2004 - il KGB ebbe una nuova missione,
esportare capitali all’estero attraverso società off-shore.
Si tratta di un argomento che conosciamo, in quanto si è manifestato in tutta
la sua gravità nei recenti mesi. Ci riferiamo alle polemiche per i fondi del
presidente russo Putin a Panama. Ma non solo. Nel 2013 si parlò di una
262
banca cipriota i cui dirigenti facevano parte del KGB. Il libro di Klebnikov
aveva parlato già dal 2000 di questo sistema, che coinvolgeva proprio Cipro,
ma poi anche la Grecia, il Portogallo e l’Italia, che guarda caso sono le
nazioni più indebitate degli ultimi anni. Il traffico avveniva mediante il
trasferimento di miliardi di dollari, attraverso un sistema che coinvolgeva
aziende e banche fittizie. L’Urss avrebbe inviato petrolio, legname e metalli
a prezzo stracciato a queste aziende, le quali lo avrebbero rivenduto ai costi
di mercato trattenendo per sé i profitti. Lo scopo - stando a Klebnikov -
divenne chiaro quando il sistema politico sovietico fu abbattuto. Il KGB
aveva il compito di creare dei fondi segreti da destinare ai membri del KGB
e del PCUS.85
Ma quali aziende in Italia potevano prestarsi a questo gioco? Abbiamo fatto
una ricerca nell’archivio della Stampa. La risposta è che sono molte, perché
gli accordi commerciali Italia-URSS furono numerosissimi, fin dai tempi di
Mattei all’ENI. Ma c’è un articolo che ci ha colpito in particolare. E’ del 28
ottobre 1979. Venne siglato un accordo con cui l’Italia avrebbe fornito
impianti in cambio di petrolio e gas. Tra le aziende pronte a lavorare per
l’URSS in campo energetico c’erano la Montedison, la Fiat e la Snia
Viscosa.
85
La fonte di queste notizie sono interviste effettuate da Paul Klebnikov agli ex gerarchi del
Kgb.
263
Non si trova nulla negli archivi dei quotidiani dell'altro uomo della
Montecatini che compare nell'archivio Mitrokhin, lo scienziato Doctrinelli
(Impedian 257).
Forse l'archivista copiò male il nome, come spesso gli capitava. In questo
caso Doctrinelli non aveva alcuna intenzione di cedere i segreti industriali
della Montecatini al KGB, pertanto quando si recò a Grodno per la
costruzione della fabbrica di ammoniaca fu spiato continuamente. I servizi
russi volevano mettere le mani sulla sua valigetta, che però Doctrinelli
portava sempre con sé. Il KGB - dice Mitrokhin - organizzò allora una cena
di gala in suo onore, e quando questi nascose la valigetta sotto il suo letto le
spie russe corsero a fotografarne il contenuto. Furono scattate foto di ben
493 pagine di documenti, che "descrivevano l'attività tecnologica della
Società Gemarco-Vetrocock ed hanno fornito informazioni sulle
caratteristiche di assorbimento delle soluzioni a varie temperature e
pressioni."
I libri sullo spionaggio dell'est sottolineano spesso quanto fossero importanti
per i paesi del Comecon le informazioni scientifiche, che permettevano loro
di rimanere competitivi rispetto all'occidente anche senza grossi investimenti.
Fu per questo probabilmente che nei rapporti Impedian, al numero 48 e al
233, c'è spazio anche per la Coeclerici, con la quale ho un personale ricordo:
svolsi un colloquio alcuni anni fa per un impiego a Milano. E' una storica
ditta che si occupa di trasportare il carbone dalla Russia attraverso il porto di
Genova. Nel 1973-74 i russi contattarono Gioacchino De Feo, un suo
rappresentante all'estero, ma la collaborazione si interruppe presto perché -
spiega Mitrokhin - "le prospettive di utilizzarlo per informazioni scientifiche
e tecniche erano scarse." De Feo fu poi espulso dalla Russia nel 1978, per
aver contattato dei cittadini locali senza autorizzazione.
Se fosse vera la teoria di Enzo Biagi, scritta nel suo libro sulla storia dello
spionaggio, anche l'assassino del presidente marchigiano dell'ENI, Enrico
Mattei, avrebbe ora un identikit grazie all’archivio Mitrokhin. Il grande
Biagi parlò di una confessione. La rilasciò un certo Lamia, agente dello
SDECE, un servizio segreto francese. Disse che a uccidere Mattei era stato
Laurent, questo il nome di battaglia, il quale in quindici minuti avrebbe
manomesso l'altimetro sul Morane Saulnier, fermo all'aeroporto di Catania.
L'aereo precipitò tra le fiamme nei pressi di Pavia. Era il 27 ottobre 1962.
Ma Biagi era scettico riguardo a questa pista, perché quindici minuti gli
parvero troppo pochi. Questo Laurent però è esistito. Mitrokhin ne parla a
proposito delle spie del KGB in Francia. Il nome di battaglia in realtà glielo
diedero i sovietici. Laurent "era uno scienziato che lavorava in un istituto di
265
86
Cfr: “Se un ricercatore ha bisogno di un computer”, La Stampa, 26 febbraio 2003.
87
Cfr: “Solo impicci e ostacoli dalla nostra burocrazia”, La Stampa, 9 aprile 2003.
268
88
Cfr: “Acquisti per gli enti di ricerca “Centralizzarli permette risparmi, non è burocrazia”, La
Stampa, 19 marzo 2003.
89
Cfr: “Consip, cos’è e come funziona la “centrale acquisti” della Pa”, Sky TG24, 6 marzo
2017.
269
dei cittadini per lo Stato. In altre parole, molto più semplici da capire, per
sopravvivere abbiamo bisogno di una dittatura, di un consenso vastissimo.
Ogni crisi o scandalo vero potrebbe creare i presupposti per una crisi di
liquidità, che manderebbe a gambe all'aria tutti gli impiegati degli uffici
pubblici e i politici che si danno alla bella vita.
La gente deve credere nello Stato e investire sul suo debito. Ecco perché le
manovrine, con il Berlusca o con Renzi, non possono colpire i cittadini.
Devono mancare il colpo e finire sui fumatori, sugli alcolisti, ma non sui
loro “clienti”. La gente non può non credere nello Stato italiano, e questo
anche riguardo al sistema giudiziario. Lo Stato italiano è il bene assoluto, e il
Berlusca o gli altri politici indagati sono i martiri che pagano con la loro
reputazione affinché il gioco regga e vada avanti. Un prezzo che si può
anche pagare, visto che la galera questi signori non sanno manco cosa sia.
Altre soluzioni non si vedono. Il capitalismo del mercato azionario continua
a non piacerci. La politica parlamentare, sia di sinistra che di destra, non
favorisce affatto il libero mercato, ma semmai gli appalti, le scalate e le
nazionalizzazioni. Continuiamo a non saper immaginare qualcosa di diverso
dal finanziamento a pioggia dello Stato, senza tuttavia alcun ritorno di
fiamma per il comunismo. E idee nuove dagli economisti non arrivano.
Abbiamo un processo al giorno per gli appalti pubblici da venticinque anni,
dalla prima Mani Pulite, una corruzione che è devastante come ai tempi di
Catilina, ma a nessuno viene in mente di eliminare alla radice il problema.
Come è possibile? Forse è proprio questa attività di eterna indagine
mediatica che deve far nascere il consenso per lo Stato e il conseguente
successo nelle vendite dei titoli pubblici.
Sta di fatto che nel nostro giornalismo è difficile immaginare un'economia
che non preveda nel prossimo futuro una nuova grande asta di bot, cct, e btp.
E nessuno si è ancora accorto che Renato Cantoni è più importante del suo
quasi omonimo del fantozziano ufficio anticorruzione.
272
18
TANGENTI AMERICANE
Il caso ha voluto che nella seconda metà del 2008 mi trovassi a lavorare per
un'azienda di cui avete già letto l’intera storia. Si tratta della nuova Edison,
ma devo essere più preciso su colui che è stato il mio datore di lavoro
part-time per sei mesi. Il sistema di gestione della clientela di quel famoso
marchio, perché questo era il ruolo che mi venne assegnato da un'agenzia
interinale di Milano, alla quale non avevo certo nascosto di essere iscritto
all'albo dei giornalisti pubblicisti, prevedeva che ad occuparsi
dell’archiviazione dei contratti appena stipulati e del contatto con il cliente
fosse un'azienda esterna. Ho quindi sperimentato di persona quello che vuol
dire esternalizzare un servizio di un'impresa. E non è che sia rimasto molto
convinto della bontà di questo sistema. Come dire: vendono un prodotto e
poi se ne infischiano se il cliente resta insoddisfatto.
In questo caso, l'azienda che gestiva i clienti per conto di Edison mi spedì in
un grande ufficio, in cui avevo il compito di inserire al computer dei dati
provenienti da contratti scritti a mano. Fu un lavoro più facile di quanto
pensassi, e in fondo gli 800 euro mensili per quell'attività, che mi lasciava
anche libero di svolgere eventualmente il lavoro giornalistico, mi sono parsi
fin troppo generosi. Avevo la possibilità di distrarmi su ciò che accadeva
intorno a me nelle ore di lavoro, poiché i contratti arrivavano tutti nello
stesso momento e c'erano periodi anche lunghi in cui non c'era niente da fare.
Si era quasi costretti a trovare una persona con cui parlare o un passatempo
sul proprio computer. Diciamo che mi hanno colpito alcune cose: la prima è
che i giovani che lavoravano nel mio stesso ufficio non avevano una
concezione del loro lavoro molto positiva; eppure tutti i lavori, se affrontati
con spirito costruttivo, possono essere stimolanti e interessanti, a prescindere
dal livello culturale. Tra questi giovani, apro un inciso, c’era una ragazza che
raccontava di aver perso il marito in un brutto episodio di violenza: la
cosiddetta “Strage di Rozzano” (Rozzano è un comune poco distante da quel
luogo di lavoro). Andando poi a leggere sui giornali quel fatto, perché penso
di averlo identificato da alcuni particolari, ho scoperto che le cose sembra
siano andate diversamente da come mi era stato raccontato, e che non fu un
incidente casuale come avevo capito, bensì si era trattato di un “regolamento
di conti tra pregiudicati”. La seconda cosa che mi ha colpito è che i clienti
che telefonavano ai colleghi della sala accanto sembravano tutti arrabbiati; e
273
chi rispondeva mi è parso fosse predisposto alla litigata sul costo della
bolletta. Un terzo elemento l'ho notato salendo al piano superiore della stessa
azienda a prendere il caffè dalla macchinetta automatica: entravo
improvvisamente nel Comune di Milano, e dietro ad un'insegna del comune
meneghino vedevo, in un altro salone, delle persone con la cuffia indosso
che parlavano al telefono; ma io in quel momento ero nel Comune di
Basiglio! E la cosa mi è rimasta impressa nella memoria.
Cosa c'entra la nuova Edison in tutto questo? C'entra perché sentivo spesso
nominare Foro Bonaparte, e mi veniva spiegato che alcuni delegati di Edison
erano presenti come supervisori su alcune postazioni in fondo all'ufficio. Si
notavano, o volevano farsi notare, per l'abbigliamento elegante e l'aria
signorile che sfoggiavano quando si affacciavano nei vari uffici. Fu solo a
quel punto che compresi di avere a che fare con la Montedison e Gardini.
Ma erano passati tanti anni da Tangentopoli, potevano essere cambiate molte
cose. Oggi, dopo aver fatto degli approfondimenti so che non è detto sia così
e non intendo nascondermi; anche perché quelle esperienze
extra-giornalistiche (ce ne sono state altre) non si concludevano mai bene.
In quell'azienda, che lavorava per Edison, alla fine venni spostato in un altro
ufficio con una scusa umiliante, più adatta a un bambino di scuola
elementare: il fatto che ero troppo distratto a parlare con gli altri, più che a
scrivere i dati al pc. Venni mandato nell'ufficio di fianco al mio, nello stesso
ampio salone, e lì vidi il lavoro più duro e anche meno adatto a un'azienda
come Edison. Si trattava di telefonare, uno per uno, a tutti i potenziali clienti
di Edison, chiedere al cliente di mandare la bolletta del proprio gestore (in
genere Enel) e proporre un nuovo contratto Edison a prezzo bloccato per
diversi anni. Il sistema non mi convinse per vari motivi: Edison ha
abbastanza soldi per programmare la vendita della sua proposta commerciale
in modo più professionale. E poi perché io, come cliente, non accetterei mai
di inviare la mia bolletta a degli sconosciuti, tanto meno di farli entrare
dentro casa e firmare le loro proposte. Quindi scappai via senza neanche
salutare...
dalla vecchia Edison del presidente Giorgio Valerio, a metà degli anni
Sessanta. La Edison vendette all’esercito italiano delle ricetrasmittenti
spacciate per nuove, mentre invece erano riciclate da materiale delle seconda
guerra mondiale di origine statunitense. Da qui partirono le indagini che
portarono a scoprire i fondi neri anche nella nuova Montedison, scatenando
il primo scandaloso processo terminato con delle assoluzioni, perché il fatto
non costituiva reato.
Ma intanto erano passati otto anni durante i quali era stata insabbiata la
vicenda pakistana. Secondo uno dei tanti scoop di Giorgio Zicari del
Corriere della Sera, la Edison aveva ottenuto nel 1967 la licenza per vendere
materiale elettronico al Ministero della Difesa del Pakistan da una società
americana, la “Davis Co.”. Aveva poi ceduto i diritti a due società del gruppo
Scialotti, che era stato a sua volta assorbito dalla Edison. Le società si
chiamavano “C.I.V.” e “Lampel”.
Il Pakistan nel 1971 era finito sotto embargo per la guerra di liberazione
bengalese, scoppiata nel marzo per liberare l’est pakistano, che divenne il
Bangladesh. In Pakistan si formarono anche i primi guerriglieri mujaeddin,
sostenuti dagli Stati Uniti, come reazione all’invasione russa
dell’Afghanistan del dicembre 1979. E in Pakistan morì Osama Bin Laden, il
2 maggio 2011, nel corso di un’operazione dell’americana CIA. Il 1967 è
molto lontano, eppure negli anni Ottanta il giudice Palermo aveva scoperto
un traffico di armi molto simile che legava la Montedison al medioriente e
all’Africa. Anche questa vicenda fu insabbiata.
E' certo che il rapporto Montedison-Scialotti, con il nuovo nome di Elmer,
proseguì fino a Mani Pulite, e così anche la vendita di armi. Famosa una
fornitura per Saddam Hussein, che creò molti imbarazzi quando scoppiò la
prima guerra del golfo.
Un legame tra lo scandaletto delle radio taroccate della Edison, spacciate per
nuove, e il famoso affare Lockheed fu scoperto dal procuratore Ilario
Martella agli inizi del 1976. Cercando notizie sulla Scialotti, la ditta usata
dalla Edison per vendere armi al Pakistan, ci si imbatte nell’articolo di Fabio
Galvano della Stampa del 25 febbraio 1976. Il titolo era: “I legami segreti
della corruzione”.
La presenza nell’affare di un uomo della vecchia Edison, un certo Vittorio
Antonelli, aveva permesso al magistrato di capire che le tangenti pagate
dalla CIA ai partiti italiani, con lo scopo di favorire la vendita di aerei
americani da guerra, toccavano anche i dirigenti di Foro Bonaparte. Stando
alle parole del giudice Martella riportate da Galvano, il signor Antonelli
figurava sia nell’organismo della Com. El., la quale funse da intermediaria
per la vendita degli aerei americani, sia nella Page Europa, sussidiaria della
Northrop, la quale invece si era occupata delle tangenti.
Giorgio Valerio divenne in seguito presidente della Page Europa (che
inizialmente si chiamava Edison-page) e nominò tra i suoi collaboratori gli
stessi uomini che figuravano nello scandalo dei fondi neri della Montedison,
quelli del primo processo archiviato nel 1980, che era partito dalle radioline
di seconda mano della Edison.
Si venne così a sapere che all’interno di Foro Bonaparte vi era ampio spazio
per delle aziende che non soltanto lavoravano sulle armi, fatto all’epoca
tollerato, ma erano collegate al gruppo d’affari che faceva capo alla CIA. La
Montedison infatti aveva inglobato nell’azienda-contenitore Montedel anche
la Elmer, ossia il nuovo nome della Scialotti, la Stirer e la Gregorini, il cui
indirizzo coincideva con quello della Northrop. Il signor Antonelli figurava
come fondatore e amministratore anche nella Gregorini.
278
Negli articoli degli anni successivi, come sarà facile immaginare, questo
ramo della Montedison si eclissò all’interno di un giro vorticoso di vendite.
Anche l’erede della Scialotti, la Elmer, insieme a tutto il gruppo Montedel,
fu ceduta nel 1979 alla ditta inglese Marconi, poi alla Bastogi.
Eppure alcuni profili professionali online fanno pensare che le vendite non ci
furono. Nella biografia di Antonio Bontempi viene scritto che questi dal
1976 al 1984 lavorò come dirigente alla Elmer di Pomezia, “all’epoca
appartenente al gruppo Montedison”. La ditta era “specializzata nello
sviluppo e produzione di apparati di telecomunicazione per la Difesa”.
Anche un utente di Linkedin, Bruno Sbardella, che si definisce membro
dell’Italia dei Valori, lavorò alla “Elmer Montedison Elettronica spa” come
“project engeneer” dal 1979 al 1981. Le date sono importanti, come si vede.
Un opuscolo intitolato “L’industria militare nel Lazio”, della serie “Sistema
informativo a schede”, uscito ad agosto-settembre del 1993, descriveva così
l’attività della Elmer. “Strettamente dipendenti dalle attività di
Alenia-Finmeccanica sono quelle delle imprese collegate. L’Elmer di
Pomezia è presente nella progettazione e produzione di sistemi ed
equipaggiamenti radio, in particolare per applicazioni militari.” Come si
vede rispetto ai tempi della Scialotti non era cambiato nulla, se non forse
l’azienda madre, che era Finmeccanica, un gruppo pubblico, come la
Montedison degli anni ‘70, che solo nel 1993 si aprì alla partecipazione dei
privati. In Finmeccanica affluirono in quel periodo le partecipazioni della
STMicroelectronics, che facevano parte anche del portafoglio azionario del
Comitato di salvataggio della SIR. In qualche modo si era rimasti nelle
vicinanze della famiglia Montedison, che con la SIR si era fusa negli anni
‘80. Anche Finmeccanica era stata travolta dallo scandalo Lockheed del
1976. Il suo presidente Camillo Crociani era stato arrestato e poi condannato
dalla Corte Costituzionale a due anni e quattro mesi di carcere.
Ai tempi della prima guerra del golfo, i giornali specularono sulla notizia di
una fornitura di armi della Elmer a Saddam Hussein. Era il 22 gennaio del
1991. “Un bell'affare da 3.600 miliardi di lire che coinvolse anche Selenia
Elsag, Oto Melara, Elmer e gruppo Fiat”, lo descrisse Edoardo Borriello su
Repubblica. “La situazione è quindi disastrosa - commentò - se si
considerano le ostilità nel Golfo Persico e la battaglia legale in corso tra
aziende italiane e governo di Bagdad”.
Quando fu siglato l’accordo con l’Irak di Saddam era la fine del 1980, ai
tempi in cui la Elmer era nelle mani di Bastogi. Eppure l’impressione è che
Foro Bonaparte abbia sempre navigato in queste torbide acque. Un
documento pubblicato dal sito Kelebek citava la Montedison in un gruppo di
279
La Page Europa spa, l’azienda che pagò le tangenti ai politici italiani per
vendere gli aerei della Lockheed, è ancora attiva, a quanto pare. Su internet
risulta che sia presente un’azienda con questo nome a Roma e anche nei
dintorni della Capitale. L’indirizzo dovrebbe essere cambiato, poiché la sede
di questa omonima sospetta è al quartiere Eur. Tuttavia è molto probabile
che si tratti della stessa Page Europa di Giorgio Valerio, infatti afferma sul
suo sito di occuparsi di telecomunicazioni. Proprio come la sua omonima del
1976, che distribuiva "bustarelle" ai politici, la quale su La Stampa veniva
così descritta dall’inviato Vittorio Zucconi: "è specializzata in
apparecchiature elettroniche, sistemi di telecomunicazioni, collegamenti via
satellite". Era la filiale italiana della "Page Communications Engineers Inc",
appartenente al gruppo Northrop, che produceva gli aerei caccia F5E Tiger,
al centro in quel momento di un vasto scandalo internazionale.
Riepiloghiamo quello che era accaduto dalle parole di Zucconi: la Page
Europa ammise di aver pagato tra il 1969 e il 1975 ben 861mila dollari, che
equivalevano a 600 milioni di vecchie lire. Il tutto servì per “commissioni
probabilmente illecite”. Tangenti, traduceva in termini semplici l’inviato
della Stampa, che furono pagate in Italia, Grecia, Portogallo, Turchia e
Somalia. La denuncia partiva, va evidenziato questo, dalla “Security and
exchange commission” degli Stati Uniti. Fu questo organo di vigilanza
sull’attività delle industrie americane a far partire lo scandalo, mentre
indagava insieme alla commissione del senato americano. Fu rilevato che
per le tangenti le responsabilità erano da ricercare proprio in Italia, presso la
sussidiaria della Northrop, anche perché le “bustarelle” erano andate avanti
anche dopo il 1975, quando la Northrop, a cui la Page Europa faceva capo, si
era impegnata con il governo statunitense a sospendere la corruzione ormai
messa a conoscenza dell’opinione pubblica.
L’ipotesi che la Page Europa spa sia ancora presente in Italia lascia piuttosto
perplessi, ma non è da escludere, visto che non vi fu un processo tradizionale
della magistratura ordinaria, all’epoca dei misfatti, bensì un rinvio piuttosto
inconsueto alla Corte Costutizionale. Il sistema delle scatole cinesi con cui
queste tangenti venivano coperte l’ho riscontrato personalmente in altri
settori nei quali fui chiamato a lavorare a Milano dal 2007 al 2009, dieci
280
anni fa ormai. Nessuno delle forze dell’ordine a cui avevo confidato i miei
sospetti mi ha preso sul serio, nonostante avessi chiamato i numeri di
emergenza per alcune preoccupanti intimidazioni che avevo ricevuto
personalmente. Lo ritengo un fatto gravissimo. Cosa dovrei pensare, che
ogni persona che chiama i numeri di emergenza viene trattata a urli in faccia
e lasciata senza possibilità di difesa, come è capitato a me? Non è possibile.
Tutto partì da Ancona, dal quotidiano Il Resto del Carlino, quando mi
accorsi che il contratto di collaborazione diventava un cappio al collo. Certi
giornalisti con cariche di rilievo nella redazione iniziarono a chiedermi in
modo pressante un impegno quotidiano, al di fuori delle regole e peraltro
non previsto dal contratto di pochi euro. La tassazione era irregolare e
tendeva a portarmi via, qualora avessi scelto la via della legalità e cioè di
versare i contributi (molti colleghi non lo facevano), più della metà dei
guadagni percepiti annualmente. Mi era stato proposto nei primissimi giorni
un contratto co.co.co., che avevo firmato volentieri nel 2001 per scrivere
qualche articolo e diventare pubblicista. Nel 2004 mio padre si ammalò.
Pochi mesi prima, sarà un caso, si era accorto delle irregolarità del mio
contratto. Nel 2006 mi licenziai e per non vivere nell’ansia cercai di
cambiare aria, portando il mio curriculum a Milano, presso agenzie del
lavoro, pubbliche e private, presso le scuole per fare l’insegnante, presso i
giornali, le televisioni, le radio.
Fui indirizzato e direi proprio incanalato verso un’azienda che allora
assumeva con facilità e pagava bene. Si chiamava E-Care. Lavorava nelle
telecomunicazioni. L’idea di guadagnare mi portò nel giro di due giorni a
imparare a gestire le telefonate in arrivo presso un importante marchio della
telefonia. Nei primi giorni mi parve fin troppo semplice prendere mille e
duecento euro al mese, dopo le fatiche enormi per guadgnare la metà di quei
soldi correndo a destra e sinistra per il Carlino Ancona. Poi mi accorsi che le
telefonate erano strane, insistenti, forse fatte dalle stesse persone, con
richieste assurde, sempre più martellanti, continue, assillanti. Un lavaggio
del cervello. Vidi alcuni nomi che mi colpirono, forse per caso, o forse no:
Antonio Saladino di Catanzaro, omonimo dell’indagato nell’inchiesta “Why
Not” di De Magistris, e poi mi telefonò anche uno che di cognome faceva
Messina Denaro, ma mi pare che chiamasse dal Piemonte. Negli anni ho
cercato continuamente notizie su E-Care, dovendomi sostituire in questo alle
forze dell’ordine e alla magistratura, finché non ho capito che quella E-care,
così maldestra nel gestire i clienti e i lavoratori, è un’azienda di Alfio
Marchini, che la controlla attraverso un contenitore che si chiama Astrim spa.
Marchini è stato il candidato di Silvio Berlusconi alle ultime elezioni
281
sistemi radar che si vedono nei video di Youtube delle basi abbandonate
dalla Nato in Italia. Nel marzo del 2015, quindi tanti anni dopo, la stessa
scena si è incredibilmente ripetuta. Stavolta la Page Europa figurava come
intermediario tra la Selex ES, ossia la vecchia Scialotti, e il governo polacco.
Scopo dell'operazione una vendita di sistemi radar della Nato.
I contatti tra la Page Europa e le aziende italiane nel 1987 e 2015, e la
pubblicazione sui giornali di queste notizie, dimostrano che le condanne che
la Corte Costituzionale aveva comminato il primo marzo del 1979 ai
protagonisti dello scandalo degli aerei Lockheed erano state dimenticate. A
salvarsi furono proprio Giorgio Valerio, l’avvocato Vittorio Antonelli e la
signora Maria Fava, che guarda caso facevano parte del ramo dell’inchiesta
che conduceva alla Montedison. Valerio morì per una malattia cardiaca nel
dicembre dello stesso anno.
Il collettore di tutte le tangenti che arrivavano alla politica dalle commesse
militari, secondo quanto aveva accertato nelle prime indagini la magistratura
ordinaria, era la Com.El., gestita dalla signora Maria Fava, il cui collegio
sindacale coincideva con quello della Page Europa spa. La Com. El. era una
società fantasma di cui si serviva l'allora presidente di Finmeccanica,
Camillo Crociani, per incassare il denaro sporco.
283
Epilogo
E' veramente curioso quello che sta accadendo a ciò che resta del famoso
Consorzio interbancario della SIR. Lo Stato, per mezzo di una legge del
2017, incasserà del denaro grazie all’estinzione di vertenze giudiziarie. E fin
qui sarebbe tutto normale. Il problema è che le vertenze erano state attivate
dai suoi stessi Ministeri! Per di più, alcune di queste avevano uno scopo
sociale di enorme importanza: servivano per denunciare l’inquinamento
rilevato negli stabilimenti chimici di Rovelli. E ora, da quanto leggiamo,
queste inchieste giudiziarie non esistono più.
Avevamo già detto della finta cessione ai privati del Comitato. Questo
organo statale, creato dalla politica democristiana nel lontanissimo 1982, era
detentore del 60% di quella che avevamo chiamato la “holding dei
fallimenti”, la quale lucrava sulla chiusura degli impianti chimici della SIR e
sulla vittoria delle cause intentate dai creditori della famiglia Rovelli,
all’epoca proprietaria dell’azienda. Quando il Comitato fu chiuso con la
legge 122 del 31 maggio 2010, quel 60% non venne privatizzato, ossia
ceduto a una società qualsiasi, come fu scritto sui giornali, ma venduto alla
Fintecna, che incorporò subito la nuova arrivata nella sua controllata
Ligestra Tre. La Fintecna era già allora una società della Cassa Depositi e
Prestiti, a sua volta per un buon 80,1% nel portafoglio titoli del Ministero
dell’Economia e delle Finanze. Già questo bastava per capire quale giro
vorticoso vi fosse sulle aziende nazionalizzate.
Ma ciò che leggiamo nel bilancio 2017 di Fintecna sta superando ogni limite.
Ligestra Tre contiene tuttora, tra le voci di bilancio, la “Gestione Separata ex
SIR”, che - stando al documento - sta facendo registrare ottimi risultati
economici. Certo, questo avviene perché le cause che erano state intentate
290
Ho scritto un titolo provocatorio per far capire ai miei lettori che c’è
qualcosa che non va nell’attività giudiziaria italiana. La polizia giudiziaria
esiste, ma nei libri non viene affatto identificata come una categoria
autonoma. Chi si nasconde dunque dietro questo nome che sentiamo spesso
nei grandi processi nazionali? Secondo la legge, la polizia giudiziaria è
formata dalle stesse persone che possono fermare i cittadini per strada per
una multa: poliziotti, carabinieri, finanzieri, vigili urbani, agenti di custodia
e guardie della Provincia. Tutti i corpi di polizia che esistono nella nostra
nazione sono complessivamente classificati come polizia giudiziaria.
E’ bene sottolinearlo perché molte persone che vogliono denunciare
qualcosa devono pretendere che ciò avvenga in tutte le stazioni di polizia o
dei carabinieri o delle finanza. Poi vi sarà chiaro perché faccio questa
precisazione.
Il libro un po’ datato ma sempre utile “La legge è con noi” afferma che la
291
Tra l’8 e il 9 giugno del 2018 è stata pubblicata su tutti i giornali la notizia di
alcuni arresti che hanno colpito Fintecna e Ligestra. Sono finiti in carcere
l’ex direttore generale di Fintecna spa (controllata da Cassa depositi e
prestiti), Riccardo Taddei, e Vincenzo Eugenio Di Gregorio, ad della Sagest
Spa. Come al solito molti sono passati subito agli arresti domiciliari. Sono
Alessandro La Penna, ad della Ligestra srl e consigliere delegato della
Ligestra Due srl e Domenico Zambetti, collaboratore a contratto della
293
Ligestra srl.
Tutto è partito, secondo l’articolo di Ivan Cimmarusti del Sole 24 Ore, da
un’ispezione della Banca d’Italia, la quale ha riscontrato delle irregolarità ed
accusato questi dirigenti di aver cercato di sottrarre partecipazioni alle
società che dirigevano. Avrebbero in sostanza cercato di approfittare della
loro posizione aziendale per permettere al Di Gregorio di acquistare azioni
di aziende di Stato, quelle della famosa Efim, a prezzi vantaggiosi.
Questa inchiesta colpisce in pieno la Ligestra, di cui parlo in questo libro,
ma il magistrato sembra tutelare proprio gli interessi dell’azienda. La
magistratura in sostanza sembra non vedere lo scandalo più ampio
dell’anacronistico controllo statale dell’economia. Un controllo molto più
invadente ed aggressivo rispetto al passato.
Ma lo scandalo si intravede anche in altre inchieste che ci sono finite
sottomano. Per esempio nel libro di Claire Sterling, “Cosa non solo nostra”,
che uscì nel lontano 1990, si parlava di soldi della Montedison investiti nelle
banche mafiose di Michele Sindona. Ma la Montedison aveva anche una
controllata, la Montedel, che fabbricava armi (con tanto di tangenti
americane). Ebbene, pur non essendoci alcuna prova, si può ipotizzare che le
armi che furono scambiate con la droga dalla mafia siciliana, tramite la
mafia bulgara e una società, citata dalla Sterling, che si chiamava Kintex,
potessero appartenere alle aziende pubbliche dell’Efim, o della Montedison.
Parliamo del traffico che venne scoperto dal giudice Carlo Palermo, e poi
insabbiato.
Ora arriva l’indagine di questa magistratura, non certo incisiva, che ci dice
sostanzialmente due cose: che siamo finiti sulla strada giusta, e che oltre non
dovremmo spingerci, per non scoprire troppe cose. Ma noi, come avete visto,
lo abbiamo già fatto.
294
Fonti bibliografiche
Fonti archivistiche
Archivio ACNP
Archivio del Consiglio Comunale di Ancona
Archivi dei quotidiani esteri in internet
Archivi dei quotidiani italiani in internet
Archivio della CIA (Central Intelligence Agency - Stati Uniti)
Archivio dell’FBI (Federal Bureau of Investigation - Stati Uniti)
Archivio dell’Istituto di Storia del Movimento di Liberazione delle Marche,
di Ancona
296
Archivio di Wikileaks
Archivio nazionale braidense di Milano
Archivio SBN
Biblioteca Cantonale di Lugano (Svizzera)
Biblioteca Comunale Federiciana di Fano
Biblioteca Comunale Mozzi Borgetti di Macerata
Biblioteca Negroni di Novara
Biblioteca Sormani di Milano
Google
Wikipedia
Indice
Epilogo........................................................................................................283
Fonti bibliografiche.....................................................................................294
Fonti archivistiche.......................................................................................295