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COLAZIONE SULL’ERBA1863 (olio su tela,PARIGI), è

la prima opera impressionista.


É l’opera che segnò l’inizio della tormentata carriera
impressionista dell’autore, fu esposta nel 1863 al Salon
des Refusès e si trovo subito al centro dello scandalo.
Il quadro fu ritenuto scandaloso poiché raffigurava il
nudo femminile. Manet fu accusato di malizia e
volgarità, che al contrario, erano del tutto estranee sia
al suo carattere che alla sua educazione.

L’opera destò tanto scalpore perchè il nudo


rappresentato era quello di una ragazza di quel tempo
e non di una divinità classica o un personaggio
mitologico.

In Realtà Manet nella composizione di questa opera


prese considerazioni alcuni esempi rinascimentali
come Il Concerto camprestre di Giorgione, e Giudizio
di Paride di Raffaello.

Manet si ispirò anche a Tiziano, cioè il primo pittore della luce.


Si può dire che l’ispirazione sicuramente sia di tipo classica e ciò che disturba non è il nudo ma la sua attualizzazione.

ELEMENTI IMPRESSIONISTI: natura morta, quotidiano, pittura libera (le regole della prospettiva non vengono rispettate).
-> La scena è ambientata presso Sant Ouen a Parigi.
-> Rappresenta una donna nuda (prostituta) in primo piano, accanto al lei è seduto un uomo (uno dei fratelli di Manet), mentre
l’altro uomo (futuro cognato) è semi-sdraiato di fronte ai due con un braccio teso in direzione della giovane donna.
-> Il lontananza si trova un’altra figura che è quella di una ragazza che si sta lavando in uno specchio d’acqua.
-> Le quattro figure risultano composte entro un triangolo ideale, uno dei vertici cade sul cappellino di paglia e sul vestito
azzurro in basso a sinistra; questi due insieme al cestino di frutta e ai resti della colazione costituiscono una natura morta
all’interno del dipinto stesso.
-> I motivi di critica furono molti: la Parigi benestante rimase indignata dal realismo con il quale l’artista aveva realizzato il
nudo femminile posto in primo piano, accusando Manet di volgarità e di malizia; soprattutto perché quel nudo non
rappresentava una divinità o un personaggio mitologico ma una ragazza del tempo e anche perché i due uomini non
indossavano vesti classiche o abiti rinascimentali ma semplici costumi francesi.
-> Venne criticata anche la tecnica pittorica dell’artista, infatti lo accusarono di non aver saputo usare la prospettiva e il
chiaroscuro.
-> I personaggi e lo sfondo sono trattati in modo diverso; i primi risaltano molto rispetto allo sfondo, è come se fossero
ritagliati, sembrano figure prive di volume.
-> Il senso della profondità è dato però degli alberi e delle fronde che si sovrappongono e che creano zone di luce e di ombra.
-> I colori sono stesi con pennellate veloci giustapponendo toni caldi (frutta e cappello di paglia) e freddi (vestito azzurro); in
questo modo il pittore crea un contrasto che li rende più vivaci e squillanti.
-> L’atmosfera del dipinto nell’insieme risulta fresca e luminosa.

Nel 1863, pochi mesi dopo la realizzazione del quadro La colazione sull’erba, Édouard Manet (1832-1883), pittore francese
considerato il padre dell’Impressionismo, dipinse un secondo capolavoro, l’Olympia, che venne, contro ogni previsione,
accettato al Salon ufficiale del 1865. In realtà, i giudici tentarono di nascondere il più possibile questo quadro, nella speranza
di soffocare le prevedibili polemiche, e lo appesero in un angolo della sala, bene in alto e lontano alla vista. Pubblico, critici e
giornalisti furono ugualmente attratti dal nuovo scandaloso soggetto di Manet e seppellirono di critiche tanto l’opera quanto il
suo autore. Il dipinto venne definito «una spregevole odalisca con il ventre giallo».

Manet, per quanto si ritenesse pronto a fronteggiare i giudizi negativi, confessò al poeta Baudelaire, suo amico, di non essere
mai stato così offeso dalle maldicenze della critica. Normalmente, si compiaceva se il pubblico lo considerava provocatorio,
trasgressivo e persino eccessivo; in quella circostanza, però, gli attacchi lo ferirono profondamente.
OLYMPIA

Il soggetto
Olympia presenta una donna completamente nuda, che
ha nuovamente il volto e il corpo di Victorine Meurent,
già protagonista del dipinto La colazione sull’erba.
Sdraiata sopra il suo letto disfatto, ornata solo da un
bracciale d’oro e da un sottile collarino di velluto con
una perla a goccia, e con una ciabattina ciondolante sul
piede sinistro, ella guarda direttamente verso
l’osservatore con espressione sfacciata.
La sua mano sinistra è posata sul pube, in un gesto di
apparente pudore ma in verità piuttosto sfrontato. Il
pubblico capì subito che si trattava di una prostituta,
ritratta con l’atteggiamento impudente e confidenziale
di chi riceve un cliente abituale.

L’interpretazione era legittima. L’aspetto e la posa della donna rimandavano a foto di nudi pornografici che nella Parigi
dell’epoca avevano un mercato enorme (anche se clandestino). Sullo sfondo, una domestica di colore si avvicina per
consegnarle un bouquet di fiori. Anche la figura della “serva negra” (come si usava dire all’epoca) rimandava al tema della
prostituzione: le prostitute, infatti, non avevano domestiche bianche, le quali si rifiutavano di lavorare per donne così poco
raccomandabili.

Ai piedi del letto, un gatto nero, tradizionale simbolo di lussuria e tradimento, si spaventa per l’ingresso del cliente che la
donna sta guardando e scatta sulle zampe rizzando il pelo.

Perfino il titolo dell’opera chiariva gli intenti dell’artista: Olympia era infatti un nome assai diffuso tra le prostitute d’alto bordo.

Il linguaggio pittorico
La tecnica adottata da Manet è del tutto simile a quella del dipinto La colazione sull’erba: la
scena è infatti costruita attraverso rapide pennellate e solo osservandola in lontananza acquista
un effetto realistico. Il chiaroscuro è semplificato al massimo e il contrasto tra tinte chiare e
scure appare assai netto, tanto che il color avorio della pelle di Olympia si staglia con decisione
sullo sfondo quasi nero.

Una rilettura del Rinascimento


Di fronte alle critiche inferocite che gli piovvero addosso, Manet spiegò che la sua Olympia altro
non era che l’interpretazione in chiave moderna di un capolavoro rinascimentale, cioè la Venere
di Urbino di Tiziano.

Anche nel quadro del grande artista veneto, infatti, si vede una giovane nuda, sdraiata sopra un
letto disfatto, che guarda verso l’osservatore con atteggiamento sensuale, mentre sullo sfondo
due domestiche si stanno occupando del suo guardaroba. Benché il legame con l’autorevole modello fosse evidente (anzi,
proprio per questo), la critica non trovò giustificazioni. Il capolavoro di Tiziano aveva per protagonista una dea e non una
donna, meno che mai una prostituta; inoltre, esso celebrava l’eros ma circoscrivendolo all’ambito matrimoniale, come
dimostra la presenza del cagnolino (simbolo di fedeltà) che sonnecchia ai piedi di Venere. L’Olympia aveva tutto un altro
significato e Manet, ovviamente, ne era ben consapevole. Parigi vantava, in quegli anni, almeno 35.000 prostitute; a nessuno,
però, era ancora venuto in mente di dipingerne una nella posa della Venere di Urbino. L’oltraggio, quindi, nasceva sia dalla
decisione di rendere pubblico ciò che normalmente si fingeva di ignorare sia dalla scelta, altrettanto irritante, di utilizzare l’arte
rinascimentale per raffigurare le bassezze della vita.

Una curiosità: la notorietà conquistata da Olympia fu fatale per la reputazione della modella Victorine Meurent. La donna non
riuscì mai più a liberarsi dalla fama di prostituta e, dopo la morte di Manet, finì i suoi giorni povera e alcolizzata.
Il bar delle Folies-Bergère

Il bar delle Folies-Bergère, dipinto tra il 1881 e il 1882, fu uno


degli ultimi quadri di Manet. Venne realizzato in studio dopo
un lungo lavoro preparatorio, sulla base di bozzetti eseguiti
all’interno del locale. L’artista era già malato e portò a
termine l’opera tra grandi sofferenze fisiche; presentò il
dipinto al Salon del 1882, ricevendo un’accoglienza, come
sempre, piuttosto tiepida.

Infatti, Il bar delle Folies-Bergère, secondo l’uso


impressionista, è una brillante tranche de vie, ossia uno
spaccato di vita vissuta. Degas e Renoir erano stati dei veri
maestri nel realizzare questo genere di soggetti. Anche
Manet, tuttavia, riuscì a «strappare alla vita moderna il suo
lato epico», come suggeriva il suo amico Baudelaire, e con
assoluta capacità. Il poeta, tra l’altro, sosteneva che «un
vero pittore […] ci farà vedere e sentire quanto siamo grandi
e poetici nelle nostre cravatte e nelle nostre scarpe lucide».

Egli, infatti, sosteneva che la pittura moderna dovesse descrivere la modernità; senza indulgere troppo nella storia e nel mito;
una posizione che vide l’artista completamente d’accordo. Tutte le sue opere, e soprattutto quelle della maturità,
testimoniano il costante interesse dell’artista per la gente comune, incontrata ogni giorno a Parigi. In accordo con i colleghi
impressionisti, Manet riteneva che i parigini rappresentassero la vera modernità; per questo egli trasse la sua ispirazione dagli
eventi e dalle persone del proprio tempo e del proprio paese e si distinse per la sua straordinaria abilità nel cogliere la
particolarità di quanto è normalmente considerato banale.

La barista e lo specchio
Il bar delle Folies-Bergère inquadra un angolo del locale dov’era organizzato il bar. Una barista, splendidamente ritratta con
l’espressione assente, sta in piedi dietro al bancone e davanti a un grande specchio, che riflette quanto si trovava davanti a
lei, ossia il salone illuminato dai grandi lampadari e anche i clienti del locale seduti ai tavolini: uomini del bel mondo con i loro
cappelli a cilindro neri e signore eleganti munite di binocolo, intente a guardare lo spettacolo ma più probabilmente a
spettegolare. Tutti, infatti, sembrano ignorare la trapezista, della quale s’intravedono appena le gambe all’estrema sinistra del
quadro. Si distinguono, nella massa quasi indistinta dei clienti, un uomo e una giovane donna vestita di chiaro e con i lunghi
guanti gialli che conversano; probabilmente, lei è una prostituta e sta contrattando il prezzo della sua prestazione.

Suzon
Della barista conosciamo il nome: Suzon. Era una vera cameriera del Folies-Bergère che accettò di posare per il pittore. La
giovane porta i capelli biondi pettinati secondo la tipica acconciatura à la chien, ossia raccolti dietro in una coda e con una
frangetta che arriva fino al livello delle sopracciglia. È vestita elegantemente, come si conveniva per lavorare in un locale
prestigioso e ben frequentato come quello: l’abito nero, dotato di un’ampia scollatura bordata di merletto, è stretto alla vita da
una lunga fila di bottoni. La ragazza porta alle orecchie due piccoli orecchini, al collo un collarino con nastro e cammeo,
all’avambraccio destro un braccialetto dorato e si è appuntata sulla scollatura un delizioso bouquet di fiori.

Contrasta con questa sobria eleganza l’atteggiamento un po’ sgraziato, poco femminile secondo le convenzioni dell’epoca,
dell’appoggiarsi al marmo del bancone, tipico di chi si tiene pronto a muoversi per servire il cliente. Un atteggiamento che
tradisce le origini popolane della giovane.
Suzon ha una espressione malinconica e l’artista la coglie in un attimo
di sospensione, come immersa nei suoi pensieri, come se avesse
approfittato di un momento di inattività per chiudersi nel proprio mondo
interiore. Ciò contrasta con il contesto, che immaginiamo chiassoso e
caotico. Non facciamo fatica a riconoscere nel volto della ragazza un
certo disagio, a trovarsi lì in un posto che la vede socialmente estranea,
a compiere un lavoro che probabilmente non ama, a servire persone
che magari in cuor suo disprezza, che trova boriose e supponenti, e
che molto probabilmente le parlano in modo asciutto e sbrigativo se
non addirittura scortese.

Un gioco prospettico
È solo una illusione, insomma, che la barista rivolga lo sguardo verso di noi che osserviamo il dipinto. Il riflesso sullo
specchio, d’altro canto, nega definitivamente questa possibilità, con un effetto curiosamente spiazzante. Infatti, la prospettiva
usata dall’artista, falsata ad arte, ci permette di vedere nello specchio allo stesso tempo la donna di spalle e l’uomo che si
avvicina e che sta per rivolgerle la parola. Fu l’ultimo esperimento di Manet, e probabilmente il più riuscito, sul rapporto tra
spettatore e immagine. In effetti, la posizione rigorosamente frontale della donna dovrebbe far sì che la sua immagine si
sovrapponga a quella riflessa; tuttavia, bisogna considerare che il vero punto di vista della scena è più angolato.
La natura morta
Gli oggetti del bar in primo piano testimoniano anche della maestria di
Manet come pittore di nature morte. Vediamo, alle due estremità, alcune
bottiglie di champagne e di liquore e anche un paio di birre inglesi, di una
marca molto apprezzata nella Parigi dell’epoca (con il triangolo rosso
sull’etichetta); al centro spicca un calice in cui la ragazza ha immerso due
rose dalle tonalità lievemente rosate e aranciate e, accanto, ammiriamo
una fruttiera di cristallo colma di arance e ricca di riflessi luminosi.

La tecnica
Come si vede, la tecnica utilizzata da Manet è molto prossima a quella dei suoi amici impressionisti. Abbandonata la
costruzione dell’immagine per grandi macchie di colore, soluzione già di per sé rivoluzionaria e adottata nei primi anni
Sessanta, qui la scena è composta da una miriade di pennellate, che soprattutto nella parte riflessa nello specchio creano le
figure in modo approssimativo, lasciandole indistinte e affidando all’occhio il compito di ricomporle. Certo, osservando il
quadro da vicino tutto appare veramente molto confuso e non stupisce che il pubblico dell’epoca, abituato al miniaturismo
lenticolare della pittura accademia, potesse rimanere sconcertato.

Ma se contempliamo l’opera alla giusta distanza, quelle


pennellate creano lo straordinario effetto flou di uno specchio
antico, che non ha la medesima capacità riflettente degli
specchi moderni, e rende molto veritiero il rapporto di messa a
fuoco tra ciò che si trova in primo piano e quanto resta sullo
sfondo. Inoltre, la resa della folla indistinta, che richiama la
strepitosa soluzione del Moulin de la Galette di Renoir, è di una
tale efficacia che sembra quasi di sentire il festoso mormorio
dei clienti e la musica di sottofondo.

I più giovani colleghi lo influenzarono, sia nella tecnica adottata sia nella scelta, sempre più frequente, di soggetti urbani.
Benché Manet non sia mai entrato ufficialmente a far parte del gruppo impressionista, e benché mai egli abbia esposto
assieme ai suoi amici pittori, è ugualmente lecito parlare di una fase “impressionista” della sua pittura. A tale fase, appartiene
un suo celebrato capolavoro: Il bar delle Folies-Bergère.

Un locale alla moda


era, ed è tuttora, un celebre locale parigino, un che si trovava a pochi passi da rue la Fayette. Nato con il nome di Folies
Trévise, e inaugurato nel 1869, ebbe uno straordinario successo durante la Belle Époque. Vi si tenevano spettacoli di varietà,
operette, concerti di canzoni
popolari. Star del locale era la
ballerina americana Loïe Fuller, una
di quelle danzatrici che contribuì a
creare la danza moderna, con le sue
suggestive coreografie in cui agitava
lunghissimi veli. Il Folies-Bergère
divenne presto un ritrovo della ricca
borghesia parigina e sappiamo che
Manet lo frequentò assiduamente,
come, peraltro, i suoi amici
impressionisti e Toulouse-Lautrec.
Ristrutturato nel 1926, ancora oggi
presenta la sua bella facciata Art
Déco.
La barca di Dante (1855): Manet riprende l'opera
romantica di Delacroix, facendo un'altra versione.
L'artista cerca di riscoprire i romantici colori dello sfondo
torbido. L'uso del chiaroscuro, del verde, rosso, blu,
arancione, e gli studi sulle masse corporee mostrano la sua tecnica.
- i colori hanno meno profondità, la torsione dei corpi nudi è meno violenta e i
drappeggi hanno perso li loro sollievo.
- Si ha l'impressione di qualcosa di più mobile, addirittura
tremante, dovuta alle ridotte dimensioni del dipinto che non consentono di
riprodurre l'opera di Delacroix nella sua scala originale.
- Si può notare la perdita della nitidezza e del contorno
- Manet si avvicina al realismo senza essere realista

il bevitore d'assenzio (1859): A causa dei soggetti scelti per le sue opere e dello stile
adottato, l’artista si scontrò per tutta la sua vita con la giuria del Salon, che respinse
ripetutamente i suoi quadri giudicandoli volgari e incompleti. Il bevitore di assenzio, fu, per
esempio, rifiutato al Salon del 1859. L’opera mostra un noto bohémien che frequentava il
quartiere del Louvre, raffigurato in una strada di Parigi, inebetito dall’abuso di assenzio,
accasciato contro il muro, con il cappello ammaccato e la bottiglia vuota che rotola via.

Manet aveva quindi scelto di dedicare un quadro a un qualunque alcolizzato che si era
abbandonato al vizio, alla miseria, al degrado fisico e morale. L’immagine, impostata
prevalentemente su toni scuri (neri, grigi, marroni), è ottenuta con pennellate grasse e spesse,
con poca o nessuna attenzione per la resa dei dettagli. Il suo maestro Couture, indignato per
la sortita dell’allievo, ruppe con lui ogni rapporto; anzi, affermò che doveva essere stato Manet
a fare uso di assenzio per aver dipinto un simile quadro. Non fu tanto la tecnica innovativa del
giovane pittore a offenderlo, quanto il soggetto, tratto dall’infima vita di strada della Parigi
contemporanea.

Musica alle Tuileries

In verità, spesso Manet amò trarre ispirazione anche dalla realtà altolocata in cui viveva. Assiduo frequentatore dei boulevards
parigini, dei locali alla moda e di ogni pubblica manifestazione elegante, come tutti i signori, non mancava di recarsi ai
concerti bisettimanali tenuti nei giardini del Louvre, abituale occasione di incontro della bella società parigina. Musica alle
Tuileries, dipinto nel 1862 ma esposto in una galleria
privata nel 1863, è un esempio precoce di pittura di vita
moderna en plein air, sia pure ricostruita in atelier.

Il quadro mostra l’autore stesso, rappresentato all’estrema


sinistra, assieme a un pubblico di nobili, critici, poeti e
artisti, riuniti ai giardini delle Tuileries per ascoltare la
musica. Gli uomini indossano eleganti tight e cappelli a
cilindro, le signore sono coronate da variopinti cappelli e
le bambine portano grandi fiocchi colorati in vita. Quasi
tutti sono già seduti sulle loro sedie, attendono che il
concerto inizi e chiacchierano con garbo aristocratico.

Le premesse di una rivoluzione


Il dipinto, nonostante il soggetto elegante, irritò
ugualmente il pubblico, a causa del linguaggio pittorico adottato dall’artista. I contrasti cromatici apparivano troppo stridenti,
le forme poco definite; mancavano gli sfumati, i morbidi chiaroscuri della tradizione. Inoltre, considerando l’argomento
affrontato, il quadro appariva decisamente troppo grande. I concerti all’aperto erano stati un soggetto abituale per gli artisti
del XVIII secolo ma, per dipingere quest’opera, Manet (ispirato da Courbet) aveva adottato gli stessi mezzi espressivi della
grande pittura di storia: e questo non poteva essere tollerato. «Il grande delitto di Manet non è tanto quello di dipingere la vita
moderna, quanto di dipingerla a grandezza naturale», scrisse un critico del tempo, Jules Marthold.

Nel 1862, morì il padre del pittore. Manet ereditò un grosso capitale che gli consentì di vivere agiatamente per tutto il resto
della vita. È un particolare biografico di non poco conto: l’agiatezza economica lo incoraggiò a sperimentare senza
preoccuparsi di dover guadagnare dalla propria arte. Anche gli artisti, per vivere, hanno bisogno di soldi, soprattutto se
devono mantenere una famiglia. Chi non ha problemi di stipendio può permettersi le sperimentazioni più azzardate, correndo
il rischio di non vendere nulla di quanto produce.
Edgar Degas

La lezione o scuola di danza, 1873-1876, olio su tela, 85 x 75 cm.


Parigi, Musée d’Orsay

Dipinto nel 1874 (ma probabilmente iniziato l’anno prima), La lezione di


danza è uno dei quadri più famosi di Edgar Degas (1834-1917), uno dei
grandi maestri impressionisti. Fu in parte realizzato nel foyer di danza
dell’Opéra di Parigi, ossia l’edificio che sorgeva in rue Le Peletier e non il
celebre teatro progettato da Garnier. Degas amava molto il balletto e si
recava spesso a teatro. Grazie a un suo amico musicista d’orchestra, ebbe
il permesso di intrufolarsi anche dietro le quinte e, appunto, nel foyer di
danza dell’Opéra; poté, in questo modo, ritrarre le ballerine durante le
prove o in attesa di salire sul palcoscenico.

L’opera, preceduta da decine di schizzi preparatori, richiese all’artista molti


mesi di lavoro e fu completata in studio. Conosciuta anche come La
lezione di ballo o La classe di danza, fu tra le prime opere del pittore ad
affrontare il tema delle ballerine. Oggi questo dipinto è conservato al
Musée d’Orsay di Parigi.

La scena è ambientata in una grande sala, con il pavimento coperto da un


parquet di legno e le pareti decorate da eleganti lesene di marmo. Quella
che sembra essere una grande porta aperta lascia intravedere un secondo ambiente attiguo e una finestra dalla quale si
scorge un indefinito scorcio di Parigi.
Alcuni critici, tuttavia, ritengono che questa grande apertura luminosa sia, in realtà, uno specchio che riflette la luce
proveniente dalla finestra della parete frontale. Se è pur vero che la grande cornice architettonica, con la mensola
sovrastante, non è propria di uno specchio, ma è tipica di una porta, l’immagine risulta, effettivamente, ambigua: d’altro
canto, gli impressionisti amavano molto i giochi ottici e visivi come questo, e la scelta di Degas di non rendere evidente la
natura del rettangolo di luce potrebbe essere stata intenzionale. Ricordiamo che il primo obiettivo degli impressionisti era
quello di creare delle “impressioni”.
L’artista scelse di ritrarre il momento in cui una ragazzina sta provando dei passi di danza sotto l’occhio attento del suo
maestro. I contemporanei dell’artista vi potevano riconoscere Jules Perrot, che era stato uno dei più famosi ballerini dell’età
romantica.

Perrot è appoggiato a un alto bastone, che gli serve per battere il tempo e per correggere linee e postura delle sue allieve. Le
altre ballerine, disposte in semicerchio, osservano la compagna o parlottano distratte, attendendo il proprio turno. Ogni loro
gesto, apparentemente marginale o secondario rispetto all’effetto complessivo della scena, è invece indagato con grande
attenzione.

Nel dipinto, il contesto è riprodotto scegliendo il punto di vista a


destra e un poco in basso. Degas era solito presentare le sue
scene di ballo da angolature insolite: in genere, l’inquadratura
recide i margini della scena e rende ancora più dinamica la
struttura d’insieme dello spazio. Alcune figure sono tagliate dal
bordo della tela: la composizione presenta, infatti, un taglio
fotografico. La grandiosa profondità spaziale è poi accentuata
dalle linee oblique delle tavole del parquet che riescono a creare
l’illusione di uno spazio molto profondo, capace di prolungare,
idealmente, quello reale dello spettatore.

I colori, secondo la tecnica impressionista, sono accostati uno


all’altro, con l’intento di ottenere un effetto di massima
luminosità. Spesso i dettagli sono ottenuti unicamente con
macchie di colore puro, come nel caso del fiocco rosso che
tiene i capelli della ragazza in primo piano. In molti quadri di
ballerine di Degas, le ragazze sono di norma ritratte nei momenti
di riposo e con diversi atteggiamenti: mentre si esercitano alla
sbarra, si aggiustano il costume, sbadigliano, si massaggiano le caviglie indolenzite o, come in questo caso, si grattano la
schiena.

Solo di rado l’artista volle rappresentarle durante gli spettacoli; in effetti, è sorprendente che soltanto una stretta minoranza
dei suoi quadri rappresenti un’esibizione pubblica. Senza dubbio, il pittore fu molto più affascinato dalla possibilità di
affrontare temi legati alla quotidianità. Chi assiste a un balletto ammira la leggerezza e l’eleganza delle ballerine; le più brave
sono capaci di compiere movimenti difficilissimi con assoluta naturalezza, senza apparente fatica. Ma questa non è la realtà;
è, appunto, una finzione scenica. La quotidianità delle ballerine è fatta prima di tutto di stanchezza, sudore, mal di piedi, lividi
e ferite. E proprio di questo vuole parlare La lezione di danza.
In un caffè ( l’assenzio )

L’assenzio, del 1876, uno dei grandi capolavori di Degas, affronta il problema
dell’alcolismo da assenzio, un forte distillato alcolico noto come Fée Verte,
“fata verde”, per il suo caratteristico color clorofilla. Per sprigionare gli aromi
dei componenti vegetali, il liquore veniva servito, normalmente, con una
zolletta di zucchero e dell’acqua ghiacciata. Lo zucchero, posto sopra il
calice, veniva lentamente diluito con l’acqua, fino a quando il superalcolico
assumeva un caratteristico aspetto bianco lattiginoso.

L’assenzio era a buon mercato, quindi straordinariamente diffuso, soprattutto


presso le classi meno abbienti; ma l’alcol di scarsa qualità utilizzato per la sua
distillazione (ad esempio il metanolo) e soprattutto il solfato di rame, usato
come additivo per renderne più brillante il suo colore naturale, lo rendevano
fortemente tossico, con effetti devastanti per il fisico. L’assenzio era diventato
un vero flagello della società ottocentesca (erano dipendenti da assenzio
anche molti artisti, tra cui Van Gogh e Toulouse-Lautrec) e difatti nel 1915 la
sua vendita sarebbe stata proibita.

Degas espose questo quadro in occasione della seconda mostra


impressionista, nel 1876, intitolandolo Dans un café, ossia In un caffè. Il titolo
attuale, L’assenzio, è posteriore e risale alla fine del XIX secolo. Il quadro fu
realizzato dall’artista presso il caffè parigino della Nouvelle-Athènes in place
Pigalle, uno dei punti d’incontro favoriti degli impressionisti. L’opera pone in
evidenza la solitudine interiore dei due personaggi: un’esile prostituta e un corpulento e volgare bohémien, seduti una
accanto all’altro ma chiusi nel loro isolamento silenzioso.

La giovane donna è vestita con abiti vistosi e porta un cappellino alla moda sulla testa e delle scarpette con fiocchi bianchi ai
piedi. Sul tavolino, di fronte a lei, è posato un calice di assenzio; alla sua destra, nel tavolo accanto, si trova la bottiglia di
vetro vuota posata su un vassoio di metallo. Con tutta evidenza, la donna è completamente ubriaca. Lo sguardo perso nel
vuoto, l’espressione sofferente, la posizione del busto, leggermente piegato in avanti con le spalle cadenti, suggeriscono
all’osservatore il suo profondo stato depressivo e il degrado della sua triste condizione. L’uomo accanto a lei, vestito di abiti
scuri, fuma la pipa immerso nei suoi pensieri. Alle spalle dei protagonisti, uno specchio opaco e sporco riflette le loro sagome.

Il senso dell’immagine di Degas ricorda quello dei grandi fotografi. Il taglio fotografico della scena è infatti volutamente
ricercato dall’artista che intendeva presentare questo soggetto come una tranche de vie, un pezzo di “vita vissuta” colto
come d’improvviso. In primo piano, il pittore lascia il vuoto; sposta i personaggi sul fondo e verso destra e gioca la
composizione sulle linee oblique, disegnate dai tavoli, dal bordo dello specchio, dai giornali e dalla sua stessa firma, posta
accanto ad un archetto di violino, in primo piano. Alcune parti sono tagliate e restano parzialmente fuori dall’inquadratura,
come per esempio la pipa e la mano sinistra del personaggio maschile.
Manet precursore dell’Impressionismo

Tradizionalmente, Manet è considerato il precursore e l’ispiratore della stagione impressionista, anzi, è stato definito il “padre
dell’Impressionismo”. Senza dubbio lo fu, perché i futuri pittori impressionisti lo considerarono antesignano della modernità,
lo elessero a loro ideale maestro e, almeno inizialmente,
scelsero i suoi dipinti come modelli. È dunque impossibile
parlare di Impressionismo prescindendo da Manet; tuttavia,
sarebbe scorretto definire propriamente impressionista questo
pittore, che non volle mai esserlo considerandosi, nella
sostanza, un realista.

Vero è che Manet non condivise mai, con Courbet, né l’estrazione sociale né la
cultura né la preparazione e neppure certi estremismi politici di stampo socialista; è
però innegabile che la sua pittura presenta ancora quella verve polemica, quel gusto
per la provocazione e quella spiccata volontà di denuncia (dell’ipocrisia borghese,
soprattutto) che sarebbero poi diventati estranei al futuro Impressionismo. Manet fu
un amico sincero degli impressionisti, di Monet e Degas soprattutto, ma non volle mai
completamente integrarsi con il loro gruppo. Quando questi decisero di organizzare la
loro prima mostra, egli non si fece coinvolgere nel progetto e nemmeno volle
partecipare alle loro successive esposizioni. «Il Salon è il vero campo di battaglia. È lì
che si ha la misura delle cose», dichiarò. Dal suo punto di vista, il Salon restava
comunque, nel bene e nel male, l’arena dove un artista doveva affrontare il giudizio
del pubblico.
Paul Cézanne

Al centro del dipinto è raffigurata una semplice casa di campagna. La facciata è alta e stretta e la porta, in basso, è spostata
verso destra. Due finestre sono visibili in alto. A destra e a sinistra, si notano i tetti di altre case. In primo piano, una strada di
montagna è ritagliata tra i prati. Di fronte alla casa, si alzano due alberi spogli. Tra lo spazio delle due case, si vede, in
lontananza, un altro centro abitato e, quindi, delle colline all’orizzonte. Infine, a sinistra, al di sopra del tetto delle case,
ondeggiano due piccoli alberelli.

Paul Cézanne dipinse La casa dell’impiccato nel suo periodo impressionista, un anno prima della mostra del 1874. Nel
dipinto, le forme delle case e della natura sono vicine alla poetica dei suoi compagni artisti. Il soggetto è semplice e non
letterario come negli anni di gioventù. Comunque, si nota una nascente attenzione verso una precisa definizione dei volumi.
Infatti, questi sono evidenziati attraverso l’uso del colore.
Soprattutto nelle abitazioni, si nota un primo tentativo di
semplificare le forme. Sopravvive, però, una intenzione
realistica, di descrivere dettagli e figure.

Il dipinto La casa dell’impiccato presenta tinte poco sature,


tendenti al grigio. Le abitazioni e la strada sono risolte con
un ocra molto chiaro mentre la vegetazione e le colline
all’orizzonte sono colorate con grigio-verde. Gli alberi, le
facciate in ombra e i tetti sono colorati, invece, con bruno
molto scuro. Il cielo è azzurro e blu. I contrasti sono
particolarmente evidenti. La strada e le facciate, infatti,
sono messe in risalto grazie alle zone di vegetazione e
architettura dipinte con toni più scuri. In alto, a sinistra, gli
alberi sono in leggero controluce.

La disposizione delle case e l’alternanza di toni chiari e


scuri permettono di creare l’impressione di profondità. Lo
spazio si apre al centro del dipinto sulla piazza antistante la
casa dell’impiccato. Attraverso questo varco l’occhio corre
verso il villaggio lontano e quindi, verso la collina dello sfondo. Cézanne non utilizzò la prospettiva lineare ma la
sovrapposizione di volumi e di contrasti di luminosità per articolare lo spazio attraverso le forme del paesaggio

La casa dell’impiccato è un dipinto che si sviluppa in orizzontale. È costruito lungo la diagonale che sale da destra verso l’alto
a sinistra. Infatti la strada di campagna corre parallela lungo tale linea. Anche le case sono disposte in obliquo. Invece, i tetti,
in alto, e la linea delle colline sono disposti in orizzontale. Il paesaggio con le case occupa la maggior parte del piano
pittorico. Al cielo è riservata solamente una sottile fascia in alto, più ampia al centro.
Pierre-Auguste Renoir

Moulin de la Galette

Il Ballo al Moulin de la Galette, meglio noto con il titolo più corto di Il Moulin de la Galette, è uno dei dipinti più famosi del
pittore impressionista Pierre-Auguste Renoir (1841-1919), oltre che uno dei quadri simbolo dell’intero Impressionismo. Fu
dipinto dall’artista nel 1876 ed esposto, l’anno successivo, alla terza esposizione impressionista. Entrato a far parte della
collezione personale di Gustave Caillebotte, artista egli stesso e fra i più importanti mecenati degli impressionisti, è oggi
conservato al Musée d’Orsay di Parigi.

L’opera ha per soggetto una scena di ballo ambientata,


come suggerisce il titolo, nel giardino del Moulin de la
Galette, un noto locale di Montmartre molto amato dalla
gioventù parigina, che comprendeva ristorante, bar, sala
e spazio all’aperto per il ballo. Era stato ricavato dalla
ristrutturazione di due vecchi mulini a vento e il suo
nome faceva riferimento a certe rustiche frittelle, le
galettes, appunto, offerte come consumazione e
comprese nel prezzo d’ingresso (che all’epoca era di 25
centesimi).
Nei giorni di bel tempo, il Moulin brulicava di gente:
intere famiglie si radunavano attorno ai tavoli a bere lo
speciale succo di melograno della casa, vino o birra,
ascoltavano la musica che un’orchestrina suonava su un
palco, mentre le ragazze ballavano sulla terrazza e i
giovanotti cercavano di far conquiste.

Renoir frequentò il locale per sei mesi, proprio al fine di realizzare questo quadro. Ogni pomeriggio, aiutato dagli amici, portò
giù la grande tela dal suo vicino appartamento e la collocò ai margini dello spazio aperto, rischiando che nei giorni di vento
volasse via.

Il quadro vede protagonisti numerosi parigini che stanno chiacchierando o ballando nel locale all’aperto del Moulin, in un bel
pomeriggio assolato di primavera. In primo piano, due ragazze stanno conversando con un giovane visto di spalle.
Subito a destra, un uomo con il cilindro e un ragazzo molto giovane sono seduti a un tavolo e hanno già ordinato da bere.

Nell’angolo a sinistra, una bambina dalla bionda chioma raccolta in un fiocco blu volge lo sguardo a una giovane madre, forse
la tata, che ricambia con un dolce sorriso. Sullo sfondo, è una folla
indistinta di uomini e donne che ballano. Si distingue, a sinistra,
una coppia un po’ più isolata delle altre. Alle loro spalle, brulica una
folla colorata di uomini e donne.

La composizione, apparentemente disorganica, è invece


accuratamente studiata. Si svolge, infatti, dal primo piano verso lo
sfondo, lungo la diagonale ascendente del quadro, sulla cui
direzione si collocano lo schienale della panca e la tavola.

Manca un vero e proprio impianto prospettico ed è soprattutto


l’alternarsi di zone di luce e ombra a suggerire la profondità
spaziale della scena.La sovrapposizione delle figure rende
vivissima l’impressione della gente che si accalca nella piazzetta; i
gruppi di persone si avvicendano dal primo piano sin sullo sfondo,
dove si riducono a piccole macchie indistinte, e guidano progressivamente lo sguardo dell’osservatore in lontananza.

Alcune linee curve ci aiutano a percepire il movimento della folla. I personaggi tagliati alle estremità del quadro suggeriscono,
invece, la continuità dell’azione oltre i limiti della cornice e lasciano intendere che la scena sia stata davvero colta,
istantaneamente, tutta dal vivo. Questo accorgimento compositivo è noto come “taglio fotografico” perché, appunto,
l’immagine sembra ottenuta scattando una fotografia estemporanea.

Il Moulin de la Galette sconcertò il pubblico non tanto per il soggetto quanto per l’assenza quasi totale del disegno, la tecnica
pittorica adottata e il trattamento rivoluzionario degli effetti di luce, che Renoir aveva tradotto unicamente per mezzo del
colore senza ricorrere alla rappresentazione delle ombre e all’uso dei toni scuri.

Anche le forme sono ottenute esclusivamente attraverso il colore.Gli abiti delle signore spiccano su quelli maschili grazie alle
variazioni di tonalità e sono resi con pennellate veloci, filamentose e apparentemente approssimative. I personaggi,
soprattutto gli uomini, appaiono maculati da cerchietti di luce posati sui volti e sui vestiti scuri, che restituiscono il gioco dei
raggi solari filtrati attraverso i rami degli alberi di acacia. Il terreno su cui si svolgono le danze appare invece screziato di rosa
e di azzurro.
Paul Gauguin
Il pittore Paul Gauguin (1848-1903) è stato uno dei più importanti esponenti della pittura di fine Ottocento. Esordì con il
gruppo impressionista, dipingendo autoritratti, ritratti della moglie e dei figli, nature morte, delicati paesaggi. Poi, ansioso di
trovare una nuova dimensione esistenziale che desse pace al suo animo insoddisfatto, nel 1886 abbandonò la famiglia e partì
per Pont-Aven, in Bretagna. Lo fece perché detestava la vita cittadina e l’ipocrisia del mondo contemporaneo, con i suoi
costumi, la sua morale, i suoi stili di vita.

La società gli appariva irrimediabilmente compromessa. La reputava «criminale, male organizzata» e «governata dall’oro».
Gauguin era geniale, arrogante, egoista, sognatore. Sentiva un disprezzo autentico nei confronti della «lotta europea per il
denaro» e attribuiva al cristianesimo la colpa di «abolire la confidenza dell’uomo in sé stesso e nella beltà degli istinti
primitivi».

In Bretagna, alla ricerca del primitivo


La Bretagna, invece, esercitava su di lui una grande attrazione. «Amo la Bretagna, in essa trovo un che di selvaggio, di
primitivo», scrisse. «Quando i miei zoccoli risuonano su questo suolo di granito, sento il suono sordo, opaco e possente che
cerco nella pittura». Di tutta la Francia, quella regione era senz’altro la più rurale, la meno intaccata dalla civiltà. E Gauguin vi
scopriva la forza di un’arte primitiva, cioè a suo dire istintiva, essenziale, incorrotta, semplicemente ammirando nelle chiese i
grandi crocifissi, ingenuamente mistici, sommariamente scolpiti nel legno dagli artigiani o dai contadini secondo antichi
schemi mai superati.

I primi quadri bretoni di Gauguin si distinguono per il realismo dei temi, per le impaginazioni anticonvenzionali, per i delicati
effetti di luminosità. Essi rappresentarono un importante passo avanti in direzione di un nuovo linguaggio artistico,
caratterizzato dai contorni accentuati e da forme naturali che si traspongono in arabeschi decorativi. È il caso dell’opera La
danza delle quattro bretoni, del 1886, dove le donne, vestite con i loro costumi tradizionali, eseguono un ballo silenzioso e
malinconico, muovendosi in cerchio.

L’incontro con Bernard


A Pont-Aven, grazie anche all’apporto di Gauguin, nacque la cosiddetta Scuola di Pont-Aven, una compagnia di giovani artisti
aperti ai più svariati stimoli e suggerimenti. Questi condividevano con Gauguin la voglia di cambiamento e il desiderio di
giungere a risultati più radicali. La personalità più attiva alla Scuola di Pont-Aven fu quella di Émile Bernard (1868-1941), con il
quale Gauguin strinse un sodalizio di lavoro molto fruttuoso che si concretizzò nella formulazione del Sintetismo, un’estetica
fondata sulla semplificazione delle forme.

Ispirato dalla grafica sintetica delle stampe giapponesi, Bernard


ricercava la semplicità dell’arte medievale, provando a
richiamare la tecnica degli smalti e delle vetrate colorate
gotiche, che presentavano, entro bordature ben definite, colori
e grafica semplici e brillanti; non a caso, l’artista definì la sua
pittura a cloisonnisme (‘a compartimenti’). Nei suoi soggetti,
infatti, Bernard circondava le forme con una linea scura di
contorno e le riempiva con campiture uniformi di colore, in
modo che risultassero molto semplificate, molto abbreviate,
completamente prive di modellato e di ombre.

Donne bretoni in una prateria verde


All’inizio del 1888, Bernard eseguì un singolare dipinto, Donne
bretoni in una prateria verde. L’opera, realizzata con pochi
colori puri, presenta un gruppo di donne vestite nei loro costumi
tradizionali, con le vesti blu e le cuffie bianche. Alle loro spalle
non compare il cielo ma un fondale uniforme di colore verde (la
prateria) che annulla qualsiasi indicazione di profondità spaziale. L’accostamento di queste figure bidimensionali, che
dialogano fra di loro con una logica puramente decorativa, riesce a conferire all’opera un misterioso e affascinante valore
sacrale.

Questo quadro fu come una folgorazione per Gauguin, il quale comprese di aver finalmente trovato la strada per uscire dalle
secche del naturalismo impressionista. «Siamo precipitati nell’abominevole errore del naturalismo», avrebbe scritto l’artista
qualche tempo dopo. «La verità consiste nella pura arte cerebrale, nell’arte primitiva, la più sapiente di tutte, nell’Egitto. Là è il
principio. Nella nostra povertà attuale non vi è salvezza possibile se non nel ritorno ragionato e schietto al principio».
La visione dopo il sermone
In risposta al giovane amico, Gauguin dipinse, nello stesso
anno, La visione dopo il sermone. L’opera fu realizzata nel
1888, con l’idea di donarla alla chiesa di Nizon, un villaggio
nelle zone limitrofe di Pont-Aven. Come apprendiamo dai
racconti di Bernard, il dipinto fu tuttavia rifiutato dal parroco,
con grande delusione dell’artista. Il quadro fu allora affidato
a Theo Van Gogh e nel 1889 fu ammesso alla sesta mostra
dei XX a Bruxelles, dove fu accolto come una sorta di
manifesto pittorico della corrente del Simbolismo. Due anni
dopo, nel 1891, Aurier recensì il dipinto sul «Mercure de
France» e definì Gauguin come un «artista di genio».

Il capolavoro di Gauguin non fu apprezzato da tutti, anzi


ricevette molte critiche, anche dagli amici. L’impressionista
Pissarro, per esempio, scrisse nel 1891: «Non rimprovero a
Gauguin d’aver fatto un fondo vermiglio, né due guerrieri in
lotta e i contadini bretoni in primo piano; gli rimprovero d’aver rubacchiato ciò
ai giapponesi e ai pittori bizantini e ad altri; gli rimprovero di non aver applicato
la sua sintesi alla nostra filosofia moderna che è assolutamente sociale,
antiautoritaria e antimistica».
Ben più aspro, ma per altri motivi, fu il giudizio di Bernard, che lo accusò
esplicitamente di plagio: «Nella Visione dopo il sermone [Gauguin] aveva
semplicemente messo in atto non la teoria colorata di cui gli avevo parlato, ma
lo stile precipuo delle mie Bretoni in una prateria verde, dopo aver stabilito un
fondo del tutto rosso in luogo del mio giallo-verde. In primo piano mise le mie
stesse grandi figure dalle cuffie monumentali di castellane». Insomma,
secondo Bernard (e non a torto), Gauguin aveva fatto sue, spacciandole per
proprie, delle teorie elaborate da altri.

L’immagine di una visione


Come indica chiaramente il titolo del quadro, La visione dopo il
sermone non rappresenta un evento reale ma una visione: un gruppo
di donne bretoni, uscite dalla messa domenicale, assiste come in
trance alla lotta fra Giacobbe e l’angelo. Giacobbe era un patriarca
ebreo e di lui si parla nel Libro della Genesi (25-50): in seguito a una
misteriosa visione di Dio, egli sostenne una lotta durissima con un
angelo presso il fiume Jabbok. La scena, secondo la teoria sintetista,
non è mimetica. La composizione, asimmetrica e marcatamente
bidimensionale, manca di
prospettiva. Le bretoni,
vestite con i loro costumi
tradizionali, sono
inginocchiate in primo
piano; i loro corpi formano un ampio semicerchio, i loro profili creano una
decorazione ondulata continua.

Sul fondo, Giacobbe lotta con l’angelo. La posizione di questi due personaggi è
ripresa dai manga del grande pittore giapponese Hokusai (1760-1849). Lo
stupefacente prato rosso, con la sua radicale uniformità, annulla il senso dello
spazio: le due figure bibliche sembrano infatti sospese nel vuoto. Solo la loro
dimensione ridotta, rispetto a quella delle bretoni in primo piano, indica che la
scena di lotta si svolge lontano dalle donne. Un albero, posto lungo la diagonale discendente, divide a metà il quadro, isola le
bretoni dalla zona della visione e istituisce un’ideale frontiera fra realtà e apparizione.

Applicando la tecnica pittorica del cloisonnisme, innovativa ed estremamente semplificata, Gauguin ottiene le figure
attraverso un marcato disegno lineare. Mancano le ombre riportate (sono invece presenti quelle proprie), le sfumature e i
chiaroscuri. I colori, stesi a campiture piatte e uniformi, sono puramente simbolici e antinaturalistici. Ad esempio, il rosso del
prato su cui Giacobbe e l’angelo stanno combattendo è qui usato come simbolo di forza e di passione.
Dipingere un’altra realtà
In quest’opera, Gauguin adotta un linguaggio simbolista per rendere visibile la coesistenza di un mondo reale e di uno
immaginario, che risultano semplicemente collegati da espedienti formali. «Il paesaggio e i personaggi in lotta esistono solo
nella mente dei devoti in preghiera, per effetto del sermone», scrive Gauguin. Il simbolismo dell’opera è, dunque, tanto
evidente quanto dichiarato. Il quadro non rappresenta una scena ma, attraverso delle immagini, visualizza un’idea, un
pensiero, un concetto. Il tema cui allude l’episodio biblico è quello della trasformazione di ogni uomo dopo l’incontro, sia pure
tormentato, con Dio. E la mancanza di naturalismo è necessaria a raggiungere tale scopo.

Gauguin e il Simbolismo
L’esperienza di un grande maestro come Gauguin contribuì certamente allo sviluppo di una pittura pienamente e
consapevolmente simbolista, alla fine del secolo. «Non dipingete troppo dal vero», affermò una volta Gauguin. «L’arte è una
astrazione, traetela dalla natura sognando davanti ad essa e pensate piuttosto alla creazione che ne risulterà; è il solo mezzo
per salire verso Dio, facendo come il nostro Divino Maestro, creare». Dal mondo visibile, Gauguin si limitò a selezionare gli
elementi distintivi e più significativi. Tradotti in pittura, essi diventarono il “sublime alfabeto” del suo linguaggio artistico,
tramutandosi in segni, forme, colori.

Con le sue opere, Gauguin volle liberarsi dalla servitù mimetica e rappresentativa; con le sue vaste superfici cromatiche,
accostate tra di loro in base a una logica del tutto interna all’opera stessa, egli volle superare drasticamente l’approccio
“retinico” al colore degli impressionisti. Secondo Gauguin, l’artista ha il diritto di semplificare o accentuare o perfino
modificare i dati in suo possesso, secondo quanto suggerito dalla propria soggettività. Egli può produrre un’arte tendente
all’astrazione se non proprio astratta, capace di rispondere alla prima e fondamentale prerogativa che ogni uomo ha
manifestato fin dai primi tempi della sua comparsa nel mondo: decorare il proprio ambiente con «pensieri, sogni, idee».

Autoritratto con Cristo giallo di Paul Gauguin


Autoritratto con Cristo giallo (Portrait de l’artiste au Christ jaune) fu dipinto da Paul Gauguin in un momento molto difficile
della sua vita. Le due opere che il maestro utilizzò come sfondo rappresentano altri due aspetti del suo carattere.
Descrizione dell’Autoritratto con Cristo giallo di Paul Gauguin

Paul Gauguin si rappresenta frontalmente al piano del


dipinto. Il viso è voltato di tre quarti a destra e lo sguardo
fisso di fronte, verso l’osservatore. L’artista indossa un
maglione scuro dal quale fuoriesce il colletto di una camicia.
Porta i capelli lunghi sul collo e un folto paio di baffi. Dietro di
lui si intravedono due opere dipinte l’anno precedente. Si
tratta del Cristo giallo e il Vaso autoritratto in forma di testa di
grottesca.

Interpretazioni e simbologia dell’Autoritratto con Cristo giallo


di Paul Gauguin
Secondo i critici Autoritratto con Cristo giallo (Portrait de
l’artiste au Christ jaune) è un vero manifesto teorico della
pittura di Paul Gauguin. Il dipinto infatti si può considerare un
triplo ritratto nel quale l’artista rivela diversi aspetti della sua
personalità. Il viso e lo sguardo rappresentano bene il suo
stato d’animo di artista ancora incompreso e sofferente a
causa delle difficoltà economiche e personali. Nonostante
questo Gauguin rappresentò le sue opere sullo sfondo per esprimere la sua determinazione nel continuare a dipingere. Si
vede il Cristo Giallo e Vaso autoritratto in forma di testa di grottesca dipinti l’anno precedente.

Nel volto del Cristo, Gauguin rappresentò se stesso. Inoltre pose il braccio di Gesù sopra al suo capo in segno di protezione.
Anche l’autoritratto primitivo in forma di vaso esprime il suo carattere selvaggio e perseverante. Questo triplice autoritratto
rappresenta l’incontro tra i diversi aspetti dell’estetica di Gauguin. Esprime infatti il desiderio di spiritualità, la carnalità e il
sintetismo primitivo con il quale l’artista dipinse le sue opere bretoni e tahitiane.

La figura di Paul Gauguin è dipinta con l’uso di ampie campiture. Una decisa linea di contorno delinea le forme e le ritaglia dal
contesto. Le zone di colore sono realizzate con pennellate accostare che solo sul viso contribuiscono a modellare le forme.
Il colore dell’incarnato è poco saturo, rosa tendente all’ocra. Il resto dell’autoritratto, invece, abiti e capelli è realizzato in
grigio, freddo nella maglia e per la camicia, tendente al bruno per i capelli. I due dipinti dello sfondo sono principalmente di
colore giallo, quello di sinistra, e arancione-bruno l’autoritratto a forma di vaso. Tra la figura in primo piano di Gauguin e i
dipinti esiste un evidente contrasto di luminosità che rende molto intenso l’autoritratto.

I dipinti di Paul Gauguin furono presto privi di prospettiva geometrica. L’artista elaborò infatti uno stile semplice ed essenziale
per esprimere in modo efficace la sua ricerca rivolta al primitivismo e alla semplice spiritualità. L’articolazione spaziale tra la
figura di Gauguin e le sue opere è descritta dalla semplice sovrapposizione dei due piani di profondità.
Aha oe feii?

«Sulla spiaggia due sorelle che avevano appena fatto il bagno, distese in voluttuosi atteggiamenti casuali, parlano di amori di
ieri e di progetti d’amore di domani. Un ricordo le divide: "Come, sei gelosa?"»

Il titolo dell'opera, riportato in basso a sinistra, è rigorosamente in lingua maori, in modo tale da investire l'osservatore di
misteriose suggestioni. Aha oe feii? raffigura due fanciulle tahitiane che si offrono agli occhi dell'osservatore nude, senza
peccaminosi sottintesi o ammiccamenti, bensì con una spontaneità talmente dirompente da essere quasi insopportabile (non
erano passati che ventisette anni dall'esposizione
dell'Olympia al Salon di Parigi). La ragazza di destra è
completamente distesa sulla sabbia rosa corallino e si lascia
accarezzare piacevolmente dai raggi solari, con la mano
fiaccamente poggiata sul ventre e un pareo rosso che le
nasconde il pube. A sinistra, invece, vi è una fanciulla con la
chioma nera e fluente, impreziosita di una candida ghirlanda
di fiori e avvolta dietro la nuca con un nastro blu: mentre la
sua compagna è supina, lei è accovacciata, all'ombra.
Gauguin descrive con particolare interesse la sua fisionomia
e si sofferma in particolare sul plasticismo robusto, quasi
michelangiolesco, del seno, sulle labbra carnose, e sulla linea
curva del suo naso. In alto incombe un piccolo alberello,
mentre in alto a sinistra troviamo uno specchio d'acqua,
dove l'osservatore può agevolmente assaporare un diapason
di luci, colori e incanti.

Dal punto di vista compositivo è particolarmente interessante


l'intreccio formato dai corpi delle due ragazze, le quali sono l'una il rovescio dell'altra, nel segno di una squisita
complementarità pittorica. Gauguin, infatti, dispone in maniera speculare elementi analoghi, in modo tale che le loro teste
diventano due estremi della stessa direzione, così come il perizoma della ragazza al sole, al quale corrisponde il pareo rosso
della ragazza in ombra. L'osservatore, tuttavia, non è colpito solo da questa sorta di chiasmo pittorico: a destare la sua
attenzione interviene anche lo spiccato antinaturalismo pittorico dell'opera. Gauguin, infatti, applica i colori non in ragione di
una presunta rispondenza con la realtà, bensì in virtù del loro valore simbolico, in modo tale da ottenere uno straordinario
potere suggestivo: è per questo motivo che la sabbia si tinge di un'improbabile tinta rosa e che l'acqua, increspandosi,
inscena un caleidoscopico trionfo di colori, dove trovano posto tonalità rossastre, brune, nere che non possono
assolutamente corrispondere alla realtà. In piena ottemperanza con la tecnica cloisonniste già maturata a Pont-Aven, poi, le
figure sono definite da una spessa linea di contorno, decorativa ed elegante, tracciata da Gauguin con perfetta padronanza. È
grazie ai colori antinaturalistici e al muto e ancestrale dialogo che lega le due ragazze che Gauguin rende l'osservatore
involontariamente partecipe di una tranche de vie immersa in un luogo primordiale e mitico, «un paradiso terrestre cui non
crediamo per cinismo»
Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?

Quest’opera è gigantesca e va letta da destra a sinistra, al contrario.

Cominciamo dagli angoli gialli in alto: a sinistra c’è il titolo dell’opera, mentre a destra c’è la firma di Gauguin.

Partendo dal basso a destra c’è un neonato che dorme e 3 donne sedute.Dietro di loro c’è una coppia di donne vestite di
porpora che parlano tra loro in modo preoccupato mentre passeggiano.Alla loro sinistra si vede un uomo di spalle (più grande
del normale a causa della prospettiva non reale) che alza il braccio e guarda perplesso le donne che parlano tra loro.Poi c’è
lui in primo piano, quel ragazzo che coglie i frutti in primo piano.Alla sua sinistra un ragazzino che mangia in compagnia di un
paio di gatti ed una capra bianca. Più
dietro, sulla sinistra c’è una statua
tahitiana con le braccia alzate; alla sua
destra c’è una ragazza di spalle che
sembra dare ascolto alla divinità. E poi
arriviamo al lato più sinistro della tela,
dove c’è una donna anziana chiusa su
sé stessa con un’espressione persa.
Accanto a lei c’è una ragazza che la
guarda preoccupata. Davanti a loro c’è
un uccello bianco che stringe una
lucertola tra gli artigli e che dovrebbe
simboleggiare l’inutilità delle parole.Tutta la scena è ambientata nella natura di Tahiti, vicino ad un ruscello.In lontananza si
vede il mare e delle montagne.

Significato
Come abbiamo già detto, l’opera va letta da destra a sinistra, ed il titolo dell’opera è utile per interpretarla.

La prima domanda è: Da dove veniamo?

Il bebè in primo piano sulla destra sull’erba sembra essere appena nato.Questo momento della vita è un mix tra illusioni e la
spensieratezza della gioventù, uno dei periodi migliori dell’esistenza.

La 2° domanda è Chi siamo?


E così arriviamo alla parte centrale dell’opera.Lì ci sono le 3 donne vicino al bambino.Guardano verso di noi con sensualità,
tranne quella più a destra che è dispalle.Poi c’è il ragazzo in primo piano che coglie i frutti.Il suo gesto di raccogliere i frutti
potrebbe alludere alla procreazione, come un genitore che vede i suoi figli come dei “frutti”; ma è anche vero che lui potrebbe
rappresentare la gioventù, un altro periodo spensierato della vita.
Secondo altri critici invece questo ragazzo potrebbe alludere al peccato originale quando Eva ha preso il frutto proibito
infrangendo le regole imposte da Dio.
Ma non è tutto rose e fiori.
Durante la gioventù ci si comincia a porre anche delle domande sul senso della vita e sul futuro, proprio come stanno facendo
le donne vestite di porpora.
Andando verso sinistra le fasi della vita si susseguono, passando dalle speranze della gioventù alle angosce della vecchiaia.

L’ultima domanda del titolo è Dove andiamo?


Per rispondere c’è la donna anziana rannicchiata.
I suoi ricordi, i rimpianti ed i rimorsi la stanno distruggendo; manca poco alla sua morte ed ha paura perché non sa cosa
l’aspetta quando arriverà il suo momento.

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