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La didattica medievale e Guido D’Arezzo

Gli scritti dei teorici medievali sono raccolti sul sito thesaurus musicarum latinarum; sono raggruppati per periodi
e quindi per autori. I testi trascrivono le edizioni offerte da vari studiosi, così che di ciascun trattato esistono spesso due o
tre versioni. In generale, è meglio preferire l’edizione più recente.
La tradizione scolastica medievale
Come si insegnava la musica durante i “secoli bui” del medioevo barbarico? Non lo sappiamo. I
numerosi repertori locali furono tramandati, ma nel frattempo anche elaborati, passando semplicemente
da maestro a allievo senza che nessuno ritenesse utile descrivere i dettagli di questi processi.
VIII secolo: la memoria
Con la riforma carolingia e la nascita del “canto gregoriano” (754) la didattica della musica dovette
partire letteralmente da zero. Nei primi tempi l’impostazione degli studi fu estremamente rigorosa: un
allievo cantore aveva l’obbligo di recarsi a Metz e di rimanervi per circa dieci anni. Doveva imparare a
memoria l’intero repertorio, direttamente per imitazione, fino a eseguirlo esattamente come
richiedevano i suoi maestri. Non esisteva nessun tipo di aiuto o di supporto didattico per sostenerlo in
questo sforzo immenso.
IX secolo
Con il passare delle generazioni si aprirono nuove scuole di canto (S. Gallo, Reichenau); parallelamente,
i nuovi repertori post-classici cominciavano ad assorbire l’attenzione e l’interesse dei musicisti. Cominciò
a delinearsi una prima riflessione sul repertorio in cerca di strategie di insegnamento più rapide e
efficaci. Nei confronti del “canto gregoriano” la didattica si trovava, in fondo, a dover fare i conti con
un patrimonio di canti sostanzialmente estraneo e incomprensibile: i cantori non erano veramente in
grado di capire come erano costruiti i brani che intonavano. Ignoravano l’esistenza e la funzione delle
antiche corde di recitazione, così come non erano in grado di comprendere le direzioni degli sviluppi
modali arcaici; ignoravano anche la portata delle modifiche che il tempo, e i liturgisti di Metz, avevano
apportato alle creazioni dei lontanissimi e sconosciuti autori. Tutto quello di cui i cantori disponevano
era una serie di brani più o meno eterogenei da mandare diligentemente a memoria e ripetere.
La teoria scolastica
In epoca carolingia la didattica riscoprì l’unico testo pervenuto dalla tradizione classica, il De institutione
musica di Severino Boezio. Senza possedere specifiche competenze musicali, Boezio si era limitato a
copiare alcune parti da trattati degli antichi teorici greci come Claudio Tolomeo e altri: i toni e i modi, la
metrica, gli intervalli. L’influenza delle antiche concezioni pentafoniche, filtrata attraverso le scuole
pitagoriche, era ancora chiaramente avvertibile nell’approccio matematico con cui si affrontava la
classificazione degli intervalli oppure nella distinzione che riguardava le tre specie della musica.
- musica mundana quella prodotta dal moto dei pianeti e delle sfere celesti
- musica humana quella che si ripercuote sui vari organi del corpo umano
- musica instrumentalis la musica vera e propria, intesa come forma d’arte
Gli autori greci avrebbero potuto far rientrare nella terza categoria il repertorio corrente dei loro tempi,
ma per i tempi in cui Boezio scriveva si sarebbe comunque trattato di musiche già dimenticate; la musica
instrumentalis ricevette quindi un trattamento decisamente inadeguato. Per la tradizione scolastica la
musica assunse inevitabilmente l’aspetto di un ramo della matematica, inserita all’interno del quadrivium
(aritmetica, geometria, musica, astronomia), senza che nessuno riuscisse più a farsi venire l’idea di
rivolgersi ai repertori effettivamente praticati. Il particolare approccio alla musica come a una disciplina
composta prima di tutto da numeri si farà pesantemente sentire in tutte le fonti teoriche almeno fino
alla fine del Rinascimento.

1
L’octoechos
Il quadrivium non era di alcun aiuto ai cantori delle scuole, che avevano bisogno di supporti ben diversi
per riuscire a impadronirsi del repertorio. La prima soluzione pratica furono i tonari, elenchi per titoli
in cui i brani che avevano un andamento più o meno simile erano raggruppati insieme. I criteri erano
del tutto eterogenei ed empirici; si giunse presto a separare gli andamenti autentici da quelli plagali.
X secolo
Con il tempo si giunse a isolare un gruppo di quattro finales. Emersero otto categorie, i modi ecclesiastici, in
cui finirono per confluire (anche a prezzo di pesanti ritocchi) tutti i brani del patrimonio liturgico. Sul
piano della didattica questa conquista si tradusse in un primo decisivo passo: un certo numero di
formule, almeno una per ogni modo, che l’allievo doveva imparare a memoria e saper riconoscere.
- Johannes Cotton (fine del XI secolo - inizio del XII) ne propone una serie:

per il protus
- più concrete sembrano le soluzioni che si appoggiano a vere e proprie antifone, desunte dalla liturgia
ma anche inventate di sana pianta: Primum querite regnum Dei per il primo modo, Secundum autem simile per
il secondo e così via. L’elenco completo verrà fornito, qualche tempo più tardi, ancora da Johannes
Cotton (Johannes Afflighemensis, De musica cum tonario, cap. XI p. 86 es. 3).

Gli “otto modi” divennero rapidamente il punto di partenza irrinunciabile per tutti i percorsi della
didattica musicale. Nei primi tempi ogni categoria modale costituiva probabilmente un mondo chiuso
in sé: non si era ancora capito, oppure non si riteneva necessario sottolineare, che le finales sono
sovrapponibili in un unico sistema.
[ protus ] RE mi fa sol
[ deuterus ] MI fa sol la
[ tritus ] FA sol la si
[ tetrardus ] SOL la si do
Verso le note musicali
Il prossimo obiettivo per la didattica doveva per forza essere quello di mettere le quattro finales in
relazione diretta fra di loro. Il primo tentativo è contenuto nel trattato Musica enchiriadis, scritto forse da
un anonimo lombardo già alla fine del IX secolo (c. 870) ma poi continuamente rielaborato in tempi
successivi: questa fonte tenta inoltre, per la prima volta, di distinguere mediante un nome proprio le
singole note. I suoni prescelti sono già le quattro finales che saranno rese definitive dalla teoria
dell’octoechos: l’autore del IX secolo le indicava forse soltanto tramite la notazione dasiana, una
combinazione di virgae episemate e oriscus che con ogni probabilità era stata concepita per richiamare
all’allievo cantore la disposizione dei toni e dei semitoni al di sopra di ciascuna finalis:

protus deuterus tritus tetrardus

2
Le successive rielaborazioni in nostro possesso assegnano ai quattro suoni il nome delle categorie
dell’octoechos, dapprima archoos deuteros tritos tetrardos e infine protus deuterus tritus e tetrardus.
L’autore del trattato si sforza quindi di ampliare il ristretto ambito di questa quarta per ottenere almeno
un’ottava. Il tentativo di creare un sistema musicale è evidente, ma la soluzione da lui escogitata ci fa
ben capire quanto fosse ancora limitato l’orizzonte della didattica musicale ai suoi tempi. Un insegnante
moderno non avrebbe esitazioni a prendere come riferimento l’ottava stessa: cercherebbe di escogitare
tre nomi nuovi e di assegnarli alle note che mancano in modo da ritornare al protus iniziale. Questa
soluzione doveva ancora essere assolutamente aliena al modo di pensare del nostro autore: egli decide
invece di riprendere la serie delle quattro finales e di replicarla in una nuova serie, collocandola un tono
sopra alla prima in modo da creare una successione di due tetracordi ascendenti uguali. Anche la
notazione dasiana viene adattata a questa soluzione: per indicare le note del secondo tetracordo i suoi
tratti vengono semplicemente capovolti.

In questo modo ciascuna finalis viene replicata esattamente alla distanza di una quinta.
do RE mi fa sol la sol LA si do re mi
do re MI fa sol la sol la SI do re mi
do re mi FA sol la sol la si DO re mi
re mi fa SOL la la si do RE mi

L’esempio musicale relativo agli intervalli di quinta, estratto dal capitolo X del trattato (il contesto del
discorso è diverso, ma questa differenza non è rilevante ai fini del nostro itinerario), esemplifica
perfettamente la funzionalità del meccanismo:

Ad hanc descriptonem a quocumque sonorum quatuor usque ad quintum, qui eiusdem est nominis,
per arsin & thesin, vel per solam utramlibet singulos ducas in ordine…1
La caratteristica meno convincente di questa soluzione è la sua mancata concordanza sull’ottava:
- la nota RE collocata in basso, all’inizio della scala, viene detta protus e si traspone sul LA;
- la nota RE collocata in alto, alla fine della scala, viene detta tetrardus ed è una trasposizione del SOL.
In effetti la disposizione dei toni e dei semitoni intorno a queste tre note si somiglia, anche se non
arriva mai a coincidere perfettamente.
la si do RE mi fa sol la
sol LA si do re mi
re mi fa SOL la
1 Con questo schema partendo da uno qualsiasi dei quattro suoni fino al quinto, che ha lo stesso nome, sia che
si voglia cantare nota per nota oppure che si proceda in un qualsiasi ordine… (Musica enchiriadis, p. 25).
3
Finché si resta all’interno di una sola ottava, il sistema prospettato dalla Musica enchiriadis riesce ancora a
non far sentire troppo il peso dei suoi difetti; il suo errore è tuttavia ancora più grave. Volendo ampliare
ancora di più la serie, in modo da coprire un ambito utile superiore alle due ottave, l’autore - forse in un
secondo tempo, oppure forse qualche suo successore - pensò di riprodurre ancora la prima soluzione
piazzando un’altra volta gli stessi tetracordi delle finales in due nuove posizioni, una verso l’alto e una
verso il basso. L’aggiunta fu fatta allo stesso modo, vale a dire calcolando sempre un tono tra ogni
tetrardus e ogni successivo protus; i simboli della notazione dasiana furono fatti nuovamente ruotare,
questa volta verso l’esterno, dai lati dei due nuovi tetracordi.

In cosa consiste l’errore di questo procedimento? In realtà l’idea di riempire l’ottava accostando una serie
di quarte è incompatibile con le caratteristiche fondamentali del nostro sistema musicale.
L’autore della Musica enchiriadis doveva trascinare il peso di impostazioni errate che risalivano a ben
prima del X secolo. Non possedeva la tastiera del pianoforte per mettere in successione i toni e i
semitoni di una scala e di conseguenza non aveva ancora capito che le note devono essere sette. L’idea
stessa di spiegare lo spazio sonoro partendo dall’ottava era ai suoi tempi completamente sconosciuta.
All’interno di ciascuna ottava i semitoni sono due, MI-FA e SI-DO, ma la distanza che li separa non è
costante: tra DO e MI corrono due toni, mentre tra FA e SI ne corrono tre. Nella tastiera del
pianoforte i tasti neri sono disposti in alternanza a gruppi di due e di tre, così che i due semitoni sono
collocati alternativamente a distanza di una quarta e una quinta. Per formare l’ottava è dunque
necessario alternare una quarta con una quinta, e per percorrere le diverse ottave è indispensabile
continuare a rispettare rigorosamente questa alternanza; all’interno della quinta, che si presenta una
volta si e una no, si deve collocare il tritono. Il sistema musicale, che pure era già sostanzialmente
identico al nostro, finiva dunque per apparire scomodo ristretto e asimmetrico.

Questa asimmetria è precisamente il problema che il didatta del X secolo doveva ad ogni costo riuscire
a risolvere: sovrapponendo sempre un tono a ciascun tetracordo, come ha fatto l’autore della Musica
enchiriadis, si finisce per sommare effettivamente una serie di quinte; si finisce dunque per collocare un
intervallo in più a ogni ottava successiva. In questo modo il suono che ha lo stesso nome del primo non
è più l’ottavo ma diventa il nono. In parole più semplici, l’errore di questa prima soluzione consiste nel
fatto che si usano (4 + 4) otto nomi diversi, invece di sette, per indicare i suoni di un’ottava. Questo
modo di contare è errato per eccesso: per far quadrare la successione dei toni e dei semitoni diventa
indispensabile aggiungere sempre più diesis ascendendo e sempre più bemolli discendendo. Non desta
stupore il fatto che la serie completa dei suoni proposta dalla Musica enchiriadis si limiti a quattro
tetracordi e mezzo: lo spazio musicale formato da questa serie di quarte accostate diventa
inevitabilmente sempre più incongruente man mano che ci si allontana dal centro.
Nelle testimonianze teoriche scritte tra il X e l’XI secolo è difficile trovare una traccia di quello che
avvenne a questo punto, tuttavia il cammino che porta da qui al sistema di Guido dovette essere
strettamente segnato: soltanto due passaggi logici - più un errore concettuale - separano queste quarte
giustapposte dall’esacordo guidoniano.
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Primo passaggio logico: sovrapposizione …
Il primo passaggio non poteva consistere che nel riconoscere l’errore2 e sanarlo: l’unico modo di porre
un rimedio era quello di riuscire a restringere in qualche modo la serie delle otto note prospettate dalla
Musica enchiriadis.
- La soluzione più immediata poteva sembrare quella di eliminarne una, sottraendo una finalis a uno
qualsiasi dei due tetracordi, ma quale poteva essere la scelta più efficace? Era necessario che la
scomparsa di una finalis alterasse il meno possibile la successione dei toni e dei semitoni che risultava tra
le note rimanenti, perché le funzioni della nota prescelta si sarebbero fatalmente trasferite sulla finalis
adiacente. Più o meno dopo la metà del X secolo il ragionamento dei didatti dovette dunque passare per
una strettoia assai delicata: si trattava di trovare quale, tra le quattro finales disponibili, fosse così simile a
un’altra finalis contigua da poter essere soppressa e nello stesso tempo da poter essere fatta coincidere
sullo stesso suono.
La questione poteva nuovamente sembrare priva di soluzione: soltanto protus e tetrardus, vale a dire
proprio le due finales più distanti, sono legate da una somiglianza che si estende almeno a cinque suoni e
nei due sensi.
sol la si do RE mi
tono tono semitono tono tono
do re mi fa SOL la

Nel sistema disegnato dalla Musica enchiriadis, tuttavia, queste due finales venivano fortunosamente a
trovarsi proprio in posizione adiacente: il tetrardus alla fine di ciascun tetracordo e il protus all’inizio di
quello successivo. Diveniva così possibile far coincidere la nota tetrardus con la nota protus al momento
del passaggio da una serie di finales alla successiva: si eliminava così un intervallo di tono e i due
tetracordi riuscivano a rientrare all’interno dell’ottava. Bisognava quindi sovrapporre i due tetracordi, con
un procedimento che gli antichi greci avrebbero definito “creare una sinafé al posto di una diazeusi”.
… e alternanza
Anche questa operazione presentava tuttavia una insidia nascosta: se, per assurdo, i didatti avessero
provato a far coincidere il tetrardus con il nuovo protus a ogni tetracordo, vale a dire a creare una
saldatura sia su ogni SOL che su ogni RE, sarebbero fatalmente incorsi nell’errore opposto rispetto a
quello della Musica enchiriadis: il nome assegnato al primo suono sarebbe ritornato sul settimo suono
invece che sull’ottavo, così che sarebbe stato nuovamente impossibile far tornare la simmetria a ogni
ottava successiva. Questo modo di contare sarebbe stato errato per difetto: per far quadrare la
successione dei toni e dei semitoni sarebbe stato necessario aggiungere sempre più bemolli ascendendo
e sempre più diesis discendendo.

2 (…) in uno dyapason VII diuersae uoces non nisi duo quadrichorda efficiant (…). Quo in loco quidam enchiriadis musicae auctor
non mediocriter errauit, qui ipsa bina septenarum uocum quadrichorda duabus contra naturam medietatibus separans, ipsius
medietatis tropum - quod impossibile est – duplicauit: et ita pro duorum naturali positione tonorum continuum tritonum incurrit.
Sicque totius monochordi structuram regulari eius ordine disturbato destruxit (…). Sicut enim omnibus illud opusculum legentibus
manifestum esse poterit, (…) nulla eiusdem dispositionis chorda in octaua eadem esse reperitur: quod tamen quia oporteat et unanimi
omnium assertione et insuperabili naturae ueritate comprobatur. Cum enim propter significandam aequisonantiam omne dyapason a
qua incipit in eadem litera terminari debeat, (…) quamcumque susum uel iusum chordam inceperis, eius similem non in octaua,
quod oportet, sed in nona potius regione inuenias. Ermanno il Contratto, pp. 96-97.
Ma anche in Guido: Hac nos de causa omnes sonos secundum Boetium et antiquos musicos septem litteris figuravimus, cum
moderni quidam nimis incaute quattuor tantum signa posuerint, quintum et quintum videlicet sonum eodem ubique charactere
figurantes, cum indubitanter verum sit quod quidam soni a suis quintis omnino discordent nullusque sonus cum suo quinto perfecte
concordet. Nulla enim vox cum altera praeter octavam perfecte concordat. Micrologus, cap. V pp. 112-113.
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I didatti del X secolo non furono così ingenui da cadere in questo tranello: si resero conto che l’unico
rimedio possibile era proprio quello di immaginare uno spazio sonoro, a prima vista assai poco
attraente, del tutto privo di simmetria. Nonostante ogni apparenza si trattava finalmente della soluzione
esatta: per ricreare la naturale alternanza tra una quarta e una quinta presente all’interno dell’ottava, i
due tetracordi dovevano restare separati in corrispondenza del quinto suono ma dovevano essere
sovrapposti, in modo da far coincidere il tetrardus con il nuovo protus, in corrispondenza dell’ottavo. La
soluzione corretta era dunque quella di alternare due meccanismi differenti:
- tenere separati tetrardus e protus tra SOL e LA, in modo da ottenere una quinta, ma
- far coincidere tetrardus e protus sul RE in modo da ottenere una quarta.3

In corrispondenza del RE l’allievo doveva dunque operare una mutazione, eliminando una delle due
categorie. Come era conveniente chiamare questo suono, protus oppure tetrardus? La soluzione è
ingegnosa, ma è ancora una volta obbligata: la nota RE non si può pronunciare in altro modo che protus
ascendendo e tetrardus discendendo. La ragione di questa scelta risiede nella natura degli intervalli
implicati: le somiglianze tra il RE e il SOL si estendono al di sotto del SOL piuttosto che al di sopra. Se
si vuole ascendere partendo dal punto della mutazione gli intervalli che si incontrano corrispondono
esattamente al sistema delle quattro finales considerate a partire dal RE, mentre se si vuole discendere la
stessa serie corrisponde al sistema delle quattro finales che termina sul SOL.

la si do RE mi fa sol la
re mi fa SOL la

Riassumendo: protus sono i RE (ascendendo) e i LA,


deuterus sono i MI e i SI,
tritus sono i FA e i DO,
tetrardus sono i SOL e (discendendo) i RE.

Il meccanismo adesso funziona, ma resta il problema del RE che sopporta da solo la mutazione e obbliga a fare
una scelta: ascendendo si rinuncerà per una volta al tetrardus, discendendo si rinuncerà per una volta al protus. Per
quanto riguarda il senso ascendente si tratta già del procedimento che verrà inserito, senza ritocchi, nel sistema di
Guido.
protus deuterus tritus protus deuterus tritus tetrardus protus deuterus tritus protus…
LA SI DO RE MI FA SOL LA SI DO RE
in Guido: re mi fa re mi fa sol re mi fa re …

3 Ancora Ermanno il Contratto: Septenarius uero unam (…) medietatem possideat, necesse est duo quadrichorda ipsa una
medietate continuari: quod Greci synaphen, nos coniunctionem possumus dicere. Ut uidelicet superioris sit quarta uel acutissima,
posterioris uero prima uel grauissima. Quam medietatis rationem pro literarum positione solam .D. sorte ordinis exaequendam
optinuit. Musica, p. 96.
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Secondo passaggio logico: l’allargamento del tetracordo
Con il primo passaggio logico l’errore prospettato dalla Musica enchiriadis poteva dirsi definitivamente
rimosso: i nuovi meccanismi definivano correttamente e in modo inequivocabile l’asimmetria dello
spazio sonoro. Furono tuttavia sufficienti pochi decenni per mostrare che anche questa prima soluzione
era inadeguata. Per prima cosa la mutazione si effettuava in base a due procedure differenti:
- all’interno della quinta si cambiava tetracordo al momento di passare tra il SOL e il LA,
vale a dire tra protus e tetrardus, oppure viceversa: salita e discesa coincidevano perfettamente.
- all’interno della quarta si cambiava il tetracordo al momento di spostarsi sul RE,
con il risultato che salita e discesa si comportavano in modo diverso:
- ascendendo si mutava tra DO e RE, vale a dire tra tritus e protus;
- discendendo si mutava tra MI e RE, vale a dire tra deuterus e tetrardus.

Il difetto più grave era tuttavia un altro, quello di far cadere le mutazioni nelle due posizioni più lontane
proprio dai semitoni: il cambio di tetracordo relativo alla quinta cadeva nel bel mezzo del tritono FA-SI,
mentre i due meccanismi che si riferiscono alla quarta cadevano al centro del ditono DO-MI. La
mutazione avveniva sempre in corrispondenza di un intervallo di tono e in una posizione circondata da
altri intervalli di tono.
La distanza tra le mutazioni e i semitoni era particolarmente fastidiosa quando si procedeva in senso
discendente, perché il cantore fa più fatica a calcolare gli intervalli dall’acuto al grave. Alla inevitabile
difficoltà di intonare i semitoni, ogni tre e ogni due note, si aggiungeva la difficoltà di operare le
mutazioni: anche queste cadevano ogni tre e ogni due note, ma la loro distribuzione era completamente
sfasata - anzi esattamente opposta - rispetto a quella dei semitoni. Ecco dunque che cosa accadrebbe se
volessimo scendere dal DO (ma potrebbe capitare di doverlo fare a partire da qualsiasi altra nota) con
queste scomode modalità:
discendendo: === > DO SI LA SOL FA MI RE DO
tritus deuterus protus tetrardus tritus deuterus tetrardus tritus
S M S M
[ quinta ][ quarta ]
La mutazione cade sempre esattamente a metà strada tra i due semitoni: il cantore si trovava così a
dover affrontare, in pratica, una difficoltà diversa su ciascuna nota o intervallo della scala. Quando
incontrava il semitono doveva concentrarsi sull’intonazione, quando incontrava le mutazioni doveva
concentrarsi sul passaggio da un tetracordo al successivo: cantare diventava insomma tutta una lotta tra
attento a quello che canti e attento alle note che dici.
Per dare una soluzione al problema della discesa fu necessario elaborare un secondo, e decisivo,
passaggio logico: dal momento che non era possibile spostare i semitoni, diventava inevitabile riuscire a
spostare di un gradino verso l’alto la mutazione. La soluzione era quella di allungare la serie, vale a
dire di aggiungere un’altra sillaba al di sopra del tetrardus: il cantore la imparava in senso ascendente, ma
la usava soltanto in fase discendente. La sillaba addita permetteva di incontrare la nuova sillaba del
tetracordo sottostante una nota più in alto e quindi di anticipare la mutazione: il cambio di tetracordo
cadeva immediatamente dopo il semitono, nel caso della quinta, e direttamente in corrispondenza del
semitono nel caso della quarta.
discendendo: = = = > DO SI LA SOL FA MI RE DO
tritus deuterus addita tetrardus tritus addita tetrardus tritus
S M<= SM<=
[ quinta ][ quarta ]

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Questa prima aggiunta portava numero delle finales a cinque. Resta inteso che la finalis addita doveva
essere usata esclusivamente per la discesa, limitazione che si estenderà pari pari al la nel sistema
guidoniano; il risultato era tuttavia sorprendente, perché in fase discendente il protus finiva per
scomparire del tutto. Anche questa soluzione sarà inclusa senza modifiche, riferita alla sillaba re, nel
sistema guidoniano.
discendendo: = = = > DO SI LA SOL FA MI RE DO
tritus deuterus addita tetrardus tritus addita tetrardus tritus
in Guido: fa mi la sol fa la sol fa

Le voces musicales
Il meccanismo della mutazione discendente anticipata costrinse i maestri italiani, abituati da tempo ad
appoggiarsi alle tradizionali otto antifone per far distinguere i modi ai loro allievi, a aggiornare i loro
metodi. Fu creato un nuovo modello in cui le quattro finales originarie e quella aggiuntiva erano
accostate nel contesto di un unico pezzo; per ottenere questo risultato fu necessario lasciar cadere la
differenza tra ambiti autentici e plagali, ma in compenso divenne possibile far memorizzare all’allievo
non più una intera antifona ma solo una breve frase per ciascuno dei quattro modi. Fu dunque elaborata
una melodia in cui ciascuna frase rappresentava una delle quattro famiglie modali; ciascuna iniziava un
grado sopra la precedente, in modo da permettere la collocazione della finalis addita dopo il tetrardus.
Trinum et unum pro nobis miseris tritus protus
deum precemur nos puris mentibus deuterus
te obsecramus ad preces intende tetrardus finalis addita
Domine nostras.

Inutile sottolineare che né il testo né la musica di questo breve brano derivano in alcun modo della
tradizione liturgica: la nuova melodia ricevette un testo dedicato a San Giovanni, come era
consuetudine per i materiali a destinazione didattica, e trovò la sua collocazione come ultima strofa
nell’inno dedicato a questo santo.
- La posizione della terza nota, quella collocata sulla sillaba et, sembra essere scorretta: una volta
trasposta sul FA risulterebbe essere un SI bemolle. Alcuni indizi suggeriscono che nelle intenzioni degli
autori la terza nota fosse un Mi e riproducesse con maggiore precisione l’andamento del tritus.
La conseguenza più importante di questa soluzione è la nascita delle voces musicales: dal momento
che ciascuna frase era resa immediatamente riconoscibile dalla sua prima sillaba, era possibile indicare le
singole note usando direttamente le sei sillabe italiane
tri pro de nos te ad.
Possiamo collocare questa iniziativa in Italia, perché nei secoli successivi resterà del tutto sconosciuta al
resto d’Europa, e possiamo anche datarla verso la fine del X secolo se non addirittura un poco oltre; lo
stesso Guido mostra di non aderirvi ancora all’epoca in cui scrive il Micrologus.
L’errore concettuale del sistema: l’esacordo
Il difetto più grave di questo nuovo modello era quello di utilizzare una sillaba in più, sei invece delle
cinque che erano necessarie. Questo accadeva perché il tritus era stato collocato nella posizione
sbagliata, intonato sul DO invece che sul FA: ne conseguiva che la sillaba “giusta” tri si trovava in
posizione “errata”, trasposta al di sotto del protus, mentre al posto “giusto”, vale a dire sul FA, era stata
collocata una sesta vox musicalis nos.
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La sillaba aggiunta era in effetti del tutto inutile: si può anche immaginare che
nell’uso corrente fosse regolarmente sostituita dal tradizionale, e più pratico, tri.
(nos)
ascendendo: tri pro de tri te pro de tri
(nos)
discendendo: tri de ad te tri ad te tri

Alla fine di tutto questo lungo processo la didattica italiana aveva dunque creato non un pentacordo ma
un esacordo; sui meccanismi della serie “italiana” si formavano con ogni probabilità i cantori ai tempi
in cui Guido aveva iniziato la sua carriera di maestro. Non è tuttavia difficile immaginare che gli allievi
faticassero moltissimo a orientarsi all’interno di questo metodo:
- perché le finales pro, de, tri, e te corrispondono a una categoria modale e le altre due, nos e ad, no?
- a che modo corrisponde la finalis indicata con ad?
- a che modo corrisponde la finalis indicata con nos?
- perché trattare il protus peggio delle altre tre finales, escludendolo dalla discesa?
- perché prendere come modello una melodia in cui tri si trova nel posto sbagliato, al di sotto di pro e de?
- perché alternare tri con nos, se le finales a cui si riferiscono sono equivalenti?
Tutte queste difficoltà derivavano paradossalmente da un eccessivo attaccamento alla tradizione: la
didattica era ancora profondamente radicata nei metodi elaborati nel corso del medioevo e non era
capace di ripensarli con il necessario occhio critico. Il percorso didattico procedeva ancora dal repertorio
alle note: l’allievo doveva prima di tutto accanirsi per mesi interi, lavorando esclusivamente sulla base
dell’imitazione e della memoria, per imparare a fondo la teoria degli otto modi; soltanto quando fosse
giunto a saper riconoscere con sicurezza la cornice di toni e semitoni che sta attorno a ciascuna finalis,
in base a un vasto repertorio precedentemente memorizzato, era pronto a compiere un nuovo faticoso
processo di astrazione partendo dalle combinazioni fra le quattro finales per giungere a definire le
singole sillabe che identificavano le note. In ultima analisi, era proprio l’ostinarsi a creare un riferimento
con le quattro finales a impedire l’avvento di una pratica più spedita: la soluzione che oltre un secolo
prima aveva avviato tutto il processo era ormai diventata insopportabilmente di peso.

Guido d’Arezzo
Le notizie biografiche relative a Guido sono assai incerte:
- una tradizione locale, attestata soltanto dal Rinascimento, colloca la nascita nel 995 e nel borgo di
Talla, tra le montagne sopra Arezzo. Guido stesso si definisce un alpestris homo. Nei registri della chiesa
di Arezzo è menzionato un Wido, subdiaconus et cantor nel 1013; l’età potrebbe corrispondere, anche se la
carica di cantor sembra essere troppo prestigiosa per un diciottenne.
- una tradizione meno diretta, attestata qualche decennio dopo la morte ma solo in area francese, indica
Guido come in agro pomposiano exortus (nato nel territorio di Pomposa). L’informazione potrebbe essere
stata estrapolata indirettamente dalla lettura degli scritti dello stesso Guido.
- a un certo punto della sua vita Guido ha avuto rapporti con la celebre abbazia di Pomposa. Potrebbe
aver compiuto lì tutta la sua formazione o potrebbe averla completata, oppure potrebbe avervi
esercitato l’attività di maestro di canto; ma potrebbe soltanto essersi incaricato dell’istruzione di allievi
cantori provenienti da Pomposa. Le due diocesi, quella di Pomposa e quella di Arezzo, erano allora
confinanti e mantenevano stretti rapporti di amicizia e collaborazione.
- a Pomposa Guido si era certamente fatto alcuni amici, come il confratello Michele e lo stesso priore
Guido; col tempo maturarono dissapori con i colleghi, finché anche il priore fu costretto a prendere
una posizione di autorità: non conosciamo le ragioni e neppure le circostanze di questa scelta, tuttavia
Guido fu indotto, oppure obbligato, a troncare i rapporti con Pomposa.
La prima innovazione di Guido: l’esacordo guidoniano
Fin dall’XI secolo, la formulazione del sistema didattico che resterà come definitivo per la musica
medievale fu attribuita universalmente al merito di Guido. Alcuni indizi suggeriscono che altri suoi
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colleghi stessero cercando di rimediare alle difficoltà dell’esacordo “italiano” prendendo in esame
soluzioni simili alla sua, ma può essere che proprio a questo punto egli si sia effettivamente trovato da
solo. Il comune punto di partenza era la melodia Trinum et unum; tra i tanti tentativi inefficaci di
migliorarne la funzionalità Guido la trasformò in forma di antifona, ancora per San Giovanni, in modo
da ottenere una sorta di “metodo di lettura sulle vocali” (Micrologus, cap. VII).

Alla fine Guido deve avere intuito che tutte le difficoltà venivano dal fatto che continuava a procedere
dalle quattro finales modali. La novità della sua formulazione consiste in un dettaglio apparentemente
banale: invece di prendere come riferimento l’ultima strofa dell’inno a San Giovanni egli prese a caso la
prima, ben sapendo che le sillabe risultanti sarebbero state ugualmente del tutto casuali.

La serie che ne risultò fu l’esacordo guidoniano ut re mi fa sol la.


L’enorme fama che Guido ebbe nei secoli successivi si basa proprio su questo paradosso, vale a dire sul
fatto che le sue sillabe non significano assolutamente nulla. Guido ha semplicemente avuto il coraggio di
buttare definitivamente alle ortiche ogni riferimento al sistema delle quattro famiglie modali: al di là di
questa modifica, non apportò nessun cambiamento ai meccanismi già impliciti nell’esacordo “italiano”.
Visto che non sembrava possibile modificare il sistema, Guido aveva aggirato l’ostacolo nascondendo
accuratamente la complessità del suo meccanismo. Grazie alle nuove sillabe era finalmente possibile
spiegare l’asimmetria dello spazio sonoro, una quarta più una quinta più una quarta più una quinta e così
via, in una maniera che si presentava estremamente semplice e intuitiva:
“l’ottava si divide in due segmenti disuguali che iniziano da DO e FA, vale a dire in corrispondenza dei semitoni,
e che si alternano regolarmente. Le note di partenza si devono chiamare sempre fa, sia ascendendo che discendendo.”
ascendendo:
- la quarta viene riempita con [ fa ] re mi fa (mutazione di quarta)
- la quinta viene riempita con [ fa ] sol re mi fa (mutazione di quinta)
discendendo:
- la quinta viene riempita con [ fa ] mi la sol fa (mutazione di quinta)
- la quarta viene riempita con [ fa ] la sol fa (mutazione di quarta)

in questo modo:
- la nota posta al di sopra del semitono si chiama sempre fa;
- il semitono si legge sempre mi – fa in fase ascendente, mentre si legge in due modi diversi in fase discendente:
fa – mi davanti alla quinta e fa – la davanti alla quarta.
- le sillabe re e la si usano in alternativa, l’una in fase ascendente e l’altra in fase discendente;
- l’ambiguità relativa al tritus rimane, ma ora è la nota aggiunta al di sotto - quella collocata al posto “sbagliato” - a
diventare facoltativa: ut può sostituire fa, ma senza particolari vantaggi, al momento di iniziare una scala
ascendente.
(ut)
fa re mi fa sol re mi fa

Partendo da queste nuove premesse diventava finalmente possibile rovesciare l’intero percorso
dell’apprendimento, procedendo dalle note al repertorio: l’allievo poteva imparare prima di tutto le sei voces
musicales, un obiettivo realizzabile anche nel giro di qualche lezione, e poi allargare il discorso
applicandole a brani via via più complessi.
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Il caso della tastiera
La divisione dell’ottava in due segmenti diversi è del tutto analoga a quella in uso nella diteggiatura
pianistica. Se la mano avesse sette dita, basterebbe effettuare il passaggio del pollice in corrispondenza
dell’ottavo suono per poter riempire in ogni senso lo spazio sonoro; ma dal momento che le dita sono
cinque, la mano non è sufficiente a coprire l’ottava con un diverso dito su ogni tasto. Allo stesso tempo,
tuttavia, la mano finisce per avere più dita di quante ne servano: nella normale diteggiatura l’ottava
viene infatti scomposta in due porzioni che sono comunque più corte rispetto alla sua estensione. Le
due porzioni coprono esattamente una quarta più una quinta: il quinto dito non si usa mai, se non per
iniziare o terminare una scala, mentre il quarto viene usato una volta si ed una no per coprire l’intervallo
di quinta. Ascendendo con la mano destra nella scala di Do maggiore, la successione delle dita risulta
essere 1 2 3 1 2 3 4 1: il pollice si colloca invariabilmente sul DO e sul FA, mentre il quinto dito si
potrebbe usare soltanto per concludere all’acuto la scala.
Le somiglianze tra la diteggiatura pianistica e il sistema guidoniano diventano ancora più evidenti se si
prende in considerazione la forma inversa di passaggio del pollice, quella in cui sono le dita deboli a
scavalcare dal di sopra il primo dito: per la scala ascendente bisogna dunque vedere la diteggiatura
relativa alla mano sinistra. Poniamo di voler suonare ancora la scala di Do maggiore e di voler collocare
il pollice, esattamente come ha fatto la destra, su DO e FA: dopo essere partiti dal DO con 1, useremo
3 2 1 per arrivare al FA e poi un altro passaggio con 4 3 2 1 per arrivare al DO. L’analogia con il
sistema guidoniano diviene completa quando si prova ad assegnare un nome alle singole dita:
chiameremo fa il pollice, quindi sarà facile assegnare il mi al secondo dito e il re al terzo. Il quarto dito,
che si colloca dopo il fa una volta si e una volta no, finirà per essere chiamato sol. In questo modo la
nostra diteggiatura sarà perfettamente identica al sistema delle mutazioni usato per secoli da intere
generazioni di cantori.
( ut )
(5)
fa re mi fa sol re mi fa
1 3 2 1 4 3 2 1
DO RE MI FA SOL LA SI DO

Quattro dita sono dunque sufficienti per coprire interamente lo spazio sonoro; una volta accettato il
fatto che le dita non possono essere sette, grazie al passaggio sopra il pollice la disponibilità della mano
risulta essere addirittura sovrabbondante. Esiste senz’altro la possibilità di collocare il quinto dito (ut) al
momento di iniziare, ma solo per la prima ottava e non per quelle successive: l’analogia con le
mutazioni è tuttavia particolarmente evidente se si decide di iniziare direttamente con il primo dito. In
questo modo il quinto dito non è mai necessario e il quarto viene chiamato in causa soltanto una volta
per ciascuna ottava, vale a dire per attraversare lo spazio della quinta FA-DO. In sintesi soltanto le
prime tre dita, su un totale di cinque, vengono usate in modo costante: la mano deve percorrere l’ottava
alternando due diverse posizioni.
In fase discendente la corrispondenza fra il movimento della mano e il sistema delle mutazioni si ripete
identica, con l’ovvia differenza che è necessario prendere in considerazione la mano destra e quindi
bisogna scambiare i nomi fra secondo e quarto dito: il quinto dito non si usa mai, ma per l’assegnazione
delle sillabe guidoniane bisogna avere ancora l’avvertenza di cambiare nome al terzo sostituendo il re
con il la. Abbiamo visto che le sillabe di Guido, scelte in modo casuale, hanno proprio la funzione di
nascondere le complesse ragioni che hanno condotto alla scomparsa del protus dalla discesa.
fa mi la sol fa la sol fa
1 4 3 2 1 3 2 1
DO SI LA SOL FA MI RE DO
In conclusione il percorso della mano è analogo a quello della lettura: il pianista sa perfettamente di
avere a disposizione cinque dita, così come il cantore di Guido sa che l’esacordo è in teoria formato da
sei suoni; ma al momento di percorrere la scala sono entrambi addestrati a non prendere in
considerazione le dita, o le note, che non si devono utilizzare.
11
Come il pianista sa di dover alternare due diverse posizioni della mano nel momento in cui percorre
l’ottava, così il suo collega medievale si muove con disinvoltura e in modo del tutto analogo fra i due
diversi esacordi. Questo sistema è complicato soltanto in apparenza: la divisione dell’ottava in due settori
differenti risolve perfettamente le esigenze di un cantore medievale. Tanto più che il meccanismo delle
mutazioni trova una collocazione perfetta nel contesto dell’altra invenzione attribuibile a Guido, quella
che costituisce il cardine di tutto il suo sistema didattico: nel tetragramma.

La seconda innovazione di Guido: il tetragramma


Il meccanismo delle mutazioni trasmette la sua logica funzionale al sistema binario formato dalle linee e
dagli spazi. L’allievo cantore vi si poteva orientare facilmente, passando dalla quarta alla quinta e
viceversa, osservando la posizione delle chiavi: sapendo bene che la quinta cade tra il FA e il DO,
applicava senza esitazioni la mutazione di quinta quando si trovava in mezzo alle due chiavi e la
mutazione di quarta quando si trovava nei due settori esterni.
sopra la chiave di C si muta di quarta
sotto la chiave di C si muta di quinta sopra la chiave di F si muta di quinta
sotto la chiave di F si muta di quarta

In questo schema sono comprese gran parte delle ragioni per cui le “chiavi antiche” sono rimaste così
tenacemente in uso nei secoli successivi. In effetti le due diverse chiavi, vale a dire quella di F e quella di
C, non sono percepite come due entità troppo distinte: si devono chiamare sempre fa, sia ascendendo
che discendendo, quindi sono largamente equivalenti quando l’estensione del brano è limitata.
Anche a proposito del tetragramma Guido dovrebbe dividere il merito della scoperta con tanti altri
oscuri didatti del suo tempo. A partire dalle prime notazioni diastematiche in campo aperto, si stava
diffondendo l’uso di una o due linee per indicare la posizione dei semitoni; di solito la linea del FA era a
inchiostro e quella del DO era a secco. La linea del FA si trovava una quinta sotto rispetto a quella del
DO: questo significa che tra un Fa e un Do un copista poteva collocare altri tre suoni in un campo
relativamente ancora aperto.

I didatti cercavano probabilmente di rendere ancora più semplici queste consuetudini in uso nei grandi
centri liturgici: il passo inevitabile era quello di collocare una terza linea relativa al LA. Il tetragramma
non è quindi altro che lo sviluppo logico delle due principali tendenze espresse dalla notazione del XI
secolo, vale a dire la diastemazia e la scrittura a punti separati: la pratica dei copisti sarebbe comunque
arrivata a definirlo, magari nello spazio di qualche altro decennio, ma in effetti in tutta Europa non
esiste nessun esempio di manoscritto su tetragramma che sia databile con sicurezza a prima di Guido.

12
I trattati teorici, ad esempio la Musica enchiriadis, erano già arrivati a elaborare un sistema di linee
orizzontali e equidistanti; vi si poteva notare una melodia collocando a diverse altezze il testo
corrispondente, ma si potevano utilizzare soltanto gli spazi tra una linea e l’altra.

Guido stesso dimostra che queste soluzioni erano ancora dibattute fra i suoi colleghi:
Quidam ponunt duas voces duas inter lineas, C’è chi mette due note su due spazi,
quidam ternas, quidam vero nullas habent lineas: chi tre, chi non usa nessuna linea:
quibus labor cum sit gravis error est gravissimus. fanno tanta fatica e il loro errore è gravissimo.

La soluzione di Guido era rivoluzionaria perché utilizzava le linee e gli spazi come un sistema binario: con
tre righe a disposizione le note si possono scrivere sia sulle linee che negli spazi, in modo da
concentrare la grafia e ottimizzarla sul piano funzionale. Anche in questo caso Guido deve essere
arrivato per gradi alla soluzione definitiva, non senza passare per soluzioni meno felici e probabilmente
condividendo il cammino con molti altri anonimi didatti:
- il metodo elaborato dai cistercensi prevedeva l’uso di due linee colorate, Fa = rossa e do = gialla,
lasciando in nero la terza ed eventualmente le altre. Per indicare il fa una quarta sopra al do, la linea
rossa poteva anche essere inserita al centro dello spazio tra la linea del mi e quella del sol.

- esistono manoscritti in cui sono presenti le lettere-chiavi, anche quattro o più, ma non ancora tutte le
linee; i neumi rimangono in un campo totalmente o parzialmente aperto.

- il metodo che finì per essere adottato in tutta Europa prevedeva l’uso del solo inchiostro nero con
l’aggiunta di una unica lettera-chiave, F oppure C.

Il viaggio a Roma
La scuola di canto che Guido dirigeva ad Arezzo, su incarico del vescovo Teodaldo, divenne famosa:
Papa Giovanni XIX volle conoscere il nuovo metodo e invitò ripetutamente Guido a Roma. La
dimostrazione si tenne forse nell’estate del 1032 e fu un completo successo: Giovanni XIX, che pure
doveva essere aggiornato sulle più moderne tendenze della didattica musicale, rimase sbalordito nel
vedere i ragazzi di Guido intonare con sicurezza a prima vista una serie di canti sconosciuti scritti nella
nuova notazione. Volle anche provare di persona e si rese conto di quanto fosse facile acquisire
prontezza di lettura seguendo il nuovo metodo:
Multum itaque Pontifex meo gratulatus est adventu, multa colloquens et diversa perquirens;
nostrumque velut quoddam prodigium saepe revolvens antiphonarium, praefixasque ruminans regulas,

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non prius destitit, aut de loco in quo sedebat abscessit, donec unum versiculum inauditum sui voti
compos edisceret: ut quod vix credebat in aliis, tam subito in se recognosceret…4
Il resoconto, dello stesso Guido, si concentra sull’Antifonario che lui stesso aveva compilato; quale
ruolo avranno giocato le altre componenti del suo metodo? L’Antifonario era veramente così chiaro e
diverso da emergere nettamente sulle soluzioni grafiche di quei tempi? Sul successo della dimostrazione
avranno influito altri fattori, prima di tutto la giovane età degli allievi e poi la facilità con cui il Papa
stesso si era impadronito delle regole che permettevano la lettura.
Giovanni XIX offrì a Guido un incarico prestigiosissimo, quello di venire a insegnare il suo metodo
nella stessa Roma. Guido fu tuttavia costretto a rifiutare: l’aria di Roma, troppo calda e soffocante per
un alpestris homo come lui, lo aveva fatto ammalare. Chiese il permesso di ritirarsi ad Arezzo e di lasciar
passare l’estate per poter tornare completamente guarito a svolgere l’importante incarico.
Ancora a caldo, forse ancora da Roma, Guido scrive la famosa lettera al confratello Michele: racconta in
tono trionfale del suo incontro con il Papa, si sfoga di passate incomprensioni e rancori nei confronti
dei colleghi; promette di venire presto a Pomposa per godersi il trionfo davanti ai suoi detrattori;
riferisce che il Priore, da lui incontrato a Roma, lo ha invitato a farsi monaco a Pomposa5 e vuole
conferirgli (o forse riconferirgli di nuovo) un incarico come maestro di canto.
Nessuna di queste promesse sembra essere stata mantenuta. Le tracce di Guido scompaiono di colpo
dopo che la lettera è stata sigillata e spedita:
- c’è un admirabilis Guido abate di Pomposa, successore dell’abate Guido dopo il 1037;
- c’è un Guido di Pomposa invitato a riordinare la diocesi di Brema qualche anno più tardi;
- c’è un Guido che scrive al vescovo di Milano, contro il peccato di simonia, tra il 1031 e il 1045;
- c’è un Guido priore nel monastero camaldolese di Avellana verso il 1050.
Queste ipotesi - e molte altre più fantasiose - sembrano tuttavia riferirsi a altri personaggi; soprattutto, e
questo è importante, non esiste nessuna testimonianza di una nuova presenza di Guido a Roma.
L’ipotesi più verosimile è che Guido non si sia mai più ripreso dalla malattia che lo aveva colto durante
la permanenza a Roma: forse è morto senza aver neppure più rivisto la sua città. Il suo Antifonario è
scomparso senza lasciare traccia; forse rimase a Roma e forse fu riportato ad Arezzo. Non ne esistono
copie e neppure descrizioni, per cui non si può sapere come era fatto e se era davvero così
rivoluzionario. Forse i righi contavano quattro linee, forse solo tre oppure cinque; non si può dire se
impiegava le lettere-chiavi o qualche altro sistema. Di certo sfruttava sia le linee che gli spazi.
La morte colse Guido proprio quando il riconoscimento della sua opera gli stava spalancando le porte
per una nuova carriera e per una posizione di assoluto prestigio a livello internazionale; ma in
compenso fu decisiva per far nascere una sorta di “mito” guidoniano. La fama di Guido d’Arezzo varcò
immediatamente i confini di tutta Europa e il suo nome si rivestì di un’aura di indiscussa auctoritas nel
campo della teoria musicale. Nei secoli immediatamente successivi, tutti i nuovi sviluppi della didattica
finiranno per essere attribuiti al nome di Guido. Non solo le sillabe ut re mi fa sol la, che la
didattica italiana si rifiuterà a lungo di adottare, non solo il tetragramma in qualunque forma, ma anche
invenzioni minori quali la mano guidoniana e quasi tutti gli altri capitoli della teoria medievale.
Compresi alcuni argomenti che Guido non avrebbe potuto neppure immaginare, più alcuni altri che
non avrebbe mai e poi mai sottoscritto.

4 “Il Papa è stato molto contento di vedermi, ha discusso di molte questioni e ha voluto sapere tutti i dettagli; e
continuava a rigirare il mio antifonario come se fosse prodigioso, ripetendosi le regole della premessa. E non se
ne è andato, e neppure si è alzato dal luogo in cui sedeva, prima di essere riuscito a imparare da solo un versetto
sconosciuto: così, riconoscendo in sé stesso che quello che stentava a credere negli altri…”
5 Guido scrive di aspirare da tempo alla vita monastica, ma non sappiamo quale esatto significato dare a questa

frase. Era una sorta di monaco secolare residente presso una sede vescovile? Non esiste altra fonte relativa alla
biografia di Guido: tutte le ipotesi sulla sua vita sono estratte dalle poche righe di questa lettera. Non conosciamo
neppure il confratello Michele, anche se sembra fuori di dubbio che risiedesse effettivamente a Pomposa.
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La didattica medievale dopo Guido
Il metodo delle mutazioni era in realtà profondamente errato: lo spazio sonoro può essere reso in
forma incomparabilmente più semplice e chiara se viene presentato in termini di ottava. Il grande torto
della didattica fra il X e l’XI secolo è stato proprio quello di non accorgersi di questa opportunità; anche
se il concetto, quasi incredibilmente, era già stato formulato in quasi tutti i trattati di quell’epoca.6 Sulla
didattica ha evidentemente gravato il peso di una lunga tradizione orientata in tutt’altro senso: il metodo
di Guido fu accolto con entusiasmo perché risolveva tutti i problemi impliciti nel vecchio sistema, ma
proprio per questo finì per essere inteso come un punto di arrivo intoccabile. Nessuno ebbe il coraggio
o la forza7 per affrontare le questioni che la solmisazione lasciava ancora aperte.
XI secolo
La consapevolezza dei vantaggi offerti dal pensare in termini di ottava si fece probabilmente strada fin
da subito dopo, forse pochi anni dopo la morte di Guido, ma quando era ormai troppo tardi: il sistema
elaborato da Guido, forse proprio perché era stato così enormemente in vantaggio rispetto a tutta la
riflessione didattica del suo tempo, era già divenuto parte integrante di una tradizione autorevole e
vincolante. Non ci fu nessun nuovo Guido capace di rovesciare questo stato di cose: la didattica dell’XI
secolo non ebbe il coraggio di fare il logico passo successivo, quello di aggiungere un settimo suono alla
serie, e preferì attenersi rigidamente al sistema codificato da Guido.
Si tentò un impossibile compromesso conservandone i meccanismi ma motivandoli sulla base dell’ottava:
lo stesso tipo di spiegazione fuorviante che compare oggi in tutti i manuali di storia della musica. Si
disse che il metodo di Guido consente di “completare l’ottava quando l’ambito melodico oltrepassa la
ristrettezza dell’esacordo”:
“quando si canta è come se si alternassero due serie sovrapposte di esacordi. Chiameremo
- esacordo naturale quello in cui ut coincide con il DO
- esacordo duro quello in cui ut coincide con il SOL.
All’atto pratico non si pronunciano mai tutte le sillabe di ciascun esacordo: dal momento che alcune note di ciascun
esacordo si sovrappongono a quelle degli esacordi vicini, al momento opportuno bisognerà passare da un esacordo a
quello successivo applicando la mutazione.
- ascendendo si muta sempre quando si incontra il re: il la non si usa mai
- discendendo si muta sempre quando si incontra il la: il re non si usa mai.”

6 Negli scritti dello stesso Guido: Nam sicut finitis septem diebus eosdem repetimus, ut semper primum et octavum eundem
dicamus, ita primas et octavas semper voces easdem figuramus et dicimus, quia naturali eas concordia consonare sentimus. (…) Unde
verissime poeta dixit: septem discrimina vocum, quia etsi plures fiant, non est aliarum adiectio sed earundem renovatio et repetitio.
Hac nos de causa omnes sonos secundum Boetium et antiquos musicos septem litteris figuravimus. Micrologus, cap. V. Sicut in
omni scriptura XX et IV litteras, ita in omni cantu septem tantum habemus voces. Nam sicut septem dies in hebdomada, ita septem
sunt voces in musica. Aliae vero, quae super septem adjunguntur, eaedem sunt, et per omnia similiter canunt in nullo dissimiles, nisi
quod altius dupliciter sonant. Epistola de ignoto cantu, p.426.
7 Solo alla fine del XV secolo Bartolomeo Ramos de Pareja proverà a sollevare questa spinosa questione e si

troverà a subire la dura reazione dei colleghi in difesa dell’auctoritas guidoniana.

15
In realtà il risultato a cui Guido voleva arrivare era quello di risolvere correttamente l’alternanza di quarte
e quinte all’interno dello spazio sonoro: l’esacordo era soltanto il tramite, puramente teorico nella sua
formulazione, per raggiungere questo scopo. Nell’ottica del X secolo la serie dei sei suoni codificata da
Guido non solo non è affatto ristretta, ma è addirittura sovrabbondante: esattamente come finiscono per
esserlo, nella trasposizione sulla tastiera, le cinque dita del pianista.
Sul piano didattico istruire l’allievo a fare ogni volta i suoi calcoli sulla base dell’intero esacordo
costituiva naturalmente un grave errore: l’esacordo nella sua interezza è più largo rispetto alle reali
esigenze della lettura e dell’esecuzione. I didatti dell’XI secolo resero un pessimo servizio al sistema di
Guido, prima di tutto mantenendolo in uso ben più del necessario e allo stesso tempo contribuendo a
renderlo più ostico agli occhi dei lettori moderni. L’incolpevole Guido fu trasformato in una sorta di
idolo, tanto venerato quanto ingombrante, e nel suo nome la didattica continuò per secoli a trascinarsi il
peso di un metodo ormai palesemente inutile e sbagliato.
Il sistema per bemolle
Una riflessione più attenta fu impedita anche dal fatto che nuove questioni premevano sul campo della
didattica. Man mano che le melodie venivano fissate sui nuovi tetragrammi, la sostanziale equivalenza
fra le chiavi di DO e di FA produceva parecchi brani in cui la trasposizione operata dal copista rendeva
obbligatorio l’uso del SI bemolle.

L’esigenza di includere anche il SI bemolle nella prassi didattica si era dunque fatta pressante: era
inevitabile che qualcuno, fra i predecessori e i colleghi di Guido, provasse a elaborare un sistema
alternativo. La soluzione prendeva ancora le mosse, come era inevitabile, dal solito punto di partenza:
dal sistema per quarte proposto dalla Musica enchiriadis, o per meglio dire dalle modifiche che il X secolo
vi stava apportando. Si era ormai convenuto che il modo giusto di ottenere l’ottava era quello di
alternare una quarta e una quinta, vale a dire di combinare un tetracordo giustapposto con un
tetracordo sovrapposto; per includere il bemolle all’interno del sistema musicale era sufficiente
invertire la sovrapposizione dei tetracordi rispetto al sistema per natura, vale a dire
- far coincidere tetrardus e protus sul SOL
- tenere separati tetrardus e protus tra DO e RE.

Come si è visto, una simile operazione obbliga proprio a collocare un bemolle per ottenere una terza
minore sopra il SOL. Tra DO e RE il tetrardus e il protus dovevano naturalmente essere separati da un
tono per ricreare l’intervallo di quinta, vale a dire per ripristinare l’asimmetria dell’ottava. Questa
soluzione si adatta bene all’ambito per bemolle, perfino agli occhi di un lettore moderno: nel repertorio gli
esempi di protus in SOL o di deuterus in LA sono molto frequenti, così come i casi di tritus in FA, e tutti
hanno invariabilmente il bemolle in chiave. La questione fu presto definita in questi termini:
- quando si usa il SI bequadro si canta per natura, quando si usa il SI bemolle si canta per bemolle.
- quando si canta per bemolle il SI bemolle deve essere collocato direttamente accanto alla chiave.
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Il nostro esempio fa uso delle sillabe italiane perché questa era verosimilmente la versione usata dai
colleghi di Guido. Con ogni probabilità il relativo edificio teorico fu definito nei decenni successivi alla
sua morte; nel resto d’Europa fu tuttavia associato senza difficoltà al nome di Guido e alle sue sei
sillabe esacordali, perché per farlo era sufficiente rovesciare i termini relativi all’andamento per natura.
Quando si canta per bemolle le note di partenza dei tetracordi sono FA e SI bemolle; le chiavi corrispondenti
sono quelle di F e il simbolo del bemolle collocato nello spazio sotto la chiave di C. Si devono leggere entrambe
fa, sia ascendendo che discendendo.
Il meccanismo delle mutazioni di quarta e di quinta si replica invariato:
- mutazioni di quarta: [ fa ] re mi fa [ fa ] la sol fa
- mutazioni di quinta: [ fa ] sol re mi fa [ fa ] mi la sol fa
Quando si canta per bemolle il rapporto di asimmetria all’interno dell’ottava si modifica distribuendosi in
modo opposto rispetto al sistema per natura. Lo spazio al di sopra del FA si restringe, perché il semitono
successivo cade in corrispondenza del SI bemolle, mentre l’intervallo di quinta che comprende il tritono
si colloca tra il SI bemolle e il FA successivo. Il cantore può ancora orientarsi facilmente grazie al
tetragramma, osservando la posizione della chiave: è sufficiente invertire completamente il meccanismo.
Si applica dunque la mutazione di quarta quando ci si trova tra la chiave di FA e lo spazio del bemolle,
si applica al contrario la mutazione di quinta quando ci si trova nei due settori esterni. Per dirla nei
termini dei trattati didattici:
sopra il bemolle si muta di quinta
sotto il bemolle si muta di quarta sopra la chiave di F si muta di quarta
sotto la chiave di F si muta di quinta

Anche il sistema per bemolle si prestava a essere ordinato, negli scritti dei successori di Guido, nella
consueta sintesi teorica che parte dall’ottava:
“quando si canta per bemolle è come se si alternassero due serie sovrapposte di esacordi. Chiameremo
- esacordo molle quello in cui ut coincide con il FA
- esacordo naturale quello in cui ut coincide con il DO.
Le regole per la mutazione rimangono quelle consuete: ascendendo si muta sempre a re, discendendo si muta sempre a la. Le due
sillabe si escludono a vicenda quando ci si muove nel senso contrario.”

Per la didattica medievale il sistema per bemolle costituiva dunque il rovescio del sistema per natura: in questo modo
veniva insegnato e descritto. In termini moderni potremmo dire che tutto il complesso degli esacordi era
semplicemente trasposto alla quarta, lasciando invariata la successione degli intervalli e delle mutazioni, ma un
cantore medievale troverebbe sicuramente fuori luogo questa osservazione.

17
Quale era la posizione di Guido riguardo a questo sdoppiamento del sistema musicale? Egli dimostra di
sapere bene che i suoi colleghi lo mettevano in pratica, ma condanna con decisione questa soluzione:
Quidam autem, minus plene pervidentes istam differentiam, adjungunt unam vocem in acutis inter primam et secundam,
ut sint duae secundae (…). [Fit] pro hujus vocis additamento [ut] maxima confusio nascatur simplicibus. (…) Si autem
duorum vel plurimorum modorum unam vocem esse liceat, videbitur haec ars nullo fine concludi, nultis certis terminis
coarctari. Quod quam sit absurdum, nullus ignorat, cum semper sapientia confusa quaeque et infinita sponte repudiet.8

La questione di dare al SI bemolle una sua posizione legittima esisteva ed era anche urgente, ma forse
Guido non riuscì a capirne l’importanza; con tutta probabilità non sarebbe mai stato in grado di dare
una risposta adeguata. In questo campo egli non riuscì proprio a portare alcun contributo utile, così che
inevitabilmente i suoi successori, dato che la divisione in due sistemi paralleli pareva irrinunciabile,
finirono per elaborare questo sdoppiamento. Il parere di Guido fu dunque completamente ignorato;
anzi, le nuove soluzioni furono ascritte, contro ogni evidenza, alla sua stessa autorità. Probabilmente,
questo è il caso in cui la morte improvvisa ha giovato alla fama di Guido: se fosse vissuto più a lungo
egli non avrebbe mancato di battersi e polemizzare contro il sistema per bemolle, magari fino al punto
di alienarsi le simpatie di cui godeva e di vanificare gli aspetti positivi del suo metodo.
Nei manoscritti medievali, monodici e anche polifonici, il segno del bemolle viene collocato spesso
qualche nota prima rispetto al SI a cui si riferisce effettivamente; si tende spesso a sottovalutare questa
particolarità, trattandola come un vezzo calligrafico, mentre in quei casi il segno del bemolle agisce
come una vera e propria chiave e ha l’effetto di costringere il cantore ad abbandonare in anticipo
l’ambito per natura.

La distinzione fra i due sistemi, per natura e per bemolle, divenne familiare ai cantori del tardo medioevo e cominciò
a fare parte integrante del bagaglio tecnico fondamentale di qualsiasi musicista. Quanto profondamente la
questione fosse radicata nella pratica, perfino nel XIV secolo, lo possiamo vedere dall’Antefana di Lorenzo Masini
conservata nel ms. London, British Library, Additional 29987: il perfetto prototipo di un tipo di scherzo che
sarebbe inconcepibile all’infuori di questo contesto. Il brano mette alla prova le capacità del malcapitato cantore
mescolando in modo imprevedibile i due diversi andamenti

per natura e per bemolle

Diligenter advertant cantores ori[s] soni, Con diligenza stiano attenti i cantori al suono della bocca,
ne inanis presumptio ingnioranter perché una vana presunzione da ignoranti
absorbeat mentem cor et pectora; non assorba la mente il cuore e i petti;
sed me cantent ter et quater cum timore tritoni. ma mi cantino tre e quattro volte, e abbiano paura del tritono.
Et si modum non exceda[n]t reghule quae lateat, E soltanto se non vanno fuori dal limite, che è difficile da vedere,
plane chantus cetui iunchantur saranno accolti senza difficoltà nel ceto dei cantori
per secula. Amen. per tutti i secoli dei secoli. Amen.

8
“C’è anche chi, non rendendosi pienamente conto di questa differenza, aggiunge una nota nel
tetracordo delle superiores tra la prima e la seconda: così ne vengono fuori due seconde note. E per
l’aggiunta di questa nota ne nasce una terribile confusione per gli sciocchi: se infatti una nota può essere
chiamata in due o anche più modi diversi [vale a dire fa e mi, ovvero si bemolle e si naturale], si vedrà
subito che quest’arte non si può più contenere in nessun limite, e non è più trattenuta in nessun termine
certo. Nessuno ignora quanto sia assurdo tutto questo, perché la sapienza ripudia sempre da sé le cose
che sono confuse e non ben definite”. Epistola de ignoto cantu, pp. 429-430.

18
19
XII secolo: la solmisazione
La teoria musicale del XII secolo si spinse anzi ancora più avanti nel tentativo di creare un sistema
completo; il risultato fu la teoria della solmisazione.
Con questa soluzione si cercò di riunire in un unico schema i tre esacordi naturale, duro e molle. Si tratta
di un metodo didattico di per sé inapplicabile alla pratica musicale: all’atto pratico il cantore doveva
infatti sempre scegliere, prima ancora di cominciare a cantare qualsiasi pezzo, tra
- esacordi naturali e duri (escludendo quelli molli) nell’andamento per natura
- esacordi molli e naturali (escludendo quelli duri) nell’andamento per bemolle.

In effetti la differenza fra i due sistemi era ancor più marcata di come appare in questo schema:
l’andamento per bemolle stravolgeva talmente la funzione e la collocazione dell’esacordo naturale da
renderlo sostanzialmente diverso da quello in uso nell’andamento per natura. Per il cantore non avrebbe
dunque alcun senso considerare in un colpo solo tutti i possibili nomi che la singola nota può assumere
nei due casi, proprio perché l’uno esclude per definizione l’altro; invece questa assurda complicazione
fu effettivamente insegnata in tutte le scuole d’Europa e per molti secoli. La tradizione scolastica aveva
nuovamente perso di vista la realtà della pratica musicale. La serie completa degli esacordi fu applicata
alla serie dei suoni espressi nella notazione letterale attribuita a Oddone di Cluny: i due sistemi,
combinati fra loro, permettevano di assegnare a ciascun suono un nome composto da una lettera più
tutte le voces musicales applicabili a quel suono nel loro ordine progressivo.

Riassumendo:

Questo sistema è evidentemente assurdo, ma qualche merito – seppure in negativo – potrebbe anche
essergli riconosciuto: ancora una volta furono proprio i limiti della soluzione errata a indirizzare gli
oscuri sforzi dei didatti verso la soluzione migliore. Se la musica ficta finì per affermarsi come soluzione
vincente, una buona serie di motivi risiede nel fatto che questi meccanismi sono già talmente complicati
da non poter sopportare il peso di nuove sillabe esacordali.
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XIII secolo: il problema delle note alterate
Il doppio sistema per natura e per bemolle rimase in uso per molti secoli; soltanto con il Seicento finì per
essere accantonato. Nel frattempo, tuttavia, la soluzione giusta si era fatta strada da sé. In effetti il
sistema per bemolle poneva la musica del tardo Medioevo su una china molto pericolosa, quella di un
infinito e inarrestabile DO mobile: trasponendo tutto il meccanismo in FA si era aperta la strada alla
possibilità di aggiungere sempre nuovi esacordi man mano che il sistema musicale medievale
conquistava lo spazio cromatico. Nei secoli posteriori a Guido, soprattutto con lo sviluppo della tecnica
polifonica, i compositori impararono a usare sempre più i suoni alterati: secondo le premesse poste nel
XII secolo, questa conquista avrebbe dovuto tradursi nella creazione di nuovi esacordi, vale a dire in un
allargamento infinito del numero dei possibili trasporti offerti dal sistema.
la si do# – re mi fa#
re mi fa# – sol la si
ut re mi – fa sol la
sib do re – mib fa sol
mib fa sol – lab sib do
Tra il XIII e il XIV secolo questa soluzione fu effettivamente messa allo studio. Nella testimonianza di
Philippe de Vitry:
per falsam musicam facimus semitonium ubi non debet esse. Nam in mensurabili musica illud videmus quod tenor
alicuius moteti vel rondelli stat in b fa be quadrum mi (sul SI naturale), dicendo per be durum (cantando per
natura), tunc accipientem in diapente superius suum biscantum, oportet dicere mi in f acuto. 9
Può essere che Philippe, molto semplicemente, non avesse ancora trovato le parole giuste per esprimere
il concetto che aveva in mente; ma se davvero l’idea era quella di creare un intero nuovo esacordo, con
tutte le mutazioni ad esso connesse, a partire dal RE o da qualsiasi altra nota, di questo passo il sistema
della solmisazione diventava subito inaccettabilmente complicato.
Per tutto il XIV secolo l’intera questione faticò a trovare una formulazione adeguata; la soluzione di
lasciar sottintese le modifiche armoniche in certi contesti chiaramente definiti, ad esempio nelle
cadenze, rimase la risposta più efficace almeno fino ai primi del Seicento. La pratica musicale ebbe
intanto tutto il tempo di ripensare l’intera questione e di elaborare una procedura inedita: si decise di
limitare il numero dei possibili esacordi ai tre canonici, quelli che la fittizia auctoritas guidoniana rendeva
proprio irrinunciabili, e di dare spazio al nuovo meccanismo della musica ficta.
XIV secolo: la musica ficta
Una volta che ho deciso di modificare l’intonazione di questo suono, come lo devo chiamare? Mi conviene
fare una nuova mutazione e cambiargli il nome oppure mi arrangio da solo a intonarlo facendo i calcoli?

La musica ficta è un principio astratto inerente alla notazione, vale a dire un principio che una volta
acquisito è rimasto pienamente valido e operante in forma definitiva; tanto è vero che lo è anche, senza
alcuna modifica, ai nostri giorni. Consiste semplicemente nel non fare nessuna mutazione sui suoni alterati,
vale a dire nell’usare ancora le sillabe guidoniane (più il futuro si) quando si indicano le note diesate che
la notazione lascia sottintese. In termini moderni, per indicare il suono posto fra il FA e il SOL il
cantore non inventa un nome nuovo: continua a chiamarlo fa anche se lo intona un semitono più in
alto. In questo modo egli realizza una musica, appunto, falsa: le note alterate ricevono la stessa sillaba
del corrispondente suono naturale, lasciando al cantore il compito di modificarne l’intonazione.
Lunghi secoli di esperienza hanno convinto i musicisti che lo sforzo mentale di applicare l’alterazione è
di gran lunga più leggero e agevole se viene affrontato in questo modo: a partire dal XIV secolo la
didattica medievale ha posto definitivamente un freno all’incontrollabile proliferazione di nuovi
esacordi, gettando davvero le basi per la moderna conquista dello spazio sonoro.

9Ars nova, cap. XIV p. 22: cantando per natura, se il Tenore ha un SI bisogna “dire MI sul FA”, cioè cantare un
FA diesis.
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Le ultime innovazioni: la mano guidoniana
Un altro metodo didattico elaborato a partire dal XII secolo fu quello della mano guidoniana. Si tratta
soltanto di un sistema pratico per contare i suoni sulle falangi delle dita: l’abitudine di contare sulle dita
gli elenchi da mandare a memoria (i mesi dell’anno, una serie di nomi) è ben diffusa nel medioevo,
perché gli allievi impiegavano moltissimo tempo per imparare a leggere. Può essere che il metodo per
contare i suoni avesse qualche antecedente ai tempi di Guido, anche se il sistema completo - con i nomi
ricavati dai tre esacordi - è certamente posteriore alla sua morte.

Tecniche didattiche rinascimentali


Nei corso del Rinascimento le opere didattiche, ma a volte anche le composizioni più impegnate,
faranno largo ricorso alle particolarità offerte dalla lettura degli esacordi; vi saranno giochi di parole
sulle sillabe guidoniane. Particolarmente notevoli saranno le imitazioni con inganno, in cui due melodie
diverse risulteranno somiglianti soltanto a patto di applicare le sillabe dell’esacordo.

Un metodo didattico ancora posteriore, e un poco più macchinoso nell’applicazione, fu quello che
distingueva tra mutazioni in riga oppure in spatio:
- le due chiavi si comportano in maniera opposta: quando una muta in riga l’altra muta in spatio
- quando si canta per bemolle le mutazioni si invertono rispetto a quando si canta per natura.

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La classificazione rinascimentale degli ambiti modali

Il nome del tono viene impiegato per dare il titolo a una Messa polifonica (Missa primi toni, ma anche
Missa Mi-mi…) quando il compositore non sta elaborando materiale musicale preesistente.

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La didattica a partire dal XVII secolo
Il sistema della solmisazione rimase in vigore fino alla fine del Rinascimento. I maestri di canto
continuarono tuttavia a insegnarlo per buona parte del XVIII secolo, soprattutto in Italia.
- La sostituzione dell’Ut con Do avvenne nella prima metà del XVII secolo, su suggerimento di Giovan
Battista Doni, per rendere più facile la pronuncia. La modifica fu accolta in Italia, ma non in Francia.
- L’aggiunta della sillaba SI, da “Sancte Johannes”, fu proposta per l’Italia da Ludovico Zacconi nel
1622, nel secondo volume della Prattica di musica.
Con la nota SI il problema dell’asimmetria dell’ottava fu risolto definitivamente alla radice: l’allievo
imparava a familiarizzarsi direttamente con un’ottava intera, comprendente sette diverse note più la
ripetizione del primo suono. L’ottava era composta da cinque toni e due semitoni, variamente
combinati fra loro a seconda del modo in cui si svolgeva la melodia.
Nei paesi germanici e anglosassoni la notazione letterale, di ascendenza medievale, è usata ancora oggi:
la nota SI può essere indicata
- con B per il Si bemolle
- con H (lettura errata della grafia minuscola semplificata ) per il Si naturale.

I segni moderni del e del derivano entrambi dalla grafia del Si naturale; fino all’inizio del
XVII secolo vengono impiegati senza distinzione, poi cominciano a differenziarsi.

XIX secolo
Le scuole dipendenti da istituzioni religiose mantennero la pratica della solmisazione fino a tutto
l’Ottocento: all’ombra del campanile di Busseto, anche il fanciullo Giuseppe Verdi imparò certamente a
conoscerla. Per tutto il corso del secolo non è raro trovare scritti in cui si protesta contro la barbarie
della solmisazione; al povero Guido, divenuto il simbolo di tutto un modo sorpassato di leggere la
musica, toccò il destino di essere additato come il responsabile di tutte le assurdità del “suo” sistema.
La polemica contro le scuole di canto religiose sfociò verso la fine del secolo nella nascita dei primi
“conservatori”; vi si adottava, in chiave polemica, una nuova pratica didattica fondata sul solfeggio.

XX secolo
Per consentire la lettura delle note anche al di fuori dei limiti vocali, all’esterno del pentagramma, viene
introdotto nelle scuole il “solfeggio parlato”. L’uso di questa pratica porta i didatti a scrivere esercizi
sempre più eccessivi, in cui la frammentazione ritmica finisce per avere ben poco in comune con la
musica reale; come reazione a questi abusi sono stati elaborati molti metodi didattici (Ward, Orff,
Kodaly, Suzuki) basati soprattutto sul canto.
In Italia il metodo Goitre ripropose il principio del DO mobile; per intonare i suoni alterati elaborò un
sistema di sillabe aggiuntive che operava in senso esattamente opposto al metodo della musica ficta.
di ri fi si li
DO RE MI FA SOL LA TI DO
ra ma sa lo ta
Questo sistema fu spesso descritto come una vera e propria ripresa del sistema di Guido; in realtà finiva
per richiamarsi soltanto ai principi della solmisazione del XII secolo, per di più proprio a quelli più
criticabili, senza rendersi conto dei loro evidenti svantaggi. Lo spostamento della tonica è applicabile
con una certa efficacia soltanto in composizioni estremamente semplici sotto il profilo tonale e in
presenza di alterazioni del tutto coloristiche, ma diventa rapidamente incompatibile con l’uso di
alterazioni fortemente cromatiche o strutturali; non riesce a rendere ragione delle ambiguità tonali
presenti già in alcune composizioni del periodo barocco e perde del tutto la sua utilità nei confronti del
repertorio classico e romantico.
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