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CANTO XXXIII INFERNO

In questo canto riemerge il topos delle due anime particolari che hanno una condizione diversa dalle
altre come Paolo e Francesca o Ulisse e Diomede. In questo caso infatti abbiamo due anime, il conte
Ugolino e l’arcivescovo Ruggieri, che hanno un supplemento di pena, oltre ad essere immersi nel
Cocito, uno (Ugolino) sovrasta l’altro (Ruggieri) e gli rosicchia la testa (ghiaccio + martirio), risultato
della crudeltà dell’arcivescovo che l’aveva indotto a morire per la fame.

SPAZIO: nono cerchio (seconda zona: Antenora e terza zona: Tolomea, chiamata così dal nome di
Tolomeo che assassinò a tradimento Pompeo rifugiatosi in Egitto dopo la sconfitta a Farsalo)

TEMPO: verso le 18 del sabato santo del 9 aprile 1300.

PECCATORI E PENA: traditori della patria (Antenora) che sono immersi nel ghiaccio fino al collo, col
viso rivolto verso l’alto e quindi più esposto al gelo; i traditori degli ospiti (Tolomea) sono immersi in
posizione supina con la faccia rivolta verso l’alto in modo che le lacrime congelino i loro occhi.

CONTRAPPASSO: per analogia, tutti i traditori hanno mostrato in vita un cuore duro e freddo, così
come fredda è stata la loro premeditazione, ed è per questo che sono condannati, a restare immersi
in un lago ghiacciato per l’eternità.

PERSONAGGI:

 Dante (auctor e agens)


 Virgilio
 Ugolino della Gherardesca: nacque da Guelfo, conte di Donoratico, in Toscana. La famiglia,
di parte ghibellina, era proprietaria di feudi n Sardegna. Nel 1275 si alleò col genero Giovanni
Visconti, che guidava a Pisa la parte guelfa. Accusato perciò di tradimento, fu bandito dalla
città, ma vi rientrò l'anno seguente diventando uno dei cittadini più autorevoli prestigiosi.
Dopo che la flotta pisana fu sconfitta dai genovesi nella battaglia della Meloria, presso
Livorno, nel 1284, ebbe pieni poteri a Pisa; fu allora che cedette alcuni castelli ai lucchesi e
altri ai fiorentini per allentare la loro pressione su Pisa. Il gesto fu interpretato però come
una sorta di tradimento. Il conte affidò il governo della città al nipote Nino Visconti tra i quali
iniziarono ad innestarsi problemi politici. Nel 1288 l'arcivescovo Ruggieri degli Ubaldini, a
capo della parte ghibellina, con l'aiuto di potenti famiglie, guidò il popolo pisano alla rivolta,
che in assenza di Ugolino portò alla cacciata del Visconti. Ugolino, rientrato a Pisa con un
inganno, fu imprigionato nella torre della Muda per nove mesi, e infine lasciato morire di
fame insieme a due figli e a due nipoti nel 1289 dopo aver richiesto un riscatto pagato ben 3
volte. Ci furono inoltre tracce di antropofagia (si ciba con le carni dei figli e dei nipoti)
 Ruggieri degli Ubaldini: era un arcivescovo di Pisa a capo della parte ghibellina, che fece
uccidere il conte Ugolino nella torre di Muda dopo averlo attirato con inganno a Pisa.
 Frate Alberigo: era un frate gaudente, capo dei guelfi di Faenza, che fece uccidere alcuni
ospiti dai servi alla fine di un banchetto.
 Branca Doria: generale ghibellino che invitò il suocero, Michele Zante (barattiere) e lo
uccise.

IL RACCONTO DEL CONTE UGOLINO, IL SOGNO PREMONITORE, L’AGONIA E LA MORTE: Dopo aver
visto il crudele scenario che è segno della degradazione umana che porta alla vendetta, all’odio
come è risultato, il conte Ugolino inizia a narrare la sua storia (tecnica dello scorcio e dell’ellissi)
anche se a malincuore (reminiscenza Virgiliana, Enea sollecita Didone a narrare le sue vicende).
Riconosciuto Dante dalla sua parlata, descrive gli ultimi giorni della sua vita nella torre di Muda dove
l’unico contatto con l’esterno era una finestrella dalla quale scandiva il passare dei mesi e dove fece
un terribile sogno premonitore (secondo i romani i sogni fatti all’alba annunciano il futuro). Il sogno,
attraverso una scena di caccia in cui essi rappresentano la preda ovvero il lupo ed i suoi lupacchiotti
inseguiti ed uccisi dalle cagne feroci delle famiglie dei Gualandi, dei Sismondi e dei Lanfranchi (che
hanno aiutato Ruggieri alla cacciata dei Visconti da Pisa), rivela a tutti loro la tragica fine a cui
andranno incontro a causa di Ruggieri. Il risveglio fu ancor più doloroso poiché il pianto dei bambini
che pativano la fame era la conferma della loro triste sorte. Dopo una breve pausa riinizia a narrare
affermando che quando si stava per avvicinare l’ora del cibo avevano chiuso la torre e quindi era
giunta la loro ora. Il conte cerca di dissimulare il dolore attraverso il mutismo ma è il suo sguardo a
parlare e le domande dei figli e dei nipoti tra cui Anselmuccio (figlio di Guelfo, fratello di Ugolino)
restano senza risposta fino a quando un raggio di sole tenue, segno della vita che rinasce, illumina i
volti caratterizzati dalla stessa espressione dolorosa. La disperazione di Ugolino rimane muta ma si
esprime anche con gesti (“ambo le mani per lor dolor mi morsi”) ma viene equivocata dai bambini
come gesto di fame e si offrono in pasto (allusione alla tradizione di antropofagia confermata dalle
cronache). Ugolino rimase in silenzio e dopo quattro giorni il quartogenito Gaddo di 30 anni morì e in
seguito tutti gli altri e dopo averli chiamati gridando sul dolore prevalse la fame (altra allusione
all’antropofagia che ha due interpretazioni: il dolore non ha fermato la fame e si è cibato dei figli e
dei nipoti o che è morto dalla fame e dal dolore). Dopo l’epilogo della vicenda tornò a scontare la
sua pena eterna addentando il suo vicino.

L’IINVETTIVA CONTRO PISA: Dante auctor non può trattenere lo sdegno contro un’intera città
colpevole di tale atrocità e definisce quindi Pisa con una perifrasi che ne mette in luce la vergogna
morale e dato che hanno calpestato i sentimenti profondi della natura si augura che sia proprio essa
a punirli facendoli morire affogati nell’Arno. Egli va contro soprattutto al gesto di uccidere anche i
figli ed i nipoti del conte in quanto sono innocenti e non devono pagare per i peccati commessi dal
loro parente.

L’INCONTRO CON FRATE ALBERIGO E L’APOSTROFE AI GENOVESI: Dopo un brusco trapasso


narrativo nella Tolomea, la zona riservata ai traditori degli ospiti che se ne stanno supini a testa in su,
uno dei dannati Uno dei dannati rivolge ai due pellegrini un appello affinché lo liberino dalle
incrostazioni ghiacciate e il suo dolore possa trovare un poco di sfogo. Dante-agens raccoglie l'invito
a patto che il richiedente riveli la propria identità. Il dannato non solo svela la propria identità, ma
fornisce anche dettagli sulle modalità con cui si esplica la divina giustizia in quel luogo. Egli è, infatti,
ancora in vita col corpo, che però è governato da un demonio, come accade a tutti i traditori degli
ospiti dal momento del loro tradimento in poi, quando la loro anima precipita giù nella Tolomea e il
corpo rimane su nel mondo fino alla morte. Alberigo cita anche il caso di un altro peccatore, Branca
Doria, un genovese da Dante creduto ancora vivente. Il poeta inoltre colloca tra gli abitanti di questa
zona di Cocito anche chi è ancora in vita, e ciò è una variante dell'espediente della profezia che
contrasta però con la dottrina cristiana, che consente il pentirsi anche all'estremo della vita e
l'ottenere il conseguente perdono divino. Nel frattempo Alberigo, si attende il gesto di cortesia e
rinnova l'appello. La durezza del poeta è però inconsueta. A un traditore di tal fatta si può rispondere
con un piccolo tradimento, o meglio un tranello verbale, tesogli da Dante ai versi 116-117 col
giuramento cosa che in realtà è destinata in ogni caso ad avverarsi (il poeta dovrà necessariamente
recarsi nel fondo dell'inferno). Chiude il canto un'altra apostrofe e un'altra invettiva contro i
genovesi, come quella di Pisa, anche se più breve, ma non meno violenta, e rientra nel naturale
sfogo di quello sdegno via via accumulato nel corso del canto.

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