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La Divina Commedia

IL POEMA L'AUTORE PERSONAGGI LUOGHI CRONOLOGIA FONTI FORUM

Inferno, Canto XXVII


"...perch'io sia giunto forse alquanto tardo,
non t'incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo! ..."

"...Ora chi se', ti priego che ne conte;


non esser duro più ch'altri sia stato,
se 'l nome tuo nel mondo tegna fronte"...

"...Oh me dolente! come mi riscossi


quando mi prese dicendomi: 'Forse
tu non pensavi ch'io loico fossi!' ..."

B. Di Fruosino, Guido da Montefeltro (1420 ca.)

Argomento del Canto

Ancora nell'VIII Bolgia dell'VIII Cerchio (Malebolge), in cui sono puniti consiglieri fraudolenti. Incontro con Guido da
Montefeltro, che racconta come è caduto nel peccato e accusa Bonifacio VIII.
È mezzogiorno di sabato 9 aprile (o 26 marzo) del 1300.

Incontro con Guido da Montefeltro (1-30)

La fiamma di Ulisse è ormai dritta e quieta, poiché il dannato ha smesso di parlare e si allontana con il permesso di Virgilio,
quando un'altra fiamma viene dietro di essa e fa voltare i due poeti emettendo un suono confuso. Come il bue che il tiranno
Falaride fece costruire a Perillo muggì per la prima volta martirizzando il suo costruttutore, com'era giusto, e muggiva poi
con la voce di chi vi veniva ucciso così da sembrare vivo anziché di rame, così la fiamma emette il suono della voce che
all'inizio non trova spazio per uscire. Alla fine la voce esce e la fiamma inizia a guizzare, per cui il dannato si rivolge a
Virgilio come colui che ha parlato in italiano ad Ulisse e lo prega di trattenersi un poco a parlare con lui che ne ha un forte
desiderio. Il dannato (Guido da Montefeltro) vuole sapere se la Romagna è in pace o in guerra, dal momento che lui è
originario della terra posta tra Urbino e il monte da cui sgorga il Tevere.

Situazione politica della Romagna (31-57)

Dante osserva chinandosi giù dal ponte che sovrasta la Bolgia, quando Virgilio lo tocca nel fianco e lo invita a rispondere al
dannato che parla la sua stessa lingua. Il poeta è pronto a rispondere e dice al dannato che la Romagna non è mai stata
senza guerre a causa dei tiranni che la dominano, ma in questo momento non se ne combatte apertamente nessuna.
Ravenna è nella stessa situazione da molti anni, sotto la signoria dei Da Polenta che domina il territorio fino a Cervia. Forlì,
che sostenne un lungo assedio e fece strage dei Francesi, è dominata dagli Ordelaffi. I Malatesta, che si sono impadroniti di
Rimini eliminando violentemente Montagna dei Parcitati, dilaniano gli avversari politici. Le città di Faenza e Imola sono
governate da Maghinardo Pagani, che cambia facilmente le sue alleanze. Cesena, che è bagnata dal fiume Savio, oscilla
continuamente tra libertà e soggezione alla tirannide. Alla fine del suo discorso Dante chiede al dannato di presentarsi e lo
prega di non esser restio più di quanto lo siano stati altri spiriti, se il suo nome conserva la fama nel mondo.

Il racconto di Guido: la sua vita sino alla conversione (58-84)

La fiamma emette altri mugolii come già ha fatto prima, poi scuote la punta e
il dannato inizia a parlare. Egli afferma che se credesse di rivolgersi a
qualcuno destinato a tornare sulla Terra non direbbe una parola, ma dal
momento che a quel che sa nessuno è mai uscito dall'Inferno, risponderà
senza temere infamia. Si presenta come Guido da Montefeltro, uomo d'armi
e poi francescano, fattosi frate credendo di espiare i suoi peccati: certo ci
sarebbe riuscito, non fosse stato per il papa (Bonifacio VIII) che lo indusse
nuovamente a peccare. Guido spiega che quand'era in vita le sue azioni
furono improntate all'astuzia e conobbe tutti i raggiri e gli inganni della
politica, acquistando fama in tutto il mondo. Una volta arrivato alla vecchiaia,
An. lomb., I consiglieri fraudolenti (1440 ca.)
Guido provò dispiacere per la vita condotta fino a quel momento e si pentì
dei suoi peccati, facendosi frate.

Il racconto di Guido: il consiglio fraudolento al papa (85-111)

Allora Bonifacio VIII, il principe dei nuovi Farisei, era in guerra contro i Colonna e
non contro Saraceni o Ebrei, poiché ogni suo nemico era cristiano e nessuno di
questi aveva assediato Acri o mercanteggiato coi musulmani; il papa, non
avendo alcun riguardo per il suo alto ufficio né per il cordone francescano di
Guido, lo chiamò a sé come Costantino fece chiamare Silvestro per guarire della
lebbra. Bonifacio gli aveva chiesto un consiglio e Guido aveva esitato a
darglielo, ma poi il papa lo aveva rassicurato dicendogli di assolverlo in anticipo
e pregandolo di dirgli come prendere la rocca di Palestrina. Il papa gli aveva
detto di possedere le due chiavi del potere papale, che il suo precedessore
(Celestino V) non ebbe care. Allora Guido fu indotto a parlare, spinto anche dal B. Genelli, Disputa per l'anima di Guido
timore di più gravi conseguenze, e consigliò a Bonifacio di promettere il perdono
ai suoi nemici senza poi mantenerlo.

Il racconto di Guido: la disputa per la sua anima (112-136)

Quando poi Guido morì, san Francesco venne a prendere la sua anima, ma un diavolo si oppose dicendo che doveva in
realtà andare all'Inferno per il consiglio fraudolento dato al papa e per il quale lo aveva seguito sino a quel momento: infatti
non si può assolvere chi non si pente della sua colpa, e pentirsi e voler peccare allo stesso momento è una contraddizione
in termini. Guido ricorda di essersi disperato quando il diavolo lo prese e lo irrise dicendogli che forse non pensava che lui
fosse filosofo. Il demone lo aveva portato a Minosse il quale si attorcigliò la coda attorno al corpo otto volte, destinandolo
alla Bolgia dei consiglieri fraudolenti e mordendosi la coda stessa per rabbia. Da allora Guido è dannato e si duole avvolto
dalla fiamma.
Al termine del suo racconto il dannato si allontana, agitando la punta aguzza. Dante e Virgilio passano oltre, percorrendo il
ponte fino alla Bolgia successiva dove sono puniti i seminatori di discordie.

La Divina Commedia in HD - …

Qui è possibile vedere un breve video


con il riassunto del Canto,
tratto dal canale YouTube
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Interpretazione complessiva

Protagonista del Canto è Guido da Montefeltro, personaggio molto noto al tempo di Dante e che costituisce l'esempio
moderno dopo quello antico rappresentato da Ulisse nel Canto precedente. È lui stesso a rivolgersi a Virgilio che ha udito
parlare in lombardo (ovvero in volgare italiano) mentre congendava Ulisse, in quanto ha desiderio di conoscere la
situazione politica della sua terra: Dante lo introduce con la preziosa similitudine del bue di Falaride, lo strumento di tortura
che emetteva un sinistro mugolio prodotto dai lamenti del malcapitato all'interno (la fiamma in cui è avvolto il dannato
emette un suono simile, sottolineando la sofferenza del peccatore che arde e, tuttavia, vuole parlare coi due visitatori).
Virgilio invita Dante a rispondere al dannato che è latino, italiano e non greco, per cui la struttura del Canto è speculare
rispetto a quello precedente e ripropone quanto si è già visto nel Canto XVIII.
Dante aveva espresso ammirazione e rispetto per Guido nel Convivio (IV, 28, 8), lodando il suo pentimento e la sua
monacazione negli anni della vecchiaia, cosa che sembra in contrasto con la sua collocazione tra le anime dannate: in
realtà accade altre volte che nel poema Dante corregga opinioni espresse nel trattato, e qui può aver influito l'aver appreso
dal cronista Riccobaldo da Ferrara l'episodio che aveva coinvolto Guido col papa Bonifacio VIII e che ne aveva causato la
dannazione. In ogni caso Dante crea un forte contrasto tra la vita di Guido sino al suo farsi francescano e le vicende
successive, ovvero tra l'uomo d'armi e il politico da un lato (astuto e dotato di ogni abilità militare) e l'uomo di Chiesa
dall'altro (ingenuo e pronto a farsi beffare dal papa cadendo nel peccato mortale). Tale contrasto emerge nella prima parte
del Canto, in cui Guido è ansioso di sapere se la Romagna sia in guerra: non è una richiesta generica, ma la volontà
precisa di sapere se la pace progettata nel 1297 tra i signori romagnoli e poi stipulata nel 1299, quando Guido era già
morto, sia poi stata rispettata (i dannati non possono sapere nulla del presente, come Farinata ha spiegato in Inf., X, 100-
108). La domanda di Guido è dunque legata al suo ruolo di politico e condottiero che tanto bene aveva svolto nella vita
precedente la conversione, per la quale l'ammirazione di Dante è immutata, e il poeta risponde illustrando la situazione
delle città romagnole soggette alle varie signorie e tirannidi, il che riflette la sua preoccupazione per una terra che a lungo lo
ospitò durante l'esilio e in cui di fatto morì.
Guido è poi invitato a manifestarsi e a spiegare chi sia, senza essere più restio di quanto lo siano stati altri prima di lui, e il
dannato acconsente basandosi sull'errata convinzione di parlare con un altro dannato, quindi con qualcuno che non può
tornare sulla Terra e causargli infamia col riferire il racconto della sua dannazione. La situazione è opposta a quella di Pier
della Vigna nel Canto XIII, in cui le parole di Dante avrebbero riabilitato la sua reputazione diffamata, e qui Dante inganna
indirettamente Guido proprio come Virgilio, forse, aveva ingannato Ulisse e Diomede spacciandosi per Omero. Guido ignora
infatti che Dante è vivo, essendo avvolto dalle fiamme che non gli permettono di vederlo, ma non comprende neppure il
privilegio eccezionale datogli dalla grazia divina di visitare anzitempo il mondo ultraterreno, ripresentando una situazione
analoga a quella già vista con Farinata, Cavalcante, Brunetto Latini. E infatti la prosopopea del dannato diventa un discorso
paradossale, in cui Guido crede di elogiarsi ma finisce col dimostrare quanto era stato ingenuo: le sue opere furono sì di
volpe durante la sua attività politica, ma poi si era illuso che indossare il cordone francescano bastasse ad assicurargli la
salvezza (Dante insinua il sospetto che il pentimento di Guido non fosse sincero ma dovuto, piuttosto, al tardivo desiderio di
fare ammenda, il che è dimostrato dal consiglio fraudolento dato a Bonifacio VIII smanioso di espugnare la rocca di
Palestrina). Guido dà tutta la colpa del suo peccato al papa corrotto, ma in realtà la responsabilità principale è sua: se il suo
pentimento fosse stato sincero Guido non avrebbe ceduto alle lusinghe del papa, né si sarebbe accontentato della sua
assicurazione di avere l'assoluzione prima ancora di commettere il peccato (non si può assolvere chi non si pente e non ci
si può pentire e voler peccare al tempo stesso, come il diavolo loico non mancherà di spiegare a Guido prima di condurlo
all'Inferno). In questo modo Dante rovescia in modo clamoroso e inatteso l'opinione corrente sul destino ultraterreno del
Montefeltro, che essendo morto in convento e in odore di santità tutti credevano salvo: analogamente a esempi futuri di
anime salve contro ogni previsione (come lo «scandalo» rappresentato da Manfredi di Svevia), Dante ristabilisce la verità
mostrandoci la condizione delle anime dopo la morte e sottolineando che nella partita della salvezza non contano gli atti
esteriori o la fama, ma solo il reale pentimento nel cuore dell'uomo che solamente Dio può conoscere nella sua verità.
Guido è dannato perché tale pentimento nel suo cuore non c'era, così come il figlio Bonconte sarà salvo (cfr. Purg., V, 85
ss.) per essersi invece pentito in punto di morte contrariamente a quanto il mondo pensava di lui. Il contrasto tra san
Francesco e il diavolo che si contendono l'anima di Guido anticipa quello analogo tra l'angelo e il diavolo che si contendono
quella di Bonconte, con un preciso parallelismo tra i due episodi che si rifà, tra l'altro, a un tema assai diffuso nella
letteratura religiosa del Due-Trecento.
Se Dante condanna dunque la condotta peccaminosa di Guido, altrettanto si può naturalmente dire per papa Bonifacio VIII,
il pontefice la cui dannazione tra i simoniaci è già stata predetta: egli è presentato qui come gran prete (l'epiteto è beffardo e
ironico), come il principe d'i novi Farisei, intento a far guerra ai cristiani anziché agli infedeli e indifferente al suo supremo
ufficio o all'abito di Guido; è talmente ansioso di sconfiggere i Colonna suoi nemici da promettere al francescano ciò che
non può dargli, ovvero l'assoluzione per qualcosa che non ha ancora fatto, colpendo con amara ironia il suo antecessor
Celestino V che non ebbe care le due chiavi del potere papale, quella dell'assoluzione e della condanna. Non a caso è
paragonato all'imperatore Costantino che chiamò a sé papa Silvestro I per guarire dalla lebbra, in quanto nel Medioevo si
riteneva che Costantino avesse fatto proprio a Silvestro la famosa donazione che gettò le basi del potere temporale dei
papi, che fu radice della corruzione della Chiesa di cui Bonifacio è per Dante insigne rappresentante (anche in XIX, 115-
117, Dante nella sua invettiva contro la Curia corrotta deplorava la dote consegnata da Costantino al primo ricco patre,
proprio nel Canto dei papi simoniaci in cui era profetizzata la dannazione di Bonifacio VIII).

Note e passi controversi

I vv. 7-12 fanno riferimento alla diceria per cui Falaride, tiranno di Agrigento, avesse fatto costruire all'artigiano Perillo un
bue di rame dentro al quale venivano posti i condannati a morte: sotto il bue veniva posta la fiamma e il malcapitato
all'interno urlava di dolore, producendo una specie di mugolio all'esterno che sembrava il muggito dell'animale. Falaride
avrebbe sperimentato l'invenzione sullo stesso Perillo (la fonte dantesca è prob. Ovidio, Tristia, III, 11, o forse Orosio, Adv.
pag., I, 20).
Guido dice a Virgilio che parlava lombardo, ovvero in volgare italiano: Dante pensava che gli antichi Romani non parlassero
latino, ma un volgare in parte simile a quello dei suoi tempi (cfr. DVE, I, 1; è sembrato strano che Virgilio si rivolga a un
personaggio greco come Ulisse in un volgare nostrano, che contrasta col linguaggio alto e solenne del Canto precedente,
mentra altri ipotizzano che il poeta latino ad Ulisse avesse addirittura parlato in greco). La parola istra vuol dire «adesso»
ed è voce lucchese e dell'Italia del nord; adizzo significa «aizzo», «stimolo».
Dolce terra latina (vv. 26-27) indica l'Italia; il giogo da cui nasce il Tevere è il Monte Coronaro.
I vv. 43-45 indicano che Forlì, la città che sostenne il lungo assedio (1281-83) da parte delle truppe guelfe inviate da Martino
IV e che fece strage delle truppe francesi giunte in aiuto agli assedianti, è ora sotto il dominio degli Ordelaffi (il cui simbolo
araldico era il leone verde rampante in campo dorato). Il fatto d'armi citato vide come protagonista proprio Guido, che
dimostrò nell'occasione straordinarie doti militari e strategiche.
Il mastin vecchio e 'l nuovo (v. 46) sono Malatesta il Vecchio e Malatestino, padre e figlio signori di Rimini (il secondo era
fratello di Paolo e Gianciotto, marito di Francesca); il v. 48 allude al fatto che essi dilaniavano i nemici usando i denti come
succhiello (succhio).
Il leone azzurro in campo bianco (v. 50) è il simbolo di Maghinardo Pagani, signore di Faenza e Imola che ebbe condotta
ambigua con Guelfi e Ghibellini.
Cordigliero (v. 67) è sinonimo di «francescano», dal cordone di cui erano cinti questi frati.
L'espressione del v. 78 è di ascendenza biblica (Salmi, XVIII, 4) ma ricalca anche le parole di papa Martino IV nel bandire la
crociata contro i Ghibellini di Forlì capeggiati da Guido.
Il v. 81 riecheggia le parole di Dante stesso su Guido nel Convivio (IV, 28, 8).
I vv. 89-90 indicano che i cristiani contro cui Bonifacio faceva guerra, ovvero i Colonna, non avevano assediato S. Giovanni
d'Acri insieme ai musulmani nel 1291, né avevano mercanteggiato in Terrasanta con gli islamici.
Il v. 93, riferito al cordone francescano che un tempo rendeva più magri gli appartenenti all'ordine, è maligna ironia sul fatto
che i francescani nel Trecento erano spesso preda della corruzione.
Il consiglio fraudolento dato da Guido al papa (vv. 110-111) ricalca le parole di Riccobaldo da Ferrara nella sua cronaca:
«promettete molto, mantenete poco delle promesse fatte». Bonficacio promise infatti il perdono papale ai suoi nemici, per
indurli a recarsi a Rieti e lasciare sguarnita la rocca di Palestrina, che poi fece radere al suolo.
La fiamma in cui sono avvolti questi dannati è definita da Minosse foco furo (v. 127), ovvero «ladro» in quanto sottrae le loro
anime alla vista e non permette loro di vedere nulla all'esterno.
Quei che scommettendo acquistan carco (v. 136) sono i seminatori di discordie, che dividendo gli altri si gravano di peccato.

Testo Parafrasi

Già era dritta in sù la fiamma e queta La fiamma (di Ulisse e Diomede) ormai era dritta e ferma,
per non dir più, e già da noi sen gia dato che non parlava più, e si allontanava da noi con il
con la licenza del dolce poeta, 3 permesso del dolce poeta (Virgilio),

quand’un’altra, che dietro a lei venia, quando ecco che un'altra, che veniva dietro di essa, ci
ne fece volger li occhi a la sua cima indusse a rivolgere lo sguardo alla sua punta per un suono
per un confuso suon che fuor n’uscia. 6 confuso che ne fuoriusciva.

Come ’l bue cicilian che mugghiò prima Come il bue siciliano, che muggì per la prima volta coi
col pianto di colui, e ciò fu dritto, lamenti di colui che l'aveva forgiato col suo lavoro (e
che l’avea temperato con sua lima, 9
questo fu giusto), muggiva con la voce del torturato, tanto
da sembrare trafitto dal dolore anche se era fatto di rame;
mugghiava con la voce de l’afflitto,
sì che, con tutto che fosse di rame,
pur el pareva dal dolor trafitto; 12

così, per non aver via né forame


così le parole misere si convertivano nel linguaggio del
dal principio nel foco, in suo linguaggio
fuoco, perché all'inizio non trovavano una strada per
si convertian le parole grame. 15
uscire.

Ma poscia ch’ebber colto lor viaggio


su per la punta, dandole quel guizzo
Ma dopo che ebbero trovato una via d'uscita attraverso la
che dato avea la lingua in lor passaggio, 18
punta, facendola muovere come la lingua al loro
udimmo dire: «O tu a cu’ io drizzo passaggio, sentimmo dire: «O tu a cui io rivolgo la voce, e
la voce e che parlavi mo lombardo, che poc'anzi parlavi italiano dicendo "Adesso va' pure, non
dicendo "Istra ten va, più non t’adizzo", 21 ti stimolo più",

perch’io sia giunto forse alquanto tardo,


non t’incresca restare a parlar meco;
vedi che non incresce a me, e ardo! 24
non dispiacerti di trattenerti a parlare con me solo perché
Se tu pur mo in questo mondo cieco sono arrivato un po' dopo; vedi che a me non dispiace, e
caduto se’ di quella dolce terra tuttavia brucio tra le fiamme!
latina ond’io mia colpa tutta reco, 27
Se tu sei finito in questo mondo oscuro da quella dolce
dimmi se Romagnuoli han pace o guerra; terra d'Italia dalla quale io reco tutta la mia colpa, dimmi se
ch’io fui d’i monti là intra Orbino i Romagnoli sono in pace o in guerra; infatti io fui dei monti
e ’l giogo di che Tever si diserra». 30 tra Urbino e la cima da cui nasce il Tevere (Monte
Coronaro)».
Io era in giuso ancora attento e chino,
quando il mio duca mi tentò di costa,
dicendo: «Parla tu; questi è latino». 33

E io, ch’avea già pronta la risposta, Io ero ancora attento e chinato giù dal ponte, quando la
sanza indugio a parlare incominciai: mia guida mi toccò il fianco e mi disse: «Parla tu, questo è
«O anima che se’ là giù nascosta, 36
italiano».

Romagna tua non è, e non fu mai,


sanza guerra ne’ cuor de’ suoi tiranni;
E io, che ero pronto a rispondere, iniziai a parlare senza
ma ’n palese nessuna or vi lasciai. 39
esitazioni: «O anima che sei nascosta dal fuoco laggiù,

Ravenna sta come stata è molt’anni:


l’aguglia da Polenta la si cova,
la tua Romagna non è (e non è mai stata) senza guerra nei
sì che Cervia ricuopre co’ suoi vanni. 42
cuori dei suoi tiranni; tuttavia non la lasciai impegnata in
nessun conflitto dichiarato.
La terra che fé già la lunga prova
e di Franceschi sanguinoso mucchio,
sotto le branche verdi si ritrova. 45 Ravenna è nella situazione in cui è da molti anni: l'aquila
dei Da Polenta la domina, così che copre anche Cervia con
E ’l mastin vecchio e ’l nuovo da Verrucchio, le sue ali.
che fecer di Montagna il mal governo,
là dove soglion fan d’i denti succhio. 48
La città (Forlì) che sostenne il lungo assedio e fece strage
Le città di Lamone e di Santerno delle truppe francesi, è dominata dal leone rampante verde
conduce il lioncel dal nido bianco, (dalla famiglia Ordelaffi).
che muta parte da la state al verno. 51
E il vecchio e il nuovo mastino (Malatesta e Malatestino) da
E quella cu’ il Savio bagna il fianco, Verrucchio, che fecero strage di Montagna dei Parcitati,
così com’ella sie’ tra ’l piano e ’l monte usano i denti come succhiello (dilaniano i nemici) là dove
tra tirannia si vive e stato franco. 54 sono soliti farlo.

Ora chi se’, ti priego che ne conte; Le città dei fiumi Lamone e Santerno (Faenza e Imola)
non esser duro più ch’altri sia stato, sono dominate dal leone in campo bianco (Maghinardo
se ’l nome tuo nel mondo tegna fronte». 57 Pagani), che muta alleanze dall'estate all'inverno.

Poscia che ’l foco alquanto ebbe rugghiato E la città il cui fianco è bagnato dal Savio (Cesena), così
al modo suo, l’aguta punta mosse
come sta tra la pianura e il monte, vive tra tirannide e stato
di qua, di là, e poi diè cotal fiato: 60
libero.

«S’i’ credesse che mia risposta fosse


a persona che mai tornasse al mondo,
Ora ti prego di dirci chi sei; non essere più restio degli altri,
questa fiamma staria sanza più scosse; 63
se il tuo nome nel mondo conserva fama».

ma però che già mai di questo fondo


non tornò vivo alcun, s’i’ odo il vero,
Dopo che il fuoco ebbe ruggito per un po' alla sua maniera,
sanza tema d’infamia ti rispondo. 66
la punta aguzza si agitò da una parte e dall'altra, poi
Io fui uom d’arme, e poi fui cordigliero, pronunciò tali parole:
credendomi, sì cinto, fare ammenda;
e certo il creder mio venìa intero, 69 «Se io credessi di rispondere a qualcuno che possa tornare
sulla Terra, questa fiamma resterebbe quieta (non parlerei);
se non fosse il gran prete, a cui mal prenda!,
che mi rimise ne le prime colpe;
e come e quare, voglio che m’intenda. 72 ma poiché dal fondo dell'Inferno non è mai uscito vivo
nessuno, se sento dire il vero, ti rispondo senza temere di
Mentre ch’io forma fui d’ossa e di polpe essere infamato.
che la madre mi diè, l’opere mie
non furon leonine, ma di volpe. 75
Io fui uomo d'armi, e poi divenni francescano, credendo di
Li accorgimenti e le coperte vie fare ammenda dei miei peccati cingendo il cordone; e certo
io seppi tutte, e sì menai lor arte, quanto credevo si sarebbe avverato,
ch’al fine de la terra il suono uscie. 78
non fosse stato per il papa (Bonifacio VIII), che Dio lo
Quando mi vidi giunto in quella parte maledica!, il quale mi indusse nuovamente a peccare; e
di mia etade ove ciascun dovrebbe voglio che tu senta come e perché ciò avvenne.
calar le vele e raccoglier le sarte, 81
Fin tanto che io fui in carne ed ossa, col corpo datomi da
ciò che pria mi piacea, allor m’increbbe, mia madre, le mie opere non furono improntate alla
e pentuto e confesso mi rendei;
violenza ma all'astuzia.
ahi miser lasso! e giovato sarebbe. 84

Io conobbi tutti i trucchi e le vie nascoste, ed esercitai la


Lo principe d’i novi Farisei,
loro arte in modo tale che la mia fama raggiunse i confini
avendo guerra presso a Laterano,
del mondo.
e non con Saracin né con Giudei, 87

ché ciascun suo nimico era cristiano,


Quando mi vidi giunto a quella fase della mia vita (la
e nessun era stato a vincer Acri
vecchiaia) in cui ognuno dovrebbe ammainare le vele e
né mercatante in terra di Soldano; 90
raccogliere le sartie (pentirsi dei suoi peccati), ciò che
né sommo officio né ordini sacri prima mi piaceva mi dispiacque e mi feci frate, dopo
guardò in sé, né in me quel capestro essermi pentito e confessato; ah, povero me! Certo ciò mi
che solea fare i suoi cinti più macri. 93 avrebbe giovato.

Ma come Costantin chiese Silvestro


d’entro Siratti a guerir de la lebbre;
così mi chiese questi per maestro 96 Il principe dei nuovi Farisei (Bonifacio), mentre combatteva
una guerra vicino al Laterano (contro i Colonna), e non
a guerir de la sua superba febbre: contro Saraceni o Giudei, poiché ogni suo nemico era
domandommi consiglio, e io tacetti cristiano, e nessuno di questi aveva assediato Acri o aveva
perché le sue parole parver ebbre. 99 mercanteggiato nella terra del Soldano;

E’ poi ridisse: "Tuo cuor non sospetti;


finor t’assolvo, e tu m’insegna fare
sì come Penestrino in terra getti. 102 non ebbe riguardo né per il suo supremo ufficio, né per gli
ordini sacerdotali, né per quel cordone francescano che era
Lo ciel poss’io serrare e diserrare, solito rendere magri quelli che lo indossano.
come tu sai; però son due le chiavi
che ’l mio antecessor non ebbe care". 105 Al contrario, come Costantino chiamò a sé papa Silvestro
dal suo rifugio sul monte Soratte per guarire dalla lebbra,
Allor mi pinser li argomenti gravi
così lui chiamò me per guarire dalla sua terribile febbre: mi
là ’ve ’l tacer mi fu avviso ’l peggio,
chiese un consiglio e io tacqui perché le sue mi
e dissi: "Padre, da che tu mi lavi 108
sembravano le parole di un pazzo.

di quel peccato ov’io mo cader deggio,


lunga promessa con l’attender corto
ti farà triunfar ne l’alto seggio". 111

Egli mi disse: "Il tuo cuore non abbia timore: io ti assolvo fin
Francesco venne poi com’io fu’ morto,
d'ora, purché tu mi mostri come devo fare per abbattere la
per me; ma un d’i neri cherubini
rocca di Palestrina.
li disse: "Non portar: non mi far torto. 114

Venir se ne dee giù tra ’ miei meschini Io posso chiudere e aprire il cielo (condannare e
perché diede ’l consiglio frodolente, assolvere), come ben sai; infatti due sono le chiavi che il
dal quale in qua stato li sono a’ crini; 117 mio predecessore (Celestino V) non ebbe care".

ch’assolver non si può chi non si pente, Allora gli argomenti autorevoli mi convinsero, specie
né pentere e volere insieme puossi pensando che il tacere mi avrebbe procurato gravi
per la contradizion che nol consente". 120 conseguenze, e dissi: "Padre, dal momento che tu mi
assolvi da quel peccato nel quale debbo ricadere,
Oh me dolente! come mi riscossi promettere molto e mantenere poco ti farà trionfare nel
quando mi prese dicendomi: "Forse trono pontificio".
tu non pensavi ch’io loico fossi!". 123

A Minòs mi portò; e quelli attorse


otto volte la coda al dosso duro; Non appena morii, poi, san Francesco venne a prendere la
e poi che per gran rabbia la si morse, 126 mia anima; ma un diavolo gli disse: "Non portarla via: non
farmi torto.
disse: "Questi è d’i rei del foco furo";
per ch’io là dove vedi son perduto,
e sì vestito, andando, mi rancuro». 129 Egli deve venire giù tra i miei dannati, perché diede il
consiglio fraudolento per il quale, da allora a oggi, gli sono
Quand’elli ebbe ’l suo dir così compiuto,
stato alle costole.
la fiamma dolorando si partio,
torcendo e dibattendo ’l corno aguto. 132

Infatti non può essere assolto chi non si pente, e non è


Noi passamm’oltre, e io e ’l duca mio,
possibile pentirsi e voler peccare al tempo stesso, perché è
su per lo scoglio infino in su l’altr’arco
una contraddizione in termini".
che cuopre ’l fosso in che si paga il fio

Ah, povero me! come mi scossi quando mi prese,


a quei che scommettendo acquistan carco. 136
dicendomi: "Forse tu non pensavi che io fossi filosofo!"

Mi portò davanti a Minosse; e quello attorcigliò la coda otto


volte attorno alla schiena dura; e dopo essersela morsa per
la gran rabbia, disse: "Questo deve andare tra i peccatori
del fuoco che li sottrae alla vista"; ed ecco perché sono
perduto qui dove mi vedi, e avvolto così dalle fiamme mi
dolgo camminando».

Quando il dannato ebbe finito di parlare, la fiamma si


allontanò dolorante, torcendo e sbattendo la punta aguzza.

Noi (io e la mia guida) andammo oltre, su per il ponte fino


al successivo che sovrasta la Bolgia in cui sono puniti quelli
che, seminando discordie, si gravano di peccato.

Guida ai Canti dell'Inferno


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