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FISIOLOGIA

BILANCIO IDROSALINO
CAPITOLO 20 – pagina 503
L’acqua rappresenta il principale costituente dell’organismo. Senza di essa, le cellule eccitabili non
funzionerebbero. Nel soggetto adulto l’acqua corporea totale (ACT) è compresa tra il 45 e il 75% del peso
corporeo in funzione del contenuto di t.adiposo dell’organismo (ne contiene solo il 10% del suo peso al
contrario del 75% degli altri tessuti).

20.1 COMPARTIMENTI IDRICI


L’acqua corporea è distribuita in due compartimenti fondamentali,
separati dalle membrane cellulari: liquido intracellulare (LIC) e liquido
extracellulare (LEC). In tutti i soggetti la distribuzione dell’acqua
corporea non è omogenea: i 2/3 dell’ACT rappresentano il LIC e 1/3 il
LEC. Il LEC è suddiviso a sua volta in due compartimenti: plasma (1/4)
e liquido interstiziale (3/4), separati dall’endotelio capillare. Nel LEC è
compresa inoltre la quota di acqua dei tessuti di sostegno (10% PC).
Un’ulteriore quota di LEC è costituita dal compartimento
transcellulare (liquido cerebrospinale, intraoculare, sinoviale, dei
tubuli renali, l’urina e il sudore).
L’acqua, spostandosi da un compartimento all’altro secondo
gradiente osmotico, determina il comportamento delle cellule
eccitabili.

20.2 COMPOSIZIONE DEI LIQUIDI CORPOREI


L’acqua corporea è il solvente dei soluti dei liquidi corporei. La maggior parte dei soluti è costituita da sali
presenti nell’acqua corporea in forma dissociata, ovvero come
ioni, soluti con carica elettrica. Inoltre sono presenti soluti privi di
carica (glucosio e urea sono i principali). La composizione
dell’acqua intra- ed extracellulare è diversa in quanto la
distribuzione dei soluti è determinata dalle caratteristiche della
membrana cellulare (permeabilità all’acqua, impermeabilità ai
grossi soluti anionici e presenza di meccanismi di trasporto, N+/K+-
ATPasi).

20.2.2 COMPOSIZIONE IN ELETTROLITI


In ogni compartimento liquido il n° di cationi è sempre uguale al
n° di anioni: si ha neutralità elettrica. Per cui modificazioni nel n°
di cationi implica necessariamente modificazioni del n° di anioni e
viceversa.
Nel LEC, plasma e liquido interstiziale hanno composizione simile:
il catione principale è il sodio, per gli anioni prevalgono cloro e
bicarbonato. Nel plasma una quota di equivalenti negativi è data
dalle proteine, che essendo intrappolate all’interno, poiché
incapaci di oltrepassare l’endotelio capillare, determineranno
durante l’esercizio fisico la quantità di acqua che si sposterà (in
particolare l’albumina, la quale ha un ruolo fondamentale negli spostamenti dei liquidi).
Nel LIC invece abbiamo ad elevate concentrazioni il potassio (catione) e fosfati organici e proteine (anioni).
L’impermeabilità della membrana alle proteine e ai fosfati organici, influenza in modo significativo la
distribuzione degli ioni diffusibili ai lati della membrana.

20.2.3 COMPOSIZIONE IN OSMOLI: L’OSMOLALITÀ DEI LIQUIDI


CORPOREI
L’osmolalità è la concentrazione delle particelle presenti in
soluzione, indipendentemente dalle loro dimensioni, dalla loro
eventuale carica e dal numero di cariche complessive. In ogni
compartimento i valori di osmolalità è la somma del numero di
particelle cui danno origine i soluti tipici di quel compartimento.
Poiché gli ioni sono i principali soluti di tutti i i liquidi corporei, essi
rappresentano la frazione maggiore del numero totale di milliosmoli
in tutti i compartimenti. Nel LEC prevale lo ione sodio, al contrario
nel LIC lo ione potassio.
Il contributo all’osmolalità totale di altri soluti è complessivamente
piccolo in entrambi i compartimenti.
Essendo isoosmotici, tra i compartimenti non vi è un netto
spostamento di acqua.
In realtà plasma e liquido interstiziale non sono realmente
isoosmotici a causa delle proteine presenti nel plasma. Questa
differenza ha un ruolo fondamentale negli scambi tra i due compartimenti a livello dei capillari.

20.3.1 SCAMBI TRA LIQUIDO


EXTRACELLULARE E LIQUIDO INTRCELLULARE Acqua Liquido
Plasma LIC
Per quanto riguarda gli scambi tra LIC e LEC, plasmatica interstiziale
(mosm/l) (mosm/l)
che avvengono principalmente per gradiente di (mosm/l) (mosm/l)
concentrazione e gradiente elettrico, quando Glucosio 5,2 5,6 5,6 /
l’osmolalità di un compartimento si modifica, si Urea 3,7 4 4 4
verificano scambi tra i compartimenti, con Proteine 1,2 1,3 0,2 4
redistribuzione dell’acqua corporea fino al raggiungimento di un nuovo equilibrio.

20.3.2 SCAMBI TRA PLASMA E LIQUIDO INTERSTIZIALE


La distribuzione dell’acqua extracellulare tra compartimento plasmatico e liquido interstiziale è
determinata dalle forze di Starling (forza idrostatica e oncotica) che agiscono a livello dei capillari. Il bilancio
delle pressioni idrostatiche e colloidosmotiche/oncotica
(pressione dovuta alle proteine presenti nel plasma) tra capillari
e interstizio è alla base del movimento di fluido attraverso le
pareti dei capillari. In condizioni fisiologiche il flusso in uscita dai
capillari nella porzione arteriosa (filtrazione) è praticamente
identico al flusso in entrata nei capillari della porzione venosa
(riassorbimento). La quota di fluido non riassorbita torna in
circolo tramite il sistema linfatico.
La pressione idrostatica è la forza esercitata da un fluido sulla
superficie con cui è a contatto. Essa è direttamente
proporzionale alla densità del fluido (gas o liquido) e all’altezza
del punto considerato.
20.4 BILANCIO IDROSALINO
Tra l’organismo e l’ambiente vi è un continuo scambio di liquidi. Il netto tra i liquidi in uscita e il volume di
quelli in entrata si chiama bilancio idrosalino.
20.4.1 BILANCIO DELL’ACQUA
L’acqua è assunta tramite la dieta, con l’ingestione sia di bevande sia di cibi. Una fonte aggiuntiva di acqua
in entrata è rappresentata dall’acqua formatasi nei processi ossidativi dei nutrienti introdotti. Mediamente
l’assunzione totale ammonta a 2500ml/die. Se l’acqua persa è di pari entità, il bilancio è nullo e quindi non
varia il contenuto di acqua dell’organismo. Una quota è persa costantemente tramite gli apparati
gastrointestinale e polmonare e la cute (perspiratio insensibilis). La quota rimanente è rappresentata
dall’urina, la quale è variabile al fine di mantenere il bilancio nullo.
In conseguenza dell’esposizione in un ambiente caldo o durante esercizio sono presenti importanti
variazioni nella perdita di acqua a carico di sudore e respirazione.

20.4.2 BILANCIO DEL SODIO


Il sodio è introdotto nell’organismo come cloruro di sodio (circa 10-12g -> 5-6g Na) in quantità maggiori
rispetto al fabbisogno minimo dell’organismo (1g/die). Le perdite di sodio avvengono tramite l’apparato
gastroenterico, la cute e i reni. Come per l’acqua il sito di regolazione del bilancio del sodio è il rene.
Alterazioni del bilancio idrosalino e scambi tra compartimenti nell’esercizio muscolare intenso
Lo svolgimento di attività fisica, soprattutto in ambiente caldo, comporta perdita di acqua e Sali tramite la
sudorazione. Essendo il sudore un liquido ipoosmotico, la perdita di acqua dell’organismo è sempre
maggiore della perdita di Sali. In queste condizioni, infatti, la risposta del rene, consistente in una ridotta
escrezione di acqua, può rivelarsi insufficiente ad assicurare l’equilibrio idrico. Se l’assunzione non aumenta
di pari passo si ha come conseguenza una riduzione del volume dei liquidi corporei e della quantità di sodio
nell’organismo, associata ad aumento della concentrazione dei soluti osmoticamente attivi (osmolalità).

Perspiratio insensibilis
Perdita
Cute Polmoni Sudore Feci Urine
totale
Temperatura normale 350 350 100 200 1500 2500
Ambiente caldo 350 250 1400 200 1200 3400
Esercizio pesante
350 650 5000 200 500 6700
prolungato
NEUROFISIOLOGIA GENERALE
CAPITOLO 1 - PAGINA 3
La neurofisiologia generale è quella parte della fisiologia che studia i fenomeni elettrochimici alla base del
funzionamento del sistema nervoso.

1.1 BIOFISICA DELLE MEMBRANE ECCITABILI


Una cellula si definisce eccitabile quando risponde a un determinato stimolo con una variazione di stato e
una volta terminato lo stimolo torna alla sua condizione di riposo. Ogni cellula è circondata dalla membrana
plasmatica, che separa il citoplasma dall’ambiente extracellulare, per mantenerne differenti le
composizioni. La membrana è quindi detta selettivamente permeabile. I suoi principali costituenti sono
proteine e lipidi.
Lo “scheletro” è formato dai fosfolipidi, molecole anfipatiche le cui code
non entrano in contatto con l’acqua. La fluidità e la rigidità della
membrana sono regolate principalmente da quantità considerevoli di
colesterolo.
La
classe delle proteine di membrana è
rappresentata da numerose molecole
con funzioni molto diverse tra loro.
Nella membrana plasmatica è infatti
possibile identificare enzimi, recettori
e antigeni che interagiscono con altre
cellule o sostanze del liquido
extracellulare. Sulla superficie
troviamo le p. estrinseche. Se esse si
trovano immerse nel doppio strato
lipidico sono dette p. intrinseche.
Mentre se si affacciano sia nello spazio
intra- che extracellulare vengono
chiamate p. intrinseche
transmembrana. Le ultime, vengono
anche chiamate proteine canale per la
loro capacità di far passare specie
ioniche, conferendo alla membrana la caratteristica della selettività. Infatti vi saranno specifiche p.canale
per i vari elettroliti, le quali, in base al nostro stato, di riposo o attività, saranno chiuse o aperte. La
disposizione delle proteine nel doppio strato lipidico rende la membrana paragonabile a un mosaico fluido,
non statico, in cui esse si posizionano nel punto in cui è richiesta la loro funzione.
Le p. intrinseche transmembrana hanno anche altre funzioni:
 Trasportatori di sostanze attraverso meccanismi attivi/passivi.
 Strutturali, poiché in grado di legarsi a filamenti proteici (ligandi) modificando la rigidità di quella
porzione di membrana.
 Recettori, poiché funzionano come “antenne” che, legando molecole specifiche a cui sono
altamente affini (1° messaggero) “sentono” un messaggio chimico che arriva alla cellula. Una volta
attivate, modificano la loro conformazione e interagiscono con altre molecole proteiche che
trasferiscono il messaggio sul lato interno della cellula (trasduzione del segnale chimico).
 Enzimi, poiché in seguito a stimolazione si attivano andando a catalizzare determinate reazioni.
1.1.1 MECCANISMI DI TRASPORTO DA E VERSO LA CELLULA
Le membrane biologiche sono barriere di permeabilità che impediscono, a gran parte delle molecole
presenti nei sistemi viventi solubili in acqua, di diffondere. Alcune molecole idrosolubili, però,
attraversano il doppio strato, come avviene per alcuni fattori di importanza vitale per la cellula
(sostanze nutritive, rifiuti, secreti). Ogni organello cellulare e ogni compartimento sono delimitati da
membrane la cui composizione chimica è peculiare e ne rispecchia la funzione. Le membrane, quindi,
separano i vari compartimenti e “scelgono” le modalità e le tempistiche del passaggio di molecole e
ioni.
Trasporto senza attraversamento della membrana
Consiste nel passaggio di sostanze da un lato all’altro della membrana per mezzo di vescicole.
 Endocitosi: meccanismo attraverso il quale la cellula ingloba del materiale presente all’esterno
per portarlo al suo interno (sostanze costituite da materiale particolato  fagocitosi; molecole
solubili  pinocitosi).
 Esocitosi: meccanismo che permette la fuoriuscita di sostanze
dalla cellula (tipico di c. ghiandolari e c. presinaptiche)
1. il ligando si lega al recettore.
2. Arrivo di sostanze proteiche che arcuano la membrana verso
l’interno.
3. Creazione della vescicola.
4. Distacco della vescicola (perde affinità con le sost. Proteiche)
5. Formazione di due vescicole di cui:
6. La vescicola contenente il ligando va verso l’apparato di Golgi.
7. La vescicola contenente le molecole di recettore torna sulla
membrana, disponibile per legarsi ad un altro ligando.
Questa è una modalità relativamente lenta e quindi poco utilizzata
dalle cellule eccitabili.
Trasporto con attraversamento della membrana
Questo trasporto può avvenire tramite diversi meccanismi, secondo la specie chimica e la sorgente di
energia usata per attuare il trasferimento.
Considerando lo stato fisico-chimico delle molecole abbiamo:
 Trasporti in forma libera: la sostanza passa attraverso la membrana senza l’intervento di molecole
trasportatrici.
 Trasporti mediati: il passaggio avviene tramite molecole trasportatrici, il n° e la densità delle quali
sono i fattori limitanti il processo.
Considerando invece il tipo di energia che permette il trasporto abbiamo:
 Trasporti passivi in cui non vi è consumo di energia e senza l’intervento di molecole trasportatrici
(diffusione libera), oppure con il loro intervento (diffusione facilitata). In questi casi la forza motrice
che permette il trasferimento risiede nel gradiente chimico (o elettrochimico nel caso di specie
ioniche) della molecola che si sta spostando.
 Trasporti attivi in cui vi è consumo di energia derivata dall’idrolisi di legami chimici. (trasporti
primari se consumo di energia è direttamente coinvolto nel trasporto; secondari se vi è un consumo
indiretto di energia).

Gradienti passivi
Il concetto di gradiente è alla base del movimento di molecole tra due compartimenti separati da una
membrana semipermeabile. È una grandezza vettoriale definibile sulla base di tre caratteristiche fisiche:
intensità, direzione e verso. Si definisce come gradiente la forza (intensità) che tende a muovere una
molecola dal comparto a maggior concentrazione verso quello a minor concentrazione con una direzione
perpendicolare alla membrana e un verso indicante il comparto a minor valenza. Sono responsabili degli
spostamenti passivi di svariate sostanze in tutto l’organismo. I gradienti più noti coinvolgono variazioni di
pressione, cariche elettriche e/o di concentrazione. Questi ultimi attivano inoltre processi di osmosi
(passaggio di solventi) e di diffusione (passaggio di soluti).
Trasporto mediato (o facilitato)
Avviene se il trasferimento di una sostanza da un lato all’altro della membrana richiede o utilizza carrier.
Esso è dotato di alcune caratteristiche:
 Velocità – a parità di caratteristiche chimico-fisiche, le sostanze trasportate con questo
meccanismo avranno una velocità maggiore.
 Saturazione – la velocità di trasporto aumenta mano a mano che aumenta la sua concentrazione
finché, con il raggiungimento di un determinato valore, l’incremento diventa nullo e la velocità
invariata.
 Specificità chimica – ogni carrier trasporta molecole con una determinata struttura chimica
 Inibizione da molecole non simili – un composto dissimile si può legare al trasportatore riducendone
l’affinità per il normale substrato.
È un meccanismo che non consente il trasporto contro gradiente di concentrazione.

Trasporto attivo
Meccanismo che agisce contro gradiente di concentrazione e/o elettrochimico, per la cui attuazione è
necessario un consumo diretto di ATP (è quindi legato al metabolismo energetico cellulare). La sua
esistenza dipende dalla presenza di: substrati proteici di trasporto; cambio conformazionale delle proteine
trasportatrici a causa di processi regolativi di fosfo-defosforilazione dipendenti dall’idrolisi dell’ATP. Se l’ATP
fornisce direttamente energia al trasportatore, il meccanismo viene chiamato trasporto attivo primario.
Esempio.
In seguito a uno stimolo che ha causato un rimescolamento
elettrolitico tra i compartimenti intra- ed extracellulari interviene
la pompa Na+/K+-ATPasi (p. integrale che per ogni molecola di
ATP idrolizzata trasporta 3Na+ fuori dalla cellula e 2K+ dentro,
tutto contro gradiente) per ristabilire le condizioni precedenti lo
stimolo in cui il compartimento intraC è più negativo rispetto al
compartimento extraC a causa delle molecole proteiche con
carica negativa che sono intrappolate all’interno.
Se non viene utilizzata direttamente una fonte di energia il meccanismo viene chiamato trasporto attivo
secondario.
Esempio.
Il gradiente di concentrazione creato dalla
pompa Na+/K+-ATPasi ([Na+] extraC > [Na+]
intraC, per cui il Na+ è attratto all’interno) viene
utilizzato per trasportare altri soluti (es.
simporto Na+/glucosio) all’interno della cellula.
1.2 CANALI IONICI
Le correnti ioniche attraversano la membrana plasmatica per mezzo di p.canale. Esse sono strutture che
presentano peculiari caratteristiche chimico-fisiche, precisi meccanismi di regolazione e particolari gradi di
selettività. Ad eccezione di quelle che determinano il potenziale di riposo, esse possono fluttuare tra uno
stato di apertura e uno di chiusura. Quando vengono attivate, il flusso di correnti ioniche tra interno ed
esterno della cellula aumenta. Il flusso di corrente di un determinato ione attraverso il canale dipende dalla
forza motrice a cui esso è sottoposto. La forza motrice è determinata dalla combinazione di forze
elettrochimiche, tra le quali sono comprese il gradiente di concentrazione ionica ai due lati della
membrana, la differenza di potenziale di membrana (cioè la distribuzione delle cariche ai due lati della
membrana) e il potenziale di equilibrio dello ione considerato. Gli ioni fluiscono attraverso i canali aperti in
modo assolutamente passivo; la direzione del flusso non è data dal canale ma dal gradiente elettrochimico
dello ione esistente ai lati della membrana. La conduttanza (reciproco della resistenza) di un canale dipende
dalla sua permeabilità a un determinato ione che può essere considerata come una proprietà intrinseca e
dipende dalla sequenza e disposizione degli aminoacidi all’interno del lume. Un altro fattore che influisce
sulla permeabilità del canale è legato alla presenza di ioni in grado di attraversarlo. La natura e le
dimensioni dello ione, insieme con il suo gradiente elettrochimico, determinano l’entità e la velocità di
flusso attraverso il canale.

1.2.1 CLASSIFICAZIONE E STRUTTURA MOLECOLARE


La classificazione può essere fatta seguendo diversi criteri. In
funzione delle modalità operative possono essere distinti in:
 Canali ionici passivi (sempre aperti, hanno la funzione di
mantenere uguali i flussi di corrente) e voltaggio-dipendenti (VD, si
aprono solo se il voltaggio transmembrana raggiunge un
determinato valore. Ogni cellula eccitabile ha il suo potenziale
d’apertura). A questo gruppo appartengono i canali legati al
mantenimento del potenziale di riposo e quelli operanti in seguito
all’instaurarsi di variazioni del potenziale di membrana (potenziali
locali e d’azione). Tipicamente i canali VD sono quelli per il Na+, Ca2+,
K+, la cui apertura è determinata da variazioni del potenziale di
membrana (quindi di voltaggio). Questi canali posseggono forti
analogie strutturali. I canali VD si aprono in risposta alla
depolarizzazione di membrana, lasciando passare i rispettivi ioni
(presentano filtri di selettività) durante la fase di salita del potenziale
d’azione. La presenza di cancelli di inattivazione nella struttura fa sì che spontaneamente essi
cessino di condurre.
 Canali ionici ligando-operati. Sono canali il cui stato di apertura è
regolato da un segnale chimico. A
questo gruppo appartengono sia i
canali attivati dalle proteine di
trasduzione sia i canali-recettore.
In questo secondo tipo di canale è
possibile osservare due diverse
funzioni: riconoscimento del
ligando specifico e conseguente
apertura di un varco nella membrana attraverso cui passano
gli ioni.
 Canali ionici delle gap-junction (o giunzioni comunicanti).
Sono canali presenti a livello di tessuti in cui la comunicazione
cellula-cellula deve essere sincrona e particolarmente veloce. Sono tutte costituite da due strutture
emicilindriche, di cui una appartiene alla cellula presinaptica, l’altra a quella postsinaptica. Queste
strutture interagiscono tra di loro formando un canale che pone in comunicazione il citoplasma
delle due cellule contigue. L’emicanale viene definito connessone e risulta formato da sei strutture
proteiche ripetute, definite connessine. Si ritiene che per l’apertura o la chiusura del canale sia
necessario che tutte le sei subunità di ogni connessone ruotino (in modo analogo al diaframma di
una macchina fotografica) consentendo in tal modo l’accesso al canale. Questi canali sono dotati di
un filtro di selettività in base alle dimensioni delle molecole permeanti, infatti sono in grado di
regolare il verso del flusso delle molecole e possono a loro volta essere regolati da svariati
meccanismi.
In generale l’apertura o la chiusura di un canale può essere controllato da stimoli diversi
(fosforilazione/defosforilazione; pressioni meccaniche; stiramento della membrana; riarrangiamento delle
cariche sulla membrana plasmatica; lo ione veicolato, il quale può fungere da elemento inattivante per lo
stesso (inattivazione omologa) che per altri tipi (inattivazione eterologa); attivazione di vie biochimiche).
La selettività dei canali ionici, nella maggior parte dei casi, è data dalla presenza nel canale di una
“strettoia” che funge da filtro molecolare, definito anche filtro di selettività. Questo filtro è composto da
residui amminoacidici che interagisco con gli ioni all’interno della strettoia andando a sostituirsi all’acqua di
solvatazione (nuvola di acqua attirata dall’interazione delle cariche con il dipolo permanente), favorendo il
processo.

1.3 POTENZIALI DI MEMBRANA (o transmembrana)


La funzionalità dei sistemi cellulari è determinata dall’esistenza di una differenza di potenziale tra i due
versanti della membrana citoplasmatica (interno più elettronegativo). La presenza di un potenziale di
membrana (potenziale a riposo) e, soprattutto, la possibilità di modificarlo in risposta a precisi eventi
costituiscono per la cellula uno strumento di trasmissione dei segnali intercellulari. Le variazioni transitorie
del potenziale di membrana rispetto al suo normale valore sono la conseguenza del flusso di correnti totali
che entrano ed escono dalla cellula. Il flusso di corrente è sotto il controllo dei canali ionici. I canali ionici
passivi (sempre aperti) sono scarsamente controllati da fattori estrinseci e rivestono un ruolo fondamentale
nella determinazione del potenziale di riposo della membrana. I canali attivi invece, modificando il loro
stato di apertura e chiusura, sono elementi determinanti l’insorgenza di un potenziale d’azione.

1.3.1 EQUILIBRIO IONICO


Essendo il potenziale un valore non misurabile in termini assoluti, per convenzione si assume pari a 0 il
valore di potenziale all’esterno della cellula, per cui il potenziale di membrana (Vm) sarà: Vm=Vi-Ve dove Vi è
il potenziale all’interno e Ve quello esterno. Ogni situazione che porta alla diminuzione della differenza di
potenziale ai lati della membrana, prende il nome di depolarizzazione, mentre si chiamerà
iperpolarizzazione la situazione inversa.

1.3.2 POTENZIALE DI RIPOSO


Il potenziale di riposo della maggioranza delle cellule eccitabili presenti nel nostro organismo è soprattutto
dovuto alla presenza, nella membrana plasmatica, di canali ionici passivi per gli ioni K+ (il quale, spinto dal
gradiente di concentrazione, tenderà a migrare verso il comparto extraC, dove risulta meno concentrato). Il
flusso continuo di ioni K+ determinerà un eccesso di cationi all’esterno della cellula e un eccesso di anioni
all’interno. La fuoriuscita di K+ è un processo che tende a limitarsi per l’attrazione elettrostatica verso
l’interno generata dal suo movimento. Quindi il gradiente di concentrazione lo sospinge all’esterno mentre
quello elettrico (dal quale origina una differenza di potenziale) all’interno. Man mano che aumenta la
diffusione del potassio aumenterà anche la differenza di potenziale, fin quando non sarà in grado di
controbilanciare l’intensità del gradiente chimico, il quale via via sarà divenuto più debole essendosi
affievolito il differenziale tra le due concentrazioni. Il valore di potenziale a livello del quale si instaura
questa condizione prende il nome di potenziale di equilibrio ionico (calcolabile tramite l’equazione di
Nernst). In condizioni di riposo però, è stato dimostrato che in alcuni tipi cellulari è presente una
permeabilità anche per altri ioni, seppur molto inferiore rispetto a quella del potassio (condizione definita
quantitativamente dall’equilibrio di Gibbs-Donnan, per il quale, se due comparti, separati da una
membrana semipermeabile, contengono cariche di segno opposto, il prodotto delle cariche del primo
comparto dovrà essere uguale al prodotto delle cariche del secondo).

1.3.3 POTENZIALE D’AZIONE


A differenza del potenziale di riposo, che presenta un
valore fisso e imperturbabile nel tempo, il potenziale
d’azione è costituito da una variazione rapida del
potenziale di membrana, con ritorno veloce al valore
precedente. La sua forma e la sua durata dipendono dal
tipo di tessuto eccitabile. Normalmente i potenziali
d’azione sono molto veloci nei neuroni (circa 2ms) e nel
muscolo scheletrico (circa 5ms), risultando invece più lenti
(circa 200ms) e con una forma caratteristica (plateau) nel
muscolo striato cardiaco. Attraverso i potenziali d’azione
le cellule nervose inviano segnali ad altre cellule nervose o
muscolare, in cui innescano la contrazione. Nella maggior
parte dei neuroni, portando il potenziale a un valore pari a -55mV, denominato potenziale soglia
(potenziale che permette l’attivazione dei canali VD, i quali cambiando conformazione si aprono), si
instaura il potAZ, il quale è una risposta così ampia che determina un’inversione di polarità (interno +
positivo), che si propaga senza decremento lungo tutta la fibra. Contrariamente alle risposte locali,
l’ampiezza e la forma del potAZ rimangono costanti anche se si continua a stimolare a maggior intensità e/o
con un tempo di applicazione più lungo. Quindi non vi è gradualità di risposta: uno stimolo o è capace di
provocare l’intera manifestazione (soprasoglia) oppure non lo è (sottosoglia). Per questa ragione il
potenziale d’azione si definisce un fenomeno “tutto o nulla”. Una volta che la membrana ha raggiunto il
valore soglia, inizia una fase di rapida depolarizzazione che supera il limite dello zero (overshoot),
consentendo all’apice del potAZ di raggiungere un valore positivo intorno a +35mV. Abbastanza
rapidamente (dipende dal tipo cellulare) il potenziale di membrana ritorna poi verso i valori di riposo. Alla
fine della depolarizzazione si osserva anche una fase detta di iperpolarizzazione postuma, che persiste per
alcuni millisecondi.

1.3.3.1 BASI IONICHE


Durante il potAZ si hanno variazioni precise delle conduttanze (g) di alcune specie ioniche. In particolare si
ha un aumento sequenziale delle conduttanze (apertura di più canali che ne consentono il passaggio, sia in
entrata che in uscita) del sodio (gNa) e al potassio (gk), conseguente alla variazione dello stato funzionale
(apertura) di canali VD selettivi per queste due specie ioniche.
La gNa aumenta rapidamente durante la prima fase di
depolarizzazione (ascesa del potenziale di membrana),
raggiungendo un valore massimo appena dopo l’apice del
potAZ. L’aumento della gk, pur essendo contemporaneo
all’aumento della gNa, ha un andamento più lento,
raggiungendo il massimo della sua efficacia durante la fase di
ripolarizzazione, quando la conduttanza della membrana al
sodio è ormai tornata ai valori precedenti. Durante la
depolarizzazione, l’apertura massiccia dei canali del sodio VD
permette ai due gradienti, chimico ed elettrico, di determinare
il rapido ingresso di ioni Na+ all’interno della cellula, causando uno spostamento del potenziale di
membrana da valori vicini al potenziale di equilibrio del K+ (-70mV) verso valori più prossimi al potenziale di
equilibrio di Na+ (+55mV). In realtà non si raggiunge questo valore e il picco del potAZ si ferma a +35mV,
perché, contemporaneamente, aumenta anche la gk. A questo punto i canali del sodio si inattivano, mentre
i canali del potassio raggiungono e mantengono il massimo stato di apertura. Questo stato di inversione del
potenziale e il mantenimento dello stato aperto dei cosiddetti canali di rettifica per il K+ permettono ad
ambedue i gradienti di cooperare alla fuoriuscita del K e quindi a un ritorno del potenziale su valori prossimi
al potenziale di riposo. La gk continua a rimanere piuttosto elevata, per cui il potenziale di membrana
diventa più negativo del normale valore di riposo (iperpolarizzazione postuma). Questa condizione di
iperpolarizzazione è conseguenza del fatto che, durante questa fase, alla permeabilità dei canali passivi
(responsabili del potenziale di riposo) si somma anche quella dei canali VD attivati (di rettifica -> pompa
Na+/k+). Inoltre essi non sono gli unici canali che entrano in gioco nel potAZ. Sono stati identificati in alcuni
tipi cellulari anche canali per il Ca VD che si aprono in risposta a una depolarizzazione di membrana. A causa
dell’elevata concentrazione extraC di questo ione, esso fluirà all’interno della cellula contribuendo alla fase
di salita del potAZ.
Quando la cellula si trova in condizioni di riposo, i cancelli di attivazione dei canali VD per il sodio sono
chiusi e il Na non entra. Allo stesso tempo i cancelli di inattivazione sono aperti. Nel momento in cui arriva
lo stimolo (soprasoglia), si ha l’apertura dei cancelli di attivazione nei canali presenti nella zona dello
stimolo. Il Na entra provocando depolarizzazione nelle zone contigue, per la quale si apriranno altri cancelli
di attivazione amplificando il segnale. Finché la cellula resta depolarizzata restano aperti anche i cancelli di
attivazione. Per bloccare questo circuito entrano in azione i cancelli di inattivazione i quali, presentando
una cinetica più lenta si chiuderanno praticamente un istante dopo l’apertura dei cancelli di attivazione,
diminuendo la permeabilità di membrana al sodio. Durante la fase di ripolarizzazione si chiudono i cancelli
di attivazione. Ciò permette la conduzione del segnale elettrico in direzione unica lungo l’assone.
Un’implicazione diretta dell’inattivazione dei canali del sodio consiste nel fenomeno della refrattarietà: una
volta che un potAZ è stato avviato, un secondo potAZ non potrà partire
immediatamente, qualunque sia l’intensità dello stimolo applicato.
Questo periodo di tempo è detto periodo refrattario assoluto ed è
compreso normalmente all’interno della fase di depolarizzazione del
potAZ. Esiste poi un periodo di refrattarietà relativa che si colloca
temporalmente durante la fase di ripolarizzazione e anche nei periodi
successivi. In questa fase è possibile far partire un nuovo potAZ, ma per
generarlo è necessario uno stimolo più intenso. Quindi la capacità di una
membrana di eccitarsi non è sempre uguale. In seguito a uno stimolo
deve passare un determinato lasso di tempo (equivale al periodo
impiegato per tornare alle condizioni di riposo) per far sì che la
membrana torni nella condizione di massima eccitabilità. Quando una
cellula nervosa o muscolare è depolarizzata lentamente, il potenziale
soglia può essere superato senza che compaia il potAZ. Questo fenomeno è definito accomodazione. Ciò
deriva dal fatto che probabilmente il numero di canali Na+ disponibili all’apertura sia insufficiente a
generare il potAZ.
I presupposti necessari all’innesco di un potAZ sono quindi il raggiungimento di un determinato valore di
potenziale di membrana e la presenza su di essa di canali VD per gli ioni (nelle membrane questi canali non
sono presenti su tutta la superficie bensì solo in determinati punti).
1.4 CONDUZIONE DEI POTENZIALI DI MEMBRANA
Le cellule nervose, grazie alla struttura e all’alto grado di specializzazione delle membrane, sono in grado di
comunicare tra loro o con cellule di tessuti diversi attraverso la conduzione di soli messaggi elettrici
(impulso o potAZ) lungo la stessa cellula o per mezzo di sinapsi elettriche e/o chimiche tramite un
linguaggio basato sulla combinazione di segnali chimici ed elettrici.

1.4.1 PROPAGAZIONE DEL POTENZIALE ELETTROTONICO


La propagazione del segnale elettrico in una stessa cellula o tra cellule diverse è un processo che si sviluppa
rapidamente. La velocità di conduzione dipende sia dalle proprietà fisiche del segnale elettrico sia da quelle
legate alle caratteristiche fisiche della fibra nervosa
(lunghezza e diametro, presenza e densità di particolari
canali e pompe ioniche, eventuale presenza di mielina). Il
potenziale di membrana si propaga o sotto forma di
potenziale locale graduato (conduzione con decremento di
ampiezza man mano che si allontana dal punto in cui si
sprigiona) o sotto forma di potAZ (conduzione senza
decremento). La presenza di un fenomeno rispetto all’altro
è dettata dalla composizione della membrana nella
regione di propagazione (presenza/assenza canali VD). I
potenziali graduati si instaurano in seguito a variazioni
sottosoglia (o soprasoglia purché non siano presenti canali VD) del potenziale di membrana dovute al
passaggio diretto di cariche o all’arrivo di un neurotrasmettitore. La proprietà di questi potenziali di poter
assumere ampiezza diversa secondo l’entità dello stimolo li qualifica da un lato come “sensori” cellulari di
un evento esterno, dall’altro consente alla cellula di integrare tali stimoli se pervengono in tempi o punti
distinti ma vicini della membrana (sommazione temporale e spaziale). Sul soma di un neurone, infatti, si
instaurano più o meno contemporaneamente diversi potenziali locali post-S e la cellula deve essere in
grado di determinare una variazione di corrente risultante che porterà poi, se di entità sufficiente
(soprasoglia), alla genesi del potAZ (inizio della risposta cellulare) in aree che presentano un’alta densità di
canali ionici VD (cono di emergenza dell’assone). L’integrazione dei vari segnali elettrici “in ingresso” non è
una vera somma algebrica delle ampiezze degli stessi. Ciò è dovuto al fatto che i potenziali locali diffondono
elettrotonicamente lungo la membrana e il citoplasma cellulare, incontrando differenti resistenze e
capacitanze. La propagazione degli eventi graduati è influenzata dalla composizione della membrana
(densità e distribuzione dei canali) e dalle caratteristiche del citoplasma (determinano il decremento del
segnale in funzione della distanza dal punto d’insorgenza). La combinazione di questi valori determina la
velocità di propagazione e l’entità del decremento del potenziale elettrotonico. La corrente depolarizzante
si propaga con circuiti locali ad anello che depolarizzano le zone adiacenti della membrana.

1.4.2 PROPAGAZIONE DEL POTENZIALE D’AZIONE


Se il circuito locale ha un’intensità sufficiente nel momento in cui arriva in
zone della membrana dove sono presenti canali VD si avrà l’insorgenza di un
potAZ. I potAZ sono condotti lungo tutta la fibra nervosa per trasferire
informazioni ad altre cellule. La propagazione del potAZ lungo tutta la fibra è
possibile solo grazie alla generazione di nuovi potAZ che si innescano
autonomamente nelle zone contigue a quelle in cui è stato raggiunto il
potenziale soglia. Questo fa sì che il potAZ si possa propagare mantenendo la
stessa ampiezza e forma. La direzione di propagazione è sempre una: quella
che tende ad allontanarsi dal punto di insorgenza del potAZ e sarà
unidirezionale, perché le membrane che si sono precedentemente
depolarizzate contengono canali in stato di refrattarietà e quindi solo le successive potranno depolarizzarsi.
Alcune fibre nervose sono rivestite di una guaina detta mielina
(prodotta da cellule di Schwann, nel SNP e dagli oligodendrociti,
nel SNC). Le interruzioni di mielina lungo l’assone sono detti nodi
di Ranvier. La guaina determina un aumento della velocità di
conduzione del segnale poiché aumenta la resistenza della
membrana. Lungo le fibre mieliniche il potAZ si genera solo nei
nodi di Ranvier, zone a bassa resistenza in cui vi è un’adeguata
densità di canali del sodio VD. Ciò determina l’instaurarsi di una
depolarizzazione soprasoglia. All’interno delle zone mielinizzate
non possiamo avere potAZ poiché non vi è contatto con
l’interstizio e non sono presenti canali VD, per cui vi sarà un potenziale locale con decremento. I potAZ si
propagano quindi saltando da un nodo all’altro (conduzione saltatoria) progredendo più velocemente nelle
fibre mieliniche, a differenza di quelle amieliniche dove la propagazione si sviluppa generando correnti
ioniche ad anelli sequenziali in ogni tratto della membrana. La propagazione del potAZ lungo un assone
avviene a velocità costante. Nelle fibre amieliniche questa è proporzionale al diametro dell’assone, e
questo più è grosso e maggiore sarà la velocità di propagazione. Nei neuroni mielinici la velocità di
propagazione è direttamente proporzionale, oltre che dal diametro dell’assone anche dalla distanza tra i
nodi di Ranvier.

1.5 CLASSIFICAZIONE DELLE FIBRE NERVOSE E TRASMISSIONE SINAPTICA


Pirenoforo o soma: corpo cellulare contenente nucleo e organelli.
Assone o cilindrasse: struttura tubulare che si prolunga fino alla cellula bersaglio. La zona terminale prende
il nome di bottone sinaptico (ricco di mitocondri).
Dendriti: ricca arborizzazione deputata a ricevere segnali.
Gli assoni possono avere lunghezza variabile ed hanno il compito di condurre gli impulsi lontano dal soma.
Possono essere mielinici o amielinici. Più assoni si riuniscono a formare un nervo.
Dal punto di vista strutturale i neuroni possono essere classificati in base al numero di prolungamenti che
fuoriescono dal pirenoforo:
 Multipolari: possiedono vari
dendriti e un assone;
 Bipolari: hanno un dendrite e
un assone;
 Unipolari: possiedono un unico
prolungamento che si divide in
un ramo centrale, che funziona
da assone e un ramo periferico,
che funziona da dendrite.
In base alla funzione possono essere
classificati come:
 Afferenti: trasportano le
informazioni provenienti dalle
diverse parti del corpo verso i
centri integratori superiori;
 Efferenti: trasmettono gli impulsi provenienti dal SNC agli organi periferici.
Il trasporto assonale (capacità di assicurare il trasporto da e per il soma di sostanze collegate alla capacità
funzionale del neurone) è reso possibile da una rete di binari specializzati: microtubuli e microfilamenti.
Esso si avvale inoltre di proteine trasportatrici, di cui le principali sono chinesina (trasporto verso il bottone
sinaptico: anterogrado) e dineina (trasporto verso il soma: retrogrado), ancorate lungo i binari
microtubulari.
1.5.1 CLASSIFICAZIONE DELLE FIBRE NERVOSE
diametro velocità
Fibre Denominazione Vi sono diverse classificazioni delle fibre nervose
(micron) (m/s)
secondo la loro posizione anatomica (nel SNC o SNP),
Mieliniche
la loro funzione (sensitive/motorie), il
Grandi I Aα 13-20 80-120
neurotrasmettitore secreto, il verso in cui portano
medie II Aβ 6-12 35-80
l’informazione (afferenti/efferenti) ed in funzione
Piccole III Aδ 1-5 5-30
della loro capacità di conduzione del segnale elettrico
B <3 <50 (mieliniche/amieliniche). Una più accurata
Amieliniche IV C 0,2-1,5 0,5-2 classificazione, basata sulla velocità di conduzione del
segnale elettrico, prevede la suddivisione delle fibre nervose in tre gruppi: A, B e C.

1.5.2 TRASMISSIONE SINAPTICA


I neuroni sono in grado di comunicare tra loro e con i loro effettori (cellule muscolari e ghiandolari)
attraverso il rilascio di particolari sostanze chimiche chiamate neurotrasmettitori. Il termine “sinapsi” indica
la connessione tra due neuroni, tra un neurone e la fibra neuromuscolare (sinapsi neuromuscolare) o tra un
neurone e una cellula endocrina.

1.5.2.1 SINAPSI ELETTRICA


Nella sinapsi elettrica la natura fisica dell’informazione consiste nel trasferimento diretto della corrente
elettrica per mezzo di ioni che attraversano le membrane di due cellule contigue unite da canali proteici
specializzati, non selettivi, e a bassissima resistenza, definiti giunzioni comunicanti o gap junction. Nella
giunzione comunicante la corrente scorre da un neurone all’altro, come in continuità citoplasmatica, senza
ritardo sinaptico, e il segnale può decorrere sia in direzione unica (sinapsi elettrice rettificata) sia
bidirezionalmente.

1.5.2.2 SINAPSI CHIMICHE E LORO CLASSIFICAZIONE


La sinapsi chimica si caratterizza per l’utilizzo di neurotrasmettitori
come vettori per il trasferimento dell’informazione tra un neurone e
un’altra cellula eccitabile. La sinapsi consiste di 3 parti principali:
 Membrana presinaptica: membrana terminale dell’assone
presinaptico, a ridosso della giunzione;
 Fessura sinaptica: spazio giunzionale di 16-30nm, altamente
specializzato situato tra le 2 cellule;
 Membrana postsinaptica: membrana cellulare, giustapposta
alla precedente.
Le modalità morfologiche attraverso le quali si forma il collegamento
(sempre di contiguità, mai di continuità) tra le porzioni pre- e postS
di una sinapsi chimica permette la classificazione delle stesse in:
 Sinapsi ad apposizione piatta: la membrana preS si
interfaccia con una superficie postS senza invaginazioni;
 Sinapsi ad apposizione indentata: la membrana postS presenta dentellature/frastagliature;
o Giunzione apicale, quando la superficie postS è ripiegata dentro quella preS come un pugno
infilato in un palloncino gonfio;
o Giunzione laterale, quando due terminazioni preS si interfacciano sui due lati della
membrana postS.
Le sinapsi possono essere differenziate anche in base alla componente postS, nel caso in cui la
sinapsi avvenga tra due cellule nervose, che può essere
rappresentata da un altro assone (asso-assonica), dal corpo
cellulare (asso-somatica) o da un dendrite (asso-dendritica, se
presenta dei processi -> asso-spinosa). La terminazione preS è
sempre costituita da un assone.
Infine anche la forma delle vescicole contenenti il
neurotrasmettitore può essere utilizzata come elemento
distintivo in una sinapsi. È possibile, così, distinguere le sinapsi
di tipo I di Gray, caratterizzate da una densità di proteine
distribuite asimmetricamente tra le membrane pre- e postS e
vescicole sferiche contenenti un neurotrasmettitore
generalmente associato a una trasmissione di tipo eccitatorio (in grado di provocare una
depolarizzazione). L’altro tipo di sinapsi – tipo II di Gray – è identificato da vescicole ovoidali
contenenti un neurotrasmettitore, che in genere media un’azione inibitoria (capace di rendere più
negativo il potenziale intraC o di alzare il potenziale di soglia), e da una densità di proteine
distribuite simmetricamente tra le membrane pre- e postS.

1.5.2.3 MECCANISMO D’AZIONE DELLE SINAPSI


Il neurone preS riceve un segnale depolarizzante che
raggiunge la soglia a livello del cono di emergenza; si forma
così il potAZ che percorre l’assone arrivando fino al bottone
sinaptico. La presenza, in quest’area, di una notevole
quantità di canali VD per il Ca2+ permette al potAZ di
provocarne l’apertura, determinando un aumento della
[Ca2+]i che attraverso un meccanismo complesso, innesca la
fusione delle membrane vescicolari con quella preS delle
zone attive e la conseguente esocitosi di neurotrasmettitore da parte
delle vescicole nello spazio interS. Il tempo che trascorre tra
l’insorgenza del potAZ e l’esocitosi del neurotrasmettitore è definito
ritardo sinaptico, ed è dato dalla diffusione di Ca2+ verso le zone attive.
Nel dettaglio:
 L’arrivo del potAZ al bottone sinaptico causa la
depolarizzazione della terminazione preS, con apertura dei
canali VD per il calcio, il suo conseguente ingresso e la
successiva fosforilazione di alcune proteine del citoscheletro;
 Come conseguenza di questi fenomeni si ha la fusione delle
vescicole con la porzione di membrana delle zone attive.
Questa fusione porta alla costituzione di uno stretto poro che
rapidamente si espande, con conseguente esocitosi del
neurotrasmettitore nello spazio interS;
 La maggior parte del neurotrasmettitore diffonde fino ad
incontrare i recettori posti sulla membrana postS;
 Il mediatore chimico, legandosi ai recettori presenti sulla
membrana postS, provoca variazioni della conduttanza di uno
o più ioni.
Le variazioni intracellulari di Ca2+ giocano un
ruolo fondamentale nel determinare
l’attivazione del sistema, poiché una volta
entrato (grazie ai gradienti) esso si dispone sulla
superficie interna della membrana preS creando
uno strato di cariche positive con il risultato di
trainare le vescicole verso le zone attive e
favorirne la fusione e lo svuotamento. Lo
svuotamento delle vescicole può avvenire a
velocità differenti in relazione alla [Ca2+]i. La
liberazione è lenta (>20ms) se la [Ca2+]i è bassa,
veloce (<1ms) se la [Ca2+]i è alta. Se la liberazione del mediatore chimico è lenta avremo la genesi una
piccola depolarizzazione, il potenziale in miniatura. Se la liberazione è veloce le vescicole svuotate sono
richiuse e trasportate in modo retrogrado lontano dalle zone attive, per permettere la fusione di altre
vescicole: meccanismo Kiss and run. La più piccola quantità di neurotrasmettitore rilasciato dallo
svuotamento di un certo numero di vescicole è definita quanto.
1.5.2.4 GESTIONE DELL’INFORMAZIONE A LIVELLO POSTSINAPTICO
L’attivazione dei recettori postS non genera un potAZ. Le depolarizzazioni o
iperpolarizzazioni che si instaurano sono condotte elettrotonicamente lungo
tutto il neurone postS fino al cono d’emergenza, dove la soglia di eccitabilità
è più bassa e può insorgere il potAZ. Un unico potenziale preS (o una scarica a
bassa frequenza) non è in grado di portare al valore di soglia il potenziale di
membrana del cono d’emergenza. Perché ciò avvenga, è necessario che la
frequenza di scarico preS sia elevata (sommazione temporale, in cui la
distanza tra due stimoli successivi è determinante per la risposta a causa dei
periodi di refrattarietà) e/o che più terminazioni siano attivate
contemporaneamente (sommazione spaziale). La variazione di potenziale
locale postS prende il nome di potenziale postS eccitatorio, se è
depolarizzante (EPSP, aumento della permeabilità di membrana per il Na+) e
di potenziale postS inibitorio, nel caso in cui sia iperpolarizzante (IPSP, flusso aumentato di ioni K+). In fase
di sommazione spaziale (due o più input separati che arrivano simultaneamente alla cellula postS) i
potenziali postS si possono sommare: se sono tutti eccitatori provocheranno una depolarizzazione
maggiore rispetto a quella che si otterrebbe con un singolo input; se gli input provocano in parte EPSP e in
parte IPSP, il risultato finale dipenderà dalla valenza relativa che ciascuno di essi esprime (una cellula postS
può essere stimolata da più cellule preS; una cellula preS può stimolare contemporaneamente più cellule
postS). Due potenziali graduati sottosoglia, se sono abbastanza vicini nel tempo al momento in cui
raggiungono il cono di emergenza, possono sommarsi a formare un potenziale in grado di superare la
soglia e quindi scatenare un potAZ. La risposta di un neurone postS alla stimolazione da parte di uno stesso
neurone preS è piuttosto costante, con alcune eccezioni: se la cellula preS è stimolata ripetutamente con
frequenza elevata, la risposta può variare sia in base alla frequenza sia in base alla durata della
stimolazione. Una stimolazione preS a elevata frequenza può determinare una risposta che aumenta
progressivamente, dando luogo al fenomeno della facilitazione (10-100ms). Se la cellula preS è stimolata
tetanicamente (treno di stimoli a elevata frequenza) per vari secondi, l’incremento di risposta sarà più
prolungato, dando luogo al potenziamento post-tetanico (10’-1/2h). Il fenomeno dell’incremento si pone
tra la facilitazione e il potenziamento post-tetanico (10’’). Questi fenomeni dipendono dalla stimolazione
preS a cui il neurone risponde senza modificare la propria sensibilità al mediatore chimico. La stimolazione
ripetuta di una sinapsi può dare una risposta meno ampia, a causa del fenomeno della fatica sinaptica (a
livello preS a causa di una momentanea depauperazione di neurotrasmettitore).
1.6 RECETTORI
Qualunque variazione di energia, se di adeguata intensità, proveniente dall’ambiente circostante la cellula,
(sia esterno all’organismo sia interno) è captata da strutture e/o cellule specializzate (recettori) e
trasformata in una variazione di potenziale locale (trasduzione) che, se le condizioni lo permettono può
generare una scarica di potAZ. Gli impulsi così formati percorrono le fibre afferenti per giungere ad essere
elaborati nei centri deputati del SNC.

1.6.1 CLASSIFICAZIONE
Classificazione in base alla localizzazione
Basandosi sulla posizione che il sistema di ricezione occupa nell’organismo e analizzando l’origine dello
stimolo che può attivarlo, i recettori possono essere divisi in due grandi categorie:
 Esterocettori: ricevono informazioni provenienti dall’ambiente esterno.
 Interocettori: ricevono informazioni provenienti da perturbazioni interne.
Classificazioni in base alla forma di energia
Se si tiene conto della forma di energia verso la quale i recettori mostrano una soglia più bassa:
 Chemiocettori: percepiscono variazioni chimiche. Sono in grado di dare informazioni precise sulle
caratteristiche organolettiche dell’ambiente esterno oppure sullo stato chimico-fisico di quello
interno.
 Meccanocettori: distinguono variazioni di energia meccanica.
 Termocettori: suddivisi in frigo- e calorecettori, captano le variazioni termiche sia dell’ambiente
interno che esterno.
 Nocicettori: captano variazioni di sostanze chimiche rilasciate da cellule lesionate.
Comunque sia, la struttura responsabile del riconoscimento della sensazione non è il recettore, bensì la
fibra nervosa connessa al recettore in questione. La localizzazione dello stimolo è una proprietà peculiare
del SNC.

Classificazione in base alle caratteristiche anatomo-funzionali


Si suddividono in due tipologie:
 Terminazioni nervose libere delle fibre afferenti (porzione terminale non mielinizzata di un neurone
sensitivo);
 Cellule specializzate in contatto sinaptico con la fibra afferente.
In alcuni casi le terminazioni nervose sono rivestite da strutture connettivali: recettore del I tipo. Le cellule
recettoriali specializzate che contraggono sinapsi con una fibra afferente sensitiva si definiscono recettori
del II tipo. Le cellule collegate alla fibra afferente tramite un interneurone si definiscono recettori del III
tipo. La differenza principale tra i recettori del I, II, e III tipo sta nella modalità di trasmissione del segnale
attraverso il potAZ.
Un neurone sensoriale primario (il neurone
responsabile del riconoscimento della
sensazione) controlla una data regione, la quale
costituisce il suo “campo recettivo”, cioè l’area
in cui uno stimolo di una data intensità è in
grado di eccitare la fibra afferente producendo
la sensazione specifica.
Classificazione in base al grado di adattamento
 Tonici: danno una scarica di impulsi a frequenza costante per tutta la durata dello stimolo, con
eventuale leggera diminuzione. Sono a lento adattamento. (organi di Ruffini);
 Fasici: a rapido adattamento, la cui scarica inizia in seguito allo stimolo e diminuisce subito dopo, se
lo stimolo è costante. (corpuscoli di Pacini).
L’adattamento si instaura attraverso almeno 3 differenti modalità: perdita di sensibilità, modifica delle
proprietà elettriche durante lo stimolo, variazione della funzionalità delle strutture accessorie in funzione
del tempo.

1.7 RIFLESSI SPINALI


Il riflesso è una risposta a stimolazioni esterne o interne diretta a modificare lo stato di contrazione
muscolare o di secrezione ghiandolare. È involontario e incontrollato, automatizzato. Può essere bloccato
da circuiti superiori.
1.7.1 ELEMENTI COSTITUTIVI DEI RIFLESSI
Gli elementi costitutivi dei riflessi incondizionati sono rappresentati dalle seguenti
strutture:
1. recettore (non c’è riflesso senza una struttura che si accorga dello stimolo);
2. via afferente (trasporta informazione dalla periferia verso il centro);
3. centro nervoso (consiste in almeno una cellula del SNC);
4. via efferente (porta la risposta);
5. effettore (mette in atto la risposta).
Quando lo stimolo colpisce una determinata area riflessogena, vengono attivati i
recettori e le loro vie afferenti. Gli impulsi raggiungono attraverso le radici dorsali il
midollo spinale ed eccitano direttamente o indirettamente, tramite interN, le fibre
efferenti. Il tempo richiesto per scatenare la risposta dipende dalla velocità di
conduzione delle fibre nervose e dal numero delle sinapsi centrali (tempo centrale). Con il crescere della
durata e dello stimolo, la risposta riflessa diviene più intensa e più ampia. L’aumento della risposta è
consentito dai fenomeni sinaptici di sommazione spaziale e temporale. Se
alcune sinapsi sono attivate sottosoglia (frangia subliminale), il fenomeno
della facilitazione può rendere soprasoglia i loro potenziali postS e attivare
nuove fibre efferenti (reclutamento). Il riflesso può inoltre prolungarsi oltre
il tempo di stimolazione (scarica postuma), per un aumento della durata
della risposta sinaptica e per la presenza di circuiti riverberanti. Quando
una risposta è generata da stimolazioni contemporanee di due distinte
aree riflessogene in grado di indurre risposte uguali (riflessi alleati), gli
effetti possono essere di maggiore o minore entità rispetto alla semplice
somma dei due riflessi: la risposte maggiori (facilitazione) sono dovute alla
contemporanea attivazione di neuroni eccitati sottosoglia (frangia
subliminale), mentre quelle minori (occlusione) si verificano in seguito alla
convergenza delle due vie su neuroni attivati soprasoglia. Vie riflesse
possono interagire tra loro anche in modo antagonistico (riflessi antagonisti) attraverso gli interN inibitori e
l’inibizione preS. L’ampiezza delle risposte dipende non solo dall’intensità della stimolazione periferica, ma
anche dal livello di eccitazione del centro, che è sotto l’influenza delle strutture nervose superiori. Le
risposte riflesse possono cambiare la loro ampiezza in funzione del tempo e dell’intensità di stimolazione.
Due esempi sono il potenziamento post-tetanico (aumento transitorio del riflesso al termine di stimolazioni
intense e brevi, dovuto all’accumulo di calcio nel neurone postS) e la fatica muscolare (attenuazione delle
risposte riflesse in seguito a stimolazioni prolungate dovuta alla diminuzione dell’efficacia sinaptica).

1.7.2 CLASSIFICAZIONE DEI RIFLESSI


A livello spinale si riconoscono due famiglie di riflessi: i riflessi propriocettivi (profondi) e i riflessi
esterocettivi (superficiali).
1.7.2.1 RIFLESSI PROPRIOCETTIVI
Originano dalla stimolazione dei propriocettori muscolari e provocano la contrazione dei muscoli
corrispondenti.
 Riflesso miotatico fasico;
 Riflesso miotatico tonico;
 Inibizione dell’antagonista;
 Riflesso inverso da stiramento.
Il significato funzionale di questi riflessi è quello di mantenere la postura, controllare la lunghezza e la forza
muscolari e facilitare la locomozione.

Riflesso miotatico fasico


Una forza applicata improvvisamente su un segmento corporeo modifica l’apertura dell’angolo articolare e
provoca il brusco allungamento dei muscoli che controllano l’articolazione. L’allungamento stimola i fusi
neuromuscolari, posti all’interno dei muscoli in parallelo con le fibre muscolari, e provoca una scarica di
impulsi che raggiungono il midollo spinale tramite fibre afferenti di
largo calibro (IA). All’interno del midollo spinale queste fibre si
connettono monosinapticamente (unico riflesso monosinaptico)
con i motoN degli stessi muscoli e ne provocano l’eccitazione. Si ha
pertanto una contrazione muscolare che annulla la variazione di
lunghezza del muscolo e conseguentemente riporta l’articolazione
in posizione iniziale (feedback di controllo della lunghezza
muscolare). Alcuni riflessi profondi più noti sono il riflesso patellare (percussione sul tendine rotuleo che
provoca l’estensione della gamba) e il riflesso achilleo (percussione del tendine d’Achille che provoca
l’estensione del piede).

Riflesso miotatico tonico


È attivato dalla forza di gravità, che tende ad allungare i muscoli antigravitari. Lo stimolo è continuo e la
risposta è ugualmente tonica. Il tono dei muscoli antigravitari è sostanzialmente dovuto all’attivazione di
questo riflesso. Le fibre afferenti di tipo IA e II attivano interN centrali che scaricano sui motoN di piccolo
diametro. Queste unità motorie toniche sono in grado di mantenere per un periodo prolungato una scarica
neuronale a bassa frequenza.

Modulazione dei riflessi miotatici


L’ampiezza delle risposte riflesse miotatiche può essere modificata dal SNC in modo diretto (motoN α) e
indiretto (motoN ϒ). L’azione indiretta stimola la sensibilità dei FNM rendendo le fibre afferenti più sensibili
allo stimolo. Nel mantenimento della postura la modulazione dei motoN ϒ permette di adattare le risposte
dei muscoli all’azione della gravità e a quella di qualsiasi perturbazione, in modo che le risposte siano le più
adeguate possibili. Durante la contrazione volontaria invece, la coattivazione di motoN α e ϒ rende i FNM
particolarmente insensibili alla contrazione muscolare, impedendo che l’attività di scarica diminuisca. In
questo modo i FNM diventano dei segnalatori di errore nell’esecuzione motoria.

Inibizione dell’antagonista
Le afferenze di tipo IA non solo eccitano i motoN del muscolo da cui originano e quelli dei muscoli agonisti,
ma inviano prolungamenti anche a interN inibitori che vanno a “disfacilitare” i motoN dei muscoli
antagonisti (inibizione reciproca). In alcune condizioni però, quest’inibizione deve essere soppressa per
ragioni posturali e ciò si realizza attraverso sistemi (inibizione di Renshaw) che riducono la scarica degli
interN inibitori.
Riflesso inverso da stiramento
Gli organi muscolo-tendinei di Golgi sono localizzati nel tendine del muscolo, in serie con le fibre muscolari.
In relazione alla posizione e alla forma di questi recettori, la frequenza di scarica delle loro fibre afferenti IB
è proporzionale alla tensione muscolare. Queste raggiungono il midollo spinale attivando interN inibitori
connessi con i motoN dello stesso muscolo. L’attivazione di questi recettori, determinata dall’aumento di
tensione, provoca un riflesso inverso da stiramento che riduce la forza muscolare. In questo modo è
esercitato un fine controllo della contrazione muscolare e sono impedite variazioni di tensione muscolare
(feedback per il controllo della tensione).

1.7.2.2 RIFLESSI ESTEROCETTIVI


I riflessi esterocettivi originano dalla stimolazione della cute o delle mucose e danno luogo in generale a
risposte atte a proteggere l’area stimolata. A livello spinale le fibre afferenti appartenenti ai gruppi III e IV
determinano, attraverso l’attivazione di numerosi neuroni (via polisinaptica), risposte riflesse flessorie. Con
l’aumentare dell’intensità della stimolazione le risposte tendono a estendersi. Esempi di riflessi
esterocettivi sono i riflessi flessorio (flessione della muscolatura coinvolta da uno stimolo cutaneo),
estensore crociato (estensione gamba opposta a quella appoggiata su una superficie instabile), addominale,
cremasterico, plantare cutanea, di ammiccamento (chiusura occhi a causa di un rumore improvviso) e di
grattamento. Il riflesso flessorio e il riflesso estensore crociato sono alla base della locomozione.

1.7.3 INTERNEURONI SPINALI


Nel midollo spinale sono presenti interN con funzione inibitoria. Nelle corna dorsali mediano l’inibizione
preS utile a modulare il flusso afferente e confrontare i diversi segnali sensoriali. Nelle corna ventrali
influenzano l’attività dei motoN attraverso i meccanismi di inibizione reciproca e ricorrente di Renshaw.
L’inibizione ricorrente di Renshaw origina da collaterali di motoN che attivano interN inibitori in grado di
frenare l’attività di scarica degli stessi motoN e di quelli agonisti. Sugli interN di Renshaw sono esercitate
inoltre importanti influenze da parte dei sistemi discendenti dei centri motori, che permettono di
aumentare o di diminuire l’estensione spaziale dell’inibizione ricorrente. Consentendo una limitazione
dell’attivazione motoneuronale risultano utili nel caso di movimenti fini e precisi.

1.7.4 RIFLESSO ASSONICO


È l’unico riflesso dove il centro nervoso può non essere coinvolto. Gli impulsi che sorgono per attivazione
della fibra afferente si propagano per via ortodromica (dal soma alla terminazione assonale) al midollo
spinale, ma nel punto in cui la fibra nervosa dà origine a rami collaterali gli impulsi ritornano verso la
periferia percorrendo in modo antidromico (dalla terminazione assonale al soma) le stesse ramificazioni
collaterali. Questi impulsi antidromici liberano in corrispondenza delle terminazioni nervose varie sostanze
vasodilatatrici, come le chinine, che provocano una dilatazione dei vasi nel territorio circostante alla
stimolazione dolorifica.

Unità motoria
L’insieme del motoN e delle fibre muscolare che esso innerva è chiamata unità motoria (UM). L’insieme
nervo-muscolo opera con modalità del tipo tutto o nulla. Non è possibile graduare la forza che l’UM è in
grado di generare in seguito a una singola attivazione nervosa. Le UM si differenziano per estensione,
velocità di contrazione e resistenza alla fatica. Un solo motoN può innervare appena 5/10 fibre come anche
più di 1000 e può appartenere a UM rapide e affaticabili (fast-fatigable FF), a UM rapide ma resistenti alla
fatica (fast-fatigue resistant FFR) o a UM lente (slow S). le UM FF, caratterizzate da motoN grandi, ad alta
soglia, modestamente attivati dai FNM sono eccitate da stimolazioni intense e scaricano in modo fasico. Le
fibre muscolari sono di tipo IIB, con alto livello di attività dell’ATPasi miosinica, enzimi glicolitici molto attivi
e scarso metabolismo ossidativo. La contrazione muscolare che si sviluppa in seguito alla loro stimolazione
è estremamente rapida. Le UM S, piccole, a bassa soglia e fortemente attivate dai FNM, sono eccitate da
stimoli deboli e tendono a scaricare tonicamente. Le fibre muscolare sono di tipo I e hanno un basso livello
di attivazione dell’ATPasi miosinica, con scarsa attivazione degli enzimi glicolitici e alto metabolismo
ossidativo. La loro contrazione muscolare si sviluppa lentamente. Le UM FFR, che si pongono in posizione
intermedia, pur mantenendo un alto livello di velocità di contrazione possiedono un livello medio-alto di
metabolismo ossidativo. L’esistenza di diverse UM permette di rispondere adeguatamente alle varie
esigenze del sistema motorio. Inoltre la notevole plasticità delle fibre muscolare consente a queste di
adattarsi al tipo di comando motorio che subiscono. La possibilità di modulare la forza muscolare si attua
attraverso il coinvolgimento crescente di UM (reclutamento) o attraverso l’aumento della scarica delle UM.
Nel primo caso, con il crescere dell’intensità del comando centrale, sono attivati sempre più motoN a soglia
alta (motoN più grandi). Nel secondo caso, in cui aumenta la frequenza di scarica dei motoN, la forza
muscolare cresce per effetto della sommazione meccanica delle singole scosse muscolari generate
dall’arrivo nel muscolo di un impulso elettrico. Se l’intervallo tra gli impulsi è breve, le singole scosse
possono fondersi tra loro e generare uno stato di contrazione che è molto più ampio della singola scossa
semplice (tetano muscolare).

Elettromiografia
Attraverso essa è possibile conoscere lo stato di attivazione elettrica di un muscolo registrando i segnali
elettrici che si generano nel muscolo con elettrodi ad ago (rileva i singoli potenziali di UM costituiti dalla
somma di eventi di depolarizzazione della placca motrice e delle fibre muscolari attivate) o con elettrodi di
superficie (registra l’attività massiva dovuta all’insieme dei singoli potenziali delle UM attive).
FISIOLOGIA DEL MUSCOLO
CAPITOLO 2 PAGINA 55
Il tessuto muscolare è coinvolto in funzioni fondamentali e molto diverse tra loro, ed in relazione a ciò è
molto differenziato e diversificato. Esistono, infatti, tre tipi di muscoli con profonde diversità strutturali e
funzionali:
 Muscoli scheletrici: implicati nel movimento del corpo e delle sue parti;
 Muscolo cardiaco: determina il flusso sanguigno;
 Muscolo liscio: sostiene la motilità degli organi interni.
Tutti i tipi di tessuto muscolare sono in grado di contrarsi sviluppando forza e accorciandosi e in tutti i casi
questa loro funzione è sostenuta da cellule contrattili.

2.1 GENERALITÀ SUL TESSUTO MUSCOLARE SCHELETRICO


Il tessuto muscolare scheletrico è inserito sulle ossa dello scheletro. Inserendosi sui due capi ossei di
un’articolazione, quello prossimale e quello distale, sostiene con la sua attività la postura e il movimento,
cioè fa sì che il corpo mantenga una certa posizione nello spazio e che possa modificare tale posizione o
semplicemente la posizione reciproca delle sue parti. Per fare ciò il muscolo scheletrico si contrae
sviluppando forza e, nella maggior parte dei casi, accorciandosi. Il muscolo scheletrico viene detto
volontario in quanto si contrae solo se viene stimolato a farlo dai motoN localizzati nelle corna ventrali della
sostanza grigia del midollo spinale e nei nuclei motori dei nervi cranici. Questi motoN sono a loro volta
controllati dai centri soprassiali coinvolti nella programmazione ed esecuzione dell’attività motoria.

2.2 ORGANIZZAZIONE DEL TESSUTO MUSCOLARE SCHELETRICO


Il tessuto muscolare scheletrico è il tessuto corporeo maggiormente rappresentato, potendo ammontare
fino al 40-45% del peso corporeo totale ed è il costituente fondamentale dei circa 660 muscoli del corpo
umano. Le unità morfologiche del tessuto muscolare scheletrico sono le cosiddette fibre muscolari,
elementi cellulari di forma allungata e affusolata alle estremità, disposte parallelamente le une alle altre. Il
loro diametro può variare da 10 a 100µm e la loro lunghezza può arrivare a eguagliare quella del muscolo in
toto di cui fanno parte. Il numero di fibre muscolari che compongono i vari muscoli è estremamente
variabile (da poche centinaia a diverse centinaia di migliaia).
Ciascuna fibra muscolare è circondata da un sottile avvolgimento
connettivale che la separa dalle cellule adiacenti, detto endomisio. Un altro
avvolgimento connettivale, detto perimisio, circonda gruppi di circa 150
fibre che costituiscono un cosiddetto fascicolo. L’intero ventre muscolare è
infine avvolto da una robusta fascia connettivale detta epimisio. Tali sette o
fasci di tessuto connettivo, oltre a conferire viscoelasticità al muscolo,
fanno da tramite per la penetrazione all’interno del muscolo dei vasi
sanguigni e delle terminazioni delle fibre nervose afferenti ed efferenti.
Inoltre permettono movimenti traslativi tra le varie parti del muscolo
durante la contrazione. Alle varie estremità di ogni muscolo le varie fasce
muscolari si fondono e il tessuto connettivo si organizza in modo da
formare strutture rigide, i tendini, che permettono l’inserzione del muscolo
sui segmenti ossei. L’epimisio continua avvolgendo i tendini e fondendosi
con il periostio dell’osso.
Il fenomeno della contrazione muscolare porta alla generazione di una forza, o tensione, soprattutto nel
senso dell’asse longitudinale della fibra e diretta dalle due estremità verso il centro della fibra stessa. I capi
di ciascuna fibra muscolare sono agganciati saldamente ai tendini o alle fasce connettivali e, quindi, le forze
generate dalle fibre, nel momento in cui esse si contraggono, vengono trasmesse dalle fasce connettivali e
dai tendini alle ossa. Se la forza generata dalle fibre che si contraggono supera il carico a cui il muscolo è
sottoposto, le fibre si accorciano e il carico viene spostato.
I tendini sono le strutture che permettono al muscolo di trasferire la tensione prodotta dalle fibre muscolari
all’osso. Essi si attaccano in punti di inserzione sull’osso caratterizzati dalla presenza di protuberanze e sono
costituiti essenzialmente da fasci di fibre collagene. Il collagene è una proteina fibrosa prodotta da
fibroblasti, dotata di scarsa elasticità e di alta resistenza meccanica.
I muscoli sono riccamente vascolarizzati. Il flusso ematico diretto verso i vari muscoli è soggetto a
meccanismi di regolazione che adeguano l’apporto di ossigeno e nutrienti alle necessità contingenti. La
densità dei capillari ematici nel distretto muscolare può aumentare in conseguenza di un adattamento a
certi tipi di allenamento.

2.2.1 SVILUPPO E RIGENERAZIONE DEI MUSCOLI SCHELETRICI


Durante lo sviluppo fetale le fibre muscolari si formano per fusione di una gran numero di cellule
precursore dette mioblasti. Il fatto che durante la fusione i nuclei sopravvivano spiega il fatto che le fibre
muscolari sono cellule multinucleate. Essendo incapaci di dividersi il loro numero è già definito alla nascita.
Ogni FM è circondata da una sottile membrana, detta sarcolemma, che include la lamina basale (contiene
fibre collagene che conferiscono solidità meccanica, speciali molecole proteiche che marcano la posizione
delle giunzioni NM e cellule satelliti, capaci di sviluppare una nuova fibra muscolare se essa viene
danneggiata in modo irreparabile) e la membrana vera e propria.

2.2.2 STRUTTURA DELLA FIBRA MUSCOLARE


L’aspetto microscopico caratteristico delle FMS è la serie di bande trasversali chiare e scure (le quali
riflettono l’andamento regolare e periodico delle proteine filamentose actina e miosina), che conferiscono
a queste fibre il nome di muscolo striato. L’interno della fibra è costituito da fasci di fibre più piccole, le
miofibrille, le quali si estendono per tutta la lunghezza della fibra e occupano circa l’80% del volume
citoplasmatico. A seconda del diametro della fibra, il loro numero può variare da parecchie centinaia a
molte migliaia. Esse sono a loro volta composte da miofilamenti disposti parallelamente nel senso
longitudinale della miofibrilla.
La struttura responsabile dello schema a bande è il
sarcomero, il quale rappresenta l’unità contrattile di base
della fibra muscolare. In condizioni di riposo è lungo circa
2.5µm.
Ciascun sarcomero contiene due tipi di filamenti: spessi e
sottili. I filamenti spessi, lunghi 1.6µm, aventi un diametro
di 15nm sono situati nella regione centrale del sarcomero
dove la loro disposizione dà luogo alle bande scure
(bande A). Questi filamenti sono costituiti da una
proteina: la miosina. I filamenti sottili, lunghi 1µm, aventi
un diametro di 5nm, contengono la proteina actina e
proteine di tipo regolatorio come troponina e
tropomiosina, e sono fissati, all’uno e all’altro estremo del
sarcomero, a una struttura detta linea Z che contiene una
proteina strutturale, l’αactinina e altre proteine
strutturali. Due successive linee Z definiscono i limiti di un
sarcomero. Le linee Z interconnettono i filamenti sottili
appartenenti a due sarcomeri adiacenti, costituendone il
punto di ancoraggio. I filamenti actinici si estendono dalle
linee Z verso il centro del sarcomero dove si interdigitano
con i filamenti miosinici. Oltre alle bande A e le linee Z
sono presenti la banda I (regione compresa tra le
estremità delle bande A di due sarcomeri adiacenti,
contenente solo filamenti sottili) e la banda H (situata al
centro della banda A nello spazio interposto tra le
terminazioni dei filamenti sottili di un lato e dell’altro,
costituita solo da filamenti spessi). Al centro del
sarcomero si delinea la linea M che contiene proteine strutturali e un enzima, la creatinfosfochinasi.
Ciascun filamento spesso è circondato da sei filamenti sottili e ciascun filamento sottile è circondato da tre
filamenti spessi. Infine, nel sarcomero sono contenute altre proteine di tipo strutturale, titina e nebulina.
Lo spazio che separa i due tipi di filamenti è attraversato da proiezioni trasversali che si dipartono dai
filamenti spessi che corrispondono alle teste della miosina, siti di formazione dei ponti acto-miosinici
responsabili dello sviluppo di forza e dell’accorciamento del sarcomero.

2.2.3 SISTEMA TUBULARE DELLE FIBRE MUSCOLARI


Le FMS sono provviste di un complesso sistema di vescicole e
canalicoli interconnessi tra loro denominato reticolo sarcoplasmatico
(RS, funge da deposito di ioni Ca2+), che occupa il 10% del volume
totale della fibra. Il sistema di vescicole che circonda i sarcomeri,
espandendosi alle estremità forma le cisterne terminali (CT), le quali
sono in rapporto di contiguità con il sistema tubulare trasverso,
costituito da una fitta rete di tubuli (tubuli T) che si dipartono dal
sarcolemma. L’interno di tali tubuli è pertanto in continuità con
l’ambiente extraC della FM. Tali tubuli si approfondano all’interno
della fibra avvolgendo le singole miofibrille. Ciò consente al potAZ,
nato a livello della giunzione NM di arrivare in prossimità dei
sarcomeri (propagandosi lungo la membrana dei tubuli). Ogni tubulo T
entra in rapporto con due cisterne terminali, andando a formare la triade. Le strutture, denominate piedi,
tra la membrana dei tubuli T e quella delle cisterne terminali, fungono da canali attivi per il calcio che verrà
rilasciato dal RS all’arrivo di un potAZ.

2.2.4 PROTEINE MUSCOLARI


Possono essere suddivise in proteine contrattili (miosina, actina -> 70% del complesso miofibrillare),
proteine regolatorie (troponina e tropomiosina) e proteine strutturali (αactinina, titina, nebulina,
miomesina).

2.2.4.1 PROTEINE CONTRATTILI


Miosina
La molecola è formata dall’associazione di sei diversi polipeptidi: un paio a catena pesante (le code,
strutturate a elica, attorcigliate tra di loro) e due paia a catena leggera. Ai capi di ciascuna catena pesante è
presente una struttura globulare (le teste). Due catene leggere sono associate a ciascuna testa. Le teste
della miosina hanno due siti di particolare importanza funzionale: uno dotato di attività ATPasica, l’altro
costituisce il punto in cui la miosina può attaccarsi all’actina durante la contrazione muscolare. La miosina
esiste in diverse isoforme, a causa sia delle catene pesanti che leggere. Le isoforme delle catene pesanti
della miosina (MHC) sono codificate da geni diversi e quindi hanno diversa sequenza amminoacidica. Hanno
però struttura atomica simile e sono intercambiabili. Nei muscoli degli arti dell’uomo esistono tre isoforme
delle MHC: MHC-I, MHC-IIa, MHC-IIx. Una fibra muscolare scheletrica in genere esprime una sola isoforma.
Si hanno quindi tre tipi principali di fibre: fibre di tipo I con isoforma MHC-I, fibre di tipo IIa (MHC-IIa) e fibre
di tipo IIx (MHC-IIx). Esistono poi fibre che contengono due isoforme delle MHC contemporaneamente. Tali
fibre sono dette ibride e sono considerate in fase di trasformazione tra un tipo e l’altro. Le grandi differenze
funzionali tra le isoforme delle MHC sono le responsabili più significative della grande eterogeneità
funzionale delle fibre scheletriche di tipo I, IIa, IIx.

Actina
L’actina è una proteina globulare (actinaG) presente in molti tessuti. Nelle cellule muscolari essa si trova in
forma polimerizzata (actinaF) che rappresenta la struttura di base dei filamenti sottili. Ogni molecola di
actinaG ha un sito che rende possibile l’aggancio con le teste della miosina.

2.2.4.2 PROTEINE REGOLATRICI


Tropomiosina
È una proteina a forma di bastoncino formata da due sub-unità ad α-elica. Si trova nei filamenti sottili
posizionata lungo la scanalatura formata dalle due catene a elica dell’actinaF. In condizioni di muscolo
rilasciato si ritiene che abbia il compito di impedire l’interazione tra miosina e actina bloccando i siti di
interazione dell’actina per la miosina. Affinché la contrazione possa avvenire, si deve spostare per rendere
visibili i siti di interazione.

Troponine
La troponina è una proteina formata da 3 sub-unità, la troponina C (TnC) che lega il calcio, la troponina I
(TnI), che lega il complesso troponinico all’actina e la troponina T (TnT) che lega il complesso troponinico
alla tropomiosina. È situata nei filamenti sottili a contatto con le molecole di tropomiosina. La TnC ha 4 siti
di legame per il calcio, 2 dei quali ad alta affinità (legano il Ca2+ anche a basse concentrazioni) e 2 a bassa
affinità (si legano al Ca2+ solo durante la contrazione). Il legame tra TnI e actina ha un’intensità che dipende
dalla presenza del calcio sui due siti di bassa affinità della TnC (legame forte quando i due siti non legano
calcio). Questo è un fenomeno fondamentale nell’attivazione della contrazione in quanto determina la
posizione della tropomiosina a coprire o meno i siti di interazione acto-miosinica.
2.2.4.3 PROTEINE STRUTTURALI
Le proteine strutturali costituiscono il citoscheletro della fibra muscolare formando l’impalcatura che
mantiene stabile la geometria dei filamenti contrattili. Tale citoscheletro è formato da elementi trasversali
(tengono assieme o ancorano i filamenti spessi e sottili: proteina M, miomesina e α-actinina) e longitudinali
(titina e nebulina). La titina unisce a ponte gli elementi trasversali della linea M con le linee Z. La nebulina
regola la lunghezza del filamento.

2.3 MECCANISMO DELLA CONTRAZIONE


Il sarcomero rappresenta l’unità contrattile fondamentale della fibra
muscolare. Durante la contrazione muscolare le due linee Z si avvicinano e il
sarcomero si accorcia (0,5-1µm). La somma degli accorciamenti
(relativamente piccoli) dei vari sarcomeri disposti in serie a formare le
miofibrille determinerà l’accorciamento del muscolo (vari cm). Durante i
cambiamenti di lunghezza del muscolo sia passivi (imposti dall’esterno), che
attivi (causati dalla contrazione), i filamenti spessi e sottili non cambiano
lunghezza, bensì scorrono gli uni sugli altri (teoria dello scorrimento dei
filamenti).
La forza che spinge i filamenti a scorrere viene generata dalla miosina. La testa
della miosina, durante la contrazione, si lega all’actina in siti specifici, e va
incontro a un cambiamento conformazionale (rotazione) che spinge il filamento sottile verso la linea M
accorciando il sarcomero e sviluppando forza. A ogni ciclo di interazione acto-miosinica, la testa di miosina
idrolizza una molecola di ATP che fornisce energia necessaria al processo. Durante una contrazione
muscolare, una singola testa della miosina può compiere molti cicli di interazione. Tutte le molecole di
miosina del filamento spesso interagiscono con l’actina, e lo fanno in modo asincrono. La forza sviluppata
da una FM e il suo accorciamento dipendono dall’attività di tutte le teste di miosina e il suo consumo
energetico dalla somma dell’ATP utilizzato da tutte le teste.
Le fasi dell’interazione acto-miosinica (attacco della miosina all’actina, rotazione della testa della miosina,
distacco della miosina dall’actina) che portano allo sviluppo di forza e all’accorciamento sono strettamente
connesse alle diverse fasi del processo di idrolisi dell’ATP (ATP-> ADP+Pi). La miosina ha un’alta affinità per
l’ATP e tende quindi a legare le molecole libere nel citoplasma della FM. Il complesso miosina-ATP ha scarsa
affinità per l’actina e non è stabile (stato rilasciato). La miosina, infatti, tende a idrolizzare l’ATP e a entrare
nello stato miosina-ADP-Pi (stato rilasciato energizzato), il quale è molto stabile, è energizzato (conserva
l’energia di idrolisi) ed ha un’alta affinità per l’actina (ma non può interagire con essa se la *Ca2+]
citoplasmatica è bassa, come a riposo). L’interazione della miosina con l’actina (formazione del complesso
actina-miosina-ADP-Pi: ponte actina-miosina) accelera notevolmente la velocità con la quale la miosina si
libera dei prodotti di idrolisi dell’ATP (evolvendo prima nello stato actina-miosina-ADP con liberazione del Pi
e successivamente, in seguito alla modificazione conformazionale (flessione) della testa della miosina che
porta allo sviluppo di forza e accorciamento nello stato actina-miosina con liberazione dell’ADP - complesso
di rigor - in modo tale da permettere alla miosina di legare una nuova molecola di ATP e ricominciare il
ciclo) e quindi aumenta moltissimo l’attività ATPasica della miosina. Il legame della miosina con l’ATP
diminuisce l’affinità della miosina per l’actina e permette il distacco del ponte acto-miosinico e il ritorno
allo stato miosina-ATP. L’ATP è quindi necessario per distaccare il legame acto-miosinico, non per formarlo.
Tutte le cause che portano ad abbassare la [ATP] citoplasmatica portano a un legame irreversibile della
miosina all’actina e a una condizione in cui il muscolo non può essere allungato se non per l’applicazione di
una forza considerevole (rigor). La velocità con la quale il ciclo si verifica dipende da molti fattori, tra cui:
attività ATPasica della miosina e il carico applicato al ponte acto-miosinico. I vari passaggi del ciclo chimico-
meccanico di interazione acto-miosinica si verificano a velocità diverse.
2.4 ENERGETICA MUSCOLARE
L’accoppiamento eccitazione-contrazione ottiene l’energia necessaria per la sua realizzazione dalla
scissione dell’ATP. La disponibilità di ATP nel muscolo è ampiamente insufficiente per poter effettuare il
lavoro meccanico che di norma i nostri muscoli affrontano durante la giornata. Risulta così cruciale la
possibilità di rifornire le FM dell’ATP necessario per la loro contrazione nel tempo. La risintesi dell’ATP
avviene attraverso 3 vie:
 Via della fosfocreatina: ADP + PCr  ATP + Cr. Le scorte di PCr in un muscolo sono in grado
fornire ATP per non più di un centinaio di scosse.
 Via della glicolisi anaerobia: glucosio  2 molecole di acido lattico + 4ATP. Via di produzione attiva
nel caso di apporto di ossigeno insufficiente per la glicolisi aerobia. L’accumulo di acido lattico nella
fibra sta alla base del fenomeno della fatica muscolare localizzata.
 Via aerobia:
o Glicolisi aerobia: glucosio +36ADP +36Pi +6O2  6 CO2 +6H2O +36ATP
o Β-ossidazione: palmitoil-CoA +7FAD +7NAD +7CoA +7H2O  8Acetil-CoA +7FADH2 +7NADH
+7H+ +129ATP
I diversi tipi di fibre -I, IIa, IIx - hanno a disposizione i corredi enzimatici relativi alle tre vie di produzione
dell’ATP in proporzione diversa. Le FM differiscono non solo nel metabolismo energetico, e quindi
nell’affaticabilità, ma anche:
- Nel tipo di isoforma della miosina che contengono;
- Nelle dimensioni, che determinano la facilità con la quale le sostanze e i gas
diffondono tra il liquido extraC e il citoplasma;
- Nella capacità della pompa del calcio del reticolo sarcoplasmatico.
Tipo IIx:
Tipo I: lento Tipo IIa: veloce
ossidativo veloce ossidativo glicolitico
Isoforme della miosina MHC-I MHC-IIa MHC-IIx
Capacità della pompa per il Calcio del RS moderata elevata elevata
Diametro piccolo medio grande
Capacità ossidativa; contenuto di mitocondri,
elevata molto alta bassa
densità dei capillari, mioglobina
Capacità glicolitica moderata elevata elevata

2.5 SINAPSI NEUROMUSCOLARE E ACCOPPIAMENTO ECCITAZIONE-


CONTRAZIONE
Le FMS in assenza di stimolazione nervosa restano rilasciate, si
contraggono quando vengono stimolate dal motoNα che le innerva e si
rilasciano quando la stimolazione cessa. L’interazione acto-miosinica
deve quindi poter essere attivata e disattivata in modo da far passare il
muscolo da uno stato di rilasciamento a uno di contrazione e viceversa.
Questo processo deve poter essere regolato finemente in modo da
adattare l’attività muscolare alle esigenze della postura e del
movimento. Tutto ciò è reso possibile dal motoNα, che comunica con le
FM a livello della sinapsi NM, capace di far insorgere un potAZ sulla
membrana delle FM da esso innervate innescando l’accoppiamento
eccitazione-contrazione che determina l’interazione A-M e quindi lo
sviluppo di forza e di accorciamento.

2.5.1 SINAPSI NEUROMUSCOLARE


Gli assoni (grossi, mielinizzati, rapida conduzione) dei motoNα (il cui soma è situato nelle corna ventrali del
midollo spinale), una volta penetrati nei muscoli, si dividono in branche, ognuna diretta a una FM, con la
quale entrano in contatto attraverso una minuta arborizzazione di terminazioni in corrispondenza di parti
specifiche: le placche motrici. Le estremità terminali dell’assone sono ricche di vescicole contenenti il
neurotrasmettitore acetilcolina (ACh), il quale una volta riversato nello spazio sinaptico raggiunge la placca
motrice, dove sono situati i canali ionici ligando-operati, che si aprono al contatto con l’ACh. Tale canale
ionico non essendo selettivo, permette il passaggio sia di ioni K+ sia di ioni Na+. L’apertura di questi canali
porta ad un EPSP (60mV) che si propaga per via elettrotonica nelle vicinanze della placca, dove la presenza
di canali del sodio VD genereranno un potAZ.
La placca motrice contiene un’altra proteina, l’acetilcolinesterasi, che ha un’azione enzimatica di idrolisi
sull’ACh, la quale viene rapidamente inattivata (azione di 5ms), con conseguente chiusura, in assenza di
ACh, dei canali.
La placca motrice ha come compito principale quello di assicurare che a ogni potAZ dell’assone motore
corrisponda la nascita di un potAZ nella FM.
Durante lo sviluppo, il contatto dell’assone con la fibra bersaglio, porta allo sviluppo delle placche motrici, il
quale aumenta notevolmente l’efficienza della trasmissione sinaptica andando a modificare la distribuzione
dei recettori per l’ACh, la cui densità aumenterà in corrispondenza del terminale assonico.

2.5.2 ACCOPPIAMENTO ECCITAZIONE-CONTRAZIONE


L’accoppiamento eccitazione-contrazione è l’insieme di eventi che vanno dal potAZ lungo il sarcolemma
allo sviluppo di forza e/o accorciamento:
- PotAZ lungo sarcolemma e tubuli T;
- Attivazione dei recettori della diidropiridina nei tubuli T e della rianodina nella membrana del RS;
- Liberazione di Ca2+ nel citoplasma da parte del RS;
- Legame del Ca2+ con TnC;
- Liberazione dei siti di legame dell’actina per la miosina;
- Attacco actina-miosina;
- Rotazione della testa della miosina;
- Contrazione.

2.5.2.1 CONTRAZIONE
A causa del blocco “sterico” (teste della miosina impedite nel legame con
l’actina a causa della copertura dei siti di legame da parte della
tropomiosina) la contrazione è impossibilitata. Perché essa possa avvenire
è necessario che la tropomiosina liberi i siti di interazione acto-miosinici.
Perché la FM si contragga in modo
uniforme, il potAZ generato a livello
della placca motrice deve propagarsi sia
longitudinalmente verso le estremità
della fibra che trasversalmente, nella profondità della fibra (grazie ai
tubuli T). Quando il potAZ si propaga lungo i tubuli T, i recettori per
diidropiridina (situati lungo la membrana dei tubuli), aventi dei sensori di
voltaggio, reagiscono alla depolarizzazione andando incontro a una
modificazione conformazionale che li porta ad agire meccanicamente sui
“piedi” (strutture proteiche poste a ponte tra i tubuli T e le cisterne
terminali del RS) dei recettori della rianodina. Quest’azione causa
l’apertura della porzione del recettore che forma il canale del calcio del
RS, determinando la fuoriuscita del catione che si sposta seguendo il
gradiente di concentrazione.
Uscito dal RS, il calcio si lega alla TnC, causando il distacco del legame actina-TnI, il quale porta allo
spostamento del complesso troponinico e della tropomiosina (legata alla TnT) liberando i siti di legame
dell’actina per la miosina. Tale liberazione è immediatamente seguita dall’instaurarsi del legame acto-
miosinico e dall’inizio del processo contrattile.

2.5.2.2 RILASCIAMENTO
La durata del processo contrattile e la sua intensità sono determinate dal controllo nervoso. La fase di
rilasciamento, in cui la forza sviluppata gradualmente diminuisce ai valori di riposo e il muscolo torna alla
sua lunghezza di riposo può essere schematizzata come segue:
- Cessazione della stimolazione nervosa e recupero attivo di Ca2+ attraverso una pompa ATPasica
(localizzata nelle porzioni longitudinali del RS) che spinge il catione verso le cisterne terminali contro
gradiente di concentrazione;
- Diminuzione della [Ca2+] nel citoplasma;
- Distacco del Ca2+ dalla TnC;
- Spostamento della tropomiosina a coprire i siti di legame dell’actina per la miosina;
- Cessazione del processo contrattile  rilasciamento.

2.6 TIPI DI CONTRAZIONE


Osservando la relazione spaziale tra due segmenti ossei durante una contrazione, possiamo classificarla
come dinamica o statica, rispettivamente se l’angolo tra i due segmenti varia oppure no. La contrazione
statica o isometrica è una contrazione in cui la lunghezza del muscolo non varia (mentre si regge un peso in
una posizione fissa o si cerca di spostare un oggetto inamovibile). È la contrazione in cui riusciamo ad avere
la maggior espressione di forza massimale.
La contrazione dinamica, di tipo isotonico (a tensione costante), studiata nel muscolo isolato, prevede due
fasi:
1. Aumenta la tensione fino superare di poco la resistenza opposta dal peso applicato;
2. Accorciamento del muscolo.
La tensione prodotta sarà costante e pari al peso applicato. In vivo, le contrazioni effettuate
quotidianamente non sono mai di tipo isotonico in quanto l’entità del momento resistente si modifica al
variare dell’angolo articolare. Un altro parametro importante è la velocità di accorciamento: se essa è
costante, la contrazione è definibile isocinetica. Le contrazioni dinamiche sono definite concentriche, se la
loro esecuzione comporta una riduzione della lunghezza del muscolo, eccentriche se al contrario, ne
determinano un aumento. Le seconde consentono di sviluppare più forza rispetto alle prime.

2.7 PRESTAZIONE MUSCOLARE


L’esecuzione dell’ampio range di movimenti consentiti dal corpo umano richiede che la potenza (P=F*v)
sviluppata dal muscolo scheletrico possa essere regolata molto finemente. L’entità della forza sviluppata
dal muscolo in vivo e la sua velocità di accorciamento dipendono non solo dalle proprietà delle FMS ma
anche dalle caratteristiche delle UM e dalle modalità del loro reclutamento, nonché dalle caratteristiche
dell’unità muscolo-tendinea.

2.7.1 SINGOLA FIBRA MUSCOLARE


Le FMS sono gli elementi contrattili del muscolo, su cui diversi fattori agiscono per modulare la forza
isometrica e la velocità con cui si accorciano.
2.7.1.1 DETERMINANTI DELLA FORZA MUSCOLARE
La forza isometrica sviluppata da una FM dipende dal numero di interazioni A-M di sarcomeri di miofibrille
adiacenti disposte in parallelo, che si formano nell’area della sua sezione trasversa. Ai fini dell’entità della
forza generata, la lunghezza della fibra (n° di sarcomeri disposti in serie) non influisce poiché ogni
sarcomero agisce sui due sarcomeri adiacenti e non sulle estremità della miofibrilla.
Il n° delle interazioni A-M dipende in misura variabile da diversi fattori:
 Diametro della fibra;
 Lunghezza dei sarcomeri;
 Quantità di calcio che si lega alla TnC;
 Tipi di miosina.

Diametro della fibra


Determina quante miofibrille, e quindi sarcomeri, sono disposti in parallelo. Maggiore è il n° di sarcomeri
disposti in parallelo, maggiore è il n° di filamenti sottili e spessi e quindi il n° delle molecole di actina e
miosina che possono interagire nella sezione trasversa della fibra.

Lunghezza dei sarcomeri


La distanza tra due linee Z influenza il n° di interazioni A-M che si possono formare durante una contrazione
in quanto determina il grado di sovrapposizione dei filamenti sottili e spessi. Le molecole di miosina di un
filamento spesso possono interagire solo con le molecole di actina presenti nei filamenti sottili posti nelle
immediate vicinanze.
La distanza tra le linee Z determina anche la tensione passiva (forza che una FM sviluppa quando viene
allungata al di sopra della sua lunghezza di riposo in condizioni di rilasciamento) generata da una FM.
Maggiore è la lunghezza alla quale viene portata, maggiore è la tensione passiva elastica che esercita (la FM
si riporta spontaneamente alla sua lunghezza iniziale come
farebbe un elastico).
La relazione tensione (attiva)-lunghezza (che descrive il rapporto
tra forza isometrica sviluppata (quindi in condizioni statiche) e
lunghezza dei sarcomeri in µm) è una delle relazioni
fondamentali della meccanica muscolare.
Se prendiamo ad esempio una fibra con una lunghezza massima
dei sarcomeri posta a 3.65µm, essendo i filamenti sottili lunghi
1µm (per parte) e i filamenti spessi 1.6µm, non c’è
sovrapposizione tra di essi e quindi la forza generabile è pari a 0.
Tra 3.65µm e 2.20µm, il grado di sovrapposizione tra i filamenti
aumenta progressivamente, e di conseguenza anche le possibili
interazioni, per cui abbiamo una crescita lineare della forza
sviluppabile.
Tra 2.20µm e 2µm la forza sviluppabile non cambia a causa della
mancanza di teste miosiniche nella parte centrale del filamento
spesso (zona nuda).
Al di sotto di 2µm la forza generabile diminuisce perché i
filamenti sottili cominciano ad urtare contro la linea M, sviluppando
forze opposte (inoltre l’accavallamento dei filamenti nasconde alcuni siti
di interazione).
Sotto ai 1.6µm i filamenti spessi urtano le linee Z opponendo una
resistenza allo sviluppo di forza (e ulteriori siti nascosti).
F=0 se la lunghezza<1.27µm o >3.60µm.
La forza totale sviluppabile da una fibra in una contrazione isometrica è la somma della tensione attiva
generata dai sarcomeri e della tensione passiva generata dalle strutture elastiche della fibra. A una
lunghezza di 2.2µm la tensione passiva è 0 e quindi la tensione totale e quella attiva coincidono. A
lunghezze superiori la tensione attiva è inferiore alla tensione totale che si misura agli estremi della fibra
perché a essa si aggiunge la tensione passiva. Se attraverso una tensione passiva il muscolo raggiunge il
180-200% della sua lunghezza di riposo avremo la rottura di esso. La tensione attiva generata da un
muscolo è massima quando la tensione passiva è 0.

Quantità di calcio che si lega alla TnC


Il n° di siti di interazione A-M liberati durante il processo di attivazione è una variabile che determina il n°
delle interazioni A-M formabili. Per ogni TnC che lega Ca2+vengono liberati 7 siti di interazione A-M. la
percentuale di TnC che legano calcio dipende da:
- Quantità di calcio liberata dal RS e dalla [Ca2+]citoplasmatica;
- Affinità della TnC per il calcio;
- Tempo durante il quale la [Ca2+]citoplasmatica resta alta prima che il calcio venga ricatturato dal RS.
Per quanto riguarda le prime due variabili, esse sono abbastanza costanti. L’ultima è quella maggiormente
imputabile nel determinare quanto scritto sopra. Infatti liberazioni successive e ravvicinate di ioni calcio
possono aumentare la [Ca2+]citoplasmatica durante la contrazione e mantenerla alta nel tempo. Durante il
tempo necessario affinché il calcio si leghi alla TnC, la pompa ATPasica del RS recupera attivamente
abbassandone la concentrazione. Per cui dopo una singola stimolazione la [Ca2+]citoplasmatica resta alta
per un lasso di tempo insufficiente affinché tutto il calcio liberato si leghi alla TnC. Quindi un solo stimolo
non è in grado di attivare massimalmente una FMS. Per ottenere ciò è necessario stimolare ripetutamente
la FM con un’alta frequenza di potAZ.
Un solo potAZ genera una contrazione singola
(single twich). Data la breve durata del potAZ (1-
4ms), motoN e FM possono andare incontro a un
nuovo potAZ a breve distanza dal precedente, in
modo tale che il secondo potAZ causi un’ulteriore
liberazione di calcio dal RS riportando la
concentrazione al valore massimo e causando un
aumento della forza (doppietta). Man mano che
la frequenza di stimolazione aumenta, la [Ca2+]
tende ad oscillare intorno a valori sempre più alti
così come la forza sviluppata (clono). Quando la
frequenza dei potAZ è sufficientemente alta si ha
il tetano, una contrazione in cui la
[Ca2+]citoplasmatica, così come la forza
sviluppata, rimane stabilmente al valore massimo fin quando persiste la stimolazione nervosa. In vivo le FM
vanno incontro a cloni a frequenza più o meno elevata.
Possiamo avere una diversa espressione di forza da parte della stessa fibra o comunque dello stesso
muscolo a seconda del tipo di attivazione. La codifica dei potAZ sotto forma della loro frequenza determina
l’espressione di diversi livelli di forza da parte del muscolo. Il comando motorio è impostato in modo da
avere diverse attivazioni elettriche. Per stimolazioni successive le risposte meccaniche si innestano sulla
fine della precedente. Durante un tetano se aumentasse la frequenza di stimolazione la risposta meccanica
non cambierebbe perché è già stata raggiunta la massima potenzialità di espressione di forza. La frequenza
di stimolazione con cui si raggiunge un tetano varia da muscolo a muscolo in relazione alle unità motorie.
Se stimolassimo con una frequenza di scarica crescente le due tipologie di UM, quella che raggiungerebbe
prima una condizione di tetano sono quelle di tipo S poiché nelle fibre di tipo II per innestare il secondo
fenomeno sull’apice del primo occorrerebbe una frequenza di scarica molto più elevata rispetto alle fibre di
tipo I. Data la convivenza delle tipologie di fibre nello stesso muscolo, nel momento in cui il SNC aumenta la
frequenza di stimolazione le fibre I sono già in tetano rispetto alle fibre di tipo II. Quindi a seconda della
frequenza di stimolazione ottengo più o meno forza dal muscolo (2° principio di controllo della forza
muscolare).

Tipi di miosina
Le isoforme della miosina che, hanno un ruolo fondamentale nel determinare le grandi differenze di
velocità, nel consumo di energia e di potenza muscolare, giocano un ruolo limitato nel regolare la forza
sviluppata. Di conseguenza i muscoli scheletrici che sono composti in prevalenza da fibre lente non sono
intrinsecamente più deboli dei muscoli scheletrici composti principalmente da fibre veloci.

2.7.1.2 DETERMINANTI DELLA VELOCITÀ DI ACCORCIAMENTO


La velocità di accorciamento di una fibra muscolare dipende dalla velocità con la quale avviene il ciclo di
interazione tra actina e miosina, cioè la velocità alla quale la miosina, una volta che si è attaccata all’actina,
ruota e si distacca dall’actina stesa per riprendere un nuovo ciclo. Tale velocità dipende da almeno 3 fattori:
- Carico applicato;
- Attività ATPasica della miosina;
- Massima forza isometrica sviluppata.
Carico applicato
Una FM si può accorciare se il peso applicato ai suoi estremi
è inferiore alla forza isometrica che essa è in grado di
sviluppare (se fosse superiore non vi sarebbe
accorciamento). In condizioni isotoniche, la relazione tra
carico applicato e velocità di accorciamento è espressa dalla
relazione forza-velocità, che è l’altra relazione fondamentale
per descrivere le proprietà contrattili del muscolo. La
velocità di accorciamento di una FM è massima quando il
carico applicato alla fibra è 0, diminuisce iperbolicamente
all’aumentare del carico applicato ed è 0 quando il carico
applicato uguaglia o supera la massima forza isometrica.
La relazione forza-velocità è determinabile
sperimentalmente in una fibra/muscolo isolato in
vitro. Alla FM, collegata a un trasduttore di forza,
vengono attaccati dei pesi (che a riposo appoggiano
su un supporto in modo tale da non allungarlo
passivamente) inferiori alla forza isometrica
massima. Quando il muscolo viene stimolato, per
potersi accorciare (la velocità dipende dall’entità del
peso), deve arrivare a sviluppare una forza uguale al
peso applicato. Quando il muscolo entra nella fase di
rilasciamento, si ha un riallungamento a forza
costante finché il peso non ritorna sul supporto,
seguito da una diminuzione della forza in modo
isometrico. Tutte le contrazioni isotoniche hanno
quindi una fase iniziale isometrica, seguita dalla fase
isotonica e, infine da una seconda fase isometrica.
Dalla relazione forza-velocità è possibile calcolare la potenza massima sviluppata da un muscolo e la
velocità alla quale viene prodotta moltiplicando i valori di carico per i corrispondenti valori di velocità,
ricavando la curva potenza-velocità. La potenza sviluppata
da un muscolo è 0 sia alla massima velocità di
accorciamento sia in condizioni isometriche, ed è invece
massima a velocità di accorciamento intermedie, intorno a
1/3 di Vmax.

Attività ATPasica della miosina


A parità di carico applicato, la velocità con la quale la
miosina compie un ciclo di interazione con l’actina dipende
dalla rapidità con cui la miosina scinde ATP e si libera dai
suoi prodotti di idrolisi. Le diverse isoforme di MHC hanno
attività ATPasica molto diversa. La MHC-I ha un’attività
ATPasica 3-4 volte inferiore della MHC-IIx, per cui si avrà
una ripercussione sulla velocità di contrazione (7-9 volte
più lenta) e sulla potenza sviluppabile (molto più bassa).
I muscoli scheletrici umani sono muscoli misti, formati cioè
da tutti e tre i tipi cellulari, I, IIa e IIx in proporzioni variabili.

Massima forza isometrica sviluppata


Maggiore è la capacità di sviluppare una forza da parte di un muscolo, maggiore è la velocità alla quale il
muscolo si accorcia contro un certo peso. Ciò si spiega considerando che la velocità con la quale un ponte
A-M ruota, a parità di attività ATPasica, dipende dal carico applicato sul ponte stesso. Più numerosi sono i
ponti A-M attivi e quindi maggiore è la forza isometrica, minore sarà il carico applicato su ogni singolo
ponte e maggiore sarà la velocità alla quale può ruotare.

2.7.2 UNITÀ MOTORIA


Le FMS si associano tra loro a formare unità funzionali dette unità motorie (UM) le quali instaurano ulteriori
meccanismi di controllo della prestazione contrattile del muscolo.

2.7.2.1 DEFINIZIONE, CLASSIFICAZIONE E PROPRIETÀ FUNZIONALI


Il SNC può richiedere ai MS di produrre contrazioni a varie velocità e livelli di forza, con un alto grado di
precisione e spesso per prolungati periodi di tempo. I vari comandi motori, per produrre movimento
devono necessariamente convergere sui motoN, che rappresentano la via finale comune delle azioni
integrative del SNC. I motoN che innervano un singolo muscolo sono raggruppati a formare dei pool
motoneuronali. Essendo il numero dei motoN presenti nel pool inferiore al numero delle FM indica che
ciascun motoN termina su un certo numero di fibre. Un motoN e il gruppo di FM che innerva costituisce
un’UM, per cui nel momento in cui viene emesso un potAZ tutte le fibre di quell’UM entreranno in
contrazione. L’UM è quindi la quantità minima di t.muscolare che può essere controllata dal SN e
rappresenta quindi l’unità funzionale del movimento.
Le FM appartenenti a una singola UM non sono contigue nel ventre muscolare, ma si distribuiscono in esso
mescolate alle fibre di altre UM. L’attività asincrona delle varie UM presenti nel muscolo rende possibile
uno sviluppo di forza costante nel tempo e tende a prevenire l’insorgenza di fenomeni di fatica nelle unità
attivate.
Le UM possono variare
UM
notevolmente all’interno di uno
S FF
stesso muscolo o tra muscoli diversi
Diametro assoni piccolo Grande
per alcune loro caratteristiche. Il
Dimensione motoN piccoli Grandi numero di fibre appartenenti a
N° delle terminazioni poche Molte ciascuna UM varia in modo
Tensione tetanica piccola Grande considerevole: muscoli capaci di
Velocità di contrazione lenta (>50ms) rapida (20ms) movimenti delicati presentano UM
Produzione Forza Bassa Alta di 10-100 fibre; muscoli deputati a
Affaticamento lento Rapido movimenti più grossolani invece
Metabolismo aerobico anaerobico presentano UM di centinaia di fibre.
Mioglobina abbondante Scarsa Quanto minore sarà il numero delle
Concentrazione ATPasi fibre nelle varie UM, tanto più
basse Alta
miofribrillare precisamente la tensione del
Glicogeno poco Molto muscolo potrà essere controllata
Mitocondri fitti Radi aumentando o diminuendo il
Capillari abbondanti Scarsi numero di UM attivate.
FM I: piccole, rosse IIx: grandi, pallide Le UM possono differire tra loro in
Attività muscolare sostenuta nel tempo breve e intensa modo marcato per numerosi
caratteri sia morfologici, biochimici e
meccanici. Sulla base di questi parametri vengono suddivise in tre classi principali: S, FF e FR (con
caratteristiche intermedie tra le due). Le FM appartenenti a un’UM sono tutte dello stesso tipo.
Le differenze che sussistono tra di loro hanno una grande importanza nel determinare il modo con cui il SN
seleziona il numero di UM che devono essere attivate durante un esercizio per consentire ai muscoli di
operare in comandi motori assai diversi per velocità, forza e durata di esecuzione.
La proporzione di ciascun tipo di fibre all’interno di un muscolo può variare da muscolo a muscolo, la cui
differente composizione riflette le
sue caratteristiche d’uso. Inoltre la
proporzione di differenti tipi di UM
all’interno di uno stesso muscolo può
essere soggetta a variazioni da
individuo a individuo come risultato
di fattori genetici. Infine, entro certi
limiti la composizione in fibre di un
muscolo può variare come risultato
di un adattamento delle fibre a
particolari richieste d’uso e, quindi,
nel corso di prolungato allenamento
a particolari attività motorie.

2.7.2.2 CONTROLLO DELLA FORZA MUSCOLARE


Per poter controllare la forza e la velocità di contrazione muscolare il SNC ha a disposizione famiglie di
motoN che fanno capo ad altrettante UM su cui si possono esercitare influenze eccitatorie o inibitorie.
Attraverso vari esperimenti si è potuto dimostrare che il controllo dell’attività nervosa delle famiglie di
motoN necessario alla graduazione della forza muscolare avviene attraverso due modalità fondamentali.
Il primo e più importante meccanismo si basa sull’aumento o sulla diminuzione del numero di UM attive
ogni qualvolta si deve aumentare o diminuire la forza di contrazione muscolare: reclutamento di UM
(sommazione spaziale). L’aumento o la diminuzione del numero di UM attive avviene seguendo un ordine
crescente o decrescente di ampiezza del potAZ degli assoni motori registrato extracellularmente, il quale è
direttamente proporzionale al calibro dell’assone, che a sua volta rispecchia le dimensioni del corpo
cellulare del neurone. Quindi le UM vengono selezionate sulla base delle dimensioni del soma a cui le varie
UM fanno capo. Tale principio è conosciuto come “principio della dimensione” (legge di Hennman). Con
l’aumentare della forza muscolare prodotta vengono dapprima attivate le UM con i motoN di dimensioni
minori e poi, via via, UM con motoN di dimensioni progressivamente maggiori. Il principio della dimensione
è basato sulle differenti proprietà intrinseche dei motoN con diversa dimensione. I motoN con un corpo
cellulare più piccolo, avendo bisogno di uno spostamento di un minor numero di cariche elettriche per
poter essere depolarizzati fino al raggiungimento della soglia di un potAZ, risultano più facilmente eccitabili
di motoN con un corpo cellulare di volume maggiore. Pertanto, se la richiesta di un aumento di forza si
riflette in un aumento progressivo dell’intensità delle influenze sinaptiche eccitatorie su una famiglia di
motoN, a causa delle proprietà passive di membrana dei motoN si avrà che quelli più piccoli, i quali
innervano le UM con meno fibre (S), saranno i primi a essere reclutati e, successivamente, verranno
reclutati motoN progressivamente più grandi, a cui fanno capo più FM e che producono maggiore forza
(FF). Quindi il meccanismo del reclutamento sulla base della dimensione del motoN ha come conseguenza
che le UM vengono reclutate seguendo un ordine direttamente proporzionale alla forza generata e alla
velocità di contrazione e un ordine inversamente proporzionale rispetto
alla resistenza alla fatica.
Il secondo meccanismo utilizzato per graduare la forza di contrazione
muscolare è quello di modulare la frequenza di scarica delle UM attive
(sommazione temporale). Tale aumento della frequenza di scarica porta a
un aumento della forza prodotta da quelle UM attraverso il meccanismo
della fusione delle contrazioni. La frequenza di scarica di un’unità
reclutata tende a crescere con l’aumentare della forza prodotta fino al
raggiungimento di un livello oltre il quale rimane stabile.
Le unità più piccole anche se più numerose, contribuiscono in piccola
misura alla forza totale che può essere prodotta dal muscolo. Il loro
reclutamento/ dereclutamento, tuttavia produce variazioni di forza estremamente graduate. Man mano
che il reclutamento procede verso UM più grandi, il controllo della forza in termini assoluti diventa più
grossolano poiché il reclutamento/dereclutamento di una di queste UM aggiunge o toglie forze maggiori in
termini assoluti.
Il SNC controlla la forza prodotta da un muscolo variando sia il numero sia la frequenza di scarica delle UM
attive. Per esempio, in una contrazione isometrica del muscolo bicipite brachiale (muscolo di grandi
dimensioni, ad ampia banda di reclutamento) da 0 al 60-80% della massima contrazione volontaria (MCV),
la forza viene incrementata aumentando il livello di reclutamento delle UM (REC); dall’80 al 100% dell’MCV
la forza è invece incrementata aumentando la frequenza di scarica (FS) delle UM attive. L’aumento della FS
è l’unico aumento utilizzabile dal SNC quando tutte le UM sono state reclutate. Diversamente, nel primo
muscolo interosseo dorsale della mano (muscolo piccolo, piccola-media banda di reclutamento) l’intensità
di contrazione relativa a cui termina il REC e viene utilizzata la FS per ulteriori incrementi di forza è pari al
30-40% della MCV. In conclusione ogni muscolo adotta una strategia di attivazione delle UM dove la soglia
(% delle MCV) di fine REC è specifica.
2.7.3 UNITÀ MUSCOLO-TENDINEA
2.7.3.1 ARICHITETTURA MUSCOLARE
L’architettura di un muscolo si riferisce sostanzialmente all’orientamento delle sue fibre rispetto all’asse di
generazione della forza che si identifica con la linea che unisce le due aree di inserzione tendinea a livello
dei segmenti ossei. Se le fibre sono parallele all’asse il muscolo si dice fusiforme, se sono orientate con un
certo angolo si dice pennato.

2.7.3.2 MODELLO MECCANICO DEL MUSCOLO


La componente elastica in serie all’elemento contrattile rappresenta l’elasticità del tendine, dell’aponeurosi
e dei ponti trasversali. La componente elastica in parallelo rappresenta le caratteristiche del sarcolemma,
del connettivo fasciale, delle proteine strutturali del citoscheletro e della componente extraC del
connettivo. L’elemento viscoso contenuto negli elementi contrattili e nel connettivo, descrive l’opposizione
da parte del muscolo a rapidi cambiamenti di velocità di contrazione.
La forza prodotta da un muscolo e misurata ai capi tendinei dipende dalla frequenza di stimolazione e dalle
caratteristiche di filtro meccanico delle strutture collegate all’apparato contrattile.
ELETTROMIOGRAFIA DI SUPERFICIE
L’EMG è una tecnica che consente di misurare l’attività elettrica della porzione di muscolo situata sotto gli
elettrodi.
Ciò è permesso dalla diffusione di una piccola quantità di corrente elettrica, trasmessa dal potAZ attraverso
gli strati sottocutanei, fino alla superficie grazie all’acqua. Il segnale è dato dalla somma dei potAZ che si
propagano lungo la FM.
Il problema dell’EMG di superficie è dato dai tessuti sottostanti all’elettrodo che influiscono sul segnale.
Le sonde utilizzate possono avere 4, 8 o 16 canali. Il numero di canali utilizzati dalla sonda è proporzionale
alla grandezza del muscolo, e il motivo per il quale vengono prese tante segnalazioni è da ricercare nel fatto
che la superficie sottostante la sonda non è detto che sia la migliore per la misurazione del potAZ.
I parametri ricavati sono numerosissimi, i quali ci danno indicazioni sulle modalità di reclutamento delle UM
durante la contrazione. Tuttavia i più rilevanti sono:
 Dominio del tempo  RMS (valore rettificato medio): indice di ampiezza del segnale;
 Dominio delle frequenze  MF (frequenza media): indica quanto velocemente si muove il segnale;
 Dominio di conduzione  CV (velocità di conduzione del potAZ): indica quanto velocemente si
propaga il potAZ.

L’ RMS aumenta al crescere dell’intensità. Dipende dal n° di UM attivate e dalla loro frequenza di scarica, e
dalla distanza tra FM e l’elettrodo. È misurato in mV. Nella sua misura vi è un errore sistematico provocato
dal tessuto sottocutaneo interposto.
L’MF aumenta proporzionalmente all’intensità di contrazione. Dipende dalla velocità di conduzione e dal
grado di reclutamento delle UM. È misurata in Hz. Va calcolata poiché non facilmente ricavabile ad occhio.
La CV varia a seconda del contenuto di fibre glicolitiche nel muscolo. È estratta dall’angolo tra orizzontale e
linea che raggiunge i picchi delle onde. L’angolo aumenta all’aumentare dell’intensità di contrazione poiché
vengono attivate fibre via via più veloci. Viene misurata in m/s.
Vi sono due tipi di elettromiografia:
 EMG ad ago: molto selettiva, misura l’attività elettrica della singola UM. È molto invasiva e
dolorosa.
 EMG di superficie: poco selettiva, non invasiva e non dolorosa.

Nell’EMG di superficie è molto importante il posizionamento degli elettrodi per ottenere un segnale quanto
più attendibile. Anzitutto è necessario preparare la cute per ridurre l’impedenza del tessuto interposto:
togliere i peli ed eliminare le impurità attraverso l’utilizzo di un detergente. In seguito, gli elettrodi (dopo
aver scelto la dimensione dell’onda in base alla quantità di UM del muscolo) vanno posizionati sul ventre
muscolare nella porzione compresa tra l’inserzione tendinea e il punto motore in modo tale da ottenere la
rappresentazione della massima attività elettrica di quel muscolo. La schiera di elettrodi inoltre deve essere
posizionata parallelamente all’asse maggiore del muscolo, in modo che gli elettrodi si trovino
perpendicolari all’andamento delle fibre.
La tecnica di EMG può avere varie applicazioni in ambiti diversi:
 Clinica: patologie neuromuscolari;
 Riabilitazione:
- stima della CV in seguito a trattamenti riabilitativi;
- stima della fatica in diverse fasi del recupero funzionale;
- conteggio delle UM attivate durante la ripresa muscolare;
 Sport:
-Determinazione della condizione muscolare;
-Studio della fatica muscolare e messa a punto di allenamenti mirati;
-Effetti dovuti a diete, farmaci;
-Valutazione delle percentuali delle diverse fibre che costituiscono un muscolo.
FUSI NEUROMUSCOLARI E ORGANI TENDINEI DEL GOLGI
I FNM e i GTO intervengono a regolare il 99% delle attività che eseguiamo. Tutto l’aspetto posturale risente
delle loro informazioni e relativi feedback.
La sostanza grigia all’interno del midollo spinale è funzionalmente suddivisibile in 3 parti: le corna posteriori
(zona sensitiva), la zona centrale e le corna anteriori (zona motoria). Intorno alla sostanza grigia è presente
la sostanza bianca, composta dagli assoni mielinizzati delle vie ascendenti e discendenti.
Le corna posteriori sono suddivise in più regioni: la testa, l’istmo e la base. Queste tre regioni ricevono tutte
le afferenze sensitive. La base è la zona destinata a ricevere le informazioni propriocettive, dove formano
un nucleo di fibre di tipo IA, IB. In particolare, le fibre IA terminano sul nucleo laterale e sul nucleo
mediano, mentre le fibre IB terminano quasi esclusivamente sul nucleo laterale.
Parte delle informazioni che arrivano a livello della base andranno a formare il riflesso, l’altra parte,
attraverso le vie ascendenti propriocettive (vie spino-cerebellari), andranno ad informare i centri superiori
in modo da adattare nella maniera più consona possibile lo stato muscolare, affinchè l’azione del muscolo
corrisponda al programma motorio scelto.
Le corna anteriori invece sono divise in due regioni: base e testa. A livello della base delle corna anteriori si
proiettano le informazioni provenienti dalle vie della regolazione motoria (corna posteriori, zona vegetativa
e sistema extrapiramidale).

FUSI NEUROMUSCOLARI
I FNM sono strutture specializzate distribuite nel parenchima
muscolare, in parallelo alle fibre dei muscoli scheletrici. Possono
essere suddivisi in 3 zone: una equatoriale sensitiva e due distali
motorie. Sono riccamente vascolarizzati e innervati. Le fibre che
li compongono sono dette intrafusali e si dividono in due gruppi:
fibre a catena di nuclei e fibre a sacco di nuclei. Entrambe sono
innervate da motoN gamma delle corna anteriori del midollo
spinale. Le fibre sensitive che originano dalla porzione
equatoriale sono di tipo IA; quelle che originano dalle porzioni
distali sono di tipo II.
Un brusco allungamento muscolare attiva i FNM, i quali
rispondono allo stimolo generando un potAZ che porterà le
informazioni inerenti l’allungamento al SNC, attraverso le fibre
afferenti IA e II. Nel SNC, le afferenze contraggono sinapsi sia con i motoN alfa che gamma. I motoN alfa
andranno ad eccitare le fibre extrafusali del muscolo allungato, producendo una contrazione che tende a
riportare il muscolo alla sua lunghezza originaria. I motoN gamma
invece svolgono una funzione essenziale per il mantenimento della
sensibilità dei FNM, poiché quando un muscolo si accorcia le fibre
intrafusali perderebbero la loro tensione, inattivandosi. Pertanto i
motoN gamma producono una contrazione localizzata alle estremità
polari delle fibre intrafusali, che a sua volta determina uno stiramento
della loro parte equatoriale, in modo tale da mantenere costante la
sensibilità del recettore ad ogni livello della contrazione.
Il riflesso miotatico tonico è presente nei muscoli che si oppongono alla
forza di gravità, la quale tende ad allungarli. Le fibre afferenti IA e II
attivano interN centrali che scaricano su motoN gamma facenti parte di
UM toniche, in grado di mantenere per periodi prolungati scariche a
bassa frequenza.
ORGANI TENDINEI DEL GOLGI
I GTO sono propriocettori posizionati a livello della giunzione muscolo-tendinea e nel tendine stesso in
modo trasversale rispetto alle fibre muscolari o connettivali, in serie rispetto agli elementi contrattili.
Sono deputati alla raccolta e alla trasmissione di dati inerenti la tensione sviluppata dai muscoli.
L’innervazione sensoriale è caratterizzata da un fascetto di fibre nervose appartenenti alla classe IB. A
differenza dei FNM sono privi di innervazione motoria.
I GTO si attivano durante una contrazione muscolare che sottopone il
tendine in cui sono presenti a un certo grado di stiramento. Tale
contrazione aumenta la pressione sulle afferenze sensoriali,
inducendole a “scaricare”. Gli impulsi generati arrivano al midollo
spinale, dove vanno ad eccitare interN che inibiscono l’azione dei
motoN alfa deputati all’innervazione dello stesso muscolo da cui è
partito il segnale, ed eccita il motoN del muscolo antagonista
aumentandone il potenziale contrattile.
Il processo prende il nome di riflesso miotatico inverso utile per
evitare le lesioni tendinee causate da una contrazione troppo violenta
e per preservare i muscoli dai danni associati al brusco decremento
del carico applicato.
Esso si oppone quindi a un eccessivo accorciamento, al contrario dei
FNM che si oppone ad uno stiramento.

VIE PROPRIOCETTIVE ASCENDENTI


Le vie ascendenti conducono la sensibilità somatica generale del corpo alla corteccia cerebrale e sono
costituite da una catena di 3 neuroni:
 Spino-vestibolari/tettali: sistemi retroattivi che appartengono al sistema propriocettivo.
Permettono al cervelletto di avere un maggior controllo sull’attività muscolare;
 Spino-cerebellari: si suddividono in
- fascio diretto posteriore: sale attraverso il cordone laterale fino al bulbo, dove va a costituire il
peduncolo cerebellare inferiore e termina nella corteccia cerebellare;
-fascio crociato anteriore: sale attraverso il cordone laterale del lato opposto fino al livello del
ponte mesencefalico del tronco cerebrale e qui decussano nuovamente sullo stesso lato di origine a
formare il peduncolo cerebellare superiore e terminare sulla corteccia cerebellare.

VIE PROPRIOCETTIVE DISCENDENTI


Le vie discendenti ricalcano le vie ascendenti
 Vestibolo-spinali: terminano direttamente (collegamento monoS) a livello dei motoN α e ϒ;
 Tetto-spinali: generano riflessi causati da informazioni visive, provenienti dai tubercoli
quadrigemini ant., e da informazioni acustiche, provenienti dai tubercoli quadrigemini post. I
tubercoli quadrigemini ant. e post. sono nel mesencefalo;
 Olivo-spinali: trasportano ai motoN alfa e gamma del midollo spinale cervicale, informazioni
emozionali e psicologiche derivanti dal fascio centrale della calotta che proviene dalla corteccia
associativa, dal sistema limbico e dall’ipotalamo;
 Reticolo-spinali: trasportano le stesse informazioni del tratto olivo-spinale alle parti inferiori del
midollo spinale.
ANATOMIA FUNZIONALE E ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA NERVOSO
CAPITOLO 3 PAGINA 97

Gli organismi viventi sono sistemi complessi che interagiscono con l’ambiente. Questa interazione è
indispensabile per la sopravvivenza di ciascun individuo, dal momento che ogni essere vivente ha bisogno di
ricavare dall’ambiente le fonti di energia per la propria vita e deve evitare quelle situazioni che mettono in
pericolo l’integrità dell’organismo. L’interazione con l’ambiente comporta l’esposizione del sistema a eventi
che ne alterano l’equilibrio e la necessità di risposte adeguate a queste perturbazioni. Le funzioni che
elaborano risposte adeguate a eventi incontrollabili rientrano nel dominio delle funzioni di controllo e
regolazione dell’organismo. Un sistema di regolazione può essere schematizzato come una porzione di
universo che riceve segnali in ingresso che alterano lo stato del sistema e dà risposte in uscita che riflettono
lo stato del sistema.

3.1 IL SISTEMA NERVOSO COME REGOLATORE DI FUNZIONI FISIOLOGICHE


Il SN ha la precipua funzione di
attuare, in tempi brevi, le funzioni
di regolazione delle risposte
fisiologiche agli eventi perturbanti.
È possibile distinguere due sfere di
azione del sistema nervoso: le
risposte somatiche agli stimoli
esterni (integrazione senso-
motoria/sistema nervoso della vita
di relazione, o somatico); risposte
viscerali agli stimoli interni
(integrazione viscerale/sistema
nervoso vegetativo (autonomo o
viscerale)). Inoltre l’uomo è capace
di processi mentali che possono
avvenire anche in assenza di
segnali esterni e di risposte
motorie. Tutto ciò viene integrato in un sistema unico: il sistema nervoso, nelle sue varie divisioni centrali e
periferiche.

3.1.1 CARATTERISTICHE GENERALI DEL SISTEMA DI INTEGRAZIONE NERVOSA


Un sistema di integrazione prevede l’esistenza di:
 Sensori: che rilevino gli stimoli e li trasducano in segnali (trasformazione in potAZ) utilizzabili dal
sistema. Sono rappresentati dai recettori sensoriali, somatici e viscerali;
 Vie di collegamento ai centri di elaborazione dei segnali rappresentate dalle fibre afferenti,
decorrenti nei nervi sensoriali;
 Reti di elementi che elaborano i segnali. Sono costituite da interN che formano i centri e i nuclei del
SNC;
 Vie di collegamento agli elementi che forniscono le risposte formate dalle fibre efferenti, somatiche
o viscerali che compongono i nervi motori o secretori;
 Effettori che producono le risposte, costituiti da ghiandole e muscoli.
Nel sistema nervoso somatico i recettori comprendono quei corpuscoli e terminazioni da cui prendono
origine le varie modalità sensoriali. Le vie afferenti sono rappresentate dalle vie sensoriali specifiche di
ciascuna modalità (prolungamenti dei neuroni localizzati nei gangli delle radici posteriori del midollo
spinale). I centri di elaborazione delle risposte sono distribuiti lungo tutto il nevrasse, dal midollo spinale
alla corteccia cerebrale. Le vie efferenti sono costituite dalle fibre dei motoN che innervano direttamente
gli effettori, costituiti dalle FMS.
Nel sistema nervoso viscerale i recettori, in parte sono gli stessi del SNsomatico, ma molti sono recettori
viscerali che rilevano variabili dell’ambiente interno. Le vie afferenti sono associate a quelle del SNsomatico
oppure decorrono nei nervi sensoriali del SNvegetativo (nervi simpatici/parasimpatici). Le reti neurali di
elaborazione delle risposte sono costituite da numerosi nuclei distribuiti nel tronco encefalico, corteccia
cerebrale prefrontale, sistema limbico e alcuni interN del midollo spinale. Le vie efferenti sono formate da
un duplice ordine di neuroni che formano sinapsi in un ganglio: nel caso del sistema simpatico il ganglio è
solitamente vicino al nevrasse, mentre per il sistema parasimpatico è vicino all’organo innervato. Gli
effettori sono costituiti dalle FM lisce, fibre miocardiche o cellule ghiandolari.

3.2 ORGANIZZAZIONE DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE E SUOI LIVELLI DI INTEGRAZIONE


Il SNC è distinto in encefalo e midollo
spinale. L’encefalo è suddiviso in
prosencefalo e tronco encefalico. Il
prosencefalo comprende telencefalo (o
cervello, include la corteccia cerebrale che
forma gli emisferi cerebrali e i nuclei
profondi che comprendono i gangli della
base e l’amigdala) e diencefalo (formato da
talamo e ipotalamo). Il tronco encefalico
viene suddiviso in mesencefalo e
romboencefalo (comprende ponte, bulbo e
cervelletto).
Tutte le varie divisioni del SNC funzionano in
maniera totalmente coordinata e, secondo
le specifiche funzioni che esse controllano, possono concorrere in misura diversa ai meccanismi integrativi.
Midollo spinale, tronco encefalico e cervello sono considerati luoghi diversi d’integrazione con diverso
grado di complessità che cooperano dinamicamente formando un unico quadro di attività nervosa che
rappresenta lo stato globale del sistema.

3.2.1 MIDOLLO SPINALE


Da una parte rappresenta un passaggio obbligato per i segnali in ingresso e in uscita della maggior parte del
corpo, dall’altra può essere considerato il livello più periferico d’integrazione, in quanto circuiti nervosi dei
riflessi spinali collegano le vie
d’ingresso a quelle d’uscita, anche
senza il coinvolgimento di livelli
superiori.
Dal punto di vista morfologico, il
midollo spinale è formato da un
nucleo centrale di sostanza grigia,
contenente i corpi neuronali e
prolungamenti dendritici e
assonali, circondato da sostanza
bianca, formata da fibre
mieliniche.
Il midollo spinale viene idealmente
suddiviso in segmenti chiamati mielomeri, corrispondenti alle vertebre. Ciascun mielomero è connesso alla
periferia sensori-motoria mediante le fibre motorie che emergono da esso attraverso le radici anteriori e le
fibre sensoriali che vi arrivano tramite le radici posteriori. Lungo queste ultime si trovano dei rigonfiamenti
formanti i gangli delle radici posteriori, che contengono i corpi cellulari dei neuroni sensoriali di primo
ordine.
La sostanza grigia comprende, in ogni lato, un corno anteriore, contenenti i motoN, e un corno posteriore,
formato dai neuroni bersaglio di una gran parte delle fibre sensoriali in ingresso. Tra queste due
popolazioni neuronali, vi è una fitta rete di interN che collegano le vie sensoriali a quelle motorie, ma che
ricevono anche terminazioni dalle vie nervose discendenti delle sezioni sopraspinali del SNC. Inoltre, alcuni
connettono vari segmenti spinali l’un l’altro.
Tra i due principali corni si trovano i nuclei laterali, contenenti i pirenofori dei neuroni pregangliari della
divisione simpatica del sistema nervoso viscerale, che rappresentano il livello periferico d’integrazione dei
meccanismi regolatori viscerali e la via d’uscita dei meccanismi di controllo vegetativo di origine
sopraspinale.
La sostanza bianca è organizzata in cordoni di fibre ascendenti e discendenti che collegano la periferia
sensoriale ai centri superiori e questi ai centri di comando degli effettori.
Il midollo spinale rappresenta un sistema d’integrazione autonomo capace di dar luogo a meccanismi
integrativi elementari.

3.2.2 TRONCO ENCEFALICO E CERVELLETTO


Il tronco encefalico è la parte morfologicamente meno omogenea del SNC. È formato da nuclei di sostanza
grigia inframmezzati da fasci di fibre. I meccanismi integrativi che si svolgono in questa complicata rete di
neuroni sono importanti per il controllo “di massa” di tutto l’organismo o di estese parti di esso (controllo
del tono muscolare, mantenimento della postura, stato generale di vigilanza). Oltre a ciò nel tronco
encefalico hanno sede numerosi nuclei di integrazione viscerale (circolazione del sangue, ventilazione e
digestione).
Il cervelletto è un organo a sé, annesso al tronco encefalico, fondamentale per il coordinamento dei
movimenti.

3.2.3 CERVELLO
La corteccia cerebrale è la parte più sviluppata del cervello. È formata da
una superficie di sostanza grigia pluristratificata che forma circonvoluzioni
e solchi. Gli emisferi cerebrali vengono suddivisi in lobi dai solchi più
profondi. I lobi principali sono: occipitale, parietale, frontale, temporale.

3.2.3.1 STRUTTURA DELLA CORTECCIA CEREBRALE


La struttura della corteccia cerebrale è caratterizzata da sei strati di
cellule:
o I strato, molecolare;
o II strato, granulare esterno;
o III strato, piramidale esterno;
o IV strato, granulare interno;
o V strato, piramidale interno;
o VI strato, multiforme.

3.2.3.2 AREE DELLA CORTECCIA CEREBRALE


La suddivisione in strati della corteccia cerebrale e la diversa espansione dei vari strati è stata utilizzata per
suddividere il manto corticale in aree con caratteristiche omogenee, cercando poi di assegnare a ciascuna
area una funzione diversa (le 47 aree di Brodman).
Classificazione delle aree della corteccia cerebrale
Una prima generale classificazione delle aree corticali può essere fatta sulla base della loro posizione
nell’anello d’integrazione sensori-motoria che la corteccia globalmente svolge.
 Aree sensoriali primarie: principali stazioni d’arrivo delle vie sensoriali ascendenti;
 Aree sensoriali secondarie: stazioni che ricevono segnali sensoriali specifici dalle rispettive aree
primarie;
 Aree motorie primarie: aree di partenza delle vie motorie discendenti;
 Aree associative: aree che si trovano tra le aree sensoriali e quelle motorie.

Colonne corticali
Molte aree corticali sono suddivise in unità anatomo-funzionali chiamate colonne, caratterizzate
funzionalmente per essere in relazione con una regione limitata della periferia, sensoriale o motoria, e per
essere attivata secondo modalità funzionali omogenee. Ogni colonna ha vie proprie d’ingresso e d’uscita,
mediante le quali è collegata con le altre colonne, della stessa o di altre aree. Nell’insieme, questa struttura
forma le complesse reti neuronali che attuano le funzioni della corteccia cerebrale.

3.2.3.3 CONNESSIONI DELLA CORTECCIA CEREBRALE


Le connessioni della corteccia vengono distinte in vie afferenti (provengono spesso dai nuclei del talamo),
vie di proiezione (collegano la corteccia ai centri sottocorticali) e vie associative (collegano reciprocamente
le aree corticali). Le ultime sono distinte in: connessioni anterograde (feedforward) e connessioni
retrograde (feedback). Le connessioni anterograde sono quelle che procedono dalle aree sensoriali
primarie a quelle secondarie e da queste alle aree associative; le connessioni retrograde vanno invece nella
direzione opposta.
Oltre a questi collegamenti esistono molte altre connessioni intracorticali, attuate da interN che collegano
fra loro le singole colonne di un’area o gli strati di una stessa colonna: i microcircuiti corticali.

3.2.3.4 NUCLEI DELLA BASE


I nuclei della base (o gangli della base) sono un gruppo di nuclei di sostanza grigia immersi nella sostanza
bianca sottocorticale. Si distinguono due principali raggruppamenti nucleari: il corpo striato, interconnesso
con la corteccia cerebrale, il talamo e il cervelletto, coinvolto in funzioni di organizzazione e controllo dei
movimenti volontari; il complesso amigdaloideo, connesso con il sistema olfattivo e correlato con funzioni
istintuali e viscerali.

3.2.4 DIENCEFALO
Il talamo è un importante complesso di circa 26 nuclei interposti tra telencefalo e strutture inferiori del
nevrasse. Anatomicamente si raggruppano per la loro posizione in nuclei anteriori o posteriori, dorsali o
ventrali, mediali o laterali, più un gruppo di nuclei intermedi chiamati intralaminari. Funzionalmente si
distinguono in nuclei specifici (o relais) che hanno connessioni con parti delimitate della corteccia cerebrale
svolgenti funzioni sensoriali motorie o associative, e nuclei aspecifici connessi con ampie parti della
corteccia i quali svolgono azioni generalizzate sull’attività elettrica di base della corteccia, essendo coinvolti
in funzioni di controllo degli stati di vigilanza.
L’ipotalamo, formato da un gruppo di nuclei, è considerato il “cervello viscerale” perché le sue funzioni
sono strettamente correlate con il controllo vegetativo ed endocrino del mezzo interno.

3.3 PRINCIPI DI FUNZIONAMENTO DEL SISTEMA NERVOSO CENTRALE


Il SNC è formato da gruppi di cellule, organizzate in nuclei, strati, colonne, aree e da fibre che li connettono.
Mentre le fibre servono a trasmettere segnali elettrici (potAZ) da un gruppo neuronale all’altro, i neuroni
svolgono una funzione integrativa. Questa è permessa dalle moltissime connessioni sinaptiche che si
formano tra le terminazioni degli assoni e le porzioni recettoriali dei neuroni, i dendriti e i corpi cellulari.
Essendo i potAZ fenomeni “tutto o nulla” la trasmissione dello stato di attivazione di un neurone avviene
mediante un codice di frequenza. Più un neurone è attivo, più è elevata la frequenza dei potAZ che
insorgono nel cono assonale e raggiungono le terminazioni degli assoni.
Ciascuno stato globale del sistema è il risultato dell’effetto che l’insieme degli stimoli che vengono recepiti
da tutti i recettori sensoriali ha sul sistema stesso, con le modificazioni determinate dai processi elaborativi
propri del sistema. Al mondo proveniente dall’esterno corrisponde un mondo interno, quello percepito
dalla coscienza, che risulta dalla combinazione dei segnali in ingresso della periferia sensoriale, passati
attraverso gli operatori delle reti neuronali del SNC e combinati con i segnali intrinseci che possono sorgere
dall’attività propria del sistema, indipendente dai segnali sensoriali immediati, ma basata su segnali
immagazzinati in memoria. Il funzionamento del SNC può quindi essere visto come il modo in cui le
percezioni, gli stati di coscienza e i movimenti vengono rappresentati nei loro diversi elementi, nella rete
neuronale, a formare lo stato istantaneo del sistema.

3.3.1 RAPPRESENTAZIONI NERVOSE


Un primo fondamentale metodo di rappresentazione nel SNC è la codificazione locale, e consiste nel fatto
che i contenuti specifici della rappresentazione sono espressi dallo stato di eccitazione di precisi elementi
neuronali, fisicamente distinti da quelli che rappresentano altri contenuti. Un esempio sono le mappe
spaziali della periferia sensoriale in cui i segnali sensoriali tattili rilevati dai recettori distribuiti su tutta la
cute vengono condotti fino alla corteccia somato-sensoriale primaria mantenendo i rapporti spaziali di
contiguità che hanno sulla cute (somatotopia). La stimolazione di punti contigui sulla cute attiva neuroni
contigui nelle strutture nervose che convogliano ed elaborano i segnali. In tal modo, i neuroni di ciascun
punto delle vie somato-sensoriali rappresentano una piccola regione di cute (campo recettivo). Ciò dà
luogo alla formazione di “mappe” distorte in funzione della densità dei recettori periferici, in specifiche
aree del nevrasse. Lo stesso discorso va esteso a modalità sensoriali che non hanno in origine una
distribuzione spaziale come i toni acustici o i sapori. La rappresentazione locale ha la sua controparte anche
sul versante motorio, tanto che ogni gruppo muscolare si contrae per l’eccitazione di gruppi neuronali
diversi e gruppi neuronali contigui comandano gruppi di FM contigue. Questa “mappa motoria” è
mantenuta dalla corteccia motoria primaria al midollo spinale.
Questa codificazione però, non può rendere conto da sola dell’enorme varietà di variabili funzionali da
rappresentare, poiché sarebbe necessario un numero di neuroni maggiore rispetto a quello presente.
Il SNC utilizza anche la codificazione vettoriale, che consiste nel fatto che una variabile funzionale
rappresentata dallo stato di attivazione di una popolazione neuronale piuttosto che di un solo neurone.
Ciascun elemento della popolazione si attiva massimamente per un aspetto della modalità rappresentata,
ma, in misura minore, anche per gli altri aspetti. La rappresentazione è quindi distribuita e tutta la
popolazione partecipa a esprimere lo specifico stato da riprodurre.
SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO
CAPITOLO 4 PAGINA 111

Il sistema nervoso vegetativo è considerato un sistema che provvede al controllo di funzioni viscerali
critiche per l’omeostasi, ovvero la tendenza al mantenimento delle funzioni dell’organismo attorno a uno
stato stabile.
È un sistema motorio viscerale, in larga misura involontario, e funziona sulla base di archi riflessi, che
possono essere modulati da vari stimoli, per poter garantire un preciso controllo omeostatico. Tale
controllo è esercitato sulla muscolatura liscia, cardiaca e sulle ghiandole esocrine. Inoltre, vari processi
metabolici sono secondariamente influenzati da questo sistema, attraverso la liberazione di ormoni.
È perciò un sistema effettore che possiede un’organizzazione simile a quella del sistema motorio somatico.
Sulla base di caratteristiche anatomiche, fisiologiche e chimiche, si possono riconoscere nel sistema
nervoso autonomo due divisioni principali: simpatica e parasimpatica. Una terza divisione, il sistema
nervoso enterico, costituito da un complesso insieme di cellule nervose localizzate nella parete del tratto
gastrointestinale, controlla il tono dei vasi sanguigni, la motilità e le secrezioni intestinali, svolgendo un
ruolo importante per il mantenimento dell’omeostasi.

4.1 ANATOMIA FUNZIONALE


Pur essendoci similitudini tra il
SNV e quello somatico, si
differenziano per alcuni aspetti.
Tutti i motoN somatici sono
localizzati nel SNC, a livello delle
corna anteriori del midollo
spinale o nei nuclei motori dei
nervi cranici, e sono connessi
monosinapticamente con i MS.
invece i motoN del SNV sono
localizzati perifericamente,
all’interno di gangli. Tali motoN
sono chiamati postgangliari, sono
attivati da neuroni pregangliari,
aggregati in colonne disposte a
livello del tronco encefalico e del
midollo spinale. Pertanto il
circuito neuronale che arriva alla
muscolatura liscia è disinaptico.
Inoltre è importante notare che la sinapsi fra motoN somatico e MS è sempre eccitatoria e l’eventuale
controllo inibitorio è esercitato a livello centrale. Al contrario, nel SNV il controllo inibitorio si verifica a
livello dell’organo bersaglio, che, quindi, può essere eccitato o inibito direttamente, consentendo di
rispondere adeguatamente alle perturbazioni dell’ambiente interno e di riportare l’organismo in condizioni
omeostatiche.
Infine il SNV possiede un’attività tonica basale, potendo regolare un determinato organo bersaglio da sola.

4.2 SISTEMA NERVOSO SIMPATICO


Questa divisione del SNV è più grande e complessa, e innerva un maggior numero di strutture rispetto al
sistema nervoso parasimpatico.
I corpi cellulari dei n. preG sono
localizzati a livello della sostanza
grigia intermedio-laterale dei
segmenti toracici e lombari
superiori del midollo spinale (T1-
L3). Gli assoni dei n. preG
emergono dal midollo spinale, a
livello dei loro corpi cellulari,
assieme alle radici anteriori dei
nervi spinali. Essi
successivamente si separano
dagli assoni dei motoN somatici,
andando a costituire i rami
comunicanti bianchi (costituiti da
fibre mieliniche). Gli assoni dei n.
postG, costituiscono i rami
comunicanti grigi (costituiti da fibre amieliniche).

4.2.1 NEURONI PREGANGLIARI


Gli assoni dei n. preG possono presentare
differenti destini. La maggior parte entra nella
catena paravertebrale simpatica e contrae
sinapsi con uno o più n. postG, situati in gangli
simpatici della catena. Nella regione spinale
cervicale, dove non ci sono n. preG, sono
presenti due o tre gangli simpatici, denominati
gangli cervicali superiore, medio e inferiore.
Alcune fibre preG non si arrestano nella catena
di gangli paravertebrali, ma proseguono fino ad
altri gangli denominati prevertebrali (celiaco,
mesenterico superiore e inferiore, pelvico-
ipogastrico). Infine, un altro gruppo di fibre
preG termina direttamente su cellule della
midollare del surrene.

4.2.2 CONVERGENZA E DIVERGENZA NEL


SISTEMA NERVOSO SIMPATICO
Vari assoni preG possono terminare su un
singolo n. postG (convergenza) e relativamente
pochi n. preG possono contrarre sinapsi con
molti n. postG (divergenza). Il significato della
convergenza è attribuibile al fatto che un
singolo evento sinaptico non è sufficiente a
scatenare un potAZ in un n. postG, per la cui
attivazione è necessaria la sommazione di più
eventi sinaptici. Nel fenomeno della divergenza
il rapporto tra connessioni dei n.preG e postG è
generalmente compreso tra 1:10 e 1:100.
4.3 SISTEMA NERVOSO PARASIMPATICO
Anche la divisione parasimpatica del SNV è
organizzata come una catena bineuronale. I
corpi cellulari dei n.preG parasimpatici sono
localizzati nel tronco encefalico e a livello dei
segmenti sacrali (S2-S4) del midollo spinale. Gli
assoni di questi neuroni sono generalmente
più lunghi di quelli dei n.preG simpatici e
terminano con sinapsi su n. postG, posti in
vicinanza o nello spessore delle pareti degli
organi bersaglio. Il principale nervo della
divisione parasimpatica è il nervo vago, che
provvede al controllo del cuore, della
muscolatura liscia e delle ghiandole di visceri
del collo, del torace e del tratto
gastrointestinale, dallo stomaco alla flessura
splenica, inoltre innerva anche le ghiandole
accessorie del tratto gastrointestinale quali
pancreas e fegato.

4.4 TRASMISSIONE SINAPTICA NEL SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO


I mediatori chimici della trasmissione sinaptica nel SNV, oltre che all’acetilcolina e la noradrenalina
includono anche numerosi peptidi co-localizzati a livello delle terminazioni preS, che possono essere liberati
assieme ai neurotrasmettitori classici.

4.4.1 NEUROTRASMETTITORI
Tutte le fibre preG, sia paraS che S, e le fibre postG paraS liberano ACh e sono pertanto denominate
colinergiche. La grande maggioranza delle fibre postG S libera noradrenalina e perciò denominate
noradrenergiche.
Tra le altre sostanze liberate dalle sinapsi del SNV si annoverano la dopamina e, tra i peptidi, il GnRH
(gonadotropin-releasing hormone), il CRH (corticotropin- releasing hormone), il VIP (vasoactive intestinal
peptide) e il neuropeptide Y.
Le azioni di tali peptidi sono spesso più lente di quelle di acetilcolina e noradrenalina e la loro liberazione
può dipendere dalla frequenza di stimolazione.
Questi neurotrasmettitori co-localizzati vengono immagazzinati all’interno delle terminazioni nervose in
vescicole separate.

4.4.2 RECETTORI DEL SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO


L’acetilcolina agisce su due tipi di recettori, nicotinico e muscarinico. Il primo è un recettore-canale che si
attiva in seguito al legame con il mediatore e lascia passare sia ioni sodio che potassio, con effetto
depolarizzante sul potenziale di membrana. Tale depolarizzazione è rapida e di breve durata. È localizzato
sia nei gangli del SNV (subunità proteiche α e β) sia nella placca NM (subunità proteiche α, β, ϒ, δ).
Il recettore muscarinico è invece un recettore metabotropo (può essere α1, α2, β1 o β2), costituito da una
proteina che attraversa più volte la membrana cellulare e che può attivare o meno una cascata enzimatica,
determinando, eventualmente, la formazione di un secondo messaggero. Tale recettore perciò, può avere
sia effetti eccitatori sia effetti inibitori e dà origine a potenziali postS lenti, di qualunque tipo essi siano.
4.5 CONTROLLO DEL SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO
Il sistema nervoso autonomo è un sistema “controllato”. L’ambiente interno è monitorato da recettori in
grado di rilevare specifiche variabili, così da permettere il raffronto tra valori misurati e valori di riferimento
(o set points), per produrre, se necessario, una risposta in grado di correggere l’errore. Pertanto il SNA
utilizza circuiti a feedback per correggere eventuali alterazioni dell’omeostasi.

4.5.1 MECCANISMI CENTRALI DI CONTROLLO


Le regioni cerebrali che influenzano il SNV agiscono nella maggior parte dei casi attraverso l’ipotalamo. Tale
struttura proietta a vari nuclei del tronco encefalico e del midollo spinale, che, a loro volta, tramite neuroni
autonomi preG, possono controllare temperatura corporea, frequenza cardiaca, calibro dei vasi e quindi
pressione arteriosa e respirazione.
L’ipotalamo, inoltre, può esercitare un controllo più generale sulle funzioni del SNV anche attraverso la
regolazione della secrezione di ormoni.
La dimostrazione che la stimolazione dell’ipotalamo posteriore conduce una forte attivazione di risposte
coordinate del sistema simpatico ha portato a definire tale struttura come ganglio centrale del SNV.
Tuttavia, nonostante l’importanza del controllo dell’ipotalamo sul SNV, la regolazione di molte funzioni
vegetative non richiede un controllo ipotalamico continuo.

4.6 SISTEMA NERVOSO VEGETATIVO E ORGANI EFFETTORI


In generale le funzioni paraS riguardano l’aspetto vegetativo della vita dell’individuo (digestione,
assorbimento, secrezioni e motilità). Il sistema simpatico entra in azione nelle situazioni di emergenza,
preparando il soggetto al comportamento di attacco-fuga, con tachicardia, ipertensione e iperglicemia.
Tuttavia la sua funzione non è limitata a tali situazioni.

4.6.1 CUORE
Le fibre simpatiche innervano il nodo SA, il sistema di conduzione del cuore, i vasi coronarici e sono
ampiamente distribuite alla muscolatura cardiaca, sia atriale che ventricolare. La loro attivazione determina
aumento dell’eccitabilità delle fibre miocardiche, della frequenza cardiaca, della velocità di conduzione
degli impulsi cardiaci e della contrattilità miocardica, nonché vasocostrizione coronarica.
Le fibre paraS dirette al cuore innervano i nodi SA e AV e la muscolatura atriale. L’innervazione paraS del
miocardio ventricolare e dei vasi coronarici appare poco rilevante. Il sistema paraS provoca una riduzione
della frequenza cardiaca.

4.6.2 OCCHIO
Le fibre preG paraS viaggiano nel nervo oculomotore e innervano il muscolo sfintere dell’iride che,
contraendosi, riduce il diametro della pupilla, provocando miosi.
Le fibre simpatiche innervano il muscolo dilatatore dell’iride, che contraendosi aumenta il diametro
pupillare, causando midriasi. La stimolazione di una o dell’altra branca del sistema nervoso vegetativo
dipende dall’intensità dello stimolo luminoso: se questa è elevata è attivato il sistema paraS; se bassa, il
sistema S.

4.6.3 GHIANDOLE SALIVARI


La secrezione salivare è stimolata sia dal sistema S sia da quello paraS. La stimolazione di entrambi i sistemi
produce una secrezione massimale. Tuttavia i due sistemi determinano la produzione di tipi di saliva diversi.
La stimolazione simpatica determina la secrezione di una saliva più viscosa, con un alto contenuto di
amilasi, mentre la stimolazione paraS induce la produzione di una saliva fluida e particolarmente ricca di
acqua. Composizione e volume di saliva dipendono dalla cooperazione dei due sistemi.
4.6.4 VESCICA
Il controllo della vescia è operato non solo dal SNV, ma anche dal sistema motore somatico. I segnali diretti
alla parete della vescica, che provocano la contrazione e quindi lo svuotamento della stessa, sono di natura
paraS. Questi segnali sono attivi solo quando la vescica raggiunge un certo grado di distensione. Il sistema S
è attivo quando la distensione della vescica è bassa. La stimolazione delle fibre S provoca direttamente il
rilasciamento della parete vescicale e inoltre l’eccitamento del muscolo sfintere interno e l’inibizione del
paraS.

4.6.4 GHIANDOLE SUDORIPARE


Le ghiandole sudoripare sono innervate esclusivamente dal sistema simpatico attraverso fibre postG
colinergiche. La stimolazione delle fibre S colinergiche causa attivazione delle ghiandole sudoripare.
CONTROLLO MOTORIO
CAPITOLO 7 PAGINA 185

Il movimento costituisce la principale forma di espressione e di comunicazione nonché la base della


sopravvivenza per tutte le specie animali. L’agilità e la destrezza riflettono la capacità di sistemi motori di
pianificare ed eseguire movimenti complessi in modo coordinato. I diversi tipi di movimento pianificati ed
eseguiti dai nostri sistemi motori sono consentiti dalla disponibilità continua di informazioni sensoriali e
dall’esistenza di sistemi di controllo motorio organizzati in modo sia gerarchico sia parallelo.

7.1 RELAZIONE TRA PERCEZIONE E AZIONE


Percezione e azione sono inestricabilmente collegate e interdipendenti: agiamo perché percepiamo e
percepiamo perché agiamo. La scoperta dei “neuroni specchio” fanno ipotizzare l’esistenza di un repertorio
neuronale di “percezioni” legate a un repertorio di azioni, che consente al cervello di simulare gli effetti al
fine di scegliere quella più appropriata.
Le informazioni sensoriali sono necessarie per la pianificazione dei movimenti e per il loro controllo in corso
di esecuzione. Esse vengono utilizzate per correggere gli errori di movimento attraverso meccanismi di
controllo a feedback (retroazione) e a feedforward (anticipazione). Per operare un controllo a feedback
bisogna disporre di sensori che rilevano i parametri in uscita del sistema e forniscono un segnale di ritorno,
che viene paragonato con un segnale di riferimento che specifica il valore desiderato dell’uscita. I
meccanismi a feedback possono essere utilizzati per mantenere costante una variabile o per modularla. Nel
SN questi meccanismi possono essere utilizzati solo nei movimenti lenti e nel controllo di atti motori
sequenziali, perché il tempo necessario per ricevere e analizzare i segnali sensori è relativamente lungo.
Spesso le informazioni sensoriali sono utilizzate in modo più efficace in anticipo per modificare le grandezze
sotto controllo, prima che si manifestino eventi che le possano influenzare.
Sebbene gli stessi sensori possano fornire informazioni a entrambi i sistemi di controllo, il modo in cui
queste informazioni sono elaborate è alquanto diverso. Nel feedback i segnali di errore sono stimati in
maniera continua e controllano la risposta durante la sua esecuzione momento per momento. A causa dei
tempi di trasmissione degli impulsi nervosi, i processi biologici a feedback operano piuttosto lentamente,
mentre i sistemi feedforward più rapidamente. Probabilmente buona parte dei nostri movimenti è
sottoposta a un tipo di controllo detto intermittente, che utilizza al meglio, contemporaneamente,
entrambi i sistemi di controllo.
L’uso ripetuto di questi meccanismi consente l’affinamento progressivo dei movimenti che si ottiene con
l’esercizio.

7.2 INTEGRAZIONE DELLE INFORMAZIONI SENSORIALI CON I COMANDI MOTORI


Avviene a tre livelli organizzati in modo gerarchico e in parallelo: midollo spinale, tronco encefalico e
corteccia cerebrale.
Le principali categorie di movimento sono: riflesse, ritmiche e volontarie.
Le risposte riflesse sono i comportamenti motori più semplici e presentano il minor grado di controllo
volontario. Sono definiti come risposte rapide, stereotipate e involontarie.
Nelle attività motorie ritmiche, l’inizio e la fine sono volontari, la sequenza motorie invece, una volta
avviata, continua quasi automaticamente.
I movimenti volontari sono i più complessi. Sono intenzionali, in buona parte appresi, e la loro precisione
aumenta con l’esercizio. Più sono perfezionati con la pratica, minore partecipazione richiedono.
La maggior parte dei movimenti avviene a livello delle articolazioni. Poiché i muscoli possono solo
esercitare trazioni a livello dei loro punti di inserzione, per generare i movimenti è necessario l’intervento di
gruppi muscolare inseriti in punti opposti delle articolazioni, che fungono da fulcro. Ogni movimento è
determinato da muscoli ad azione opposta: agonisti, che lo promuovono, e antagonisti che lo rallentano.
I sistemi motori devono inviare i comandi in tempi opportuni a molti gruppi di muscoli; devono tenere
contro della distribuzione della massa corporea e compiere gli aggiustamenti posturali appropriati ai
movimenti da eseguire e devono tenere contro dell’impianto meccanico dell’apparato motorio.
I livelli inferiori dell’organizzazione gerarchica sono in grado di generare movimenti di tipo riflesso che
possono svilupparsi anche secondo complessi schemi spazio-temporali, così che i livelli superiori si limitino
a dare comandi di carattere generale.
In virtù della loro organizzazione in parallelo, i sistemi motori sono però anche in grado di generare
comandi che agiscono direttamente su un livello che non è quello immediatamente inferiore. Inoltre
l’associazione di meccanismi in parallelo e di tipo gerarchico fa sì che nei sistemi motori, ai vari livelli
organizzativi siano presenti componenti funzionali diverse. Ciò, oltre a un certo grado di ridondanza,
consente di imparare con la pratica a trattare più trasformazioni sensori-motorie simultaneamente,
accorciando così i tempi di reazione a stimoli noti.
I ruoli delle principali componenti dei sistemi motori possono essere così riassunti:
 Il midollo spinale costituisce il livello più basso dell’organizzazione gerarchica e contiene circuiti
neurali che mediano varie attività automatiche e stereotipate e molti riflessi.
 Il tronco encefalico contiene due sistemi principali: il sistema mediale, che svolge un ruolo
fondamentale nel controllo della postura e quello laterale, che controlla prevalentemente i muscoli
distali degli arti. I nuclei del tronco encefalico controllano anche i movimenti del capo e degli occhi.
 La corteccia motoria primaria, la corteccia premotoria e l’area motoria supplementare
costituiscono il livello gerarchicamente più elevato. Interagendo con la corteccia parietale
posteriore, pianificano il movimento.
 A un livello gerarchico ancora superiore, la corteccia frontale dorsolaterale sembra responsabile
degli aspetti decisionali: se e come muoversi e a quale fine farlo.
 Ogni componente dei sistemi motori contiene mappe somatotopiche collegate tra loro.
 Esistono altre due formazioni molto importanti per le funzioni motorie: il cervelletto, che regola
l’attività delle strutture motorie del tronco encefalico e della corteccia motoria e aggiorna e
perfeziona i programmi motori, e i nuclei della base, implicati nella pianificazione del movimento.

7.3 ORGANIZZAZIONE DEL MOVIMENTO VOLONTARIO


Attraverso l’apprendimento motorio acquisiamo un controllo complesso delle capacità motorie per cui
possiamo assumere specifiche posizioni e possiamo selezionare le strategie motorie più opportune per
rispondere alle richieste dell’ambiente interno o di quello esterno.
L’apprendimento motorio consiste essenzialmente nel controllo che acquisiamo sulla coordinazione delle
articolazioni e dei muscoli che entrano in gioco quando si rende necessario raggiungere un obiettivo.
Dopo aver ripetuto un movimento più volte diventiamo capaci di visualizzarlo prima dell’esecuzione, in
modo da poter selezionare i parametri del movimento che desideriamo eseguire confrontando ciò che
ricordiamo dall’esperienza passata con le situazioni attuali, in modo da correggere ciò che intendiamo fare.
Quando il compito motorio è in corso di esecuzione, l’informazione sensoriale che origina in periferia dai
propriocettori, raggiunge il cervello dove viene utilizzata, come in un meccanismo a feedback, per regolare
l’attività in corso e per guidare l’esecuzione in accordo alla memoria del movimento appreso.
I movimenti consistono in una sequenza di contrazioni muscolari che possono avvenire con o senza la
partecipazione della volontà, e pertanto possono essere classificati come volontari oppure automatici.

7.3.1 MOVIMENTI VOLONTARI


Tra i movimenti volontari possiamo includere quelli rapidi, o ballistici, e i movimenti lenti, o continui. I primi
sono movimenti esplosivi, di breve durata, che cessano quasi prima che l’arto completi la sua evoluzione. I
secondi sono eseguiti invece con estrema delicatezza. Nei movimenti ballistici il feedback sensoriale non ha
tempo per poter agire a causa della velocità del movimento estremamente alta e pre-programmata, al
contrario, nei movimenti lenti, esso agisce, ed è pertanto possibile correggere il movimento in corso.
I movimenti possono essere eseguiti in risposta a stimoli interni o esterni, oppure possono essere
movimenti spontanei apparentemente non legati ad alcuno stimolo.

7.3.2 PROGRAMMA MOTORIO


Il piano, o programma motorio, è un insieme di comandi già strutturati da indirizzare ai muscoli, prima che
il movimento inizi, che deve essere avviato secondo una temporizzazione ben precisa in modo che tutta la
sequenza motoria possa avvenire senza intervento del feedback periferico. Il piano specifica dove
(raggiungere il posto o la posizione inziale dalla quale avviare
l’azione volitiva), quando (stabilire la tempistica
dell’esecuzione della sequenza motoria) e come (mettere
insieme e armonizzare tutte le istruzioni motorie richieste per
eseguire il programma) muoversi.
Il programma comprende non solo le sequenze dei comandi
nervosi che dettano l’attività dei muscoli assiali, prossimali e
distali, sia agonisti che antagonisti, ma anche i sottoprogrammi
e le complesse sequenze che codificano anche i più piccoli
dettagli dell’esecuzione dei movimenti pianificati.
Infine il programma motorio viene avviato, svolto
sequenzialmente, controllato nella sua evoluzione e quindi
terminato.
La struttura responsabile dell’idea (programmazione:
decisione del movimento; e pianificazione: anticipazione
mentale dello schema motorio) del movimento potrebbe
essere l’area motoria supplementare, la quale, infatti, è
collegata alle cortecce associative (per integrare sistema
somatomotorio e viscerale), alla corteccia motoria
(responsabile dell’esecuzione del movimento), ai nuclei della
base e al cervelletto laterale (controllano e migliorano il
movimento)
Quando i comandi motori giungono ai motoN spinali, il
movimento viene eseguito, mentre la parte intermedia del
cervelletto, sulla base delle informazioni che riceve dalla
periferia, informa tramite alcuni nuclei pontini, la corteccia
cerebrale dell’evoluzione del movimento in corso. Il confronto
del programma motorio selezionato con il movimento in atto consente di modificare il programma
originario se il movimento non viene eseguito secondo quanto programmato. Le strutture dello schema,
pertanto, operano come un insieme ben integrato che ha come fine quello di rendere armonico l’evolversi
del movimento, mediante l’attivazione intelligente dei muscoli coinvolti (muscle winslow).

7.4 ORGANIZZAZIONE CORTICALE DEL MOVIMENTO


Già dal 1800 esiste la dimostrazione che specifiche aree cerebrali controllano i movimenti della metà
controlaterale del corpo.

7.4.1 CORETCCIA MOTORIA


L’area di corteccia cerebrale, la cui stimolazione elettrica produce reazioni motorie in gruppi muscolari
distinti a più bassa latenza e intensità, è rappresentata dal giro precentrale, detto anche corteccia motoria
(area 4 di Brodmann).
7.4.1.1 ORGANIZZAZIONE TOPOGRAFICA
La corteccia motoria primaria contiene una mappa motoria del corpo (organizzazione somatotopica/
homunculus motorio). Come per le mappe sensitive, anche per la mappa motoria le diverse parti del corpo
non hanno una rappresentazione proporzionale alla loro massa né alla loro estensione, bensì in base alla
precisione e al controllo motorio che richiedono le loro azioni.

Plasticità
Numerosi esperimenti clinici hanno dimostrato che l’organizzazione topografica della corteccia motoria può
modificarsi in seguito a lesioni o ad apprendimento. Ciò riveste un’importanza fondamentale nel consentire
almeno una parziale riabilitazione funzionale in pazienti che sono andati incontro a ictus o ad altri tipi di
lesioni cerebrali.

7.4.1.4 CONTROLLO CORTICALE DEL MOVIMENTO


La corteccia motoria, entrando in attività prima dell’inizio del movimento codificandone la forza,
contribuisce all’inizio del movimento. Il movimento ottenuto risulta dall’attività di una vasta popolazione di
neuroni, i quali sono tenuti informati sulle conseguenze del loro prodotto dalle afferenze sensitive stesse
sia estero che propriocettive provenienti dal segmento corporeo controllato.

7.4.2 AREE CORTICALI PREMOTORIE, PIANIFICAZIONE MOTORIA E TRASFORMAZIONE SENSORI-MOTORIA


La corteccia motoria presiede all’esecuzione del movimento volontario, ma
non è responsabile della pianificazione del movimento. Le principali
componenti del programma motorio sarebbero invece sviluppate nelle aree
premotorie della corteccia cerebrale, situate nel lobo frontale: l’area motoria
supplementare e l’area motoria propriamente detta. Gli assoni di queste aree
proiettano, oltre che a strutture sottocorticali e al midollo spinale, anche alla
corteccia motoria primaria.

7.4.2.1 AREA MOTORIA SUPPLEMENTARE


Svolge un ruolo importante nella programmazione di sequenze motorie e nel coordinamento dei
movimenti bilaterali. Il ruolo dell’area motoria supplementare nella programmazione di sequenze motorie
complesse fu dimostrato analizzando il flusso ematico di alcune aree cerebrali, il quale aumentava anche se
la sequenza motoria era solo immaginata dal soggetto e non eseguita. Quindi quest’area è importante nella
programmazione delle sequenze motorie, ma non ne determina l’esecuzione.

7.4.2.2 CORTECCI PREMOTORIA PROPRIAMENTE DETTA


Essa svolge un ruolo importante nel controllo della motilità assiale e prossimale nelle fasi di orientamento
del tronco e del braccio verso un obiettivo, così come nel controllo dei movimenti guidati da informazioni
sensoriali visive e somatiche.

7.4.2.3 INTEGRAZIONE SENSORI-MOTORIA


I segnali provenienti dalla periferia sono ritrasmessi direttamente alla corteccia motoria attraverso il talamo
e la corteccia somatosensitiva, o indirettamente, alle aree premotorie attraverso le aree associative
sensoriali. In secondo luogo, le aree motorie ricevono afferenze dal cervelletto che vengono ritrasmesse dal
talamo e si distribuiscono principalmente alla corteccia motoria primaria e a quella premotoria. La terza
fonte di afferenze è costituita dai nuclei della base che operano attraverso il circuito pallido-talamo-
corticale.
Nella prima fase del processo di preparazione del movimento, le informazioni sul mondo esterno, ottenute
attraverso le varie modalità sensoriali, debbono essere correlate con informazioni concernenti la posizione
del corpo e degli arti e con lo stato motivazionale. In questo processo prende parte la corteccia parietale
posteriore, in quanto fornisce le informazioni spaziali necessarie per l’esecuzione dei movimenti orientati
nello spazio e diretti verso un oggetto.
Per produrre questi movimenti è necessaria una trasformazione delle rappresentazioni sensoriali
dell’ambiente circostante in segnali motori: questa trasformazione è generalmente detta sensori-motoria.

7.5 CONTROLLO DEL TONO MUSCOLARE E DELLA POSTURA


La postura è la posizione che assume il corpo a riposo o in movimento in opposizione alla forza di gravità. Il
corpo, per svolgere le funzioni della vita di relazione necessita della contrazione continua dei muscoli
antigravitari. La difficoltà di mantenere la posizione eretta dipende dal rapporto tra ampiezza della base di
supporto e altezza del baricentro. L’informazione necessaria per il controllo della postura è fornita dai
sistemi sensoriali propriocettivo, vestibolare e visivo e si realizza attraverso la contrazione tonica di origine
riflessa dei muscoli antigravitari. La risposta muscolare non è solo il risultato immediato dell’azione dei
diversi sistemi sensoriali, ma dipende anche dall’elaborazione centrale di tali segnali che permette di
ricostruire coordinate spaziali e un modello interno di posizione del corpo. Le risposte motorie posturali
sono infatti il risultato del confronto tra uno schema corporeo e globale e le singole informazioni sensoriali.

7.5.1 RISPOSTE PROPRIOCETTIVE TONICHE


L’azione della gravità, a livello delle articolazioni provoca apertura dell’angolo
articolare e quindi stiramento dei muscoli antigravitari, il quale distendendo i
FNM, posti in parallelo con le FM extrafusali, aumentano la loro scarica afferente.
Gli impulsi raggiungono i motoN dei muscoli omonimi e ne determinano la
contrazione in modo tale da riportare l’angolo articolare in posizione iniziale.
L’azione di questo riflesso (miotatico tonico) è continua nel tempo e assicura la
presenza di un tono muscolare nei muscoli antigravitari (estensori dell’arto
inferiore e flessori dell’arto superiore). Questo riflesso è modulabile dal SNC
attraverso l’attività dei motoN ϒ, che rendono il recettore più sensibile
all’allungamento.
Il controllo del tono si realizza anche a opera del lobo anteriore del cervelletto, che riduce il tono posturale
agendo direttamente sui motoN α.

7.5.2 RISPOSTE PROPRIOCETTIVE DINAMICHE


La stabilità di una posizione articolare è in parte assicurata dalle
proprietà passive meccaniche intrinseche dei muscoli e in parte da
meccanismi riflessi (miotatico fasico, meccanismo attivo). Quando
una repentina perturbazione modifica l’ampiezza degli angoli
articolari, i muscoli che vengono allungati sviluppano una forza
maggiore in direzione contraria opponendosi agli effetti della
perturbazione. La forza generata dal ritorno passivo è direttamente
proporzionale al grado di allungamento del muscolo. Nei muscoli accorciati avviene l’opposto. L’efficacia di
questo meccanismo di tipo “passivo” aumenta con lo stato di contrazione simultanea dei muscoli agonisti e
antagonisti (co-contrazione).

7.5.2.1 MECCANISMI ATTIVI


La stabilità delle articolazioni, oltre alla resistenza passiva dei muscoli, necessita una risposta muscolare di
origine riflessa (riflesso miotatico fasico), che origina dai FNM attivati dall’allungamento del muscolo. La
risposta di questo riflesso presenta momenti diversi di attivazione mediati da vie in parallelo spinali e
sopraspinali. Le prime, dovute alla connessione diretta dei propriocettori con i motoN (riflesso monoS
fasico) hanno minore latenza (implicate in funzioni automatiche), le seconde invece, presentano risposte
più tardive, poiché si attivano solamente dopo aver raggiunto i centri motori superiori (implicate nelle
diverse necessità funzionali). Le vie sopraspinali quindi, anche se più tardive, sono utili ad aumentare
l’ampiezza delle risposte riflesse e a renderle adattabili in termini di ampiezza e direzione.

7.5.3 SISTEMA VESTIBOLARE


Il labirinto vestibolare rileva le accelerazioni retto-lineari per mezzo del sistema otolitico e le accelerazioni
angolari con i canali semicircolari. Per il controllo della postura hanno particolare rilievo l’utricolo e il
sacculo, sensibili all’azione dell’accelerazione retto-lineare della gravità, mentre i canali semicircolari
contribuiscono alle risposte solo durante rotazioni della testa.
Utricolo e sacculo sono costituiti da un epitelio sensoriale cigliato su cui poggia uno strato di depositi
cristallini di sali di calcio (otoconi). Accelerazione lineare e gravità agiscono su di essi e generano forze di
taglio che incurvano le ciglia, attraverso cui, il sistema otolitico è in grado di segnalare la velocità e la
posizione della testa in modo completo.
I segnali otolitici raggiungono i nuclei vestibolari laterale e discendente e, attraverso le vie vestibolo-spinali,
determinano l’attivazione dei motoN dei muscoli antigravitari. Di particolare rilievo, nelle risposte posturali,
sono i riflessi vestibolo-cervicali che consentono il raddrizzamento della testa nello spazio e i riflessi
vestibolo-spinali che provocano la contrazione dei muscoli estensori degli arti inferiori per il mantenimento
della posizione eretta. Nel caso di deviazioni della testa sul piano frontale sono attivati i muscoli del collo
del lato opposto a quella della deviazione e i muscoli estensori degli arti dello stesso lato, mentre nel caso
di deviazioni sul piano sagittale si ha estensione dei muscoli del collo e dei muscoli degli arti inferiori in
risposta alla flessione della testa.

7.5.4 RECETTORI EXTRALABIRINTICI PER LA PERCEZIONE DELLA GRAVITÀ


Gli organi muscolo-tendinei del Golgi (GTO) recepiscono la forza della contrazione muscolare prodotta
contro il carico gravitazionale e informano sulla direzione della forza di gravità. Inoltre sono importanti le
informazioni esterocettive e propriocettive provenienti dal piede.

7.5.5 RIFLESSI PROPRIOCETTIVI CERVICALI


I riflessi cervicali, grazie alla loro interazione con la testa e la muscolatura spinale, rivestono un ruolo
importante nella definizione della postura.
Essi originano dai recettori
muscolari e articolari del collo.
Ogni allungamento muscolare o
deviazione delle articolazioni
della colonna cervicale provoca
una risposta dei muscoli del collo
diretta ad impedire il
cambiamento della posizione
relativa della testa con il tronco
(riflessi cervico-collicolari) e
modifica la distribuzione del tono
a livello della muscolatura degli
arti (riflessi cervico-spinali).
Riflessi cervicali e vestibolari si combinano tra loro per garantire un efficace mantenimento della postura
nelle diverse condizioni di movimento. Se immaginiamo di deviare testa e corpo da un lato evocheremo
solo il riflesso vestibolare (provoca l’estensione dell’arto inferiore dalla parte in cui avviene l’inclinazione
della testa) perché non vi sono modificazioni dell’angolo testa-tronco. Se è solo il tronco a deviare si
evocano solo i riflessi cervicali (attivazione degli estensori degli arti inferiori di quel lato). Se, infine è solo la
testa a deviare da un lato con il corpo fermo saranno attivati insieme sia i riflessi vestibolari che quelli
cervicali (l’attivazione degli estensori degli arti inferiori si annullano reciprocamente).
7.5.7 RECETTORI VISIVI
Il sistema visivo coopera con i sistemi vestibolare e propriocettivo al mantenimento della postura e della
stazione eretta. Le informazioni fornite al SNC riguardano lo spostamento della posizione della testa
relativamente agli oggetti circostanti e il riferimento spaziale assoluto di verticalità e orizzontalità. I segnali
sono inviati ai nuclei vestibolari e al cervelletto dove si combinano con le informazioni vestibolari e
propriocettive assicurando la stabilità posturale.
Inoltre grazie al sistema visivo ricostruendo l’orientamento spaziale della verticalità e orizzontalità
utilizzando particolari riferimenti visivi, siamo in grado di costruire un sistema di coordinate spaziali che
combinandosi con le altre informazioni di origine otolitica e propriocettiva, formano il sistema di
riferimento fondamentale per la coordinazione motoria e la postura.

7.5.8 CONGRUITÀ TRA SEGNALI VESTIBOLARI, VISIVI E PROPRIOCETTIVI


La molteplicità delle informazioni sensoriali alla base della postura permette che la stabilità della posizione
del corpo e l’equilibrio siano mantenuti anche in presenza di deficit funzionali di un singolo sistema
sensoriale. Lo svantaggio indotto da questa moltitudine di informazioni che arrivano al SNC è dato da una
possibile incongruità di esse, che portano a disorientamento.

7.5.9 RISPOSTE POSTURALI ANTICIPATORIE


Numerose risposte posturali si realizzano prima che un movimento attivo provochi uno spostamento del
baricentro. Queste risposte anticipatorie sono necessarie all’equilibrio del soggetto e, non essendo
rigidamente organizzate, consentono di adeguare le risposte posturali alla necessità del momento
attraverso meccanismi di preselezione.
Gli aggiustamenti posturali che anticipano il movimento volontario sono diretti sia a correggere la postura
in funzione della FdG, sia a stabilizzare la posizione degli arti, indipendentemente dagli effetti sul
baricentro. Irrigidimenti o inibizioni del tono dei muscoli di un arto possono essere necessari per impedire
che movimenti volontari possano modificarne la posizione per motivi inerziali.

7.5.10 RISPOSTE POSTURALI ADATTABILI


Tutti i riflessi che consentono il mantenimento della postura, seppur programmati geneticamente, possono
essere notevolmente modificati dall’esperienza attraverso meccanismi superiori di controllo, in modo che si
adeguino alle diverse esigenze comportamentali e modificabili a seconda del contesto in cui avvengono.

7.5.11 REGOLAZIONE POSTURALE ANTIGRAVITARIA GLOBALE


L’ampia diversità degli atteggiamenti posturali e l’invarianza della risposta posturale globale induce a
ritenere che l’intero assetto posturale sia sotto il controllo di un centro superiore per la regolazione
posturale antigravitaria, il quale deve, tenendo conto della gravità, ridistribuire le singole risposte muscolari
in modo tale da consentire al baricentro di cadere all’interno della base di supporto.

7.5.12 REGOLAZIONE DEL CENTRO DI GRAVITÀ


La possibilità di avere una rappresentazione accurata della posizione di sé nello spazio, e dei rapporti tra i
diversi segmenti corporei, è resa possibile dall’insieme dei sistemi sensoriali (propriocettivo, vestibolare e
visivo) che nell’informare continuamente la posizione del corpo, permettono la ricostruzione di uno schema
di riferimento. La gravità è un elemento essenziale per la ricostruzione di questo schema, poiché la
percezione del suo punto di applicazione è ricostruito dal SNC attraverso una rappresentazione interna
dello schema corporeo, comprendente da un lato la direzione della verticale, la cinematica e la cinetica del
corpo, e, dall’altro, un sistema di comparazione tra l’output motorio e l’esecuzione reale.
7.6 CERVELLETTO
Le funzioni generali del cervelletto riguardano:
 Il controllo della progressione del movimento;
 L’adattamento della contrazione muscolare alle variazioni del carico;
 La regolazione dell’attività dei muscoli agonisti e antagonisti;
 L’apprendimento motorio.
Pur operando a livello inconscio, è essenziale per il controllo dei movimenti rapidi e partecipa attivamente
alla formazione dei programmi motori. Lesioni cerebellari provocano l’incoordinazione del movimento. Il
compito di controllo delle sequenze del movimento consta nel confrontare i parametri del movimento con
quelli programmati dalle complesse interazioni tra la corteccia cerebrale, i nuclei della base e le porzioni
laterali del cervelletto stesso, in modo da correggere, in caso di discordanza, il programma motorio,
potenziando o riducendo l’attività dei muscoli coinvolti. La partecipazione del cervelletto all’apprendimento
motorio avviene attraverso alcuni suoi neuroni che modificano la propria attività man mano che vengono
apportate correzioni durante l’apprendimento di nuovi compiti motori.

7.6.1 ANATOMIA FUNZIONALE


Il cervelletto è anatomicamente diviso nei lobi
anteriore, posteriore e flocculonodulare.
Funzionalmente invece, lungo la linea mediana si
estende il verme cerebellare (sede del controllo
della muscolatura assiale e prossimale), ai cui lati si
trovano i due emisferi cerebellari, ciascuno dei
quali presenta una zona intermedia (controlla il
movimento delle parti distali degli arti) e una
laterale (collabora con la corteccia cerebrale e i
nuclei della base nella formazione dei programmi
delle sequenze motorie). Nel verme e nelle zone
intermedie del cervelletto esiste una
rappresentazione somatotopica del corpo. Queste
zone ricevono afferenze dalle corrispettive aree del corpo, dalle aree motorie della corteccia cerebrale e dal
tronco encefalico. Da queste aree del cervelletto sono poi inviati segnali alle rispettive aree di
rappresentazione topografica della corteccia motoria, del nucleo rosso e della formazione reticolare. Sono
presenti importanti interconnessioni reciproche tra la corteccia cerebrale e il cervelletto. Le zone laterali
degli emisferi cerebellari sono infatti collegate alla corteccia motorio e premotoria, alla corteccia sensoriale
e alla corteccia di associazione parietale.

7.6.2 SEGNALI IN INGRESSO E IN USCITA


I segnali che arrivano al cervelletto percorrono diverse vie in base alla
provenienza dello stimolo:
 Fasci spinocerebellari, portano le afferenze somatiche (impulsi da
recettori tendinei, muscolari, articolari e cutanei);
 Via cortico-pontocerebellare, porta le afferenze dalla corteccia
cerebrale dopo relè nei nuclei pontini;
 Via olivo-cerebellare, porta segnali provenienti dalla corteccia
motoria, nuclei della base, formazione reticolare e midollo spinale;
 Vie vestibolo-cerebellari, portano segnali dall’apparato vestibolare;
 Vie reticolo-cerebellari, portano segnali provenienti da diversi nuclei.
I segnali originati dall’interazione tra la corteccia cerebellare e i nuclei profondi, possono uscire dal
cervelletto seguendo tre vie:
1. Origina dal verme e attraverso il nucleo
del fastigio e i nuclei del tetto, passa
alle regioni bulbare e pontina del
tronco encefalico. Questo circuito
coopera con i nuclei vestibolari per il
controllo dell’equilibrio corporeo, e con
la formazione reticolare per la
regolazione della postura;
2. Origina dalla zona intermedia
dell’emisfero cerebellare e attraverso il
nucleo interposito si porta:
- ai nuclei ventro-laterale e ventro-
anteriore del talamo, da cui poi
raggiunge la corteccia cerebrale;
- a varie strutture talamiche della linea
mediana e da esse ai nuclei della base;
- al nucleo rosso e alla formazione
reticolare della parte superiore del tronco encefalico;
Questa seconda via coordina l’attività dei muscoli agonisti e antagonisti delle parti distali degli arti;
3. Nasce dalla corteccia laterale dell’emisfero cerebellare, passa al nucleo dentato e da questo ai
nuclei ventro-laterale e ventro-anteriore del talamo, per terminare nella corteccia cerebrale.
Questa via ha un ruolo importante nella programmazione e nella coordinazione dei movimenti.

7.6.3 CORTECCIA CEREBELLARE


Nel manto corticale del cervelletto si possono distinguere lo strato molecolare, lo strato delle cellule di
Purkinje e lo strato delle cellule granulari. Le fibre afferenti che entrano nel cervelletto sono le fibre
rampicanti, che prendono origine dall’oliva inferiore, e le fibre muscoidi, che provengono da varie strutture
centrali, dal tronco encefalico e dal midollo spinale. Gli impulsi trasmessi dalle fibre rampicanti evocano
nelle cellule di Purkinje una scarica di potAZ ad alta frequenza che costituiscono lo spike complesso. Le fibre
muscoidi invece determinano brevi risposte di stimolazione: spike semplice.
Oltre alle cellule dei granuli e alle cellule di Purkinje, nella corteccia cerebellare esistono altri tre tipi di
neuroni: cellule a canestro, cellule stellate e cellule di Golgi.

7.6.4 ATTIVAZIONE E DISATTIVAZIONE DEI MUSCOLI AGONISTI E ANTAGONISTI


Quando si inizia ad eseguire un movimento, il cervelletto dà origine simultaneamente a segnali che attivano
i muscoli agonisti e inattivano i muscoli antagonisti, ma quando ci si avvicina alla fine del movimento le
funzioni di questi segnali si invertono, in modo da avere effetti opposti a quelli iniziali.
In caso di lesioni cerebellari la compromissione di questa funzione di attivazione/disattivazione ostacola la
regolare evoluzione del movimento. Le alterazioni dei movimenti conseguenti a lesioni cerebellari sono
essenzialmente tre:
 I movimenti iniziano con ritardo e mancano del caratteristico rinforzo che il cervelletto di solito
conferisce all’attività degli agonisti;
 La forza sviluppata è debole;
 I movimenti tardano ad arrestarsi e oltrepassano il punto bersaglio.
in assenza del controllo cerebellare la corteccia motoria trova dunque molta difficoltà a iniziare i movimenti
rapidi, così come impiega più tempo ad arrestarli.
7.6.5 FUNZIONE NELL’APPRENDIMENTO MOTORIO
Quando per la prima volta viene eseguito un movimento, la capacità del cervelletto di rinforzare l’avvio
della contrazione è inadeguata, tuttavia se il nuovo movimento viene ripetuto molte volte, fino a quando
non sia stato perfettamente appreso, il meccanismo di rinforzo cerebellare raggiunge la sua piena efficacia.

7.6.6 FUNZIONE NEL CONTROLLO DEL MOVIMENTO


In presenza di lesioni cerebellari si manifesta:
 Asinergia: i movimenti sono scoordinati, caratterizzati da errori di ampiezza, direzione (dismetria) e
forza, con ritardo nell’inizio;
 Adiadococinesia: incapacità di eseguire movimenti alternati;
 Atassia (andatura instabile) durante la deambulazione;
 Tremore dovuto a contrazioni alternate degli agonisti e antagonisti;
 Alterazione dei movimenti che portano alla corretta fonazione;
 Nistagmo: movimenti oscillatori degli occhi.

7.6.7 VISIONE ATTUALE DELLA FUNZIONE CEREBELLARE


Il cervelletto funzionalmente può essere suddiviso in 3 zone:
 Vestibolocerebello: costituito dai lobi flocculonodulari e dalle zone vicine del verme, è strettamente
associato alle funzioni dell’apparato vestibolare, controllando l’equilibrio e la postura in
associazione con il midollo spinale e il tronco encefalico. È determinante per assicurare il giusto
equilibrio tra l’attività dei muscoli agonisti e antagonisti del tronco e dei cingoli (muscolatura assiale
e prossimale), durante le variazioni rapide della posizione del corpo;
 Spinocerebello: formato dal verme e dalle regioni intermedie poste ai lati del verme, coordina i
movimenti dei segmenti distali degli arti. Riceve afferenze dalla corteccia motoria (relative al
programma motorio) e dalla periferia (relative ai parametri del movimento in corso). Dopo aver
confrontato le due afferenze, invia segnali alla corteccia motoria, tramite i nuclei motori del talamo,
e al nucleo rosso, dai quali vengono innervati motoN delle
corna anteriori del midollo (attraverso fasci rubrospinale e
corticospinale);
 Cerebrocerebello: rappresentato dalle regioni laterali degli
emisferi cerebellari, è coinvolto nella programmazione, nella
sequenzialità e nella temporizzazione dei movimenti
complessi. Interagisce con la corteccia motoria, premotoria e
somatosensoriale per stabilire il programma motorio in cui
sono codificati le sequenze e i parametri dei movimenti
volontari della testa, del tronco e degli arti.
Le regioni laterali pertanto sono impegnate nel controllo di
ciò che accadrà durante il successivo movimento di una
sequenza. In mancanza di queste zone viene persa la capacità
di prevedere in anticipo l’ampiezza dei movimenti,
conseguentemente il movimento successivo avrà tempistiche
sbagliate e sarà scoordinato.

7.7 NUCLEI DELLA BASE


Appartengono al sistema dei nuclei della base il nucleo caudato, il
putamen, il globo pallido, la sostanza nera, il nucleo subtalamico e il
nucleo peduncolopontino del tegmento. Essi costituiscono un sistema
di strutture sottocorticali coinvolti oltre che in funzioni motorie anche
in funzioni cognitive, mnemoniche e motivazionali:
 Apprendimento e pianificazione motoria;
 Inibizione dei movimenti involontari;
 Preparazione al movimento;
 Determinazione di parametri del movimento;
 Esecuzione automatica dei movimenti appresi;
 Facilitazione dei movimenti sequenziali;
 Adattamento del movimento alle circostanze ambientali;
 Riconoscimento di segnali associati a specifici compiti motori;
 Ripetizione di movimenti appresi;
 Facilitazione di movimenti finalizzati;
 Motivazione;
 Memoria di lavoro e memoria procedurale;
 Attesa di eventi di cui si conosce il significato.
ROSSO: VIE ECCITATORIE
NERO: VIE INIBITORIE

7.7.1 FUNZIONI MOTORIE: CARATTERISTICHE FUNZIONALI DEL PUTAMEN


Il circuito mediante il quale il putamen è coinvolto nell’esecuzione di schemi motori appresi, prevede la sua
interazione con la corteccia premotoria, con l’area motoria supplementare e la corteccia somatosensitiva,
alle quali emette efferenze tramite fibre pallido-talamo-corticali e nigro-talamo-corticali.

7.7.2 FUNZIONI COGNITIVE: CARATTERISTICHE FUNZIONALI DEL NUCLEO CAUDATO


Il nucleo caudato ha un ruolo rilevante nei processi cognitivi, nei quali per raggiungere un determinato
obiettivo vengono messe in atto strategie motorie utilizzando sia informazioni sensitive in ingresso sia
quelle già memorizzate, derivanti dall’esperienza passata. Il nucleo caudato riceve gran parte delle
afferenze corticali dalle aree associative, cioè dalle regioni della corteccia cerebrale che integrano i
differenti tipi di informazioni sensoriali e motorie fino a ottenere rappresentazioni mentali utilizzabili. Dal
nucleo caudato partono efferenze verso il globo pallido, i nuclei di relè del complesso ventro-laterale e
ventro-anteriore del talamo e alle aree prefrontale, premotoria e motoria supplementare della corteccia
cerebrale.

Disordini motori conseguenti a lesioni dei nuclei della base


 Atetosi (movimenti tentacolari spontanei) in seguito a lesioni del globo pallido;
 Emiballismo (veloci movimenti di lancio di un arto) in seguito a lesioni del nucleo subtalamico;
 Morbo di Parkinson (rigidità, tremore involontario a riposo e acinesia) in seguito alla distruzione di
una porzione di sostanza nera;
 Corea di Huntington (movimenti involontari di singoli segmenti corporei) in seguito alla
degenerazione di interN GABAergici all’interno del nucleo caudato e del putamen.
SANGUE
CAPITOLO 9 PAGINA 241

Il sangue è un particolare tipo di tessuto la cui parte liquida (matrice extracellulare) è costituita dal plasma,
mentre la componente cellulare (frazione corpuscolata) è rappresentata dagli elementi figurati del sangue.

9.1 FUNZIONI
Svolge principalmente una funzione di trasporto di sostanze, in esso disciolte o sospese, da e per i vari
organi e tessuti. Tra le varie sostanze troviamo nutrienti, ormoni, ossigeno e cataboliti (anidride carbonica e
urea).

9.1.1 OMEOSTASI CORPOREA


Mantiene condizioni di stabilità di alcune variabili chimico-fisiche fondamentali (pressione osmotica,
pressione arteriosa, equilibrio acido-base - pH - dei liquidi corporei, glicemia e disponibilità di alcuni
elettroliti) per il funzionamento ottimale delle cellule dell’organismo.

9.1.2 DISTRIBUZIONE DEL CALORE


Un altro ruolo fondamentale è la termoregolazione, attuata grazie al meccanismo fisico della conduzione
del calore. Circolando dalla periferia verso gli organi interni (temperatura più elevata grazie al calore
prodotto dalle reazioni ossidative), il sangue sottrae parte del calore che verrà ceduto all’esterno man
mano che si riavvicina alle zone periferiche, mantenendo una temperatura costante di 37°.

9.1.3 DIFESA DAGLI AGENTI PATOGENI


Inoltre svolge una funzione di difesa dell’organismo da agenti patogeni esterni, grazie alla presenza di linee
cellulari (globuli bianchi) attivi nella regolazione della risposta infiammatoria e della risposta immunitaria.

9.2 CARATTERISTICHE GENERALI


In un soggetto adulto sano il 45% circa del volume totale di sangue è occupato dalla massa corpuscolata,
mentre la quota rimanente è ascrivibile a un liquido trasparente, limpido, color oro, rappresentato dal
plasma.

9.2.1 PARTE LIQUIDA


Il plasma è un liquido composto essenzialmente da acqua (93%) e grosse molecole proteiche
(plasmaproteine). Contiene svariati elettroliti, molecole inorganiche e organiche con valore nutritivo
(glucidiche, lipidiche e proteiche), prodotti del catabolismo cellulare (urea, acido urico, creatinina,
bilirubina) e gas in forma disciolta (O2, CO2 e N2).
Ambito di Condizioni di iperglicemia sono predittive di diabete mellito, una patologia
Test normalità in un originata da una disfunzione nella produzione dell’ormone insulina da parte
soggetto adulto delle cellule β del pancreas endocrino. Al contrario, condizioni di ipoglicemia
Glicemia 60-110 mg/dl mette a serio rischio l’integrità funzionale del SNC.
Azotemia 10-50 mg/dl Una dieta iperproteica può causare un modesto aumento dell’azotemia
Proteinemia 5,5-7 g/dl (azoto non proteico rappresentato da urea, acido urico e AA liberi nel
Trigliceridemia 35-170 mg/dl plasma), mentre un suo aumento può essere indice di insufficienza renale.
Colesterolemia 150-210 mg/dl Malnutrizione e patologie epatiche possono ridurre la proteinemia
(concentrazione di grosse molecole proteiche), al contrario vomito e
diarrea, possono determinarne un apparente aumento a causa dell’importante perdita di liquidi.
La trigliceridemia varia in relazione all’apporto dietetico. Ipotrigliceridemia è indicativa di iponutrizione,
l’ipertrigliceridemia può essere predittiva dell’insorgenza di diabete mellito e se associata
all’ipercolesterolemia è causa della formazione di placche ateromatose nella parete dei vasi sanguigni.
9.2.1.1 ELETTROLITI PLASMATICI
La componente elettrolitica nel plasma è costituita da ioni sodio, potassio, calcio, cloro, magnesio
(concentrazioni costanti), ioni bicarbonato (HCO3-) e fosfato (HPO42-) (concentrazioni variabili). La
componente elettrolitica del plasma svolge funzioni fondamentali per il mantenimento dell’omeostasi
dell’organismo (controllo pressione osmotica e del PH, catalizza attività enzimatiche ed è essenziale per gli
equilibri elettrochimici transmembranari delle cellule dei vari tessuti).
Sodio: catione più abbondante nel plasma e liquido extraC; il maggior responsabile del mantenimento della
pressione osmotica del sangue;
Potassio: abbondante a livello intraC ma piuttosto scarso a livello extraC e plasmatico;
Cloro: anione plasmatico più abbondante;
Cationi bivalenti (Ca2+, Mg2+): nel plasma presentano concentrazioni relativamente basse;
Bicarbonato: il suo valore dipende dalla disponibilità di CO2 in quanto questo gas, a contatto con l’acqua
tende a formare acido carbonico (H2CO3) che poi va incontro a dissociazione con formazione di H+ e HCO3-.

9.2.1.2 PROTEINE PLASMATICHE


Le molecole proteiche plasmatiche svolgono importanti funzioni che consistono nel regolare la pressione
colloido-osmotica e il pH del sangue, contribuiscono ai meccanismi dell’emòstasi e dell’immunità umorale,
fungono da trasportatori di varie molecole organiche e inorganiche e costituiscono una riserva pronta di
materiale proteico in condizioni di deficit.
Tramite elettroforesi (meccanismo che sfrutta la carica elettrica delle proteine, le quali poste in una
soluzione conduttrice, ai cui capi sono collegati i poli di un generatore di corrente, si sposteranno verso il
polo di segno opposto), stabilendo un intervallo di tempo di migrazione, è possibile separare e misurare la
quantità relativa di ciascuna frazione di proteine plasmatiche.
Albumina: 51-63% proteine totali; sintetizzata dal fegato; mantiene la pressione oncotica del sangue e
trasporta piccole molecole (calcio, bilirubina, FFA, AA essenziali) e ormoni (cortisolo e tiroxina);
Globuline: si distinguono in
 α1 (2.4-6.1%): sono comprese le lipoproteine HDL e le
globuline che veicolano ormoni;
 α2 (6.3-12.4%): troviamo la ceruloplasmina (veicola il
rame), la protrombina (fattore di coagulazione) e
l’eritropoietina (ormone che stimola la maturazione dei
precursori dei GR);
 β-globuline (9.8-15.5%): contiene lipoproteine LDL e la
transferrina;
 ϒ-globuline: include le immunoglobuline (Ig) o anticorpi.
Fibrinogeno: proteina prodotta dal fegato che ha una funzione
essenziale nel meccanismo dell’emòstasi.

9.2.1.3 REGOLAZIONE DEL pH


Il mantenimento dell’omeostasi del pH entro valori fisiologici (tra 7.37 e 7.43) di variabilità è una condizione
essenziale per il corretto metabolismo, in quanto l’attività di molti enzimi intra- ed extraC è pH-dipendente.
I meccanismi che concorrono al mantenimento del pH del sangue sono essenzialmente tre:
 Sistemi tampone del sangue;
 Diffusione ed eliminazione dell’anidride carbonica con la ventilazione polmonare;
 Escrezione renale di ioni idrogeno.

Sistemi tampone del sangue


Alcuni sistemi molecolari presenti nel sangue mantengono costante il pH in quanto hanno la capacità di
fungere sia da accettori che da donatori di protoni. Questi sistemi possono essere divisi in extra- e intraC.
Tra quelli extraC vi sono: il sistema dei bicarbonati (in funzione della concentrazione di CO2 nel plasma), il
sistema dei fosfati inorganici e il sistema delle proteine plasmatiche.
La maggior parte del potere tampone legato alle proteine però, è di tipo intraC dovuto all’emoglobina.

9.2.1.4 PRESSIONE OSMOTICA


Il passaggio netto di acqua da un comparto con minore concentrazione di soluti a uno con maggiore
concentrazione, attraverso una membrana semi-permeabile, al fine di stabilire un’identica concentrazione
di particelle in soluzione prende il nome di osmosi. La pressione che genera questo flusso di acqua è detta
pressione osmotica (π). Da essa dipendono: la diffusione transcapillare d’acqua, Sali e sostanze nutritive;
l’ultrafiltrazione renale a cui consegue l’eliminazione dei cataboliti del sangue tramite l’urina; la regolazione
della volemia.
La pressione osmotica dipende solamente dal numero di particelle in soluzione-sospensione nel solvente.
Se le particelle solide sono di notevoli dimensioni (proteine plasmatiche), la loro differenza di
concentrazione intercompartimentale prende il nome di pressione colloido-osmotica od oncotica. Nel caso
del plasma la pressione che può generare un flusso d’acqua transcapillare è sia di tipo osmotico (generata
dagli elettroliti e da altre piccole molecole in soluzione πe) sia di tipo oncotico (generata dalle proteine in
sospensione πp).

9.2.2 PARTE CORPUSCOLATA


Gli elementi figurati del sangue che costituiscono la frazione corpuscolata sono distinti in globuli rossi,
globuli bianchi e piastrine.

9.2.2.1 EMOPOIESI
L’insieme di eventi che porta alla formazione dei
vari tipi di cellule ematiche prende il nome di
emopoiesi. Nelle fasi embrionali questo processo
ha sede per l’80% nel fegato e il restante 20% nella
milza. Dalla nascita, l’unica attività emopoietica ha
luogo nel midollo osseo delle vertebre, delle coste,
delle ossa craniali e della pelvi, e nell’epifisi
prossimale del femore e dell’omero.
Globuli rossi, bianchi e piastrine traggono origine
da uno stesso tipo di cellule staminali multipotenti
le quali, sotto l’azione di vari fattori di crescita
(citochine), si suddividono differenziandosi sempre
più e dando luogo alla fine alle diverse linee di
cellule ematiche specializzate.

9.2.2.3 ESAME EMOCROMOCITOMERICO


L’esame emocromocitomerico consente di ottenere
una serie di indici relativi alla composizione quali-
quantitativa della frazione corpuscolata del sangue.
In un soggetto adulto i GR devono mantenersi tra i 4.3
e 5.7 mln/ml negli uomini e tra 3.8 e 4.9 mln/ml nelle
donne. L’Hb oscilla tra 13.5 e 17.5 g/dl negli uomini e
tra 12 e 16 g/dl nelle donne. L’Ht (percentuale del
volume di sangue occupato dalla frazione cellulare) si
attesta tra il 42% e il 52% negli uomini e tra il 36% e il 48% nelle donne (il suo valore è molto importante,
poiché se la parte corpuscolata risultasse troppo elevata, ci sarebbe il rischio di formare coaguli, i quali se
venissero trasportati verso i vasi più piccoli, bloccherebbero la circolazione). Inoltre sono presenti indici
quali: volume corpuscolare medio (MVC), la concentrazione emoglobinica corpuscolare media (MCHC),
l’emoglobina corpuscolare media (MCH) e il coefficiente di distribuzione degli eritrociti (RDW).
L’esame inoltre riporta anche la formula leucocitaria, ovvero la quantità relativa dei diversi tipi di globuli
bianchi sul totale contenuto del sangue (tra 4.000 e 11.000/ml). In particolare: granulociti neutrofili tra 50%
e 70%, granulociti eosinofili tra 2% e 5%, granulociti basofili tra 0% e 1%, monociti tra 5% e 8% mentre i
linfociti intorno al 30% con ampia variabilità.

Globuli rossi
I GR (eritrociti o emazie) sono cellule anucleate (non sono in grado riprodursi) con una morfologia discoide
e biconcava, la quale ne aumenta l’area di contatto con l’ambiente esterno e ne riduce la distanza interna
compresa tra le superfici, consentendo rapidità di passaggio intra- ed extraC per l’O2 e la CO2 favorendone il
legame con l’Hb. Inoltre li rende particolarmente resistenti alle deformazioni meccaniche cui vanno
incontro attraversando canali stretti come i capillari. Hanno una vita media di circa 120 giorni al termine dei
quali vengono distrutti a livello della milza (principalmente), fegato, midollo osseo e linfonodi
(emocateresi).

Emoglobina (Hb)
L’Hb è una struttura proteica formata da due coppie di catene globuliniche (α2β2). Può essere presente in
due forme isomeriche: deossiHb e ossiHb. Al centro di ognuna delle 4 catene polipeptidiche si trova una
molecola non proteica, l’eme, con al centro un atomo di ferro, il quale lega l’ossigeno, in quantità
dipendente dalla pressione parziale del gas nel sangue.

Globuli bianchi
I GB rappresentano nel loro insieme un sofisticato apparato di difesa
contro gli agenti patogeni. Sono tra i maggiori responsabili della
risposta infiammatoria, durante la quale, nella zona attaccata dai
patogeni si osservano vasodilatazione e aumento della permeabilità
capillare con diffusione di leucociti circolanti. Una volta usciti dai
capillari, si muovono per chemiotassi (seguendo un gradiente chimico)
raggiungendo il punto focale dove, attraverso fagocitosi, distruggono i
patogeni. I monociti usciti dai vasi si trasformano in macrofagi, cellule
che espongono sulla membrana il complesso maggiore di
istcompatibilità (MHC) per segnalare la presenza del microrganismo fagocitato in modo da permettere
l’inizio delle reazioni immunitarie da parte dei linfociti. Gli eosinofili aumentano il loro numero in condizioni
di allergia e di parassitosi. Tramite la chemiotassi, si portano nei luoghi di accumulo di tali formazioni,
distruggendo gli immunocomplessi. I basofili contengono eparina (anticoagulante) e istamina
(vasodilatatore) contribuendo alla reazione infiammatoria.

Piastrine
Le piastrine, o trombociti (tra 150.000 e 350.000/µl) sono piccoli corpuscoli dotati di membrana, che hanno
origine dalla frammentazione di grosse cellule, i megacariociti.
9.3 EMÒSTASI
L’emòstasi consiste in una serie di reazioni biochimiche e cellulari, sequenziali (è una catena di eventi) e
sinergiche (gli eventi hanno uno stesso fine), per impedire una perdita di sangue da vasi lesionati. Quindi è
un meccanismo di difesa attraverso il quale il corpo cerca di mantenere il volume ematico e la fluidità del
sangue.
La prima risposta a una lesione vasale è la vasocostrizione, finalizzata a diminuire il flusso di sangue verso
l’esterno, dovuta all’attivazione riflessa dell’innervazione ortosimpatica dei vasi, che provoca uno spasmo
della muscolatura liscia contenuta
nella loro parete.
Le cellule della parete vasale
danneggiata liberano ADP, che
funge da agente chemiotatico per
le piastrine, le quali aggregandosi
nel punto lesionato formano un
tappo.
Con la formazione del tappo, si
innesca il vero processo della
coagulazione, dato dall’interazione
di vari fattori, la quale porta alla
rigenerazione del tessuto nel punto
lesionato.
 I tessuti lesionati rilasciano
la tromboplastina, la quale porta
alla formazione del fattore di
conversione della protrombina;
 La protrombina (globulina
plasmatica prodotta dal fegato
grazie alla vit.K) si trasforma in
trombina (enzima capace di agire sul fibrinogeno);
 Il fibrinogeno, in presenza di trombina si converte in fibrina, i cui monomeri, polimerizzandosi
formano una fine rete di fibre che, intrappolando GR e piastrine dà luogo a un coagulo stabile;
 Una volta stabilizzato, inizia il processo di retrazione del coagulo, tramite il quale viene espulso il
siero e si avvicinano i lembi della lesione, grazie alla presenza di tromboestetina, fattore piastrinico
capace di accorciarsi come una proteina contrattile;
 A questo punto vengono innescati i processi di riparazione del vaso e di dissoluzione del coagulo
che portano alla completa ristrutturazione del tessuto precedentemente lesionato. Questi processi
sono il risultato della degradazione della fibrina a opera dell’enzima plasmina (che deriva dal
plasminogeno).

9.3.4 TEST PER LA VALUTAZIONE DELL’EMÒSTASI


Esistono dei testi clinici per valutare i meccanismi della coagulazione, tra cui: tempi di sanguinamento,
tempo di retrazione del coagulo e tempo di protrombina.

9.4 MASSA SANGUIGNA


La volemia, nell’adulto, raggiunge valori di circa 80ml/kg nei maschi e 60ml/kg nelle femmine. Vi sono
tuttavia condizioni a cui va incontro l’organismo, come le variazioni posturali (il mantenimento della
postura eretta per un tempo prolungato lo riduce), variazioni stagionali (in estate aumenta), la
malnutrizione (il digiuno prolungato lo riduce), la gravidanza (aumenta) e l’attività fisica condotta in modo
intenso e prolungato (aumenta), possono causare significative variazioni del volume ematico.
9.5 RISPOSTA IMMUNITARIA
I linfociti sono risponsabili della risposta immunitaria cellulo-mediata (linfociti T) e di quella anticorpo-
mediata (linfociti B) e quindi della difesa dell’organismo dagli antigeni (molecole o parti di esse riconosciute
come estranee dall’organismo). I linfociti T maturano funzionalmente nel timo dove acquisiscono il
marcatore di superficie CD4 o CD8 diventando potenzialmente orientati verso funzioni rispettivamente
proliferative o soppressive). Entrambe le risposte mantengono memoria degli eventi pregressi consentendo
un rapido avvia della risposta immunitaria nel caso di successiva infezione da parte dello stesso agente
patogeno.
In caso di infezione batterica, i macrofagi impegnati nell’azione
di fagocitosi espongono sulla membrana una molecola di MHC
associata alla digestione del batterio (MHC-II in questo caso),
legando a sé i linfociti CD4, che sotto l’azione di varie citochine si
trasformano in linfociti helper di tipo I (TH1), che producendo
l’interferone у (IFN-у) che potenzia l’attività fagocitica dei
macrofagi.
Nel caso in cui l’agente infettante sia un virus, le cellule infettate
espongono una molecola MHC (MHC-I) riconosciuta dai linfociti CD8 che vi si legano, differenziandosi verso
il tipo citotossico (TC) che potenzia l’attività fagocitica dei macrofagi.
Nel caso in cui l’agente infettante sia un virus, le cellule infettate
espongono una molecola MHC (MHC-I) riconosciuta dai linfociti CD8
che vi si legano, differenziandosi verso il tipo citotossico (TC), il quale
tramite la produzione di sostanze chimiche citotossiche, distruggono le
cellule infettate, limitando la diffusione del virus nell’organismo. Oltre
ai TC vengono attivati linfociti CD8 con funzione soppressiva TS, che
bloccano l’azione dei TC una volta
che il patogeno è stato debellato.
Considerando ancora un’infezione batterica, i macrofagi in attività
fagocitica, producono anche un’altra citochina, l’interleuchina 4 (IL-4),
la quale orienta il differenziamento dei linfociti T helper in TH2, i quali,
si legano ai linfociti B, favorendone la differenziazione in
plasmacellule secernenti anticorpi specifici, che raggiungendo il sito di
invasione, si combinano chimicamente con l’antigene attuandone la
distruzione.

9.6 GRUPPI SANGUIGNI


A livello della membrana eritrocitaria si trovano molecole di tipo antigenico che, nell’individuo che le
produce non danno luogo alla produzione di anticorpi specifici, come invece può accadere nel sangue di un
altro individuo, formando aggregati di globuli rossi con agglutinazione del sangue che, se diffusa, può
provocare morte. Gli antigeni eritrocitari in grado di provocare reazioni di agglutinazione nell’ospitante
sono solo due: gli agglutinogeni di tipo A (gruppo A) e B (gruppo B). Vi sono comunque soggetti che
presentano sulla membrana dei propri eritrociti sia agglutinogeni di tipo A che di tipo B e quindi nel loro
plasma non saranno presenti né anticorpi anti-A né anti-B
(gruppo AB). Infine, vi sono soggetti i cui globuli rossi non
presentano agglutinogeni, anche se nel plasma sono
presenti anticorpi anti-A e anti-B (gruppo 0). Oltre agli
antigeni A e B, la membrana delle emazie di circa l’80%
degli esseri umani presenta l’antigene D, o fattore Rh,
anch’esso con elevata capacità agglutinogena.
SPORT E IMMUNODEPRESSIONE
L’attività agonistica praticata intensamente e a lungo può esporre l’atleta a una maggior suscettibilità alle
infezioni, soprattutto a carico delle vie respiratorie superiori. Questo evento tende a manifestarsi
principalmente durante la fase definita open window, che si manifesta tra le 3 e le 72h succesive
all’allenamento intenso. La relazione tra suscettibilità alle URTI (upper respiratory tract infections) e
intensità dell’attività fisica è espressa da una curva con andamento a forma di “J”.
CUORE
CAPITOLO 10 PAGINA 257

Il cuore è l’organo muscolare con funzioni di pompa fasica che fornisce l’energia necessaria per muovere il
sangue.

10.1 ORGANIZZAZIONE ANATOMICA DEL CUORE


Il cuore è un organo cavo a parete muscolare contenuto all’interno della cavità pericardica. In esso sono
riconoscibili quattro cavità: due atri e due ventricoli. Le
cavità sono separate, orizzontalmente dalla presenza di due
valvole atrioventricolari, che assicurano la continuità tra
ciascun atrio e il sottostante ventricolo e verticalmente da
un setto interatriale e uno interventricolare, che
determinano la suddivisione del cuore in una metà destra e
una sinistra, impedendo che le cavità omonime
comunichino. Cuore dx e sx sono posti in serie, come le
rispettive circolazioni. La massa del cuore è in media 300g
nel maschio e 250g nella femmina.
Da ciascun ventricolo, in seguito alle valvole aortica e
polmonare trae origine il rispettivo grosso vaso arterioso:
l’aorta dal ventricolo sx, l’arteria polmonare dal dx.
Il circuito che il sangue compie è duplice:
 Circolo sistemico (grande circolo o ad alta
pressione): dall’atrio sx, attraverso la valvola mitrale, al
ventricolo sx e da questo agli organi periferici attraverso
aorta, arterie, arteriole e capillari, ove hanno sede gli
scambi cellulari. Da qui, attraverso venule, vene e le due
cave (superiore e inferiore) il sangue ritorna all’atrio dx;
 Circolo polmonare (piccolo circolo o a bassa
pressione): dall’atrio dx, attraverso la valvola tricuspide, al
ventricolo dx e da questo, attraverso l’arteria polmonare e
le sue diramazioni, ai capillari polmonari ove hanno sede gli
scambi gassosi. Da qui, infine, attraverso venule e vene
polmonari il sangue torna all’atrio sx.
Anatomicamente la struttura del tessuto muscolare
cardiaco è analoga a quella del tessuto muscolare scheletrico. Contrariamente ad essi però, la
contrazione non agisce linearmente tra tendini di
origine e di inserzione, bensì essendo un unico groviglio
di fibre attorcigliate, essa provocherà un restringimento
del volume delle camere cardiache. Gli unici muscoli
cardiaci che si contraggono linearmente sono i papillari
che agiscono sui lembi delle valvole per regolarne
apertura e chiusura.
10.2 FISIOLOGIA DEL CUORE
L’Azione del cuore è ritmica, la sua muscolatura infatti si
contrae e si rilascia alternativamente e in modo coordinato
nel corso di un ciclo cardiaco. Contrazione e rilasciamento
sono capacità intrinseche del muscolo costituente le pareti
delle cavità cardiache, il miocardio. A differenza del muscolo
scheletrico, la contrazione miocardica non è avviata dall’impulso di un nervo motore, ma da miocardiociti
specializzati, raggruppati nel nodo senatriale (SA), localizzato nell’atrio dx, in prossimità dello sbocco della
vena cava sup. L’impulso generato viene trasmesso a un’ulteriore struttura di raccolta, il nodo
atrioventricolare (AV), posto nella parete posteriore destra del setto interatriale (nodo SA, principalmente e
AV, sono i pacemaker fisiologici del corpo, e quindi le due zone da cui dipende la frequenza cardiaca). Da
qui lo stimolo propaga nel rimanente miocardio attraverso il fascio di HIS, che si suddivide in due branche
ventricolari, dx e sx, che decorrono lungo i margini del setto interventricolare sfioccando nelle fibre di
Purkinje, le quali permettono di raggiungere tutte le zone del miocardio ventricolare.

10.2.1 ELETTROFISIOLOGIA DELLA FIBROCELLULA MIOCARDICA


Le cellule del miocardio costituiscono nel loro insieme una vera e
propria rete, definita sincizio funzionale. Le singole miocellule sono
saldate tra loro da strutture denominate dischi intercalari (o gap
junction) costituiti da zone di membrana cellulare adiacenti e
interdigitate tra loro al fine di garantire efficaci connessioni meccaniche
ed elettriche, dal significato di vere e proprie sinapsi elettriche. I
miocardiociti sono delimitati da una membrana con caratteristiche
morfologiche e proprietà funzionali peculiari, la quale permette,
attraverso una continua spesa energetica di ATP, di mantenere
differenze di concentrazione ionica tra l’interno e l’esterno della
miocellula, generando una differenza di potenziale elettrico tra i due
lati (-90mV).
Una volta generato il potAZ, il miocardiocita va incontro a una serie di
eventi:
0. depolarizzazione rapida: il pot di membrana raggiunge valori
positivi(+20mV);
1. ripolarizzazione rapida, la quale si interrompe quasi
immediatamente;
2. plateau
3. ripolarizzazione lenta;
4. ritorno al potenziale di riposo.
Queste fasi vengono scandite dalle variazioni delle conduttanze dei vari
ioni coinvolti. Durante la depolarizzazione rapida, abbiamo una
variazione di conduttanza sia del sodio, che permette un breve e
massiccio ingresso nella cellula, che del potassio, che lentamente
comincia ad uscire. I canali VD per il sodio, richiudendosi subito, lo intrappolano all’interno della cellula. La
fase di ripolarizzazione rapida viene prontamente bloccata dalla variazione di conduttanza del calcio, il
quale, diffondendosi ampiamente all’interno della cellula, compensa l’uscita degli ioni potassio, formando
la fase di plateau. Una volta chiusi i canali del calcio, il potenziale di membrana torna ai valori di riposo
molto lentamente, attraverso i canali, ancora aperti, per il potassio e la pompa Na+/K+.
L’azione di pompa del cuore richiede una coordinazione dei movimenti delle singole cellule miocardiche,
che può essere garantita solo dall’esistenza di una rigida gerarchia tra la sede di generazione dell’impulso
cardiaco (nodo SA), le vie di trasmissione dello stesso e l’azione meccanica ventricolare. Non meno
importante è la rigida successione cronologica degli eventi. Tutto ciò è assicurato dalla modalità di
insorgenza e dalla tipologia del potAZ del pacemaker nonché da una precisa azione di rallentamento
dell’impulso lungo il decorso che lo porta dal nodo SA alle cellule miocardiche funzionali. Allorché l’impulso
giunga a livello dei singoli miociti, esso è trasmesso al loro interno dal sistema T.
10.2.1.1 UN CASO PARTICOLARE: IL POTENZIALE D’AZIONE DELLE CELLULE DEL NODO SENOATRIALE
Nel nodo SA, dove le cellule hanno il compito di avviare l’attività cardiaca, non vi è un potenziale di riposo
stabile. In queste cellule vi è una spontanea tendenza alla depolarizzazione
fino al raggiungimento del valore soglia (-40mV) oltre il quale, il potAZ
segue il suo decorso. In queste particolari cellule, la fase di riposo non è
presente perché sulla membrana sono presenti dei canali passivi per il
potassio, che generano un flusso continuo di cariche a causa dei gradienti
di concentrazione. Anche la forma del potAZ però è diversa da quella
degl’altri miocardiociti: non vi sono né una depolarizzazione rapida
all’inizio, né una fase di plateau.
In assenza di regolazioni estrinseche, il nodo SA, data la capacità delle sue
cellule di autoeccitarsi, avrebbe una frequenza di scarica pari a 100-110
bpm.
Il cuore presenta due tipologie di controllo:
- intrinseco: presente nelle caratteristiche stesse del cuore;
-estrinseco: attraverso meccanismi nervosi (SNA) e umorali.
Controllo nervoso
Il controllo nervoso avviene a livello delle zone pacemaker (nodi SA e AV),
attraverso le due branche del SNA: il sistema parasimpatico (colinergico)
con le terminazioni del nervo vago; il sistema simpatico (adrenergico), con
le terminazioni dei nervi cardiaci superiore, medio e inferiore.
Le terminazioni nervose di questi due sistemi antagonisti si suddividono tra le fibrocellule muscolari la cui
membrana possiede recettori specifici per i neuromediatori rilasciati dai nervi. Vi sono infatti recettori β-
adrenergici cui si lega la noradrenalina e recettori
muscarinici per l’acetilcolina.
L’attività cardiaca, per quanto riguarda il controllo
nervoso, è dettata dal risultato dell’attivazione di
entrambi i sistemi: il bilancio simpato-vagale.
Gli effetti prodotti dal SNA sono vari:
 Cronotropo: agisce sulla frequenza di attivazione
cardiaca;
 Inotropo: modifica la produzione di forza di
contrazione;
 Dromotropo: modifica la velocità di
depolarizzazione;
 Batmotropo: Modifica il livello del potenziale di
soglia.
Per gli effetti
sopracitati, se
prevale il tono simpatico, avremo un effetto eccitante sul cuore, al
contrario, se prevale il tono parasimpatico preverrà un effetto
deprimente.
Sul potAZ delle cellule nodali, la variazione dei toni simpatico e
parasimpatico produce effetti differenti:
 Nel caso in cui le cellule nodali siano soggette solo ad una
regolazione intrinseca, senza controllo nervoso o umorale,
avremmo una depolarizzazione lenta (grazie alla presenza
dei canali passivi) fino al potSoglia, seguita da una rapida
depolarizzazione data dall’apertura dei canali VD;
 Se sulle cellule nodali prevalesse il tono simpatico, avremmo potAZ più rapidi e brevi, dovuti
all’aumento della pendenza della fase di depolarizzazione. In questo modo la cellula potrebbe
essere rieccitata più volte nella stessa unità di tempo e di conseguenza aumenterebbe la frequenza
cardiaca;
 Se invece prevalesse il tono parasimpatico, a causa della depressione sul potenziale di membrana a
riposo, la depolarizzazione spontanea sarebbe più lenta e i potAZ più allungati. In questo modo la
frequenza di attivazione cardiaca risulterebbe abbassata.

10.2.2 ACCOPPIAMENTO ECCITAZIONE-CONTRAZIONE NELLA CELLULA MIOCARDICA


L’arrivo del potAZ a livello dei miocardiociti dà luogo a una serie di eventi elettrici e meccanici che sfociano
nella contrazione del miocardio cui consegue il rilasciamento.
Il potAZ, determinando il rilascio di ioni calcio dalle cisterne del RS e l’afflusso degli stessi ioni dal LEC,
innesca una serie di interazioni tra le molecole del sistema miofibrillare analoghe a quelle della contrazione
del muscolo scheletrico. A contrazione avvenuta, attraverso la ripolarizzazione è ripristinato lo status quo
ante della fibrocellula e il calcio è riportato all’interno del RS. I tempi di questa eccitazione-contrazione
sono: 2ms per la fase iniziale di depolarizzazione rapida, a cui segue per circa 200ms la fase di plateau.
Dall’inizio del potAZ, per circa 200ms, il miocardiocita, dal punto di vista dell’eccitabilità, si trova in un
periodo refrattario assoluto, cui per circa 50ms fa seguito un periodo refrattario relativo. La lunga durata
del potAZ e del periodo refrattario fanno sì che a differenza del muscolo scheletrico, il miocardio non possa
sviluppare contrazioni tetaniche, che avrebbero effetti disastrosi.

10.2.3 MECCANICA DELLA CELLULA MIOCARDICA


Attraverso l’analisi dei muscoli papillari è stato
possibile studiare le caratteristiche meccaniche
del miocardio secondo modalità isometriche o
isotoniche.
Tramite uno specifico preparato possiamo
ottenere:
 La curva tensione-lunghezza a riposo, o
passiva: valori di tensione dovuti alla
resistenza passiva del muscolo posto a varie
lunghezze;
 La curva tensione attiva-lunghezza:
valori di tensioni isometriche dovuti alla
stimolazione massimale del muscolo posto alle
lunghezze precedenti.
L’andamento di tali curve permettono di
verificare che esiste una lunghezza ottimale
(Lmax) alla quale corrisponde il massimo
sviluppo di forza, in quanto si ha la situazione
più favorevole per la formazione di ponti acto-miosinici. Inoltre esse permettono di determinare i limiti dei
valori di F generabili dal muscolo cardiaco durante un ciclo, i quali si troveranno sempre compresi tra le due
curve. La differenza meccanica tra m.cardiaco e m.scheletrico è che il primo raggiunge la lunghezza ideale
quando c’è un importante ritorno elastico, al contrario del secondo, che alla lunghezza ideale non presenta
ritorno elastico.
La tensione passiva del muscolo cardiaco è legata al grado di prestiramento delle miocellule, derivato dal
volume di sangue che le camere ventricolari raggiungono alla fine della fase diastolica di riempimento: il
volume telediastolico. Il volume telediastolico corrisponde al precarico.
Per questo motivo infatti, esiste un valore ottimale di tensione passiva a
partire dal quale l’apparato muscolare contrattile del cuore è in grado di
sviluppare il valore più elevato di forza.
Il volume telediastolico determina la quantità di sangue eiettata da una
gittata sistolica (volume di sangue eiettato da uno dei due ventricoli per
ogni ciclo cardiaco. In media 70ml), la quale sarà relativamente piccola,
per piccoli volumi telediastolici, ed aumenterà all’aumentare del
volume, fino a un certo livello, oltre il quale la gittata sistolica si ridurrà
a causa della sconveniente disposizione dei sarcomeri.
Il rapporto tra gittata sistolica e volume telediastolico determina il
meccanismo di Frank-Starling, il quale è alla base del controllo
intrinseco del m. cardiaco.
Se, al contrario del precedente esperimento, non vincolassimo il muscolo a entrambe le estremità, bensì a
una delle due attaccassimo una massa,
durante la stimolazione andremmo
incontro a una contrazione isotonica. Il
carico applicato ex novo al muscolo si
definisce postcarico. Esso sarà
identificato nella resistenza che i
ventricoli devono vincere, nel corso della
sistole, per immettere in aorta e in arteria
polmonare i rispettivi volumi di eiezione (e quindi passare da una condizione isometrica a una condizione
isotonica di svuotamento ventricolare). In altre parole, il postcarico rappresenta le pressioni arteriose
diastoliche vigenti rispettivamente in aorta e nell’arteria polmonare.

Nel caso in cui il preparato


muscolare fosse perfuso
con una soluzione
contenente noradrenalina,
avremmo uno spostamento
della tensione isometrica
massima verso l’alto, con
un guadagno sia in termini
di possibilità di
accorciamento sia di
possibile sviluppo di
tensione.

10.2.4 CICLO CARDIACO


Il ciclo cardiaco è costituito da una serie coordinata di eventi elettrici e meccanici che consentono al cuore
di svolgere l’azione di pompa. Tali eventi possono essere descritti secondo due modelli principali: la curva
pressione-volume dei ventricoli e il diagramma di Wiggers.
10.2.4.1 CURVA PRESSIONE-VOLUME DEI VENTRICOLI
Essendo un fenomeno ciclico è descrivibile a partire
da qualsiasi punto. Per convenzione si parte dalla
fine del riempimento del ventricolo sx, ossia dal
volume telediastolico (punto A: P=10mmHg;
V=130ml  precarico). il ventricolo sx contiene ora
130ml di sangue, 70 dei quali vi sono penetrati nel
corso della diastole, provenendo dall’atrio sx
attraverso la valvola mitrale. A questo punto inizia
la contrazione sistolica, con la chiusura della valvola
mitrale. Nel corso della prima fase delle sistole,
nell’arco di 50ms sale repentinamente la pressione
intraventricolare e la parete ventricolare si contrae
isometricamente. La valvola aortica non si è ancora
aperta, né si aprirà fino a quando la pressione
sviluppata dalla parete ventricolare, e quindi la
pressione intraventricolare, non avrà superato la
pressione diastolica vigente in aorta. Per tale
motivo la contrazione è detta isovolumetrica. Al punto B (P=80mmHg  postcarico; V=130ml) si verifica
l’apertura dei lembi valvolari e il sangue fluisce sotto la spinta ventricolare nel bulbo aortico. La contrazione
ventricolare nel corso dell’azione di propulsione del sangue in aorta non è isotonica. La pressione infatti
aumenta con decorso curvilineo fino al valore sistolico (eiezione rapida), che corrisponde a circa 120mmHg,
per poi decrescere, sempre con decorso curvilineo fino al punto C (eiezione lenta). Il volume
intraventricolare, al contrario, tra il punto B e il punto C continua a decrescere. Al punto C (P=100mmHg;
V=60ml) cessa la sistole, ossia l’azione propulsiva ventricolare (telesistole), con la chiusura dei lembi della
valvola aortica (poiché la pressione in aorta torna ad essere maggiore rispetto alla pressione
intraventricolare) e di conseguenza il ventricolo sx torna ad essere un compartimento chiuso. Il valore di
pressione in C corrisponde all’incisura dicrota. Dal punto C la pressione intraventricolare cade
verticalmente, in un tempo di 40ms, fino al punto D, senza che aumenti il volume, dato che la valvola
mitrale è ancora chiusa (rilasciamento isovolumetrico, corrispondente alla prima fase della diastole). Al
punto D (P=5mmHg; V=60ml) il ventricolo sx si è completamente rilasciato. La pressione intraventricolare,
avendo raggiunto livelli inferiori rispetto alla pressione atriale causa l’apertura della valvola mitrale che
permette al sangue di fluire nel ventricolo. Il sangue è spinto dall’atrio al ventricolo da un gradiente
pressorio di pochi mmHg che si viene a formare per la contemporanea distensione dell’atrio dovuta al
ritorno venoso, e il concomitante rilasciamento ventricolare. Durante il riempimento del ventricolo sx, la
pressione continua leggermente a calare (riempimento rapido) durante la prima fase, per poi aumentare
man mano che la quota di sangue aumenta (riempimento lento). Per ottimizzare il riempimento del
ventricolo sx, nel momento in cui raggiunge un valore isopressorio con l’atrio sx, si ha la sistole atriale, la
quale coincide con la fine della fase della diastole ventricolare e ricomincia il ciclo cardiaco.
Questa curva pressione-volume è riferita al ventricolo sx. Per quanto riguarda il ventricolo dx, dal punto di
vista qualitativo i fenomeni che vi hanno luogo sono del tutto simili a quelli fin qui descritti, cambiano solo i
valori pressori: la pressione sistolica del circolo polmonare è di circa 24mmHg, mentre quella diastolica di
circa 8mmHg. Nello specifico, le pressioni relative ai vari punti sono: 3mmHg (A), 8mmHg (B), 15mmHg (C),
2mmHg (D). Le pressioni presenti nel ventricolo dx sono molto inferiori rispetto a quelle presenti nel
ventricolo sx a causa del sottile spessore delle pareti dei vasi della circolazione polmonare. Inoltre una
pressione bassa permette un migliore scambio gassoso tra alveoli e capillari. I volumi ventricolari, a destra e
a sinistra sono uguali, dato che esiste una corrispondenza quantitativa precisa tra il flusso ematico del
circolo polmonare e quello del circolo sistemico.
La durata di un ciclo cardiaco a riposo è compresa tra gli 800 e 1.200ms. Il valore dipende dalla frequenza
cardiaca, così come le rispettive durate della sistole e della diastole.
Effetti delle variazioni del precarico ventricolare, legge del cuore di Frank-Starling
Entro limiti definiti, la contrazione della muscolatura miocardica nel corso della sistole è tanto più efficace
quanto più il ventricolo si era riempito di sangue nel corso della diastole. La gittata sistolica aumenta in
proporzione al ritorno venoso al cuore e, conseguentemente, al riempimento ventricolare. Quindi un
aumento del precarico ventricolare è seguito da un aumento della gittata sistolica. Le variazioni del
precarico determinano lo spostamento del punto A verso dx o verso sx.

Effetti delle variazioni del postcarico ventricolare


Un aumento della pressione arteriosa sistemica, inteso come aumento del postcarico, in assenza di
meccanismi di compenso determina una riduzione della gittata sistolica. Variazioni del postcarico
determinano lo spostamento del punto B verso l’alto o il basso.
Se il postcarico aumentasse, la durata della contrazione isometrica risulterebbe maggiore poiché il muscolo
impiegherebbe più tempo per vincere la resistenza applicata e la durata della contrazione isometrica, al
contrario, risulterebbe minore, a causa del minor accorciamento effettuabile dalla fibra data la vicinanza
alla linea della tensione massima.
All’interno del ciclo
cardiaco, l’aumento del
postcarico, determina un
minor svuotamento del
ventricolo e una
conseguente diminuzione
della gittata sistolica.

Durante esercizio fisico intenso e prolungato, la


prevalenza del tono simpatico, con conseguente rilascio di
noradrenalina, ha l’effetto di spostare verso l’alto la curva
di funzione ventricolare, analogamente a quanto avviene
con la curva di massima tensione isometrica del preparato
di muscolo papillare. Ne deriva la possibilità di un maggior
accorciamento delle fibrocellule ventricolari con
conseguente aumento della gittata sistolica. Ciò è utile
quando, in seguito a un aumento del postcarico, si
verificherebbe altrimenti una riduzione della gittata
sistolica. L’aumento della contrattilità miocardica indotta
dalla noradrenalina consente di aumentare la gittata
sistolica a parità di precarico. Per effetto della legge di
Frank-Starling, lo stesso risultato si ottiene, a parità di contrattilità, aumentando il precarico.
Gittata Cardiaca
La gittata cardiaca è il flusso di sangue eiettato da uno dei due
ventricoli nell’unità di tempo (1’). A riposo, in un individuo di media
corporatura è di circa 5 l/min. In condizioni di esercizio fisico la
gittata cardiaca dovrà adeguarsi alle nuove richieste metaboliche.
L’adattamento della prestazione cardiaca avviene grazie all’azione
del simpatico che incrementa lo stato inotropo. Tale incremento è
verificabile sulla base dello spostamento verso l’alto della curva
derivata dal rapporto tra gittata cardiaca e pressione cardiaca di
riempimento. Questo rapporto riflette l’andamento del
meccanismo di Frank-Starling poiché le variazioni della gittata
cardiaca implicano variazioni della gittata sistolica o della FC.
In generale la gittata cardiaca può aumentare tra le 3.5 e le 5 volte
il valore di riposo. Tali aumenti sono realizzati attraverso
l’incremento, rispetto ai valori di riposo, di almeno 3 volte per la
frequenza cardiaca e 2 per la gittata sistolica.
In definitiva, la gittata cardiaca è regolata dalla complessa
interazione di tutti i fattori in grado di intervenire sull’equazione: Gc = FC * qc
Nella quale Gc corrisponde alla gittata cardiaca, FC alla frequenza cardiaca e qc alla gittata sistolica.
 SNA paraS: riduzione FC;
 SNA S: aumento FC e qc;
 Aumento del postcarico: diminuzione di qc;
 Aumento precarico: aumento di qc;

10.2.4.3 DIAGRAMMA DI WIGGERS


Il diagramma di Wiggers descrive per ciascuna metà del cuore l’andamento sincrono di vari parametri quali
l’elettrocardiogramma (ECG), pressione intraventricolare, atriale e aortica, e il volume ventricolare, lo
sfigmogramma e il flusso aortico o, in alternativa, polmonare e, infine il fonocardiogramma, in funzione del
tempo di un ciclo cardiaco “ottimale” della durata di 800ms.
t=0’’ms
In seguito all’onda P (non mostrata nel grafico, poiché gli eventi elettrici precedono quelli meccanici)
abbiamo l’inizio della contrazione atriale, con conseguente aumento di pressione intraatriale e
intraventricolare (data dall’afflusso di sangue nell’ultimo compartimento). Contemporaneamente la
pressione in aorta scende verso valori di 80mmHg.
t=0.12’’ms
Avvenuta la depolarizzazione del setto interventricolare, inizia la sistole ventricolare, preceduta dalla
chiusura della valvola mitrale. In questa fase la pressione intraventricolare aumenta e il volume rimane
costante (fase di contrazione isovolumetrica).
t=0.16’’ms
La pressione intraventricolare supera la pressione in aorta determinando l’apertura della valvola (ventricolo
sx e aorta diventano un compartimento unico). Inizia quindi la fase eiettiva: il volume ventricolare crolla
(eiezione rapida) con una pendenza sempre minore (eiezione lenta); il flusso aortico aumenta fino ad un
picco (corrisponde alla fine dell’eiezione rapida) per poi ridurre durante la fase di eiezione lenta,
terminando con un picco negativo.
t=0.4’’ms
Una volta terminata l’eiezione di sangue, la pressione
intraventricolare crolla fino a valori di pressione inferiori a
quelli dell’atrio sx, la valvola aortica si richiude e il flusso in
aorta torna a 0. Questa è la fase di rilasciamento
isovolumetrico. In questa fase la pressione in aorta
dovrebbe crollare, ciò non avviene a causa della funzione di
mantice arterioso (azione di pompa conferita dalla
struttura delle pareti del vaso. Ovvero dalla limitata
distensibilità e dall’elevata elasticità) dei grossi vasi
arteriosi.
Quando il ventricolo sx eietta sangue in aorta, essa si
distende. Una volta terminata la fase di sistole ventricolare,
si ha la chiusura della valvola aortica, e il ritorno elastico
delle pareti dell’aorta pompa il sangue presente all’interno
del vaso in entrambe le direzioni (sia verso la periferia che
verso la valvola). Ciò spiega il picco negativo del flusso alla
fine della fase di eiezione lenta, dato da quella quota di
sangue che tornando indietro sbatte contro la valvola
aortica per poi tornare verso la periferia.
T=0.48’’ms
Nel momento in cui la pressione intraatriale risulta
maggiore a quella intraventricolare, la valvola mitrale si
apre, determinando l’aumento del volume ventricolare.
Comincia quindi la fase di riempimento, prima rapido e poi
via via più lento, per concludere con la sistole atriale.

10.3 ELETTROCARDIOGRAMMA
L’elettrocardiogramma (ECG) rappresenta la registrazione a livello cutaneo dell’attività elettrica globale del
cuore in funzione del tempo. Ciò è permesso dalla conducibilità elettrica offerta dall’acqua all’interno del
nostro corpo. L’attività elettrica globale del cuore registrabile a livello cutaneo è data dall’induzione del
campo elettrico generato dalla depolarizzazione dei miocardiociti, la quale però prima di arrivare in
superficie viene filtrata da tutti i tessuti attraverso cui viaggia, i quali riducono l’ampiezza del segnale. L’ECG
è in grado di ripulire il segnale dalle varie interferenze e di riprodurre il tracciato.
Le caratteristiche del campo elettrico generato sono: ampiezza (dipende dal n° di cellule attivate e dal loro
sincronismo), direzione (dipende dall’orientamento spaziale delle variazioni elettriche) e verso (dipende dal
segno dell’evento).
Queste caratteristiche formano un vettore, il quale sarà diverso per ogni depolarizzazione. Il segnale
registrato a livello cutaneo è la somma algebrica dei vari vettori, e quindi dei vari potAZ generati dal cuore:
il vettore cardiaco medio.
Il vettore cardiaco medio dà luogo a fluttuazioni cicliche e caratteristiche di tensione elettrica.
A seconda della posizione e della distanza dal cuore dell’elettrodo cambiano le variabili del vettore. Di
conseguenza anche la tipologia di registrazione che può essere visualizzata. Per riuscire ad ottenere
registrazioni comparabili è stato necessario standardizzare la posizione degli elettrodi.
I punti standardizzati su cui vengono orientati spazialmente gli elettrodi sono chiamati derivazioni. Esse si
trovano sia sul piano frontale (periferiche bipolari e unipolari) che trasversale (precordiali unipolari).
Derivazioni periferiche bipolari di Einthoven
Sono dette periferiche poiché lontane dal cuore e bipolari
perché costituite da due elettrodi, positivo e negativo, e un
terzo che costituisce la messa a terra che riduce le
interferenze prodotte da altre attività elettriche circostanti.
Il triangolo di Einthoven, che si assume sia equilatero, è
delimitato dalle due braccia e dall’arto inferiore sinistro, sui
cui vertici sono posizionati tre elettrodi di registrazione,
collegati all’elettrocardiografo. Il cuore occupa il centro di
questo triangolo.
Le derivazioni che otteniamo sono 3: I (braccio dx, braccio sx),
II (braccio dx, gamba sx), III (braccio sx, gamba sx).
Le derivazioni registrano le differenze di potenziale che
intercorrono tra i due elettrodi.

Derivazioni periferiche unipolari di Goldberg


Le derivazioni periferiche unipolari di Goldberg sono 3: aVR
(braccio dx, cuore), aVL (braccio sx, cuore) e aVF (gamba sx,
cuore).
Derivazioni precordiali unipolari di Wilson
Queste ultime derivazioni sono 6, hanno un posizionamento specifico sulla superficie anteriore del torace e
consentono di visualizzare meglio alcuni comparti cardiaci: V1 e V2 registrano prevalentemente l’attività
del ventricolo dx, V3 è un elettrodo di transizione, V4, V5 e V6 quella del ventricolo sx.
L’elettrocardiogramma completo prevede la registrazione di tutte e 12 le derivazioni.
Nell’elettrocardiogramma, la lettura del vettore cardiaco medio viene effettuata in maniera differente a
seconda del rapporto tra il vettore e la posizione dell’elettrodo.
Quando l’onda di depolarizzazione si muove verso un elettrodo, parallelamente all’asse della derivazione, si
registra una deflessione positiva, con ampiezza massima.
Quando l’onda di depolarizzazione si allontana da un elettrodo, parallelamente all’asse della derivazione, si
registra una deflessione negativa, con ampiezza nulla.
Se l’onda di depolarizzazione è perpendicolare rispetto all’asse della derivazione, non si registrano
deflessioni, e l’ampiezza risulta quindi 0.
Se l’onda di depolarizzazione è diagonale rispetto
all’asse della derivazione, si registrano deflessioni
positive o negative di ampiezza compresa tra quelle
sopracitate.
Nel cuore fisiologico, la direzione media del vettore
cardiaco durante la diffusione dell’onda di
depolarizzazione è di circa 60°.
Nel tracciato ECG le fluttuazioni cicliche
caratteristiche di tensione elettrica derivate dal
vettore cardiaco medio hanno un significato
fisiologico.
L’onda P, di durata compresa tra 0.08’’ e 0.1’’,
corrisponde alla depolarizzazione atriale. Questa fase
inizia con l’autoeccitazione del nodo SA, dal quale si
propaga la depolarizzazione a una velocità di 1000mm/sec.
Il segmento isoelettrico P-R, di durata compresa tra 0.12’’ e 0.2’’, corrisponde al passaggio della
depolarizzazione nel setto interventricolare, superato il nodo AV, lungo il fascio di His, fino all’inizio della
depolarizzazione ventricolare.
L’onda Q corrisponde all’attivazione del setto, lungo il quale la depolarizzazione si sposta da sx verso dx a
una velocità di 1.500-4.000mm/sec.
L’onda R corrisponde all’attivazione dell’apice cardiaco.
Dopo di ché la depolarizzazione si propaga lungo le pareti libere dei ventricoli fino alla base.
L’onda S corrisponde all’attivazione della base ventricolare.
Il complesso QRS dalla durata compresa tra 0.06’’ e 0.1’’ corrisponde alla depolarizzazione ventricolare e
coincide con la ripolarizzazione atriale. Data la preponderanza della massa ventricolare sul resto dei tessuti
cardiaci, si può ritenere con buona approssimazione che il vettore elettrico sia ben rappresentato da tale
complesso.
Il segmento isoelettrico S-T dalla durata di circa 0.1’’ corrisponde alla ripolarizzazione dei ventricoli che
culmina nell’onda T, la quale si propaga in senso inverso rispetto alla depolarizzazione, ossia
dall’endocardio verso l’epicardio e dalle basi verso l’apice.
L’intervallo Q-T, di circa 0.36’’-0.44’’ corrisponde al periodo di refratterietà ventricolare.
L’intervallo R-R corrisponde al periodo intercorrente tra due battiti cardiaci.
Le informazioni ricavabili da un tracciato ECG riguardano:
 La frequenza cardiaca;
 Normalità della sede di formazione dell’impulso (luogo d’origine dell’eccitamento);
 Normalità della propagazione dell’impulso;
 Presenza di eventuali patologie;
 La ritmicità dell’azione cardiaca;
 Il trofismo della muscolatura ventricolare attraverso la morfologia del complesso QRS;
 La presenza di alcuni battiti ventricolari prematuri intercalati tra i battiti normali;
 La presenza di slivellamenti dei tratti isoelettrici.
Negli sportivi possono essere presenti delle alterazioni cardiache non patologiche:
 Ipertrofia cardiaca eccentrica, data da allenamenti di resistenza, che causa:
o Ingrandimento della cavitò e aumento dello spessore del ventricolo sx;
o Aumento della gittata cardiaca;
o Aumento della pressione arteriosa sistolica;
 Ipertrofia cardiaca concentrica, data da allenamenti di potenza, che causa:
o Ispessimento delle pareti ventricolari senza modificazione della cavità ventricolare sx;
o Aumento della pressione arteriosa sistolica;
 Aritmie: bradicardia e pause sinusali (adattamento ipervagotonico);
 Blocco atrio-ventricolare: ritardo o blocco del passaggio dell’impulso tra atrio e ventricoli;
 Rigurgiti valvolari associati al fisiologico ingrandimento delle camere cardiache;
 Voltaggio QRS elevato (indice di ipertrofia);
 Alterazioni onda P;
 Sopraslivellamento del tratto S-T;
 Aumento del diametro di vene e arterie di medio e grosso calibro.
HRV – Heart rate variability
È un parametro che risulta dalla misurazione, attraverso la trasformata di Fourier, sul tacogramma della
distanza temporale tra i picchi R. indica il grado di adattabilità psicofisica alle diverse situazioni in risposta a
vari fattori (fisiologici e ambientali). È altamente correlato al bilancio simpato-vagale. Inoltre attraverso
questo parametro otteniamo informazioni sulla capacità di recupero di un atleta.
CIRCOLAZIONE
CAPITOLO 11 PAGINA 283

Il sistema cardiocircolatorio, è composto da un sistema di trasporto, il sistema circolatorio, e dal cuore, che
mette in movimento il sangue, il quale a livello capillare realizza scambi con il liquido interstiziale che bagna
tutte le cellule.

11.1 MODELLO SEMPLIFICATO DEL SISTEMA CARDIOVASCOLARE


Il sistema cardiovascolare è schematizzato da una pompa, due
sezioni di tubi collegate da vasi di resistenza e da un
compartimento di scambio, a formare un circuito chiuso in cui
scorre tessuto liquido.
Il sangue che scorre all’interno è disomogeneo e cambia viscosità
e densità a seconda della posizione.
I vasi hanno caratteristiche morfologiche diverse in base alla
funzione che svolgono.
I compartimenti di scambio sono presenti sia centralmente a
livello polmonare, che “perifericamente” nei vari distretti del
corpo, posti in parallelo rispetto alla grande circolazione.
Il compartimento arterioso ha una funzione convettiva ed è
caratterizzato da un’elevata elasticità (capacità di un corpo di tornare alla posizione originaria in seguito a
una perturbazione) e una bassa distensibilità (capacità di un corpo di essere deformato). Al contrario,
quello venoso, è molto distensibile ma poco elastico. Queste caratteristiche, gli consentono di avere una
maggiore capacitanza rispetto a quello arterioso, pertanto avranno una funzione di serbatoio. Ciò è
dimostrato dal fatto che la distribuzione del sangue a riposo presenta un rapporto di circa 20:1 in favore del
compartimento venoso. Infatti in posizione ortostatica, i vasi venosi presenti nelle gambe sono i maggiori
serbatoi di sangue, al contrario della posizione clinostatica, dove i maggiori sono presenti a livello dei vasi
toracici.
I vasi di resistenza sono costituiti, a monte dalle arteriole e a valle dalle venule. La loro funzione è quella di
regolare la pressione che arriva nelle zone di scambio, dove le pareti sono sottili e delicate, affinché gli
scambi possano avvenire in maniera efficace.

11.1 CARATTERISTICHE MORFOLOGICHE E FUNZIONALI DEI VASI


Dal punto di vista morfologico i vasi sono costituiti da varie tonache
sovrapposte in maniera concentrica, tra cui: avventizia, fibre connettive,
fibre elastiche, fibre muscolari lisce, membrana basale e cellule endoteliali.
Nello specifico, le arterie di grosso calibro, data la loro funzione convettiva
e di mantice arterioso, richiedono una grande elasticità, pertanto prevale la
parte di fibre elastiche. Le arteriole, vista la loro funzione di regolazione
della pressione, saranno costituite prevalentemente dalle fibre muscolari
lisce, in modo tale che contrendosi riescono ad aumentare le resistenze e
di conseguenza ad abbassare la pressione, funzionando come valvole.
Durante esercizio fisico esercitano questa funzione in modo più o meno
marcato. I capillari, essendo dei vasi di scambio, sono costituiti solamente
dalla membrana basale e da cellule endoteliali. Venule e vene hanno una
proporzione variabile di fibre elastiche e fibre connettive, che le rendono in
grado di contenere un notevole volume di sangue.
11.1.2 RIVESTIMENTO ENDOTELIALE
Il rivestimento endoteliale garantisce una superficie liscia che impedisce l’adesione delle piastrine e la
formazione di coaguli, garantendo la fluidità del sangue.

11.1.3 CELLULE MUSCOLARI LISCE


Le fibre muscolari lisce di cui sono dotati i vasi, ad eccezione dei capillari, sono innervate dal sistema
simpatico. L’effetto della loro contrazione dipende sia dalla proporzione di questa componente sia dalla
disposizione delle fibre. Nelle arteriole, sono molto presenti e disposte concentricamente, perciò la
contrazione costringe i vasi, riducendo il volume per regolare la resistenza idraulica. Nelle vene invece,
essendo scarse e dirette parallelamente al vaso, la contrazione regola il volume zero del vaso e la sua
compliance, mentre ha poco e nessun effetto sulla resistenza.
Capacità: volume massimo a pressione zero.
Compliance: rapporto tra volume in eccesso e pressione sviluppata (la quale dipenderà sia dal volume che
dall’elasticità delle pareti).

11.1.4.1 VISCOSITÀ SANGUE


La viscosità del sangue è conferita sia dal contenuto proteico del plasma che dall’ematocrito. Essa inoltre
dipenderà dalla temperatura e dalla velocità a cui scorre.

11.1.4.2 VOLUME SANGUE


Il volume del sangue, influenza il sistema perché ne determina il riempimento, generando la pressione di
riempimento di circa 7 mmHg.

11.1.6 CAPILLARI
La pressione del sangue a livello dei capillari è regolata dal rapporto tra resistenze arteriolari e venulari: il
suo valore è critico per la determinazione del flusso netto di acqua tra i compartimenti intra- ed
extravasale. Questa contribuisce alla regolazione a breve termine del volume totale di sangue circolante.

11.1.8 REGOLAZIONE DEL VOLUME DI SANGUE


Il controllo della volemia è una funzione altamente integrata. L’Ht è determinato dalla funzione
emopoietica, controllata dall’EPO, prodotta dal rene; il volume del plasma è controllato dai meccanismi che
presiedono al riassorbimento renale di acqua (ormone antidiuretico, ADH e vasopressina) e indirettamente
da quelli che controllano l’omeostasi del sodio (mineralcorticoidi e aldosterone).

11.2 PRINCIPI DI EMODINAMICA


Al sistema cardiocircolatorio possono essere applicate alcune leggi della fisica dei fluidi.

11.2.1 VELOCITÀ DEL FLUSSO IN UN CIRCUITO CHIUSO


Nel sistema cardiocircolatorio, essendo un circuito chiuso costituito da vasi di diametro diverso, la velocità
è inversamente proporzionale alla sezione del tubo: è più bassa in un tubo di grande diametro, mentre è
più elevata in un tubo sottile. Ciò potrebbe indurci a pensare che la velocità di scorrimento del sangue
aumenti via via che scorre dall’aorta ai capillari. Questo non accade perché ad ogni diramazione, la somma
dei diametri dei vasi successivi è maggiore del/dei diametri precedenti. Quindi andando verso la periferia, si
riduce il calibro dei vasi, ma ne aumenta il numero, e di conseguenza la sezione trasversa totale aumenta
nettamente. La velocità più bassa si riscontra a livello capillare, che hanno una sezione trasversa totale
mille volte maggiore di quella dell’aorta.
11.2.2 PRESSIONE, PORTATA, RESISTENZA
La legge di Poiseuille indica che il flusso, o portata è uguale al gradiente di pressione (ΔP), ovvero alla
differenza di pressione tra due punti, diviso la resistenza (R). La resistenza è direttamente proporzionale
alla lunghezza del tubo (L) e alla viscosità del liquido (η) e inversamente proporzionale al raggio elevato alla
quarta potenza (R= 8*η*L/π*r4). 8 e π sono costanti geometriche. La resistenza quindi dipende in modo
particolarmente critico dal raggio del condotto. Ciò fa capire l’importanza del tessuto muscolare liscio nelle
arteriole. La viscosità è la caratteristica di un fluido, rappresentante l’attrito tra due corpi che scorrono
l’uno sull’altro. Il rapporto tra la pressione arteriosa media (gradiente pressorio) e la gittata cardiaca
(flusso) dà il valore delle resistenze periferiche totali. Infine la pressione arteriosa è data dal prodotto della
gittata cardiaca e le resistenze periferiche totali.

11.2.3 RESISTENZE IN SERIE E IN PARALLELO


Il sistema circolatorio è costituito da distretti successivi, posti in serie tra loro: ogni distretto ha la sua
resistenza, mentre la resistenza totale del circuito è uguale alla somma delle resistenze di tutti i distretti.
Ogni distretto, però, è costituito da un numero più o meno elevato di vasi disposti in parallelo tra di loro.

11.2.4 FLUSSO LAMINARE E TURBOLENTO


La legge di Poiseuille si applica se il flusso nel circuito è laminare, come normalmente è nel sistema
circolatorio, mentre se diventasse turbolento il gradiente di pressione terrebbe conto anche della velocità
di scorrimento. Il flusso laminare è caratteristico dei condotti regolari, ed è costituito da lamine
concentriche dove la velocità di scorrimento è maggiore in quella assiale.

11.10.5 FILTRAZIONE E RIASSORBIMENTO


I meccanismi che stanno alla base degli scambi idrici
tra plasma e liquido interstiziale sono filtrazione e
riassorbimento. Lo spostamento dei liquidi è
influenzato da due tipi di pressione: P idrostatica
(capillare e interstiziale) e P oncotica (capillare e
interstiziale). Le quattro pressioni si possono
raggruppare a due a due: Pc e πi a favore della
filtrazione e Pi e πc a favore del riassorbimento.
(Pc + πi) – (Pi + πc) = pressione netta di filtrazione.
L’effetto dipende dal segno della pressione netta: +
filtrazione, - riassorbimento.
La pressione idrostatica del capillare è l’unica pressione che si modifica sostanzialmente nella lunghezza del
capillare: da 35 (all’inizio del capillare) a 10 mmHg (alla fine del capillare). Questa pressione è regolata dal
tono delle arteriole pre-capillari che regolano la resistenza all’ingresso del sangue in questo distretto. La
caduta di pressione nella lunghezza del capillare dipende dal flusso e dalle resistenze post-capillari,
rappresentate dalle venule.
Il valore della pressione idrostatica nel liquido interstiziale è di -7mmHg. Questo valore è dato dal drenaggio
linfatico. Il quale, se non fosse funzionale creerebbe alterazioni nei meccanismi di filtrazione e
riassorbimento.
I valori della pressione oncotica del plasma variano da 21 a 29 mmHg. Le albumine sono le proteine
plasmatiche principalmente responsabili degli equilibri osmotici a livello dei capillari.
La pressione oncotica interstiziale è in genere indicata in 5mmHg, il quale è un valore medio molto variabile
da tessuto a tessuto.
Durante esercizio fisico, la pressione idrostatica media sale e le arteriole, funzionando da valvole, attivano il
reclutamento di ulteriori capillari che a riposo sono chiusi. Aprendosi, causano una migliore distribuzione
del flusso evitando il raggiungimento di pressioni che sfonderebbero i capillari. Questo meccanismo prende
il nome di “reclutamento con distensione”.
11.3 PRESSIONE NELLA CIRCOLAZIONE SISTEMICA
Dal ventricolo sx all’atrio dx la pressione subisce continue variazioni. Nel ventricolo sx varia da 120mmHg a
5 mmHg in funzione delle fasi del ciclo cardiaco. La
pressione di chiusura della valvola aortica (100mmHg)
influenza il punto più basso dell’oscillazione delle
arterie aventi maggior calibro. L’oscillazione diventa via
via più ampia man mano che il loro diametro
diminuisce, fino ad arrivare alle arteriole pre-capillari.
Infatti con l’utilizzo dello sfigmomanometro i valori
sistolici e diastolici rilevati all’altezza dell’arteria
brachiali sono, in un soggetto fisiologico, di 130/85
circa, a patto che il punto di misurazione del braccio sia
posto all’altezza del ventricolo Sx. Durante esercizio
fisico la rilevazione della pressione è misurata
attraverso uno strumento che si attacca a un dito, il
finometer, il quale ha un elettrodo collegato ad un
sensore posto all’altezza del ventricolo sx, e corregge la
pressione letta sul dito in base all’altezza in verticale
della distanza dalla camera cardiaca.
Arrivati alle arteriole di resistenza, riducendosi la componente elastica del condotto, l’oscillazione viene
persa. Come conseguenza, data la loro funzione di valvole, generata dalla disposizione della muscolatura
liscia, regolano la pressione che deve arrivare ai capillari, la quale si attesterà intorno a valori di 35mmHg.
Durante il transito nei capillari la pressione presenta un gradiente pressorio di 25mmHg, arrivando intorno
a 10mmHg al lato venoso. La pressione del flusso ematico, una volta uscito dai capillari, continua a
scendere verso valori vicini a 0-2mmHg, che favoriscono il ritorno all’atrio dx. La pressione media ha un
andamento calante fino alle arteriole dove coincide con quella misurata.
Il valore delle resistenze periferiche totali (RPT) è dato dal rapporto della differenza tra gradiente pressorio
e gittata cardiaca. Il gradiente pressorio è dato dalla differenza della pressione all’inizio di un condotto e la
pressione alla fine dello stesso. Dato che, in questo caso, la pressione all’inizio del condotto è data dalla
pressione in aorta, il quale non è un valore stabile, viene utilizzata la MAP (pressione arteriosa media). La
MAP è data dalla somma tra la pressione diastolica (80mmHg) e 1/3 della pressione differenziale (pressione
sistolica 120mmHg – pressione diastolica): 80+40/3= 93,3. La pressione presente alla fine del condotto è
quella presente a livello dell’atrio dx, detta anche pressione del sangue venoso misto. Il valore ottenuto
(RPT) riflette la presenza di ipertensione.

11.13 CIRCOLAZIONE POLMONARE


Qualitativamente la circolazione polmonare è analoga a quella
sistemica. Esse differiscono per i valori pressori al loro interno.
Nel ventricolo dx i valori pressori variano tra 0 e 25mmHg. La
pressione che arriva ai capillari è intorno agli 8-10mmHg. Nella
circolazione polmonare però, non essendoci arteriole di
resistenza, la pressione non cade bruscamente bensì continua a
presentare delle oscillazioni tra 5 e 7 mmHg. La causa della loro
assenza è che in questa circolazione, i valori pressori sono di
per sé molto più bassi rispetto alla circolazione sistemica, per
cui i capillari riescono a reggere le pressioni che vi arrivano. Al
contrario se fossero state presenti, la pressione sarebbe stata
troppo bassa per consentire degli scambi efficienti. Nella circolazione polmonare però c’è da tenere conto
anche della pressione alveolare (esterna) e della variazione della pressione idrostatica in base all’altezza
rispetto al cuore. Infatti è possibile analizzarla suddividendo il polmone in 4 zone:
 Zona I: a livello degli apici, la pressione idrostatica generata dall’altezza maggiore dei capillari
rispetto al cuore, si somma alla pressione intravasale. In questa situazione, in un soggetto in piedi a
riposo, la pressione alveolare (+/- 2mmHg in base allo stato della ventilazione) risulta maggiore
delle pressioni idrauliche all’interno del capillare. Pertanto gli alveoli andranno a comprimere i
capillari, che non lasceranno fluire il sangue al loro interno.
 Zona II: in questa zona i valori di pressione idrostatica sono simili a quelli presenti a livello del
ventricolo dx perché sono sullo stesso livello. Pertanto i capillari risulteranno aperti o chiusi in
funzione della fase del ciclo cardiaco: durante la diastole, la pressione alveolare è maggiore delle
pressioni propulsive pertanto i capillari saranno chiusi; durante la sistole, la pressione arteriosa è
maggiore della pressione alveolare (che risulta comunque maggiore della pressione venosa), quindi
i capillari risulteranno aperti.
 Zona III: in questa zona i valori pressori sono simili al ventricolo dx e di conseguenza i capillari
risulteranno aperti.
 Zona IV: a livello delle basi polmonari, che risultano leggermente più basse del cuore, si distribuisce
una quota maggiore della gittata sistolica del ventricolo dx, perché la pressione idrostatica, che si
aggiunge a quella generata dalla sistole ventricolare, fa dilatare i vasi.
In un soggetto in piedi a riposo quindi il piccolo circolo non è pienamente operante. La parte non utilizzata
costituisce una riserva funzionale che viene immediatamente sfruttata quando aumenta la gittata cardiaca,
a causa del lieve aumento della pressione polmonare.
11.12.1 CIRCOLAZIONE CORONARICA
Il flusso coronarico (circolazione miocardica) risente
delle fasi del ciclo cardiaco. Durante la fase di caduta
di pressione ventricolare e il successivo
riempimento, il flusso coronarico è alto. Dopo la
chiusura della valvola mitrale, durante la fase di
contrazione isovolumetrica del ventricolo, il flusso
coronarico si annulla, diventando addirittura
negativo. All’apertura della valvola aortica, durante
la fase di eiezione del sangue, il flusso è minimo,
tornando ad annullarsi in seguito alla chiusura della
valvola aortica e il successivo ritorno elastico delle pareti arteriose.
Quando la frequenza cardiaca aumenta, la durata del ciclo cardiaco diminuisce a scapito della fase
diastolica. Riducendosi il tempo di riempimento ventricolare, diminuirà il flusso coronarico. Ciò nel soggetto
giovane in fisiologia, non avrà ripercussioni negative, ma nell’anziano può indurre lesioni miocardiche a
causa del minor tempo di ossigenazione riservato alla muscolatura cardiaca.
FISIOLOGIA DEL SISTEMA RESPIRATORIO
CAPITOLO 12 PAGINA 317

Il sistema respiratorio svolge numerose funzioni, di cui la principale è certamente quella di prelevare
l’ossigeno dall’ambiente, di distribuirlo tramite il sangue a tutte le cellule dell’organismo e di asportare
dalle stesse l’anidride carbonica, prodotto terminale della combustione degli alimenti insieme all’acqua.
La respirazione, comunemente scambiata con la ventilazione (gli atti inspiratori ed espiratori) è l’utilizzo di
ossigeno con produzione di anidride carbonica a livello delle creste mitocondriali. Gli apparati che
permettono che ciò avvenga hanno una funzione respiratoria.
È suddivisibile in 4 processi, tra loro distinti ma correlati:
 Respirazione esterna a livello dei polmoni: è data dall’assorbimento di O2 e l’eliminazione di CO2;
 Respirazione interna a livello delle cellule: è data dall’utilizzo di O2 e l’eliminazione di CO2;
 Funzione respiratoria a livello del sangue: è data dal trasporto di O2 e CO2;
 Respirazione cellulare a livello delle cellule: data dal ruolo di O2 e CO2 nelle reazioni metaboliche.

12.1 IL POLMONE
Le funzioni principali del polmone sono:
 Serbatoio per il sangue in condizioni di clinostatismo;
 Metabolizzazione di molecole: l’angiotensina I a livello polmonare viene convertita in angiotensina
II, la quale ha effetto sull’aldosterone, andando a controllare la pressione arteriosa;
 Modifica la qualità dell’aria inspirata che giunge agli alveoli grazie alle ciglia vibratili dell’epitelio
delle vie aeree;
 Permette gli scambi gassosi di O2 e CO2 a livello della barriera alveolo-capillare
L’efficacia degli scambi gassosi è garantita dalla sincronizzazione di 3 meccanismi posti in sequenza:
1. Ventilazione: flusso di aria che entra ed esce dai polmoni, il quale ricambia l’aria alveolare;
2. Diffusione: L’O2 arriva agli alveoli, attraversa la membrana alveolo-capillare e diffonde ne l flusso
ematico;
3. Perfusione: flusso ematico polmonare.
L’alterazione di uno di questi meccanismi destabilizza gli scambi gassosi.
O2 e CO2 sono, per il loro ruolo, chiamati gas respiratori. Ogni minuto, in condizioni di riposo, l’individuo
fisiologico consuma circa 300ml di O2 e circa 240ml di CO2. Questi valori dipendono da variabili individuali.
Inoltre l’attività fisica li influenza pesantemente, tanto che il consumo di ossigeno, nell’esercizio massimale
può arrivare fino a 3-6L/min. La RER (VCO2/VO2) a riposo ha un valore di
0.8, mentre durante esercizio massimale 1.
La diffusione di un gas attraverso una membrana è definita dalla legge di
Fick. Il flusso di un gas attraverso una membrana è direttamente
proporzionale all’area della membrana e inversamente proporzionale al
suo spessore, ed è influenzato dal gradiente pressorio e da una costante
che tiene conto della solubilità del gas nel liquido e della radice quadrata
del peso molecolare del gas.
All’interno del volume toracico, l’unità funzionale del polmone, corrisponde alla struttura caratterizzante la
funzione del polmone stesso: l’unità alveolo-capillare. Queste unità sono circa 300mln. Gli alveoli sono
assimilabili a delle sfere, aventi ciascuno un diametro di circa 0.3mm. Essi sono costituiti da un singolo
strato di cellule epiteliali piatte, pneumociti di I ordine, con intercalati pneumociti di II ordine che
producono il sottile velo di liquido che riveste gli alveoli polmonari. Vi sono poi macrofagi sulla superficie
alveolare con funzioni di fagocitosi di batteri e particelle inalate. Attorno al singolo alveolo si dispongono
circa 1000 capillari. L’endotelio capillare è separato dall’epitelio alveolare dalla sola membrana basale,
comune quindi a entrambi. Gli alveoli possono arrivare a coprire un’area compresa tra i 50 e i 100metri2, in
un volume di appena 4L, favorendo enormemente la diffusione dei gas respiratori.
12.4 VOLUMI POLMONARI
I volumi polmonari sono i volumi d’aria all’interno dei polmoni durante attività respiratoria. Si suddividono
in statici e dinamici.
La quantità d’aria contenuta nel polmone dipende principalmente dalla statura e dalle condizioni di
allenamento e subisce sostanziali variazioni nello stesso soggetto in relazione alla profondità del respiro.
I volumi statici sono 4, a cui corrispondono altrettante capacità, date dalla somma di più volumi. Nel
soggetto seduto, al termine di una espirazione normale, il polmone contiene una quantità di gas
respiratorio il cui volume è mediamente 3L (con le variazioni dovute al singolo caso). Questa quantità di aria
prende il nome di capacità funzionale residua (CFR – volume d’aria presente nei polmoni alla fine di
un’espirazione tranquilla) ed è composta da due porzioni: il volume di riserva espiratoria (VRE – massimo
volume d’aria che si può espirare, con un’espirazione massimale forzata, a
partire da inspirazione tranquilla; 1.5L), la quale durante la respirazione a
riposo non viene utilizzata, e dal volume residuo (VR – volume d’aria che
rimane nei polmoni a fine espirazione massimale; 1.5L). Il volume residuo è
dato dalla compressione dinamica delle vie aeree, la quale non permette
che il sistema toraco-polmonare raggiunga valori tanto bassi da espellere
tutta l’aria. Il volume d’aria che il soggetto incamera nel polmone al termine
di una inspirazione a riposo è di 0.5L, e prende il nome di volume corrente
(VC o Vt , tidal volume). Al termine di una inspirazione a riposo, il soggetto
può ancora, con una inspirazione forzata, massimale, inspirare un volume di
aria di 2.5L. Questo è il volume di riserva inspiratoria (VRI – massimo
volume d’aria che si può introdurre oltre alla normale inspirazione). La somma dei due volumi precedenti ci
dà la capacità inspiratoria (CI – massimo volume d’aria che si può inspirare a partire dalla fine di
un’espirazione tranquilla; 3L). Pertanto la quantità di aria che il polmone può contenere, o capacità
polmonare totale (CPT – massima quantità di aria nei polmoni alla fine di un’inspirazione massimale),
derivata dalla somma di tutti i volumi, ammonta a 6L. Di questi 6L è possibile, attraverso una espirazione
forzata, espellere solo 4.5L, che corrisponde alla capacità vitale (CV – massimo volume di aria espirato,
attraverso un’espirazione forzata, a partire da un’inspirazione massimale). La CV è indice di funzionalità
respiratoria corretta. La CFR è importante meccanicamente perché il punto di fine espirazione tranquilla è il
punto di equilibrio toraco-polmonare, cioè il punto di equilibrio tra l’elasticità della gabbia toracica e
l’elasticità dei polmoni. In vivo, la pleura viscerale è a contatto con la pleura parietale, le quali si incollano a
causa del liquido pleurico. Ciò porta, durante l’espansione della parete toracica, all’espansione anche del
polmone, e al contrario, durante la compressione. La fine dell’espirazione tranquilla è la posizione di
equilibrio.
Nell’uomo supino la distribuzione è diversa a causa del fattore gravitazionale, pertanto si ridurrà la capacità
funzionale residua, con proporzionale incremento del volume di riserva inspiratoria. In stazione eretta i
visceri addominali stirano diaframma e polmone verso il basso, aumentandone il volume. Inoltre in
posizione clinostatica, rispetto a quella ortostatica, il volume di sangue a livello toracico è maggiore, fattore
che inibisce l’espansione degli alveoli polmonari.
I volumi polmonari si misurano attraverso lo
spirometro. Lo spirometro consiste in una
campana, connessa alla bocca attraverso un tubo
e immersa nell’acqua contenuta in un recipiente
cilindrico. La campana, mossa dalla ventilazione
del soggetto è controbilanciata da un contrappeso
collegato da un pennino scrivente su carta
millimetrata, dove registrerà una curva positiva
durante l’inspirazione, momento in cui viene tirata via aria dalla campana, che scende, e una curva negativa
durante l’espirazione, momento in cui viene immessa aria nella campana, che sale. In spirometri più
moderni, quelli elettronici, viene utilizzato un boccaglio, collegato allo strumento, il cui software, attraverso
calcoli e misurazioni restituisce i valori.
L’unico valore che risulta impossibile trovare attraverso il test spirometrico è il volume residuo, e di
conseguenza anche la capacità funzionale residua e la capacità polmonare totale. Il volume residuo viene
calcolato attraverso la tecnica di diluizione dei gas, di cui la più utilizzata è la termodiluizione dell’He,
poiché inerte verso l’uomo e non prende parte agli scambi respiratori. Nella termodiluizione dell’He, il
soggetto è connesso a uno spirometro, riempito precedentemente con una concentrazione nota (C 1) di elio
a un volume noto (V1). Al soggetto, dopo essergli stato applicato un tappa-naso, si chiede di fare alcuni
respiri in modo tale da miscelare l’elio con i gas alveolari. A questo punto, all’interno dello spirometro
avremo una concentrazione di gas diversa da quella di partenza
(C2). Pertanto, attraverso l’equazione C1*V1=C2*(V1+V2) possiamo
trovare V2, che corrisponde al volume d’aria che troviamo
all’interno dei polmoni (CFR).
V2= (C1*V1/C2) - V1
V2 = CFR
CFR – VRE = VR
CPT = CV + VR
I volumi polmonari variano con l’età: i valori di VRI e VRE
tenderanno ad diminuire, al contrario del valore di VR che
tenderà ad aumentare a causa della perdita di elasticità e forza dei muscoli respiratori che a mano a mano
perderanno la capacità di movimentare tutta l’aria alveolare.
Al contrario, l’esercizio fisico tende ad incrementare i vari volumi (VC, VRE, VRI) e a diminuire il volume
residuo.
Per compliance s’intende il rapporto tra capacità elastiche e forza dei muscoli.
I volumi dinamici inseriscono la variabile temporale. Quindi corrisponderanno ai volumi statici distribuiti
nell’unità di tempo. Essi vengono espressi in percentuale rispetto al massimo, che corrisponde alla capacità
vitale forzata (CVF o FEV – forced expiratory volume), dando in questo modo un’idea sulla funzionalità dei
nostri polmoni. In un tracciato del volume nel tempo troveremo quindi le seguenti informazioni:
 VEMS0.5: volume espiratorio massimo valutato al termine del mezzo secondo (FEV0.5); circa 60%CVF;
 VEMS1: volume espiratorio massimo valutato al termine del secondo (FEV1); circa 70-80%CVF;
 CVF: quantità d’aria che riesco ad espellere dai polmoni al termine di una espirazione forzata,
preceduta da inspirazione massima. Nei soggetti sani si completa in 2-2.5’’.
Attraverso la curva flusso-volume, che definisce in termini dinamici quelli che sono le capacità polmonari,
possiamo trovare PEF (velocità di picco con cui l’aria esce dai polmoni durante un’espirazione forzata;
riflette il diametro delle vie aeree) e PIF (indica la velocità di picco con cui l’aria entra nei polmoni durante
inspirazione forzata).
L’indice di Tiffanau si esprime attraverso il rapporto tra VEMS e CVF. Questo rapporto deve rimanere
compreso tra valori di 0.7 e 0.8. Valori superiori o inferiori sono indice di patologie. Nello specifico, valori
inferiori sono indice di patologie ostruttive, legate quindi a masse che impediscono il passaggio dell’aria
rendendo difficile la fase respiratoria e riducendo i flussi. In questi casi aumentano le resistenze polmonari,
la VEMS risulta molto ridotta, mentre la CVF solo leggermente. Valori superiori invece sono indice di
patologie restrittive, nelle quali risultano lese strutture di base, di conseguenza abbiamo una riduzione
della capacità polmonare per riduzione dell’espansibilità toraco-polmonare. In questi casi diminuisce l’aria
di scambio insieme alla capacità polmonare totale e i volumi statici, ed i valori della CVF risultano molto più
ridotti rispetto a quella della VEMS.
12.4.3 SPAZIO MORTO, VENTILAZIONE POLMONARE E VENTILAZIONE ALVEOLARE
Dalla trachea ai bronchioli respiratori le vie aeree non hanno alveoli e pertanto non avvengono scambi
gassosi: spazio morto anatomico (150ml). Sottraendo questo valore alla CFR si ottiene il volume alveolare
(VA), che rappresenta la quota d’aria soggetta agli scambi con il sangue. Al termine dell’inspirazione, dei
500ml del VC, 150ml rimangono nello spazio morto, così come durante l’espirazione. Ai fini degli scambi
gassosi l’aria dello spazio morto (Vsm) non è utilizzabile. Pertanto alla ventilazione polmonare (Vp),
prodotto della frequenza respiratoria (Fr) per VC, deve essere sottratta la ventilazione dello spazio morto
(Vsm) per ottenere la ventilazione alveolare (VA), unica efficace ai fini degli scambi gassosi.
Vp = Fr*VC
VC = Vsm + VA
Vp = (Fr*Vsm) + (Fr*VA) = Vsm + VA
VC circa 0.5L; Fr circa 15 atti al minuto.
In pratica a riposo, la ventilazione polmonare è di 7.5 l/min e quella alveolare di 5.25 l/min, con ampie
variazioni.
Esiste poi lo spazio morto fisiologico, che, in condizioni appunto fisiologiche corrisponde a quello
anatomico, ma in caso di anomalie è maggiore. Come per esempio se un polmone risulta ostruito o in casi
di edema polmonare (eccessiva presenza di acqua che non permette all’ossigeno di diffondere nonostante
siano presenti gli alveoli).
Durante esercizio fisico, la Vp, in soggetti molto allenati può arrivare anche a 180-200 l/min. Questo
aumento sarà a carico sia della VC (che arriva fino a valori di 4.5/5 l/min, corrispondenti alla capacità vitale)
che della Fr (si arriva a 40-50-60 atti al minuto). L’aumento del VC però è dovuto principalmente dal VA (che
passa da 0.35 a 3-4 l/min) e relativamente poco dal Vsm (da 0.15 a 0.5 l/min).
La VA è misurabile attraverso l’equazione della ventilazione alveolare.
VA = VCO2 / FACO2 * k (costante trascurabile durante la triennale)
FACO2 è la frazione alveolare dell’anidride carbonica, detta anche concentrazione alveolare di CO2.
Attraverso metabolimetro e analizzatori di gas possiamo quindi facilmente determinare VA.
Questa equazione fa capire che a parità di CO2 prodotta la VA è inversamente proporzionale alla PACO2: se
aumento la VA riduco la PACO2 (iperventilazione, maggiore eliminazione di anidride carbonica); se riduco la
VA aumento la PACO2 (ipoventilazione, minore eliminazione di anidride carbonica).
In seguito, vedremo come le variazioni della ventilazione influenzino l’equilibrio acido-base dell’organismo.

12.5 MECCANICA RESPIRATORIA


La meccanica respiratoria illustra le modalità mediante le quali l’aria entra ed esce dall’apparato
respiratorio. Aria ambiente e barriera alveolo-capillare sono i due estremi che connettono le vie aeree. Il
passaggio dell’aria è un fenomeno intermittente, ciclico che dura circa 4’’ (1.8’’ insp; 2.2’’ esp). Pertanto la
Fr media è di 15 atti. Inspirazione ed espirazione sono garantiti da meccanismi diversi: la prima è attiva,
richiede dispendio energetico e contrazione muscolare; la seconda, a riposo, è del tutto passiva: è una
restituzione di energia elastica acquistata in fase inspiratoria. Il ciclico succedersi della respirazione si attua
grazie all’azione accoppiata della parete toracica e il polmone, tra cui è compreso lo spazio pleurico, a
pressione negativa (sub-atmosferica), il cui ruolo nella meccanica toraco-polmonare è fondamentale.

12.5.1 PARETE TORACICA


La parete toracica è costituita da tutte quelle strutture anatomiche che permettono la ventilazione
polmonare: gabbia toracica, diaframma e parete addominale.
I muscoli che partecipano alla ventilazione sono suddivisi in inspiratori ed espiratori.
I muscoli inspiratori sono diaframma (il principale), intercostali esterni e accessori della respirazione. il
diaframma è controllato dai centri respiratori, i quali provocano un suo abbassamento di 1-2cm a riposo e
fino a 10cm durante inspirazione massimale. Gli intercostali esterni provocano un aumento dei diametri
antero-posteriore e latero-laterale della gabbia toracica, e quindi il suo volume. I muscoli accessori, scaleni
e sternocleidomastoidei, intervengono solo durante inspirazione forzata e durante esercizio muscolare
intenso. Sono attivati anche in condizioni patologiche quali asma e ostacoli delle vie aeree.
I muscoli espiratori sono attivati nella fase espiratoria della CV, della tosse, dello starnuto, nella fonazione e
nel canto, nello sforzo isometrico per bloccare il torace e nell’esercizio che richiede alte ventilazioni. Sono
muscoli espiratori gli intercostali interni (riducono il volume della gabbia toracica), i muscoli addominali
(spingono i visceri verso il diaframma).

12.5.2 POLMONE
Il polmone in vivo ha una forma e una dimensione diversa rispetto quella che assume estratto dalla gabbia
toracica. Il volume d’aria che contiene una volta estratto (250ml) corrisponde a quella intrappolata negli
alveoli stessi: nel collasso del polmone si chiudono i bronchioli più piccoli prima che tutta l’aria contenuta
negli alveoli possa uscirne. In vivo il contenuto aereo del polmone dipende fortemente dalle dimensioni
della gabbia toracica e in particolare dalla statura del soggetto.

12.5.3 ACCOPPIAMENTO TORACO – POLMONARE


In vivo, il polmone è mantenuto espanso ed è costretto a seguire i movimenti della parete toracica, in
quanto la superficie esterna del polmone (pleura viscerale) e la superficie interna della parete toracica
(pleura parietale) sono tra loro funzionalmente unite. Tra di esse vi sono soli 20μm, che corrispondono allo
spazio pleurico, riempito da alcuni ml di liquido pleurico, il quale permette lo scivolamento tra le due
pleure. Nel liquido pleurico la pressione è, in condizioni di respirazione tranquilla, sempre sub-atmosferica,
con valore medio di -7mmHg. La distanza tra le due pleure può aumentare, e quindi il polmone ridursi di
volume, solamente se si interpone tra le due pleure ulteriore liquido o aria. Ciò si verifica solo in alcune
condizioni patologiche di tipo infiammatorio (polmonite con versamento pleurico) oppure se, a causa di un
trauma, la parete della pleura parietale subisce una soluzione di continuo e l’aria penetra nello spazio
pleurico, riducendone la pressione a 0mmHg e il polmone collassa, con successiva espansione della gabbia
toracica: pneumotorace (monolaterale/bilaterale).

12.5.3.1 DEPRESSIONE INTRAPLEURICA


A fine espirazione tranquilla, nel punto di equilibrio del sistema toraco polmonare, abbiamo un volume
polmonare più grande rispetto alla sua situazione di riposo e un volume toracico più piccolo rispetto alla
sua posizione di riposo. Dal punto di vista pressorio, all’interno del polmone vige la stessa pressione
atmosferica (760mmHg = 0 per convenzione). Nell’intercapedine invece la pressione è negativa, ed è data
dal bilanciamento dalla forza di retrazione elastica generata dal polmone con la forza di espansione elastica
della gabbia toracica. La pressione nell’intercapedine sarà tanto più negativa quanto maggiore sarà lo
sbilanciamento dei valori di forza di retrazione ed espansione (valori compresi tra -4 e -20mmHg). Il collasso
del polmone verso la posizione di riposo implicherebbe il distacco delle due membrane sierose; ciò è
impedito da liquido pleurico, presente nell’intercapedine, che per definizione è un liquido, e pertanto non
può espandersi. Se per qualsiasi motivo le due pleure si staccassero ed entrasse aria nell’intercapedine, la
pressione negativa, annullandosi, non sarebbe più in grado di controbilanciare le due forze: il polmone
collasserebbe e la gabbia toracica si espanderebbe. Questa situazione prende il nome di pneumotorace.

12.6 RESISTENZE RESPIRATORIE


A ogni inspirazione i muscoli devono vincere una serie di resistenze. A riposo l’inspirazione è un
meccanismo attivo che provoca la distensione delle fibre elastiche di cui è ricco il polmone. L’espirazione
invece è la restituzione dell’energia elastica accumulata durante l’inspirazione. Il dispendio energetico di un
ciclo respiratorio a riposo è assolutamente minimo. Al contrario, durante iperventilazioni, la frequenza
respiratoria aumenta, e con essa anche il lavoro compiuto dai muscoli respiratori che devono spostare ad
elevate velocità il sistema toraco-polmonare.
I muscoli respiratori durante la ventilazione, devono in ogni caso vincere due tipi di resistenze principali:
 Resistenze elastiche;
 Resistenze viscose (dovute al flusso di aria nelle vie aeree).
12.6.1 RESISTENZE ELASTICHE DEL SISTEMA TORACO – POLMONARE
Le resistenze elastiche rappresentano le forze che si oppongono alle perturbazioni subite dal sistema. Per
quanto riguarda il sistema toraco – polmonare si tratta della resistenza che i muscoli respiratori devono
vincere per portare il sistema ad un determinato volume.
Portando il sistema a determinati volumi e misurandone la corrispondente pressione, determineremmo la
relazione pressione – volume (P/V). Questa relazione rappresenta le caratteristiche elastiche del sistema in
questione e la sua pendenza, C, prende il nome di compliance (o distensibilità), che indica la facilità, o
meno, della struttura a essere distesa:
C = ΔV / ΔP
ΔV rappresenta una variazione di volume per un incremento di pressione, ΔP.
La compliance viene espressa quindi in L / mmHg o L / cmH2O.
Le resistenze elastiche del sistema toraco – polmonare possono essere suddivise in:
 Resistenze elastiche del polmone, composte da:
o Resistenza intrinseca dovuta al contenuto elastico e collagenico del polmone;
o Tensione superficiale;
 Resistenze elastiche della parete toracica, composte da:
o Struttura osteo-artro-muscolare della parete toracica;
o Parete addominale, con il peso dei visceri contenuti nella cavità addominale.
Poiché in vivo il sistema è costituito dai due elementi, posti uno all’interno dell’altro, ed entrambi dotati di
specifiche proprietà elastiche, a ogni determinato volume, le pressioni esercitate da ciascuna delle due
componenti giocherà un ruolo diverso.

12.6.1.1 RELAZIONE P/V DEL POLMONE ISOLATO


Tolto dalla gabbia toracica, il polmone espelle quasi tutta l’aria, rimanendo solo con circa 250ml nell’uomo.
Per calcolare la relazione P/V, il polmone è stato posto all’interno di un recipiente collegato ad una pompa
in grado di modificare la pressione dell’intercapedine. Le variazioni di pressione, registrate da un
manometro, causano la variazione del volume polmonare, che viene registrata dallo spirometro a cui esso è
collegato.
Nella prima misura, essendo la pressione dell’intercapedine uguale a quella atmosferica, posta
convenzionalmente a 0, il volume polmonare è pari a 250ml.
Sottraendo aria dall’intercapedine, la pressione dell’intercapedine cala e il volume del polmone aumenta di
conseguenza. La curva di espansione registrata dallo spirometro, non ha però un andamento lineare, bensì
sigmoidale. Ciò è dovuto al fatto che gli alveoli, dalla posizione collassata in cui sono, perché si possano
espandere nella fase iniziale, hanno bisogno di una forza notevole per vincere la tensione superficiale. Una
volta vinta, come dimostra la pendenza della seconda fase, la distensibilità del polmone è maggiore.
Tuttavia, nella terza fase, la curva torna ad appiattirsi a causa della minore distensibilità del polmone
dovuta all’azione delle resistenze elastiche intrinseche.
In vivo, in condizioni di riposo, la distensibilità del polmone è massima, come nella seconda fase.
A questo punto, con il polmone completamente espanso, se restituiamo l’aria nell’intercapedine, notiamo
che a parità di pressione, i valori sulla curva di ritorno corrispondenti ai volumi polmonari, sono spostati in
alto e a sinistra rispetto a quelli della curva di espansione. L’area compresa tra le due curve, è detta “area di
isteresi polmonare”. L’isteresi è quel fenomeno per cui, allungando lentamente un materiale elastico, la
forza sviluppata a una specifica lunghezza è maggiore nella fase di allungamento rispetto a quella di
accorciamento.
Attraverso un altro esperimento, se invece che modificare la pressione dell’intercapedine per ottenere
variazioni di volume, riempiamo il polmone di soluzione fisiologica, notiamo che a parità di pressione i
volumi sono nettamente superiori e pertanto la distensibilità è maggiore, ed inoltre la curva di espansione
coincide con la curva di ritorno, eliminando l’area di isteresi polmonare. La soluzione fisiologica ha la
funzione di eliminare il fenomeno di tensione superficiale, il quale probabilmente determina il
comportamento isterico del polmone.

TENSIONE SUPERFICIALE
La tensione superficiale è un fenomeno che altera l’elasticità del parenchima polmonare, ed è dovuto alla
forza di attrazione che le molecole di H2O esercitano l’una sull’altra. Pertanto l’acqua presente sulla
superficie interna degli alveoli esercita una forza sulle pareti alveolari, tendendo a ridurne il volume, e
quindi globalmente a retrarre il polmone.
Attraverso la legge di Laplace sappiamo che la pressione all’interno dell’alveolo è uguale al rapporto tra il
doppio della tensione superficiale e il raggio dell’alveolo.
P = 2T / r
Pertanto sappiamo che la pressione dell’alveolo è inversamente proporzionale al suo raggio: tanto minore è
il raggio quanto maggiore è la pressione.
Se un alveolo piccolo e uno grande avessero un punto di contatto, la differenza di pressione vigente tra i
due genererebbe un flusso. Per la legge di Laplace, l’alveolo piccolo tenderebbe svuotarsi in quello grande
fino ad equilibrio delle pressioni. Pertanto dovremmo avere pochi alveoli, ma giganti.
In vivo tuttavia, la tensione superficiale è contrastata da una molecola tensioattiva, il surfattante. Il
surfattante è un fosfolipide prodotto dagli pneumociti di II tipo durante il 7° mese della gravidanza. Se il
feto non producesse surfattante, alla nascita i suoi muscoli respiratori non potrebbero vincere la tensione
superficiale che si oppone all’espansione dell’alveolo. Pertanto, grazie al surfattante, il polmone è
facilmente distensibile.
Maggiore è la concentrazione di surfattante, minore è la tensione superficiale esercitata sulle pareti
dell’alveolo. Dato che la quantità prodotta della molecola è costante, la sua concentrazione si modifica in
base alle dimensioni dell’alveolo. In quelli grandi, il surfattante risulta più rarefatto e la sua azione sulla
tensione superficiale è minore; al contrario, in quelli piccoli, essendo più concentrato, eserciterà un’azione
maggiore. L’entità dell’azione del surfattante sulla tensione superficiale, secondo la legge di Laplace, andrà
ad influire in modo proporzionale sulla pressione vigente all’interno dell’alveolo, pertanto in vivo, il flusso
generato dalla differenza di pressioni sarà indirizzato verso l’alveolo più piccolo fino a raggiungere
l’equilibrio (stesso raggio alveolare).
Durante un’inspirazione, la concentrazione di surfattante diminuisce poiché aumenta il volume alveolare.
Ciò fa sì che il ritorno alla posizione di riposo, corrispondente alla capacità funzionale residua, sia dato dalla
somma della forza elastica con la tensione superficiale aumentata.

RELAZIONE VOLUMI POLMONARI / PRESSIONE INTERCAPEDINE


Se in un grafico mettessimo in relazione le variazioni della pressione dell’intercapedine con le variazioni di
volume polmonare noteremmo che all’aumentare del volume, la pressione viene ridotta.
In vivo, in posizione ortostatica, la pressione intrapleurica presenta delle differenze tra apice e base. Ciò è
dovuto all’altezza (e quindi alla forza di gravità) e al peso dei polmoni che grava sulla base. FdG e peso dei
polmoni vanno a comprimere lo spazio intrapleurico, aumentandone la pressione.
Ad ogni modo, la pressione intrapleurica, sia degli apici che delle basi, durante un’inspirazione, si riduce.
Ciò è dovuto alla forza di retrazione elastica esercitata dalle fibre collagene del polmone sulla pleura
viscerale per tornare alla posizione di riposo (CFR) dalla quale si è allontanato.
Al contrario, durante un’espirazione, il polmone ed il sovrastante spazio intrapleurico, vengono compressi.
Questa compressione causa un aumento della pressione presente nell’intercapedine, sia della base che
degli apici.
RELAZIONE VOLUMI POLMONARI (CV%, CPT%) / PRESSIONE NELLE VIE AEREE
Nel grafico i volumi sono registrati in percentuale della capacità vitale (ordinata sx) e della capacità
polmonare totale (ordinata sx). Le pressioni, in ascissa, invece in cmH2O.
A CV = 0%, la CPT è circa il 20%, poiché a fine espirazione forzata non riusciamo a buttare fuori tutta l’aria
contenuta nelle vie aeree.
A CV = 35%, la CPT è circa al 50%. Questo punto corrisponde alla CFR, pertanto il sistema toraco-polmonare
risulta essere in equilibrio. La pressione presente nelle vie aeree, a glottide aperta è 0 cmH2O.
In questo grafico statico, in cui sono inserite le curve P/V sia del polmone che della gabbia toracica isolati,
notiamo che la curva del sistema toraco-polmonare, ottenuta attraverso la registrazione delle pressioni
relative a tutte le percentuali di volume (da 0 a 100%) della CV, sia orizzontalmente che verticalmente,
rappresenta in ogni punto la media del comportamento delle due strutture prese singolarmente.
Pertanto, con una CV compresa tra 0 e 35%, sarà la gabbia toracica che tenderà ad espandersi per riportarsi
in equilibrio con il polmone. Tra 35% e 100% della CV al contrario sarà il polmone che tenderà a
comprimersi per tornare alla CFR.

12.6.2 RESISTENZE AL PASSAGGIO DELL’ARIA NELLE VIE AEREE


Le resistenze al flusso d’aria (resistenze viscose) dipendono dagli attriti che esso incontra nel passaggio
attraverso le vie aeree. Il flusso d’aria è dovuto alla differenza di pressione che si stabilisce tra alveolo e
ambiente. Il moto del flusso varia in base alla sua entità e alla regolarità dei condotti, e può essere:
laminare, di transizione o turbolento.

FLUSSO LAMINARE
Il flusso d’aria si dispone in cilindri concentrici che scorrono nel condotto a velocità diverse: massima al
centro e minima in corrispondenza delle pareti a causa degli attriti. Per scoprire le resistenze al flusso viene
applicata la legge di Poiseuille:
R = (8 * η * l) / (π * r4)
Dove,
l = lunghezza del condotto;
η = viscosità del fluido; la viscosità di un fluido rappresenta la forza necessaria a far ruotare un cilindro
posto all’interno di un altro, tra i quali è posto il fluido di cui si vuole calcolare la viscosità.
r = raggio del condotto.
È da notare come il raggio giochi un ruolo importantissimo: se si dimezza, la resistenza aumenta di ben 16
volte!
Il flusso laminare si trova nelle vie aeree probabilmente solo a livello dei bronchioli più piccoli dove la
velocità è molto bassa.

FLUSSO DI TRANSIZIONE
Il flusso di transizione si ha in corrispondenza della biforcazione delle vie aeree. I vortici che si formano
scompaiono appena superata la biforcazione stessa.

FLUSSO TURBOLENTO
Il flusso turbolento è caratterizzato dal movimento disordinato dei gas e della formazione di vortici. La
turbolenza si verifica soprattutto quando la velocità del flusso è alta e il raggio del condotto è grande,
pertanto esso si manifesta, a riposo, in trachea e nei bronchi più grossi. Con l’esercizio fisico, la zona di
flusso turbolento si sposta progressivamente verso i bronchi di minori dimensioni.
Rispetto a quello laminare genera un lavoro respiratorio maggiore.
Il N° di Reynolds, ottenuto attraverso un’equazione, determina se il flusso è laminare, di transizione o
turbolento.
12.6.3 LOCALIZZAZIONE DELLE RESISTENZE NEL SISTEMA RESPIRATORIO
Le resistenze sono massime nei bronchi di dimensioni intermedie (3a-5a generazione) e minime nei bronchi
terminali. Mediamente, sono distribuite per il 50% nelle cavità nasali, per il 30% nei bronchi fino a 2mm di
diametro e solo il 20% delle resistenze totali si trova nelle vie aeree di diametro inferiore a 2mm.
Le resistenze nelle vie aeree sono influenzate da vari fattori, prima tra i quali il volume del sistema toraco-
polmonare.
Poiché la muscolatura liscia delle vie aeree è controllata dal SNA, l’attivazione paraS e ortoS sono in grado
di modificare fortemente il calibro delle vie di minori dimensioni. La stimolazione paraS (vagale) determina
una contrazione della muscolatura liscia e un’ipersecrezione bronchiale, mentre l’attivazione ortoS,
adrenergica, provoca un rilasciamento della muscolatura liscia con relativa broncodilatazione e inibizione
della secrezione delle ghiandole bronchiali.

12.7 CICLO RESPIRATORIO


Per studiare il comportamento dinamico della meccanica toraco-polmonare in funzione del tempo (ciclo
respiratorio), è necessario che il soggetto venga collegato attraverso un boccaglio, nel quale è stato inserito
un flussimetro (per misurare il flusso), ad uno spirometro. Inoltre è necessario un manometro che ci
consenta di registrare la differenza di pressione tra bocca e basi polmonari, da cui ricaveremo la pressione
alveolare e quella intrapleurica.
Durante la fase inspiratoria il muscolo deve vincere la resistenza elastica del sistema toraco-polmonare e la
resistenza viscosa (la resistenza viscosa viene vinta dalla pressione aggiuntiva creata dai muscoli
respiratori). In questa fase abbiamo un aumento del volume polmonare; un aumento del flusso, che torna a
valore 0 a fine inspirazione; una diminuzione del gradiente pressorio tra bocca e alveolo causata
dall’aumento del loro volume (PV = K), che richiama aria dall’ambiente nel polmone, e si annulla al termine
dell’espansione alveolare; una diminuzione della pressione intrapleurica che scende verso valori più
negativi a causa della retrazione elastica del polmone che tende a tornare alla CFR.
Durante la fase espiratoria invece, il volume diminuisce fino alla CFR; il flusso, analogamente
all’inspirazione, presenta un picco, tendendo ad annullarsi al termine dell’espirazione; un gradiente
pressorio aumentato a causa del rilasciamento dei muscoli respiratori che comprimendo il polmone,
agiscono sugli alveoli riducendone il volume e generando un flusso di aria dal polmone verso l’ambiente (al
termine dell’espirazione il gradiente alveolo-bocca si annulla); un ritorno a valori meno negativi della
pressione intrapleurica.
Lo svuotamento dei volumi polmonari è indipendente dal flusso.

LIMITAZIONE O COMPRESSIONE DINAMICA DELLE VIE AEREE


Il volume residuo (VR) è imposto dalla limitazione, o compressione dinamica delle vie aeree. La
compressione dinamica delle vie aeree è data una pressione transmurale negativa, che indica una maggiore
pressione all’esterno della via aerea rispetto all’interno che tende a schiacciarla.
Durante la pre-inspirazione, equivalente al momento in cui siamo a fine espirazione tranquilla (CFR), a
glottide aperta, in qualsiasi punto delle vie aeree (dalla bocca fino agli alveoli), è registrata una pressione
uguale a 0. Intorno la pressione intrapleurica media è di -5cmH2O (agli apici c’è meno pressione rispetto alle
basi). Pertanto la pressione transmurale (differenza tra pressione delle vie aeree e pressione intrapleurica)
registrata è di +5cmH2O, ciò significa che la pressione all’interno è maggiore e le vie aeree rimangono
pervie.
Durante l’inspirazione, il volume toraco-polmonare aumenta e di conseguenza la pressione nelle vie aeree
diminuisce (PV = K), così come la pressione intrapleurica, a causa della forza di retrazione elastica esercitata
dalle fibre collagene del polmone che tendono a tornare alla posizione di riposo. La pressione transmurale
tuttavia rimane comunque positiva.
A fine inspirazione, finita l’espansione delle vie aeree, la pressione, in qualsiasi punto delle vie aeree torna a
0 cmH2O. La pressione intrapleurica, al contrario è salita ancora. La pressione transmurale quindi risulta
ancora una volta positiva.
Durante un’espirazione forzata, attraverso i muscoli respiratori, viene generata una pressione sui polmoni e
di conseguenza sugli alveoli, che genera un flusso verso l’ambiente. Analogamente, i muscoli espiratori,
agiscono anche sullo spazio intrapleurico, dove la compressione genera lo stesso valore di pressione creato
sugli alveoli. Pertanto, nonostante negli alveoli la pressione transmurale sia positiva, esiste un punto, lungo
il gradiente pressorio generato nelle vie aeree, in cui la pressione esterna supera quella interna. In questo
punto, affinché le vie aeree rimangano pervie, è necessaria la presenza di un rivestimento cartilagineo che
resista alla pressione esterna esercitata sulle vie aeree. Nei punti nei quali tale rivestimento non è presente,
le vie aeree collassano, intrappolando una parte di aria da espirare, dando luogo al fenomeno della
limitazione dinamica delle vie aeree.
Questo fenomeno è indipendente dallo sforzo espiratorio. Nel momento in cui aumento la forza con cui i
muscoli espiratori comprimono il torace, con l’obiettivo di far uscire tutta l’aria dagli alveoli, aumento dello
stesso valore sia la pressione alveolare che quella dell’intercapedine.

DINAMICA DELLA RESPIRAZIONE, in sintesi


Muscoli respiratori e ritorno elastico del sistema toraco-polmonare creano un gradiente pressorio tra gli
alveoli e l’ambiente.
Durante l’inspirazione si abbassa la pressione negli alveoli perché aumentano di volume. Pertanto durante
l’inspirazione, l’aria si sposta per gradiente pressorio da una zona a maggior pressione (l’ambiente) a una
zona a minor pressione (alveoli).
Durante l’espirazione passiva, il sistema toraco-polmonare torna alla posizione di equilibrio. Questo ritorno
elastico comprime gli alveoli, diminuendone il volume e di conseguenza aumentandone la pressione al loro
interno, generando un flusso di aria verso l’ambiente.
Durante la ventilazione, sia in condizioni di riposo che durante esercizio fisico, si incontrano delle
resistenze. Durante l’inspirazione è necessario vincere le resistenze elastiche date dal sistema toraco-
polmonare e le resistenze viscose generate dal flusso di aria attraverso le vie aeree. Durante l’espirazione,
la muscolatura inspiratoria viene rilasciata. Pertanto non sarà necessario vincere alcuna resistenza elastica,
bensì solamente quelle viscose.
Più aumenta la ventilazione, più veloci ed ampie diventano inspirazione ed espirazione, e di conseguenza
aumentano anche le resistenze viscose: quando si passa da un flusso laminare (tendenzialmente quello
presente a riposo) a uno turbolento (durante esercizio fisico), le resistenze aumentano in maniera
esponenziale.

LAVORO RESPIRATORIO
Il lavoro respiratorio, analogamente al cuore, può essere calcolato grazie al grafico P/V.
Il lavoro respiratorio, incide pochissimo sul consumo di O2 complessivo del corpo fin quando la ventilazione
rimane sotto i 50L/min. Oltre il costo energetico dei muscoli respiratori aumenta in maniera esponenziale.
Ciò significa, che se per un esercizio blando, i muscoli respiratori non sottraggono ai muscoli periferici una
quota importante di ossigeno in entrata, durante esercizi ad intensità massimali, essi cominciano a
consumare molto O2, rendendone disponibile ai muscoli periferici che devono compiere l’esercizio una
quota inferiore, diminuendo quindi l’efficacia della prestazione.
Pertanto, l’allenamento che ha come target la muscolatura respiratorio, è necessario a renderla più
efficiente, cioè in grado di ventilare la stessa quantità di aria nel tempo ma consumando meno ossigeno. In
questo modo, i muscoli periferici ne hanno a disposizione una quantità maggiore.
12.8 SCAMBI GASSOSI ALVEOLO-CAPILLARI
Per comprendere gli scambi gassosi a livello polmonare è necessario conoscere le proprietà fondamentali
dei gas.
I gas respiratori, composti da ossigeno, azoto e anidride carbonica, seguono l’equazione di stato dei gas,
espressa dalla formula PV=nRT (P=pressione, V=volume, n=n° di molecole del gas, R=costante dei gas, T=
temperatura assoluta). Questa formula risulta dalla combinazione delle leggi di Boyle, di Charles e di Gay-
Lussac.
A livello del mare l’aria ambiente secca, alla normale pressione atmosferica, esercita una pressione di
760mmHg ed è composta da una miscela di gas che comprende ossigeno, anidride carbonica, azoto, e
tracce di altri gas.
Secondo la legge di Dalton, in una miscela di gas ciascun componente esercita la pressione parziale che
eserciterebbe se occupasse da solo lo stesso volume. Di conseguenza, ciascun componente esercita una
pressione parziale proporzionale alla sua concentrazione, ricavabile con: Pgas= Ptot* frazionegas. La somma
delle pressioni parziali esercitate da ciascun gas che forma una miscela è uguale alla pressione totale della
miscela stessa.
L’aria atmosferica, inalata attraverso la mucosa delle vie aeree, è riscaldata a 37° e umidificata (si satura di
vapore acqueo al 100%) a causa dell’epitelio, che è molto umido e lubrificato. Alla temperatura corporea, la
pressione parziale del vapore acqueo è di 47 mmHg, per cui la pressione totale dell’aria secca presente
nelle vie aeree a livello del mare ha un valore di (760-47) 713mmHg.
Attraverso la legge di Henry e la legge di diffusione di Graham sappiamo che l’anidride carbonica è circa 24
volte più solubile in acqua dell’ossigeno e diffonde circa 20 volte più velocemente.
L’aria atmosferica è costituita da O2 per il 20.93%, N2 per il 79.01%, CO2 per lo 0.03/4% e tracce di altri gas.
La pressione totale esercitata da questa miscela è detta pressione atmosferica e, a livello del mare, se la
temperatura è di 0° e non è presente umidità, ammonta a 760mmHg (aria STPD – standard temperature
and pressure dry). Ciascun gas contribuisce a determinare la pressione totale della miscela in modo
direttamente proporzionale alla sua percentuale nella miscela stessa. Pertanto, PO2=159mmHg
(760*20.93/100); PN2=596mmHg; PCO2=0.3mmHg. L’aria che respiriamo tuttavia, ha in genere una
temperatura diversa da 0°C e può contenere una certa quantità di vapore acqueo. Diventa allora necessario
considerare anche l’aria a temperatura ambiente e a pressione satura con vapore acqueo (ATPS – ambient
temperature and pressure saturated).
Durante l’inspirazione, l’aria, dopo aver attraversato le cavità nasali e/o la bocca, la faringe e la laringe
entra in trachea, che costituisce la prima parte delle vie aeree intrapolmonari. La trachea si suddivide in due
bronchi principali e quindi in una serie di condotti che diventano via via più numerosi per continue divisioni
(generazioni bronchiali) e sempre più corti e di lume minore man mano che si avvicinano agli alveoli.
Le prime 16/17 generazioni, non essendoci presenti alveoli, non vi è possibilità di scambio di O2 e di CO2.
Esse hanno la sola funzione di trasporto dei gas, pertanto verranno chiamate vie aeree/zone di conduzione.
Queste vie aeree rappresentano lo “spazio morto” anatomico, in quanto appunto il gas contenuto non può
scambiarsi con il sangue venoso. Nell’adulto il volume è di circa 150ml, con un minimo incremento (10%)
alle elevate ventilazioni, a causa di una modesta broncodilatazione.
A partire dalla 17-18a generazione iniziano ad apparire i primi alveoli, che aumentano di numero fino alla
23a dove tappezzano tutti i bronchioli, terminando in cavità a fondo cieco: i sacchi alveolari. In queste
generazioni i gas sono in grado di interagire con il sangue, in quanto i singoli alveoli sono ricoperti da
capillari a formare l’unità alveolo-capillare. Pertanto sono dette zone respiratorie/di scambio.
I condotti, dalla trachea all’alveolo, sono in serie, ma grazie alle continue suddivisioni, anche in parallelo.
Una struttura del genere fa sì che la sezione trasversa totale con il procedere delle generazioni bronchiali
sia sostanzialmente sempre in aumento. Poiché il flusso d’aria di ciascuna sezione trasversa delle vie aeree
è costante (ventilazione polmonare), a partire dalla 4a generazione la resistenza al flusso è sempre minore
man mano che si procede verso l’alveolo. Il volume totale d’aria contenuta negli alveoli polmonari è circa 3L
ed è proprio la pressione parziale di O2 e CO2 che permette l’ossigenazione del sangue e la rimozione
dell’anidride carbonica.
Giunti agli alveoli, la temperatura è di 37°C e la pressione totale della miscela di gas, in condizioni di assenza
di flusso, è uguale a quella atmosferica e l’aria è satura di vapore acqueo (BTPS – body temperature
pressure saturated). Il vapore acqueo a questa temperatura ha una pressione parziale di 47mmHg. Pertanto
la pressione totale esercitata dai gas è di 713mmHg, valore a cui dovrà essere riferita la loro concentrazione
per il calcolo delle pressioni parziali. Le percentuali di O2, N2 e CO2 nell’aria alveolare, a causa dei continui
scambi coi capillari, sono diverse: 13.8%, 80.6% e 5.6% rispettivamente. Le relative pressioni parziali
saranno quindi di 100mmHg, 574mmHg e 40mmHg.
A livello alveolare, perché possa avvenire la diffusione dei gas respiratori, la pressione parziale parziale a
monte del gas dovrà essere maggiore della pressione parziale a valle. Pertanto ci dovrà essere un gradiente
pressorio positivo, sia per l’ossigeno che per l’anidride carbonica. Dato che la pressione parziale
dell’ossigeno presente nel sangue venoso misto (è la media degli scambi periferici di tutti i distretti
corporei) è di circa 40mmHg avremo un gradiente pressorio ad inizio capillare di (100-40) 60mmHg, che
tenderà via via a diminuire fino ad annullarsi in corrispondenza della fine del capillare. Per quanto riguarda
la pressione parziale dell’anidride carbonica presente nel sangue venoso misto invece è di circa 46mmHg.
Pertanto avremo un gradiente pressorio di (46-40) 6mmHg.
Il valore della pressione parziale dell’ossigeno è ricavabile anche attraverso l’equazione dell’aria alveolare,
per la quale: PAO2= PIO2 – PACO2/QR (PAO2= pressione parziale dell’ossigeno a livello alveolare; PIO2=
pressione parziale dell’ossigeno a livello delle zone di conduzione, 150mmHg; PACO2= pressione parziale
dell’anidride carbonica a livello alveolare, 40mmHg; QR= quoziente respiratorio). Il QR o R o RER
(respiratory exchanged ratio) è il rapporto tra CO2 prodotta e O2 consumato a livello mitocondriale. Può
essere calcolato a livello della bocca, attraverso un metabolimetro, dove, seppur con una certa latenza (2-
3’) riflette ciò che avviene a livello mitocondriale quando siamo in uno stato stazionario, che sia a riposo o
durante attività ciclica a carico costante. Il QR ha valori compresi tra 0.7 (100% lipidi) e 1 (100% glucidi), in
funzione della percentuale dei substrati utilizzati per ricavare energia. A riposo è circa 0.8; durante esercizio
massimale è di 1, dove avremo una ventilazione espiratoria/t uguale alla ventilazione inspiratoria/t.
La composizione dell’aria alveolare non è una costante fisiologica, ma varia secondo il ciclo respiratorio e la
localizzazione polmonare. In condizioni di equilibrio l’aria inspirata si mescola con l’aria alveolare,
rimpiazzando l’O2 ceduto al sangue e diluendo la CO2 entrata negli alveoli. Una parte di questa miscele è
eliminata con l’espirazione.
O2 PO2 CO2 PCO2 PH2O Durante l’espirazione, la
(%) (mmHg) (%) (mmHg) (mmHg) percentuale di O2 nell’aria
Aria atmosferica 20,93 159 0,03 0,3 / alveolare diminuisce e quella di
Aria alveolare 13,8 100 5,6 40 47
CO2 aumenta, fino alla
Aria espirata 16,4 118 4,1 30 39
Sangue arterioso 20 100 48 40 47 successiva inspirazione. Ciò
Sangue venoso misto 15 40 52 46 47 dipende da due fattori che si
influenzano reciprocamente:
l’effetto del metabolismo che per mezzo del sangue che scorre nei capillari polmonare continuamente
libera CO2 nell’aria alveolare e assorbe O2; e la periodica e parziale sostituzione e diluizione dell’atmosfera
gassosa alveolare con aria ambiente fresca, mediante il processo della ventilazione.
La concentrazione e la pressione parziale dei gas nell’aria espirata sono diverse da quelle riscontrate sia
nell’aria inspirata sia nell’aria alveolare. Infatti, poiché dei 500ml di aria espirata (volume corrente) 350ml
provengono dagli alveoli e 150ml dallo spazio morto (vie che non partecipano allo scambio gassoso),
rispetto all’aria alveolare, l’aria espirata ha una concentrazione più elevata in O2, che sarà del 16.4% e più
bassa in CO2, che sarà del 4.1% circa, mentre quella di N2 è del 79.5%. Le rispettive pressioni parziali
saranno dunque 118mmHg, 30mmHg e 573mmHg.
12.8.3 SCAMBI GASSOSI A LIVELLO POLMONARE
Gli scambi gassosi avvengono a livello della membrana alveolo-capillare. Essa ha uno spessore di circa
0.5μm ed è formata da: uno strato liquido che riveste l’alveolo dove è presente il fattore surfattante;
l’epitelio alveolare (dove sono presenti pneumociti di I e II ordine); la membrana basale dell’epitelio; uno
spazio interstiziale; la membrana basale del capillare; l’endotelio capillare. I capillari ricoprono gli alveoli a
rete. I gas diffondono attraverso il lato sottile della membrana basale. La diffusione è legata a fattori fisici e
avviene passivamente. La fonte di energia è costituita dall’energia cinetica delle molecole; esse infatti sono
costantemente in movimento. Se la pressione parziale di un determinato gas è maggiore in una regione
piuttosto che in un’altra, il risultato dei movimenti di tutte le sue molecole è che esse si spostano dai punti
in cui la pressione è maggiore ai punti in cui questa è minore, sino all’equilibrio. Il movimento dei gas
attraverso la membrana respiratoria dipende dal gradiente di pressione dei gas, dalla solubilità dei gas nei
liquidi, dal peso molecolare del gas e dalle proprietà della membrana ed è regolato dalla legge di Fick sulla
diffusione, espressa dalla formula:
Vgas = Dgas * SA * ΔP / d
Vgas: volume di gas che diffonde nell’unità di tempo;
Dgas: coefficiente di diffusione del gas;
d: spessore medio della membrana;
SA: area della superficie di scambio;
ΔP: gradiente pressorio ai lati della membrana.
La legge di Fick dice, quindi, che la quantità di gas che nell’unità di tempo attraversa la membrana è
direttamente proporzionale all’area SA attraverso cui lo scambio avviene, al coefficiente di diffusibilità e al
gradiente di pressione parziale dei gas ai due lati della membrana e inversamente proporzionale allo
spessore della membrana stessa. Pertanto le quantità di O2 e CO2 trasferite nell’unità di tempo
rispettivamente dall’alveolo al sangue e dal sangue all’alveolo sono influenzate da: gradiente delle pressioni
parziali dei gas negli alveoli e nel sangue capillare; spessore della membrana alveolo-capillare; area della
superficie di scambio; coefficiente di diffusione dei gas. Altri fattori molto importanti sono: tempo di
transito del sangue sulla superficie di scambio e volume di sangue esposto sulla superficie di scambio.
Il gradiente di pressione è dato dalla differenza tra le pressioni parziali del gas nell’aria alveolare e nel
sangue venoso ad inizio capillare polmonare. il gradiente di pressione per l’O2 è di (100-40) 60mmHg, quindi
passerà dagli alveoli al sangue. Per la CO2 è di (46-40) 6mmHg (a causa della sua maggiore diffusibilità), e
passerà dal sangue agli alveoli.
Poiché la velocità di diffusione attraverso la membrana è inversamente proporzionale allo spessore della
membrana stessa, qualunque causa che determini un aumento del suo spessore può influenzare il normale
scambio di gas respiratori (edema polmonare).
L’area della superficie di scambio è costituita dall’area degli alveoli adeguatamente ventilati a contatto con
i capillare normalmente perfusi. L’area totale della superficie alveolare è di circa 70m2 e la superficie del
letto capillare polmonare è di circa 100m2. In alcuni casi quest’area può risultare diminuita (enfisema).
Quando è ridotta a 1/3 o ¼ del normale, gli scambi gassosi sono ostacolati anche a riposo. Durante
l’esercizio fisico intenso, anche la più modesta riduzione della superficie di scambio può comportare una
seria diminuzione dell’entità dello scambio.
Il coefficiente di diffusione dei gas dipende dalla solubilità del gas nella membrana ed è inversamente
proporzionale alla radice quadrata del suo peso molecolare (la diffusibilità della CO2 è circa 20 volte
maggiore di quella dell’O2).
Il tempo di transito del sangue nei capillari polmonari è di circa 0.75’’ in condizioni di riposo, ma scende a
0.25-0.35’’ in condizioni di attività fisica. Il tempo che serve al sangue per ossigenarsi, e quindi venga
raggiunto un equilibrio tra le pressioni parziali ai due lati della membrana alveolo-capillare, è di 0.25’’-
0.30’’, ovvero nel primo terzo del capillare. Esiste quindi un margine temporale di sicurezza (0.45-50’’) che
permette di compensare situazioni anormali. Se la diffusione però risultasse fortemente anormale, il
margine risulterebbe comunque insufficiente per ossigenare completamente il sangue. Questo margine
temporale, oltre a sopperire situazioni di alterazione di diffusione, serve anche in condizioni fisiologiche di
sforzo massimale. Durante uno sforzo molto intenso infatti, la gittata cardiaca può arrivare fino a 25 l/min,
di conseguenza la velocità di scorrimento nel sangue aumenterebbe, contemporaneamente a una
diminuzione del tempo di transito (circa 0.25’’). Visto il diminuito, ma comunque sufficiente, tempo di
transito, a livello del mare, in condizioni fisiologiche, durante sforzo intenso, riusciamo ad avere una
completa ossigenazione del sangue. In questo caso, se la diffusione fosse alterata, il margine non sarebbe
sufficiente per avere un’ossigenazione completa. La differenza tra la pressione parziale di O2 presente nel
sangue a fine capillare e quella presente nell’alveolo è detta gradiente alveolo arterioso (PaO2 – PAO2). Nel
caso in cui ci sia un gradiente alveolo arterioso è presente una situazione di ipossiemia.
Durante esercizio fisico la gittata cardiaca aumenta a causa delle maggiori richieste metaboliche da parte
dei muscoli scheletrici e di conseguenza aumenta l’estrazione periferica di O2. Se aumenta l’estrazione di O2
all’inizio dei capillari polmonari avremo una PṼO2 più bassa rispetto alle condizioni normali. Inoltre durante
esercizio iperventiliamo, pertanto, a parità di produzione di CO2 la PACO2 sarà inferiore (30-35mmHg) e la
PAO2 maggiore (100-110mmHg). A causa di questa iperventilazione il gradiente pressorio aumenta e di
conseguenza anche la velocità di diffusione.
In alta quota, dove la PIO2 è inferiore, anche la PAO2 sarà minore (es. 50mmHg) e di conseguenza il sangue
arterioso risulterà meno ossigenato a livello periferico. In questo caso, anche la PṼO2 risulterà più bassa
(20mmHg) e il diminuito gradiente pressorio causerà la diminuzione della velocità di diffusione. Il sangue
quindi impiegherà un tempo maggiore per entrare in condizione di equilibrio con la PAO2 (0.5’’). In
condizioni normali, in alta quota, il sangue ha comunque margine temporale per ossigenarsi (per quanto sia
possibile vista la diminuita pressione parziale). In condizioni anormali, o durante esercizio fisico invece,
sicuramente si creerà un gradiente alveolo arterioso, e di conseguenza avremo ipossiemia.
Nel caso della CO2 invece, la diffusione completa avviene in 0.3-0.4’’ a riposo. Nel caso di forti anomalie se
la PaO2 fosse maggiore rispetto alle aspettative (40 mmHg) avremmo una situazione di ipercapnia.

12.9.1 TRASPORTO DELL’OSSIGENO NEL SANGUE


Sangue Sangue
arterioso venoso L’O2 viene trasportato nel sangue in due forme: disciolto
PO2 100 mmHg 40 mmHg nel plasma o legato chimicamente e reversibilmente con
PCO2 40 mmHg 46 mmHg l’Hb.
Saturazione La [O2]a (quantità di O2, fisicamente disciolto e legato
97,50% 75% all’Hb, in un determinato volume di sangue arterioso) è
Hb
HbO2 19,5ml/100ml 15,1ml/100ml data dalla somma delle due precedenti forme.
O2 sciolto 0,3/100ml 0,12ml/100ml [O2]a = ([Hb]a * SaO2 * 1.36) + (PO2 * 0.03)
La [Hb]a è il parametro che influisce maggiormente sulla
totale O2 19,8ml/100ml 15,2ml/100ml
[O2]a.
PCO2 nel
40 mmHg 60-80 mmHg L’O2 fisicamente disciolto nel plasma dipende dalla
lavoro
[CO2] nel solubilità del gas, dalla temperatura e dalla sua pressione
48,3ml/100ml 65ml/100ml
lavoro parziale nel sangue. In condizioni normali, nel sangue
HCO3 42,9ml/100ml 45,7ml/100ml arterioso (PaO2 = 100mmHg) la [O2] disciolto è pari a
HbCO2 2ml/100ml 1,1ml/100ml 0.3ml/100ml di sangue; nel sangue venoso (PṼO2 =
CO2 - 40mmHg) la [O2] disciolto è più bassa (0.15ml/100ml).
1ml/100ml 2,6ml/100ml
proteine L’Hb è una molecola complessa costituita da 4 eme
CO2 sciolta 2,4ml/100ml 2,7ml/100ml (pigmento costituito da una porfirina e da un atomo di
totale CO2 48,3ml/100ml 52,1ml/100ml Fe2+) ciascuno legato a una catena polipeptidica (2α e 2β)
differenza artero-venosa in della globina. Ogni molecola di eme, attraverso il suo
4,6ml/100ml atomo di ferro può legare reversibilmente O . Quando
O2 2
differenza artero-venosa in l’ossigenazione dell’Hb è completa, un mg è in grado di
3,8ml/100ml
CO2 legare 1.34ml di O2. Poiché la concentrazione media di Hb è
di 15mg/dl, la massima capacità di trasporto di O2 è di 20.1ml/dl. Per le sue caratteristiche, la saturazione di
O2 a livello del mare (rapporto tra ossigeno legato all’emoglobina e la quantità totale di ossigeno) è pari al
97.5% . Pertanto su 100ml di sangue saranno trasportati dall’Hb 19.5ml anziché 20.1ml. Il contenuto totale
di aO2 (quota disciolta più ossiHb) è di 19.8ml/dl. In rapporto alle necessità tissutali, 5ml di O2 sono
mediamente ceduti dal sangue arterioso ai tessuti, mentre la rimanente quota resta legata all’Hb. A riposo,
nel sangue venoso l’Hb è satura per circa il 75%, con un contenuto medio in O2 di 15.2ml/dl, di cui 0.12
disciolto e 15.1 legato all’Hb.
L’Hb si lega rapidamente e reversibilmente con l’O2. La forma ossigenata dell’Hb è indicata HbO2 ed è
chiamata ossiHb. La forma non ossigenata invece deossiHb. All’interno dei globuli rossi, le molecole di O2 si
associano e si dissociano molto rapidamente (<0.01’’). questa velocità di reazione è critica per il trasporto di
O2, in quanto il sangue transita nei capillari per meno di 1’’.
La struttura quaternaria dell’Hb determina la sua affinità per l’O2. Quando l’Hb lega l’O2, le due catene β si
muovono l’una verso l’altra; quando l’ossigeno viene ceduto esse si allontanano.
La percentuale di saturazione in O2 dell’Hb dipende dalla PO2 ed è espressa dalla curva di dissociazione
dell’Hb, di forma sigmoidale. Essa esprime l’andamento dell’affinità dell’Hb per l’O2 in funzione della
pressione parziale dell’ossigeno. La forma sigmoidale è dovuta a un’interazione molecolare tra i quattro
gruppi eme, che influenza l’affinità tra l’Hb e l’O2. Quando l’Hb lega un piccolo quantitativo di O2, è facilitata
un’ulteriore captazione di O2.
Per la costruzione della curva di dissociazione dell’ossiHb vengono utilizzati 4 punti, con i rispettivi valori: il
punto 0 (PaO2=0mmHg; SO2=0%), il punto P50 (PO2=27mmHg; SO2=50%), il punto Ṽ (PO2=40mmHg;
SO2=75%) e il punto a (PO2=100mmHg; SO2=97%). Da 0 a Ṽ, la parte della curva viene definita dissociativa,
la curva ha una pendenza elevata che indica un legame labile tra Hb e O2, è presente a livello dei tessuti
periferici e favorisce la diffusione dell’O2 verso i tessuti. Da Ṽ ad a, la parte della curva viene definita
associativa, è relativamente piatta e indica un legame stabile tra Hb e O2, è presente a livello dei capillari
alveolari e favorisce la diffusione dagli alveoli verso il sangue.
La velocità di reazione dell’Hb con l’O2 e quindi la forma della curva di dissociazione dell’ossiHb sono
influenzate da alcuni fattori fra i quali la PCO2, il pH, la temperatura e la concentrazione del 2,3-DPG. In
seguito ad un aumento di PCO2, della temperatura e una diminuzione del pH è necessaria una PO2 maggiore
per raggiungere la stessa percentuale di saturazione dell’Hb. Inversamente, in seguito ad una diminuzione
della temperatura, della PCO2 o un aumento del pH è necessaria una PO2 minore per raggiungere la stessa
percentuale di saturazione. Un indice di queste modificazioni è dato dalla P50, ovvero la pressione parziale
di ossigeno al 50% di saturazione dell’Hb.
A una PO2 di 100mmHg, l’Hb è saturata al 97.4% (l’Hb sarebbe saturata al 100% a una PO2 di 250mmHg, ma
raramente la PO2 alveolare aumenta oltre i 130mmHg).
Per PO2 comprese tra 100mmHg e 70mmHg, le variazioni di saturazione sono minime. Ciò è un fattore di
sicurezza nelle situazioni di ipossiemia. A livello alveolare, PCO2 e temperatura tendono a diminuire, in
concomitanza del pH che aumenta, determinando l’alta affinità tra O2 e Hb.
A una PO2 tra 10 e 40mmHg, la curva è molto ripida. Pertanto a questi valori l’ossiHb del sangue capillare
che irrora le cellule dei tessuti in attività, si dissocia e libera O2. Quindi a fronte di piccole variazioni di PO2 i
tessuti ricevono grandi quantità di ossigeno.
A livello tissutale, la diminuzione del pH, come risultato dell’aumento di acido lattico, e l’aumento della
temperatura e della PCO2, determinano la bassa affinità dell’Hb per l’O2, facilitandone la cessione ai tessuti.
L’effetto della PCO2 e del pH sulla curva di dissociazione dell’ossiHb è conosciuto come effetto Bohr. Le
condizioni di aumento della PCO2, di acidità e temperatura sono quelle che si verificano in un tessuto con
aumentata attività metabolica.
La liberazione di O2 dall’HbO2 è regolata dal 2,3-DPG, presente negli eritroci in elevate concetrazioni,
prodotto durante la glicolisi anaerobica, con la funzione di modulare l’affinità dell’Hb per l’O2. Il suo
aumento, insieme a quelli sopracitati, contribuisce a ridurre l’affinità per l’O2 permettendo una maggiore
liberazione di questo gas quando il sangue passa attraverso i tessuti. Tuttavia le modificazioni del 2,3-DPG
avvengono lentamente, pertanto viene considerato un modulatore a lungo termine.
12.9.2 TRASPORTO DELL’ANIDRIDE CARBONICA NEL SANGUE
La CO2 è trasportata in 3 forme:
 Disciolta fisicamente;
 Sotto forma di ioni bicarbonato (HCO3-);
 Legata a gruppi aminici liberi (composti carbaminici) delle proteine plasmatiche e dell’Hb.
La quantità di CO2 prodotta dai tessuti ed eliminata a livello polmonare è in media di 200ml/min in un
soggetto a riposo e in quantità maggiore (fino a 3-4l) nel lavoro muscolare strenuo. Con una PCO2 normale
di 40mmHg, nel sangue arterioso la [CO2]tot è di 480ml/l, mentre nel sangue venoso misto, dove la PCO2 è
di 46mmHg, la [CO2]tot è di 520ml/l.
Nel sangue a la CO2 disciolta è di 25ml/l. In quello Ṽ aumenta a 29ml/l in condizioni di riposo, per arrivare a
43ml/l in condizioni di attività muscolare intensa. La quantità di CO2 fisicamente disciolta determina la
PCO2.
La CO2 è trasportata nel sangue soprattutto come bicarbonato. Una volta disciolta, reagisce con l’acqua per
formare acido carbonico: CO2 + H2O  H2CO3. Questa reazione è lenta quando avviene nel liquido
interstiziale e nel plasma, dove non è catalizzata dall’enzima anidrasi carbonica (ne esistono 24 isoforme),
presente invece a livello dei globuli rossi, nei quali la reazione viene accelerata. Più aumenta la
concentrazione dei reagenti più l’equilibrio sarà spostato verso destra, come succede a livello periferico; al
contrario, l’aumento della concentrazione del prodotto sposta l’equilibrio della reazione verso sinistra,
come succede a livello alveolare. L’acido carbonico formatosi si dissocia spontaneamente e rapidamente in:
H2CO3  H+ + HCO3-. Gli ioni idrogeno prodotti vengono tamponati dalle proteine plasmatiche e
soprattutto dall’Hb deossigenata, che si comporta come accettore. Al contrario, in forma ossigenata si
comporta come donatore. Una parte degli ioni bicarbonato tende a diffondere dai globuli rossi al plasma
spinto dal gradiente di concentrazione, dove forma NaHCO3, in cambio di Cl- (per mantenere neutralità
elettrica): spostamento dei cloruri o fenomeno di Hamburger. A equilibrio raggiunto, nel sangue periferico
si assiste a un aumento degli ioni bicarbonato nel plasma e a un aumento degli ioni cloro nelle emazie.
Mentre la quantità di CO2 che il sangue trasporta, disciolta fisicamente o sotto forma di bicarbonato,
dipende in modo netto dalla PCO2, altrettando non si può dire per la quota trasportata attraverso le
proteine. Parte della CO2 infatti reagisce con i gruppi aminici delle proteine, specie con quelli dell’Hb,
formano i composti carbaminici. Pertanto il sangue venoso può trasportare più CO2 del sangue arterioso.
Questo grazie al fatto che viene facilitata la captazione di anidride carbonica nei tessuti e la sua liberazione
nei polmoni.
Nei capillari alveolari infatti, essendovi una PO2 elevata, il legame HHb-CO2 è labile e di conseguenza vi è il
distacco dell’anidride carbonica, che viene sostituita dall’ossigeno. Inoltre l’Hb, oltre a perdere la CO2,
rilascia anche gli ioni idrogeno, i quali si legano agli ioni bicarbonato, andando a formare acido carbonico.
Aumentando la concentrazione di acido carbonico, si sposta verso sinistra la reazione che porta alla
formazione di CO2 + H2O. Dato che la parte di ioni bicarbonato presenti nei globuli rossi si è legata agli ioni
idrogeno andando a formare acido carbonico, gli ioni bicarbonato che a livello tissutale si erano spostati nel
plasma, vengono riattirati per gradiente di concentrazione all’interno delle emazie, con il conseguente
scambio di ioni Cl-.
La quantità di CO2 trasportata è in rapporto con la PCO2 secondo la curva di dissociazione della CO2, molto
diversa da quella dell’ossiHb, tanto da avere un andamento quasi lineare. Essa è influenzata dalla
saturazione di O2 dell’Hb, e quindi dalla PO2 (effetto Haldane). La curva pertanto è spostata a sinistra
quando l’Hb è deossigenata, come accade a livello dei tessuti periferici, dove deve essere acquisita CO2 per
poter essere eliminata, e potrà formarsi la carbaminoHb; è sposta verso destra quando invece l’Hb è
ossigenata, come a livello dei capillari alveolari, dove la CO2 deve essere ceduta agli alveoli per essere
eliminata con la ventilazione.
La diffusione dei vari gas attraverso le varie membrana segue comunque la legge di Fick per la diffusione.
12.10 RAPPORTO VENTILAZIONE - PERFUSIONE
La massima efficienza degli scambi gassosi tra aria alveolare e gas ematici si verifica quando ventilazione e
flusso sanguigno si distribuiscono uniformemente in tutte le regioni del polmone. In vivo, ventilazione
alveolare e flusso sanguigno del capillare alveolare non sono distribuiti in modo perfettamente uniforme,
neanche nell’uomo sano e neppure in posizione supina, ed esistono differenze tra ventilazione e flusso
ematico in differenti regioni polmonari. In una certa misura in condizioni normali, ma soprattutto in molte
malattie polmonari, alcune aree del polmone sono ben ventilate, ma non adeguatamente perfuse, mentre
altre sono perfettamente irrorate, ma poco o per nulla ben ventilate. In ognuna di queste condizioni lo
scambio dei gas attraverso la membrana alveolo-capillare è compromesso e l’individuo può presentare
difficoltà respiratorie anche se la ventilazione totale e il flusso ematico polmonare totale sono normali,
venendosi a creare uno squilibrio tra ventilazione e flusso sanguigno in differenti parti dei polmoni. L’indice
che tiene conto della ventilazione alveolare e dell’irrorazione polmonare è detto rapporto
ventilazione/perfusione: V/Q. La ventilazione è la quantità d’aria che raggiunge gli alveoli in un minuto, la
perfusione polmonare è il flusso ematico al minuto attraverso il circolo polmonare e corrisponde alla gittata
cardiaca. Scambi gassosi efficienti avvengono solo nelle regioni polmonari dove il rapporto tra ventilazione
e perfusione è uguale a 1. Questo rapporto influenza gli scambi gassosi, e nel caso li alterasse, il risultato è
l’ipossiemia.
L’ipossiemia ha 4 cause principali:
 Ipoventilazione: a parità di produzione di CO2, se ipoventilo la PACO2 aumenta, quindi la PAO2
diminuisce e di conseguenza anche la PaO2; l’ipoventilazione può essere causata da restringimenti
delle vie aeree, dovuti ad asma, ostruzioni, masse tumorali, intossicazione con farmaci etc. ;
 Alterazione della diffusione: In condizioni patologiche (ispessimento della membrana alveolo-
capillare; edema polmonare), di alta quota, esercizio fisico, o la combinazione di queste tre, la PaO2
è inferiore a 100mmHg;
 Shunt anatomici (o anastomosi artero-venose): tali anastomosi sono rappresentate da vene
bronchiali, che trasportano sangue venoso e sfociano nelle vene polmonari (presenza sangue
arterioso), e vasi di Tebesio, che raccolgono sangue venoso dal circolo coronarico e sfociano nel
ventricolo sinistro. La presenza di questi shunt contribuiscono a far diminuire la PaO2;
 Ineguaglianza del rapporto ventilazione – perfusione: quando la ventilazione è uguale a 0, ma
l’alveolo è perfuso, il rapporto è uguale a 0. Questa situazione di assenza di ventilazione è causata
da un’ostruzione delle vie aeree, pertanto l’aria alveolare si equilibra con il sangue venoso misto
che scorre nei capillari alveolari (PO2 40mmHg; PCO2 46mmHg). Quando l’alveolo è ventilato, ma
non è perfuso, il rapporto è uguale a infinito. Questa situazione è causata da costrizioni, ostruzioni
o obliterazioni dei vasi sanguigni, pertanto i gas alveolari sono in equilibrio con l’aria inspirata (PO 2
158mmHg; PCO2 0mmHg).
Nei soggetti normali, in posizione ortostatica vi sono differenze regionali sia di ventilazione sia di
perfusione. La ventilazione, a causa della diversa distensibilità degli alveoli (regolata dalle pressioni interne,
idrauliche ed esterne, alveolare), è maggiore alla base, così come per la perfusione, per motivi
gravitazionali. Tuttavia, spostandosi dalle zone apicali alle zone basali, l’entità della variazione della
ventilazione è minore rispetto alle variazioni della perfusione. A livello degli apici polmonari, il rapporto
ventilazione-perfusione è alto a causa della relativa iperventilazione e la scarsa perfusione: il flusso
sanguigno che attraversa i capillari apicali si ossigena molto bene, ma il flusso è relativamente scarso. A
livello delle basi polmonari invece, il rapporto è basso a causa dell’aumentato flusso sanguigno: il flusso
sanguigno che attraversa i capillari polmonari è relativamente elevato, ma si ossigena meno bene rispetto
al flusso apicale.
In ortostatismo, a livello della 3° costa, il rapporto tra ventilazione è perfusione è uguale a 1.
In clinostatismo cambia la perfusione, in cui la parte superiore (torace) sarà il nuovo apice, la parte inferiore
(dorso) sarà la nuova base.
La presenza di squilibri tra la ventilazione e la perfusione nelle varie zone polmonari riduce leggermente
l’efficienza del polmone per quanto riguarda gli scambi di O2 e CO2 e fa sì che il sangue arterializzato
raccolto dalle vene polmonari abbia, rispetto all’aria alveolare, una PO2 leggermente inferiore e una PCO2
leggermente aumentata. Queste differenze si accentuano quando, per la presenza di processi patologici, si
aggrava nel polmone la non uniformità del rapporto ventilazione-perfusione.

Vol tot PO2 PCO2


Q
% mmHg mmHg
Apici 7 0,24 0,07 3,3 132 28
Basi 13 0,82 1,29 0,63 89 42
CONTROLLO NERVOSO/UMORALE DEL SISTEMA RESPIRATORIO ED EQUILIBRIO ACIDO-
BASE
CAPITOLO 18

Ventilazione polmonare e pH ematico sono sottoposti a un costante controllo da parte dell’organismo onde
evitarne variazioni che condurrebbero a effetti deleteri.

18.1 REGOLAZIONE DELLA VENTILAZIONE POLMONARE


Modificazioni della ventilazione alveolare determinano una variazione della composizione dei gas
respiratori nel sangue arterioso. Il suo controllo è svolto per mezzo di meccanismi chimici e nervosi ed è
finalizzato al costante mantenimento della composizione dei gas respiratori nel sangue arterioso in tutte le
situazioni fisiologiche: dall’esercizio fisico, al sonno, alla permanenza in alta quota.

18.1.1 REGOLAZIONE CHIMICA


La regolazione chimica della ventilazione ha come scopo l’adeguamento della ventilazione alveolare e
quindi degli scambi gassosi alle esigenze dell’organismo in un dato istante. Le sostanze chimiche che
regolano la ventilazione sono CO2, O2 e H+. Una diminuzione della PO2 (ipossia), un aumento della PCO2
(ipercapnia) e una diminuzione del pH sono fattori che stimolano l’aumento della ventilazione. Al contrario,
la situazione opposta ne determina una riduzione.
Tuttavia il sistema è molto più sensibile a una situazione di ipercapnia che di ipossia. Infatti, piccole
variazioni di PACO2 determinano grandi variazioni della ventilazione.
I loro livelli nel sangue arterioso sono riconosciuti da specifici sensori: i chemocettori. Questi recettori si
trovano sia a livello periferico (biforcazione carotidea; arco aortico), che a livello centrale (bulbo). Quelli
periferici sono innervati dai n.glossofaringeo e vago, tramite i quali inviano afferenze ai centri del respiro.
Quelli centrali, a livello della porzione ventrale del midollo allungato, al contrario dei periferici, sono
sensibili solamente a variazioni di PCO2 e pH. Essendo le barriere emato-encefalica ed emato-liquorale
impermeabili agli ioni H+ e HCO3-, è l’anidride carbonica che stimola, sia direttamente che indirettamente
(aumento della concentrazione di H+ per effetto dell’idratazione della CO2 con formazione di acido
carbonico che si dissocia in ioni idrogeno e bicarbonati) i chemocettori bulbari.
Tuttavia i chemocettori, centrali e periferici sono più sensibili a una variazione di pressione dei gas piuttosto
che a variazioni delle loro concentrazioni ematiche.

18.2 REGOLAZIONE NERVOSA


Il controllo della respirazione, nel SNC, si trova a livello del ponte, del bulbo, della corteccia sensitiva,
motoria e pre-motoria.
In queste aree anatomiche non è possibile distinguere zone espiratorie ed inspiratorie distinte. Tuttavia nel
tronco encefalico, a livello pontino, sono state individuate due strutture che influenzano la ventilazione: il
centro apneustico e il centro pneumotassico.
Questi due centri interagiscono tra di loro e con i neuroni espiratori ed inspiratori (presenti a livello del
bulbo).
Il centro pneumotassico agisce stimolando i neuroni espiratori ed inibendo il centro apneustico, che
normalmente stimola i neuroni inspiratori.
Il n.vago trasporta afferenze, derivanti dalla distensione polmonare, al centro apneustico, con effetto
inibitorio. La sua azione si somma a quella del centro pneumotassico.
Tuttavia, la ventilazione è controllabile fino a un certo punto. Esperimenti nei quali veniva interrotta la
comunicazione tra ponte (presenza dei centri) e bulbo (presenza dei neuroni inspiratori ed espiratori)
hanno dimostrato che il ritmo respiratorio rimaneva pressoché normale in virtù del fatto che i neuroni
respiratori sono cellule capaci di autoeccitarsi e di inviare impulsi al diaframma tramite il nervo frenico.
Pertanto il mantenimento di un normale ritmo è permesso da un’interazione tra le due classi di neuroni:
quando i neuroni inspiratori si eccitano inibiscono quelli espiratori e viceversa.
Le strutture del centro respiratorio possono essere modulate anche da altri tipi di recettori:
 Recettori polmonari da stiramento: sono presenti all’interno del parenchima polmonare e sono
responsabili del riflesso di Hering – Breuer che impedisce un’inspirazione eccessiva inibendo i
neuroni inspiratori;
 Recettori irritativi: quando una sostanza irritante viene inalata e si deposita sulle vie aeree stimola i
recettori intraepiteliali presenti nelle narici, nelle cavità nasali, nella trachea, nei bronchi e nei
bronchioli che scatenano il riflesso della tosse o dello starnuto;
 Recettori J: presenti a livello delle pareti alveolari sono sensibili a stimoli endogeni come edema e
microembolismi, scatenando fenomeni di tosse;
 Nasali e delle vie aeree superiori: intercettano la presenza di sostanze esogene non self attivando e
promuovendo il movimento ciliare per espellerle;
 Articolari e muscolari: generano un’iperventilazione che ci prepara alle impellenti necessità di O2;
 Sistema gamma: circuito legato ai FNM e GTO;
 Barocettori arteriosi: ogni variazione di pressione arteriosa induce una variazione di ventilazione di
segno contrario;
 Il dolore: induce apnea seguita da iperventilazione;
 Il freddo: riduce la Fr e induce un aumento dell’ampiezza respiratoria;
 Il caldo: aumenta la Fr e induce una riduzione dell’ampiezza respiratoria.
Infine le afferenze corticali si esplicano a livello sia dei centri bulbo-pontini, che dei motoN spinali che
innervano i muscoli respiratori, attraverso il tratto cortico-spinale.

18.2 REGOLAZIONE DELL’EQUILIBRIO ACIDO-BASE


Il pH del mezzo in cui si trovano le cellule dell’organismo influenza le proprietà fisiologiche degli enzimi e
delle proteine di trasporto della membrana cellulare. Pertanto, la concentrazione idrogenionica del sangue
è una delle variabili dell’organismo che viene maggiormente e finemente controllata.
18.2.1 IL pH
Il pH rappresenta il logaritmo negativo in base 10 della concentrazione idrogenionica espressa in moli per
litro: pH = - log [H++. A un’alta concentrazione di idrogenioni corrisponde un basso pH e viceversa.
Trattandosi di una funzione logaritmica, anche variazioni minime della concentrazione degli H+ sono
responsabili di notevoli alterazioni del valore di pH. Il pH di neutralità è uguale a 7; valori inferiori
corrispondono a soluzioni acide, valori superiori a soluzioni basiche. Il pH del sangue arterioso ([H+] =
40nmol/l) è circa 7.4. Quello del sangue venoso misto, è di pochi centesimi più basso, a causa dell’aggiunta
di prodotti catabolici acidi provenienti dal metabolismo cellulare. Il pH plasmatico è mantenuto il più
possibile costante in quanto anche lievi aumenti (alcalosi) o diminuzioni (acidosi) provocano ripercussioni
notevoli sulla cinetica delle reazioni chimiche cellulari. Tuttavia sono presenti dei margini di tollerabilità
compresi tra 6.8 e 7.7. La costanza del pH ematico dipende prevalentemente dalla presenza nel mezzo di
sistemi tampone (molecole che interagiscono con idrogenioni sia direttamente che indirettamente), che
cioè sottraggono al mezzo idrogenioni se il pH si abbassa o li cedono se il pH si innalza, fino ad una certa
quantità, oltre la quale non possono espletare la loro funzione. Il sistema tampone del bicarbonato è quello
fisiologicamente più efficiente per la possibilità che ha l’organismo di modificare le concentrazioni dei suoi
componenti (HCO3- / CO2) variando l’equilibrio delle seguenti reazioni:
CO2 + H2O  H2CO3  HCO3- + H+
Queste reazioni sono catalizzate dall’enzima anidrasi carbonica, presente in tutte le cellule, ma non nel
plasma. L’acido carbonico, nei liquidi biologici si trova dissociato in ione bicarbonato e idrogenioni. La
quantità di acido carbonico è proporzionale a quella dell’anidride carbonica disciolta in soluzione
(PaCO2=40mmHg). La relazione esistente tra [CO2] disciolta nel plasma e la PaCO2 è:
[CO2+ = α * PaCO2 = 1.2 mmol/l;
α è il fattore di solubilità per la CO2 che in soluzioni acquose alla temperatura di 37° è pari a
0.03mmol/l/mmHg.
A pH 7.4 la [HCO3-] è circa 24mmol/l. In condizioni di equilibrio acido-base il rapporto [HCO3-]/[CO2] è di
20:1.
Attraverso l’equazione di Henderson – Hasselbalch, che consente di misurare esattamente il pH del sangue,
possiamo affermare che esso dipende fondamentalmente dal rapporto [HCO3-] / [CO2].
pH = pKa + log (HCO3-/CO2); dove pKa corrisponde al valore della costante di dissociazione dell’acido
carbonico.
Un aumento degli ioni bicarbonato oppure una diminuzione dell’anidride carbonica determinano un
aumento del pH; al contrario un aumento della CO2 o una riduzione dell’ HCO3- determinano una riduzione
del pH.
Per prevenire variazioni estreme, l’organismo è munito di sistemi di controllo specifici. In senso temporale
si possono riconoscere tre livelli di controllo: rapido, a breve e a lungo termine. Tra i meccanismi di
controllo rapido si annoverano i sistemi tampone del sangue, in quanto agiscono in molto meno di un
secondo. Successivamente la ventilazione polmonare (intervento a breve termine) impiega da 1 a 3 minuti
per riportare il pH a valori vicini alla norma. Infine intervengono i meccanismi renali (intervento a lungo
termine), che sono molto potenti ma richiedono un tempo più lungo, da giorni fino a mesi, per eliminare
con le urine gli acidi o le basi in eccesso o per compensarne le perdite.
Pertanto per un aumento acuto della concentrazione idrogenionica del sangue, per esempio per elevata
produzione di acido lattico durante esercizio fisico molto intenso, gli ioni H+ vengono tamponati dai
bicarbonati, che li legano formando acido carbonico, il quale si dissocerà ad anidride carbonica e acqua. Di
conseguenza avremo una diminuzione dei bicarbonati ematici e un aumento dell’anidride carbonica; il
rapporto ([HCO3-] / [CO2]) tende a diminuire e di conseguenza il pH, se non subentrasse un aumento della
ventilazione polmonare indotto dalla stimolazione del centro respiratorio da parte dell’aumentata PaCO2.
La conseguente maggiore eliminazione di CO2 produce un aumento del rapporto, andando a normalizzare il
pH.
Tuttavia, i chemocettori in grado di registrare le variazioni di pH, essendo presenti solo a livello ematico,
saranno in grado di rilevare solamente acidosi o alcalosi sistemiche e non locali. Ciò che accade localmente
infatti non va a stimolare la ventilazione o il sistema renale. Ciò che accade in un compartimento è
constatabile solamente attraverso delle biopsie.
Durante esercizio fisico, superata una certa soglia di intensità, cominciamo ad iperventilare in maniera
sproporzionata rispetto alle richieste di ossigeno. Ciò è dovuto alla stimolazione dei centri respiratori in
seguito a rilevazioni da parte dei chemocettori di acidosi sistemica. L’acidosi sistemica in questo caso è data
da un aumento della concentrazione di idrogenioni dovuta all’accumulo di acido lattico. L’accumulo
ematico deriva da un disequilibrio tra quantità introdotta nel torrente ematico e quantità rimossa dai
tessuti in grado di metabolizzarlo (fegato, cuore e fibre I; IIa in cui vi è ossigeno). L’accumulo di acido
lattico, porta alla sua progressiva dissociazione in La- e H+, causando un aumento del pH. La soglia di
intensità oltre la quale avviene questa iperventilazione è detta “punto di accumulo di lattato/ di soglia
ventilatoria”. Nel caso in cui, come in un test incrementale, l’intensità dell’esercizio dovesse aumentare,
arriveremmo al superamento di una seconda soglia, oltre la quale la ventilazione riceve un ulteriore
incremento. Ciò è dovuto all’esaurimento dell’effetto dei sistemi tampone, che devono essere compensati
da un maggiore stimolo ventilatorio. Questa seconda soglia è detta “seconda soglia ventilatoria”.
L’intervallo presente tra le due soglie è detto “parte compensatoria dell’esercizio”.

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