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ROMANELLO Stefano [mercoledì, 25 gen 2017]


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I MODELLI ELLENISTICI IN Rm 1 – 3,20


STEFANO ROMANELLO
1. La retorica
1.1 la presenza di un intento persuasivo
Cfr. 3,19ab oi;damen de. o[ti o[sa o` no,moj le,gei toi/j evn tw/| no,mw| lalei/( i[na pa/n sto,ma fragh/|…
oi;damen enunciato metargomentativo = “oltre” il contenuto dell’argomentazione si sottolinea che
c’è un riconoscimento convergente su di esso da parte di Paolo e di un interlocutore, evidentemente
supposto con questo tipo di enunciato (cfr. anche 3,19; 7,14; 8,22.28; 1Cor 8,1.4; 2Cor 5,1, ma può
essere coniugato anche alla prima singolare, o alla seconda plurale, o al participio…).
Suo contenuto: i destinatari delle locuzioni del no,moj, entità personificata. evn tw/| no,mw| cfr. 2,12,
equivalente a u`po. no,mon. Sono coloro che riconoscono l’autorità della legge, e questa dev’essere
necessariamente quella mosaica (altri popoli riconoscono l’autorità delle loro leggi). Siffatto
riconoscimento è peculiarità di un interlocutore ebraico, su cui possono convenire anche i
destinatari romani della sua lettera; quindi duplice soggetto di oi;damen (cfr. Cranfield I, 143;
Wolter, 168; solo i destinatari della lettera: Pitta, 194). La parola del no,moj è quella dei vv.10-18,
sebbene i testi citati non siano della Torah, ma dei profeti o degli scritti: sineddoche (una parte per il
tutto) dell’intera Scrittura.
i[na pa/n sto,ma fragh/|… a partire dalla convinzione comune, si prosegue evidenziando la finalità
della citazione scritturistica. Essa risulta una parola senza appello per ogni “bocca”, che si ritrova
così nell’impossibilità di replicare agli enunciati dei vv.10-18. Nota l’antitesi:
Scrittura (Dio): PARLA Bocca (uomo): TACE
La premessa ha incluso in questa situazione esplicitamente il popolo assoggettato alla legge.
3,19bc: nota il chiasmo:
A pa/n sto,ma B fragh/|
B kai. u`po,dikoj ge,nhtai
1
A1 pa/j o` ko,smoj
L’impossibilità di replica comporta l’essere coinvolti nell’accusa scritturistica di colpevolezza.
Per l’aggettivo pa/j caratterizzazione interetnica, cfr. v.9: ogni privilegio ebraico rispetto agli altri
popoli è scalzato, non esiste alcuna distinzione tra di essi.
I versetti che circondano la citazione ne chiariscono la funzione e la portata. In essi Paolo
coinvolge i propri interlocutori a partire da convinzioni condivise per farli convenire su dei risvolti
assolutamente inediti delle stesse. Ma ciò è suffragato da un’autorità per così dire superiore,
riconosciuta come tale da entrambi. Paolo palesa qui un intento persuasivo: deve convincere,
guadagnare l’approvazione di ciò che sta dicendo. E questo, naturalmente, pone il suo scritto
nell’ambito della retorica (cfr. Aristotele, I,2,1355b “scoprire in ogni argomento ciò che è in grado
di persuadere”). Secondo la sua catalogazione, poi, l’elenco scritturistico potrebbe essere incluso tra
le pisteis atechnoi, che non sono procurate dal singolo ma si trovano già a sua disposizione. Ma
come riconosce Cicerone, il loro utilizzo dipende sempre dall’oratore (de Oratore II,116-117. Cfr.
anche Quintiliano V,1,2). Più precisamente, Paolo fa ricorso a una prova d’autorità, che teorici
moderni dell’argomentazione ritengono opportuno giunga a termine di una ricca argomentazione
(Perelman – Olbrechts-Tyteca III § 70), proprio come in questo caso, essendo 3,20 la conclusione di
una prima considerevole sezione argomentativa (cfr. infra).
Fino a che punto Paolo segue la manualistica retorica? Verificare lettera per lettera

1.2 la propositio (1,16-17)


passaggio da 1,15 a 1,16: dal tenore relazionale Paolo – comunità di Roma a considerazioni
generali sul vangelo. euvaggeli,sasqai / euvagge,lion parole-gancio (o anadiplosis, forma di transitio,
ad Her IV,35; Cf. Longenecker). enunciato solenne ma generico, si accavallano termini che non
sono spiegati. O costituiscono un mero inciso (es.: 2,16b) o sono termini che attendono una
spiegazione e rendono i versetti propositio (Arisotele III,13,1414a; ad Her 2,28; Quintiliano IV,4;
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Cicerone, de Inventione, I,31-33 [definendola partitio]). Per l’importanza della sua individuazione
cfr. Aletti 1997, 29: chiarisce gli intenti attorno a cui Paolo strutturerà le sue affermazioni.
Nondimeno Paolo lo fa in modo incoativo, senza far comprendere tutti gli sviluppi successivi, che
andranno individuati dalla lettura della probatio stessa.

1.3 la subpropositio di 1,18 e la prova dei fatti di 1,19-32


Ciò è subito verificato dall’accostamento sorprendente tra i vv.17-18
dikaiosu,nh ga.r qeou/ evn auvtw/| avpokalu,ptetai
ga.r ovrgh. qeou/ avpV ouvranou avpokalu,ptetai
Ciò può far sorgere tanti interrogativi: se il ga.r del v.18 è veramente causale, l’ira di Dio è in
qualche modo “compresa” nel vangelo, quale suo risvolto negativo? Il vangelo rivela
necessariamente la giustizia di Dio per fede, perché altrimenti vi sarebbe solo al sua ira? (Cranfield
I, 111?) o è spiegato da ciò che segue, cosicché l’ira, che di fatto è “dal cielo”, e non “nel vangelo”,
è il giudizio escatologico dal quale Dio tutela i giustificati? (cfr. Fitzmyer, 277; Penna, 171-174,
Wolter, 130-131). Se così, il versetto è una subpropositio che annuncia a sua volta uno sviluppo
successivo, e andrà vista innanzitutto in relazione a questo – mentre la relazione con l’enunciato
principale è una questione che dovrà essere ripresa in seguito (Sulle varie comprensioni della
sezione nel dibattito scientifico Cfr. Romanello, 98-100).
Per il seguito, contrariamente a una presupposizione ricorrente, è decisiva l’osservazione di
Aletti, per il quale “Rm 1,18… indique sur ou contre quelle catégorie d’hommes se révèle la colère
divine, à savoir ceux (et ceux-là seuls) qui commettent l’injustice. La phrase ne dit donc pas que
tous les hommes sont injustes et impies” (Aletti 2009, 478, Id. 2015, 123. Cfr. anche Pitta, 84).
Il seguito del capitolo è strutturato da un’alternanza tra:
AGIRE UMANO RETRIBUZIONE DIVINA (pare,dwken
auvtou.j o` qeo,j …)
vv.21-23 v.24
v.25 vv.26-27
v.28a vv.28b-31
Prima della propositio e delle prove la manualistica retorica, soprattutto per il caso della retorica
giudiziaria, prevede la narratio dei fatti su cui verterà la successiva prova (Quintiliano IV,2,31;
Cicerone, de Inventione, I,27-30, de Oratore II,326-330; però non sempre: cfr. ad Her II,28). Si
vede come Paolo non segua quest’ordine e argomenti senza narrationes. La presenza di tempi
verbali aoristi potrebbe far catalogare questo brano come tale, ma poiché la reazione divina illustra
l’ira dapprima enunciata è meglio considerarla come “prova dei fatti” (Aletti 2009, 480). Nel suo
nucleo il brano afferma che il non riconoscimento di Dio e della sua gloria è ciò che provoca la
reazione divina. Sebbene un’ampia letteratura giudaica attribuisca questo al mondo pagano (es.: Sap
13 – 14) è rilevante qui che ta. e;qnh non appaia.

1.3 il seguito della prova al cap.2


Caratteristiche letterarie:
-) Disposizione in parallelo (sviluppo di Aletti; figure conosciute nelle varie forme di isokolon da
Quintiliano IX,3,76-80):
- apostrofe 1a: Ogni uomo che giudica 17-20: tu, giudeo…
- soggetto colto nella sua 1bss: Giudichi altri, fai le 21ss: comportamento non
contraddizione stesse cose conforme alla tua identità
- affermazione scritturistica v.6: allusione a Sal 62,12, Pr v.24: citazione di Is 52,5
24,12
- livellamento di situazioni 7ss: imparzialità divina verso 25ss: verso ridefinizione del
giudei e greci giudeo
- Dio vede il cuore 16: Dio giudica il segreto 29: circoncisione del cuore e
lode a Dio
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-) Chiasmi (conosciuti con il nome di antimetabolē, ad Her IV,39, Quintiliano IX,3,85): cfr.
vv.6-11:
A o]j avpodw,sei
e`ka,stw| kata. ta.
e;rga auvtou/\
B toi/j me.n kaqV
u`pomonh.n e;rgou
avgaqou/ do,xan kai.
timh.n kai.
avfqarsi,an
zhtou/sin
C zwh.n aivw,nion(
D toi/j de. evx
evriqei,aj kai.
avpeiqou/si th/|
avlhqei,a|
peiqome,noij de. th/|
avdiki,a|
E ovrgh. kai. qumo,jÅ
E1 qli/yij kai.
stenocwri,a
D1 evpi. pa/san
yuch.n avnqrw,pou
tou/
katergazome,nou to.
kako,n( VIoudai,ou
te prw/ton kai.
{Ellhnoj\
C1 do,xa de. kai.
timh. kai. eivrh,nh
B1 panti. tw/|
evrgazome,nw| to.
avgaqo,n( VIoudai,w|
te prw/ton kai.
{Ellhni\
A1 ouv ga,r evstin
proswpolhmyi,a
para. tw/| qew/|Å
(si possono fare alcune considerazioni sull’applicazione del modello di “retorica semitica”
all’epistolario paolino. Risulta pregiudiziale la separazione netta tra cultura semitica ed ellenistica al
I° sec, ma soprattutto non rende conto dello sviluppo del pensiero delle sezioni D1B1). Il sintagma
VIoudai,w| te prw/ton kai. {Ellhni, che caratterizza i vv.9-10 rispetto a quelli correlati 8-9, è la prima
ripresa verbale della propositio 1,16-17, segno di un’attenzione alle relazioni inter-etniche.

-) apostrofe (2,1.17; cfr. ad Her. IV,22, Quintiliano IV,1,63; IX,2,27.38). Per Bultmann, nella
sua tesi del 1910, questo è segno di un genere caratteristico di filosofi cinico-stoici, la “diatriba”,
che come peculiarità è il rivolgersi all’interlocutore con domande (cfr. vv.2-3.21-23) e risposte. Ma
questa dinamica meta-argomentativa è ben compresa dalla retorica: Quintiliano IX,2,7-15;
Cicerone, de Oratore, 203.207, ad Her IV,33… che menzionano il fare domande e il rispondere a
se stessi, …

Introdotta in tal modo la sezione, verifichiamo come questi modelli letterari ci guidano nella
comprensione contenutistica (a grandi linee) del cap.2. Chi è il soggetto che giudica in 2,1? E in
cosa consiste il motivo che lo fa apostrofare? Non può essere costituito dai vizi dei vv. precedenti,
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che a detta di qualcuno chi giudica anche commette (Fitzmyer 299; Wolter 167-168). Questi
apparivano più come sanzione per un peccato originario, e l’argomentazione ora non dice che non è
possibile operare il bene, anzi: cfr. vv.7.10!). Il punto di partenza mi sembra l’osservazione di
Penna secondo il quale lo scopo dell’argomentazione è teologico, fa vedere che solo Dio ha il diritto
di giudicare, perché solo il suo giudizio è secondo verità (cfr. v.2 e soprattutto v.16, conclusione
della prima unità letteraria). Possiamo allora proseguire, considerando che il soggetto che giudica
“fa le stesse cose” dei soggetti stigmatizzati nel brano precedente in quanto non riconosce Dio come
Dio, nell’atto stesso di giudicare si sostituisce a Dio ponendo una creatura (se stesso) al posto del
Creatore (1,25)! È possibile essere più precisi sulla sua identità? Non è l’appartenente a una
categoria etnica determinata, come il giudeo (così invece Cranfield 138-140, Fitzmyer 297); la
locuzione del v.1 enfatizza che ad essere di mira è ogni uomo che giudica, a qualsiasi etnia
appartenga, e i vv.9ss sono inclusivi di ogni categoria etnica. Non è nemmeno lo stesso dei versetti
precedenti (così invece Pitta 103) perché, al contrario di quelli (cfr. 1,32) giudica e non approva chi
fa tali sconcezze. Piuttosto tali versetti mettevano in scena un giudizio che un soggetto,
indeterminato, rivolgeva senza appetto ad altri soggetti, pure indeterminati; perché agiscono da
idolatri sono ritenuti “inescusabili” (1,20). Ma poiché tale soggetto, con il suo giudizio, compie le
medesime cose che compiono quelli, col suo stesso metro egli stesso si dimostra inescusabile (2,1).
Paolo ha così teso una trappola a chi si ritiene in un atteggiamento di superiorità verso altri,
denunciando l’incoerenza presente nel suo stesso atteggiamento. Che poi questo soggetto si riveli
giudeo (vv.19-20) è ben vero, ma non è esplicitato a questo punto dell’argomentazione. Bisogna
rispettare il blank del momento, riconoscendo piuttosto che essa va verso una progressiva
identificazione del giudeo (Wolter 163).
Ora, tale soggetto viene posto a confronto con tre criteri che caratterizzano il giudizio divino
secondo diffuse concezioni ebraiche: l’essere secondo le opere (v.6), l’imparzialità (v.11) e la
correlata sua conoscenza delle motivazioni interiori sorgive dell’agire (vv.15-16; cfr. Aletti 2009,
483-488). Ma se questi principi sono ben conosciuti, Paolo inizia a darne un’applicazione nuova.
L’imparzialità, ad es., era sostanzialmente intesa interna al popolo, a tutela delle sue categorie
povere e deboli (cfr. Dt 10,17; Giob 34,19, Sir 35,12ss…); per Paolo essa vale in relazione ai
popoli, alle etnie. Di fronte al Dio imparziale, che valuta l’interiorità decisionale di ogni individuo,
a qualsiasi popolo appartenga, il giudeo si trova progressivamente livellato a livello del non-giudeo.
La sua identità non si deciderà in un’appartenenza etnica esteriore e nella circoncisione della carne,
ma nella sua interiorità e nella circoncisione del cuore (vv.28-29). Anche in questo caso, se il tema
della circoncisione del cuore è ben conosciuto nella Scrittura, le specificazioni negative ouv ga.r o` evn
tw/| fanerw/| VIoudai/o,j evstin ouvde. h` evn tw/| fanerw/| evn sarki. peritomh, sono assolutamente
inaspettate, vero obbiettivo perseguito dall’argomentazione.
In 3,1 il supposto interlocutore paolino, che a questo punto è il giudeo apostrofato da 2,17ss,
prende la parola perché trova minacciata la sua peculiarità. A ciò Paolo risponde riconoscendola,
ma confinandola al piano storico di destinataria della rivelazione divina (v.2). Il punto è precisare lo
statuto attuale dello stesso, che è effettivamente al pari del greco nella situazione sotto il peccato.
Abbiamo visto che questo scopo è conseguito dalla prova d’autorità che si basa sulla Scrittura. Ma
questo non è ancora il momento definitivo dell’argomentazione. Nella peroratio dei vv.19-20, nota
bene Penna “Paolo non fa riferimento a una benché minima pena da subire in sconto dei peccati
commessi … è come se qui egli fosse attratto non più da ciò che ha detto prima, ma da ciò che sta
per dire nei successivi vv.21ss su una giustizia di ben altro tipo” (298). Questo, tra parentesi,
verifica una volta per tutte il carattere incoativo delle sue propositiones: l’argomentazione non è
affatto mirata a qualificare le caratteristiche dell’“ira” menzionata in 1,18 (cfr. Romanello, 101-
102). Cosicché “l’absence de différences face à la rétribution permet à la justice divine d’atteindre
gracieusement tous les humains de la même manière, par la foi seule, en vertu du principe
d’impartialité qui a sous-tendu l’argumentation depuis Rm 2,11 (Aletti 2009, 494). 3,21-22a lancia
proprio questo sviluppo e può essere considerata subpropositio per: 1) novità rispetto allo sviluppo
precedente; 2) ripresa dei termini enunciati nei versetti successivi; 3) recupero (e sviluppo) di
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termini della propositio generalis di 1,16-17. Qui non si ha il tempo per la disamina di tale novità,
rimandandola ad altri interventi.

1.4 la portata del ricorso alla retorica


Che il pensiero paolino in Gal/Rm abbia una rilevante attenzione a questioni inter-etniche interne
alle comunità dei credenti in Cristo è una delle (poche) acquisizioni su cui gli interpreti largamente
convengono, salvo poi differenziarsi radicalmente nel considerarla o predominante, rispetto alla
quale il ragionamento dell’apostolo è visto totalmente accessorio, e al limite episodico / incoerente
(New Perspective), o fattore occasionante una riflessione sui costitutivi dell’esistenza credente che
ha una profonda coerenza, e come tale offre ai destinatari delle lettere gli strumenti per ragionare
sulle scelte particolari (es. Aletti 2015, 15). In retorica questa seconda opzione significa porre la
quaestio finita all’interno del più ampio orizzonte della quaestio infinita (cfr. Cicerone, de Oratore
II, 133).
Ora, nella Lettera ai Galati la supposta distinzione di valore tra “Giudei” e “Genti peccatori” è
direttamente inficiata dal confronto con i dati fondamentali della fede cristiana: poiché entrambi
hanno cercato la giustificazione in Cristo, questa non ha ragione d’essere (2,15-16).
Nell’argomentazione analizzata della Lettera ai Romani questa è messa in discussione prima di
tematizzare i dati fondamentali della fede in Cristo, sulla base di postulati della fede ebraica (il
giudizio divino secondo le opere, la sua imparzialità, la sua conoscenza del cuore), Esse, ovvio,
sono fatte valere dal Paolo cristiano e dalle sue specifiche precomprensioni in quanto tale; tuttavia
la dimensione cristologica non viene qui fatta valere, al fine di argomentare da premesse
interamente condivise con il proprio interlocutore giudaico – e spiazzarlo su tale stessa base. Il
legame della subpropositio di 1,18 con l’enunciato generale precedente è blando, quasi
esclusivamente formale, perché serve a lanciare un ragionamento sulla base di tali premesse, per
poi, con i guadagni acquisiti da quello, giungere a riprendere e motivare gli enunciati generali.
Le premesse del ragionamento sono topoi, loci, codici culturali condivisi da determinati soggetti
di determinati gruppi. Esse sono tali perché riconosciuti “verosimili”, “proposizioni che si
verificano perlopiù”, come affermava Aristotele distinguendo l’ambito della retorica da quello della
filosofia (I,2,1356b). La “verosimiglianza” è una dimensione riconosciuta come tale in determinati
ambienti / interlocutori. Pensare retoricamente significa avere in mente un interlocutore e la sua
condizione, tenendo così in considerazione i contesti in cui determinate assunzioni possono essere
effettivamente persuasive, mentre in altri esse perderebbero la loro efficacia. Cicerone annotava che
una persona, pur estremamente colta, ma ignara degli usi e costumi di un ambiente difficilmente
potrà essere efficace in tale ambiente (de Oratore II,131). Paolo assume bene i topoi di chi si può
definire implied reader della propria argomentazione, per farlo convenire con la propria
convinzione. Un’esegesi attenta a queste dinamiche mette in evidenza la dimensione comunicativa
del testo, verifica come esso attivi il processo ermeneutico da parte del lettore. Può quindi essere
definita un’esegesi sincronico-pragmatica.

2. L’epistolografia
Lettera come “metà parte” di un dialogo tra amici (Ps.-Demetrio, sullo stile, Cicerone ad fam.
IX,21,1). In essa, oltre agli elementi standardizzati della cornice epistolare, sarà ovvio trovare nel
corpo della lettera la constatazione della lontananza tra lo scrivente e i destinatari, comunicazioni
sulle rispettive condizioni, annunci di prossime visite. Nella Lettera ai Romani ciò si verifica in 1,8-
15 e 15,14-32, sezioni che presentano vari parallelismi:
1,10.15 // 15,23ss.32 Paolo desidera passare per Roma per andare a evangelizzare la Spagna.
1,13 // 15,22 Paolo non è riuscito a realizzare questo desiderio nel passato.
1,12 // 15,14ss. Riconoscimento dei doni presenti nella comunità di Roma.
1,9.13 // 15,15ss. Affermazione dello statuto di apostolo di Paolo.
Queste pericopi, dalla natura prettamente epistolare, hanno anche la funzione retorica
rispettivamente di introdurre (exordium) e recapitolare (peroratio) la comunicazione tra Paolo e i
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destinatari. È universalmente raccomandato, in tali brani, il ricorso alla captatio benevolentiae, ben
ravvisabile in queste pericopi, mentre è clamorosamente assente in Gal.

3. Ricorso alla filosofia popolare


Cfr. 2,14: o[tan ga.r e;qnh ta. mh. no,mon e;conta fu,sei ta. tou/ no,mou poiw/sin( ou-toi no,mon mh.
e;contej e`autoi/j eivsin no,moj. Contesto: si va verso il livellamento degli statuti etnici. Il
collegamento (ga.r) con ciò che precede non è esplicito, si deve presupporre un entimema
(sillogismo retorico) di questo tipo: IA premessa (v.13): il giudeo verrà giudicato giusto nel giudizio
sulla base non del possesso, ma dell’attuazione della legge; IIA premessa (implicita): anche le genti
potranno essere giudicate giuste; conclusione (v.14a): infatti esse possono compiere la legge, pur
non possedendola. Se qui non è sviluppato è perché Paolo e il suo implied reader giudaico sono
assorbiti da un’evidente difficoltà: come possono “fare” la legge le genti che non la possiedono?
Questa fa sì che la conclusione di questo ragionamento sia nella forma di una subordinata che
introduce il nuovo sviluppo del v.14, in cui Paolo risponde che alcuni appartenenti alle genti
realizzano cose richieste dalla legge pur senza averla, e così sono “legge a se stessi”. ta. mh. no,mon
e;conta: denota la Torah pur senza articolo, perché le genti hanno le loro leggi! fu,sei: correlato a ciò
che segue; diversamente Cranfield I 156-157. Ma questo nasce dal voler qualificare ta. e;qnh in
questa sezione come giudeo-cristiani (denotazione largamente rifiutata dai più; il senso
dell’argomentazione non comprende questa possibilità, come visto sopra), i quali non possono
essere qualificati come tout-court privi della legge, ma come tali “per natura”. Tuttavia ciò è subito
smentito dal seguito del versetto, in cui la locuzione no,mon mh. e;contej è utilizzata in senso assoluto.
fu,sei invece qualifica il verbo poiw/sin, e chiarisce in forza di cosa le genti possono fare le
“cose” (richieste) dalla Tora. Il concetto è variamente diffuso in diverse correnti filosofiche
dell’ellenismo; il riferimento primo è allo stoicismo, per il quale la natura ha una razionalità
intrinseca, che la retta ragione può cogliere. Ma è pertinente anche un riferimento ad Aristotele,
Etica nicomachea IV,8,1128a, per il quale l’uomo educato e libero è tale da essere legge a se stesso.
I riferimenti sono riconosciuti da molti (cfr. Fitzmyer, 309-310; Penna I, 237-238, Pitta 116-117),
ma non da tutti; ad es., Wolter 165 traduce “…von sich aus das vom Gesetz Geforderte tun…”
intendendo fu,sei ripreso e ribadito da e`autoi/j eivsin no,moj (184-185, pur concedendo la possibilità
di un’analogia con Arisotele). Ciò è ben vero, ma non chiarisce come Paolo offra una risposta alla
difficoltà radicale che palesemente l’argomentazione ravvisa. Egli fa ricorso a topoi presenti in più
di una corrente filosofica, menzionati per inciso nella sua argomentazione, che così non si pone il
problema di ulteriori giustificazioni teoretiche sulla plausibilità degli stessi, e nemmeno sposa
l’intero sistema concettuale di cui sono espressione (per lo stoicismo, ad es., il panteismo
naturalista!). Se adopera il linguaggio della filosofia Paolo si dimostra più retore che filosofo.

Bibliografia essenziale
Fonti
Aristotele, Retorica
--, Etica nicomachea
Cicerone, De Inventione
--, De Oratore
--, Epistulae ad Familiares
Ps.-Demetrio, Sullo Stile
Quintiliano, Institutio Oratoria
Rhetorica ad Herennium
Commentari - studi
Aletti, J.-N., Justification by Faith in the Letters of Saint Paul. Keys to Interpretation (AnBib
Studia 5; Roma 2015).
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--, La Lettera ai Romani e la giustizia di Dio (Roma 1997).


--, «Rm 1-3: Quelle fonction? Histoire de l’exégèse et nouveau paradigme», in Id. – Ska, J.-
L. (edd.), Biblical Exegesis in Progress, Old and New Testament Essays (AnBib 176 ; Roma 2009),
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Cranfield, C.E.B., The Epistle to the Romans I (ICC; Edinburgh 1975).
Fitzmyer, J.A., Romans (AnchB 33; New York [NY] – London 1992).
Longenecker, B.W., Rhetoric at the Boundaries. The Art and Theology of the New Testament
Chain-Link Transitions (Waco [TX] 2005).
Penna, R., Lettera ai Romani I (Bologna 2004).
Perelman, Ch, – Olbrechts-Tyteca, L, Traité de l’argumentation. La nouvelle rhétorique (Paris
1958).
Pitta, A., Lettera ai Romani (Milano 2001).
Romanello, S., L’identità dei credenti in Cristo secondo Paolo (Bologna 2011).
Wolter, M., Der Brief an die Römer I, (EKKNT 6; Neukirchen-Vluyn 2014).

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