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Dal parlato alla grammatica Costruzione e forma dei testi spontanei

Book · October 2018

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1 author:

Miriam Voghera
Università degli Studi di Salerno
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Carocci editore Studi Superiori

Voghera Dal parlato alla grammatica


Quando parliamo usiamo la grammatica? Ovviamente sì. Ma allora
perché le regole che troviamo nelle grammatiche sono molto diverse
da quelle che usiamo parlando? Anche se la tradizione grammaticale
è legata soprattutto alla descrizione dei testi scritti, le stravaganze
dei testi parlati non sono segno di scorrettezza, ma frutto di strategie
di comunicazione ottimali nelle normali condizioni di spontaneità
e naturalezza tipiche dell’espressione orale.
Senza la lente deformante di modelli basati sullo scritto, il libro
analizza le proprietà della comunicazione parlata, passando in rassegna
gli aspetti legati a produzione, ricezione e percezione linguistiche
e mostra come la primarietà del parlato nella vita della specie
umana e dell’individuo non sia senza conseguenze semiologiche
per la configurazione generale dei sistemi verbali. In un percorso
che va dal testo alle parti del discorso, emerge in tal modo
la grammaticalità del parlato e la sua importanza per la costruzione
di un modello più adeguato di grammatica scientifica e didattica. Dal parlato
Miriam Voghera è ordinaria di Linguistica generale all’Università degli Studi
di Salerno. Le sue ricerche vertono principalmente sulla comunicazione
alla grammatica
parlata, la sintassi, la semantica e l’educazione linguistica. Per Carocci editore Costruzione e forma dei testi spontanei
ha pubblicato, con Silvia Luraghi e Anna Maria Thornton, Esercizi di linguistica
(2a rist. 2002).

Carocci Miriam Voghera


Progetto grafico: Falcinelli & Co.

ISBN 978-88-430-8891-1 Carocci editore Studi Superiori


editore

24,00 9 788843 088911

14
studi superiori / 1094

lingua e letteratura italiana


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Miriam Voghera

Dal parlato alla grammatica


Costruzione e forma dei testi spontanei

C
Carocci editore
1a edizione, ottobre 17
© copyright 17 by Carocci editore S.p.A., Roma

Impaginazione e servizi editoriali: Pagina soc. coop., Bari

Finito di stampare nell’ottobre 17


da Grafiche VD srl, Città di Castello (PG)

isbn ---8891-1

Riproduzione vietata ai sensi di legge


(art.  della legge  aprile , n. )

Senza regolare autorizzazione,


è vietato riprodurre questo volume
anche parzialmente e con qualsiasi mezzo,
compresa la fotocopia, anche per uso interno
o didattico.
1
Quando parliamo
usiamo la grammatica?

1.1
Il parlato senza grammatica
È opinione comune che quando si parla ci si possano concedere delle li-
bertà nell’uso della lingua che non sono ammissibili quando, per esem-
pio, si scrive. Benché schiere di insegnanti abbiano ripetuto infinite
volte che a me mi non si dice, di fatto lo diciamo frequentemente, come
pure diciamo ma però, e molte altre costruzioni sanzionate da sempre
dalle grammatiche scolastiche. Ciò viene spesso tradotto nell’idea che
il parlato sia fuori dal controllo della grammatica e che sia, addirittura,
senza grammatica. Se chiedessimo, infatti, di indicare gli aggettivi che
caratterizzano di più il parlato e quelli che caratterizzano la grammati-
ca, probabilmente la maggior parte dei parlanti produrrebbe due serie
di aggettivi che si oppongono: spontaneo, immediato, movimentato,
disordinato il primo; costruita, ragionata, stabile, ordinata la seconda.
Il parlato è spontaneo perché, in assenza di deficit, per imparare a
parlare non dobbiamo sottoporci a un programma di insegnamento
formale: è sufficiente che fin dalla nascita i piccoli della specie uma-
na siano inseriti in scambi comunicativi di cui diventano destinatari
e produttori, indipendentemente dal loro livello di conoscenza della
lingua. Gli adulti si rivolgono ai bambini fin dalle loro prime ore di
vita in modo naturale e spontaneo, non solo come se i bambini potes-
sero capire ciò che ascoltano, ma interpretando le loro vocalizzazioni,
gesti e movimenti come risposte intenzionali, cioè mosse comunicative.
Tutto ciò è ben illustrato dalla conversazione riportata qui di seguito
tra una madre e il figlio di 3 mesi (Crystal, 1986, p. 50), in cui la madre
considera le reazioni del neonato al pari di risposte verbali pienamente
significative e intavola con lui una vera e propria conversazione1.

1. Gli esempi e le trascrizioni di parlato riportate in questo libro derivano da fonti

15
dal parlato alla grammatica

(1)
Michael: (loud crying)
Mother: Oh my word what a noise! What a noise! (picks up Michael)
Michael: (sobs)
Mother: Oh dear, dear, dear. Didn’t anybody come to see you? Let’s have a
look at you (looks inside nappy). No you’re all right there, aren’t you?
Michael: (spluttering noises)
Mother: Well, what is it then? Are you hungry? Is that it? Is it a long time
since dinner-time?
Michael: (gurgles and smiles)
Mother (nuzzles baby): Oh yes it is, a long long time.
Michael: (cooing noise)
Mother: Yes, I know. Let’s go and get some lovely grub, then. How about
that...2

Come si vede, ogni vocalizzazione del bambino viene considerata un


atto linguistico vero e proprio, a cui la mamma reagisce verbalmente
con richieste, risposte, suggerimenti. Questo comportamento comu-
nicativo crea le basi per la costruzione dell’interazione verbale che, nel
corso di un paio d’anni, senza nessuno sforzo evidente, porta i bambini
a usare la lingua dei loro genitori o di chi si è preso cura di loro. In questi
scambi sia i piccoli sia gli adulti reagiscono in modo spontaneo e perso-
nale: apparentemente non ci sono regole, ciò che conta è che lo scambio
funzioni3. La grammatica, al contrario, è associata all’istruzione forma-
le, a qualcosa, cioè, che va appreso. È infatti comunemente considerata

e corpora diversi e inevitabilmente seguono sistemi di trascrizione diversi. Per evitare


interpretazioni indebite, ho mantenuto le trascrizioni originali, le cui convenzioni so-
no riportate all’inizio del volume nella pagina Simboli e convenzioni usati nelle trascri-
zioni e annotazioni dei testi. Gli esempi in lingua straniera sono normalmente tradotti
di seguito al testo; quando si tratta di testi più lunghi la traduzione è riportata in nota.
2. Trad. it.: «Michael: (pianto forte) Mamma: Oddio che rumore! (prende Mi-
chael in braccio) Michael: (singhiozzi) Mamma: Oh caro, caro, caro. Nessuno è venuto
a vederti? Adesso ti diamo una guardata (guarda nel pannolino). No, va tutto bene,
vero? Michael: (borbotta) Mamma: E allora? Che c’è? Hai fame? È così? È passato
tanto tempo dall’ora di cena? Michael: (gorgoglia e sorride) Mamma (soffiandogli il
naso): Oh sì, tanto tempo. Michael: (tubando) Mamma: Sì, lo so. Andiamo e prendia-
mo qualcosina di buono da mangiare. Che ne dici di questo...».
3. Ciò non vuol dire che gli adulti non siano consapevoli del ruolo di stimolo che
hanno i loro comportamenti comunicativi nei confronti dei piccoli; sull’importanza
di questa consapevolezza da parte delle madri si veda McNeill (2012) e la bibliografia
in esso contenuta.

16
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

una costruzione logica e sovrapposta alla lingua che si parla tutti i gior-
ni, a cui non appartiene e che tanto meno appartiene ai parlanti.
Il parlato è immediato perché ci permette di avere un contatto di-
retto con il nostro destinatario attraverso il dialogo. Benché si possano
produrre monologhi parlati, il contesto naturale e primario della co-
municazione parlata, come abbiamo già visto, è lo scambio dialogico,
la cui testualità è impastata di intersoggettività, al punto tale che si può
credere che la sequenza verbale sia secondaria e con essa la grammati-
ca. La grammatica, al contrario, è considerata una costruzione astratta,
tanto è vero che per la maggior parte dei parlanti è priva di qualsiasi
riferimento agli scambi reali. Del resto, come vedremo più avanti, la
stragrande maggioranza delle grammatiche è basata su esempi costitu-
iti da frasi isolate più o meno complesse, che non hanno un emittente
e un destinatario dichiarati o individuabili.
Il parlato è movimentato perché si svolge nel tempo, in cui sono
rilevanti le variazioni di velocità e ritmo, elementi dinamici per anto-
nomasia, ed è instabile perché è effimero e non lascia alcuna traccia, se
non nella nostra memoria. La grammatica, invece, è ritenuta una co-
struzione stabile, durevole, affidabile perché deve garantire continuità
alla lingua, quasi ad eliminare l’esistenza del tempo e del mutamento.
Infine il parlato, proprio perché dinamico, può essere disordina-
to, persino caotico: alternanze, interruzioni, sovrapposizioni, cambi di
strategie e argomenti in corso d’opera sono ciò che più di qualsiasi cosa
caratterizza gli scambi parlati. Inoltre quando si parla, si improvvisa:
può capitare di inserire nel discorso parole in modo imprevedibile. Se
ne può avere un’idea con il testo (2), in cui due parlanti romani mesco-
lano l’uso dell’italiano con quello della varietà romana, o con il testo
(3) in cui il parlante, raccontando la scena di un film, produce molte
ripetizioni4.

(2) lip-rb29
B: okay ahò te raccomando dijelo

4. Il testo (2) è tratto dal corpus lip, De Mauro et al. (1993), di cui è ora disponi-
bile la versione volip, Voghera et al. (2014), che permette di ascoltare l’audio, anche
di una singola parola, associato alle trascrizioni ortografiche; il volip consente inol-
tre di interrogare il corpus secondo criteri sociolinguistici, lessicali e morfo-sintattici
all’indirizzo www.parlaritaliano.it/index.php/it/volip. Il testo (3) è tratto dal corpus
clips, disponibile all’indirizzo www.clips.unina.it. Le fonti degli esempi sono citate
prima del testo.

17
dal parlato alla grammatica

A: e scusa che non t’ho telefonato subito però ieri sera c’ho avuto dei proble-
mi ieri sera so’ arrivato alle otto e mezza a casa_
B: va bo’ va bo’
A: e allo<ra> stamatina ho detto famme leva’ er pensiero da_ denuncia dii
redditi perché io la consegno sempre qua vicino # a mano
B: ho capi<to> sì sì

(3) Ferrante (2016)5


allora <sp> quindi il film che ho visto è un film tratto da<aa> <ehm> da
Charlie Chaplin intitolato Il Monello del millenovecentoventuno <sp> ed
è<èè> <ehm> / diciamo s’intitola appunto Il Monello sotratto a Charlot
<sp> e parla di questo bamb+ cioè / almeno la<aa> la scena iniziale <sp>
con cui si apre il film <ehm> mostra chiaramente che <ehm> / come que-
sto bambino venga sottratto diciamo<oo> rapito in qualche modo sottratto
a Charlot <sp> e <ehm> diciamo che la scena<aa> / perlomeno la<aa> la
scena iniziale del film è ambientata in una stanza <sp> in una camera <sp>

Insomma il parlato sembra incompatibile con la stessa nozione di nor-


ma (Narbona Jiménez, 2003), e quindi di una grammatica, che possa
sempre fornirci un insieme di regole ordinate che ci mettono al sicuro
dalla babele del divenire e della mescolanza linguistiche. Nel senso co-
mune, dunque, il parlato e la grammatica sembrano trovarsi su fronti
opposti, poiché la naturalezza e l’immediatezza del parlare mal si con-
cilia con l’idea di grammatica prescrittiva e normativa, con cui la mag-
gioranza dei parlanti ha familiarità fin dai tempi della scuola.
Ma lo iato tra riflessione grammaticale, e più in generale metalin-
guistica, e parlato ha radici storiche e teoriche che vanno al di là delle
grammatiche scolastiche (Sornicola, 1981; Blanche-Benveniste, 1997;
Milani, Finazzi, 2004; Linell, 2005). Succede così che tranne poche
luminose eccezioni – si pensi alla ben nota A Comprehensive Grammar
of the English Language di Quirk et al. (1985) – la maggior parte delle
grammatiche di riferimento trascura il ruolo della modalità di codi-
ficazione e trasmissione nel dar forma alle produzioni linguistiche e

5. I dati, raccolti da Gabriella Ferrante per la sua tesi di laurea magistrale in Lingue
e letterature moderne presso l’Università di Salerno, a.a. 2015-16, dal titolo Parlato e
scritto a confronto: una nuova metodologia, rientrano nell’ambito del progetto di ricer-
ca Modokit. Il progetto ha lo scopo di costruire strumenti di osservazione e intervento
didattico sul rapporto tra modalità di comunicazione e scelte linguistiche; a tal fine
si è raccolto un corpus di narrazioni orali e scritte di studenti di scuole secondarie e
universitari, che raccontano scene di film muti di Charlie Chaplin.

18
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

presenta la lingua come un oggetto “amodale”, che di fatto coincide con


le sue manifestazioni scritte.
Per non incorrere in fraintendimenti, è necessario introdurre subito
una distinzione, cui faremo spesso ricorso: quella tra canale e modalità.
Indicheremo con canale di comunicazione o trasmissione la via fisica
di trasmissione o propagazione di un segnale: il canale fonico-uditivo,
gestuale-visivo, grafico-visivo indicano quindi i canali normalmente
usati per parlare, comunicare con le lingue dei segni, scrivere. Indiche-
remo invece con modalità di comunicazione l’insieme delle condizioni
semiotiche e comunicative che un canale solitamente e/o preferenzial-
mente impone all’uso di un codice di comunicazione, per esempio al
linguaggio verbale. Il fatto che nelle nostre società alcune forme del
rapporto tra canale e modalità si siano culturalmente e storicamente
stabilizzate non ci deve indurre a credere che tra canale e modalità ci
sia un rapporto meccanico: possiamo adottare infatti più modalità di
comunicazione pur usando lo stesso canale. Per esempio diremo che sia
lo scritto a stampa tradizionale e sia molta comunicazione mediata dal
computer usano il canale grafico-visivo, ma appartengono, evidente-
mente, a modalità di comunicazioni molto diverse. Nello stesso modo
possiamo avere diverse modalità di comunicazione usando il canale
fonico-uditivo: si pensi alle differenza di modalità comunicativa tra il
parlato faccia a faccia e il parlato telefonico. Come si dirà meglio nel
cap. 2, tra canale e modalità non vi è un rapporto biunivoco, ma un
rapporto di correlazione: dato l’uso di un determinato canale è molto
probabile che si sviluppi una modalità di comunicazione con specifiche
caratteristiche.
L’esclusione del parlato dall’oggetto di descrizione delle gramma-
tiche e il fatto che esso esibisca meccanismi e strategie diversi da quelli
normalmente descritti nella maggior parte delle grammatiche hanno
rafforzato l’idea comune che esso fosse meno regolare dello scritto, e
in qualche caso addirittura senza grammatica. Eppure gli studi sulla
lingua parlata concordano sul fatto che gli enunciati e i testi parlati
presentino caratteristiche molto regolari e simili in tutte le lingue, che li
rendono sistematicamente diversi, per esempio, da quelli scritti. Negli
anni Novanta del Novecento si è molto discusso su quale fosse la causa
di queste differenze e se esse dipendessero dalle proprietà dei canali
usati o da grammatiche diverse (cfr. Berruto, 1985). Possiamo dire fin
da subito che nessuna delle due alternative è sembrata una spiegazione
realistica: le peculiarità del parlato non dipendono dall’uso di uno spe-

19
dal parlato alla grammatica

cifico canale né tanto meno di una specifica grammatica. Nel corso di


questo libro mostreremo che la forma dei testi parlati è il risultato della
felice compenetrazione tra uso del codice verbale e modalità parlata. Il
nostro scopo è, infatti, quello di mostrare che, date le proprietà della
modalità parlata e delle lingue storico-naturali, i testi parlati spontanei
esibiscono le strutture più funzionali, grammaticali e ben formate pos-
sibili. Ciò non toglie, come vedremo, che all’interno dei vincoli e delle
potenzialità della modalità parlata esistano molte variazioni possibili
e che parlatori addestrati possano produrre nelle stesse condizioni te-
sti meno evidentemente parlati, ma in questo caso non si tratta più di
parlato spontaneo.

1.2
La grammatica senza parlato
Esiste un legame tradizionale tra insegnamento grammaticale e scrit-
tura, un legame antropologicamente e storicamente motivato, testi-
moniato tra l’altro dall’etimologia stessa della parola grammatica che,
tramite il latino ars grammatica, deriva dal greco tèchne grammatikè
letteralmente ‘scienza delle lettere’. Non è dunque sorprendente che
i testi scritti abbiano occupato un posto privilegiato nell’ambito del-
la pratica grammaticale. Ciò che sorprende è, piuttosto, la persistenza
dell’accettazione di un legame implicito necessario tra testi scritti e te-
orie linguistiche (Linell, 2005)6.
È solo dopo la nascita della scrittura che si sono sviluppate pratiche
di riflessione sistematiche sulle lingue (Havelock, 1963; Goody, 2000).
Le produzioni foniche sono effimere: non si può tornare sopra un
enunciato appena detto come si può fare con un enunciato scritto, poi-
ché le tracce acustiche non permangono. L’evanescenza degli enunciati
non permette quindi né all’emittente né al ricevente di avere di fronte il
testo prodotto nella sua interezza, ma costringe gli attori dello scambio
comunicativo a seguire di pari passo lo svolgersi dell’enunciazione. La
contemporaneità della fase di emissione e di ricezione dei segnali fa sì

6. Per una sintesi dei problemi connessi al rapporto tra riflessione metalinguistica
e scrittura: Lepschy (1990-1994); Ong (2002), una riedizione con un’aggiunta dell’o-
riginale del 1982; Olson (1994); Goody (2001); Valeri (2001); Mancini, Turchetta
(2014), in cui segnalo in particolare il saggio di Marazzi.

20
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

che le sequenze di produzione articolatoria e ricezione uditiva dei suo-


ni quasi coincidano, contrariamente a quanto avviene normalmente
quando si scrive e si legge. Ciò lega inesorabilmente l’enunciato all’e-
nunciazione e non permette di riprodurre in modo spontaneo e natu-
rale la parola detta al di fuori dell’evento in cui è stata creata e ascoltata.
Questo in assenza di scrittura o strumenti di registrazione e riprodu-
zione rende molto difficile, se non impossibile, l’analisi linguistica e
soprattutto il confronto tra enunciati prodotti in momenti diversi.
La scrittura ha dotato così le lingue di due proprietà decisive ai fini
della riflessione metalinguistica: le ha rese visibili e permanenti. La
scrittura trasferisce sulla pagina il fluire della produzione linguistica
permettendo ai parlanti di vedere la lingua al di fuori di se stessi, cioè
indipendentemente dai produttori/ricettori e dalle concrete pratiche
comunicative; a ciò si aggiunge che la scrittura fissa le fonie renden-
dole recuperabili. In tal modo l’enunciato, la parola detta, ciò che era
originariamente necessariamente legato al singolo e specifico evento
comunicativo, e che di conseguenza ne era parte inscindibile, diventa
(o può diventare) un oggetto separato, osservabile in sé. La scrittura
crea quindi una distanza tra i parlanti e la lingua, rendendo possibile
un processo di oggettivazione delle lingue, che pertanto possono es-
sere osservate, studiate, analizzate. Le nuove potenzialità create dalla
scrittura rendono ben chiara la differenza tra canale e modalità e la
rilevanza semiotica di quest’ultima. È a questo che si riferisce Goo-
dy (ivi, p. 144), quando definisce la scrittura una nuova tecnologia
dell’intelletto:

So when I use the phrase “technology of the intellect” about writing, I am


thinking mainly not about the primary level of physical instrumentation but
about the way that writing affects cognitive or intellectual operations, which
I take in a wide sense as relating to the understanding of the world in which
we live, especially the general methods we use for this.

Le proprietà fisiche dei segnali grafico-visivi rispetto a quelli dei segnali


fonico-uditivi hanno certamente contribuito in modo determinante al
costituirsi della riflessione grammaticale, ma ben più profondo è il rap-
porto che si è creato tra operazioni cognitive e pratiche comunicative
che ne sono derivate. Come ben sappiamo, la fisionomia che la scrittura
ha assunto nel corso della sua storia dipende fortemente dalle partico-
lari condizioni in cui è stata usata, e cioè sia dall’identità e dal ruolo

21
dal parlato alla grammatica

sociale dei suoi utenti, sia dai significati che più frequentemente questi
utenti esprimevano attraverso di essa: è questo che ha contribuito a fare
della scrittura il modello di riferimento delle trattazioni grammaticali
per eccellenza.
I testi scritti hanno rappresentato all’interno delle varie comunità
usi linguistici esclusivi e riservati ad élites sociali e culturali, e perciò
stesso prestigiosi. La scrittura seleziona storicamente un gruppo ristret-
to di utenti che ne dominano l’uso e la diffusione negli usi più uffi-
ciali e socialmente elevati. Benché qualsiasi contenuto sia esprimibile
sia attraverso il parlato sia attraverso lo scritto, nel momento in cui si
comincia a diffondere la scrittura si cominciano a differenziare anche
i contenuti e gli usi della scrittura dai contenuti e dagli usi del parlato7.
Tutto ciò che è pubblico, istituzionale, formale è associato alla prima,
mentre al secondo sono destinate le pratiche più private e personali.
Poiché il prestigio di un uso linguistico deriva dagli utenti e dal fine
della comunicazione, il fatto che la lingua degli usi scritti sia usata da
persone selezionate e per scopi pubblici e istituzionali ne ha determi-
nato il maggior prestigio e valore sociale.
I testi scritti, tra cui naturalmente hanno un posto speciale quelli
letterari, diventano dunque quelli sui quali si tende a costruire la nor-
ma e quindi la lingua standard, indipendentemente dal fatto che essi
rispecchino la lingua nativa comunitaria o la lingua condivisa dalla
maggioranza dei parlanti (Lepschy, 2002a). Il processo di costituzione
di una lingua standard è infatti fortemente connesso sia alle pratiche
di scrittura sia alla creazione di un canone di testi letterari e istituzio-
nali cui si assegna il ruolo di conservare e rappresentare il patrimonio
linguistico della comunità (cfr. Berruto, 2007; 2012). I testi scritti di-
vengono quindi testi di riferimento per la costituzione dell’identità
linguistica, ed eventualmente etnica e nazionale e, tra questi, assumo-
no un ruolo decisivo i dizionari e le grammatiche che hanno il compito
di dare dignità alla forme linguistiche che le realizzano. La maggior
parte delle grammatiche nasce storicamente non tanto come trattazio-
ne scientifica, ma come sistematizzazione di lingue di riferimento, il
cui modello è prevalentemente, se non esclusivamente, la lingua delle

7. La differenziazione delle pratiche culturali e dei contenuti tra le varie mo-


dalità di comunicazione non avviene in tempi rapidi e, soprattutto, non avviene in
tempi uniformi in tutte le zone di diffusione della scrittura; si vedano Basile (2014)
e le opere citate nella nota precedente.

22
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

istituzioni e delle classi dirigenti e, tra questi, dei letterati (cfr. Goody,
2000)8.
Il rapporto privilegiato tra testi scritti letterari e sistematizzazioni
grammaticali è presente non solo nelle grammatiche normative, il cui
scopo è codificare ciò che è linguisticamente preferibile, ma anche nelle
grammatiche descrittive e scientifiche moderne9. Dalla prima metà del
Novecento il paradigma dello strutturalismo classico sia europeo sia
americano, e successivamente la linguistica generativa, si sono mossi in
una prospettiva formalista che ha ignorato lo studio degli aspetti legati
alla materialità (fisica o psichica) della comunicazione linguistica. Ai
fini della delimitazione della struttura delle lingue o, per il generati-
vismo, della Grammatica Universale, ovvero della facoltà del linguag-
gio geneticamente determinata, qualsiasi sostanza è equivalente, cioè
indifferente. Ciò che conta è l’insieme dei puri rapporti di valore tra
gli elementi del sistema, non ciò che li sostanzia e/o il processo che ne
supporta la trasmissione. Ciò non ha incoraggiato l’uso di materiali
spontanei ed autentici, confermando una pratica logico-grammaticale
consolidata, che azzera qualsiasi riferimento extralinguistico. Si usa
pertanto materiale linguistico costruito ad hoc in un contesto che pos-
siamo chiamare citazionale10. Ciò dipende oltre che dal perdurare della
tradizione, anche dal fatto che l’uso di frasi isolate scritte e formali ben
si adatta ad una grammatica desoggettivata e desemantizzata, qual è sta-
ta la forma di grammatica prevalente della linguistica teorica moderna
(Lepschy, 1966). Ne è una prova il fatto che questa prospettiva, poiché
ignora gran parte della semantica, il côte pragmatico, in qualsiasi modo
sia espresso, e tutto ciò che possa essere attribuito a fattori di linguistica
esterna, individuali o sociali, non incoraggia l’uso di materiali sponta-

8. Cfr. Goody (2000, p. 144): «At one level that is true, for all languages have
a grammar. But “grammars” occur only in societies with writing. [...] Because the
“grammar” organizes, it reorganizes the linguistic material and changes the actual
situation not merely in an academic sense, not only by making the study of language
more “scientific,” but by a process of feedback whereby the “grammar” becomes a
model for speakers of that natural language, and hence may delay change or in-
stitutionalize usage [...]. The same is true of dictionaries. Words everywhere have
meanings. But dictionaries do not only teach how to spell; they spell out meanings
in a standardized way, “dictionary definitions,” which then become the norm and
the starting point of a discussion».
9. Per una trattazione di carattere storico cfr. Albano Leoni (2009).
10. L’assenza di materiale dialogico autentico è già lamentata da Vološinov
(1929): per una discussione su questi argomenti cfr. Goodwin (2007).

23
dal parlato alla grammatica

nei e parlati. Del resto, nell’ambito dello strutturalismo la grammatica


si identifica con la struttura della lingua, ovvero con la rete di rapporti
astratti tra i segni, sulla base della quale i parlanti costruiscono l’inva-
rianza, che permette l’intercomprensione.
Lo stesso accade nella grammatica generativa, che lavora all’interno
di un modello programmaticamente formale. In questa prospettiva non
è la grammatica che deriva dalla lingua, ma la lingua dalla grammatica,
poiché quest’ultima non è la struttura del codice, ma il meccanismo
generativo del codice. Le teorie generative lavorano per definizione ad
un livello di astrattezza profonda e hanno come obiettivo la ricerca di
principi o meccanismi unitari universali ed escludono elementi di di-
versificazione sistemica. La variazione non appartiene al sistema che
ne è privo, ma interviene solo a livello dell’esecuzione (Chomsky, 1993;
2001). La programmatica esclusione della variazione degli usi linguisti-
ci, perché irrilevante per la ricostruzione della Grammatica Universale,
vuol dire che i fattori sociali e culturali, e i processi cognitivi che da essi
derivano, rimangono fuori dall’interesse della linguistica teorica. Ciò
ha per conseguenza l’impossibilità di trattare in modo sistematico, cioè
come fenomeni non casuali o extralinguistici, le variazioni diafasiche
e diastratiche, dovute sostanzialmente a fattori sociali, o diamesiche,
dovute al cambio di modalità, per esempio scritta o parlata. Ciò che è
pertinente è quindi il rapporto “interno”, potremmo dire quasi privato,
tra il parlante e il suo sapere linguistico. È naturale quindi che per poter
studiare la Grammatica Universale, così intesa, l’unica strada possibile
è rivolgersi ai parlanti, in quanto depositari del funzionamento del di-
spositivo che, sebbene in modo inconsapevole e indiretto, sono gli uni-
ci a poter dare informazioni sul funzionamento della grammatica che è
dentro di loro. Per questo motivo i giudizi dati dai parlanti nativi sulle
frasi della loro lingua madre sono considerati in ambito generativo il
test più attendibile di grammaticalità. Ciò comporta un’inevitabile ri-
duzione e idealizzazione dei dati che, se si osserva il materiale analizza-
to nei lavori generativi, sembra spesso superare la soglia che garantisce
l’adeguatezza sia descrittiva sia esplicativa, poiché la maggior parte dei
dati è molto lontana dal rappresentare la normale varietà e variabilità
inter e intralinguistica. La linguistica generativa offre un’immagine sta-
tica e idealizzata della lingua, che non tiene in alcun conto il rapporto
tra corredo biologico e interazione con l’ambiente circostante né in
fase di acquisizione della lingua materna né nella vita adulta.
Posizioni aperte all’inclusione degli aspetti relazionali e pragmatici

24
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

si trovano nel composito mondo degli approcci funzionali. Fin dalle


Tesi del Circolo di Praga del 1929, le teorie funzionaliste hanno adot-
tato un approccio induttivo che tenesse in conto gli aspetti contestuali
e comunicativi generali11. Ciò ha aperto le porte ad oggetti linguistici
diversificati, in cui hanno potuto trovare posto anche lo studio inte-
grato dei livelli di significazione, quale per esempio la prosodia (cfr.
Daneš, 1960). È l’approccio funzionalista che ha aperto la strada all’a-
nalisi della conversazione e del discorso, come è ben riassunto nella
bella introduzione di Ochs, Schegloff e Thompson (1996) al volume da
loro curato dal titolo programmatico di Interaction and Grammar. No-
nostante molti altri lavori di grandissimo interesse (Couper-Kuhlen,
Selting, 2001; Couper-Kuhlen, Ono, 2007) si è venuta però sfortuna-
tamente a creare una separatezza tra chi era attento all’enunciazione
in tutta la sua ricchezza e multidimensionalità e coloro che si occupa-
vano di offrire sistemazioni grammaticali. Tranne poche eccezioni, tra
cui emergono i lavori di Michael Halliday (1985; 1994)12, sono pochi i
tentativi di integrazione tra le due prospettive, anche se sono più nu-
merosi che in passato gli studi che considerano fenomeni grammaticali
tradizionali nell’ambito di un contesto interattivo (Thompson, Fox,
Couper-Kuhlen, 2015).
Un segno evidente dell’artificiosità del materiale presentato nelle
grammatiche è l’assenza di testi dialogici. Eppure, come abbiamo già
visto, impariamo la nostra lingua madre attraverso dialoghi, la maggior
parte della nostra esperienza linguistica è costituita da dialoghi e, di
fatto, ogni rapporto comunicativo spontaneo è modellato sul dialogo.
Il dialogo dovrebbe quindi essere un punto di osservazione privilegiato
da cui guardare alle strutture linguistiche e al modo in cui le usiamo e
le integriamo con altre fonti di informazione; ciò ci permetterebbe di
cogliere il grado di flessibilità del sistema linguistico, i limiti della sua
invarianza. Eppure il dialogo non è un argomento o una nozione cen-
trale nella linguistica teorica dominante. Sebbene lo studio del dialogo
abbia una lunga tradizione che risale alle prime riflessioni sul linguag-

11. Non è questa la sede per una storia degli approcci sensibili ai fenomeni enun-
ciativi e comunicativi; per sintesi utili ai fini dello studio del parlato cfr. Sornicola
(1981; 2014); Voghera (1992); Caffi (2007b).
12. Si tratta di una riedizione di Introduction to Functional Grammar, pubblicata
per la prima volta da M. A. K. Halliday nel 1985. Diverse opere di Halliday sono state,
nel corso degli ultimi 30 anni, ripubblicate o riedite, spesso con significativi aggiorna-
menti, cfr. fra le altre Halliday, Webster (2002) e Halliday, Hasan (2013).

25
dal parlato alla grammatica

gio nel pensiero greco antico, il suo studio appartiene più alla retorica,
alla filosofia e nell’ultimo secolo alla psicologia e all’antropologia. È
indicativo che negli indici analitici delle più note storie della linguistica
(Mounin, 1968; Robins, 1997; Lepschy, 1990-94) – e nei libri di testo
di linguistica o nelle grammatiche non troviamo paragrafi dedicati al
dialogo.
La marginalità del dialogo nella linguistica teorica si manifesta an-
che a livello terminologico. Le nozioni di discorso o conversazione,
ampiamente diffuse negli studi di pragmatica, si combinano infatti
con analisi più che con linguistica: analisi del discorso, analisi della
conversazione. Lo conferma una ricerca estemporanea fatta su Google
Scholar il 3 marzo 2016, in cui ho trovato 23 occorrenze di conversatio-
nal linguistics vs. 14.000 di conversational analysis. È significativo del
resto che la Longman Grammar of Spoken and Written English di Biber
et al. (1999), uno dei principali testi di riferimento sull’inglese parlato,
separa la grammatica della conversazione in un capitolo a parte, scelta
singolare considerando che la conversazione è certamente il modello di
riferimento prototipico del parlato (Bazzanella, 2002).
L’assenza di dialoghi dall’orizzonte esplicativo della maggior parte
delle grammatiche ha anche la conseguenza di ignorare il complesso
ruolo che svolge il ricevente/ascoltatore nel determinare la forma delle
nostre produzioni verbali. Goodwin (2007, p. 14) definisce logocen-
trismo l’esclusiva attenzione alle produzioni verbali e la mancata con-
siderazione delle reazioni dell’ascoltatore, che possono essere verbali,
ma anche gestuali:
There are crucial differences between a hearer and a subsequent speaker. [...]
focusing analysis exclusively on talk treats the speaker as the primary, indeed
on occasion the sole actor relevant to the construction of an utterance such as
a story, while obscuring, or rendering completely invisible, the simultaneous
actions of the hearer.

Torneremo su questi argomenti nel cap. 2, qui basti sottolineare che le


frasi isolate che troviamo normalmente nelle grammatiche non hanno
un destinatario esplicito e, soprattutto, appaiono del tutto autosuffi-
cienti. La realtà linguistica è ben diversa perché la maggior parte delle
produzioni richiede una partecipazione attiva del destinatario e ne è
fortemente condizionata.
La lingua degli esempi esibita nelle grammatiche è presentata per
la verità non solo priva di destinatari, ma per definizione amodale e

26
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

priva di specifici attributi: logocentrica e verbocentrica. Il valore o l’im-


portanza della modalità di codificazione e trasmissione non entrano
nell’orizzonte delle trattazioni grammaticali per molteplici motivi di
cui parleremo in maggior dettaglio nel cap. 2. Qui basti dire che si dà
per scontato che la fonicità sia un attributo di qualsiasi lingua e quindi
non si ritiene necessario pertinentizzarla. D’altro canto, è opinio com-
munis che le diverse modalità di trasmissione possano condizionare
la struttura superficiale degli enunciati, ma non interferiscono con la
struttura grammaticale di una lingua. Questa convinzione accomuna
linguisti di varie estrazioni e posizioni teoriche poiché la modalità è
ritenuta solo un involucro all’interno del quale il codice lingua “passa”,
viene trasmesso, ma che non incide sul codice stesso. Tuttavia il fattore
di invarianza più costante nel processo di apprendimento di una lingua
in condizioni naturali sembra proprio essere l’uso quantitativamente e
funzionalmente primario della modalità parlata (Voghera, 2001), ed
escludere qualsiasi considerazione a riguardo sembra ingiustificato.
In assenza di una specifica considerazione del rapporto tra modali-
tà e grammatica delle lingue, non si prende normalmente in considera-
zione che ciò che è ammissibile in una modalità potrebbe non esserlo
in un’altra. Si trascura quindi il ruolo che possono svolgere gli elementi
che la scrittura alfabetica non rende visibili o possibili, per esempio gli
elementi non segmentali quali quelli prosodici. Questo fatto ha spesso
impedito di scoprire relazioni tra costituenti nascoste alla vista, ma ben
udibili, e centrali per la grammatica generale di una lingua: «Spoken
language, as well as language in general, has been taken to include only
those features of speech which have regular counterparts in conventio-
nal writing!» (Linell, 2005, p. 20).
Il principio alla base di questo disinteresse è espresso in modo sem-
plice e chiaro da Uldall (1944, p. 11) nel suo saggio su scritto e parlato:
« [I]f either of these two substances, the stream of air or the stream of
ink, were an integral part of the language itself, it would not be possible
to go from one to another without changing the language».
Gran parte della linguistica teorica è stata infatti sostanzialmen-
te priva di qualsiasi riferimento alle proprietà derivate dalla sostanza
dei segni, dalle proprietà del canale. Questa posizione ha avuto come
conseguenza un lungo disinteresse non solo per la realizzazione fisica
dei segni (per es. la fonetica), ma anche per i processi di produzione
ed elaborazione cognitiva dei segni linguistici. Tanto il canale quanto
i processi elaborativi ad esso connessi, i vincoli cognitivi e percettivi

27
dal parlato alla grammatica

imposti dal canale alla costruzione dei segni, sono stati ritenuti irrile-
vanti per la grammatica della lingua. Ciò ha impedito di cogliere alcune
proprietà fondamentali nell’organizzazione degli enunciati che sono
determinate non tanto e non solo dalle proprietà fisiche di un deter-
minato canale, ma dalle condizioni che queste proprietà impongono al
processo di produzione ed elaborazione linguistica.
È interessante per esempio che Acquaviva (2000), nel valutare se la
disomogeneità nei giudizi di grammaticalità vadano considerate come
spia dell’esistenza di competenze diverse, considera il peso delle varia-
bili diafasiche, diastratiche e diatopiche nei giudizi di accettabilità dei
parlanti italiani. Ma, cosa per noi qui più importante, un po’ sorpren-
dentemente scrive: «Per ovvi motivi, non prenderò in considerazione
l’eventualità che la variazione considerata sia sull’altro asse teoricamente
possibile, e cioè riguardi la dimensione diamesica (scritto-parlato)» (ivi,
p. 260 nota 5). Con «ovvi motivi» Acquaviva probabilmente si riferisce
al fatto che la competenza di una lingua non è sensibile alla variazione
diamesica perché tutti impariamo le lingue attraverso il canale fonico-
uditivo e quindi le lingue sono dal punto di vista modale omogenee o
uguali. Ciò che non viene preso in considerazione è che si possano usa-
re nelle diverse modalità varietà di lingua diverse (o addirittura lingue
diverse) e che questo possa interferire con i propri giudizi di gramma-
ticalità: di fatto alcune frasi non paiono scrivibili, ma paiono dicibili e
viceversa o cambiano significato a seconda che siano parlate o scritte13.

1.3
Esclusioni pericolose
La scarsa o nulla considerazione della modalità nelle teorie grammati-
cali ha come conseguenza l’ignoranza o la sottovalutazione funzionale
e quantitativa di sottoinsiemi di usi linguistici e costruzioni connessi
alla specificità delle condizioni enunciative del parlato, e quindi non
(o solo parzialmente) osservabili in altri contesti. È evidente che sono
in gioco due diversi livelli di rapporto tra modalità e grammatica. A un
primo livello la considerazione della modalità permette di individuare
strutture linguistiche tipiche della modalità parlata, che la grammati-

13. Il problema verrà affrontato più distesamente nei capp. 3-4; per una discus-
sione degli esempi di Acquaviva cfr. Voghera (2005).

28
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

ca dovrebbe descrivere: per esempio i segnali discorsivi (cfr. cap. 3)


o i costituenti frasali senza verbo (cfr. cap. 4). A un secondo livello,
la considerazione della modalità permette di cogliere come essa può
condizionare codificazione e significazione. In questo caso l’esclusione
della modalità incide sulle relazioni centrali per la grammatica generale
di una lingua. Potremmo quindi dire che nel primo caso l’assenza della
variazione modale interferisce con l’adeguatezza descrittiva della gram-
matica, nel secondo caso con l’adeguatezza esplicativa.
Gli esempi che si possono fare sono molteplici, vorrei però ripro-
porre un esempio che ho già utilizzato in un’altra sede (Voghera, 2001),
poiché mi pare che renda in modo esemplare il ruolo svolto dalla moda-
lità. All’inizio degli anni Novanta del Novecento il Partito comunista
italiano (pci) si stava trasformando in un nuovo partito. Naturalmente
vi erano molti oppositori a questa trasformazione, e una delle accuse
che venivano rivolte al segretario del Partito di allora, Achille Occhet-
to, era di trasformare il pci in un partito ibrido e ambiguo: un partito
che in fondo non era né carne né pesce. Il quotidiano italiano la Repub-
blica pubblicò la risposta di Occhetto in un titolo che riporto in (4):

(4) Non siamo né carne né pesce

Una prima lettura di questa frase dà un risultato paradossale: il segre-


tario del pci sembra dare ragione ai suoi oppositori, sostenendo che il
nuovo partito è effettivamente senza un programma definito. Esiste
però una seconda lettura, in cui il non va interpretato come un nega-
zione metalinguistica poiché non nega il contenuto proposizionale
dell’asserzione, ma «obbietta su qualche aspetto di un’asserzione pre-
cedente», come scrive Chierchia (1997, p. 188). In questo caso la frase
potrebbe essere parafrasata da ‘non è vero che (non) siamo né carne né
pesce’. L’enunciato in (4) ha dunque due letture cui corrispondono due
schemi prosodici diversi14:

(4a) // non siamo né carne né PEsce //

(4b) // non SIAmo // né carne né PEsce //

14. Le doppie barre oblique indicano i confini di un gruppo tonale e le lettere


maiuscole la sillaba con l’accento tonale.

29
dal parlato alla grammatica

In (4a) siamo in presenza di una frase copulativa negativa che normal-


mente sarebbe realizzata da un unico gruppo tonale con un’intonazio-
ne discendente. In (4b) potremmo avere due unità tonali: la prima con
un andamento intonativo ascendente-discendente sul verbo siamo e la
seconda con un andamento intonativo ascendente-discendente. Il si-
gnificato che nel parlato può essere veicolato dalla scansione prosodica
e dall’intonazione in (4b), nello scritto si può veicolare solo aggiungen-
do altro materiale sintagmatico, per esempio ‘non è vero che non siamo
né carne né pesce’. Si può naturalmente obiettare che questi sono casi
limite ma, com’è noto, sono spesso proprio questi casi a svelare parti
importanti della grammatica delle lingue.
Ma l’esclusione della variazione modale dall’orizzonte della lin-
guistica descrittiva e teorica procura anche altre implicite esclusioni
e/o marginalizzazioni. La distinzione tra usi parlati e usi scritti inter-
seca infatti quella tra usi primari e appresi fin dalla nascita e usi appresi
successivamente, per esempio a scuola. La comunicazione linguistica
è, come abbiamo già detto, primariamente orale sia dal punto di vista
funzionale sia quantitativo, cfr. De Mauro (1971). Naturalmente esisto-
no parlanti nativi di lingue dei segni, cioè lingue che naturalmente ven-
gono codificate e trasmesse attraverso segni gestuali delle mani, della
testa e del corpo, ma questo avviene solo in condizioni di deficit uditivi
di parte dei membri della comunità. In assenza di questa condizione, gli
esseri umani formano e usano lingue primariamente vocali.
In condizioni naturali parliamo più di quanto scriviamo per tutta
la vita, sebbene oggi, grazie alla scrittura digitale, scriviamo sempre più
per scopi privati e sociali (Antonelli, 2014). Gli usi scritti sono per defi-
nizione non nativi e non appartenenti alla varietà materna, cioè a quella
che si acquisisce fin dalla nascita e che diventa il normale strumento di
pensiero e comunicazione. La nozione di lingua materna, anche solo
intuitivamente, è connessa al tipo di relazione intersoggettivamente
condivisa tra una lingua e i suoi parlanti, e anche quando si impari a
scrivere nella stessa lingua, non si tratta mai della stessa varietà dal pun-
to di vista diafasico (Lepschy, 2002b)15. È evidente che gli usi primari

15. Ciò è confermato dal fatto che quando queste differenze non si verificano, i
parlanti hanno reazioni sconcertate o divertite. Questo meccanismo di straniamento
linguistico è ampiamente utilizzato per produrre effetti comici, come avviene con il
personaggio della serie televisiva The Big Bang Theory, Sheldon, che parla usando la
stessa lingua di un testo scientifico.

30
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

sono di tipo informale, cioè si identificano con una comunicazione che


presuppone un rapporto paritario tra parlante e ascoltatore che, a sua
volta, consente la possibilità di prendere liberamente la parola durante
la comunicazione senza una pianificazione precedente e che non richie-
de un alto grado di attenzione selettiva da parte dell’ascoltatore. In ter-
mini generali, dal punto di vista diafasico, gli usi nativi presuppongono
la massima vicinanza comunicativa tra interlocutori, come accade nella
conversazione quotidiana in famiglia (cfr. Koch, Österreicher, 1985). In
questo contesto i parlanti fanno appello, più che in altre circostanze,
a ciò che per essi e per i loro interlocutori è più immediato e di facile
accesso, selezionando gli usi linguistici meno ricercati che comportano
il minimo dispendio per la pianificazione e l’interpretazione.
Modalità parlata, usi nativi, vicinanza comunicativa costituisco-
no elementi solidali che incidono sul modo in cui i parlanti sentono
e usano la varietà o le varietà ad essi associate. Alla considerazione
sulla collocazione dei vari usi dovrebbe sempre accompagnarsi la va-
lutazione della distanza psicologica percepita dai parlanti tra le va-
rie strutture ed espressioni. Fin dal classico contributo di Fishman
(1972), i ricercatori che si sono occupati di variazione linguistica sono
concordi nell’affermare che la percezione che i parlanti hanno della
autonomia o della distanza tra lingue o varietà, indipendentemente
dalla realtà linguistica, è uno dei fattori che contribuisce maggior-
mente all’avvicinamento o alla distanza tra di esse16. Ciò vuol dire
che fattori esterni alla struttura linguistica possono avere in molti casi
un peso determinante. A ciò contribuisce, come è ovvio, la diversa
funzionalizzazione delle varietà, che ha delle conseguenze sistema-
tiche sull’organizzazione dei messaggi. Gumperz (1982) ha mostrato
che gli stessi parlanti mettono in atto strategie comunicative diverse
a seconda delle varietà usate poiché i diversi usi linguistici vengono
percepiti e attribuiti alle diverse varietà sia in base alle loro caratte-
ristiche formali e funzionali sia per il modo in cui è costruita l’inte-
razione comunicativa. Diventa dunque centrale l’analisi degli eventi
comunicativi (speech events), che ha come oggetto di osservazione
lo svolgersi dell’interazione tra i membri di un gruppo durante uno
scambio comunicativo: ci si sposta dunque dal testo al discorso, e la
dimensione pragmatica, la relazione tra il codice verbale e i suoi uten-

16. È istruttivo a questo proposito il processo linguistico avvenuto nei Balcani


dopo la guerra nella ex Jugoslavia, si veda Greenberg (1999).

31
dal parlato alla grammatica

ti, viene considerata a pieno titolo un fattore di sistema (Levinson,


1983; Bazzanella, 2008; Caffi, 2009).
Limitarsi a o concentrarsi prevalentemente sui testi scritti formali
vuol dire quindi escludere le varietà native e ha, tra le altre, la conse-
guenza di separare la riflessione metalinguistica dalla lingua delle no-
stre prime esperienze comunicative, ma anche dalla lingua quotidiana
con cui ci identifichiamo e gli altri ci identificano. Questo alimenta
l’idea che la grammatica appartenga solo ad alcune lingue o varietà di
lingua o, altrimenti detto, che solo alcune lingue o varietà di lingua
siano meritevoli di grammatica. In tal modo la grammatica diventa una
proprietà di un insieme minoritario e prestigioso di usi linguistici non
accessibili a tutti.
Ciò ha conseguenze anche a livello cognitivo e didattico perché
produce una cesura tra la grammatica, per dir così, ufficiale, consenti-
ta e le naturali abilità metalinguistiche che i parlanti, in modo spesso
inconsapevole, esercitano continuamente grazie alla grammaticalità
delle lingue17. Fin da piccoli possediamo una grammatica implicita
costruita sulla base delle nostre osservazioni e delle indicazioni, sep-
pure non formali, degli adulti, dei coetanei (Ferreri, 2012). Le abili-
tà metalinguistiche sono parte della facoltà del linguaggio, e quindi
della competenza linguistica di ciascuno, in quanto elemento costitu-
tivo della semiosi linguistica. Ci riferiamo qui alla capacità naturale
e spontanea che ciascun parlante ha di interrogarsi sulle parole e sui
discorsi, sul loro significato, sulla loro adeguatezza o appropriatezza
nelle varie situazioni d’uso. La funzione metalinguistica si sviluppa e
cresce col crescere dell’acquisizione delle lingue, attraverso i ‘si dice...’
e ‘non si dice...’ dei parlanti più competenti, ma anche dei coetanei, e
i ‘che vuol dire...’ dei bambini. In tal modo si costruiscono le chiavi
di accesso alla comprensione e all’uso linguistico, i primi abbozzi di
definizioni, di categorie metalinguistiche. Queste prime manifestazio-
ni della «metalinguisticità riflessiva» delle lingue, come la definisce
De Mauro (2008), il poter usare la lingua per descrivere se stessa, sono
parte essenziale della fisiologia del linguaggio e della naturale e sponta-
nea crescita linguistica. Eppure l’insegnamento della grammatica nella
maggior parte dei casi non sembra integrare le abilità metalinguistiche
naturali nel processo di insegnamento perché l’oggetto delle esperienze
linguistiche e le competenze metalinguistiche personali sono spesso usi

17. Per considerazioni di tipo didattico si rimanda al cap. 8.

32
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

parlati, a loro volta associati a registri informali e a varietà regionali.


Porzioni linguistiche che rimangono solitamente al di fuori dei confi-
ni della grammatica “che si deve imparare”. La mancata saldatura tra i
due tipi di esperienza comporta il mancato riconoscimento del legame
tra lingua e grammaticalità, e perpetua l’idea che la grammatica sia un
oggetto nato dalla mente dei grammatici.
Ma la scarsa considerazione della variazione nell’insegnamento
della grammatica non penalizza solo la modalità parlata e le varietà e
i registri ad essa associati, ma anche la modalità scritta. Nella maggior
parte dei casi la scrittura è vista come mero sistema notazionale, il cui
unico scopo è quello di trascrivere la lingua, mentre non sempre ne ven-
gono analizzate le proprietà semiotiche (Halliday, 1985; Kress, 2010;
Antonelli, 2014). Ne è una prova la totale disattenzione alla variazione
nell’ambito della modalità scritta e l’assunzione acritica della varietà
letteraria e/o istituzionale come unico modello possibile. Sappiamo
bene, però, che la scrittura è un universo semiotico vario e complesso e
che, al di fuori dell’ambiente scolastico e/o di formazione, la maggior
parte dei testi scritti con cui entriamo in contatto e che produciamo
e leggiamo non sono in realtà testi di prosa. Molti di questi non mo-
strano la continuità verbale tipica della prosa, ma sono al contrario
discontinui: manuali di istruzioni, avvisi, pubblicità, insegne, foglietti
illustrativi per le medicine, ricette di cucina ecc. E questo per limitarsi
a prodotti della scrittura tradizionale. In casi come questi molta della
grammatica formale non funziona pur non essendo questi testi agram-
maticali (Sampson, 2003; Progovac, 2006; Voghera, Turco, 2008).
Assumere quindi la prosa formale come unico modello possibile esclu-
de gran parte del materiale scritto, che è decisivo per capire la semiosi
scrittoria, e contribuisce alla rappresentazione di “ciò che la scrittura è”,
soprattutto nelle abilità di lettura e scrittura dei meno istruiti. Questo
ha effetti inutilmente vincolanti, e in qualche caso direi punitivi, dal
punto di vista pedagogico perché impedisce di offrire un panorama
più realistico di ciò che si scrive e si legge e di quali abilità di scrittura e
lettura è bene raggiungere primariamente.
In conclusione, l’assunzione di un unico sistema di modellizzazio-
ne, da un lato, rafforza l’idea irrealistica di una lingua amodale, aspe-
cifica, ideale, dall’altro, radica l’immagine di un’unica grammatica
possibile. La grammatica della prosa espositiva standard diventa in tal
modo la grammatica tout court della lingua. La restrizione dell’oggetto
della grammatica anche quando essa non ha intenti normativi, finisce

33
dal parlato alla grammatica

quindi con incoraggiare implicitamente un atteggiamento prescrittivo


perché, escludendo tutti gli altri usi, di fatto li fa apparire marginali, se
non devianti. La grammatica, anziché descrivere o spiegare la lingua,
costruisce essa stessa la lingua che ritiene normale, lo standard: si sosti-
tuisce alla realtà linguistica e ne dà un’immagine edulcorata. Limitare
quindi la grammatica a un’unica varietà di lingua, quale che essa sia,
genera una descrizione o spiegazione che finisce col mostrare deficit
concettuali e categoriali, soprattutto quando si allarga la base dei dati
fino a comprendere modalità diverse. Benché concettualmente indi-
pendente da altre dimensioni di variazione, quella diamesica correla
con altre scelte linguistiche dei parlanti, mettendo in luce relazioni tra
porzioni diverse del sistema, che non possono essere ignorate.

1.4
Correlati linguistici funzionali e correlati sociolinguistici
Come mai era avvenuto in passato, la raccolta di corpora e i nuovi stru-
menti che ne sono derivati hanno allargato l’orizzonte della nostra
conoscenza dei fatti linguistici in tutte le possibili dimensioni di varia-
zione: diacronica, diatopica, diafasica, diastratica e diamesica. Anche
sul parlato si è prodotta una grande messe di ricerche, che ha avuto il
merito di mettere in luce fenomeni e usi linguistici meno noti, o addi-
rittura sconosciuti, grazie ai quali oggi sappiamo meglio quali sono gli
usi più tipici e frequenti. Come abbiamo già affermato in altre sedi (cfr.
Voghera, 2010), esistono delle costanti del discorso parlato, condivise
interlinguisticamente, che si rintracciano nei testi parlati anche distanti
tra loro dal punto di vista diafasico o diastratico. Lo scopo di questo
libro è mostrare che queste costanti sono funzionali all’uso delle lin-
gue storico-naturali nella modalità di comunicazione parlata, sono cioè
meccanismi e costruzioni linguistici che esprimono la grammaticalità
dei testi in contesto naturale e spontaneo. Detto in altre parole, il mio
obiettivo è quello di mostrare che il parlato manifesta regolarità, che
non sono altro che regolarità della grammatica della lingua.
Non ho dunque l’obiettivo né di offrire una descrizione dettagliata
di tutte le strutture del parlato né di presentare le differenze tra il parlato
e altre modalità, ma di mostrare le costruzioni basilari, che non potreb-
bero non occorrere nei testi parlati naturali. Vorrei mettere l’accento
sul fatto che queste costruzioni sono il prodotto di strategie comuni-

34
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

cativamente ottimali per questa modalità e che quello che dal punto
di vista di un’altra modalità, per esempio quella scritta, può apparire
eccentrico e deviante, è in realtà il frutto del buon funzionamento della
grammatica delle lingue storico-naturali, che sono primariamente par-
late. Il riconoscimento della grammaticalità dei meccanismi basici del
parlato speriamo renda chiaro che includere il parlato nella base di dati
su cui costruire le grammatiche arricchisce la conoscenza non solo della
variabilità degli usi, ma anche del sistema linguistico, dei suoi compo-
nenti o livelli e può portare alla costruzione di modelli più adeguati dal
punto di vista generale. È questo, a nostro parere, un passo necessario
che permette di individuare gli elementi basici, anche di altre modalità
di trasmissione, all’interno di un quadro unitario.
Non esiste una relazione automatica e deterministica tra canale,
modalità di comunicazione e prodotto linguistico. Si può parlare come
un libro stampato e si può, scrivendo, mimare gli usi parlati; inoltre è
del tutto evidente che pratiche culturali diverse e innovazioni tecno-
logiche possono costruire modalità del tutto originali che usano i me-
desimi canali. Per questo motivo è bene evitare equivalenze improprie
tra canali, modalità e strutture linguistiche. Tuttavia, data una modali-
tà, non tutte le forme testuali e le costruzioni verbali sono ugualmen-
te probabili perché gli utenti tendono a scegliere quelle più adatte o
perché più efficienti o perché più adeguate al contesto sociale in cui
normalmente avviene la comunicazione. Nel primo caso parliamo di
correlati linguistici funzionali, cioè di una correlazione determinata da
fattori di rendimento e quindi di costruzioni linguistiche che vengono
usate perché permettono un migliore funzionamento della comunica-
zione. Nel secondo caso, invece, parliamo di correlati sociolinguistici,
cioè di costruzioni, la cui occorrenza, per esempio nella modalità par-
lata, è determinata dal fatto che sono proprie delle varietà usate nelle
situazioni in cui si parla, ma non necessariamente facilitano o rendono
la comunicazione più facile. Una differenza essenziale tra i due tipi di
correlati sta nel fatto che i correlati funzionali sono grandemente con-
divisi dal punto di vista interlinguistico; quelli sociolinguistici possono
invece cambiare da lingua a lingua, perché dipendenti dalla specifiche
situazioni di ogni lingua. I due esempi seguenti dovrebbero chiarire la
differenza.
In (5) abbiamo un esempio di costruzione verbale, l’uso del deitti-
co quello, tipica del discorso parlato, in cui è possibile la condivisione
della situazione comunicativa tra produttore e destinatario. I deittici,

35
dal parlato alla grammatica

benché non siano usati solo nella modalità parlata, sono molto più fre-
quenti nel parlato di tutte le lingue, perché rendono la comunicazione
più facile e immediata, con il riferimento ad elementi extraverbali. Lo
stesso enunciato potrebbe essere realizzato con un segno deittico ge-
stuale, come in (6):

(5) Passami quello

(6) Passami

La conversazione in (7), invece, esemplifica bene come il parlato spon-


taneo correli con tratti marcati sociolinguisticamente, in questo caso di
una varietà diatopica locale, come quelli riportati in neretto:

(7) lip-rb29
A: okay i pagamenti li faccio di quelli soliti?
B: sì sì eh sempre fine mese
A: se<ssanta> sessanta giorni
B: sessanta novanta
A: sessanta novanta fine mese
B: Banca Commerciale Italiana succursale tiburtina
A: Banca Commerciale Italiana succursale?
B: tiburtina
A: Banca Commerciale Italiana succursale?
B: tiburtina
A: tiburtina # come vanno ’e cose?
B: ah se comincia a core de brutto
A: sì? me sembra che se sta sm<uovendo> se sta muo<vendo> muovendo
B: sì sì
A: allora io ti ringrazio dell‘ordine
B: okay ahò te raccomando dijelo
A: e scusa che non t‘ho telefonato subito però ieri sera c‘ho dei problemi ieri
sera so’ arrivato alle otto e mezza a casa_
B: va bo’ va bo’
A: e allo<ra> stamatina ho detto famme leva’ er pensiero da_ denuncia dii
redditi perché io la consegno sempre qua vicino # a mano
B: ho capi<to> sì sì

In questo caso abbiamo una conversazione, in cui i due parlanti me-


scolano l’uso dell’italiano con quello della varietà linguistica romana:
l’uso delle forme pronominali me, te, se per mi, ti, si; core de brutto per

36
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

‘correre molto’; ahò tipica allocuzione romanesca; dijelo con l’appros-


simante palatale al posto della laterale palatale; la forma so’ per ‘sono’;
va bo’ per ‘va bene’; famme levà er pensiero da_ denuncia dii redditi
per ‘fammi levare il pensiero della denuncia dei redditi’. È evidente che
l’uso della varietà locale in questo caso non dipende da una maggiore
efficienza della comunicazione, ma dalla specifica situazione linguisti-
ca italiana, in cui fino a qualche decennio fa il parlato per eccellenza era
il dialetto e l’italiano era riservato, per quelli che lo conoscevano, alla
scrittura (De Mauro, 2011; Berruto, 1993). Ciò fa sì che nelle situazioni
informali sia molto comune una comunicazione mistilingue italiano/
dialetto o italiano regionale, non motivata da ragioni funzionali, ma
casomai dalla ricerca di una maggiore naturalezza, familiarità, spon-
taneità. Nel registro colloquiale l’uso di espressioni marcate a livello
diatopico deriva talvolta anche da esigenze di espressività e informa-
lità: l’inserzione di elementi locali è frequente anche in parlanti non
dialettofoni per marcare proprio la rilassatezza e l’assenza di disparità
di ruolo tra gli interlocutori e non è sempre possibile tracciare un con-
fine netto tra usi espressivi di parole dialettali o varianti regionali e
fenomeni inconsapevoli di cambiamento o mescolanza di codici (ita-
liano/dialetto) (Voghera, 2011). Il ricorso a questi elementi connota di
conseguenza l’italiano colloquiale come un registro di livello più basso
rispetto agli usi standard. Il registro colloquiale è quello certamente più
frequentemente usato quando si parla e, data l’enorme preponderanza
quantitativa degli usi parlati su quelli scritti per qualsiasi parlante, i
tratti linguistici ad esso associati sono per molti parlanti il modo più
frequente di usare la lingua. Per questo motivo i correlati funzionali e
quelli sociolinguistici sono stati spesso confusi gli uni con gli altri e i
tratti delle varietà diafasiche o diatopiche più frequentemente associate
al parlato sono stati interpretati come tratti connaturati alla modalità
parlata. Così, anche se il parlato manifesta un’ampia gamma di registri,
è stato identificato con varietà diafasiche e diastratiche basse; ciò è av-
venuto tanto più per l’italiano, per i motivi a cui abbiamo accennato,
per i quali si è implicitamente diffusa l’equivalenza: modalità parlata =
varietà informale = varietà locale18.
Per evitare fraintendimenti e confusioni tra piani di variazione, nei

18. Per un inquadramento teorico e storico del complicato intreccio tra il parlato
e i suoi correlati sociolinguistici si vedano i due classici di De Mauro (2011; 2014b):
Storia linguistica dell’Italia unita e Storia linguistica dell’età repubblicana. Sulle re-

37
dal parlato alla grammatica

capitoli seguenti ci occuperemo delle proprietà dei testi parlati condi-


vise interlinguisticamente, tralasciando gli aspetti più specificamente
connessi a fattori sociolinguistici19. Benché possano esistere differenze
in rapporto al registro di parlato, vi è una forte correlazione tra elemen-
ti linguistici e modalità, tale che in un contesto naturale e spontaneo
due testi parlati, anche se appartenenti a livelli diversi, tendono ad as-
somigliarsi più di quanto non si assomiglino un testo parlato e un testo
scritto appartenenti allo stesso livello.

1.5
La partizione di questo libro
Seguirò un percorso espositivo che parte dalla descrizione delle pro-
prietà fondamentali della comunicazione parlata per proseguire nella
descrizione dei correlati funzionali a livello testuale, sintattico, lessicale
e semantico delle produzioni parlate.
Nel cap. 2 sono descritte le relazioni che esistono tra canale di
comunicazione, proprietà generali della produzione e percezione lin-
guistiche e tipo di interazione tra parlanti nella modalità parlata. I da-
ti sperimentali mettono in evidenza che tanto la produzione quanto
la percezione linguistica si servono sia del canale fonico-uditivo sia
di quello visivo-gestuale, includendo nei gesti sia quelli del corpo sia
quelli delle mani. Ne emerge un quadro complesso e dinamico, in cui,
come in un ingranaggio, ogni componente si misura e si modella in
rapporto alle altre per raggiungere il giusto equilibrio nelle diverse si-
tuazioni enunciative. L’ingranaggio modale condiziona naturalmente
anche le scelte linguistiche, che non sono tutte ugualmente probabili
in qualsiasi modalità di comunicazione, poiché non tutte ugualmente
adatte alle medesime condizioni di comunicazione. Ciascuna modalità
di comunicazione tende infatti a correlare con i tipi di meccanismi e
costruzioni linguistici che meglio si adattano alle condizioni di produ-
zione e ricezione; detto in altre parole, le scelte linguistiche variano col
variare dell’ingranaggio modale.
I capp. 3 e 4 saranno dedicati ai correlati funzionali rispettivamen-

centi connotazioni sociolinguistiche assunte dal dialetto nelle nuove generazioni: cfr.
Berruto (2006; 2007).
19. Per la trattazione sociolinguistica delle varietà dell’italiano cfr. Berruto (2012).

38
1. quando parliamo usiamo la grammatica?

te testuali e sintattici, che rappresentano, forse, le caratteristiche più


salienti del parlato, cioè riflettono in massimo grado le specificità delle
condizioni di produzione e ricezione attraverso una forte discontinu-
ità, che va bilanciata con specifiche configurazioni di coesione e coe-
renza.
Gioca qui un ruolo determinante la prosodia, che assolve nume-
rose funzioni non solo a livello fonetico e fonologico. Dalle ricerche
di questi ultimi anni è emerso con chiarezza che gli indici prosodici
sono significativi a vari livelli (Sorianello, 2006; Albano Leoni, 2009;
Giordano, 2009); servono infatti a identificare: a) la natura segmentale
degli elementi prodotti, se siano cioè consonanti o vocali; b) la distri-
buzione degli accenti lessicali e di frase; c) la struttura della frase; d) la
modalità della frase; e) la dinamica informativa all’interno della frase o
di unità più ampie; f) fenomeni di focalizzazione. A ciò si aggiungono
naturalmente tutte le informazioni di carattere sociolinguistico quali:
g) sesso ed età del parlante; h) provenienza geografica; i) caratteristiche
socioculturali. In questo libro la prosodia troverà spazio in vari capitoli
poiché, come vedremo, contribuisce alla definizione di vari livelli di
codificazione.
Nel cap. 5 si analizzerà come la modalità influisca sulla distribuzio-
ne delle parti del discorso, mentre nel cap. 6 si presentano i principali
correlati semantici dei testi parlati. Nel cap. 7 si tireranno le somme di
questo percorso, mettendo in connessione i correlati dei vari livelli lin-
guistici per delineare un quadro generale della grammaticalità dei testi
testi parlati ovvero di come essi facciano emergere aspetti linguistici
sistemici che altrimenti rimarrebbero ignoti. Infine, il cap. 8 è dedicato
ad alcune riflessioni sulla rilevanza della modalità di comunicazione
nell’insegnamento e nell’apprendimento della lingua materna e sul for-
te legame tra plurilinguismo e plurimodalità, come nozioni decisive e
irrinunciabili per un’educazione linguistica democratica.
Come si vede, ho scelto una prospettiva che parte dal testo per ar-
rivare successivamente ai suoi elementi, perché mi pare che sia quella
che possa guidare meglio alla comprensione della compenetrazione tra
fattori modali e grammatica. Nel corso della mia trattazione cerche-
rò in ogni caso di mantenere sempre chiaro il rapporto tra il livello
dell’organizzazione comunicativa, quello testuale generale e quello
delle strutture linguistiche. In tal modo mi auguro che lo studio dei
fattori modali possa contribuire alla costruzione di modelli di gramma-
tica più adeguati non solo dal punto di vista descrittivo, ma soprattutto

39
dal parlato alla grammatica

esplicativo ed essere di utilità anche per la costruzione di grammatiche


didattiche che tengano conto del ruolo decisivo della modalità nell’ap-
prendimento e nella costruzione dei testi.
Un altro punto che, infine, voglio mettere in evidenza è la neces-
sità di validare le varie ipotesi su dati sociolinguisticamente affidabili.
Quella che oggi si chiama linguistica usage-based ha negli studi sul par-
lato una tradizione consolidata; tra questi spiccano alcuni pionieristici
studi italiani e sull’italiano, che hanno da sempre coniugato la rifles-
sione teorica con analisi sostenute da corpora diacronici e sincronici
(Spitzer, 1922; Stammerjohan, 1970; Sornicola, 1981; D’Achille, 1990;
Voghera, 1992; De Mauro et al., 1993; Berretta, 1994; Cresti, 2000; Al-
bano Leoni, 2003; Savy, Cutugno, 2009; Cresti, Moneglia, 2005). In
continuità con questa tradizione, gli elementi e le strutture linguistiche
che qui indico come più frequenti e interlinguisticamente condivisi so-
no tratti da corpora, non solo italiani.

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