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IL SUICIDIO

Corso di Psichiatria
Docente Prof. C. Cedro

Il suicidio è l'atto attraverso cui un individuo provoca volontariamente la propria


morte. L'atto suicidario può consistere in un'azione specifica messa in atto da un
soggetto senza la quale la morte non sarebbe avvenuta, o può essere costituito da
una omissione (es. rifiuto di una cura medico chirurgica) che evitando un ' azione che
potrebbe prolungare la vita, determina la morte. Nel primo caso perleremo di
suicidio attivo e nel secondo di suicidio passivo.
Il parasuicidio rappresenta la condizione in cui un soggetto che ha tentato di
provocare la propria morte, ha fallito nell'intento. Parasuicidio è sinonimo di tentato
suicidio sostenuto da scarsa intenzionalità autodistruttiva, attuato con mezzi poco
lesivi). Nel mancato suicidio, rispetto al tentato suicidio o parasuicidio, i mezzi
utilizzati dal soggetto per togliersi la vita sono adeguatamente lesivi e la
sopravvivenza del soggetto si ha grazie a circostanze impreviste.
Per suicidio sub-intenzionale intendiamo quella condotta caratterizzata da un 'alta
probabilità di andare incontro ad incidenti mortali. Citiamo ad esempio, il caso di un
giovane che sfreccia con la sua moto di notte a fari spenti con l'intenzione di
dimostrare a se stesso di avere il coraggio di affrontare e superare le difficoltà legate
alla "prodezza"; una tale azione, pur non presentando i caratteri di un 'intenzione
suicida volontaria e consapevole, di fatto lo espone a rischio di morte o di grave
mutilazione. I soggetti che attuano comportamenti suicidari subintenzionali
presentano spesso situazioni esistenziali o stati emotivi a cui di associano ideazioni
suicidarie. L'ideazione suicidaria consiste nel pensare o nel fantasticare situazioni
inerenti la propria morte, che possono non esprimersi attraverso contenuti
intenzionali ma anche attraverso verbalizzazioni del tipo "vorrei morire", "se morissi
mi toglierei dai guai", "se muoio che m'importa, tanto prima o poi si deve morire", ecc.
Esempi di comportamenti potenzialmente sub-suicidari si possono ritrovare anche in
tutte quelle situazioni che hanno un rischio potenziale di morte come mettersi alla
guida dopo aver bevuto alcolici o dopo avere assunto droghe, correre oltre misura
con un autoveicolo, avere rapporti sessuali promiscui non protetti. Tali
comportamenti vengono a volte vissuti da parte del soggetto negando la possibilità
della morte.
CAUSE DEL SUICIDIO

Gli aspetti di ordine esistenziale e psicologico che possono portare un individuo a


togliersi la vita sono molteplici e di natura complessa ed, in ogni caso, implicano
specifiche dinamiche psicologiche che coinvolgono l’intero rapporto tra l’individuo ed
il suo mondo. Tale rapporto, nel momento del progetto suicidario trova un punto di
assoluta ed irreversibile rottura. Nell’ottica dell’analisi esistenziale, potremmo dire
che l’essere umano può vivere solo se è in relazione col “mondo”; tutto ciò che
implica l’alterazione delle struttura psicologica dell’ “essere” e che interferisce nel
rapporto con il “mondo” rende il soggetto “impossibilitato a vivere”, impedito nel suo
essere nel mondo. Taluni processi psicopatologici come la depressione, la
schizofrenia, le psicosi, l’abuso di sostanze stupefacenti, possono favorire
nell’individuo la “scelta” suicidarla. Il concetto di scelta, comunque, assume un valore
del tutto relativo nell’ambito del suicidio in quanto possiamo assumere che non
esiste scelta senza libertà di scelta. Nel suicidio c’è, invece, un senso di costrizione e
lo sviluppo del sentimento dell’ineluttabile: il non-poter-essere più. Chi attua il
suicidio non è stato libero di scegliere perché non è stato libero di evitarlo. Si è
sentito costretto in quanto aveva perduto (non ritrovava più dentro di sé) ciò che lo
poteva rimettere in relazione vitale col mondo. Se, per esempio, la retina perdesse
la sua funzione visiva, l’uomo non potrebbe scegliere di non vedere dal momento
che sarebbe costretto a non vedere e quindi non sarebbe libero di scegliere di
vedere. I processi psicopatologici, al di là della noxa o del processo che ha condotto
l’individuo in quella specifica dimensione di malattia, rappresentano una condizione
umana che altera il funzionamento mentale, determinando primariamente una
diversa visione del mondo, una mancanza della libertà di essere liberi di poter
essere (Heidegger), che può portare alla perdita totale ed irreversibile della
possibilità di poter-essere. Chi si suicida sa di non avere più la possibilità di vivere. In
un certo senso potremmo dire che chi si suicida e già “morto” perché ha perduto il
“mondo”, e quindi la possibilità di esistere. Ha perduto cioè “il mondo” nel qualche ed
in rapporto al quale si può esistere, non perché sia venuto a mancare il mondo come
entità fisica, ma perché è venuta a mancare la possibilità di esistere. Infatti “l’Io”,
avendo perso il mondo, ha perso anche se stesso. In tal senso il suicidio, in un’ottica
esistenzialista, è l’unica via per smettere di non essere.
L’interpretazione psicodinamica del suicidio, definita da Freud già nel 1915, pone
l’atto suicidario in relazione all’aggressività incoscia che viene rivolta contro qualcuno
(definito in psicanalisi “oggetto”) che è stato introiettato (cioè posto nel mondo
interno del soggetto che pensa al suicidio) e poi “ucciso” attraverso l’uccisione di se
stesso. In tal senso, sul piano psicodinamico, è stato detto che il suicidio è una forma
di omicidio mancato.
Manninger (1933) Ha fatto notare che il suicidio può essere indotto non solo da
motivazioni inconsce di aggressività verso un oggetto introiettato, ma può essere
anche la via per realizzare il desiderio di aggressione consapevole (suicidio come
vendetta).
Shneidman (1985), ha evidenziato alcune caratteristiche relative ai vissuti ricorrenti
nel suicidio, che sono:

1. Il proposito di trovare una soluzione


2. Lo scopo di fare cessare la coscienza
3. Lo stimolo o impulso rappresentato dalla sofferenza psicologica intollerabile
4. Lo stressor della frustrazione dei bisogni più profondi
5. L’emozione dominante di hopelessness-helplessness
6. L’atteggiamento interno di ambivalenza
7. Lo stato cognitivo di costrizione
8. L’azione suicidaria come fuga
9. La comunicazione dell’intento
10. La correlazione con modalità di “coping” poco funzionali nell’arco della vita.

EPIDEMIOLOGIA DEL SUICIDIO E DEL PARASUICIDIO

Secondo recenti stime dell’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni anno circa
1.000.000 persone muoiono per suicidio. Se consideriamo che per ogni suicidio
vengono coinvolti, sul piano della sofferenza esistenziale o delle ripercussioni
sociofamiliari, tutte le persone che erano legate affettivamente al suicida, capiamo
come il suicidio rappresenti una problematica di carattere sociale molto rilevante.
Rilevanti risultano anche le implicazioni sul piano personale e sociale dei tentati
suicidi, dal momento che possono essere causa di invalidità permanente.
Il tasso di suicidio, se consideriamo il ciclo della vita, segue un andamento che
potremmo definire a “gobba di cammello”. Il primo picco si colloca nel pieno della
gioventù, approssimativamente tra i 24 e i 35 anni di età. I tassi di suicidio
continuano ad aumentare fino alla mezza età. Il secondo picco, in quasi tutti i paesi
del mondo, si riscontra tra gli anziani maschi di età superiore ai 75 anni. L’elevata
incidenza in età avanzata, sottolinea quanto il suicidio possa rappresentare un
problema di rilievo in ambito psicogeriatrico. Riguardo ai dati relativi al parasuicidio si
osserva come tra i maschi il tasso più alto (414/100.000) è stato registrato ad
Helsinki in Finlandia e il più basso (61/100.000) a Leida in Olanda con un rapporto
di 7:1 tra questi paesi. Per le femmine, il tasso più alto si è registrato in Francia a
Pontoise (595/100.000) e il più basso (95/100.000) a Quipuzcoa in Spagna. I
parasuicidi sono più spesso appannaggio del sesso femminile con l’eccezione di
Helsinki (Finlandia), dove i tassi registrati per i maschi risultano più elevati di quelli
per le femmine. L’età di picco per i parasuicidi, sia in termini di numeri assoluti che
relativi, cade sicuramente nella prima parte del ciclo della vita e in particolare tra i 15
e i 44 anni di età, benché si registrino rimarchevoli differenze tra paesi e sessi. (De
Leo e L. Pavan, 2002)
Il soggetto che ha tentato un suicidio è sicuramente a rischio di ripeterlo. Tra i
principali fattori di rischio di ripetizione dell’atto suicidarlo, possiamo considerare:

• precedenti tentativi di suicidio;


• disturbi di personalità;
• appartenenza al sesso maschile;
• condizioni di separato o divorziato;
• presenza di un disturbo mentale;
• dipendenza da sostanze stupefacenti e da alcool;
• appartenenza a una bassa classe sociale;
• condizione di disoccupato;
• storia di comportamenti criminali;
• familiarità suicidaria;
• episodi di violenza subita negli ultimi 5 anni;
• solitudine;
PREVENZIONE PRIMARIA DEL SUICIDIO

Posto che l’atto suicidario può essere la risultante di molteplici fattori di ordine
biologico, sociologico e psicologico, la prevenzione primaria si presenta la più difficile
da realizzare ma sicuramente anche la più efficace. La prevenzione primaria fa
riferimento alle possibilità di intervento che possono evitare l’instaurarsi di quegli
elementi che nell’individuo possono rappresentare fattori predisponesti alla condotta
suicidaria. Fa parte della prevenzione primaria agire sulle circostanze in grado di
determinare la comparsa di problemi psicologici e comportamentali, prestare cioè
attenzione all’educazione emotiva, considerandone sia le componenti individuali che
sociali. Ad esempio, sembrerebbe di grande importanza dare al bambino già dai
primi anni di vita una corretta educazione emotiva, riconoscendo come fondamentale
l’acquisizione delle capacità di mentalizzazione delle emozioni e della loro
comunicazione. Occorre emancipare la strutturazione dell’autostima dal doverismo e
dall’esclusiva accettazione degli altri; evitare i condizionamenti cognitivi che
ipertrofizzano la vergogna e la colpa; promuovere in ogni senso un’immagine
realistica del sé, che non deve essere in nessun caso condizionata dall’essere per il
dover essere, secondo aspettative sociali o familiari che non lasciano spazio alla
possibilità di accettare come possibili ed inevitabili i fallimenti nel corso della vità. La
prevenzione primaria del suicidio dovrebbe trovare, quindi, ampio spazio di studio e
di ricerca nell’ambito psicopedagico.
De Leo e Pavan (2002) suggerisce come sia anche importante una maggiore
sensibilizzazione verso i concetti di vita e di morte, con particolare attenzione al
significato del gesto suicidario e dei comportamenti che lo possono preannunciare.
In quest’ottica può risultare utile promuovere campagne di informazione sulla
depressione per aumentare le possibilità di identificarla, dal momento che questa
rappresenta in assoluto il maggior fattore di rischio suicidario. Campagne di
informazione andrebbero promosse anche al fine di diminuire il consumo di alcool e
droghe. Ancora, un controllo migliore andrebbe rivolto ai media, al fine di
deromanticizzare qualsiasi resoconto o narrazione pubblica riguardante eventi
suicidari.

PREVENZIONE SECONDARIA DEL SUICIDIO

La prevenzione riguarda gli ambiti d’intervento finalizzato a diminuire il rischio


suicidario dei soggetti considerati a rischio. Rientrano nella prevenzione secondaria
gli interventi sulle condizioni di crisi psicologica e socio-familiare, l’eliminazione dove
sia possibile attuarla, dei fattori che possono facilitare l’esecuzione del suicidio, ad
esempio la disponibilità di mezzi autolesivi (gas, farmaci, armi, ecc). L’approccio
preventivo dovrà prevedere un’opera quanto più possibile integrata tra operatori di
vari settori disciplinari: psichiatri, psicologi, assistenti sociali, operatori sociosanitari.
Negli Stati Uniti ed in Gran Bretagna, in molti centri metropolitani esistono centri di
crisi per la prevenzione del suicidio, con linee telefoniche attive 24 ore su 24 ed
operatori pronti ad intervenire nei casi di richiesta di aiuto o nelle situazioni ritenute a
rischio suicidario.
INTERVENTO TERAPEUTICO

La gran parte degli studiosi ritiene che la maggioranza dei soggetti suicidi soffrivano
di un disturbo mentale, più o meno manifesto e che, tra i diversi disturbi, la
depressione è certamente quello potenzialmente più rischioso. Questa stretta
connessione tra malattia mentale e comportamento suicidario ci porta a concludere
che i metodi efficaci di trattamento e di prevenzione dei disturbi mentali, ed in
particolare dei quadri depressivi, possano ridurre l’incidenza degli agiti suicidari.
Pertanto parlare di prevenzione e terapia del suicidio significa parlare di trattamento
dei disturbi psichici. Tanto la psicoterapia che gli psicofarmaci che la terapia
combinata (psicofarmaci + psicoterapia) vengono utilizzati efficacemente nel
trattamento dei disturbi depressivi e delle altre turbe psichiche e, pertanto, sono da
considerarsi utili nel prevenire il comportamento suicidario.

Aspetti preventivi del suicidio in adolescenza: la funzione educativa


Tratto da: prevenzionesuicidio.it

L'adolescente, per potersi inserire correttamente nella società degli adulti, ha


bisogno di avere delle relazioni positive con essi. Gli adulti sono perciò chiamati ad
assumere sempre più un ruolo educativo. In famiglia, a scuola, nel tempo libero
"organizzato" e nel mondo del lavoro l'adolescente sviluppa la propria personalità a
contatto con adulti che hanno l'opportunità di trasmettere dei valori e non solo
nozioni, in modo che l'adolescente possa acquisire la capacità di essere autore e
protagonista della sua vita.
A proposito della funzione educativa nel Rapporto 1997 sulla condizione dell'infanzia
e dell'adolescenza in Italia così si legge:
 Un'educazione della volontà: mantenere e sviluppare adeguatamente la
propria identità esige la capacità di passare da motivazioni al comportamento
orientate esclusivamente da influssi estrinseci (ndr.:cioè esterni alla propria
persona, come per esempio le mode) a orientamenti radicati su motivazioni
intrinseche (ndr.: cioè interiori); significa imparare ad esser padrone delle
proprie azioni, a saper gestire la propria libertà, a saper superare il
contingente (ndr.: la situazione momentanea nella quale si trova la persona)
per perseguire un proprio autonomo fine;
 Un'educazione alla capacità di ascolto: un ascolto non solo dell'altro che
parla, e con cui si vuole comunicare, ma un ascolto anche di sé, delle proprie
esigenze, delle proprie capacità, delle proprie caratteristiche. Ciò è possibile
solo se si sanno educare il ragazzo e la ragazza ad avere momenti di silenzio
e di riflessione e a non avere il terrore di restare, per qualche frazione della
propria vita, soli;
 Un'educazione al pensiero critico: la capacità di riflettere e di vagliare le varie
proposte prima di accettarle, di saper controllare il proprio pensiero
sottoponendolo a verifica senza lasciarsi sedurre da epidermiche
sollecitazioni, di saper mutare parere, senza sentirsi sconfitti, quando nel
dialogo con gli altri ci si accorge che essi hanno ragione, di saper riconoscere
umilmente che non tutto è sempre comprensibile e inquadrabile nelle
categorie mentali che si sono costruite. Implica aiutare i ragazzi e le ragazze a
sconfiggere quella malattia sociale che è costituita dal pregiudizio che
impedisce di conoscere la realtà quale veramente è, scava fossi tra le
persone, inaridisce i rapporti, isterilisce le possibilità di crescita umana;
 Un'educazione alla libertà: non proclamando la sua necessità, ma aiutando il
ragazzo e la ragazza a fare concreta esperienza di libertà; facendo loro
comprender che, accanto alla propria libertà, vi è anche quella degli altri;
aiutandoli a prendere coscienza che la libertà è una conquista difficile mai
definitiva che impone un profondo processo di liberazione da condizionamenti
interni ed esterni, da suggestioni, da manipolazioni aperte o subdole;
 Un'educazione a saper gestire il conflitto: il conflitto non è eludibile e nella vita
è indispensabile aiutare i soggetti in formazione a saperlo gestire ed utilizzare
in senso positivo. Il che significa abituare i ragazzi e le ragazze a riconoscere i
conflitti, anche quelli nascosti e dissimulati, accettandoli, elaborandoli,
liberandoli dagli automatismi distruttivi perché fondati solo sul pregiudizio;
significa anche aiutarli a riscoprire la carica positiva che vi può essere
nell'aggressività a stimolarli a saper evidenziare, innanzitutto a loro stessi, le
motivazioni reali che la determinano, evitando ogni forma di demonizzazione
dell'avversario e chiarendo ciò per cui si lotta piuttosto che guardare a colui
con cui si è in contrasto;
 Un'educazione alla legalità: perché si comprenda che senza norme rispettate
dai consociati nessuna vita di gruppo è possibile; che le regole dell'agire
sociale non sono un'imposizione immotivata, ma sono funzionali al
raggiungimento degli scopi per cui ci si associa; che la regola come la legge,
non nasce da un'imposizione autoritaria, ma dalla necessità di consentire un
ordinato svolgimento della vita che senza regole non progredisce; che
l'ossequio alla legge non ci rende schiavi, ma ci consente di essere liberi...."

Comunicare, ascoltare, dialogare, ossia:


 Valorizzare e incoraggiare l'adolescente nelle sue iniziative e attività
 Incoraggiarlo e lasciargli assumere le responsabilità
 Rinforzare la fiducia in sé stesso
 Fargli capire che i problemi esistono, ma che possono essere risolti, superati
 Mettere in discussione la valutazione che l'adulto fa dell'adolescente con la
sua autovalutazione; in un contesto del genere, probabilmente l'adolescente
comunicherà anche quello che gli crea delle situazioni di malessere.
 Ascoltare: chi è in crisi ha bisogno di trovare qualcuno che lo ascolti e che non
banalizzi il suo problema.
 Sostenere: trasmettere all'adolescente il suo interesse per quello che vive
 Non relativizzare: capire la gravità che il problema ha per quell'adolescente;
non è importante il grado di gravità che si assegnerebbe allo stesso problema
ma come è vissuto dall'adolescente.
 Se si pensa che l'adolescente possa mettere in pericolo la sua vita non
bisogna ignorare questa sensazione.
BIBLIOGRAFIA
- AA.VV. Trattato Italiano di Psichiatria, ed Masson 2002
- Shneidman E.: Definition of Suicide. Wiley and Sons, New York, 1985
- Menninger k. A., (1933) Psychoanalytic aspects of suicide. Int. J. Psych. Anal.
- Sito internet: prevenzionesuicidio.it

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