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Il terrorismo in Italia, una prospettiva psicosociale. 1-INTRODUZIONE

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Maria Teresa Fenoglio


Università degli Studi di Torino
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Il Primo aiuto psicologico in emergenza View project

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CAPITOLO 1
INTRODUZIONE

A contatto con le vittime

Gli attacchi terroristici condensano gli effetti della violenza criminale, dei disastri e della guerra.
La cura di quanti sono stati coinvolti in questo specifico evento traumatico è affidata perciò alle
conoscenze che i terapeuti hanno maturato nel trattamento delle vittime di violenza, del lutto per un
omicidio, di un disastro naturale o ambientale, delle violenze politiche o di guerra, di un assalto
armato (Miller L., 2002).

Le morti inaspettate, ad opera di un essere umano intenzionato ad uccidere, le armi micidiali, la


volontà di sterminio, sono fattori che rendono il lutto dei famigliari e il processo di guarigione dei
feriti particolarmente doloroso e difficile. Anche l’anonimato dei colpevoli pesa su questo dolore,
così come il non poterlo ricondurre a una qualche ragione.
Una malattia, un atto di violenza mirato, persino un incidente improvviso, consentono alle vittime
di collocare quanto avvenuto in uno schema di senso. L’impossibilità di far risalire la morte o il
ferimento a una “causa” e ad una “ragione” ostacola il processo del lutto e la metabolizzazione della
perdita. La rabbia diventa un sentimento molto più persistente e pervasivo che in altri tipi di perdita,
generando fantasie di vendetta che isolano chi li prova dai contesti relazionali e sociali. I
sopravvissuti cadono in una sorta di paura per ogni cosa, sviluppando un senso acuto di
vulnerabilità che si estende a luoghi, situazioni e stimoli sensoriali (Miller, 2002).
L’esposizione alla violenza di matrice politica induce reazioni psicologiche specifiche,
contraddistinte da stress elevato e senso continuo di minaccia che può generare ostilità sociale e
ritiro del proprio impegno (Hirsch-Hoefler, Canetti, Rapaport, & Hobfoll (2014)1
Queste ripercussioni non si limitano alle vittime primarie. Quanti hanno direttamente assistito alla
violenza, ma l’hanno semplicemente vista in TV e nei media, risultano egualmente esposti
(Marshall, R. D., Bryant, R. A., Amsel, L., Suh, E. J., Cook, J. M., & Neria, Y. (2007). Gli attacchi
terroristici di massa minano la fiducia sociale di base (Ursano, R. J., Fullerton, C. S., & Norwood,
A. E. (2003).
Illuminanti sono le osservazioni dello storico Giovanni De Luna nella introduzione al libro di una
vittima del terrorismo “rosso”, l’architetto Sergio Lenci (Lenci, 2009, p.17)2. Lenci, scomparso nel
2001, appare ossessionato dal voler trovare un senso all’azione criminale che per pura casualità non
lo portò alla morte. Indagò sul terrorismo, seguì i processi, finché non riuscì ad incontrare qualcuno
dei suoi attentatori direttamente in carcere. L’appassionata ricerca di Lenci era legata a una
considerazione interiore, “non può essere tutto qui”. Tuttavia, afferma De Luna,

“Lenci si ritrova proprio con l’unica verità che non avrebbe mai voluto trovare. Quella
soglia era stata varcata quasi per caso, forse perché serviva un morto alla settimana” (De
Luna, 1988).

1 Si ipotizza che l’ EPV (esposizione a violenza politica) prolungata porti a un rifiuto di sostegno ai processi di pace. Si
parla infatti di estremismo politico “stress based” fondato sulla
“Questo argomento è guidato sia da una spiegazione psico-politico che chiamiamo il 'modello Shattered Assumptions
theory

2 Sergio Lenci, Ordinario alla Facoltà di Architettura a Roma, aveva tra i suoi lavori la progettazione di un carcere.
Aggredito nel suo studio da quattro terroristi di Prima Linea, venne trascinato in bagno e colpito con un colpo di pistola
alla nuca. Ma sopravvive.

1
Le psicologhe impegnate nell’aiuto alle vittime del Bardo a Torino3 hanno sperimentato nel loro
lavoro terapeutico molto di quanto osservato da Miller e dallo stesso De Luna. Le vittime del
terrorismo solo apparentemente vivono dolori “normali”. La perdita di un figlio, una ferita grave, il
ritorno in una abitazione che si era lasciata per una vacanza, la fuga per salvarsi da un pericolo, si
avvicinano a scenari “consueti”, noti a tutti, ma se ne differenziano in modo significativo.

Chi dà aiuto psicologico ha l’illusione di trovarsi di fronte a sintomatologie già note, quelle del lutto
e del lutto traumatico, per rendersi conto a breve che i vissuti sono diversi.
Pronte ad avvertire segnali di PTSD, le psicologhe torinesi intervenute con le vittime del Bardo
hanno trovato affinità con quanto affermano I. Pivar e Holly G. Prigerson (in Danieli, 1988) a
proposito della perdita e del lutto traumatici connessi specificatamente con il terrorismo. Essi
considerano quel disturbo non tanto una sindrome risalente al PTSD, bensì una forma di angoscia
da separazione connessa al senso di annichilimento e disintegrazione dell’Io (Hurvich, 1989).
Si tratta di un tipo di sofferenza molto specifico, che l’umanità ha incontrato spesso nella sua storia.
I miti dell’antichità sono di valido aiuto per comprendere questa condizione psichica. Si pensi ad
esempio alla pietrificazione prodotta dallo sguardo di Medusa, a Euridice precipitata negli Inferi o
alla riduzione a una statua di sale della moglie di Lot.

Uno sguardo nuovo, disponibile alla destabilizzazione che procura l’inconsueto, è necessario
quando si ha a che fare con il terrorismo, sia sul piano clinico che su quello storico e sociale. Del
resto, addentrarsi con occhi nuovi negli effetti prima sconosciuti di una violenza terroristica
consente alla vittima di legittimarsi e sentirsi compresa e al terapeuta di farsi a sua volta condurre
attivamente nella scoperta, stabilendo così una alleanza.
A questo proposito colpisce che lo psicologo, abituato a rivolgere uno sguardo sistemico ai soggetti
che vivono un disagio esistenziale, faccia a volte difficoltà ad adottare analoghi criteri alle
situazioni sociali allargate. Ne consegue che la sofferenza che discende dal “terrorismo” rischia di
essere guardata con lenti parziali, come se si trattasse di una sindrome circoscritta, sia nello
specifico contesto che nel tempo storico.

Vittime e contesti-Una psicologia in dialogo con le scienze sociali

Apro con le vittime le pagine che ho scritto e che sono qui pubblicate perché esse costituiscono una
delle due lenti principali con cui ho guardato al terrorismo: la prima, e quella che privilegio, è
rappresentata da chi il terrorismo lo ha subito in prima persona. Lo psicologo è chiamato a curare le
sofferenze dell’anima (psyché) e queste costituiscono il richiamo e la meta. A chi chiedeva loro “da
che parte stavano”, gli psicologi yugoslavi, coinvolti nella cura delle vittime di diverse etnie,
rispendevano: “dalla parte della sofferenza” (Losi, 2000). Le vittime, inoltre, risultano stranamente
marginalizzate nella produzione saggistica dedicata all’argomento, con una relativa modificazione
di tendenza negli ultimi anni. Numerose ragioni tengono il grande pubblico lontano da loro, ed esse
sono prevalentemente di natura psicosociale, come si vedrà nel seguito di queste pagine.

L’altra ottica è quella dei contesti socio-politici, a cui cerco di dare una lettura con strumenti
psicosociali.

3 Cinque psicologhe dell’Associazione Psicologi per i Popoli Torino. Il 18 marzo 2015 un gruppo di terroristi irruppe nel
Museo del Bardo a Tunisi uccidendo e ferendo numerosi turisti, tra cui 15 italiani. Il bilancio complessivo fu di 24 morti:
21 turisti, fra cui quattro italiani (due dei quali torinesi). Le vittime torinesi erano quasi tutte dipendenti comunali. Il
Comune di Torino incaricò Psicologi per i Popoli Torino, una Associazione di volontarato, di prestare aiuto alle persone
sopravvissute e ai famigliari di chi era mancato. L’aiuto si è protratto per circa un anno.

2
L’essermi avvicinata a numerosi saggi che rimandano a paradigmi alla fine vecchi o insufficienti mi
ha fatto constatare quanto spesso si ricorra a razionalizzazioni, specie quando si vogliano
individuare “cause” ricercandole unicamente nel livello di sviluppo politico/economico di un
contesto o di marginalizzazione sociale. In molte fasi della mia ricerca mi sono spesso stupita di
quanto ancora la cultura che discende dal materialismo storico, pure così indispensabile per la
comprensione degli eventi, stenti ad aprirsi ad altri paradigmi là dove ci si trova di fronte alla
complessità e al mistero delle dinamiche comunitarie, gruppali o dell’animo umano4. Il diverso
approccio che la psicologia propone non è ancora mainstream o è respinto forse in quanto
apparentato, in Italia, al vecchio retaggio idealistico. Questo risulta spesso deludente per lo
psicologo, specie quando ha l’illusione di trovare alleati nella ricerca della verità quanti immagina
politicamente sulla propria stessa strada.

La psicologia può offrire invece strumenti indispensabili alla comprensione dei fenomeni storici,
sociali e politici e il terrorismo è uno di questi.
Nelle pagine che seguono tenterò allora di “far parlare” tra loro ottiche storiche, sociali e
psicologiche, anche se questo comporterà senza dubbio il rischio di approssimazioni, di cui mi
assumo la responsabilità. Se qualcuno mi contesterà, o vorrà fare precisazioni e correzioni, sarà del
resto il benvenuto. Mi terrò comunque il merito di aver iniziato a comporre il quadro.

Quanto alla composizione del quadro medesimo, sono consapevole che esso non comprende in
nessuna forma o maniera i terroristi di matrice “nera”. Del resto non sono la sola a compiere questa
omissione, data la scarsità della letteratura in merito. Questo non giustifica del tutto tale evitamento,
che andrebbe rimediato. Forse troppe barriere si oppongono all’ascolto di questi terroristi,
soprattutto da parte di chi ha ascoltato invece quelli “rossi” pur non sposandone la visione o
mostrando indulgenze di sorta. Tra queste resistenze annovero anche le mie.

Una visione d’insieme

Se guardiamo al fenomeno del terrorismo cominciando dalla operazione più semplice, leggere con
attenzione l’elenco in sequenza delle azioni perpetrate, rimarremo sorpresi da alcuni dati di fatto.
Il primo è relativo alla portata della nostra memoria, che difficilmente abbraccia tempi molto lunghi
(di rado più di 50 anni), luoghi molti distanti tra loro (oltre l’Occidente), eventi socialmente intricati
su cui non abbiamo mai avuto notizia (qualcuno ricorda di un attentato in Cina ad opera di un
gruppo indipendentista?), o dinamiche assai complesse tra gli attori in campo. Il ristretto cono di
memoria che ci condiziona è evidente, quindi la sorpresa non può che essere grande.

Il secondo dato è che la storia disconferma molto di ciò che diamo per assodato. Può essere infatti
imbarazzante scoprire alcuni dei nostri stessi stereotipi (ad esempio “terrorismo islamico”), o la
propensione generale a condividere una idea prefissata di “nemico”, o di “male”.
La definizione di terrorismo proposta dal Dipartimento di Stato USA, ad esempio, individua con
questo termine la violenza perpetrata a danni di civili da parte di gruppi “sub-national” e
“clandestini” (Weizer et al., in Danieli , 2005).
Altri studiosi preferiscono una definizione più ampia, che include la violenza perpetrata dagli Stati e
dai Governi stessi (Danieli, cit.), sia diretta che tramite bracci armati. Questo secondo tipo di
terrorismo (vedi l’azione violenta dell’establishment egiziano nei riguardi del nostro concittadino
Regeni), viene spesso sottaciuto.

4 Queste “letture insufficienti” sono numerose, ma particolarmente là dive si cerca di dare una lettura a
fenomeni chiave, quali ad esempio il passaggio dal ’68 ai gruppi extraparlamentari e quindi al terrorismo o di
eventi, ben poco “districati”, come l’omicidio del Commissario Calabresi.

3
Anche quando le azioni terroristiche ci appaiono del tutto scollegate dal contesto vissuto dai
perpetratori, e perciò irragionevoli, l’ottica sistemica ci rivelerà un quadro di reciprocità di violenza,
sulla cui esistenza sarà però difficile trovare un interlocutore, perché nel senso comune (ma non
dello psicologo!) comprendere vuol dire giustificare. E chi vorrebbe giustificare un terrorista?

Il terzo dato ad emergere è che la psicologia concorre a sua volta a orientare le definizioni. Lungi da
costituire una disciplina neutrale, i paradigmi adottati, l’individuazione dei problemi, le indicazioni
terapeutiche denunceranno la visione alla quale lo psicologo vorrà attenersi.
Nel valorizzare la “psicologia dei contesti”, con una solida base di psicologia sociale, sistemica o
“ecologica”, Danieli stigmatizza il crescente riduzionismo della psicologia (Danieli, cit).
Nel caso del terrorismo l’approccio contestuale o socioculturale appare invece il più idoneo ad
affrontare la sfida. Esso poggia sulla collocazione del comportamento individuale all’interno del
quadro storico, politico, economico e sociale specifico, che trova sempre più credito nei programmi
di prevenzione e riconciliazione, non tanto però da diventare al momento “mainstream” ed
assumere un ruolo di rilievo nel mondo della ricerca.

Gli esempi non mancano: senza alcun dubbio il terrorismo Ceceno, sfociato in episodi
particolarmente tragici, è strettamente connesso con le politiche espansioniste e violente della
Russia, le quali alimentano la spirale della violenza. Alla base degli innumerevoli reciproci attacchi
militar-terroristici c’è l’espansione coloniale israeliana a danno dei palestinesi, fenomeno tra i più
persistenti della storia recente, ma anche quella cinese (Tibet). La corruzione dei governi provoca a
sua volta reazioni estreme, come avviene in molti stati africani (Sierra Leone, Liberia, Rwanda,
Zimbawe). Senza parlare degli interessi economici legati allo sfruttamento del territorio altrui
(Afghanistan). Si tratta di fattori che intrecciandosi con altri, di origine culturale e religiosa,
producono una persistenza del terrorismo oltre ogni confine apparentemente ragionevole, come è
avvenuto e avviene in Indonesia, East Timor, Sri Lanka, ecc. Il fenomeno europeo della
radicalizzazione, del resto, rimanda a problemi di esclusione sociali degli immigrati di seconda o
anche terza generazione5

La letteratura mainstream e l’approccio di Psicologia dei Comunità

In contrasto con contesti così diversificati, l’ottica prevalente nella letteratura psicologica a nostra
più immediata disposizione appare quella che si è diffusa a partire dall’esperienza americana
dell’11 settembre. Certamente un evento terribile e di grandissime dimensioni, ma non unico, e
comunque dotato di un significato rintracciabile. Eppure, se si guarda alla entità della letteratura
psicologica che quell’evento ha mobilitato, essa invade la scena. Si tratta di ricerche inerenti il Post
Traumatic Stress Disorder, spesso su larghi campioni di popolazione, le quali “fotografano”
situazioni, non sempre accompagnate da riflessioni approfondite su come le persone hanno
affrontato quella tragedia nel corso del tempo, sulle best practice e sui significati che i soggetti vi
hanno attribuito6.


5 Su questo tema lavora in Europa la Rete RAN (Radicalization Awareness Network), in cui opera Luca
Guglielminetti, autore di un saggio qui presente.
https://ec.europa.eu/home-affairs/what-we-do/networks/radicalisation_awareness_network_en
6 Vedasi come esempio quanto riportato dall’American Journal of Psychiatry ,
(d(https://ajp.psychiatryonline.org/doi/abs/10.1176/appi.ajp.160.4.780) o il numero speciale dell’American
Psychological Association (http://www.apa.org/pubs/journals/special/4016609.aspx), che offre una
prospettiva un po’ più aperta alle dimensioni psicosociali. Poche sono le voci di psicologi che si levano a proporre
prospettive più “sistemiche”. Una di queste è quella della Associazione americana Psychologists for Social
Responsability (https://psysr.wordpress.com/), che si batte anche in dissenso con APA sul coinvolgimento degli
psicologi nelle azioni repressive contro presunti terroristi (Abu Grahib), in quelle a carattere manipolatorio alla
base della collaborazione tra APA ed esercito, sulle politiche di guerra, sul trattamento penitenziario, ecc.

4
Personalmente molto propensa a un orientamento psicosociale e di comunità, ho perciò ricercato in
questa direzione. Sembra che dopo l’11 settembre siano in realtà stati numerosi a New York gli
interventi “community based” (Weizer, Dorin, 2003). Questi, accanto al sostegno psicologico,
hanno previsto aiuti al rilancio economico, alla sistemazione abitativa e al rafforzamento dei legami
comunitari. Venne ad esempio realizzato un progetto federale molto esteso, detto Project Liberty,
coinvolgente più di 70 Enti, i quali offrirono opportunità educative e counseling individuali e di
gruppo. Il progetto era diretto dalla FEMA, il corrispettivo americano della nostra Protezione
Civile, e dal Lower Manhattan Healing Project Team, che estesero gli aiuti a 360 gradi. Venne
realizzato il progetto “Time to Share”, che prevedeva incontri di auto aiuto tra gli abitanti, i quali
avevano dichiarato “non voglio una psicoterapia, voglio poter parlare con il mio vicino!”7

La FEMA in quella occasione delineò con precisione il proprio modello di riferimento. Esso era
fondato sulla normalizzazione (reazioni normali a eventi anormali), ricusazione di diagnosi e forme
di medicalizzazione, obiettivi formali e pianificazione di trattamenti. Veniva dato valore, invece, al
processo di elaborazione e allo sviluppo autonomo di strategie di coping.
Quarantelli (1985, p.83) contesta la sicurezza con cui i professionisti di salute mentale presumono
che a eventi catastrofici conseguono necessariamente patologie mentali. Gli operatori perciò devono
rivedere la propria tradizionale impostazione, abituarsi a lavorare fianco a fianco con altre figure
professionali comprese quelle di tipo “spontaneo” (FEMA, 2000). I criteri di selezione dello staff
poggiavano su tre criteri fondamentali: essi dovevano essere “indigeni”, cioè provenienti da quella
realtà sociale, “umanistici” e “indipendenti”. Vennero ad esempio coinvolti professionisti di origine
ebraica, cinese, russa, latinoamericana, a seconda delle comunità interessate. Lo staff era fuori da
collocazioni rigide, si mostrava capace di idee innovative e di saper coinvolgere figure solitamente
“anomale”. Furono così cooptati nel progetto di sviluppo di comunità un fotogiornalista, un' arte
terapeuta, un rabbino, un maestro di yoga, pensionati, insegnanti, psicologi, operatori sociali,
studenti. Lo staff, che lavorava a stretto contatto con gli abitanti e a suo volta coinvolto nell’11
settembre, era esposto a ritraumatizzazione. La FEMA impostò una supervisione “generalista”, non
formale, di scambio di esperienze e studi di casi, alla quale venivano chiamati anche specialisti
esterni. Tutti dovevano confrontarsi con quello che Danieli (2005) chiama event
countertransference, vale a dire l’impatto esercitato dalla tragedia e dai racconti. Riunioni mensili e
un laboratorio di scrittura creativa furono sembra di molto aiuto.

Oltre alle ricerche evidence based e ai preziosi report sul lavoro di comunità, sono spesso giornalisti
psicologicamente sensibili a restituirci la complessità degli scenari.
E’ dal materiale da loro raccolto che ho attinto, ad esempio, per poter acquisire un quadro di come,
in Italia, il terrorismo ha cambiato per sempre la vita degli individui8.

Il secondo fronte che vede una cospicua produzione scientifica è quello israeliano. Le comunità di
Israele, da molti anni colpite dal terrorismo sia in periferia che nei centri nevralgici delle grandi
città, hanno condotto estese ricerche sulle conseguenze degli attentati sulla popolazione e sulla
resilienza espressa. Se è indiscutibile che professionisti come Mooli Lahad9 lavorano con grande
impegno anche su territori fuori da Israele, è pur vero che le risorse messe a disposizione da quegli
istituti scientifici e universitari tendono a saturare le pubblicazioni accessibili. Non avremo mai così
il punto di vista dei paesi “poveri”, o solo “più poveri” su quanto accade loro a causa del terrorismo.


7 ibidem
8 Vedi in particolare il libro di Fasanella e Grippo (2006), e i numerosi siti online delle Associazioni delle vittime.
9 Mooli Lahad, docente al Tel Hai College, nell’Alta Galilee, e alla Università del Surrey, dirige il Community Stress
Prevention Center, costituitosi nel 1979 per iniziativa del Ministro Israeliano dell’ Educazione. E’ attualmente
consulente dell’UNICEF e fa parte del Comitato per la Resilienza del Primo Ministro Israeliano. Importanti i suoi
contributi sulla resilienza di comunità.

5
Pochissime le ricerche in questi scenari10. Eppure non è il mondo occidentale quello più colpito.
Credo che la consapevolezza di quanto parziale e radicalmente “occidentale” sia la nostra visione
delle cose debba almeno spingerci ad essere più aperti e modesti. Una lunga strada di ricerche e di
viaggi aspetta gli psicologi11.

Il terrorismo in Italia e la presenza degli psicologi

La sorpresa più grande si è però rivelata la specifica storia del terrorismo nel nostro paese. Forse
catturati dalle notizie delle azioni terroristiche recenti, la lunga e tragica esperienza di terrorismo in
Italia è andata quasi dimenticata. Eppure il percorrerne le vicende, così come le azioni condotte
dalla società civile per rispondervi, appaiono di particolare rilievo per gli psicologi. Infatti, mentre
l’intervento psicologico e psicosociale a fronte di attacchi terroristici così come oggi li concepiamo
ha assunto a partire dagli anni ’90 un rilievo notevole in USA e in Europa, le azioni, di importante
valenza psicosociale, che si sono svolte nel nostro paese, vengono sottaciute.

Se l’aiuto psicologico può essere a buona ragione considerato un intervento specifico, a carattere
preventivo e clinico, condotto da professionisti, sarebbe utile non ignorare che nel caso dell’Italia la
dimensione terapeutica a fronte della violenza terrorista è stata perseguita indirettamente ma con
tenacia, a volte con eroismo, dalle forme organizzate della cittadinanza. Basti citare la
mobilitazione per la lotta contro il terrorismo mafioso che ha visto la costruzione di esperienze
alternative di vita e di lavoro, come nel caso dei beni requisiti alla Mafia e della organizzazione
“Libera”. Oppure alle reazioni dei sindacati dei lavoratori ed Enti Locali in risposta al terrorismo
delle Brigate Rosse e altre formazioni “rosse”. O l’assidua opera di ricerca della verità e della
giustizia di associazioni come quelle delle vittime degli attentati di Bologna, del treno Italicus e
dell’aereo caduto in mare presso Ustica. Pensiamo anche al perseguimento della verità da parte di
magistratura e cittadini nei diversi successivi attacchi operati dai protagonisti della cosiddetta
“strategia della tensione”, ossia dai corpi separati dello Stato (Servizi Segreti, P2, neofascisti), che
con esso hanno avuto forti intrecci, cercando di minare alla base la stessa struttura democratica
italiana.
Uno dei primi scopi del terrorismo, in particolare quello stragista, detto anche “di Stato”, è infatti
destabilizzare il contesto socio-politico in modo tale da rendere auspicabili misure di restrizione
delle garanzie democratiche. Le analisi a questo riguardo non mancano (Giannuli, 1980). Sappiamo
che il terrorismo contribuisce a creare una “cultura della violenza” (Awad, 1999; Bar-On, 1999;
Lira, 2001; Nader, 2003, 2004 in. Danieli, Cit, 2005, Lira (2001), contraddistinta da polarizzazione
ideologica, restringimento dei diritti individuali, indebolimento dell’autonomia e della fiducia in se
stessi e negli altri, svalutazione della vita umana in quanto tale (Lira, 2001).

La lunga vicenda del terrorismo italiano raramente ha visto in campo gli psicologi. Solo molto
recentemente, in risposta ad azioni terroristiche di matrice jihadista, si sono avute risposte,
soprattutto a cura di Associazioni di volontariato12. Se questo ha avuto la conseguenza di lasciare
inevasi, per lo meno in passato, i bisogni di tanti cittadini con gravi traumi, gli psicologi potrebbero
trarre ispirazione non solo dallo studio e dal trattamento delle profonde ferite, fisiche e morali, di
vittime e famigliari, ma dalla capacità di resilienza e risposta dimostrata dai singoli, dai gruppi e
dalle comunità in gioco. Studiare come i soggetti hanno fronteggiato quegli eventi può tradursi in
uno strumento terapeutico importante ed efficace, trasferibile all’azione terapeutica verso le nuove
vittime che approdano sulle nostre coste. Per far questo servirebbe spostare l’ottica dello psicologo

10 Una fonte interessante è la rivista online Palestine-Israel Journal, http://www.pij.org/details.php?id=58
11 Per una panoramica delle ricerche vedi l’esteso volume a cura di Danieli, Yael (2005)
12 In particolare Psicologi per i Popoli Torino, a seguito dell’attentato al Museo del Bardo a Tunisi (vedi saggio
qui di seguito) e Psicologi per i Popoli Cuneo, che ha preso cura di alcuni turisti scampati all’attentato di Nizza.

6
dai riferimenti centrati sulla professione alle lezioni forniteci dagli stessi soggetti. Attenzione critica
andrebbe posta anche ai condizionamenti imposti dal mainstream scientifico, che induce una
specifica visione ancora troppo “tecnica” del ruolo dello psicologo, in direzione, mi sembra, di una
accettazione ancora troppo acritica degli assetti politici ed economici delle nostre società, i quali
coinvolgono, ovviamente, lo psicologo stesso. Guerra, odio, sfruttamento globale, consumo delle
risorse, povertà e respingimento dei deboli considerati come il male accettabile, e infine terrorismo,
rivelano un nesso inscindibile, che si radica nelle menti dei soggetti che gli psicologi hanno in cura
determinandone il disagio (Moghaddam & Marsella eds. 2003) 13. Prescinderne indebolisce la
proposta terapeutica; prenderne atto e studiarli rimette “all’onor del mondo” una professione spesso
troppo ripiegata su se stessa.

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13 L’American Psychological Association osserva: “At the heart of the challenge are questions central to all of
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because of the particular personality characteristics of terrorists? To what extent is terrorism a result of broader
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