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Il terrorismo in Italia. Cap. 2-Lo stragismo.

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Maria Teresa Fenoglio


Università degli Studi di Torino
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CAPITOLO 2
IL TERRORISMO IN ITALIA 1
Lo stragismo

Premessa

Prima degli anni ’70 il terrorismo in Italia fece capo prevalentemente ad istanze indipendentiste.
Dopo la seconda guerra mondiale infatti, a seguito dei nuovi assetti stabiliti dai trattati
internazionali, alcuni territori furono o annessi o invece separati dall’Italia. Grandi furono la pena
e le concrete difficoltà di larghe fasce di popolazione. Trieste rimase a lungo territorio conteso e
incerto, mentre le popolazioni di lingua e cultura italiane della Dalmazia e dell’Istria, passate alla
Yugoslavia, ripararono in Italia in gran numero. Parallelamente quelle del Sud Tirolo, in
compensazione con la perdita delle terre Giuliane, furono deluse nelle loro richieste indipendentiste
e rimasero annesse all’Italia. Nonostante le numerose garanzie volte al mantenimento di una
autonomia locale e dell’uso linguistico, si sviluppò un movimento indipendentista che ricorse anche
ad attentati terroristici, con numerose esplosioni che fecero, negli anni ’50 e ’60, 21 morti e diversi
feriti. Nel giugno 1961, nella “notte dei fuochi” Bolzano fu sconvolta da decine di esplosioni. Nel
’64 e 65 trovarono la morte numerosi carabinieri 2. E nel 1967 è la volta della strage di Cima
Vallona in cui assieme ad altri perde la vita il capitano Francesco Gentile. (Flamini, 2003; Minniti,
2008, Milei, 2018).
L’indipendentismo attrasse anche altre regioni italiane, ad esempio la Sicilia e la Sardegna, in cui
ebbe un connotato maggiormente “di sinistra”, senza però che si ricorresse ad azioni terroristiche
dirette.

L’ arco di tempo che va dalla strage di Piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre 1969, a quella alla
stazione di Bologna del 1980 e qualche successivo epigone3, fu una stagione molto difficile per
l’Italia. Il nostro paese attraversò momenti di enorme tensione sia per l’imprevedibilità e la gravità
delle violenze sia perché il paese sentiva di rischiare la messa in crisi delle proprie conquiste
democratiche.
A proposito di quegli anni si parlò di “strategia della tensione”4 (De Lutiis, 1984) e di “anni di
piombo”5. Le forze eversive in campo furono infatti di due tipi: la prima ebbe come mandanti e
sostenitori delle formazioni di estrema destra le strutture stesse dello Stato, per quanto “devianti”,
che operavano allo scopo di interrompere la crescita della sinistra parlamentare (PCI). La seconda


1 Non ho compreso in questa rassegna né gli attentai riconducibili alla reazione palestinese alla occupazione
israeliana, né gli attentati di Mafia, generalmente non fatti rientrare nel fenomeno terrorista. Eppure questi
ultimi ne avrebbero tutte le caratteristiche. Sulla Mafia esiste tuttavia una letteratura psicologica consistente,
facente capo soprattutto alla Università di Palermo (Giordano, 2006) , Lo Coco e Lo Verso, in Psychiatrionline,
ottobre 2012, http://www.psychiatryonline.it/node/2411)
2 Vittorio Tiralongo, venne ferito a morte da un colpo di fucile a Selva dei Molini nel 1964. Stessa sorte tocca
nell’agosto 1965 a Luigi De Gennaro e Palmerio Ariu all’interno della caserma di Sesto Pusteria (Mieli, 2018)
3 Dal 1969 al 1987 furono oltre quattrocento i morti e milleduecento i feriti in otto stragi ; 14.590 atti di violenza
contro persone o cose.
4 Con questo termine si intende la strategia messa in atto dai servizi segreti americani, collegati a quelli italiani e
a formazioni di destra (Loggia P2, estremismo di destra) i quali, per sventare l’avanzata comunista e la
possibilità che l’Italia uscisse dalla propria sfera di influenza , mise in atto una serie di attentati terroristici che
avrebbero dovuto indurre il paese a instaurare regimi dittatoriali o comunque a rinunciare alle proprie
prerogative democratiche.
5 Con il termine “anni di piombo” si fa riferimento agli anni, caratterizzati da scontri anche cruenti tra “opposti
estremismi”, di cui si resero protagonisti in particolare formazioni extraparlamentari, la più nota delle quali
furono le “Brigate Rosse”.

1
fu generata da gruppi della sinistra eversiva che, opponendosi ai progetti riformistici promossi da
Partito Comunista e Democrazia Cristiana, pianificavano di condurre il popolo italiano alla rivolta6.
Questi avvenimenti hanno ancora molto da insegnarci, sia perché mettono in luce il contesto
sociopolitico da cui proveniamo e che ancora getta un’ombra sul presente, sia per le ripercussioni
psicologiche individuali e comunitarie rilevabili anche a distanza di tempo. Quelle vicende ci sono
tuttavia di insegnamento anche per le modalità, oggi diremmo “resilienti”, che i singoli e la società
civile italiana seppe mettere in campo.

I tre fattori nominati, contesto sociopolitico, ripercussioni psicologiche e resilienza, rivestono una
importanza fondamentale per lo psicologo, anche se del secondo fattore, quello delle vicende
personali di vittime e sopravvissuti, si sa molto poco, e meno ancora del decorso psicologico delle
loro vite. Caso per caso, tuttavia, è possibile cogliere, in base alle fonti disponibili, elementi che
parlano allo psicologo di oggi, così come hanno parlato a me che dopo molti anni mi sono
riavvicinata a quegli avvenimenti che da giovane ho vissuto in prima persona.

Il terrorismo stragista e la crisi della credibilità dello stato

Con il termine “terrorismo stragista” si fa riferimento sia alla matrice delle azioni, quella “nera”,
cioè di ispirazione fascista, sia alle caratteristiche specifiche delle azioni, rivolte contro la massa
inerme dei cittadini. Esso ha colpito ripetutamente e nel mucchio, mirando a fare quante più vittime
possibile, in modo non dissimile al terrorismo odierno di ispirazione islamista, se si esclude il
fattore del suicidio.
Gli eventi a cui il termine si riferisce sono infatti quattro stragi, che hanno scandito a distanza
regolare gli anni che vanno dal 1969, con L’attentato di Piazza Fontana a Milano, a quella più
estesa e grave, la strage della Stazione ferroviaria di Bologna, nel 1980. Tra l’una e l’altra si
collocano la strage in Piazza della Loggia a Brescia (1974) e quella del Treno Italicus , sempre nel
1974.

Queste azioni, compiute a ridosso dei grandi movimenti studenteschi e operai del ‘68/69 che
reclamavano giustizia sociale e partecipazione democratica, sono state la reazione violenta alla
spinta per il rinnovamento di tanta parte della società italiana e, come si è gradatamente appurato,
sono stati perseguiti da forze reazionarie che intendevano spingere il paese verso soluzioni
autoritarie. Recentemente il Capo dello Stato Sergio Mattarella ha affermato in una dichiarazione
diffusa dal Quirinale che

«La strage della stazione fu parte di un disegno eversivo. Quella strategia di


destabilizzazione, che mirava a scardinare le basi democratiche e frenare il progresso
sociale dell’Italia, ha seminato per lunghi anni nel Paese lutti, tragedie, paure” (La
Stampa, 2017)

Piazza Fontana aprì la lunga stagione del terrorismo degli anni ’70 e ’80 in Italia, interrompendo
bruscamente quel clima creativo ed entusiasta che caratterizzava le mobilitazioni studentesche ed
operaie. Quello del “‘68”, fu un periodo breve segnato da forti speranze per il rinnovamento della
vita istituzionale, soprattutto nelle università e nelle fabbriche, oltre che di rottura con i costumi e le
rigide imposizioni morali di una società ancora clericale, autoritaria e classista. Per comprendere
l’impatto che sortì l’attentato occorre ricollegarsi alle speranze che quelle nuove esperienze


6 Per un quadro degli esperti di storia del terrorismo eversivo in Italia, vedi il convegno tenutosi nel 2016 alla
Università di Padova a cura del Centro Di Ateneo per la Storia della Resistenza e dell’età Contemporanea,
http://www.iismarchesi.it/sites/default/files/notizie/2016/la_rete_eversiva_di_estrema_destra.pdf

2
avevano suscitato in chi le viveva e che si erano tradotte nell’autogestione di fabbriche e università
e nella possibilità di superamento delle barriere sociali e di classe di strati di società
tradizionalmente segregati e divisi. Giovani della borghesia, operai, sottoproletariato urbano, si
mescolavano e interagivano attorno a progetti creativi. Tra i protagonisti di quella rivoluzione
c’erano anche i “matti”, che uscivano, grazie a Basaglia, dalla reclusione dei manicomi; le donne,
che organizzavano consultori auogestiti per l’informazione sulla riproduzione e sull’aborto; gli
operai, che davano vita a forme di gestione dal basso, nelle fabbriche e nel sindacato. Da quell’era
nacquero le più importanti riforme realizzate nell’Italia del dopoguerra, come le garanzie sul posto
del lavoro (consigli di fabbrica, articolo 18), il nuovo diritto di Famiglia, il divorzio, la
legalizzazione dell’aborto e non certo ultimo la riforma psichiatrica.
Piazza Fontana segna una interruzione drammatica di quel flusso di eventi, determinando come un
brusco risveglio a una realtà di cui forze oscure e insormontabili rivendicavano il controllo
(Signorini, 2015).

Il 12 dicembre 1969 una bomba esplose all'interno della sede della Banca Nazionale dell’
Agricoltura a Milano, in Piazza Fontana (Biondo, 2009; Filippini, Rossi, Tundo-video). Lo scoppio,
causato dall’esplosivo posto dentro una valigetta nascosta sotto il tavolone centrale, fece diciassette
morti e ottantotto feriti7.
Questo attentato segna per l’Italia, come afferma a distanza di anni un testimone8, la fine della
credibilità dello Stato, le cui responsabilità dirette, ad opera di corpi separati che tuttavia rivestivano
un ruolo centrale negli apparati statali, vennero man mano alla luce (Bettin, 1999; Boatti, 1993).

Alcuni anni dopo Piazza Fontana, il 28 maggio 1974, membri affiliati al Movimento Politico
Ordine Nuovo, un gruppo terrorista neofascista, fece esplodere un ordigno in piazza della Loggia a
Brescia. L’esplosione provocò 8 morti e 102 feriti.
A Brescia si stava svolgendo una manifestazione sindacale, in un territorio in cui la piccola media
industria attuava da tempo forme di particolare sfruttamento del lavoro operaio. L’attentato cadde a
ridosso di un periodo di riforme innovative, sostenute dalla sinistra, come il nuovo diritto di
famiglia, e qualche settimana prima dell’attentato si era svolto il Referendum sul divorzio. Ma sono
altrettanto interessanti i dati sociologici, come quello che degli 8 morti ben 5 erano insegnanti
(Fasanella, Grippo, 2006; SPI-CGIL)9
Il 4 agosto 1974, pochissimi mesi dopo, una bomba esplose sul treno espresso Roma-Brennero
(Italicus) a San Benedetto Val di Sambro. Morirono 12 persone, 48 restarono ferite. Aldo Moro
avrebbe dovuto essere a bordo, ma fu trattenuto per la firma di alcuni documenti. Tra le vittime il
conduttore ferroviario di 25 anni, Silver Sirotti, che rientrò in un vagone per spegnere l’incendio e
salvare alcuni passeggeri e che venne poi insignito di medaglia d’oro10.

7 Una seconda bomba fu ritrovata inesplosa in piazza della Scala, nella sede milanese della Banca commerciale
italiana. Una terza bomba esplose a Roma, nel passaggio sotterraneo della Banca Nazionale del Lavoro. Tredici
feriti. Altre due esplosero nella stessa giornata davanti all'Altare della Patria e all'ingresso del museo del
Risorgimento. Quattro feriti. (L’Unità, cit.)
8 Fortunato Zinni, già Presidente delle Associazione delle vittime.
9 http://www.spi.cgil.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/788
10 In un recente articolo su Il Fatto Quotidiano (Beccaria, 2014), viene ricostruito così quell’episodio:“ oltre alle
dodici vittime che costituiscono il bilancio ufficiale della strage dell’Italicus, altre ce ne sarebbero state se il
macchinista non avesse fatto scivolare il treno fuori dal lunghissimo tunnel, oltre 18 chilometri. E se Silver, finito
nella conta dei morti, non avesse rinunciato a mettersi in salvo. Invece tornò indietro, in mezzo alle fiamme,
afferrando un estintore e tentando di portar fuori chi ancora poteva essere vivo. Per risalire sul treno il ragazzo
aveva dovuto addirittura divincolarsi dal placcaggio di un passeggero incolume, che ne aveva intuito le
intenzioni e aveva provato a strapparlo a morte sicura. A quel punto, liberatosi, Silver si lanciò verso la quinta
carrozza e nessuno lo rivide più vivo” (Beccaria, 2014).

3
Tra l’una e l’altro di questi attentati, tutti risalenti ad organizzazioni di estrema destra, con mandanti
mai accertati, ve ne furono tuttavia altri undici, e il clima in Italia si fece tesissimo. Si cominciò a
parlare per quel periodo di “strategia della tensione”11

Il 2 agosto 1980, alle ore 10:25, alla stazione centrale di Bologna esplose una bomba, collocata da
terroristi, che determinò la morte di 85 persone ed il ferimento di altre 200.
Si trattava di un giorno di inizio vacanza. La stazione era piena di viaggiatori che raggiungevano
luoghi di villeggiatura o si ricongiungevano ai parenti. Furono perciò colpite intere famiglie, alcune
delle quali vennero distrutte. Tra le vittime anche molti lavoratori. L’ala della ristorazione, che
impiegava numerose ragazze, venne sbriciolata, e solo una di loro si salvò. Fu l’intero sistema
cittadino a portare soccorso, compresi gli autisti di autobus e i taxisti.
Si trattò del più grave attentato stragista che l’Italia abbia subito. Le vittime, ma anche l’intera città,
che ha posto a memoria di quella tragedia una lapide prospiciente l’attuale sala d’aspetto, hanno
mantenuto con tenacia la memoria di quell’evento.

Il trauma comunitario

L’attacco sferrato alla struttura democratica dello Stato condotto da forze che con quello stesso
Stato avevano a che fare, destabilizzò profondamente il cittadino e le sue sicurezze. Un dato storico
e politico che non può essere ignorato dallo psicologo, in quanto costituisce una variabile
importante dei traumi subiti dalle vittime dirette. Infatti, quando è lo Stato a rendersi connivente con
la violazione dei diritti umani basilari, depistando, omettendo i fatti e mandando impuniti i
responsabili a quarant’anni dagli eventi, le vittime dirette e gli stessi cittadini sono esposti a un
rischio grave per la loro salute psichica.
Fortunato Zinni, uno dei sopravvissuti di piazza Fontana, afferma:
“dalle Istituzioni sono arrivate solo promesse di una rapida giustizia che non c'è mai stata.
Una giustizia ingiusta fatta di condanne all'ergastolo e assoluzioni per insufficienza di prove
confermate poi dalla Cassazione, fino allo sfregio finale della condanna dei famigliari delle
vittime al risarcimento in solido delle spese processuali. Se questo non si chiama fallimento
della giustizia, e vittoria dei burattinai, non so come chiamarla” (L’Unità, 2009, cit.).
Gli archivi secretati non sono mai stati aperti, nonostante le assicurazioni dei diversi governi, né è
stato rimosso il segreto militare, come del resto nel caso ben noto dell’aereo abbattuto da un missile
sui cieli di Ustica.
“Si aprano gli archivi, si rimuova completamente il segreto politico-militare, si dia la
possibilità ai ricercatori di analizzare e valutare i documenti e agli inquirenti di utilizzare le
carte segrete “(F.Zinni, ibidem).

Verità e giustizia come fattori di salute mentale

Corpi straziati chiedono giustizia, senza la quale sarebbe difficile salvare la Repubblica
(Renato Zangheri, sindaco di Bologna, 6 agosto 1980)

11 Con questo termine si intende la strategia messa in atto dai servizi segreti americani, collegati a quelli italiani
e a formazioni di destra (Loggia P2, estremismo di destra) i quali, per sventare l’avanzata comunista e la
possibilità che l’Italia uscisse dalla propria sfera di influenza , mise in atto una serie di attentati terroristici che
avrebbero dovuto indurre il paese a instaurare regimi dittatoriali o comunque a rinunciare alle proprie
prerogative democratiche. Vedi Giuseppe De Lutiis, 1984,1994)

4
Il doppio ordine di verità, uno ufficiale, dichiaratamente democratico, e uno sotteso e latente, fatto
di collusione con forze criminali, caratterizza fin dal secondo dopoguerra la vita sociale e politica
italiana. Lo psicoanalista Maurizio Montanari, in un recente articolo, parla di “due universi
consustanziali”.

“È la logica della perversione descritta da Lacan. Secondo il filosofo Zizek , a guardia del
patto tra Stato e antistato sono chiamati obbedienti soldati che regolano la loro esistenza in
virtù del motto ‘libertatem silendo servo’, non a caso utilizzato dall’organizzazione
Gladio. Uomini «ben consapevoli degli interessi particolari che sono alla base degli assiomi
ideologici’» sentinelle poste a salvaguardia del tacito patto di non intromissione tra due
universi consustanziali. (Montanari, 2018)

Montanari ricorda come il patto Stato-Mafia, in quanto legame perverso, nato nel dopoguerra fin
dai tempi di Portella della Ginestra12, estenda la propria virulenza prima attraverso le stragi e poi
alimentando “movimenti” come quello dei forconi, delle curve da stadio e delle “terre di mezzo” di
Roma capitale.

“Questi mondi opachi con i quali lo Stato stringe patti, complementari a quelli che noi
quotidianamente abitiamo quanto l'antimateria lo è per la materia, obbediscono a leggi
diverse dalla 'Lex' democratica, si sostengono su codici ed usanze quasi sempre non scritte,
ma non per questo di minor efficacia simbolica” (Montanari, ibidem)

L’ intreccio di interessi e patti occulti, di cui l’opinione pubblica sembra ignara e molti danno per
assodato, se da una parte favorisce il silenzio a cui sono socialmente relegate le vittime, dall’altro
corrompe in maniera profonda il sentire democratico, come se quest’ultimo fosse un artificio
retorico a copertura di una realtà di non detti. Il clima politico e sociale italiano è ad oggi il prodotto
di questo doppio livello di verità, che costringe quanti sono intenzionati a seguire le regole del
gioco democratiche a scontrarsi con una sorta di “entità sociale” strutturatasi in una personalità
“come se”13. Tutto questo avviene tuttavia grazie a collusioni. L’opinione pubblica quasi sempre
sa, ma volge lo sguardo dall’altra parte; sa, ma sacrifica le regole democratiche e oggi anche i
sentimenti umanitari, alla propria convenienza, in nome della quale possono compiersi delitti abietti
e violazioni dei diritti umani, come avviene a danno dei profughi del mare e ai confini europei, o
nei respingimenti nei lager libici. Terrorismo di stato, in violazione di diritti basilari della persona,
compiuti sotto gli occhi di tutti, con la connivenza della maggioranza.

In un importante convegno internazionale tenutosi in Croazia nel 200114, la neuropsichiatra cilena


Dr. Paz Rojas Baeza del Codepu, parlò nella sua relazione di disturbi specifici causati dalla


12 Il primo maggio del 1947, nei pressi della Piana degli Albanesi, vicino Palermo, durante la Festa del Lavoro,
alcuni banditi spararono sui contadini in festa che celebravano la loro lotta per la riforma agraria. e uccisero 12
persone, ferendone più di 30. Fu la strage di Portella della Ginestra. Il responsabile, Salvatore Giuliano,
probabilmente al soldo degli agrari, era un bandito comune, e venne ucciso in carcere.
13 Maurizio Montanari scrive: “Tommaso Buscetta era solito affermare che «Lo Stato Italiano non è pronto a
conoscere queste verità che non reggerebbe». Apparati dello Stato, servizi segreti deviati e parte dell’apparato
politico, patteggiavano con esponenti di un Anti Stato per mantenere una sorta di pace armata, un accordo che
permettesse ad entrambi di vivere nei propri spazi, ridefinendo le proprie zone di influenza, recitando ciascuno
il proprio ruolo” (Montanari, 2018).
14 Strengthening Local Resources for Community Reconstruction’, International Society for Health and Human
Rights, Cavtat, Croazia, 2001

5
“assenza di verità e giustizia”. Facendo riferimento ai paesi in cui la dittatura militare venne
sconfitta, come il Cile e l’Argentina, R.Baeza sottolineava come sia stato messo in atto, attraverso
l’amnistia, una sorta di revisionismo, in cui la verità, pilastro essenziale per lo sviluppo delle
relazioni affettive con il mondo sociale, viene pervertita, e l’assenza di verità produce quei
meccanismi psicopatologici che danno origine alla insicurezza, all’angoscia e alla assenza di fiducia
di base. A questo si aggiunge l’impunità dei colpevoli15, che costituisce per le vittime una nuova
forma di aggressione.
“L’impunità mette in discussione i valori umani fondamentali, distrugge i principi e le
convinzioni, alterando le norme sociali costituitesi lungo il corso della storia”16.

Senza la verità, i pensieri e i ricordi non possono fluire, cosicché il contenuto mentale dei soggetti è
dominato dalla confusione e dalla ambivalenza. L’impunità produce nelle vittime e nella intera
società l’alterazione dell’ allineamento assiologico (le teorie dei valori e i canoni interpretativi della
realtà)17.

Nella quasi totalità delle testimonianze di vittime del terrorismo con cui sono venuta in contatto per
scrivere queste pagine, l’assenza di verità e giustizia è indicata come la prima e più grave fonte di
sofferenza, per lenire la quale le vittime costruiscono sistemi di resilienza collettivi centrati sulle
azioni di coalizione, denuncia, ricerca e testimonianza.
Per sopravvivere mentalmente, esse praticano la Parresia, ciò “dire il vero”.

« la Parresia è un atto direttamente politico che viene esercitato davanti all’Assemblea, o


davanti al capo, o davanti al governante, o davanti al sovrano, o davanti al tiranno ecc. È un
atto politico, ma sotto un altro aspetto, la parresia [...], è anche un modo di parlare a un
individuo, all’anima di un individuo: un atto che riguarda la maniera in cui quest’anima
verrà formata. » (M. Faucault) (Foucault, 1984, 2005, Mari, 2017)

Ma l’esercizio della parresia non è attitudine diffusa. Francesca Dendena18, a proposito dell’iter dei
processi che, nonostante la situazione fosse ormai chiara a tutti, non portarono a una condanna dei
responsabili di Piazza Fontana, afferma:

“Ho pensato tanto a questa domanda (“Perché la giustizia dei tribunali non è riuscita a
condannare i colpevoli?”) e sono giunta alla conclusione che i giudici dei verdetti finali non
potevano essere tutti compromessi, ma che forse tutti non hanno voluto sigillare con il
proprio nome un verdetto di questo tipo”.
E ancora:
“ (Domanda: “Come associazione dei familiari delle vittime, quali risposte avete avuto alle
vostre richieste?”) Ci sono stati aiuti sia regionali che statali ma solo a partire dagli anni
1980, e la prima volta la legge escludeva la strage di Piazza Fontana dato che aveva
decorrenza dal 13 dicembre. Una nuova legge è del 2004 ma ancora oggi non è giunta a
compimento. In tutto questo lo Stato ha dovuto essere decisamente sollecitato”.


15 il dittatore cileno Pinochet che si macchiò di delitti di massa morì alla fine nel suo paese e nel suo letto
16 D.Kordon, L.Edelman, D.Lagos et al., La Impunidad, Une perspectiva Psicosocial Y Clinica, Editorial
Sudamericana, Buenos Aires, 1995
17 Convegno Cavtat, 2015
18 storica rappresentante dell’associazione vittime della strage di Piazza Fontana. Aveva perso il padre,
Pietro. E’ morta nel 2010.

6
La domanda di giustizia urta contro la richiesta di dover sempre dare loro, le vittime, dimostrazione
di essere vittime:

“Quel poco che abbiamo avuto è stato frutto di fatica e stenti come la giornata della
memoria. Sembra che dobbiamo sempre dimostrare di essere vittime delle stragi e del
terrorismo (Barilli F., 2009)

E’ noto che una condizione condivisa dalle vittime di reato è quello di trovarsi costantemente di
fronte alla necessità di “dimostrarlo” (Guglielminetti, 2017).

La reazione collettiva delle vittime stesse, sostenuta da cittadini che sposano la causa, riesce a
rispondere con efficacia al trauma subito, permettendo la Parresia. Se il trauma individuale e
famigliare non può essere cancellato, il ruolo attivo di denuncia sottrae al senso di passivizzazione a
cui il terrorismo mira a condannarle.

Disturbo mentale comunitario

Il danno non colpisce solo le vittime dirette. I cittadini di un paese che subisce azioni terroristiche
possono infatti essere considerate “vittime secondarie”. In particolare, le comunità esposte alla
esperienza dei crimini di stato e della successiva impunità dei colpevoli subiscono un danno
collettivo permanente, di natura molto profonda. Anche se in Italia solo segmenti di istituzioni dello
Stato sono state coinvolte (i cosiddetti “corpi separati”), tuttavia l’omertà, i tentativi di
occultamento, il rallentamento della giustizia, le burocrazie, hanno con tutta probabilità determinato
nei cittadini e nelle vittime dirette reazioni in qualche modo analoghe a quando il crimine è
perpetrato da tutto l’apparato statale, come avviene nelle dittature. Gli studi condotti da psicologi
sociali di nazioni come il Cile e l’Argentina, che hanno sperimentato feroci dittature militari,
sottolineano come le società uscite da quel periodo sono oggi attraversate dalla dialettica della
negazione. Non solo i responsabili di crimini terribili sono restati impuniti, ma un pervasivo
silenzio è calato su quel periodo. Questi studiosi hanno individuato i seguenti meccanismi
psicosociali:

a) la marginalizzazione delle vittime primarie, colpevoli di forzare la rimozione; b) la creazione di


una enclave sociale incline alla menzogna e alla ostilità; c) lo sviluppo nelle comunità sociali di una
paura internalizzata densa di sfiducia di base, che distrugge i legami solidaristici; d) l’incapacità di
raggiungere un accordo su quanto è accaduto, che invece consentirebbe di guardare al presente.

In altre parole, affermano gli psicologi cileni e argentini, i cittadini vivono una sorta di “lutto
congelato”, che impedisce loro di erigere barriere efficaci contro il processo di impunità (Kordon et
al, 1995; Baeza19, 2001). A loro avviso si può dunque parlare di “disturbo mentale comunitario”.
Questa analisi, riferita alla situazione italiana odierna, appare preveggente. Vi si afferma infatti che
queste esperienze psichiche fanno emergere

“un nuovo tipo di soggetto, segnato dalla paura, dalla sfiducia, dalla perdita della memoria
collettiva e dalle deformazioni del linguaggio…Tutto questo porta alla dissociazione sociale
e alla costruzione di gruppi incongruenti e talvolta falsi, conformi al nuovo modello,
dominato dall’individualismo” (Kordon, 1995)


19
Codepu, Chile

7
Tanto più risulta quindi importante, al fine del mantenimento del tessuto comunitario, oltre che per
il benessere individuale, che gli attivisti, gli operatori e le istituzioni illuminate sostengano quei
gruppi sociali che mettono in atto azioni di risposta, diffondendo la memoria degli eventi e non
accettando di prendere parte al meccanismo di rimozione collettiva. Sostenere la parresia,
promuovendola negli altri ma facendosene a propria volta portatori, diventa perciò della massima
importanza. Il detto latino “Dixit et anima mea salvavat” riassume efficacemente il senso profondo
del lavoro psicologico20.

Vittime

La condizione di vittima comporta vergogna, senso di impotenza e solitudine. La colpevolizzazione


della vittima (blaming the victim)21, che rinforza queste reazioni emotive, è inoltre un meccanismo
ben conosciuto in psicologia. Tale attribuzione di colpa è perpetrata dai colpevoli di un crimine
specifico, ma non ne sono esenti anche gli astanti, o gli appartenenti a un più vasto pubblico. In
base alla fedeltà al principio che “il mondo è giusto” (Lerner 1980) capita sovente che chi è vittima
si veda attribuire la responsabilità della ferita ricevuta. Meno ovvia è la dinamica che porta la stessa
vittima ad accusarsi di ciò che ha subito. Tale attribuzione di responsabilità può essere conscia o
inconscia, determinando un senso di vergogna anche molto profondo.
L’auto-attribuzione di responsabilità e la sindrome del sopravvissuto, analizzati in numerosi casi,
dai sopravvissuti al Lager allo stupro, colpisce analogamente anche le vittime di attacchi terroristici.
Esse vanno quindi costantemente sostenute, sia nel breve/medio periodo, per ciò che concerne le
reazioni post traumatiche, sia nel più lungo periodo, in tutti i momenti in cui esse sono esposte a
una ri-traumatizzazione, come nei procedimenti giudiziari o di fronte alle frustrazioni del non
riconoscimento. Il sostegno è cruciale anche per fronteggiare la stigmatizzazione sociale e il fastidio
che le vittime suscitano nel più largo consesso sociale, impaziente di girare pagina.

Anche a seguito di questa consapevolezza, ho cercato con sistematicità di raggiungere, a distanza di


tanti anni, le voci di chi ha vissuto il terrorismo stragista in presa diretta. Strapparle al silenzio e alla
falsa coscienza celebrativa mi sembrava doveroso, in particolare per lo psicologo, che fa questo di
mestiere.

Una sopravvissuta all’attentato al treno Ialicus , Ilaria Caldarelli, che aveva all’epoca 14 anni,
dichiara:
«Ho continuato a leggere a leggere (sul giornale, N.d.R.), nomi su nomi, fino alla famiglia
Russo: tre morti, i genitori e un figlio di undici anni, gli altri due figli si erano salvati. Erano
seduti tutti nello scompartimento dove era esplosa la bomba: il secondo della carrozza
numero 14. Già, proprio quello dove all’inizio eravamo saliti io e la zia per occupare i posti.
Avremmo dovuto esserci noi lì, e mi sentivo come responsabile. Se non avessi brontolato
per le valige, se non ci fossimo spostati, quel destino sarebbe toccato a noi. Loro, i tre della
famiglia Russo, erano morti, e io ero sopravvissuta. Non potevo accettarlo. (…) Per molto
tempo ho vissuto con quell’angoscia nel cuore, con quella colpa. Avevo fissa negli occhi
l’immagine del piccolo Russo: lo vedevo seduto al mio posto, io mi alzavo e lui si
sedeva…» (Fasanella, Grippo, 2006)


20 Questo avviene in molti settori in Italia. Si pensi, ad esempio, all’impegno degli operatori di salute mentale
nelle risposte alla mentalità mafiosa e nella lotta contro tutte le violenze (violenza contro le donne e i bambini,
tratta ecc. )
21
il termine è stato introdotto da William Ryan (1971), analizzando la tendenza ad attribuire condizioni quali la
povertà e il basso libello di performance scolastica alla razza o alla pigrizia.

8
Le conseguenze di quella tragedia (per un problema di valigie, la sua famiglia aveva cambiato posto
e cambiato vagone, mentre morirono i componenti di un’altra famiglia) innestano spesso reazioni a
catena, coinvolgendo i componenti della famiglia in reazioni post traumatiche di segno diverso:

“Mio fratello «spettacolarizzava», io mi ero chiusa in me stessa, divorata dal senso di colpa.
Mio padre, invece, reagì alla tragedia sviluppando quasi un’ossessione per la ricerca della
verità. Ne ha fatto una ragione di vita, tanto che, da un certo momento in poi, l’architetto si è
sdoppiato nell’investigatore”

La sindrome post traumatica, di cui molto si parla oggi, attraverso queste testimonianze sembra
uscire dalle descrizioni teoriche, e il momento della perdita, così descritto, invita a non banalizzare,
anche inconsapevolmente, le reazioni di chi si avvicina a quel dolore, ma anche la concretezza
invasiva del corpo mutilato e ferito:

Di Piazza della Loggia, a Brescia, Manlio Milani, marito di Livia, che rimarrà uccisa, racconta:

«Scendemmo in fretta da casa e, camminando velocemente, ci dirigemmo verso piazza della


Loggia. (…) Livia però aveva fretta, fretta di raggiungere i suoi amici e di compiere il suo
destino. Mi fermai un attimo a parlare con quel mio compagno, tenendo però sempre
d’occhio Livia, per non perderla tra la folla. Poi, andai verso di lei, che intanto aveva
raggiunto il gruppo degli amici. Ero ormai vicinissimo, a pochi passi. Livia mi guardò,
incrociammo lo sguardo, mi salutò e io risposi allegramente al suo saluto…. In quell’istante,
lo scoppio. Erano le 10,12 del 28 maggio 1974. Da qual momento, ho due immagini fisse
nella memoria: il suo saluto prima, il suo corpo squarciato dopo. La vedo ancora, lei è lì,
con i nostri amici, mi sorride e saluta con la mano e, subito dopo, lo scoppio. Il boato lo
sento ancora nelle orecchie, lacerante». (Fasanella, Grippo, ibidem).

“il corpo di Livia. Mentre lo adagiavo sulla lettiga era come se non avessi più nessuno
intorno, solo lo strazio di lei. Era l’unico dolore che mi interessava, si diventa egoisti nel
dolore. Hai solo voglia che le tue cose si salvino, hai solo bisogno di non esserne colpito.....”
”non distrusse una persona a me particolarmente cara, ma annientò le nostre speranze, i
nostri progetti, i nostri sogni.....” (Fasanella, Grippo, ibidem).

Lorenzo Pinto, fratello di Luigi, una vittima di piazza della Loggia, dopo aver parlato della visita al
fratello ferito, delle emozioni provate di fronte al corpo martoriato (“continuavo a tremare e a
piangere”), racconta:

“Avevamo tutti gli occhi fissi su quella bara color noce. Ed era come se ognuno di noi
viaggiasse solo con Gino”.
“Ancora oggi è così, quando penso a Gino, lo vedo come in quel momento: gli occhi grandi,
profondi, un po’ lucidi di emozione, mentre mi dice: «Stai attento». È come se il tempo si
fosse fermato quel giorno, davanti a un treno fermo nella stazione di Brescia”. (Fasanella,
Grippo, ibidem).

L’attentato distrugge corpi, vite, ma anche il futuro. Nel trauma, come afferma Pinto, il tempo si
congela nel presente, non consentendo alla vita di prima di svolgersi secondo i progetti, ma
deviandola bruscamente. Parlando del successivo divorzio dalla moglie, a causa dello stress e
quindi affrontando una psicoterapia per diversi anni, afferma:

"La bomba è scoppiata anche nella mia anima, mi dispiace per la mia ex moglie. Il dolore
inaridisce, rende egoisti” (Fasanella, Grippo, ibidem).

9
Bologna

IL 2 agosto del 1980, alle ore 10.25, mentre l’Italia si preparava alle vacanze, una bomba scoppiò in
una stazione da sempre di fondamentale raccordo tra le linee ferroviarie nord/sud ed est/ovest,
gremita di persone, famiglie, bambini: quella di Bologna. La strage fece 82 morti e moltissimi feriti,
i cui traumi sia fisici che psicologici hanno bisogno ancora oggi di cure costanti 22.
Nel ricordare quegli eventi, Paolo Bolognesi, Presidente della Associazione delle vittime23, dà una
descrizione vivida delle conseguenze psicologiche nei sopravvissuti:

“A molti feriti della strage di Bologna è rimasta dentro l'angoscia di quel momento che
emerge in situazioni particolari di vita quotidiana apparentemente banali, come il rumore
per l'apertura del barattolo di una bibita, l'attesa del treno, la vista di una stazione, una
strada affollata, le sirene dei mezzi di soccorso, lo scoppio dei fuochi d'artificio. Attimi che
hanno preceduto e seguito lo scoppio della bomba e che rimangono nella memoria lasciando
segni indelebili probabilmente per tutta la vita” (Bolognesi, 2007).

Ritengo sia importante riportare in questa sede alcune testimonianze raccolte negli anni sia
dall’Associazione delle vittime sia da giornalisti dedicati. La loro lettura o ascolto in viva voce non
solo serve a “non dimenticare”, ma fornisce concreti ed articolati esempi del trauma subito (Alberti,
2010; Sancini, 2013)
Eliseo Pucher, un sopravvissuto, ricorda nitidamente tutti i momenti di quel giorno:
«Il mio treno era in ritardo. Mi sono seduto in sala d’aspetto. Ad un certo punto sento un
sibilo, poi una botta in testa, e mi sono ritrovato sepolto».
Sonia Zanotti all’epoca dei fatti aveva undici anni, e tornava a casa dopo essere stata dai nonni a
Imola. Ha subito decine di operazioni, a causa di una gamba gravemente ferita e ustioni diffuse su
tutto il corpo.
«Quando sei ragazzina non ci pensi, ma poi cresci diversamente dagli altri e a un certo
punto devi scegliere: o seppellisci i tuoi traumi dentro di te, oppure fai in modo che tutti
sappiano cosa hai passato».
Marina Gamberini era una delle impiegate presso l’azienda di ristorazione della stazione. Il padre
carrellista la va prima a cercare sul bus 37, che raccoglieva i feriti, poi convince un pompiere a
recarsi nella zona, e in due ore tirano fuori la ragazza. Questo padre però non racconterà mai alla
ragazza la verità, nei quindici anni successivi. "L'ho saputo solo un anno e mezzo fa", dice la donna.
Da parte sua, ha dovuto affrontare anni di terapia per allontanare il senso di colpa:
«Nello scoppio ho perso tutte le mie colleghe di lavoro. Io ho potuto continuare la mia vita,
loro no» (Alberti, 2010.)
Racconta di aver covato per molto tempo la voglia di potersi sostituire alle amiche perdute.
«Volevo andare ad abitare nella casa di una di loro, comprare i mobili che lei aveva scelto e
mi aveva fatto vedere». E aggiunge: «Questa non è la mia vita, sia chiaro. E’ un’altra cosa.
Dopo cose del genere cambia tutto». A proposito del figlio, avuto nel ’95, afferma: “Anche
per lui mi sento in colpa perché non so come difenderlo". (Sancini, cit.)
Così continua:


22
www.stragi.it, http://www.bolognatoday.it/cronaca/strage-bologna-2-agosto-testimonianze.html
23
“Associazione tra i familiari delle vittime della strage alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980”

10
“A Capodanno, ora non vado più a Napoli, i botti, gli spari, mi mettono paura. Non posso
più stappare una bottiglia di champagne, con una scusa mi assento. Quando scoppia il
palloncino di un bambino, mi fermo, non parlo, sudo freddo, tutto mi porta a quel giorno
alla stazione di Bologna. Una volta, in Corso Buenos Aires, a Milano, il colpo di una
marmitta mi ha fatto saltare da terra. E ancora, sulla metropolitana, un ragazzo ha
smarrito uno zainetto. Pensavo: 'E se .fosse una bomba?'. Come potevo rivolgermi al
capotreno? Dirgli che avevo un sospetto'? Mi avrebbero preso per matto. Fobie, tensioni.
Questo mi è rimasto dentro dal 2 agosto del 1980”. (Alberti F, cit)

Lia Serravalli (Fasanella, Grippo 2006) perde le due figlie e la sorella, incinta. Il padre, dopo
qualche tempo, si suicida. Lia racconta di come lei, suo padre e suo cognato siano accorsi in aiuto,
scavando con le mani diventate insensibili, scoprendo i corpi carbonizzati e agonizzanti dei
famigliari. Racconta di come il padre abbia tolto l’orologio alla figlia Patrizia, gesto quasi
incomprensibile, e abbiano trovato sotto le macerie la cognata incinta che aveva riparato col suo
corpo le due bambine morte. Ricorda le invocazioni di aiuto dei morenti sul treno accanto e non può
cancellare dalla memoria la vista del deturpamento terribile dei corpi. Persa conoscenza, la portano
in ospedale, dove le danno gradualmente notizia della morte delle figlie e della sorella.

“Non mi volevano far vedere il corpo, ma io dovevo rendermi conto, dovevo sapere. Andai
al reparto di medicina legale, la stanza era affollatissima, gente ovunque, un caldo
indescrivibile, un’aria pesante, irrespirabile. Un medico mi fece vedere delle bare di legno
sottili, tutte uguali, chiare. Dei semplici pezzi di legno, brutti, freddi. Entrai nel reparto e
precipitai nell’orrore: ragazzi bellissimi, tutti stesi per terra in una catena di morte, uno
accanto all’altro, in un camerone lungo. Mi si gelò il sangue, sentii quasi il cuore fermarsi.

“…La sera uscii dall’albergo. Me ne andai per strada, senza meta. Non volevo nessuno
intorno. Sola e disperatamente infelice. Anche mio padre si ritrovò per strada, da solo, non
sapeva più dove fosse, non ricordava più che era a Bologna. Piangeva disperato, un medico
lo portò in auto a casa sua e gli diede dei calmanti per farlo riposare. Continuava a chiamare
le nipoti, la figlia. Il giorno dopo, quel medico tanto gentile, ci cercò in albergo e lo riportò
da noi.”

Per tornare a Bari con le bare lo Stato mise a disposizione un treno solo per loro.

Ricorda:

“(Mio padre) per anni continuò a piangere di nascosto la figlia morta e le nipoti. Poi una
mattina, alle 8, aprì la finestra e si buttò giù dal sesto piano.
[…] Io continuavo a stare male, avevo collassi e problemi di stomaco. Mi ricoverarono. Non
volevo vedere più nessuno, neppure mio marito, sentivo solo il bisogno di scrivere tutte le
emozioni che provavo, ma non lo sapevo fare”.

Sta male fisicamente. Il medico la chiama e le dice che ha due sole alternative, o il suicidio o
sopravvivere. Che se decideva di suicidarsi la pistola gliela avrebbe data lui. Un discorso che le dà
una scossa decisiva, liberandola dal torpore.

La burocrazia come fonte di ri-traumatizzazione

Il calvario non è circoscritto alle perdite, pur così tragiche, e all’orrore vissuto. Ogni singolo passo
successivo diretto a chiedere il riconoscimento di vittima ha effetti ri-traumatizzanti:

11
…”ci sono cose che continuano a farmi male", come ad esempio "le visite all'ospedale
militare, con tre ore di colloquio psicologico, negli scorsi mesi, per il riconoscimento del
danno biologico e morale". "Una cosa difficile da affrontare, troppo lunga. E anche
rileggere il verbale è stato un'altra tragedia” (Fasanella, Grippo, cit.)

L’iter per il riconoscimento giuridico amministrativo dello status di vittime del terrorismo e
l’accesso ai benefici relativi costituisce un trauma aggiuntivo, tanto da far affermare ad altri soggetti
(i terremotati) che “la burocrazia uccide”. Lo stesso vale per le vittime di Mafia.
La pensione, che va erogata alle «vittime del terrorismo e delle stragi di mafia con una invalidità
pari o superiore all'80 per cento» viene infatti loro negata, chissà se «per stupidità» (come
dice, Paolo Bolognesi24, o per «antipatia o avversione» come sospetta Giovanna Maggiani Chelli25
(Tessadri, 2012)
Le vittime non si trovano di fronte a semplici ritardi. L’INPS si muove con disagio e palese
freddezza nei meandri di una erogazione pensionistica “anomala”. Ad alcuni viene confermato il
diritto a ricevere la pensione, salvo poi sospenderla. Ad altri non viene erogata perché, come
affermato dal Consiglio di Stato, al momento dell’attentato non lavoravano. Tutti sono costretti a
innumerevoli accertamenti, visite, compilazione di moduli sempre diversi. Quanto ai politici, le
promesse si susseguono, mai seguite da fatti concreti.

Ricorda Sonia Zanotti, zoppicante e ancora in stampelle: «Tanto umano, emozionante e gentile è
stato il Capo dello Stato, tanto brutto è stato sentirsi dire dall'allora ministro Angelino Alfano che
dopo due settimane ci avrebbero dato risposte sulla legge 206 e sulle pensioni, mentre poi non c'è
stata nessuna risposta» (Fasanella, Grippo, cit.)
Sull’evitamento da parte dei politici e sulla loro mancanza o non volontà di risoluzione delle giuste
richieste di verità e giustizia non aggiungo in questa sede osservazioni oltre quelle da altri già
formulate. Esse rimandano a una precisa volontà di occultare le liste della cosiddetta “gladio nera”
(Bolognesi P. in Imarisio M, 2017), o comunque di voler evitare una destabilizzazione istituzionale.
Sui meccanismi burocratici, invece, la psicologia offre spunti di lettura suoi propri.
Da tempo la psicosociologia e la socioanalisi hanno individuato e descritto le dinamiche inconsce,
di natura affettiva, da cui sono regolati i gruppi e le organizzazioni. Essi rispondono infatti non solo
a obiettivi espliciti di tipo produttivo, ma a finalità emotive alimentate dal mondo interno dei
soggetti. L’Istituto Tavistok di Londra, in particolare, ha dato inizio fin dai primi anni ’70 a studi
sulle dinamiche inconsce delle organizzazioni, a partire da quelle sanitarie. Esiste una patologia del
funzionamento delle organizzazioni, le quali si strutturano in base a difese inconsce contro le ansie
che dominano le persone che ne fanno parte (Enriquez, 1992). Nei gruppi sono state osservate
dinamiche quali la creazione di capri espiatori, i sentimenti di ambivalenza verso il leader e del
leader stesso, o il rifiuto del parere di esperti esterni (Briante, Brustia, Fenoglio, 1997). Altre, ben
descritte da Bion (1961), strutturano i gruppi attorno ad “assunti di base”, cioè forti emozioni
condivise che si sottraggono all’esercizio del pensiero distogliendo i componenti dal perseguimento
degli obiettivi dichiarati. Chi scrive, insieme a Clara Capello (Capello, Fenoglio, 2005) ha alcuni
anni fa condotto studi sui reparti di maternità di un grande ospedale di Torino, rilevando come
provvedimenti apparentemente razionali (la rasatura del pube della partorienti e portare i neonati al
piano di sopra per controlli medici attendendo a lungo il loro ricongiungimento con le madri, così
come) fossero legati a specifiche angosce vissute dal personale: in particolare l’invidia degli


24 Presidente dell’ Associazione delle vittime della strage terroristica alla stazione di Bologna
25 Presidente delle vittime delle bombe mafiose di via Georgofili a Firenze nel '93.

12
operatori per la coppia madre bambino e l’idea insostenibile dell’esistenza di una sessualità
materna.
Dobbiamo alla psichiatria molti dei capisaldi della analisi istituzionale, a partire dal processo di
emancipazione, sia del personale che dei malati, dall’universo manicomiale. Tali dinamiche, che
perpetuano la segregazione e l’esclusione, tendono a perdurare anche all’interno di contesti ormai
riformati. Alludendo alla collusione messa in atto dagli operatori della salute mentale, dai famigliari
e dai malati stessi come fattore di cronicizzazione della malattia, Massimo Mari (Mari 2017)
osserva:
“Il controtransfert istituzionale è lo spazio mentale dell’equipe terapeutica, che può essere
occupato da alcune dinamiche rigide, non elaborate, espulsive o imprigionanti
nell'istituzione di appartenenza dell’equipe stessa, che “risuonano” inconsciamente con il
transfert istituzionale della persona e della famiglia in cura, costruendo il limbo
indiscriminato della cronicità di rapporto”.

Lo stesso Massimo Mari individua nella burocrazia una delle più importanti forme di resistenza al
cambiamento. Essa può essere paragonata alla tela di Penelope, secondo il motto “di notte si disfi
ciò che creo di giorno” (Mari, ibidem).
Le burocrazie si strutturano attorno a difese inconsce e a pregiudizi di natura culturale. Quelle che
colpiscono le vittime, descritte da Luca Pezzullo (2017) riguardano la colpevolizzazione (blame the
victim), la paura che la vittima voglia vendetta, la polarizzazione ideologica, l’evitamento e
l’isolamento sociale, il giustificazionismo, ecc. (Pezzullo, 2017, Bongar et al.,2007). La burocrazia
che circonda gli atti terroristici non fa che avvallare il terrorismo stesso.
Lo storico Angelo Ventura, citato nel saggio di Guglielminetti (2017), afferma:
“Le vittime sono ingombranti. Gli studiosi delle forme di violenza politica conoscono bene
la tendenza dell’opinione pubblica a criminalizzare la vittima, per rassicurarsi ed esorcizzare
il pericolo, convincendosi che in fondo la vittima qualche cosa deve pur aver fatto per
meritarsi la violenza. È questo uno dei principali effetti psicologici che intende ottenere il
terrorismo, secondo un meccanismo già largamente sperimentato dallo squadrismo fascista
e ora sistematicamente applicato dal terrorismo rosso e nero”.
L’uso difensivo dello strumento burocratico in qualsiasi procedimento che dovrebbe essere teso
all’aiuto del cittadino appare legato da un lato al desiderio di potere del “burocrate”, che non
sempre tuttavia è preminente. Dall’altro al distanziamento emotivo nei confronti del dolore e delle
richieste dell’altro, sentiti come destabilizzanti. I “burocrati” appaiono perciò assorbiti dal loro
stesso apparato (Jaques, 1979). Un fenomeno analogo al burn out degli operatori sanitari, che si
manifesta proprio nel distanziamento, nella rabbia e nella freddezza verso i malati.

Media e incentivazione delle difese


Anche i media affrontano il terrorismo mettendo in atto difese quali il distanziamento. Le azioni
violente, in particolare nelle prime fasi, vengono presentate, anche dai media, con un senso estremo
di orrore. Ma l’orrore finisce per produrre presa di distanza dalle vittime, alle quali non si vuole
essere accomunati.
“Comincia così, al fondo stesso dell’orrore, un processo di rimozione e di distacco che
conduce a una sorta di ambigua complicità” (Marletti, 1986, in Guglielminetti, 2017).

13
Attraverso i media si perpetuta inoltre la ri-traumatizzazione delle vittime:
Marina Gamberini, fotografata alla stazione di Bologna dopo l’attentato, ricorda l’effetto che ebbe
su di lei la diffusione capillare della foto che la riprende nel momento della sua liberazione dalle
macerie, su una barella e con gli occhi spalancati dall’orrore:

«Ho odiato quell'immagine con tutta me stessa, ho impiegato anni per abituarmi al fatto che
circolasse e anche adesso, ogni volta che la vedo, mi sembra di tornare a quel giorno»,
confessa Marina. “Perché è in quella foto, in ciò che rappresentava, che per anni si sono
annidati i fantasmi di una psiche che non ha mai accettato la condizione di sopravvissuta”
(Alberti F., 2010)

Recupero e resilienza comunitari

A Bologna il terribile attentato mise in moto, con rapidità sorprendente, tutta la città. Nelle prime
ore la popolazione intera si dedicò al soccorso, nei giorni successivi preparò la reazione collettiva.
Subito dopo l’esplosione, alle 10.25 del mattino, sul posto accorsero spontaneamente in tanti,
semplici cittadini, che si impegnarono nel soccorso componendo catene umane, mentre taxi e auto
private si misero a disposizione. Celebre è rimasta l’impresa dell’autobus della linea 37, trasformato
in un’ambulanza. Il personale sanitario in ferie ritornò ai propri ospedali, per far fronte all’afflusso
dei numerosi feriti. Poiché i corpi non potevano essere rivestiti, i negozianti di Bologna mandarono
lenzuola di seta per avvolgere i corpi, come sudari (Serravalli in Fasanelli e Grippo, 2006) .
Il sindaco di Bologna, Renato Zangheri, richiamando la cittadinanza a unirsi per reagire al
terrorismo, ringraziò pubblicamente i soccorritori:

“Ognuno dovrà compiere il proprio dovere, come l'hanno compiuto le donne e gli uomini
accorsi alla stazione di Bologna nelle ore della strage, per soccorrere e salvare: semplici
cittadini, personale sanitario, magistrati, dipendenti degli enti locali, ferrovieri, vigili del
fuoco, militari, forze dell'ordine, e la moltitudine che è su questa piazza a raccogliere la sfida
del terrorismo” (Zangheri 1980)

La risposta comunitaria è un elemento distintivo dei fatti di Bologna. Nonostante i conflitti tra
schieramenti politici avversi, fungono da collante figure di riferimento di profilo altissimo, quali
quella del Presidente Sandro Pertini e del sindaco Renato Zangheri. La credibilità del loro richiamo
all’appartenenza e al bene comuni e l’offerta di un riferimento affidabile furono primari fattori di
resilienza immediata. La loro funzione non sarebbe tuttavia bastata se Bologna non fosse riuscita a
mettere in campo risorse sociali già collaudate, segnate da una cultura comunitaria solidaristica.
Anna Di Vittorio, una dei sopravvissuti a Bologna, a distanza di anni così si esprime,

“Ci ha uniti quel tragico 2 agosto del 1980. Ogni volta che parlo di quel giorno con
qualcuno sento raccontare una storia. E’ una data significativa, in qualche modo centripeta,
che attrae tutti a sé,…E’ come se le persone sappiano esattamente cosa stessero facendo,
quel sabato alle 10.25”. (Fasanella, Grippo, 2006)

Ricorda il Presidente Sergio Mattarella,

“Gli italiani hanno saputo reagire con una forte unione, difendendo la nostra convivenza, i
principi di civiltà su cui essa poggia, i valori e i diritti che assicurano la libertà dei cittadini.
La coesione ci ha consentito di respingere il terrorismo e ci consentirà di affrontare ogni
insidia alla vita democratica» (La Stampa, 2017)

14
Reazioni solidaristiche pronte e ingenti dopo un attacco terroristico non sono inusuali, anzi,
costituiscono la norma. Dalle bombe di Hiroshima all’11 settembre arrivano testimonianze di
quanto imponente sia stata in quei frangenti la solidarietà umana. In tempi più recenti, dopo
l’attacco terroristico a un’altra stazione ferroviaria, quella di Otocha a Madrid, l’11 marzo del 2004,
in cui morirono 191 persone, la popolazione si riversò a offrire il proprio sangue per le trasfusioni e
il giorno dopo il 28 per cento della popolazione manifestò nelle piazze. Anche gli psicologi
spagnoli, per la prima volta presenti in largo numero, si mobilitarono, attraverso il loro Ordine
nazionale (AAVV, 2007).
Ma Bologna costituisce un esempio comunque speciale. La capacità della città di dare risposte di
segno comunitario a un evento così traumatico appare inoltre emblematica là dove si vogliano
mettere a fuoco le variabili che consentono a una comunità di sviluppare resilienza.

Dean Ajdukovic, l’accademico preside alla Università di Zagabria che organizzò gli aiuti
psicosociali ai profughi nella guerra della ex Yugoslavia, afferma che “perché si sviluppi resilienza,
una comunità deve disporre di una leadership forte, affidabile e stabile; un sistema di informazioni
capillare, che dia istruzioni precise e fornisca la possibilità ai cittadini di entrare in contatto tra loro.
Con questi prerequisiti la comunità ha alte probabilità di riprendersi in un tempo ragionevole, e le
lezioni apprese contribuiscono ad accrescere le competenze per affrontare situazioni analoghe nel
futuro” (Ajdukovic, Kimi, Lahad, 2015, pg. 20-22)
Lo psicologo israeliano Mooli Lahad, un esperto internazionale di resilienza comunitaria, indica a
sua volta tra i principali fattori della resilienza di comunità 1) la presenza di una leadership efficace,
2) l’ efficacia collettiva, 3) la preparazione 4) l’attaccamento ai luoghi (Lahad, Ayalon, 2012).

Le dimensioni indicate rimandano non solo alla presenza di leader autorevoli e riconosciuti, ma alla
capacità collettiva di organizzare il soccorso avendo collaudato in precedenza le proprie capacità
organizzative e il fattore “attaccamento ai luoghi”, che sostanzia il senso di appartenenza (Fenoglio,
2007).

Ulteriori ricerche rilevano che i soggetti coinvolti in eventi collettivi traumatici rimangono “più
sani” se in passato hanno attraversato eventi simili (Kazlauskas & Zelviene, 2012). E’ perciò
legittimo supporre che un fattore fondamentale della resilienza della città di Bologna sia stato
costituito dalla possibilità di attingere a una solida tradizione risalente ad anni allora non troppo
lontani, quella antifascista e resistenziale, ben collaudate e ancora presenti nella memoria della città.
E’ ad essa che fanno appello Pertini e Zangheri, testimoni viventi di quella capacità resiliente26.
Entrambi rispondono al terrorismo con l’appello e la pratica della partecipazione, inserita in una
continuità di narrazione diventata mito collettivo (Cyrulnik, 2000).

Walsh (2007) fornisce una utile classificazione delle variabili che influenzano positivamente la
resilienza comunitaria. Il recupero /resilienza comunitari sarebbero legati a un comune
riconoscimento che l’evento traumatico è esistito; alla possibilità di godere di una larga
condivisione; alla pianificazione sociale del benessere dei superstiti; al reinvestimento nelle
relazioni e nelle attività e alla costruzione di nuove speranze (Walsh, 2007). Egli in pratica prevede
un intervento di “clinica politica”, tramite il quale individui, gruppi e comunità si interfacciano per
realizzare il proprio benessere.


26 Sandro Pertini fu eletto Presidente della Repubblica nel 1978. Antifascista e condannato dal tribunale
Speciale, rifiutò di fare domanda di clemenza. Rimase in carcere e successivamente al confino dal 1929 al 1943,
anno in cui entrò nella Resistenza. Renato Zangheri, docente universitario e militante politico protagonista del
“modello emiliano” di sviluppo sociale ed economico, è stato sindaco di Bologna dal 1970 al 1983 (Zangheri,
1997, 1978)

15
Tutto questo non può costituire tuttavia un mero processo meccanico. Per svilupparsi deve essere
animato da un sistema mitico e narrativo comune e sufficientemente forte, che raramente si sviluppa
se prima non ne esistevano i presupposti. 27 E’ possibile invece che una equipe dedicata, con
un’ampia formazione clinica e psicologico-sociale, possa favorire il processo di resilienza, o far sì
che esso non si areni. Gli esempi non mancano, anche se per lo più riguardano comunità
circoscritte, colpite da traumi di natura ambientale28.

Nell’ambito del terrorismo, tuttavia, in Italia la strategia della tensione ha avuto effetti così
distorcenti nelle relazioni sociali che la resilienza collettiva si è potuta sviluppare a tratti, sempre
con fatica, e mai con esiti stabili.
Per dirla con le parole di René Kaes (2010),

“Contro l’emergere della verità, richiesta per l’elaborazione del lutto e la ricostruzione della
memoria, il diniego collettivo e le alleanze perverse incoraggiano, con il sostegno dello
Stato, anche se nel rispetto della legge, ogni sorta di diniego revisionista. Il disastro
originario, circa le cui cause e conseguenze non è permesso pensare, genera un’ulteriore
catastrofe: lo Stato impone una incapsulazione sia della violenza di cui le persone sono state
vittime, sia di ogni traccia che di essa rimangono nella loro mente”.

Di questo “diniego revisionista” scrive Paolo Bolognesi, Presidente dell’Associazione vittime del
terrorismo:

“Per rendere inaccessibile alla magistratura un documento non occorre un timbro che
imprima il formale ‘segreto di Stato’. In questi decenni, per cambiare il corso dei processi
per strage, è bastato omettere l’invio di una nota informativa, distruggere un atto, far
sparire un fascicolo, non ‘ricordare’ nomi e circostanze, negare l’esistenza di fascicoli e
interi archivi. Si è potuto così coprire mandanti e ispiratori politici, proteggere esecutori e
lasciare sul tavolo della storia eccidi impuniti” (Bolognesi, 2007)

Cionostante, associazioni delle vittime, organizzazioni per la difesa dei diritti civili, singoli
cittadini, si sono organizzati sia per la ricerca della verità che per la salvaguardia della memoria. Le
forme di resilienza comunitaria hanno avuto la caratteristica della spontaneità e della auto-
organizzazione. Notevole è stato ed è il lavoro con le scuole. C’è voluto tempo, e molta
determinazione da parte di leadership costituitesi all’interno di questa battaglia civile. Finalmente,
nel 2017, per dare veste organizzativa a queste attività, il MIUR ha sottoscritto un protocollo
d’intesa29 con le Associazioni30


27 Un esempio particolarmente evidente viene dai processi di ricostruzione dopo le catastrofi, che in Italia hanno
subito e subiscono iter burocratici dagli effetti notoriamente deleteri. Eppure, là dove vigeva una preesistente
comunità coesa, la ricostruzione è stata non solo meno drammatica, ma foriera di novità positive. Un esempio è
dato, nel Belice del post terremoto del 68, dalla comunità di Santa Ninfa che, retta da un sindaco riconosciuto che
operò tramite processi partecipativi, seppe ricostruirsi con saggezza e modestia. L’esempio opposto è quello di
Gibellina, invasa e deturpata da interventi “esterni” che non hanno rispettato la cultura locale (La Ferla M., 2004)
28 Un esempio è il progetto realizzato recentemente nel comune di Fiastra, nelle Marche, in cui una equipe di

psicologi e operatori sociali, tra cui alcuni giovani architetti, hanno accompagnato la popolazione nella
realizzazione di un giardino pubblico là dove il terremoto aveva devastato l’habitat paesaggistico e sociale.
29 Obiettivo del Protocollo è promuovere la collaborazione tra le associazioni firmatarie, le istituzioni scolastiche
e il sistema di attività educative e iniziative didattiche finalizzate ad una più approfondita conoscenza dei
fenomeni terroristici e a conservare nei giovani la memoria delle vittime del terrorismo
(https://www.ansa.it/canale_legalita_scuola/notizie/associazioni_familiari_vittime_terrorismo/index.shtml)

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Il “lavoro della memoria” è alla base del mantenimento e della ricostituzione della integrità sociale.
Come afferma R.Kaes (2010),

“Rimembranza implica il rimembrare che, a sua volta, fa riferimento al ri-mettere insieme i


pezzi sparpagliati, portati via o smembrati delle persone. La rimembranza è quindi un
processo di co-memorazione.

In questo processo le vittime hanno a loro volta la possibilità di transitare a un nuovo ruolo, quello
di testimoni, che si configurerà come eredità da portare alle nuove generazioni. Per molte di loro
costituirà l’asse centrale della resilienza.
Come A. Gautier afferma, è grazie a questo processo che si apre un passaggio dal testimone privato
alla testimonianza pubblica (Gautier, Sabatini Scalmati, 2010)

Per poter risalire ai paradigmi teorici in grado di fornirci imput preziosi di teoria della tecnica,
specie in ambiti comunitari allargati, è importante guardare alla Psicologia della Liberazione
(Martin Barò e Croce, 2017). Penso in particolare al costrutto di “coscientizzazione”. Con questo
termine si intende la graduale presa di coscienza da parte dei soggetti dei propri diritti e dei
meccanismi con cui si realizza l’oppressione (e la distorsione della verità). Tale processo non è
possibile senza la “prassi”, cioè l’impegno nelle azioni trasformative, secondo i noti principi
Lewiniani, e comprende la de-ideologizzazione, cioè l’abbandono delle polarizzazioni difensive, e
il recupero della memoria storica.
La Psicologia della liberazione si occupa nello specifico dei “traumi sociali”, quali le migrazioni
forzate, le mafie, le discriminazioni e i razzismi, la violenza di genere, la mancata ricostruzione in
seguito a disastri (dal Belice all’Abruzzo), i conflitti bellici, i regimi totalitari e il terrorismo.

Per un registro più direttamente clinico, ricordo anche che Janine Puget parla di solidarietà, il
desiderio di fare qualcosa con l'altro, come di una produzione di legame specifica (2006, 2015). Le
indicazioni cliniche, indispensabile strumento per l’aiuto psicoterapeutico, devono tuttavia
coniugarsi a forme di “clinica politica” (Puget, 2005, 2015; Mari, 2017).

Una preziosa indicazione di teoria della tecnica ci viene anche dagli studi di Fabio Sbattella.
Impegnato nella cura psicosociale delle popolazioni colpite dallo tsunami in Sri Lanka, ha elaborato
una metodologia chiamata “Basic Therapeutic Acions” (BTA), che consiste, tra l’altro31, nella
creazione di un setting terapeutico con gruppi di abitanti che prevedeva un allontanarsi dei terapeuti
dopo gli incontri e poi tornare, per ripetere il lavoro nei gruppi, come pianificato e promesso: azione
che aveva lo scopo di favorire la fiducia e il legame attraverso il normale alternarsi di vicinanza e
separazione (Sbattella, Tettamanzi, Iacchetti, 2005).


30 Associazioni firmatarie del protocollo d’intesa: Associazione tra i familiari dei Caduti della Strage di Piazza della Loggia -
Casa Memoria, Associazione tra i familiari delle vittime della strage di Bologna 2 agosto 1980, AIVITER - Associazione Italiana
vittime del terrorismo e dell’eversione contro l’ordinamento dello Stato, ASEVIT - Associazione europea vittime del
terrorismo, Centro documentazione archivio Flamigni, Associazione delle vittime della uno bianca, Associazione tra i familiari
delle vittime della strage dei Goergofili , Associazione tra i familiari delle vittime della strage sul treno rapido 904 del 23
dicembre 1984, Associazione familiari delle vittime della strage di piazza Fontana, Associazione dei parenti delle vittime
della strage di Ustica – Museo per la memoria di Ustica Associazione in memoria dei caduti per fatti di terrorismo, delle forze
dell’ordine e dei magistrati , Associazione fratelli Mattei, Casa della memoria del Veneto, Associazione Emilio Alessandrini,
Associazione “Domenico Ricci – App.CC. M.O.V.C., ”Associazione Carlo La Catena. Vigile del fuoco

31 “Tali attività utilizzano strumenti propri della psicologia culturale e della psicoterapia, quali la rielaborazione
condivisa, la narrazione, la drammatizzazione, la ritualizzazione, l’animazione ludica e la riprogettazione
educativa “ (Sbattella et al., 2005)

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La resilienza individuale

Come per la resilienza comunitaria, anche per l’individuo una utile precisazione va fatta a proposito
del costrutto stesso di resilienza. Quando ci si trova di fronte a perdite traumatiche di questo tipo,
non è da aspettarsi una risoluzione completa. La resilienza in particolare non è qualcosa che si
sviluppi senza intoppi, e non va confusa con un mero “recupero”; il quale a sua volta è un processo
graduale che avviene nel tempo.

Eppure la sofferenza seguita a un’esperienza traumatica produce in molti casi, sia nel singolo che
nella comunità, trasformazioni in grado di dare esito ad una crescita positiva.
Gli studi effettuati (Tedeschi e Calhoun, 1996), hanno rilevato che cambiamenti positivi si
verificano a vari livelli della vita dei soggetti e della comunità, in particolare in 5 aree principali: 1)
l’emergere di nuove opportunità e possibilità, 2) lo sviluppo di rapporti più profondi e una maggiore
compassione per gli altri 3) la sensazione di essere più forti per affrontare le sfide della vita in
futuro, 4) l’imporsi di nuove priorità e pieno apprezzamento della vita e 5) una maggiore spiritualità
(Calhoun & Tedeschi, 1999, 2006). E’ evidente quindi che i professionisti della salute mentale
dovrebbero opportunamente spostarsi da un approccio focalizzato sulla patologia ad approcci sia
individuali che gruppali tesi a promuovere le capacità di guarigione e di recupero dal trauma
(Rutter, 1999; Walsh, 2003, 2006).

Spesso i soggetti, e in particolare i bambini, reagiscono in modo vitale e inaspettatamente positivo a


perdite anche gravi. Questo lo si può osservare in tutte le situazioni emergenziali, non solo nel
terrorismo. La ricostruzione dettagliata operata da Cyrulnik 32 del proprio stesso processo di
adattamento illumina un campo di fattori molteplice, che tiene conto sia della dimensione
individuale che di quella collettiva. Egli descrive la resilienza come un “reticolo”, ove “il nostro
tessuto è costretto a svilupparsi attraverso gli incontri che avvengono negli ambienti affettivi e
sociali” (Cyrulnik, 2000).
Attraverso la ricostruzione della propria biografia personale deduce i fattori di resilienza che lo
hanno salvato. Ne individua fondamentalmente due: da una parte una figura affettiva di riferimento,
sufficientemente solida (Dora). Dall’altro una figura che lo apre al mito collettivo, il compagno di
Dora, il comunista Émile.

“Si può vivere senza miti? Quando un’esperienza collettiva è pesante, quando la situazione
sociale è difficile, quando il mondo interiore è disperato, il mito ci unisce e dà senso alle
nostre sofferenze.” (ibidem)

Anna Rozenfeld (Rozenfeld, 2014, 2015), che in Argentina ha avuto in cura vittime di violenza di
stato, afferma che come esiste un fattore “sorpresa” che irrompe nella vita del soggetto generando
paura, disperazione e destabilizzazione dando un carattere traumatico agli avvenimenti, così c'è un
fattore “sorpresa” che invece struttura il soggetto. Esso “viene fuori” a partire dalle ferite, mentre si
cerca di trovare un senso a quell’ avvenimento che ha cambiato la vita. Questo fattore evita il crollo.

“C'è un lavoro di riscrittura, di elaborazione della ferita, in cui trauma e senso possono
articolarsi in una nuova posizione soggettiva. Solo così si può parlare di resilienza, quando

32 Nascosto dalla madre ebrea perché non venisse scoperto e mandato nel lager, affronta in tenerissima età le
peripezie di chi, solo al mondo, lotta per la sopravvivenza.

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il soggetto ha oggettivato la scena e l’ha messa in parola, ha simbolizzato gli avvenimenti a
partire dal senso assegnato”… “Occorre che il soggetto ritorni a pensare, reinvestire,
assoggettandosi alle pulsioni di vita e ridando al pensiero la sua potenza”. (Rozendfeld,
2015)

Seguire alcune delle biografie delle vittime aiuta nella comprensione dei processi di resilienza.
Nel confrontarsi con queste testimonianze capita di farsi trasportare nelle vicende personali e intime
delle persone abbandonando i vincoli e gli schemi prefissati. Esse ci parlano direttamente
invitandoci ad abbandonare le difese che spesso hanno significato la loro marginalizzazione o
evitamento irritato. Solo in questo modo riusciamo a cogliere in profondità che cosa può voler dire
aver attraversato l’orrore di una violenza insensata e trovare poi la strada per risollevarsi.

Afferma Cyrulnik “Ogni archivio, ogni incontro, ogni evento che ci induce a creare un’altra
chimera narrativa costituisce un periodo delicato della nostra esistenza, un momento fecondo, uno
sconvolgimento caotico a partire dal quale tenteremo dolorosamente di ri-imparare a vivere… con
felicità”, (Cyrulnik, 2009, p. 21).

Francesca Dendena, figlia di Pietro, che nel 1980 aveva 17 anni e che al momento dello scoppio
della bomba alla Banca dell’Agricoltura aspettava il padre in macchina, afferma a proposito della
modalità con cui ha affrontato il lutto per la morte del padre:
“(l’ho affrontato) Informandomi e partecipando agli eventi che mi erano possibili, e credo
che tutto abbia preso la giusta direzione dopo la partecipazione a Catanzaro 33, dove con la
nostra testimonianza affermavamo che nonostante tutto credevamo nella giustizia e
speravamo nella stessa” (Fasanella, Grippo, 2006)

Manlio Milani, che perse la moglie a Piazza della Loggia ricorda:

“Per oltre un anno dormii con le luci accese, perché non riuscivo più a vivere in quella casa.
Una molla era scattata e aveva già messo in moto inconsapevolmente quel meccanismo che
mi avrebbe portato a cercare quasi in modo ossessivo la verità” …”Avvertii come una
sensazione di ricomposizione. Stava iniziando un’altra lotta (quella per la verità)....Il privato
e il politico divennero i cardini essenziali della mia vicenda ....militante della verità......Non
conoscendo la verità, sono stato privato anche del diritto di perdonare. (Fasanella, Grippo,
2006)

Lorenzo Pinto, fratello di Luigi, morto a Piazza della Loggia:

“Ho vissuto per molti anni questo conflitto tra la voglia di sapere e quella di cancellare
tutto....
Poi con l’aiuto di Manlio Milani, presidente dell’Associazione vittime di Brescia, ho iniziato
a interessarmi, a leggere, a capire.....In lui ho sentito la vera solidarietà, la sensibilità di una
persona che ti è accanto ma con una presenza discreta e, insieme, profonda. Avevamo
vissuto entrambi lo stesso dramma, c’è un minimo comun denominatore tra le persone che
vivono queste esperienze estreme,...
E così, nel 1998, ventiquattro anni dopo piazza della Loggia, ho scritto una tesi sulle stragi
impunite.....studiavo i fatti e al tempo stesso analizzavo le mie reazioni. ....Crescendo,
riuscivo a mettere sempre più a fuoco la causa delle mie rimozioni: avevo, senza saperlo, la


33 dove si svolgeva il processo

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sindrome del sopravvissuto, non mi ero perdonato di non essere morto al posto di mio
fratello.
....Subito dopo averla presentata e discussa, mi sono tolto dal collo la catenina d’oro di mio
fratello e l’ho regalata a mia sorella… A quel punto sentivo che dovevo separarmi da
lui....(Ibidem)

Pinto riesce col tempo a guadagnare una visione prospettica che lo riconnette alla realtà sociale e
infine a esprimere un bilancio sugli accadimenti:

“Lo Stato, inteso come consenso espresso mediante libere istituzioni, nonostante i ritardi
nell’approvazione delle leggi per le vittime e per i loro familiari, tutto sommato lo abbiamo
avuto dalla nostra parte. Anch’io, come Giovanni Pellegrino, mi sento di dire che nel
complesso il saldo è positivo: se si tiene conto della gravità degli episodi che abbiamo
vissuto, avremmo potuto ritrovarci sotto un governo militare, nel mezzo di una guerra civile
dichiarata, e invece viviamo ancora in un Paese democratico....

“Adesso resta ancora un atto da compiere, un atto che aiuti a ricomporre l’intero quadro
aggiungendo i pezzi di verità mancanti e, al tempo stesso, porti a una riconciliazione (lo
chiama modello sudafricano, "Il perdono come mezzo per conoscere la verità, e la verità
come condizione del perdono.")

Il bilancio, oltre che storico, è intimo e personale:

...”Sono stato attento, sono stato attento. Ho usato la mia intelligenza per capire, e poi per
riappacificarmi con il prossimo. Ora riposiamoci, se vuoi».

Per Marina Gamberini la testimonianza portata nelle scuole ha avuto una funzione cruciale:

«Incontro ragazzi puliti, che non sanno nulla di quella storia. Ma è meglio così. Quante
volte, anche adesso, in altri contesti sento che ci sopportano, passiamo per pesanti, e solo
perché siamo ancora qui, con tenacia, a chiedere la verità, perché adesso ne conosciamo solo
un pezzettino. I ragazzi no, invece: vedo che ci ascoltano, perché sono interessati davvero e
non per obblighi d’ufficio. Vogliono capire e non hanno verità che ogni tanto qualcuno
pretende di confezionare».

Ci sono voluti anni di parole e terapie per liberarla dalla gabbia dei fantasmi. Ora le foto delle sei
colleghe fanno parte della mostra, «Io sono testimonianza», che riunisce nella Sala Borsa di
Bologna le immagini dei sopravvissuti con quelle di oggetti legati a chi non c'è più: un borsello, un
cappello da capostazione, una maglietta. Vicino a Marina ci sono le sei colleghe:

«Finalmente non sono io ad avere importanza, ma loro, che in tutti questi anni non hanno
mai avuto voce».

Lia Serravalli ha perso a Bologna le due figlie, e la sorella. Sente di non farcela a sopravvivere:

“Dopo una serie di accertamenti il medico mi chiamò. E mi disse, quasi a muso duro:
“Non ci sono cure per dimenticare e andare avanti: hai due strade, due sole possibilità: o ti
uccidi o cerchi di sopravvivere”. Fui molto turbata dalle sue parole. Arrivò a dirmi anche
che mi avrebbe dato lui stesso la pistola per suicidarmi. Ma il medico aveva fatto bene,
perché il suo discorso così brutale mi aveva dato una scossa. Ed era proprio l’effetto che lui
voleva ottenere: voleva che io cominciassi a vivere, o quantomeno ci provassi”

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Sappiamo che oggi cresce le figlie di sua sorella e il maschietto nato l’anno dopo la tragedia,
Silvano. Ha anche adottato una bambina in Gambia, Isatù.
Il suo trauma è “superato”?

“Per me le mie figlie sono vive, presenti. Non sono morte perché le sento vicino, accanto a
me ogni giorno della mia vita. Io ricordo ogni attimo. E’ questa la mia penitenza. E anche la
mia forza” (ibidem).

Anna Rozenfeld34 afferma che nei soggetti si produce uno squilibrio tra pulsioni di vita e di morte.
La resilienza è in uno spazio tra questi due, in un interstizio. Il soggetto si sente abbandonato da
tutti, dalla Provvidenza, dai poteri protettori. Non si recupera la forma precedente, i vissuti
traumatici modificano il soggetto, i parametri logici vengono alterati e l’individuo si sente
sopraffatto.
La resilienza prevede che si sviluppino costruzioni psichiche, “posizioni”. Una è la “posizione
rivendicativa”. Il danno diventa motore di lotta, fonte di reclami, sete di giustizia. Si cerca una
riparazione morale, ed è un modo di risollevarsi.
Nella “posizione riparatoria” il danno si trasforma in principio etico. Si cerca di evitare che la
tragedia si ripeta, si fa del bene. La risposta sociale organizzata ha un ruolo fondamentale, si opera
una riparazione simbolica.
Nella “posizione creativa” assumono un ruolo centrale l’arte, la musica la letteratura. Tutto questo è
cruciale, perché in assenza di rappresentazioni simboliche è difficile elaborare il trauma. L’Arte è
un atto di salvataggio dalla disperazione di un lutto traumatico non elaborato e consente di
esprimerlo dal “di dentro” di ciascuno.
Un altro fattore è “l'umorismo”. L’umorismo contribuisce alla resilienza in quanto è una strategia
per deviare il dolore. Trionfa allora il narcisismo. L'umorismo si sottrae alla compulsione della
ripetizione (Rozenfeld A., Granieri A., Borgogno F., Gonnella M., 21 marzo 2015)

Sulla resilienza comunitaria che si fonda sulla risposta collettiva e organizzata delle vittime,
Antonella Granieri fa inoltre osservazioni molto interessanti, mettendo in guardia verso la
costituzione di un “noi” (ad esempio “noi vittime”). Pur non negandone la funzione, Granieri
sottolinea come la fusione regressiva “diventi il sostituto illusorio dell’oggetto perduto e il Sé
individuale è sostituito da un Sé ideale. “ La domanda “chi sono io?” rischia di venir sostituita dalla
domanda “chi ho perso?”, irrigidendo l’articolazione della resilienza stessa (Rozenfeld, Granieri,
2014).

Il lavoro del terapeuta, ma anche quello dello psicologo di comunità, sarà quindi quello di sostenere
i soggetti nella ricerca e realizzazione delle forme di resilienza a cui si indirizzeranno,
accompagnandoli al contempo in quell’esercizio di pensiero su di sé e la realtà che eviti le
semplificazioni e gli irrigidimenti difensivi, ma apra a sviluppi ulteriori e affrancati.


34 Psicoanalista argentina. Nel 2008 crea, all’interno dell’ APA (American Psychological Association), un gruppo di
ricerca interdisciplinare sulla resilienza.

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