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A cura di

Ivo Quaranta
Antropologia
medica
I testi fondamentali
Presentando per la prima volta in italiano i contri- A cura di
buti più significativi degli autori che hanno fatto la Ivo Quaranta
storia della disciplina, questa antologia rappresen- Antropoloo1
v�

ta uno strumento fondamentale per quanti, sia stù
versante antropologico sia su quello medico, inten- medica
dono approfondire l'ampio spettro di questioni su
cui oggi l'antropologia medica riflette con la provo-
catoria intenzione di indagare i processi attraverso
i quali i fenomeni biologici, politico-economici e so-
cioctùturali si determinano reciprocamente. A par-
tire dal percorso di riflessione critica qui ricostrui-
to, la malattia emerge come un processo in cui le
trame più intime dell'esperienza personale sono in-
scindibilmente intrecciate a dinamiche sociali, eco-
nomiche e storico-ctùturali.
Vengono affrontati temi che spaziano dalla consi­
derazione della malattia come pratica ctùturale al­
l'esame dei rapporti fra sofferenza sociale,processi
economici e strategie di presa in carico istituziona­
le del disagio.

Testi di Pau! Farmer, Didier Fassin,


Byron J. Good, Arthur Kleinman, ]oan Kleinman,
Margaret Lock, Nancy Scheper-Hughes,
Michael T. Taussig, Allan Young.

lvo Quaranta insegna Antropologia culturale, Antropo­


logia del corpo e Antropologia sociale dei saperi medici
presso l 'Università degli Studi di Bologna e Antropolo­
gia medica presso l'Università di Milano-Bicocca.

ISBN 88-6030-004-5

CULTURE E SOCIETÀ
Collana diretta da Ugo Fabietti
1 1 1 1 1 1 111 1 1 1 1 1
9 788860 300041

€ 29,80
CULTIJRE E SOCIETÀ

Collana diretta da Ugo Fabietti


A cura di
Ivo Quaranta

Antropologia medica
I testi fondamentali


Raffaello Cortina Editore
www.raffaellocortina.it

Traduzioni
Elena Fabietti

Copertina
Studio CReE

ISBN 88-6030-004-5
© 2006Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4

Prima edizione: 2006


INDICE

Autori vn
Introduzione (Ivo Quaranta) IX

PARTE PRIMA
Una disciplina in cerca di tdentità: oggetto, metod� teorie
l. Alcuni concetti e un modello per la comparazione
dei sistemi medici intesi come sistemi culturali
(Arthur Kleinman) 5

2. n cuore del problema.


La semantica della malattia in Iran
(Byron ]. Good) 31

3. Reificazione e coscienza del paziente


(Michael T Taussig) 75

4. Antropologie della "illness" e della "sickness"


(Allan Young) 107

5. Un approccio critico-interpretativo in antropologia


medica: rituali e pratiche disciplinari e di protesta
(Margaret Lock, Nancy Scheper-Hughes) 149

PARTE SECONDA
Narrazione, esperienza e mondi morali locali
6. La sofferenza e la sua trasformazione professionale:
verso una etnografia dell'esperienza interpersonale
(Arthur Kleinman, Joan Klet'nman) 199

v
INDICE

7 . Un corpo che soffre.


La costruzione di un mondo di dolore cronico
(Byron ]. Gootl) 235

PARTE TERZA
Sofferenza, diritti umani e giustizia sociale
8. Sofferenza e violenza strutturale.
Diritti sociali ed economici nell'era globale
(Pau! Farmer) 265

9. La biopolitica dell'alterità. Clandestini e discriminazione


razziale nel dibattito pubblico in Francia
(Didier Fassin) 303

Fonti 323
AUTORI

Paul Farmer, antropologo e medico, lavora presso il Department of So­


dal Medicine della Harvard Medicai School. Ha fondato e dirige Part­
ners In Health, un'organizzazione umanitaria che offre assistenza sani­
taria ai poveri attraverso strategie terapeutiche su base comunitaria. In­
fettivologo di formazione medica, Farmer ha fatto dei temi della giusti­
zia sociale e della promozione dei diritti delle classi svantaggiate il ful­
cro della sua riflessione clinica e antropologica, emergendo come uno
dei più influenti studiosi degli ultimi anni.

Dzdier Fassin, sociologo, antropologo e medico, attualmente insegna al­


l'EHESS di Parigi dove dirige il Cresp (Centro di Ricerca sui Problemi di
Sanità Pubblica). Le sue prime ricerche lo hanno condotto in Senegal e
in Ecuador. Al centro della sua riflessione troviamo, da sempre, il tema
del rapporto fra disuguaglianze sociali e salute, affrontato rispetto a
questioni di diversa natura: dalle politiche migratorie francesi ed euro­
pee, alle disctiminazioni razziali e culturali, all'AIDS in Mrica.

Byron]. Good, professore di Antropologia medica presso il Department


of Anthropology di Harvard, di cui è codirettore con Arthur Kleinman,
insegna al Department of Social Medicine e alla Harvard Medicai
School. Ha condotto ricerche nelle società mediorientali (Iran e Tur­
chia), in vari contesti degli Stati Uniti, e più di recente nella comunità di
Yogyakarta nella zona centrale di }ava, in Indonesia. La sua opera si è
concentrata prevalentemente sull'aspetto socioculturale dei disturbi
mentali maggiori con una particolare attenzione per la depressione e i
disturbi affettivi e, più recentemente, per i disturbi psicotici.

Arthur Kleinman si occupa di Antropologia medica da più di trent'anni,


dirige il Department of Anthropology di Harvard e collabora con il De­
partment of Social Medicine alla Harvard Medicai School. Dal1968 ef­
fettua ricerche nell'ambito delle società orientali, prima a Taiwan poi
nella Repubblica Cinese, dove ha potuto occuparsi di depressione, sui­
cidio ed epilessia. I suoi attuali interessi sono rivolti alla sofferenza so­
ciale e alle implicazioni morali dell'esperienza di malattia.

VII
AUTORI

Joan Kleinman, ricercatrice responsabile degli studi sulla Cina, parteci­


pa al Program in Medicai Anthropology dell'Università di Harvard. In­
segna per il Program for Chinese and Southeast Asian Advanced Re­
search Training e dirige il Freeman Summer Fellowship Program. Insie­
me ad Arthur Kleinman, ha approfondito il tema del rapporto tra ne­
vrastenia e depressione in relazione alla violenza politica, ai problemi
domestici, alle tensioni causate dal lavoro e al mutamento del modello
di esperienza morale in Cina.

Margaret Lock insegna presso il Department of Social Studies of Medi­


cine e presso il Department of Anthropology della McGill University. li
suo interesse specifico riguarda la relazione tra cultura, tecnologia e
corpo nella salute e nella malattia. Ha svolto ricerche in Giappone e nel
Nordamerica sulla medicina tradizionale, sui cicli vitali e sui trapianti.
Attualmente si occupa dell'emergere di nuove rappresentazioni del cor­
po alla luce della genetica molecolare.

Nancy Scheper-Hughes, insegna Antropologia medica a Berkeley dove di­


rige il programma di dottorato Critica! Studies in Medicine, Science, and
the Body. Si occupa in particolare della violenza nella vita quotidiana a
partire da una prospettiva esistenzialista e politicamente impegnata. Nel
corso della sua carriera ha approfondito temi che vanno dalla salute
mentale all'AIDS, dai diritti umani alla malnutrizione, dal traffico di orga­
ni all'abuso sessuale, dall'infanzia alle pratiche genocidarie.

Michael Taussig, laureato in Medicina a Sidney, Australia, attualmente


insegna Antropologia alla Columbia University. Ha coQdotto per anni
ricerche in Colombia e Venezuela. Successivamente ha analizzato il fe­
nomeno della schiavitù in Africa, la sua abolizione nella Colombia occi­
dentale, le manifestazioni popolari del funzionamento del feticismo del­
la merce, la sociologia della malnutrizione, l'impatto del colonialismo
sullo sciamanesimo e la guarigione popolare, la rilevanza dell'estetica
modernista e postmodernista per la comprensione del rituale. I suoi
scritti rivelano un'attenzione particolare alla costruzione testuale come
forma di analisi, che comprende un misto di etnografia, narrazione, me­
taetnografia e teoria.

Allan Young insegna Antropologia alla McGill University di Montreal,


dove dirige il Department of Social Studies of Medicine. In Etiopia ha
svolto le sue prime indagini sulle pratiche mediche tradizionali. Succes­
sivamente, in Nepal, si è occupato di medicina ayurvedica. Ha condotto
ricerche in un'unità psichiatrica per veterani della guerra del Vietnam
lavorando sulla produzione sociale del disturbo post-traumatico da
stress, sia in termini di categoria nosologica che di esperienza storica di
disagio.

VIII
INTRODUZIONE
Ivo Quaranta

Caratterizzata dall'intenzione di indagare i processi attraverso


cui i fenomeni biologici, politico-economici e socioculturali si de­
terminano reciprocamente, l'antropologia medica oggi rappre­
senta uno dei settori più dinamici nell'ambito delle scienze antro­
pologiche. Nel ricostruire i momenti cruciali che ne hanno segna­
to la storia, questo volume riunisce per la prima volta in italiano i
contributi più significativi di quegli autori che hanno partecipato
al processo di definizione dell'identità stessa della disciplina.1
Sebbene l'interesse degli antropologi per i temi della salute e
della malattia sia di lunga data, è solamente verso la fine degli an­
ni Settanta che l'antropologia medica emerge come un ambito di­
sciplinare autonomo. Questo processo coincide con la problema­
tizzazione dei rapporti fra antropologia e biomedicina (o medici­
na allopatica). Fino ad allora, infatti, la biomedicina aveva rap­
presentato la lente attraverso cui gli antropologi guardavano alle
medicine "altre" (Evans-Pritchard, 1937; Lévi-Strauss, 1958; Ri-

l. La selezione di contributi principalmente anglofoni nasce dalla volontà di


privilegiare una forte coerenza interna: molti di essi sono stati, infatti, prodotti
in serrato dialogo fra loro. Con questo, tuttavia, non si vuole intendere- né au­
spicare- che l'ampio spettro di questioni su cui oggi l'antropologia medica ri­
flette sia riducibile ai contributi dell'accademia nordamericana (Pizza, 2005). A
questo proposito è utile ricordare la notevole varietà di prospettive e tradizioni
nazionali: per quanto riguarda l'Italia, basti pensare ad AM (la rivista della So­
cietà italiana di antropologia medica- SIAM) e alla collana di studi a essa legata,
nonché alle attività e ai progetti promossi, patrocinati e coordinati sempre dalla
SIAM, nata grazie all'azione di promozione scientifica della disciplina, operata
negli anni da Tullio Seppilli. Per un panorama delle tradizioni nazionali in an­
tropologia medica si veda il volume curato da Saillant e Genest (2005).

IX
INTRODUZIONE

vers, 1924; Turner, 1967). Pronti a riconoscere nei saperi e nelle


pratiche delle società "altre" dei sistemi dotati di una propria lo­
gica, essi prontamente sospendevano ogni giudizio nei confronti
della biomedicina, come se quest'ultima si fosse evoluta aldilà del
condizionamento culturale e, dunque, non fosse passibile di ana­
lisi critica.
È solo quando l'antropologia inizia a volgere il suo sguardo
analitico verso il proprio contesto sociale che la biomedicina
emerge nei termini di uno specifico sistema culturale. Questa
nuova configurazione dei rapporti fra biomedicina e antropolo­
gia si è, tuttavia, realizzata attraverso differenti quadri teorici,
non sempre in accordo fra loro. È proprio intorno a queste diffe­
renti prospettive che prende avvio il dibattito che questa antolo­
gia mira a illustrare.

Antropologia nella medicina: la scuola di Harvard e la costruzione


culturale dell'esperienza di sofferenza
Fra i protagonisti del processo di fondazione dell' antropolo­
gia medica dobbiamo certamente annoverare Arthur Kleinman,
psichiatra e antropologo nordamericano tuttora fra i più eminen­
ti. È intorno a lui che, negli anni Settanta, un gruppo di studiosi
dà vita alla cosiddetta "scuola di Harvard". Questi ricercatori
partono dal presupposto che la biomedicina debba essere inda­
gata come una specifica etnomedicina, culturalmente caratteriz­
zata da una esclusiva considerazione delle dimensioni biofisiche
della malattia. Quest'ultima, tuttavia, non può essere ridotta a
mera realtà naturale: sono, infatti, specifiche norme culturali a
qualificare come problema medico un particolare stato d'essere.
È con questo spirito che Kleinman e collaboratori (1978) pro­
pongono di considerare le categorie biomediche come categorie
culturali attraverso cui si costruisce una particolare interpretazio­
ne della malattia. La malattia viene così pensata come una realtà
simbolica e la medicina come un'impresa ermeneutica.
Questo è lo scenario che fa da sfondo alla loro proposta di di­
stinguere fra disease e illness (Kleinman, Eisenberg, Good,
1978). Con disease essi si riferiscono all'alterazione nel funziona­
mento e/o nella struttura dell'organismo. Mentre per illness in­
tendono il significato che l'esperienza di sofferenza assume per

x
IN1RODUZIONE

chi la vive in prima persona. Disease e illness rappresenterebbero


due differenti modelli esplicativi: il primo radicato nel linguaggio
scientifico del clinico, il secondo nel contesto familiare e sociale
del paziente.
L'incontro medico/paziente emerge, allora, come una perfor­
mance in cui due differenti costruzioni culturali della realtà clini­
ca vengono messe in scena, due costruzioni, tuttavia, spesso in
conflitto fra loro. Secondo gli autori di Harvard, queste conside­
razioni sono della massima importanza, nella misura in cui i con­
flitti nella comunicazione medica rappresenterebbero la princi­
pale causa della non-compliance'l e dunque dell'inefficacia tera­
peutica. Un esempio è quello fornitoci dallo studio sull'iperten­
sione che Blumaghen (1980) ha condotto in Nordamerica: i pa­
zienti fanno riferimento a modelli interpretativi popolari, che
identificano la natura del problema con lo stress e le tensioni che
le persone esperiscono nella propria vita (illness), laddove i medi­
ci configurano il problema in termini di pressione arteriosa (di­
sease) . Questi differenti modelli portavano alla non-compliance
nella misura in cui, passate le fasi critiche della propria vita, i pa­
zienti, non sentendosi più sotto pressione, smettevano di prende­
re i farmaci prescritti, che invece, data la natura cronica del di­
sturbo, avrebbero dovuto assumere quotidianamente. La propo­
sta della scuola di Harvard è dunque quella di eleggere la illness a
oggetto di analisi da indagare attraverso l'esame delle concezioni
che i pazienti e i loro familiari adottano nell'interpretare la pro­
pria esperienza di sofferenza.
Secondo questa prospettiva, dunque, l'antropologia medica si
dovrebbe attivare su due fronti: da un lato, l'indagine comparati­
va dei differenti sistemi medici (cogliendo le loro differenti mo­
dalità di costruzione culturale della realtà clinica); dall'altro, la
sua applicazione clinica all'interno della biomedicina stessa. Sul
versante clinico l'antropologo dovrebbe mediare fra le differenti
prospettive emergenti nel corso dell'incontro terapeutico, espli­
citando i modelli esplicativi delle parti coinvolte e procedendo a
una comparazione delle differenti costruzioni culturali della
realtà clinica. In presenza di eventuali conflitti, dovrebbe impe-

2. Per non-compliance si intende la mancata adesione da parte dei pazienti


alle terapie indicate dai medici.

XI
INTRODUZIONE

gnarsi in un processo di negoziazione fra le differenti interpreta­


zioni al fine di creare un terreno comune da cui prendere le mos­
se per l'azione terapeutica. In sintesi, l'antropologo clinico do­
vrebbe fungere da avvocato di entrambe le parti, impegnato a
promuovere l'efficacia del sistema terapeutico e non a sostenere
la posizione di una delle prospettive coinvolte.
Sul piano clinico, dunque, l'antropologia della illness ha l'o­
biettivo di promuovere l'efficacia terapeutica, arricchendo la bio­
medicina con una "scienza sociale clinica" (Eisenberg, Klein­
man, 1981) capace di tradurre a livello applicativo i risultati del­
l' analisi antropologica. Una volta che la malattia viene ripensata
come una realtà simbolica, ignorare la prospettiva del paziente si­
gnifica escludere dall 'azione clinica una dimensione fondamenta­
le del processo di guarigione: l'elaborazione significativa dell'e­
sperienza. La biomedicina, infatti, si preoccuperebbe di curare
(curing, in inglese) i disturbi e non di rielaborare l'esperienza, e
dunque di guarire (healing) gli afflitti. È proprio la predilezione,
tutta culturale, per la dz'sease che porterebbe la biomedicina alla
strutturale inefficacia terapeutica, nella misura in cui elude l'im­
perativa necessità che i pazienti hanno di dare senso alla loro
esperienza di sofferenza.3
Merito indiscusso di questi autori è stato quello di aver diretto
l'attenzione sulla natura culturale della biomedicina;, giungendo a
vedere in essa un'etnomedicina. Coerentemente con questa posi­
zione, Kleinman ( 1980) sostiene che anche le altre etnomedicine
sono efficaci. Tuttavia la loro efficacia risiederebbe nell'attenzione
che dedicano alla illness, ovvero: le altre medicine sarebbero effi­
caci solo laddove la cura preveda un intervento mirato a riordina­
re l'esperienza. Paradossalmente, nel momento stesso in cui tenta
di mettere sullo stesso piano i differenti sistemi medici, la scuola
di Harvard opera una frattura netta: la biomedicina è efficace per­
ché cura il corpo, mentre le altre medicine sono efficaci solo se da
sanare sono l'esperienza, il disadattamento del paziente, la sua

3. La maggior parte dei contributi pubblicati tra la fine degli anni Settanta e
i primi anni Ottanta dagli esponenti della scuola di Harvard sono stati dedicati
proprio a questi terni: consolidare e legittimare una disciplina capace di riflette­
re sulle variabili culturali della malattia ed elaborare strategie per informare con
essa la biomedicina (Del Vecchio Good, Good, 1982; Good, Del Vecchio
Good, 1981a, 1981b; Katon, Kleinman, 1981; Kleinrnan, 1980, 1981, 1982).

XII
INTRODUZIONE

psiche ecc. La distinzione fra illness e disease, dunque, cade vitti­


ma delle stesse dicotomie che aspirava a superare. Impegnati a re­
stituire al paziente la sua soggettività, questi autori non hanno
messo in discussione la nozione di soggetto (ancorata alla dicoto­
mia fra mente e corpo) al cuore del sapere e delle pratiche biome­
diche. Non si comprende, infatti, cosa questi autori vogliono si­
gnificare con disease: da un lato essa è intesa come un modello
esplicativo, ovvero come l'interpretazione che la biomedicina ela­
bora della malattia; dall'altro, invece, sembrerebbe essere la ma­
lattia stessa, intesa come un'entità oggettiva e presociale (Hahn,
1984). Non è un caso che l'approccio dei modelli esplicativi privi­
legi in modo esclusivo le dimensioni cognitive: la cultura è vista
come fattore pertinente in riferimento alle categorie appunto, !ad­
dove il corpo, le emozioni, gli affetti vengono rappresentati come
stati psicofisiologici universali e, dunque, naturali (Kleinman,
1980). ll fatto che il corpo non appaia mai come oggetto analitico
spiega anche perché la scuola di Harvard abbia limitato la sua ana­
lisi alla sola illness, senza mai porre sotto la stessa lente analitica
anche i processi di costruzione della disease.
Inoltre, l'esclusiva attenzione per l'incontro medico/paziente e
la configurazione degli eventuali conflitti nei termini di differenti
costruzioni culturali della realtà clinica implica una fortissima di­
sattenzione per l'azione di forze sociali più ampie, che nell'incon­
tro terapeutico trovano uno dei loro momenti di cristallizzazione.
In sintesi, la scuola di Harvard non rompe con le premesse
epistemologiche e antologiche della biomedicina, presentando
una cornice teorica fortemente influenzata dalla psichiatria e da
un culturalismo che elide la pertinenza delle forze sociali, econo­
miche e politiche dalle sue analisi.

Antropologia della sickness:


la produzione sociale della medicina e della malattia
Negli stessi anni, in diretta polemica con le posizioni di Har­
vard, emerge una prospettiva differente: non già volta a indagare
la biomedicina come sistema culturale, quanto piuttosto interes­
sata all'analisi dei rapporti sociali di produzione del sapere e della
pratiche (bio-)mediche. Questo approccio non intende limitarsi
all'esame delle differenti costruzioni culturali della realtà clinica,

XIII
INTRODUZIONE

ma si preoccupa di indagare il processo di produzione sociale di


tali categorie.
Con questo spirito Michael Taussig, antropologo e medico, ro­
vescia l'impostazione della scuola di Harvard, indicando come
compito dell'antropologia medica l'esame della "costruzione cli­
nica della realtà", ovvero dell'impatto del sapere e delle pratiche
biomediche nella realtà sociale. Egli mette in luce come al cuore
del ragionamento clinico operi un processo di reificazione attra­
verso cui relazioni umane, persone ed esperienze vengono oggetti­
vate come cose in sé, come meri fatti di natura. È attraverso una
tale visione della malattia che la biomedicina parteciperebbe alla
costruzione della realtà sociale in termini funzionali alla conserva­
zione di un particolare assetto politico. Se è compito della relazio­
ne terapeutica reintegrare gli afflitti in un ordine condiviso di si­
gnificati, la biomedicina assolve tale funzione attraverso un pro­
cesso che annulla le dimensioni sociali, economiche e politiche in­
corporate nella malattia. L'oggettivazione del modello scientifico
diviene così vero e proprio mezzo di controllo sociale, nella misu­
ra in cui naturalizza e depoliticizza la malattia come mero fatto di
natura che semplicemente capita e contro cui nulla si può, se non
fare ricorso alla biomedicina. Compito dell'antropologo, secondo
Taussig, allora, dovrebbe essere quello di adottare un approccio
archeologico, capace di svelare cosa si nasconde dietro l'ideologia
medica, giungendo così a demistificare le sue costruzioni.
Proprio rispetto a quest'ultimo punto, l'analisi d1 Taussig mo­
stra i suoi più profondi limiti. Lo stesso Allan Young, infatti, si
domanda su che basi epistemologiche Taussig possa sostenere
che le sue interpretazioni siano autenticamente demistificate, se
non presupponendo che, in fondo, esista una realtà data aldilà
delle costruzioni biomediche, cui lui avrebbe un accesso privile­
giato. Young sostiene che tutto il sapere è socialmente determina­
to e che gli antropologi non possono rivendicare un accesso privi­
legiato a fatti demistificati: del resto anche quello antropologico è
un sapere culturale. A questo punto anche il compito dell'antro­
pologia viene a essere modificato: come per Taussig, anche per
Young esso deve essere uno strumento di critica sociale, ma attra­
verso una metodologia volta a problematizzare le condizioni so­
ciali della produzione del sapere.
È con questo spirito che Allan Young propone come oggetto

XIV
INTRODUZIONE

dell'antropologia medica non tanto lo studio della costruzione


culturale della personale esperienza di sofferenza (illness), quan­
to l'analisi della sickness, definita come il processo di produzione
del sapere medico e delle patologie: sono infatti i processi di na­
tura sociale a determinare ciò che vale come " problema medico",
alla stregua dei processi di legittimazione di ciò che conta come
"sapere medico". La proposta è quella di passare da una visione
centrata sull'individuo a una prospettiva capace di contestualiz­
zare socialmente il suo oggetto di indagine, non limitandosi all'a­
nalisi del solo incontro fra medico e paziente.
Utile a illustrare questo approccio è il lavoro di Barbara Smith
(1980), la quale esamina la produzione delle categorie diagnosti­
che relative alla silicosi negli Stati Uniti, in riferimento alle trasfor­
mazioni nell'estrazione industriale del carbone e alla nascita dei
movimenti sindacali. È in virtù di processi socioeconomici e poli­
tici, infatti, che si passò dalla silicosi intesa come "asma del mina­
tore", imputabile alle sue malsane abitudini (consumo di alcol e di
sigarette), alla silicosi come malattia professionale. In una fase ini­
ziale, infatti, i minatori lavoravano in città minerarie lontane dalle
famiglie dai propri centri di residenza abituale, e l'unica assistenza
era rappresentata dal medico della compagnia per cui essi lavora­
vano, selezionato da quest'ultima e pagato dai minatori. In seguito
all'evoluzione nelle tecniche di estrazione del carbone, imposte
dall'emergere di fonti alternative di energia, e al consolidarsi del
movimento sindacale, si passò a un sistema di assistenza per i mi­
natori organizzato dal sindacato e pagato dalla compagnia: l'asma
del minatore venne concepita in termini assai diversi, fino a essere
riconosciuta come danno risarcibile nelle cause intentate contro la
compagnia in caso di malattia grave e/o morte.
Questo esempio mette in luce come l'analisi dei processi di pro­
duzione delle categorie mediche e delle patologie richieda un'ade­
guata considerazione delle forze e degli interessi .economici e so­
ciali in gioco e non solo dei processi di costruzione culturale dell'e­
sperienza. Gli antropologi della sickness vogliono sottolineare che
anche l'elaborazione personale della sofferenza individuale va
considerata parte di un più ampio processo sociale: come Barbara
Smith ha evidenziato, infatti, non tutte le categorie sono legittima­
te socialmente, ma certamente tutte sono posizionate socialmente
e con ricadute più ampie in termini politici ed economici.

xv
INTRODUZIONE

Se la scuola di Harvard auspicava un'antropologia nella medi­


cina impegnata a potenziare l'efficacia terapeutica, l' antropolo­
gia della sickness si poneva nei termini di un'antropologia della
biomedicina impegnata nell'analisi di ciò che Young definisce
"produttività medica": ovvero, ciò che viene prodotto dalle pra­
tiche mediche, oltre all'efficacia terapeutica. Le pratiche medi­
che, infatti, non limitano il loro impatto al ripristino di una con­
dizione di benessere personale, ma parallelamente possono par­
tecipare a processi sociali assai più ampi: per esempio, esaminare
quali siano le conseguenze dell'abbassamento del livello di glice­
mia a digiuno - da 7,8 mM a 7 mM è il range introdotto dall'Or­
ganizzazione mondiale della sanità - per effettuare una diagnosi
di diabete. Oltre alla promozione della prevenzione, vengono
anche "creati" 6 milioni di nuovi diabetici nella sola Europa
(Rossi, 2003 ), con tutto ciò che questo può implicare (dagli inte­
ressi economici dell'industria farmaceutica, all'ulteriore coloniz­
zazione da parte della razionalità strumentale di quelle che sono
condizioni strettamente legate a processi storico-sociali di ampia
portata).
È interessante, a questo punto, mettere in luce come la pro­
spettiva della sickness si ponga nei termini di un correttivo all'in­
dividualismo della scuola di Harvard, al caro prezzo però di eli­
minare ogni considerazione per le dimensioni personali dell'e­
sperienza di sofferenza, penalizzata a vantaggio di tfu'analisi dei
processi e delle relazioni sociali di produzione del sapere.
Tuttavia, le due prospettive sono accomunate proprio dal loro
più grande limite. E infatti paradossale che, sebbene entrambe si
dichiarino critiche nei confronti della biomedicina, non giunga­
no a problematizzare la natura della disease, ovvero le radici cor­
poree della malattia, relegando così il corpo alla sua definizione
biomedica di entità biofisica.
In conclusione, la scuola di Harvard e l'approccio della sick­
ness hanno certamente fatto il primo passo, lungo sentieri diffe­
renti, verso una problematizzazione della biomedicina, nei termi­
ni di un sistema culturale, gli uni, e ideologico, gli altri. La pro­
blematizzazione della corporeità rappresenta, tuttavia, il secondo
passo necessario per liberare l'immaginario antropologico dalle
premesse biomediche e aprirlo a una considerazione del campo
della salute aldilà del riduzionismo cartesiano.

XVI
INTRODUZIONE

Un'antropologia medica critico-interpretativa:


ilparadigma dell'incorporazione
Nel 1 987 viene pubblicato, sul primo numero del Medicai
Anthropology Quarterly (la rivista della statunitense Society for
Medicai Anthropology), un articolo di Margaret Lock e di Nancy
Scheper-Hughes destinato a segnare lo sviluppo successivo del
dibattito in seno all'antropologia medica: "The mindful body: a
prolegomenon to future work in medicai anthropology".4
Queste autrici partono dalla considerazione che da sempre gli
antropologi medici- seppur in modo implicito e inconsapevole­
si preoccupano di indagare il corpo: chi attraverso lo studio del­
l'elaborazione culturale dell'esperienza di sofferenza, chi attra­
verso un approccio economico-politico. La loro proposta è quel­
la di mediare fra queste differenti prospettive attraverso una radi­
cale problematizzazione del corpo stesso, eletto ora a oggetto
esplicito di riflessione analitica.
Le autrici sottolineano, infatti, come il corpo non possa essere
inteso in termini esclusivamente naturali, come un'entità data al
di fuori dei suoi processi di produzione sociale e di costruzione
culturale: il corpo va, piuttosto, inteso come un prodotto sociale
di cui indagare i processi di costruzione. Necessaria a questo
punto è l'adozione di una prospettiva autoriflessiva capace di
mettere in luce come le nostre concezioni del corpo non possano
essere elette a parametro di giudizio universale: al contrario, la
nostra è solo una delle tante possibilità storiche di costruire e vi­
vere la corporeità. Lo stesso dualismo fra mente e corpo rappre­
senta una etnopsicofisiologia affatto specifica, che in altri conte­
sti storico-culturali non troviamo.
La loro proposta è, dunque, quella di combinare una prospetti­
va fenomenologica (alla cui luce siamo persone incorporate, che
vivono e agiscono nel mondo attraverso il corpo) con un approc­
cio simbolico (teso a indagare la natura storico-culturale della cor­
poreità stessa). L'invito è quello di guardare alla relazione fra espe­
rienza e rappresentazioni socioculturali in termini costitutivi: non
abbiamo semplicemente un corpo culturalmente elaborato, ma
siamo corpi che vivono loro stessi e il mondo attraverso i dispositi-

4. In questa antologia si presenta una versione successiva, riveduta e amplia·


ta, della traduzione del saggio del 1987.

XVII
INTRODUZIONE

vi della loro costruzione culturale. Le rappresentazioni culturali


della sofferenza e del corpo non sono dunque semplici categorie
attraverso cui gli esseri umani descrivono culturalmente un ambi­
to universalmente dato. Queste rappresentazioni plasmano, al
contrario, la corporeità e la malattia come forme di esperienza so­
ciale. Le inunagini storiche attraverso cui interpretiamo la soffe­
renza e la malattia organizzano le modalità attraverso cui viviamo
quei particolari stati d'essere. Le simbologie del corpo che l'antro­
pologia rintraccia attraverso le sue analisi vanno viste, dunque, co­
me dispositivi della costruzione stessa della corporeità: della sua
realtà come della sua esperienza storicamente soggettiva.
Sebbene sia fondamentale riconoscere la natura storico-socia­
le del corpo, è comunque riduttivo pensare a esso come mero
prodotto della storia e della società. ll corpo, infatti, non è solo
oggetto del processo di plasmazione culturale, esso è anche sog­
getto attivo nel produrre significati culturali ed esperienze: i cor­
pi non sono semplicemente costituiti da e attraverso pratiche e
discorsi sociali, essi sono anche il terreno vissuto di questi discor­
si e pratiche (Csordas, 1990, 1994) . Se è vero che viviamo noi
stessi attraverso immagini sociali, è altrettanto vero che ogni no­
stra esperienza è attualizzazione assai personale di queste imma­
gini; in altre parole la nostra esperienza non è solamente social­
mente prodotta, ma a sua volta produce sapere, significati, cultu­
ra. Ci troviamo di fronte a una processualità dialettica alla cui lu­
ce il personale è sociale e viceversa. In questo modo giungiamo
ad abbandonare l'idea di un corpo dato in natura, nella misura in
cui la concezione del corpo come elemento naturale è essa stessa
un prodotto storico attraverso cui concepiamo e, al tempo stesso,
viviamo il corpo e i suoi stati d'essere.
È in questo senso che Lock e Scheper-Hughes indicano nel pa­
radigma dei tre corpi l'oggetto d'analisi dell'antropologia medica:
l'indagine del rapporto costitutivo fra corpo individuale (espe­
rienza soggettiva del body/sel/), corpo sociale (simbologie che
plasmano culturalmente l'esperienza soggettiva stessa) e corpo
politico (il ruolo del controllo e della costrizione esercitati dall'or­
dine sociale nel legittimare o meno specifici saperi ed esperienze).
Una volta che il corpo viene problematizzato in termini feno­
menologico-culturali, emerge la possibilità di pensare la salute e b
malattia indipendentemente dai presupporti antologici ed episte-

XVIII
IN1RODUZIONE

mologici che fondano la biomedicina. Se per la scuola di Harvard


la cultura plasma la malattia (disease) dando forma alle concezioni
(illness) attraverso cui essa viene interpretata, Margaret Lock e
Nancy Scheper-Hughes mettono in luce come il corpo stesso sia
già culturalmente informato e dunque i suoi stati d'essere non
aspettino di essere mediati dalle categorie cognitive per assumere
significati culturalmente variabili: le esperienze somatiche rappre­
sentano già veri e propri discorsi sociali. In quest'ottica la malattia
emerge come una particolare tecnica del corpo, come un linguag­
gio che richiede un'interpretazione capace di dipanare il fitto intri­
co di esperienze personali, processi culturali e forze sociopolitiche
che vengono vissute nell'immediatezza dell'esperienza.
In questo senso va inteso il titolo del saggio del 1987: the mind­
ful body, il corpo cosciente, consapevole, che attivamente si relazio­
na al mondo sociale. Esso cessa di essere mera entità passiva radica­
ta nel mondo inerte della materia organica e interessata dai proces­
si culturali solo in quanto oggetto della loro azione plasmatrice, per
emergere invece come soggetto dei processi culturali, produttore di
significati: l'esperienza corporea emerge come una modalità di po­
sizionamento dei soggetti nel mondo sociale e la malattia come un
ambito (non di certo l'unico) in cui cogliamo tale dimensione dina­
mica della corporeità. n corpo, infatti, si relaziona attivamente ai
processi della sua costruzione/costrizione, traducendo e tradendo
il rapporto fra body/selfindividuale, gli assetti sociali in cui vive e le
simbologie culturali che ne organizzano il senso.
È a questo livello che le due autrici sostengono che la malattia
può essere vista come un momento di resistenza all'ordine costi­
tuito, mostrando come la malattia si sia storicamente configurata
sempre più come un idioma socialmente legittimato per esprime­
re il proprio disagio, parallelamente al venire meno di altri canali
condivisibili per mettere in scena la propria indignazione nei
confronti dell'ordine sociale. La malattia assurge così a prodotto
di, e forma di resistenza a, ideologie dominanti (Lock, 199 1 ):
prodotto di ideologie dominanti, nella misura in cui il disagio de­
riva dagli effetti iatrogeni del sistema sociale; ma anche forma di
resistenza a quelle stesse ideologie dominanti, nella misura in cui
il disagio somatico emerge come forma di critica incarnata dell'e­
gemonia, come un riposizionamento soggettivo rispetto al mon­
do sociale iscritto nel corpo stesso.

XIX
INTRODUZIONE

Emblematico in tal senso il caso dell'isteria fra XIX e XX secolo


in Europa. All'epoca, l'esclusione sociale della donna era giustifi­
cata dall'assunto, tutto culturale, che la sua unica funzione fosse
quella procreativa. In questa cornice si riteneva che il disagio
femminile fosse riconducibile al malfunzionamento dell'appara­
to riproduttivo, che veniva rimosso a scopo terapeutico (Martin,
1987). Tuttavia è significativo che le donne esprimessero il pro­
prio disagio nei confronti di tale ordine sociale proprio attraverso
il disordinato movimento dell'utero, ovvero attraverso le forme
simboliche incorporate relativamente alla propria natura e al
proprio ruolo nella società. Possiamo allora comprendere come
la sofferenza fosse, da un lato, effetto dell'oppressione di quel
mondo sociale (e dunque prodotto di ideologie dominanti) e,
dall'altro, rappresentasse una protesta incarnata contro di esso
(forma di resistenza, dunque): il corpo che soffre, allora, diviene
metafora del disagiato rapporto fra sé e società, mettendo in luce
l'intreccio profondo fra esperienza personale, simbologie sociali
e processi politici (i tre corpi).
La malattia allora è qualcosa che gli esseri umani fanno: non
solo attraverso le categorie con cui interpretano il proprio disagio
(illness); non solo attraverso le forze sociali e politiche che produ­
cono specifici dispositivi discorsivi che fondano regimi di verità
(sickness); ma anche attraverso i loro corpi, attraverso la loro
esperienza incorporata. La malattia può essere letta come una ve­
ra e propria pratica culturale, in cui il corpo si esprime attraverso
i repertori storici della sua costruzione culturale posizionando il
soggetto in termini dissonanti rispetto al suo mondo sociale.
È su questo sfondo, dunque, che un nuovo paradigma si è im­
posto in antropologia medica, un paradigma teso a combinare
una prospettiva fenomenologica, attenta cioè alla soggettività e
all'esperienza degli attori sociali, con un approccio economico­
politico capace di cogliere l'azione di più ampie forze macroso­
ciali: l'incorporazione.

La sofferenza sociale
Lungi dall'aver uniformato questo campo del sapere, il con­
cetto di incorporazione si è tuttavia imposto come ideale scienti­
fico al cui interno rivedere e declinare i propri interessi analitici.

xx
INTRODUZIONE

È sullo sfondo di questo processo che il concetto di sofferenza


sociale è emerso come l'oggetto più appropriato per una discipli­
na che mira a indagare il fitto e profondo rapporto fra processi
storico-sociali ed esperienza di disagio. La malattia viene così a
essere ripensata come una delle molteplici forme attraverso cui si
materializza la sofferenza sociale:

La sofferenza sociale[. . ] accomuna una serie di problemi umani


.

la cui origine e le cui conseguenze affondano le loro radici nelle deva·


stanti fratture che le forze sociali possono esercitare sull'esperienza
umana. La sofferenza sociale è la risultante di ciò che il potere politi­
co, economico e istituzionale fanno alla gente e, reciprocamente, di
come tali forme di potere possono esse stesse influenzare le risposte ai
problemi sociali. A essere incluse nella categoria di sofferenza sociale
sono condizioni che generalmente rimandano a campi differenti, con­
dizioni che simultaneamente coinvolgono questioni di salute, di wel­
fare, ma anche legali, morali e religiose. (Kleinman, Das, Lock,1997)

La salute e la malattia vengono sempre più intese come realtà


dinamiche, catturate all'interno di processi sociali che fanno da
trama per il dipanarsi delle vicende esistenziali dei soggetti cultu­
rali. In questa sede ci occuperemo di esaminare, da un lato, la
proposta di quegli autori che un tempo diedero vita alla scuola di
Harvard e che, oggi, propongono un approccio fenomenologico
e morale allo studio dell'esperienza di sofferenza; dall'altro lato,
attraverso i contributi di Paul Farmer e di Didier Fassin, riflette­
remo sui meccanismi attraverso cui i processi sociali vengono a
essere incorporati come patologie individuali. Da una parte, dun­
que, il paradigma dell'incorporazione ha permesso di sviluppare
un approccio fenomenologico allo studio della sofferenza; dal­
l' altra ha anche fornito una cornice teorica per problematizzare il
rapporto fra i processi sociali e la loro iscrizione biologica.

!}etnografia dell'esperienza, i mondi morali locali


e l'approccio narrativo
I lavori di Kleinman, dalla metà degli anni Settanta a oggi, lo
hanno visto impegnato in un costante processo di ridefinizione
del linguaggio, volto "a trovare nuove parole e immagini per evo­
care lo stesso controverso processo che connette lo spazio sociale

XXI
INlRODUZIONE

e il corpo" (Kleinman, 1995). Oggi Kleinman è giunto a definire i


suoi interessi nei termini di uno studio dell'esperienza intersog­
gettiva di sofferenza, all'interno di specifici mondi morali locali.
Queste sono le nuove immagini attraverso cui indagare come la
malattia affondi le sue radici nel mondo della vita quotidiana dei
soggetti, e come tale mondo venga a essere trasformato proprio
dall'esperienza di sofferenza.
È in questa chiave cheJoan e Arthur Kleinman indicano la sof­
ferenza umana come oggetto di un'etnografia dell'esperienza, de­
finendo quest'ultima nei termini di un processo intersoggettivo
in cui il più personale degli eventi non è esclusivamente indivi­
duale ma intimamente collettivo. La loro proposta analitica è
quella di partire proprio da cosa c'è praticamente in ballo per spe­
cifici soggetti all'interno dei mondi che segnano le loro vicende
sociali quotidiane, al fine di evitare ogni forma di delegittimazio­
ne della sofferenza stessa. Se la biomedicina e la psichiatria sono
ritenute colpevoli di tradurre la sofferenza in categorie universa­
lizzanti e depersonalizzate, i coniugi Kleinman ravvisano lo stesso
rischio anche in alcune analisi antropologiche: parlare di malattia
come riproduzione di relazioni di oppressione o come forma di
resistenza può significare interpretare la sofferenza umana in ter­
mini che non sono affatto prossimi all'esperienza vissuta. L'antro­
pologizzazione della sofferenza può essere, dunque; tanto dele­
'
gittimante quanto la sua medicalizzazione. La presi di distanza
dalla biomedicina si è, quindi, consumata anche per la scuola di
Harvard: la malattia viene vista come un processo intersoggettivo
che vive attraverso le sue ramificazioni nelle esperienze e nelle re­
lazioni che costituiscono il mondo dell'afflitto; un mondo che es­
sa pone in discussione, ma da cui la sofferenza stessa assume il
suo specifico significato esistenziale e morale.
In linea con i coniugi Kleinman, Good propone un approccio
narrativo in cui i resoconti di sofferenza non vengano concepiti
come momenti in cui i soggetti rappresentano la loro esperienza,
quanto come dispositivi attraverso i quali si costruisce l'esperien­
za stessa. L'ipotesi di Good (1994) è che la malattia provochi uno
slittamento nell'esperienza incorporata del mondo vissuto, por­
tando a ciò che Elaine Scarry (1985) ha definito "la dissoluzione
del mondo". Proprio in virtù del fatto che il corpo è il terreno esi­
stenziale della cultura e dell'esperienza, la sua crisi trascende l'in-

XXII
INTRODUZIONE

dividuo per mettere in discussione quel processo significativo che


radicava la presenza in un mondo dotato di senso. Se le narrazioni
rappresentano pratiche di costruzione culturale dell'esperienza,
esse assumono un senso ulteriore nel contesto della malattia. Rap­
presentano, infatti, anche momenti in cui si lavora alla ricostruzio­
ne di un mondo rinnovato per una presenza inedita. In quest'otti­
ca comprendiamo perché Good giunge a qualificare il suo come
un contributo a una teoria dell'esperienza vissuta: la sua attenzio­
ne è, infatti, sul corpo come fonte creativa di esperienza.
Questo approccio parte da una concezione attiva del corpo
come centro dei processi costitutivi dell'esperienza personale; in
questo senso i significati culturali sono visti come emergenti dal­
l'esperienza socialmente informata. Conseguentemente l' approc­
cio narrativo guarda in modo sempre più attento alle pratiche, al­
l'azione e non solo ai sistemi di significato, come se questi esistes­
sero a un livello metaempirico: l'esperienza socialmente informa­
ta è il terreno ultimo su cui elaborare un'analisi antropologica
della malattia e delle pratiche mediche.

Biolegittimità e violenza strutturale


Un'antropologia medica fondata sul concetto di incorporazio­
ne non si limita, tuttavia, allo studio delle radici corporee dell'e­
sperienza e della cultura, quanto piuttosto si impegna a cogliere i
rapporti che i fenomeni socioculturali hanno con la corporeità
(Csordas, 1990). È all'interno di questo più ampio paradigma che
è stata ribadita l'importanza di analizzare le relazioni fra processi
economico-politici ed esperienza di sofferenza.
Con questo spirito Paul Farmer ha avanzato una proposta teo­
rica fondata sul concetto di violenza strutturale, definita dal filo­
sofoJhoan Galtung (1969) come quella particolare forma di vio­
lenza che non richiede l'azione di un soggetto per essere compiu­
ta, nella misura in cui a caratterizzarla è la sua natura processuale
e indiretta. Nel parlare di violenza strutturale si vuole dirigere
l'attenzione verso gli effetti iatrogeni dei rapporti sociali, in diret­
to riferimento al tema delle disuguaglianze, tanto locali, quanto
nazionali e internazionali, responsabili di creare ineguali speran­
ze di vita per i soggetti in base alla loro posizione sociale.
L'antropologia critica della salute, che in Farmer vede il suo

XXIII
INTRODUZIONE

capofila, prende le mosse da una profonda critica all' antropolo­


gia culturale, spesso colpevole di ridurre le sue analisi alla sola
considerazione delle variabili culturali e simboliche della vita so­
ciale, ignorando il ruolo determinante che forze economiche e
storico-politiche hanno nella produzione della sofferenza. Limi­
tare l'analisi antropologica allo studio delle simbologie culturali
porterebbe gli studiosi a ignorare il ruolo svolto dalla violenza
strutturale, ovvero da quella violenza iscritta nei significati cultu­
rali stessi e negli assetti sociali che essi legittimano e perpetrano.
In questa prospettiva la violenza è localizzata nelle strutture
simboliche e sociali che consentono la produzione e la naturaliz­
zazione dell'oppressione, della marginalizzazione, del bisogno e
della dipendenza. Non è un caso che Farmer veda l'azione della
violenza strutturale concretizzarsi principalmente lungo tre assi:
quello del genere (la legittimazione dell'oppressione attraverso
costruzioni culturali della femminilità che giustificano la margina­
lità e la debolezza sociale delle donne); quello delle discriminazio­
ni perpetrate in nome di una qualche differenza "razziale" o "etni­
ca" (nuovamente concetti privi di alcun fondamento scientifico
ma utilizzati nel promuovere iniqui assetti di potere fra differenti
gruppi sociali); e, in ultimo, l'asse che rappresenta la violenza
strutturale come differenza culturale: qui l'accusa è non solo di­
retta all'antropologia culturalista, ma anche a tutte quelle strategie
di presa in carico della sofferenza che interpretano le patologz'e del
potere, prodotte da assetti sociali informati da profonde disugua­
glianze, nei termini di costumi locali, diversi dai nostri, ma da ri­
spettare in nome del relativismo culturale. Ridurre a differenza
culturale l'effetto di processi socioeconomici rischia di rendere
l'antropologia complice di quella violenza simbolica attraverso
cui ogni ordine sociale cerca di nascondere, giustificare, legittima­
re, naturalizzare quanta sofferenza è imposta agli individui come
prezzo della loro appartenenza a esso (Das, 1997).
All 'interno di questa prospettiva la malattia viene concepita
come un processo sociale che si iscrive nelle vicende individuali
principalmente attraverso le limitazioni esercitate sulla loro capa-

5. Per capacitazione Amartya Sen intende la libertà sostanziale di realizzare


più combinazioni alternative di funzionamenti, dove per funzionamento si in­
tende ciò che una persona può desiderare di fare, o essere (Sen, 2001, p. 79).

XXIV
INTRODUZIONE

cità di azione. Quello della capacitazione5 è, infatti, secondo Far­


mer (1999; 2003 ), il terreno rispetto al quale possiamo cogliere
l'intreccio fra esperienza individuale e forze di esclusione sociale:
in estrema sintesi, la violenza strutturale si fa patologia principal­
mente limitando la capacità di azione dei soggetti. Ed è proprio
attraverso l'analisi delle vicende biografiche dei soggetti stessi
che possiamo cogliere l'impatto della violenza strutturale: le vitti­
me dell'AIDS, della TBC multiresistente, della persecuzione politi­
ca, della malnutrizione - tanto a Haiti quanto in Russia, in Perù,
in Chiapas o nelle periferie della grandi metropoli euroamericane
- emergono come legate dalla comune condizione di vivere ai
margini di organizzazioni sociali informate da profonde disugua­
glianze e, dunque, nella condizione di non poter negoziare i ter­
mini della propria esistenza.
Una volta che la malattia viene concepita nei termini di un
processo sociale, essa emerge come l'incorporazione psicobiolo­
gica di forze collettive più ampie e i temi della giustizia e dei dirit­
ti umani emergono come centrali per l'analisi antropologica.
Troppo a lungo il relativismo etico ha impedito agli antropologi
di affrontare la questione dei diritti umani: la loro violazione non
va vista come un inspiegabile fatto del destino; al contrario, è,
con Farmer (2003 ), sintomo di più profonde patologie del potere
e, dunque, connessa intimamente alle condizioni sociali che de­
terminano chi soffre abusi e chi, invece, ne è immune.
Nel sollevare la questione dei diritti umani, tuttavia, non si
vuole cadere in un cieco universalismo che in definitiva impor­
rebbe la propria norma, apparentemente neutra, al resto del
mondo. Se l'etnografia illumina i meccanismi attraverso cui spe­
cifiche forze sociali vengono incorporate come eventi biologici, è
su questi meccanismi che l'intervento deve concentrarsi, poten­
ziando la capacità d'azione dei soggetti attraverso la promozione
dei loro diritti, non solo civili e politici, ma principalmente sociali
ed economici. In questa prospettiva l'impegno dell'antropologia
non si configura solo nei termini di un'analisi dei meccanismi che
promuovono la sofferenza, ma anche nei termini di un intervento
che non vuole essere esclusivamente medico, ma anche sociale,
economico e, in sintesi, politico.
Come Farmer, anche Didier Fassin si scaglia contro un ap­
proccio culturalista che elide dalla sua cornice di pertinenza il

xxv
INTRODUZIONE

ruolo che giocano le forze sociali, economiche e politiche nel pro­


muovere le condizioni che espongono alcuni individui a specifici
rischi in virtù della loro debole posizione sociale all'interno di as­
setti ineguali di potere. Entrambi questi autori ci mettono in
guardia nei confronti delle pratiche di presa in carico della soffe­
renza, nella misura in cui esse possono essere iatrogene tanto
quanto le più dirette forme di violenza.
Fassin riprende il concetto foucaultiano di biopolitica (ovvero
di quella forma di potere che opera attraverso la definizione stessa
del concetto di vita), nella prospettiva della nuda vita, proposta in
tempi più recenti da Giorgio Agamben (1995), per riflettere sulle
contraddizioni delle politiche francesi relative agli immigrati sen­
za regolare permesso di soggiorno (ma la pertinenza dell'analisi è
di carattere assai più generale). I dispositivi volti a regolamentare
il loro accesso sul territorio europeo hanno visto uno slittamento
dal diritto di asilo al diritto di cura. All'interno degli ordinamenti
degli stati nazionali, infatti, la cittadinanza rappresenta il fonda­
mento della rivendicazione dei propri diritti. Conseguentemente,
in quanto "non cittadini", gli immigrati "irregolari" non esistono
come detentori di diritti, salvo nel caso in cui a essere messa a ri­
schio è la loro esistenza organica. È in quanto nuda vita, mera esi­
stenza biologica da salvare, che l'immigrato può ricevere il diritto
a entrare o a restare sul territorio francese senza doc�enti (ma lo
stesso avviene anche in Italia e altrove in Europa). Gli immigrati
non hanno diritti in quanto persone, con una loro biografia, una
loro famiglia ecc., ma solo in quanto vite da salvare: la nuda vita, in
altre parole, emerge come modalità storica di costruzione di rap­
porti di potere, effetto di specifiche strategie di controllo (Agam­
ben, 1995; Fassin, 2000; Pandolfi, 2005).
ll saggio di Fassin mette in luce come la violenza non giaccia
solo nei processi che portano alcuni individui a lasciare i propri
paesi in cerca di condizioni di vita migliori, ma informa anche le
politiche e le pratiche di accoglienza dei paesi ospitanti, istituen­
do così una ricorsività fra crimini di guerra e crimini di pace, fra
violenza esplicita (guerre e persecuzioni nei paesi di origine) e
violenza strutturale (iscritta nelle normative, nell'ideologia uma­
nitaria che apre a chi ha bisogno di cure mediche ma chiude a chi
è vittima, per esempio, di violenza politica, povertà ecc.). Se, e so­
lo se, si è in grado di portare i segni della malattia sul proprio cor-

XXVI
INTRODUZIONE

po si possono dunque rivendicare diritti e assistenza: il corpo di­


viene così il terreno di regolazione di specifici rapporti sociali
fondati sul paradigma della biolegittimità.
Nuovamente il tema dei diritti umani emerge in tutta la sua
portata, sollevando questioni che l'antropologia non può per­
mettersi il lusso di ignorare, mascherandosi dietro un presunto
relativismo culturalista.

Conclusioni
In conclusione, è solo quando l'antropologia giunge a proble­
matizzare la corporeità come un processo tanto storico-sociale
quanto personale che concetti come quello di salute, malattia, di­
sagio emergono come prodotti umani da analizzare nei termini dei
loro molteplici processi di produzione. Per realizzare un tale
obiettivo l'analisi deve indagare sia i modi in cui i corpi sono cul­
turalmente e socialmente "prodotti" , sia ciò che i corpi stessi
"producono" nel contesto specifico della sofferenza. Detto altri­
menti, attraverso il percorso sin qui tracciato, è emersa la necessità
di combinare un'antropologia dal corpo con un antropologia del
corpo: la prima attenta a ciò che il corpo "fa e produce", la secon­
da tesa a indagare "ciò che viene fatto al corpo", ovvero come vie­
ne prodotto e costruito storicamente. I due approcci, infatti, ri­
schiano di essere riduttivi se portati avanti separatamente: un'an­
tropologia dal corpo offre il potenziale di mettere in luce il ruolo
attivo del corpo nel produrre significati ed esperienze, ma corre il
rischio di considerare il corpo stesso come un elemento trascen­
dente (naturale) e privo di storia. Un'antropologia del corpo, al
contrario, può contrastare questa deriva mettendo in evidenza co­
me il corpo è sempre coinvolto in una specifica situazione sociale
attraverso tecniche e regole che sono storicamente contingenti
(Crossley, 1995). Solamente combinando queste due prospettive
analitiche la malattia può emergere come un processo (e non
un'entità, come vorrebbe la biomedicina) che è tanto personale
quanto storico-sociale, prodotto e produttivo insieme.
Alla luce di quanto detto si è oggi imposta la consapevolezza
di quanto la malattia rappresenti una specifica forma di prassi
culturale, i cui aspetti più personali affondano le radici al di là
dell'esperienza individuale, per divenire piuttosto tracce incor-

XXVII
INTRODUZIONE

porate di processi la cui natura non è solo storico-culturale, ma


anche politico-economica. Quando la malattia viene interpretata
come un processo sociale, e la sua esperienza e i dispositivi della
sua costruzione vengono sottoposti ad analisi critica, la sofferen­
za non rappresenta più semplicemente un'esperienza individuale
legata alle contingenze della vita. Questa esperienza, al contrario,
emerge come attivamente creata e distribuita dall'ordine sociale.
Le esperienze di sofferenza, sebbene radicate nei corpi indivi­
duali, rappresentano il marchio della società sui corpi dei suoi
membri. I segni di malattia divengono così metonimie di più am­
pi processi sociopolitici, collocando l'esperienza di sofferenza in
una dimensione storica profonda e complessa.

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xxx
PARTE PRIMA

UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ:


OGGETTO, METODI, TEORIE
La Parte prima del volume presenta i contributi più significati­
vi di quanti, a partire dalla fine degli anni Settanta del Novecen­
to, si sono impegnati nel processo di definizione dell'identità del­
l' antropologia medica, indicandone: oggetto, metodologia e cor­
nice teorica.
Ad aprire il dibattito fu la proposta della scuola di Harvard -
attraverso i lavori di Kleinman e Good - di indagare i processi di
costruzione culturale dell'esperienza di malattia Ullness). A parti­
re da una critica culturale alla biomedicina, questi autori auspica­
vano, idealmente, due principali direzioni per lo sviluppo della
ricerca in antropologia medica: da un lato l'analisi e il confronto
fra i differenti sistemi medici; dall'altro, a livello clinico, l'impe­
gno a promuovere l'efficacia terapeutica, mediando fra le pro­
spettive di medici e pazienti.
Tale proposta venne criticata da più parti e considerata inade­
guata in quanto incapace di cogliere le dimensioni ideologiche
dei saperi e delle pratiche mediche. In questa ottica, Taussig, da
un lato, propose un'antropologia il cui oggetto avrebbe dovuto
essere "la costruzione clinica della realtà" (ovvero l'impatto che
la biomedicina esercita sull'intera società), anziché "la costruzio­
ne culturale della realtà clinica". Allan Young, dall'altro, indicò
come oggetto della disciplina la sickness - vale a dire i processi di
formazione sociale delle categorie e delle esperienze mediche (es­
sendo i processi sociali a determinare ciò che vale come "proble­
ma medico", alla stregua dei processi di legittimazione di cosa
conta come " sapere medico") - e non la illness, ovvero l'analisi
della costruzione culturale dell'esperienza di sofferenza.

3
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Chiude questa Parte il contributo di Margaret Lock e di Nancy


Scheper-Hughes, in cui vengono messe in discussione le imposta­
zioni degli altri autori per la mancata realizzazione - all'interno
del loro "ordine del discorso" - del necessario distacco rispetto al­
le premesse antologiche ed epistemologiche (culturalmente con­
notate) sulle quali tali argomentazioni implicitamente riposano.
Non affrontando analiticamente lo statuto del corpo, essi finisco­
no con l'accettarne la definizione biomedica. La proposta delle
due autrici proietta l'antropologia medica verso la contempora­
neità: attraverso il concetto di incorporazione, la malattia viene in­
fatti ripensata nei termini di una pratica culturale con cui il corpo
traduce o tradisce attivamente il proprio rapporto con il mondo
sociale. Esse ritengono, infatti, che il corpo abbia un ruolo attivo
nel produrre significati culturali ed esperienze (vale a dire: la ma­
lattia rappresenta una specifica modalità di azione con cui il corpo
agisce attraverso i repertori storici della sua costruzione culturale)
e non si possa considerare esclusivamente il terreno o la materia di
un'attività plasmatrice della cultura.
Con questo rovesciamento di prospettiva si inaugura una nuova
stagione di riflessione.

4
l

ALCUNI CONCETTI E UN MODELLO


PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI MEDICI
INTESI COME SISTEMI CULTURALI
Arthur Kleinman

n mio obiettivo è quello di elaborare una teoria e dei concetti


che ci possano aiutare nella comparazione dei sistemi medici nella
loro veste di sistemi culturali.
Nel passare in rassegna la letteratura antropologico-medica per­
tinente a questi temi è emersa, con poche considerevoli eccezioni,1
la scarsità di posizioni teoriche compiute, chiaramente riassumibi­
li, comparabili e quindi discutibili. La maggior parte della lettera­
tura, infatti, si occupa di studi empirici, senza specificare le struttu­
re teoriche che implicitamente impiega, servendosi di concetti mu­
tuati dalle scienze sociali e dalla biomedicina in modo asistematico
e frammentario, rendendo così difficile una loro valutazione. Que­
sti studi ci offrono una vasta gamma di casi empirici, senza tuttavia
tentare di elaborarne una comparazione transculturale, né testare
una qualche ipotesi teorica. È chiaro, qui, come ci si trovi di fronte
a un problema di ordine teorico, ed è la ragione per cui propongo
le riflessioni che seguono.
Piuttosto che tentare di integrare e criticare questi esigui spunti
teorici, fragili come sono, presenterò, esponendomi al rischio di

l. Un'eccezione eminente è rappresentata dal lavoro di Horatio Fabrega, che è


stato inflessibilmente teorico (Fabrega, 1973 ). Ma poiché il suo lavoro verteva princi­
palmente sulla relazione tra cultura e malattia, e solo marginalmente sulla medicina
intesa come sistema culturale, ho deciso di non rifanni alle sue idee, anche se il model­
lo che descrivo ne presuppone alcune. Analogamente, non faccio esplicito riferimen­
to agli approcci di Alland (1970), Dunn (1976), Freidson (1970), Kunstadter (1978) e
Leslie ( 197 4), che mettono a fuoco altri aspetti dei sistemi medici: le funzioni di adat­
tamento (Alland, Dunn, Kunstadter), le disposizioni della struttura sociale (Freidson)
e i cambiamenti (per esempio la moderniziazione) nelle strutture istituzionali (Le­
slie). Ma la teoria che propongo attinge anche a queste fonti.

5
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

apparire egocentrico, un modello a cui lavoro ormai da cinque an­


ni, emerso dal lavoro di ricerca svolto sul campo, e che rappresenta
la sintesi di ciò che intendo per "cornice teorica" e "studio empiri­
co" adeguatF n modello è il frutto di un tentativo di comprendere
la salute, la malattia e la guarigione nel loro contesto sociale, come
elementi di un sistema culturale, e di comparare questi sistemi a li­
vello transculturale.
Un modello teorico che intenda guardare alla medicina nei ter­
mini di un sistema culturale, per essere utile, dovrebbe specificare
cos'è quel sistema e come funziona. Dovrebbe fornire un metodo
per descrivere i singoli apparati e per effettuare comparazioni
transculturali tra differenti sistemi medici. Dovrebbe inoltre pro­
durre un'analisi accurata dell'impatto che la cultura ha sulla ma­
lattia e sulla guarigione più di quanto non si possa fare senza una
tale struttura.
Inoltre, un modello di medicina come sistema culturale sarà
prezioso se saprà: l) rendere operativo il concetto di cultura nel
dominio della salute in modi più precisi e potenzialmente quantifi­
cabili; 2) riferirsi direttamente a questioni cliniche; 3) specificare
ipotesi che potrebbero essere falsificate a fronte di dati esistenti o
confermate da futuri studi sul campo; 4) fornire una sistematica
traduzione interdisciplinare tra antropologia e scienze della salute;
5) elaborare una terminologia che, superando i limiti della biome­
dicina, possa correlarla ad altre tradizioni terapeutiche, professio­
nali e popolari, all'interno di un più ampio studio comparativo del­
la malattia e della cura.
n mio obiettivo non è tanto quello di convincere che questa è la
cornice capace di risolvere ogni problema nel nostro campo di in­
dagine, quanto quello di presentare una specifica cornice, nei cui
confronti possiamo reagire, che possiamo criticare e, auspicabil­
mente, superare. Per quanto provvisorio, questo modello indica al­
meno qualche vantaggio conseguibile con lo sviluppo di una teoria
della medicina come sistema culturale. E senza dubbio metterà in
luce dei limiti da imputare alle caratteristiche specifichè del model­
lo esposto, e non certamente alla possibilità di elaborare modelli
per questo campo. In tal senso, la mia proposta ha lo scopo di pro-

2. Per la costruzione del modello mi sono riferito a Kleinman (1973, p. 55;


1975a, pp. 589-657).

6
ALCUNI CONCETII E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SIS1EMI . . .

vocare i lettori a esaminare questo modello al fine di costruirne al­


tri che forse, alla fine, presenteranno una struttura uniforme. An­
che se servisse solo a fornire un insieme di termini condivisi, utili
per parlare di medicina in diverse società, si tratterebbe comunque
di un passo avanti rispetto alla situazione caotica dominante. Nel
caso specifico, il modello che presenterò si è rivelato utile nello stu­
dio della medicina nell'ambito delle culture cinesi, e nel confronto
fra questa e la medicina negli USA (Kleinman 1975a, pp. 589-657;
Kleinman 1975b, p. 107).
Tuttavia una cautela è d'obbligo. Indipendentemente da come
sono costruiti i sistemi medici, non bisogna dimenticare che rap­
presentano sia sistemi sociali sia culturali. Ciò significa che non co­
stituiscono solamente sistemi di significato e di norme comporta­
mentali, ma che quei significati e quelle norme sono connessi a par­
ticolari relazioni sociali e contesti istituzionali. Operare una separa­
zione degli aspetti del sistema culturale da quelli del sistema sociale
di cura della salute è chiaramente improponibile. n titolo di questo
saggio deve essere inteso semplicemente come un'enfasi sulle di­
mensioni culturali. n modello descritto qui di seguito, che è stato
altresì presentato come un modello ecologico che connette fattori
"esterni" (sociali, politici, economici, storici, epidemiologici e tec­
nologici) a processi "interni" (psicofisiologici, comportamentali e
comunicativi), àncora le credenze e le attività mediche a strutture
sociopolitiche e a particolari contesti ambientali locali. Ancora per
ragioni di enfasi, non metterò a fuoco questo aspetto del modello,
ma indicherò soltanto come esso sia coerente con la concezione dei
sistemi medici intesi come sistemi culturali. TI nostro interesse sarà
quello di capire come la cultura, che qui definiamo come un siste­
ma di significati simbolici che modella la realtà sociale e l'esperien­
za personale, faccia da mediatrice tra i parametri "esterni" e "inter­
ni" dei sistemi medici, e sia perciò un fattore determinante del loro
contenuto, dei loro effetti e dei mutamenti che essi subiscono.

SALUTE, MALATI1A E CURA COME SISTEMA CULTURALE

La salute, la malattia e gli elementi che nelle società ruotano


intorno alla cura, si esprimono come sistemi culturali. Molta del­
la ricerca sul campo conferma questa tesi che segna una discre-

7
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETIO, METODI, TEORIE

panza tra gli approcci più vecchi e quelli più recenti dell'antro­
pologia medica (Kleinman, 1975a; Leslie, 1 976; Lewis, 1975).
Questi sistemi, che chiamerò "sistemi medici" [health care sy­
stems] ,3 sono, similmente ad altri, per esempio quelli di parente­
la e religiosi, sistemi simbolici costituiti da significati, valori,
norme comportamentali e così via. li sistema medico elabora la
malattia nei termini di un idioma culturale che collega le creden­
ze sulla causa della patologia, l'esperienza dei sintomi, specifici
modelli di comportamento, decisioni riguardanti le alternative
di cura, pratiche terapeutiche effettive e valutazioni sugli esiti te­
rapeutici. In tal modo esso istituisce relazioni costanti tra queste
componenti.
j La salute, la malattia e la cura, dal momento che fanno parte di
un sistema culturale, devono essere interpretate in relazione tra
loro./Credenze e comportamenti propri della salute o della malat­
tia e attività sanitarie sono governati dal medesimo insieme di re­
gole, sancite a livello sociale. Esaminare una di queste dimensioni
indipendentemente dalle altre, deformerebbe la conoscenza della
loro natura e del loro funzionamento nel contesto di specifici si­
stemi medici; ci indurrebbe inoltre a effettuare comparazioni
transculturali errate. L'analisi della reti semantiche (Good, 1977)
è un metodo utile per mettere in luce queste connessioni e le loro
importanti implicazioni per la salute. L'analisi simbolica ha inoltre
contribuito a rivelare quanto l'organizzazione degli aspetti sanita­
ri in una società costituisca un sistema culturale (Ahem, 1975, pp.
91-1 14; Gould-Martin, 1975; Harwood, 197 1 ; Ingham, 1970;
Obeyesekere, 1976; Tumer, 1967). In ogni caso bisogna aspettarsi
che una comprensione adeguata della struttura e delle funzioni di
questo sistema culturale possa solo far seguito a studi etnografici
che mettano alla prova le ipotesi specifiche generate dai modelli
teorici del sistema, e che utilizzino questi modelli per mettere a
fuoco le loro descrizioni fenomenologiche.4 Possiamo già vedere
3. Utilizzo il concetto di "sistema medico" [health care system] semplicemente
per sottolineare le attività di assistenza medica al centro di questi sistemi. Mi rendo
conto che "sistema della salute" [health system] sarebbe un'espressione più appro­
priata da usare in senso generale, poiché è maggiormente comprensiva e indica le
funzioni di prevenzione e di guarigione svolte da questi sistemi, mentre non è medi­
cocentrica come l'espressione "sistema di medicina" [medica! system].
4. Alan Young (vedi Young, 1976), per esempio, presenta alcuni concetti, su cui
si può indagare, riguardanti i sistemi medici tradizionali, come la nozione secondo

8
ALCUNI CONCETTI E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI . . .

come ciò avvenga negli studi sul campo che hanno per oggetto la
medicina nella cultura cinese (Kleinman, 1975a), divenuti mag­
giormente sofisticati in risposta ai modelli più evoluti di antropo­
logia medica e di medicina transculturale. Gli studi comparativi
dovranno aspettare l'emergere di questo nuovo tipo di etnografia
medica, oppure iniziare a utilizzare questo approccio contempo­
raneamente nei differenti contesti di ricerca. Gli studi sul muta­
mento nelle credenze e nelle pratiche mediche dovranno esamina­
re le variazioni inerenti ai sistemi medici.

LA STRUITIJRA DEI SISTEMI MEDICI

La maggior parte dei sistemi medici comprende tre arene so­


ciali all'interno delle quali si fa esperienza della malattia e la si af­
fronta (figura 1). Queste arene sono quella familiare, quella pro­
fessionale e quella popolare.* L'arena familiare comprende prin­
cipalmente il contesto familiare della malattia e della cura, ma in­
clude anche la rete sociale e le attività della comunità. Sia nelle
società occidentali sia in quelle non occidentali il 70-90% delle
malattie viene gestito esclusivamente in quest'ambito (Kleinman,
1975b, p. 107; Hulka et al., 1972, p. 300; Zola, 1972a, p. 2 16).
Inoltre, la maggior parte delle decisioni riguardanti quando chie­
dere aiuto nelle altre arene, chi consultare e se aderire alla cura,
insieme alla maggior parte delle valutazioni "profane" sull'effica­
cia del trattamento, vengono esaminate all'interno della sfera fa­
miliare. Fino a non molto tempo fa, l'antropologia medica è stata
incline a sottovalutare quest'area, per contro sopravvalutava gli
studi sull'arena popolare. Quest'ultima è costituita da specialisti
non professionisti, a volte classificati dagli etnografi all'interno

la quale la validità dei loro approcci di guarigione assume un'importante "conse­


guenza ontologica", in cui episodi di malattia "comunicano e confermano le idee
circa il mondo reale". Egli sostiene che ciò vada preso in considerazione se si vuole
studiare in modo appropriato l'efficacia della guarigione tradizionale. L'etnografo
medico può servirsi di questo concetto o per informare le sue descrizioni fenome­
nologiche, o per produrre e poi dimostrare ipotesi specifiche sull'efficacia di questo
tipo di guarigione. Lo stesso vale per l'affermazione di Young secondo cui il ritiro è
caratteristico di tutti gli episodi di malattia, fatto che si dimostra falso per molte so­
cietà, compresa la nostra.
* Traduciamo con "familiare" l'inglese popular, con "professionale" pro/essio­
nal e con "popolare" l'originalefolk. [NdT]

9
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETI'O, METODI, TEORIE

di gruppi sacri e gruppi secolari. L'arena professionale è costitui­


ta dalla medicina professionale scientifica ("occidentale" o "co­
smopolita") e da tradizioni indigene di cura professionalizzate
(per esempio quella cinese, quella ayurvedica, la yunani e la chi­
ropratica) .
Queste arene contengono, e collaborano a costruire, forme di­
stinte di realtà sociale. Esse cioè organizzano particolari sottosi­
stemi di credenze socialmente legittimate, di aspettative, ruoli,
relazioni, situazioni di transazione e via dicendo (Freidson,
1970). Mi riferirò a questi contesti socialmente legittimati di ma­
lattia e cura come a distinte realtà cliniche (Kleinman, 1978). Dal
punto di vista del nostro modello, queste realtà cliniche sono co­
struite culturalmente. Esse differiscono non solo nelle diverse so­
cietà, ma anche nei diversi settori o arene dello stesso sistema me­
dico, e spesso nelle diverse forze e nei diversi agenti di cura all'in­
terno dello stesso settore. Inoltre, esse sono il preciso riflesso di
cambiamenti fondamentali nei sottostanti settori sociopolitici di
cura e delle loro strutture ideologiche (culturali).

Scdte e decisioni
Ruoli
Rdazioni
Contesti
di interazione
Punti d i interazione, Istituzioni Punti di interazione,
accesso, uscita accesso, uscita

Settore familiare:
a) basato sull'individuo
h) basato sulla famiglia
c) basato sul legame sociale
d) basato sulla comunità

Figura l li sistema medico: la sua struttura interna.

lO
ALCUNI CONCEITI E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI. . .

LE FONDAMENTAli FUNZIONI DI ADATIAMENTO


DEI SISTEMI MEDICI

Da un punto di vista funzionale, i sistemi medici assolvono al­


cuni compiti di adattamento culturale (e spesso psicosociale) nei
confronti della malattia.5 Si possono distinguere, a scopi analitici
e comparativi, sei fondamentali funzioni di adattamento.
l. La costruzione culturale della malattia come esperienza ap­
presa e sancita socialmente (vedi più avanti il paragrafo su pa­
tologia/esperienza di malattia).
2. La costruzione culturale delle strategie e dei criteri valutativi
per guidare le scelte tra pratiche e operatori di cura alternativi,
per valutare il processo e, soprattutto, l'esito (efficacia) della
cura clinica.
3 . I processi cognitivi e comunicativi implicati nella gestione del­
la malattia, tra cui: definire, classificare, fornire spiegazioni si­
gnificative a livello personale e sociale.
4. Le attività di guarigione in quanto tali, inclusi tutti i tipi di in­
tervento terapeutico: dalla dieta ai farmaci, dalla chirurgia alla
psicoterapia, alle cure di supporto, ai rituali di guarigione.
5. I comportamenti più o meno volontari di miglioramento dello
stato di salute (soprattutto preventivi) e di peggioramento del­
lo stesso (portatori di malattia). 6
6. La gestione di una serie di esiti terapeutici, tra cui la cura, il
fallimento del trattamento, le recidive, la malattia cronica, il
peggioramento, la morte.
Queste funzioni sono tutto ciò attorno a cui ruotano l' assisten­
za medica e la guarigione. Benché ogni funzione possa essere in­
dividuata virtualmente nei sistemi medici di tutte le società per le
quali possediamo dati etnografici adeguati (Kleinman, 1975a, pp.
589-657; Kleinman, 1974, p. 27), tuttavia è considerevole la varia­
zione transculturale nei meccanismi utilizzati per eseguire queste
funzioni cliniche fondamentali. Ci sono anche owie differenze
nel modo in cui, per esempio, alcune funzioni vengono assolte
dall'intero sistema, mentre altre sono eseguite da particolari set-

5. Una trattazione più completa delle fondamentali funzioni di adattamento dei


sistemi medici si può trovare in Kleinrnan (1975a, pp. 589-657; 1975c, pp. 159-172).
6. Su questa importante funzione, mi rifaccio a Fred Dunn (vedi Dunn, 1976, pp.
133-158), che ammetto di avere trascurato in precedenti elaborazioni del modello.

11
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

tori o sottosettori. Le discrepanze principali, nell'esecuzione di


specifiche funzioni, riflettono inoltre differenze sostanziali nella
costruzione delle realtà cliniche. La guarigione, in un certo senso,
è la somma delle funzioni cliniche fondamentali dei sistemi medi­
ci. Ciò presuppone che a renderla possibile sia il sistema culturale
nella sua interezza. Essa può essere definita guarigione culturale, e
benché il processo che la caratterizza coinvolga di solito due atti­
vità collegate - provvedere a un controllo efficace della patologia
[disease] e attribuire un significato personale e sociale all'espe­
rienza di malattia [illness] - è soprattutto alla illness che si riferi­
sce. A partire da questa prospettiva, quindi, ci accorgiamo del pa­
radosso per cui il modellamento culturale della malattia come
esperienza psicosociale, sotto l'influenza di regole sociali che go­
vernano la percezione, la valutazione e l'espressione dei sintomi e
che determinano le caratteristiche particolari del ruolo del mala­
to, faccia parte del processo di guarigione. Allo stesso modo, co­
me hanno suggerito Turner (vedi Turner, 1967), Douglas (vedi
Douglas, 1970), Kleinman e Sung (vedi Kleinman, Sung, 1976) e
Young (vedi Young, 1976), i criteri sanciti socialmente per valuta­
re l'efficacia terapeutica, intesa come ulteriore componente della
guarigione culturale, possono produrre il paradosso aggiuntivo
per cui il raggiungimento della guarigione è visto come il risultato
di spiegazioni adeguate della malattia e della cura, e di analisi ap­
propriate delle tensioni sociali e dei principi culturali ad esse con­
nessi, indipendentemente dal destino della persona malata e della
sua malattia. Dal punto di vista del modello del sistema medico, la
guarigione culturale si verifica fintanto che le funzioni cliniche es­
senziali vengono adeguatamente assolte. Quando ciò accade, la
guarigione deve avere luogo; esiste un " accordo" tra aspettative,
credenze, comportamento e valutazioni sul risultato. Chiaramen­
te la guarigione culturale solleva dei problemi fondamentali su
come si possano spiegare la malattia e l'efficacia terapeutica, e su
come si debbano valutare e comparare le funzioni cliniche fonda­
mentali dei sistemi medici, problemi sui quali ci soffermeremo in
seguito. La guarigione, quindi, deve essere valutata a differenti li­
velli di analisi: fisiologico, psicologico, sociale e culturale.
Proprio come la costruzione culturale dell'esperienza della
malattia e dei criteri per valutare il risultato terapeutico vengono
plasmati all'interno dei sistemi medici, allo stesso modo vengono

12
ALCUNI CONCETTI E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI. ..

istituzionalizzati i conflitti tra le concezioni della realtà clinica e le


valutazioni dell'esito terapeutico da parte di attori profani e pro­
fessionisti. Questi conflitti, che si moltiplicano col crescere della
differenziazione (specializzazione delle conoscenze e del ruolo
sociale), e che quindi sono più forti nelle società moderne e nei
casi di malattia che intersecano differenti settori e sottosettori del
sistema medico, creano sistematicamente problemi per le cure
cliniche. Parlerò di questo processo come di iatrogenesi cul­
turale.7 In altre parole, a livello del sistema culturale, alcuni osta­
coli all'efficacia terapeutica, come le principali discrepanze tra
obiettivi terapeutici dei medici e dei pazienti (vedi Cay et al.,
1975, p. 29; Kane et al., 1974, p. 1333 ) sono legati ai meccanismi
di funzionamento dei sistemi culturali, come vedremo nel para­
grafo successivo.

TRANSAZIONI DEL MODEllO ESPUCATIVO


NEllE RElAZIONI SANITARIE

In ogni settore del sistema medico, si possono ricavare dai me­


dici, dai pazienti e dai membri della famiglia dei Modelli Esplica­
tivi (ME) relativi a episodi particolari di malattia (vedi Engelhardt,
1974, p. 225 ; Kleinman, 1975c, pp. 159- 172; Eisenberg, 1976,
pp. 3-23 ).
I ME contengono le spiegazioni di qualcuna, o di ciascuna, di
queste cinque questioni: eziologia, sintomi iniziali, patofisiologia,
decorso della malattia (gravità e tipo di ruolo del malato), terapia.
I ME sono legati a sistemi specifici di conoscenza e di valori loca­
lizzati in differenti settori e sottosettori sociali del sistema medico.
Per questo sono prodotti storici e sociopolitici. Le relazioni medi­
che (per esempio tra paziente e famiglia o tra paziente e medico)
possono essere studiate e confrontate come transazioni tra diffe­
renti ME e tra i sistemi cognitivi e le posizioni a cui sono connessi
nella struttura sociale. A livello culturale, possiamo concepire

7. Devo questa espressione a Charles Leslie. ln senso letterale "iatrogenesi cul­


turale" significa che è la cultura a generare la malattia. Sebbene ci si possa avvalere
di un'elevata quantità di dati importanti a sostegno di quest'accezione, io qui mi
servo del termine, attribuendogli un significato più ampio, riferito in generale ai
problemi nell'assistenza medica, derivanti sistematicamente da fattori culturali.

13
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

queste transazioni come traduzioni tra i differenti idiomi coi quali


separati settori del sistema medico esprimono la malattia come re­
te psicoculturale di credenze ed esperienze. Non di rado, i ME si
trovano in conflitto. Quando ciò accade, si è recentemente notato
come l'assistenza medica ne risulti ostacolata (vedi Kleinman,
1975c; Lazare et al., 1975, p. 553 ). Si è dimostrato come la comu­
nicazione sia un fattore primario nel determinare l'adesione del
paziente alla terapia, la sua soddisfazione e un uso appropriato
dei servizi sanitari, mentre la mancanza di riconoscimento e com­
prensione delle influenze culturali sulla comunicazione clinica
conducono a problemi notevoli nella cura del malato (Harwood,
197 1 , p. 1 153 ; Snow, 1974, p. 82). Secondo il nostro modello, i ME
costruiscono, per uno stesso episodio di malattia, realtà cliniche
differenti che a loro volta si riflettono in aspettative discrepanti e
nel fallimento della comunicazione, nonché in un'assistenza sani­
taria carente. Questi conflitti rivelano i disaccordi tra i parteci­
panti chiave alle relazioni sanitarie per quanto riguarda status e
potere.
Poiché una buona parte della comunicazione clinica ha luogo
nel contesto della famiglia e di un sistema di riferimento non pro­
fessionale, e anche quando si svolge con i medici, interessa co­
munque la famiglia e il paziente, il tradizionale modello diadico
[medico/paziente] , che utilizziamo per comprendere 9uesto pro­
cesso, è inadeguato e quasi certamente rappresenta uria grave di­
storsione delle più complesse transazioni multipersonali che han­
no effettivamente luogo nella maggior parte dei processi di cura
della salute. Per esempio, benché i ME della biomedicina siano
fautori di una concezione della realtà clinica secondo la quale la
malattia è situata nel corpo della persona malata, e la cura è con­
cepita come trattamento dell'organo malato da parte del medico,
i modelli della cultura popolare potrebbero situare il problema
nella famiglia ed etichettare come malata la famiglia intera. n de­
stinatario della cura, allora, andrà ben al di là del solo corpo del
paziente. n medico sarà considerato soltanto uno, e forse non il
più importante, degli agenti della cura. La relazione famiglia-pa­
ziente o famiglia-medico sarà invece considerata la "vera" rela­
zione terapeutica. Analogamente, i ME del paziente e della fami­
glia porteranno a interventi e a valutazioni del risultato terapeuti­
co che perlopiù non avranno nulla a che vedere con la biomedici-

14
ALCUNI CONCETII E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI. . .

na e pertanto non potranno essere spiegati unicamente attraverso


i suoi concetti. li concetto di modello esplicativo chiarisce come i
problemi che sorgono nella comunicazione clinica rappresentino
spesso dei conflitti tra modi diversi di concepire la realtà clinica
nelle arene familiare, popolare e professionale del sistema medi­
co; perciò indica l'inevitabile e sistematica implicazione di tali
problemi entro quel sistema culturale. Un esempio di questo pro­
cesso è il conflitto, solitamente silenzioso ma assai significativo,
tra ME medici professionali (soprattutto biomedici), che interpre­
tano la malattia come patologia [disease] , e ME profani (cultura
popolare), che interpretano la malattia come esperienza di malat­
tia [illness] (vedi Eisenberg, 1976, pp. 3-23 ).

MODEUI ESPUCATM (ME) DELIA PATOLOGIA [DISEASE]


E DELL'ESPERIENZA DI MALATI1A (ILLNESS] NELlA REALTÀ CLINICA

All'interno dell'antropologia medica, una preziosa distinzione


teorica, purtroppo non ancora completamente sviluppata (vedi
Fabrega, 1973 ), è quella tra disease [la patologia] e illness [l'espe­
rienza di disagio] nell'ambito più generale della malattia [sick­
ness] . Nel linguaggio del nostro modello, disease denota un catti­
vo funzionamento, o un cattivo adattamento, dei processi biolo­
gici e/o psicologici. Illness, al contrario, rinvia all'esperienza della
patologia (o patologia percepita) e alla risposta alla patologia sul
piano sociale. L'esperienza di malattia [illness] è il modo in cui il
malato, la sua famiglia e la rete sociale percepiscono, definiscono,
spiegano, valutano la patologia [dùease] e vi reagiscono.
Né la patologia né l'esperienza di malattia sono delle cose, del­
le entità: esse piuttosto rappresentano differenti modalità di spie­
gare la malattia, sono dunque differenti costruzioni sociali della
realtà. Disease è più spesso associata ai ME dei medici professioni­
sti (moderni o indigeni), nei quali si trova in relazione con specia­
li teorie sulla causa e la nosologia della patologia, espresse in un
idioma astratto, altamente tecnico, di solito impersonale (come i
modelli di patologia della biomedicina, della medicina cinese o di
quella ayurvedica) . Benché questi ME siano perlopiù interdetti al­
la gente comune, e implichino tradizionalmente un accesso limi­
tato a un gruppo elitario, nelle società moderne queste conoscen-

15
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

ze sono state rese sempre più spesso disponibili e fruibili anche


per i profani. Illness è soprattutto associata ai ME dell'arena sani­
taria della cultura popolare, dove la malattia si esprime perlopiù
in un idioma altamente personale, non tecnico, concreto, che ha a
che fare con i problemi dell'esistenza derivanti dalla malattia. Ol­
tre che dalla famiglia, i ME della illness sono talvolta utilizzati da
operatori che si servono di un tipo di terapia psicosomatica o fa­
miliare, e soprattutto dai guaritori tradizionali, i quali, pur avva­
lendosi di un ME tecnico-teorico, tendono a esprimerlo nell'idio­
ma culturale popolare (vedi Kleinman, 1975c; Horton, 1967, p.
50; McKorkle, 196 1 , p. 20). Una conferma per quest'ultima cate­
goria arriva dalla scoperta, frequentemente documentata, secon­
do cui i guaritori popolari assocerebbero le loro spiegazioni co­
smologiche a spiegazioni sociopsicologiche di straordinaria sen­
sibilità (vedi Turner, 1967; Kleinman, 1978; Douglas, 1970).
Viste dalla prospettiva del sistema culturale, le relazioni medi­
che sono spesso delle transazioni tra modelli di malattia come pa­
tologia [disease] e come esperienza di malattia [illness] . È qui che
ritroviamo quel conflitto culturalmente costruito, a cui abbiamo
accennato, per il quale i medici professionisti tendono a ricono­
scere la malattia solo come patologia, e a offrire spiegazioni che
trasmettono informazioni tecniche e cure che sono generalmente
"riparazioni" , mentre i pazienti chiederebbero non sdlo un rime­
dio ai sintomi, ma anche spiegazioni significative a livello perso­
nale e sociale, e cure psicosociali per il disagio causato loro dalla
malattia (vedi Eisenberg, 1976). Detto in altre parole, i medici
parlano della malattia in un linguaggio settoriale fatto di compor­
tamenti e funzioni biologiche, mentre i pazienti e le famiglie, an­
che quando fanno propri determinati termini specialistici, parla­
no della malattia nel linguaggio culturalmente ampio dell' espe­
rienza.8 Una ragione per cui i curatori indigeni della tradizione
popolare non scompaiono quando il progresso crea sistemi medi­
ci professionali moderni è che sono spesso specializzati nel cura­
re l'esperienza di malattia (vedi Kleinman, Sung, 1976). Anzi,
possiamo osservare come il ruolo di operatori sociali, psichiatri,

8. Devo la distinzione tra linguaggi del comportamento e linguaggi dell'espe·


rienza al mio collega professor David Raskin, del dipartimento di psichiatria presso
la Scuola di medicina dell'università di Washington.

16
ALCUNI CONCETII E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SIS1EMI . . .

consiglieri pastorali, avvocati dei pazienti, come pure di guaritori


tradizionali, sia legittimato all'interno di società pienamente mo­
derne, come quella degli Stati Uniti, in quanto utilizza un lin­
guaggio dell'esperienza e della cura per l'esperienza di malattia
che, altrimenti, rimarrebbe inespresso e trascurato qualora la ma­
lattia oltrepassasse il confine della famiglia per entrare nel domi­
nio professionale della biomedicina.
I futuri studi comparativi sui sistemi medici saranno forse in
grado di verificare l'ipotesi stimolante, generata da questa discus­
sione, secondo cui la guarigione culturale rappresenterebbe una
caratteristica costante delle società semplici e preletterarie, un
tratto variabile delle società in corso di modernizzazione, e un
elemento significativamente affievolito nelle società pienamente
moderne; mentre la iatrogenesi culturale dovrebbe riferirsi a que­
sti nessi inversamente. Un'ipotesi collegata è che i significati sim­
bolici attribuiti all'esperienza di malattia siano il veicolo culturale
dell'effetto placebo, così come la base per la gestione dei proble­
mi di competenza clinica, e che il primo sia attenuato, e la secon­
da sia incrementata dal cambiamento sociale e dal pluralismo
culturale. Altre ipotesi interessanti, derivate dal nostro modello,
saranno prese in considerazione nella sezione finale.
Un'altra questione analizzabile è se, nelle società pienamente
moderne, il diffondersi del modello biomedico della patologia nel­
la cultura popolare (vedi Zola, 1972b, p. 673) stia trasformando le
credenze e le aspettative relative alla sanità di quel settore, in mo­
do tale che la gente comune, in particolare di classe media colta, si
trovi a gestire un modello più meccanicistico e meno psicosociale
della realtà clinica, e sia pertanto più interessata a informazioni e
interventi tecnici, e meno a spiegazioni socialmente significative e
a interventi psicosociali. Per rispondere a questa domanda dovre­
mo ampliare le nostre conoscenze sulla razionalità medica popola­
re nelle società in via di sviluppo e in quelle pienamente sviluppa­
te, non soltanto tra i gruppi minoritari, ma anche fra quelli domi­
nanti. Inoltre, dovremo essere in grado.di mettere a confronto la
razionalità medica popolare con la razionalità biomedica e le sue
attualizzazioni pratiche a livello clinico. Ciò ovviamente richiederà
una nuova terminologia di ricerca, dal momento che la razionalità
biomedica non può essere impiegata per studiare questi altri do­
mini cognitivi nei termini dei loro riferimenti interni. Per esempio,

17
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENmA: OGGETIO, METODI, TEORIE

Zola (1972b, p. 673) sostiene che per comprendere la natura del


pensiero medico popolare dobbiamo partire dal concetto di "pro­
blema". Si tratta di una categoria popolare molto vasta, che inclu­
de un insieme di temi legati alla malattia e a un complesso di possi­
bilità di gestione più ampio delle sole cure mediche. Sarà inoltre
necessaria una nuova metodologia di ricerca per analizzare e con­
frontare le realtà cliniche, comprese le versioni biomediche che le
riguardano. Qui, un'antropologia autonoma della sofferenza e dei
servizi umani potrebbe offrire dei chiari vantaggi, in opposizione a
un'antropologia medica dominata da paradigmi biomedici.
Il paradigma dei ME, diversamente dalle strategie di ricerca
che si trovano nella maggior parte delle etnografie mediche, ri­
flette su effettive transazioni fra pazienti (e loro famiglie) e medi­
ci. Questo modello suggerisce che non è sufficiente estrapolare le
idee dell'uno e dell'altro, senza esaminare le loro modalità di in­
terazione. È, infatti, proprio il processo dell'interazione che rive­
la sia le strutture effettive di conoscenza e di pertinenza sia le lo­
giche che operano in differenti settori del sistema medico, e che
mette in luce come esse vengano utilizzate nel processo di guari­
gione. Le tassonomie etnomediche non forniscono questi dati, e
rappresentano perciò una grave distorsione della natura e della
funzione della conoscenza medica. D'altro canto, il paradigma
dei ME, in quanto modello di transazioni cognitive nel campo del­
la salute, promette di farci comprendere più approfonl:litamente i
meccanismi attraverso cui la cultura influenza le decisioni e le va­
lutazioni sul trattamento.
I modelli di comunicazione e di mutamento cognitivo, come il
paradigma dei ME, possono essere impiegati per studiare il plura­
lismo nelle credenze mediche, nelle scelte, e nella terapie: una di­
mensione di cui cominciamo soltanto ora a riconoscere l'esten­
sione e il significato (vedi Kunstadter, 1975, pp. 683 -696). Di fat­
to, il paradigma dei ME si basa su un'interpretazione dei sistemi
medici come sistemi pluralistici. Modelli di questo tipo, come
quello dei ME , devono essere in grado di esaminare sia la dimen­
sione individuale che quella sociale delle credenze e delle azioni
terapeutiche. Una dimensione senza l'altra non può infatti forni­
re un'analisi adeguata della malattia e della guarigione.
Ma lo studio della transazioni fra modelli esplicativi nella cura
della salute è solo una còmponente del ben più ampio studio

18
ALCUNI CONCETTI E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI . . .

comparativo delle realtà cliniche. Questo studio più vasto, che


quasi sicuramente estenderà e muterà la nostra conoscenza del
contesto culturale della malattia e della cura, richiede metodolo­
gie non ancora disponibili. Queste metodologie, data la natura
del problema, devono essere interdisciplinari: attingere a fonti et­
nografiche, cliniche, epidemiologiche e sociopsicologiche. Devo­
no correlare le determinanti sociopolitiche e ambientali ai pro­
cessi biologici e cognitivi, mediante i sistemi culturali di significa­
to. Chiaramente, richiedono modelli e concetti che considerino
la salute e la malattia come gli esiti di complesse interazioni multi­
fattoriali, di tipo biologico, psicologico e sociale, e non come il ri­
sultato di singole determinanti che operano a un solo livello di
analisi. Nonostante questo primitivo stadio di sviluppo dei meto­
di di ricerca, l'evoluzione più precisa e complessa dei contorni
del problema è un indizio dell'avanzamento della teoria, nonché
un segno che le nostre attuali teorie sono ancora inadeguate.
Tutto ciò indica che quest'ambito dell'antropologia medica sta
vivendo un momento di svolta a livello paradigmatico. TI vecchio
paradigma di ricerca, creato da Rivers, Sigerist, Ackerknecht,
Clements, e da altri "padri fondatori" della nostra disciplina
quando si impegnarono nel concettualizzare la medicina nella so­
cietà "primitive" , semplicemente non è più sufficiente per inte­
grare le scoperte maggiormente complesse e sofisticate, derivate
dall'estendersi del nostro interesse verso l'intera gamma dei con­
testi sociali e dei sistemi medici, e verso un insieme di relazioni
ben più vasto di quello contemplato dai tradizionali principi in­
clusi nella definizione biomedica di cosa sia da intendersi per
"medicina" (vedi Kleinman, 1975a). Probabilmente il nuovo pa­
radigma, qualunque esso sia, ci aiuterà non soltanto a ripensare
gli aspetti della nostra disciplina, ma anche a ripensare global­
mente la medicina, dal momento che la pratica medica stessa sta
soffrendo per l'inadeguatezza dei suoi modelli concettuali e per
l'assenza di una nuova esplorazione metateorica, specialmente
per quanto riguarda il suo coinvolgimento sociale. Per esempio,
ora che la medicina familiare e la medicina di base guardano alle
scienze sociali come loro fondamenti, sarà opportuno utilizzare
le idee che appartengono all'antropologia medica per aiutarle a
costruire un nuovo paradigma per la pratica clinica. Un altro
esempio potrebbe essere quello di riformulare il " modello medi-

19
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

co" , notoriamente inadeguato per le condizioni in cui versa all'in­


terno della biomedicina. Tale riformulazione dovrebbe includere
sia l'interpretazione che l'antropologia medica fa della medicina
come sistema culturale, sia la nostra concezione dei meccanismi
mediante i quali la cultura influenza sistematicamente tanto la
patologia quanto l'esperienza di malattia [diseaselillness] e la
guarigione. Questi sono esempi dell'importanza di una traduzio­
ne sistematica dei concetti dell'antropologia medica nella sfera
medica: e l'inverso è altrettanto importante. Nuovi modelli per il
nostro campo dovrebbero facilitare questo processo di traduzio­
ne (vedi Kleinman, Eisenberg, Good, 1978, p. 25 1 ) .

n. CONTESTO BIOCULTIJRALE DEI SISTEMI MEDICI E n. SUO


RAPPORTO CON LE INTERRELAZIONI SOCIOPSICOSOMATICHE
NELLA MAIATfiA E NELLA GUARIGIONE

Dei molti aspetti dei sistemi medici che potrebbero essere in­
dagati, particolarmente interessante è il loro contesto biocultura­
le. Benché si tratti di un argomento troppo ampio da trattare in
questa sede, vale la pena notare alcune particolarità, pertinenti al
nostro modello. In parole povere, la costruzione culturale dell'e­
sperienza di malattia come esperienza psicosociale cç:>mporta dei
processi psicosociosomatici complessi che hanno ur)pimpatto sia
sulla patologia, sia sul processo di guarigione della patologia e
dell'esperienza di malattia (Kagan, Levi, 1974; Mauss, 1936; Ki­
ritz, Moos, 1974; Teichner, 1968). li fatto che questi processi sia­
no implicati nell'organizzazione della salute, dell'esperienza di
malattia e della guarigione in un sistema culturale, significa che il
sistema medico aiuta a mediare l'impatto dei fattori socioambien­
tali e psicologici sui processi fisiologici. Sono stati proposti diversi
modelli per spiegare come ciò awenga, inclusi il condizionamento
strumentale, l'apprendimento sociale, la teoria dell'informazione,
e altri (vedi Werner, Kaplan, 1967; Platonov, 1959; Schmale et al.,
1970; Lipowski, 1973 , p. 203 ) . Comunque sia, è chiaro che questi
processi sono attivamente coinvolti nel rapporto tra tensione ner­
vosa e patologia (vedi Holmes, Rahe, 1967, p. 2 13), e negli effetti
che la psicoterapia e altre terapie simboliche hanno sulla patologia
fisiologica (vedi Frank, 1974). Benché le nostre conoscenze siano

20
ALCUNI CONCETTI E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI. . .

ancora incomplete, è nondimeno fondamentale che gli studi fu­


turi sui sistemi medici mettano a fuoco questo ponte biosociale, e
facciano uso di metodi appropriati per accertarne il significato
nella salute, nell'esperienza di malattia e nella cura. Ciò significa
esortare a mantenere una forte componente di antropologia bio­
logica all'interno dell'antropologia medica (Damon, 1975), com­
ponente che riguarda in modo particolare la relazione tra cultura
e tensione nervosa; sottolineare la necessità di aggiungere una di­
mensione biologica alla dimensione culturale delle teorie antro­
pologico-mediche (vedi Kleinman, Eisenberg, Good, 1978;
Dunn, 197 6; Young, 197 1 ); e avvalorare la concezione dell'antro­
pologia medica come ponte interdisciplinare tra scienze biome­
diche e scienze sociali. Un ponte spesso riconosciuto ma rara­
mente studiato.

ALCUNE IPOTESI PER LO SniDIO ETNOGRAFICO


E COMPARATIVO DEI SISTEMI MEDIO

Un modello esauriente come questo può essere valutato al me­


glio guardando alle sue applicazioni. Personalmente l'ho impiegato
per studiare il pattern culturale della fenomenologia della depres­
sione tra i pazienti cinesi (vedi Kleinman, 1977, p. 3 ) , per analizzare
la comunicazione clinica, per confrontarla in una serie di tipologie
di transazione medico-paziente (vedi Kleinman, 1975c), e per stu­
diare l'efficacia (e i meccanismi di efficacia) di sciamani e altri gua­
ritori indigeni a Taiwan (vedi Kleinman, Sung, 1976). In ognuno di
questi casi ho trovato che il modello biomedico fosse inadeguato,
mentre il paradigma qui discusso fosse assai più utile come struttu­
ra di ricerca. La raison d'etre del paradigma è proprio quella di pro­
curare un modello sociale e culturale alternativo capace di sfidare il
riduzionismo biologico altamente deformante del modello biome­
dico, nella ricerca e nell'insegnamento (vedi Eisenberg, 1976).
Sfortunatamente, in questa sede non è possibile descriverlo né di­
mostrarlo. Le ipotesi che seguono però dovrebbero mettere il letto­
re nelle condizioni di stabilirne alcuni impieghi.
Queste ipotesi, che oscillano molto nel grado di specificità e
realizzabilità per poter essere messe alla prova sul campo, deriva­
no direttamente dal modello e dai concetti che ho tracciato. Al-

21
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

cune possono essere applicate negli studi etnografici e compara­


tivi, mentre altre sono più direttamente attinenti a questioni clini­
che e di salute pubblica. Altre ancora sono semplicemente do­
mande aperte, un invito a formulare interrogativi specifici sul
modello e sui concetti, o a sollevare questioni più generali sullo
studio della medicina come sistema culturale. Non sorprende che
tutte riflettano lo strappo interdisciplinare tra interessi antropo­
logici e medici nel nostro campo: una fonte di difficoltà, ma an­
che di grandi opportunità. Questa tensione è responsabile di
gran parte dell'unicità della nostra disciplina. Piuttosto che ten­
tare di ridurla o ignorarla, dobbiamo sfruttarla come moto dialet­
tico fondamentale che attraversa il nostro lavoro.

LE IPOTESI

l. A eccezione delle poche società in cui mancano medici pro­


fessionisti (indigeni o occidentali) e/o popolari, i sistemi medici
delle società contemporanee e di quelle storiche possono essere
descritti attraverso la tipologia tripartita tracciata in precedenza.
Tutte le forze, gli agenti, le funzioni dell'assistenza medica sono
adattabili al modello. Sia il pluralismo sia il mutamento possono
ricalcarlo.
2. Specificando le differenze nelle realtà cliniche e nei modelli
esplicativi per i settori e i sottosettori di un dato sistema medico,
possiamo prevedere i conflitti risultanti dalla loro interazione. Ri­
conoscere queste differenze e tentare di negoziare tra i ME discre­
panti di pazienti, famiglie e medici, dovrebbe impedire conflitti
maggiori nelle transazioni sanitarie. Prevenire conflitti più impo­
nenti tra i ME e le realtà cliniche che essi rappresentano dovrebbe
esercitare un'influenza positiva sull'adesione del paziente al regi­
me medico, sulla sua soddisfazione e su un uso appropriato dei
servizi sanitari, e potrebbe accelerare l'uscita dal ruolo di malato
e il ritorno al ruolo e alla funzione sociale normali.
3 . La comparazione fra differenti modalità di costruzione del­
le realtà cliniche dovrebbe rivelare i principali meccanismi di
condizionamento della cultura verso i sistemi medici. Sia i con­
fronti intersistemici sia quelli intrasistemici delle realtà cliniche
dovrebbero mettere in luce la natura e l'estensione delle influen-

22
ALCUNI CONCETTI E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI . . .

ze storiche, politiche, economiche, tecnologiche ed epidemiolo­


giche sulla salute. li che significa che il sistema medico può essere
considerato una microtestimonianza di questi effetti.
4. Raffronti di questo genere illustreranno particolari pattern
di conflitto e di dominio tra realtà cliniche di settore e di sottoset­
tore, tipiche di ciascun sistema. Ma queste, a loro volta, indiche­
ranno un chiaro modello di influenza dovuto alla modernizzazio­
ne e all'occidentalizzazione. Riconoscere tali modelli potrebbe es­
sere utile a prevedere (e quindi prevenire) problemi sanitari cau­
sati dai processi di modernizzazione e occidentalizzazione.
5. Si può dimostrare che tutte le realtà cliniche e i ME implicati
sono culturalmente specifici, inclusi quelli biomedici. Per contro,
la biomedicina non comprende realtà cliniche e ME indipendenti
dalla cultura. Inoltre, le realtà cliniche e i ME sono anche specifici
per il posto che occupano nella struttura sociale all'interno del si­
stema medico. Quindi, per esempio, nel nostro sistema medico, il
conflitto tra modelli di devianza medica e sociale in rapporto al
disagio mentale va attribuito in parte alla loro specificità socio­
strutturale, in quanto modelli biomedici e sociologici, e in parte
alle sottostanti battaglie professionali e politiche per il potere,
implicate dal conflitto. La sua risoluzione non può avvenire al­
l'interno di un unico settore, ma richiede che questi modelli siano
incorporati in una sovrastante cornice scientifica che permetta
uno studio della malattia e della cura che attraversi il sistema cul­
turale e i confini della struttura sociale. Questa soluzione richie­
derà un vasto mutamento sociale e politico. Chiunque si candidi
alla costruzione di questa sovrastante cornice deve concepire la
medicina come sistema culturale, e la biomedicina (o la sociolo­
gia medica) come una parte del sistema.
6. Moltissimi, forse la totalità, dei cosiddetti disturbi cultural­
mente condizionati, possono essere interpretati come esempi
estremi della funzione generale dei sistemi medici di modellare
culturalmente patologie universali [disease] in disagi cultural­
mente specifici [illness] .
7. Quando i ME di pazienti, familiari e medici sono simili, ci
sarà una comunicazione clinica migliore, meno problemi di ge­
stione clinica, una maggiore adesione al regime terapeutico da
parte del paziente e dunque una maggiore soddisfazione. Al
contrario, quando i loro ME sono sostanzialmente dissimili, la

23
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETIO, METODI, TEORIE

comunicazione clinica, l'adesione e la soddisfazione del pazien­


te peggioreranno, e si verificherà un incremento di problemi si­
gnificativi di gestione. Sarà più probabile che la guarigione cul­
turale avvenga nel primo caso che nel secondo. I guaritori po­
polari indigeni dovrebbero essere maggiormente competenti
nella comunicazione clinica e nel trattamento dell'esperienza di
malattia [t'llness] , i medici professionisti, invece, dovrebbero es­
sere in grado di ottenere risultati migliori nella cura della pato­
logia [disease] . Laddove questi ultimi siano addestrati a nego­
ziare sistematicamente coi ME del paziente e della famiglia e a ri­
conoscere e curare l'esperienza di malattia, la comunicazione
clinica, l'adesione e la soddisfazione del paziente dovrebbero
migliorare, limitando i problemi di gestione clinica.
8. È possibile dimostrare come i sistemi medici, corredati del­
le sei funzioni cliniche fondamentali, producano effetti adattativi
a livello culturale, psicosociale e biologico. Essi possono essere
giudicati proprio grazie all'analisi dei successi conseguiti nel ten­
tativo di produrre tali effetti. Parallelamente alla valutazione del­
la loro efficacia, questi sistemi possono essere messi a confronto
in base alla natura e alla vastità dei problemi che creano nella cu­
ra della salute. La loro utilità può essere stabilita anche rispetto
alla cura di specifiche patologie/malattie [disease/illness] .
9. Le valutazioni sull'efficacia dell'assistenza medica devono
tener conto della duplice natura della guarigione: controllare la
patologia e conferire significato all'esperienza di malattia. Se i
raffronti transculturali sull'efficacia dei sistemi medici devono
avere un qualche significato, la guarigione dalla patologia e la
guarigione dall'esperienza di malattia devono essere considerate
separatamente.
10. Ai fini della descrizione etnografica e della comparazione
transculturale, i sistemi medici devono essere considerati sistemi
locali. Tipi specifici di risorse sanitarie locali e relativi modelli di
impiego, possono per esempio spiegare variazioni significative tra
le diverse località. Fattori determinanti di tipo politico, economico
e sociale possono produrre simili variazioni. Per i ricercatori, l'uti­
lità degli sfondi locali negli studi sul campo consiste nel permette­
re di rapportare i sistemi sanitari a particolari influenze ambientali,
e in tal modo di ricostruire l'ecologia di quei sistemi. Dal momento
che i sistemi medici sono sistemi locali, non possono essere equi-

24
ALCUNI CONCETII E UN MODELLO PER LA COMPARAZIONE DEI SISTEMI . . .

parati a una società intera. Ogni società possiede distinti sistemi


medici locali. Nello scenario culturale cinese, per esempio, trovia­
mo in una stessa società (Taiwan, o Hong Kong) molti sistemi me­
dici, che sono diversi tra loro tanto quanto lo sono rispetto ai siste­
mi medici di altre società cinesi e di quelle non cinesi con popola­
zione prevalentemente cinese (Kleinman, 1 975a). Pertanto, di
quei sistemi medici è possibile effettuare sia comparazioni interso­
ciali e intrasociali, sia comparazioni interculturali e intraculturali.
1 1 . Le comparazioni tra sistemi medici di diverse culture pale­
seranno significative differenze nella misura e nell'importanza
proprie di sistemi particolari e dei loro settori. Per esempio, ci so­
no differenze fra i tipi di problemi appartenenti ai sistemi medici
o ai loro settori; e queste potrebbero aumentare o diminuire lo
spazio sociale da essi occupato. Le differenze riguardano anche
la competenza con cui i sistemi medici assolvono importanti fun­
zioni non-mediche, come quelle del controllo sociale. li confron­
to tra sistemi medici nelle società tradizionali, in via di sviluppo e
pienamente sviluppate dovrebbe metterei in condizioni di dimo­
strare la tesi - tipica della sociologia medica - secondo cui vi sa­
rebbe una progressiva medicalizzazione delle società moderne,
tale per cui i problemi dapprima etichettati come morali o politici
vengono successivamente legittimati come parte del sistema me­
dico, specialmente del suo settore professionale (vedi Kunstad­
ter, 1975) . Questa tesi si oppone all'argomento antropologico se­
condo cui, nelle società più semplici e preletterarie, i sistemi me­
dici tenderebbero ad assolvere funzioni più generiche (non medi­
che) di quanto avvenga nelle società più sviluppate e differenzia­
te (vedi Cawte, 1 974). Queste ipotesi possiedono un interesse
comparativo particolare perché possono essere esaminate sia ne­
gli studi storici sia in quelli transculturali.
12. Kunstadter (vedi Kunstadter, 1975) ha ipotizzato che il plu­
ralismo delle credenze, delle scelte e delle strategie terapeutiche
mediche offra ai sistemi medici dei vantaggi adattativi. Invece di
produrre effetti negativi, come alcuni sostenitori dell'unità simbo­
lica dei sistemi culturali inducono a pensare, la dissonanza cogniti­
va (strategie sanitarie multiple e concorrenti), almeno nel sistema
medico, potrebbe favorire la sopravvivenza biologica, la risoluzio­
ne di tensioni psicosociali, e l'evoluzione di strategie di adattamen­
to culturale. La struttura dei ME può essere usata per esprimere

25
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

questa ipotesi in una forma più precisa e quantificabile che in se­


guito sarà confermata o smentita dagli studi sul campo.
13. Infine, proprio il fatto che sia stata riconosciuta e trattata
come sistema culturale ha prodotto una certa trasformazione nel­
lo studio antropologico della medicina nella società. Ciò è succes­
so perché gran parte dell'iniziale interesse per questa materia si è
sviluppato all'interno degli studi antropologici dei sistemi religio­
si. ll risultato è stato che fino a poco tempo fa, gli aspetti non sacri
della malattia e della cura hanno ricevuto poca attenzione (vedi
Seijas, 1973 , p. 544). Gli etnografi, nel ricercare un centro strate­
gico per lo studio della medicina come categoria etnografica, ten­
devano a concentrarsi sulle attività rituali. Ciò ha prodotto una
notevole distorsione in molte etnografie, poiché la malattia è ciò
su cui ci si deve concentrare al fine di cogliere l'obiettivo e le atti­
vità dei sistemi medici. La mia previsione è che una simile distor­
sione sia destinata a scomparire dalle etnografie mediche (vedi
Lewis, 1975 come esempio di ciò che si può ottenere correggendo
questa inclinazione). Tali etnografie, unitamente agli studi compa­
rativi, dovrebbero riscrivere la storia della medicina nella società:
in parte, perché sono sofisticati in senso biomedico; ma ancor più,
perché rappresentano un progresso nella concettualizzazione e
nell'indagine della medicina come sistema culturale, e nel fare
questo sfidano i paradigmi biomedici tradizionali con concetti e
metodi antropologici che realizzano una comprensione più vasta e
più esauriente della malattia e della guarigione nella società.

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29
2

IL CUORE DEL PROBLEMA


LA SEMANTICA DELLA MALATTIA IN IRAN'

Byron J. Good

La malattia umana ha rappresentato per gli antropologi un


campo fondamentale d'indagine della relatività culturale, ovvero
dello studio dei processi di costruzione del significato della realtà
"naturale" . Studi di questo tipo non sono importanti solo dal
punto di vista accademico. La nostra comprensione del modo in
cui i fattori psicosociali e culturali influenzano l'incidenza, il cor­
so, l'esperienza e l'esito della malattia è cruciale per la medicina
clinica, sia nel determinare quali dati siano clinicamente rilevanti,
sia nell'individuare il livello in cui dovrebbe intervenire l'azione
terapeutica. Prestare attenzione alle nostre concezioni della ma­
lattia e della patologia è perciò imprescindibile tanto per gli studi
transculturali quanto per la pratica medica (Kleinman, Eisen­
berg, Good, 1976).
Recenti studi a livello teorico hanno cercato di " de-entificare"
la malattia, per esplorare una concezione all'interno della quale
le patologie non costituiscono entità reali, ma realtà sociali e sto­
riche. Un approccio filosofico alla medicina ribadisce quanto sia
indispensabile, per la teoria della malattia e la pratica medica,
una nuova base "antologica", capace di riflettere sulla sofferenza
umana tanto in termini di "fatto medico" quanto in termini di
"fatto storico-sociale" (Wartofsky, 1975). I saggi di Michel Fou­
cault sulla medicina nella storia occidentale pongono acutamen­
te la questione se le malattie siano da considerare come dei co-

l. Una precedente versione di questo testo è stata presentata durante uno degli
incontri dell'Harvard Research Seminar sulle Implicazioni per l'erogazione dell'as­
sistenza sanitaria degli studi interculturali sulla salute, malattia e guarigione, nell'ot­
tobre 1975. L'autore riconosce il proprio debito verso i membri di quel gruppo.

31
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

strutti teorici prodotti da modalità storicamente determinate di


cura (Foucault, 1961, 1963 ) . Per altro verso, una serie di studi ha
concepito la malattia come prodotto dinamico della relazione di
una persona con l'ambiente socioculturale circostante: la malat­
tia sarebbe una risposta alle tensioni sociali o agli eventi della vi­
ta (per esempio Heisel et al. , 1973 ), e sarebbe plasmata, in parte,
dalla natura delle categorie culturali attribuite alla condizione di
una persona (per esempio Waxler, 1974). Gli sforzi di far propria
tale prospettiva, a livello clinico, hanno implicato la necessità di
riformulare la teoria della malattia nei termini di "modelli di si­
stemi aperti" (Minuchin et al., 1975). Nonostante questi sforzi
costruttivi, il "modello medico" , che vede le malattie come entità
naturali riconducibili a un sostrato fisiologico, ed essenzialmente
indipendenti dal contesto culturale, continua ad avere grande ri­
sonanza. Ironia della sorte, questa prospettiva costituisce il ter­
reno su cui si fonda un gran numero di recenti ricerche transcul­
turali. La prospettiva introdotta dall' etnoscienza, per esempio,
ci invita a concepire l'analisi comparativa come l'esame delle
modalità in cui le malattie vengono mappate all'interno di sche­
mi classificatori culturalmente costituiti. La tesi qui avanzata in­
vece è che tali studi condividano col modello medico della ma­
lattia certe ipotesi fondamentali (spesso non ammesse) circa la
relazione del linguaggio con la medicina e circa la natura della
"semantica medica" - la teoria su come si costituisce il significa­
to del linguaggio medico. Queste ipotesi pongono degli ostacoli
alla nostra comprensione del ruolo dei fattori psicosociali e cul­
turali nella malattia e quindi a un'adeguata strategia di ricerca
transculturale.
Il rapporto tra medicina e teorie empiriste del linguaggio è
molto antico nella filosofia occidentale. Givner (1962) sostiene
che la teoria del linguaggio di Locke fu modellata sugli esperi­
menti medici del suo amico Sydenham. Locke riteneva che le due
funzioni primarie del linguaggio fossero la designazione e la clas­
sificazione (Givner, 1962, p. 346). Questa concezione predomina
nell' etnoscienza. n significato, si sostiene, emerge dalla relazione
tra categorie classificatorie e malattie da esse designate. Le cate­
gorie vengono definite da caratteristiche particolari che le delimi­
tano. Tale teoria del significato è assai prossima al modello che
fonda una specifica metodologia dell'attività medica: la diagnosi.

32
IL CUORE DEL PROBLEMA

La diagnosi è infatti concepita come il collegamento tra la condi­


zione di un paziente e una categoria di malattia, attraverso l'inter­
pretazione dei sintomi come caratteristiche distintive (per esem­
pio Frake, 1961). La mia critica a questa prospettiva non è che la
diagnosi non sia una procedura importante dell'attività medica
ma che tale modalità di intenderla sia insoddisfacente per la co­
struzione di nuove teorie della malattia quando queste si prefig­
gano lo scopo di ridefinire i dati rilevanti ai fini della diagnosi
stessa. L'etnocentrismo insito in questo tipo di ricerche transcul­
turali, secondo cui la diagnosi sarebbe semplicemente "basata
su" una sintomatologia fisica, è stato denunciato, per esempio,
dall'analisi di Turner tra gli Ndembu, dove le pratiche divinatorie
emergono come procedure diagnostiche della patologia nella sfe­
ra sociale di un paziente (Turner, 1975).
La mia tesi, quindi, è che non abbiamo semplicemente biso­
gno di nuove teorie della malattia, ma di una nuova comprensio­
ne della relazione tra linguaggio medico e malattia. Dobbiamo
sviluppare una teoria del linguaggio medico che non reifichi la
concezione della malattia e non riduca la semantica medica alla
funzione ostensiva o nominale del linguaggio. Una simile teoria
dovrebbe portare la ricerca transculturale a prendere le distanze
dal semplice esame di come le società elaborano categorie per
classificare la malattia organica, e favorire invece un'analisi del
modo in cui la malattia e la sua esperienza sono profondamente
integrate nella struttura di una collettività.
Qui si proporrà di utilizzare il concetto di "reti semantiche"
per capire il significato del linguaggio medico così come è utiliz­
zato nei diversi contesti comunicativi. li significato di una catego­
ria di malattia non può essere semplicemente inteso come un in­
sieme di sintomi distintivi. Esso è piuttosto una "sindrome" di
esperienze particolari, un complesso di parole, situazioni e sensa­
zioni che tipicamente "concorrono" per i membri di una società.
Tale sindrome non è solamente il riflesso di sintomi collegati tra
loro nella realtà naturale, ma un insieme di esperienze associate
attraverso reti di significato e interazioni sociali all'interno di una
società. Questa concezione della semantica medica dirige la no­
stra attenzione verso l'uso del discorso medico per spiegare l'espe­
rienza personale di specifici modelli di disagio sociale, verso l'uso
della malattia come linguaggio per accordarsi sulla cura del pa-

33
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

ziente, e quindi verso il costituirsi del significato del linguaggio


medico impiegato in una molteplicità di contesti comunicativi.
In questa sede analizzerò il "mal di cuore", un tipo di malattia
diffus a in Iran, attraverso la sua rete semantica. Questa analisi sarà
impiegata come punto di partenza per ulteriori proposte di ricer­
ca. I dati di questo studio sono stati raccolti nel corso di due anni
di ricerca sul campo a Maragheh, una città di lingua turca nella
provincia dell'Azerbaigian Orientale, nell'Iran nordoccidentale.2

ASSISTENZA SANITARIA E MALA1TIA IN IRAN

Questa difficoltà a parlare provocò angoscia nel mio cuore, e intanto la


mia capacità di ingerire e assimilare cibo e bevande diminuì; ero a stento
in grado di deglutire e digerire un solo boccone di cibo. Le mie forze si
indebolirono al punto che i dottori rinunciarono alla speranza di un trat­
tamento efficace. "Questo problema nasce dal cuore", dissero, "e da li si
è diffuso attraverso l'organismo; l'unico metodo di cura è calmare l'ansia
che ha sopraffatto il cuore".
AL-GHAZALI

Nella sua autobiografia Ghazali, studioso islamico vissuto nel­


l'undicesimo secolo, descrive la sua esperienza di angoscia e crisi
personale che si risolse solo con la svolta verso il misticismo. La
popolazione di Maragheh, oggi capirebbe molto bene il modo di
esprimersi di Ghazali, dal momento che anch'essa racconta certe
esperienze di crisi e dolore come "mal di cuore" (narahatiye qalb).
Le donne che si sentono intrappolate nelle case stipate di persone,
dietro le alte mura lungo i vicoli tortuosi di Maragheh, gli uomini
che si sentono angosciati dopo uno scontro con la madre o la so­
rella, le donne che prendono la pillola contraccettiva o che hanno
da poco partorito un figlio - tutte queste persone lamentano spes­
so di avere il cuore che batte o che pulsa in modo irregolare. Si la­
mentano di essere malate (maris) e vanno dai medici locali per far­
si curare. Cosa significa avere il "mal di cuore" a Maragheh? Pos­
siamo interpretare questo complesso di malattie semplicemente
come lieve ansia o depressione accompagnate da tachicardia, o

2. La ricerca di cui si awale questo scritto è stata condotta in collaborazione con


Mary-Jo Del Vecchio Good dal 1972 al 1974, ed è stata supportata da un tirocinio
USPHS e da Wla sowenzione del Fondo Pathfinder. Gran parte del materiale impie­
gato lo si deve alla signora Good.

34
IL CUORE DEL PROBLEMA

esiste una rete di significato, tipicamente iraniana, che dobbiamo


spiegare, se vogliamo veramente comprendere cosa sia il mal di
cuore? Come mai ansie evidentemente diverse - contraccezione,
gravidanza, vecchiaia, problemi interpersonali, preoccupazioni
economiche - sono tutte associate a un'unica esperienza di malat­
tia? Prima di esplorare questa questione, è necessario descrivere
brevemente Maragheh e i suoi sistemi di assistenza sanitaria.
Maragheh è un antico paese agricolo e centro commerciale, e
oggi conta una popolazione di più di 60.000 persone. Nel tredi­
cesimo secolo fu per un breve periodo capitale dell'Impero mon­
golo, centro regionale e residenza di una potente famiglia tribale
proprietaria terriera, e più recentemente un modesto centro am­
ministrativo provinciale conosciuto in tutto l'Azerbaigian per i
suoi proprietari terrieri in decadenza e la sua popolazione con­
servatrice in materia religiosa. I suoi vicoli tortuosi, l'antica piaz­
za del mercato o il bazar, e una fervente attività religiosa, in parti­
colare durante i riti del Moharram, organizzati meticolosamente,
conservano un senso di coesione comunitaria e uno stile di vita
che sta scomparendo in gran parte dell'Iran urbano.
Maragheh per molti anni è stato un centro regionale di rilievo
per l'assistenza sanitaria, in cui giungevano gli abitanti della cam­
pagna circostante per essere curati dagli specialisti della medici­
na galenico-islamica, di quella sacra, e più recentemente di quella
cosmopolita.3 Nel 1920, circa tredici hakim (medici tradizionali)
si occupavano della cura dei 18.000 abitanti di Maragheh seguen­
do la tradizione terapeutica erboristica di Galeno e Abu Ali Sina
(Avicenna) . Venditori di medicine a base di erbe, specialisti in si­
stemazione delle ossa e cura delle slogature, barbieri che teneva­
no sanguisughe e praticavano scarificazioni e flebotomie, specia­
listi nei salassi con ventose, levatrici, tutti costoro lavoravano nel
bazar e nelle vicinanze di Maragheh. Gli specialisti di divinazione
religiosa e di scrittura di preghiere curative esercitavano la loro
professione nelle moschee o nelle loro abitazioni. Allo stesso mo­
do, una serie di cure popolari venivano somministrate in famiglia,
in particolare dalle donne più anziane. La prescrizione di diete, la

3. Dettagli su queste tre tradizioni mediche e la loro attuale pratica a Maragheh si


possono trovare in Good (1976a, 1976b). La scelta del tennine "cosmopolita" utilizza·
to per descrivere la medicina moderna, scientifica o occidentale, è ascrivibile a Leslie
(1976, p. 5).

35
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGEITO, METODI, TEORIE

cura con erbe medicinali secche e distillate, i riti religiosi infor­


mali per la guarigione delle malattie causate dal malocchio o dalla
paura, i piccoli riti nei santuari locali e altre terapie popolari veni­
vano tutti eseguiti senza l'assistenza di specialisti.
La medicina cosmopolita [biomedicina] è stata praticata seria­
mente a Maragheh solo a partire dall'inizio del ventesimo secolo,
quando gli hakim hanno avviato l'importazione e la distribuzione
di medicinali europei, e quando qualche medico, che aveva eser­
citato in Russia e nelle scuole missionarie, ha cominciato a lavora­
re in città. Ma i cambiamenti più importanti si sono avuti solo ne­
gli anni Trenta, quando lo Shah Reza istituì una licenza che obbli­
gava gli haklm a superare un esame di medicina occidentale, o a
interrompere la loro attività. In quegli anni furono aperti servizi
di assistenza sanitaria pubblica, si svilupparono le professioni pa­
ramediche ed ebbe inizio la professionalizzazione della medicina.
n settore dell'assistenza sanitaria moderna ha continuato a incre­
mentarsi a Maragheh, e ora conta due ospedali, due cliniche pub­
bliche, circa venticinque medici che esercitano privatamente, ot­
to farmacie, ventuno infermieri specializzati in iniezioni e sedici
dentisti. Negli ultimi quarant'anni si è visto un continuo sforzo
da parte dei medici iraniani di acquisire una maggiore professio­
nalità e di prendere il sopravvento nell'intero settore sanitario. Di
conseguenza la pratica della medicina galenico-isla,mica si è anda­
ta estinguendo, e mentre la medicina tradiziori�le continua a
espandersi nel settore popolare, gli specialisti dell'assistenza sani­
taria tradizionale temono di vedere scomparire la loro attività. A
Maragheh rimangono venditori di erbe medicinali (circa tre), or­
topedici tradizionali (circa sei molto noti), levatrici di quartiere
(forse venticinque), e donne che in ogni rione si specializzano nei
salassi (forse cinquanta o più). Poche di queste persone sono ve­
ramente esperte della tradizione antica, ma tutte hanno più o me­
no assorbito la versione popolare della tradizione colta, e molte
sono tecnicamente molto competenti.
Mentre tutti i mullah (religiosi) hanno assunto un ruolo "me­
dico" , per aver reinterpretato i rituali purificatori in termini di
pratiche igieniche, gli unici specialisti religiosi nella cura rimasti
sono gli scrittori di preghiere curative (du 'a nevis). Sebbene molti
seyyid o mullah scrivano occasionalmente preghiere, forse solo
dieci di loro hanno raggiunto una buona fama nella città di Mara-

36
ll. CUORE DEL PROBLEMA

gheh. I du'a nevis praticano una forma di divinazione utilizzando


uno strumento a quattro corde [ram!] , un astrolabio, il Corano, o
un sistema di numeri che vengono associati alle lettere del nome
di una persona. In alcuni luoghi del Paese questi uomini sono
molto esperti, taluni addirittura hanno svolto l'apprendistato in
India e utilizzano la divinazione per praticare un certo tipo di psi­
chiatria popolare (Fischer, 1973 , p. 288).
Gli scrittori di preghiere a Maragheh assolvono quasi inconsa­
pevolmente un ruolo di "psichiatri" , ma nel trattamento dei pro­
blemi che si ritiene rispondano alle preghiere curative - sterilità,
alcune forme di pazzia, la malattia causata dal malocchio, dalla
paura o dall a magia - vengono coinvolti nelle crisi emozionali e
interpersonali dei loro clienti.
Tre sono le tradizioni mediche colte - la galenico-islamica, la
sacra e la cosmopolita - che costituiscono la struttura su cui pog­
giano le teorie mediche e le modalità terapeutiche sia degli specia­
listi di assistenza sanitaria sia degli operatori non professionali. A
livello popolare, invece, è la medicina umorale classica, presente
presso greci, arabi e persiani, a fornire la base fondante delle locali
concezioni relative alla fisiologia, alla malattia e alla terapia.4 In
parole povere, la causa della malattia risiederebbe in un eccesso o
in una carenza degli umori o delle qualità fondamentali (caldo­
freddo, umido-secco), e la terapia è volta al ripristino dell'equili­
brio proprio della natura di un individuo (tabe'e). La medicina sa­
cra è fondata sulla cosmologia del Corano e della Tradizione (Ha­
dith) (Nasr, 1968), da cui sono ricavate le immagini deijinns (spi­
riti) e del malocchio come cause di malattia, e sulla logica della
guarigione attraverso il potere delle parole sacre, il respiro o il toc­
co di uomini santi, o la manipolazione dell'impurità. La medicina
sacra è basata anche sulla tradizione ermetica dell'astrologia, del­
l'alchimia, delle lettere magiche e della divinazione (Nasr, 1967).
Entrambe queste fonti costituiscono la base per le nozioni popo­
lari di malattia causata da possessione spirituale o da sofferenza
interpersonale, e per la terapia fornita dagli scrittori di preghiere.
Queste tre tradizioni mediche colte offrono i modelli esplica­
tivi fondamentali e le teorie basilari sulla causa e la cura della
malattia che oggi rappresentano la cultura medica popolare a

4. Vedi, per esempio, Burgel (1976), Levey (1967) e Nasr (1968).

37
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Maragheh.5 La medicina popolare, nell'includere idee e terapie


elaborate in diverse tradizioni teoriche colte, le integra all'inter­
no di un sistema particolare di assistenza sanitaria. Questo siste­
ma comprende un'etnofisiologia altamente condivisa, diverse
"malattie popolari" solo parzialmente riconosciute nelle tradi­
zioni colte, una "gerarchia del rimedio" finalizzata all'individua­
zione di una cura (Schwartz, 1969) e forme di terapia domicilia­
re che variano dal riposo a letto e dalla dieta, fino a brevi riti cu­
rativi intrapresi in casa o nel vicinato.
TI sistema popolare di cura medica è soprattutto la medicina
della popolazione comune e la medicina domestica. Esso fornisce
un linguaggio, tramandato di generazione in generazione, col
quale la gente dà voce alla propria esperienza di malattia. E sug­
gerisce inoltre un complesso di idee, modelli cognitivi, aspettati­
ve e norme che guidano le risposte alla malattia da parte di un pa­
ziente e di quelle persone che, in casa sua, in famiglia e nel quar­
tiere, si prendono cura di lui. In questo modo, il sistema medico
popolare costruisce a livello sociale, conferendole significato, l'e­
sperienza di malattia e di cura del malato.
Un attento esame della medicina popolare pone immediata­
mente un problema di comprensione. Da un lato sembra compor­
si di frammenti di idee e pratiche terapeutiche tratçi da fonti diver­
se, da tradizioni mediche elaborate a grande distanza - storica­
mente, geograficamente, culturalmente - rispetto all'attuale con­
testo di Maragheh. Come in tutte le società complesse, la medici­
na popolare in Iran include un insieme di idee e pratiche, creden­
ze idiosincratiche e contraddittorie, metafore sbagliate (Percy,
1975, p. 64), e terapie eseguite come fossero ricette di cucina. Essa
appare come un "bricolage", un insieme di elementi "conservati
in virtù del principio che 'possono sempre servire"' (Levi-Strauss,
1966, p. 30), un complesso di strumenti per fornire risposte alla
malattia. Dall'altro lato, questo insieme diversificato sembra in
qualche modo essere coerente e intrecciato intimamente con il
tessuto strutturato della vita sociale, dietro le alte mura dei cortili
e dentro i quartieri e i negozi di Maragheh.
La medicina popolare in molte società complesse pare profon-

5. Nell'utilizzare l'espressione "modelli esplicativi", mi rifaccio a Engelhardt


(1974) e Kleinman ( 1975).

38
IL CUORE DEL PROBLEMA

damente integrata nella vita sociale e nelle strutture simboliche


della comunità. A partire dagli esiti di diversi periodi storici e di
tradizioni teoriche colte, la medicina popolare costruisce schemi
di malattia che esprimono conflitti e forme di disagio peculiari di
quella comunità e indicano spesso terapie che rinforzano l'inte­
grazione e i valori conservativi della comunità. Currier (1966) de­
scrive come la dicotomia caldo-freddo, sviluppata nell'antica Gre­
cia ed elaborata dalla scienza islamica, fornisca un fondamentale
principio strutturante della cultura Mestizo e dell'interazione so­
ciale. Hildred Geertz mostra come il latah, un disturbo psicologi­
co che presenta un'analoga sintomatologia in molte società dell'A­
sia, sembri fatto su misura per i javanesi (1968, p. 98). Lo stesso
potrebbe essere dimostrato per gli elementi della medicina popo­
lare di Maragheh: l'idioma del freddo e del caldo, gli umori (san­
gue, sangue impuro, bile), i significati estesi del cuore e del fegato,
l'uso terapeutico di elementi ritualmente contaminati (najes), o
malattie popolari causate dalla paura o dal malocchio, ciascuno di
questi elementi sembra essere appositamente modellato sulla vita
sociale iraniana. n linguaggio medico, qualunque sia la sua fonte,
acquista un significato specifico rispetto a un contesto sociale e
culturale particolare e a sua volta integra profondamente malattia
e cura all'interno di quel contesto. Come accade ciò, e cosa impli­
ca per la nostra analisi del significato del linguaggio medico, per
una teoria della relazione tra linguaggio e malattia? La descrizione
del "mal di cuore" in Iran ci permetterà di affrontare questa que­
stione in modo più dettagliato.

MAL DI CUORE

Poco dopo essere arrivati a Maragheh, un negoziante mi disse


che aveva problemi di cuore e, sapendo che avevo a che fare con
l'Ufficio sanitario, mi chiese se potevo aiutarlo. Mostrò come il
suo cuore battesse (pugno contro palmo, "tac, tac, tac") e alla mia
domanda, se fosse già stato da altri medici, rispose affermativa­
mente, aggiungendo che non aveva ottenuto alcun risultato. In­
tanto mia moglie, che ispezionava regolarmente una clinica per il
controllo delle nascite, iniziò a notare che le donne lamentavano
costantemente che la pillola contraccettiva le faceva ammalare. n

39
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

disturbo più comune era il "mal di cuore" (narahatz'y e qalb); molte


di loro addussero questa come ragione per abbandonare tale for­
ma di contraccezione, un problema che ebbe poi serie conseguen­
ze sull'intero sforzo di pianificazione familiare delle nascite. Fu
per noi una vera sorpresa constatare come le persone si lamentas­
sero del cuore in questi frangenti. Cominciando con la semplice
ipotesi che la gente in Iran bada molto al proprio polso e conside­
ra le palpitazioni una malattia, fummo spinti a seguire la domanda
"Cosa significa quando una persona dice "qualbim narahatdi", "il
mio cuore è affaticato o agitato" ?
li mal di cuore è a Maragheh una categoria di malattia (maraz).
I suoi sintomi vengono descritti in termini prettamente fisici. "li
mio cuore pulsa" (qalbim vurur); "li mio cuore trema" (qalbim
tt'ttz'rir), o "si agita" (chirpz'nz'r), o "batte forte" (dovinz'r, o tez tez
vurur); "il mio cuore si sente oppresso o schiacciato, annoiato o
solo" (qualbim sz'xilù; daruxz'r). Queste frasi sono spesso rappre­
sentate gestualmente, col pugno che batte sul petto, o le mani che
si schiacciano per illustrare un "cuore oppresso". Ciascuna di es­
se fa parte di una classe generale di sensazioni descritte come
"mal di cuore" (qalbim narahatdi, "il mio cuore è inquieto, agita­
to, nell'angoscia, in difficoltà o a 'dis-agio"').
li malessere cardiaco presenta diversi livelli di gravità. Secon­
do un informatore:

Se arrivo dal bazar, per esempio, e tu mi dici che è venuto mio fratello, il
mio cuore inizia a battere (vurur), perché ho paura che possa trovarsi in
una grana, o che qualcuno sia malato o cose del genere. Ma no, questa non
è proprio una malattia. Comunque, se non vado dal dottore e non prendo
qualcosa per risolvere il problema, può peggiorare. Potrebbe peggiorare al
punto che il mio cuore "va a dormire" (qalbim yattar). Questo può signifi­
care due cose: sia che la persona muoia (yol gider, "va a quel paese"), sia
che perda coscienza (behush, hesh ozu bilmirir, "non cosciente" , "non rico­
nosce nemmeno se stesso").
Lo sai, il cuore è come un motore, il motore del corpo. Se il cuore va
male, allora può finire male anche tutto il resto.

I problemi al cuore riguardano quindi un continuum che va da


una leggera eccitazione cardiaca a sensazioni di irregolarità car­
diache croniche, fino allo svenimento e all'attacco di cuore (sax­
teye qalb).

40
IL CUORE DEL PROBLEMA

Quanto riportato più sopra ci indica anche una caratteristica


centrale del mal di cuore: esso è un complesso di sensazioni fisi­
che associate a particolari stati d'ansia. Non tutte le volte che il
battito è veloce si pensa che sia segno di malattia. Alcune donne a
Maragheh ci dissero che i rapporti sessuali possono provocare o
aggravare la malattia, perché portano il cuore a battere forte, per
cui talvolta dovrebbero essere evitati. Ma ovviamente non tutte le
persone considerano l'accelerazione del battito durante il rap­
porto come un sintomo di malattia. D'altra parte, il cuore rappre­
senta spesso il soggetto dell'esperienza (per esempio, "il mio cuo­
re ti desidera ardentemente . . . "; vedi oltre), ma dire "il mio cuore
non si sente bene" non equivale semplicemente ad affermare "io
non sto bene" . n dolore o il disagio del cuore viene avvertito co­
me una sensazione fisica e come un livello di malattia che potreb­
be sfociare in un attacco di cuore. Quando alcune sensazioni fisi­
che si collegano a certi stati d'ansia, una persona etichetta le sen­
sazioni come sintomi di malattia. Un esame di questo complesso
di malattia deve perciò concentrarsi su quelle particolari ansie
che vengono espresse attraverso l'idioma del malessere cardiaco.
Prima di tutto verrà fornito un profilo epidemiologico generale
della malattia, verranno descritti due casi, e verrà discusso il mo­
dello esplicativo del cuore che fornisce la cornice cognitiva della
malattia. Ciò ci darà dunque i dati per un'analisi del significato
del mal di cuore nella medicina popolare di Maragheh e per un
esame del particolare insieme di forme di disagio sociale vissute e
descritte come disturbi cardiaci.
n mal di cuore a Maragheh è una malattia sperimentata comu­
nemente, in particolare dalle donne delle classi sociali più basse.
In un'inchiesta che abbiamo condotto su una popolazione di 750
persone, a Maragheh e in tre villaggi della zona circostante, ab­
biamo chiesto agli intervistati se qualcuno nella loro famiglia fos­
se stato affetto (maris) da "mal di cuore" nei precedenti otto me­
si; se sì, chi, quale cura fosse stata cercata, e quale si credeva fosse
la causa della malattia. Quasi il 40% di tutte le famiglie aveva
avuto almeno una persona che aveva sofferto di mal di cuore ne­
gli ultimi otto mesi. La tabella l indica l'incidenza del disturbo
nelle famiglie come riferito da uomini e donne. L'incidenza è
massima nelle famiglie di commercianti e di operai, ed è unifor­
memente più alta tra le donne rispetto agli uomini. Ciò accade

41
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

perché, come indicato in tabella 2, il mal di cuore è più frequen­


temente una malattia femminile, che colpisce in particolare don­
ne in età fertile. Di tutti i casi riportati, il 55 % erano donne tra i
15 e i 44 anni, e il 73 % donne dai 15 anni in su. Ma è importante
ricordare che la malattia non colpisce solo donne.
Quando agli intervistati si è chiesto quale credevano fosse la
causa della malattia, quasi il 40% delle cause segnalate era di na­
tura prettamente emotiva � interpersonale.6

Tabella l Incidenza dei problemi cardiaci in rapporto alla classe sociale (percen­
tuale di coloro che rispondono "sì" alla domanda: "Qualcuno in casa tua si è am­
malato di mal di cuore negli ultimi otto mesi?")

Classi sociali
Professionisti* Commercianti* Operai Contadini
( 1 12) ( 147) ( 138) ( 146)
Donne 35% 55% 62% 56 %
Uomini 20% 43 % 25% 34%

* Professionisti d i livello basso e commercianti di alto livello sono stato esclusi da


queste categorie.

(L'analisi della rete semantica svolta più sotto spiegherà in det­


taglio il mio criterio di raggruppamento delle qmse riportate.)
" Qus, qam, /ikr, xiyalet" (dispiacere, tristezza, preoccupazione,
ansia) sono state le risposte più comuni. Spesso veniva specifica­
to: dispiacere per una morte in famiglia; preoccupazione dovuta
alla povertà; preoccupazione o ansia per uno scontro con la sposa
o la suocera; angoscia nell'avere troppi figli stipati in uno spazio
vitale femminile angusto. Un uomo raccontò di avere divorziato
dalle due mogli precedenti perché non potevano dargli figli. La
sua terza moglie gli aveva dato un bambino, ma ora lui si preoccu­
pava delle donne da cui aveva divorziato. Un insieme correlato di
risposte (6%) lamentava problemi di nervi - nervi tesi, deboli o
stanchi - come causa del mal di cuore. Debolezza, stanchezza e
problemi di pressione arteriosa ( 13 % ) ; pillola contraccettiva,
gravidanza, aborto spontaneo, sterilità ( 16%); e una serie di pato­
logie particolari, tra cui polmonite, difterite, reumatismi, patolo-

6. Si è trovata una variazione molto poco significativa in rapporto alla classe so­
ciale nella causa attribuita al mal di cuore.

42
IL CUORE DEL PROBLEMA

gie epatiche, emorroidi (10%) sono state riportate tutte come


cause del male di cuore.
Quasi la metà (49%) dei malati cardiaci sono stati visitati da
un medico - anche di più (69%) se i pazienti erano più anziani.
In numero minore sono stati curati con medicine a base di erbe
(13 %), medicinali di vario tipo (7 %), o non sono stati curati af­
fatto (17 %). Virtualmente nessun paziente (l su 266) è stato cu­
rato per questa malattia da uno scrittore di preghiere.

Tabella 2 Composizione delle età delle persone che si dichiarano malate di cuore

Età 0-14 15-44 più di 45


donne uomini donne uomini
Casi totali
di mal di cuore 3% 55% 16% 18% 7%

D mal di cuore è vissuto quindi solitamente come un insieme


di sensazioni cardiache ritenute effetto di problematiche emotive
o interpersonali, della nascita di un bambino, di una gravidanza,
della contraccezione, o di una serie di malattie. È più comune
nelle donne e negli anziani (ma non è limitato a loro) e viene rego­
larmente curato da un medico, spesso più di una volta.
Due casi illustreranno più chiaramente la natura del mal di cuore.

PRIMO CASO

La signora Z. aveva 27 anni quando l'abbiamo incontrata per la prima


volta. Ha cinque figli di età compresa tra i 6 mesi e i 12 anni, tre femmine e
due maschi. Vive con suo marito (un commerciante di stufe nel bazar) e i
suoi cinque figli in una stanza della casa del suocero. L'altra stanza è occu­
pata dalla madre, dal padre e da due sorelle del marito. Usano tutti una so­
la cucina. La loro modesta abitazione è circondata da un muro di mattoni
di 15 piedi che racchiude un piccolo cortile con un serbatoio per l'acqua.
La casa dispone infatti di elettricità ma non di acqua. TI reddito della fami­
glia ammonta in media a 100 dollari al mese, più una piccola entrata della
cognata della signora Z., che lavora come sarta. La famiglia conduce una
vita semplice, il denaro basta per il cibo ma non per gli extra.
La signora Z. non è mai andata a scuola, è completamente analfabeta, e
non conosce il persiano. Non sa come contare i soldi e quelle poche volte che
va al mercato per fare la spesa deve essere accompagnata dal marito o dalla
cognata. Circa una volta a settimana si reca in visita dai suoi genitori, più po-

43
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETTO, METODI, TEORIE

veri della famiglia del marito, per pulir loro la casa. Altre uscite nel mondo
esterno sono limitate a rare occasioni di matrimoni, pochi riti religiosi fune­
bri, e una sporadica visita dal medico o presso una clinica pubblica. Perciò la
signora Z. trascorre quasi tutte le sue giornate entro i confini del cortile cin­
tato di casa sua, circondata dai figli e dalle donne della famiglia del marito.
Da quando la conosciamo, la signora Z. lamenta il mal di cuore. È con­
tinuamente afflitta da una condizione di astenia, anemia e magrezza. Poi­
ché soffre di tensione nervosa si lamenta del battito irregolare del cuore, e
di sensazioni di oppressione (darux) e sconforto. Tutto questo si è protrat­
to per diciotto mesi, senza significativi cambiamenti nei sintomi. Si lamen­
tava con chiunque stesse a sentirla - suo marito, i familiari, i vicini e gli an­
tropologi che andavano a trovarla. In un'occasione riferì a mia moglie che
si sentiva sempre come se dovesse urlare. Giustificava la sua situazione con
il fatto di avere 27 anni e di essere già madre di cinque figli, di sentirsi op­
pressa negli spazi stretti in cui viveva e di stare con la suocera, che era la pa­
drona di casa. Disse: "Mi sento come se dovessi gridare. Ma se tu mi sentis­
si, ti spaventeresti, per quanto forte griderei" . Sfogava il suo desiderio di
gridare litigando con la suocera almeno una volta a settimana, litigi accesi,
con urla e pianti che risuonavano oltre le pareti domestiche. n fatto che
questi litigi fossero uditi da tutti era motivo di grande imbarazzo, perché la
voce di una donna non dovrebbe sentirsi fuori dal suo cortile, il suo volto
non dovrebbe vedersi oltre l'intimità della sua casa.
Per evitare che la famiglia si ingrandisse, la signora Z., sollecitata dalle
vicine più istruite, ha preso pillole anticoncezionali per un breve periodo
di tempo (meno di un mese). Successivamente, ha riferito di avere avuto
palpitazioni, tremore alle mani e nervi tesi, tutti sintomi che aveva manife­
stato anche in precedenza, ma che credeva fossero peggiorati solo in segui­
to. Prima di cominciare ad assumere la pillola, aveva ingerito la dose di un
mese intero nel tentativo di procurarsi un aborto (per cui associava la pillo­
la all'aborto e alla contraccezione).
La signora Z. usava occasionalmente medicine a base di erbe sia per
una forma di astenia che per il mal di cuore. n medico, dal quale si era reca­
ta spesso per lamentare i suoi disturbi, le aveva prescritto un ricostituente a
base di vitamina B. Non ha mai ottenuto una guarigione duratura. Secon­
do la signora Z. a causare la sua malattia sarebbero stati i troppi figli, le
condizioni abitative opprimenti, la povertà dei genitori e la malattia croni­
ca del fratello minore (sofferente di cardiopatia da febbre reumatica), l'uso
passato della pillola contraccettiva, e il conflitto tra il desiderio di evitare la
gravidanza e quello di soddisfare comunque il marito. Queste condizioni
rimangono inalterate, e anche il suo mal di cuore.

SECONDO CASO

La signora B. è una donna di 34 anni con un diploma universitario.


Quando l'abbiamo incontrata per la prima volta occupava una posizione

44
IL CUORE DEL PROBLEMA

di responsabilità in un'organizzazione femminile. È sposata con un fun­


zionario statale diplomato all'università, che proviene da una vecchia fa­
miglia benestante di commercianti di Maragheh (tra i fratelli ci sono sia
commercianti benestanti del bazar sia professionisti) . Vive in una casa co­
stosa e ben arredata, con suo marito e due figli. Lavora parecchie ore in
ufficio, cucina lei per la famiglia, e si occupa dei figli con l'aiuto di una
donna anziana.
Quando l'abbiamo incontrata per la prima volta, la signora B. si la­
mentava occasionalmente di mal di cuore e tensione nervosa. Aveva inizia­
to a curarsi con tè a base di erbe acquistato al bazar. Si lamentava anche
dello stile di vita del marito che passava molto tempo con gli amici a bere,
parlare e fumare oppio, e a volte stava fuori la notte fino a tardi. Mentre
entrambi fingevano che lei non sapesse che lui fumava oppio, la preoccu­
pazione primaria della moglie era che potesse sviluppare una dipendenza
da questa sostanza (sebbene lui stesse abbastanza attento a evitare l' assue­
fazione). La signora B. faceva invece commenti taglienti e scherzosi sul
fatto che il marito fosse causa del suo mal di cuore (lui e i suoi amici, a tur­
no, giocavano a essere ciascuno terrorizzato dalle rispettive mogli).
Nella primavera del 1974, la suocera della signora B. ebbe un infarto, e
trasferita in un ospedale di Tehran, morì. La signora B., che prima era im­
pegnata a prendersi cura dei familiari che venivano a Maragheh, in seguito
per aiutarli andò con sua suocera a Tehran. Un giorno le fu comunicato che
i suoi figli avevano avuto un incidente d'auto. Ne rimase "violentemente
sconvolta" (batar disjindim) e poté apprendere solo parecchie ore dopo
che si erano salvati. Dopo la morte di sua suocera, tornò a Maragheh per
aiutare a organizzare le complesse cerimonie funebri. Poco tempo dopo ri­
cevette un altro "colpo" quando vide il marito di sua sorella in ospedale in
seguito a un incidente stradale. Da allora cominciò a lamentare depressio­
ne (darixma), oppressione al cuore, esaurimento nervoso e dolori colitici.
Si rivolse ai dottori locali per trattare i dolori addominali, e continuò a cu­
rare i problemi di cuore e di depressione con tè a base di erbe (che fungono
da leggeri sedativi). Durante la primavera divenne più schiva e iniziò a evi­
tare la gente.
Una sera, nell'estate del 1974, suo marito ritornò molto tardi da una
riunione con gli amici, benché avesse promesso il contrario. Quando entrò
in casa, e aveva naturalmente bevuto e fumato, lei andò su tutte le furie.
Pianse irrefrenabilmente per tutta la notte. Nei giorni seguenti la depres­
sione e il pianto proseguirono. Si recò da medici locali, poi da medici di Ta­
briz; le furono somministrati tranquillanti, ma non si sentì meglio e conti­
nuò a piangere senza controllo. In autunno riprese il lavoro, ma con un
orario ridotto.
Finalmente, parecchi mesi dopo il crollo, suo marito la portò a Tehran.
"Abbiamo incontrato molti neurologi" , lei ricorda, "ma senza risultato" .
"Alla fine quando mi recai dall'ultimo, mi chiese cosa non andasse. Co­
minciai a piangere e gli raccontai delle mie paure per mio marito, della mia
rabbia, e della mia giovinezza. Quando ero studentessa insegnavo e andavo

45
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

all'università. Mio padre morì in quel periodo, ma io dovevo continuare a


lavorare e andare all'università. Quando parlai della mia rabbia nei con­
fronti di mio marito, cominciai a sentirmi meglio."
n dottore le prescrisse tranquillanti, e la sua condizione andò migliorando
per tutto il resto dell'autunno e dell'inverno. Suo marito le promise di smet­
tere di fumare oppio e perse l'abitudine di tornare a casa tardi (lei dice che or­
mai, anche se rientra fuori orario, non si preoccupa più, perché sa che non fu­
ma oppio). Nell'estate del 1975 , la signora B. si sentiva praticamente guarita.

Questi due casi illustrano il contesto sociale e affettivo dell'e­


sperienza del mal di cuore. n primo caso è molto tipico. La signo­
ra Z. è povera, ha troppi figli, vive e litiga con la suocera e ha pau­
ra sia di una nuova gravidanza sia della contraccezione. n suo mal
di cuore si accompagna a un senso di debolezza, costrizione e de­
pressione. Va occasionalmente dal medico, ma la sua condizione
è essenzialmente inalterata e continua a essere vissuta attraverso
il paradigma del mal di cuore. n caso della signora B. è comincia­
to in un modo tipico, come effetto delle discussioni col marito e
della tensione nervosa causata dal lavoro. Quando la cura ha
mancato di focalizzarsi su questi elementi e si è aggiunto un ulte­
riore motivo di tensione, la sua condizione è avanzata verso un
nuovo stadio di "disturbo nervoso" (narahatiye asab). In questi e
altri casi di mal di cuore, la malattia è sentita come un complesso
che include e collega sensazioni fisiche di anomalia nel battito
cardiaco e sensazioni di ansia, tristezza o rabbia. Perché in questi
casi il cuore è il centro del problema? Perché certi stati d'ansia
vengono vissuti ed espressi come anomalie del cuore?
Sono i modelli esplicativi del funzionamento e del malfunzio­
namento del cuore a fornire la cornice culturale per cui gli indivi­
dui focalizzano l'attenzione sul battito cardiaco, etichettano alcu­
ne condizioni come sintomi di malattia, e stabiliscono legami cau­
sali tra irregolarità del battito e condizioni personali e sociali spe­
cifiche. I modelli esplicativi per il funzionamento del cuore, nella
medicina popolare a Maragheh, sono tratti in primo luogo dal pa­
radigma galenico. La precisa funzione del cuore fu infatti dibattu­
ta per secoli da medici e anatomisti greci, da studiosi e dottori isla­
mici, e più tardi dagli europei.7 Ma mentre alcuni aspetti del mo-

7. Questa descrizione è tratta da Galeno (1968), May (1968), Shaw ( 1972), Sie·
gel (1968), Wilson (1959) e Levey ( 1967). Per un'esposizione più completa vedi
Good (1976b, capitolo IV).

46
IL CUORE DEL PROBLEMA

dello potevano far discutere, la cornice generale per la compren­


sione del funzionamento del cuore rimaneva inalterata: il cuore è
allo stesso tempo un organo fisiologico centrale (collegato al calo­
re innato, alla nutrizione, e alla circolazione del sangue) e il luogo
delle emozioni (o la sede dell'anima vitale) nell'uomo.
Sarebbe inappropriato descrivere dettagliatamente in questa
sede la concezione classica, ma sia nella scienza greca sia in quella
islamica la teoria del cuore è basata sulla cosmologia. L'uomo è
un microcosmo facente parte di un universo più vasto, costituito
da una gerarchia ontologica a partire dal regno sublunare (di ge­
nerazione e decadenza), le sfere cosmiche, e il mondo intelligibile
di pura forma.8 Tutti i livelli della gerarchia ontologica sono rap­
presentati nell'uomo. n fegato è la sede della facoltà naturale e
degli appetiti umani più bassi; la sua funzione fisiologica primaria
è la trasformazione del cibo (crudo) nel sangue (cotto). n cervello
è la sede della facoltà razionale, che rende l'uomo capace di porsi
in relazione all'ordine intelligibile. La facoltà vitale o animale ri­
siede nel cuore che procura al corpo il "calore innato" e il "soffio
vitale" (pneuma o na/s), ed è il luogo delle emozioni, in particola­
re della paura e della rabbia ("perché esse coincidono con l'e­
spansione e la contrazione del respiro" - Ibn s-ma, 1930). La fun­
zione fisiologica primaria del cuore non è certo la circolazione,
ma il rifornimento del calore necessario alla vita e alla trasforma­
zione del respiro in pneuma, che dà vitalità al corpo. Se il cuore
non riesce a svolgere queste funzioni, in particolare se perde la
sua forza come fonte di calore innato, le conseguenze potrebbero
essere debolezza e morte. Nel caso di molte patologie, considera­
te dalla medicina moderna nei termini di malattie cardiache, Ga­
leno riteneva che i problemi di cuore fossero secondari e non pri­
mari. Egli pensava infatti che la rabbia e l'angoscia potessero cau­
sare dolore al cuore in quanto fonti di un calore eccessivo, così
come paura e spavento avrebbero potuto portare il cuore a sob­
balzare e a registrare un battito irregolare. Ma (per quanto ne so)
non descrisse mai la sindrome delle lievi palpitazioni e delle sen­
sazioni cardiache che a Maragheh è chiamata "mal di cuore" .
n modello esplicativo del cuore nella medicina popolare a Ma­
ragheh si colloca su una linea di continuità rispetto a questa lunga

8. Per una più completa esposizione vedi Good (1976a, capitolo m) e Nasr (1968).

47
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

tradizione: il cuore è un organo fisiologico pulsante, ma non re­


sponsabile della circolazione sanguigna; e al tempo stesso rivela
ed è influenzato dallo stato emozionale delle persone. Si crede in
generale che il sangue circoli (dolanlr, "va in giro") per garantire
nutrimento a tutte le parti del corpo. Alcuni credono che ciò de­
rivi dal movimento casuale del corpo, ( " questa è la ragione per
cui i piedi si sentono paralizzati se stai seduto immobile per trop­
po tempo" ) . Un uomo ha descritto una corrente (bati yel) che
spinge il sangue attraverso le vene, come l'aria che, soffiata con
un tubo in un recipiente colmo, causa il movimento del liquido
contenuto in esso. li cuore non è descritto come un lucignolo o
una fornace (Galeno), come una riserva di sangue (Aristotele), e
nemmeno, quindi, come una pompa. È chiamato talvolta "orolo­
gio" del corpo, puntando l'attenzione sulla regolarità del suo rit­
mo. Più spesso è indicato come motore del corpo: è la forza mo­
trice centrale; introduce ed espelle aria; e se viene alterato, tutto
l'organismo si blocca. Perciò i modelli fisiologici collegano cuore
e sangue solo approssimativamente, enfatizzando invece la cen­
tralità del cuore per la vita e concentrando l'attenzione sulla rego­
larità del battito all'interno di una normale funzione cardiaca.
La medicina popolare non fa speculazioni su un'anima vitale
che se ne sta nel cuore e controlla le passioni, ma "il cuore" è usa­
to a livello linguistico per esprimere i sentimenti e, conseguente­
mente, i problemi emotivi sono ritenuti causa di rflalattie cardia­
che. In una serie di espressioni, alcune delle quali hanno ancora
le corrispondenti forme inglesi, "il cuore" è trattato come il sog­
getto di esperienze emotive e come simbolo della vera essenza
della persona: uraylm lstlr ( "il mio cuore vuole . . . "); uraylmln dar­
dln klml dlylm ( " a chi posso dire il dolore del mio cuore " ) ;
uraylm kebab olur ("il mio cuore è cotto come un kebab" o "il
mio cuore è scottato" - si dice quando si descrive un evento tragi­
co); qalblm xaber verlr ("il mio cuore mi dà nuove notizie" - si di­
ce se si ha una premonizione) ; qalbldan qalba yol var ("c'è una via
tra un cuore e un altro" - si dice a una persona che si ama); zahre­
mar uraylvan bashlna (''veleno di serpente addosso al tuo cuore! "
- un'imprecazione) . La frase qalblm narahatdl ("il mio cuore è te­
so, oppresso, angustiato") fa parte di questa categoria di espres­
sioni. Il cuore fornisce cioè un idioma per esprimere l'emozione.
Oltre a ciò, comunque, si ritiene che il funzionamento del cuore

48
IL CUORE DEL PROBLEMA

sia direttamente e negativamente influenzato dalla tensione ner­


vosa e da sentimenti disforici - tristezza, paura, rabbia e ansia ge­
nerale. Tutto ciò porta a irregolarità nel battito dell"'orologio"
cardiaco, minacciando alla fine un blocco temporaneo o un attac­
co improvviso e la morte.
La concezione del cuore nella tradizione classica e nella medi­
cina popolare fornisce il modello esplicativo che lega le sensazio­
ni fisiche di anomalia cardiaca agli stati emotivi e all'esperienza
del disagio sociale. Essa procura la cornice teorica per l' espres­
sione di tensioni specifiche della società iraniana e di Maragheh
nel linguaggio del cuore. Ma perché alcuni turbamenti particolari
sono più comunemente considerati causa di mal di cuore? Per­
ché, per esempio, si crede così spesso che la pillola contraccettiva
provochi mal di cuore? Perché certe tensioni sociali sono ritenute
causa di mal di cuore, altre di spavento, angoscia nervosa, "rab­
bia" (asabanilix) o depressione? Un'adeguata teoria semantica
dovrebbe permetterei di esplorare il significato di questi tipi di
malattia in modo da rispondere a tali domande. Dovrebbe dirige­
re la nostra attenzione sull'integrazione di queste categorie di ma­
lattia nel loro contesto psicosociale di Maragheh.

SEMANTICA DEL CUORE

Un'analisi etnosemantica (o etnoscientifica) delle categorie di


malattia nella medicina popolare a Maragheh creerebbe una tas­
sonomia gerarchicamente ordinata di categorie, definite dai loro
confini, i cui significati sarebbero sostanzialmente indipendenti
dal loro contesto d'uso. Metodologicamente, l'etnoscienza stan­
dardizza in maniera rigorosa il contesto di estrapolazione dei da­
ti, creando un campo "analitico" non necessariamente congruen­
te col significato di una categoria così come viene usata in conte­
sti comunicativi tipici (vedi Schneider, 1965). Un'analisi di que­
sto tipo dirige la nostra attenzione altrove rispetto al contesto so­
ciale e simbolico che conferisce a una categoria di malattia la sua
configurazione semantica distintiva. ll mal di cuore è in realtà un
elemento della categoria più ampia di narahati, "angoscia" , e
un'analisi etnoscientifica può aiutare, per esempio, a dedurre le
distinzioni formali, sintomatiche tra "mal di cuore" e "spavento" .

49
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Ma è necessaria un'analisi semantica alternativa se vogliamo


esplorare la domanda "Cosa intendono esprimere la signora Z. e
la signora B. quando dicono 'il mio cuore è angosciato' ? " , se vo­
gliamo capire cosa significhi avere mal di cuore a Maragheh (o un
attacco di cuore a Peoria).
I lavori di Tumer, Izutsu e Fox propongono un modello di ana­
lisi semantica che costituisce un'importante alternativa al modello
etnoscientifico. Ciascuno di loro sostiene che un sistema di discor­
so possiede certi simboli che riuniscono il loro potere e il loro signi­
ficato collegando un complesso o un campo di simboli disparati e
condensandoli in una semplice immagine in grado di "richiamare
un nesso di associazioni simboliche" (Fox, 1975, p. 1 19). Tumer li
chiama "simboli rituali dominanti" (1967, p. 30); Izutsu, "parole­
chiave" (1964, p. 29); Fox, "termini-nucleo" (1975, p. 1 1 1). Questi
simboli raggiungono la loro profondità non attraverso una gene­
ralità tassonomica, ma attraverso la loro qualità polisemica - "la
proprietà di un simbolo di essere in rapporto con una gamma
multipla di altri simboli" (Fox, 1975, p. 1 19). Tali simboli-nucleo
si collegano tra loro in un rapporto polisemico con una rete di
simboli eterogenei che " tagliano trasversalmente le categorie
grammaticali convenzionali" (Fox, 1975, p. 1 10). "È proprio la
loro generalità che consente loro di abbracciare e riunire le idee e
i fenomeni più diversi" (Turner, 1967, p. 53 ). Compresi soggetti­
vamente, questi simboli o immagini condensano non semplice­
mente un campo di simboli, ma un'intera "sindrome di esperien­
ze" , come Lienhardt mostra per le divinità Dinka (Lienhardt,
1961, p. 161). "In quanto immagini, i Poteri condensano interi
campi di esperienza diretta e rappresentano la loro natura fonda­
mentale ciascuno mediante un unico termine" (Lienhardt, 1961,
p. 169). A livello metodologico, quindi, tracciare queste reti di
simboli ed esperienze dovrebbe consentire "uno sguardo sulla
struttura del codice culturale . . . " (Fox, 1975, p. 1 1 1), che per­
metta di discernere il significato degli elementi fondamentali di
un qualunque campo semantico.
Turner mostra come questi simboli rituali pregnanti raggiun­
gano il loro significato non semplicemente in quanto elementi al­
l'interno di un sistema simbolico, ma in quanto "forze" di intera­
zione sociale. Essi rappresentano 'grossomodo' l'esperienza so­
ciale nella collettività, mettendo in scena allo stesso tempo i prin-

50
IL CUORE DEL PROBLEMA

cipi ideologici o normativi più basilari del gruppo e una serie di


significata, "di solito fenomeni e processi naturali e psicologici"
(come il latte del seno, il seno, il sangue, o i genitali maschili e
femminili) (Turner, 1967, pp. 53 -54). Proprio in virtù del fatto
che connettono elementi sociali e dinamiche motivazionali di ba­
se, la manipolazione di questi simboli ha il potere di influenzare
l'azione sociale. Questi simboli-cardine giocano quindi un ruolo
cruciale nella formazione di un percorso simbolico che collega i
valori e le aspirazioni dell'interazione intenzionale, le tensioni, la
vergogna e i disagi delle contingenze sociali, e gli elementi emo­
zionali e in definitiva fisiologici della persona.
Questo modello suggerisce un metodo per avvicinarsi non me­
ramente ai simboli rituali, ma anche al linguaggio e al discorso
della malattia e della guarigione. Esso propone di scovare, per
analizzarli, i potenti elementi dell'idioma dell'interazipne sociale
e di esplorare le parole associate, le situazioni e le forme di espe­
rienza che essi condensano. Questi modelli associativi o reti se­
mantiche, che conferiscono significato agli elementi del vocabo­
lario della malattia e della salute, dovrebbero condurci fenome­
nologicamente alle tipiche situazioni di tensione all'interno di
una società e della personalità degli individui. Attraverso un tipo
di lt'bera associazione sociale, potremmo riuscire a entrare nel­
l'"orizzonte interiore" degli individui, nella " realtà particolare
così come viene appresa " (Percy, 1975, p. 79) e nello strutturarsi
significativo della realtà sociale.
La terminologia della malattia di cui abbiamo discusso (mal di
cuore, terrore, debolezza, nervi ecc.) dovrebbe rientrare in un'a­
nalisi di questo tipo. Seguendo il modello esposto finora, le cate­
gorie di malattia possono essere concepite come immagini che
condensano campi di esperienza, in particolare esperienze sner­
vanti. E possono essere intese come simboli-nucleo in una rete
semantica, una rete di parole, situazioni, sintomi e sensazioni as­
sociati a una malattia che acquisisce così un significato per il pa­
ziente. n significato di un termine relativo a una malattia viene
prodotto socialmente secondo l'uso che gli individui ne fanno
per articolare le loro esperienze di conflitto e angoscia, collegan­
dosi così a sindromi di stress tipiche della società. I significati dei
termini cambiano quando si alterano le condizioni e il contesto
sociale del loro uso. n significato di un termine di malattia po-

51
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

trebbe decadere o essere nuovamente costituito in quanto colle­


gato a una rete alterata di simboli e situazioni stressanti. Inoltre,
se la forma di analisi che abbiamo proposto risulta efficace, essa
dovrebbe rivelare sia la configurazione semantica distintiva di
ciascun termine di malattia, sia i modelli di associazioni sovrap­
poste di termini differenti. I nostri dati sul mal di cuore offrono
l'opportunità di intraprendere un'analisi di questo tipo.
Quando nella nostra indagine abbiamo chiesto alle persone la
causa di ciascun caso di mal di cuore nella loro famiglia, abbia­
mo ricevuto un lungo elenco di risposte. La figura l mostra ap­
punto le cause riportate, organizzate in categorie generali. Le
cause includono sensazioni di tristezza e ansia (qus o qam, /ikr,
xi'yalet, tristezza e lutto, preoccupazione, ansia) e i contesti di
queste sensazioni (morti, debiti e povertà, litigi, lotte, malattie in
famiglia); vecchiaia; gravidanza, parto e aborto; contraccezione;
senso di debolezza imputato ad anemia, pressione sanguigna più
o meno elevata, carenza vitaminica; problemi nervosi; paura o
malocchio; umidità e brutto tempo; e una serie di malattie con
nomi specifici.
Queste cause indicano chiaramente un vasto insieme di sen­
sazioni e situazioni sociali associate al mal di cuore. Nel traccia­
re i legami semantici tra gli elementi di questa lista, emergono
da un lungo elenco di cause i campi di signifidato associati a
gruppi di esperienza e a elementi strutturali fondamentali della
società.
Ne risultano due campi di simboli e di esperienza particolar­
mente significativi che potrebbero essere definiti "le problemati­
che della sessualità femminile" e "l'oppressione della vita quoti­
diana" . Questi due campi semantici sono rappresentati nelle fi­
gure 2 e 3 e sono descritti nelle pagine seguenti. Essi sono stati
sviluppati notando dapprima i legami semantici tra le cause enu­
merate per il mal di cuore (figura l ) , poi le associazioni comuni
che ampliano il significato dei termini collegati. (Per esempio, si
dice che la pillola contraccettiva evidenzi i segni dell'invecchia­
mento di una donna, e l'una e l'altra cosa sono associate alla steri­
lità). Tali nessi sono tratti dalle dichiarazioni degli intervistati, dai
sintomi riportati, o da modelli esplicativi della medicina popola­
re, e vengono unificati nelle reti semantiche rappresentate.

52
IL CUORE DEL PROBLEMA

Sesso, gravidanza, nascita di un figlio


(9% )

Debolezza, Pillola contraccettiva


anemia (lO%)
(11%)
Vecchiaia
Malattie (6%)
specifiche
(7 % ) Cuore
(6%)

Freddo, Nervi
umidità ecc. (8%)
(3 % )

Qus, qam, /ikr, xiyalet


(tristezza, lutto, preoccupazione, ansia) (40%)*

Paura, malocchio, Problemi Qus, qam Preoccupazione


rabbia (asabani) interpersonali (tristezza, lutto) per la povertà
(7 % ) (7 % ) (5 % ) (8%)

Figura l Elenco delle cause di mal di cuore (percentuali riferite alle risposte alla
domanda: " Qual è stata la causa del mal di cuore?").
* n 40% totale è costituito dalle risposte "tristezza, lutto, preoccupazione, an­
sia" più le quattro sottocategorie elencate in basso.

SESSUAilTÀ FEMMINILE: POTENZA E CONTAMINAZIONE

Le donne a Maragheh si lamentano spesso che prendere la pil­


lola contraccettiva causi loro una serie di disturbi, i più frequenti
dei quali sono palpitazioni cardiache e mal di cuore. Esse credo­
no anche che causi perdite tra un ciclo e l'altro o riduca il flusso
mestruale. Pensano che la pillola le faccia sentire deboli (za'if) e
con "poco sangue" (qansiz), che generi tremore alle mani e ten­
sione nervosa. Ritengono inoltre che faccia perdere il latte mater­
no (e andrebbe quindi evitata durante l'allattamento), che pro­
sciughi il ventre e riduca la fertilità.
Come viene mostrato nella figura 2, la pillola contraccettiva,
associata a numerose altre cause addotte per il mal di cuore, dà
luogo ai seguenti legami semantici.

53
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Mal di cuore - pillola contraccettiva - sangue mestruale - conta­


minazione: tutto il sangue mestruale è tradizionalmente fonte di
contaminazione (najes). Talvolta la pillola è usata durante il mese
del digiuno (Ramadhan) o durante il Pellegrinaggio (Hajj) per
prevenire le mestruazioni e la contaminazione che rovinerebbero
entrambe le ricorrenze. Le perdite di sangue tra un ciclo e l'altro
sono un grave effetto collaterale della pillola perché causano con­
taminazione, rendendo impossibile la preghiera (namaz) o il rap­
porto sessuale. Pillola contraccettiva - debolezza - mestruazioni: le
donne lamentano l'indebolimento causato dalla pillola che nel
galenismo popolare corrisponde a insufficienza di sangue.9 An-

Sangue ------ Sangue sporco Contaminazione

l
Gravidanza --
--:.�;;::=== Mestruazioni,
/
sangue uterino

Debolezza
MID=• di�
Nascita di un figlio Pillola contraccettiva
Aborto

� Sterilità
Mancanza
di vitalità

1------ v,crrua;, /
l
Dispiacere,
tristezza
(Qus, Qam)

Figura 2 Sessualità femminile: potenza e contaminazione.

9. "Alcuni ritengono che la forza del corpo dipenda dall'abbondanza di sangue;


che la debolezza sia associata alla scarsità di sangue. Ma non è così. È piuttosto così,
che lo stato del corpo determina se il nutrimento sarà a esso benefico o meno" (Ibn
Sina 1930, p. 87).

54
IL CUORE DEL PROBLEMA

che le mestruazioni causano debolezza. "È la natura delle donne


quella di essere deboli", ci hanno detto, in parte perché perdono
sangue regolarmente attraverso il mestruo. Nascita di un figlio -
sangue uterino - pillola contraccettiva - contaminazione: aborto e
aborto spontaneo, gravidanza e parto normale sono concepiti co­
me cause di mal di cuore e sono messi in relazione all a pillola per­
ché ciascuno implica sangue uterino contaminato. Dopo il parto
una donna è abitualmente considerata sporca (najes); il decimo
giorno si reca a bagnarsi per il lavaggio rituale (ghosl), ma non è
ritualmente pura (e non le è neanche permesso di avere rapporti
sessuali) fino a quando non si sarà sottoposta al rito del bagno del
quarantesimo giorno. n sangue del parto (o dell'aborto) è una
delle dieci o dodici categorie di nejasat, elementi ritualmente
considerati contaminati o sporchi, un gruppo che comprende le
feci, l'urina, e il sudore prodotto dall'attività sessuale. Gravidanza
- sangue mestruale - sangue sporco - pillola contraccettiva: il sangue
mestruale è considerato "sangue sporco" (kasi/ qan) che provoca
scurimento della pelle e dolori del corpo, e che dovrebbe essere
eliminato attraverso scarificazione o sanguisughe. [Il sangue
sporco è una versione popolare della teoria galenica dell'umore
morbifero atrabilioso che, se presente nel corpo, dovrebbe essere
espulso attraverso flebotomia (lbn Sina, 1930)]. La pillola con­
traccettiva potrebbe causare un flusso mestruale ridotto e perciò
una malattia dovuta a sangue sporco. Domandai a una donna se
le donne incinte, che non hanno sanguinamenti mestruali, fosse­
ro malate di sangue sporco. "I primi mesi di gravidanza la madre
si sente spesso molto a disagio", mi chiarì "ma passato quel perio­
do il bambino dentro diventa abbastanza grande da cominciare a
bere il sangue. Per questo motivo, la madre spesso si sente meglio
durante gli ultimi mesi di gravidanza". Un'altra donna riferì di
avere eliminato il sangue con salassi (hajamat) durante il settimo
mese delle sue gravidanze affinché i figli non apparissero così
scuri (qara). I bambini con la pelle chiara infatti sono considerati
più belli, mentre il sangue sporco determinerebbe il colore scuro
della pelle del volto. n modello concettuale del bambino che assi­
mila il sangue sporco nel ventre materno sembra essere confer­
mato anche dalla vecchia tradizione di salassarlo per diversi mesi
dopo la nascita. Piccoli taglietti venivano praticati in cima alla te­
sta e sulle giunture per facilitarne l'eliminazione. (Sembra che

55
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

questa tradizione fosse diffusa nel passato, ma è raramente pre­


sente ai nostri giorni). Così la gravidanza e la nascita, la debolezza
e la pillola contraccettiva sono collegate, semanticamente e nel­
l'esperienza delle donne, al sangue sporco e alla malattia, al san­
gue mestruale e alla contaminazione.
Pillola contraccettiva) sterilità e vecchiaia: la convinzione diffusa se­
condo la quale la pillola contraccettiva costituisce una minaccia
per la fertilità e l'allattamento, ha indotto le donne a pensare che
si dovrebbe evitare di prenderla prima di avere avuto dei figli.
D'altra parte, essa viene impiegata proprio a scopo antifecondati­
vo e, se necessario, per cercare di procurarsi un aborto. Ovvia­
mente, per donne prive di istruzione e di nozioni generali riguar­
do al concepimento e agli effetti inibenti della pillola sull'ovula­
zione, sarebbe fondamentale la formulazione di un modello
esplicativo. Sebbene non ne esista uno ben definito, si crede co­
munemente che lo sperma stazioni nel "ricettacolo" femminile e
si sviluppi fino alla formazione del feto. La contraccezione dun­
que implicherebbe un danno al ventre, rendendolo un ambiente
inospitale. In quanto minaccia alla vitalità e alla fertilità, la pillola
contraccettiva è collegata alla vecchiaia, alla menopausa (perdita
della fertilità e della potenza sessuale) e allo stadio della vita in
cui il fisico diventa freddo e asciutto. Si dice che in questa fase le
donne debbano temere la perdita dell'interesse da parte dei loro
mariti e addirittura il divorzio. Una giovane universitaria, a Ta­
briz, ha espresso chiaramente molte di queste relazioni semanti­
che: "Le donne qui dicono che è una cosa molto brutta avere san­
guinamento ridotto durante il periodo mestruale [a causa della
pillola contraccettiva] perché si invecchierà prima e il volto e le
mani diventeranno come quelle di un uomo".
Una delle fondamentali chiavi semantiche del mal di cuore è
costituita quindi da un complesso di preoccupazioni comuni al­
l'esperienza della donna iraniana: è sessualmente attiva e attraen­
te per gli uomini; la sua potenza è pericolosa e deve essere segre­
gata; la sua fertilità e la sua attrattiva sono però regolarmente ro­
vinate da stati di contaminazione e infine minacciate dall'arrivo
della vecchiaia. Il complesso della sessualità femminile porta a un
tipico insieme di tensioni che le donne vivono ed esprimono co­
me mal di cuore. Ma visti a livello sociologico, questi modelli di
stress sono più di un insieme di esperienze tipiche; sono collegati
a compagini culturali e sociali fondamentali della società irania-

56
IL CUORE DEL PROBLEMA

na. Un breve schizzo di queste caratteristiche strutturali indi­


cherà il contesto del complesso che è stato descritto.10
La sessualità femminile è circondata in Iran da una grande
ambivalenza. Un primo motivo lo si riscontra nel fatto che, se­
condo l'ideologia popolare persiana, le donne esercitano un'at­
trattiva quasi magica sul mondo maschile. I loro capelli hanno il
potere di eccitare e dovrebbero essere coperti da un velo per evi­
tare provocazioni involontarie (una caratteristica descritta da Fi­
scher come "la componente dei 'capelli magici' " ; 1975, p. 24); i
loro occhi potrebbero risvegliare la passione maschile e dovreb­
bero stare lontani dai volti degli uomini al di fuori delle relazioni
intime. Da un lato, la potenza di una donna può attrarre il mari­
to, far nascere in lui amore appassionato e geloso, e procurarle in
cambio la sua devozione, fedeltà e ricchezza. Dall'altro, questa
potenza è pericolosa e dev'essere sorvegliata; nessun uomo do­
vrebbe entrare in casa di un altro quando sua moglie è sola, a ec­
cezione di un parente molto stretto. Le donne che escono di casa
dovrebbero essere velate e accompagnate dal marito, dai figli o
dai parenti del medesimo sesso. Quest'ambivalenza è dimostrata
dal carattere di alcuni uomini di cui si dice abbiano "il cuore ne­
ro" (qara qalbi). Gli uomini dal cuore nero possono tenere le loro
mogli totalmente segregate, sospettando di ogni loro contatto
con altri uomini e reagendo costantemente con gelosia (hasud) .
Un mio amico, funzionario statale, era noto per avere "il cuore
molto nero " . Agli inizi del matrimonio, chiudeva sua moglie nel
cortile e andava per affari nei villaggi, ogni volta per diversi gior­
ni, portando con sé l'unica chiave che possedevano. Eccessi di
questo tipo sono estremamente penalizzanti per le donne, ma
per una moglie, il cuore nero del marito si può prestare anche a
un'interpretazione romantica, in quanto segno di un amore ap­
passionato per lei.
Un'altra ragione di ambivalenza culturale verso la sessualità
femminile, è rappresentata dal fatto che le donne danno alla luce

10. Si potrebbe notare en passant che l'uso dell'idioma del cuore è diffuso in tut­
to il Medio Oriente. Per esempio, Waziri (1973, p. 2 15) nota che molti pazienti de­
pressi in Mghanistan "descrivevano la loro sensazione 'come se wta forte mano pe­
sante stesse stritolando' il loro 'cuore' . . . Questo era il sintomo più frequentemente
sottolineato, dal quale il paziente voleva guarire". Un'analisi del tipo che ho sugge­
rito rivelerebbe somiglianze e differenze nei casi afghani e iraniani.

57
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

i figli - soprattutto maschi - per gli uomini, ma l'onore degli uo­


mini può essere facilmente distrutto dall'immodestia delle don­
ne. L'uomo può dimostrare la sua virilità e avere discendenza solo
grazie a donne fertili (la prova di verginità prima del matrimonio
e la segregazione della novella sposa sono necessari per assicurare
che la prole sia del marito; come mi disse uno scrittore di pre­
ghiere, spiegandomi l'uso del nome di una persona e di quello di
sua madre nella pratica divinatoria, "non puoi mai davvero sape­
re chi è il padre"), ma il suo onore può essere preservato solo da
una donna modesta. L'immodestia di sua moglie, di sua figlia, di
sua sorella o della figlia di suo fratello (in quest'ordine) gli farà
perdere la faccia (abir, aberuh) e gli causerà una più duratura per­
dita dell'onore (shera/at). Le donne iraniane, specialmente in un
villaggio conservatore come Maragheh, sono quindi condiziona­
te da un codice di modestia relativamente severo. In particolar
modo, una donna dovrebbe essere "heya ve esmati" . Dovrebbe
cercare di non attrarre l'attenzione degli uomini, rimanendo vela­
ta e cauta.

Una donna immodesta (biheya, o yaman) è "sfacciata" , e "senza paura


degli uomini". Idealmente, la voce di una donna non dovrebbe sentirsi ol­
tre il perimetro del suo cortile. Se un bambino corre in strada e la madre
deve inseguirlo, se è costretta ad alzare la voce e gli uomin�la sentono, allo­
ra gli altri diranno "heyavu hi/s ele", " (Che Dio) protegga fa tua modestia".

Le donne a Maragheh sono perciò recluse entro i confini nor­


mativi di sobrietà e purezza. n loro potere sessuale rappresenta
una minaccia per la modestia e deve essere gelosamente sorveglia­
to. E la contaminazione mestruale è una minaccia per la loro devo­
zione personale e per la purezza dell'intera casa. Nei sermoni indi­
rizzati alle donne durante le cerimonie religiose e nelle conversa­
zioni tra donne, secondo quanto riferito da mia moglie, tre sono
gli argomenti più frequenti: indossare il chador (velo), fare l'op­
portuno bagno rituale (ghosl), dire adeguatamente le preghiere ri­
tuali (namaz). In questo modo modestia, purezza, e religione sono
collegate come pilastri di una vita femminile adeguata.
Queste generali strutture socioculturali forniscono la cornice
per l'insieme delle tensioni che circondano la sessualità femmini­
le, a cui si dà voce nei termini di mal di cuore. La cornice non è

58
IL CUORE DEL PROBLEMA

statica, va intesa piuttosto come un idioma flessibile attraverso


cui vengono espresse notevoli variazioni individuali, di classe e
contestuali. Essa fornisce la struttura entro cui si generano le tipi­
che esperienze di conflitto e tensione, esperienze che abbiamo
schematizzato nella rete semantica descritta in precedenza. È in
questo contesto che i lamenti circa il mal di cuore e il desiderio di
mettersi a gridare da parte della donna, nel primo caso possono
essere compresi come forma di protesta per l'essere segregata en­
tro i confini angusti del cortile e come un desiderio di fuga non
semplicemente dalle alte mura che circondano la sua casa, bensì
dai ben più alti confini del "comportamento modesto". Una pro­
testa diretta contro le norme di modestia e purezza sarebbe certa­
mente impensabile perché sono proprio queste a definire l' ap­
partenenza al gruppo sociale. Ma la rete semantica rende chiaro
che un significato implicito dei lamenti di mal di cuore, da parte
della donna, è l'insieme di restrizioni, la cui osservanza è - a Ma­
ragheh - condizione dell'appartenenza sociale.

L'OPPRESSIONE DELLA VITA QUOTIDIANA

n secondo significativo complesso di concetti associati al mal


di cuore include la tristezza e l'angoscia, la preoccupazione circa
le condizioni di vita generali, e il conflitto interpersonale (vedi la
figura 3 ). Sia gli uomini che le donne attribuiscono il loro mal di
cuore a queste cause.
Mal di cuore - angoscia - perdita - Moharram - vecchiaia: si dice
spesso che il mal di cuore sia causato dalla tristezza e dall'ango­
scia (qus o qam), da sensazioni generali di malinconia, da una
perdita specifica o dalla morte. Un lutto eccessivamente protrat­
to, sia legato alla perdita di una persona cara sia come parte dei
riti Moharram, è pericoloso per il cuore. n complesso di ango­
scia e il senso di tristezza hanno profonda risonanza nella cultura
iraniana. n rituale sciita, centrale durante il Moharram, mette in
scena il martirio di Imam Hossein, l'adorato nipote del Profeta,
e dei suoi settantadue seguaci, sulla polverosa pianura di Kerba­
la. I rituali sono strutturati in modo specifico per provocare il
pianto di tutti i partecipanti e degli osservatori, insegnando il ve­
ro significato di qus e qam. n rituale di dodici giorni ripete una

59
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Vecchiaia -------­
Moharram,
cerimonie funebri rituali

Dispiacere, tristezza
..----- l
Morte, perdita
qus, qam

Preoccupazione
di povertà,/ikr

Ansia, xiyalet

U"
Problemi interpersonali

eo.
� �·· " ·uo=

Pazzia

Figura 3 L'oppressione della vita quotidiana.

lunga serie di addii pieni di angoscia, quando, uno alla volta, la


famiglia e i seguaci di Imam Hossein si danno l'addio e vanno in­
contro al loro martirio. I nipotini, i figli, e infine il fratello di
Imam Hossein danno l'addio alle loro madri, alle sorelle e ai pa­
renti, si strappano alla famiglia e vanno in battaglia. Al centro
del dramma sta Imam Hossein, "l'estraneo solitario del luogo
del disastro" , " quello irretito nel dolore e nella tristezza (qam)
del mondo", "che vaga lontano dalla patria e dalla famiglia, [. . . ]
per essere martirizzato sul campo di Kerbala" (da un testo rac­
colto nel 1974). Questo complesso di sentimenti, suscitati e am­
plificati durante queste rappresentazioni, fornisce il modello
dell'angoscia e della malinconia anche in altri contesti.
I funerali con celebrazioni e riti commemorativi complessi, an­
che detti "feste nere" (qara bayram), a Maragheh sono frequenti e

60
IL CUORE DEL PROBLEMA

particolarmente vivaci. La loro struttura rituale, il significato, e il


tenore emotivo sono modellati ed esperiti all'ombra del Mohar­
ram. L'esperienza della tristezza, di qus e qam, spesso associati al
mal di cuore, è un'intima parte di questo modello più ampio. Le
morti dei parenti - un genitore, un fratello, un figlio - sono indi­
cate come causa del mal di cuore. E la partecipazione ai mersias
(cerimonie religiose funebri femminili), molto comuni tra le don­
ne anziane, è ritenuta dannosa per chi ha problemi di cuore. Per­
ciò il complesso di significati associati a qus e qam aggiunge
profondità emotiva al senso del mal di cuore.
Qus e qam hanno anche il significato di una depressione gene­
rale, associata al conflitto interpersonale e alle ansie che accom­
pagnano la povertà. Mal di cuore - ansia - problemi interpersonali:
i problemi interpersonali, i litigi e i conflitti sono spesso ritenuti
causa di mal di cuore. I conflitti tra marito e moglie (vedi il se­
condo caso) e tra una donna e sua suocera (vedi il primo caso)
sono stati comunemente riferiti nell'inchiesta come cause di mal
di cuore. Quelli con la suocera sono profondamente radicati. La
cerimonia matrimoniale mette in scena un avvicinamento spiri­
tuale della sposa alla casa del suocero nel cuore della notte, e una
rappresentazione dell'impreparazione di suo padre a !asciarla
andare. Tradizionalmente, la sposa dovrebbe trasferirsi nella ca­
sa dei genitori del marito e vivere sotto la sorveglianza e la tutela
della suocera per molti anni. Una volta che il marito avesse rag­
giunto l'autonomia finanziaria o i dissidi in famiglia aumentasse­
ro eccessivamente, la giovane coppia se ne andrebbe finalmente
ad abitare in una nuova casa di sua proprietà. In vecchiaia, la
suocera tornerebbe spesso con il figlio e la nuora. Se da un lato
esistono ampie variazioni di questo modello generale, dall'altro
esso fornisce tuttora la cornice delle tensioni che incombono su
molte donne sposate. Secondo la nostra inchiesta, le madri dei
mariti vivevano nel 24% dei casi nell'abitazione in cui risiedeva
il nuovo nucleo familiare del figlio, il padre del marito vi risiede­
va nel 28% dei casi, e la madre o il padre della moglie in meno
del 2 % dei casi. L'esperienza dello stress di queste situazioni è
spesso espressa (da uomini e donne) sia in termini di mal di cuo­
re che di problemi nervosi.
Mal di cuore - problemi interpersonali - disturbi nervosi - sangue­
pazzia: il mal di cuore viene spesso strettamente associato, nelle

61
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

descrizioni dei vari disturbi, ai nervi tesi o deboli in contesti in­


terpersonali difficili. La tensione nervosa (narahatiye asab) è più
spesso contrassegnata da irritabilità e stanchezza o insofferenza
(hurselisiz) nelle relazioni personali. Viene collegata a problemi
di sangue: "Asabim qatishù; qan qalxdi bashima} fishar geler" "Ho
i nervi scossi, mi è salito il sangue alla testa, e sento che la pressio­
ne del sangue aumenta" . Una persona che soffre di crisi acute di
nervi è chiamata asabani (asab = nervi, asabani = rabbia) . Una
persona asabani è estremamente suscettibile, è perennemente in
collera, e "ha la testa calda". Una condizione del genere può an­
che sfociare nella pazzia. (Una persona pazza è dali - matta -, qi­
zirmish - surriscaldata.)
Mal di cuore - preoccupazione legata alla povertà: il mal di cuore, i
disturbi nervosi, la tristezza, l'ansia, la rabbia - tutte queste condi­
zioni possono essere causate o esacerbate dalla povertà. Debiti e
preoccupazioni (fikr) legate al denaro vengono spesso indicati co­
me cause specifiche del mal di cuore. "Siamo poveri, non abbiamo
soldi, soffriamo tutti di cuore", affermeranno, retoricamente, un
operaio o una donna di modesta estrazione sociale. Ed è dimostrato
che varie condizioni associate al mal di cuore sono maggiormente
diffuse e più gravi nelle famiglie appartenenti a strati sociali inferio­
ri, colpiti dalla povertà. Molte persone, in queste famiglie, vivono
stipate in poche stanze, fattore scatenante di tensioni particolari tra
le donne di una casa. Ed è una costante l'ansia per la sopravvivenza
quotidiana, che accresce la tensione delle relazioni interpersonali.
Un'analisi di questo tipo della rete semantica è finalizzata a de­
finire il significato di mal di cuore per come esso è vissuto dalla po­
polazione di Maragheh. Non è una "categoria" precisamente deli­
mitata, nettamente distinta da altre. "Mal di cuore" è un'espressio­
ne usata talvolta per nominare una malattia, in altri casi designa un
sintomo oppure la causa di una malattia diversa. E condivide gran
parte dell'area semantica di parecchie altre forme di "male" (na­
rahatz'), come la tensione nervosa o la paura. Ma il mal di cuore ha
un'unica configurazione di significato, che abbiamo delineato co­
me una rete simbolica che si sovrappone solo parzialmente alle al­
tre malattie. La conoscenza di questa rete dovrebbe permettere a
un osservatore (o a un terapeuta) di formulare rapidamente delle
ipotesi relative ai problemi che un paziente che lamenta "mal di
cuore" deve affrontare. L'analisi semantica ci permette anche di ri-

62
TI.. CUORE DEL PROBLEMA

spondere alla domanda che ci ha inizialmente condotto a indagare


il mal di cuore mentre ci trovavamo sul campo: "Perché l'uso della
pillola contraccettiva porta alle palpitazioni cardiache? " "Perché
il cuore, più che la testa, lo stomaco o i nervi?" La risposta è che la
pillola contraccettiva è associata a una serie di altri fattori: me­
struazioni, sterilità, attrazione fisica, rapporti sessuali, parti inte­
granti della rete di significato del mal di cuore, legati semantica­
mente più strettamente al cuore che alla testa, allo stomaco o ai
nervi. La pillola contraccettiva scatena delle tensioni più comune­
mente conosciute come mal di cuore. Ciò porterebbe a concentra­
re l'attenzione di chi ne fa uso sul ritmo del battito cardiaco, con
un conseguente aumento dell'ansia che, anziché essere comunica­
ta verbalmente, troverebbe espressione nel linguaggio del corpo.
In conclusione, il significato del "mal di cuore" non rimanda a
una qualche entità patologica del "mondo reale" cui il termine si
riferirebbe, né a un insieme di discriminazioni lungo dimensioni
culturalmente specificate che lo escluderebbero da un insieme di
altre definizioni di malattia. Il significato del mal di cuore non
esprime nemmeno una particolare tensione a livello della struttu­
ra sociale, benché esso sia collegato a complessi di tensioni sociali.
li mal di cuore è un'immagine che racchiude una rete di simboli,
situazioni, motivi, sentimenti e tensioni radicati nell'assetto strut­
turale in cui vivono gli abitanti di Maragheh; è un elemento di un
linguaggio o idioma della malattia, di quello che Foucault chiama
un "ordine di discorso" (1966); è un progetto pubblico, collettivo,
una rappresentazione corale, con aree di significato che travalica­
no i limiti della coscienza individuale, cronologicamente indivi­
duata. Sebbene non riconosciute esplicitamente, queste associa­
zioni dettagliate conferiscono significato e profondità all' espe­
rienza di uomini e donne soggetti a un cuore turbato o inquieto.

IL CONTESTO COMUNICATIVO DEL MAL DI CUORE:


FAMIGIJA E TERAPIA

Ho sostenuto fin qui che il significato di un termine atto a de­


signare una malattia, se definito come un insieme di sintomi ca­
ratteristici o come uno stato fisiologico, non è costituito sempli­
cemente dalla sua relazione con una "patologia" , bensì dalla con-

63
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETTO, METODI, TEORIE

fluenza di un complesso di simboli, sensazioni e tensioni in


un'immagine intensa, e quindi profondamente integrata nella
struttura di una comunità e della sua cultura. E il significato di un
termine di malattia si costituisce quando viene usato nell'intera­
zione sociale per esprimere l'esperienza del disagio e determinare
un'azione che eliminerà quel disagio. È nell'intenzionale utilizzo
del linguaggio medico in particolari contesti istituzionali e comu­
nicativi che si generano e si modificano le reti semantiche. Un at­
tento esame dell'uso del linguaggio del cuore nell'interazione so­
ciale ci aiuterebbe a capire in che modo l'espressione del "mal di
cuore" sia efficace nel determinare la guarigione del malato nel­
l' ambito di quelle particolari forme di tensione che ho descritto.
Qui posso solo fare qualche proposta.
Il mal di cuore è innanzitutto una malattia autodiagnosticata,
per la quale raramente si pensa alla necessità di una diagnosi.
Mentre una persona affetta da mal di cuore non è propriamente
esentata dagli obblighi quotidiani del suo ruolo, certi privilegi
sono concessi solo a chi viene riconosciuto legittimamente afflit­
to da un disturbo cardiaco. Innanzitutto, il malato può aspettar­
si espressioni di partecipazione e preoccupazione in risposta ai
suoi lamenti. Molto spesso però questi sono gli unici privilegi o
attenzioni garantite. (11 2 1 % dei casi della nostra inchiesta han­
no dichiarato di non aver ricevuto alcun tipo di cora). In secon­
do luogo, se viene riconosciuta la gravità della rri alattia, il pa­
ziente può contare su alcune forme di cura: prima un trattamen­
to a base di erbe, poi dei medicinali veri e propri, e infine un
viaggio per recarsi dal medico. La terapia più comune è la pre­
scrizione di vitamine (specialmente iniezioni di vitamina B) o di
tranquillanti (di solito il valium). In terzo luogo, chi soffre di mal
di cuore potrebbe richiedere ai familiari dei cambiamenti di
comportamento. Questi privilegi, comunque, saranno garantiti
solo se i lamenti saranno riconosciuti legittimi. È precisamente
nell'ambito di questo processo reciproco - di riconoscimento
del malato e di privilegi garantiti dal suo stato di salute - che av­
vengono le negoziazioni.
I nostri casi esemplificano tale processo. La signora B. risentiva
del comportamento di suo marito, espressione simbolica di uno
stile di vita tradizionale o antiquato. Fumare oppio, bere vodka,
sperperare grandi quantità di denaro al gioco, passare ore a bighel-

64
IL CUORE DEL PROBLEMA

lonare con gli amici sono tutti status symbols che denotano uno sti­
le di vita decadente, tipico dei proprietari terrieri e dei mercanti di
lunga tradizione a Maragheh. A differenza del marito, che proveni­
va da quel ceto sociale, la situazione della signora B. rispecchiava
una fase di ascesa sociale, dalla classe media tradizionale a quella
moderna. Vedeva il comportamento di suo marito non solo come
una minaccia per la sua salute, ma anche per il raggiungimento di
quello status che si sforzava di perseguire per se stessa e per i suoi
figli. Le battute della signora B. relative alla pigrizia del marito che
le causava dolori al cuore erano un'espressione diretta di questo
sentimento. E i suoi precoci lamenti di mal di cuore possono essere
interpretati come sforzi di negoziare cambiamenti del suo compor­
tamento attraverso l'uso retorico del linguaggio della malattia. Alla
signora B. sono state offerte partecipazione, cure, e visite dal medi­
co, ma è stato solo quando la malattia si è aggravata - una seria "pa­
tologia nervosa" (maraze asab) - che è stata in grado di determinare
mutamenti nello stile di vita di lui.
ll primo caso, quello della signora Z., illustra meno drammati­
camente l'uso dell'idioma del cuore per ottenere miglioramenti
nel modello di interazione familiare; Ma in questo senso è anche
tipico, in quanto molti degli stress che implicano il mal di cuore
sono inalterabili, basati sul più ampio contesto strutturale in cui
si vive. A causa delle condizioni di indigenza in cui versava la fa­
miglia, la signora Z. e i suoi figli erano costretti in due stanze
affollate, col marito e i genitori di lui. Ma costoro erano impoten­
ti di fronte a una situazione di tal fatta. Usando il linguaggio so­
matico, la signora Z. poteva dar voce alla sua insoddisfazione e
ottenere la partecipazione dei vicini e delle altre donne di casa,
compresa la suocera con la quale litigava costantemente. Lamen­
tandosi della sua condizione, mentre il marito ascoltava nella
stanza accanto, era riuscita a influenzarlo grazie al supporto di
tutte loro. Sebbene lui non potesse cambiare radicalmente le
condizioni di vita in cui la moglie si trovava costretta, poteva co­
munque accompagnarla dal medico e comprarle gli integratori
che le erano stati prescritti. Riuscì perfino a costringerlo a un
cambiamento più particolare: la signora Z. era molto combattuta
tra la paura di avere altri figli e l'ansia di prendere la pillola con­
traccettiva. Quando la pillola la fece ammalare, riuscì a obbligare
il marito a prendersi la responsabilità della contraccezione.

65
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETIO, METODI, TEORIE

I medici specialisti giocano un ruolo minore in questo processo.


Essi vengono consultati molto spesso per il mal di cuore, ma essen­
dosi formati all'interno della medicina cosmopolita [biomedicina,
ndt] , ritengono che il mal di cuore sia di origine nevrotica, con­
trapposta a somatica, e quindi che non sia un reale disturbo. Alcu­
ni giovani medici a Maragheh riconoscono la necessità di permet­
tere a una paziente affetta da mal di cuore di parlare dei suoi pro­
blemi. Ma la reazione più comune è quella di auscultarne il cuore
con lo stetoscopio, dirle "non è niente, sono solo i suoi nervi", e
quindi prescriverle un integratore o un tranquillante. Questa inte­
razione, che costituisce un esempio dell'inadeguatezza del rappor­
to medico-paziente presente in Iran (Good, 1976b), non è assolu­
tamente in grado di sviscerare il significato del disturbo, di portare
la paziente e la sua famiglia a una comprensione cosciente delle di­
namiche della malattia. La visita dal dottore e l'acquisto di farmaci
hanno in effetti una funzione terapeutica: alla paziente si permette
un viaggio fuori casa ed è usato un riguardo particolare; servono
inoltre, senza volerlo, a legittimare le sue sofferenze. Mentre il pa­
rere del medico - "sono i suoi nervi" - potrebbe essere solo una
mistificazione in più, l'ulteriore prescrizione di farmaci serve tutta­
via a legittimare il ruolo della paziente e ad aiutarla su un piano so­
ciale a trarre vantaggio dalla propria malattia.
Questa prospettiva suggerisce domande per un'wteriore ricer­
ca. L'impressione che ne deriva, per esempio, è cH'e in Iran, per
manipolare le situazioni sociali, si utilizzi il linguaggio medico se­
condo una gerarchia di motivi collettivamente riconosciuti. n mal
di cuore è un meccanismo relativamente passivo. La condizione di
asabanz' ("arrabbiato", uno stato di insolita irritabilità e facilità a
scontrarsi con gli altri) e i litigi che essa genera sono meccanismi
più attivi, diretti più chiaramente agli oggetti del disagio. n suici­
dio, minacciato o tentato, è un terzo espediente e può essere usato
consciamente per manipolare situazioni insostenibili.11 Vi ricorro­
no, per esempio, le ragazze sposate da poco, che vengono maltrat­
tate dal marito e dai parenti acquisiti, nel tentativo di obbligare i
loro genitori a farle tornare a casa e di costringere a una restituzio-

1 1 . TI problema del suicidio in Iran merita un'estesa ricerca. Nell'ospedale di


medicina interna a Maragheh, che di solito si occupava di casi urgenti di tentato sui­
cidio, il 18% dei pazienti ammessi ( 1 17 su 654 casi) nell'anno 1352 (1973 -1974)
erano casi di tentato suicidio.

66
TI.. CUORE DEL PROBLEMA

ne del prezzo della sposa. Perciò la relazione che si delinea tra il


linguaggio medico, il suo uso intenzionale in contesti cultural­
mente definiti, e le reti semantiche che gli conferiscono significa­
to, suggeriscono ipotesi che potrebbero essere seguite in una ri­
cerca futura.

IMPUCAZIONI TEORICHE

"Allora dovresti dire cosa vuoi dire", continuò il Coniglio. "Va bene", ri­
spose Alice con disappunto; "alla fine - alla fine voglio dire quello che
dico - è uguale, no?" "Non è uguale per niente", disse il Cappellaio.
LEWIS CARROL, Alice nel Paese delle Meraviglie

In questo scambio, il Cappellaio Matto fa notare ad Alice che


il significato non risiede semplicemente nelle parole ma nell'in­
tenzionalità di colui che le utilizza. 12 Possiamo voler dire qualcosa
di diverso da quello che diciamo. n significato non è costituito da
un legame parola-oggetto dotato di realtà empirica. La tesi di
questa relazione è stata che gran parte del discorso sulla malattia
parte dal presupposto di quella che potremmo definire la teoria
empirista del linguaggio medico. Io sostengo che per gli studi in­
terculturali e per la pratica medica una tale prospettiva si fondi
sia su un'inappropriata teoria della malattia, sia su una inadegua­
ta teoria del significato nel linguaggio medico. E chiamo come te­
stimone di questa posizione il Cappellaio Matto.
Questa tesi può essere specificata. Gli studi transculturali, in
particolare le analisi etnoscientifiche, sono spesso basate sui se­
guenti presupposti impliciti:
l . Le malattie sono condizioni patologiche definite, che posso­
no essere adeguatamente descritte in termini biochimici e fi­
siologici.
2. Queste malattie sono categorizzate in modo diverso nelle di­
verse società, utilizzando vari principi discriminanti; e a cia­
scuna categoria sono allegate spiegazioni causali culturalmen­
te diversificate.
3 . A causa della categorizzazione e spiegazione di una particolare

12. Questo passaggio di Alice nel Paese delle Meraviglie è esaminato da Palmer
(1976, p. 4) per illustrare gli usi diversi del termine "significato".

67
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGEITO, METODI, TEORIE

malattia culturalmente costruita, gli individui vivono la malat­


tia in modo diverso da una società all'altra.
Mentre questo è un modello potente che può pretendere di
rendere conto della costruzione sociale e culturale della malattia,
bisognerebbe notare due importanti implicazioni.
Prima di tutto, esso implica che esistano malattie discrete nel­
l' ordine naturale che possono essere ridotte a un complesso di
condizioni fisiologiche o biochimiche. In secondo luogo, implica
che le diverse società possiedono un insieme di etichette conven­
zionali che possono essere applicate a malattie oggettive. n signi­
ficato dell'etichetta è il suo designatum, la malattia che esso indi­
ca. n suo significato è quindi essenzialmente libero dal contesto
sociale e libero dalla prospettiva di colui che lo utilizza.
Questa cornice generale è parallela a quella descritta da Har­
rison come "la teoria empirista del linguaggio" (1972).13 Molto
brevemente, questa teoria sostiene che il linguaggio consta di
espressioni basilari e non-basilari, e che è soltanto attraverso le
espressioni basilari che il significato entra nel linguaggio. Il si­
gnificato si lega alle espressioni basilari attraverso un accordo
convenzionale "secondo il quale un dato elemento del linguaggio
dovrà essere d'ora in poi associato a un dato elemento del mon­
do" ( 1 972, p. 3 3 ) . La concatenazione di espressioni basilari di­
pende allora, prima di tutto, da "come il mondo è, in quanto
questione di un fatto empirico, costituito" ( 1 972, p. 33). I bam­
bini apprendono il linguaggio e il significato dei segni imparan­
do induttivamente ed estensivamente quali elementi del linguag­
gio sono convenzionalmente associati con quali elementi del
mondo (regole semantiche) . Imparano a combinare o ripetere
abbinando alcuni segni con altri, grazie all'apprendimento in­
duttivo delle regole sintattiche, regole che riguardano esclusiva­
mente "relazioni tra segni" (1972, p. 33).
Questa prospettiva teoretica fornisce anche la cornice per

13. La critica della teoria empirista del significato che riporto qui è discussa det­
tagliatamente da Beeman (1976). Altre critiche recenti includono Wagner (1975,
pp. 145-151) che sostiene che !'"ordine naturale" sia un'invenzione della cultura, e
che l'etnosemantica ha preso "piante, animali, colori, parentela, malattie della pelle
[come] in qualche modo "reali" e "fatti" evidenti in sé"; e Polanyi e Prosch (1975),
che sostengono il ruolo necessario del soggetto intenzionale nella costituzione di
tutto il significato e della conoscenza.

68
TI.. CUORE DEL PROBLEMA

buona parte dell'antropologia americana degli anni passati.


Greenberg ha formulato questa cornice in un'influente relazione
del 1964. Egli cominciò con dei gruppi di distinzioni fatte dal se­
miologo Charles Morris; quella tra sintattica, semantica e prag­
matica; e quella tra colui che usa il segno, il segno stesso e il desi­
gnatum (Greenberg, 1964, p. 27) Combinando questi elementi,
propose i confini dell'indagine antropologica e linguistica.

Se includiamo il riferimento a coloro che usano il linguaggio, sia­


mo nel campo della pragmatica. Se facciamo astrazione da chi utiliz­
za il linguaggio e consideriamo solo le espressioni e i loro designata,
siamo all'interno della semantica. Se facciamo astrazione anche dai
designata e studiamo soltanto le relazioni tra le espressioni stesse,
abbiamo la sintassi. (Greenberg, 1964, p. 27)

Questa formulazione, come la teoria empirista del linguaggio,


definisce la semantica come lo studio del rapporto tra segni o cate­
gorie linguistiche e loro designata. L'analisi semantica è perciò
esclusa dallo studio degli attori linguistici, dai contesti del com­
portamento verbale, e dalla pragmatica della comunicazione, le
quali appartengono tutte al dominio della sociolinguistica e del­
l'etnografia della comunicazione. L'etnosemantica, compreso lo
studio etnoscientifico del linguaggio medico, fa precisamente
queste ipotesi. Diverse raffinate teorie etnosemantiche delle cate­
gorie di malattia, incluse quella di Frake (1961) e di Fabrega e Sil­
ver (1973 ), illustrano la variabilità culturale dei caratteri distintivi
usati nella categorizzazione della malattia. Esse ipotizzano, co­
munque, che l'associazione tra un sintomo e l'altro entro una cate­
goria, dovrebbe riflettere semplicemente la loro associazione nel
mondo oggettivo. Configurazioni inaspettate sono perciò inspie­
gabili (per esempio, Fabrega, Silver, 1973 , p. 101). Inoltre, le cate­
gorie di malattia con lo stesso insieme di dimensioni si dice che
"sembrino avere significato equivalente", e quelle che condivido­
no una dimensione comune si dice che formino "gruppi di malat­
tia", senza alcuna prova che esse siano associate semanticamente o
nell'esperienza dei membri della società (Fabrega, Silver 1973 , p.
106). Pertanto questi studi hanno anche problemi a spiegare ciò
che rivendicano come loro specifico dominio - il raggruppamento
dei sintomi o dei termini di malattia in grappoli associati in una
particolare società.

69
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Una teoria del linguaggio medico dovrebbe aiutarci a cogliere


il processo con cui il linguaggio e la comunicazione sono effica­
cemente in rapporto con le sensazioni e la fisiologia, per capire
ciò che Kleinman chiama il "sentiero simbolico di parole, sensa­
zioni, valori, aspettative, credenze e così via, che connette eventi
e forme culturali con processi affettivi e fisiologici" ( 197 3 , p.
209). Solo una teoria del genere può fornire una base appropria­
ta per la ricerca transculturale e per una pratica medica che vo­
glia prendere in considerazione gli aspetti psicosociali della ma­
lattia. Una teoria del linguaggio medico dovrebbe fornire una
cornice per comprendere i seguenti aspetti del linguaggio e della
comunicazione medica:
l . I percorsi che collegano il simbolico all'emotivo e alfisiologi­
co; chiaramente, un "modello-copia" del tipo paragonato da
Wittgenstein a un museo pieno di oggetti esposti, ciascuno col
suo nome, sarebbe inadeguato. Gli stati fisiologici non hanno
semplici correlati linguistici, come hanno dimostrato diversi stu­
di sull'affettività (per esempio Schachter, 1971; Valins, 1970). In
che misura la malattia stessa venga plasmata dall'esperienza sim­
bolica e sociale è un problema della ricerca empirica. Ma un'ade­
guata cornice concettuale dovrebbe problematizzare proprio quei
legami simbolici che potrebbero influenzare tale variabilità, piut­
tosto che sostenere che le malattie sono come alberi ai quali si
possono solo attribuire nomi.
2. Il ruolo del linguaggio nel collegare esperienza sociale e malat­
tie; sappiamo che molti disturbi sono il risultato di un disadatta­
mento comportamentale e sono direttamente collegati a tensioni
tipiche della società mediante l'esperienza del paziente. Bisogna
quindi comprendere che il significato di una malattia risiede nel
suo contesto sociale, e che l'analisi deve problematizzare il ruolo
dell'esperienza di malattia (il suo significato per il paziente) come
un legame tra stress tipici nella società e processo di malattia.
3 . I:uso strategico del linguaggio della malattia; il linguaggio
della malattia è utilizzato strategicamente dagli individui in una
molteplicità di contesti interattivi: nello scenario domestico in
cui una madre consola il figlio; in una situazione di conflitto, in
cui una moglie si serve della malattia per manipolare il marito;
nell'interazione paziente-medico. In ciascuna di queste circo­
stanze il "significato" dei termini di malattia dipende dalla pro-

70
IL CUORE DEL PROBLEMA

spettiva e dalla "struttura di pertinenza" dei vari attori. Un'ade­


guata semantica del linguaggio medico dovrebbe dirigere la no­
stra attenzione sulla creazione del significato in specifici conte­
sti di interazione e sui problemi di comunicazione tra attori che
utilizzino le stesse parole all'interno di differenti strutture di si­
gnificato.
4. Come viene generato il cambiamento ne/ linguaggio medico
all'interno del più ampio cambiamento sociale; il cambiamento
nei sistemi cognitivi, inteso come l'applicazione di nuove eti­
chette a vecchi significati o come l'adattamento di un vecchio
schema classificatorio a nuovi oggetti (Basso, 1973 ), è chiara­
mente inadeguato alla comprensione del cambiamento medico.
Se i termini di malattia sono associati a tipiche esperienze di
stress in una società, i cambiamenti nel linguaggio medico saran­
no intimamente correlati a più fondamentali cambiamenti nella
società. Non appena nuovi termini medici si diffondono nella
società, trovano la loro strada nella reti semantiche preesistenti.
Perciò, mentre è possibile introdurre nuovi modelli esplicativi, i
cambiamenti nella razionalità medica raramente seguono con al­
trettanta rapidità.
In conclusione, se vogliamo sviluppare una cornice per la
comprensione del rapporto tra malattia e linguaggio che accresca
la nostra conoscenza del modo in cui i fattori psicosociali e cultu­
rali influenzano la malattia, dobbiamo sviluppare sia nuove teorie
della malattia che una nuova semantica medica. La malattia deve
essere concepita, come sostiene Wartofsky, come "un fenomeno
sociostorico e culturale" (1975 , p. 67), come "un'intricata e pluri­
stratificata rete di contesti sociali, personali e organici - dalla so­
cietà alla cellula, per così dire - in cui il medico interviene in spe­
cifici punti, a livello diagnostico e terapeutico . . " (1975, pp. 79-
.

80). 14 Ed è necessario che una corrispondente semantica giunga a


comprendere che il significato del linguaggio medico è costituito
in relazione alla malattia nei termini di reti semantiche, configu­
razioni di simboli ed esperienze messe in moto nell'interazione
sociale e profondamente integrate nella struttura sociale e cultu­
rale di una società.

14. Kleinman, Eisenberg e Good (1976) propongono applicazioni cliniche di


una tale prospettiva allargata sulla malattia e i fenomeni patologici.

71
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETIO, METODI, TEORIE

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74
3
REIFICAZIONE E COSCIENZA
DEL PAZIENTE
Michael T Taussig

n. PROBLEMA MARXISTA: LA REIFICAZIONE

Attraverso l'analisi di un caso di malattia e del suo trattamento,


che ho avuto modo di seguire nel 1978 negli Stati Uniti vorrei fo­
calizzare l'attenzione sull'importanza di due problemi sollevati dal
marxismo e dall'antropologia riguardanti il significato morale e
sociale degli "oggetti" biologici e fisici. Intendo mostrare che i se­
gni e i sintomi della patologia, tanto quanto le tecniche di guarigio­
ne, non sono "cose in sé", non sono solo entità biologiche e fisiche,
ma hanno anche valenza di segni di relazioni di tipo sociale pur
presentandosi nella veste di oggetti naturali e pur essendo latente
il loro radicamento nella condizione umana della reciprocità.
n problema sollevato dal marxismo ci rimanda al famoso saggio
di Gyorgy Lukacs pubblicato nel 1922 e intitolato "Reificazione e
coscienza del proletariato", saggio che ebbe un notevole impatto
sul movimento comunista europeo, in buona parte per la critica
che muoveva al "materialismo storico" nelle teorie di Engels, Le­
nin e degli ideologi del partito socialdemocratico tedesco. In so­
stanza Lukacs denunciava il fatto che il concetto di oggettività, ri­
vendicato dalla cultura capitalistica, fosse un'illusione promossa
dai rapporti di produzione di quel tipo di società, e che tale con­
cetto di oggettività fosse stato sconsideratamente assimilato dai
critici marxisti i quali, in questo modo, finivano con l'avallare le
categorie fondamentali di quella compagine sociale che pensavano
di contestare. Lukacs tentò di elaborare una sociologia critica del
sapere borghese, capace di mettere in discussione la teoria della
conoscenza o l'epistemologia che egli riteneva cardinale nella cui-

75
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

tura capitalistica. Le antinomie kantiane e neokantiane di "fatto" e


"valore", tanto quanto la teoria empiristica della conoscenza - che
separa drasticamente "oggettività" e "soggettività" - sono, secon­
do Lukacs, strumenti del pensiero riconducibili all'ideologia capi­
talistica (anche se venivano impiegati all'interno della cornice ana­
litica del cosiddetto "materialismo storico"). Le radici di quella
forma di pensiero, che considera scontate le categorie capitalisti­
che della realtà, andavano rinvenute, a suo dire, in quella che egli
chiamava la "struttura della merce", e uno degli scopi principali
del suo saggio era attirare l'attenzione verso l'importanza dell'ana­
lisi delle merci nella descrizione e nella critica di Marx al capitali­
smo. Lukacs sosteneva che ogni problema, in tale periodo storico,
era riconducibile alla problematica della struttura della merce,
questione centrale della società capitalistica nel suo insieme. Al
cuore di questo problema si rinviene la dinamica della reificazione
o dell'aggettivazione del mondo, delle persone e dell'esperienza,
nella misura in cui tutti questi elementi vengono organizzati e rico­
stituiti dallo scambio di mercato e dalla produzione di beni di con­
sumo. li fondamento della struttura della merce, scriveva Lukacs,
è che "un rapporto, una relazione tra persone, riceve il carattere
della cosalità e quindi assume una 'oggettività fantasmatica' una
autonomia che appare così rigorosamente conclusa e razionale da
occultare ogni traccia della sua più intima essenza: il rapporto tra
gli uomini" (vedi Lukacs, 1922).
È proprio l'oggettività illusoria della patologia e della sua cura
nella nostra società che qui mi interessa, in quanto nel negare le re­
lazioni umane incorporate nei sintomi, nei segni e nella terapia,
non solo le mistifichiamo, ma riproduciamo anche un'ideologia
politica mascherata nei panni di una scienza delle "cose (apparen­
temente) reali", di oggettualità biologiche e fisiche. In questo mo­
do la nostra oggettività, così come si manifesta nella medicina, rap­
presenta assiomi culturali fondamentali e articola le contraddizio­
ni inerenti alla nostra cultura e alla nostra visione dell'oggettività.
Invece di esprimere ulteriori considerazioni, vorrei ora esemplifi­
care queste premesse, eccessivamente astratte, attraverso una con­
creta analisi etnografica di un caso di malattia. Prima di farlo però
devo affrontare un problema sollevato dall'antropologia, specifi­
catamente da Evans-Pritchard nella sua classica analisi sulla magia
tra gli Azande, pubblicata nel 1937 (Evans-Pritchard, 1937).

76
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

D.. PROBLEMA ANTROPOLOGICO: D.. CORPO BIOLOGICO


E D.. CORPO SOCIALE

È assolutamente palese che il senso del sé e del corpo muti nel


tempo e sia diverso nelle differenti culture. Nella cultura capitali­
stica moderna il corpo acquista una caratteristica fenomenologi­
ca dualistica: di cosa e insieme di essenza, corpo e "anima". Ne
sono dimostrazione i capitoli di Sartre dedicati al corpo all'inter­
no di I.:essere e il nulla.

Senza dubbio mi si può dire che i medici che mi hanno curato, i


chirurghi che mi hanno operato hanno potuto fare l'esperienza diret­
ta del mio corpo che io non conosco da me solo. Sono perfettamente
d'accordo e non pretendo affatto di essere sprovvisto di cervello,
cuore o stomaco. Ma quello che importa innanzitutto, è di scegliere
l'ordine delle nostre conoscenze: partire dalle esperienze che i medici
hanno potuto fare sul mio corpo, significa partire dal mio corpo si­
tuato nel mondo, quale è per altri. n mio corpo quale è per me non mi
si rivela nel mondo. È vero che ho poruto vedere su uno schermo, du­
rante una radioscopia, l'immagine delle mie vertebre, ma ero precisa­
mente al di fuori, nel mondo; in questo caso, io percepivo un oggetto
interamente costituito, come un questo fra altri questi, ed è solamen­
te attraverso un ragionamento che io lo riconduco a essere mio: era
più mia proprietà che mio essere. (Sartre, 1943, pp. 35 1-352)

Dal momento che oscilla tra l'essere mia proprietà e il mio esse­
re, specialmente quando è colpito da una patologia, il mio corpo
suscita in me delle domande non contemplate dai medici: "Perché
a me? " "Perché ora?" Come ha osservato Evans-Pritchard, sono
queste le domande fondamentali cui cercano di dare una risposta
gli Azande nell'attribuire una grave patologia o una disgrazia agli
effetti di stregoneria e magia - ossia alle malevole intenzioni di
persone più o meno prossime e importanti, maldisposte o invidio­
se. La scienza, come la intendiamo oggi, non è in grado di spiegare
cosa significhino per l'uomo i processi fisici. Per utilizzare il co­
mune modo di esprimersi al riguardo, dirò che la scienza, così co­
me la scienza medica, può spiegare il "come" ma non il "perché"
della malattia; può mettere in rilievo le concatenazioni di cause ed
effetti, ma alle domande circa il perché ci si ammali in un partico­
lare momento, o perché ciò accada a un persona piuttosto che a
un'altra, la scienza medica può solo rispondere con una qualche

77
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

teoria della probabilità che non soddisfa il pensiero alla ricerca di


sicurezze e di un senso. Nella pratica degli Azande, le istanze del
"come" e del "perché" sono invece intrecciate: l'eziologia è insie­
me fisica, sociale e morale. La causa del dolore fisico va ricercata
all'interno della rete di rapporti sociali cui è riconducibile anche
l'idebita malevolenza di qualcuno. Tale caratteristica della parti­
colarità del complesso di rapporti sociali si eprime anche attraver­
so sintomi e segni fisici. Una certa malattia è una relazione sociale,
e la terapia deve indirizzarsi a questa sintesi di rapporti morali, so­
ciali e fisici.
Questa serie di considerazioni solleva due problemi fondamen­
tali. Innanzitutto, anche nella nostra società i pazienti si pongono
le stesse domande degli Azande, nonostante il disincanto che ca­
ratterizza il nostro tempo e le credenze relative a magia e stregone­
ria? In secondo luogo, non abbiamo forse tradito l'epistemologia
azande, seguendo Evans-Pritchard, nel distinguere tra "come" e
"perché", tra "fatto" e "valore", e tra cause immediate e cause ul­
time? Senza l'assoluta consapevolezza che queste sono le nostre
peculiari categorie di pensiero, dalle quali non possiamo prescin­
dere nell'attribuire un qualche senso a un'epistemologia a noi
estranea - e non le distinzioni native fondamentali -, non riuscire­
mo a comprendere la questione. n punto fondamentale è che nel­
l' epistemologia azande esiste una concezione molto diversa dei
fatti e degli oggetti. I fatti non sono separati dai valori, le manife­
stazioni fisiche non sono indipendenti dal loro contesto sociale, e
non è richiesto quindi un notevole sforzo mentale per cogliere le
relazioni sociali all'interno di eventi materiali. È un problema spe­
cificamente moderno il fatto che gli organi del corpo possano es­
sere concepiti alternativamente come meri oggetti e come eventi
che suscitano ripetutamente interrogativi circa il significato socia­
le di uno specifico mal-essere, con una voce fin troppo "umana".
Paul Radin, nella sua analisi del concetto del sé nelle società "pri­
mitive", sostiene la stessa tesi. Propone infatti che la forma ogget­
tiva dell'ego nelle società come quella zande sia di solito intelligi­
bile solo attraverso il suo rapporto con il mondo esterno e con altri
ego. Lungi dall'essere mera cosa-in-sé, l'ego viene concepito come
integrato in modo indissolubile con gli altri e con la natura. "Una
concezione della vita puramente meccanicistica" , conclude, " è
dunque impensabile. Le parti del corpo, le funzioni fisiologiche

78
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE
------ ------- --- · ---

degli organi, come la forma materiale assunta dagli oggetti in na­


tura, sono meri simboli, simulacra rispetto all'entità essenziale psi­
chico-spirituale che si trova dietro di loro" (Radin, 1957).
Poiché oscilla tra l'essere una cosa e un essere individuato,
poiché subisce la reificazione e tuttavia non è totalmente preso in
essa, il mio corpo si esprime con un linguaggio tanto comune
quanto sorprendente. n corpo non è infatti solo un mosaico orga­
nico di entità biologiche. Esso è anche una cornucopia di simboli
altamente evocativi - fluidi, odori, tessuti, differenti superfici,
movimenti, sensazioni, cicli di cambiamento che costituiscono la
nascita, l'invecchiamento, il sonno e la veglia. È soprattutto nella
malattia, con i suoi terribili spettri di disperazione e speranza, che
un corpo particolare emerge come eccezionalmente maturo per
codificare ciò che la società considera reale - solo per contestare
quella realtà. Se il corpo è questo incredibile ricettacolo per la
produzione di significati sociali, allora è nella terapia che trovia­
mo quella sintonia finemente calibrata, attraverso cui le categorie
socialmente generate vengono riaffermate e il carattere fabulato­
rio della realtà raggiunge il suo acme.
In tutte le società la relazione tra medico e paziente è più che
una semplice relazione di tipo tecnico. È piuttosto un'interazione
sociale capace di rafforzare le premesse culturali di base in modo
estremamente efficace. n malato è una persona dipendente e an­
gosciata, nelle mani del dottore e del sistema di assistenza sanita­
ria, è molto malleabile ed esposto alla loro manipolazione e al loro
moralismo. n malato precipita nel vortice delle domande più im­
portanti riguardanti la vita e la morte. La routine quotidiana del­
l' accettazione più o meno acritica del significato della vita viene
drasticamente interrotta da una grave malattia, che ha un modo
del tutto particolare e insidioso di trasformarci in contemplativi e
filosofi (per non dire critici di una società che abbandona il mala­
to e la sua famiglia a loro stessi). Tutto ciò conferisce al medico
una posizione di potere eccezionale per accedere alla psiche del
paziente, che corre parallelamente a una destrutturazione dei suoi
giudizi convenzionali e della sua personalità sociale. La funzione
del rapporto tra medico e paziente è proprio quella di ristruttura­
re quei giudizi e quella personalità, di riportarli entro la sfera del
sociale e radicarli profondamente all'interno dell'ambito episte­
mologico e ontologico fondativo, dal quale derivano le premesse

79
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

ideologiche costitutive di una società. Nella pratica e nella cultura


clinica moderna questa funzione è mascherata. Le istanze di con­
trollo e manipolazione sono ammantate da un'aura di benevolen­
za. TI carattere sociale dell'incontro col medico non è immediata­
mente manifesto come lo è invece nei riti pubblici di guarigione
delle società "primitive" . Da noi, la consultazione e la guarigione
avvengono in contesti privatizzati e individualistici e le compo­
nenti morale e metafisica della malattia e della guarigione vengo­
no occultate dall'utilizzo di modelli propri delle scienze naturali.
Come ha recentemente sottolineato Susan Sontag (Sontag,
1978), se i sintomi e i segni della malattia hanno generalmente un
carattere fin troppo materiale, al tempo stesso essi sono anche
qualcosa di più di questo. Potremmo dire che sono fatti sociali tan­
to quanto fisici e biologici. Intravvediamo ciò se riflettiamo solo un
momento sui significati disparati veicolati da segni e sintomi in dif­
ferenti momenti storici e in diverse culture. La grassezza, la ma­
grezza, il sangue nelle urine, lasciando da parte il sangue per sé, il
mal di testa, gli incubi, la stanchezza, la tosse, la vista sfocata, le ver­
tigini e così via, acquistano significati e senso molto diversi a secon­
da delle epoche storiche, della classe sociale d'appartenenza ecc.
Due questioni emergono a questo punto. Le manifestazioni della
malattia hanno valenza di simboli, e colui che fa la diagnosi li vede
e li interpreta con un occhio allenato dai fattori sociali determinan­
ti della percezione. Tuttavia ciò è negato da un'ideologia o da un'e­
pistemologia che concepiscono le proprie creazioni come entità
esistenti realmente "all'esterno" - come cose in sé solide e sostan­
ziali. Le nostre menti, come macchine fotografiche o fogli di carta
carbone, non farebbero nient'altro che registrare fedelmente i fatti
della vita. Questa è un'illusione ubiquitaria nella nostra cultura, ed
è quello che Lukacs intende quando parla di una reificazione deri­
vante dalla struttura della merce, e la pratica medica è un modo
particolarmente importante di mantenere la negazione riguardo la
fatticità sociale degli eventi. Le cose assumono così una vita pro­
pria, scisse dai rapporti sociali che effettivamente conferiscono lo­
ro vita, rimanendo incardinate nella propria autocostituzione.

Oggi, in vari angoli e nicchie chiamati stanze di consultazione, i


medici stanno in ascolto per sentire gli stessi elementi e quando li
trovano non dicono "posso mettere queste cose insieme e chiamarle

80
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

isteria se voglio (un po' come se un bambino ordinasse le sue biglie


prima per grandezza, poi per colore, poi per età); invece il medico,
quando ha completato la classificazione dice: "Questo paziente è un
isterico ! " Qui, allora, il creatore sta negando la paternità della sua
creazione. Perché? Perché a sua volta riceve un premio migliore: la
rassicurazione che fuori c'è un mondo stabile; che non è tutto nella
sua testa. (Linder, 1978, p. 1081)

Quello che ci si rivela qui è la negazione della paternità della


creazione, la negazione del rapporto e della reciprocità del proces­
so fino al punto in cui la variopinta araldica delle supposizioni, dei
salti di fede e delle categorie a priori vengono ratificati come reali e
naturali. In altre parole potremmo dire che l'arbitrarietà del segno
viene rifiutata, e non più vista come arbitraria perché radicata nel
paziente, mettendo così al sicuro la langue della malattia. E se in
questo modo il medico è rassicurato circa la datità del mondo, la
cui materialità viene rappresentata a caratteri cubitali, sentendosi
così liberato dal disturbo di essere troppo vicino alla realtà, che al­
tro non è se non la costruzione sociale della realtà, a essere in gioco
non è il fatto che ciò è "tutto nella sua testa", ma che è tutto nella
relazione tra medici e pazienti. La relazione è scissa e dissolta. La
reciprocità rimane vittima dell'assalto perpetrato a suo danno. Pa­
rimenti, il paziente e il concetto di malattia sono stati reclutati al
servizio di una costruzione della realtà la cui stabilità, che non può
essere negata fin tanto che vi incombe la competenza professiona­
le, è nondimeno soggetta a violenti alterchi, non appena la pressio­
ne della paternità negata alla creazione e la negata reciprocità fan­
no sentire la propria presenza. Questa presenza della negazione è
essa stessa mascherata dall'illusione di una reciprocità di ordine
diverso: le delicatezze di stile nel modo di trattare i malati e la cul­
tura dell'assistenza. Foucault centra la nostra attenzione su questo
punto, nella sua discussione sui cambiamenti nella psichiatria, in
termini che si adattano a tutte le scienze cliniche moderne:

Ormai la follia esiste unicamente come essere visto. Questa vici­


nanza che s'instaura nell'asilo, e che non sarà più spezzata né dalle
catene né dalle inferriate, non consentirà affatto la reciprocità: essa è
semplicemente vicinanza dello sguardo che sorveglia, che spia, che
si accosta per vedere meglio, ma che allontana sempre di più poiché
accetta e riconosce soltanto i valori dello Straniero. La scienza delle
malattie mentali [. . ] non sarà dialogo. (Foucault, 1961, p. 555)
.

81
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENmA: OGGETIO, METODI, TEORIE

Dal momento che lo fa, la pratica medica produce inevitabil­


mente mistificazioni grottesche nelle quali ci dibattiamo tutti,
sempre più aggrappandoci, penosamente, per sentirei sicuri in un
mondo fatto dall'uomo, ma che non riconosciamo come sociale,
né come umano, né come storico, bensì come un mondo di ogget­
ti a priori, debitori unicamente della propria forza e delle proprie
leggi, che ci vengono chiariti con deferenza da professionisti
esperti quali i dottori. Tutto questo non fa che favorire sottilmen­
te alcuni messaggi politici indirizzati a coloro che diventano pa­
zienti, e noi tutti prima o poi lo diventiamo, e in senso metaforico
siamo tutti pazienti dei "dottori" sociali che amministrano i nostri
bisogni. Non fate affidamento sui vostri sensi. Non fate affida­
mento sulle sensazioni di incertezza e ambiguità che inevitabil­
mente si presentano non appena i giudizi condizionati socialmen­
te cercano di orchestrare la moltitudine dei significati attribuiti a
oggetti altrimenti muti. Non contemplate la ribellione contro i
fatti della vita poiché essi non sono creati dall'uomo, ma sono ir­
revocabilmente radicati nel regno della materia fisica. Fintanto
che la materia può essere manipolata, è un problema da lasciare
alla "scienza" e al vostro medico.

D. PAZIENTE

Per portare un esempio (rispettando rigorosamente l'anoni­


mato delle persone e delle organizzazioni coinvolte) voglio di­
scutere la situazione di una donna bianca di 49 anni, operaia, più
volte ricoverata nel corso degli ultimi otto anni per una diagnosi
di polimiosite - un'infiammazione muscolare. A giudizio dei
medici, si tratta di una malattia cronico-degenerativa consistente
nel progressivo deterioramento dei muscoli. Classificata come
patologia reumatoide di origine sconosciuta, la cura consiste
perlopiù nella somministrazione di pesanti dosi di steroidi a ogni
ascesso della malattia, allo scopo di rallentare l'infiammazione.
Incontrai questa donna nelle corsie di un prestigioso ospedale
universitario nel 1 978, dove parlammo, per circa quattro ore
complessivamente, in cinque diverse sessioni. Mi presentai co­
me medico e antropologo interessato alle concezioni che i pa­
zienti hanno della malattia.

82
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

Mi descrisse la sua situazione nei termini di una malattia mu­


scolare. I muscoli si deterioravano ed era in fase terminale. Mi
parlò di una terribile stanchezza che andava e veniva in rapporto
alla tensione nervosa. Quello che la preoccupava era la perdita di
controllo durante le fasi acute. Nei termini in cui lei si espresse, il
collegamento con il corpo, tra la sua mente e il corpo, era come se
venisse meno.
La soffitta si stacca dal basamento. Quando forniva degli esem­
pi, erano sempre situazioni in cui lei lavorava per altri; per esem­
pio lavava i piatti. Quando le veniva chiesto quale pensava potesse
essere la causa della sua malattia, emergeva che si domandava co­
stantemente perché ne fosse affetta, e non finiva mai di chiedersi:
"Perché? Perché a me, Signore, perché a me? "
La sua ricerca di spiegazioni e significati non ha trovato soddi­
sfazione in quello che le venne offerto dalla professione medica.
Come vedremo, lei chiedeva una sintesi unificante, che si procurò
da sola, rintracciando motivi culturali contraddittori nei sintomi,
nei segni e nel miglioramento. Queste contraddizioni erano evi­
denti nelle sue reazioni alle sentenze dei medici, ai modelli di di­
sciplina imposti dall'ospedale e ai conflitti in corso costantemente
nella società in generale. Per di più, il suo modo di intendere e di
dare spiegazioni si opponeva ai paradigmi fondamentali della no­
stra cultura, che separano in modo dicotomico il pensiero dalla
materia, la sfera morale dal determinismo fisico, e le "cose" dal
contesto sociale e dal significato umano a cui sono inerenti. Essen­
do estranea alla coscienza culturale accettata in questi modi cru­
ciali, i suoi tentativi di fornire una concezione sintetica degli og­
getti fisici non potevano che essere tesi e soggetti all'instabilità.
La sua prima risposta fu che la causa della sua condizione era
"un motivo triste". All'età di quindici anni, contro il parere di sua
madre, aveva sposato un operaio che lavorava in una fabbrica,
che presto non fu più in grado di mantenere lei e i cinque figli, na­
ti nei cinque anni successivi alle nozze, a causa del suo alcolismo.
Le furono legate le tube, ma poco dopo ecco delle complicazioni,
e altre sei gravidanze andate tutte a finire male. Si mise allora a la­
vare, stirare, e frugare nell'immondizia per racimolare bottiglie
che poi vendeva. I soldi non bastavano quasi mai per mangiare e
lei si sentiva sempre esausta e affamata. Faceva a meno del cibo
per darlo ai figli, che erano spesso malati. In compenso si prende-

83
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

va spesso le loro malattie, perché era troppo debole e stanca. La


vita per lei era questo cerchio continuo di povertà, sforzo, spossa­
tezza e malattia. "Di certo questo ha potuto causarmi la polimio­
site", diceva. "Ti puoi prendere un capo di vestiario perfetto, poi
se lo strofini abbastanza a lungo sul lavandino, ti ci vengono i bu­
chi. Se ne va a pezzi. Se prendi una persona sana e le togli le cose
essenziali di cui ha bisogno, diventa magra e si ammala. Voglio di­
re . . . le cose stanno insieme" . Non aveva mai parlato ai suoi medi­
ci di questa idea, perché: " Riderebbero della mia ignoranza. Ma a
me pare che sia così: tutta quella stanchezza e quel lavoro. Prenda
i bambini dell'India, che non hanno abbastanza cibo, che si tra­
scinano con le loro pance gonfie, stanchi e affamati. Di sicuro an­
che loro potrebbero prendersi questa malattia. Nessuno lo sa, so­
lo perché non hanno neanche gli ospedali".
Nel riflettere in questi termini, la paziente sviluppava il collega­
mento che aveva in mente tra la polimiosite come degenerazione
muscolare e la propria esperienza esistenziale di oppressione, di
sforzo muscolare e di sacrificio fisico. Quel che sembra più signifi­
cativo è che le cause che adduceva, così come le sue idee circa la
malattia, erano metafore iconiche e metonimie le une delle altre,
entrambe collocate entro la malattia come orizzonte metaforico
indicante la propria oppressione. Tutto ciò potrebbe venire a
comporre quel denso immaginario in grado di condl;Jrre a una cri­
tica severa delle istituzioni sociali basilari. Ma, come'vedremo, al­
tri aspetti della situazione attenuano questa potenzialità.
Successivamente, la donna iniziò a nutrire l'idea che ci potesse
essere un fattore ereditario, o semiereditario. Secondo lei, una del­
le figlie era forse affetta da questa malattia e così anche due sue ni­
poti. Si sentiva molto vicina a sua figlia, fmo al punto di sostenere
che ci fosse una unione mistica tra di loro, una sorta di percezione
extrasensoriale, come diceva lei. Anche quando erano fisicamente
lontane, l'una sapeva cosa accadeva all'altra, specialmente nei mo­
menti critici. Sviluppò quindi il concetto che la malattia fosse pre­
sente nel ramo matrilineare, e che si manifestasse in quattro stadi
distinti collegati alle quattro età delle quattro donne coinvolte. Va­
le la pena osservare, en passant, come i maschi, nella storia della fa­
miglia, venissero citati ben poco, ad eccezione del primo marito
della donna, visto come una figura distruttiva e quasi diabolica. n
mondo sociale a lei vicino era visto come incentrato sulla storia di

84
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

quattro generazioni di donne, a cominciare dalla propria madre


che aveva tirato su la famiglia nella povertà più nera. Questa di­
scendenza matrilineare, questo scambio reciproco tra donne nelle
reti delle famiglie operaie si esprime in questo caso in maniera
estremamente vivida nella vicinanza mistica che la donna sente con
sua figlia, e nella disposizione di queste relazioni sociali entro la
malattia come metafora di quelle relazioni.
n fatto che la nipote più giovane coinvolta si fosse ammalata
gravemente quando aveva solo pochi mesi, e che i dottori le aves­
sero trovato un "organismo" nel sangue, suggerisce alla paziente
la possibilità che anche un agente esterno o un'eziologia batterica
abbiano un ruolo nella manifestazione della malattia: l'agente
esterno che scompare nel corpo per preparare lentamente la sua
successiva apparizione. L'attribuzione della malattia a un fattore
esterno sembrerebbe essere antica come l'umanità. Ma solo la me­
dicina occidentale moderna e la "teoria dell'eziologia specifica"
hanno permesso a quest'idea di liberarsi dalla nozione che esso
fosse un'espressione di relazioni sociali particolari. Nel caso di
questa paziente, comunque, l'eziologia del fattore esterno viene
tessuta entro l'ordito delle sue relazioni più prossime e le esprime
metaforicamente.
Infine, la paziente si convinse dell'idea che Dio occupasse una
posizione cruciale nel complesso causale. Accennò al fatto che
Dio le avesse procurato quella malattia allo scopo di insegnare ai
medici come curarla - una tipica risoluzione delle opposizioni, ri­
dondanti nel suo racconto, fra passività e attività, ricevere e dare,
delitto e sacrificio. Osservò che nella Bibbia era scritto innanzitut­
to di cercare, e solo dopo di rivolgersi al Signore, il che significava,
secondo lei, di rivolgersi prima ai medici e solo dopo di affidarsi
alla religione. E questo lungo cammino lei lo aveva intrapreso dav­
vero, così come si era sforzata di trovare una teoria eziologica. A
questo punto della nostra discussione, riassunse così buona parte
della sua posizione. "Vedi, le proteine formano i muscoli e i miei
figli erano molto fortunati se mangiavano proteine una volta al
mese, e anch'io ero fortunata. Ora io ho la polimiosite, più l'artri­
te, e mia figlia ha l'artrite alla colonna vertebrale, e anche la sua
bambina ce l'ha, l'ha ereditata, e pure la bambina più piccola. Ora
sembra esserci un modello. Vedi, io non ho mangiato proteine, e
neanche i miei figli, e ci siamo presi una malattia cronica. Non sia-

85
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

mo troppo sicuri che lei non abbia la polimiosite. n danno ai mu­


scoli e ai tessuti, a causa di sforzi e fatica, deriva dal fatto che si
erano indeboliti per mancanza di proteine e così via, di modo che
quando arriva il germe, sei il suo bersaglio principale! . . . Dio ci dà
la libertà di decidere. Io ho disobbedito alla volontà di Dio . . .
quando me ne sono andata e mi sono sposata a quindici anni, ho
pestato i piedi e ho detto a mia madre che se non mi avesse lasciato
sposare il ragazzo me ne sarei andata e sarei rimasta incinta. Non
credo che Dio mi abbia dato questa malattia, ma ha permesso . . .

che mi venisse. Mi ha sostenuto nelle situazioni più difficili. E del


resto, mi trovavo nella situazione ideale per contrarre la malattia o
per svilupparla, a seconda che sia ereditaria o contagiosa . . . nessu-
no ancora lo sa . . . Ma che senso ha? Quando me ne sto tranquilla-
mente a pensare . . . n treno dei pensieri va e ti chiedi: perché? Sai
come funziona. Perché mio Signore? Perché tutti gli alti e bassi?
Ma non è colpa di Dio se mi sono ammalata; è colpa dell'ambiente
in cui vivevo ! Ora, con l'aiuto di Dio, cui allora non mi rivolsi,
avrei potuto superare molte difficoltà, ma ero troppo orgogliosa!
E davanti a Dio dobbiamo essere umili . . . Quindi, capisci, il no­
stro ambiente ha molto a che fare con la nostra salute e con il no­
stro punto di vista mentale sulla vita . . . ha moltissimo a che fare . . .
la nostra morale e la nostra esistenza pulita, una dieta appropria­
ta . . . tutte queste cose vanno insieme . . . e si incastrano in un picco­
lo puzzle preciso, se ti siedi per un po' e le osservi bene. Hai da­
vanti un piccolo puzzle che si incastra in modo chiaro . . . " .
Questo passaggio richiederebbe un commento ben più ampio
di quello che posso fare in questa sede. n suo interesse per il si­
gnificato, in particolare quello morale, della sua malattia è evi­
dente, e rafforza la tesi che dietro a ogni teoria della malattia reifi­
cata nella nostra società si cela un regno di interessi morali. Nel
suo caso, in nessun modo Dio è visto come causa principale o ad­
dirittura ultima della malattia. Piuttosto, sono la qualità morale
delle sue azioni, nel ribellarsi alla madre, e di quelle del marito
che hanno contravvenuto il codice morale espresso dalle direttive
di Dio e che hanno determinato il modo in cui le potenzialità insi­
te nella sua situazione materiale e nel suo ambiente si sono svilup­
pate. L'elegante semplicità dell'analisi che Evans-Pritchard pre­
senta dell'epistemologia zande nei termini di categorie "misti­
che" , "scientifiche" ed " empiriche" , come modo di gettare un

86
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

ponte tra il loro sistema di credenze e il nostro, diventa di dubbio


valore. È difficile qui vedere una semplice catena di cause che da
quelle ultime va a quelle immediate, lungo le linee tracciate da
Evans-Pritchard per gli Azande. Piuttosto, ci viene offerto un si­
stema di relazioni interne, una serie di contingenze che si compe­
netrano le une nelle altre in un unico grande modello - o, piutto­
sto in "un piccolo puzzle che si incastra perfettamente" .
ll fatto che la pratica medica moderna si concentri sul "come
funziona" della malattia, reificando la patologia, potrebbe sem­
brare una manovra utile nella misura in cui cancellerebbe la col­
pa. Man mano che la situazione si evolve, tuttavia, nulla potrebbe
essere più lontano dalla verità. Attraverso una serie di operazioni
estremamente complesse, la reificazione fa aderire la colpa alla
malattia. L'obiettivo effettivo della terapia richiede, dunque,
un'archeologia dell'implicito, in modo che i processi attraverso
cui le relazioni sociali vengono collocate entro le malattie, venga­
no portati alla luce, de-reificati, e così facendo liberino il poten­
ziale che hanno di affrontare contraddizioni antagonistiche e di
rompere le catene dell'oppressione.

PROFESSIONAilTÀ E REIFICAZIONE

Nel parlare dei suoi rapporti con altri malati nel reparto, la pa­
ziente osservò: "Non sarei sopravvissuta senza l'aiuto degli altri
pazienti in queste otto settimane". Indugiò sul fatto che l'ospeda­
lizzazione spingeva i pazienti l'uno verso l'altro in maniera molto
personale e per lo più solidale. "Penso davvero che qui tu possa
capire meglio la gente e quello che le piace o le dispiace, e la sua
personalità. Essere malato ti rende tollerante verso gli errori degli
altri. E hai un legame migliore perché quella persona conosce già
i tuoi errori. Sai cosa intendo. Non devi indossare una maschera.
Queste sono cose su cui un dottore certo non ha tempo di metter­
si a riflettere . . . Loro non sentono il dolore. Quindi non sanno ve­
ramente che tipo di situazione stai vivendo".
Aveva stretto solide amicizie coi pazienti che poi andava a tro­
vare una volta fuori dall'ospedale, ma con il personale "è diverso
perché naturalmente il tuo dottore e il tuo infermiere hanno da
pensare ai tuoi problemi medici. Quando siamo qui e parliamo

87
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

delle nostre famiglie e delle cose che ci piace fare e ci piace man-
giare, sei su un terreno più intimo. Cioè . . . il lato professionale se
ne è andato. Ma il tuo medico è ancora . . . anche se diventa più in-
dulgente nei suoi modi, credo che debba ancora mantenere il
controllo della situazione in modo professionale".
Successivamente alla sua affermazione che non avrebbe potuto
sopravvivere a quelle otto settimane se non fosse stato per gli altri
pazienti, va poi avanti a discutere la sua terapia fisica. "Come vedi
non posso camminare. Adesso sto ancora imparando continua­
mente dalla mia malattia. Devi imparare. Devi reimparare a fare
un passo alla volta . . . come un bambino. Sono stata confinata da
sola in questo letto. Se l'infermiera avesse lasciato il mio vassoio . . .
perché magari sta pensando a un altro caso medico che deve af­
frontare subito, ma Becky, che è sdraiata nel letto accanto al mio,
potendo alzarsi e muoversi, riesce a mettermi la roba in modo che
io la possa prendere. O, se non riesco ad arrivare ad accendere la
luce, lei accende la sua per me e poi chiama per avvisare che ho bi­
sogno. Ora sono capace di alzarmi se mi dai le istruzioni esatte,
e . . . ma ecco, sto rieducando tutti i muscoli, e Becky in questo non
mi può aiutare. Ecco allora la professionista, la ragazza professio­
nista che è abituata a insegnarti . . . Ma dall'altro lato i professioni­
sti non potrebbero offrirmi le attenzioni umane che mi ha dato
Becky. Qualcosa di semplice come aprire le tende, ;ç:osì che alme­
no io veda qualche cosa di più della stoffa e del soffitto bianco.
Non posso alzarmi e farlo da sola, ma Becky sì. L'amicizia, la com­
prensione reciproca, sai com'è, arrivi a conoscere davvero la gen­
te, se è gentile e veramente interessata a te. Per esempio io parlavo
tutte le mattine a questa signora più anziana (nel letto di fronte).
lo so che mi sente, ma so anche che non vuole saperne assoluta­
mente nulla di me. So che ha i soldi. Sua figlia è medico. Non vuo­
le avere a che fare con me, eppure io non le ho fatto niente di ma­
le . . . Io non ho figli piccoli, ma Becky sì, e io ho passato le cose che
lei sta passando ora, quindi abbiamo interessi comuni. Sono la
nonna di diciannove nipoti" .
Le chiesi perché un'altra paziente non poteva aiutarla a cam­
minare. Rispose: "Perché ti insegnerebbe in modo sbagliato,
mentre un professionista sa già cosa fare, ha già valutato la forza
dei tuoi muscoli. E poi, uh, sai automaticamente che ti puoi fida­
re dell'infermiere. Becky però non sa come pigliarmi o farmi stare

88
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

in piedi. . . o dirmi quali muscoli usare per evitare di cadere. Capi­


sci, non mi può aiutare a livello professionale. n nostro rapporto
quindi deve essere tutto basato sul "tu mi piaci, io ti piaccio" .
Mentre un tecnico come lei fa lavorare il cervello molto al di là
del mio. n mio è tutto preso nel tentativo di realizzare quello che
lei ha già imparato e conosce".
Le chiesi: "Immaginiamo che la professionista le insegni a
camminare avanti e indietro tra due sostegni parecchie volte al
giorno; non potrebbe qualcuno, come Becky, che non è invalida,
aiutarla a esercitarsi? "
"No ! Perché non conosce la quantità delle tue energie! "
"E, invece, la professionista sì? "
"La professionista deve capirlo prima ancora di cominciare
l'esercizio. "
"Ma lei stessa non conosce la quantità delle energie di cui di­
spone così da poterglielo dire? "
"No ! No ! "
Qui è espressa in modo stupefacente la perdita di autonomia a
cui si riferisce Ivan lllich in Nemesi medica (lllich, 1975). La po­
tenzialità interna al paziente, tanto quanto quella che esiste tra
pazienti, di sviluppare un ambiente terapeutico, viene troncata
violentemente. La relazione con gli altri pazienti diventa quasi
esclusivamente "espressiva", mentre quella coi professionisti di­
venta esclusivamente "strumentale" . Dal momento che ogni tipo
di relazione è portata all'estremo della soggettività o dell'oggetti­
vità, ciascuna è minacciata dall'autodistruzione non appena si
mette a brancolare nell'espressività senza sostanza, e nella stru­
mentalità senza espressione o partecipazione. n riprodursi della
nostra epistemologia culturale, nella scissione fra soggettività e
oggettività, è qui rappresentato nella sua forma più evidente. La
stessa epistemologia è anche riprodotta nella concezione, raffor­
zata tra l'altro dai professionisti, che la paziente ha del funziona­
mento del proprio corpo: rispettivamente la struttura e il funzio­
namento della muscolatura. In quanto opposta rispetto a una
concezione organica dell'interazione dialettica interna dei mu­
scoli, sia tra di loro che col pensiero e la volontà, la funzione dei
muscoli è qui concepita atomisticamente, separata dal pensiero e
dalla volontà, e ogni muscolo viene oggettivato come qualcosa di
separato dall'interazione sinergica di un olismo muscolo-schele-

89
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETIO, METODI, TEORIE

trico. E nel riconoscere alla professionista una comprensione mi­


gliore della propria energia di quello che lei stessa avrebbe potu­
to offrire, potremmo ben riconoscere che l'alienazione dei suoi
sensi fosse totale, arresa alla professionista che era diventata
guardiano e banchiere della sua mente.
La scissione della soggettività dall'oggettività, rispettivamente
rappresentate dal paziente e dal medico, e che a sua volta produ­
ce l'esautorazione della soggettività della persona da parte del
professionista, è tanto il risultato dell'incapacità del paziente di
sviluppare la potenzialità di aiuto reciproco ancora presente nella
sua sub-cultura, quanto è da imputare alla relazione tra profes­
sionista e paziente. n primo processo deriva dal secondo, ed en­
trambi sono straordinariamente contraddittori rispetto alle rela­
zioni sociali e alla cultura che Joshua Horn descrive per gli ospe­
dali cinesi nei quali ha lavorato tra il 1954 e il 1969.

I pazienti spesso scelgono loro rappresentanti che trasmettono le


loro opinioni e suggerimenti ai collettivi dei dottori, delle infermiere
e degli inservienti che hanno quotidiane responsabilità verso deter­
minati gruppi di pazienti. Questi collettivi si riuniscono ogni giorno
per fare il piano di lavoro della giornata. I pazienti in grado di cam­
minare svolgono una parte attiva negli affari dei reparti. Consumano
i pasti nella mensa del reparto e molti di loro aiutano i pazienti che
sono costretti a letto, leggono loro i giornali, tengono loro compa­
gnia e s'interessano dei loro problemi medici e soci3!li. Io faccio il
mio giro di visite ogni giorno in un reparto diverso e ogni volta si
forma una coda di pazienti che vengono con me, guardano, ascolta­
no, e spesso offrono informazioni. (Horn, 1969, p. 98)

L'alienazione dell'autocoscienza della paziente e delle sue ca­


pacità diviene tanto più impressionante quando veniamo a sape­
re che lei possiede una vasta esperienza pratica di terapia fisica, e
che al di fuori del contesto dell'ospedale, lontano dall ' aura dei
professionisti, si considera in realtà competente e capace a questo
proposito. Parlando della distorsione al ginocchio avuta qualche
anno prima, disse: "Dovetti imparare a camminare ancora. Impa­
ro sempre a camminare! Devo essere davvero bene allenata. Po­
trei fare la terapeuta . . . ho fatto esercitare mia figlia dopo che ave­
va avuto la polio. Si erano rifiutati di portarla al centro della po­
lio. Le insegnai io a camminare. Era paralizzata su tutto il lato si­
nistro (lo stesso lato che la paziente indica come suo lato debole e

90
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

quasi paralizzato) . . . Ho imparato da un'amica. Dovevo alzarmi e


sedermi in cima su di lei, tirarle i muscoli del ginocchio e delle
braccia, e così via, passarono tre mesi prima di ottenere un qual­
che risultato. E poi una notte, mentre le tiravo i muscoli del gi­
nocchio gridò, perché diceva che le faceva troppo male. Allora
mi sedetti e scoppiai a piangere. Una madre non poteva conti­
nuare la terapia quella notte. E da quel momento in poi, più le fa­
ceva male, più le facevo la terapia. E dopo un anno da che mi ave­
vano detto che non avrebbe più camminato, tornai dal dottore e
gli feci vedere cosa una persona poteva fare con l'aiuto di Dio.
Devi essere delicato. E questo ti viene dall'amore, dalla compas �
sione, dal desiderio di aiutare un altro essere umano. Ti stupiresti
di come sono forti le mie mani, non perdo mai la forza nelle mani.
Non so perché. Ma tra tutto quello che mi è successo non ho mai
perso completamente le mie . . . le mie mani".
Ecco che ci siamo imbattuti in una contraddizione. E questa
contraddizione è tanto presente nella situazione dell'ospedale e
nella relazione professionista-paziente quanto, tuttavia, la perdi­
ta dell'autonomia e la lobotomizzazione culturale non sono mai
complete. In seguito, per alcuni giorni la paziente rifiutò una par­
te ritenuta fondamentale della terapia, proprio come, durante un
precedente soggiorno in ospedale, aveva fatto una scenata violen­
ta gettando il suo caffè sul pavimento, quando il personale si era
rifiutato di darle ulteriori farmaci contro il dolore.
In quella precedente occasione, la donna insisteva che il dolo­
re stava aumentando. n personale, però, lo considerò un mezzo
per ottenere più farmaci. n piano degli infermieri era "assistere e
rassicurare; consentire alla paziente di esprimere quello che pro­
va. Controllare le emozioni relative alla situazione e al suo muta­
mento" . È certamente questa modalità di percezione - "control­
lare l'emozione . . . " - che contrasta così apertamente con il tipo di
osservazione che circola invece tra i pazienti e che andrebbe ri­
condotta alla mia precedente citazione di Foucault, la percezione
che "non consentirà affatto la reciprocità: essa è semplicemente
vicinanza dello sguardo che sorveglia, che spia, che si accosta per
vedere meglio, ma che allontana sempre di più poiché accetta e
riconosce soltanto i valori dello Straniero" .
Seguendo l'innovazione e il- solo apparentemente - più umano
approccio orientato alla risoluzione di problemi specifici, ora inse-

91
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

gnato anche agli studenti di medicina, le note delle cartelle cliniche


progressivamente redatte dal personale vengono riconfigurate nei
diversi problemi che il paziente presenta. Ogni problema viene
quindi analizzato in quattro parti, come indicato dalla formula
SOAP: Soggettività (la percezione del paziente), Oggettività (l' osser­
vazione fatta dall'infermiere), Analisi (interpretazione dei dati), e
Piano. Soap, garanzia di pulizia e barriera contro la contaminazio­
ne! * Soggettività, oggettività, analisi e piano! Qual migliore garan­
zia e quale migliore espressione simbolica si potrebbe mai sognare
per ritrarre, come in una farsa, la reificazione dei processi vitali e
l'alienazione del soggetto dall'oggetto? D'altra parte, come si può
sospettare, questa formulazione è corrispondente al bisogno di da­
ti computerizzati e di una più razionale operazione di salvaguardia
da possibili denunce per negligenza. n Piano? "Dare assistenza e
rassicurare. Riportare sentimenti di fiducia" . Ma quanto costa que­
sta operazione di confezionamento di "cura", "fiducia" e "senti­
menti", questa strumentazione di qualcosa che ritenevamo sponta­
nea transitività e reciprocità umane, al sistema sanitario?
Qualche giorno dopo, la paziente si lamentò di sentire ancora
più dolore e di non riuscire a urinare (anche se, secondo il perso­
nale infermieristico, poteva benissimo farlo) . La notte seguente, la
paziente ebbe un accesso di rabbia e gettò il caffè contro un'infer­
miera che chiamò subito il dottore. n medico riportò: "La pazien­
te ha fatto una vera e propria scenata. Ha accusato il personale, e
anche me, di mentire e di non portarle rispetto. Estremamente an­
siosa e agitata, piangeva. Ha gettato una tazza di caffè addosso al­
l'infermiera. La paziente si è rifiutata di indicare quale fosse stata
la causa scatenante del suo sfogo emotivo. È arrivato il marito e
l'ha tranquillizzata. Consultazione psichiatrica col dottor Y e
somministrazione di una dose di Aloperidolo. Si aggiungeranno
poi 75 mg al giorno di amitriptilina per apparente stato progressi­
vo di depressione con ansia". (L'Aloperidolo è descritto, in Good­
man e Gillman, 1975, come un medicinale che calma e induce il
sonno nei pazienti in stato di eccitazione. Poiché provoca un alto
tasso di reazioni extrapiramidali, è bene iniziare la somministra­
zione con cautela). Questa è la prima volta che gli appunti del dot-

* Gioco di parole fra l'acronimo SOAP e il termine soap che significa, appun­
to, sapone. [NdT]

92
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

tore alludono al fatto che la paziente sia a disagio, nonostante gli


appunti delle infermiere registrino la sua crescente insoddisfazio­
ne già da parecchi giorni. La relazione dello stessp incidente fatta
dall'infermiera, esclude, per la prima volta, la S (categoria Sogget­
tiva) e va dritta alla Oggettività: "La paziente si è molto infastidita
quando le hanno detto che qualcuno sostiene che può scendere
dal letto e usare il lavabo. Ha detto che quell'infermiera è una . . . e
per la rabbia ha gettato la tazza di caffè sul pavimento. Piangeva e
voleva che si chiamasse il marito perché era molto agitata. Diceva
parolacce" . Analisi: "La paziente è molto agitata" . Piano: "n dot­
tor X ha preso nota e alla paziente è stato detto di calmarsi dato
che non è l'unica del piano, che alcuni sono molto gravi e non sop­
portano il baccano che lei sta facendo. La paziente ha risposto di
non essere ammalata, si calma quando arriva il marito e ridiventa
cordiale con le infermiere" . Gli appunti del medico dicono che il
giorno dopo fosse piuttosto arrabbiata e che questa rabbia la
esprimesse singhiozzando e minacciando di lasciare l'ospedale e
di mettere in guardia gli amici circa il suo funzionamento. n gior­
no successivo, le infermiere riportano che il cappellano ha parlato
mezz'ora con lei per aiutarla a sfogarsi delle tensioni, delle ansie e
dei conflitti. Egli ha affermato che la paziente è arrabbiata per
qualcosa. n "Piano" ha dunque previsto che il cappellano venisse
ogni giorno e che lei fosse più gentile col personale, e più cortese
quando aveva bisogno di qualcosa. Gli appunti del dottore la de­
scrivono come "stabile" e dopo di ciò non fanno più nessun cenno
a quanto avvenuto. La relazione dell'infermiera riporta che la pa­
ziente si lamentava ancora del dolore - categoria Soggettiva - e
che richiedeva antidolorifici - categoria Oggettiva -. Per quanto
riguarda il suo "problema di ansia" la parte Oggettiva dice: "Parla
del fatto che le persone non credono che lei non riesca a far nulla
da sola" . n giorno dopo se ne tornò a casa.
Ha sicuramente una qualche rilevanza il fatto che la paziente
sia stata esaminata (sic) da uno psichiatra la mattina dello stesso
giorno in cui poi avrebbe gettato il caffè (sul pavimento, secondo
le infermiere; addosso a un'infermiera, secondo il dottore). Secon­
do quanto riportato dalle infermiere, la paziente piangeva e tre­
mava, dopo la visita dello psichiatra, il quale nella sua relazione
scrive che "l'evidenza suggerisce chiaramente una sindrome cere­
brale organica" . Mfermava che era gennaio, mentre era dicembre.

93
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETIO, METODI, TEORIE

Lo psichiatra l'aveva appena svegliata. Inoltre "dimostrava perdi­


ta di associazioni", "a volte era difficile seguirla perché saltava da
un argomento all'altro", e fece ben tre errori nel fare delle sottra­
zioni seriali da 50. Avendo stabilito che l'evidenza suggeriva chia­
ramente una sindrome cerebrale organica (cioè una patologia fisi­
ca del cervello), lo psichiatra nelle sue prescrizioni scrisse: "Per
quanto concerne la sindrome cerebrale organica della pazien­
te . . . ". In altre parole, quello che inizialmente era stato avanzato
come ipotesi (e che ipotesi! ) diventa ora una cosa reale. La nega­
zione della paternità non potrebbe essere più evidente.
n significato di questo episodio, a parte il fatto che illustra an­
cora un'altra storia di ospedalizzazione, è che rivela come la si­
tuazione clinica diventi un terreno di lotte per il potere e per la
definizione della malattia e dei gradi di inabilità. L'istanza critica
si incentra sulla valutazione dell'inabilità e dei sentimenti come il
dolore e, successivamente, sulla cura necessaria. È qui che i pro­
fessionisti privano i pazienti del loro senso di certezza e sicurezza
riguardo alla propria capacità di giudizio. Per forza di cose, l' au­
toconsapevolezza e l'autogiudizio richiedono la presenza e la ri­
flessione di altre persone. Nella situazione clinica, questa dialetti­
ca del sé e dell'altro deve sempre favorire il potere di definizione
dell'altro inscritto nell'aura del guaritore, che deve perciò tratta­
re questo potere con grande sensibilità, affinché ;non scivoli in
un'asserzione di realtà totalmente a senso unico, rim anendo una
relazione solo di nome. n guaritore tenta di modulare e plasmare
l'autocoscienza del paziente senza dominarla fino al punto di di­
struggerla, perché se dovesse succedere, allora il guaritore perde­
rebbe un alleato nella lotta contro la malattia. Eppure, come è de­
scritto in questo caso di studio, un procedimento piuttosto per­
verso impedisce quest'alleanza e il paziente è trasformato in un
nemico. Non si tratta, come sostiene Illich, del fatto che, per
esempio, i pazienti perdono la loro autonomia. Tutt'altro. Quello
che invece accade è che la situazione clinica moderna genera una
situazione contraddittoria in cui il paziente oscilla come un pen­
dolo tra la passività alienata e l'autoaffermazione alienata.
Paradossalmente, tutto ciò deriva dall'esplicita volontà dei pro­
fessionisti della salute di essere più umani e di concedere, consa­
pevolmente, una posizione privilegiata, all'interno del dialogo me­
dico, alla definizione che il paziente elabora del suo problema, al

94
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

solo scopo di cooptare quella definizione in una pratica che diven­


ta sempre più razionale man mano che perde in umanità. Questa
razionalizzazione equivale a un tentativo di strappare il controllo
al paziente e di definire il suo stato innanzitutto parcellizzandolo,
prima come paziente, quindi come una cosa in opposizione allo
status di partner in un processo di scambio all'interno di un'inte­
razione reciproca, e infine nelle categorie di Oggettivo e Soggetti­
vo, utilizzando queste reificazioni attraverso un'Analisi e un Pia­
no. L'analogia con il tipo di razionalità che presiede alla produzio­
ne delle merci è completa. Come per le automobili nella catena di
montaggio, lo stesso avviene con i pazienti e con le faccende che
riguardano la salute, mentre la differenza, il pathos e i problemi
che possono occasionalmente insorgere testimoniano tacitamente
il fatto che, diversamente da quanto vale per le automobili, i pa­
zienti pensano e sentono, e la malattia è tanto una relazione uma­
na interattiva, quanto una cosa-in-sé.
La mia intenzione qui non è solo di dirigere l'attenzione sul ca­
rattere di durezza che emerge da queste considerazioni. In più 'ab­
biamo a che fare con la complessa mistificazione presente nel pro­
cesso di guarigione in ogni cultura, ma che nel nostro contesto cli­
nico moderno cannibalizza in maniera esiziale la potenziale fonte
di forza per la cura, riposta nell'intersoggettività di paziente e gua­
ritore. Nel nome della nobile causa della guarigione, i professioni­
sti hanno saputo appropriarsi di questa reciprocità, sfruttando let­
teralmente una relazione sociale in modo da trasformare il potere
di guarire in potere di controllo. I problemi che ne derivano, alme­
no quelli descritti in questo caso di studio, stanno nella natura
profonda del contesto clinico e sono perciò assai poco evidenti agli
stessi terapeuti. Come notò sconsolatamente il cappellano, la pa­
ziente "è arrabbiata per qualcosa", e questa rabbia è provocata dal­
le contraddizioni che la assalgono. Da un lato, la paziente intuisce
la capacità dei "meri" pazienti di formare una comunità terapeuti­
ca. Ma dall'altro, nega il fiorire di questa potenzialità, trovandosi
costretta a permettere ai professionisti di appropriarsi del suo po­
tere decisionale, ribellandosi tuttavia, in un altro momento, pro­
prio contro questa appropriazione. n circuito della reificazione e
della ri-soggettivazione è dunque intrinsecamente instabile. Que­
sto tipo di professionalizzazione della salute, fin troppo comune,
non garantisce il controllo perfetto che il personale richiede, senza

95
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

considerare i bisogni dei pazienti. Tutto ciò porterà a una raziona­


lizzazione ulteriore e a una ancor maggiore professionalizzazione.
Durante un successivo ricovero in ospedale, poco tempo dopo
avermi parlato per la prima volta dei pazienti che si aiutano tra di
loro, solo per poi reclamare un terapeuta professionista che la aiu­
tasse a camminare, la paziente improvvisamente rifiutò l'assistenza
dei terapeuti occupazionali. Si lamentò che era impegnata tutto il
giorno con la terapia, che i terapeuti occupazionali impiegavano
un'ora al giorno e che non aveva il tempo né di usare la padella, né
di pettinarsi i capelli, né di ascoltare la sua musica religiosa. "Quan­
do sto male", dichiarò, "non posso lavorare otto ore al giorno! Tut­
ta la mia teoria della malattia e del miglioramento è il riposo. E
quindi stamattina sono crollata e ho detto alla terapeuta occupazio­
nale che dovevo cancellare l'ora con lei. Ogni tanto devo prendere
un'ora durante il giorno in cui mi posso semplicemente rilassare e
non continuare a salire e scendere da una sedia, che oltretutto mi fa
parecchio male. Non c'è tempo di fare nulla di un po' personale . . .
per cui ecco che arriva lo stress e il conflitto emotivo. E non ho mai
il tempo di risolvermelo da sola. E non c'era modo . . . perché ci so­
no solo otto ore. Non posso mettere dodici ore dentro otto! "
È evidente ancora una volta come l'alienazione passiva implici­
ta nel suo rapporto coi professionisti, che a prima vista sembra un
fait accompli, registra un'improvvisa rottura, una " scena" che dif­
fonde il panico tra il personale.
I terapeuti occupazionali, i terapeuti fisici e gli assistenti socia­
li rimasero tutti molto male per questo gesto, che interpretarono
come una negazione della loro capacità ed efficacia. Quando
chiesi loro perché non la lasciavano sola per una settimana, il loro
superiore disse: "Perché si tratta anche del mio Servizio sanitario,
i contributi al servizio sanitario sono suoi, ma anche miei ! " Così
stilarono un contratto con la paziente, procedimento ormai tipi­
co negli ospedali, come in molte scuole degli Stati Uniti.

IL CONTRAlTO

n personale e il paziente firmano entrambi un contratto scritto


che stabilisce, per esempio, "Quello che puoi decidere", "quello
che non puoi decidere", "gli obiettivi", "cosa faremo noi", "cosa

96
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

farai tu" . Nel caso di questa paziente il contratto stabiliva come


obiettivo di camminare nove metri circa per tre volte al giorno.
"Cosa faremo noi", di garantire due periodi di riposo di 45 minuti.
" Cosa farai tu" , provare e camminare. n motivo sottostante, de­
scritto da alcuni teorici del contratto medico, è che il personale ri­
compenserà il paziente per avere aderito ai suoi desideri (rafforza­
mento positivo), invece che ricadere in quella che viene vista come
la trappola del vecchio modello che, si suppone, avrebbe rafforza­
to la non-compliance, preoccupandosi più di quest'ultima piutto­
sto che della compliance del paziente. In breve, si tratta di un ap­
proccio comportamentista utilizzato consciamente all'interno dei
contratti di mercato con lo scopo di ottenere il controllo sociale.
Siamo di fronte alla medicalizzazione del mercato applicata alla
mercificazione della medicina. I premi citati nelle riviste accade­
miche e professionali che hanno a che vedere con l'argomento so­
no: biglietti della lotteria, denaro, libri, giornali, assistenza nel
compilare i moduli assicurativi, informazioni, oppure del tempo
con "chi fornisce servizi sanitari" (vedi Boehm Steckel, Swain,
1977). Si è visto che i pazienti scelgono spesso di passare più tem­
po con "chi fornisce servizi sanitari" oppure assistenza nello sbri­
gare le complesse pratiche burocratiche, così da ottenere benefici
assicurativi e referenze mediche.
Lo stesso concetto di "fornitore di servizi sanitari", così disar­
mante nella sua linearità, funzionalità e concretezza, è precisamen­
te quel tipo di classificazione ideologica che conduce i pazienti alla
cosiddetta non-compliance. n "fornitore di servizi sanitari" , noto
in epoca antidiluviana come l'infermiera, il dottore ecc., non si oc­
cupa della salute! La salute è parte della condizione umana, come
la malattia, e l'incidenza delle manifestazioni di entrambe sono pe­
santemente determinate dalle peculiarità dell'organizzazione so­
ciale. L'assistenza sanitaria dipende, nei suoi risultati, da una rela­
zione a doppio senso tra il malato e il guaritore. Nella misura in cui
si prowede all'assistenza sanitaria, sia il paziente che il guaritore se
ne occupano, e ovviamente la preoccupazione per la cosiddetta
non-compliance ne è testimonianza, in modo inverso. Nel presta­
bilire che il professionista è "colui che fornisce l'assistenza" , l'ere­
dità sociale, che costituisce la sapienza e il potere della medicina,
viene a priori dichiarata monopolio legittimo di coloro che sono in
grado di convincerci che questa sapienza viene dalla società e dalla

97
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

natura sotto forma di merce preconfezionata che loro e soltanto lo­


ro possono dispensare. E scegliere come ricompensa per i pazienti
che non aderiscono alle indicazioni mediche di aiutarli a superare
gli ostacoli procurati da "chi fornisce l'assistenza medica", è come
caricare di assurdità l'inganno. Ma il vero dramma in tutto ciò non
è la sua assurdità né l'inganno. È il fatto che al giorno d'oggi sem­
bra del tutto naturale e ragionevole. Questo è appunto il marchio
dell'ideologia: la sua naturalezza. E se la sua natura la si trova nel
regno e nel linguaggio del marketing, di modo che la cultura della
medicina e della guarigione stessa soccombono all'idioma degli af­
fari, non ci dobbiamo stupire molto. Per noi è la cultura degli affari
che pone gli affari come traguardo della cultura.
Nello stesso modo in cui la libertà e un certo tipo di individua­
lismo cominciarono molto tempo fa ad affermarsi con il crescere
dell'economia di libero mercato, oggi l'introduzione della con­
trattazione nella guarigione viene vista dai suoi sostenitori come
un evidente punto messo a segno a favore dell'affermazione dei
diritti umani, che avrebbe fatto a pezzi la mistificazione di un
passato feudale, quando i pazienti accondiscendevano agli ordini
dei medici per cieca fiducia. I fautori della contrattazione, nei
contesti clinici, ci dicono anche che la dottrina del comporta­
mentismo e delle "leggi" di rinforzo ed estinzione, hanno con­
dotto alla "cura dei comportamenti umani di maladattamento,
inclusi psicosi, ritardi mentali, alcolismo, bassa produttività nel
lavoro e criminalità" (ibidem, p. 81).
n maladattamento non è certo un'entità, m a un concetto pura­
mente normativa ammantato da gergo scientifico. Spesso poi ser­
ve, in contesti come questi, a spacciare un'intenzione o un valore
particolari per fatti di natura. L'assimilazione di bassa produttività
lavorativa, criminalità e psicosi, come elementi di uno stesso fatto,
il maladattamento appunto, e adesso anche l'inclusione dei pa­
zienti che non obbediscono agli "ordini" dei medici, serve a ricor­
darci quale colossale distorsione venga generata dalla reificazione
delle relazioni sociali, al punto che valori eminentemente politici,
contrabbandati sotto le vesti di costrutti tecnici, rimangono immu­
ni da critiche, bollati con l'autorità di un fatto scientifico certo e
impenetrabile. Ancora una volta, si pensa che la natura della verità
sia riposta nella verità della natura e non, criticamente, che dipen­
da dall'organizzazione sociale dei fatti e della natura.

98
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

Nel caso della paziente descritto in questo studio, potremmo


notare quanto segue. Aveva tutte le migliori ragioni per non aderi­
re agli ordini del personale, ma questa ragione non venne presa in
considerazione dal personale. È stata infatti vista come una mi­
naccia al loro potere e alle casse dell'assistenza sanitaria. Non è af­
fatto vero, come credono le succitate autorità in materia di con­
tratti, che dal momento che la paziente non seguiva le indicazioni
mediche, riceveva più attenzioni dal personale. Era anzitutto il
contrario. Quando collaborava, riceveva troppe attenzioni e tutto
quello che chiedeva era più tempo libero. La causa della sua fru­
strazione era intimamente legata alla pressione burocratica che ca­
ratterizzava la sua routine quotidiana. La strategia del personale
fu quindi selezionata con intelligenza per affrontare la situazione
attraverso un'ulteriore burocratizzazione di un accordo, il con­
tratto, in modo tale da destrutturate formalmente il tempo in tera­
pia e "tempo libero" , tempo che qualunque amante della libertà
avrebbe ingenuamente pensato che fosse innanzitutto proprio, e
in ogni caso non qualcosa in possesso e a disposizione del perso­
nale. L'idea che lei fosse libera di scegliere e di contrattare, e l'idea
che stipulare un contratto sia di per sé segno e causa di libertà, è
un'illusione pericolosa tanto quanto l'idea che il tempo libero che
il personale le garantiva non era veramente innanzitutto suo.
La tesi a favore della contrattazione, secondo cui essa farebbe
piazza pulita delle mistificazioni nel torbido scenario della com­
prensione tra medico e paziente, accrescendo il potere, la com­
prensione e l'autonomia del paziente, è una frode. In più, è una
frode che mette in evidenza la falsa coscienza relativa alla libertà e
all'individualismo su cui poggia la nostra società. Si può davvero
dire che l'autonomia e la libertà aumentano, quando è il personale
a detenere il potere di disporre le opzioni e i termini del contratto?
Se mai, l'autonomia e la libertà diminuiscono perché l'illusione
della libertà serve a celare la sua assenza. Inoltre, il tipo di libertà
che è in gioco nella contrattazione, equivale a una conveniente giu­
stificazione per negare le responsabilità e gli obblighi interperso­
nali, proprio come, in nome del contratto e della libera impresa, al­
la classe operaia, al nascere del capitalismo moderno, veniva detto
che fosse libera e uguale ai capitalisti coi quali doveva liberamente
contrattare per la vendita della propria forza lavoro. Non c'è molta
differenza tra quella situazione, il mercato capitalista del lavoro e

99
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

la situazione di cui ci occupiamo, in cui il contesto clinico diventa


un mercato della salute, e la persona contratta come un presunto
libero agente con coloro che "forniscono servizi sanitari", come
per garantire a questi ultimi il diritto di appropriarsi del potere del
valore d'uso che si incarna nel processo di guarigione.
Ben lontano dall'accrescere l'autonomia del paziente (come
invece sostengono i suoi fautori), il progetto della contrattazione
è inconfondibilmente manipolativo.

Conversare quindici minuti continui con un membro del persona­


le, giocare a dama, a carte e a scacchi, leggere la Bibbia, discutere gli
eventi attuali e ricevere visite dai vari componenti del personale, sono
tutti esempi di ricompense scelte dai pazienti. Esempi del genere in­
dicano come i pazienti attribuiscano un valore considerevole alle no­
stre interazioni con loro. È inoltre segno del fatto che, proprio perché
i pazienti danno un valore alla nostra relazione con loro, noi ci trovia­
mo in una posizione di potere per influenzare la scelta di comporta­
mento che alla fine il paziente decide di fare; per esempio la complian­
ce o al contrario la non compliance. (Boehm Steckel, 1974, p. 40)

Proprio come eravamo abituati a credere che le cure mediche


fossero diverse dagli affari, come nell'analisi di Talcott Parsons in
cui l'"orientamento collettivo" della professione medica era oppo­
sto all'etica degli affari fondata sull'interesse personale, solo per poi
doversi ricredere progressivamente, allo stesso modo, ora, scopria­
mo che anche l'amicizia è qualcosa che si deve comprare e negozia­
re a blocchi di quindici minuti. Dopotutto, se la salute diventa un
bene che si può acquistare e vendere, di cosa ci si meraviglia se l'a­
micizia può ugualmente divenire una merce? E se le relazioni socia­
li e l'amicizia diventano cose, non ci si deve stupire neanche in que­
sto caso che il soggetto diventi un oggetto in sé, in modo tale che

[. . . ] i pazienti trovano molto gratificante migliorare la propria linea


di riferimento. Forse questa è la ricompensa in assoluto più signifi­
cativa. Migliorare la propria linea di riferimento indica al paziente
che è sostanzialmente in competizione con se stesso. Egli si vede co­
me colui che esercita il controllo sul proprio comportamento. Ciò
elimina la necessità di un'interazione superiore quando il comporta­
mento è inaccettabile. In altre parole, il paziente conosce grafica­
mente quando il suo comportamento diviene inaccettabile e noi, in
quanto professionisti, siamo liberi di "ignorare" il comportamento
inaccettabile. (Ibidem)

100
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

L'ANTROPOLOGIA: ll. PUNTO DI VISTA DEL NATIVO

Se la contrattazione rappresenta l'intrusione di una dimensio­


ne delle scienze sociali - ovvero il comportamentismo nella prati­
ca medica, così da migliorare e umanizzare l'assistenza medica -,
allora anche l'antropologia ha qualcosa da aggiungere: specifica­
tamente un interesse per il punto di vista dei nativi. Qui l'idea,
avanzata da Kleinman e collaboratori (Kleinman et al., 1978) in
un recente articolo apparso sugli Annals o/ Interna! Medicine, è
che disease e illness rappresentino due realtà differenti e che la se­
conda sia plasmata dalla cultura. Disease rappresenterebbe la di­
sfunzione organica che può essere modificata dal patologo e mi­
surata in laboratorio, mentre illness sarebbe quello che la disfun­
zione significa per la persona che ne è affetta. La cirrosi epatica,
per esempio, può essere rappresentata in termini di disease; dai
microbiologi, in termini di deformazione dell'architettura del tes­
suto e di morfologia cellulare, dai biochimici, in termini di cam­
biamenti nei livelli enzimatici, e così via. Ma per la persona affetta
da disease significa qualcos'altro, e questo qualcos'altro è la di­
mensione della illness; il significato culturale del termine cirrosi, i
significati che vengono letti nei fastidi, nei sintomi, nei segni e nel­
la cura della patologia [disease in originale] , e così via. Questo è il
punto di vista del nativo, e sarà necessariamente diverso dal pun­
to di vista che il medico elabora della disease. A partire dalla loro
concezione dell'antropologia, e dalla loro esperienza di ricerca
sulle medicine tradizionali nel terzo mondo, Kleinman e collabo­
ratori ritengono che questa differenza tra disease e illness sia fon­
damentale. Essi sono a favore di un'integrazione nella formazione
del personale medico, in modo tale che anch'esso diventi consa­
pevole di questa differenza e agisca in rapporto a essa. Questa è
ciò che definiscono una "scienza sociale clinica", il cui cardine
sarà "la costruzione culturale della realtà clinica" . Apprendere e
applicare tutto questo migliorerà le relazioni tra medico e pazien­
te, nonché l'efficacia terapeutica, superando il vuoto comunicati­
vo tra il "modello medico della disease" e il "modello che il pa­
ziente elabora della illness" . Come per la contrattazione, la non­
compliance del paziente e la gestione delle persone rappresentano
il tema centrale di tale proposta.

101
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Formare i moderni professionisti della salute a trattare abitual­


mente sia la patologia [disease] che l'esperienza di malattia [illness] e
a scoprire visioni discrepanti della realtà clinica avrà come risultato
un notevole miglioramento nella gestione e nella compliance del pa­
ziente, nella sua soddisfazione e negli esiti della cura. (Kleinman et
al., 1978, p. 256)

La delucidazione del modello di malattia del paziente aiuterà il


clinico a rapportarsi col conflitto tra i loro rispettivi valori e le loro
credenze. n compito del clinico è quello di educare il paziente, se il
suo modello dovesse interferire con una cura appropriata. L'edu­
cazione fornita dal clinico è concepita come un processo di "nego­
ziazione" di differenti orientamenti cognitivi e di valore, e tale ne­
goziazione "potrebbe essere il singolo e più importante passo nel
conquistare la fiducia del paziente" (ibidem, p. 257). Come gran
parte dell'umanistico mercanteggiamento di riforme portato avan­
ti in tempi recenti, nel quale viene alla ribalta l'interesse per il pun­
to di vista dei nativi, là si annida il pericolo che gli esperti si appro­
fittino di quella conoscenza solo per rendere la scienza della ge­
stione umana quanto più potente e coercitiva. Perché certo ci sa­
ranno irreparabili conflitti di interesse e questi saranno "negozia­
ti" da quelli che hanno il coltello dalla parte del manico, quantun­
que nei termini di un linguaggio e di una pratica che nega questa
manipolazione e l'esistenza di un controllo ineguale. n vecchio
modello medico, che non rifletteva apertamente Sl.J queste questio­
ni fondamentali e che si basava sulla presupposizione dell'esisten­
za di un rapporto di fiducia reciproca, deve essere trasformato. La
relazione viene ora vista nei termini di "fornitore" e "cliente" , en­
trambi alleati in una situazione di interesse reciproco. Kleinman e
colleghi dimostrano questo universo democratico in cui, lungi dal­
lo spazzare via le vecchie mistificazioni incorporate nei rapporti di
fiducia, se ne vanno a installare, al loro posto, di nuove, altrettanto,
se non più, preoccupanti. Secondo il loro schema, il clinico:

[ . . . ] opera una mediazione tra differenti orientamenti cognitivi e di


valore. Egli negozia attivamente col paziente come in un'alleanza te­
rapeutica . . . Per esempio, se il paziente accetta di usare antibiotici,
ma crede che bruciare incenso, o portare un amuleto, o consultare
una chiromante sia altrettanto necessario, il medico deve compren­
dere questa credenza e non tentare di cambiarla. Se, comunque, il
paziente riconosce che la penicillina è un rimedio "caldo", inappro-

102
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

priato per una patologia " calda", e si rifiuta perciò di prenderla, si


possono negoziare dei modi per "raffreddare" la penicillina, o si
può tentare di persuadere il paziente della scorrettezza della sua cre­
denza, un compito estremamente difficile. (Ibidem, p. 257)*

È una strana "alleanza" in cui una parte approfitta delle conce­


zioni personali dell'altra per manipolarla in modo più efficace.
Che possibilità c'è per il paziente, in questo genere di alleanza, di
esplorare il modello che il medico elabora, sia della disease sia della
illness, e di negoziarlo? Limitati dalla necessità di perpetuare la
professionalità e l'inoppugnabile distinzione tra clinico e pazien­
te, esortando allo stesso tempo il bisogno e la convenienza di tene­
re in conto la consapevolezza culturale, questi autori non riescono
a vedere che non è la "costruzione culturale della realtà clinica" a
dover essere discussa esplicitamente, quanto piuttosto la costru­
zione clinica della realtà a essere messa in gioco.

COSTRUZIONE CULTURALE DEllA REALTÀ O COSTRUZIONE CLINICA


DEllA CULTURA?

È proprio qui che una seria interpretazione antropologica può


davvero far luce. I medici e i "fornitori di assistenza sanitaria" non
sono meno immuni alla costruzione sociale della realtà dei pazien­
ti che gestiscono, e la realtà della cosa è definita tanto dal potere e
dal controllo quanto dai variopinti simboli della cultura, incenso,
amuleti, chiromanti, opposizioni caldo-freddo e così via.
Quel che conta, è che a questo stadio della medicina, con le crisi
che la affliggono, dovrebbe effettivamente emergere un progetto
del genere. Quello che sta succedendo è che da un lato, per la pri­
ma volta, nella situazione clinica moderna, è in corso un tentativo
di riflettere esplicitamente su ciò che prima veniva dato per sconta­
to, ma, dall'altro lato, che questa archeologia dell'implicito non
può sfuggire alle richieste di controllo professionale. n cosiddetto
modello di malattia del paziente differisce in modo assai significati­
vo da quello del clinico, non in termini di simbolizzazione esotica,

* Qui gli autori si stanno rifacendo a teorie umorali della malattia e della sa­
lute alla cui luce si ritiene che la terapia debba essere di natura opposta a quella
del disturbo, al fine di ristabilire un equilibrio fra principi opposti quali quelli
fra caldo e freddo, secco e umido ecc. [NdT]

103
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETTO, METODI, TEORIE

ma nei termini dell'ansia di elaborare un significato sociale e mora­


le per la patologia. TI clinico non può consentire a quest'ansia di ot­
tenere legittimità o di entrare in relazioni sociali più ampie, come
quelle dell'ospedale e del clinico, poiché è assai probabile che tale
processo di riflessione possa tanto accettare quanto condannare
l'attuale costituzione delle relazioni sociali e della società stessa.
Tentativi, come quelli portati avanti da Kleinman e colleghi, di
rendere esplicito ciò che prima era implicito, colgono l'implicito
attraverso gli strumenti di una moderna scienza sociale che mira
solamente a poterlo controllare meglio. Tuttavia, nel perseguire
tale progetto, rivelano in modo cristallino , ancorché inconsapevo­
le, le dinamiche essenziali di ciò che veramente accade in un in­
contro clinico apparentemente tecnico attraverso la manipolazio­
ne e la mediazione delle contraddizioni sociali. L'impulso imme­
diato per questa archeologia dell'implicito, per questo portare alla
luce della coscienza ciò che prima era inespresso o inconscio nella
pratica medica, arriva in un momento in cui la questione della
non-compliance (in modo simile allo scolaro analfabeta) mette in
allarme il sistema medico, impegnato come mai prima nel conteni­
mento dei costi e nella razionalizzazione della catena di montaggio
della salute. A questo proposito, è uno scandalo nonché una fru­
strazione appellarsi all'antropologia per avere una qualche prova
riguardo al potere di concetti come "modello del\paziente" e alla
differenza tra il "come" e il "perché" della "disease" e della "ill­
ness". Perché l'antropologia medica delle società cosiddette "pri­
mitive" ci insegna anche che la medicina è innanzitutto uno stru­
mento di controllo sociale. Ci insegna che le dimensioni del "per­
ché" o della illness poggiano precisamente su ciò che rende l'esi­
stenza densa di significato e per cui vale la pena viverla, spingen­
doci a esaminare le cause sociali e morali dello stato di malattia, e
ci insegna che quelle cause sono racchiuse nelle considerazioni in­
terumane comuni e reciproche, antitetiche ai fondamenti della
moderna organizzazione sociale, pervasa com'è dalle necessità di
prerogative capitalistiche e burocratiche. Come scrive Victor Tur­
ner al termine della sua discussione sul medico ndembu nello
Zambia rurale:

Sembra che il "dottore" Ndembu identi.fichi il proprio compito


più con la riparazione dei mali di una collettività che con la cura di

1 04
REIFICAZIONE E COSCIENZA DEL PAZIENTE

un singolo paziente. La malattia di un paziente è essenzialmente il


segno che "c'è qualcosa di marcio" nella vita del gruppo. n paziente
non migliorerà finché tutte le tensioni e le aggressività nei rapporti
di gruppo non saranno state portate alla luce e sottoposte al tratta­
mento rituale [ . . . ] n compito del dottore consiste nel penetrare nel­
le varie correnti affettive associate a questi conflitti e alle dispute so­
ciali e interpersonali in cui si manifestano, per canalizzarle in una di­
rezione socialmente positiva. Le energie grezze del conflitto vengo­
no in tal modo addomesticate al servizio dell'ordine sociale tradizio­
nale. (Turner, 1967, p. 454)

Ed è Lévi-Strauss a ricordarci, nel suo saggio Lo stregone e la


sua magia, che i rituali di guarigione fanno sì che la società si ria­
datti ai problemi predefiniti attraverso il medium del paziente;
che questo processo fa ringiovanire ed elabora gli assiomi essen­
ziali di una società (Lévi-Strauss, 1966). Caricata emotivamente
di sofferenza e anormalità, la malattia lancia una sfida alla com­
piacenza e all'accettazione quotidiana delle strutture convenzio­
nali di significato. n medico e il paziente si riuniscono nella clini­
ca. La comunità non può più osservarli e partecipare a questa
operazione. Nondimeno, sia che il paziente accetti la penicillina o
no, sia che noi altri siamo fisicamente presenti nella clinica o no, il
medico e il paziente pongono rimedio alla minaccia che incombe
sulla convenzione sociale e sulla società stessa, placando il turba­
mento scatenato dalla malattia nei confronti del normale modo di
pensare, che non è un sistema immobile, ma un sistema in cresci­
ta che si solidifica e si sfalda sul filo delle proprie contraddizioni.
Non è la costruzione culturale della realtà clinica a essere qui in
questione, ma in ballo sono la costruzione e la ricostruzione clini­
ca di una realtà mercificata. Finché non riconosciamo tutto ciò, e
non agiamo di conseguenza, una medicina umanistica rimane
una contraddizione in termini.1

l. Vorrei ringraziare il dottor Tom O'Brien e il dottor Steve Vincent, per


avermi aiutato a intraprendere questo progetto, e i membri del seminario di An­
tropologia marxista del 1977 all'Università di Ann Arbor, nel Michigan, per i lo­
ro commenti su una traccia precedente di questo lavoro.

105
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

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106
4

ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS "


E DELLA " SICKNESS"
Allan Young

Da quando la Annua! Review o/Anthropology ha pubblicato i


suoi ultimi articoli sull'argomento, l'antropologia medica ha vis­
suto una crescita significativa nei termini di ricerche, pubblica­
zioni e attività professionali. Quando Fabrega (1972) e Colson e
Selby (1974) scrissero la loro rassegna dei cinquant'anni trascorsi
dalla pubblicazione del testo di Rivers Medicine, Magie, and ReN­
gian del 1924, potevano citare soltanto una manciata di mano­
grafie e di volumi pubblicati. E sebbene potessero fare riferimen­
to alla Transcultural Psychiatric Research Review (Montreal) e a
Ethnomedizin (Amburgo), non esisteva ancora un giornale di un
certo rilievo dedito a questo campo.
Nell'ultimo decennio, invece, è apparso un gran numero di
pubblicazioni.*

* Raccolte specialistiche (Hughes, 1968; lngman, Thomas, 1975; Kleinman,


Kunstadter, Alexander, Gale, 1975; Korbin, 1981; Lebra, 1976; Leslie, 1976;
Sharma, 1976; Spicer, 1977; Waddel, Everett, 1980; Westermeyer, 1976), ampie
antologie (Bauwens, 1978; Grollig, Haley, 1976; Landy, 1977; Logan, Hunt,
1978; Loudon, 1976; Morley, Wallis, 1978; Van der Geest, Van der Veen, 1979),
lavori teorici (Fabrega, 1974; Kleinman, 1980), etnografie di stampo medico
(Bastien, 1978; Estroff, 1981; Harwood, 1977; Jordan, 1978; Kimball, 1979;
Lewis, 1975; Lindenbaum, 1979; Ngubane, 1977; Ohnuki-Tierney, 1980; Rey­
nolds, 1976; Reynolds, 1980; Scheper-Hughes, 1978; Townsend, 1978; Young,
1981), studi su vasta scala (Cohen, 1979; Egeland, 1978; Weidman et al., 1978),
libri di testo (Debacher, 1979; Foster, Anderson, 1978; McElroy, Townsend,
1979; Moore, Van Arsdale, Glittenberg, Aldrich, 1980; Wood, 1979; Zimmer­
mann, 1980) e una rassegna transculturale di etnomedicina (Murdock, 1980).
Sono inoltre apparse due collane monografiche, i "Comparative Studies of
Health Care Systems and Medicai Care", curata da Charles Leslie (Janzen,
1978a; Kleinman, 1980; Leslie, 1976; Lock, 1980; Unschuld, 1979), e "Culture,
Medicine and Healing", curata da Kleinman e altri (Chrisman, Maretzky, 1982;

107
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Ma pubblicazioni e conferenze sono solo una parte della vi­


cenda. Fino a una decina d'anni fa, la maggior parte degli antro­
pologi medici erano antropologi con una formazione tradizionale
che si erano poi interessati a questioni mediche, oppure medici e
infermieri che si erano specializzati in antropologia. La formazio­
ne medica, se si verificava, si attuava al di fuori del curriculum an­
tropologico. Ma anche in questo la situazione è profondamente
mutata. Nel 1980, venti università negli Stati Uniti offrivano corsi
di laurea in antropologia medica, e tre quarti di esse conferivano
diplomi a livello dottorale e postdottorale (Barker, Todd, 1980;
Todd, Barber, 1980).
Perché l'antropologia medica è cresciuta così rapidamente?
Per rispondere a questa domanda è necessario conoscere motivi e
metodi propri degli antropologi.
Per quanto riguarda i motivi, due sono le ragioni principali che
giustificano il loro crescente interesse per la malattia e la medicina.
Una di queste riguarda l'emergere graduale di un discorso antro­
pologico distintivo sulla malattia, e con esso, di un insieme di temi
e problemi avvincenti. Poiché ciò di cui parlerò nelle prossime pa­
gine sarà riferito a questi argomenti, mi accontento per ora di ac­
cantonarli e di affrontare un secondo ordine di motivi. Innanzitut­
to bisogna dire che l'apparire di nuove opportunità, professionali e
il declino di quelle vecchie hanno spinto gli antropologi a scrivere
e a svolgere ricerche su questioni mediche. Alcune delle nuove op­
portunità nascono dall'impegno di quei clinici sempre più insod-

Eisenberg, Kleinman, 1981a; Kleinman, Lin, 1982). Tre importanti riviste han­
no visto la luce: Culture, Medicine and Psichiatry, Medica! Anthropology, i nu­
meri trimestrali di Social Science and Medicine dedicati all'antropologia medica,
e Medica! Anthropology Newsletter, una pubblicazione trimestrale della Society
for Medicai Anthropology, che è stata ampliata fino a includere articoli origina­
li, e ora è la migliore fonte di recensioni di libri di antropologia medica. Oltre a
questi periodici, c'è il ]ournal o/ Ethnopharmacology e due nuove riviste euro­
pee, Ethnopsychiatrica (Claix, France) e Curare (Wiesbaden). Infine, c'è una
lunga lista di pubblicazioni che sono frutto di recenti conferenze e simposi di
antropologia medica (Ablon, 1981; Ademuwagen, Ayoade, Harrison, Warren,
1979; Beali, 1982; Etkin, 1979; Everett, et al., 1976; Gorden, 1978; Grollig, Ha­
ley, 1976; Ingman, Thomas, 1975; Janzen, Feierman, 1979; Janzen, Prins, 1981;
Kleinman, Kunstadter, Alexander, Gale, 1975; Lebra, 1976; Leslie 1976; 1978;
1980; Lewitter, 1980; Loudon, 1976; McCracken, 1979; Newman, 1981; Rubel,
1979; Velimirovic, 1978; Weidman, 1979; Westermeyer, 1976; Wetherington,
1978; Young, 1978a).

108
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

disfatti del riduzionismo biologico che sta a fondamento del loro


sapere (Brody, 198 1 ; Eisenberg, 1977; Eisenberg, Kleinman,
1981b; Engel, 1977; Fabrega, 1975; Klehunan, 1978b; Klehunan,
Eisenberg, Good, 1978; Stoeckle, Barsky, 1981). Sotto l'egida di
costoro, gli antropologi sono stati invitati sempre più spesso nei
contesti clinici, specialmente nei programmi di assistenza primaria
e di medicina familiare (per alcuni studi recenti di antropologi che
hanno lavorato nei contesti clinici occidentali, vedi Alexander,
1979; Brink, 1976; Chrisman, 1977; Comaroff, Maguire, 1981; Fo­
ster, Anderson, 1978; Gern, Shimkin, 1980; Glasser, Pelto, 1980;
Good, Good, 198 1 ; Harwood, 1981a; Katon, Kleinman, 198 1 ;
Klehunan, 1978b; Leininger, 1978; Like, Ellison, 1981; Longhofer,
1980; McCracken, 1979; Pfifferling, 198 1 ; Reynolds, Farberow,
1976; Reynolds, Farberow, 1977; Stein, 1979; per alcuni commenti
sugli antropologi come clinici, vedi Heggenhougen, 1979; Shiloh,
1977; Shiloh et al., 1980). Altre opportunità professionali derivano
dall'elevato sostegno economico che è stato reso disponibile negli
Stati Uniti, almeno fino a tempi recenti, per gli scienziati sociali in­
teressati a questioni sanitarie. Questa combinazione di incentivi
aiuta a spiegare perché gran parte delle recenti pubblicazioni di
antropologia medica si rivolga soprattutto a scienziati sociali e
comportamentali con interessi e responsabilità di cw;attere clinico,
ai clinici e a coloro che sono impegnati nella formazione medica e
nell'organizzazione sanitaria.
Per quanto riguarda i metodi, gli antropologi hanno a disposi­
zione tre modalità più o meno distinte di elaborare tematiche re­
lative alla malattia e alla guarigione. A un primo livello, alcuni de­
scrivono le credenze e le pratiche mediche usando i sistemi con­
cettuali originariamente finalizzati allo studio di altri domini fe­
nomenologici. Ciò risulta chiaro se guardiamo ad alcune etnogra­
fie classiche del passato: Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azan­
de, di Evans-Pritchard (1937), La foresta dei simboli e Drums o/
A/fliction di Turner ( 1 967; 1968), Burmese Supernaturalism di
Spiro (1967). Sebbene contengano descrizioni dettagliate di cre­
denze e pratiche mediche (Evans-Pritchard e Turner includono
anche capitoli separati sulle pratiche mediche), raramente noi an­
tropologi le consideriamo esempi di antropologia medica. Piut­
tosto siamo inclini a ritenere che appartengano all'antropologia
della religione, del pensiero comparato, della stregoneria, del ri-

109
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGEITO, METODI, TEORIE

tuale e del simbolo, della cultura, della psicologia e così via. In


sintesi, riteniamo che tali monografie siano nate da problemati­
che e cornici teoriche in cui i temi della malattia sono solo stru­
menti per la comprensione di altre questioni. n punto che inten­
do qui sottolineare è che molti dei libri e degli articoli cui facevo
riferimento nei primi paragrafi di questa rassegna sono esempi
della stessa tradizione etnografica. Ciò non significa comunque
screditare la qualità di queste pubblicazioni il cui valore resta
fondamentale (per esempio Greenwood, 1981; Katz, 1981; Ngu­
bane, 1977; Ohnuki-Tierney, 1980). Anzi, questo tipo di analisi
potrebbe essere il modo migliore di interpretare gli eventi medici
nelle società semplici basate sulla parentela, nelle quali l'espe­
rienza di malattia viene ricondotta a causalità esterne a tal punto
che il corpo è ridotto a una "scatola nera" priva di importanza e
l'attenzione delle persone è quindi tutta concentrata sugli aspetti
sociali e simbolici della malattia (vedi per esempio lo studio di
Lewis sui Gnau della nuova Guinea: Lewis, 1975).
A un secondo livello, gli antropologi parlano di malattia e gua­
rigione, utilizzando metodologie e concetti presi a prestito dalla
sociologia medica. Questa si è affermata rapidamente come cam­
po di ricerca e di scrittura. Attualmente è una disciplina consoli­
data, i cui metodi e approcci sono stati pensati per effettuare in­
dagini nelle società industriali. Sotto tutti questi aspetti, si oppo­
ne all'antropologia medica, e non sorprende che �li antropologi,
che solo di recente hanno iniziato a studiare la malattia nelle so­
cietà industriali, siano tentati di mutuare da essa parte del loro ba­
gaglio concettuale. Purtroppo, la tendenza è stata quella di pro­
curarsi questi prestiti rivolgendosi alla tradizione empirista della
sociologia. È una sfortuna, perché l'antropologia sociale e la so­
ciologia empirista sono separate da premesse radicalmente diffe­
renti. In breve, l'empirista lavora attraverso una scienza sociale
non-epistemologica. Egli suppone che il linguaggio e le tecniche
che utilizza, una volta affinati in modo appropriato, possano rive­
lare i fatti del mondo, piuttosto che crearli. Qual è dunque la dif­
ferenza rispetto all'antropologia sociale? Da un certo punto di vi­
sta, quest'ultima è un sapere alla continua ricerca di un'epistemo­
logia soddisfacente. Ciò che separa l'antropologo dagli empiristi è
il fatto di ritenere che i propri concetti e le proprie idee siano pri­
vilegiati e allo stesso tempo appartenenti a un sistema culturale.

110
AN1ROPOLOGIE DELLA "ll.LNESS" E DELLA "SICKNESS"

In altre parole, egli pensa che i suoi punti di vista siano adatti a in­
terpretare le credenze di altri popoli, ma sa anche che essi, come
le credenze che sono chiamati a interpretare, sono i prodotti di
cause storiche e sociali particolari. n solo fatto di poter giustifica­
re le proprie opinioni per soddisfare gli altri antropologi e scien­
ziati sociali, o che i concittadini colti gliene riconoscano la legitti­
mità, non lo esenta dal sottoporle a un esame minuzioso (Young,
A., 1981a). La volontà dell'antropologo di analizzare dettagliata­
mente anche i propri concetti nei termini di un sistema culturale,
di voler conoscere e giustificare il proprio contesto di credenze,
aiuta a spiegare sia la ftàlità del suo discorso, sia il suo "fallimen­
to" nel superare ciò che Thomas Kuhn chiamava lo stadio prepa­
radigmatico della scienza.
Data però la dimensione transculturale dell'antropologia, po­
trebbe forse essere altrimenti? Sarebbe possibile solo se gli antro­
pologi medici supponessero erroneamente che le questioni episte­
mologiche si dovessero limitare all 'interpretazione di sistemi di
credenze non occidentali o al campo dell'inchiesta "etnomedica"
- un'inchiesta incentrata chiaramente su credenze e pratiche "non
esplicitamente derivate dalla cornice concettuale della medicina
moderna (allopatica) " (Hughes, 1968, p. 99). Quando questo ac­
cade, e l'esame epistemologico per le scienze sociali occidentali e
per la medicina occidentale viene sospeso, gli antropologi con in­
clinazioni empiriste sono liberi di adottare, come parte del pro­
prio apparato concettuale, il senso comune della cultura medica
dominante della loro società. Penso a concetti come "eventi esi­
stenziali stressanti", "meccanismi di superamento", "stili di vita"
e "status socioeconomico" , che essendo stati tratti dalla cultura
delle classi medie e portati negli spazi della scienza dalla sociolo­
gia empirista e dalla psicologia sociale, desocializzano la malattia e
la conoscenza della malattia da parte delle scienze sociali. I con­
cetti desocializzanti operano attraverso la rimozione delle cause
storiche, politiche ed economiche della malattia. Al posto delle
cause sociali, ridotte ora a fantasmatiche "variabili situazionali" e
ad "attributi" , gli empiristi fondano il primato dell'individuo e dei
suoi valori, delle sue ragioni, delle sue attitudini e percezioni.
n pericolo è che, dopo aver frammentato le relazioni sociali di
malattia tipiche della società occidentale, gli scienziati sociali em­
piristi favoriranno il loro riprodursi (Young, 1980). Per esempio,

111
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Foster e Anderson, nel loro libro Medica! Anthropology (Foster,


Anderson, 1978), descrivono gli Stati Uniti come una "società
complessa, che presenta varie scelte di vita" (ibidem, p. 96; il con­
testo è una discussione sulle carriere degli infermieri). In questa
società, pochi medici provengono da "livelli socioeconomici bas­
si" , perché le famiglie appartenenti agli strati socioeconomici in­
feriori non sono in grado di sostenere le necessità e le ambizioni
di quei figli che vorrebbero diventare medici (ibidem, p. 178).
Scrivendo a proposito di quelle regioni del mondo che stanno vi­
vendo rapide trasformazioni, Foster e Anderson attribuiscono "le
malattie della civiltà" alla tendenza delle persone ad adottare pra­
tiche distruttive per la salute, come l'uso eccessivo di alcol, e "stili
di vita completamente malsani" (ibidem, p. 124). Scelte di vita di­
verse? Livelli socioeconomici inferiori? Malattie della civiltà?
Certamente. Ma le scelte di vita non sono distribuite a caso nella
nostra complessa società, e non lo sono nemmeno nei paesi meno
sviluppati. Alcuni meccanismi fanno sì che gli individui apparte­
nenti ai ceti sociali "inferiori", lavorando a contatto con sostanze
tossiche o costretti a lunghi periodi di disoccupazione o sottoccu­
pazione, abbiano meno possibilità di scegliere il loro stile di vita.
E questi stessi meccanismi distribuiscono a un livello "superiore"
un ventaglio di alternative decisamente più sane. I due insiemi di
possibilità non si trovano semplicemente a co-occorrere: ciascuno
infatti collabora a determinare l'altro (ibidem, pp. 2 1 -22). n fatto
che Foster e Anderson ignorino le relazioni sociali della malattia è
coerente con la posizione presa da Foster in un articolo preceden­
te, dove l'autore si riferisce all'antropologia e alla sociologia me­
dica come a "differenti specializzazioni delle scienze comporta­
mentali mediche" (Foster, 1974). Gli antropologi, scrive, studia­
no l'etnicità e l'appartenenza culturale, le credenze e le pratiche, i
valori e le premesse, mentre argomenti come le differenze econo­
miche e di classe, professioni e professionalizzazione, apparten­
gono ai sociologi.
Mi permetto ora di riassumere i concetti fin qui delineati. Ho
iniziato col richiamare l'attenzione sulla rapida crescita della ri­
cerca, della scrittura e dell'attività professionale all'interno del­
l'antropologia medica nel corso degli ultimi dieci anni. Ho soste­
nuto come per comprendere questi sviluppi, sia necessario cono­
scere i vari incentivi ricevuti dagli antropologi per addentrarsi in

1 12
AN1ROPOLOGIE DELLA "ll.LNESS" E DELLA "SICKNESS"

questo campo e le tre possibilità messe a disposizione per rispon­


dere a questi stimoli, affidandosi a) a sistemi concettuali in origi­
ne finalizzati a descrivere altri domini fenomenologici (come il
comportamento rituale); b) a metodologie e concettualizzazioni
prese a prestito dalla sociologia medica empirista; c) a un sistema
concettuale in evoluzione, incentrato sulle specificità sociali ed
esperienziali della malattia e della guarigione. Infine, ho descritto
i limiti delle opzioni a) e b). n resto di questa relazione riguarda la
possibilità c).

L'ANTROPOLOGIA DEUA "ll.LNESS"

Un buon punto da cui partire è il saggio di Frake intitolato The


dz"agnosls o/ dt"sease among the Subanum o/ Mt"ndanao (Frake,
1961). In questo lavoro, Frake ha formulato una serie di proposi­
zioni: l. Le persone dipendono da strutture cognitive per organiz­
zare il proprio comportamento e prendere le loro decisioni. La
struttura cognitiva della malattia è implicita nelle affermazioni che
si ricavano dagli informatori per mezzo di domande standardizza­
te (come, per esempio, "Che tipo di malattia è?"). 2. Nel caso dei
Subanum, la conoscenza delle malattie della pelle si struttura at­
traverso una tassonomia, in modo tale che ogni espressione si di­
stingue dall'altra per almeno un attributo non condiviso o per un
differente grado di specificità (cioè per differenze verticali o oriz­
zontali all'interno di una tassonomia gerarchica). 3 . Anche se le
persone possono dissentire sulla denominazione di un sintomo o
di un insieme di sintomi, il disaccordo si verifica comunque all'in­
terno di una tassonomia condivisa, 4. I disaccordi si verificano per­
ché le categorie tassonomiche sono discontinue, mentre la patolo­
gia e la natura sono continue. Le divergenze sono anche il frutto di
"contingenze legate ai ruoli sociali" (per esempio, il desiderio di
chi parla di evitare di schematizzare i propri sintomi), di variazioni
dialettali, e di inclinazione ai sofismi. 5. Non ci sono differenze
fondamentali nei modi in cui le persone organizzano la malattia o
altri domini fenomenologici, come per esempio la botanica.
n saggio di Frake è un famoso esempio dell'analisi formale dei
dati etnografici, ma appartiene alla preistoria dell'antropologia
medica.

1 13
UNA DISCJPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

La malattia, per Frake, è uno strumento per perseguire altri in­


teressi. Parto dal suo lavoro per avere un punto di riferimento da
cui iniziare a seguire la traiettoria segnata da un gruppo di antro­
pologi che si identificano con un approccio teso a indagare i mo­
delli esplicativi dell'esperienza di malattia, e il cui operato si di­
scosta in modo significativo dalle precedenti concezioni della ma­
lattia (tra poco vedremo come gli autori del modello esplicativo
ritengono che l'analisi condotta da Frake abbia un'importanza li­
mitata per lo studio della malattia. Non tutti gli antropologi, però,
sono di questa opinione, Kay (1979) ne costituisce un esempio.
Inoltre, molti autori hanno di recente proposto dei modelli for­
mali per analizzare come vengano prese le decisioni durante gli
episodi di malattia (vedi Debacher, 1979; Young, 1979; 1981a).
Un tema chiave nell'approccio del modello esplicativo apparve
per la prima volta in un articolo del 1977 di Byron Good, intitola­
to "li cuore del problema" (Good, 1977). L'argomento fu poi svi­
luppato in una seconda relazione stesa insieme alla moglie Mary­
Jo Good (Good, Good, 1981). Al pari di Frake, Good sottolinea
l'importanza del linguaggio. La malattia umana, scrive, "è fonda­
mentalmente semantica o carica di significato [ . . . ] e ogni pratica
clinica è prettamente interpretativa [ . . . ] " (ibidem, p. 175). Ma ci
sono differenze decisive tra Frake e Good, riguardo a come il lin­
guaggio della malattia debba essere interpretato. La filosofia del
linguaggio di Frake ci rimanda alla tradizione formalista della se­
mantica antropologica, associata ad autori come Ward Goode­
nough. Le fonti di Good, d'altronde, sono autori dell' antropolo­
gia del rituale e del simbolo, soprattutto Vietar Turner, e allo stes­
so tempo filosofi ermeneutici, tra i quali vengono citati Hans
Georg Gadamenr e Paul Ricoeur. Good rifiuta le posizioni 2 e 3
di Frake, e sostiene che un termine di malattia non equivale a un
insieme di sintomi che la definiscono, né rappresenta una '"cate­
goria' chiaramente definita in opposizione ad altre categorie" . Se­
condo Good, ogni termine possiede una configurazione distintiva
di significati, ma ci sono modelli associativi che si sovrappongono
tra i termini (vedi Good, 1977). Egli rifiuta anche le posizioni 4 e
5 di Frake, in base al fatto che i termini di malattia vanno compre­
si entro il contesto dell'esperienza di malattia, quando cioè "un
disturbo o un sintomo condensano una rete di significati per la
persona che soffre [ . ] " (Good, 1981, p. 76) . Situazione che, per
. .

1 14
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

dirlo altrimenti, come fa Frake nella proposizione l , "dirige la no­


stra attenzione altrove rispetto al contesto sociale e simbolico che
conferisce a una categoria di malattia la sua configurazione se­
mantica distintiva" (Good, 1977).
Good si serve dell'espressione di rete semantz'ca della malattz'a
per definire la "una rete di parole, situazioni, sintomi e sensazioni
associati a una malattia, e che a essa conferiscono un significato
per l'afflitto" (z'bz'dem). I casi di studio di Good arrivano da una
regione turcofona dell'Iran (Good, 1977) e da un poliambulato­
rio negli Stati Uniti (Good, 1981), e hanno principalmente a che
fare con disturbi cronici. Per ciascuno dei casi di studio, Good ha
seguito la stessa procedura. Nell'arco di alcuni mesi, sono state
raccolte informazioni sui sintomi, le scelte terapeutiche, la situa­
zione sociale e le circostanze eziologiche che i suoi informatori gli
hanno riferito; è stata data particolare attenzione a come i cam­
biamenti sociali e situazionali abbiano influenzato la configura­
zione semantica della malattia durante questo periodo. Good de­
scrive la sua metodologia come un tipo di "libera associazione so­
ciale" che gli ha permesso di accedere alla specifica percezione
che gli informatori hanno della realtà ( Good, 1977; Good, Good,
198 1 , p. 168). In questo modo, ha ricostruito la rete semantica
della malattia del suo informatore (vedi lo sviluppo dello schema
eseguito da Bibeau, 1981).
Nella sua analisi delle reti semantiche della malattia in Iran,
Good ha introdotto la nozione secondo la quale le reti sarebbero
organizzate intorno a elementz' sz'mbolzà/ondamentalz'. n cuore e il
mal di cuore iraniani sono descritti nel suo saggio come simboli
fondamentali. L'idea che Good ha dei simboli fondamentali ricalca
da vicino la nozione di Tumer secondo cui esisterebbero dei "sim­
boli dominanti" che organizzano i significati dei rituali nelle so­
cietà preindustriali (vedi Turner, 1967; 1968, capitolo 6). Come i
simboli rituali dominanti, anche i simboli fondamentali sono poli­
semici, nel senso che si collegano a differenti domini simbolici, e
ciò spiega perché le reti semantiche della malattia includano ele­
menti così eterogenei. Good descrive un caso di studio iraniano in
cui il simbolo fondamentale collega nascita, aborto, gravidanza,
sangue, contaminazione, debolezza, mestruazione, contraccettivi
orali, sterilità, perdita di vitalità, vecchiaia, dispiacere e tristezza. In
un altro caso di studio, il mal di cuore si collega a una diversa, ma

1 15
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETTO, METODI, TEORIE

sovrapponibile, configurazione: vecchiaia, dispiacere e tristezza,


lutto rituale, preoccupazioni di povertà, ansia, problemi interper­
sonali con particolari parenti, nervi, pazzia, disturbi dd sangue. Al
pari dei simboli rituali dominanti, i simboli fondamentali collegano
elementi ideologici (in particolare i valori legati a un comporta­
mento normativa) a elementi emozionali e fisici, in modo tale che
la rete semantica della malattia possa sviluppare un certo grado di
unità, nonostante la sua complessità ed eterogeneità. Entro la rete
semantica della malattia, i simboli fondamentali formano "un per­
corso simbolico che collega i valori e le motivazioni dell'interazio­
ne umana, le tensioni, la vergogna e i disagi delle contingenze so­
ciali con le dimensioni affettive, e in ultima istanza fisiologiche, dd­
la persona" (Good, 1977, Kleinman, 1973, p. 209; per altre analisi
sui simboli fondamentali nella malattia, vedi Nichter, 198 1b e
Obeyesekere, 1976).
Le reti semantiche della malattia sono descritte anche nel la­
varo di Blumhagen e di Kleinman. L'articolo di Blumhagen
(Blumhagen, 1980) riguarda la percezione dell'ipertensione da
parte di una popolazione di americani che soffre di questa pato­
logia. Sarebbe interessante confrontare le descrizioni elaborate
dagli informatori di Blumhagen con i resoconti degli iraniani di
Good, dal momento che "la collocazione fisica dei loro simboli
fondamentali" rimanda per entrambi al sistem11 circolatorio,
mentre di certo sono molto diverse le loro configurazioni seman­
tiche. Sfortunatamente è difficile effettuare il confronto, perché
l'approccio di Blumhagen alle reti semantiche della malattia si di­
scosta in maniera significativa da quello di Good. Innanzitutto,
Blumhagen ha raccolto i suoi dati tra un numero relativamente
ampio di persone, 105 utenti dell'ospedale per veterani. Ciascuna
rete semantica di malattia è stata costruita sulla base di una singo­
la intervista, utilizzando un questionario aperto. In secondo luo­
go, Blumhagen ha organizzato le risposte degli informatori entro
quelli che chiama "nodi" e "frecce" . I nodi consistono in una se­
rie di sintomi riportati (per esempio, attacchi di vertigini), intera­
zioni (le discussioni in famiglia), funzioni fisiologiche (dilatazio­
ne venosa), stati del corpo (il sovrappeso), agenti patogeni (stress
acuto), e attività (fumare, mangiare salato). Le frecce individuano
le relazioni causali tra i nodi (per esempio: la pressione alta causa
la dilatazione venosa, che a sua volta provoca la rottura dei vasi).

116
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

Blumhagen ha ridotto 1300 sintomi riportati (nodi) a 59 catego­


rie, e ha ridisegnato le frecce per indicare la frequenza relativa
con cui i suoi informatori hanno riportato cause ed effetti.
Ma questo è ben diverso dalla proposta di Good. Ciò che di­
stingue il lavoro di Good da precedenti concezioni antropologi­
che della malattia, è l'idea che le affermazioni di un informatore
debbano essere interpretate nel contesto della sua esperienza di
malattia, e che si debba concedere un'attenzione particolare al
modo in cui le sue affermazioni cambiano nel tempo, in relazione
alle circostanze in cui vive. In breve, Good afferma che le reti se­
mantiche della malattia sono inseparabili dall'idea che la malattia
sia un processo individualizzante. Un'altra differenza rispetto a
Blumhagen è che Good assume la posizione, ben più interessante,
secondo cui, nonostante alcuni degli elementi (nodi) delle reti se­
mantiche di malattia siano collegati da rapporti di causa ed effet­
to, altri potrebbero essere associati in modo acausale.
E ora veniamo ad Arthur Kleinman. Kleinman è oggi proba­
bilmente uno dei più influenti e prolifici autori di antropologia
medica. Nella sua opera, le reti semantiche di malattia sono state
rese parte di un'ampia cornice. Prima di esporre l'uso che Klein­
man fa delle reti semantiche, voglio però spendere qualche paro­
la sulla sua cornice teorica.
Al pari di Good e Blumhagen, Kleinman rifiuta il riduzioni­
smo fisicista del modello biomedico, e lo sostituisce col seguente
schema:
DISEASE [patologia] si riferisce alle anormalità nella struttura
elo nella funzione degli organi e dei sistemi di organi; a stati pato­
logici culturalmente riconosciuti o meno; all'arena del modello
biomedico.
ILLNESS [esperienza di malattia] si riferisce alle percezioni di
una persona e alle esperienze di alcune condizioni socialmente
problematiche, compresa la patologia, ma non solo.
SICKNESS [relazioni sociali di malattia] è un termine generale
che definisce eventi che coinvolgono sia la patologia che l' espe­
rienza di malattia. Secondo Kleinman, gli antropologi medici de­
vono ricordare che il loro dominio è la malattia, anche se il loro
contributo speciale avrà soprattutto a che fare con l'esperienza
di malattia. (Per posizioni di questo tipo, vedi Eisenberg, 1977;
Fabrega, 1972; Fabrega, 1974. Per uno studio antropologico su

1 17
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

illness e disease vedi Alla nd, 1970; Fabrega, 1979; Johannes,


1980) .
L'interesse di Kleinman per le credenze e le pratiche mediche
è essenzialmente di tipo clinico. Per l'autore questo significa con­
centrarsi su quelle che chiama le "funzioni cliniche fondamenta­
li", il modo cioè in cui i sistemi della conoscenza e della pratica
medica mettono le persone in grado di a) costruire l'esperienza di
malattia come esperienza psicosociale; b) stabilire dei criteri ge­
nerali atti a guidare il processo per il raggiungimento della salute
e a determinare la potenziale efficacia di differenti approcci di
cura; c) gestire gli episodi di malattia per mezzo di operazioni co­
municative, come quella di definire e di spiegare; d) fornire atti­
vità volte alla guarigione (intervento terapeutico, cura assisten­
ziale); e) gestire gli esiti terapeutici (incluse una malattia cronica e
la morte; vedi Kleinman, 1980, pp. 7 1 -72).
n processo clinico dunque è un modo, per gli individu� di adat­
tarsi a certe circostanze preoccupanti (vedi anche Dunn, 1976; Fa­
brega, 1977; Kleinman non ritiene comunque che ogni pratica me­
dica sia necessariamente adattativa sul lungo periodo, vedi Klein­
man, 1980, p. 150). La premessa di adattamento si riflette nella
scelta terminologica operata da Kleinman: guidare, gestire, affron­
tare, spiegare, negoziare alleanze (per prospettive simili vedi Fink­
ler, 1980, 1981; Nichter, 1981a, 1981b). Ed è impijcita anche nel­
l'importanza da lui attribuita, in studi teorici ed enipirici, alla gua­
rigione. Benché Kleinman non discuta dettagliatamente il termine
"guarigione" [healing] , egli lo utilizza in una maniera che mi con­
sente di parafrasarlo come un processo attraverso il quale: a) la pa­
tologia e altre circostanze preoccupanti si convertono in esperien­
za di malattia (una costruzione culturale e quindi carica di signifi­
cato); b) chi sta male raggiunge un grado di soddisfazione per mez­
zo della riduzione, o addirittura dell'eliminazione dell'oppressione
generata dalle circostanze mediche in cui versa. La concezione di
Kleinman distingue tra guarigione [healing] e cura [curing] in un
modo che ricalca un po' la differenza tra esperienza di malattia [t'll­
ness] e patologia [disease] (vedi figura 1).
Ma è importante riconoscere come la distinzione sia tra natura
e cultura, e non tra mente e corpo. Nell'opera di Kleinman, la gua­
rigione non è un'attività mentale, anche se è definita da sensazio­
ni, percezioni ed esperienze dell'individuo. Così, per esempio, un

1 18
AN1ROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

MALATTIA

Assenza di
patologia
,------"--

ILLNESS
[esperienza di malattia] : guarigione

DISEASE
[patologia] : cura


Assenza di
esperienza
di malattia

Figura 1 L'approccio disease/illness alla malattia.

intervento farmacologico e i suoi effetti sul corpo sono parte dd


processo di guarigione anche quando rientrano in un processo di
cura, qud processo cioè che influenza gli stati organici patologici.
Dall'altro lato, ci sono sparuti esempi in cui "la · costruzione (o il
riordino) dd significato culturale potrebbe essere tutto ciò in cui
consiste la terapia (e la sua efficacia) " (ibidem, p. 235; per una trat­
tazione dettagliata dell'argomento Kleinman, Sung, 1979). Affer­
mando la complementarità di mente e corpo, guarigione e cura,
Kleinman e i suoi colleghi rifiutano il crudo riduzionismo cartesia­
no dd modello biomedico di malattia. Altri antropologi, in parti­
colare Moerman (Moerman, 1979), hanno superato di gran lunga
questo punto, fino a sostenere che l'efficacia va intesa come effet­
to organicamente mediato della mente sui processi corporei o,
detto in altre parole, della guarigione sulla cura (vedi Klein, 197 8).
L' anticartesianesimo radicale di Moerman è stato aspramente cri­
ticato da Brody in maniera coerente con le premesse di Kleinman
sulla malattia (vedi Brody, 1979).
Benché Kleinman nd suo lavoro si riferisca alle reti semanti­
che della malattia, un'altra nozione più ampia è l'idea che esse si
rapportino al sapere medico attraverso i modelli esplicativi di ma­
lattia delle persone, un concetto, questo, che Kleinman abbrevia

1 19
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENmA: OGGETIO, METODI, TEORIE

con ME. Un ME è un insieme di credenze che "contengono le spie­


gazioni di qualcuna, o di ciascuna, di queste cinque questioni:
eziologia, sintomi iniziali, patofisiologia, decorso della malattia
(gravità e tipo di ruolo del malato), terapia" (Kleinman, 1978a, p.
9). A prima vista, dato che ogni cultura possiede le sue proprie
spiegazioni della malattia i ME sembrano puramente etichette. In
ogni caso, Kleinman ci dice qualcosa di più. In primo luogo, il
suo concetto di ME ricorda l'idea di Geertz secondo cui le culture
forniscono alle persone dei modi di pensare che sono al tempo
stesso modelli di realtà e modelli per la realtà (vedi Geertz, 1966):
i ME conferiscono contemporaneamente ordine e significato, of­
frono dei piani di azione finalizzata, e aiutano a creare le condi­
zioni richieste pet la loro perpetuazione o la loro revisione. In se­
condo luogo, Kleinman attribuisce i ME agli individui, e non alle
culture. Secondo l'autore, i ME non sono quasi mai omogenei,
nemmeno all'interno di una stessa comunità. Inoltre, il ME di una
persona può variare nel tempo, a seconda delle sue particolari
esperienze mediche e degli incontri clinici nei quali viene a cono­
scenza dei ME dei medici. Per rendere conto di questi diversi ME,
Kleinman li distingue lungo una prima dimensione in base alle
differenze tra ME dei medici e ME dei profani; lungo una seconda
dimensione, in base ai modi in cui un ME teorico o scientifico di
un medico occidentale (modello che egli condividç con altri me­
dici e che è formalizzato in testi scritti) conduce isuo ME clinico
(che si particolarizza nelle sue esperienze), e in base a come un
ME popolare di un profano (condiviso da una comunità di altri
"non addetti ai lavori") conduce al ME familiare (che si particola­
rizza all'interno di una famiglia) e finisce col diventare un ME in­
dividuale; e infine lungo una terza dimensione, in cui un ME clini­
co o un ME individuale attraversano le loro varie edizioni (Klein­
man 1980, pp. 106- 1 1 1). Oltre al lavoro di Kleinman su questo
argomento, si vedano anche gli scritti di Helman (Helman, 1978;
1981) su come i ME clinici e individuali del "raffreddore", della
"febbre" e delle droghe psicotrope vengano usati e a volte si tra­
sformino durante le transazioni cliniche; si veda anche il lavoro di
Gaines (Gaines, 1979) sulle differenze riscontrate tra i ME clinici
di un gruppo di medici in reparti psichiatrici.
Ora che sappiamo cos'è un ME, possiamo tornare alla questio­
ne delle reti semantiche di malattia. Nella sua opera, Kleinman si

120
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

riferisce sia ai ME sia alle reti semantiche di malattia, e li include


addirittura entro un unico diagramma (Kleinman, 1980, p. 108).
La relazione tra loro, tuttavia, non è molto chiara e a tratti essi
sembrano sovrapponibili, per esempio: "vaghezza, molteplicità di
significati, cambiamenti frequenti e mancanza di confini definiti
tra idee ed esperienze sono tipici dei ME dei profani" (Kleinman,
1980, p. 107). Nonostante questo, c'è una differenza fondamenta­
le nei modi in cui vengono utilizzati i concetti. TI più delle volte,
Kleinman impiega l'idea di modello esplicativo per mostrare co­
me i suoi informatori costruiscano le affermazioni sulla malattia. I
ME risultano, nei suoi scritti, come insiemi di proposizioni o gene­
ralizzazioni. A volte sono espliciti, ma spesso sono taciti, celati
sotto forma di frammenti e brani all'interno dei discorsi non me­
dici. Sembra inoltre che i ME riguardino solitamente cause ed ef­
fetti, ed è questa caratteristica che li rende utili sia come modelli
di controllo e di previsione di ciò che accadrà, sia come forme di
attribuzione di significato morale a ciò che è accaduto. Se non er­
ro, le reti semantiche di malattia sono i prodotti dei ME. Ciò signi­
fica che la rete semantica di malattia propria di un informatore si
riferisce a un insieme di affermazioni che egli fa in un certo perio­
do di tempo, utilizzando i ME per reagire a contingenze particola­
ri, per esempio a un episodio di malattia o a una domanda posta
dall'antropologo. Quando, per esempio, Good parla di "simboli
fondamentali" e descrive il cuore iraniano come un idioma per
esprimere l'emozione nel corso della malattia, egli si riferisce a un
elemento usato frequentemente nei ME iraniani. E quando
Blumhagen utilizza 105 reti semantiche per costruire un unico
complesso di nodi e frecce e trasforma così l'indeterminatezza di
molti legami in cause ed effetti, sembra che prenda le mosse dalle
reti semantiche di malattia (configurazioni di affermazioni) per
tornare indietro ai ME popolari che le hanno prodotte.
La relazione esatta tra un ME e una rete semantica di malattia è
complicata dal fatto che il ME di un informatore potrebbe cam­
biare nel periodo in cui vengono formulate le sue affermazioni.
Ma l'idea di ME conserva un certo grado di ambiguità anche dopo
che è si è preso in considerazione il suo carattere complesso e di­
namico. Una ragione di questa ambiguità è il fatto che non è sem­
pre chiaro come gli autori dei ME intendano utilizzare la no?:ione.
In differenti occasioni, essi hanno sostenuto l'approccio dei ME in

121
UNA DISCll'LINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

base a: a) la sua importanza anaNtica, come strumento per studia­


re il processo di guarigione e le "transazioni cliniche" tra pazienti
e medici; b) la sua importanza pedagogica, come cornice per inse­
gnare ai medici il significato della malattia e i limiti del modello
biomedico per la pratica clinica; c) la sua importanza clinica, co­
me strumento per determinare le priorità e gli interessi dei pa­
zienti, esplorando i problemi di non-compliance, negoziando al­
leanze terapeutiche coi pazienti (specialmente quando sono etni­
camente distinti) , scegliendo e valutando trattamenti e metodi
per la gestione degli esiti terapeutici (Blumhagen, 1981, p. 181 e
Kleinman, 1980, capitolo 3 , p. 94).
Lasciando da parte la questione dell'ambiguità dei ME, è im­
portante riconoscere che questa particolare combinazione di pre­
tese - analitiche, pedagogiche e cliniche - è intrinseca all'approc­
cio dei ME. I sostenitori dei ME giustificano i loro sforzi per svilup­
pare questa cornice indicando esclusivamente i suoi vantaggi pra­
tici (pedagogici e clinici). Allo stesso tempo, questi autori guar­
dano alla clinica occidentale come a un luogo per trasformare la
teoria, cioè un luogo in cui i loro concetti e i loro metodi possano
essere introdotti, provati e affinati (per esempio Katon, Klein­
man, 1981 e Like, Ellison, 1981). In altre parole, le pretese anali­
tiche, pedagogiche e cliniche dei sostenitori dei ME confluiscono
in un orientamento pratico.

LE RELAZIONI SOCIAU DEllA MAlATTIA

Mentre Kleinman e i suoi colleghi hanno fondato l'approccio


dei ME, altri antropologi hanno sviluppato una posizione che dà
la priorità a quelle relazioni sociali che producono le forme della
malattia e la loro distribuzione nella società. Sarebbe eccessivo
sostenere che questi scritti presentano una visione omogenea del­
la malattia, paragonabile a quella degli autori dei ME. In ogni ca­
so, è possibile scorgere nel loro lavoro l'inizio di un approccio al­
ternativo, radicato in fonti di vario tipo, ma soprattutto in debito
verso l'analisi di Evans-Pritchard della medicina zande (Evans­
Pritchard, 1937), verso lo studio di Gluckman sull'organizzazio­
ne sociale del comportamento rituale (Gluckman, 1972), verso
vari autori marxisti e nei confronti di Michel Foucault. Nella

122
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

prossime pagine, descriverò questo approccio attento alle rela­


zioni sociali della malattia confrontandolo con l'approccio dei
ME. Quest'ultimo formula con chiarezza molte delle questioni
fondamentali su cui si costruirà un'antropologia medica alterna­
tiva: la distinzione tra disease [patologia] , illness [esperienza di
malattia] e sickness [relazioni sociali della malattia] ; la connessio­
ne tra la malattia e le affermazioni che le persone fanno su di essa;
il ruolo pratico (per esempio clinico) dell'antropologia medica.
Per questa ragione, il confronto con l'approccio dei ME rappre­
senta un espediente per mostrare i tratti che accomunano questi
altri autori, alcuni dei quali si oppongono esplicitamente alle pre­
messe dell'approccio dei ME.

MALATIIA E GUARIGIONE

Innanzitutto, esaminiamo il tema della giustapposizione fra di­


sease e illness nell'approccio dei ME. Gli autori del ME hanno
adottato questo schema come alternativa al dualismo cartesiano
della concezione biomedica, cioè in risposta alla concezione se­
condo cui la malattia corrisponde a disease e la coscienza del pa­
ziente viene messa tra parentesi. L'utilità dello schema è stata
messa in dubbio da Frankenberg (Frankenberg, 1980) e da me
(Young, 1976b; Young, 1981a). Nei nostri rispettivi articoli soste­
niamo che la concezione biomedica e la distinzione fra disease e
illness si differenziano su un punto, cioè sulla questione del ridu­
zionismo biofisico, ma si assomigliano per un altro aspetto, altret­
tanto importante. Nella fattispecie, entrambe le concezioni con­
siderano l'individuo non solo come loro oggetto d'analisi, ma an­
che come contesto di eventi significativi. ll punto è che il modello
diseaselz'llness non richiede che gli autori rendano conto dei modi
in cui le relazioni sociali plasmano la malattia e la distribuiscono.
Sotto questo aspetto, non è così diverso dal modello biomedico
come sembrano invece credere i suoi sostenitori.
Da un certo punto di vista, potrebbe sembrare una critica im­
motivata, poiché da un lato Kleinman, nella sua monografia sulla
medicina cinese, fa parecchi riferimenti alle cause sociali del com­
portamento medico (vedi Kleinman, 1980, pp. 24, 202, 288-289),
dall'altro, Good cita l'importanza delle relazioni di potere nella

123
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETIO, METODI, TEORIE

pratica medica. Ma, di fatto, né Kleinman né Good intraprendo­


no un'analisi di questo tipo. Più precisamente, il loro schema non
offre ragioni convincenti per condurre questo tipo di analisi. Con­
siderando le cose dal loro punto di vista: a) gli interessi teorici si
focalizzano sugli eventi clinici e sui processi di guarigione (dell'e­
sperienza di malattia); b) al di fuori del contesto clinico, le relazio­
ni sociali si strutturano diadicamente: cioè tra paziente e medico,
tra paziente e membri individuali della famiglia, e così via; c) se è
vero che esistono fattori sociali esterni al contesto, è possibile evi­
tarli indefinitamente senza condizionare la nostra capacità di stu­
diare il processo di guarigione.
Secondo i suoi critici la concezione dei ME presenta due tipi di
problemi. Prima di tutto, trascura il fatto che il potere abbia ori­
gine e risieda nei rapporti tra gruppi e classi sociali. Esso si mani­
festa soltanto nelle relazioni interpersonali, e per questo una mes­
sa a fuoco delle relazioni diadiche frammenta e desocializza la sua
vera natura (Young, 1980). In secondo luogo, il percorso seguito
dagli autori dei ME appare ragionevole solo perché nel loro sche­
ma dùease/illness c'è un termine mancante. Ma per comprendere
questa critica, è necessario esaminare il modo in cui Frankenberg
e io abbiamo riscritto questo schema:
DISEASE [patologia] conserva il suo significato originario (pa-
tologie e anormalità organiche) ;
ILLNESS [esperienza di malattia] rimane fondamentalmente
uguale, e si riferisce a come la patologia e la malattia entrano nella
coscienza individuale.
SICKNESS [relazioni sociali della malattia] non è più un termine
generico che si riferisce alla patologia e/o all'esperienza di malat­
tia. Sickness viene ridefinito come quel processo attraverso il quale
i segni comportamentali e biologici preoccupanti, in particolare
quelli che hanno origine nella patologia, vengono investiti di signi­
ficati socialmente riconoscibili: essi vengono cioè convertiti in sin­
tomi e risultati socialmente significativi. Ogni cultura possiede
delle regole per tradurre i segni in sintomi, per collegare delle sin­
tomatologie a determinate eziologie e interventi, e per utilizzare le
prove fornite dagli interventi al fine di confermare le traduzioni e
legittimare i risultati (Comaroff, 1978; Low, 1981; Nichter, 1980) .
n percorso che una persona segue, dalla traduzione a un risultato
socialmente significativo, è appunto la sua malattia [sickness] .

124
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

Sickness è quindi un processo per la socializza:done della patolo­


gia [disease]e dell'esperienza di malattia [illness]. Per esempio:
l . Nei sistemi medici "pluralistici", un singolo insieme di segni
può designare più di una malattia [sickness] (Press, 1., 1978;
1980), e le forze sociali aiutano a individuare chi si ammalerà di
quale malattia. Questo accade, per esempio, quando un particola­
re insieme di segni riguarda diversi tipi di medici specialisti, ben­
ché i domini di malattia dei diversi professionisti non si sovrap­
pongano (poiché possiedono tutti un insieme distintivo di eziolo­
gie e di prove), e i servizi offerti dai diversi medici non siano
ugualmente accessibili a tutti i settori della popolazione dei pa­
zienti. In questo caso, patologia ed esperienza di malattia vengono
socializzate attraverso assetti sociali che determinano chi riceve
quali medici e quali interventi (Frankenberg, Leeson, 1976; Ham­
nett, Connell, 1981; Nichter, 1978; Young, 1975a; 1975b).
2. Nella società occidentale, il diritto di tradurre i segni in sin­
tomi socialmente importanti è prerogativa di un singolo tipo di
medico e di un insieme di eziologie più o meno omogeneo. Ma
anche qui sono le forze sociali a determinare il fatto che agli indi­
vidui con lo stesso insieme di segni siano talvolta attribuite malat­
tie diverse. Ciò risulta chiaro se, per esempio, confrontiamo le si­
tuazioni cliniche regolate dalle relazioni medico-paziente (come
nei casi in cui è il paziente a retribuire personalmente il medico
per la sua prestazione) con altre basate sulla relazione medico-pa­
trono (come nei casi in cui il medico percepisce uno stipendio in
quanto impiegato di una struttura, e il datore di lavoro rappre­
senta il suo referente diretto). Un altro esempio si ha quando le
traduzioni e le eziologie vengono pubblicamente contestate e ri­
solte per vie legali anziché mediche (come spesso accade per le
patologie occupazionali, come la silicosi, vedi Anthropology Re­
source Center, 1980) . Più spesso, tuttavia, le relazioni sociali di
malattia nella società occidentale assumono un aspetto per cui la
stessa sickness (traduzione) porta a differenti illnesses [esperien­
ze di malattia] e a differenti cure a seconda della particolare posi­
zione economica e sociale del malato.
3 . I simboli della guarigione sono al tempo stesso dei simboli
di potere. Specifiche visioni dell'ordine sociale sono inscritte nel­
le concezioni mediche, codificate in eziologie e credenze sulle
fonti del potere di guarigione (Comaroff 1980, 198 1 ; Taussig,

125
UNA DISCll'LINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETTO, METODI, TEORJE

1978). Queste concezioni ideologiche si insinuano nella coscien­


za degli individui durante le cerimonie e le dimostrazioni di effi­
cacia che caratterizzano le pratiche di guarigione. In altre parole,
le pratiche mediche sono al tempo stesso pratiche ideologiche
quando servono a giustificare a) i rapporti sociali attraverso cui
patologia, guarigione e cura sono distribuite nella società (per
esempio Morsy, 1978), b) le conseguenze sociali della patologia
(per esempio, la predisposizione del paziente a contrarre una de­
terminata malattia sul posto di lavoro).
Ancora un'osservazione a questo riguardo. In precedenza ho
scritto che quando gli autori dei ME esaminano gli eventi clinici,
partono dal presupposto che le descrizioni e le analisi delle prati­
che mediche dovrebbero mettere a fuoco le funzioni di adatta­
mento (alcuni antropologi hanno adottato una versione più forte,
probabilmente tautologica, di questa premessa: il fatto che le per­
sone scelgano di perpetuare una particolare pratica medica è la
prova che essa è una pratica adattativa nei termini di guarigione,
se non necessariamente di cura). Questa questione è resa più
complessa dal fatto che alcune società, per esempio quella giap­
ponese secondo Lock (vedi Lock, 1978, 1980), evidenziano da sé
la funzione putativa di adattamento delle loro pratiche mediche.
Questa premessa comporta dei problemi quando gli autori consi­
derano l'adattamento soprattutto dal punto di vista j,
del malato,
trascurando così il fatto che molte pratiche mediche si sviluppa-
no e persistono in quanto utili ad altre persone e per ragioni indi­
pendenti dalla cura e dalla guarigione. Per esempio, Strong
(1979) richiama l'attenzione sui modi in cui i medici utilizzano
certe pratiche cliniche per controllare la propria emotività e quel­
la dei loro pazienti, e per tenere d'occhio il calendario e la durata
delle sessioni cliniche (vedi anche Comaroff 1976a; 1976b). Il
problema più importante, tuttavia, è che la premessa di adatta­
mento mette ai margini il fatto che sia sickness, e non illness, a de­
terminare la scelta e la forma di molti interventi clinici, delle tran­
sazioni cliniche ecc. In altre parole, le persone a volte sono co­
strette entro malattie che rendono più difficile la loro situazione
(Young, 1975 a). Il fatto che i pazienti decidano di interpretare
questi eventi socialmente determinati in modi "adattativi", (per
esempio, gli conferiscono significati per l' automantenimento e
l'autoconservazione) non è un tratto particolarmente interessan-

126
ANTROPOLOGIE DELLA "ll.LNESS" E DELLA "SICKNESS"

te, e nemmeno distintivo delle situazioni mediche (Stimson,


Webb, 1975).

LE FORME DEL SAPERE MEDICO

Gli autori del ME hanno ragione quando dicono che le affer­


mazioni degli informatori sulla malattia sono complesse e spesso
ambigue. Hanno ragione anche quando sostengono che il mestie­
re degli antropologi è ricercare la loro logica interna, cioè il ragio­
namento che collega percezioni, credenze, conoscenza, azione e
riflessione. Ma sono stati in grado di trarre le conclusioni corrette
dalle proprie osservazioni? Hanno infatti indicato come queste
affermazioni siano complesse e ambigue, ma hanno poi chiarito
perché tale situazione si sia verificata?
In alcuni recenti lavori (Young, 198lb, 1982), ho criticato gli
autori del ME per aver tentato di spiegare il significato superficia­
le delle affermazioni degli informatori nei termini di un singolo
insieme di strutture cognitive sottostanti, cioè dei modelli espli­
cativi della malattia. Credo che le affermazioni degli informatori
sembrino complesse perché spesso giustappongono differenti ti­
pi di sapere (Tousignant, 1979; Zimmermann, 1978, 1980). Chi
parla non conosce necessariamente in egual modo tutte le sue vi­
cissitudini e spesso dà versioni differenti, epistemologicamente
distinte, della sua malattia.
Uno dei miei articoli (Young, 1981b) traccia uno schema per
identificare i diversi tipi di sapere medico che emergono dalle af­
fermazioni delle persone. Lo schema descrive: l. una conoscenza
teorica, che organizza esperienze ed eventi discreti in classi (per
esempio: "Questo è un caso di influenza" ); 2. una conoscenza de­
gli eventi nei termini delle loro particolarità empiriche; 3. una co­
noscenza resa coerente, a livello esistenziale, con le precedenti
esperienze del soggetto, le sue ipotesi sulla natura umana, sul de­
stino dell'uomo ecc.; 4. un sapere che chi parla ha trasformato
per renderlo intelligibile ad altre persone; 5. una conoscenza che
egli ha prodotto negoziandone i significati con altre persone.
Questo schema non rappresenta una tipologia, dal momento che
ogni forma di sapere - teorico, empirico ecc. - è un resoconto pe­
culiare che emerge in un processo di produzione di conoscenza

127
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

in cui il soggetto è continuamente coinvolto, reagendo prima a


una contingenza e poi a un'altra (per esempio, scegliendo terapie
efficaci, fornendo resoconti socialmente accettabili del suo com­
portamento) . Entro questo processo di produzione, differenti
forme sono collegate dialetticamente tra loro in modo tale che nel
tempo si trasformino continuamente l'una nell'altra. In questo
modo, nessuna forma corrisponde, a priori, alla conoscenza au­
tentica di eventi medici da parte di chi parla, e non c'è un singolo
insieme di strutture cognitive a costituire la fonte definitiva del si­
gnificato esplicito delle sue affermazioni.
In questo schema, i modelli esplicativi della malattia sono solo
una delle possibili forme di sapere teorico. Ciò spiega perché gli
autori dei ME commettono un errore se presuppongono che essi
siano necessariamente impliciti in tutte le affermazioni di un infor­
matore a proposito della malattia (Last, 1981; Young, 1977). Lo
schema descrive poi altre due forme di conoscenza che, al pari dei
modelli esplicativi, plasmano la comprensione della malattia da
parte delle persone, determinando le loro affermazioni, influen­
zando le loro ragioni ecc. Parliamo dei "prototipi" e dei "comples­
si a catena", concetti presi a prestito da Hallpike e Vygotsky (Hall­
pike, 1979; Vygotsky, 1934. Vedi figura 2).
Le persone impiegano i prototipi come se impiegassero un ME,
per organizzare gli eventi e le circostanze che sperimentano. Ben­
ché entrambe siano forme di conoscenza medica; i prototipi e i ME
si differenziano per alcuni importanti motivi: i ME, si ricorderà,

complessi a catena
ME (modelli
esplicativi)
Tipi
di resoconto
prototipi medico

altre forme

empirici teorici Tipi


di conoscenza
medica
:
negoziati intersoggettivi
:
esistenziali

Figura 2 Forme di sapere medico e rdativi resoconti.

128
AN1ROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

consistono in proposizioni causali forti, e questa è una ragione per


cui sono così importanti per le pratiche e il pensiero medico: essi
mettono Il! persone in grado di formulare dei piani di azione. Inol­
tre, i ME sono di solito condivisi da un numero relativamente am­
pio di persone. Un prototipo, invece, non è mai più di una serie di
eventi e di circostanze richiamati dal passato, di solito da un pre­
cedente episodio di malattia. I suoi elementi (sintomi, sensazioni,
esiti ecc.) sono connessi come cause ed effetti, ma più spesso sono
associati dalla semplice contiguità, o cronologia, o somiglianza.
Inoltre, un prototipo è sempre limitato a una ristretta cerchia di
persone (per esempio una famiglia) o al solo attore (cfr. i ME clini­
co, familiare, individuale, che sono le forme dialettali dei ben noti
ME scientifico e popolare). Poiché i prototipi non sono né ampia­
mente condivisi né fortemente causali, è difficile inglobarli entro
pratiche diagnostiche e terapeutiche, almeno nelle società com­
plesse in cui i sistemi di credenze mediche, responsabili di interio­
rizzazione e desocializzazione, dominano le pratiche delle persone
(Young, 1976). Per questi motivi, i contenuti di un prototipo sono
relativamente instabili, ed è probabile che col passare del tempo i
sui elementi si semplifichino, si perdano, o si trasformino. I com­
plessi a catena sono apparentemente simili ai prototipi: spesso so­
no acausali, limitati a piccoli numeri di persone, instabili. Ma
mentre i prototipi sono una forma di conoscenza teorica e uno
strumento per il ragionamento analogico, i complessi a catena
rappresentano solo se stessi. Sono prodotti dell'esperienza (e for­
se di forze inconsce): sono semplicemente delle serie di eventi em­
pirici, sensazioni, sintomi ecc. che aderiscono alla mente e vi per­
sistono per la salienza, la contiguità e la cronologia degli elementi
individuali nella vita del soggetto.
Ci sono due motivi per cui gli antropologi dovrebbero affron­
tare i prototipi e i complessi a catena. n primo è che essi spiegano
perché alcune affermazioni a proposito della malattia sembrino
complesse e ambigue: le affermazioni di un informatore sulla ma­
lattia sono di tanto in tanto il prodotto di una combinazione di ME,
esperienze prototipiche e complessi a catena, tutti liberamente
collegati. n secondo motivo è che le persone, talvolta, usano i pro­
totipi e i complessi a catena per rappresentare la malattia in termi­
ni sociali e biografici. Taussig descrive questo uso in un articolo
(Taussig, 1980) basato sulle sue conversazioni con una donna ri-

129
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

petutamente ospedalizzata a causa di disturbi degenerativi e cro­


nici. Taussig, un medico-antropologo, caratterizza queste relazio­
ni della paziente con medici e infermieri come oscillanti tra "passi­
vità alienata e autoaffermazione alienata", un esempio, afferma,
che si osserva spesso tra pazienti ricoverati. Nella descrizione del
caso condotta da Taussig, la passività della donna è un prodotto
del modello esplicativo clinico del medico e del proprio ME com­
plementare e soggettivo. Questi ME, oltre alle pratiche e alle ceri­
monie attraverso cui il personale ospedaliero li materializza, ridu­
cono i fatti della sua malattia a un caso di tradimento intrasomati­
co, e trasformano lei da soggetto della propria storia a oggetto
passivo di una scienza medica ostentatamente benevola. D'altron­
de, le sue esplosioni di autoaffermazione aggressiva, inutile e a
volte violenta, scaturiscono prima di tutto dalla conoscenza di un
complesso a catena di eventi e circostanze socialmente ed econo­
micamente determinati, che l'hanno spinta sul sentiero della sven­
tura e dell'ospedalizzazione e, in secondo luogo, alla conoscenza
della propria malattia come prototipo degli eventi medici che le
sembrano incombere anche sulla figlia e sulla nipote. Nel resocon­
to di Taussig, il complesso a catena e il prototipo sono la contro­
parte idiosincratica, rudimentale e frustrante dei resoconti poten­
temente desocializzanti prodotti dai ME clinici e individuali. Sono
semplicemente dei fatti privi di un discorso.
Nel caso di Taussig, le pratiche mediche convenzionali hanno
marginalizzato i resoconti di malattia che la paziente ha prodotto
sotto forma di prototipi e complessi a catena. Tuttavia, che cosa
accade nelle società tribali, dove le credenze mediche sono socia­
lizzate, e il gruppo più esteso al quale il malato appartiene è una
piccola comunità? Un eccellente resoconto di Sindzingre e Zem­
pleni è dedicato a questo problema riguardante i Senufo della Co­
sta d'Avorio (1981). Dopo avere stabilito che i Senufo espongono
fatti e resoconti medici eterogenei, Sindzingre e Zempleni descri­
vono come la diagnosi-divinazione Senufo incorpori attivamente
prototipi e complessi a catena. In questo caso, gli eventi presenti
della malattia sono concepiti come la riattivazione di eventi prece­
denti e vengono "reinseriti e immagazzinati nella memoria collet­
tiva del ramo matrilineare; [ . . . ] il meccanismo divinatorio ha la
funzione di nutrire questa memoria con le proprie problematiche
e i propri ricordi costitutivi [ . ] " (ibidem, p. 279).
. .

130
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

LA MEDICINA COME PRATICA IDEOLOGICA

Nel suo articolo Taussig (Taussig, 1980) sostiene, riferendosi


all'opera di Gyorgy Lukacs, che nella società occidentale il modo
di produzione della merce domini l'ordine sociale e crei una si­
tuazione in cui gli esseri umani e le loro esperienze sono costruiti
come oggetti-in-sé destoricizzati. ll punto di vista di Taussig è che
la medicina occidentale sia, tra le altre cose, parte dell'apparato
ideologico di questo ordine sociale. Le sue pratiche sono quindi
pratiche ideologiche, perché danno prova della concezione per
cui la società è soltanto la somma totale dei suoi individui, e le
forze sociali rappresentano nient'altro che un equilibrio derivan­
te dalla moltitudine di queste volontà e di questi destini separati.
I ME scientifico e clinico, come le pratiche e le cerimonie che le­
gittimano, ottengono un effetto ideologico reificando i segni, le
esperienze e gli esiti, come fatti desocializzati di natura. Taussig
confronta questa situazione con ciò che succede nelle società tri­
bali, come gli Azande, dove i fatti medici "non sono separati dai
valori, le manifestazioni fisiche non sono strappate al loro conte­
sto sociale, e non è necessario [ . . ] un grande sforzo mentale per
.

leggere le relazioni sociali negli eventi materiali".


Secondo Taussig, non è un caso che la malattia sia divenuta un
punto focale della pratica ideologica. Una grave malattia inter­
rompe la routine quotidiana e l'accettazione più o meno acritica
della vita. Essa trasforma le persone in "metafisici e filosofi", che
riflettono su domande quali "perché io? ". Perciò, quando la ma­
lattia entra nella clinica, il medico "acquisisce il potere di penetra­
re la psiche del paziente" grazie all'autorità dei suoi ME. È a questo
punto che il clinico occidentale diventa l'agente di specifici inte­
ressi di classe, la medicina diventa un mezzo di controllo sociale e
il corpo è trasformato in uno strumento per la ratificazione di ca­
tegorie socialmente prodotte e per "l'affabulazione della realtà".
Negando le relazioni sociali incorporate nella malattia, questi me­
dici trasformano la medicina clinica in "una scienza di 'oggetti
(apparentemente) reali'" e trasfigurano la realtà in un "mondo di
oggetti a priori, debitori unicamente alla propria forza e alle pro­
prie leggi, spiegatici con deferenza dai professionisti esperti, come
i dottori". In questo modo, all'interno della clinica stessa viene
trasmesso un messaggio politico: "Non pensate di ribellarvi con-

13 1
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

tro i fatti dell'esistenza poiché essi [ . ] sono irrevocabilmente ser­


. .

rati entro il regno della materia fisica".


Negli Stati Uniti, il successo di pratiche ideologiche come la
medicina clinica non sta nella loro capacità di affrontare e confu­
tare visioni contrapposte, ma nel potere di spingere queste conce­
zioni ai margini del discorso razionale. Attraverso queste pratiche,
si fa in modo non tanto che forme socializzate di sapere medico
sembrino "errate" o "controproducenti" (cosa che suggerirebbe,
quanto meno, un terreno comune tra le concezioni socializzate e
quelle convenzionali) quanto piuttosto che appaiano come "per
nulla mediche" o come tentativi di "politicizzazione" della medi­
cina e della scienza. A questo punto Taussig rivolge le sue critiche
agli autori dei ME. Secondo Taussig, l'approccio del ME sovverte la
possibilità di una medicina socializzata: mentre sostiene di privile­
giare, all'interno del dialogo medico, la definizione del problema
data dal paziente, il suo vero effetto è di ridurre le relazioni sociali
della malattia [sickness] a un discorso sulla malattia [illness] e l'a­
dattamento. Tale approccio diviene allora uno strumento per
cooptare e quindi subordinare la definizione del paziente, per tra­
scurare la sua conoscenza socializzata nella forma di prototipi e
complessi a catena, e per strappargli il controllo dalle mani.
Ci sono svariati punti della sua tesi in cui Taussig elude molte
questioni importanti. In primo luogo, c'è un problema che emer­
ge dal riferimento agli Azande. Nonostante le sue insinuazioni,
sembra che la divinazione-diagnosi medica zande funzionasse co­
me potente strumento ideologico e semigiuridico, per mezzo del
quale lo strato aristocratico della popolazione dominava la massa
dei cittadini comuni. Se è vero che la medicina zande socializzava
effettivamente la malattia, il principale effetto politico era quello
di dividere tra loro i non-aristocratici e di assicurarsi il loro sfrut­
tamento collettivo (Mc Leod, 1972). In secondo luogo, non è ben
chiaro cosa intenda Taussig con "reificazione" , dal momento che
non distingue questo concetto dalle forme di oggettivazione che
sembrano inevitabili e quali i processi simbolici attraverso cui le
persone oggettivano se stesse in particolari eventi, cose materiali,
relazioni sociali, e che contribuiscono a plasmare la costruzione
culturale della realtà in ogni società.
I problemi di Taussig sono forse più apparenti che reali? Do­
potutto, egli sembra insinuare che: a) l'oggettivazione è "reifica-

132
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

zione" quando mistifica le origini sociali della patologia, le cause


sociali della malattia e gli aspetti essenziali del dominio di classe,
b) quando i sintomi, le eziologie ecc. sono autenticamente socia­
lizzati (dereificati), diventano strumenti atti a demisti/t'care la pa­
tologia, l'esperienza di malattia e l'ordine sociale, e ciò è vero no­
nostante in alcune società tribali e tradizionali questi elementi
vengano socializzati in modi che contribuiscono alle forme di do­
minio. Ma questa linea di ragionamento ci conduce a un altro
problema. Come può Taussig, o qualsiasi altro antropologo, esse­
re sicuro di definire correttamente il proprio concetto di malattia
e di non mistificare le relazion� sociali della malattia mediante un
idioma "sociale", anziché convenzionalmente, attraverso l'idio­
ma "naturale" ? (Young, 1976a) Proprio questo è il problema di
Taussig. Egli si serve della tesi di Lukacs sulla reificazione per
giustificare la propria pretesa di socializzare correttamente (cioè
demistificare) la malattia. Ma Lukacs basava la sua tesi su affer­
mazioni altamente problematiche relative alla storia, alla coscien­
za di classe e al ruolo di emancipazione del proletariato (Keat,
Urry, 1975, capitolo 8). Forse Taussig ci potrebbe convincere di
queste affermazioni, o forse no. n punto è che esse, nel suo arti­
colo, sono sottintese e non argomentate. n risultato quindi è che
l'analisi dei modi in cui la medicina occidentale mistifica la malat­
tia è allo stesso tempo convincente e apprezzabile, ma le sue pre­
tese epistemologiche sono alquanto discutibili.
Un mio recente articolo (Young, 1980), che ricalca fino a un
certo punto quello di Taussig, si discosta dalla sua tesi quando
giunge a sostenere che tutta la conoscenza della società e della ma­
lattia è socialmente determinata, e che gli antropologi non posso­
no legittimamente pretendere di avere accesso a fatti demistificati.
Quello che possono pretendere, e che differenzierebbe i loro re­
soconti di malattia da quelli di altri, è una comprensione critica di
come i fatti medici siano predeterminati dai processi mediante i
quali vengono costruiti convenzionalmente nelle cliniche, negli
ambienti di ricerca ecc. Quindi, il nostro compito non è semplice­
mente quello di smitizzare la conoscenza, ma di esaminare critica­
mente le condizioni sociali della produzione del sapere. Lo stesso
articolo analizza il modo in cui i ricercatori che si occupano di
stress producono i fatti che caratterizzano gli esiti della malattia.
Analogamente ai sostenitori del modello diseaselillness, i ricerca-

133
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETIO, METODI, TEORIE

tori che studiano lo stress promettono di portare la conoscenza


della malattia oltre i limiti della prospettiva biomedica, ma alla fi­
ne utilizzano anch'essi la malattia per mostrare che le idee social­
mente determinate sulla collettività (la sua riducibilità agli indivi­
dui e a coppie di individui ecc.) sono irrimediabilmente fatti di na­
tura. Nella ricerca sullo stress, la conoscenza medica è desocializ­
zata per mezzo di un processo produttivo che a) riflette le relazioni
sociali di produzione caratteristiche dell'economia generale (per
esempio separando il lavoro intellettuale dd direttore dd progetto
dal lavoro frammentario e meccanico dei suoi informatori) b) col­
loca il soggetto umano (cioè le persone su cui i ricercatori che si oc­
cupano di stress stendono le loro relazioni) in una personale zona
d'ansia, l'area degli "eventi stressanti dell'esistenza", dove esso vie­
ne ricostituito come un'astrazione psicologica (a questo proposito,
vedi analoghe affermazioni di Navarro, 1980 e Assennato e Navar­
ro, 1980, pp. 224-230, sulla produzione sociale della conoscenza
della medicina occupazionale, e Latour e Woolgar, 1979, sulla pro­
duzione sociale della conoscenza biomedica).

EFFICACIA E PRODUTI1VITÀ

Qual è l'importanza della ricerca medico-antropologica per i


soggetti dei quali scrivono gli antropologi medici? Gli autori del
ME sono abbastanza chiari su questo punto: il loro interesse prati­
co rientra nella questione dell'efficacia terapeutica. Ciò significa
che essi vogliono migliorare l'efficacia della medicina clinica nel
contesto del processo di guarigione. Per esempio, vogliono ac­
crescere l'educazione del paziente, rimediare ai problemi di non­
compliance del paziente e contrastare i cicli di cura caratterizzati
da disadattamento. Dall'altro lato, gli autori che ho individuato
nella prospettiva dell'antropologia di sickness sono orientati ver­
so un punto che va oltre il processo di guarigione, la logica inter­
na della malattia e la coscienza dell'individuo. n loro interesse
pratico risiede in quello che si può chiamare produttività medica.
Essi infatti vogliono individuare l'impatto diretto e indiretto di
pratiche e prospettive cliniche particolari sul piano della morbi­
lità e della mortalità della popolazione allargata. Tra le altre cose,
questo significa che vogliono apprendere se particolari pratiche

134
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

cliniche, proprio in quanto efficaci, aiutino anche a determinare


chi è esposto a quali agenti patogeni e situazioni patogeniche, e
chi controlla o ha accesso a quali pratiche e risorse mediche.
Poiché il grado di produttività di un sistema medico dipende
dal valore del suo retroterra culturale e dalle abilità e conoscenze
tecniche dei medici, non è possibile parlare di produttività senza
introdurre anche domande sull'efficacia. Tuttavia il contrario non
vale, e ciò contribuisce a limitare l'importanza pratica degli ap­
procci centrati su di essa, poiché ci sono almeno tre situazioni in
cui i miglioramenti dell'efficacia non hanno effetti positivi, e cioè
sono improduttivi: l . quando sono ristretti a un piccolo numero
di persone, e hanno un effetto trascurabile sui livelli di morbilità e
mortalità della popolazione totale. In una situazione del genere, i
miglioramenti dell'efficacia resi disponibili a una parte della po­
polazione per la quale fanno la differenza, rappresentano una sot­
trazione delle risorse necessarie per migliorare la salute di un seg­
mento più ampio della popolazione totale. È questa la situazione
di alcuni paesi meno sviluppati, dove interventi medici dispendio­
si richiesti dalle élite urbane risucchiano le risorse sottraendole al­
le necessità di assistenza medica primaria di una popolazione ben
più ampia (povera, rurale) e a rischio. L'effetto finale è un manca­
to cambiamento, o addirittura un aumento, dei valori complessivi
di morbilità e mortalità. Situazioni di questo tipo sono descritte da
Djurfeldt e Lindberg (Djurfeldt, Lindberg, 1975), quando scrivo­
no dell'introduzione della medicina occidentale in una regione
del Tamil Nadu, in India, e da Frankenberg e Leeson (Franken­
berg, Leeson, 1973 ) quando parlano dello sviluppo di un sistema
medico incentrato sulla figura del dottore in Zambia (vedi anche
Cultura! Survival Newsletter, 1981 e Young, 1978b); 2. quando i
miglioramenti sono resi disponibili alla popolazione nel suo insie­
me, ma sono efficaci soltanto in condizioni attentamente regolate.
Nella pratica effettiva, le relazioni sociali di malattia li rendono ia­
trogeni o superflui come ad esempio nel caso della distribuzione
sregolata di potenti antibiotici in paesi meno sviluppati (Fergu­
son, 1981); 3 . quando l'effetto principale dei miglioramenti nel­
l'efficacia è quello di giustificare la "reificazione" o la desocializ­
zazione della malattia. Come abbiamo visto, ciò accade quando
delle pratiche adeguate evidenziano, nella forma di casi individua­
li di cura e guarigione, che le visioni desocializzate della malattia

135
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

riflettono semplicemente i fatti di natura. Ma la desocializzazione


è intrinsecamente improduttiva, perché nasconde le sottostanti
cause sociali dei modelli di morbilità e mortalità, e in tal modo
contribuisce alla loro riproduzione (Taussig sostiene che anche se
l'approccio del ME fosse usato efficacemente, ricadrebbe proba­
bilmente nella seconda e nella terza situazione).

CONCLUSIONE

n prospetto riportato nella pagina seguente schematizza la mia


concezione del campo di studio dell'antropologia medica.
Questo prospetto ci suggerisce un'ultima domanda. Le antro­
pologie della illness e della sickness sono complementari o anta­
goniste? La risposta dipende dal punto di vista che si decide di
assumere.
Gli antropologi della illness sembrano inclini a vedere lo svilup­
po di un'antropologia della malattia come la prova di un'emer­
gente divisione intellettuale del lavoro all'interno dell'antropolo­
gia medica. Per esempio, questa visione è implicita nel modo in
cui Kleinman tratta le relazioni sociali della malattia nella sua mo­
nografia sulla medicina cinese (Kleinman, 1980). Egli allude varie
volte a quanto sia importante riconoscere le cau�e sociali ed eco­
nomiche degli eventi clinici. Allo stesso tempo, riÌnanda il compi­
to di descrivere e analizzare effettivamente queste cause. Perciò
presuppone che, se è vero che la conoscenza dell'esperienza di
malattia non dipende dalla conoscenza delle sue condizioni so­
ciali, la prima verrà probabilmente arricchita dall'ultima.
La visione dell'antropologia della sickness è più complicata. Da
una lato, ci sono autori come Taussig che hanno sollevato la que­
stione se ci sia un'epistemologia condivisa tra gli antropologi del­
la illness e della sickness. Se non c'è, allora la relazione tra le due è
di tipo antagonistico e basata su pretese rivali di verità. Dall'altro
lato, ci sono autori, me compreso, che evitano di arrivare a questa
conclusione e riconoscono il terreno comune delle antropologie
della illness e della sickness.
Quello che tutti gli antropologi della sickness condividono è la
premessa che le forze e le relazioni sociali permeano il campo del­
l' antropologia medica. Quando queste condizioni sociali vengono

136
ANTROPOLOGIE DELLA "ILLNESS" E DELLA "SICKNESS"

LE ANTROPOLOGIE DELL'ESPERIENZA DI MALATTIA [illness]


E DELLA MALATTIA [sickness]

L Orientamenti biologici
A. Biomedicina
B. Antropologia della patologia [dùease] (antropologia biologica)

Il. Orientamenti socioculturali


A. Epistemologie empiriche
l Sociologia medica
2 Antropologia medica empirica
B. Epistemologie non-empiriche
l Approcci antropologici tradizionali
2 Antropologia dell'esperienza di malattia [illness]
3 Antropologia della malattia [sickness]

ignorate o differite, la conoscenza degli eventi medici, compreso


ciò che accade nella clinica, è distorta (per ulteriori approcci a que­
sto tema, vedi la distinzione di Janzen tra microanalisi e macroana­
lisi: Janzen, 1978 b, e la tipologia dei sistemi medici compilata da
Press, 1980). Inoltre, la conoscenza dell'antropologo viene alterata
in modi che sono di per sé socialmente significativi. La tesi sotto­
stante è che i concetti chiave dell'antropologia della illness - cioè la
guarigione, l'esperienza di malattia, l'efficacia, i modelli esplicativi
e le reti semantiche della malattia - non possano essere intesi sol­
tanto in relazione tra loro. I concetti non costituiscono di per sé un
sistema per descrivere le credenze, le esperienze, gli eventi e il com­
portamento medico di altre persone, perché l. l'esperienza di ma­
lattia, tra le altre cose, è un mezzo attraverso cui una tacita cono­
scenza del soggetto umano (compresa la sua conoscenza della pro­
pria capacità di sapere, influenzare, mutare le condizioni di malat­
tia) entra nella coscienza dell'individuo; 2. la guarigione, oltre a
procurare soddisfazione a chi sta male, è anche una pratica ideolo­
gica che aiuta a riprodurre le relazioni sociali per mezzo delle quali
la malattia viene resa reale e tanto l'esperienza di malattia quanto il
disagio vengono distribuiti nella società; 3 . l'efficacia è importante
dal punto di vista pratico per il suo contributo socialmente im­
prontato alla produttività; 4. i modelli esplicativi, le reti semantiche
di malattia, insieme agli episodi prototipici e ai complessi a catena,
sono elementi che stanno in una relazione dialettica all'interno di
un processo socialmente determinato di produzione del sapere.

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147
5
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO
IN ANTROPOLOGIA MEDICA
RITUALI E PRATICHE DISCIPLINARI E DI PROTESTA
Margaret Lock, Nancy Scheper-Hughes

L'antropologia medica è stata riconosciuta ufficialmente come


una branca dell'antropologia da più di trent'anni. n corpo uma­
no, in stato di salute e malattia, è il punto di partenza della ricerca
in questo ambito, ricerca che include studi storici e transculturali
sulle rappresentazioni legate al corpo, oltre ad analisi dell'univer­
sale tentativo di spiegare, classificare e alleviare i problemi di sa­
lute e invecchiamento.
Molti lavori che in passato hanno trattato temi legati alla salute
e alla malattia non vennero tuttavia scritti avendo in mente l'an­
tropologia medica. I loro autori si occupavano ufficialmente di
religione, rituali, stregoneria, modi di pensare comparativi e così
via, e poiché il corpo "è buono da pensare" e dunque costituisce
l'oggetto primario attraverso cui si realizzano associazioni simbo­
liche in ogni società, esso era inevitabilmente presente in questi
studi, giustamente diventati, in seguito, dei classici dell' antropo­
logia medica. Gli esempi più celebri sono senza dubbio Stregone­
ria, oracoli e magia tra gli Azande ( 1937) di Edward Evans-Prit­
chard, La foresta dei simboli (1967) e Drums o/Affliction (1968)
di Victor Turner, Purezza e pericolo (1966) di Mary Douglas. Nes­
suno di questi autori ha mai sentito il bisogno di pronunciarsi cir­
ca la propria convinzione che i metodi impiegati nella raccolta e
nell'analisi dei dati fossero scientifici; non di meno, si può proba­
bilmente affermare con sicurezza che essi ritenessero di scoprire
allora dei fatti riguardanti le rispettive società che studiavano. In
altre parole, questi autori lavoravano all'interno di quella tradi­
zione dell'antropologia per cui si riteneva possibile offrire una
descrizione oggettiva delle altre culture.

149
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

Retrospettivamente è ormai riconosciuto che una delle prin­


cipali questioni teoriche che ha animato negli ultimi vent'anni le
scienze sociali, antropologia compresa, è stata la domanda se i
fatti del mondo vengano scoperti o se, al contrario, vengano
prodotti come risultato dell'interazione tra ricercatore e oggetto
della ricerca. Gran parte del lavoro che oggi costituisce il campo
dell'antropologia medica, come le monografie classiche sopra
citate, rientra nel primo dei due orientamenti: si suppone cioè
che una ricerca empirica rigorosa porterà a una rappresentazio­
ne veritiera degli oggetti o degli eventi studiati. Questo tipo di
ricerca è per lo più attenta agli aspetti culturali, dedita a mettere
in luce come credenze e pratiche legate a salute e malattia abbia­
no senso se analizzate in un contesto culturale e, dunque, se in­
tendono mostrare che l"'uomo primitivo" , gli immigrati, i rifu­
giati e così via, sono esseri razionali. In ogni caso, si riscontra
una sconvolgente mancanza di sensibilità, in questo tipo di an­
tropologia medica, circa i modi in cui la cultura della scienza
struttura il tipo di questioni poste. Come ha suggerito Allan
Young "l'indagine epistemologica viene sospesa per la scienza
sociale occidentale e per la medicina occidentale" (Young,
1982). Mentre si può intraprendere un'analisi culturale dei siste­
mi medici "tradizionali", la biomedicina (la medicina "scientifi­
ca") è ritenuta, per sua propria natura, privilegiat� ed esente da
un'analisi di questo tipo.
·

Quando si abbraccia un approccio di questo genere, una serie


di presupposti seguono a ruota: ovvero che sia teoricamente pos­
sibile spiegare il mondo naturale, logicamente e razionalmente, a
partire da un approccio scientifico; e che, inoltre, si potrà eserci­
tare un controllo sulla natura, compreso il corpo umano, grazie
agli strumenti della tecnica. A livello di salute e malattia, si sup­
pone spesso che tutto il repertorio di spiegazioni e comporta­
menti che vanno dal malocchio all'intonazione dei sutra nei tem­
pli, sebbene comprensibili in quanto meccanismi di rassicurazio­
ne psicologica, non saranno necessari una volta che l'educazione
universale nella biologia occidentale sarà diventata un patrimo­
nio a disposizione dell'umanità. Allora verrà universalmente ri­
conosciuta l'idea che i mutamenti fisici, misurabili all'interno del
corpo, siano "reali", mentre tutti gli altri fenomeni sono estranei.
Ci troveremo allora d'accordo con Susan Sontag quando affer-

150
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

ma: "La maniera più corretta di considerarla [la malattia] - e la


maniera più sana di esser malati - è la più libera da pensieri me­
taforici e a essi più resistente" (Sontag, 1977, p. 3).

VERSO UNA PROSPETTIVA CRITICO-INTERPRETATIVA


IN ANTROPOLOGIA MEDICA

L'altra corrente di pensiero, all'interno delle scienze sociali, ha


meno a che vedere con spiegazioni di tipo normativa ed è invece
incentrata sul modo in cui la vita sociale "deve essere fondamen­
talmente concepita come negoziazione di significati" (Marcus,
Fischer, 1986, p. 73). Questo atteggiamento critico-interpretati­
va - cui hanno contribuito la fenomenologia, il costruzionismo
culturale e il neo-marxismo, prescinde esplicitamente dall' ege­
monia delle scienze sociali positivistiche. Questo approccio fa
parte di un più ampio movimento in cui la scienza riduzionistica
nella sua interezza è stata oggetto di una rivalutazione, compreso
un esame del modo in cui l'impresa scientifica occidentale è da
intendersi come un prodotto di specifici contesti storico-culturali
(Lock, Gordon, 1988; Mulkay, 1979; Toulmin, 1982). Tale consa­
pevolezza è particolarmente importante per l'antropologia medi­
ca, poiché il mondo stesso della biomedicina diventa così sogget­
to ad analisi antropologiche.
L'antropologia medica non è più lo studio di credenze, prati­
che e sistemi medici alternativi, quando si adotta un approccio
critico-interpretativo. Essa diventa, invece, un'impresa ben più
radicale. L'oggetto d'analisi diviene il modo in cui tutta la cono­
scenza relativa al corpo, alla salute, alla malattia viene costruita,
negoziata e rinegoziata culturalmente in un processo dinamico
attraverso il tempo e lo spazio. Nel campo attuale della ricerca si
cerca di guardarsi bene da una conversione del dialogo, che ha
luogo tra gli informatori e l'antropologo, in categorie nate nel
pensiero medico occidentale, come pure ci si guarda altrettanto
bene dall'abbracciare un atteggiamento teorico di estremo rela­
tivismo culturale. Inoltre, l'antropologo è awertito rispetto al
fatto che la propria rappresentazione dell'altro è effettivamente
una finzione, owero un documento creato a partire da un dialo­
go sempre aperto. Rabinow riassume questo approccio nel mo-

15 1
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

do seguente: "L'eticità è il valore chiave. È una posizione opposi­


tiva, sospettosa verso i poteri sovrani, le verità universali, l'ecces­
siva relativizzazione, l'autenticità locale, i vari moralismi. La
comprensione è il suo secondo valore chiave, ma è una compren­
sione sospettosa verso le proprie tendenze imperiali. Si sforza di
essere estremamente attenta (e rispettosa) nei confronti della
differenza, ma è anche consapevole della tendenza a essenzializ­
zare la differenza" (Rabinow, 1 986, p. 32 1 ) . In questo senso,
l'antropologia medica non si differenzia dal campo generale del­
l'antropologia critico-interpretativa. Ma un fatto è sempre pre­
sente, vincolante e irriducibile e certamente specifico dell'antro­
pologia medica: il corpo umano senziente.
Voli metaforici di fantasia si abbattono di fronte all'angoscia e
al dolore che spesso circondano la nascita, la malattia e la morte.
La relazione tra teoria e pratica assume un particolare significato
in questo contesto. L'antropologo medico studia costantemente
situazioni in cui il dramma è ordinario e dove l'azione è indi­
spensabile. Perciò il suo lavoro raramente si limita a una descri­
zione etnografica delle teorie e della pratica medica, ma si esten­
de, necessariamente, nel mondo delle decisioni. Attraverso l'im­
presa scientifica, la tecnologia medica (in parte uguale o superio­
re alle terapie tradizionali) è accessibile, in qualche misura, quasi
ovunque nel mondo. È evidente che ciascun esser� umano ha il
diritto di beneficiare di questa tecnologia. Una delle sfide mag­
giori dell'antropologia medica è quella di venire à patti con la
biomedicina, di riconoscerne l'efficacia quando è il caso, mante­
nendo però un atteggiamento critico ma costruttivo. Allo stesso
tempo è necessario, a volte, assumere un atteggiamento critico
nei confronti dei valori culturali e delle tradizioni delle società
che si studiano. Le trame culturali che le persone tessono sono
essenziali al funzionamento dell'organizzazione sociale. Non
possiamo estirpare del tutto la metafora, come suggerisce la Son­
tag. Tuttavia, dove ineguaglianze e gerarchie sono istituzionaliz­
zate, facilmente saranno legittimate da un'ideologia culturale
dominante, che probabilmente imporrà ai marginalizzati rispet­
to al sistema dominante un'immagine di sé negativa, esponendo­
li inoltre a disagio e sofferenza. Oggi disponiamo di libertà e im­
peto intellettuale per svelare il discorso dannoso e separarlo da
quello indispensabile alla continuità della sussistenza dei gruppi

152
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

sociali cooperativi. L'antropologo medico deve muoversi con


estrema accortezza vestendo alternativamente i panni dell'inter­
prete e del critico culturale, del difensore della tradizione e del
mediatore del cambiamento.
n compito di un'antropologia medica critico-interpretativa è,
prima di tutto, descrivere la varietà delle concezioni metaforiche
(consce e inconsce) relative al corpo con le relative narrazioni e
quindi mostrare gli usi sociali, politici e individuali cui queste
concezioni vengono applicate nella pratica. Utilizzando un ap­
proccio di questo tipo, la conoscenza medica non è concepita co­
me un corpo autonomo ma come radicata nelle pratiche e conti­
nuamente modificata da esse e dal cambiamento sociale e politi­
co. La conoscenza medica è, certo, anch'essa vincolata (ma non
determinata) dalla struttura e dal funzionamento del corpo uma­
no. Un antropologo medico, perciò, tenta di esplorare la nozione
di "personalità incorporata" (Turner, 1986, P- 2): il rapporto del­
le credenze culturali relative a salute e malattia con il corpo uma­
no senziente.
In questo saggio esporremo una prospettiva critico-interpreta­
tiva ispirata ad alcuni aspetti del discorso antropologico generale
sul corpo. Siamo infatti convinte che se l'antropologia medica
prescinde dal considerare il modo in cui il corpo umano è co­
struito culturalmente è destinata a rimanere vittima di certe tesi
caratteristiche della biomedicina_ In testa a queste tesi è il celebre
dualismo cartesiano che separa la mente dal corpo, lo spirito dal­
la materia e il reale (cioè misurabile) dall'irreale. Dal momento
che questa tradizione epistemologica è una costruzione culturale
e storica e non è universalmente condivisa, è essenziale comincia­
re dall'esame di questa tesi.1

l. Questo capitolo non vuole essere una rassegna del campo di studio del­
l' antropologia medica_ Rimandiamo i lettori interessati a qualche eccellente ras­
segna di questo tipo: Worsley, 1982; Young, 1982; Landy, 1983a_ In particolare
riferimento alle idee espresse in questo capitolo vedi comunque Taussig: 1980a,
1984; Estroff, 1981; Good, Good, 1981; Nichter, 1981; Obeyesekere, 1981; La­
derman, 1983 , 1984; Comaroff, 1985; Devisch, 1985 ; Hahn, 1 985; Helman,
1985; Low, 1985.

153
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

I TRE CORPI

n corpo è il primo e il più naturale strumento dell'uomo.


MARCEL MAUSS

È essenziale al nostro compito considerare le relazioni tra quel­


li che qui indicheremo come i "tre corpi" .2 Al primo livello, il più
evidente, c'è il corpo individuale, inteso nel senso fenomenologi­
co dell'esperienza del corpo cosciente (body-se/f). Potremmo ra­
gionevolmente sostenere che tutte le persone condividono alme­
no un senso intuitivo del sé incorporato, in quanto esistente indi­
pendentemente da altri corpi individuali (Mauss, 1938). Tuttavia,
le parti costitutive del corpo - la mente, la materia, la psiche, l'ani­
ma, il sé - come le loro relazioni reciproche e i modi in cui il corpo
è vissuto nella salute e nella malattia, sono assai variabili.
Al secondo livello di analisi c'è il corpo sociale, che rinvia agli
usi rappresentativi del corpo in quanto simbolo naturale con il
quale pensare la natura, la società, la cultura (Douglas, 1970) .
Qui il nostro discorso segue il percorso ben noto dell' antropolo­
gia sociale, simbolica e strutturalista che ha messo in luce un con­
tinuo scambio di significati tra il mondo naturale e quello sociale.
ll corpo sano offre un modello di benessere organico; il corpo
malato offre un modello di disarmonia, conflitto, disintegrazione
sociale. In cambio, la società "malata" e " sana" off;e un modello
per pensare il corpo.
Al terzo livello di analisi c'è il corpo politico, che si riferisce alla
regolamentazione, alla sorveglianza e al controllo dei corpi (indi­
viduali e collettivi) in relazione alla riproduzione, alla sessualità, al
lavoro e alla malattia. Ci sono molti tipi di ordinamenti politici,
dai raggruppamenti acefali delle società "semplici" dedite alla
caccia e alla raccolta, in cui i devianti possono essere semplice­
mente ignorati oppure puniti da un totale ostracismo sociale e

2. Mary Douglas parla de "I due corpi", quello fisico e quello sociale, in I
simboli naturali (1970). In tempi più recentiJohn O'Neill ha scritto Five Bodies:
The Human Shape o/Modern Society (1985), nel quale parla del corpo fisico, del
corpo comunicativo, del corpo del mondo, del corpo sociale, del corpo politico,
del corpo consumatore e dei corpi medici. Dobbiamo molto sia a Douglas che a
O'Neill, ma anche al libro di Bryan Tumer, The Body and Society: Explorations
in Social Theory (1984), per averci aiutato a definire e delimitare quel dominio
tripartito che qui abbiamo configurato.

154
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

conseguentemente dalla morte (vedi Briggs, 1970; Turnbull,


1962), ai regni, alle monarchie, alle oligarchie, alle democrazie fi­
no ai moderni stati totalitari. In ciascuno di questi ordinamenti, la
stabilità del corpo politico risiede nella sua abilità di regolamenta­
re la popolazione (il corpo sociale) e di disciplinare i corpi indivi­
duali. Molto è stato scritto sulla regolamentazione e il controllo
dei corpi individuali e sociali nelle società complesse e industria­
lizzate. L'opera di Miche! Foucault è, a questo proposito, esem­
plare ( 1973 , 1975, 1979, 1980). Meno, invece, è stato scritto sui
modi in cui le società preindustriali controllano le loro rispettive
popolazioni legittimando e istituzionalizzando delle pratiche per
produrre corpi docili e menti asservite a una qualche definizione
di stabilità collettiva, salute e benessere sociale.
L'analisi che segue procederà muovendosi continuamente at­
traverso una discussione su questi tre corpi, intesi come utile con­
cetto euristico per capire le culture e le società, da un lato, e, dal­
l' altro, per accrescere la comprensione delle risorse e dei signifi­
cati culturali della salute e della malattia.

ll. CORPO INDIVIDUALE

QUANTO È REALE IL REALE? L'EREDITÀ CARTESIANA

Una singolare premessa su cui poggia la scienza occidentale e la


medicina clinica (e che, ci affrettiamo ad aggiungere, è la ragione
della sua tremenda efficacia) è il suo attaccamento a una opposizio­
ne fondamentale tra spirito e materia, mente e corpo e (ovviamen­
te) tra reale e irreale. Ci viene in mente il caso di una donna di mez­
za età che soffriva di mal di testa cronici e debilitanti. La paziente
spiegò, con frasi zoppicanti, di fronte a una affollata classe di stu­
denti di medicina del primo anno, che suo marito era un alcolista
che talvolta la picchiava, che era stata letteralmente relegata in ca­
sa, negli ultimi cinque anni, per accudire l'anziana e incontinente
suocera e che era costantemente preoccupata per suo figlio, adole­
scente, che stava per essere espulso dalla scuola superiore. Benché
la storia della donna avesse riscosso una grande solidarietà da parte
degli studenti, alla fine una studentessa interruppe il professore
per chiedergli: "Ma qual è la vera causa dei mal di testa" ?

155
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

La studentessa di medicina, come molti dei suoi compagni, in­


terpretò il flusso delle informazioni circa il contesto sociale come
irrilevante ai fini della diagnosi biomedica. Voleva invece infor­
mazioni sui cambiamenti neurochimici, che riteneva costituissero
la vera spiegazione causale. Questo tipo di pensiero radicalmente
materialistico è il prodotto dell'epistemologia occidentale, che ri­
sale indietro nel tempo fino ad Aristotele e alla sua visione forte­
mente biologica dell'anima umana descritta nel De ant'ma. La si
ritrova anche nel Corpus Ippocratico (400 a.C. circa) ed è posta
alla base della prassi clinica.3 Ippocrate e i suoi studenti erano de­
terminati a sradicare le vestigia del pensiero magico-religioso stÙ
corpo umano e a introdurre una base razionale per la pratica cli­
nica che avrebbe sconfitto il potere degli antichi guaritori popo­
lari, dei "ciarlatani" e dei "magi", come Ippocrate definiva i suoi
rivali medici. In un passaggio del suo trattato sull'epilessia, ironi­
camente intitolato "Sulla sacra malattia" , Ippocrate (Adams,
1939, pp. 355-356) invitava i medici a trattare solo ciò che era os­
servabile e percepibile attraverso i sensi: "Non credo che la co­
siddetta malattia sacra sia più divina o più sacra di qualsiasi altra
malattia, ma credo che, al contrario, proprio come le altre malat­
tie hanno una natura e una causa definita, anch'essa abbia una
natura e una causa . . . Io ritengo che coloro che chiatparono per la
prima volta questa malattia sacra, erano quelle persone che ora
chiamiamo 'magi"' .
La dicotomia naturale-soprannaturale, reale-irreale, ha assun­
to diverse forme nel corso della storia e della civiltà occidentali,
ma è stato il filosofo-matematico René Descartes (1596- 1650) a
formulare nel modo più chiaro le idee che anticipano immediata­
mente le contemporanee concezioni biomediche sull'organismo
umano. Descartes era determinato a non considerare vero alcun­
ché, prima di aver stabilito le prove per accettarlo come tale. L'u­
nica certezza rispetto alla radicalità del dubbio metafisico era l'esi-

3. Non vogliamo sostenere che la concezione del corpo di Ippocrate fosse


analoga a quella di Descartes o a quella dei medici moderni. L'approccio di Ip­
pocrate alla medicina e alla guarigione può essere descritto soltanto come orga­
nico e olistico. Nondimeno Ippocrate, come dimostra la sua opera, era interes­
sato, in particolare, a introdurre elementi di scienza razionale (osservazione,
palpazione, diagnosi e prognosi) nella pratica clinica e a togliere credito a tutte
le pratiche "irrazionali" e magiche dei guaritori della tradizione popolare.

156
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

stenza dell'essere pensante, espressa nelle parole di Descartes:


"Cogito, ergo sum". Egli utilizzò poi la scoperta di essere pensan­
te per fornire la "prova" dell'esistenza di Dio, il quale, secondo
Cartesio, aveva creato il mondo fisico. Descartes, cattolico devo­
to, affermava che non si dovesse mettere in questione ciò che Dio
(verace per sua stessa essenza) aveva creato; in ogni caso, nel for­
giare un certo concetto di mente, Descartes poteva riconciliare le
sue credenze religiose con la propria curiosità scientifica. L'"es­
senza" superiore dell'uomo, la mente razionale, fu quindi estratta
dalla natura, consentendo un rigoroso esame oggettivo della na­
tura, compreso il corpo umano, per la prima volta nella storia oc­
cidentale. Questa separazione tra mente e corpo, il cosiddetto
dualismo cartesiano, consentì ai biologi di perseguire quel tipo di
pensiero radicalmente materialistico espresso dalla studentessa
di medicina di cui si raccontava prima, un approccio che ha per­
messo lo sviluppo delle scienze naturali e cliniche così come le
conosciamo oggi.
L'eredità cartesiana nella medicina clinica e nelle scienze natu­
rali e sociali consiste in una concezione meccanicistica del corpo
e delle sue funzioni e nell'incapacità di concettualizzare una cau­
salità "senziente" degli stati somatici. Per poter collegare mente e
corpo nella teoria e nella pratica clinica abbiamo dovuto attende­
re l'emergere di una psichiatria psicoanalitica agguerrita dal pun­
to di vista teorico e il graduale sviluppo della medicina psicoso­
matica. Eppure persino nella psichiatria di orientamento psicoa­
nalitico, come del resto nella medicina psicosomatica, c'è la ten­
denza a categorizzare e a trattare le afflizioni umane come se fos­
sero di origine organica, o psicologica: "la cosa" è nel corpo, o "la
cosa" è nella mente (Kirmayer, 1988) . Nella sua analisi di casi di
studio multidisciplinari con pazienti affetti da dolore cronico,
per esempio, Kitty Corbett (1986) ha messo in luce le insidie del
pensiero cartesiano anche nell'atteggiamento mentale dei clinici
più raffinati. Questi medici, psichiatri e assistenti sociali clinici
"sapevano" che il dolore era "reale", a prescindere dalla possibi­
lità di verificame le cause attraverso analisi diagnostiche. Ciò no­
nostante, essi non potevano fare a meno di esprimere un evidente
sollievo quando si riusciva a scoprire una causa "vera" (singola,
solitamente organica). In più, quando i test diagnostici indicava­
no una qualche spiegazione organica, gli aspetti psicologici e so-

157
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETTO, METODI, TEORIE

dali del dolore tendevano a essere del tutto dimenticati, mentre


quando si poteva diagnosticare una grave psicopatologia si ten­
deva a ignorare le complicanze e i sintomi di natura organica. n
dolore sembrerebbe essere fisico o mentale, biologico o psicoso­
ciale - mai entrambe le cose o qualcosa d'altro.
Quando gli antropologi medici e i clinici si sforzano di osser­
vare gli esseri umani e l'esperienza della malattia e della sofferen­
za da una prospettiva integrata, si trovano spesso fortemente li­
mitati dall'eredità cartesiana. Non possediamo uno specifico vo­
cabolario cui riferirei per parlare delle interazioni tra mente-cor­
po-società e quindi rimaniamo spesso sospesi tra due trattini, a
testimonianza della sconnessione dei nostri pensieri. Ci troviamo
così costretti a ricorrere a concetti frammentati come quelli di
"biosociale" o di "psicosomatico", modalità complessivamente
fragili per esprimere la varietà di modi in cui la mente parla attra­
verso il corpo e la società è iscritta sulla carne dei nostri corpi.
Come ha osservato recentemente Milan Kundera ( 1 984, p. 15):
"ll progresso della scienza ha spinto l'uomo nel tunnel della co­
noscenza specialistica. Ad ogni passo in avanti nella conoscenza
scientifica, meno chiaramente poteva vedere il mondo come un
tutto o come il proprio sé". Per ironia della sorte, i tentativi volti
a moderare il materialismo e il riduzionismo della scienza biome­
dica finiscono spesso col ricreare, involontariamente, l'opposi­
zione mente-corpo in una nuova forma. Per esempi� , la distinzio­
ne fra dz'sease e illness è stata elaborata nello sforzo di distinguere
la visione biomedica della malattia intesa come "anormalità nella
struttura e/o nella funzione degli organi e dei sistemi di organi"
(disease) dall'esperienza soggettiva che il paziente vive del males­
sere (illness) (Eisenberg, 1977). Mentre questo paradigma ha cer­
tamente contribuito a sensibilizzare clinici e scienziati sociali cir­
ca le origini sociali della malattia, un effetto imprevisto è stato
che i medici ora riconducono spesso sotto il dominio della razio­
nalità di tipo clinico entrambi gli aspetti dell'esperienza di malat­
tia. Ne risulta che la dimensione soggettiva del disagio umano
viene medicalizzata e individualizzata piuttosto che politicizzata
e collettivizzata (vedi Scheper-Hughes, Lock, 1986; Lock,
1988b). La medicalizzazione implica inevitabilmente una manca­
ta identificazione tra i corpi individuale e sociale e una tendenza a
trasformare il sociale nel biologico.

158
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

Il dualismo mente-corpo sta poi alla base di un'altra serie di


opposizioni concettuali, proprie dell'epistemologia occidentale,
come quelle tra natura e cultura, passione e ragione, individuo e
società - dicotomie che pensatori come Emile Durkheim, Mar­
cel Mauss, Karl Marx e Sigmund Freud sono giunti a considera­
re come contraddizioni inevitabili e spesso irrisolvibili, come ca­
tegorie naturali e universali. Benché Durkheim si occupasse so­
prattutto della relazione tra individuo e società, si occupò anche
delle dicotomie mente-corpo, natura-società. Nel libro Le /orme
elementari della vita religiosa (1912, p. 66) Durkheim ha scritto
che "l'uomo è duplice", riferendosi alla parte biologica e a quel­
la sociale. n corpo fisico provvede alla riproduzione della società
attraverso la sessualità e la socializzazione. Per Durkheim la so­
cietà rappresenta "la realtà più alta, nell'ordine intellettuale e
morale" (ibidem, p. 66). n corpo è il magazzino delle emozioni,
le quali sono la materia cruda, la sostanza, con cui viene forgiata
la solidarietà meccanica negli interessi della collettività. In linea
con Durkheim, Mauss ha parlato del " dominio della coscienza
[la volontà] sulle emozioni e sull'inconscio" (1950, p. 122). Il
grado in cui gli impulsi casuali e caotici del corpo vengono disci­
plinati dalle istituzioni sociali rivela l'impronta delle civiltà più
evolute.
Freud ha introdotto un'interpretazione ulteriore dell'insieme
di opposizioni mente-corpo, natura-cultura, individuo-società
in virtù della "psicologia dinamica" : l'individuo in lotta con se
stesso. Freud immagina un dramma umano in cui le pulsioni na­
turali e biologiche cozzano con le necessità di addomesticamen­
to dell'ordine sociale e morale. Le conseguenti repressioni della
libido che ne derivano, attraverso un processo molto doloroso di
socializzazione, producono le svariate nevrosi della vita moder­
na. La psichiatria dovrebbe, dunque, diagnosticare e curare le
patologie della psiche ferita, il cui ego non ha più il controllo
della mente. Il disagio della civiltà (Freud, 1929) potrebbe essere
letto come una parabola psicoanalitica che riguarda le opposi­
zioni mente-corpo, natura-cultura e individuo-società nell'epi­
stemologia occidentale.
Per Marx e i suoi colleghi il mondo naturale esiste come una
realtà esterna, oggettiva, trasformata dal lavoro umano. Gli uomi­
ni si distinguono dagli animali, scrivono Marx ed Engels, " appena

159
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITA: OGGETTO, METODI, TEORIE

iniziano a produrre i propri mezzi di sussistenza" (1932, p. 8). Nel


Capz'tale, Marx scrive che il lavoro umanizza e addomestica la na­
tura. Esso dà vita agli oggetti inanimati e respinge la frontiera na­
turale, lasciando un'impronta umana su tutto ciò che tocca.
Benché l'opposizione natura-cultura sia stata interpretata come
"la più profonda matrice della metafisica occidentale" (Benoist,
1978) e benché sia "così profondamente radicata nelle analisi cul­
turali da essere ormai ritenuta "naturale" e inevitabile" (Goody
1977, p. 78), ci sono sempre state delle ontologie alternative. Una
di esse è sicuramente la concezione secondo cui la cultura, anzi­
ché opposta alla natura, sarebbe radicata in essa, la emulerebbe
ed emergerebbe da essa. I materialisti culturali, per esempio, era­
no inclini a considerare le istituzioni sociali come risposte di adat­
tamento a certi fondamenti biologici imprescindibili. Harris parla
della cultura come di una soluzione "banale" o "volgare" per la
condizione umana, nella misura in cui essa "si poggia sul terreno
di, ed è costituita da, viscere, sesso, energia" ( 1974, p. 3 ) . In queste
formulazioni la mente sprofonda nel corpo.
Allo stesso modo alcuni psicologi e biologi umani hanno sug­
gerito che le opposizioni mente-corpo, natura-cultura, indivi­
duo-società sono categorie di pensiero naturali (e presumibil­
mente universali) , nella misura in cui sono una manifestazione
cognitiva e simbolica della biologia umana; Ornstein (1973 ), per
esempio, intende il dualismo mente-corpo come ub 'espressione
della lateralizzazione del cervello umano. Secondo tale prospetti­
va, la specializzazione, unicamente umana, dell'emisfero cerebra­
le sinistro nelle funzioni cognitive, razionali e analitiche e di quel­
lo destro nelle funzioni intuitive, espressive e artistiche, all'inter­
no di un contesto in cui domina l'emisfero sinistro, allestisce lo
scenario per il dominio simbolico e culturale della ragione sulla
passione, della mente sul corpo, della cultura sulla natura, del
maschile sul femminile. Questo tipo di riduzionismo biologico
viene in ogni caso rifiutato dagli antropologi sociali più recenti,
che pongono invece l'accento sulle origini culturali di queste op­
posizioni nel pensiero occidentale.
Dovremmo tenere a mente che la nostra epistemologia è solo
uno tra i vari sistemi di conoscenza che riguardano le relazioni
che devono esserci tra mente, corpo, cultura, natura e società.
Per esempio, alcune civiltà non occidentali hanno sviluppato

160
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

delle epistemologie alternative che tendono a concepire le rela­


zioni tra entità simili in termini monistici invece che dualistici.
Nelle epistemologie non occidentali troviamo, infatti, varie rap­
presentazioni olistiche nel definire le relazioni fra questi concetti
e principi. Due rappresentazioni del pensiero olistico sono parti­
colarmente frequenti. La prima è una concezione di insiemi ar­
monici in cui tutto, dal cosmo ai singoli organi del corpo umano,
è inteso come unità. Ciò si esprime spesso come la relazione del
microcosmo col macrocosmo in cui troviamo una forte enfatizza­
zione delle relazioni delle parti col tutto. Una seconda rappre­
sentazione di tipo olistico è quella delle dualità complementari
(non oppositive) in cui i contrasti sussistono tra entità appaiate
nell'intero. Una delle rappresentazioni più note di complemen­
tarità bilanciata è l'antica cosmologia cinese yin-yang, che appare
per la prima volta nell'l Ching un po' prima del III secolo a.C. In
questa prospettiva, il cosmo intero, compreso il corpo umano, è
visto come bilanciato in uno stato di equilibrio dinamico, oscil­
lante tra i poli dello yin e dello yang, del maschile e del femmini­
le, del chiaro e dello scuro, del caldo e del freddo. La tradizione
dell'antica medicina cinese ha ricevuto la cosmologia yin-yang
dai taoisti, così come dal confucianesimo ha ereditato un interes­
se per l'etica sociale, la condotta morale e l'importanza del man­
tenere relazioni armoniche tra gli individui, la famiglia, la comu­
nità e lo stato. Le concezioni del corpo sano venivano così mo­
dellate sullo stato sano. In entrambe queste concezioni troviamo
un'enfasi sull'ordine, l'armonia, l'equilibrio e la gerarchia, nel
contesto di reciproche interdipendenze. La salute degli individui
dipende dall'equilibrio del mondo naturale, come la salute di
ciascun organo dipende dalla sua relazione con tutti gli altri or­
gani. Nulla può cambiare senza modificare anche l'insieme (Un­
schuld, 1985).
La cosmologia islamica - una sintesi della antica filosofia gre­
ca, di concetti giudaico-cristiani e di rivelazioni profetiche fissate
nel Corano - dipinge gli esseri umani come dominanti sulla natu­
ra, ma questa potenziale opposizione è temperata da una visione
del mondo di tipo sacro che mette l'accento sulla complementa­
rità di tutti i fenomeni Gachimowicz, 1975; Shariati, 1979). Al
cuore della fede islamica risiede il concetto unificante di Towhid,
che secondo Shariati dovrebbe essere inteso come qualcosa che

161
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

supera il significato strettamente religioso di "Dio è uno, non più


di uno" per comprendere una visione del mondo che rappresenta
tutta l'esistenza come essenzialmente monistica. Guidati dal
principio del Towhid, gli esseri umani sono responsabili nei con­
fronti di un unico potere, devono rispondere di fronte a un unico
giudice ed essere guidati da un unico principio: il raggiungimen­
to dell'unità attraverso le complementarità di spirito e corpo, di
sostanza e significato, di naturale e sovrannaturale, in questo
mondo e nell'aldilà.
Lo stesso concetto di un "Io" riflessivo e che osserva, di un sé
consapevole che sta al di fuori del corpo e distante dalla natura,
così tipico delle tradizioni filosofiche occidentali, è un'altra ere­
dità del dualismo cartesiano, nettamente opposto a una visione
buddista della soggettività e delle sue relazioni con il mondo na­
turale. Scrivendo a proposito degli sherpa buddisti del Nepal,
Robert Paul suggerisce che essi non percepiscono la propria inte­
riorità o la propria soggettività come "irreparabilmente tagliata
fuori ed esclusa dal resto della natura, ma [piuttosto come] [ . . . ]
connessa con, e praticamente identica a l'intera essenza sostan­
ziale del cosmo" (Paul, 1976, p. 13 1). Nelle tradizioni buddiste il
mondo naturale (il mondo delle apparenze) è un prodotto della
mente, nel senso che l'intero cosmo è, essenzialmente, "mente" .
Attraverso la meditazione, le menti individuali possono fondersi
con la mente universale. La comprensione non si raggiunge attra­
verso metodi analitici, bensì attraverso una sintesi intuitiva, otte­
nuta in un momento di trascendenza al di là del discorso, del lin­
guaggio, della parola scritta.
Il filosofo buddista Suzuki (Fromm, Suzuki, De Martino,
1960) oppose l'estetica e le attitudini verso la natura della cultura
orientale a quelle della cultura occidentale mettendo a confronto
due poemi, un haiku giapponese del XVII secolo e un poema del
XIX secolo di Alfred Tennyson. n poeta giapponese scriveva:

Se guardo attentamente
vedo il nazuna in fiore
presso la siepe!

Tennyson, invece, scriveva:

162
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

Fiore che spunti dal muro screpolato,


ti strappo dalle fessure; -
ti tengo qui, radici e tutto, nella mano,
piccolo fiore - ma se potessi capire
che cosa sei, radici e tutto, e tutto in tutto,
saprei che cosa è Dio e che cosa è l'uomo_

Suzuki osserva che il poeta giapponese Basho, non strappa il


nazuna, ma si accontenta di ammirarlo da una distanza piena di
rispetto; la sua emozione è "troppo forte, troppo profonda, ed
egli non ha alcun desiderio di concettualizzarla" (ibidem, p. 13 ).
Tennyson, al contrario, è attivo e analitico. Strappa la pianta dalle
radici e la distrugge proprio nell'atto di ammirarla. "Apparente­
mente non si preoccupa del suo destino. La sua curiosità deve es­
sere soddisfatta. Come fanno alcuni scienziati medici, egli vor­
rebbe vivisezionare il fiore" (ibidem). L'immaginario violento di
Tennyson ricorda la descrizione fatta da Bacone dello scienziato
naturale come di uno per il quale "la natura deve essere 'obbliga­
ta a servire' e resa 'schiava', 'torturata"' (Merchant, 1980, p. 222).
I principi del monismo, dell'olismo e dell'equilibrata comple­
mentarità della natura, che può temperare le percezioni di oppo­
sizione e conflitto, si sono ritirati di fronte alla spinta analitica
nella storia recente della cultura occidentale.

PERSONA, SÉ E INDIVIDUO

La relazione fra individuo e società, che ha impegnato gran par­


te della teoria sociale contemporanea, si basa su di una opposizio­
ne percepita come naturale, tra le pretese dell'ordine sociale e mo­
rale e le spinte, gli impulsi, i desideri e i bisogni del soggetto. L'op­
posizione individuo-società, così centrale nell'epistemologia occi­
dentale, è anche una sua prerogativa piuttosto esclusiva. Clifford
Geertz ha sostenuto che la concezione occidentale della persona
come "un mondo motivazionale e cognitivo armonico, unico, [ . . . ]
integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emotività, giudi­
zio e azione [ . . ] è un'idea alquanto peculiare nel contesto delle
.

culture mondiali" (Geertz, 1984, p. 76). Infatti, la moderna conce­


zione del sé individuale ha origini storiche abbastanza recenti, an­
che in Occidente. È solo con la pubblicazione, nel 1690, del Saggio

163
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

sull'intelletto umano di John Locke, che abbiamo una teoria detta­


gliata della persona, che identifica l'Io, o il sé, con uno stato di co­
scienza permanente, unico per l'individuo e stabile nell'arco del­
l'esistenza, fino alla morte (Webel, 1983, p. 399).
Sarebbe comunque difficile immaginare, benché forse non così
dettagliatamente, persone del tutto prive di una qualche percezio­
ne intuitiva del sé indipendente. Pensiamo che sia ragionevole so­
stenere che tutti gli esseri umani siano dotati di una qualche auto­
coscienza della mente e del corpo, di un'immagine interiore del
corpo e di quella che i neurologi hanno identificato come la pro­
priocezione, o sesto senso, il nostro senso di autocoscienza del cor­
po, di integrazione mente-corpo e del fatto di essere nel mondo se­
paratamente e indipendentemente dagli altri esseri umani. Donald
Winnicott ritiene che la percezione intuitiva del sé corporeo sia
collocata "naturalmente" nel corpo, che sia data in maniera pre­
culturale (1970). Mentre questa sembra essere una ipotesi ragione­
vole, è importante distinguere questa consapevolezza universale
del sé corporeo individuale dalla concezione sociale dell'individuo
come "persona" , un insieme di diritti legali e responsabilità morale
(La Fontaine, 1985). La persona morale, come ha parafrasato Mar­
cel Mauss ( 1938), è la nozione unicamente occidentale di individuo
come entità quasi sacra, legale, morale e psicologica, i cui diritti so­
no limitati solo dai diritti di altri individui ugualmente autonomi.
Gli psicologi e gli psicoanalisti moderni (tra cui lo stesso
Winnicott) sono stati inclini a interpretare il processo di indivi­
duazione, definito come il graduale allontanamento dai genitori
e dagli altri membri della famiglia, come un passo necessario nel
processo di maturazione umana (vedi anche Johnson, 1985; De
Vos, Marsella, Hsu, 1985 , pp. 3-5 ) . Questa è piuttosto una no­
zione culturalmente specifica dello sviluppo umano, che si
adatta alle concezioni abbastanza recenti della relazione tra in­
dividuo e società.
In Giappone, benché il concetto di individualismo sia stato di­
battuto con forza dalla fine del secolo scorso, l'eredità confuciana
è ancora oggi evidente, in quanto è la famiglia a essere considera­
ta l'unità naturale, fondamentale, della società e non l'individuo.
Di conseguenza, la maggiore tensione, negli ultimi quattrocento
anni almeno, è stata quella tra gli obblighi della persona verso lo
stato e quelli verso la famiglia.

164
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

Le tradizioni filosofiche dello shintoismo e del buddismo han­


no anche combattuto contro le concezioni giapponesi dell'indivi­
dualismo. L'animismo shintoista favorisce i sentimenti di identifi­
cazione con la natura e molte delle tecniche di contemplazione
buddista incoraggiano il distacco dai desideri terreni. Nemmeno
la tradizione incoraggia lo sviluppo di un sé altamente individua­
lizzato.
TI Giappone è stato più volte descritto come una cultura domi­
nata dal relativismo sociale, in cui la persona viene concepita co­
me agente nel contesto di una relazione sociale, mai semplice­
mente in modo autonomo (Lebra, 197 6; Smith, 1983). La propria
identità cambia a seconda del contesto sociale, in particolare en­
tro la gerarchia delle relazioni sociali, continuamente. L'identità
del bambino si stabilisce attraverso le risposte degli altri; la
conformità e la dipendenza, anche in età adulta, non sono intese
come segni di debolezza, quanto piuttosto come il risultato di
una forza interiore (Reischauer, 1977, p. 152). Ma una paura per­
seguita oggi molti giapponesi: quella di perdersi completamente,
di trovarsi totalmente assorbiti dagli obblighi sociali. Un mecca­
nismo difensivo è la distinzione tra il sé esteriore (tatemae) - la
persona, la maschera, il sé sociale che si offre agli altri - e uno più
privato (honne), il sé nascosto "naturale". Clifford Geertz ha de­
scritto un fenomeno simile tra i giavanesi e i balinesi (1984, pp.
127-128).
Kenneth Read sostiene che i Gahuku-Gama della Nuova Gui­
nea siano completamente privi di un concetto della persona. "L'i­
dentità individuale e sociale sono due facce della stessa moneta"
( 1955, p. 276). Egli afferma che non c'è consapevolezza dell'indi­
viduo indipendentemente dai ruoli sociali strutturati, come anche
nessun concetto di amicizia, cioè quella relazione tra due singoli
individui che non sia definita dalla parentela, dal vicinato o da al­
tre istanze sociali. I Gahuku-Gama sembrano definire il sé, qualo­
ra lo definiscano affatto, nei termini delle parti che costituiscono il
corpo: gli arti, i lineamenti del volto, i capelli, le secrezioni corpo­
ree e gli escrementi. È particolarmente significativo il concetto che
i Gahuku-Gama hanno della pelle sociale, che include sia il rivesti­
mento del corpo sia i tratti sociali e caratteriali di una persona. I ri­
ferimenti alla pelle "buona" o "cattiva" di una persona, indicano il
carattere morale di una persona, il suo temperamento ma anche il

165
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENmA: OGGETIO, METODI, TEORIE

suo umore. I Gahuku-Gama sembrano fare esperienza di sé in


modo più intenso quando sono in contatto con gli altri e attraverso
la loro pelle (vedi anche La Fontane, 1985, pp. 129-130).
Concezioni del sé di questo tipo, cioè sociocentriche, sono state
ampiamente documentate in molte parti del mondo (vedi Shwe­
der, Bourne, 1982; Devisch, 1985; Fortes, 1959; Harris, 1978) e so­
no importanti per la conoscenza etnomedica. Nelle culture e nelle
società in cui manca una concezione altamente individualizzata o
articolata del sé corporeo, non dovrebbe sorprendere il fatto che
la malattia viene spesso spiegata con, o comunque attribuita a, cat­
tive relazioni sociali (quindi alla stregoneria), all'infrazione del co­
dice morale e sociale o alla disarmonia nella famiglia e nella comu­
nità del villaggio. In società di questo tipo, anche la terapia tende a
essere collettivizzata. I Kung del Botswana partecipano a rituali di
guarigione di danza-trance settimanalmente e questi riti sono con­
siderati sia curativi sia preventivi (Katz, 1982). Lorna Marshall ha
descritto la danza come "un articolato atto religioso dei Kung
[che] conduce le persone a una unione tale, che esse diventano
quasi un essere organico unico" (1965, p. 270).
In contrasto con le società in cui il sé corporeo individuale ten­
de a fondersi con il corpo sociale, o a essere assorbito da esso, ci
sono società che concepiscono l'individuo come composto da
una molteplicità di sé. I Bororo (come i Gahuku-Gama) intendo­
no l'individuo solo come riflesso nella relazione con altre perso­
ne. Pertanto, la persona è costituita da molti sé: il sé percepito dai
genitori, dagli altri parenti, dai nemici, e così via. I Cuna del Pa­
nama a loro volta sostengono di possedere otto sé, ognuno dei
quali è associato a una diversa parte del corpo. Un intellettuale al­
lora sarà una persona governata dalla testa, mentre un ladro dall a
mano, un romantico dal cuore ecc.
Infine, l'anima zinacanteco ha tredici parti divisibili. Ogni vol­
ta che una persona "perde" una o più parti e si ammala, viene al­
lestita una cerimonia terapeutica per recuperare le parti mancan­
ti. Alla morte, l'anima abbandona il corpo e ritorna da dove è ve­
nuta - un "bacino" di anime custodito da divinità ancestrali.
Questo bacino di anime è usato per la creazione di nuovi esseri
umani, le cui anime sono fatte di tredici parti derivanti dalla forza
vitale di altri uomini precedenti. La forza spirituale dell'anima e il
sé di una persona sono perciò un composto, una sintesi "presa a

166
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

prestito" da molti altri esseri umani. Non ha senso tra gli Zina­
canteco parlare di un individuo "nuovo di zecca" o totalmente
unico; piuttosto, ogni persona è una frazione dell'intero mondo
sociale zinacanteco. In più, lo zinacanteco sano è chi è in contatto
con le sue parti divisibili (Vogt, 1969, pp. 296-374).
Mentre nell'Occidente industrializzato sono possibili solo spie­
gazioni patologizzate degli stati dissociativi, in cui si ha esperienza
di più di un solo sé, in molte culture non occidentali gli individui
possono fare esperienza di vari sé, attraverso la pratica della pos­
sessione spiritica e altri stati alterati di coscienza. Queste esperien­
ze ritualizzate e controllate di possessione sono attivamente ricer­
cate e apprezzate in tutto il mondo come preziose forme di espe­
rienza religiosa e pratiche terapeutiche. Fino a oggi, comunque, gli
antropologi psicologici sono stati inclini a "patologizzare" questi
stati alterati, nei termini di manifestazioni di personalità instabili o
psicotiche. La concezione occidentale di un unico individuo corri­
spondente a un unico sé non riconosce in effetti quelle etnopsico­
logie che considerano normativa una molteplicità di sé.

IMMAGINARIO DEL CORPO

Strettamente connessa alle concezioni del sé (se non centrale


in esse) è quella che gli psichiatri hanno definito immagine del
corpo (Schilder, 1950; Horowitz, 1966). L'immagine del corpo si
riferisce alle rappresentazioni collettive e idiosincratiche che un
individuo elabora sul corpo nelle sue relazioni con l'ambiente, in­
eluse le percezioni interiori ed esteriori, i ricordi, gli affetti, le co­
gnizioni e le azioni. La letteratura esistente sull'immaginario del
corpo (benché in gran parte psichiatrica) è stata molto poco uti­
lizzata dagli antropologi medici, che avrebbero invece potuto
trarre molto vantaggio dall'attenzione per i concetti di confine
del corpo, di distorsione nella percezione del corpo, e così via.
Alcuni dei primi nonché migliori lavori sull'immagine del cor­
po erano contenuti negli studi clinici su individui che soffrivano
di percezioni estremamente distorte del proprio corpo causate da
disturbi di natura neurologica, organica o psichiatrica (Head,
1920; Schilder, 1950; Luria, 1972). L'incapacità da parte di alcuni
cosiddetti schizofrenici di distinguere se stessi dagli altri o da og-

167
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

getti inanimati è stata analizzata da prospettive psicoanalitiche e


fenomenologiche (Minkowski, 1958; Binswanger, 1 958; Laing,
1965; Basaglia, 1964). Oliver Sacks ( 1970, 1985) ha scritto anche
a proposito di rari disturbi neurologici che confondono l'imma­
gine del corpo che un individuo ha di sé, producendo carenze ed
eccessi, come pure trasporti metafisici nelle esperienze mente­
corpo. n messaggio che emerge dalle narrazioni cliniche di Sacks
è che l'umanità non dipende dalla razionalità o dall'intelligenza ­
cioè da una mente intatta. C'è, suggerisce Sacks, qualcosa di inef­
fabile, una forza dell'anima o un sé della mente che rende umani
anche in preda alle crisi più devastanti del cervello, del sistema
nervoso e del senso dell'integrità fisica o mentale.
Sebbene le distorsioni profonde nell'immaginario del corpo
siano rare, abbastanza comuni invece sono le ansie nevrotiche sul
corpo, i suoi orifizi, i suoi confini e i suoi fluidi. S. Fisher e S. Cle­
veland (1958) hanno dimostrato la relazione tra i sintomi che i
pazienti "scelgono" e il loro immaginario corporeo. La pelle, ad
esempio, può essere percepita come un nascondiglio protettivo e
uno scudo di difesa per gli organi interni più molli e vulnerabili.
Nel compito di proteggere l'interno, comunque, l'esterno può ri­
manere colpito e lo manifesta in eruzioni e sfoghi cutanei. Al con­
trario, la pelle può essere anche percepita come uno schermo
permeabile, che lascia indifesi gli organi interni, soggetti ad attac­
chi di ulcera e coliti.
Specifici organi, funzioni e fluidi corporei possono anche ave­
re un significato particolare per un gruppo di persone. n fegato,
ad esempio, assorbe in sé una grossa dose di colpe per una serie
di disturbi tra i francesi, gli spagnoli, i portoghesi, i brasiliani, ma
per quanto ne sappiamo, solo la popolazione degli indiani del
sud-ovest soffre di "fegato irato" (Leeman, 1986). Gli inglesi e i
tedeschi, in confronto, sono molto più ossessionati dalle condi­
zioni e dalla salute del loro intestino. Allan Dundes considera la
fissazione dei tedeschi per l'intestino, la pulizia e l' analità, come
un insieme fondamentale di elementi impliciti nel carattere na­
zionale tedesco (1984), mentreJonathon Miller scrive che "quan­
do un inglese si lamenta della sua costipazione, non si è mai certi
se stia parlando della sua regolarità, della sua stanchezza o della
sua depressione" (1978, p. 45).
n sangue è un simbolo praticamente universale della' vita urna-

168
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

na (Loudell Snow, 1974) e alcune persone, in ogni tempo, hanno


considerato la qualità del sangue, la pulsazione, la circolazione,
come segni diagnostici fondamentali di salute o malattia. n medi­
co tradizionale cinese, per esempio, effettuava spesso le sue dia­
gnosi sentendo entrambi i polsi del paziente e confrontandoli col
proprio, un rituale elaborato che poteva durare diverse ore. Lou­
dell Snow ( 197 4) ha descritto la ricca costellazione di proprietà
etnomediche connesse alla qualità del sangue presso gli afroame­
ricani che soffrono di sangue "alto" o "basso" , veloce o lento,
spesso o sottile, amaro o dolce. Uli Linke (1986) ha analizzato il
concetto di sangue come metafora predominante nella cultura
europea specialmente a proposito dei suoi usi nelle ideologie po­
litiche, come durante il nazismo. In modo analogo, le diverse stig­
matizzazioni subite dai pazienti nordamericani malati di AIDS
comprendono la preoccupazione per il "sangue cattivo" degli
omosessuali ammalati (Lancaster, 1983 ).
Le madri ispaniche, dal Messico del sud al New Mexico del
nord, concentrano alcune delle loro ansie riguardo agli organi del
corpo sulla fontanella dei bambini. Se è aperta, essa espone il
neonato alle influenze diaboliche nell'aria notturna, agli sguardi
invidiosi e ai desideri dei vicini. Finché non si richiude, c'è sem­
pre la minaccia della mollera caida, "la fontanella caduta", un di­
sturbo pediatrico che mette a rischio la vita (Scheper-Hughes,
Stuart, 1983 ).
In breve, le percezioni etnoanatomiche, compresa l'immagine
del corpo, offrono una ricca fonte di dati sui significati sociali e
culturali dell'essere umano e sulle varie minacce alla salute, al be­
nessere e all'integrazione sociale di cui si crede gli uomini faccia­
no esperienza.

n. CORPO SOCIALE

ll. CORPO COME SIMBOLO

Gli antropologi simbolici e strutturalisti hanno dimostrato fi­


no a che punto gli uomini trovano il corpo "buono da pensare".
L'organismo umano e i suoi prodotti naturali, il sangue, il latte, le
lacrime, il seme, gli escrementi, possono essere impiegati come

169
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

mappa cognitiva per rappresentare altre relazioni naturali, so­


prannaturali, sociali e anche spaziali. n corpo, come ha osservato
Mary Douglas, è un simbolo naturale che fornisce alcune delle
nostre risorse metaforiche più ricche (1970, p. 99). Le costruzio­
ni culturali del corpo e riguardo a esso sono utili nel confermare
particolari visioni della società e dei rapporti sociali.
Rodney Needham, per esempio, ha fatto notare alcune associa­
zioni che spesso intercorrono tra la sinistra e ciò che è inferiore,
scuro, sporco e femminile, e la destra e ciò che è superiore, santo,
luminoso, dominante nonché maschile. Egli ha così richiamato
l'attenzione sull'uso del corpo come mezzo per giustificare partico­
lari valori e assetti sociali, come il dominio "naturale" del maschile
sul femminile (1973 , p. 109). La sua tesi è che queste comuni asso­
ciazioni di tipo simbolico non sono poi così naturali come sono in­
vece utili, almeno a quelli che si trovano in alto e alla destra.
Le teorie etnobiologiche della riproduzione riflettono di solito
le caratteristiche del sistema di parentela a essa associato, come
gli antropologi hanno a lungo osservato. In società a discendenza
unilineare, è frequente incontrare teorie popolari che enfatizzano
il contributo riproduttivo rispettivamente delle donne in quelle
matrilineari e degli uomini in quelle patrilineari. Gli Ashanti, so­
cietà matrilineare, distinguono tra carne e sangue, ereditati per
via femminile, e spirito, ereditato per via maschij,e . I brasiliani
Shavante, tra i quali la patrilinearità forma il nucleo delle fazioni
politiche, credono che il padre modelli il figlio attraverso molti
atti di coito, durante i quali la madre è solamente passiva e ricetti­
va. n feto è "completamente fatto", e il concepimento è comple­
to, solo al quinto mese di gravidanza. Come spiegò uno Shavante
a David Maybury-Lewis, contando i mesi con le dita: "Copulare.
Copulare, copulare, copulare, copulare molto. Incinta. Copula­
re, copulare, copulare. Nato" (1967, p. 63 ).
Analogamente, la teoria occidentale dell'uguale contributo ma­
schile e femminile al concepimento, che va dalla biologia riprodut­
tiva di Galeno fino a quella di Theodore Dobzhansky (1970), pro­
babilmente deve di più alla compatibilità della teoria con il sistema
di parentela europeo, a stirpe estesa e bilaterale, che all'evidenza
scientifica, che comunque fino a tempi piuttosto recenti mancava.
n principio di un padre, una madre, un atto di copula che porta al­
la gravidanza, era già parte integrante della tradizione occidentale

170
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

da più di mille anni prima della scoperta degli spermatozoi (nel


1677) e degli ovuli femminili (nel 1828), e prima che il processo ef­
fettivo della fecondazione umana venisse totalmente compreso e
descritto (nel 1875) (vedi Barnes, 1973 , p. 66). Per secoli la teoria
dell'uguale contributo da parte del maschio e della femmina al
concepimento fu supportata dalla erronea credenza che le donne
disponessero degli stessi organi e assolvessero alle stesse funzioni
riproduttive dei maschi, a parte il fatto che, come si espresse un ve­
scovo del sesto secolo, "essi sono all'interno del corpo, non all'e­
sterno" (Laquer, 1986, p. 3). In larga misura, parlare del corpo e
della sessualità significa parlare della natura della società.
Particolarmente importanti, per gli antropologi medici, sono le
associazioni che si incontrano spesso tra le concezioni del corpo
sano e della società sana, come pure del corpo malato e della so­
cietà malfunzionante. John Janzen ( 1981) ha notato come in ogni
società regni una concezione utopica della salute, che si può appli­
care metaforicamente dalla società al corpo e viceversa. Una delle
ideologie più durature della salute dell'individuo e della società è
quella di un equilibrio e di una armonia vitali, come si trovano ne­
gli antichi sistemi medici in Cina, Grecia, India e Persia, nelle cul­
ture contemporanee dei nativi americani del Sud-ovest (Shutler,
1979) e anche nel movimento olistico della salute del xx secolo
(Grossinger, 1980). Al contrario, la malattia e la morte possono es­
sere attribuite a tensioni, contraddizioni, ostilità sociali, come si
manifesta nell'immagine che i contadini messicani hanno del bene
limitato (Foster, 1965), o nella sindrome legata allo squilibrio sim­
bolico caldo-freddo nella medicina popolare messicana (Currier,
1969), o in idiomi popolari come la stregoneria, il malocchio, lo
"stress" (Scheper-Hughes, Lock, 1986; Young, 1980). Ciascuna di
queste credenze esemplifica i legami tra la salute o la malattia del
corpo individuale e quelle del corpo sociale.

IL MONDO INCORPORATO

Uno degli usi simbolici più comuni e più ricchi di dettagli del
corpo umano, nel mondo non occidentale, è la personificazione
degli spazi in cui risiedono le persone. I Qollahuaya vivono ai
piedi del monte Kaata in Bolivia, e sono noti per essere potenti

171
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

guaritori, i "signori della borsa della medicina" . Essi "interpreta­


no i loro corpi nei termini della montagna, e considerano la mon­
tagna nei termini della propria anatomia" (Bastien, 1985, p. 598).
n corpo umano e la montagna sono costituiti di parti interrelate:
la testa, il torace e il cuore, lo stomaco e le viscere, il petto e i ca­
pezzoli. La montagna, come il corpo, deve essere nutrita di san­
gue e grasso per essere forte e sana. La malattia individuale viene
interpretata come una disintegrazione del corpo, paragonata alla
frana di una montagna o a un terremoto. La malattia è causata da
"spaccature" tra le persone e la terra, in particolare tra i residenti
di zone differenti della montagna: la testa (la cima del monte), il
cuore (il villaggio centrale), o i piedi (la base della montagna). I
guaritori curano radunando insieme i vari residenti per nutrire la
montagna e ripristinarne l'integrità e il benessere compromessi.
Bastien conclude che i concetti del corpo dei Qollahuaya sono
essenzialmente olistici, non dualistici. Egli suggerisce che "il tut­
to è di più della somma delle parti [ . . . ] L'integrità (la salute) del
corpo è un processo in cui forze centripete e centrifughe collabo­
rano e distribuiscono i fluidi che procurano emozioni, pensieri,
sostanze nutritive e lubrificanti per le parti del corpo" (ibidem).
Probabilmente l'uso più elaborato del corpo nelle cosmologie
native viene dai Dogon del Sudan occidentale, come spiegato da
Ogotemmeli a Marcel Griaule (1965) nella sua de.�crizione della
pianta della comunità Dogon. n villaggio si deve estendere da nord
a sud come il corpo di un uomo disteso sulla schiena. La testa è la
casa del consiglio, edificata nella piazza centrale. A est e a ovest ci
sono le_fapanne per le donne in fase di ciclo mestruale, "rotonde
come degli uteri: sono le mani [del villaggio] " (ibidem, p. 1 18). La
metafora del corpo dà forma anche all'interno della casa Dogon.

Il vestibolo, stanza del padrone, rappresenta il maschio nella


coppia. n suo sesso è la porta esterna.
La grande stanza centrale è il regno e il simbolo della donna; i ri­
postigli laterali sono le sue braccia, la porta di comunicazione è il
suo sesso. Stanza e ripostigli esibiscono la donna, sdraiata sul dorso,
con le braccia aperte, pronta per l'unione". (Ibidem, p. 1 14)

Altri esempi celebri dell'impiego simbolico del corpo umano


nella classificazione cosmologica comprendono gli Apache del­
l'Ovest (Basso, 1969) , gli Atoni dell'Indonesia (Cunningham,

172
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

1973), gli indiani Desana, al confine tra Colombia e Brasile (Rei­


chel-Dolmatoff, 197 1 ), i Pira-Pirana dell'Amazzonia (Hugh-Jo­
nes, 1979), i Zinacantecos del Chiapas (Vogt, 1970), e i Fali del
Camerun settentrionale (Zahan, 1979).
Peter Manning e Horatio Fabrega (1973) hanno riassunto al­
cune delle principali differenze tra sistemi etnomedici non occi­
dentali e biomedicina moderna. In quest'ultima il corpo e il sé
vengono intesi come entità distinte e separabili: la malattia risie­
de o nel corpo o nella mente. Le relazioni sociali sono viste come
divise in parti, segmentate e situazionali - in generale come di­
scontinue rispetto alla salute o alla malattia. In contrasto, molti
sistemi etnomedici non distinguono logicamente corpo, mente e
sé e perciò la malattia non può essere situata nella mente o nel
corpo soltanto. Le relazioni sociali sono anche intese come un
contributo chiave alla salute e alla malattia individuali. In sintesi,
il corpo è concepito come un'entità unitaria e integrata del sé e
delle relazioni sociali. Esso dipende da sensazioni, desideri e
azioni degli altri, inclusi spiriti e antenati morti, e rispetto a ciò è
vulnerabile. n corpo non è inteso come una macchina complessa
ma piuttosto come un microcosmo dell'universo.
Come fanno notare Manning e Fabrega, ciò che è forse più si­
gnificativo a proposito dell'estensione simbolica e metaforica del
corpo nei regni naturale, sociale e soprannaturale, è la dimostra­
zione della notevole autonomia umana, che nel mondo moderno
e industrializzato tutto sembra fuorché scomparsa. L'utilizzo fi­
ducioso del corpo nel parlare del mondo esterno trasmette il
messaggio che gli uomini sono in posizione di controllo. È discu­
tibile se i Qollahuaya o i Desana della Colombia o i Dogon abbia­
no esperienze simili ai livelli di alienazione del corpo, così comu­
ni in Occidente, come dimostrano le varie schizofrenie, anores­
sie, bulimie o dipendenze, ossessioni e feticismi della vita nel
mondo post-industriale.
La dicotomia mente-corpo e la caratteristica alienazione del
corpo, tipiche della società contemporanea, si possono collegare
non soltanto al pensiero riduzionista post-cartesiano, ma anche
alle modalità di produzione capitalistica, in cui i lavori manuali o
mentali vengono suddivisi e ordinati gerarchicamente. n lavoro
umano dunque, diviso e frammentato, è, secondo la definizione
marxista, "alienato" . Thompson parla della sovversione del tem-

173
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

po naturale, corporeo, trasformato in tempo a regime di orologio


e di disciplina del lavoro, reso necessario dall'industrializzazione.
Egli accosta l'operaio, il cui lavoro viene estratto in segmenti pre­
cisi e registrati, al pastore Nuer, per il quale "l'orologio diurno è il
bestiame" (Evans-Pritchard, 1940, p. 15 1), o agli abitanti dell'i­
sola di Aran, il cui lavoro viene sbrigato nell'arco di tempo prima
del crepuscolo (Thompson, 1967, p. 59).
In modo analogo, Pierre Bourdieu descrive le "improvvisazio­
ni regolate" dei contadini algerini, i cui movimenti corrispondo­
no approssimativamente al ritmo dei giorni e delle stagioni. "Al
ritorno di Azal (la stagione secca) ", scrive, "ogni cosa, senza ecce­
zioni, nelle attività di uomini, donne, e bambini è bruscamente
modificata dall'adozione di un ritmo nuovo" (Bourdieu, 1977, p.
159).* Tutto, dal lavoro degli uomini alle attività domestiche del­
le donne, fino ai periodi di riposo, alle cerimonie, alle preghiere e
alle riunioni pubbliche è scandito in termini di transizione natu­
rale dalla stagione umida a quella secca. Svolgere il proprio dove­
re, nel contesto del villaggio, significa "rispettare i ritmi, mante­
nere il passo, non uscire dalle righe" ( 1977, p. 161) con gli altri
abitanti del villaggio. Benché, come suggerisce Bourdieu, questi
contadini soffrano, forse, di una specie di falsa coscienza (o "cat­
tiva fede"), che permette loro di rappresentarsi in modo distorto
il loro proprio mondo come l'unico modo di pensare, di compor­
tarsi e di percepire come "naturali" quelle che in realtà sono re­
gole culturali autoimposte, non c'è dubbio che questi abitanti del
villaggio algerino vivano e si sentano in un mondo sociale e natu­
rale che ha senz'altro una forma umana. Potremmo dire che il lo­
ro mondo è "incorporato" .
Al contrario, il mondo in cui la maggioranza di noi vive, non
ha una forma umana confortevole e familiare. Almeno una delle
cause dell'alienazione del corpo nelle società industriali avanzate
è l'equazione simbolica di uomini e macchine, che ha origine nei
nostri modi e rapporti industriali di produzione e nel feticismo
della merce della vita moderna, in cui persino il corpo umano è
stato trasformato in una merce. Ancora una volta, Manning e Fa­
brega colgono tutto ciò molto bene: "Nelle società primitive il

* n testo citato si trova nell'edizione inglese dd 1977. che costituisce una ri­
duzione rispetto all'originale dd 1972. [NdT]

174
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

corpo umano è il paradigma per la derivazione delle parti e dei si­


gnificati di altri oggetti significanti; nella società moderna l'uomo
ha adottato il linguaggio della macchina per descrivere il proprio
corpo. Questo rovesciamento, in cui l'uomo vede se stesso nei
termini del mondo esterno, come un riflesso di se stesso, è la for­
mula tipica che esprime la situazione presente dell'uomo moder­
no" (1973 , p. 283).
Ci affidiamo alla metafora corpo = macchina ogni volta che de­
scriviamo i nostri stati somatici o psicologici in termini meccanici­
stici, dicendo che siamo "logorati" o "carichi" , oppure ancora
quando diciamo di essere "scarichi" e di dovere "ricaricare le bat­
terie". In anni recenti le metafore si sono spostate da tonalità mec­
caniche a sfumature elettroniche (siamo "spenti" , "accesi", "ci ri­
carichiamo" con qualcosa), mentre l'era del computer ci ha fornito
una mole di espressioni nuove, compresa la lamentela fin troppo
nota: "Non ho più energie" . La nostra ipotesi qui è che la struttura
dei sentimenti individuali e collettivi, fino al "senso" del proprio
corpo e della naturalezza della propria posizione e del proprio ruo­
lo nell'ordine tecnico, sia un construtto sociale. Thomas Belmonte
( 1979, p. 156) ha descritto i ritmi corporei di un operaio:

n lavoro degli operai è un duro addestramento militare, una mi­


riade di braccia saldate a ruote e a barre metalliche. Marx, Veblen e
Charlie Chaplin hanno abilmente sottolineato che, nella catena di
montaggio, l'uomo non crea né usa strumenti, ma è tutt'uno con lo
strumento stesso: l'infinitesimo ingranaggio della grande macchina
industriale.

Le macchine sono certamente cambiate dai tempi delle prime


catene di montaggio. Oggi non si pensa alla brutalità di enormi
ingranaggi e ruote che girano, ma piuttosto al silenzio asettico e
all'inquinamento igienizzato delle industrie di microelettronica
in cui si fondono le agili dita, gli occhi stanchi e i corpi docili di
una nuova forza lavoro prevalentemente femminile e asiatica.
Quello che sostanzialmente non è cambiato nelle forme del capi­
talismo industriale del xx secolo è la relazione tra i corpi umani e
le macchine. Le popolazioni non occidentali e non industrializza­
te sono "richiamate a pensare il mondo coi loro corpi" (O'Neill,
1985, p. 15 1). Come Adamo ed Eva nell'Eden, essi esercitano la

175
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

propria autonomia, il proprio potere, nominando i fenomeni e le


creature del mondo a propria immagine e somiglianza. Al contra­
rio, noi viviamo in un mondo in cui la forma umana delle cose (e
persino la forma umana degli esseri umani, tra cuori e protesi ar­
tificiali) è in ritirata. Mentre le cosmologie delle popolazioni non
industrializzate si rivolgono a un costante scambio di metafore
dal corpo alla natura e di nuovo al corpo, le nostra metafore par­
lano di equazioni simboliche macchina-corpo. O'Neill ipotizza
che siamo stati "imbarcati sulla macchina" della biotecnologia e
alcuni di noi sono stati trasformati a seguito di un'operazione chi­
rurgica radicale e dall'ingegneria genetica in "pezzi di ricambio"
di esseri umani protesici ( 1 985, pp. 153 - 154). Le vite vengono
salvate, o perlomeno il termine della morte viene spostato in
avanti, eppure, in tutto questo processo, è possibile che la nostra
umanità sia stata compromessa.

n. CORPO POUTICO

Le relazioni tra corpi sociali e individuali implicano qualcosa di


più rispetto alle metafore e alle rappresentazioni collettive del natu­
rale e del culturale. Hanno infatti a che vedere anche con il potere e
con il controllo. Mary Douglas (1966) sostiene, per esempio, che
quando una comunità si sente minacciata, reagisce aumentando i
controlli sociali che regolano i confini del gruppo. I punti ritenuti
nevralgici per la possibilità di penetrazione da parte di minacce
esterne e di contaminazione dell'interno diventano l'obiettivo della
regolamentazione e della sorveglianza. I tre corpi - quello indivi­
duale, quello sociale e quello politico - potrebbero venire chiusi,
protetti da un'attenta sorveglianza in entrata e in uscita. Mary Dou­
glas si riferisce alla paura delle streghe, compresi i processi di Salem,
alle società africane contemporanee e anche alle più recenti cacce
alle streghe negli Stati Uniti. In ciascuno di questi casi, il corpo poli­
tico viene paragonato a quello umano, nel quale ciò che sta "den­
tro" è buono, e ciò che sta "fuori" è cattivo. Sotto la minaccia del­
l'attacco, il corpo politico viene considerato vulnerabile, portando
così a epurazioni di traditori e di devianti sociali, mentre l'igiene in­
dividuale potrebbe incentrarsi sulla conservazione della purezza ri­
tuale o sulla paura di perdere il sangue, il seme, le lacrime, il latte.

176
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

Le minacce all'esistenza continuativa del gruppo sociale pos­


sono essere reali o immaginarie. Anche quando le minacce sono
reali, comunque, i veri aggressori possono rimanere sconosciuti,
e la stregoneria o la magia possono diventare metafora dell'idio­
ma culturale del dolore. Shirley Lindenbaum (1979) ha mostra­
to, per esempio, come un'epidemia di kuru tra i Fore della Nuo­
va Guinea abbia portato ad accuse e contraccuse di stregoneria
e a tentativi di mondare i corpi individuali e il corpo collettivo
da impurità e agenti contaminanti. Leith Mullings suggerisce
come la stregoneria e la magia fossero ampiamente utilizzate
nell'Africa occidentale come "metafore di relazioni sociali"
(1984, p. 164). In un centro del Ghana, nel contesto di un'eco­
nomia in corso di rapida industrializzazione, le accuse di strego­
neria possono essere dei modi per esprimere le ansie per le con­
traddizioni sociali introdotte dal capitalismo. Ecco allora che le
accuse vengono indirizzate proprio verso quegli individui e
quelle famiglie che, alla ricerca del successo economico, appari­
vano più competitive, avide e individualiste nelle loro relazioni
sociali. Leith Mullings sostiene che le accuse di stregoneria rap­
presentano un modo piuttosto rudimentale per esprimere la ge­
nerica resistenza all'erosione dei valori sociali tradizionali, basa­
ti sulla reciprocità, la condivisione, la lealtà familiare e comuni­
taria. L'autrice sostiene che, nel contesto di una crescente merci­
ficazione della vita umana, le accuse di stregoneria si riferiscono
alle distorsioni sociali e alla malattia interna al corpo politico,
generate dal capitalismo.
Quando il senso dell'ordine sociale viene minacciato, i confini
tra corpo individuale e corpo politico si confondono e si diffonde
un rinnovato interesse per le questioni della purezza rituale e ses­
suale, interesse che spesso si esprime nella sorveglianza rispetto ai
confini sociali e corporei.
Per esempio, a Ballybran, nell'Irlanda rurale, gli abitanti del
villaggio venivano sottoposti a sorveglianza particolare sia in me­
rito a ciò che introducevano nel corpo (rapporti sessuali e alimen­
tazione) sia quando venivano ospitati (ma anche quando "presi in
giro", adulati, lusingati) da estranei, specialmente quelli che go­
devano di un vantaggio sociale su di loro. L'interesse per la pene­
trazione e la violazione dei punti di uscita e di entrata e dei confini
del corpo andavano fino ai simboli materiali del corpo - la casa,

177
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

con le sue porte, i cancelli, i recinti, i confini di pietra, attorno ai


quali si svolgevano rituali di protezione e preghiere al fine di crea­
re distanza sociale per rafforzare un senso di controllo e sicurezza
personale (Scheper-Hughes, 1979).
Oltre a esercitare il controllo sui corpi nei periodi di crisi, le
società replicano e socializzano sistematicamente il tipo di corpi
di cui necessitano. La decorazione del corpo è un mezzo attraver­
so cui le identità sociali si costruiscono e si esprimono (Strathern,
Strathern, 197 1 ) . Terrence Turner ha sviluppato il concetto di
"pelle sociale" per esprimere l'impronta delle categorie sociali
sul body-se!/ ( 1980). Per Turner, la superficie del corpo rappre­
senta un "tipo di frontiera sociale comune che diventa lo scenario
simbolico sul quale si rappresenta il dramma della socializzazio­
ne" (1980, p. 1 12). L'abbigliamento e altre forme di ornamento
corporeo diventano il linguaggio attraverso il quale si esprime l'i­
dentità culturale.
Nella nostra cultura, sempre più "salutista" e consapevole del
corpo, il corpo politicamente corretto è, per entrambi i sessi,
quello magro, forte, androgino, fisicamente in forma, attraverso
cui si rendono leggibili e manifesti quei valori culturali fonda­
mentali di autonomia, solidità, competitività, giovinezza e auto­
controllo (Pollitt, 1982). Negli Stati Uniti, la salute è considerata
sempre più come una condizione da conquistare,. piuttosto che
come uno stato di fatto, e ci si aspetta da ogni inditiduo che egli
"si impegni" per diventare forte, in forma, sano. Inversamente,
una salute precaria non è più percepita come un fatto accidenta­
le, un mero scherzo della natura, ma è imputata all'incapacità
dell'individuo di vivere in modo corretto, di nutrirsi bene, di te­
nersi in esercizio e così via. Potremmo chiederci, allora, che cosa
la nostra società voglia da questo tipo di corpo. Lloyd DeMause
( 1984) ha teorizzato che la mania del fitness e della forza fisica sa­
rebbe il riflesso di una preparazione internazionale alla guerra.
L'irrobustirsi e indurirsi della fibra nazionale verrebbe a corri­
spondere all'irrobustirsi dei corpi individuali. Nell'attitudine e
nell'ideologia che presiedono all'attività del fitness e dell'autotu­
tela, si esprime un'etica affine al militarismo come pure al darwi­
nismo sociale: coloro che sono agili e in forma vincono, quelli
grassi e fiacchi perdono e si emarginano così dalla razza umana
(Scheper-Hughes, Stein, 1987). Robert Crawford (1980, 1984),

178
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

invece, ha ipotizzato che il movimento del fitness possa rispec­


chiare una difesa patetica e individualizzata (e anche del tutto
inadeguata) contro la minaccia dell'olocausto nucleare.
Più che forte e in forma, il corpo politicamente (ed economi­
camente) corretto può racchiudere delle distorsioni grottesche
dell'anatomia umana, e ne sono un esempio, in tempi e luoghi
diversi, i piedi fasciati delle donne cinesi (Daly, 1978), o il mo­
dello estetico del girovita di quaranta centimetri delle signore
del Sud prima della guerra di secessione (Kunzle, 1981), o il pal­
lore tubercolotico dei romantici del XIX secolo (Sontag, 1977) .
Crawford (1984) ha interpretato i disturbi alimentari e le distor­
sioni dell'immagine corporea che si esprimono nella pratica del
jogging ossessivo, nell'anoressia e nella bulimia, come una media­
zione simbolica delle pretese contraddittorie della società ameri­
cana post-industriale. L'ingiunzione, doppiamente vincolante, di
essere lavoratori autocontrollati, in forma e produttivi, e allo stes­
so tempo consumatori autoindulgenti ed edonisti, è distruttiva,
in particolare per l'immagine che la donna americana ha di sé.
Mentre da una parte ci si aspetta che sia una amante bramosa e
sensuale, dall'altra deve stare attenta a restare magra, piacevole e
autodisciplinata. Dal momento, però, che non si può essere allo
stesso tempo edonisti e autocontrollati, si può finire con l'alter­
nare fasi di ingordigia alimentare e alcolismo a fasi di eccessivo
esercizio fisico e di induzione del vomito, o ci si sottopone a pur­
ghe ricorrenti. Da questa ciclica risoluzione dell'ingiunzione a
consumare e a conservare, è nata, secondo Crawford, l'attuale
epidemia di disturbi alimentari (specialmente di bulimia) tra le
giovani donne, alcune delle quali, in questa alternanza di regimi
alimentari opposti, si possono procurare anche la morte.
Le culture implicano discipline che forniscono codici e schemi
sociali per l'addomesticamento del corpo individuale in confor­
mità ai bisogni dell'ordine sociale e politico. Certamente l'uso
della tortura fisica negli stati moderni offre l'esemplificazione più
efficace della subordinazione del corpo individuale al corpo poli­
tico (Foucault, 1975). La storia del colonialismo annovera alcuni
dei casi più brutali degli impieghi politici della tortura e della
"cultura del terrore" nell'interesse dell'egemonia economica
(Taussig, 1984, 1987; Peters, 1985). Elaine Scarry ipotizza che,
oggi, i regimi instabili ricorrano sempre più frequentemente alla

179
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

tortura nel tentativo di affermare la "realtà incontestabile" del lo­


ro controllo sulle moltitudini (1985, p. 27).
li corpo politico, naturalmente, può esercitare il suo controllo
sui corpi individuali attraverso modi meno drammatici. Le analisi
effettuate da Foucault ( 1961 , 1963 , 1975, 1980) sul ruolo della
medicina, della giustizia, della psichiatria e delle varie scienze so­
ciali nel produrre nuove forme di conoscenza del potere sui corpi,
sono a questo proposito esemplari. Infatti la proliferazione, in me­
dicina e in psichiatria, di categorie patologiche va a sfociare in de­
finizioni sempre più ristrette dell'ambito della "normalità", crean­
do una maggioranza malata e deviante, problema che gli antropo­
logi medici e psichiatrici hanno tardato a investigare. I mutamenti
radicali verificatisi nell'organizzazione della vita sociale e pubbli­
ca nelle società industriali avanzate, inclusa la scomparsa di idiomi
culturali tradizionali per l'espressione del disagio individuale e
collettivo (come la stregoneria, la magia, i riti di inversione e di
travestimento), hanno permesso alla medicina e alla psichiatria di
assumere un ruolo egemonico nel dare forma e risposta al dolore
umano. Al di là delle forme incontrollate dell'indiscriminata vio­
lenza di strada e delle altre modalità di attacco e scontro diretto, la
somatizzazione della malattia è divenuta una metafora dominante
per esprimere il disagio individuale e la protesta sociale.
Sentimenti negativi e ostili possono essere rimodellati e trasfor­
mati dai medici e dagli psichiatri in sintomi di malattie nuove, co­
me per esempio la sindrome premestruale, la depressione o il di­
sturbo da deficit di attenzione (Martin, 1987; Lock, 1986a; Lock,
Dunk, 1987; Rubinstein, Brown, 1 984). In questo modo, senti­
menti sociali negativi, come per esempio l'ira femminile o le fobie
scolastiche, possono essere riformulati in termini di patologie e
"sintomi" individuali, anziché come segni significativi a livello so­
ciale (Lock, 1988a; 1988b). Questo incanalarsi di disturbi diffusi e
tuttavia reali nell'idioma della malattia, ha portato al problema
della medicalizzazione e della iper-produzione di malattie nelle
contemporanee società industriali avanzate. In questo processo è
di cardinale importanza il ruolo dei medici, degli assistenti sociali,
degli psichiatri e dei criminologi, in quanto agenti del consenso
sociale. Come ha suggerito Kim Hopper ( 1982), le professioni sa­
nitarie tendono a "non vedere la segreta indignazione del malato" .
Lo sguardo medico, dunque, è uno sguardo che controlla e attra-

180
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

verso cui le forme attive (benché clandestine) di protesta vengono


trasformate in atti passivi di "cedimento" .
Mentre la medicalizzazione dell'esistenza ( e le sue funzioni di
controllo politico e sociale) viene considerata dagli scienziati so­
ciali critici nei confronti della medicina (Freidson, 1972 ; Zola,
1972; Roth, 1972; lllich, 1976; de Vries, 1982) come una caratte­
ristica quasi strutturale delle società industrializzate, pochi antro­
pologi medici hanno investigato, finora, gli effetti immediati della
medicalizzazione in quelle aree del mondo dove il fenomeno si
verifica per la prima volta. Nel passo che segue, riportato da
Bourdieu (1977, p. 166), un'anziana donna cabila spiega cosa vo­
leva dire essere malati prima e dopo il processo di medicalizza­
zione che ha investito la vita dei contadini algerini:

Nei tempi passati, il popolo non sapeva cosa fosse la malattia.


Andavano a letto, e morivan('). Solo oggi stiamo imparando parole
come fegato, polmoni [ . . ] intestino, stomaco [ . . . ] e non so cos'al­
.

tro! Le persone prima sapevano solo cos'era aver male alla pancia;
morivano tutti di questo, se non era per la febbre [ . . ] . Ora sono tut­
.

ti malati, hanno tutti qualcosa [ . . . ] . Chi sta male? Chi sta bene? Tut­
ti si lamentano, ma nessuno si mette a letto: vanno tutti dal dottore.
Sanno tutti cos'è che non va.

Una antropologia delle relazioni che intercorrono tra il corpo


individuale e il corpo politico conduce inevitabilmente a conside­
rare la regolamentazione e il controllo non soltanto degli indivi­
dui, ma anche delle popolazioni e, quindi, della sessualità, del ge­
nere, della riproduzione - ciò che Foucault ( 1 976) chiama biopo­
tere. Prima della pubblicazione del libro di Malthus Saggio sul
principio di popolazione nel 1798, esisteva una tradizione lunga
duemila anni di interpretazione della salute, della forza, del vigo­
re riproduttivo dei corpi individuali come segni della salute e del
benessere dello stato (Gallagher, 1 986, p. 83 ). In accordo con
Malthus, comunque, l'equazione del corpo sano col corpo politi­
co sano venne riformulata; la fertilità degli individui, affrancatasi
dalle sue catene, divenne segno di un organismo sociale indeboli­
to. n potere dello stato ora dipendeva dall'abilità nel controllare
la potenza fisica e la fertilità: "li corpo sano, che quindi si ripro­
duce, [diventò] [ . . . ] messaggero di una società disordinata, pie­
na di corpi famelici" (Gallagher, 1986, p. 85) .

181
UNA qiSCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

B. Turner (1984, p. 91), scrivendo a proposito dell'Europa,


suggerisce che il governo e la regolamentazione della sessualità
femminile implicano, a livello istituzionale, un sistema di unità
familiari patriarcali per controllare la fertilità; e che, a livello indi­
viduale, le ideologie del puritanesimo sessuale erano una neces­
sità strutturale delle società europee fino alla metà del XIX secolo
(lmhof, 1985) e dell'Irlanda rurale fino alla fine del XX secolo
(Scheper-Hughes, 1979).

L'EMOZIONE: LA MEDIATRICE TRA I TRE CORPI

Un'antropologia del corpo racchiude necessariamente una


teoria delle emozioni. Le emozioni influenzano infatti il modo in
cui corpo, malattia e dolore vengono esperiti e proiettati in im­
magini del corpo sociale e del corpo politico più o meno funzio­
nanti. Fino a oggi, gli antropologi sociali sono stati inclini a limi­
tare il loro interesse per le emozioni a quelle occasioni in cui esse
sono formali, pubbliche, ritualizzate, "distaccate", come ad
esempio il funerale altamente stilizzato dei Baschi (Douglas, W ,
1969) , o il profondo dramma di un combattimento balinese di
galli (Geertz, 1973 ). Le emozioni e le passioni degli individui
maggiormente private e idiosincratiche sono state in -genere riser­
vate all'attenzione di psicologi, psicoanalisti e psicobiologi, che le
hanno ridotte a un discorso sulle spinte, gli impulsi, gli istinti in­
nati. La divisione del lavoro, basata su una falsa dicotomia tra
sentimenti culturali e passioni naturali, ci riporta a quella confu­
sione epistemologica delle opposizioni mente-corpo, natura-cul­
tura, individuo-società. Siamo d'accordo con Geertz ( 1 980) nel
chiederci se l'espressione di un'emozione e di un sentimento
umani - pubblica, privata, individuale o collettiva, repressa o
espressa in maniera esplosiva - sia mai libera da una foggia, da un
significato culturale.
Nella misura in cui le emozioni implicano sensazioni e orienta­
menti cognitivi, una moralità pubblica e un'ideologia culturale,
esse forniscono, nella nostra ipotesi, un importante anello man­
cante in grado di gettare un ponte tra mente e corpo, individuo,
società e corpo politico. Come ha sostenuto John Blacking ( 1977,
p. 5), le emozioni sono il catalizzatore che trasforma la conoscen-

182
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATIVO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

za in comprensione umana e che apporta intensità e impegno al­


l' azione wnana. Renato Rosaldo ( 1984) ha di recente invitato gli
antropologi a prestare maggiore attenzione alla forza e all'inten­
sità delle emozioni nel motivare l'azione umana. Questa sfida è
stata raccolta da diversi ricercatori (vedi per esempio Schieffelin,
1976, 1979; Rosaldo, 1980, 1984; Kleinman, 1982b, 1986; Lutz,
1982, 1985; Levy, Rosaldo, 1983 ; Kleinman, Good, 1985) e i ri­
sultati hanno dato una spinta consistente allo sviluppo di un ap­
proccio critico-interpretativo in antropologia medica.
Nel concludere questo saggio, ci spostiamo brevemente da
una descrizione della costruzione culturale del corpo alla sua
controparte, l'uso cioè del corpo come metafora per esprimere
un disagio.

RITIJALI DI RESISTENZA

Quando la malattia e il disagio vengono concettualizzati come


condizioni che toccano persone reali che vivono la loro esistenza
nel contesto di specifici ambienti sociali e culturali, diviene più
facile immaginare il disagio come una delle tante forme quotidia­
ne di resistenza a ciò che per molti è la realtà quotidiana, monoto­
na e oppressiva, di fatica e lavoro. James Scott ha segnalato come,
nel corso della storia, le classi subordinate si siano potute rara­
mente permettere "il lusso di un'attività politica aperta e organiz­
zata" (1985, p. xv). Questa tesi, di sicuro, può essere prontamen­
te estesa alla situazione della maggioranza delle donne. L'attività
politica infatti è certamente pericolosa per la maggior parte delle
persone; nondimeno, coloro che sono relativamente senza pote­
re, oppongono una serie consistente e assortita di resistenze, tra
cui "tirare per le lunghe, dissimulare, defezionare, non collabora­
re veramente, rubacchiare, fingersi ignoranti, denigrare, incen­
diare, sabotare, e così via" (Scott, 1985, p. XVI; Martin, 1987, con
riferimento alle donne nei contesti di tipo medico) - ai quali ag­
giungeremmo anche quei tipi di comportamento istituzionalizza­
to che appaiono molto di frequente negli scritti di antropologia
medica: le accuse di stregoneria, di magia, il malocchio, il pette­
golezzo, l'uso della trance o di riti organizzati di inversione e i gio­
chi di fantasia. n disagio fisico e la malattia possono essere anche

183
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

concepiti come atti di rifiuto o di parodia, una forma di protesta


(sebbene spesso inconscia) contro ideologie ruoli sociali oppres­
sivi. Di tutte le opzioni culturali atte a esprimere il dissenso, l'uso
della trance, o della malattia, è forse il modo più sicuro per mette­
re in scena un'opposizione - viene predisposto uno spazio istitu­
zionalizzato dal quale comunicare paura, ansia e rabbia, perché
in nessuno dei due casi gli individui che si trovano in circostanze
normali sono ritenuti pienamente responsabili della loro condi­
zione (Lewis, 197 1 ; Comaroff, 1985).
Certo però non tutti gli episodi di malattia vengono ricono­
sciuti come significativi da un punto di vista politico. Dappertut­
to si ritiene che ci siano semplici disturbi che non hanno alcun si­
gnificato nascosto. Gilbert Lewis ci racconta, per esempio, che
gli Gnau della Nuova Guinea dicono a proposito di alcune ma­
lattie: "Vengono e basta", "ha una malattia da niente" , "è morto
senza uno scopo o un intento" (Lewis, 1975, p. 179). Le spiega­
zioni riduzionistiche e meccanicistiche, tipiche della biomedicina
più diffusa, ignorano sistematicamente le origini sociali dei pro­
blemi di malattia (Taussig, 1980) e lo stesso vale per le spiegazioni
impiegate spesso nei sistemi medici tradizionali dell'Asia orienta­
le, dove un ipotetico squilibrio del corpo si dice abbia origine in
una mancanza di vigilanza personale (Lock, 1980).
Se, tuttavia, prendiamo le mosse dal concetto di ; "personalità
incorporata", di un soggetto che dunque vive e reagisce al posto
assegnatogli nell'ordine sociale, allora le origini sociali di molti
disagi e malattie, come del resto anche le dimensioni iatrogene
dello stesso ordine sociale, assumono piena visibilità. È allora
possibile, per esempio, interpretare i fenomeni di possessione
spiritica nelle industrie delle multinazionali in Malaysia, come
parte di una complessa negoziazione della realtà in cui le operaie
reagiscono tanto alla violazione della loro identità tradizionale
quanto alle degradanti condizioni di lavoro, interrompendo la
produzione attraverso l'uso della possessione (Ong, 1988) . O an­
cora, un approccio interpretativo tradizionale porterebbe forse a
credere che gli adolescenti giapponesi - che si rifiutano di andare
a scuola, che giacciono tutto il giorno a letto muti e immobili e
che spesso vengono curati per questo - reagiscano alle pressioni
del sistema scolastico giapponese o alle ambizioni dei loro genito­
ri. Una analisi critico-interpretativa, al contrario, indica che que-

184
UN APPROCCIO CRITICO-INTERPRETATNO IN ANTROPOLOGIA MEDICA

sta situazione è parte di una più ampia preoccupazione di portata


nazionale per la modernizzazione e l'identità culturale di cui il si­
stema scolastico, i valori dei genitori e la forma di resistenza cul­
turalmente costruita dei ragazzi sono solo una piccola parte
(Lock, 1988a). Analogamente, il vasto corpo di ricerca, in antro­
pologia medica, sui vari nervi-nevra-nervios, può essere interpre­
tato non semplicemente come un idioma culturalmente costituito
per esprimere il disagio, ma anche come una metafora dominan­
te, largamente distribuita e flessibile, per esprimere un grave di­
sagio e per negoziare delle relazioni di potere (Lock, 1990; Van
Shaik, 1989; Scheper-Hughes, 1988a). Le esperienze delle donne
connesse al ciclo mestruale, alla maternità o alla menopausa e la
varietà dei modi in cui esse accettano, equivocano o decisamente
rifiutano l'ideologia americana dominante in connessione a que­
sti eventi del ciclo di vita (Martin, 1987) forniscono un altro
esempio della relazione dinamica e contesa fra i tre corpi, come
avviene anche quando le donne sterili sudanesi partecipano a
quel discorso altamente autoriflessivo che è il culto Zar (Boddy,
1988). In un approccio critico-interpretativo, il dibattito su come
le categorie culturali possano essere classificate al meglio sotto le
categorie biomediche di patologia, diventa una falsa traccia. La
trasformazione di una forma di comunicazione culturalmente
ricca nel linguaggio individualizzante della fisiologia, della psico­
logia, o della psichiatria, è infatti inopportuna.
Per l'antropologo medico è di cruciale importanza dimostrare
il modo in cui dei termini polisemici come nevra, solidao, bara, e
stress, e il linguaggio della trance, del rito, dei sogni, del carneva­
le, e così via, possano essere impiegati allo scopo di facilitare l'e­
mergere cosciente dei legami tra ordine politico e sociale e disa­
gio fisico. Se questa forma di comunicazione, che tiene il corpo
metaforicamente legato sia alla mente sia alla società, si riduce al
linguaggio "veritiero" della scienza, allora una delle più incredi­
bili "armi dei deboli" (Scott, 1985) è resa inutilizzabile nella lotta
per il riscatto dall'oppressione. Analogamente, un approccio cul­
turalmente relativistico, che faccia affidamento esclusivamente
sulle spiegazioni o sulle narrazioni locali, è altrettanto inadegua­
to, perché gli attori coinvolti spesso sono incapaci di astrarsi e di
assumere un atteggiamento riflessivo nei confronti della propria
condizione. Non solo gli oppressori, ma anche gli oppressi pro-

185
UNA DISCIPLINA IN CERCA DI IDENTITÀ: OGGETTO, METODI, TEORIE

babilmente accettano la propria sorte come naturale e inevitabi­


le, anche quando le relazioni sociali umane sono gravemente di­
storte e ingiuste. Un approccio critico-interpretativo, allora, cer­
ca di superare una presentazione culturalmente sensibile, per ri­
velare il ruolo del potere e della conoscenza nel creare il corpo in­
dividuale, culturalmente costruito, e nel rapportarsi a esso.
Ci piacerebbe pensare all'antropologia medica come a una di­
sciplina in grado di fornire la chiave per lo sviluppo di una nuova
epistemologia e di una nuova metafisica del corpo e delle cause
emotive, sociali e politiche alla base della malattia e della guari­
gione. Se e quando pensiamo in modo riduzionistico al rapporto
mente-corpo, ciò avviene perché "è per noi buono da pensare" in
tal modo. Fare altrimenti, e cioè impiegare una metafisica radi­
calmente diversa, vorrebbe dire "disfare" il nostro proprio mon­
do di assunti, con le sue definizioni culturalmente determinate di
realtà. Ammettere il " come se" della nostra etnoepistemologia
vuoi dire sollecitare un'ansia cartesiana - la paura che, in man­
canza di una fondazione sicura e oggettiva della conoscenza, pos­
siamo cadere nel vuoto, nel caos del relativismo e della soggetti­
vità assoluti (vedi Geertz, 1973 , pp. 40-42).
Abbiamo cercato di mostrare l'interazione tra mente-corpo e
i corpi individuale, sociale e politico nella produzione e nell'e­
spressione della salute e dell'esperienza di malattia. ÌLa malattia
infatti non è semplicemente un evento isolato, o uno scontro
sfortunato con la natura. Essa è piuttosto una forma di comuni­
cazione - il linguaggio degli organi - attraverso cui la natura, la
società, e la cultura parlano simultaneamente. Il corpo indivi­
duale dovrebbe essere visto come il terreno, più immediato e
prossimo, in cui vengono messe in scena le verità e le contraddi­
zioni sociali, come anche luogo di resistenza, creatività e lotta
personale e sociale.

BffiUOGRAFIA

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PARTE SECONDA

NARRAZIONE, ESPERIENZA
E MONDI MORALI LOCALI
n concetto di incorporazione si è imposto dall'inizio degli anni
Novanta in poi come l'orizzonte generale di senso sul cui sfondo
le diverse correnti dell'antropologia medica hanno iniziato a rive­
dere e declinare i propri interessi analitici. La Parte seconda di
questa Antologia offre lo spaccato della radicale messa in discus­
sione che i più autorevoli esponenti della scuola di Harvard,
Kleinman e Good, hanno operato rispetto alla propria concezio­
ne originaria dell'antropologia medica. Rimane centrale per en­
trambi, in linea con il contenuto dei rispettivi contributi della
Parte prima, l'attenzione per l'esperienza di sofferenza. Tuttavia
la prospettiva teorica è mutata radicalmente: entrambi fanno
proprio l'approccio fenomenologico, volto a mettere in luce il si­
gnificato della malattia e della sofferenza in tutta la loro pregnan­
za di esperienze esistenziali. È assumendo l'esperienza come ter­
reno di mediazione fra processi storico-sociali e dimensioni per­
sonali che Kleinman elegge la sofferenza umana a materia di ri­
flessione, invitandoci a esaminare la reciproca influenza dei siste­
mi di costruzione dei significati (personali, culturali ecc.) sulla
sofferenza e della sofferenza sui significati.
In linea con Kleinman, Good presenta il proprio contributo
nei termini di una teoria dell'esperienza vissuta, in cui il corpo
emerge come attore dell'esperienza stessa. È all'interno di questa
cornice che egli propone un approccio narrativo per lo studio del­
la sofferenza. Se è vero che la sofferenza comporta un ribalta­
mento di prospettiva radicale per il singolo che la esperisce, in
quanto essa rappresenta una forma di attacco al radicamento on-

1 97
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

tologico dell'esistenza, capace di minare ciò che abitualmente si


dà per scontato, attraverso le narrazioni si possono cogliere il
processo di dissoluzione del mondo vissuto di chi soffre, quanto
il tentativo di ricostruzione di quel mondo. Se le narrazioni sono
considerate non mere "rappresentazioni" dell'esperienza, ma co­
me dispositivi attraverso cui si costruiscono, si elaborano trame
significative, che danno senso all'esperienza, allora la testimo­
nianza di chi soffre può valere come occasione per lavorare alla
ricostruzione di un mondo sovvertito dall'irruzione di una pre­
senza inedita.

198
6

LA SOFFERENZA E LA SUA
TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE
VERSO UNA ETNOGRAFIA DELI.:ESPERIENZA INTERPERSONALE
Arthur Kleinman, Joan Kleinman

INTERPRETAZIONE ED ESPERIENZA

Una strategia efficace, in antropologia medica, è quella di di­


mostrare come le descrizioni dei disturbi e le spiegazioni relative
alla malattia di una persona rispecchino un particolare ordine
morale. Attraverso archetipi sociali manifesti e invisibili processi
sociali, si mette in luce come il dolore e le modalità in cui si confi­
gura la ricerca di aiuto riproducano un universo culturale che,
perlopiù, l'antropologo può fondatamente interpretare. Rifacen­
dosi a una teoria riconducibile al pensiero di Durkheim, Weber,
Marx, Freud o di Foucault e attenendosi a uno stile di scrittura
etnografica lontano sia da un ingenuo naturalismo sia da un con­
troverso postmodernismo, il risultato mostrerebbe comunque
che la malattia è una realtà socialmente costruita cui l'etnografo
ha un accesso privilegiato.
Questa strategia interpretativa è spesso seguita da una seconda
impresa analitica, in cui l'antropologo rivela come il clinico rida­
bori la prospettiva del paziente giungendo a una diagnosi e pre­
scrivendo cure che riproducano l'ordine del discorso della profes­
sione medica e che ne rispecchino i presupposti economici e poli­
tici. Si dimostra poi che l'operazione di tipo semiotico di ricondu­
zione della sofferenza di donne e uomini all'interno delle tassono­
mie dei professionisti della salute implica che il mondo morale del
paziente e della sua comunità d'appartenenza sia sovvertito.
Perciò, quando uno psichiatra spiega delle condizioni oggetti­
ve di vita, quali la miseria generata da una calamità politica - per
esempio l'orrore del genocidio in Cambogia o la logorante quoti-

199
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

dianità della povertà nei ghetti urbani -, con una diagnosi di di­
sturbo depressivo maggiore o con un disturbo post-traumatico da
stress o ancora con un disturbo antisociale di personalità, l'antro­
pologo sostiene che, a dispetto delle sue competenze professionali
o delle sue buone intenzioni, la psichiatria finisce col delegittima­
re le dimensioni morali e politiche della sofferenza del paziente.
Almeno implicitamente, si suppone che gli psichiatri banalizzino
l'esperienza delle persone che si rivolgono loro, fino forse a ren­
derne più difficile la comprensione. Le ricostruzioni degli antro­
pologi, quindi, si pensa riescano a produrre una critica fondamen­
tale della riduzione operata dall'approccio degli psichiatri rispetto
all'unicità della qualità esistenziale della manifestazione di una
malattia. Tale riduzione, si sostiene, a volte con un malcelato tono
di superiorità morale, descrive la sofferenza umana come patolo­
gia inumana (Casse!, 1991).
Il dilemma interpretativo degli antropologi deriva dal fatto
che essi condividono lo stesso processo di riduzione di un' espe­
rienza vissuta a delle categorie che le sono estrinseche. L'interpre­
tazione della sofferenza di una persona o di un gruppo - nei ter­
mini di risposta a rapporti di produzione oppressivi, o di simbo­
lizzazione di conflitti dinamici che hanno luogo nell'interiorità
del sé, o ancora la resistenza all'autorità - è una mera ricostruzio­
ne simile a quella che, in ambito biomedico, si cerca di operare di
fronte a una malattia. E non è certamente meno criticabile, dal
punto di vista morale, antropologizzare il disagio rispetto al ri­
condurlo entro i limiti categoriali del discorso medico. Ciò che si
perde nelle interpretazioni biomediche - la complessità, l'incer­
tezza e l'ordinarietà del mondo dell'esperienza comune a partico­
lari uomini e donne - viene a mancare anche quando la malattia è
reinterpretata nei termini di ruoli sociali, strategie sociali, simboli
sociali, nient'altro che l'esperienza umana.
Tuttavia non si fraintenda la nostra posizione. Non si sta po­
stulando un ossimoro antropologico del tipo: la sofferenza come
esperienza limpida, priva di significati culturali e di cambiamenti
sociali. Non si dà esperienza umana di questo tipo, aculturale e
astorica. Si sostiene invece che le analisi antropologiche (del do­
lore, della passione, del potere), quando sono lontane dall'espe­
rienza, rischiano di delegittimare le condizioni umane del sogget­
to in questione. L'antropologo in questo modo si figura un falso

200
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

soggetto, dedicandosi a un discorso professionale de-umanizzan­


te tanto quanto i discorsi di quei colleghi che, inconsapevolmen­
te, si basano sui luoghi comuni della biomedicina o del compor­
tamentismo per forgiare il proprio soggetto di studio.
L'etnografia partecipa a questa trasformazione professionale
di un soggetto umano, ricco di esperienza e a essa vicino, in un
oggetto de-umanizzato, una caricatura dell'esperienza. Il fatto
che occasionalmente non metta in atto questa trasformazione,
sembra aver più a che fare con le costrizioni imposte dall'osserva­
zione partecipante in quanto pratica empirica - modalità cono­
scitiva che per sua natura non riesce ad allontanarsi troppo dalla
confusione e dal trambusto della vita quotidiana - che con la teo­
rizzazione antropologica dell'esperienza e con i suoi metodi.

CATEGORIE PER UNA ETNOGRAFIA DEll'ESPERIENZA

A quali categorie potrebbe ricorrere un'etnografia dell'espe­


rienza, in particolare se interessata allo studio della malattia e di
altre forme di sofferenza, per resistere alla tendenza di una deco­
struzione professionale de-umanizzante, o semplicemente per di­
ventare più consapevolmente autoriflessiva circa la specificità
umana dell'esperienza? Riteniamo che un'attenzione contestuale
su categorie prossime all'esperienza, in etnografia, dovrebbe
prendere le mosse dalla fondamentale caratteristica di cosa è perti­
nente in generale a livello pratico nei processi e nelle forme dell'e­
sperienza. n che sta a significare che c'è in gioco qualcosa che ri­
guarda tutti noi nel circolo quotidiano degli avvenimenti e delle
transazioni. 1

l . L'idea che l'esperienza, in generale, sia di primaria pertinenza pratica per le


persone impegnate a negoziare un mondo di vita, la ritroviamo negli scritti di
studiosi appartenenti ai più diversi orientamenti: John Dewey (1922); William
James (1891); Alfred Schutz (1960); Helmut Plessner (1970), il più importante
benché meno noto dei fenomenologi continentali, e riecheggia ugualmente nelle
recenti critiche che Dan Sperber e Deidre Wilson (1986) hanno mosso agli studi
attuali di psicologia e antropologia che non riconoscerebbero tale orientamento
fondamentale. n fatto di chiamare "pertinenza, ciò che è in gioco nell'esistenza ­
e quindi per la sopravvivenza, la coerenza, la trascendenza - ha un'origine antica
in letteratura; come categoria teorica essa è riemersa attraverso il dialogo con
Unni Wikan (1987), con Veena Das (1995), con Vera Schwarz e coni membri del
Seminario di antropologia medica di Harvard (Byron}. Good, Mary-Jo Del Vec-

201
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

L'esperienza, a livello teorico, potrebbe essere pensata nei ter­


mini di quel medium intersoggettivo di transazioni sociali nel
contesto di mondi morali locali.
Essa è il prodotto di categorie culturali e strutture sociali che
interagiscono con processi psicofisiologici attraverso cui viene
costituito un mondo di mediazione. L'esperienza è il flusso vissu-

chio Good, Thomas Csordas, Mitchell Weiss, Peter Guarnaccia, Pablo Farias,
Norma Ware, Joyce Chung, David Napier, John Sugar e altri ancora), nonché
con i nostri allievi (Paul Farmer, Paul Brodwin, Anne Becker, Jim Kim, Lawren ·

ce Cohen, Maya Dumermuth Todeschini, Richard Castello, Scott Davis, Anna


Ortiz, Tara AvRuskin, Karen Stephenson, Catherine Lager, Kate Hoshour, Eric
Jacobson, Terry O'Nell, Linda Hunt e altri ancora). Michad Jackson (1989) ha
sviluppato la sofisticata proposta di un esperienzialismo radicale in etnografia, il
cui fulcro analitico dovrebbero essere tanto l'esperienza personale dell'informa­
tore nativo quanto quella dell'etnografo. In precedenza, ma sempre all'interno
della stessa tradizione, Renato Rosaldo (1984) attinge alla propria esperienza di
lutto, a seguito della morte della moglie, per capire la "forza" delle emozioni tra
gli Tiongot. Un altro studioso che ha contribuito a questa corrente è Stoller
(1989). La sua analisi della valutazione sensoriale dei processi culturali che si ri­
vdano attaverso il gusto, l'olfatto, la vista e l'udito, suggerisce che etnografie di
tipo etnomusicologico, come nel caso di Feld (1981), o centrate sulla danza
(Chernoff, 1979) meritino di rientrare in questo raggruppamento. La ricostru­
zione etnomedica svolta da Francis Zimmermann (1989) delle ardue metafore
ayurveda dd terreno e dd sapore delle spezie curative indirizza il suo lavoro ver­
so le basi esperienziali della terapia. Anche l'approccio sensoriale multiplo di Ro­
seman (1990) ai riti di guarigione degli aborigeni della Malaysia, meriterebbe di
essere classificato sotto la voce di etnografia vicina all'esperienza.\,
Quello che abbiamo cercato di fare in questo scritto è stato di sviluppare
un'interpretazione dell'esperienza un po' diversa, anche se non intendiamo ne­
gare certe risonanze rispetto alle opere citate sopra. Definiamo l'esperienza non
come un fenomeno soggettivo - qualcosa che una singola persona "prova" - ma
come un medium interpersonale che viene condiviso, intrapreso dalle persone,
e che media tra di esse all'interno di un mondo locale. È all'interno di questa
cornice che poniamo il caso cinese in una prospettiva che gli conferisce una vali­
dità transculturale.
È nostra intenzione dissolvere la dicotomia individuale/collettivo. L'espe­
rienza interpersonale è, infatti, il terreno della mediazione (nella malattia) e del­
la trasformazione (nella guarigione) sociosomatica. Nella dimensione locale dd­
l'esperienza, i pezzi dei processi unitari della memoria, dell'affetto e della fisio­
logia, possono essere descritti a diversi livdli - familiare, personale, sociale, co­
munitario. A essere innovativa è l'idea, che teniamo a enfatizzare, dell'esperien­
za come terreno [medium] di mediazione interpersonale, piuttosto che la sua
abituale categorizzazione in forme personali o sociali. È per questo motivo che
descriviamo il nostro approccio come etnografia dell'esperienza interpersonale,
anche se potremmo forse descriverlo, ugualmente bene, come la sociodinamica
dell'esperienza culturale, perché riconosciamo che la cultura, attraverso i pro­
cessi e le pratiche, le routine interpersonali e i ritmi di esperienza di ogni giorno,
sia in questo essenziale.

202
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

to di quel medium intersoggettivo. Nei termini di Bourdieu


(1989), è la matrice sociale da cui si struttura l'habitus e dove gli
stati mentali/corporei condivisi, a loro volta, strutturano le rela­
zioni sociali. Tuttavia, in termini pratici, quel mondo intermedia­
rio è definito da ciò che è vitalmente in gioco per gruppi e indivi­
dui. Se la preservazione della vita, dell'ambizione, del prestigio, e
così via, possono essere considerate strutture di pertinenza per le
condizioni umane condivise nelle diverse società, ciò che è in bal­
lo, nelle dimensioni quotidiane della vita, differisce (spesso in
modo drammatico) in virtù di processi di elaborazione culturale,
di idiosincrasie personali, di particolarità storiche e delle specifi­
cità della situazione.2 Ciò che conta nei contesti della vita, dun­
que, è generalmente indeterminato ed è materia di animate di­
scussioni (Kleinman, 1992).
Gli etnografi penetrano nel flusso dell'esperienza sociale in un
momento e in un luogo particolari, e ip.evitabilmente la loro de­
scrizione sarà tanto una porzione trasversale - che taglia una pro­
cessuale complessità di priorità - quanto un frammento di un
flusso temporale di strutture di pertinenza in continua trasforma­
zione. n fatto che tali strutture siano passibili di discussione, in­
determinate, emergenti e in continua trasformazione, implica che
le descrizioni dell'etnografo riguardino sempre un mondo mora­
le locale che può essere conosciuto solo in modo parziale, e per il
quale la validità relativa delle osservazioni deve essere continua­
mente ricalibrata. Inoltre, ciò di cui l'etnografo ha esperienza è il
modo in cui gli individui affrontano il flusso della vita e delle in­
terazioni vissute (Dewey, 1922). Essi non lo dominano, non lo in­
ventano, quanto piuttosto vi si ritrovano a partire dalla nascita, o

2. Con condizioni umane vogliamo indicare che esiste solo un numero limi­
tato di modi per essere umani. Tutti infatti facciamo esperienza della crescita fi­
sica, delle trasformazioni personali, della fame, di incidenti, di malattie (più o
meno gravi), della paura, della morte, del lutto ecc. Usiamo comunque il plurale
perché desideriamo indicare che le condizioni umane possono anche variare en­
tro e tra i gruppi. Infatti non tutti faranno esperienza di un disturbo infantile
maggiore o di un lutto per la morte di un figlio, ancora bambino, e tuttavia sa­
ranno in molti a provarlo e ad alcuni gruppi toccherà una porzione superiore di
esperienze di quel genere. A essere in gioco per uomini e donne è dunque qual­
cosa di intrinseco alle condizioni umane condivise e insieme qualcosa di elabo­
rato dalle peculiarità dei mondi locali di esistenza e dagli individui. Per cui pos­
siamo affermare che la condizione umana denota forme di vita sia universali, sia
particolari.

203
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

vi vengono catapultati (vediJackson, 1989, pp. 1 -15, per una ras­


segna delle fonti fenomenologiche in merito a questa valutazione
esistenziale dell'esperienza).
Una questione fondamentale in etnografia dovrebbe essere
quella di interpretare ciò che è in gioco per particolari individui
in situazioni specifiche.3 Tale orientamento condurrà l'etnografo
verso l'analisi degli interessi prossimi all'esperienza, tanto collet­
tivi (locali e societari), quanto individuali (pubblici e privati), un
orientamento che riteniamo possa offrire una migliore compren­
sione iniziale di quali siano le caratteristiche sociali e psicologi­
che delle forme di vita in mondi morali locali, rispetto alle cate­
gorie professionali sociologiche (ruoli, ambienti, status) o alla
terminologia psicologica (affetto, cognizione, difesa, comporta­
mento).4
L'interesse per ciò che è in gioco incoraggia l'etnografo a co­
struire un inventario etnopsicologico di concezioni indigene
chiave, ma non a interrompere l'analisi a quel punto. L'analisi
delle categorie indigene in quanto categorie può presto diventare
artificiosa - come rivelano chiaramente le disavventure dell' etno-

3. Tra cui, ovviamente, ciò che è in gioco per l'etnografo stesso - con questo
intendiamo esprimere una gamma di propri "interessi" molto più ampia rispetto
a quelli cui allude l'enfasi postmodema per un certo paradigma intellettuale e
per uno stile di scrittura. Quello che abbiamo in mente è qualopsa di affine al
controtransfert, compiuto dall'etnografo, di passioni, durevoli e momentanee,
ma senza la specificazione psicoanalitica dd loro presunto contenuto universale.
4. Ciò che vogliamo sostenere è che "cognizione", "affetto" , "difesa" e "com­
portamento" non solo sono categorie psicologiche appartenenti all'egemonia oc­
cidentale, ma sono anche particolarmente inadeguate come categorie per un'et­
nografia dell'esperienza. La separazione fra cognizione e affetto, a dispetto di
tutte le parole versate per mostrare le deformazioni prodotte dalle residue dico­
tomie della tradizione culturale occidentale, è ora data per scontata non soltanto
in psicologia, ma in tutte le scienze umane. Tuttavia, anche una rapida riflessione
è sufficiente per dimostrare ampiamente come questa dicotomia restituisca l'u­
nità dell'esperienza. L'impegno nella misurazione rende la maggior parte dei ri­
cercatori insensibili a queste obiezioni. La difesa, naturalmente, si porta tutto il
peso del paradigma psicoanalitico, che trasforma la molteplicità, l'incertezza e
l'originalità dell'esperienza in "verità", la cui validità e affidabilità non sono qua­
si mai state rigorosamente verificate, mentre il loro impiego si è insinuato nd lin­
guaggio quotidiano degli scienziati sociali e dei medici. L'etnografia dell'espe­
rienza sarebbe in una posizione migliore se non avesse difese. ll "comportamen­
to" reifica nd modo più riduzionista possibile il vissuto, ed è puntellato da teorie
che sono le più suscettibili di applicazioni de-umanizzanti. Tutti questi termini
reificano una visione oltremodo individuàlistica dell'esperienza, oscurandone
l'intersoggettività che noi vorremmo invece enfatizzare.

204
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

scienza - perché tralascia proprio ciò che orienta quelle categorie


nell'esperienza pratica. Inoltre, una lista di categorie etnopsicolo­
giche in sé può solo parzialmente fornire il terreno adeguato per
la comprensione di ciò che c'è di condiviso nelle condizioni uma­
ne e di quali processi sociali psicologici medino l'esperienza. n
primo punto, le condizioni dell'essere umano, si riferisce all'esi­
stenza di certi determinanti ritmi e limiti dell'esperienza - la na­
scita, il cambiamento del ciclo vitale, lo sviluppo morale, la morte
e il lutto. Le condizioni umane - come per esempio nel nostro ca­
so la sofferenza - vincolano l'esperienza vissuta. Esse rappresen­
tano una resistenza, nel flusso dell'esistenza, all'elaborazione di
progetti di vita.5 La danza dialettica tra queste resistenze condivi­
se e le strutture di pertinenza culturalmente elaborate, e tuttavia
simultaneamente idiosincratiche, creano le cosiddette "sconcer­
tanti inopportunità" dell'esperienza umana (Manning, 1960). Es­
sa plasma anche il carattere del pericolo, lo scopo e le possibilità
della trascendenza, oltre alle altre sottigliezze esistenziali che,
prese insieme, rappresentano qualunque cosa si intenda con l'e­
spressione natura umana. n che sta a significare che il flusso del­
l'esperienza non è il prodotto di una qualche natura umana (per­
sonalità, istinto ecc.) ma la condizione per il suo emergere, tanto
nelle sue dimensioni condivise, quanto in quelle culturalmente
specifiche, e pertanto è lontana dall'azione determinativa recla­
mata dagli psicoanalisti, dai comportamentisti cognitivi o dalla
maggior parte degli altri teorici della psicologia.6

5. Max Scheler (1928) definisce la resistenza come l'essenza profonda dell'e­


sperienza che l'uomo ha della realtà in quanto reale. "Le rappresentazioni e il
pensiero mediato [le inferenze] non possono mai darci altro se non questa o
quella qualità del mondo. La sua realtà come tale si dà solo in un'esperienza di
resistenza accompagnata da ansia" (ibidem, pp. 138-139). Qui la nozione di
Scheler di cosa sia la realtà della nostra esperienza del mondo coincide con ciò
che noi definiamo nei termini della sua fondamentale pertinenza: vale a dire, ciò
che assorbe la nostra attenzione. L'assorbimento sociale, allora, è il nucleo con­
diviso delle condizioni umane. La trance o la dissociazione, sono un tipo di as­
sorbimento alterato nel corpo, o nel sé.
6. Non stiamo negando l'esistenza di una natura umana. Piuttosto, insistia­
mo sul fatto che la natura umana emerge all'interno di mondi locali di esperien­
za; essa viene conquistata attraverso, e al tempo stesso contiene, elementi tanto
universali quanto culturalmente specifici. Melzack (1989) teorizza, in base ad
approfondite ricerche in ambito neuroscientifico, che il sé cerebrale è una neu­
ro-matrice aperta all'esperienza, anche se ampiamente precedente a essa, che dà
luogo a una particolare neuroimpronta dd corpo vissuto. Mentre non siamo

205
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

L'esito di questa visione fenomenologica è che, vista da vici­


no, la densità della consapevolezza personale (degli attori e degli
osservatori) della ricchezza delle esperienze umane è difficile da
esprimere e assai incerta a causa della sua pienezza, sottigliezza e
complessità. E tuttavia, se vista da lontano, la forma storica del­
l'esperienza è tanto evidente quanto lo sono gli elementi e i ritmi
condivisi a livello transculturale. L'attenzione dell'etnografo si
sposta continuamente. n compito è interpretare modelli di signi­
ficato entro situazioni comprese grazie a categorie prossime al­
l' esperienza; e tuttavia gli etnografi portano con sé anche una di­
stanza liberatoria che deriva dalle loro stesse categorie vicine al­
l'esperienza e dalla loro comprensione esistenziale delle condi­
zioni umane condivise. Questo vuoi dire che l'etnografia, come
la storia, la biografia e la psicoterapia, ha la possibilità di cono­
scere meglio la struttura dialettica e il flusso contingente dell'e­
sperienza vissuta rispetto alle forme riduzionistiche di cono­
scenza che, per definizione, deformano le condizioni esistenziali
della vita. Questa prospettiva suggerisce anche perché compren­
dere le categorie etnopsicologiche, benché essenziale, sia co­
munque insufficiente: sappiamo molto più di quanto non pos­
siamo dire o comprendere; siamo immersi nei significati dell'e­
sperienza; il flusso storico e l'elaborazione culturale dell' espe­
rienza ci portano a organizzare forme partendo da terreni la cui
pertinenza è fortemente legata a occasioni contestuali (i nostri
informatori e i nostri spettatori sono anche allenati a variare i li­
velli di ironia, come dice Geertz, 1988). Arrivare a capire i pro­
cessi di mediazione psicologica richiede che alla fine ci volgiamo
a guardare da lontano - altrimenti non possiamo astrarre dei
processi universalizzanti dal contenuto particolarizzante dei si­
gnificati etnopsicologici -, ma per capire le situazioni effettive
dobbiamo usare entrambe le lenti.
In breve, quindi, ciò che nei mondi morali locali è in gioco per
particolari uomini e donne offre un esempio del tipo di categorie
che riteniamo cruciali per elaborare un'etnografia dell'espe-

d'accordo con il riduzionismo biologico di Mdzack, la nostra concezione della


natura umana abbraccia una nozione dd body/se!/che è il risultato, processual­
mente conquistato, dell'interazione tra mondo sociale e processi psicobiologici
(tra cui la neuromatrice) . In questo modello dialettico, la natura umana è un
qualcosa di emergente: limitata e tuttavia daborata.

206
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

rienza.7 Nel discutere questa categoria, abbiamo accennato forse


troppo rapidamente ad altri aspetti dell'esperienza - per esem­
pio, la pressione esistenziale per la coesione e l'unità nei mondi
locali dell'esperienza (vedi Oakeshott, 1985), l'immediatezza
della sua qualità percepita (Cassirer, 1944; Merleau-Ponty,
1945), la confusa molteplicità e indeterminatezza del suo flusso
(alla maniera di Bergson, 1 889 e William James, 1890), la nozio­
ne che essa è emergente, compiuta, contrastata, non preformata
(come in Dewey, 1922), il carattere di resistenza bruta al proget­
to di vita che deve essere trasceso e che esprime la finitezza del­
l'esperienza (Jackson, 1989), la responsabilità esistenziale di ve­
nire a patti con la sua teleologia (Sartre, 1943 ; Frankl, 1967), e
così via. Questi aspetti riconoscibili dell'esperienza suggerisco­
no altre categorie che devono informare le nostre etnografie. In
questa sede, tuttavia, ci si occuperà di una sola categoria, anche
se più tardi dovremo tornare comunque su alcune altre.

LA SOFFERENZA UMANA

Prenderemo in esame la sofferenza che accompagna la malattia


e le sue origini sociali come un esempio di etnografia�dell'espe­
rienza. Le interpretazioni biomediche dell'esperienza sono state
opportunamente criticate in quanto escludono l'esperienza di sof­
ferenza dalla valutazione della malattia. Al fine di rappresentare la
sofferenza, i resoconti antropologici rivelano come le idiosincra­
sie, i conflitti di interessi e gli scopi contrastanti dell'esistenza per­
sonale, vissuti sotto l'arduo vincolo dei processi di malattia, siano
in realtà modellati in forme riconoscibilmente condivise: per
esempio, il disperato ritiro e isolamento dei pazienti gravemente
malati tra i Gnau vicino al fiume Sepik in Nuova Guinea (Lewis,
1976), la nevrastenia dei cinesi con depressione maggiore a Pechi­
no o Taipei (Kleinman, 1986), i nervios degli immigrati portorica­
ni nei ghetti urbani della costa orientale degli Stati Uniti (Guar-

7. n concetto di mondi morali locali è ulteriormente sviluppato da Kleinman


(1992). Per i nostri propositi qui, il concetto vuole essere un'indicazione steno­
grafica per la messa a fuoco, da parte degli studi etnografici, sui contesti locali di
esperienza in villaggi, quartieri urbani, ambienti di lavoro o domestici - reti o
comunità di rdazioni limitate dove viene negoziata la vita di ogni giorno.

207
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

naccia et al., 1989) e così via. Per completare questa impresa anali­
tica l'esperienza di malattia, a un certo punto, è congelata come se
la narrazione della malattia si fosse compiuta o il corso della ma­
lattia fosse giunto a un esito ultimo. Certo è che, nel corso effettivo
dell'esperienza di malattia, non esiste esito ultimo. Anche la morte
è seguita dal lutto e dall'ulteriore e influente traiettoria del passato
ricordato (per la famiglia come per i medici). L'antropologo crea
l'illusione di finalità, continuità, significato coerente, quando in
realtà anche il più semplice episodio di malattia ha risonanze più
complesse di quelle che i modelli analitici a nostra disposizione
possano cogliere. L'astrazione di una definitiva forma culturale da
una iniziale transitorietà e dalle controverse incertezze dell'espe­
rienza quotidiana di malattia fa violenza all'idiosincrasia persona­
le e alla particolarità della situazione, alla confusione e "al brusio
assordante" del corso della vita. Come A. Kleinman ha mostrato
in The Illness Na"atives, il significato culturale è solo uno dei di­
sparati significati della malattia - gli altri comprendono anche i si­
gnificati personali e interpersonali in un mondo locale - e tuttavia
in parecchi resoconti antropologici quello è l'unico che emerge.
Riteniamo che la tendenza antropologica a creare archetipi cultu­
rali a partire dai dettagli, sempre confusi e incerti, di un resoconto
personale di malattia - approccio cui noi stessi abbiamo contri­
buito - sia un'interpretazione del nucleo umano della1 1 sofferenza
tanto debole quanto la tendenza biomedica a spiegare in termini
puramente biologici il dolore. Entrambe rendono fungibile la
qualità peculiarmente umana della sofferenza, la posta in gioco
più importante per i protagonisti. Alienando la malattia da ciò che
è in gioco per degli individui particolari in situazioni specifiche,
l'analisi culturale crea una realtà inumana, artefatta, come l'entità
di malattia del patologo. Se non esiste un corso puramente "natu­
rale" della patologia, non può nemmeno esserci una sintomatolo­
gia puramente "culturale" .
La sofferenza può essere definita, in una prospettiva storica e
transculturale, come un aspetto universale dell'esperienza umana,
in cui gli individui e i gruppi devono subire o sopportare specifici
oneri, problemi e lesioni fisiche e spirituali, raggruppabili in vari
modi. Ci sono sventure contingenti, come il manifestarsi di una
grave malattia. Ci sono forme ordinarie di sofferenza, come le
esperienze di malattia cronica o la morte - o che possono essere le-

208
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

gate a esperienze di deprivazione e sfruttamento, degradazione e


oppressione, cui sono esposte alcune categorie di individui (i po­
veri, i vulnerabili, gli sconfitti), mentre altre risultano relativamen­
te protette. C'è inoltre una sofferenza legata all'aver vissuto situa­
zioni estreme, come la sopravvivenza all'Olocausto, alla bomba
atomica, al genocidio in Cambogia, alla Rivoluzione Culturale ci­
nese. I significati culturali della sofferenza (per esempio la puni­
zione o la salvezza) possono essere elaborati in modi diversi: pen­
siamo, per esempio, ai buddisti dello Sri Lanka, rispetto ai cristia­
ni medievali; ma l'esperienza intersoggettiva della sofferenza rite­
niamo faccia parte integrante della condizione umana, a prescin­
dere dal tipo di società.
Per spiegare quest'ultimo punto, e allo scopo di trarvi un sen­
so utile all'interpretazione della sofferenza umana come centro di
un'etnografia dell'esperienza, passiamo a esaminare un caso di
modalità somatica di esperire il disagio personale e politico - un
caso, cioè, di somatizzazione - nella cultura cinese.

Esposizione del caso8


Huang Zhenyi è un lavoratore di una cittadina rurale. Amma­
latosi di depressione poco prima dei trent'anni, attribuisce i suoi
cronici mal di testa e le vertigini a un'esperienza infantile trauma­
tica, vissuta durante la Rivoluzione Culturale, esperienza di cui
riesce a parlare solo con la moglie. Durante le vacanze scolastiche
invernali Huang Zhenyi ritornò a scuola. Qualcuno aveva attacca­
to un pezzo di carta con scritto in chiari caratteri: "Abbasso il pre­
sidente Mao! ". Non sapendo cosa fare di questo slogan anti-Mao,
egli corse dal suo amico più stretto che gli consigliò di informare
velocemente i capi della comune. Lui lo fece, e i capi reagirono fa­
cendo intervenire gli agenti di pubblica sicurezza (polizia). Tre di
loro interrogarono Huang Zhenyi a scuola. Gli chiesero chi avesse
scritto quel cartello e, non sapendo lui cosa rispondere, lo accusa­
rono. I poliziotti lo minacciarono dicendogli che se non avesse
confessato non sarebbe tornato a casa. Terrorizzato, dopo ore di
interrogatorio in una piccola stanza della scuola, da cui non pote-

8. Questo caso è stato ripubblicato con qualche differenza da Arthur Klein­


man (1986).

209
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

va uscire neanche per andare in bagno, nonostante il disperato bi­


sogno di urinare, disse alla polizia che aveva trovato lo slogan ma
che non l'aveva scritto lui. Era arrabbiato col suo amico che non lo
aiutava a raccontare ciò che era veramente accaduto. Alla fine, a
notte fonda, gli agenti gli permisero di tornare a casa. Lì trovò la
madre disperata per la sua assenza. Le spiegò il problema e le assi­
curò che non era colpa sua.
La mattina dopo, i tre agenti si recarono a casa di Huang
Zhenyi, lo presero e lo portarono all'Ufficio della pubblica sicu­
rezza. Questa volta gli assicurarono, in modo brutale, che non
avrebbe lasciato la piccola stanza dell'interrogatorio finché non
avesse confessato. Terrorizzato al pensiero delle privazioni estre­
me cui sarebbe stato sottoposto e all'idea di non poter rivedere la
madre, Huang Zhenyi firmò la confessione, assumendosi piena
responsabilità per avere scritto il cartello.
Quando tornò a casa, disse a sua madre di essere stato lui a
scrivere il cartello, perché temeva che, se le avesse detto la verità,
avrebbe solo creato ulteriori problemi a entrambi. Huang Zhenyi
ricorda ancora, con dolore, che sua madre piangeva e imprecava
contro di lui: "Se l'avessi saputo prima che saresti finito così, non
ti avrei voluto ! " . Si ricordò di essere scoppiato a piangere, ma
non fu capace di dire alla madre la verità. "Mi sentivo un codar­
do. Non riuscivo a dirglielo" .
Questa esperienza gliene ricordava un'altra precedente. Quan­
do aveva otto anni, invece di recarsi a scuola era andato con di­
versi compagni di scuola a pescare in un laghetto del luogo, e
giunsero in ritardo alla lezione. L'insegnante li punì chiudendoli
in una piccola stanza coi muri di fango. Riuscirono tuttavia a
scappare, facendo un buco nel muro e nascondendosi in un vici­
no campo di cotone. L'insegnante, noto per la sua ferrea discipli­
na, gli corse dietro e acciuffò due amici di Huang Zhenyi, ma non
lui. "Avevo così paura che rimasi totalmente immobilizzato lì do­
ve mi trovavo. Non potevo muovermi" . Più tardi, di sera, tornò a
casa, e il giorno dopo si recò nuovamente a scuola. L'insegnante,
infuriato per il comportamento di Huang, lo punì ordinandogli
di pulire la scuola invece di studiare. Huang Zhenyi si rifiutò di fa­
re i lavori di fatica, e questo portò l'insegnante a umiliarlo di fronte
agli altri insegnanti. Dopo questa ·esperienza, Huang Zhenyi disse:
"Il mio fegato si è rimpicciolito, e sono diventato un fifone, un

210
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

codardo" . Da quel momento in poi si sentì "paralizzato" ogni


volta che si doveva difendere davanti agli adulti.
A causa della sua confessione, il dodicenne Huang Zhenyi -
che di nuovo si era sentito "paralizzato", incapace di rompere il
proprio silenzio di fronte ai suoi accusatori adulti - venne messo
alla berlina e costretto a marciare per la cittadina indossando un
berretto con le orecchie da somaro e, appeso al collo, un cartello
che riportava un'autocritica per il proprio "terribile atto" , cir­
condato da migliaia di contadini e di funzionari che lo insultava­
no, gli sputavano addosso e gli lanciavano sassi e spazzatura. n
giorno dopo fu mandato a lavorare come contadino in una squa­
dra locale di produzione. Doveva fare il lavoro di un adulto. Nes­
suno gli voleva parlare, inizialmente. n lavoro era così estenuante
che Huang Zhenyi pensava che non sarebbe sopravvissuto. Ogni
giorno, poi, doveva fare autocritica ad alta voce, in mezzo allo
scherno dei ragazzi del luogo. Durante una di queste "riunioni",
si sentì a un tratto intorpidito, come paralizzato. Voleva urlare a
tutti la verità, ma non riusciva a rompere il proprio silenzio. Nes­
suno gli avrebbe creduto, pensava Huang Zhenyi. Era stato pa­
ziente fino ad allora; avrebbe tollerato l'impossibile, dato che non
c'era altra via di scampo. Alla fine, dopo un anno di duro lavoro,
un anno in cui spesso aveva pensato che non avrebbe più resistito
alla fatica e all'isolamento, i suoi compagni di lavoro lo elogiaro­
no per avere svolto il mestiere di un adulto e per avere sopportato
la sua punizione in silenzio. Furono loro a supplicare le autorità
locali affinché, alla luce del suo comportamento, gli fosse per­
messo di tornare a scuola. E così fu.
Alla fine Huang lasciò la sua comune e si trasferì in un villaggio
rurale di un'altra provincia, e portò a termine gli studi in un luogo
in cui la sua storia era sconosciuta. Diventò un grande lavoratore
e si associò al Partito Comunista, il che fu possibile in quanto gli
ufficiali locali di partito, a causa della confusione di quell'epoca,
non sapevano nulla del suo passato e stimavano molto i suoi tra­
scorsi di povero contadino. Non raccontò mai alla madre la sua
versione dell'accaduto. Quando lei fu sul punto di morire, egli
pensò di raccontarle tutta la verità, ma poi decise di non farlo.
"Avevo troppa paura di parlare, e poi pensavo che non sarebbe
servito a niente". La madre di Huang morì ignara dell'innocenza
del figlio, e questo è un punto su cui egli torna di continuo, attri-

211
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

buendo a questo fatto le ragioni dei suoi attuali sentimenti di di­


sperata vergogna e di odio per se stesso.
Guardando indietro, Huang si sente depresso e disperato. Ser­
ba grande rabbia nei confronti dei tre poliziotti e del suo compa­
gno, che non aveva ammesso, davanti a quelli che lo interrogava­
no, che lui gli aveva detto di avere trovato, e non scritto, il cartello
antimaoista. Egli sente bruciare dentro di sé un forte senso di in­
giustizia, una sensazione che associa al bruciore nella testa, alle
vertigini e alla spossatezza. È terrorizzato che qualcuno, nel parti­
to, possa venire a sapere del suo passato ed espellerlo.
Huang crede che non si riprenderà mai da tutto ciò. "Ha con­
dizionato il mio carattere. Sono introverso; non mi piace dare
troppo confidenza. Sono un codardo, non sono capace di fidar­
mi degli altri". Vede la sua sola opportunità di riscatto nel rende­
re noto agli altri la propria esperienza scrivendo un racconto
anonimo a sfondo autobiografico che rappresenti "le perdite e la
sconfitta" che la sua generazione ha vissuto. "Siamo una genera­
zione perduta che, come me, ha sofferto tanto" . Ma dubita di
riuscire a raggiungere il suo scopo. Non ha alcuna formazione o
inclinazione naturale per la scrittura. Inoltre ha effettivamente
paura che altri possano venire a sapere del suo passato. Si sente
in trappola. Ogni volta che prende in mano la penna per raccon­
tare la sua storia, viene sopraffatto da un senso di sconfitta per­
sonale che lo rende apatico, da vertigini e da un senso di inuti­
lità. Perciò i disturbi fisici di Huang sono amplificati (forse addi­
rittura creati) dalla letterale assimilazione della sua cronica fru­
strazione, della sua incapacità di agire - se usiamo la sua espres­
sione, "paralisi" della volontà, non dei muscoli - e dell'insop­
portabile senso di "ingiustizia" e di vergogna che non può espri­
mere pubblicamente (se non attraverso la nevrastenia che gli ar­
reca sofferenza) né sfogare privatamente.
TI fatto che Huang Zhenyi assimili la sua sconfitta durante la
Rivoluzione Culturale a quelle della sua generazione, significa
che c'è consapevolezza, in Cina, del fatto che questo evento stori­
co ha profondamente condizionato la vita di intere generazioni di
cinesi, in questo caso di adolescenti. A differenza di altri soggetti
che ho intervistato per poter capire il rapporto tra nevrastenia e
oppressione politica, le sconfitte di Huang, durante quei tempi
terribili, non furono legate alla perdita fisica di membri stretti

2 12
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

della sua famiglia (sua madre infatti morì dopo la Rivoluzione


Culturale). Huang parla della perdita di autostima, di fiducia in
se stesso, ha perso il proprio diritto a una normale crescita perso­
nale, ha perso un rapporto normale coi membri della famiglia, e
anche la speranza nel futuro e in quello della sua società.
Senza dubbio esistono parallelismi tra la Cina precomunista e
altre società, inclusi gli Stati Uniti. Non stiamo cercando di dire
che quello che è successo ai cinesi nel periodo della Rivoluzione
Culturale non abbia precedenti o non sia paragonabile alle origini
soèiali della miseria in altre società. È anche vero, però, che inten­
diamo estendere il disagio di Huang a un'intera generazione. La
sua demoralizzazione e la sua angoscia sono forse (e probabilmen­
te è così) maggiori di quelle di altri, a causa della sua personale
vulnerabilità e della portata della crisi che ha vissuto. Ha sviluppa­
to un disturbo, cosa che non è accaduta alla maggior parte degli
altri individui. Eppure è proprio perché il disturbo di Huang rive­
la la ferita interiore causata dalla Rivoluzione Culturale che pos·
siamo sospettare che questo tipo di lesione psicologica sia assai
diffusa tra i membri della sua generazione. Nella nostra opinione,
essa rappresenta gli effetti personali di una crisi di delegittimazio­
ne che investe la società tutta; una perdita di impegno rispetto al­
l'o�dine morale dominante. Per la maggior parte dei membri di
quella generazione è difficile che gli effetti psicologici della Rivo­
luzione Culturale abbiano portato alla disperazione provata da
Huang. Non sappiamo con quale intensità e in che modo il disa­
gio li abbia afflitti. Siamo però sicuri che essa ha lasciato il mar­
chio e che quel marchio assomiglia più a una ferita che a una mac­
chia. Chi governa attualmente in Cina sembra aver rimosso questa
"generazione perduta", concentrandosi invece sulla nuova gene­
razione di studenti, dai quali ci si aspetta una preparazione miglio­
re, dal punto di vista educativo e psicologico, in grado di cogliere
le opportunità offerte dallo sviluppo tecnologico ed economico (il
cosiddetto "Capitalismo con caratteristiche cinesi").

Il primo autore di questo saggio ha pubblicato la storia di


Huang Zhenyi, compresi i commenti, nel 1986. Scrivendo, nel
settembre del 1989, sembra strano leggere le ultime parole. Con
il massacro di Tiananmen e la repressione che ne è conseguita, il
governo cinese sembra ripetere il passato nel creare una seconda

2 13
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

"generazione perduta". C'è infatti una popolare delegittimazione


culturale del Partito e dello Stato, in tutto e per tutto, diffusa e
profondamente sentita proprio come avvenne alla fine della Ri­
voluzione Culturale. Ci si può solo domandare cosa sia successo
all'uomo cui ho dato lo pseudonimo di Huang Zhenyi; o quanti
altri Huang Zhenyi sorgeranno dalle ceneri dell'ultimo movi­
mento democratico. Di fronte a un'oppressione tanto efferata ci
dovremmo forse sorprendere del fatto che gli idiomi corporei del
disagio siano un luogo comune, che la nevrastenia risulti ancora
in aumento?
Uno studente di cultura cinese avrà poche difficoltà a interpre­
tare questo, seppur breve, resoconto di malattia alla luce delle ge­
nerali configurazioni culturali cinesi. Uno dei disturbi maggiori di
Huang Zhenyi, le vertigini o lo squilibrio, tou yun, richiama una
metafora fondamentale della medicina tradizionale cinese, quella
dell'equilibrio, dell'armonia tra macrocosmo e microcosmo, tra le
parti del body/self e il mondo sociale. La disarmonia di Huang
Zhenyi sta nella circolazione, nella quantità e nelle forme del suo
qi (energia vitale), e nelle sue esperienze passate; esse, a loro volta,
disarmonizzano le sue emozioni e creano la malattia. La spossatez­
za e il dolore possono essere analizzati nello stesso modo. Uno stu­
dente di cultura cinese potrebbe seguire questa linea di analisi
emica per interpretare i disturbi fisici di Huang Zhenyi come un
idioma somato-psichico di disagio, che esprime gli effetti psicoso­
ciali di problemi politici in una retorica collettiva politicamente
accettabile e culturalmente approvata del disturbo. In verità, si
potrebbe (e uno di noi l'ha fatto) scrivere un libro intero sul rap­
porto tra nevrastenia e depressione in Cina e la sua mediazione at­
traverso l'esperienza corporea culturalmente plasmata tra pazienti
i cui disturbi assomigliano a quelli di Huang Zhenyi.
Eppure la storia di Huang Zhenyi racchiude molto più di una
semiotica culturale dei sintomi e della malattia (cosa che certa­
mente non intendiamo sottovalutare), al punto che faremmo tor­
to alla sua vicenda - sminuendone la profonda miseria - se ci fer­
massimo a questo livello di analisi. Se ci arrestassimo a questo
punto, trasformeremmo Huang Zhenyi in un oggetto passivo,
una caricatura, che non rispecchia la tragica vicenda che ci ha rac­
contato e il significato morale che essa ha avuto per lui e che vole­
va traessimo dal nostro incontro per trasmetterla altrove. La stes-

2 14
LA SOFFERENZA E LA SUA 1RASFORMAZIONE PROFESSIONALE

sa inautenticità risulterebbe se interpretassimo questa storia


esclusivamente in termini psicodinamici o addirittura in termini
meramente politici. Certo ci sono delle componenti in essa pre­
senti, ma, come l'esperienza di malattia, sono soltanto aspetti di
una complessa narrazione di sofferenza, la cui autenticità umana
sta nella concentrazione di molteplici significati divergenti. Ciò
che è maggiormente in gioco per Huang Zhenyi - l'ingiustizia sto­
rica, l'ostinato senso di vergogna, il desiderio frustrato di espri­
mere il risentimento, di riparare a un terribile torto e il bisogno
pratico di proteggersi dall'ingranaggio dell'oppressione - contava
solo in parte per gli psichiatri cinesi che hanno ascoltato la sua
storia, e in fondo non era affatto importante neanche per noi. Tut­
tavia capire cosa era in gioco in questo incontro, siamo ora con­
vinti, ci dice qualcosa di maggiormente valido sull'effettiva espe­
rienza di sofferenza di Huang Zhenyi rispetto a interpretazioni
che tendono a tenere distinti i livelli culturale, politico e psicodi­
namico.

lA SOFFERENZA NEllA CULTURA CINESE:


I LIMI11 DI UN'ANAIJSI CULTURALE

Prendiamo, per esempio, un articolo recentemente pubblicato


in Éthos, la rivista della Società di antropologia psicologica [del­
l' American Anthropological Association], scritto da Sulamith
Heins Fotter ( 1988), un'antropologa di Berkeley che ha condotto
ricerche sul campo in Cina. In quell'articolo, Fotter porta il pro­
prio contributo a una letteratura in crescita che cerca di distin­
guere le culture non-occidentali da quelle del Nordamerica e del­
l'Europa occidentale, enfatizzando il fatto che, mentre le società
occidentali sono centrate sull'individuo, quelle non-occidentali
sono sociocentriche. Questa dicotomia sembra essere uno degli
orientamenti fondamentali dell'antropologia psicologica con­
temporanea.
La tesi di Fotter sui cinesi è che, in base alla sua ricerca sul
campo, in particolare nelle campagne, i cinesi valutino le emozio­
ni come irrilevanti idiosincrasie che non comportano implicazio­
ni importanti per le relazioni sociali. I cinesi, afferma, non situa­
no il significato nella connessione tra emozioni, sé e ordine socia-

2 15
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

le. Per loro le emozioni sono un "fenomeno naturale", privo di


un significato simbolico importante per il mantenimento e la ri­
produzione della società. L'esperienza emotiva e l'espressione del
sentimento rion hanno conseguenze sociali formali. La sofferen­
za, afferma, non è intesa dai cinesi come una personale esperien­
za interiore. Né, estendendo la sua tesi, l'esperienza personale o
l'espressione della sofferenza avrebbero un significato sociale
nella società Cinese. Piuttosto, l'angoscia, il risentimento, l'in­
quietante sensazione di minaccia, la pungente demoralizzazione,
la disperazione senza speranza o la violenta alienazione di una
persona cinese non hanno importanza intrinseca per l'ordine so­
ciale. I sentimenti non sono mai la base logica che legittima un'a­
zione socialmente significativa intrapresa dai cinesi, insiste la
Fotter. Gli americani, ovviamente, sono descritti come l'opposto
assoluto di questa estremizzazione. Per noi, le emozioni sono tut­
to. Esse sono "la base legittimante che stabilisce una relazione tra
una persona e un contesto sociale". L'azione sociale, per noi, è
stimolata dai sentimenti, così come la forma e il significato delle
nostre vite deriva direttamente dalle nostre emozioni.
Ritroviamo qui l'equazione contenuta in Ort'entalt's mo di
Edward Said (1978), anche se con un'inversione di valore che
ora favorisce i colonizzati di un tempo. L' " altro" culturale è l'a­
lieno, opposto a ciò che noi riteniamo di essere. Ciò che non va
nel nostro mondo è perfetto nel loro. Ma per reali�zare questa
impresa interpretativa, le prove addotte devono: l) ritrarre ste­
reotipi omogenei, monodimensionali e non persone reali; 2) sva­
lutare le prove contrarie, che ovviamente abbondano nella cul­
tura cinese (come in quella americana) ; 3 ) tralasciare qualsivo­
glia qualità umana condivisa, che suggerisca l'esistenza di una
natura panumana nelle condizioni umane. L'esito della trasfor­
mazione della Fotter si avvicina pericolosamente a quello di cui
Said accusava gli orientalisti di perseguire: il restringimento del­
l'umanità dell'altro e, quindi, di noi stessi.
Per effettuare confronti del genere, non si evita di, anzi non st'
devono, enfatizzare le esperienze effettive di sofferenza o le narra­
zioni del dolore personale; esse sono infatti troppo potentemente
umane; i loro dettagli concreti - sempre originali e commoventi,
solitamente plurali e sufficientemente ambigui per poter essere
contestati - disintegrano le dicotomie astratte; imbrattano la

2 16
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

fredda prosa dell'analisi sociale con le lacrime amare del senti­


mento morale. Dopotutto non è che Huang Zhenyi sia più socio­
centrico della sua controparte nordamericana, ma il profondo
orientamento sociocentrico nei confronti del mondo è il mezzo
attraverso cui si esprime la sua individualità. O piuttosto, come
ha indicato Nan Lin ( 1988) in un penetrante saggio recentemente
pubblicato sulla famiglia cinese, i cinesi, come Huang Zhenyi, so­
no tanto membri sociocentrici dei propri gruppi familiari quanto
sono rigidi individualisti. Secondo Lin, differenti modelli di tra­
smissione dell'autorità morale e della proprietà, da una genera­
zione all'altra promuovono un orientamento divisivo del sé (vedi
anche Basu sulle differenti costruzioni del sé tra i cinesi).
Una teoria culturalmente valida delle dinamiche psicosociali
della società cinese dovrebbe abbandonare la semplicistica dico­
tomia sociocentrico/egocentrico e dovrebbe anche, secondo noi,
trovare inadeguato e deformante un buon numero di presupposti
comunemente accettati della psicoanalisi. Dovremmo piuttosto
iniziare con una ricostruzione storica delle categorie culturali ci­
nesi dell'esperienza e del coinvolgimento personale e interperso­
nale. L'emozione (quing o zhz'h) non è infatti rappresentata come
un fenomeno indipendente, separabile dal resto dell'esperienza.
La sezione Su Wen del Huang Di Nei Jing pre-Ching (Classz'co di
medicina interna dell'imperatore giallo) enuncia una teoria indi­
gena sui rapporti fra emozioni, salute e malattia. L'angoscia suici­
da, la tristezza che immobilizza, la passione maniacale e altri stati
emotivi estremi sono, ancora oggi, concepiti nella tradizione me­
dica cinese che guarda alle corrispondenze sistematiche, come
fattori eziologici che causano patologie organiche; così come so­
no segni di patologia sociale. Essi sono dunque patogeni, fattori
eziologici interni (nei yin) che creano disfunzioni organiche. Nel­
la medicina tradizionale cinese l'emozione non è un termine fe­
nomenologico generale. Ci sono invece sette entità con nomi spe­
cifici, i qiqing, sette tipi di reazioni emotive legate a specifiche si­
tuazioni, vale a dire la gioia (xi), la rabbia (nu) , la malinconia
(you) (tradotta anche con ansia, depressione), la preoccupazione
(si), l'angoscia (bei), la paura (kong), il terrore (jing). Esse, qualo­
ra siano eccessive, possono divenire fattori patologici. Per esem­
pio gioia, rabbia, malinconia eccessive, troppa preoccupazione,
eccessiva elucubrazione o paura, si dice influenzino la normale

2 17
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

circolazione di qi (energia vitale) e del sangue negli organi inter­


ni, causando così condizioni patologiche. In quest'ottica, il corpo
umano e i suoi cambiamenti in senso patologico sono in un conti­
nuo stato di adattamento alle variazioni dell'"ambiente natura­
le" . Questo è il concetto di tian ren xiangying - la natura e l'uomo
si adattano l'un l'altra - e qui la "natura" include le quattro sta­
gioni, l'ambiente fisico e sociale, la struttura fisica e i processi fi­
siologici dell'individuo stesso. Perciò, la patologia emotiva può
essere sia segno che causa della patologia sociale, e bilanciare le
emozioni significa armonizzare le relazioni sociali e viceversa. Le
vertigini o la mancanza di equilibrio sono segni di malattia. La
sofferenza condiziona e allo stesso tempo è condizionata dall'e­
quilibrio relazionale tra il body/self e il mondo naturale (in una
variegata civiltà come quella cinese, abbonda una pluralità di tra­
dizioni e potremmo certamente trovare alcune eccezioni a soste­
gno di un'altra interpretazione delle emozioni. Ma riteniamo che
questa sia la concezione predominante) .
Almeno a partire dal testo medico di Jing Yue a opera di
ZhangJiebin (17 10) fino agli scritti più recenti dei maggiori teori­
ci cinesi di psicopatologia, la concezione cinese prototipica delle
emozioni e dei disturbi emotivi ha riconosciuto diverse fonti e
conseguenze degli stati depressivi e ansiosi, conservando però
una concezione somatopsichica entro cui la linea causale che va
dall'ambiente alla persona risulterebbe mediata dal corpo. n cor­
po è anche riconosciuto come l'idioma fondamentale o il mezzo
attraverso cui si esprimono problemi psicologici, sociali e psico­
somatici.
Francis Hsu (1985) ha segnalato che l'a/fetta nella cultura ci­
nese è inteso nei termini di sentimenti specifici: amore, odio,
lealtà, simpatia, tradimento, aspirazione, disperazione e così via.
È inoltre inteso come inseparabile dall'espletamento di particola­
ri compiti in situazioni specifiche che fanno parte del ruolo socia­
le di una persona, dice sempre Hsu.
A Taiwan esiste un movimento animato da psicologi accade­
mici, sempre più numerosi, per "sinicizzare" la teoria e la meto­
dologia psicologiche. Una figura di spicco nel movimento di sini­
cizzazione è K.K. Hwang, professore di psicologia presso l'Uni­
versità nazionale di Taiwan. Ed è proprio lui a offrirei, nella no­
stra opinione, l'interpretazione concettualmente più soddisfa-

218
LA SOFFERENZA E LA SUA 1RASFORMAZIONE PROFESSIONALE

cente dell'emozione tra i cinesi. Hwang ( 1987) definisce renqing


(la risposta emotiva dell'individuo che si imbatte in diverse situa­
zioni concrete della vita quotidiana) il significato essenziale del­
l' emozione. Renqing è gioia, rabbia, afflizione, paura, amore,
odio e desiderio.9 Se una persona comprende le risposte emotive
di altre persone alle varie circostanze della vita e se è capace di ri­
spondere in modo empatico alle loro reazioni, allora si dice che
"conosce il renqing" . Le emozioni non hanno bisogno di essere
espresse apertamente. Una persona sensibile "conosce il tono"
(zhi yin). Per esempio, gli amici intimi sono "quelli che mi cono­
scono" (zhijizhe).
Perciò, l'emozione implica una risposta contestualizzata, una
risposta che uno percepisce o sente nell'esperire la particolarità
concreta delle situazioni vissute. La persona che conosce il ren­
qing, legge le risposte alle situazioni proprie e degli altri attraverso
la vista, l'olfatto, l'udito e gli altri sensi, tra cui anche una risonan­
za interna. Renqing è anche una risorsa che fa parte degli scambi
sociali. L'affetto viene scambiato così come accade per i beni e i
servizi. Ma a differenza del denaro, è difficile da calcolare. In
realtà, si dice che "non si riesce mai a pagare i debiti di renqing agli
altri" . E questo è il motivo per cui le relazioni sociali che implica­
no la costituzione di reti di influenza, così centrali nelle transazio­
ni della vita quotidiana cinese, si attivano a seconda che il renqing
sia celato, oppure offerto in dono. Perciò "leggere", "scambiare"
e "ripagare" il renqing (inteso qui come favore) costituisce ciò che
è in gioco nelle relazioni. Infine, sostiene Hwang, renqing è anche
un insieme di norme sociali cui bisogna tener fede per poter pro­
cedere in sintonia con gli altri nelle comunità cinesi. Hwang mette
in relazione renqing a mianzi (faccia), a la guanxi (creazione di reti
di relazione o connessione) e a bao da (contraccambio o recipro­
cità) come centrali modelli cinesi di esperienza. Renqing è sia so­
ciale che profondamente personale; esso cattura la qualità dialetti­
ca dell'esperienza; è individuale e interpersonale. Rappresenta il
nucleo morale dell'esperienza. La sociocentricità da sola è una ca­
tegoria inadeguata a interpretare cosa i cinesi intendano con emo­
zione; questo termine allude a qualcosa che è simultaneamente so­
ciocentrico e individualistico nell'unità dell'esperienza.

9. Vedi Li]i, il Libro dei Rituali: tutti gli uomini nascono con sette emozioni.

219
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

La questione metodologica è quella di come cogliere entrambi i


lati della dialettica. E qui c'è un grosso problema. A quanto ha mo­
strato il capofila del movimento per sinicizzare la psicologia, Yang
Kuo-shu (1987), anche lui professore all'Università nazionale di
Taiwan, la ricerca deve affrontare la tripartizione di tutte le relazio­
ni sociali tra i cinesi. n settore più vicino è occupato dalla famiglia e
dagli amici stretti. Qui la fiducia è incondizionata e si possono rive­
lare certi sentimenti privati. n secondo settore riguarda gli amici e i
membri più lontani della famiglia. Qui la fiducia è condizionata, i
sentimenti verranno espressi solo occasionalmente e sempre con
grande cautela. n settore più distante contiene le relazioni con gli
estranei, inclusi i ricercatori (cioè, estranei professionisti). Qui c'è
un'assoluta mancanza di fiducia e l'esperienza interiore non va
espressa per paura che venga utilizzata contro la famiglia e la rete
sociale di una persona. Una visione del mondo di questo tipo po­
trebbe condurre il ricercatore verso certe conclusioni (cioè, i cinesi
sono sociocentrici) e lontano da certe altre (cioè, i cinesi sono an­
che fortemente individualisti). 10
Tra le altre fonti indigene essenziali per una comprensione più
solida dell'esperienza, e perciò anche della sofferenza come espe­
rienza, troviamo il testo del terzo secolo Renwu Zhi (sulla perso­
nalità umana) di Liu Shao, che presenta una concezione politica e
transazionale del sé. La persona ideale deve essere mite; deve fon­
dersi con gli altri e con le situazioni " . . . come il sale. Che di per sé
non è salato. È una persona chiara, ma non sottile; solida, ma non
arrogante; attraente, ma non scontata . . . risoluta e prudente, non
c'è verso di sapere ciò di cui è capace. In questo modo sa regolarsi
e controllarsi" . Bilanciare emozione e situazione è essenziale nella
gestione delle relazioni sociali con gli altri. Dimostrare sentimenti
forti, tra cui minacce e stati di sofferenza angosciata, è pericoloso,
perché dà agli altri il potere sulle relazioni e restringe la versatilità
di una persona di reagire in maniera efficace. Da ultimo, le esibi-

10. J.C. Scott (1985; 1990) chiama "trascrizione occulta" quell'insieme di


idee che, essendo subordinate all'interno di un campo informato da ineguali re­
lazioni di potere, non possono essere espresse pubblicamente a causa delle san­
zioni che produrrebbero a opera dei sopra-ordinati. L'idea è vicina alla conce­
zione cinese, a parte per l'enfasi che Scott pone sul conflitto di classe. Nella ver­
sione cinese, la trascrizione occulta si esprime solo nel primo e nel secondo set­
tore. ll terzo, anche coi membri della stessa classe sociale o politica, contiene an­
cora una trascrizione pubblica.

220
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

zioni emotive incontrollate minacciano la posizione di una perso­


na nel mondo del potere. Equilibrio, mitezza, controllo fornisco­
no un accesso maggiore al potere e la proteggono dai suoi temuti
effetti: la perdita di risorse, dello status, se non della vita.
Per quanto riguarda la decostruzione dell'emozione tra i cine­
si portata avanti dalla Fotter, basta guardare ad alcune fonti clas­
siche per contestare la sua conclusione secondo cui le emozioni
nella società cinese siano irrilevanti nella legittimazione dell'ordi­
ne sociale.11 Qu Yuan (332-295 a.C.), eroe del Li Sao (Incontro al
dolore), è un esempio canonico di delegittimazione di un ordine
sociale ingiusto.12 La sua storia di dolore è quella delle peregrina­
zioni di un onesto ufficiale bandito da una corte corrotta, un soli­
tario individualista. n poema è una meditazione profondamente
commovente sulla sua pena. La ossessionante tristezza della poe­
sia diviene l'idioma di un'accusa morale. n suicidio di Qu Yuan è
l'atto estremo di delegittimazione dell'ordine sociale; un modello
morale paradigmatico per i cinesi, ricordato ogni anno durante la
Festa delle barche drago, nel quinto giorno del quinto mese luna­
re; e si concretizza nel rito di mangiare zongzi (riso di glutine con
carne avvolti in foglie), sia da parte dei partecipanti alla festa, sia,
dopo che si sono gettati nell'acqua, dallo spirito di Qu Yuan (for­
se allora Huang Zhenyi, che veniva dalla patria di Qu Yuan, ave­
va in mente il lamento di Qu come modello per il suo canto di
sofferenza personale e ingiustizia politica?).
Dall'epoca pre-Qin o le canzoni o le odi della terra, definite
shi yan zhi ( "emozione verbalizzata") furono raccolte per regi­
strare, come in una sorta di antico sondaggio, se il regno era ben

1 1 . Certamente la storia delle vittime e dei sopravvissuti del massacro di Tia­


nanrnen e l'attuale periodo di repressione del movimento democratico costitui­
rebbero un ulteriore appiglio, assai evocativo, per criticare la tesi della Potter
secondo cui le emozioni nella società cinese sono irrilevanti per la legittimazio­
ne dell'ordine sociale. L'angoscia e la rabbia dei cinesi oltreoceano e degli stu­
denti della Repubblica cinese in Occidente sono stati enfatizzati come segni di
un'avversione morale per il governo attuale, e come un'autorizzazione a oppor­
re resistenza ai leader attuali e al comunismo più in generale. Nel movimento
democratico, l'emozione era centrale negli scioperi della fame e nella resistenza
alle truppe spedite a Pechino. In entrambi i casi, il suo significato di autorizza­
zione morale a resistere, fu ampiamente compreso da tutti.
12. Questa è una delle ragioni per cui Mao Zedong, che veniva dalla stessa
regione della Cina, l'area dell'antico regno di Chu, considerava Qu Yuan uno
dei suoi eroi culturali.

22 1
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

amministrato. Queste canzoni non erano pensate solo come l'e­


mergere e il profondersi di sentimenti personali; piuttosto si pen­
sava che le canzoni derivassero dall'ethos sociale. La gioia, la tri­
stezza e l'insoddisfazione, come si comunica nelle odi, si credeva
esprimessero le condizioni tangibili dell'ordine politico e che
commentassero il clima morale dei tempi. Confucio lo indica ab­
bastanza chiaramente nella Grande Prefazione al Libro delle
Odi, lo Shi ]ing.

. . . in un'epoca di ordine [le odi sono] serene, quasi gioiose; il gover­


no è allora in armonia.
. . . in un'epoca di disordine [le odi sono] piene di risentimento,
esprimono rabbia; il governo è allora in disarmonia.
. . . quando uno Stato sta cadendo in rovina [le odi sono] dolenti,
esprimono un pensiero [riflessivo]; la gente allora è in pena.

Classicamente, la poesia cinese ha esplorato esperienze intense


di vita, come la sopportazione della sofferenza, per la loro profon­
da qualità emotiva e il loro significato universale. Scrivere una
poesia di questo tipo era di per sé un modo di testimoniare e di
protestare contro i propri tempi. Ecco ora la versione di Arthur
Waley (1919, p. 75) del classico del terzo secolo di Zuo Si, Lo stu­
dioso nella strada stretta, una critica agli intellettuali ufficiali, attra­
verso la rappresentazione della sofferenza, sua e del su;o tempo (il
sentimento morale che ne emerge sembra appropriato tanto agli
intellettuali cinesi contemporanei quanto a quelli del passato).13

Flap, flap, l'uccello imprigionato nella gabbia


Batte le ali contro i quattro angoli.
Depresso, è depresso lo studioso nella strada stretta:
Abbraccia un'ombra, indugia in una casa vuota.
Quando esce, non può andare in nessun luogo:
sterpi e rovi sul suo cammino.
Scrive un memoriale, rifiutato, non letto,
È lasciato, abbandonato, come un pesce in una pozza asciutta.
Al di fuori - non ha un soldo, uno stipendio:
All'interno - non c'è un sacco di grano nella sua dispensa.
Le sue relazioni l'hanno rimproverato perché non ha avuto successo:
I suoi amici e conoscenti sono calati ogni giorno di numero.

13. Si confronti il resoconto di Liu Binyan (1990) sulla vita di un intellettua­


le sotto il comunismo cinese.

222
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

Su Ch'in andava a pregare a Nord,


e Li Ssu mandò un memorandum a Ovest.
Una volta io speravo di cogliere i frutti della vita:
Ma ora anch'essi sono seccati e avvizziti.
Anche se uno bevesse un fiume, non si può bere fino a scoppiare;
Abbastanza va bene, ma la sazietà non serve.
L'uccello nella foresta si può posare su un ramo,
E questo dovrebbe essere il modello dell'uomo saggio.*

La tradizione di utilizzare la risposta emotiva dei lettori o di un


pubblico per accusare il sistema del potere politico arriva fino ai
tempi moderni attraverso gli scritti di Lu Xun, Laoshe, Ba Jin e
molti altri autori cinesi. La vergogna, la minaccia, le perdita, l'an­
goscia e altre espressioni emotive di sofferenza sono simboli cen­
trali nella letteratura della Cina rivoluzionaria. Per Lu Xun ( 1963),
il più influente di tutti gli scrittori cinesi del Novecento, la soffe­
renza delle persone comuni, presentata in diretto riferimento alle
radici sociali del loro dolore e della loro desolazione, rappresenta­
va la delegittimazione morale dell'autorità politica e di quella cul­
turale. Nei teatri rivoluzionari allestiti durante gli anni della guerra
civile dai rappresentanti locali del CCP per gli abitanti del villaggio,
la loro risposta emotiva ai ricordi della sofferenza patita sotto il do­
minio dei crudeli proprietari terrieri veniva usata per approvare le
riforme agrarie e la distruzione del loro nemico di classe. Le cam­
pagne del Grande Balzo in Avanti, il Movimento contro la Destra e
la Rivoluzione Culturale ricostruivano questa durezza dell'espe­
rienza nei termini di una trasformazione dall'"ingoiare amarezza"
(cioè sopprimere il risentimento e il dolore) all'esprimerla pubbli­
camente, spesso nelle forme più estreme, contro coloro che erano
designati, a quel tempo, come nemici del popolo.
L'uccisione dei proprietari terrieri, la degradazione rituale de­
gli intellettuali, l'espulsione dei leader del partito, la cancellazio­
ne di memorie politiche alternative - tutto questo fu approvato
attraverso l'evocazione di una reazione emotiva intensa all'espe­
rienza di sofferenza. La letteratura delle vittime della Rivoluzione
Culturale, a cui appartiene la storia di Huang Zhenyi, è un altro
esempio degli impieghi politici del sentimento pubblico per la
delegittimazione di quell'evento storico.

* La traduzione è mia. [NdTJ

223
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

In Social Origins o/ Dz'stress and Disease, il primo autore di


questo saggio descrive i casi di alcuni individui il cui disagio e la
cui malattia sono stati il risultato degli eccessi della rivoluzione.
Le storie di sofferenza che essi ci hanno raccontato, e che hanno
raccontato ad altri, erano tese perlopiù a esprimere il dolore e la
disperazione nei termini di un commentario morale sulle cause
della loro tragedia. La loro idea era quella che abbiamo già de­
scritto: politiche sociali rovinose in ultima analisi distruggono la
vita personale, e alla luce di tutto ciò la tragedia che li perseguita
ancora oggi rappresenta il più efficace commento politico su quei
tempi; è proprio perché quel racconto è vissuto e fortemente sen­
tito, che ha un'autorità morale. Quelle storie ci furono raccontate
come una testimonianza morale della Rivoluzione Culturale: l'a­
marezza personale e la sconfitta pronunciavano una sentenza di
condanna.
Interpretare questi problemi esclusivamente in termini di pa­
tologia, per via degli idiomi corporei che spesso li accompagna­
no, vuol dire medicalizzare (e quindi banalizzare e deformare) il
loro significato. L'idea del disturbo post-traumatico da stress nel­
la psichiatria nordamericana, che viene sempre più frequente­
mente applicato alla vittime di traumi politici, come i profughi
cambogiani o salvadoregni, è l'ultimo esempio di questa trasfor­
mazione inopportuna dei significati morali della soff�renza in si­
gnificati medici (vedi Young, 1990). In tal modo le cònseguenze
intimamente fisiologiche della violenza politica sono trasformate
in un eufemismo medico anonimo. Così facendo, il loro significa­
to morale è indebolito o addirittura del tutto negato.
Pensiamo a cosa può significare "tensione nervosa" [stress] per
un anziano cinese in opposizione a un suo coetaneo nordamerica­
no. li primo ha vissuto il crollo dell'ordine sociale negli anni Venti
e Trenta, quando le conseguenze della sua disintegrazione e le epi­
demie dominavano l'esperienza personale. Quale sarebbe l'equi­
valente, in Nordamerica, dello "stress" della guerra antigiappone­
se in cui morirono venti milioni di persone e 180 milioni vennero
sradicate dalla propria terra? Durante i primi otto anni della Re­
pubblica popolare, Mao Zedong ammise che 800.000 controrivo­
luzionari erano stati uccisi. Ciò che è avvenuto in seguito al Movi­
mento democratico del 1989 ci ha insegnato cosa vuol dire con­
trorivoluzionario ! A partire dal 1960-1962, in seguito alla politica

224
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

disastrosa del Grande Balzo in Avanti, la Cina ha sperimentato


forse la più grande carestia mortale causata dall'uomo nella storia:
almeno sedici milioni, e forse qualcosa come 30 milioni di perso­
ne, morirono di fame. E molto altro ci sarebbe da dire. La stessa
idea di stress post-traumatico come disturbo toglie valore al signi­
ficato morale e politico della sofferenza. Dopotutto, sia nelle cul­
tura cinese che in quella occidentale, la sofferenza suscita l'idea di
dover tollerare o sopportare un grande fardello. L'idea della soffe­
renza porta con sé il significato morale di sopportazione, ma evo­
ca anche l'immagine della trascendenza, tanto nelle accezioni del
buddismo quanto in quelle del cristianesimo. Tali connotazioni
teologiche vanno perdute quando viene configurata come uno
stress che affrontiamo (in modo più o meno adeguato) o come una
patologia "curabile". L'analisi della pratica delle professioni nella
società moderna svolta da Foucault, mette in luce come la risposta
degli esperti alle tensioni nervose e alla patologia - e con esperti si
intende coloro che definiscono la razionalità come un'autodesi­
gnazione di quello che pensano, e che vedono la sofferenza priva
di significato teleologico, e dunque come una mera opportunità di
intervento tecnico - diventi una risorsa importante, forse la più
importante, di controllo sociale, proprio per questa ragione.
Basterebbe solo leggere la recente analisi culturale di Susan
Sontag (1989) sull'AIDS e le sue metafore nella nostra società per
vedere che all'altro capo della nostra comparazione - la sofferenza
negli USA - dovremmo forgiare una cornice analitica indigena
egualmente ricca e complessa, per riuscire a cogliere l'elaborazio­
ne culturale dell'esperienza personale in Nordamerica, una so­
cietà in cui sopportare o tollerare le difficoltà, per la maggior parte
dei suoi membri, sembra andare contro l'immagine secolare or­
mai dominante di un mondo senza dolore e senza sofferenza. 14
Idee quali quella di responsabilità personale per la sofferenza, di
un cont�gio nascosto che trasforma silenziosamente i codici gene­
tici in cancro o AIDS e che, quindi, minaccia tanto il mito del con-

14. Si confronti il sardonico riassunto fatto da Philippe Ariès (1977, p. 731)


dd significato della morte nd moderno mondo occidentale per i tanatologi pro­
fessionisti: "Una piccola élite di antropologi, psicologi e sociologi si propone
sempre di riconciliare la morte con la felicità. La morte deve solo trasformarsi
nell'uscita discreta ma dignitosa di un tranquillo vivente da una società soccor­
revole; una società non più straziata, né troppo sconvolta, dall'idea di un trapas­
so biologico privo di significato, di pena, di sofferenza, e infine di angoscia".

225
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

trollo tecnologico che giace al cuore della nostra società quanto la


nostra tendenza a vedere come prevedibili e, dunque, come rischi
assicurabili, gli eventi delle tribolazioni umane, la rimozione della
morte dalla nostra reazione all'AIDS, come pure il desiderio total­
mente americano della Sontag di rimuovere i significati che l'AIDS
infligge ai malati - sono tutti esempi del significato della sofferen­
za tra i nordamericani che possiamo solo citare di sfuggita. Essi
mostrano delle ovvie differenze con il nostro materiale cinese, ma
anche qualche sorprendente somiglianza (Kleinman, 1988).15
E allora? Potendo disporre di differenti comici analitiche e dif­
ferenti resoconti di sofferenza, cosa ne possiamo fare? Se ci atte­
niamo ai testi, potremmo essere tentati di arrenderci di fronte a
una loro radicale intraducibilità. Ma non è necessario farlo, cre­
diamo, se rimaniamo vicini al contesto etnografico dell'esperien­
za.16 In virtù del fatto che, riteniamo, esista qualche cosa di pan­
umano nell'esperienza del disagio della persona, nel sopportare le
ferite, nei limiti imposti allo spirito umano, nel soffocamento e nel
dolore di una profonda perdita, nella sopportazione incarnata di
enormi fardelli, nella ricerca di una coerenza e di una trascenden­
za. C'è qualcosa di decisamente umano nel nucleo profondo del­
l' esperienza, che certamente è elaborato in modi molto differenti
a seconda dei contesti culturali, ma che si rivelerebbe universale in
ultima analisi, alla luce della finale fase di traduzione comparativa
dell'analisi culturale, a patto di concentrare le descrizioni etnogra­
fiche in modo più autocosciente sull'esperienza e le sue forme. La
traduzione, in altre parole, per dirla con Stanley Tambiah (1990),
non è il primo, bensì l'ultimo livello dell'analisi culturale. Non il
primo passo, come avviene fin troppo spesso in psichiatria e in
psicologia, perché così perdiamo il radicamento culturale dell'e­
sperienza. Ma alla fine deve essere fatto - perché se non riuscissi-

15. Si confronti Dreuilhe (1988), o altri resoconti personali di malati di aids,


per vedere come l'analisi culturale della Sontag tralasci, e di proposito, come
scrive nell'Introduzione, proprio quell'esperienza vissuta di sofferenza che noi,
invece, riteniamo sia il centro dell'etnografia della sofferenza.
16. Tra le recenti etnografie di questo genere, ricordiamo lo studio di Ellen
Basu (manoscritto) dell'esperienza percepita da un mercante cinese in India
delle conflittuali modalità commerciali e familiari di interazione; la descrizione
di Michael Jackson (1989) del flusso intersoggettivo dell'esperienza di attività
quotidiane in una società tribale della Sierra Leone; e il tentativo di Steven Feld
(1981) di restituire la percezione del lutto attraverso diversi domini sensoriali
tra i Kaluli della Nuova Guinea.

226
LA SOFFERENZA E LA SUA 1RASFORMAZIONE PROFESSIONALE

mo a stabilire dei paralleli, non saremmo solamente bloccati in


uno stato di solipsismo culturale, ma pagheremmo il prezzo di
una profonda in-umanità: un di meno nelle basi morali dell'espe­
rienza umana.

CONCLUSIONE

Quindi, proprio come la biomedicina delegittima la sofferenza


presente nella somatizzazione entificandola come patologia, così
pure le altre professioni e istituzioni della società postmoderna
(tra cui sempre più spesso anche l'antropologia medica e della
psicologia) trasformano la somatizzazione in qualcosa di diverso
dall'esperienza umana. Gli scritti di Taussig (1987) sono secondo
noi tra gli esempi più preoccupanti di violenza fatta all' autenti­
cità del flusso dell'esperienza vissuta. Essi minano lo stato di sof­
ferenza come legittimo dominio morale; ma non solo. 17 Noi,

17. Ci riferiamo all'interpretazione tendenziosa di Taussig dello sciamanesi­


mo degli indiani colonizzati in Colombia esclusivamente come resistenza politi­
ca, e la sua denigrazione tanto delle sofferenze personali quanto del disagio che i
malati portano agli sciamani e che gli sciamani tentano di curare, nonché alle ri­
sposte pratiche date dal sistema sanitario pubblico per controllare i disturbi di
diarrea come causa dell'alto tasso di mortalità infantile che affligge le famiglie
indiane. Per approfondire la critica avanzata alle interpretazioni della malattia
come resistenza, vedi Das ( 1995) e Kleinman ( 1992). L'impiego, da parte di
Taussig, della fantasia e dell'illusione di un montaggio allucinogeno, consente
delle straordinarie escursioni letterarie; oscura però ciò che è davvero in gioco
nei mondi locali. La sua sperimentazione radicalmente autoesperienziale, ben­
ché innovativa, distorce l'autenticità dei mondi degli altri; inverte inoltre la le­
gittimità dei loro resoconti locali in nome della priorità di un'analisi totalizzante
di un'ideologia egemonica, che è la sua propria fonte di autorità. Questa inver­
sione politica crea quello che Scott (1985, pp. 346-350), seguendo Barrington
Moore (1978, p. 459), rifiuta come un falso senso di inevitabilità nel discorso
sull'egemonia che "non riesce minimamente a cogliere la conformazione dell'e­
sperienza locale". Come dice Scott: [ . . ] vedere le cause del disagio invece che
" .

come personali, come cattive, come il fallimento di persone, individuabili nella


comunità, a comportarsi in maniera conveniente, potrebbe forse essere una vi­
sione parziale, eppure non è sbagliata. E, non per caso, è con molte probabilità
l'unica visione che potrebbe, e in effetti lo fa, servire come base per una resi­
stenza quotidiana" (p. 348).
L'esperimento di Taussig con una forma di scrittura finalizzata a sfidare l'au­
torità dell'autore nel descrivere la realtà dei mondi altri è in ogni caso un contri­
buto di non poca importanza. n genere e lo stile della scrittura sono chiaramente
cruciali per l'etnografia dell'esperienza interpersonale, e possono tanto chiarire
quanto oscurare le condizioni umane. Eppure, la prosa tormentata del postmo- ,

227
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

ognuno di noi, miniamo l'umanità dei nostri compagni che sof­


frono ogni volta che non ascoltiamo la loro voce, la loro esperien­
za. li lavoro di Nations e Rebhun ( 1988) sulle risposte delle madri
sopraffatte dalla povertà, nelle /avela del Brasile nordorientale,
agli alti tassi di mortalità tra i loro figli, come pure la descrizione,
fatta da Veena Das (1995), delle esperienze dei sopravvissuti del­
la violenza interetnica e del disastro di Bhopal, sono contributi
esemplari di un'antropologia della sofferenza proprio perché pri­
vilegiano l'esperienza di coloro che soffrono a tal punto che sem­
plicemente non è più possibile non fare caso a, o nascondere, la
loro pena, e negare le conseguenze sulla nostra comprensione
dell'esperienza degli ordini morali, dietro alle categorie distan­
zianti della sanità pubblica o dell'antropologia.
Prima abbiamo contestato che la professionalizzazione di pro­
blemi umani, nei termini di disturbi psichiatrici o attraverso crip­
tici codici antropologici nei termini di lotta di classe, porti chi sof­
fre (e le loro comunità) a perdere quel mondo rappresentato dal
contesto locale che organizza l'esperienza attraverso la risonanza
morale e il rafforzamento di categorie culturali popolari in merito
al significato della vita e a ciò che nella vita è in gioco. Ci siamo
spinti molto avanti in questo processo di inautenticazione dei
mondi morali locali, in cui rendiamo illegittime le sconfitte e le vit­
torie, la disperazione e l'aspirazione degli individui e dei gruppi
che potrebbero essere concepiti in modo forse più umano, non
come rappresentazioni di una qualche altra realtà (su cui noi, in
quanto esperti, possediamo un potere speciale), bensì come l'evo­
cazione di un'esperienza prossima che rappresenta se stessa. 18

dernismo si dimostra corrosiva per la voce del soggetto, come anche per quella
dell'autore, così che l'esperimento incrinato di Taussig, alla fine, non fa altro che
sostituire un abuso linguistico con un altro. Ciononostante, dirigendo l'attenzio­
ne verso il linguaggio dell'etnografia, Taussig solleva una questione utile rispetto
alle parole e allo stile più indicati per rappresentare il flusso dei mondi interper­
sonali. Forse, uno dei vantaggi dell'etnografia dell'esperienza è quello di sfidare
l'etnografo a ricercare una voce autentica, capace di coniugarsi tanto con le esi­
genze accademiche quanto con quelle etiche del suo soggetto di studio.
18. Quanto alla enormità dell'abuso, la trasfigurazione dell'esperienza attra·
verso una retorica psichiatrica o antropologica è grave, ma certo non pericolosa
come, per esempio, l'idea ottocentesca di degenerazione e la sua riapparizione
novecentesca nell'eugenetica omicida dd nazismo (Pick, 1989). Sarebbe un ter­
ribile errore intellettuale quello di esagerare la prima forma di abuso cui abbia­
mo fatto riferimento. Anche oggi la nuova eugenetica ci colpisce come il discor­
so più pericoloso rispetto a un potenziale abuso politico. Nondimeno, la trasfi-

228
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

Viviamo immersi nel flusso dell'esperienza quotidiana: siamo


forme intersoggettive di memoria e di azione. Le nostre esperien­
ze sono così completamente integrate - momenti narrati, narra­
zioni in trasformazione - che il sé si costituisce a partire dai pro­
cessi viscerali e trova in essi la propria espressione. Dal momento
che l'ordine di tale flusso è storico e culturale, quello che provia­
mo, vediamo e richiamiamo alla mente è una fisiologia attiva dal
punto di vista simbolico. Per via della costruzione sociale del
flusso di esperienza, i processi psicosomatici sono trasmettitori e
ricettori di codici culturali. Per via della fondazione psicofisiolo­
gica dell'esperienza, i codici culturali non sono totalmente auto­
nomi nell'influenza che esercitano su di noi. C'è anche un vincolo
pan-umano alle continuità e alle trasformazioni che rappresenta­
no le nostre esistenze e le nostre reti, derivate dal numero limitato
di modalità sociali di essere umani. Per via dell'economia politica
dell'esperienza, questo vincolo pan-umano è di per sé ritorto e ri­
girato dai contesti locali di pressione che incoraggiano o oppri­
mono le nostre aspirazioni, che ci sconfiggono, ci difendono, che
in poche parole sono noi.
Ci può essere una società priva di tristezza? Ci può essere una
cultura priva di minacce? Forse che il flusso dell'esperienza, indi­
pendentemente da quanto fantasticamente diversa possa essere
la sua elaborazione culturale della perdita, o da quanto serena,
ottimistica o banale possa essere la sua configurazione storica di
quello che va sopportato, può eludere la sofferenza?
Non vorremmo però essere fraintesi. Non stiamo dicendo che
l'antropologia o la psichiatria forniscono una conoscenza non va­
lida. Lungi da noi. Crediamo che questi due campi abbiano am­
piamente arricchito la nostra comprensione delle origini e delle
conseguenze sociali e psicologiche della malattia, come anche
delle potenti influenze del contesto sociale e dell'orientamento
psicologico sulle forme e i procedimenti di cura. Anche quando
si tratta dell'esperienza della sofferenza, entrambi i campi hanno
aperto la porta a importanti indirizzi di indagine. E tuttavia, il
materiale necessario a capire la sofferenza è di ordine talmente

gurazione della sofferenza - quello che Latour (1988, pp. 1 1 6-129) potrebbe
chiamare la pastorizzazione della sofferenza a opera del riduzionismo biomedi­
co - è ancora un esempio significativo delle conseguenze de-umanizzanti del di­
scorso professionale contemporaneo.

229
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

diversificato che, riteniamo, la ricerca debba affrontare diretta­


mente il dominio esperienziale che prima d'ora, con l'eccezione
forse del lavoro dei fenomenologi (con gli inevitabili limiti che
comporta), è stato il terreno dell'arte.19 Come poi la scienza socia­
le e comportamentale possa trasformare quel regno in un sogget­
to di studio adeguato non ci è perfettamente chiaro. Siamo tutta­
via certi che così si debba procedere se la sofferenza umana, in
quanto esperienza, deve essere parte della cornice di problemi
delle nostre discipline. Dal momento che eccezionali lavori di et­
nografia, biografia e storia, si dedicano in misura via via crescente
al fenomeno dell'esperienza, ci conforta pensare che la sfida,
benché ardua, possa essere raccolta. Tra l'altro, questa sfida non
vuole creare una scienza universale della sofferenza umana che,
come speriamo abbia mostrato questo contributo, sarebbe mali­
ziosamente ironica.20
Inoltre non vogliamo neanche lontanamente insistere sul fatto

19. n problema cardinale, con la teoria fenomenologica, è che essa, nd tem­


po, è divenuta un linguaggio speciale le cui convenzioni, accettate dagli iniziati,
risultano opache per i lettori profani. Infatti i neologismi coniati da Husserl,
Heidegger, Merleau-Ponty, Gehlen, Plessner e altri ancora, oscurano, più di
quanto non rischiarino, la qualità vissuta del flusso dell'esperienza, e alla fine
assumono un tenore essenzialista che è inaccettabile per una !inalisi sociale.
Certamente la teoria fenomenologica si nasconde spesso dietrolquesti termini
astrusi. Non si è assunta la responsabilità di popolarizzare il suo progresso con­
cettuale attraverso un collegamento con correnti intellettuali di più ampio re­
spiro. Nondimeno, come mostra Jackson (1989), le intuizioni dei fenomenolo­
gi possono essere notevoli e di ampio respiro, qualora vengano efficacemente
tradotte in etnografia.
20. L'analisi etnografica e storico-comparativa della sofferenza fornirebbe
qualcosa di differente rispetto a una scienza transculturale della sofferenza. Per
esempio, supponiamo di comparare il materiale cinese su cui si è discusso in
questo saggio, diciamo, con il significato morale e gli usi politici della sofferenza
nella tradizione polacca. Longina J akubowska ( 1990) evoca l'immagine di Cri­
sto sulla croce come simbolo di "disperazione, sacrificio e morte, ma anche re­
surrezione", e ricorda l'associazione popolare del "Gesù addolorato", Jesus Fa­
sobliny, alla Polonia stessa. Questa comparazione storica ed etnografica mette­
rebbe a confronto delle immagini religiose e politiche abbastanza peculiari, ma
la sua più grande ricchezza starebbe nel riuscire a tenere in conto come tali im­
magini contribuiscono alla strutturazione dell'esperienza nei mondi locali in
ciascuna società. Vorremo anche sapere cosa potrebbe dirci una comparazione
empirica del genere circa l'ordine morale e il suo significato per le condizioni
umane di vita. L'esito non sarebbe una nuova scienza (comportamentale o di al­
tro tipo), ma una prospettiva integrata per gli studi storici, antropologici e psi­
cologico/psichiatrici.

230
LA SOFFERENZA E LA SUA TRASFORMAZIONE PROFESSIONALE

che l'argomento di questo nostro saggio sia il più centrale o il più


importante per l'antropologia psicologica o medica. Lo studio
dell'esperienza è tanto un altro soggetto quanto un modo di esa­
minare diverse questioni che riguardano questi campi, e pertanto
merita un posto nell'antropologia medica e psicologica.
Infine, non intendiamo affermare che la sofferenza non si pos­
sa comprendere o definire. Non stiamo infatti insinuando una
qualità irrazionale, o mistica, della sofferenza. Gli esseri umani si
trovano davanti a progetti e azioni respinti da forme di resistenza
che intervengono nel corso della loro vita, nelle relazioni sociali,
nei processi biofisici. Da queste forme di resistenza emerge ciò
che c'è di condiviso nella nostra condizione umana: la perdita, la
deprivazione, l'oppressione, il dolore. Le nostre condizioni uma­
ne sono plasmate anche dalle nostre risposte a quelle forme di re­
sistenza: angoscia, rabbia, paura, umiliazione, ma anche quelle
che Scheler (1928) chiamava risposte trascendenti: sopportazio­
ne, aspirazione, umorismo, ironia. Ma queste sono così riccamen­
te elaborate, culturalmente e personalmente, dai sistemi di signi­
ficato e dall'idiosincrasia individuale, che le condizioni umane
devono pure presentare in grossa misura delle divergenze. La sof­
ferenza è formata a partire da queste forme condivise di sofferen­
za e dai nostri modi molto diversi di reagire a sventure inevitabili.
La sofferenza e la trascendenza sono tra le dimensioni maggior­
mente in gioco nelle forme pratiche dell'esperienza quotidiana.
Per questa ragione esse meritano di essere materia esplicita di
analisi etnografiche e di comparazioni transculturali.

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234
7

UN CORPO CHE SOFFRE


LA COSTRUZIONE DI UN MONDO DI DOLORE CRONIC01
Byron ]. Good

"Dottore, è possibile che un'esperienza vissuta nell'infanzia


possa causare un dolore come questo?" Così mi si rivolse un uo­
mo di sessantaquattro anni accompagnando suo figlio di ventotto
per un'intervista. L'uomo anziano era alto e abbastanza magro,
con un volto rugoso che rivelava tristezza e preoccupazione. n ra­
gazzo mostrava anche meno dei suoi anni. Camminava in modo
rigido e aveva un viso immobile quasi senza espressione, forse,
pensavo, per via delle medicine. Aggirai la domanda sull' espe­
rienza infantile e chiesi loro di seguirmi e accomodarsi, passando
a illustrargli a grandi linee il nostro studio sull'esperienza del do­
lore e spiegandogli che ero un professore di antropologia, non un
medico né un terapeuta; quindi invitai il giovane, che chiamerò
Brian, a partecipare allo studio.2 Fu subito d'accordo e, col suo
permesso, invitai suo padre a rimanere per l'intervista.
Quello che seguì fu la storia di una vita di dolore - un dolore
con un incredibile mito di origine, un dolore che ha plasmato ra­
dicalmente il mondo della vita di un giovane uomo e contro il
quale egli ha lottato per trovare un significato e un linguaggio per
esprimerlo. Parlai con Brian e suo padre soltanto una volta, per
quasi quattro ore. La trascrizione di quell'intervista serve da base
per l'analisi che segue, insieme alle interviste con le altre persone
che hanno scelto di prendere parte al nostro studio.

l. n titolo di questo capitolo si rifà intenzionalmente al titolo del libro di


Elaine Scarry La sofferenza del corpo: la distruzione e la costruzione del mondo,
che funge da fonte per le mie riflessioni sulle parole del giovane di cui viene qui
descritta la storia.
2. Le caratteristiche identificative di questo giovane sono state modificate
per proteggeme l'anonimato.

235
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

Elaine Scarry (1985), in una brillante discussione sulla natura


del dolore e sulla tortura, sostiene che il dolore acuto resiste al lin­
guaggio. Viene espresso attraverso grida e urla, in un linguaggio
presimbolico, opponendosi all'ingresso nel mondo del significato.
Esso "distrugge" il linguaggio, dice l'autrice (1985 , p. 19); in
realtà, "il dolore intenso distrugge il mondo" (1985, p. 52). Tutta­
via tale distruzione viene contrastata dalla risposta umana per tro­
vare un significato, per "capovolgere la funzione deoggettivante
del dolore, imponendo al dolore stesso forme di aggettivazione
(pp. 20-2 1). "Essere presenti nel momento in cui il dolore provoca
un ritorno alla fase prelinguistica delle grida e dei gemiti vuoi dire
essere testimoni della distruzione del linguaggio; ma, al contrario,
essere presenti quando una persona abbandona questa fase e dà
forma alla realtà di ciò che sente nel discorso, è quasi come avere
l'opportunità di assistere alla nascita del linguaggio stesso" (p. 21).
Ci sono momenti, nel corso dell'intervista di una persona che sof­
fre, in cui veramente sembra di essere testimoni della nascita del lin­
guaggio, nella misura in cui questa persona lotta per tradurre in pa­
role un'esperienza che resiste al linguaggio, un'esperienza originaria
del corpo che è simultaneamente tanto reale quanto fondamental­
mente indescrivibile, una forza che plasma il mondo in modo tale
che chi soffre descrive, spesso, se stesso come abitante di un mondo
che gli altri non possono conoscere. Ma il linguaggio no� è solamen­
te inadeguato quando l'intensità del dolore può esprimersi solo con
urla e spasmi del corpo; esso è forse più tipicamente inadeguato
quando chi soffre cerca un nome per il suo dolore, un nome indivi­
duale che lo rappresenti in modo accurato, che lo descriva con una
chiarezza tale che le sue origini e i suoi contorni possano manifestar­
si, una rappresentazione che abbia il potere contenerlo.
Nel suo classico studio sui Dinka, una popolazione nilotica del
Sudan meridionale, Godfrey Lienhardt (1961) descrive la reazione
locale nei confronti di persone che vengono improvvisamente pos­
sedute. Ajak, un giovane uomo col suo incredibile mito di origine ­
era nato senza testicoli e stava per essere gettato nel fiume dal padre,
quando quest'ultimo venne persuaso dalla madre a offrire una pe­
cora bianca in sacrificio alla divinità; allorché apparvero prima l'u­
no e poi l'altro testicolo, fu improvvisamente posseduto da un pote­
re. Corse selvaggiamente per venti minuti e alla fine cadde, buttan­
dosi steso per terra. Lienhardt descrive così la reazione (p. 59):

236
UN CORPO CHE SOFFRE

Allora venne un maestro minore di fiocina e, rivolgendosi alla figura di


Ajak che si dimenava, chiese, qualunque cosa fosse a tormentarlo, di dirgli
il suo nome e che cosa volesse. Nel suo discorso cercò di strappare le rispo­
ste a diverse potenziali fonti di possessione, dicendo: "Tu, Potere" (yin
jok), "Tu, divinità" (yin yath), e "Tu, Spirito" (yin atiep). Ma nessuna rispo­
sta giunse da Ajak, che continuava a gemere e a roteare. Allora il maestro di
fiocina incominciò a rimproverare così il Potere che tormentava Ajak: "Tu,
Potere (jok), perché ti impossessi di un uomo che è lontano dalla sua casa?
Perché non ti impadronisci di lui a casa sua, dove c'è il bestiame? Cosa può
fare lui qui?" [ . ]
. .

Ajak biascicava qualcosa di incomprensibile; i presenti si aspettavano


chiaramente che qualcosa parlasse attraverso la sua bocca, per rivelare il
suo nome e il suo compito. Spiegarono che a tempo debito l'avrebbe la­
sciato (pal). Quando domandai cosa fosse "quel qualcosa", mi dissero che
poteva essere diverse cose: la divinità del suo clan (yath), lo spirito di suo
padre, la libera divinità Deng, o "solo un Potere" (jok epath). Dato che non
sembrava volersi annunciare, come si poteva sapere?

La denominazione della fonte della sofferenza, in particolare


per coloro che soffrono di un male cronico, spesso ricorda questo
scenario denso di mistero. Qual è il tuo nome? Perché tormenti
questa persona? sembra chiedere il medico. La risposta è spesso
incomprensibile. "Essa" si rifiuta di parlare. E se non si presenta,
come la si potrà conoscere? n giovane uomo di cui questo saggio
porta testimonianza era posseduto da un'entità di questo genere.
n dolore era indicibile. Esso plasmava un mondo. Aveva resistito
alla simbolizzazione e si era rifiutato di rispondere a un nome,
benché molti nomi fossero stati proposti. Perciò era rimasto in­
domito e fondamentalmente non condiviso, perché, come dice
Elaine Scarry: "il dolore si insinua tra di noi senza che noi possia­
mo condividerlo, come ciò che non può essere negato e non può
essere provato al tempo stesso" (pp. 18-19).
La storia di Brian verrà esposta in tre parti: il mito dell'origine e la
storia del dolore (la narrazione); il configurarsi di un mondo di dolo­
re (la fenomenologia); e la lotta per un nome (la simbolizzazione).

ll. MITO DELL'ORIGINE: NARRARE UNA VITA DOLOROSA

Brian fu invitato a partecipare al nostro studio in quanto ap­


partenente a un gruppo di sostegno di un'organizzazione per la
salvaguardia della salute, rivolto a persone che soffrivano di ma-

237
- NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

lattie croniche. Dopo avere fatto qualche breve domanda sul suo
retroterra personale e familiare, gli chiesi di parlarmi del suo pro­
blema, di raccontarmi come era cominciato e come aveva tentato
di curarlo. La narrazione che seguì rappresentava uno sforzo di
dare forma al dolore, di dare nome alle sue origini nel tempo e
nello spazio, di costruire una biografia capace di dare senso a una
vita di sofferenza (cfr. questa definizione di narrazione di malattia
con quella presente in Kleinman, 1988).
Egli aveva un nome chiaro per il suo male - "Lo descrivo co­
me 'disturbo dell'articolazione temporo-mandibolare (ATM)' " ­
e un preciso momento diagnostico - "l'autunno del 1984. In no­
vembre circa". li suo disturbo dell'ATM fu inizialmente diagno­
sticato da un medico generico che lo curava per difficoltà respi­
ratorie e per un dolore che aveva all'orecchio, il quale "mi chiese
di fare dei movimenti con la mascella, su e giù un po' di volte. A
quel tempo potevi sentire, sentivi un battito e uno schiocco. Se
aprivo la mandibola, a un certo punto sentivo uno scatto, e poi la
richiudevo. Fu allora che lui mi fece la prima diagnosi" .3
Ma la descrizione del suo dolore e della sua storia eluse presto
una caratterizzazione ordinata, rovesciandosi nella sua vita.

Ora sembra una lunga storia. Quando me ne resi conto, mi, parve ovvio
che potesse essere una lunga storia, visto che mi sembra di avere avuto que­
sti problemi da sempre. Mi erano capitati giramenti di testa senza sapere
perché li avessi . . . ero depresso e andavo in continuazione da vari speciali­
sti, stavo sempre, per un motivo o per un altro, nello studio di un qualche
medico. Poi arrivarono i mal di testa, le vertigini, qualche volta anche la
nausea . . . Viene fuori in diverse parti del tuo corpo. Mi viene in testa, poi
sento male al petto, e non ho idea di cosa sia . . . potrebbe essere un attacco
di ansia, forse delle palpitazioni cardiache. E poi ah, il senso di debolezza
che mi, mi, prende di solito al lato sinistro, il lato sinistro del mio corpo è
più debole dell'altro, del destro.

3 . Vale la pena notare che Brian, da diversi punti di vista, non è rappresenta­
tivo delle persone che abbiamo intervistato e a cui è stato diagnosticato il distur­
bo dell'ATM. Egli ha una lunga storia di problemi psicologici, come ha chiarito
nell'intervista, e ha sofferto di dolori estremi e persistenti in gran parte del suo
corpo. Nessuna di queste è una caratteristica di molte persone che soffrono dei
disturbi delle articolazioni mandibolari (vedi, per esempio, Von Korff et al.,
1988a, 1988b). Scelgo, in questo libro, di raccontare la storia di Brian, più per il
suo dolore cronico che per la sua diagnosi di disturbo dell'ATM.

238
UN CORPO CHE SOFFRE

Le parole cominciarono a venir meno.

Beh, in verità, sì, sono un disastro . . . vediamo se mi ricordo. . . era come


se non potessi muovermi in alcun modo, non riuscivo a funzionare molto
bene. Sì, mi, mi ricordo che lavoravo . . . ed ero stato in piedi per diverso
tempo quando ho avuto proprio un, un attacco di vertigini e [non sapevo]
cosa, di cosa si trattava, capisci? E questo, per tutti quelli che hanno il di­
sturbo dell'ATM, quando comincia a irradiarsi, ti va nelle articolazioni e va,
girando dentro il tuo corpo, è come un calore, un calore che brucia, e tira, e
lo senti andare, e poi nel petto, e non sai cos'è, e ti senti stordito, hai biso­
gno, ah, tipo di respirare profondamente, poi pensavo, beh, si tratta di ver­
tigini, ci scommetterei su, c'è tutta una storia, c'è stato il diabete in fami­
glia, forse è quello di cui soffro. Ho pochi zuccheri nel sangue . . . lo so per­
ché poteva esserci un rapporto tra quel periodo e quando poi mi hanno
diagnosticato il disturbo dell'ATM perché io, eh sì, avevo il bruxismo. Di­
grignavo i denti. Digrigno i denti di notte, quando dormo. Mi capita anche
durante il giorno. È come, beh, un riflesso che io, come se ci fosse una fon­
te di tensione che non so come affrontare, come se la interiorizzassi per
qualche motivo e, beh, non sapevo che il modo in cui esprimevo tutto ciò
era stringendo i denti. E poi i, questi denti sono tutti stretti insieme. Sfrega­
vo quelli sotto contro quelli sopra, sempre, continuamente, come se fosse
un modo di gestire la rabbia, la tensione, o qualcosa del genere.

Ma quando tutto ebbe inizio? "Potrebbe essere . . . iniziato du­


rante l'adolescenza, anche se è diventato più pronunciato, eh,
quando sono cresciuto, la, la natura estrema della cosa si è fatta
più evidente . . . ". Ma hai cercato di farti curare alle superiori?
"Non ci avevo mai pensato, o non l'avevo interpretato come un
problema fisico". Pensavi a un problema psicologico? "Già pri­
ma delle superiori ero in terapia, e anche da bambino". Quindi
hai una lunga storia con i consulenti psicologici? "Una storia
molto lunga". Dal momento che ha detto tuo padre? Da quando
avevi due anni? "Sì".
Le origini quindi hanno uno spazio e un tempo. I dolori vera­
mente acuti, emerge retrospettivamente, hanno origine nel cor­
po, nella mandibola. Sono cominciati nell'adolescenza, anche se
è difficile stabilire quali dolori presenti già nell'infanzia siano da
considerarsi come manifestazione dei disturbi dell'ATM. E prima
ancora, le origini si collocano ai due anni di età.
Non ci sono segreti qui, non ci sono misteri che trovano per la
prima volta una voce. Una generazione di terapeuti ha ascoltato
questa storia. Tuttavia essa rimane primordiale e misteriosa.

239
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

A quel tempo mia madre si ammalò gravemente e dunque non era in


grado di prendersi cura di me e mio padre non era certo nella condizioni di
farlo . . . in modo adeguato. Non voleva nemmeno che venissero dei parenti
a prendersi cura di me. Quindi era . . . come essere orfano. Sono stato così
per un periodo di tre mesi, quando avevo due anni - e potrebbe proprio es­
sere iniziato in quel momento - quella cosa mi strappò da ogni legame coi
genitori. E, ah, è stato molto traumatico. Non ho un ricordo conscio di al­
lora, ma qualcosa ha danneggiato i miei sentimenti nel processo . . . l'unica
ragione per cui ho sentore che tutto prese il via allora dipende dal fatto che
ho queste sensazioni, inspiegabili, di panico quando devo provare qualco­
sa di nuovo, quando dovrei evitare di essere timoroso e invece non ci riesco
e mi sento come intimidito. E così la mia, la mia inclinazione iniziale è stata
quella di ritirarmi, di, di sviluppare una forma di difesa contro questi pro­
blemi che percepivo, che consideravo come una minaccia.

E così una storia iniziò a prendere forma. La madre di questo


piccolo bambino aveva l'epatite e venne ricoverata. Suo padre
decise di non las ciarlo alle cure dei membri della famiglia, ma alle
cure di un orfanotrofio (suo padre diceva: "Per me era solo un
problema di orgoglio testardo. Non volevo che la mia famiglia
fosse coinvolta. Ma ora vorrei che lo fosse stata"). Tre mesi dopo
il bimbo apparve completamente cambiato, uno "zombie". Brian
nella sua infanzia era considerato di intelligenza superiore alla
media, ma era estremamente sensibile e soffriva di attacchi di an­
sia, di panico. "Anche se non c'è un motivo legittimo per essere
spaventati, all'improvviso sono assalito da un inspiegabile attac­
co di ansia", dice. L'unico periodo che ricorda libero dal dolore è
quello compreso fra i nove e gli unici anni, anni "in cui mi sono
riuscito a godere la vita un po' di più". Ha avuto a che fare con i
medici per gran parte della sua vita, cominciando a due anni.
Durante l'adolescenza Brian iniziò a provare dolore - un dolo­
re intenso, crescente, "mal di testa cronici, dolori che si irradiava­
no dentro e intorno alla testa, all'orecchio, fino alla gola" . Aveva
crampi alla bocca e si sentiva soffocare. La sua depressione e gli
attacchi di ansia continuarono; era ansioso, frastornato, viveva
nel terrore di perdere il controllo. E poi, "è arrivata per un lungo
periodo di tempo la depressione, il malessere cronico, l'affatica­
mento" . È stato curato con antidepressivi e ansiolitici, che conti­
nuava a prendere anche all'epoca della nostra intervista. Gli
eventi misteriosi accaduti entro le mura dell'orfanotrofio, nasco­
sti alla vista e precedenti al ricordo simbolizzato, sono inscritti

240
UN CORPO CHE SOFFRE

nella sua storia personale tanto quanto nel suo corpo, ed evocano
un terrore non mitigabile dalle medicine o dalla psicoterapia.
Sovrapposta a questa narrazione di una vita di sofferenza,
un'altra narrazione si sviluppa. Nel 1984, in seguito a una conge­
stione e a un forte dolore alle orecchie, Brian si recò dal suo medi­
co generico, pensando di avere un'infiammazione auricolare.
Questo medico sentì uno schioccare della sua mandibola, e sug­
gerì che potesse avere a che fare col dolore alle orecchie. Brian fu
mandato da uno specialista otorinolaringoiatrico, il quale curò
l'infezione e inoltre "sentì questo suono di scatto e schiocco pro­
nunciato" e "ipotizzò che avessi un problema legato all'ATM". Al­
la fine, qualche mese dopo, un altro otorino in una clinica specia­
lizzata lo visitò, spiegandogli il ruolo che la deviazione del setto
gioca nell'ostruire i passaggi respiratori, e "discutendo quell'ana­
tomia, mi parlava anche della mandibola, lo schioccare interno,
un disturbo legato all'ATM. Un malfunzionamento della mandibo­
la". Iniziò così un processo di reinterpretazione del suo dolore.
"Ero ancora un po' scettico nei confronti della cosa". Ma quando
il terzo medico consecutivo gli citò il problema: "Allora dissi: va
bene, non c'è modo di schivare più la cosa". Di conseguenza:
"Iniziai a pensare che fosse qualcosa con una base organica, che
avrei fatto bene a indagare, a vedere veramente dove mi portava, e
l'idea nel suo insieme era di speranza, credo, perché ora avevo in­
dividuato qualcosa, e l'avevo definita in un certo modo. Posso di­
re che è nella mia testa, ma non è tutta nella mia testa".
Brian fu mandato, da uno degli otorini, da un dentista specia­
lizzato in "odontoiatria ricostruttiva". n dentista diagnosticò che
il suo dolore nasceva da un problema di occlusione - "non masti­
cavo nel modo corretto". Limò molti denti per aggiustare la ma­
sticazione, costruì una stecca rigida di acrilico, un apparecchio
occlusivo che stava attorno ai denti e "alleviava la tensione dentro
e intorno alle orecchie". Sfortunatamente, costretto a portarsi al
lavoro questi apparecchi e a indossarli per gran parte della gior­
nata, Brian finì con il perderne uno e danneggiarne un altro.
Ogni volta il dentista intraprendeva un lungo processo per pren­
dere le impronte, costruire il modello, adattare e riadattare il di­
spositivo, plasmare, modellare, limare. Tutto questo a un costo,
per Brian, di 350 dollari per ogni apparecchio. Quando li perde­
va o li danneggiava, Brian si sentiva umiliato e sempre più ansio-

241
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

so, per poi andare su tutte le furie. Più si arrabbiava, più volte do­
veva tornare a ripetere tutto il processo. Ciononostante, andò
avanti a farsi curare dal dentista per quasi un anno. Provò un po'
di sollievo e iniziò a coltivare una certa speranza, prima che nuovi
dubbi prendessero piede.

Credo che nell'estate di quell'anno cominciai a pensare di capire quale


fosse la causa . . . perché mi sentivo così male . . . avevo un'immagine chia­
ra . . . sapevo cos'era. Non brancolavo nel buio. Non c'era più ambiguità.
Non era un insieme di tante cose.

E come andò avanti la cosa?

Sì, credo che quell'atteggiamento mentale generale, quel senso di spe­


ranza, continuò per un certo periodo, e poi credo che al momento in cui
ebbi il terzo apparecchio, ricominciai, i dubbi presero di nuovo piede. Mi
preoccupai. Ho ancora i mal di testa e cosa mi possono fare? E per poter
essere visitato dal fisioterapista avevo bisogno di una prescrizione medica,
così fu lui [il dentista] a prescrivermela.

n trattamento più recente di una certa importanza che Brian ha


intrapreso è stato per mano di una fisioterapista privata che gli ha
fatto profondi massaggi ai tessuti. Non solo la sua mandibola, ma
tutto il corpo è stato oggetto del trattamento. "Sembrava che ogni
parte del mio corpo fosse in rapporto con quello che mi accade­
va . . . n petto. La schiena. Le gambe . . . Così la mia idea di quello
che succedeva iniziò di nuovo a cambiare: forse non è così sempli­
ce come pensavo all'inizio" . La fisioterapista usava tecniche molto
dolorose, finalizzate a "sciogliere" le aree di tensione nei tessuti le­
gati, duri, bloccati. I primi mesi di trattamento portarono a un'"at­
tivazione" e a uno "sconvolgimento" delle viscere, accompagnati
da attacchi di bruciore che diventavano sempre più intensi. Nei
mesi successivi le cure divennero più leggere e Brian provò un po'
di sollievo. Alla fine, i trattamenti furono ridotti da molti a uno solo
a settimana, fino a uno ogni diverse settimane, concludendosi un
mese prima della nostra intervista. Benché un po' della tensione si
sia ridotta e la fisioterapista ritenga di aver completato il suo lavo­
ro, Brian continua ad avere intenso dolore alla testa, al collo, alla
schiena e alle gambe. Ed è ancora in cerca di una cura.
La consultazione più recente avvenne tre giorni prima dell'in-

242
UN CORPO CHE SOFFRE

tervista. Su suggerimento del suo internista, che lo ha in cura per


problemi gastrointestinali, Briari prese un appuntamento con un
chirurgo maxillo-facciale, da cui fu visitato in un ospedale uni­
versitario locale. Gli fu fatta una "ortopanoramica", ma Brian so­
stenne che, a detta del chirurgo, essa non abbia rivelato "nessuna
effettiva anormalità tale da richiedere un intervento chirurgico".
n chirurgo gli consigliò di tornare a portare l'apparecchio rego­
larmente per proteggersi dallo scatto delle mandibole e dal digri­
gnare i denti. Sottolineò molto l'importanza di alleviare la tensio­
ne e di rilassarsi, e consigliò di fare meditazione ed esercizio. "E
che impressione ti fece?" - gli chiesi.

Beh, era una risposta che mi sarei potuto dare da solo. Non avevo biso­
gno di uno specialista per sentirmi dire una cosa del genere. . . In un certo
senso ripropone un approccio un po' più olistico. È un'idea più coinvol­
gente; che riporta in ballo una certa ambiguità. Che ripropone il mio con­
flitto col corpo. Ma si tratta poi veramente del mio corpo? O è il mio pro­
cesso di pensiero che attiva le tensioni fisiche? Sono io o è l'inverso? È tut­
ta questa incertezza che . . .

"Nessuna soluzione immediata", dissi.

Sì, nessuna soluzione immediata. Ogni volta che ne cerco una, sembra
solo che mi imbatta in un altro labirinto, in un pantano di cose.

E ora? Cosa ci attende in questa narrazione? "In questa preci­


sa fase sto lottando contro una grande disperazione" , risponde
placidamente Brian.

Occasionalmente ho ancora dolore e torno a pormi altre domande. Si


tratta veramente dell'ATM o sono io il responsabile, o invece è qualcosa, un
disturbo emotivo, quello con cui più che altro devo avere a che fare? E una
volta che entro in uno stato di confusione come questo, di incertezza, e cre­
do, sì, quest'assenza di speranza, quella sensazione generalizzata di, ah,
una sensazione di vuoto, allora, mi chiedo, cosa posso fare?

LA DISSOLUZIONE DEL MONDO: LA FENOMENOLOGIA

Elaine Scarry descrive il dolore come un linguaggio "che fran­


tuma", che "annienta il mondo". Nell'orrore delle stanze di tor­
tura che analizza, il linguaggio viene letteralmente fatto a pezzi,

243
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

ridotto a grida e urla. Per molti pazienti che soffrono, il linguag­


gio è tutto fuorché frantumato in quest'accezione letterale. Brian
era incredibilmente e spaventosamente articolato, sebbene il lin­
guaggio, a volte, sembrasse inadeguato a esprimere le qualità vis­
sute della sua sofferenza. Appena si sedette, rigido e fermo, de­
scrisse un mondo interiore incredibilmente ricco. Allo stesso
tempo, come vedremo in questo paragrafo, il dolore plasma il suo
mondo, resistendo all'aggettivazione e minacciando la struttura
oggettiva del mondo quotidiano di cui Brian è parte.

BYRON Gooo: Come descriveresti quello che sta accadendo nel tuo
corpo?
BRIAN: A volte, se dovessi visualizzarlo, sembrerebbe come se lì, lì, ci
fosse, eh, un demone, un mostro, qualcosa di orribile, di orrendo, che si
annida, colpendo le parti interne del mio corpo, squartandole. E io, ah, io
lo contengo, o cerco di contenerlo, così che nessun altro lo possa vedere,
così che nessun altro sia disturbato da lui. Perché mi spaventa a morte, e
suppongo che se, perbacco, se qualcuno dovesse, dovesse vederlo, allora,
ah, mi eviterebbero come la peste. Così raddoppio i miei sforzi per dire . . .
sarò perfettamente in grado di contenere tutta questa cosa. E forse, meno
faccio, meno mi faccio riconoscere, meno mi, mi azzardo a uscire, o e ren­
do un'iniziativa, così non lo farò, ecco, non farò uscire questo schifo. E co­
me se stesse accadendo qualcosa di veramente, di davvero terribile. Non lo
controllo, non ho, ah, non ho nessun controllo su questa cosa, anche se mi
piace credere il contrario. Almeno fino al punto in cui nessun altro. . . per­
ché se lo scoprono, allora non mi crederanno, ma da un lato, se inizi a par­
larne, allora loro, tutti loro hanno, eh, le loro risposte, soluzioni che però
non c'entrano niente con le tue. Quindi credo che un modo appropriato di
descriverlo, il dolore diventa veramente terribile, non c'è un modo per co­
municarlo, o per parlarne con qualcuno. A volte, mi faccio dei viaggi men­
tali, cerco di razionalizzare, di spiegarmi tutto, provando a dirmi che è tut­
ta immaginazione, che è un'invenzione, che non esiste davvero. Ed è, di­
venta un meccanismo per gestire la cosa. Se mi convinco in modo intellet­
tuale che non c'è, o che non è poi così importante, o, ci vedo troppe cose,
ah, allora sai, non crollerò. Non sarò così, non funzionerò così male fino al
punto di . . . non essere più capace di fare niente.

Attraverso la sua ricca descrizione, Brian ci fa entrare in un


mondo di dolore. È uno spaventoso mondo di mostri che deva­
stano il suo corpo, un mondo privato che ha paura di condividere
con gli altri, un mondo che loro probabilmente non potrebbero
capire, eppure un mondo assoluto e a cui lui non può sfuggire,
che vuole disperatamente interpretare come immaginario, ma

244
UN CORPO CHE SOFFRE

senza riuscirei. Allo stesso tempo, grazie a una grande determina­


zione, Brian ha continuato a lavorare ogni giorno in una compa­
gnia di assicurazioni. Vive con la sua famiglia, partecipa agli in­
contri del gruppo di sostegno, va da medici e terapeuti, frequenta
le scuole serali e dipinge. Cosa intendiamo parlando di mondo in
questo contesto? Ha un senso parlare dd mondo di chi soffre di
dolore cronico? In che senso il mondo di chi soffre è speciale, pri­
vato, perfino non condivisibile? Quali sono le sue caratteristiche?
In che misura possiamo dire che il dolore cronico lo " dissolve"?
n concetto di mondo che qui viene impiegato è legato a una
lunga storia di filosofi e scienziati sociali di orientamento fenome­
nologico - da Edmund Husserl a Maurice Merleau-Ponty, da Sar­
tre a Ndson Goodman, da William James ad Alfred Schutz fino a
diversi sociologi e antropologi contemporanei. Per Husserl, il
"mondo della vita", Lebenswelt, è il mondo delle nostre esperien­
ze vissute, comuni e immediate. Questo mondo è spesso in contra­
sto con il mondo oggettivo della scienza, e molti sostengono che
quest'ultima rappresenti la realtà nel senso stretto dd termine.
Husserl e gli scienziati sociali che la pensano come lui, hanno af­
fermato che non è il mondo della vita a presupporre il mondo dd­
la scienza, casomai il contrario. La scienza è radicata nd mondo
della vita. Essa assume una prospettiva particolare, un'attitudine
particolare nei confronti della realtà, costituendo uno specifico
mondo scientifico e presupponendo che le sue dimensioni di
esperienza e le sue interpretazioni siano condivise nd mondo dd­
la vita. n mondo scientifico è solo uno dei diversi mondi o "sot­
touniversi" nei quali viviamo, mondi che comprendono quelli dd­
l'esperienza religiosa, dei sogni e delle fantasie, della musica, dd­
l'arte e della realtà dd "senso comune", che è predominante in
gran parte della nostra vita. Inoltre, benché il mondo della vita
possa essere investigato in relazione all'esperienza individuale, es­
so è un mondo intersoggettivo, sociale e culturale, un mondo che
resiste al nostro desiderio di plasmarlo secondo i nostri capricci,
un mondo di fatti e realtà sociali che non possiamo annullare.
Come possiamo affrontare la comprensione dd mondo del dolo­
re cronico? Torniamo alla descrizione di metodo che Husserl offre:

Comincio [. . . ] col mettere in dubbio ciò che in me, sotto il titolo


di "mondo" , ha la proprietà di essere conscio, esperito, inteso e ac-

245
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

cettato da me come esistente; mi domando come esso si manifesti


nel suo essere così accettato; mi domando come io divenga cosciente
di esso, e come potrei descriverlo [. . . ] ; per quale via ciò che è in tal
modo soggettivo si manifesta secondo modalità diverse, come esso
appare in sé, [. . . ] come deve essere descritto, e che tipo di fine sia a
determinare in me un mondo dal carattere così peculiarmente esi­
stenziale. (Husserl, citato in Brand 1967, p. 209)

li che significa che noi esploriamo l'organizzazione della sensi­


bilità, dell'esperienza e degli oggetti dell'esperienza, i contorni
del mondo per come viene esperito e per come vi si reagisce, co­
me pure l'organizzazione e la costruzione dell'esperienza. Qui
esamineremo la descrizione che Brian ci offre della sua sofferenza
e del suo mondo, mettendola a confronto con il mondo della
realtà quotidiana, come viene definito da Schutz, per tornare poi
alle osservazioni di Elaine Scarry, secondo cui il dolore ha il sin­
golare potere di distruggere il mondo.
Nella testimonianza di Brian, l'esperienza corporea assume
proporzioni enormi. Come emerge dai suoi resoconti sull' ansia e
sui conseguenti stati di panico causati dalla sofferenza, egli parla
del male che parte dall'articolazione mandibolare per evitare di
affrontare il nodo del problema. Modalità che riaffiora nella sua
descrizione del dolore.

Entra nella testa . . . la bocca diventa calda, per via degli spasmi che mi
vengono in bocca e giù, dove deglutisco e vorrei qualcosa per rilassarli . . .
I muscoli della mascella - sul palato sono tutti tirati, e allora devo bere
qualcosa di caldo per rilassarli. Poi inizia a scendere, la gente lo descrive­
rebbe come un sentirsi soffocati, o come avere questo grumo, questa sen­
sazione di oppressione in tutta questa parte [faceva gesti toccandosi la
gola e il petto] . E comincia a scendere. E quando l'ansia sale, non sai piu
che diavolo ti succede, e cominci a sentire altre cose, e - a volte sensazio­
ni di bruciore, e, ah, qualche volta mi sento tutto frastornato. Comincio a
respirare più velocemente . . . la cosa più terribile di tutte è che comincio a
perdere il controllo, mi trovo improvvisamente . . . mi trovo a non essere
più capace di trattenermi, non so quello che succede perché è così, così
strano. Attribuivo la debolezza della mia gamba a tutto ciò, e il fatto di
sentirmi una gamba più tesa dell'altra, è sempre la mia mano sinistra che
fa più male, qua, questi crampi muscolari che scendono, ah, il braccio si­
nistro, e a volte un formicolio nella mano . . È come se nei momenti peg­
.

giori tutti i miei sintomi emergono e devo fare qualcosa. Devo mettere le
cose a posto. Mentre lavoro, ah, perché devo, devo avere tutta, tutta que­
sta afflizione?

246
UN CORPO CHE SOFFRE

n dolore a volte aumenta, e "striscia" per il corpo.

Di solito è come una pressione che cresce. Comincia a muoversi in giro,


a spostarsi, come se fosse una striscia calda, un fuhnine, o qualcosa del ge­
nere . . . sento delle fitte alle spalle, alla colonna vertebrale che, che scendo­
no lungo il collo e la spina dorsale o può anche scendere, scendere sul brac­
cio, e poi, ah, tutto un problema diverso, coi disturbi allo stomaco, è saltato
fuori recentemente, ma non sono sicuro qual è l'esatta natura del suo rap­
porto col disturbo dell'ATM. Non dovrebbe accadere, ma ho avuto irrego­
larità . . . e molti fastidi di stomaco e crampi in quel punto.

Nel mondo di Brian il corpo ha un rilevanza speciale, come


egli spiega eloquentemente. Esso assorbe in sé il mondo, si river­
sa nel mondo e dà forma non solo all'esperienza, ma al mondo
esperito. Brian lotta per continuare a lavorare, ma è proprio
quando " devo darmi da fare" che "la pervasività di questo tipo
di afflizione" minaccia di sopraffarlo. Come conseguenza, dice,
"sono a uno stadio in cui potrei ben smettere di lavorare . . . a vol-
te penso che sto per entrare in un esaurimento nervoso . . . finché
riesco a ingannare le persone, queste non sanno cosa mi sta acca­
dendo . . . non sarò trascinato via da qualche parte. Ma è uno
sforzo incredibile. A volte mi chiedo se ce la posso fare a regger­
lo". Brian è pertanto incapace di vivere semplicemente attraver­
so il suo corpo nel "mondo della vita quotidiana" , nel "mondo
del lavorare" (Schutz, 197 1 , pp. 181-202), rivolgendo la propria
attenzione a fini pratici, stabiliti da lui o da coloro che hanno re­
so il posto di lavoro ciò che egli chiama una "squadra di forzati
incatenati " . Il suo corpo arriva a dominare la coscienza, minac­
ciando di disfare il mondo quotidiano, ed è solo con uno "sforzo
incredibile" che egli può occuparsi di quello che per noi è il
mondo dominante.
Schutz (197 1, p. 190) sostiene che nel mondo della vita quoti­
diana, il sé è esperito nelle vesti di "autore" delle proprie attività,
come "artefice" delle nostre continue azioni, e quindi come un "sé
indiviso e totale" . Agiamo nel mondo attraverso i nostri corpi; i no­
stri corpi sono il soggetto delle nostre azioni, ciò attraverso cui fac­
ciamo esperienza, comprendiamo e agiamo sul mondo. Al contra­
rio, Brian descrive il suo corpo come se fosse divenuto un oggetto,
distinto dal sé esperienziale e agente. Molte sono le dimensioni di
questo processo che egli ha descritto. n dolore è capace di prende-

247
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

re iniziative. È un demone, un mostro che si nasconde, che colpisce


l'interno del corpo. n dolore è una "cosa" che "viene fuori in varie
parti del tuo corpo" , che striscia per il corpo e che Brian raramente
sente di poter controllare. n dolore è anche fondamentalmente av­
versivo. Esso, nelle parole della Scarry, è " una pura esperienza fisi­
ca di negazione, un'espressione sensoria immediata del 'contro', di
qualcosa che ci è contro [ . ] . Anche se si manifesta entro di sé, es­
. .

so viene al tempo stesso riconosciuto come 'non sé', come 'non


me', come qualcosa di tanto estraneo da doversene sbarazzare su­
bito" (1985, p. 84). Allo stesso tempo, il dolore è parte del sogget­
to, una dimensione del corpo, una parte del sé. Di conseguenza, il
corpo stesso diventa un. agente awersivo. "Penso che sia contro di
me, che io abbia un nemico" , disse Brian del suo corpo. "li mio
corpo fisico non collabora. Finirà per !asciarmi a terra" .

BYRON Goon: Hai l a sensazione, in qualche modo, di pensare al tuo


corpo più come a un oggetto? Cioè che esso, in qualche modo, non sia ve­
ramente parte di te?
BRIAN: Sì. Non ho mai neanche notato quei momenti, quando penso
che è . . . sono fuori da me stesso, tutto questo con cui ho a che fare è una,
ah, una massa decadente di tessuti, niente di buono, e io, io mi ritrovo an­
cora a guardarlo in questo modo; come se la mia mente fosse separata dal
mio sé, credo. Non mi sento integrato. Non mi sento come una persona in­
tera perché sono sempre alle prese con qualche difetto fisico . . . e quindi ar­
rivo fino a vedermi come deficitario . . . mi sento disabile, malfunzionante,
tutto quello che vuoi, decidi tu come chiamarlo. E poi questo mi fa arrab­
biare, capisci?

Pertanto, in quanto luogo di dolore, il corpo prende l'iniziati­


va su e contro il sé. Diventa una "massa cadente di tessuti" sepa­
rata dal sé, e la totalità del sé diventa deficitaria, perdendo la sua
integrità.
Uno dei presupposti fondamentali della vita quotidiana è che
viviamo nello stesso mondo delle persone che ci stanno attorno,
che il mondo che esperiamo e abitiamo è condiviso dagli altri
(Schutz, 197 1 , pp. 192-196). Per molte persone affette da una ma­
lattia cronica, questo presupposto viene messo in dubbio. n loro
mondo viene vissuto come diverso, come un regno che gli altri
non possono pienamente sondare. Per chi soffre di dolore croni­
co, questa sensazione è spesso molto acuta. n dolore resiste infatti
all'aggettivazione dei test medici standard; non ci sono misurazio-

248
UN CORPO CHE SOFFRE

ni per il dolore, non sono possibili analisi biochimiche. Esso resi­


ste alla localizzazione; la maggior parte degli sforzi per identificare
il punto originario del dolore cronico sono destinati a fallire mal­
grado i progressi nelle tecniche di immagine, e quasi tutti i tentati­
vi chirurgici di rimuovere i percorsi del dolore sono presto annul­
lati dall'efficace generazione, da parte del corpo, di nuovi canali
per la sua trasmissione. Come ha scritto Ronald Melzack nel 1973 ,
l'idea di un centro del dolore nel cervello è "pura fantasia, a meno
che non si consideri praticamente l'intero cervello come il centro
del dolore" (in Scarry, 1985, p. 88). Allo stesso tempo, benché
venga esperito con assoluta, spesso bruciante, certezza, il dolore
resiste all'aggettivazione del linguaggio, alla conferma del consen­
so sociale. Come citato prima in questo capitolo, Brian ha raccon­
tato di sentire il bisogno di essere "perfettamente contenuto",
perché "se loro lo scoprono . . . non mi crederanno", o "avranno le
loro risposte e soluzioni che non c'entrano con le tue". Più avanti,
nell'intervista, ha parlato direttamente di questo aspetto.

BYRON Goon: Non hai mai la sensazione di vivere in un mondo diverso


da quello degli altri? Un mondo, magari, che le altre persone non possono
davvero capire?
BRIAN: Beh, sì. Questa è la sensazione generale che provo. Le persone
non riescono veramente a capire la persona col disturbo dell'ATM. Se non
ce l'hanno, non lo capiscono. E sono veramente scettici. Non ti credono.
Pensano che sei solo un po' diverso, un po' strano. Ehm, un po', ehm, spo­
stato; non sei, almeno credo, imperscrutabile. Non riescono a capirlo. Non
sanno cos'è. Magari è solo qualcosa che stai inventando.

Gli altri credono che questo mondo sia "inventato". Brian si


augura disperatamente di riuscire a crederci anche lui, di riuscire
a "spiegarmi tutto, provando a dirmi che è tutta immaginazione,
che è un'invenzione, che non esiste davvero". Ma non ce la fa. Al
contrario, il dolore è la realtà centrale; domina l'esperienza e l'e­
spressione. Esso "monopolizza" il linguaggio, "diventa il suo uni­
co oggetto: il lamento [ . . ] diventa il solo modo di parlare"
.

(Scarry, 1985, p. 86). L'aggettivazione verbale, l'estensione del sé


nel mondo, e quindi lo stesso sé che viene in essere nel processo è
dominato dal dolore. Ma poiché gli altri nutrono dei dubbi sulla
parola, mettono in dubbio anche il mondo e il suo autore. "Pensa­
no che sei . . . diverso . . . strano . . . imperscrutabile". L'abituale so-

249
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

spensione del giudizio che ci permette di accettare il resoconto del


mondo l'uno dell'altro, quella che Schutz chiama "epoche dell'at­
teggiamento naturale" (Schutz, 197 1 , p. 202), è assente nei reso­
conti di chi soffre di dolore cronico. Di conseguenza, il sé e il
mondo di chi soffre di dolore sono minacciati dalla dissoluzione.
n nostro dialogo continuò:

BYRON Goon: Qual è la natura di quel mondo che loro non possono ca­
pire?
BRIAN: Non lo so, per me è . . . , è una costrizione. Vuoi dire essere lega­
ti . . . provare dolore nel corpo e non essere in grado di spiegarlo adeguata­
mente o di interpretarlo. La consapevolezza di non poterlo fare è così tota­
le, così pervasiva, che non posso reahnente dire, sì è come un mal di testa,
ma è anche diverso dal mal di testa. Devi provarlo per poter reahnente ca­
pire di che si tratta. Devi scoprire cosa significa tornare a casa e sentire che
non hai idea di che momento del giorno sia. Anche se hai un orologio pro­
prio davanti a te, non sai che ore sono. Ti devi sdraiare perché, beh, senti
che da un momento all'altro crollerai a causa del dolore, o che non sai se
succederà, se ti sveglierai la mattina una volta che sei andato a dormire. Hai
così paura. C'è una sensazione che provi - è una cosa totale - ho avuto que­
ste sensazioni, e la testa viene chiusa in una morsa, e qualcosa mi blocca da
una parte o dall'altra, come una ruota che viene girata tutto il tempo, e va
avanti così. Mi va intorno alla testa e poi, è strano quando torno a casa la
sera, e mi sdraio per un quarto d'ora. Potrei dissolvermi nel sonno, oppure
no, ma sono in una specie di stato intermedio e, beh, ogni cosa sembra,
quasi una specie, anche se non posso, beh le fantasie che mi girano nella te­
sta. Di solito, ho avuto una giornata pesante e mi sdraio per un quarto d'o­
ra, ma poi non lo so se è passata mezz'ora o un giorno intero o, ah, tre o
quattro ore. n tempo si deforma.

Il tempo sembra deformarsi. Non soltanto viene meno la con­


valida dell'esperienza di chi soffre di dolore, minacciando la da­
tità del mondo della vita, ma i componenti del mondo percepito
- tempo, spazio - iniziano a dissolversi. Schutz (197 1, pp. 188-
191) sostiene che nella vita quotidiana la nostra esperienza perso­
nale del tempo, del tempo interno (che Schutz chiama durée) , è
sincronizzata col tempo esterno, col tempo socialmente organiz­
zato e convalidato. n mondo della vita che condividiamo con gli
altri viene esperito come contraddistinto da una comune struttu­
ra temporale che spesso è molto più incerta di quanto immaginia­
mo. Ciò si evidenzia per esempio quando le persone scoprono di
avere una malattia che minaccia la loro esistenza e iniziano a riva-

250
UN CORPO CHE SOFFRE

lutare il tempo. Queste persone spesso riferiscono di fare espe­


rienza del tempo in modo diverso da quelli intorno a loro; il tem­
po è breve, non va sprecato, ma vissuto con impazienza. Per
Brian, il tempo interno e quello esterno sembrano non sincroniz­
zarsi. E, cosa più terribile, il tempo stesso sembra saltare, perdere
il suo potere ordinante. L'intervista continuava:

BYRON Gooo: Te lo stavo proprio per chiedere. Ti sembra diverso il


tempo rispetto a prima, o rispetto alle altre persone?
BRIAN: Per me, sì, il tempo sembra disperdersi, quasi come se non potessi
dire che sta succedendo qualcosa ora. Non ho modo di incasellare un tratto
di tempo preciso in cui ho sbrigato un po' di cose. È come se ne perdessi la
traccia. Non riesco a stare al passo. O è come se tutto mi franasse addosso in
una volta; il passato, il presente -vengono insieme tutti in una volta . . . episo­
di che si ripetono, continuamente: episodi di dolore che sembrano ripetersi.
Riesci a ricordarti che in passato l'hai avuto, ma non puoi neanche distingue­
re adesso da allora. Hai davvero una visione molto deformata e distorta di
cosa sia il tempo. Così, è un po' così, un aspetto molto fastidioso della cosa.
BYRON Gooo: n tempo sembra più lento o più veloce? o ci sono dei
momenti, dei periodi nella tua vita, in cui il tempo sembra correre o invece
sembra rallentare?
BRIAN: Di solito il tempo sembra correre quando corro io; quando sono
in preda a una qualche attività che voglio sbrigare, il tempo allora corre
molto veloce. O c'è qualcosa che vorrei completare, il tempo sfreccia co­
munque. Non ho combinato nulla. Posso essermi impantanato, perché me
la devo sempre vedere con questi dolori, o solo perché non me la sento, e
allora mi dispiace che il tempo sia passato, e non ho combinato niente. E
sembra che se ne sia andato prima che io potessi, sembra essersi mosso
troppo in fretta. Lo so razionalmente che non ho modo di controllarlo. Po­
trebbe esserci una qualche forza di volontà che non è poi così - troppo
buona a - badare a comandare. Mi piacerebbe essere capace di controllar­
la. Mi piacerebbe far tornare indietro certe cose che mi sono perso.

Dunque il tempo frana. n passato e il presente perdono il loro


ordine. Il dolore rallenta il tempo personale, mentre il tempo
esterno accelera e va perduto. Un atto di volontà è necessario per
ordinare il tempo, e il tempo riempito dal dolore è vissuto come
tempo perduto. L'eloquenza di Brian rispetto al mondo del dolo­
re non può essere sostenuta dal linguaggio. È un mondo infatti
minacciato dalla dissoluzione. Spazio e tempo sono sopraffatti dal
dolore, e il mondo privato non solo perde il rapporto col mondo
in cui vivono gli altri, ma anche le sue dimensioni organizzative
iniziano a crollare. n dolore minaccia di disfare il mondo.

251
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

In questo contesto, le ripetute espressioni di preoccupazione


di Brian a proposito di "perdere il controllo" assumono un signi­
ficato speciale. La parola "controllo" appare tredici volte nella
trascrizione, in otto punti dell'intervista. Due volte esprime
preoccupazione per la sua capacità di controllare il dolore o il
mostro che si dimena nel suo corpo. Una volta descrive se stesso
come "vittima dell'esistenza, piuttosto che uno che ha il controllo
su di essa" . Una volta spiega la sua incapacità di controllare il
tempo, di recuperare quello che è andato perduto. E quattro vol­
te parla del terrore di poter perdere semplicemente il controllo:

Mi sento quasi come se stessi per raggiungere il punto di rottura e allo­


ra, beh, sarà così. Cosa sarà se il mio supercontrollo e i meccanismi di dife­
sa non sono forti abbastanza da tenermi intatto? E succede, e io esplodo e
vado su tutte le furie e mi dico, non posso sopportarlo . . . Andrò fuori di
me, perderò il controllo. Non posso più farcela.

Questo tema esprime una profonda paura di dissoluzione del


sé e del mondo vissuto. L'ipotesi che il mondo possieda una sua
stabilità è rimpiazzata dal senso della sua arbitrarietà, la sensazio­
ne che la volontà sia necessaria, che il controllo sia necessario per
conservare il sé e il mondo. Insieme agli attacchi di panico e di an­
sia, il dolore inonda la coscienza, domina il tempo interno e sman­
tella il rapporto ordinato tra il sé conscio e il mondo a cui esso si
rapporta. La pervasività del corpo espande i suoi confini, impedi­
sce l'attenzione per il mondo esterno e minaccia di dissoluzione.
Solo sorvegliandolo e contenendolo - "così raddoppio i miei sfor­
zi . . . sarò perfettamente controllato in tutta questa cosa" - il sé
può essere preservato. Ma questo sforzo di mantenere il controllo
è motivo di profondo isolamento, minacciando ulteriormente il sé
e la sua relazione col mondo quotidiano e con l'intersoggettività.
Pertanto, il mondo del dolore cronico, quel mondo separato abi­
tato da chi in esso soffre, è allo stesso tempo un mondo dissolto.

LA LOTI'A PER UN NOME: LA SIMBOLIZZAZIONE

I Dinka curano i membri della loro società che sono posseduti


facendo appello ai nomi delle Divinità - "Tu Potere, tu Divinità,
tu Spirito, perché tormenti quest'uomo? " - aspettando che uno

252
UN CORPO CHE SOFFRE

risponda al suo nome, che parli attraverso la bocca del sofferente,


che annunci il suo compito e il sacrificio che vuole. Lienhardt
analizza ciascuno dei Poteri e delle Divinità come immagini radi­
cate in distinti complessi di esperienza. Per i Dinka, tuttavia, que­
sti Poteri sono essi stessi le basi dell'esperienza, la fonte del po­
tere e le origini di certe forme di sofferenza. Essi sono, dice
Lienhardt, centrali nel processo di simbolizzazione necessario
per la guarigione.

Senza questi poteri, o immagini, o una alternativa a essi, non sa­


rebbe possibile, per i Dinka, alcuna differenziazione tra l'esperienza
del sé e quella del mondo che su di esso agisce. La sofferenza, per
esempio, potrebbe essere solo "vissuta" o sopportata. Ma attraverso
la figurazione delle ragioni della sofferenza in un particolare Potere,
i Dinka possono afferrare intellettualmente la sua natura in una ma­
niera soddisfacente, e quindi possono in certa misura trascenderla e
dominarla attraverso questo atto di conoscenza. Proprio grazie a
questa conoscenza, a questa separazione di un soggetto e di un og­
getto all'interno dell'esperienza, sorge per loro anche la possibilità
di creare la forma di esperienza che essi desiderano e di liberarsi
simbolicamente da quello che altrimenti dovrebbero sopportare
passivamente. (Lienhardt, 1961, p. l70)

n trattamento medico per il dolore cronico assomiglia spesso


alla divinazione Dinka. Vengono invocati dei nomi, e il divinatore
e il sofferente aspettano che il potere annunci se stesso. La cura
medica è finalizzata a costruire un'immagine che dia nome alle
origini del dolore nella biografia di chi soffre e alla sua sorgente
nel corpo del malato. Sfortunatamente, come nel caso del giova­
ne Dinka descritto prima, la risposta è spesso inintelligibile, il po­
tere si rifiuta cioè di rivelarsi, o il medico non riesce a concordare
il nome del potere. In ogni caso, chi soffre di dolore cronico con­
tinua ad andare avanti, a cercare sempre un nome per la sua sof­
ferenza, un'immagine che designi la sua origine e che consenta di
allontanarlo dal sé, che fornisca la struttura simbolica per la rico­
struzione del mondo.
Per Brian, c'erano due nomi per la sua sofferenza, psiche e so­
ma, tensione o ansia o depressione e disturbo dell'ATM. Uno dopo
l'altro, questi nomi sono stati invocati, e a ciascuno sono stati offer­
ti sacrifici. Si tratta comunque di immagini in conflitto, e finora
nessuna delle due ha avuto il potere di liberarlo dalla sofferenza.

253
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

Per parecchi anni Brian è stato in terapia per problemi psicolo­


gici iniziati all'età di due anni. Questa narrazione è chiara. Quel mi­
sterioso periodo nell'orfanotrofio " [lo] strappò da ogni legame coi
genitori" e lo lasciò con sensazioni inspiegabili di panico, paura
dell'autorità, vittimismo, ricorrenti crisi depressive e, a causa della
tensione e del digrignare i denti, con un dolore crescente e quasi in­
sopportabile. Sfortunatamente, questa denominazione del suo
problema e le relative terapie - sia la psicoterapia che i farmaci -
non hanno avuto il potere di diminuire il dolore e la sofferenza.
Quando aveva ventiquattro anni, fu proposto un nuovo nome
per il suo dolore. n disturbo dell'articolazione temporo-mandibo­
lare (ATM), o i disturbi temporo-mandibolari, sono concepiti come
disturbi delle articolazioni del tratto temporo-mandibolare che
portano a dolori maxillo-facciali, a limitazioni nell'escursione del­
la mobilità accompagnata dal bloccarsi e dallo stringersi della
mandibola, da mal di testa, mal di orecchie, dolore cervicale. Ven­
gono spesso curati con apparecchi per il bruxismo, per il riposi­
zionamento della mandibola e la stabilizzazione dell' articolazio­
ne; farmaci antiinfiammatori e analgesici; con trattamento denti­
stico e ortodontico (vedi Von Korff et al., 1988a, 1988b). L'idea di
avere il disturbo dell' ATM portò Brian a reinterpretare molti dei
suoi problemi, a rileggere la narrazione della sua malattia.

b
Se avevo mal di orecchie da bambino, o se avevo dei pro lemi, allora
poteva essere, poteva già essere il disturbo dell'ATM. Se mi sentivo male a
volte senza sapere perché, poteva magari essere il disturbo della ATM? L'ul­
timo anno di superiori, ricordo di avere vomitato una mattina e - poiché
mi ero svegliato con un mal di testa tremendo - mi sentivo girare, ero tutto
frastornato. Solo ora, a vederlo in retrospettiva, poteva essere qualcosa che
- che c'entrava con il disturbo della ATM, no?

All'inizio, era pieno di speranza. n dolore aveva una chiara ori­


gine in un sito specifico del corpo, non semplicemente nella "ten­
sione" , nell'"ansia". Aveva un nome che poteva spiegare molti
dei suoi sintomi più debilitanti e apparentemente non connessi.
Esistevano degli specialisti dei disturbi dell' ATM e delle cure con­
sigliate. E, oltretutto, le prime cure sembrarono alleviare un po' il
dolore. Tuttavia, pur proseguendo le cure, i sintomi più gravi ri­
manevano. La gamma dei trattamenti consigliati dai membri del
gruppo di supporto per i disturbi dell'ATM cresceva. Le risposte

254
UN CORPO CHE SOFFRE

diventavano maggiormente "olistiche", più "ambigue", meno


chiare. E Brian ricominciò a disperarsi.
Al tempo dell'intervista Brian era preso in mezzo a queste due
immagini della fonte della sua sofferenza. All'inizio gli chiesi del­
le sue depressioni. Mi rispose che solo da poco aveva cominciato
a vederle come un risultato del disturbo dell'ATM. "Pensare cosa
è venuto prima mi fa vivere un grosso conflitto. Sono depresso e
allora il dolore deriva da quello, o invece è il contrario? E quindi
sono, beh, molto diviso e vivo un conflitto riguardo a questa cosa,
e non sono sicuro quale, qual è la verità a cui devo credere e dove
devo andare". Quando gli domandai in che periodo fosse iniziato
il disturbo dell'ATM, non riuscì a darmi una risposta chiara: "Di­
rei che è almeno una decina d'anni, forse più". E per quale ragio­
ne cominciò?

Potrebbe essere stato una cosa fisica che facevo coi denti, il digrignarli
ecc. - solo, potrebbe anche essere stata la conseguenza di, beh, di essere
stato represso, di avere soppresso le mie emozioni, non proprio, beh . . .
qualche volta io, io mi sento una vittima della vita e non uno che ha un
qualche controllo su di essa - e sì, più che altro manipolato, credo . . . Non
mi sarei mai fatto sentire, in pubblico, con tensione o rabbia. Li tenevo
dentro, la maggior parte delle volte. Quindi credo che il modo in cui si ma­
nifestava era, era quello di digrignare i denti e a volte, mi si stringevano le
altre parti del corpo, mi irrigidivo, io, le mie gambe mi diventavano tutte ti­
rate - quelle cose lì.

Ma perché il conflitto? Perché riconoscere queste due immagi­


ni in competizione per il suo disturbo provocava in Brian un con­
flitto così acuto ed esplicito? Perché Brian, tormentato com'è, è
psicologicamente sofisticato e dolorosamente onesto.

BRIAN: Mi chiedo sempre se il mio pensiero magico mi vorrà dire che


vorrei una cura ora, subito - che, che c'è qualcosa, che tutto quello che de­
vo fare è - se si tratta di una correzione, qualche chirurgo lo saprà fare, e al­
lora i problemi sono finiti, oppure - posso prendere un qualche farmaco e i
problemi se ne vanno o, dopo che ho finito il trattamento dei massaggi, i
problemi svaniranno nel nulla. Ma non è così.
BYRON Goon: Bel modo di ragionare.
BRIAN: Sì, è quello che ho detto. È un modo abbastanza comodo di ragio­
nare. Devi un po' pensare così per, per conservarti in qualche modo stabile.
BYRON Goon: Per conservare una qualche speranza che in fondo c'è
un modo per affrontare la cosa.

255
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

BRIAN: Sì, il rovescio della medaglia è che a volte mi sembra di sfiorare


la disperazione. E un'altra cosa che mi salta in mente è che - sì, la speranza
che le mie peggiori paure non si avvereranno, cioè che ci dovrò vivere per
sempre.

n conflitto provato da Brian è così grande non solo per la sua


onestà, per la sua consapevolezza della seduzione del pensiero
magico, ma anche perché le conseguenze sono enormi. Dare no­
me all'origine del dolore significa impadronirsi del potere di alle­
viarlo, e l'intensità del dolore richiede una certa urgenza. Dare
nome all'origine del dolore è anche un passo critico nella rico­
struzione del mondo. Il conflitto sulle narrazioni è un conflitto
sulla costruzione biografica. Il dolore è una parte essenziale del
sé, o è "meramente" una parte del corpo? Può il dolore come og­
getto essere separato dal sé come soggetto, differenziando così il
soggetto dal mondo che agisce su di lui, o invece il soggetto deve
"subire passivamente" il dolore? L'espressione di un sé integrato
dipende dalla risposta a queste domande. n conflitto sulle inter­
pretazioni è anche la base per sviluppare un'immagine social­
mente accettata e convalidata del suo problema. Se il disturbo
dell'ATM è un'interpretazione accettata, è più probabile che ven­
ga accolta anche la "realtà" del problema. È un problema medi­
co, con un'oggettività dichiarata, riconosciuto non solo dagli spe­
cialisti, ma da una comunità, dai membri del gruppo di"supporto
per le malattie croniche, che stanno a testimoniare la sua oggetti­
vità e validità. Sono le fondamenta per ricostruire una relazione
con un mondo consensuale, un mezzo per rientrare nel mondo di
tutti i giorni. In definitiva, il conflitto riguarda la scoperta di un
nome efficace, di una diagnosi efficace che serva da base per un
trattamento e un rimedio.
Sfortunatamente, al tempo dell'intervista, il conflitto rimaneva
ancora irrisolto. "È tutto tornato ancora a una certa ambiguità.
Al mio conflitto col corpo. È il mio corpo? È il mio processo di
pensiero che attiva le tensioni fisiche? Sono io o è l'inverso, no? È
tutta questa incertezza". Quasi alla fine dell'intervista gli chiesi
come avrebbe risposto se gli avessi chiesto per quale linea pro­
pendesse in quel momento. "Proprio adesso, non ho ancora pre­
so una decisione . . . ma nella mia mente quello che vorrei è poter­
mi dire che è stata una cosa fisica, se potessi avere un po' meno

256
UN CORPO CHE SOFFRE

dolore, penso che potrei gestire certe cose se solo non stessi così
male". E per via di questa speranza, Brian continua a cercare ri­
sposte. C'è un chirurgo consigliato da un membro del gruppo di
supporto. C'è qualcuno coinvolto in uno studio presso un centro
del dolore. Il programma televisivo "20/20" descrive il caso di
una donna col disturbo dell'ATM. Ha affrontato "un programma
di cura durato quattro giorni, ed è stata curata completamente".
"Libera dal dolore", dice suo padre. "Ora lei è libera dal dolore",
dice Brian. "Ha ancora il disturbo, ma è arrivata a non avere più
delle disfunzioni a causa di esso. Capisci? Ha superato una grossa
quantità di dolore". La speranza rimane.
"Mi sorprende come in mezzo a tutto questo", continua suo
padre, "lui si metta a fare un dipinto, e quello che viene fuori è ri­
gorosamente individuale, è la sua opera. Non puoi confonderla
con un'altra". Brian è un artista. Quando il linguaggio come stru­
mento di autoestensione, come "mezzo con cui il dolore potreb­
be essere trasferito nel mondo ed eliminato" (Scarry, 1985, p. 86)
viene meno, Brian si mette a dipingere. Per un po' ha fatto dipinti
surrealisti e ne sono emerse molte "immagini bizzarre, subcon­
scie". Gli chiesi se almeno ci fosse un modo di incorporare la sua
esperienza attraverso l'arte.

BRIAN: Beh, ci sono volte in cui io, quando ci sono tante cose che sono
ineffabili, riguardo a tutto quello che succede internamente, riesco a espri­
mermi nell'arte. Molte cose bizzarre, che non posso verbalizzare, vengono
fuori nelle immagini che butto sulla tda . . . Se ho una persona che grida
dentro di me, qualcuno che strilla e urla e cerca di uscire, a volte non lo fac­
cio concretamente. Lo sai, non lo faccio con le parole. Lo faccio con - vie­
ne fuori nella pittura . . .
È un modo di risolvere qualcosa. Se non posso farlo in nessun altro mo­
do, allora posso farlo dipingendo. Ed è anche meglio. Almeno non sei limi­
tato, e . . . non ci conto più.
BYRON Gooo: Provi un senso di liberazione quando finisci di dipingere?
BRIAN: A volte, un po' di realizzazione. Mi sento bene per quello che ho
fatto . . . Spero che esprima un po' dei sentimenti, un po' di come è la reale
profondità della mia esperienza, e qualcun altro può vederlo. E poi a volte,
lo vedono, e . . . beh, mi sembra che ne siano molto, beh, colpiti. Ma ogni
volta che faccio un dipinto, è come esporre un piccolo pezzo di me, così
devo sapere chi è che lo capirà.
BYRON Gooo: È per questo che rifiuti di venderli o di esporli?
BRIAN: Sì, devo sapere . . . se verrà accettato . . . se rivdo qualcosa di me
stesso, qualcosa che può essere, che è molto vulnerabile e, beh, è probabile

257
NARRAZIONE, ESPERIENZA E MONDI MORALI LOCALI

che sia accolto con scetticismo, che le persone non lo capiscano, o che ab­
biano un'impressione completamente diversa, o che lo prendano in giro, è
questa la paura che ho. E no, non posso mostrarlo alle persone comuni con
cui vengo a contatto nel corso della giornata.

Perciò dipingere dà a Brian uno strumento per oggettivare


quello che non può essere espresso attraverso il linguaggio. Egli
continua a cercare cure mediche per trovare un'immagine che
abbia il potere di guarirlo. Questa ricerca è una forma di azione
simbolica, un tentativo di rendere reale e oggettivo il suo dolore,
e un tentativo di esprimere un sé in rapporto a un'immagine sen­
sibile del dolore. A ogni modo, egli è abbastanza coraggioso da
riconoscere il potenziale di mistificazione. E così, a volte, torna al
mondo delle immagini dove si può urlare senza emettere un suo­
no, dove l'ineffabile può trovare espressione, dove un sé estrema­
mente vulnerabile si può avventurare nel mondo.

CONCLUSIONE

Questo capitolo è il riflesso di una conversazione di quattro


ore con un giovane uomo e suo padre. Certamente non si può di­
re che sia rappresentativo della vita di quelle molte persone che
soffrono di disturbi dell'ATM o di dolore cronico. In ogni
'
caso è
teso a testimoniare una singola esistenza e un'esperienza che resi-
ste profondamente al linguaggio. Benché più eloquente della
maggior parte degli altri, Brian ha descritto un mondo molto affi­
ne a quelli descritti da altre persone che soffrono di dolore croni­
co e che hanno partecipato al nostro studio. Quando il dolore è
intenso, il corpo domina la coscienza, "obliterando" i suoi conte­
sti, come sostiene Elaine Scarry. Quando il dolore è cronico, si
estende nel mondo, dando forma al mondo stesso. TI mondo del
dolore diviene un mondo speciale, largamente non condiviso e
non condivisibile, abitato da persone che hanno smesso di rivela­
re "ciò che non può essere negato né confermato". Molti, pur vi­
vendo attivamente nel mondo quotidiano degli altri, resistono al­
le minacce del dolore di "disfare" quel mondo. La ricerca di cura
è a volte disperata, un apparente tentativo di resistere alla sua dis­
soluzione e a quella del sé. Altri, essendo stati troppo spesso de­
lusi dai nomi forniti dalla medicina, sembrano riluttanti a investi-

258
UN CORPO CHE SOFFRE

re speranza nell'aggettivazione del loro dolore in termini medici.


Per molti, le contraddizioni tra psiche e soma in quanto immagini
per le basi della loro sofferenza sono vicine alla coscienza. Accet­
tare la psiche come nome del dolore suggerisce a molti che ciò
che non può essere negato è irreale. Cercare il soma come nome
per il dolore cronico è spesso visto come qualcosa che implica il
pensiero magico, e anche quando viene dato un nome chiaro, co­
me disturbo dell'ATM, esso rimane incurabile. li demone interiore
non risponde a nessuno dei nomi. Di fronte a questo dilemma,
molti di coloro che soffrono di dolore cronico perseverano, su­
bendo il dolore in relativa solitudine, mentre trovano coraggiosa­
mente altri mezzi per l'autoespressione, o nella creazione artisti­
ca, o nel realizzare l'esistenza professionale, o nel costruire una
famiglia.

BffillOGRAFIA

BRANO, G. ( 1 967) , "Intentionality, reduction, and intentional analysis in


Husserl's later manuscripts" . In COCKELMANS,J. (a cura di), The Philo­
sophy o/Edmund Husserl and its Interpretation. Boubleday & Co., New
York.
KLEINMAN, A. ( 1 988) , The Illness Narratives: Suffering, Healing and the
Human Condition. Basic Books, New York.
LIENHARDT, G. ( 1961), Divinity an d Experience: The Religion o/the Dinka.
Oxford University Press, Oxford.
SCARRY, E. ( 1985), La sofferenza del corpo: La distruzione e la costruzione
del mondo. Tr. it. il Mulino, Bologna 1990.
SCHUTZ, A. ( 1 97 1 ) , "Le molte realtà e la loro costituzione" . Tr. it. in Saggi
sociologici. UTET, Torino 1979.
VON KORFF, M. ET AL. ( 1 9'88a), "Temporomandibular disorders: Varia­
tions in clinica! practice". In Medicai Care, 26, pp. 307-3 14.
VoN KoRFF, M. ET AL. (1988b), "An epidemiologica! comparison of pain
complaints" . In Pain, 32, pp. 173- 183 .

259
PARTE TERZA

SOFFERENZA, DIRITTI UMANI


E GIUSTIZIA SOCIALE
I contributi di questa ultima Parte sottolineano l'importanza
di analizzare i rapporti fra processi economico-politici ed espe­
rienza di sofferenza.
Paul Farmer presenta una cornice teorica attraverso cui la ma­
lattia emerge come l'incorporazione biologica delle disuguaglian­
ze sociali. Centrale nella sua analisi è il concetto violenza struttu­
rale, con cui si intendono gli effetti iatrogeni prodotti da ordina­
menti sociali caratterizzati da profonde disuguaglianze.
La medesima enfasi caratterizza anche la riflessione di Didier
Fassin, che, assumendo una prospettiva bio-politica, mette in lu­
ce come la violenza possa essere rinvenuta non solo nelle dinami­
che che, per esempio, portano alcuni individui a migrare in cerca
di condizioni di vita migliori, ma anche nelle politiche e nelle pra­
tiche di accoglienza dei paesi ospitanti. Si produce così una ricor­
sività fra crimini di guerra e crimini di pace, fra violenza esplicita
(guerre e persecuzioni nei paesi di origine) e violenza strutturale
(iscritta nelle normative, nell'ideologia umanitaria che offre un'a­
pertura a chi ha bisogno di cure mediche ma la nega a chi è vitti­
ma, per esempio, di violenza politica, povertà ecc.).
In entrambi gli autori troviamo una dura critica a quegli ap­
procci che, occupandosi esclusivamente di indagare i processi
simbolici attraverso cui l'esperienza di malattia viene cultural­
mente organizzata, tendono ad occultare il peso che i fattori ma­
teriali giocano nell'esposizione di determinati individui a specifi­
ci rischi.
Farmer sottolinea come siano le limitazioni alla capacità di ne-

263
SOFFERENZA, DIRIITI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

goziare i termini della propria esistenza a costituire il principale


meccanismo attraverso cui le disuguaglianze sociali vengono ad
essere incorporate come eventi biologici. È in questo senso che
egli parla di patologie del potere: se la malattia è spesso legata alla
violazione dei diritti fondamentali, allora la terapia più adeguata
è senza dubbio la promozione di quei diritti e della giustizia so­
ciale.

264
8

SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTTURALE


DIRITTI SOCIALI ED ECONOMICI NELL'ERA GLOBALE
Paul Farmer

La crescita del PNL o dei redditi industriali può sicuramente essere molto
importante come mezzo per espandere le libertà di cui godono i membri
della società. Ma le libertà dipendono anche da altri fattori, come le
strutture sociali ed economiche (per esempio i servizi di educazione e as­
sistenza sanitaria), o i diritti politici e civili (ad esempio, la libertà di par­
tecipare alla discussione pubblica e al voto).
AMARTYA SEN, Lo sviluppo è libertà

Dov'è che pagano il reddito medio pro capite? C'è più di un morto di fa­
me che vorrebbe saperlo.
Dalle nostre parti, i numerini hanno miglior fortuna delle persone.
Quanti se la passano bene quando va bene l'economia? Quanti ne svi­
luppa lo sviluppo?
EDUARDO GALEANO, I numerini e la gente

Tutti sanno che la sofferenza, la violenza e la miseria esistono.


Come possiamo però definirle? Posto che il dolore possiede per la
persona che lo patisce una realtà che il dolore osservato negli altri
non potrà mai nemmeno sfiorare, come è possibile giungere a una
intesa generale su tale argomento? Eppure le persone sono d' ac­
cordo, a volte, su cosa sia la sofferenza estrema: malattie premature
e dolorose, la tortura e lo stupro. Anche le offese più insidiose alla
dignità, come il razzismo istituzionalizzato e le disuguaglianze di
genere, sono indicati dalla maggior parte delle persone come causa
di immensa e ingiustificata sofferenza.
La sofferenza è quindi un fatto. Da qui però derivano una serie
di que�tioni collaterali. Ogni volta che parliamo di medicina o di
politica comincia a prendere forma una "gerarchia della sofferen­
za", dal momento che è impossibile affrontare tutti i casi insieme

265
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

allo stesso tempo. Possiamo individuare le aggressioni peggiori? I


casi più a rischio di estrema sofferenza? Tra le persone la cui sof­
ferenza non è mortale, è possibile individuare quelle più a rischio
di subire un danno permanente e quelle più esposte a un danno
debilitante? Certi eventi, come la tortura e lo stupro, hanno mag­
giori probabilità di portare a pesanti ripercussioni rispetto a una
sofferenza insidiosa e prolungata, come il dolore generato dalla
profonda indigenza o dal razzismo? Si può dimostrare che certe
forme subdole di discriminazione siano più nocive di altre?
Gli antropologi e coloro che si occupano di tali problematiche,
indagano tanto l'esperienza individuale quanto la più ampia ma­
trice sociale in cui essa si inscrive, allo scopo di vedere come mol­
teplici processi ed eventi sociali arrivano a essere tradotti in disa­
gio e malattia personali. Più precisamente, attraverso quali mecca­
nismi forze sociali che vanno dalla povertà al razzismo vengono a
essere incorporate come esperienza individuale?1 Questo è stato
l'oggetto di gran parte del mio lavoro di ricerca ad Haiti, dove for­
ze politiche ed economiche hanno strutturato il rischio di esposi­
zione all'AIDS e alla tubercolosi, come del resto a molte altre malat­
tie infettive e parassitarie. Le stesse forze sociali ll in azione hanno
parimenti prodotto il rischio di esposizione a molte altre forme di
sofferenza estrema: dalla fame, alla tortura, allo stupro.
Lavorare oggi ad Haiti, dove negli ultimi decenni la violenza po­
litica è andata a sommarsi alla più estrema condizione di povertà
dell'emisfero, insegna molte cose sulla sofferenza. Di fatto il Paese
ha costituito per molto tempo una sorta di laboratorio vivente per
lo studio dell'afflizione, indipendentemente da come la si voglia
definire.2 Come osservava una trentina d'anni fa l'antropologo Jean
Weise: "La vita del contadino haitiano oggi è caratterizzata da una

l. n paradigma dell'incorporazione, per il quale siamo certamente in debito con


Merleau-Ponty (1945), è stato ampiamente utilizzato in antropologia medica. Per
una utile rassegna si vedano i lavori di Csordas ( 1990 e 1994).
2. Sidney Mintz ci ricorda la non-novità di molti dei fenomeni globali oggi stu­
diati. Più in particolare, la storia di Haiti e gran parte di quella caraibica, precorre le
attuali critiche in merito al transnazionalismo: "Perché, allora, il vocabolario di
quegli eventi è diventato così comodo ai transnazionalisti di oggi? Uno ha forse il
diritto di chiedersi se questo vuoi dire che il mondo è diventato un macrocosmo di
quello che era la regione dei Caraibi nel sedicesirno secolo? Se è così, non dovrem­
mo chiederci come mai c'è voluto così tanto al mondo per mettersi in pari - special­
mente dal momento che quello che sta succedendo ora si suppone sia qualitativa­
mente diverso dal passato recente? O piuttosto l'esperienza caraibica è stata solo un

266
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTTURALE

miserabile povertà e da una indecente familiarità con la morte"


(Weise, 197 1 , p. 38). li problema maggiore è rappresentato, natu­
ralmente, da una povertà inimmaginabile, dal momento che una
lunga serie di regimi dittatoriali si è prodigata a negare, più che a tu­
telare, i diritti dei lavoratori, anche sulla carta. Come notò Eduardo
Galeano nel 197 1 , al culmine della dittatura di Duvalier, "ad Haiti
[. . ] il salario previsto per legge sembra appartenere al regno della
.

fantascienza; nelle piantagioni di caffè il salario reale oscilla tra i 7 e


i 15 centesimi di dollaro al giorno (Galeano, 197 1 , p. 1 16).3
Per certi versi la situazione da allora è peggiorata. Quando nel
1991 esperti di sanità internazionale e popolazione idearono un
"indice di sofferenza umana" prendendo in esame diverse misure
del benessere, dall'aspettativa di vita alla libertà politica, 27 paesi
su 141 furono classificati sotto la voce di "estrema sofferenza
umana" .4 Solo uno di questi paesi, Haiti, era collocato nell'emi­
sfero occidentale. Solo in tre paesi sulla terra la sofferenza fu giu­
dicata superiore a quella subita ad Haiti; ognuno di questi tre
paesi era nel mezzo di una guerra civile riconosciuta dalla comu­
nità internazionale.
La sofferenza è certamente una condizione diffus a e scontata
nell'area del Plateau Centrai di Haiti, dove la vita quotidiana è stata
abbastanza spesso simile a una guerra. "Ti svegli la mattina", dice­
va una giovane vedova con quattro figli, "ed è una lotta per il cibo,
la legna, l'acqua" . Anche se inizialmente sono colpiti dalla austera

capitolo di un libro che veniva scritto prima che il titolo del libro - capitalismo
mondiale - diventasse noto ai suoi autori?" (Mintz, 1997, p. 120).
3. Vale la pena notare come quelli che hanno un lavoro miserabile sono nondi·
meno ritenuti fortunati in un paese dove la disoccupazione viene stimata, dall'onni­
sciente Central lntelligence Agency, intorno al 70% (us CIA, 2001). Non ci si meravi­
gli che la CIA sia interessata alla questione: Haiti, fino a tempi abbastanza recenti, è
stata una delle maggiori assemblatrici mondiali dei prodotti degli Stati Uniti. Per ul­
teriori notizie sulle condizioni dei lavoratori haitiani negli stabilimenti di assemblag­
gio d'oltremare di proprietà statunitense, vedi Kemaghan (1993). Certamente le in­
dustrie statunitensi non sono le sole a sfruttare il lavoro a basso costo ad Haiti, come
risulta da un recente rapporto sulle condizioni di lavoro nelle piantagioni di arance
che conferiscono al liquore Grand Marnier il suo tipico sapore (Butler, 2000).
4. Oltre agli indicatori standard di benessere e di sviluppo, l'"indice di sofferenza
umana" prende in considerazione fattori come l'accesso all'acqua potabile pulita, l' ap­
porto calorico quotidiano, la libertà religiosa e politica, il rispetto dei diritti civili, e il
grado di ineguaglianza di genere. Per informazioni sull'indice di sofferenza umana e le
sue modalità di derivazione, vedi il sito Web http://www.basics.org/programs/
basicsllhaiti.html.

267
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

bellezza dei monti scoscesi della regione e dal clima mite, i visitato­
ri che si fermano a lungo nella zona arrivano a vedere il Plateau
Centrai quasi alla stessa maniera dei suoi abitanti: come una terra
arida, di gesso, ostile ai più tenaci sforzi dei contadini che ci vivo­
no. La mancanza di terra è la norma e, di conseguenza, lo stesso va­
le per la fame. Tutti gli indici standard rivelano quanto sia sottile il
filo che lega la popolazione alla sopravvivenza. L'aspettativa di vita
alla nascita è inferiore ai cinquanta anni, in gran parte perché circa
due bambini su dieci muoiono senza giungere al loro primo com­
pleanno.' La tubercolosi e l'AIDS sono le cause principali di morte
tra gli adulti, mentre tra i bambini troviamo dissenteria, morbillo e
tetano, che giungono a fare una strage tra i malnutriti.6
Ma l'esperienza della sofferenza, come si osserva spesso, non
può essere comunicata efficacemente attraverso statistiche o gra­
fici. Infatti, la sofferenza dei poveri del pianeta solo raramente si
intromette nella coscienza dei benestanti, anche qualora si dimo­
stri che il benessere dei secondi ha un rapporto diretto con la sof­
ferenza dei primi. Questo vale anche quando all'ordine del gior­
no ci sono violazioni palesi dei diritti umani, ed è ancor più vero
quando in ballo c'è la violazione dei diritti sociali ed economicC
Poiché la "trama" della più atroce afflizione si percepisce meglio

5. A seconda della fonte, variano le statistiche demografiche. :Secondo il Rap­


porto sulla Salute del mondo 2000 della Organizzazione Mondiale' della Sanità, l'a­
spettativa di vita alla nascita è di 52,8 anni, mentre il tasso di mortalità per i bambini
sotto i cinque anni è di 1 15,5 bambini su 1000 (OMS, 2000). La CIA, che dovrebbe es­
sere ben informata, riporta statistiche ancora più allarmanti: aspettativa di vita alla
nascita per gli uomini, 47.5 anni, mentre 49.2 anni per le donne (us CIA 2000). Nel
Plateau Central i'aspettativa di vita è probabilmente più bassa e il tasso di mortalità
più alto che da altre parti di Haiti. Si veda anche il rapporto per il 2001 dello United
Nations Development Programme (UNDP, 2001).
6. Per una rassegna su morbidità e mortalità ad Haiti, si vedano i rapporti della
Organizzazione Mondiale della Sanità e del UNDP citati nella nota precedente. L'Or­
ganizzazione Sanitaria Panamericana aggiorna regolarmente i suoi dati su Haiti. Per
una rassegna dei trend sanitari nella zona centrale di Haiti, si veda Farmer e Bertrand
(2000), oltre a Farmer ( 1999); quest'ultimo volume presenta anche informazioni per­
tinenti su lflV e tubercolosi ad Haiti. Chi cercasse gli ultimi dari disponibili sull'mv
dovrebbe consultare UNAIDS/OMS 2000, con informazioni aggiornate sul web.
7. È difficile pensare a un esempio più adatto del massacro del 1981 di tutti gli
abitanti di El Mozote, el Salvador, da parte delle truppe addestrate e finanziate da­
gli USA. Leigh Binford traccia le sfide affrontate da coloro che portavano questi
eventi all'attenzione pubblica: "Dal gennaio 1983 al dicembre 1989, El Mozote fu
citato in una quindicina di articoli pubblicati soltanto dai principali giornali statu­
nitensi e canadesi (durante questo stesso periodo il governo degli USA fonù ai mili-

268
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTIURALE

nella fine tessitura delle biografie, presenterò qui la storia di


Acéphie Joseph e di Chouchou Louis. 8 Dal momento che ogni
esempio sottintende la propria rilevanza, dirò fin dall'inizio che
le storie di Acéphie e di Chouchou sono ben lungi dall'essere de­
gli "aneddoti". Agli occhi dell'epidemiologo e dell'analista poli­
tico, infatti, essi sono morti in una maniera esemplare. Milioni di
persone che vivono in condizioni analoghe possono aspettarsi di
andare incontro allo stesso destino. Ciò che queste vittime, ieri
come oggi, condividono non sono certo attributi personali o psi­
cologici. Esse non condividono cultura, linguaggio o razza.
Quello che condividono è piuttosto l'esperienza di occupare il
gradino più basso della scala sociale all'interno di società non
egualitarie.

lA STORIA DI ACÉPIDE

Per la ferita della figlia del mio popolo sono affranto,


sono costernato, l'orrore mi ha preso.
Non v'è forse balsamo in Gàlaad?
Non c'è più nessun medico?
Perché non si cicatrizza la ferita della figlia del mio popolo?
Chi farà del mio capo una fonte di acqua,
dei miei occhi una sorgente di lacrime,
perché pianga giorno e notte
gli uccisi della figlia del mio popolo?
GEREMIA, 8,21 -8,26

Kay, una comunità che conta meno di tremila persone, si di­


stende lungo una strada sterrata che taglia verso nord-est il Pla­
teau Centrai di Haiti. Partendo da Port-au-Prince, la capitale, ci
si possono mettere delle ore a raggiungere Kay, in particolare se si
viaggia nella stagione delle piogge, quando la strada principale
che attraversa Haiti diventa una serpentina fangosa. Tuttavia an-

tari salvadoregni più di 500 milioni di dollari in assistenza militare diretta). [ . . ] La


.

copertura di El Mozote ci mostra come per i giornalisti, non meno che per la mag­
gior parte delle persone occidentali, la vita quotidiana di miliardi di persone nel re­
sto del mondo non esiste al di fuori dei parametri di crisi o di scandalo: uragani, ter­
remoti, eruzioni vulcaniche, siccità, carestie e guerre civili" (1996, p. 4).
8. I nomi degli haitiani qui citati sono stati cambiati, come pure i nomi dei loro
villaggi.

269
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

che durante la stagione secca il viaggio dà l'impressione dell'iso­


lamento, dell'insularità. Un'impressione ingannevole, però, visto
che il villaggio deve la sua esistenza a un progetto concepito nella
capitale haitiana e definito a Washington DC: Kay è un insedia­
mento di profughi, composto principalmente da contadini stan­
ziatisi n più di quaranta anni fa per la costruzione della più gran­
de diga di Haiti.9
Prima del 1956, il villaggio di Kay era situato in una valle ferti­
le, in cui scorreva l'Artibonite, il fiume più grande di Haiti. Per
generazioni, migliaia di famiglie avevano coltivato l'ampio decli­
vio sulle sponde del fiume, vendendo riso, banane, miglio, grano
e zucchero di canna nei mercati della regione. I raccolti erano, a
detta di tutti, copiosi; oggi quella vita viene ricordata come idil­
liaca. Quando la valle venne sommersa, la maggioranza della po­
polazione locale fu costretta sulle pietrose pendici collinari delle
sponde del nuovo lago artificiale. Rispetto a tutti gli indicatori
abituali, i "profughi dell'acqua" diventarono oltremodo poveri; i
più anziani oggi se la prendono spesso con il massiccio sperone
della diga a poche miglia di distanza, colpevole della loro po­
vertà, osservando amaramente come a loro non abbia portato né
elettricità né acqua.
Nel 1983 , quando iniziai a lavorare nella zona del Plateau Cen­
trai, l'AIDS stava già affliggendo un numero sempre più elevato di
abitanti delle città, ma era sconosciuto nelle aree rurali come
quella di Kay. Acéphie }oseph fu una delle prime abitanti del vil­
laggio a morire per la nuova sindrome. Ma la sua malattia, che eh-

9. C'è un'ampia letteratura a proposito dell'impatto delle dighe sull'esistenza


degli sfollati. In antropologia, un esempio classico è lo studio del 1971 di Elisabeth
Colson. Alaka Wali (1989) traccia il destino dei trapiantati da una diga idroelettrica
a Panama. Due libri diversi, più recenti, sull'argomento, forniscono degli esempi
pregnanti delle conseguenze della costruzione di grandi dighe: Cost o/ Living di
Arundhati Roy (1999), che contiene una protesta appassionata contro la diga di
Sardar Samovar nella Narmada Valley, in India; Silenced Rivers: The Ecology and
Politics o/Large Dams di Patrick McCully (1996) traccia dettagliatamente gli effetti
specifici delle grosse dighe. Michael lgnatieff (2001 , p. 167) delinea i legami tra di­
ritti umani e progetti di dighe in termini specifici: "Una prospettiva di sviluppo ba­
sata sui diritti umani, per esempio, sarebbe critica verso qualsiasi strategia macroe­
conomica che ottenesse una crescita economica complessiva al prezzo dei diritti di
significativi gruppi di individui. Un progetto di diga che eleva la capacità di genera­
zione elettrica al prezzo di allagare le terre dei poveri senza compensazioni e risarci­
menti è una ingiustizia, anche se il beneficio economico complessivo di una tale mi­
sura è chiaro".

270
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTIURALE

be fine nel 1991, fu solo l'ultima di una serie di tragedie che lei e i
suoi genitori cucirono insieme in un lungo lamento ormai fami­
liare a coloro che si prendono cura dei malati della regione.
La litania inizia, di solito, ai piedi della vallata, ora celata sotto
la piatta superficie del lago. Entrambi i genitori di Acéphie veni­
vano da famiglie che avevano vissuto un'esistenza decorosa colti­
vando tratti fertili di terra - il loro "giardino degli antenati" - e
vendendo gran parte dei loro prodotti. Suo padre lavorava la ter­
ra e sua moglie, una donna alta e stancamente elegante, che non
aveva affatto l'età che dimostrava, era una "Ma dame Sarah", una
donna del mercato. "Se non fosse per la diga", mi disse una volta,
" adesso staremmo bene. Anche Acéphie". La casa dei Joseph fu
sommersa, insieme a molti dei loro oggetti di proprietà, ai loro
raccolti e alle tombe dei loro antenati.
Profughi dell'avanzata delle acque, i Joseph costruirono una
misera capanna su un poggio sopraelevato che dava sul nuovo la­
go artificiale. Rimasero fissi sul loro poggio per alcuni anni;
Acèphie e suo fratello gemello nacquero lì. Domandai cosa li ave­
va indotti a trasferirsi sulla collina e a costruire una casa sul duro
terrapieno di una strada polverosa. "La nostra capanna era trop­
po vicina all'acqua", rispose il padre. "Avevo paura che uno dei
bambini potesse cadere in acqua e annegare. La madre doveva
andare in giro a vendere; io cercavo di fare un giardino su questo
terreno terribile. Non c'era nessuno a controllarli".
Acéphie frequentò la scuola elementare in un riparo di foglie
di banano all'aria aperta, in cui i bambini e i ragazzi di Kay riceve­
vano i rudimenti di una educazione. "Era la più carina delle so­
relle Joseph", ricordava una delle sue compagne. "Ed era simpa­
tica tanto quanto carina" . La bellezza di Acéphie - era alta e ben
fatta, con due grandi occhi neri - e la sua vulnerabilità potrebbe­
ro avere segnato il suo destino di morte già nel 1984. Sebbene an­
cora alle scuole elementari, aveva già diciannove anni ed era giun­
to il momento di aiutare con le entrate la famiglia, che stava
sprofondando sempre più nella povertà. Acéphie iniziò ad aiuta­
re la madre portando i prodotti a un mercato locale il venerdì
mattina. A piedi o su un asino, ci vuole più di un'ora e mezza a
raggiungere il mercato, e la strada passa proprio nel mezzo di Pé­
ligre, il sito della diga nonché della caserma militare. Ai soldati
piaceva guardare la parata delle donne il venerdì mattina. A volte

27 1
SOFFERENZA, DIRITII UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

poi le tassavano, letteralmente, con tariffe imposte totalmente a


caso; a volte imponevano il pedaggio di maliziose canzonature.
Queste attenzioni vengono raramente rifiutate, almeno appa­
rentemente. Nella Haiti rurale, l'estrema povertà ha reso i soldati
- gli unici uomini salariati della regione - attraenti come mai pri­
ma. La fame era l'abitudine quasi di ogni giorno, per la famiglia
Joseph; i tempi erano bui come all'epoca dell'inondazione della
valle. E così quando la bellezza di Acéphie attirò l'attenzione del
capitano Jacques Honorat, nativo di Balladère e precedentemen­
te di stazione a Port-au-Prince, lei ricambiò lo sguardo.
Acéphie sapeva, come tutti nella zona, che Honorat aveva mo­
glie e figli. Era infatti noto per le sue svariate partner. Ma Acéphie
fu invischiata dalla sua insistenza, e quando lui andò a parlare coi
suoi genitori, un legame a lungo termine iniziò a sembrare una se­
ria possibilità:

Cosa dovevo fare? Potrei dire che gli anziani si sentivano a disagio, era­
no preoccupati; ma non dissero di no. Non mi dissero di stare alla larga da
lui. Vorrei che lo avessero fatto, ma come potevano saperlo? [. . . ] Sapevo
che era una cattiva idea, allora, ma non sapevo perché. Non potevo nean­
che sognarmi che mi avrebbe dato una brutta malattia, mai! Mi guardavo
intorno e vedevo come eravamo poveri, come erano finiti gli anziani [ . . ] ,
.

cosa avrei dovuto fare? Era una via d'uscita, così mi sembrava.

Acéphie e Honorat furono amanti solo per poco tempo - per


meno di un mese, secondo Acéphie. Poco dopo, Honorat si am­
malò inspiegabilmente e rimase con la moglie a Péligre. Dato che
Acéphie cercava un moun prensipal - un "uomo importante" ­
tentò di dimenticarsi del soldato. Eppure, fu uno shock per lei
sentire, pochi mesi dopo che si erano divisi, che lui era morto.
Acéphie si trovava in una congiuntura cruciale della sua vita.
Tornare a scuola era fuori discussione. Dopo essersi guardata un
po' intorno, andò a Mirebalais, il paese più vicino, e cominciò un
corso che eufemisticamente chiamava " scuola di cucina" . La
scuola - solo un ambizioso cortile di donne - preparava le ragaz­
ze povere come Acéphie al loro inevitabile ruolo di serve in città.
In realtà diventare cameriere stava diventando una delle rare atti­
vità in crescita ad Haiti e, per quanto la madre di Acéphie dete­
stasse pensare a sua figlia ridotta a fare la serva, non poteva offrir­
le alcuna vera alternativa.

272
SOFFERENZA E VIOLENZA S1RUTI1JRALE

Così Acéphie, ventiduenne, se ne andò a Port-au-Prince, dove


trovò un lavoro come domestica per una donna haitiana del ceto
medio che lavorava all'ambasciata americana. L'aspetto e le ma­
niere di Acéphie la tennero lontano dal cortile posteriore, il ran­
go tradizionale per i servitori haitiani. Fu infatti designata come
cameriera che, oltre a pulire, doveva aprire la porta e rispondere
al telefono. Anche se non veniva pagata bene - prendeva trenta
dollari al mese - si ricordava della fame che consumava i suoi al
villaggio e riusciva a risparmiare un po' di soldi per i genitori e i
fratelli.
Ancora alla ricerca del moun prensipal, Acéphie cominciò a
frequentare Bianco Nerette, un giovane dalle origini simili alle
sue: anche i genitori di Bianco erano "profughi delle acque" e
Acéphie l'aveva conosciuto quando andavano alla parrocchia di
Kay. Bianco se l'era cavata bene, per gli standard di Kay: guidava
un piccolo autobus che andava dal Plateau Centrai alla capitale.
In una situazione in cui il tasso di disoccupazione superava il
60%, godeva di un notevole rispetto, e iniziò a rivolgere le sue at­
tenzioni ad Acéphie. Progettarono di sposarsi e iniziarono a met­
tere da parte i loro risparmi.
Acéphie rimase in casa della "donna dell'ambasciata" per più
di tre anni, fino a quando scoprì di essere incinta. Appena lo disse
a Bianco, si accorse che lui si incupiva. Neanche alla sua datrice
di lavoro piacque la notizia: è infatti considerato sconveniente
avere una serva incinta. Così Acéphie tornò a Kay, dove ebbe una
gravidanza difficile. Bianco venne a trovarla una o due volte. Liti­
garono e da allora non ebbe più sue notizie. Dopo la nascita di
sua figlia, Acéphie fu logorata da ripetute infezioni. Paziente re­
golare della nostra clinica, le fu diagnosticato l'AIDS.
Nei mesi successivi alla nascita della figlia, la vita di Acéphie si
consumò tra grandi sudate notturne, diarrea debilitante e il ten­
tativo di prendersi cura della bimba. "Abbiamo tutte e due biso­
gno del pannolino" , notava con amarezza, verso la fine della sua
vita. Poiché la violenza politica impedì ai suoi medici di tenere
aperta la clinica, Acéphie si trovava ogni giorno non solo di fron­
te alla diarrea, ma a una persistente debolezza. Dato che si faceva
sempre più magra, alcuni abitanti del villaggio andavano dicendo
che era vittima di stregoneria. Altri ricordavano la sua storia col
soldato e il suo lavoro come serva in città, considerati allora fatto-

273
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

ri di rischio per l'AIDS. Acéphie stessa sapeva di avere l'AIDS, an­


che se era più propensa a dire che aveva un disturbo causato dal
suo lavoro di serva: "Tutto quello stirare, e aprire il frigorifero".
Morì lontana da frigoriferi e altre amenità, mentre la sua famiglia
e chi l'aiutava se ne stavano a guardare senza poter fare nulla.
Ma questa non è solo la storia di Acéphie e di sua figlia, anche
lei infettata dal virus. C'è anche la moglie di Jacques Honorat,
che ogni anno che passa diventa sempre più magra. Dopo la mor­
te di Honorat, si ritrovò disperata, priva di mezzi per dare da
mangiare ai suoi cinque figli affamati, due dei quali anch'essi ma­
lati. La sua unione successiva fu anche quella con un soldato. Ho­
norat aveva almeno due altre partner, entrambe povere contadine
del Plateau Centrai. Una è sieropositiva e ha due figli malati. E
poi c'è Bianco, ancora un bel ragazzo, apparentemente sano, che
fa la spola sulle strade da Mirebalais a Port-au-Prince. Chi lo sa se
è portatore del virus? Come autista, è pieno di ragazze.
Eppure questa non è solo la storia di un contagio dall'HIV. li do­
lore della madre di Acéphie e di suo fratello gemello era palese­
mente molto forte. Ma in pochi intuirono l'angoscia di suo padre.
Poco dopo la morte di Acéphie, egli si impiccò con una corda.

lA STORIA DI CHOUCHOU

Non ho mai trovato l'ordine


Che ho cercato
Ma sempre un minaccioso
E pianificato disordine
Che cresce tra le mani
Di chi stringe il potere
Mentre gli altri
Che invocano
Un mondo più giusto
Un mondo meno affamato
E dove ci sia più speranza
Muoiono di tortura
Nelle prigioni,
Non avvicinarti
C'è tanfo di cadaveri
Attorno a me.
CLARIBEL ALEGIÙA, Desde elpuente

274
SOFFERENZA E VIOLENZA SlRUTIURALE

Chouchou Louis crebbe non lontano da Kay, in un altro picco­


lo villaggio, sull'altopiano scosceso e arido del Plateau Centrai di
Haiti. Frequentò le elementari per un paio d'anni, ma fu costret­
to a ritirarsi quando morì sua madre. Poi, adolescente, Chouchou
si unì al padre e a una sorella maggiore nella cura dell'orto. In po­
che parole, non ci fu niente di notevole nell'infanzia di Chou­
chou. Essa fu breve e dura, come per la maggior parte delle per­
sone nella Haiti rurale.
Negli anni Ottanta, le attività organizzate dalla chiesa erano la
sola distrazione di Chouchou. Furono anni duri, questi, per gli
haitiani poveri, schiacciati da una dittatura familiare al suo terzo
decennio. I Duvaliers, padre e figlio, governavano con la violen­
za, indirizzata principalmente alle persone che vivevano nelle
condizioni di Chouchou Louis. Benché molti tentassero di fuggi­
re, spesso in barca, la linea politica statunitense stabili che i fug­
giaschi alla ricerca di asilo politico erano "rifugiati economici".
Come parte di un accordo siglato nel 1981 tra l'amministrazione
di Ronald Reagan e Jean-Claude Duvalier (detto "Baby Doc"), i
rifugiati acciuffati dalla guardia costiera americana nelle acque
extraterritoriali, venivano fatti rientrare con procedura sommaria
ad Haiti. Durante i primi dieci anni di accordo, circa ventitremila
haitiani fecero richiesta di asilo politico negli Stati Uniti. Furono
otto le richieste approvate. 10
Un movimento haitiano, sempre più numeroso, per la demo­
crazia portò alla fuga di Duvalier nel febbraio del 1986. Chou-

10. Per una rassegna ampia e ben documentata sulla condizione dei profughi
haitiani, si veda: "Symposium: the Haitian refugee crisis: a closer look", un numero
speciale dd 1993 del Georgetown Immigration Law Journal. In una eccellente pano­
ramica sulle radìci della violazione dei diritti umani ad Haiti, un saggio contenuto in
questo numero descrive il patto Reagan-Duvalier (Ordine Esecutivo 12.324, ema­
nato da Ronald Reagan il 29 settembre 1981): "D Programma di Interdizione è fun­
zionato con decisa efficacia durante l'era di Duvalier. Dal suo inizio alla fine del
1981, migliaia di haitiani sono stati bloccati e rimpatriati ad Haiti con la forza. In tut­
ti i casi la guardia costiera ha distrutto la nave proveniente da Haiti e il cutter della
guardia costiera tornava a Port-au-Prince gremito di persone in cerca di asilo. Nono­
stante la ben documentata evidenza di abusi sistematici e massicci nei confronti dei
diritti umani durante l'era Duvalier e sotto i governi militari successivi, tutti tranne
otto dei 23.000 haitiani interdetti furono ricondotti ad Haiti tra l'ottobre dd 1981 e
il settembre dd 1991, quando il presidente Aristide fu rovesciato con un colpo mili­
tare. Le interviste effettuate sui cutter della guardia costiera erano intrinsecamente
viziate e aiutano a spiegare la generale scoperta che tutti gli interdetti erano 'rifugiati
economici"' (O'Neill, 1993, p. 96).

275
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

chou Louis, che doveva avere circa vent'anni quando cadde


"Baby Doc", poco dopo si comprò una piccola radio. "Tutto quel­
lo che faceva", ricordava la moglie, "era lavorare la terra, ascoltare
la radio e andare in chiesa". Alla radio, Chouchou sentì parlare
delle persone che avevano preso il comando dopo la fuga di Duva­
lier. Come tanti altri, nella Haiti rurale, Chouchou era preoccupa­
to per aver sentito che il potere era stato affidato ai militari, guida­
ti da duvaliéristes incalliti. Fu questo l'esercito che il governo degli
Stati Uniti definì "la migliore scommessa di Haiti per la democra­
zia" (un giudizio difficilmente disinteressato: gli Stati Uniti aveva­
no creato il moderno esercito di Haiti nel 1916). Nei diciotto mesi
che seguirono la dipartita di Duvalier, più di duecento milioni di
dollari di aiuti americani passarono nelle mani della giunta.11
All 'inizio del 1989, Chouchou andò a stare con Chantal Brisé,
con la quale aspettavano un bambino. Vivevano insieme quando
Padre Jean-Bertrand Aristide - da allora considerato il leader del
movimento democratico - dichiarò la sua candidatura alla presi­
denza nelle elezioni del 1990, monitorate da una commissione in­
ternazionale. Nel dicembre di quell'anno, quasi il 70% dei votan­
ti scelse Padre Aristide da una lista di almeno una dozzina di can­
didati alla presidenza. Non ci fu bisogno di nessun ballottaggio:
Aristide si conquistò la maggioranza al primo round.
Come la maggior parte dei contadini haitiani, Chouchou e
Chantal accolsero l'elezione di Aristide con grande gioia. Per la
prima volta, infatti, i poveri - la stragrande maggioranza degli hai­
tiani, fino ad allora ridotti al silenzio - sentirono di avere qualcuno
che rappresentava i loro interessi nel palazzo presidenziale. È per
questo che il successivo colpo di stato del settembre 1991 suscitò
grande indignazione nelle campagne, dove vive appunto la mag­
gior parte degli haitiani. La rabbia fu presto seguita dalla tristezza
e poi dalla paura, quando la macchina repressiva dello stato, che
era stata tenuta a bada nei sette mesi della reggenza di Aristide, fu
rapidamente rimessa in funzione sotto il patrocinio dell'esercito.
Un giorno, a un mese dal colpo di stato, Chouchou era seduto
su un camion diretto alla cittadina di Hinche. Chouchou offrì al-

1 1 . Per maggiori informazioni sugli aiuti americani ai governi post-Duvalier ad


Haiti vedi Farmer (1994) e Ridgeway (1994). Anche Hancock (1989) discute l'im­
patto del sostegno degli USA ai regimi dei Duvalier.

276
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTIURALE

l'attenzione dei suoi compagni di viaggio uno di quelli che gli hai­
tiani chiamano pwen, ovvero una osservazione pungente che vuole
dire qualcosa di diverso dal suo significato letterale. Mentre sob­
balzavano lungo la strada, cominciò a lamentarsi per le condizioni
della strada, osservando che, "se le cose fossero come dovrebbero
essere, queste strade sarebbero già state riparate" . Un testimone
oculare mi raccontò poi che nel commento non fu mai citato il no­
me di Aristide. Ma i suoi compagni di viaggio riconobbero che le
osservazioni di Chouchou deploravano velatamente il colpo di sta­
to. Sfortunatamente per Chouchou, uno dei passeggeri era un sol­
dato in borghese. Al successivo checkpoint il soldato lo fece pren­
dere e trascinare giù dal camion. Lì, un gruppo di soldati e i loro
lacché - i loro attachés, per usare l'epiteto allora in voga - iniziaro­
no subito a picchiare Chouchou, di fronte agli altri passeggeri; con­
tinuarono a picchiarlo anche quando lo portarono nelle baracche
militari a Hinche. Una cicatrice sulla sua tempia destra fu il souve­
nir della sua permanenza a Hinche, che durò parecchi giorni.
Forse il risultato peggiore di questi episodi di brutalità fu che
essi segnarono l'inizio della persecuzione, e non la sua fine. Nelle
campagne di Haiti, ogni screzio con la legge (ovvero quella milita­
re) ti faceva entrare in una sorta di lista nera. Per gli uomini come
Chouchou, stare fuori di prigione voleva dire fare felici gli attachés
locali, e allora iniziò a evitare di fare ritorno al suo villaggio. Chou­
chou viveva nella paura di un secondo arresto, mi disse poi sua
moglie, e le sue paure si dimostrarono fondate.
ll 22 gennaio del 1992, Chouchou stava facendo visita a sua
sorella quando fu arrestato da due attachés. Nessuna spiegazione
venne fornita per l'arresto e la sorella ebbe un pessimo presenti­
mento quando vide che venivano strappati a Chouchou l' orolo­
gio e la radio. Venne condotto in malo modo al più vicino check­
point militare dove fu torturato dai soldati e dai loro attachés. Un
abitante della zona ci raccontò più tardi che le urla del prigionie­
ro fecero pianger,e i suoi figli terrorizzati.
Il 25 gennaio, Chouchou venne lasciato morire in un fosso.
L'esercito a malapena si preoccupò di far circolare la canard che
aveva rubato delle banane (la stampa haitiana, costretta allora al
silenzio, non diffuse neanche la falsa versione del fatto; i pestaggi
mortali nelle campagne non contavano come notizie). I parenti
riportarono Chouchou da Chantal e da sua figlia nell'oscurità

277
SOFFERENZA, DIRITil UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

della notte. Quando la mattina presto del 26 gennaio arrivai,


Chouchou era a stento riconoscibile. li suo volto, in particolare la
tempia sinistra, era deformata, tumefatta, lacerata; anche la tem­
pia destra era sfregiata. La bocca era una pozza di sangue scuro
coagulato. Più in basso, il collo era particolarmente tumefatto, la
gola piena di lividi lasciati dal calcio di una pistola. Il petto e i
fianchi erano pieni di brutti lividi, e aveva parecchie costole frat­
turate. I genitali gli erano stati mutilati.
Questa era la situazione davanti; probabilmente però, l'urto
delle botte era venuto da dietro. La schiena e le cosce erano stria­
ti da profondi segni di frustate. I glutei erano macerati, la pelle
scuoiata a scoprire i muscoli. Alcune di queste stimmate sembra­
vano già infette.
Nei suoi momenti di agonia Chouchou sputò fuori più di un li­
tro di sangue. Anche se non sono un medico legale, credo che la
causa immediata del suo decesso fu emorragia polmonare. Date
le sue difficoltà respiratorie e la quantità di sangue che fuoriusci­
va, è probabile che le botte gli avessero causato un'emorragia, al­
l'inizio ridotta, poi sempre più catastrofica, nei polmoni. Le ferite
alla testa non lo avevano privato delle sue facoltà, anche se forse
sarebbe stato meglio che lo avessero fatto. A Chouchou ci vollero
tre giorni per morire.

SPIEGARE "VERSUS" COMPRENDERE lA SOFFERENZA

Quando veniamo da te
ci strappiamo di dosso i nostri cenci
e tu ascolti qua e là sul nostro corpo nudo.
Sulla causa della nostra malattia
un solo sguardo ai nostri cenci ti
direbbe di più. Una stessa causa fa a pezzi
i nostri corpi e i nostri abiti.
Le fitte nelle nostre spalle
vengono, dici, dall'umidità, da cui
viene anche la macchia che abbiamo alla parete.
Dicci allora:
da che viene l'wnidità?
BERTOLT BRECHT, Discorso di un lavoratore a un medico

278
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTIURALE

Queste storie di sofferenza possono essere emblematiche di


qualcos'altro oltre che di due morti tragiche e premature? Se sì,
in che modo ciascuna di queste esperienze è rappresentativa? C'è
poco, nella storia di Acéphie, di straordinario; l'ho raccontata un
po' dettagliatamente perché mette in evidenza molte delle forze
che limitano non solo le sue scelte, ma quelle della maggior parte
delle donne haitiane. Questa almeno è la mia opinione, dopo aver
curato centinaia di povere donne malate di AIDS. Le loro storie si
svolgono con una monotonia mortale: giovani donne - o adole­
scenti - scappate a Port-au-Prince in un tentativo di sfuggire alla
povertà più dura; una volta in città, ognuna ha lavorato come do­
mestica; nessuna è riuscita a trovare una sicurezza finanziaria ri­
velatasi irraggiungibile nelle campagne. Le donne che ho intervi­
stato sono state molto dirette circa il carattere non volontario del­
le loro attività sessuali: secondo loro sarebbe stata la povertà a co­
stringerle in rapporti non desiderabili.12 In condizioni del genere,
uno si chiede cosa farsene della nozione di "sesso consensuale".
Cosa dire dell'omicidio di Chouchou Louis? I gruppi interna­
zionali per i diritti umani valutano che più di tremila haitiani furo­
no uccisi nell'anno che seguì il golpe del settembre 1991, il colpo di
stato che rovesciò il primo governo di Haiti democraticamente
eletto. Quasi tutti civili che, come Chouchou, erano caduti nelle
mani dei militari o dei paramilitari. La larga maggioranza delle vit­
time furono poveri contadini, come Chouchou, o abitanti dei bas­
sifondi urbani. Ma si noti che queste cifre sono solo stime pruden­
ziali; posso testimoniare che nessun giornalista, o osservatore dei
diritti umani, è mai venuto a contare anche il corpo di Chouchou.13

12. Questo argomento è discusso in modo più ampio e in termini generali in


Farmer, Connors, Simmons (1996). Riguardo alla epidemia di HIV in espansione ad
Haiti e alla sua relazione con la violenza strutturale, si veda Farmer (1992, 1999).
Per maggiori informazioni sulla situazione con cui attualmente si confrontano le
donne haitiane, la maggior parte delle quali vive in condizioni di povertà, si consulti
la rassegna di Neptune-Anglade ( 1986) e le testimonianze raccolte da Racine
(1999). Più di recente Beverly Beli (2001) ha documentato le storie di lotta delle
donne haitiane per la sopravvivenza, come anche della loro resistenza contro la ti­
rannia e il terrore.
13. Per una panoramica sulla situazione dei diritti umani dopo il colpo del 1991,
si veda Americas Watch and the National Coalition for Haitian Refugees (1993) e
O'Neill (1993). Per una rassegna su questo e altri rapporti, si può vedere Farmer
(1994). Tra gli altri rapporti c'è quello della lnter-American Commission on Hu­
man Rights (1994) e della United Nations Human Rights Commission (1995), come

279
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

Perciò l'agonia di Acéphie e Chouchou fu, in un certo senso,


una sofferenza "modale". Ad Haiti, l'AIDS e la violenza politica so­
no due cause primarie di morte tra i giovani. Queste afflizioni non
sono il risultato di un caso, o di una force majeure; sono la conse­
guenza, diretta o indiretta, dell'azione umana. Quando la valle del­
l'Artibonite fu sommersa, privando così le famiglie come quella dei
J oseph della loro terra, c'era dietro una decisione umana; quando
l'esercito haitiano fu finanziato e dotato di libertà d'azione, si trat­
tava sempre di decisioni umane. E in realtà, a prendere le decisioni
in questi due casi, potrebbero essere state le stesse persone.
Se i burocrati e i soldati sembrano avere un potere illimitato
sulle vite dei poveri delle campagne, l'agire di Acéphie e di Chou­
chou è stato, invece, sempre tenuto a freno. Queste biografie im­
pietose suggeriscono che le forze sociali ed economiche che han­
no plasmato l'epidemia di AIDS sono, in ogni senso, le stesse forze
che hanno portato alla morte di Chouchou e alla più vasta repres­
sione in cui essa si inserisse. Per di più, entrambi questi individui
erano "a rischio" di un tale destino già molto tempo prima di in­
contrare i soldati che cambiarono la loro sorte. Entrambi erano,
sin dall'inizio, vittime di violenza strutturale. n termine è partico­
larmente adeguato in quanto tale sofferenza è "strutturata" da
forze e processi storicamente dati (spesso economicamente pilo­
tati) che cospirano - attraverso la routine, il rituale o, come più
spesso accade, la durezza della vita - nel limitare la capacità d'a­
zione. 14 Per molti, tra cui parecchi miei pazienti e informatori, le

pure il rapporto sulla dislocazione interna steso nel 1994 da Human Rights Wat­
ch!Americas, ]esuit Refugee Service/USA e National Coalition for Haitian Refugees.
Verso la fine del colpo di stato di Cédras, che portò a migliaia di omicidi, l' eser­
cito e i paramilitari iniziarono una campagna di stupro politicamente motivato. Un
sondaggio definisce questa campagna "il crimine probabilmente maggiore contro
le donne nei Caraibi dai tempi della schiavitù" (Rey, 1999, p. 74). Vedi anche Hu­
man Rights Watch/Americas e National Coalition for Haitian Refugees 1994. È sta­
to in questi anni che la nostra clinica ha ricevuto le prime vittime di stupro (Farmer,
1996); una delle mie pazienti andò a testimoniare sugli stupri politicamente motiva­
ti a una udienza su questo tema tenuta da Organization of American States.
14. Alcuni potrebbero sostenere che il rapporto tra azione individuale e struttu­
re sovra-individuali costituisce la problematica centrale della teoria sociale contem­
poranea. In questa discussione ho cercato di evitare ciò che Pierre Bourdieu ha de­
finito "l'assurda opposizione tra individuo e società", e di riconoscere qui l'influen­
za di Bourdieu, che ha contribuito enormemente al dibattito sulla struttura e l' azio­
ne. Per una esposizione concisa delle sue concezioni (spesso riformulate) su questo
argomento, rinvio a Bourdieu ( 1990). Che un modello sensibile e fondamentalmen-

280
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTTIJRALE

scelte, grandi o piccole che siano, sono limitate dal razzismo, dal
sessismo, dalla violenza politica e da una povertà opprimente.
Mentre alcuni tipi di sofferenza sono facilmente osservabili - e
sono il soggetto di un numero infinito di film, romanzi e poesie ­
la violenza strutturale fin troppo spesso sfugge a coloro che po­
trebbero descriverla. Ci sono almeno tre ragioni per questo stato
di cose. Prima di tutto, l"'esoticizzazione" della sofferenza spa­
ventosa come quella subita da Acéphie e Chouchou, la tiene lon­
tana. La sofferenza degli individui le cui esistenze e le cui lotte ri­
cordano le nostre, tendono a commuoverci; la sofferenza invece
di coloro che sono "lontani", sia geograficamente che cultural­
mente, ci tocca spesso di meno.
In secondo luogo, il peso stesso della sofferenza rende molto
più difficile rappresentarla: "La conoscenza della sofferenza non
può essere comunicata con meri fatti e numeri, cronache che og­
gettivano la sofferenza di infinite persone. L'orrore della soffe­
renza non sta solo nella sua immensità, ma anche nelle facce di
quelle vittime anonime che hanno poca voce, e tanto meno dirit­
ti, nella storia" (Chopp, 1986, p. 2).
In terzo luogo, le dinamiche e la distribuzione della sofferenza
sono ancora poco capite. I medici, se sono fortunati, possono al­
leviare la sofferenza dei malati. Ma spiegare la sua distribuzione
richiede una riflessione articolata e distribuita e molte risorse. I
casi individuali rivelano la sofferenza, ci dicono cosa succede a
una o a tante persone; ma per spiegare la sofferenza bisogna inca­
stonare la biografia individuale nella più vasta matrice della cul­
tura, della storia, dell'economia politica.
In breve, una cosa è comprendere la sofferenza estrema - una
attività senza dubbio universale - e un'altra, un po' diversa, è spie­
garla. Le esperienze di vita come quelle di Acéphie e Chouchou, e
degli altri haitiani che vivono nella povertà e che condividono ana-
te non deterministico di azione abbia un tale "senso" deterministico - e pessimisti­
co - è un riflesso soprattutto del tema da me scelto - la sofferenza - come anche del
mio "sito di ricerca", che è Haiti. ll rapporto tra azione e diritti umani è stato trac­
ciato, tra gli altri, da lgnatieff: "Sappiamo dall'esperienza storica che quando gli es­
seri umani possiedono diritti difendibili - quando cioè il loro agire come individui è
protetto e incoraggiato - è meno probabile che si abusi di loro e li si opprima. Su
queste basi, consideriamo la diffusione dei diritti umani come progresso anche se
rimane un inconscio dislivello tra gli strumenti e le pratiche effettive degli stati inca­
ricati di rispettarli" (lgnatieff, 2001, p. 4).

281
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

loghe condizioni sociali, devono essere incastonate in una etno­


grafia, se la loro rappresentatività vuole essere compresa. Questa
comprensione locale deve poi essere calata, a sua volta, nel sistema
storico di cui Haiti fa parte.15 La debolezza di analisi di questo tipo
risiede senza dubbio nella loro enorme distanza dall'esperienza
personale. Ma le forze sociali ed economiche che dettano le scelte
di vita nel Plateau Centrai di Haiti condizionano diversi milioni di
persone, ed è nel contesto di queste forze globali che la sofferenza
degli individui trova la sua cornice appropriata.
Considerazioni simili sono centrali per la teologia della libera­
zione, che si occupa della sofferenza dei poveri. In The Praxis o/
Suffering, Rebecca Chopp (1986, p. 2) osserva: "In una varietà di
forme, la teologia della liberazione parla a coloro che, attraverso
la propria sofferenza, mettono in discussione il significato e la ve­
rità della storia umana" .16 Diversamente dalla maggior parte delle
teologie precedenti, e diversamçnte da gran parte della filosofia
moderna, la teologia della liberazione tenta di utilizzare l'analisi
sociale sia per spiegare che per deplorare la sofferenza umana. I
suoi testi chiave, quindi, richiamano la nostra attenzione non sol­
tanto sulla sofferenza dei dannati della terra, ma anche sulle forze
che provocano questa sofferenza. Il teologo Leonardo Boff
(1978, p. 20), commentando uno di questi testi, osserva che esso
"si muove direttamente all'analisi strutturale di queste forze e de­
nuncia i sistemi, le strutture, e i meccanismi che 'creano una si­
tuazione in cui il ricco diventa più ricco a spese del povero, che
diventa sempre più povero' " .
Detto altrimenti, pochi teologi della liberazione riflettono sul­
la sofferenza senza tentare di capire i meccanismi che la produco­
no. La loro è una teologia che sottolinea le connessioni. Robert
15. Ho sviluppato in modo più ampio questo tema altrove (Farmer, 1992). Uti­
lizzo il termine "sistema storico" seguendo lmmanuel Wallerstein, che per molti an­
ni ha sostenuto come anche le località più remote il Plateau Centrai di Haiti, ad
-

esempio - fanno parte dello stesso reticolo sociale ed economico: "Alla fine del di­
ciannovesimo secolo, per la prima volta in assoluto, esisteva un solo sistema storico
sul pianeta. Siamo ancora oggi in quella situazione" (Wallerstein, 1987, p. 3 18). Ve­
di anche la sua magistrale formulazione iniziale (1974 ) .

16. Vedi anche i lavori di Gutiérrez, che ha scritto molto sul significato della sof­
ferenza nel ventesimo secolo (1973; 1983). Per quanto riguarda gli studi antropolo­
gici sulla teologia della liberazione in ambito sociale, si vedano i lavori di Burdick
( 1993) e di Lancaster ( 1988).

282
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUITURALE

McMee Brown (1993 , p. 44) ha in mente, oltre ai poveri, queste


connessioni quando, parafrasando il gesuita uruguayano Juan
Luis Segundo, osserva che "il mondo che soddisfa noi è lo stesso
che devasta completamente loro" .

COMPRENDERE lA VIOLENZA STRUTTURALE

Gli eventi di sofferenza massiccia, pubblica, resistono a una analisi


quantitativa. Come si può capire veramente una statistica che cita la
morte di sei milioni di ebrei o i grafici della morte per fame nel Terzo
Mondo? I numeri forse rivelano realmente l'agonia, l'interruzione,
le questioni che queste vittime pongono al significato e alla natura
delle nostre esistenze individuali e alla vita nel suo insieme?
REBECCA CHOPP, The Praxis ofSulfering

Chiedo scusa al caso se lo chiamo necessità.


Chiedo scusa alla necessità se tuttavia mi sbaglio.
Non si arrabbi la felicità se la prendo per mia.
Mi perdonino i morti se luccicano appena nella mia memoria.
Chiedo scusa al tempo per tutto il mondo che mi sfugge a ogni istante.
WISLAWA SZYMBORSKA, Sotto una piccola stella

Come possiamo discernere la natura della violenza strutturale


ed esplorare il suo contributo alla sofferenza umana? Possiamo
mettere a punto un modello di analisi dotato di un potere esplica­
tivo e predittivo, per capire la sofferenza in un contesto globale?
Questo compito, benché deprimente, è tanto urgente quanto
praticabile, se abbiamo intenzione di proteggere e promuovere i
diritti umani. li nostro frettoloso esame dell'AIDS e della violenza
politica ad Haiti suggerisce che l'analisi debba essere in primo
luogo geograficamente ampia. Il mondo che conosciamo sta di­
ventando sempre più interconnesso. Un corollario di tutto ciò è
che la sofferenza estrema - in particolare se su larga scala, come
nel caso del genocidio - è raramente separata dalle azioni dei po­
tenti.17 L'analisi deve inoltre essere storicamente pro/onda: non so­
lo abbastanza profonda da ricordarci gli eventi e le decisioni co-
17. Le connessioni tra irresponsabilità dei potenti e sorte dei deboli sono state
ben tracciate. L'economia politica del genocidio è stata esplorata da Simpson
(1993), ma si veda anche Aly, Chroust, Pross ( 1994). Sull'economia politica tran­
snazionale degli abusi nei diritti umani, interessanti sono i due volumi di Chomsky

283
SOFFERENZA, DIRITI1 UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

me quelli che privarono i genitori di Acéphie della terra e che


fondarono l'esercito di Haiti, ma profonda abbastanza da ricor­
darci che gli haitiani di oggi sono i discendenti di un popolo rapi­
to all'Africa allo scopo di fornire ai nostri antenati zucchero,
caffè e cotone (per una storia di Haiti si vedano James, 1980;
Mintz, 1974; Trouillot, 1990).
Fattori sociali, compresi il genere, l'etnicità (la "razza") e lo
stato socio-economico, potrebbero avere ciascuno un ruolo nel
rendere gli individui vulnerabili alla sofferenza umana estrema.
Ma nella maggior parte degli scenari questi fattori, di per sé, han­
no un potere esplicativo limitato. È d'obbligo, piuttosto, una
considerazione simultanea di vari assi sociali nello sforzo di di­
scernere una economia politica della brutalità. Inoltre, questi fat­
tori sociali sono calibrati diversamente nei differenti contesti e
nei differenti periodi, come ci suggerisce anche una breve consi­
derazione dei loro contributi alla sofferenza estrema. In un sag­
gio intitolato "Mortality as an indicator of economie success and
failure", Amartya Sen ci ricorda come il bisogno di superare una
"fredda e inespressiva statistica dei bassi redditi" per guardare ai
vari modi in cui l'azione - quello che chiama "potenzialità di ogni
persona" - viene limitata:

Ce n'è sicuramente moltissima [di povertà] nel mondo ip cui vi­


viamo. Ma più terribile è il fatto che così tante persone - tra cui i
bambini con un retroterra disagiato - siano costrette a condurre una
esistenza miserabile e precaria e a morire prematuramente. Questa
situazione vale in generale per i bassi salari, ma non solo per quelli.
Riflette anche l'insufficienza dell'assistenza sanitaria e dell'alimenta­
zione, la deficienza dei piani di sicurezza sociale, e l'assenza di re­
sponsabilità sociale e cura nel governare. (Sen, 1998)

Per comprendere la relazione tra violenza strutturale e diritti


umani, è necessario evitare analisi riduzionistiche. Sen è com-

e Herman (1979a, 1979b). Quando Mike Davis (200 1 , p. 19) esplora "gli olocausti
tardovittoriani" che portarono a qualcosa come cinquanta milioni di morti, conclu­
de che " qui non stiamo parlando di qualche 'terra della carestia' impantanata nei
recessi stagnanti della storia mondiale, bensì delle sorti dell'umanità tropicale nel
preciso istante ( 1 870-1914) in cui la sua forza lavoro e i suoi prodotti venivano ar­
ruolati in una economia mondiale che ruotava intorno a Londra. Morirono in milio·
ni, non fuori dal 'moderno sistema mondiale' ma durante il processo stesso dell'in­
serimento forzato nelle sue strutture economiche e politiche".

284
SOFFERENZA E VIOLENZA SlRUTIURALE

prensibilmente preoccupato di evitare un riduzionismo econo­


mico, un rischio professionale nel suo campo. Ma anche numero­
se altre trappole analitiche possono ostacolare la ricerca di una
accurata presa analitica sulle dinamiche della sofferenza umana.

L'ASSE DEL GENERE

Acéphie Joseph e Chouchou Luis condividevano uno status


sociale simile, e ciascuno morì dopo un contatto avuto con l'eser­
cito haitiano. ll genere aiuta a spiegare perché Acéphie sia morta
di AIDS e Chouchou di tortura. Le ineguaglianze di genere aiuta­
no a spiegare perché la sofferenza di Acéphie sia molto più comu­
ne rispetto a quella di Chouchou. In tutto il mondo le donne si
confrontano con il problema del sessismo, una ideologia che le
pone al di sotto degli uomini. Nel 1974, allorché un gruppo di an­
tropologhe femministe prese in esame in differenti contesti quale
fosse lo status delle donne, si giunse alla conclusione che, in tutte
le società studiate, gli uomini dominavano in vario modo le istitu­
zioni politiche, legali ed economiche; in nessun contesto lo status
delle donne era pari, per non dire superiore, a quello degli uomi­
ni (vedi Rosaldo, Lamphere, 1974; per una visione differente vedi
Leacock, 1981). Queste differenze di potere hanno fatto sì che i
diritti delle donne fossero violati in innumerevoli modi. Sebbene
le vittime di tortura siano in modo chiaramente preponderante
uomini, le donne in modo quasi esclusivo si trovano a sopportare
gli assai più diffusi crimini della violenza domestica e dello stu­
pro. Nei soli Stati Uniti, il numero delle aggressioni è sconcertan­
te. Tenendo conto delle aggressioni sessuali a opera tanto di co­
noscenti quanto di estranei, "una donna su quattro è stata la vitti­
ma di uno stupro completo e una su quattro è stata maltrattata fi­
sicamente, secondo i risultati di recenti studi di comunità" (Koss,
Koss, Woodruff, 1991) .18 In molte società, i crimini di violenza
domestica e di stupro non sono neanche contemplati, e perciò ri­
mangono invisibili.

18. Dal novembre 1995 al maggio 1996, l'Istituto Nazionale di Giustizia e i Cen­
tri per il Controllo delle Malattie hanno condotto unitamente una inchiesta telefo­
nica a livello nazionale che ha confermato le alte percentuali di aggressioni sulle
donne negli USA (Tjade, Thoennes, 1998). Vedi anche Bachman, Saltzman (1995).

285
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

Nella maggior parte delle situazioni, comunque, il genere da


solo non basta a determinare un rischio per questo tipo di aggres­
sioni alla dignità della persona. Sono le donne povere, infatti, le
più indifese contro queste aggressioni.19 Questo vale non soltanto
per la violenza domestica e lo stupro, ma anche per l'AIDS e la sua
distribuzione, come fa notare l'antropologa Martha Ward ( 1993 ,
p. 4 14): "La raccolta di statistiche secondo l'etnicità invece che
secondo lo status socio-economico, oscura il fatto che negli Stati
Uniti la maggior parte delle donne malate di AIDS sono povere. Le
donne sono a rischio di HIV non solo perché sono afro-americane
o parlano spagnolo; le donne sono a rischio perché la povertà è la
condizione primaria e determinante delle loro esistenze" .
Analogamente, solo l e donne possono fare esperienza della
mortalità materna, una causa di grande angoscia nel mondo. Più
di mezzo milione di donne muoiono ogni anno durante il parto,
ma non tutte le donne affrontano un rischio così elevato. Infatti,
secondo le analisi delle statistiche per il 1995, il 99,8% di questi
decessi si sono verificati nei paesi in via di sviluppo.20 I tassi re­
centemente registrati di mortalità materna ad Haiti variano, a se­
conda della fonte, dai 523 decessi ogni 1 00.000 nascite fino ai
ben più alti tassi di 1 . 1 00 se non 1 .400 decessi ogni 100.000 nasci­
te. Non occorre dire che questi decessi si registrano quasi intera­
mente tra i poveri.21 I fattori di genere, come osserva Sen ( 1998),
19. È importante notare, comunque, che in molte società le donne di classe o ca­
sta superiore sono anche soggette a delle leggi che virtuahnente cancellano lo stu­
pro coniugale.
20. Un rapporto congiunto di OMS, UNICEF e UNFPA sulla mortalità materna osser­
va, per il l995, come di 5 15.000 morti materne stimate nel mondo solo lo 0,2% ri­
guarda i paesi industrializzati. n rischio nell'arco della vita di morte materna per le
donne in questi paesi si calcola attorno a l su 4085, mentre per le donne nei paesi in
via di sviluppo il rischio è molto più alto, l su 6l. ln realtà, per il sottoinsieme di paesi
caratterizzati come "meno sviluppati", di cui Haiti fa parte, il rischio stimato di morte
materna è tragicamente ancora superiore: l su 16 (Organizzazione mondiale della sa­
nità, United Nations Children's Fund, United Nations Population Fund 2001, p. 48).
2 1 . n tasso di mortalità materna (MMR) di 523 morti vale per l'anno 2000 e si ba­
sa sui rapporti presentati dalle autorità sanitarie nazionali al PAHO (Pan American
Health Organization, 2001). n più alto tasso di 1.100 morti materne ogni 100.000
nascite arriva dal rapporto unitario pubblicato da OMS, UNICEF e UNFPA (2001, p.
44). Questi numeri sono probabilmente più alti se si misura la mortalità materna al
livello della comunità. L'unico sondaggio su base comunitaria effettuato ad Haiti,
condotto nel l985 per il paese di Jacme! nella Haiti del sud, rivelò come la mortalità
materna era di 1 .400 su 100.000 (Jean Louis, 1989). Nello stesso periodo, le statisti-

286
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUITURALE

sono "un problema diffuso che riguarda anche l'Europa e il Nor­


damerica in una serie di campi (come la divisione dei compiti fa­
miliari, il sostegno all'istruzione superiore, e così via), ma nei pae­
si più poveri lo svantaggio delle donne riguarda anche i campi
fondamentali dell'assistenza sanitaria, della nutrizione, dell'edu­
cazione di base" .22

L'ASSE DELLA "RAZZA" O DELL'ETNICITÀ

L'idea di "razza", che la maggior parte degli antropologi e dei


demografi considera un termine biologicamente insignificante,
gode di una enorme diffusione sociale. Le classificazioni razziali
sono state impiegate per privare molti gruppi di diritti fonda­
mentali, e hanno perciò giocato un ruolo importante nella com­
prensione delle disuguaglianze umane e della sofferenza. La sto­
ria del Ruanda e del Burundi mostra come categorie etniche una
volta di scarsa pertinenza - Hutu e Tutsi condividono la lingua, la
cultura, i sistemi di parentela - furono investite di un peso e un si­
gnificato sociale dagli amministratori coloniali che divisero e
conquistarono, rendendo le disuguaglianze sociali più profonde
e alimentando la nascente rivalità etnica. In Sudafrica, uno dei
luoghi che offre gli esempi più eclatanti degli effetti a lungo ter-
che "ufficiali" riportavano per Haiti tassi molto inferiori, da un MMR di 230 per gli
anni 1980-1987(0NU Development Programme 1990, p. 148) e un MMR di 340 per il
periodo 1980-1985 fino a una stima più alta negli anni seguenti, 1987-1992, di 600
morti materne ogni 100.000 nascite (Banca Mondiale 1994, p. 148). Per ulteriori
dati sulla mortalità materna da quel momento, vedi OMS 1985.
22. Per una più approfondita discussione sull'impatto del sistema di genere sul­
la popolazione nei paesi poveri, si veda l'ormai classico studio di Sen sulle "donne
assenti" (Sen, 1992). Sen riassume il potenziale impatto dell'azione pubblica nelle
regioni povere esaminando lo stato del Kerala (India) : "L'esperienza del Kerala in­
dica che 'i fattori di genere' che sono contro le donne possono essere radicalmente
cambiati dall'azione pubblica che comprende sia il governo sia il pubblico stesso ­
specialmente attraverso l'educazione femminile, le opportunità per le donne di ave­
re lavori responsabili, i diritti legali delle donne sulla proprietà, e da illuminate poli­
tiche egalitarie. Analogamente, il problema delle 'donne assenti' può essere anche
ampiamente risolto attraverso politiche sociali e radicalismo politico. I movimenti
delle donne possono giocare un ruolo molto importante nel provocare questo tipo
di cambiamento, e nel far sì che il processo politico nei paesi poveri presti attenzio­
ne alle profonde disuguaglianze patite dalle donne. È anche interessante notare, in
questo contesto, che le variabili strettamente economiche, come il PNL o il PII. pro
capite, su cui si concentra gran parte dello sviluppo economico standard, danno un
quadro molto fuorviante del progresso economico e sociale" (Sen, 1998, p. 15).

287
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

mine del razzismo, gli epidemiologi constatano che il tasso di


mortalità infantile presso i nativi arriva a essere dieci volte più al­
to che tra i bianchi. Per i neri in Sudafrica la causa immediata del­
l'incremento dei tassi di morbidità e mortalità è la mancanza di
accesso alle risorse: "La povertà rimane la causa prima della pre­
valenza di molte patologie, della fame diffusa e della malnutrizio­
ne tra i neri sudafricani" .23 Lo smantellamento del regime della
apartheid non ha ancora portato allo smantellamento delle strut­
ture oppressive che generano disuguaglianza in Sudafrica, e il
protrarsi delle situazioni di disuguaglianza sociale è senza dubbio
la ragione principale per cui l'HIV si è diffuso così rapidamente
nella nazione più ricca dell'Mrica subsahariana.24

23 . Sull'argomento vedi Nightingale, Hannibal, Geiger e collaboratori (1990).


Per un resoconto più approfondito e una visione più complessa dei meccanismi che
legano apartheid ed economia del Sudafrica nella produzione della malattia, si veda
il lavoro di Packard (1989).
24. Anche se si dice che l'HIV solo recentemente abbia visto un'impennata tra la
popolazione nera del Sudafrica, esso è stato fin dall'inizio un'epidemia che attaccava
sproporzionatamente i neri. I dati sudafricani indicano che nel 1994, quando a di­
ciassette donne bianche fu diagnosticato l'AIDS, quasi quindici centinaia di donne
nere - praticamente cento volte tanto - avevano la malattia (Dipartimento della Sa­
nità, Repubblica del Sudafrica, 1995, p. 67). Anche dopo lo smantellamento del si­
stema dell'apartheid, l'HIV continua a colpire in maniera sproporzionata i sudafrica­
ni neri (Lurie, Harrison, Wilkinson et al., 1997). Come Chapman e Rubenstein
(1998) osservano in un rapporto per la American Association for the.Advancement
'
of Science and Physicians for Human Rights, "l'epidemiologia dell'epidemia
AIDS/HIV [ . . . ] dimostra il legame tra povertà, status sociale basso e vulnerabilità al­
l'infezione" (p. 20). Registrano la "rigida segregazione dei servizi sanitari; spesa
sproporzionatamente indirizzata ai bianchi in confronto ai neri, che sfocia in una as­
sistenza medica su scala mondiale destinata ai bianchi mentre i neri sono destinati a
servizi sovraffollati e scadenti; politiche di sanità pubblica che ignorano le patologie
che affliggono in prima istanza i neri; negazione della sanità primaria, dell'acqua po­
tabile, di altri elementi propri della salute pubblica alle terre e alle municipalità" (p.
XIX). Insieme alla negazione dei servizi medici, molti sudafricani neri sono stati ob­
bligati a ritirarsi nei villaggi, e più tardi a vivere nelle baraccopoli ai margini delle
città, creando così una cultura della migrazione e la rottura dei legami familiari (pp.
18-20). Come osservano Lurie e i suoi colleghi, "il lavoro del migrante era un princi­
pio centrale dell'apartheid, che cercava di creare un flusso costante di lavoro nero
economico per le miniere, le industrie e le fattorie del Sudafrica. Una miriade di leggi
proibivano ai neri sudafricani di insediarsi permanentemente nelle aree "solo per i
bianchi", e di conseguenza, i modelli migratori in Sudafrica tendono a essere circola­
ri, e gli uomini mantengono legami stretti con i loro villaggi di origine" (1997, p. 18).
Questo sistema migratorio obbligato ha avuto un impatto particolare nel dare
forma all'epidemia di AIDS. Come spiega Carol Kaufman, "il sistema della migrazio­
ne da lavoro rimane profondamente radicato, e le donne i cui partner siano coinvol­
ti nella circolazione del lavoro, sono particolarmente vulnerabili rispetto ai rapporti

288
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUITURALE

Significative differenze nel tasso di mortalità tra neri e bianchi


si registrano anche negli Stati Uniti, che al pari del Sudafrica è
uno dei due paesi industrializzati che non registra i dati di morta­
lità in rapporto allo status socioeconomico. Nel 1988 negli Stati
Uniti, l'aspettativa di vita alla nascita era 75,5 anni per i bianchi, e
di 69,5 per i neri. Nel decennio successivo, anche se l'aspettativa
di vita negli USA è cresciuta in cifre assolute, la discrepanza tra
bianchi e neri si è ulteriormente accentuata, salendo a 0,6 anni.25
Mentre queste differenze nei tassi di mortalità in relazione alle
razze hanno sollevato un acceso dibattito, l'esperto di sanità pub­
blica Vicente Navarro (1990) ha recentemente osservato !'"assor­
dante silenzio" che regna sull'argomento delle differenze di clas­
se in rapporto alla mortalità negli Stati Uniti, dove "la razza è usa­
ta come un sostituto della classe". Ma nel 1986, in "una delle rare
occasioni in cui il governo degli USA ha raccolto dati sui tassi di
mortalità (per patologie cardiache e cerebro-vascolari) correlan­
doli alle classi sociali di appartenenza, i risultati hanno mostrato
che, qualsiasi indicatore di classe fosse stato preso come parame­
tro (livello di istruzione, reddito, occupazione), i tassi di morta­
lità sono in rapporto con la classe sociale" (ibidem, p. 1240).
E in effetti, quando si prendono in esame le principali cause di
morte (patologie cardiache e cerebro-vascolari), le condizioni di
classe risultano un indicatore più attendibile della classificazione
razziale. "I crescenti differenziali di mortalità tra bianchi e neri",
conclude Navarro (1990, p. 1238), "non possono essere compresi
limitandosi alla razza; essi sono parte integrante di più ampi dif-

sessuali non protetti come pure rispetto alla trasmissione di sm e mvlAIDS" (Kauf­
man, 1998). Quarraisha e Salim Abdool-Karim citano uno studio del 1998 condot­
to nel Sudafrica rurale, che constatava come "le donne i cui partner passavano dieci
notti o meno al mese a casa avevano una prevalenza di mv del 13,7% confrontata
con lo 0% delle donne che passavano più di dieci notti col partner (1999) Vedi Lu­
rie, Harrison, Wilkinson e collaboratori (1997) per una documentazione ulteriore
su questo nesso. Inoltre, i dati del 1994 rivelano che la povertà è in aumento in Su­
dafrica, con quasi due terzi di neri che vivono al disotto del livello minimo di sussi­
stenza (Chapman, Rubenstein, 1998, p. 20).
25. D Centro nazionale per le statistiche sanitarie (1998) registrava una aspettati­
va di vita alla nascita, nel 1996, di 76,8 anni per i bianchi e 70.2 anni per i neri. Due
anni dopo, le stesse fonti indicano un trend incoraggiante: l'aspettativa registrata
cresceva a 77,3 per i bianchi e 7 1 ,3 per i neri (Centro nazionale per le statistiche sani­
tarie, 2000). Ma la discrepanza è ancora dell'ordine del 9-10% dell'arco dei vita. Per
una discussione dettagliata delle recenti disparità nello stato di salute e delle cause
primarie di morte per gli afro-americani, vedi Byrd e Clayton (2002).

289
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

ferenziali di mortalità: i differenziali di classe". n sociologo Wil­


liam Julius Wilson sostiene una tesi del genere in uno studio che è
diventato una pietra miliare: The Declining Significance o/ Race,
dove afferma che "i neri istruiti e colti, come i bianchi istruiti e
colti, continueranno a godere dei vantaggi e dei privilegi del loro
status di classe" (1980, p. 178). Anche se recenti studi mostrano
che i differenziali di razza persistono anche all'interno delle classi
privilegiate, è importante insistere sul fatto che gli afro-americani
poveri - e l'analisi dei meccanismi del loro impoverimento - sono
tagliati fuori. Allo stesso tempo, i dati sul reddito complessivo na­
zionale degli USA, che non considerano le differenze nella morta­
lità in rapporto alla razza e al luogo, trascurano completamente il
fatto che gli afro-americani di Harlem hanno una aspettativa di
vita inferiore a quella di chi vive in Bangladesh (McCord, Free­
man, 1990). Inoltre, come fa notare Sen (1998) , le differenze ba­
sate sulla razza nell'aspettativa di vita hanno implicazioni politi­
che, e queste a loro volta sono in rapporto con i diritti sociali ed
economici:

Se la relativa deprivazione dei neri supera i differenziali di reddi­


to in maniera così consistente, porre rimedio a questa disuguaglian­
za coinvolge inevitabilmente le questioni politiche, che vanno ben
oltre la creazione di opportunità di reddito per la popolazipne nera.
È necessario affrontare problemi come la sanità pubblica; ' i servizi
educativi, i pericoli della vita urbana, e altri parametri sociali ed eco­
nomici che condizionano le chance di sopravvivenza. n quadro dei
differenziali di mortalità rappresenta un accesso al problema delle
disuguaglianze razziali negli Stati Uniti, che verrebbe meno se la no­
stra analisi economica si limitasse alle sole variabili economiche tra­
dizionali. (Ibidem, p. 17)

ALTRI ASSI DI OPPRESSIONE

Qualsiasi caratteristica distintiva, sociale o biologica, si può


prestare alla discriminazione e, dunque, a causare sofferenza. Lo
status di profugo o di immigrato viene subito in mente, quando si
pensa a chi vive in condizioni di indigenza e a cui non sono rico­
nosciuti i diritti fondamentali. L'orientamento sessuale è un altro
esempio eclatante; l'omosessualità viene stigmatizzata a vari livel­
li e in molte situazioni. n "pestaggio dei gay" come altre forme di
'
290
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTI'URALE

vittimizzazione criminale e violenta, comportano delle ricadute a


lungo termine. Ma i crimini contro i gay e le donne vengono, an­
cora una volta, ampiamente perpetrati tra i poveri.
Questioni riguardanti la relazione tra omofobia e modelli di
mortalità sono venute alla ribalta durante la pandemia di AIDS.
Riguardo alla patologia da HN, si potrebbe dire che l'omofobia
porti a esiti nocivi se "spinge a nascondersi" le persone che altri­
menti beneficerebbero di campagne preventive. Ma le comunità
gay, almeno quelle appartenenti ai ceti medi delle nazioni ricche,
sono state particolarmente efficienti nell'opporre resistenza alla
diffusione dell'AIDS, e i più integrati all'interno di queste comu­
nità sono anche i più informati circa i messaggi relativi all'AIDS
nel mondo.26
Possiamo sostenere che l'omofobia acceleri lo sviluppo del­
l'AIDS se porta alla negazione di servizi a coloro che hanno già
contratto l'infezione. Ma questo fenomeno non è stato ampia­
mente osservato negli Stati Uniti, dove è stato notato tra i gay un
"deficit di AIDS " numero inferiore di casi rispetto al previsto -,
-

sebbene non in altri gruppi colpiti in modo esponenziale dal con­


tagio nei primi anni dell'epidemia: tossicodipendenti, persone di
colore dei centri urbani degradati, persone provenienti dalle zo­
ne più povere dell'Mrica subsahariana o dei Caraibi.27 Le perso­
ne coinvolte nel mercato del sesso hanno subito un contagio no­
tevolissimo. In ogni caso, i soggetti di sesso maschile coinvolti nel
giro della prostituzione sono quasi universalmente poveri, e po­
trebbe essere la loro povertà, piuttosto che il loro orientamento
sessuale, a esporli a rischio di infezione da HIV. Molti uomini
coinvolti nella prostituzione omosessuale, in particolari i mino­
renni, non si identificano necessariamente come gay.

26. Benché le differenze di classe tra medici e studenti universitari non siano si­
gnificative come altre disuguaglianze qui analizzate, è da notare che uno studio ri­
portato nell'American Joumal of Psychiatry (Klein, Sullivan, Wolcott et al. 1987)
abbia osservato come fosse più probabile che gli psichiatri gay adottassero una effi­
cace riduzione del rischio rispetto agli studenti. Chiaramente molti fattori - età, li­
vello di educazione ecc. - potrebbero qui essere significativi. Negli Stati Uniti man­
cano ancora studi economicamente informati sui comportamenti a rischio tra gli
uomini gay; per i gay in Francia, uno studio (Pollak, 1988) suggerisce che lo status
economico è importante nel determinare l'accesso all'informazione e ai servizi.
27. Questi dati sono recensiti in Farmer, Walton, Furin (2000). Ma si veda an­
che Aalen, Farewell, De Angelis e collaboratori (1999).

291
SOFFERENZA, DIRITII UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

Con questo non si intendono negare gli effetti nocivi dell'o­


mofobia, anche in un paese ricco come gli Stati Uniti. li punto
piuttosto è di esigere analisi più raffinate e sistematiche circa le
dinamiche di potere e circa il privilegio nel discutere su chi è
maggiormente esposto alla violazione dei suoi diritti, e in che
modo. Non avevamo bisogno della pandemia di AIDS per capir­
lo. Nel romanzo Maurice, E.M. Forster affresca la politica di
classe inglese tanto quanto l'esperienza affettiva di Maurice, un
uomo appartenente alla classe medio-alta che si innamora di Cii­
ve, un aristocratico con supposte ambizioni politiche. La libera­
zione di Maurice, sembrerebbe, viene dalla sua relazione con
Alec, un servitore che lavora nella tenuta della famiglia di Clive.
In una postfazione al libro, Forster deplora la persecuzione dei
gay in Inghilterra, notando come "le persecuzioni della polizia
continueranno e Clive dallo scranno continuerà a processare
Alec sul banco degli imputati. Mentre Maurice potrebbe cavar­
sela" (Forster, 197 1 , p. 255).

L'INTRECCIO D I VIOLENZA STRUITURALE E DIFFERENZA CULTURALE

Per molto tempo la consapevolezza delle differenze culturali


ha complicato la discussione sulla sofferenza umana, Alcuni an­
tropologi hanno sostenuto che quanto dagli osservatori esterni
era interpretato come una lesione alla dignità umana potrebbe di
fatto essere considerata come un'istituzione culturale di vecchia
data tenuta in gran conto in una società. Esempi spesso citati van­
no dalla circoncisione femminile in Sudan fino alla pratica di cac­
ciare teste nelle Filippine. Queste discussioni fanno invariabil­
mente appello al concetto di relativismo culturale, che in antro­
pologia ha una storia lunga e collaudata. Forse ogni cultura è ret­
ta da una propria legge interna che prescinde da valutazioni a lei
esterne? Negli ultimi decenni, la fiducia in un relativismo cultu­
rale riflessivo ha iniziato a vacillare non appena gli antropologi
hanno rivolto la loro attenzione alle "società complesse", caratte­
rizzate da strutture sociali estremamente non-egualitarie. Molti
sono stati riluttanti a legittimare l'iniquità sociale solamente per­
ché sostenuta da credenze culturali, più o meno legate a tradizio­
ni secolari o pittoresche. Anche i cittadini delle ex-colonie hanno

292
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUTTIJRALE

contestato il relativismo culturale all'interno di una più ampia


critica all'antropologia: esso, infatti, avrebbe rappresentato un
meccanismo per razionalizzare e rendere ragione delle inegua­
glianze tra Primo e Terzo Mondo.28
Ma queste perplessità non hanno ancora eroso la tendenza,
evidente in molte delle scienze sociali ma forse particolarmente
in antropologia, a confondere la violenza strutturale con la diffe­
renza culturale. Fin troppe tradizioni etnografiche hanno con-fu­
so povertà e ineguaglianza, esiti finali di un lungo processo di im­
poverimento, con !'" alterità" . Abbastanza spesso, tale miopia
non si riduce a delle cause, ma piuttosto, come ha suggerito Talal
Asad, ha a che fare con il nostro "modo di percepire e oggettivare
le società altre" (Asad, 1975, p. 17). Una parte del problema po­
trebbe essere quella dei modi in cui il termine " cultura" viene im­
piegato. "L'idea di cultura" , spiega al riguardo Roy Wagner, in un
libro sull'argomento, "pone il ricercatore su un piano di egua­
glianza rispetto alle persone che studia: ciascuna di loro 'appar­
tiene a una cultura' " (Wagner, 1975, p. 16). La tragedia, certo, è
che questa uguaglianza, per quanto di conforto al ricercatore, è
del tutto illusoria. L'antropologia ha di solito "studiato poco" i
forti dislivelli di potere.
Queste illusioni forniscono uno strumento chiave a sostegno di
altre letture errate - la principale delle quali è la confusione tra po­
vertà e differenza culturale - in quanto propongono che l'antropo­
logo e il "suo" soggetto, provenendo da differenti culture, appar-

28. Si vedano a questo proposito gli studi di Hatch (1983) e di Gellner (1985).
Certamente, la discussione su violenza e differenza culturale è molto più complicata
di quella qui presentata. La fiducia degli antropologi nel relativismo culturale è ve­
nuta meno non solo in virtù dello spostamento di focus verso lo studio delle "so­
cietà complesse", ma anche come risultato del mutamento demografico all'interno
dell'antropologia stessa. Dopo la Seconda guerra mondiale, l'ingresso nell'antropo­
logia professionale statunitense di un gran numero di veterani, alcuni di origini ope­
raie e con orientamenti politici più radicali, servì a minare significativamente la po­
sizione di estremo relativismo culturale. Negli anni Novanta, non era più inusuale
sentire commenti come quello di Nancy Scheper-Hughes: "ll relativismo antropo­
logico non è più adeguato al violento, agitato e controverso mondo politico in cui
oggi viviamo" (1994, p. 991). Allo stesso tempo, tuttavia, William Roseberry mette
in luce come la "reazione profondamente conservatrice nella politica e nella cultu­
ra, segnata politicamente dalla vittoria di Reagan nel 1980", ha prodotto i suoi echi
in antropologia: " Cosa è caduto in disgrazia? In pratica, sembrerebbe: un lavoro
troppo etnografico, troppo sociologico, troppo strutturale, troppo politico, troppo
economico, troppo processuale" (1996, pp. 17, 2 1).

293
SOFFERENZA, DIRim UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

tengano a mondi differenti e a tempi differenti.29 Queste letture er­


rate, abbastanza innocue finché confinate all'interno dell'ambito
degli studiosi, divengono assai più insidiose nella cultura d'elite nel
momento in cui essa diviene sempre più transna:donale. Le conce­
zioni del relativismo culturale, come anche le argomentazioni a so­
stegno del ripristino della dignità delle culture e delle "razze" diffe­
renti, sono state adottate con estrema disinvoltura e utilizzate con
profitto proprio da alcuni di quelli che perpetrano la sofferenza
estrema.30 L'abuso del concetto di specificità culturale è particolar­
mente insidioso nelle discussioni sulla sofferenza in generale e sugli
abusi dei diritti umani in particolare. La differenza culturale, che
sconfina nel determinismo culturale, è una delle diverse forme di es­
senzialismo usate per giustificare le lesioni alla dignità e la sofferen­
za. Le pratiche tra cui la tortura sono considerate "parte della loro
cultura", o "nella loro natura" - dove "loro" può designare tanto le
vittime quanto i carnefici, o entrambi, a seconda dell'opportunità.31
Questi vizi analitici vengono raramente messi in discussione,
anche se studi sistematici sulla sofferenza estrema suggeriscono
che il concetto di cultura dovrebbe svolgere a un ruolo estrema­
mente limitato nello spiegare la distribuzione della miseria. Il
ruolo dei confini culturali nel favorire, perpetuare, giustificare, e
interpretare la sofferenza è subordinato a quei meccanismi nazio­
nali e internazionali (sebbene sia a essi integrato) che creano e ap­
profondiscono le disuguaglianze. La "cultura" non spiega la sof­
ferenza, al peggio essa può fornirle un alibi.32

29. Johannes Fabian ( 1983) ha sostenuto che questo "rifiuto della coevità" è
profondamente radicato nella nostra disciplina. Nella misura in cui tale rifiuto con­
tribuisce alla cecità dell'antropologo, esso non può essere archiviato come mera
questione di stile: "sia che egli si sottometta alla condizione della coevità e produca
un sapere etnografico, sia che abbia l'illusione di una distanza temporale e non af
ferri così l'oggetto della propria ricerca"(Fabian, 1983, p. 63 . Enfasi aggiunta). Si ve­
da anche Starn, 1992.
30. Per un acuto esame dell'appropriazione della politica dell'identità da parte
dei grandi circuiti economici, vedi Kauffman, 1993. Anche lavoro di Naomi Klein
(2000) costituisce uno studio sofisticato sullo stesso argomento.
3 1 . Ancora, la discussione presentata qui tratta in modo necessariamente sbri­
gativo la complessità di questi dibattiti. Per un esempio illuminante, si veda l'analisi
condotta da Amede Obiora ( 1997) sulle "polemiche e l'intransigenza nella campa­
gna contro la circoncisione femminile".
32. Un recente esempio di confusione tra violenza strutturale e differenza cultu­
rale si trova nelle lunghe liste di motivi dati da coloro che non credono che la cura
per l'AIDS sia possibile in Africa. Un ufficiale degli USA press il Dipartimento del Te-

294
SOFFERENZA E VIOLENZA STRUITURALE

VIOLENZA STRUITURALE E SOFFERENZA ESTREMA

Di notte sento i loro fantasmi


gridarmi nell'orecchio
Mi scuotono dal letargo
Dandomi ordini
Penso alle loro vite a brandelli
Alle loro mani febbricitanti
Che si allungano a stringere le nostre.
Non supplicano
Esigono
hanno meritato il diritto di intimarci
Di interrompere il nostro sonno
Di ridestarci
Di scrollarci di dosso
Quest'apatia.
CLARIBEL ALEGR1A, Visite notturne

È evidente che nessun singolo asse può spiegare pienamente


l'aumentare del rischio di sofferenza umana estrema. Gli sforzi
di attribuire efficacia esplicativa a una sola variabile portano a
sbilanciate rivendicazioni di causalità, dal momento che la ric­
chezza e il potere hanno spesso protetto le singole donne, i gay, e
le minoranze etniche dalla sofferenza e da esiti sfavorevoli asso­
ciati a lesioni della dignità personale. Analogamente la povertà
può spesso far scomparire gli effetti "di difesa" dello status, di­
pendenti dal genere, dalla razza, dall'orientamento sessuale.
Leonardo Boff e Clodovis Boff (1987, p. 29), teologi della libera­
zione che scrivono del Brasile, insistono sulla priorità dell'eco­
nomia:

soro - che saggiamente rifiutò di essere identificato - osservò che "l'Africa mancava
delle infrastrutture mediche e fisiche fondamentali che renderebbero possibile uti­
lizzare con efficacia il complesso cocktail di farmaci per combattere l'AIDS. Disse
che gli africani mancavano di un indispensabile "concetto di tempo", che compor­
tava che essi non potessero beneficiare dei farmaci da prendere a orari serrati"
(Kahn, 2001, p. 10).
Giustificazioni e spiegazioni della violenza strutturale sancite ufficialmente arri­
vano il più delle volte dalle classi colte - cioè, noi. n poeta guatemalteco Otto René
Castillo, ucciso dall'annata guatemalteca il 19 marzo 1967, dichiara che gli "intel­
lettuali apolitici" del suo paese saranno un giorno duramente giudicati dai poveri:
"Cosa avete fatto quando i poveri/ Soffrivano, quando la tenerezza e la vita/Si estin­
guevano pericolosamente in loro?!Intellettuali apolitici/ Del mio dolce paese,/ No
avrete nulla da dire./Un avvoltoio del silenzio/Vi mangerà le budella./La vostra mi­
seria! Vi roderà l' anima./E sarete muti/Nella vostra vergogna.

295
SOFFERENZA, DIRim UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

Dobbiamo osservare come gli oppressi a livello socio-economico (i


poveri) non si limitano a esistere in mezzo agli altri gruppi di oppressi,
come i neri, le popolazioni indigene, le donne - per considerare le tre
principali categorie nel Terzo Mondo. No, gli "oppressi di classe" - i
poveri a livello socio-economico - sono l'espressione infrastrutturale
del processo di oppressione. Gli altri gruppi rappresentano le espres­
sioni "sovrastutturali" dell'oppressione e per questo sono profonda­
mente condizionate da quelle infrastrutturali. Una cosa è essere un
tassista nero, e un'altra essere un idolo nero del calcio; una cosa è esse­
re una donna che lavora come domestica, e una cosa essere la first lady
di un paese; una cosa è essere un amerindio espulso dalla propria ter­
ra, e un'altra un amerindio che possiede la sua fattoria.

Con questo non si intende negare che il sessismo o il razzismo


comportino gravi conseguenze negative, anche nei paesi ricchi
del Nordamerica e dell'Europa. li punto è semplicemente quello
di esigere riflessioni più oneste su chi ha maggiori possibilità di
soffrire e in che modo.
La capacità di soffrire è chiaramente parte integrante dell'es­
sere umano. Ma non tutte le sofferenze si equivalgono, nonostan­
te la politica dell'identità, dannosa e utile solo a se stessa, che sug­
gerisce altrimenti. I medici quotidianamente praticano il triage e
indirizzano dagli specialisti. A quale sofferenza bisogna dare la
precedenza, e con quali risorse? Parlare di sofferenza umana
estrema è possibile, e la maggior parte di questo tipo. di dolore
viene comunemente sopportata da coloro che vivono in povertà.
Prendiamo, per esempio, la malattia e la morte prematura, la cau­
sa principale di sofferenza estrema in molti luoghi del mondo.
L'Organizzazione Mondiale della Sanità dichiara - a differenza
delle scialbe dichiarazioni riportate in precedenza - che la po­
vertà è la principale causa di morte nel mondo (1995): "La po­
vertà esercita la sua influenza distruttiva a ogni stadio della vita
umana, dal concepimento alla tomba. Essa cospira con le patolo­
gie più mortali e dolorose per portare una esistenza di dannazio­
ne a tutti coloro che la patiscono" .
Oggi i poveri del mondo sono le vittime elette della violenza
strutturale - una violenza che finora ha resistito all'analisi di quan­
ti cercano di capire la natura e la distribuzione della sofferenza
estrema. Perché le cose devono stare così? Una risposta è che non
solo è più probabile che i poveri soffrano; è anche meno probabile
che si noti la loro sofferenza, come ha avvertito il teologo cileno

296
SOFFERENZA E VIOLENZA SlRUTIURALE

Pablo Richard, commentando la caduta del muro di Berlino: "Sia­


mo consapevoli del fatto che un altro muro gigantesco sta per es­
sere costruito nel Terzo Mondo, per nascondere la realtà delle
moltitudini che vivono in povertà. Un muro tra ricchi e poveri sta
per essere eretto, di modo che la povertà non dia fastidio ai poten­
ti e che i poveri siano obbligati a morire nel cono d'ombra della
storia" (Richard, in Nelson-Pallmeyer, 1992, p. 14).
n compito imminente, se si vuole rompere questo silenzio, è
quello di identificare le forze che cospirano nel promuovere la
sofferenza, con l'intendimento che esse sono calibrate in modo
diverso nei diversi contesti. Se saremo in grado di farlo, avremo la
possibilità di individuare le cause della sofferenza estrema e an­
che le forze che espongono alcuni a rischio di abuso dei diritti
umani, mentre altri vengono salvaguardati. Nessuna valutazione
attendibile dell'attuale stato dei diritti umani può permettersi di
esimersi da un'analisi della violenza strutturale.

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302
9

LA BIOPOLITICA DELL'ALTERITÀ
CLANDESTINI E DISCRIMINAZIONE RAZZIALE
NEL DIBATTITO PUBBLICO IN FRANCIA

Didier Fassin

li " dibattito sull'immigrazione" in Francia è stato segnato, ne­


gli anni Novanta, da due eventi importanti: la crescita del movi­
mento dei sans-papiers che ha portato alla ribalta la questione de-
. gli stranieri irregolari, e l'ammissione dell'esistenza della discri­
minazione razziale in vari contesti sociali. La questione significa­
tiva non sono tanto i fenomeni in sé, quanto il loro affermarsi nel­
la sfera pubblica, con le relative conseguenze sull' autopercezione
dei francesi e sul loro rapporto con l'alterità.
Da un lato, di fronte al movimento sociale degli stranieri irre­
golari e al supporto da esso ricevuto da parte di associazioni, in­
tellettuali, artisti, oltreché di figure politiche, l'opinione pubblica
è divenuta consapevole del fatto che coloro che abitualmente ve­
nivano visti come "lavoratori abusivi" in realtà erano spesso uo­
mini e donne che avevano risieduto legalmente in Francia per
lunghi periodi di tempo. Questi immigrati costituivano un grup­
po eterogeneo ed erano entrati in clandestinità per varie ragioni:
tra loro c'erano mogli o figli che si erano ricongiunti ai mariti e ai
padri, essi stessi residenti legali da anni; giovani arrivati da bambi­
ni e perseguiti per crimini di poca importanza nell'adolescenza;
studenti che avevano dovuto abbandonare gli studi per essere sta­
ti bocciati agli esami e persone in cerca di asilo le cui richieste era­
no state rifiutate. In altre parole, questo "Altro", fino a quel mo­
mento distante e illegittimo, appariva all'improvviso umanamen­
te vicino e socialmente accettabile. Inoltre, gli effetti della legisla­
zione sempre più restrittiva e delle pratiche amministrative degli
ultimi venticinque anni hanno messo in luce fino a che punto lo
Stato e la società civile siano stati responsabili della diffusione

303
SOFFERENZA, DIRITII UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

stessa di questa illegalità. l n movimento dei sans-papiers è stato


ampiamente sostenuto, come conferma un sondaggio del 1998:
una persona su due in Francia (percentuale che arriva a due su tre
nel caso dei giovani) era dell'opinione che tutti gli stranieri irrego­
lari dovessero essere legalizzati. Con spirito analogo, il governo
socialista eletto nel giugno 1997 non esitò a emanare una circolare
ministeriale che stabiliva i criteri per la legalizzazione di cui bene­
ficiarono successivamente 80.000 immigrati, promulgando poi
una nuova legge sull'ingresso e la residenza degli stranieri.
Dall'altro lato, l'opinione dei francesi secondo la quale il pro­
prio Paese stava promuovendo un modello praticamente unico di
integrazione repubblicana, aggirando sia il comunitarismo sia la
xenofobia, che spesso caratterizzavano la politica degli altri pae­
si, si trovò di fronte all'evidenza che le pratiche discriminatorie
basate su supposte differenze razziali si andavano moltiplicando
nei quartieri, nelle scuole, nelle fabbriche, nei tribunali, negli
ospedali e nei locali notturni, colpendo prevalentemente persone
di origine africana. Divenne chiaro che le disuguaglianze andava­
no analizzate non semplicemente in base alle tradizionali catego­
rie di classe sociale, professione, nazionalità, ma anche dal punto
di vista dell'origine, reale o presunta, individuata attraverso il co­
lore della pelle o i nomi dal suono straniero. Presentata ufficial­
mente come sforzo per evitare l'ulteriore stigmatizzazione degli
immigrati e dei loro discendenti, la negazione di queste pratiche
era servita a lungo a far valere una legge di silenzio all'interno tan­
to della sfera politica quanto di quella scientifica. Tuttavia, negli
anni Novanta, una serie di studi, indagini, azioni legali e interven­
ti pubblici a opera di gruppi per la difesa dei diritti umani e anti­
razzisti, iniziarono gradualmente a smascherare questa zona
d'ombra.2 Nel 1998, per la prima volta, un rapporto ufficiale del­
l'Haut Conseil à l'Intégration si concentrò sulla questione del
razzismo attraverso una relazione sulla discriminazione in Fran­
cia e propose la creazione di un corpo amministrativo indipen-

l. Per le conseguenze del movimento dei sans-papiers sulla vita politica e intel­
lettuale, si può consultare Benthall (1997). Per un'analisi della questione nella sua
interezza, vedi invece Fassin, Morice e Quiminal (1997).
2. La pubblicizzazione della discriminazione razziale è una questione rilevante
anche nel dibattito britannico e nordamericano, come mostra Banton (1999). Per
un approccio al fenomeno in Francia si veda Bataille (1998).

304
LA BIOPOLITICA DELL'ALTERITÀ

dente che si facesse carico della questione. Come risultato di que­


sto rapporto, nel marzo del 2000 il primo ministro Lione! Jospin
annunciò la nomina di una commissione di studio sulle discrimi­
nazioni (Groupe d'étude des discriminations). Lo Stato in questo
modo riconosceva e rivelava il divario tra l'ideologia promulgata
nel nome dell'ideale repubblicano e la realtà riflessa nella vita
quotidiana dei residenti stranieri e delle loro famiglie.
In termini sociologici, questi due fenomeni - l'improvvisa pre­
sa di coscienza degli stranieri irregolari e il riconoscimento della
discriminazione razziale - sono distinti, uno si riferisce infatti allo
stato legale di uomini e donne che attraversano i confini nazionali
di un mondo sempre più globalizzato (Kearney, 1995), l'altro è
legato alle rappresentazioni sociali e alle pratiche relative agli im­
migrati e ai loro discendenti entro una cornice nazionale (Bonil­
la-Silva, 1997). Ciononostante, a livello dell'esperienza indivi­
duale essi sono più strettamente connessi di quanto non possa
sembrare, dal momento che, per esempio, lo status illegittimo de­
gli stranieri irregolari alimenta la percezione negativa degli immi­
grati in generale e, reciprocamente, il razzismo fornisce una base
ideologica per limitare la legittimità dei movimenti transnaziona­
li. Ancor più importante, comunque, è che i due fenomeni abbia­
no un tratto antropologico in comune che è passato largamente
inosservato negli accesi dibattiti che hanno suscitato in Francia.
Sebbene in maniera diversa, entrambi manifestano, almeno nel
contesto francese, una forma senza precedenti di gestione delle
popolazioni immigrate. Nel caso degli stranieri irregolari, dal
momento che tutte le altre possibilità di ottenere un permesso di
soggiorno sono state limitate dalle modifiche alla legislazione) sa­
lute e malattia sono diventate progressivamente il terreno più ac­
creditato per ottenere uno status legale, tanto per le autorità sta­
tali quanto per i sostenitori e gli avvocati che patrocinano l'immi­
grazionel Allo stesso modo, mentre i diritti civili e politici sono
stati progressivamente erosi da ripetute modifiche della legge e
da pratiche amministrative non sempre controllate, il diritto lega­
le largamente riconosciuto all'assistenza sanitaria difficilmente è
stato messo in discussione, anche dai più conservatori tra i parte­
cipanti al dibattito sull'immigrazione. n corpo so/ferente ha impo­
sto la propria legittimità laddove altre basi per il riconoscimento
venivano progressivamente messe in questione.

305
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

Nel caso della discriminazione razziale, il cambiamento politi­


co è derivato da un'altra forma di inscrizione corporea. Fino a
poco tempo fa, per quanto riguardava gli immigrati, le sole diffe­
renze che i francesi erano pronti a riconoscere interessavano la
cultura, promossa o stigmatizzata; le sole disuguaglianze che si
era disposti a prendere in considerazione derivavano dalla nazio­
nalità, cioè dalla definizione legale di identità. Tutte le altre di­
stinzioni, in particolare quelle basate sui tratti fisici o sulle carat­
teristiche biologiche, venivano condannate all'unanimità, fino al
punto di definire il confine politico tra accettabile e inaccettabile,
tra partiti. politici legittimi ed estrema destra. La discriminazione
razziale, in questo modo negata, si supponeva non esistesse, no­
nostante tutte le prove contrarie. Sia per lo Stato che per la so­
cietà civile, l'attuale riconoscimento di una discriminazione ap­
parentemente basata sulla "natura", benché inaccettabile, è dun­
que un'innovazione radicale. n corpo razzializzato è divenuto
l'oggetto più illegittimo della differenziazione sociale, eppure un
oggetto la cui esistenza non può essere negata.
I due fenomeni di fatto corrispondono a due differenti ap­
procci politici al corpo dell'immigrato: la legittimità del corpo che
soffre, proposta in nome di un'umanità comune, è opposta all'il­
legittimità di un corpo razzializzato, promulgato in nome di una
differenza insormontabile. Nel primo caso, l'Altro arriva da fuori
e la cura del suo corpo dipende dall'accoglienza del paese che
lo/la ospita. Nel secondo caso, l'Altro è già dentro e la cura del
suo corQo çhiama in questione l'ordine sociale. Il corpo è divenu­
to il luogo di inscrizione per le politiche di immigrazione, defi­
nendo quello che possiamo chiamare, secondo la terminologia di
Foucault/ una biopolitica dell'alterità. Un'analisi di tali questioni
può fornire uno strumento per comprendere delle dimensioni
antropologiche inedite relative alla produzione del corpo4 nelle
società contemporanee.

3. Sebbene Foucault non abbia discusso esplicitamente il tema dell'immigrazio­


ne, le sue analisi sono pertinenti, dall'amministrazione del corpo sqfferente inscrit­
ta nella logica del "fai vivere, lascia morire" della biopolitica ( 1976), alla gestione

del corpo razzializzato incorporata nel suo pezzo sulle "guerre di raz2:!1" (1997).
4. La raccolta di saggi di Godelier e Panoff (1998) fa luce sulla questione in
rapporto a popoli socialmente o geograficamente distanti, ma non fanno parola
della produzione del corpo nel contemporaneo mondo occidentale.

306
LA BIOPOLmCA DELL'ALTERITÀ

n. RICONOSCIMENTO DEI CORPI

In Francia, come nella maggior parte dei paesi occidentali,


quello dell'immigrazione irregolare è diventato un problema po­
litico complesso. La creazione dell'area di Schengen ha rappre­
sentato un tentativo di portare una soluzione politica a livello
europeo - i cui limiti però sono stati evidenziati dal continuo af­
flusso di immigrati dai Balcani alle coste dell'Italia e dall' Mrica
alle spiagge della Spagna. La retorica che sta intorno alla que­
stione è stata esposta molto chiaramente nel dibattito pubblico:
da un lato, i paesi ricchi non possono assorbire "la povertà della
terra" , come sostenne il precedente ministro socialista Michel
Rochard; dall'altro, la severa regolamentazione dei clandestini è
un prerequisito per l'integrazione degli immigrati regolari, giu­
stificando lo slogan "zero immigrazione illegale" formulato da
Charles Pasqua, precedente ministro degli Interni di area con­
servatrice.
Tuttavia questa argomentazione apparentemente coerente è
stata contraddetta dal fatto che un crescente numero di stranieri
irregolari non corrisponde allo stereotipo del "clandestino" ,
avendo il diritto di pretendere il riconoscimento di uno status le­
gale per gli anni trascorsi nella nazione ospitante, per i servizi
forniti, per i legami familiari sviluppati o anche per le minacce
cui costoro andrebbero incontro se dovessero tornare a casa.
Questa constatazione ridimensiona la retorica ufficiale, indican­
do che il Paese non si trova soltanto di fronte alla povertà prove­
niente dall'estero, ma anche agli esiti dei suoi stessi processi po­
litici, e che il confine tra registrati e non registrati è meno chiaro
di quanto si sostenesse in precedenza, dal momento che la possi­
bilità di perdere o ottenere il permesso di soggiorno dipende dai
cambiamenti di legislazione. La questione dunque non riguarda
tanto chi è le almente presente, quanto chi può legittimamente
pretendere uno status legale. Nel pubblicare l'ordinanza mini­
steriale del 24 giugno 1997, che specifica i vari criteri per la lega­
lizzazione degli immigrati irregolari, e nel proporre la legge
dell' l l maggio 1998, che definisce le condizioni per l'ingresso e
la residenza degli stranieri, il governo francese ha tenuto conto
di questo scarto, ridisegnando nuovi criteri di legittimità per gli
immigrati.

3 07
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

ASILO E UMANITARISMO

Due cambiamenti sono particolarmente degni di nota, en­


trambi per la relazione inversa delle loro tendenze statistiche e
per il significato di queste ultime. Essi riguardano il diritto di asi­
lo e la logica umanitaria.
In un periodo di dieci anni a partire dalla fine degli anni Ot­
tanta, il numero di stranieri cui è stato garantito il diritto di asilo
in Francia è diminuito di sei volte, stabilizzandosi gradualmente
al di sotto dei duemila rifugiati all'anno. Questa diminuzione di­
pende da due cambiamenti distinti ma collegati: il numero delle
domande inoltrate è calato di un terzo e la proporzione di quelle
accettate si è dimezzata.' n significativo calo del numero dei rifu­
giati non è dipeso certamente dal fatto che dagli anni Novanta vi­
viamo in un mondo più pacifico; piuttosto è il risultato dell'inten­
sificazione della pratica di rimpatrio, da parte degli ufficiali di
confine, oltre che della severità di coloro che valutano le richieste
inoltrate. L'atteggiamento prevalente degli ufficiali dell'Ufficio
francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFPRA) è di
valutare le richieste con sospetto; tanto è vero che solo una do­
manda su dieci viene approvata. La Convenzione di Ginevra vie­
ne dunque applicata in maniera sempre più restrittiva, special­
mente da quando la Francia ha introdotto un regolamento che li­
mita il riconoscimento dell'asilo politico alle vittime della perse­
cuzione di Stato: questa interpretazione del trattato ha consentito
agli ufficiali di rifiutare quasi tutte le richieste degli algerini che si
presentavano come vittime del terrorismo islamico (almeno fino
alla fine degli anni Novanta, quando fu creato un diritto specifico
di "asilo territoriale", impiegato tuttavia con parsimonia).
Parallelamente, a un'altra categoria di stranieri veniva garantito
un numero crescente di permessi legali: persone con malattie o,
per essere più precisi, con patologie potenzialmente letali, per le
quali non vi erano adeguate cure mediche nel paese di provenien­
za. Una volta che questi due criteri (patologia grave e assenza di al-

5. Queste statistiche per il periodo tra il 1988 e il 1997 sono pubblicate dal­
l'Ufficio francese per la protezione dei rifugiati e degli apolidi (OFFRA). La crescita
del 1998 non contraddice questa analisi, perché la metà degli accordi riguardano
figli di rifugiati che hanno raggiunto la maggiore età, portando Legoux (1999) a
stimare il numero reale dei nuovi rifugiati attorno ai 2200.

308
LA BIOPOLffiCA DELL'ALTERITÀ

temativa terapeutica) vengono confermati dalle autorità sanitarie,


il paziente riceve un permesso temporaneo, che in passato era ac­
cordato per "motivi umanitari", e ora semplicemente per "assi­
stenza medica". Questo status è doppiamente precario, sia perché
deve essere rinnovato ogni tre o dodici mesi, sia perché è solita­
mente accompagnato dal divieto di lavorare. Anche se per questo
lasso di tempo non sono disponibili delle statistiche nazionali, i da­
ti locali indicano che nd département con il maggior numero di ri­
chieste di legalizzazione, le domande di permesso umanitario sono
aumentate di sette volte nd corso degli anni Novanta, raggiungen­
do le mille richieste all'anno, tre quarti delle quali sono state accet­
tate. A livello nazionale, dopo la campagna dd 1997-1998 per la re­
golarizzazione, il lO% dei permessi di soggiorno sono stati rilascia­
ti per motivi medici.6 Questa evoluzione riflette l'interesse politico
a rispettare la Convenzione europea sui diritti umani, le cui tra­
sgressioni, in precedenza, hanno portato a diverse delibere contro
lo stato francese da parte della Corte di giustizia europea.
La correlazione tra lo spiccato calo dell'asilo politico e il cre­
scente riconoscimento di ragioni umanitarie non è una mera
coincidenza. Le associazioni che difendono i diritti degli immi­
grati, come pure i servizi statali per l'immigrazione, stanno ora
chiedendo ai profughi le cui domande sono state respinte se ma­
gari non abbiano una "patologia da proporre", spingendoli a
considerare la logica umanitaria "come una priorità" e l'asilo po­
litico "come sussidiario", per utilizzare le espressioni di un uffi­
ciale del Ministero degli Interni. Viene così attribuita maggiore
importanza al corpo sofferente rispetto al corpo minacciato, e il
diritto alla vita viene spostato dall'ambito politico a quello uma­
nitario. Per lo Stato è più accettabile bocciare una richiesta di
aiuto, dichiarandola infondata, che rifiutare un'opinione medica
raccomandando un permesso legale temporaneo per ragioni di
salute. Tutto ciò non deve essere visto semplicemente nei termini
di un cinico pragmatismo finalizzato a tenere la Francia fuori dal
tribunale europeo: esso dimostra anche l'esistenza di principi

6. Queste cifre non pubblicate sono state ricavate dalla Direzione degli affari
sanitari e sociali (DASS) del département di Seine-Saint-Denis, dove le statistiche
sono state raccolte come parte di un progetto di ricerca condotto da D. Delettre
(1999), e dalla Direzione della libertà pubblica agli affari interni, in cui i dati sono
stati raccolti da un pool di 38.000 ricorsi al Ministero.

3 09
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

' morali condivisi che riconoscono la verità biologica incisa sul


corpo come fonte capitale della legittimitàj (Fassin, 2000a). L'in­
tegrità corporea, minacciata da una malattia accertata, non è vista
solo come legittima, in contrasto con l'integrità corporea che de­
ve far fronte alla potenziale violenza, ma in ultima analisi fornisce
la base per il diritto di vivere legalmente sul suolo francese.

DIRITI1 E PATHOS

Tuttavia$ questo diritto non avrebbe senso se non fosse connes­


so con l'accesso all'assistenza sanitaria. La legislazione francese dà
agli stranieri la stessa possibilità di accedere ai servizi sanitari che
garantisce ai connazionali, a patto che essi siano residenti perma­
nenti e legali. Chi non ha uno status legale beneficia quindi del­
l'assicurazione medica statale, che comprende esami e prescrizio­
ni. La restrizione principale riguarda coloro che hanno vissuto in
Francia per meno di tre anni, i quali possono accedere esclusiva­
mente alle cure ospedaliere. La riforma legislativa del sistema di
sicurezza sociale, operativa dal l gennaio 2000 con lo scopo di
produrre una "copertura medica universale" (CMU), ha introdotto
delle novità, mantenendo tuttavia il diritto all'assistenza gratuita
per gli stranieri irregolari. Pertanto, il diritto all'assistenza sanita­
ria sembra essere il più garantito di tutti i diritti concessi agli im­
migrati, a prescindere dal loro status legale: è molto più compren­
sivo di qualsiasi altro diritto civile o politico, più vasto di tutti gli
altri diritti sociali (Marshall, 1965).7 Neppure la legislazione più
restrittiva, come le leggi Pasqua del 1993 e le leggi Debré del
1997, ha effettivamente messo in discussione questo diritto.
Lo statuto privilegiato concesso al corpo nelle procedure di le­
galizzazione e nell'accesso all'assistenza sanitaria ha influito sulla
coscienza che gli immigrati hanno della propria identità, Nel legit­
timare la malattia fino al punto di renderla la sola giustificazione
della loro presenza in Francia, la società condanna molti stranieri
irregolari a esistere ufficialmente solo in quanto malati. In questo

7. Di fatto, questo diritto è limitato dalla conoscenza e dall'impiego che ne


fanno gli ufficiali amministrativi e gli assistenti sociali con cui gli immigrati entra­
no in contatto (Bourdillon, Lombrail, Antoni et al., 1991); a ogni modo, solleciti
sia da parte dello Stato che delle associazioni di comunità hanno contribuito a un
più ampio ricorso a tale legge negli anni Novanta.

3 10
LA BIOPOLITICA DELL'ALTERITA

senso possiamo parlare di incorporazione delle condizioni sociali


dell'immigrato (Fassin, 2001). Essendo divenuto, per i clandestini,
una risorsa nelle loro lotte con l'amministrazione, il corpo soffe­
rente viene presentato ai medici che devono decidere se garantire o
meno lo status legale: l'immigrato/a cerca nella sua storia e nei suoi
sintomi qualcosa che lo/la aiuterà a ottenere l'autorizzazione legale
cui aspira, con il rischio di sentirsi rispondere che la patologia non
è "abbastanza grave" per sostenere la richiesta.8 In questa intera­
zione sociale, in cui l'immigrato deve dar prova della sua malattia,
la distinzione tra manipolazione, che emerge quando i dati medici
vengono falsificati, e somatizzazione, evidente quando le condizio­
ni materiali provocano una malattia, è spesso tanto più difficile da
discernere, quanto più gli immigrati vivono in situazioni precarie
che producono effetti sia psicologici che fisici: sindromi depressive
e ulcere gastriche sono patologie diffuse. La vita quotidiana degli
stranieri irregolari diventa quindi spesso un'esperienza sociale di
sofferenza, dove il pathos esprime la durezza delle circostanze e si­
multaneamente serve da risorsa per giustificare la propria esisten­
za. La relazione narrativa con la propria storia e il proprio corpo,
creata dalla ripetizione di racconti di autogiustificazione di fronte
alle autorità statali, genera una patetica immagine di sé (Fassin,
2000b). Lo straniero irregolare percepisce se stesso come una vitti­
ma ridotta a suscitare compassione.
Gli immigrati non specializzati sono stati a lungo ritenuti un
complemento necessario alla forza lavoro nazionale, necessario
allo sviluppo economico dei paesi ricchi. I loro corpi erano stru­
menti al servizio del paese che li ospitava e la loro fatica conferiva
loro una legittimità che la legge spesso confermava solo a poste­
riori, quando il loro permesso di lavoro costituiva effettivamente
il mezzo per la loro legalizzazione (Weil, 1991). In questo conte­
sto, il corpo malato o ferito era sospetto agli occhi tanto dei medi­
ci quanto dello Stato, fino al punto che venne creata una specifica

8. ll ruolo dei medici nel riconoscimento del diritto alla cura degli stranieri
malati, qualunque sia il loro status legale, è stato cruciale, anche se è degno di no­
ta come le loro organizzazioni di categoria non si siano espresse sull'argomento,
divenuto il motivo centrale dell'intervento delle associazioni mediche nelle gene­
rali questioni umanitarie (Médecins sans frontières, Médicins du monde ecc.) o,
più in particolare, in quelle relative agli immigrati (Comede, Remede ecc.). Ciono­
nostante, il fenomeno straordinario è la relativa novità di questo impegno e del
sostegno pubblico che ha ricevuto.

311
SOFFERENZA, DIRITil UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

condizione patologica - la "sinistrosi" , una forma intermedia tra


simulazione e isteria (Sayad, 1999). Oggi che il bisogno industria­
le di lavoro non specializzato è diminuito notevolmente, gli im­
migrati ingrossano le schiere dei disoccupati e le loro probabilità
di rimanere senza lavoro sono triplicate rispetto a quelle dei citta­
dini francesi. In un contesto in cui i loro corpi produttivi sono di­
ventati inutili - persino indesiderabili - a causa della reale o sup­
posta concorrenza della forza lavoro, è il corpo che soffre che la
società è pronta a riconoscere.9 Lungi dall'evocare sfiducia o so­
spetto, le malattie o gli incidenti sembrano essere l'unica fonte di
legittimazione su cui i clandestini possono fare leva.
Quando le trasformazioni economiche nel mondo occidentale
hanno reso gli immigrati dei "lavoratori senza lavoro, cioè privati
dell'unica attività che gli rimaneva" , per dirla con Hannah
Arendt (1958), il corpo personifica quella che Giorgio Agamben
chiama "nuda vita" - esistenza ridotta alla sua espressione fisica
o, in questo caso, il riconoscimento dell'essere umano attraverso
la sua patologia. La biopolitica dell'alterità deve essere qui intesa
come una riduzione estrema del sociale al biologico: il corpo ap­
pare come l'ultimo rifugio di una comune umanità.

lA RAZZIALIZO
ZAZI NE DEUA DIFFERENZA

Anche l' "idea di razza" può essere vista come una riduzione
del sociale al biologico, ma in senso opposto (Banton, 1977). Essa
mette in dubbio la nozione di un'umanità comune differenzian­
do le persone al livello più profondo del loro essere, cercando i
segni delle loro origini.10 La discriminazione razziale si fonda su
una differenza insormontabile, inscritta nel corpo, o meglio an-

9. Di fatto il valore produttivo del corpo dell'immigrato non è completamente


scomparso. Si è conservato sotto tre forme principali: la presenza di lavoratori
agricoli temporanei o permanenti; lo sviluppo di attive economie informali (illega­
li) in settori quali quello edilizio e tessile; e, più di recente, la richiesta di una for­
za lavoro altamente qualificata, in particolare nell'industria informatica. In ciascu­
no di questi casi, possiamo nondimeno parlare di marginalizzazione della forza la­
voro immigrata, corrispondente a una "globalizzazione dal basso" (Portes, 1999).
10. La parola "razza" non designa owiamente una realtà biologica o fisica, ma
si riferisce a un costrutto sociale basato sul riconoscimento di una base biologica
o fisica della differenza, prodotto in un contesto storico di dominazione economi­
ca e politica.

3 12
LA BIOPOLITICA DELL'ALTERITÀ

cora nei geni (Simpson, 2000). Nel corso del ventesimo secolo la
Francia ha dato meno credito al discorso razziale di quanto non
abbiano fatto molti altri paesi europei e nordamericani, nono­
stante il fatto che certi intellettuali e medici francesi siano stati at­
tratti dalle teorie razziali associate all'eugenetica, e che in certi
periodi lo Stato abbia sviluppato delle concezioni della nazione
che impiegavano referenti biologici (Wiewiorka, 1993). Qualun­
que allusione a differenze o disuguaglianze fondate su fattori bio­
logici è stata considerata illegittima e persino illegale, essendo
perseguibile ai sensi della legge 1881 che proibisce !"'incitamen­
to ad atti di discriminazione, odio o violenza in base all'origine
razziale o al credo religioso". A questo proposito, l'ideologia
francese repubblicana si fonda sull'universalismo del diritto na­
turale (Amselle, 1990): la Dichiarazione universale dei diritti del­
l'uomo e del cittadino funge da totem contro i tentativi di impor­
re distinzioni etniche ai gruppi sociali. Marceau Long, presidente
dell'Alto consiglio per l'integrazione, esprime tale visione quan­
do colloca le scelte francesi riguardanti gli immigrati e i loro di­
scendenti (il termine "minoranze" è bandito dal discorso pubbli­
co) all'interno di una "logica dell'uguaglianza" che è propria
dell"'autentica essenza della Francia".11 Ufficialmente quindi lo
Stato ha adottato una strategia volta a evitare il comunitarismo e
le politiche razziali di altri paesi occidentali, che servono a far
convenientemente risaltare la politica interna francese.

L'"ORIGINE" COME NUOVA FRONTIERA

In ogni caso, questa facciata di una "Francia dell'integrazio­


ne" (Schnapper, 1991) ha iniziato a sgretolarsi negli anni Ottanta
e il processo si è intensificato negli anni Novanta sotto il peso del­
la crescente discriminazione razziale che ha caratterizzato la so­
cietà francese a livello sociale e politico.
A livello politico, si è verificata la notevole crescita del suppor­
to elettorale al Fronte nazionale, partito di estrema destra, il cui
leitmotiv è "la Francia ai francesi" - un fenomeno unico dopo la

1 1 . Questa ideologia e la corrispondente retorica si riferiscono più alla mitolo­


gia nazionale che alla realtà sociale. Come ha dimostrato Gérard Noiriel (1988), la
stigmatizzazione dell'immigrato è stata un tratto permanente, benché non ricono­
sciuto, della storia francese sin dalla fine del diciannovesimo secolo.

3 13
SOFFERENZA, DIRITII UMANI E GnJSTIZIA SOCIALE

Seconda guerra mondiale. li suo seguito è cresciuto fino a un voto


su sei a livello nazionale e a uno su due o su tre in alcune città, con
vittorie elettorali in pochi comuni. Sarebbe comunque sbagliato
attribuire la crescita del razzismo nella vita politica solo all'estre­
ma destra, dal momento che alla fine degli anni Settanta, nel pe­
riodo in cui l'immigrazione per motivi di lavoro, che era stata bru­
scamente fermata, stava dando origine all'insediamento perma­
nente, il Partito comunista fu il primo a sostenere che il diritto al
lavoro, alla casa e ai servizi sociali degli immigrati fosse infondato.
Inoltre, durante gli anni Ottanta, quando il Fronte nazionale si af­
fermò sfruttando le frustrazioni popolari, gli altri partiti politici,
tra cui i socialisti,12 seguirono le sue impronte interrogandosi sul­
l'eventualità che gli stranieri potessero essere l'origine delle diffi­
coltà socioeconomiche (Schain, 1996). Sebbene il discorso politi­
co non si riferisse esplicitamente alla razza, rimasta parola proibi­
ta, le popolazioni bersaglio di questa retorica e di queste leggi era­
no sempre più spesso designate esplicitamente come "non assimi­
labili", e i suoi figli venivano spesso distinti come "Beurs" (giovani
di origine araba). Di fatto si è verificata una crescente confusione
lessicale che ha portato alla designazione di persone francesi nate
in Francia come "maghrebini" , "africani" , "stranieri" o "immi­
grati", dimostrando come il colore della pelle e l'origine presunta
abbiano sopraffatto la definizione legale dell'Altro.
Sul piano sociale, nello stesso periodo, il fenomeno della segre­
gazione sulla base della nazionalità o dell' etnicità era in crescita:
nei sobborghi delle grandi città, nei nuovi quartieri a basso prez­
zo, oggi si concentrano un gran numero di immigrati con le loro
famiglie. Perciò, benché una politica restrittiva stesse riducendo
efficacemente i flussi dall'estero (tra il censimento del 1990 e quel­
lo del 1999 il numero degli stranieri è diminuito del 9%), le popo­
lazioni viste come estranee sono diventate paradossalmente più vi­
sibili. Nel frattempo, le pratiche di discriminazione razziale si so-

12. Ricordiamo qui la famosa frase del primo ministro socialista Laurent Fa­
bius a proposito del leader del Fronte nazionale: "Mr Le Pen pone delle buone
domande a cui dà delle cattive risposte" . Durante questo periodo, i governi che si
sono succeduti, sia di destra che di sinistra, si sono impegnati in una competizio­
ne legislativa volta a promulgare politiche sempre più restrittive in materia di im­
migrazione. Questo ha contribuito a porre la "questione immigrazione" al centro
del dibattito pubblico (Lochak, 1997).

3 14
LA BIOPOLITICA DELL'ALTERITÀ

no fatte sempre più evidenti nel mercato del lavoro, dove l'indu­
stria poteva reperire candidati "blu-biancò-rosso" (vale a dire
"bianchi"); nell'accesso agli alloggi, dove la pelle nera o i nomi
arabi erano comuni criteri di selezione (come verificato per mezzo
di sondaggi); e, persino, nell'interazione con l'amministrazione,
specialmente con i servizi sociali (Simon, 1998). Secondo il son­
daggio annuale della Commissione nazionale consultiva sui diritti
umani, nel 2000 il 70% dei francesi trovava "fastidiosa la presenza
di persone di origine non-europea". E le cinquecento chiamate al
giorno ricevute dal numero verde aperto nel 2000, per le vittime
della "discriminazione razziale", indicano come questo sondaggio
di opinioni si traducesse in fatti.13 Sarebbe certamente sbagliato
presupporre che il razzismo sia una novità per la Francia: la vio­
lenza collettiva contro gli stranieri, che fossero italiani alla fine del
diciannovesimo secolo o algerini negli anni Sessanta, mostra dove
può arrivare la xenofobia. Ciononostante, due nuovi elementi de­
vono essere presi in considerazione. Per prima cosa, la discrimina­
zione è diretta non tanto contro gli stranieri quanto contro le per­
sone ritenute membri illegittimi della società francese, qualunque
sia la loro nazionalità (la maggioranza di essi è francese e nata in
Francia): il razzismo quindi non può più nascondersi dietro a una
definizione legale. In secondo luogo, la discriminazione ha inizia­
to a essere riconosciuta per quello che è sia da chi la commette che
da chi la subisce (su questo punto c'è uno stridente contrasto tra i
giovani della "seconda generazione" e i loro genitori): tanto che la
si sostenga, quanto che la si denunci, la razzializzazione della so­
cietà è diventata una realtà pubblica.
Questo recente mutamento è significativo poiché individua
chiaramente l'oggetto della discriminazione. Se il razzismo prima
era visto come il rifiuto degli stranieri, la scoperta dei confini in­
terni che dividono una comunità francese che fa sempre più fati­
ca a percepire se stessa come comunità nazionale è in contrasto
con il discorso ufficiale prevalso fino agli anni Novanta. La nazio­
nalità non basta più a definire la base per l'esclusione dell'Altro: i
criteri concreti secondo i quali un proprietario si rifiuta di dare in

13. Le cifre sono prese da due articoli apparsi su Le Monde, rispettivamente il


16 marzo e il lO agosto 2000. Secondo gli autori dello studio, la percentuale di
persone che si defmiscono "non razziste» - il 29% - è "la più bassa dalla creazio­
ne di questo sondaggio».

3 15
SOFFERENZA, DIRITI1 UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

affitto una casa, un datore respinge una richiesta di lavoro, un po­


liziotto decide di controllare i documenti di identità, o il padrone
di un locale notturno decide chi fare entrare, devono essere tenu­
ti in considerazione. Questi sono criteri fenomenologici che ba­
dano soprattutto all'apparenza, in particolare al colore della pel­
le, e che prendono per lo più di mira persone non identificate co­
me europee, in particolare coloro che provengono dall'Mrica del
Nord e da quella subsahariana. La sottostante divisione del mon­
do non è più tra "francesi vs non-francesi", e nemmeno tra "ori­
gine francese vs origine non-francese", ma tra "origine europea
. . ,
vs ongme non-europea .
n dibattito scientifico non è stato risparmiato dagli effetti di
questi cambiamenti, che hanno una rapporto tanto con le realtà
sociali quanto con gli strumenti scientifici che ne rendono conto.
Una delle più virulente controversie intellettuali degli anni No­
vanta si è avuta tra due ricercatori dell'Istituto nazionale di studi
demografici ( INED) in riferimento alle statistiche riguardanti la
popolazione straniera: al di là delle questioni tecniche di defini­
zione e calcolo, era in ballo la rilevanza scientifica e la giustifica­
zione politica del prendere in considerazione !'"origine" oltre al­
la nazionalità.14 Introdurre distinzioni statistiche basate su questo
criterio - impiegando la categoria "Français de souche" (di stirpe
francese) - equivaleva a legittimare una differenza più profonda
di quella stabilita utilizzando la definizione legale: serve solo a ri­
conoscere una realtà sociale, sosteneva uno; ufficializza un di­
scorso razzista, ribatteva l'altro.

GU AVATAR DELLA DISCRIMINAZIONE RAZZIALE

A questo punto ci si potrebbe chiedere se questa differenza è


"razziale" o se è possibile sostenere la tesi socialmente più accet­
tabile, che si tratti di una differenza "culturale". La distinzione

14. Facendo riferimento alle proiezioni effettuate dall'Alta commissione sulla


popolazione nel 1980, e alle discussioni polemiche apparse cinque anni dopo sulla
stampa, generale e scientifica, LeBras (1997) ha messo in dubbio le premesse ideo­
logiche per un eguale trattamento della popolazione straniera e della popolazione di
origine straniera, presentando drammatiche estrapolazioni demografiche (dal titolo
"Saremo ancora francesi fra trent'anni?). Nella sua aspra critica, nonostante scon­
fessi le sue basi metodologiche e retoriche, Tribalat (1997) non riesce a colpire il
punto centrale della tesi, che riguarda la definizione biologica dell'inunigrazione.

3 16
LA BIOPOLITICA DELL'ALTERITÀ

fra popolazioni europee e non europee - o, più spesso e più im­


plicitamente, tra popolazioni di origine europea e non-europea ­
non è forse una questione di incompatibilità culturale, più che di
non assimilabilità biologica?15 In realtà questa tesi è spesso servi­
ta a liberare la discriminazione dal sospetto di razzismo (Taguieff,
1991). Le politiche pubbliche francesi hanno a lungo mantenuto
una certa ambiguità sul tema delle popolazioni immigranti/immi­
granti di origine, promuovendo da un lato una retorica dell'ugua­
glianza e dell'universalismo, e dall'altro speciali modalità di trat­
tamento per i problemi di queste popolazioni, come nel caso de­
gli alloggi o dei servizi sanitari.
Per fare un esempio relativo all'ambito medico, l'etnopsichia­
tria, finanziata interamente da fondi pubblici, offre un trattamen­
to specifico sia per i disturbi psicologici che per i casi di devianza
sociale, segnalati ai fini di una diagnosi e della relativa terapia da
medici, assistenti sociali e persino giudici, quando accade che i
pazienti o gli imputati siano di origine non-europea e quando si
suppone che tale origine sia motivo di particolari difficoltà nel­
l'interpretazione e nella gestione del caso. L'identità culturale, di­
fesa dai sostenitori di questo tipo di terapia, poggia su presuppo­
sti essenzialmente di natura etnica se non apertamente razziale,
che da un lato non colgono la dimensione sociale delle esperienze
degli immigrati e dall'altro finiscono con il produrre una forma di
"naturalizzazione" della cultura, considerata esplicitamente co­
me una caratteristica ereditaria dell'individuo.16 Più in generale,
possiamo dire che ogni forma di ragionamento estremista sulla
differenza, sia in nome della biologia che della cultura, si fonda
su una pregiudiziale visione essenzialista dell'alterità.
L'ambiguità dell'azione pubblica sulla questione è chiarita al
meglio dal seguente paradosso. Se per un verso la realtà sociolo­
gica del corpo razzializzato è stata recentemente oggetto tanto di

15. Jacques Chirac, al tempo non ancora presidente della Repubblica, commen­
tava la seccarura degli "odori" delle famiglie africane nelle periferie francesi; questa
uscita scioccò una parte del pubblico francese, perché le pratiche culrurali che ve­
nivano denunciate (le abirudini alimentari) evocavano allo stesso tempo delle carat­
teristiche fisiche (e rappresentavano perciò un'ordinaria forma di razzismo).
16. ll promotore più famoso di questa disciplina in Francia, Tobie Nathan, au­
spicava "i gherti in modo tale che una famiglia non debba mai abbandonare il suo
sistema culrurale" e denunciava i bambini di genitori africani cresciuti in Francia
come "janissaires sbiancati nelle scuole repubblicane" (Fassin, 2000c).

3 17
SOFFERENZA, DIRITII UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

un crescente riconoscimento quanto di aspre denunce, per l'altro


verso le conseguenze del razzismo sul corpo stesso - misurate nei
termini di morbilità e mortalità - non sono stati oggetto di alcuna
valutazione (Fassin, 1999). In assenza di strumenti per misurare
la discriminazione e di ricerca per comprenderla, si presume che
essa non esista. Nessuno dei numerosi rapporti ufficiali e scienti­
fici sulla situazione sanitaria in Francia presenta dei dati riguar­
danti tale questione. Nel caso dell'AIDS, le istituzioni di sanità
pubblica hanno aspettato fino al 1999, diciotto anni dopo l'inizio
dell'epidemia, a pubblicare il primo rapporto che rivelava le
profonde ineguaglianze tra francesi e stranieri in termini di inci­
denza della malattia, tempestività della diagnosi e accesso alle cu­
re. Nel caso dell'avvelenamento da piombo causato dalla povertà
delle condizioni di vita, le cifre ufficiali non fanno menzione del
fatto che nella regione di Parigi tutti i casi di intossicazione grave
colpiscono bambini di famiglie straniere, il 92 % dei quali africa­
ni. La negazione della discriminazione razziale sembra dunque
raggiungere il suo apice laddove è più tangibile, ovvero al livello
della sua stessa incorporazione biologica.
Infatti tutto ciò che sappiamo sulle determinanti sociali di salute
indica che la discriminazione razziale, individuata in varie sfere di
attività, produce ineguaglianze nelle aspettative di vita (Wilkinson,
1996). L'universalismo repubblicano trova qui la sua più profonda
contraddizione - nel riconoscere che una differenza letta sul corpo
può produrre disuguaglianze in termini di malattia e morte. In li­
nea con il famoso discorso diJean-Jacques Rousseau sulla disugua­
glianza, il riconoscere che una differenza "naturale o fisica", social­
mente formulata come discriminazione razziale, possa essere all'o­
rigine della più inaccettabile delle disuguaglianze "politiche" o
"morali" - la disuguaglianza nell'aspettativa di vita - sarebbe pro­
babilmente la più radicale invalidazione della retorica dei diritti
umani, così profondamente legata all'autopercezione dei francesi.

UNA BIOPOimCA A DUE FACCE

Secondo Agnes Heller (1996) , la biopolitica è "intimamente


collegata alla questione della politica dell'identità". Ho provato a
mostrare come essa implichi necessariamente anche una politica

3 18
LA BIOPOLITICA DELL'ALTERITÀ

dell'alterità. Basata sul riconoscimento della "differenza dei cor­


pi" le cui fondamenta poggiano su razza, sesso, etnicità e geni, la
biopolitica, nella visione dell'autrice, è qualcosa che "in definiti­
va difende il Corpo stesso, la sua natura, la sua integrità e la sua
salute". Rinunciando alla "comune appartenenza allo stesso cor­
po politico", la biopolitica esemplifica perciò una forma di ritiro
dalla - se non di negazione della - "politica", intesa con la Arendt
come il riconoscimento della diversità umana da una prospettiva
universale. Tuttavia, un esame della politica francese degli anni
Novanta in materia di immigrazione consente una lettura meno
pessimistica e più sfumata.
La biopolitica contemporanea dell'alterità in Francia riposa su
un presupposto di fondo: il riconoscimento del corpo come luo­
go ultimo della legittimazione politica. Ma questo riconoscimen­
to prende due strade parallele. Da un lato, il corpo sofferente si
manifesta come ultima (ma non unica) risorsa, che soppianta
ogni altra giustificazione sociale invocata dagli immigrati per ot­
tenere il riconoscimento del proprio status legale, e che è ricon­
ducibile al diritto fondamentale di tenersi in vita il più a lungo
possibile. Si tratta di una visione minimalista, che tuttavia tende
verso un orizzonte universale. Dall'altro lato, il corpo razzializza­
to va dallo straniero al cittadino, e introduce delle frontiere inter­
ne fondate sulla differenza fisica. È un concetto discriminatorio,
che crea gerarchie tra gli individui. Nel primo caso, la limitazione
dell'asilo politico è un corollario dello sviluppo della logica uma­
nitaria: il riconoscimento del corpo sofferente impone un ordine
legittimo che definisce la cittadinanza su basi esclusivamente fi­
siopatologiche. Nel secondo caso, le minacce alla diversità uma­
na portano a una risposta da parte della società civile e dello Sta­
to, che ci ricorda valori politici condivisi: il riconoscimento del
corpo razzializzato come principio di un ordine illegittimo rap­
presenta un modo di tornare alla politica attraverso la denuncia
di questo principio da parte delle vittime e dei loro sostenitori.
li che vuoi dire che, a dispetto del senso comune, la biopolitica
non procede secondo una logica unitaria. Dimostra una tensione,
inscritta nel corpo, tra la suprema universalità della vita (che per­
mette a un sans-papiers con l'AIDS di essere riconosciuto dallo Sta­
to in nome della sua patologia) e l'esaltazione della differenza,
per la quale la biologia offre una fondazione apparentemente in-

3 19
SOFFERENZA, DIRITTI UMANI E GIUSTIZIA SOCIALE

sormontabile (consentendo a ciascuno di percepire una fonte na­


turale di disuguaglianza nelle caratteristiche fisiche degli altri). Se
sappiamo riconoscere, in una forma inconsueta, l'eterno tema an­
tropologico dell'unità e della diversità della condizione umana, le
questioni che qui emergono certamente chiamano gli scienziati
sociali a un rinnovato impegno nella critica dei fondamenti della
politica contemporanea.

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Ristampa Anno

o 2 3 4 5 2006 2007 2008 2009 2010

Finito di stampare nel marzo 2006


da Nuove Grafiche Artabano, Gravellona Toce (VB)
per conto di Raffaello Cortina Editore
Milano, via Rossini 4

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