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La storia della medicina greca e romana è, insieme, una storia

delle idee di salute e malattia, una storia delle pratiche di


cura, una storia della religione, una storia archeologica dei
luoghi e degli strumenti utilizzati per ottenere guarigione. Lo
studio dei testi medici antichi offre, dunque, una prospettiva
di indagine ampia e articolata sulle civiltà greca e romana,
che permette, oltre la riflessione tecnica specialistica, di
comprendere in che modo culture diverse ma profondamente
integrate tra loro si siano relazionate con i temi della
sofferenza del corpo, della malattia, della morte, della nascita,
dell’imperfezione, della cura. In costante dialogo con il mito,
la letteratura, la storiografia e la filosofia, la medicina antica è
molto più di una tecnica di guarigione: è, essa stessa,
tentativo di costruire un’immagine armonica del mondo, al di
là delle epidemie, delle carestie, delle malattie inguaribili che
costituiscono lo sfondo tormentato di una storia secolare.

Valentina Gazzaniga insegna Storia della medicina e Bioetica


alla Sapienza Università di Roma.
Valentina Gazzaniga

La medicina antica
Copyright © by Carocci editore, Roma. Tutti i diritti sono
riservati. Per altre informazioni si veda http://www.carocci.it/

Edizione a stampa 2014


ISBN 978-88-43-07316-0

Edizione e-book 2015, realizzata dal Mulino - Bologna, per


conto della Carocci editore - Roma
ISBN 978-88-43-07991-9
Indice

Introduzione
1
Per una storia della medicina antica
2
La medicina in Grecia
3
Tra Grecia e Roma
4
La medicina delle donne
5
Miasmi, impurità e pesti
6
Essere medico

Bibliografia

Indice dei nomi e delle opere


Introduzione

La medicina antica greca e romana è il nodo di sviluppo di


un sapere di lunga durata che, tra continuità e rinnovamenti,
arriva almeno sino alla metà del XVII secolo. Antichi sono,
infatti, i padri fondatori e autoritativi del sapere medico
occidentale. Le opere attribuite a Ippocrate, quelle di Galeno
in epoca imperiale e i concetti in esse elaborati costituiscono i
riferimenti su cui si costruisce il sapere medico occidentale,
in un altalenante sistema di fede cieca nelle parole dei
maestri e di critica, revisione, rilettura, riattribuzione di parti
o di intere opere mediche, utilizzo e riutilizzo di paradigmi e
idee, di volta in volta, come schermi difensivi, ostacoli da
abbattere, spunti da sviluppare. La costruzione dell’immagine
interna di una disciplina fondata in parte sull’ossequio e in
parte sulla relazione dinamica con quelle che vengono
percepite e trasmesse come autorità fondative è un lungo
processo, mai interrotto in un arco di tempo secolare che va
almeno dall’epoca classica sino al primo evo moderno. Questo
processo, attorno al quale si costruiscono le pratiche e le
teorie occidentali della cura, è l’oggetto di studio della storia
della medicina; le sue prime fasi, l’oggetto di questo libro.
Questo volume non intende certo offrire una trattazione
sistematica della storia della medicina nell’arco di tempo
ampio che definiamo evo antico; a questa impresa sono stati
dedicati, nel passato più o meno recente, trattazioni più
estese e più tecniche, alcune delle quali costituiscono pietre
miliari della recente storiografia medica dell’antichità. Molte
di esse sono il frutto degli studi pluriennali di autori che sono
per noi maestri ideali, modelli intellettuali cui tendere nel
quotidiano impegno di studio e di lavoro professionale e
didattico. Tralasciando i contributi fondativi della ricerca
storico-medica sull’antichità (gli studi di Ludwig Edelstein,
per esempio), alcuni studi possono essere considerati, infatti,
strumenti di lavoro ineludibili e modelli metodologici assoluti
per lo storico che intenda tratteggiare la nascita e l’evoluzione
delle idee mediche sulla salute e sulla malattia nell’Occidente
antico: il volume sull’Antichità e medioevo della Storia del
pensiero medico occidentale curato da Mirko D. Grmek, Le
malattie all’alba della civiltà occidentale dello stesso autore; i libri
di Danielle Gourevitch sulla relazione tra medico, malato e
malattia nel mondo greco-romano, sull’essere donna
nell’antichità romana, sull’iconodiagnostica e il più recente
lavoro su una medicina antica “basata sulle evidenze”; gli
studi di Jacques Jouanna su Ippocrate e sul Corpus
Hippocraticum; i contributi di Vivian Nutton sulla medicina
antica e tardoantica e sulla trasmissione rinascimentale delle
grandi autorità mediche greche e latine; gli studi eclettici di
Philippe Mudry sulla medicina romana, su Celso, su Scribonio,
sulla costruzione di un’etica medica peculiarmente “latina”,
profondamente debitrice alla riflessione filosofica; la storia
“materiale” della medicina antica e tardoantica di Ralph
Jackson o di Lawrence J. Bliquez, fondata sullo studio
minuzioso della strumentaria chirurgica romana, in cui si
fondono grandi competenze archeologiche e filologiche; la
storia di genere testimoniata dalle opere di Monica Green,
Ann Ellis Hanson, Helen King e Lesley Dean-Jones.

In questi studi si sono elaborati concetti rimasti poi nodali


nella riflessione storico-medica: tra gli altri, come proposta da
Mirko Grmek, l’idea di patocenosi, cioè l’insieme di malattie
presenti in una data popolazione in un dato arco di tempo; la
definizione di triangolo ippocratico, che è il modo con cui
Danielle Gourevitch ha designato i complessi rapporti da
sempre esistenti tra il curante, il malato e il nemico da
sconfiggere: la malattia; il concetto di miasma, tra storia delle
credenze magiche e religiose e storia della medicina; la
malattia delle donne e la peculiarità delle regole che
sembrano governarne i corpi “irregolari”.

Alle opere che abbiamo citato si debbono aggiungere, poi,


gli importanti contributi della scuola filologica (da Antonio
Garzya a Innocenzo Mazzini, da Ivan Garofalo ad Amneris
Roselli, Daniela Manetti e Stefania Fortuna), il lavoro di storici
del pensiero filosofico antico del calibro di Mario Vegetti o
Alberto Jori, che hanno contribuito a chiarire le relazioni della
storia della medicina antica soprattutto con il pensiero
platonico e aristotelico; lo studio intelligente e appassionante
di Maurizio Bettini, che ha costruito una nuova antropologia
del mondo antico, caratterizzata da un approccio
multidisciplinare e dal ricorso a fonti di natura diversa, dal
mito alla narrazione letteraria, alle immagini. Non vanno
dimenticati i contributi degli storici della medicina, come
quelli di Luciana R. Angeletti sulla trasmissione del sapere
medico nel Vicino Oriente antico, sul ruolo del serpente nella
medicina teurgica o sulla strutturazione di un concetto
medico di corpo nel mondo greco, o di paleopatologi come
Gino Fornaciari e di antropologi fisici come Paola Catalano,
che con i loro lavori hanno contribuito in modo ineludibile
alla costruzione di un “sapere del corpo” sano e malato
nell’antichità romana.

Questo libro, dunque, intende presentarsi come una breve


guida che – attraverso la disamina della letteratura più o
meno recente che ha costituito fondamento per le riflessioni
successive – metta a fuoco alcuni aspetti delle teorie e delle
pratiche mediche in antico che possono essere utili a chi,
anche da semplice appassionato, intenda provare a
comprendere le trasformazioni e le modificazioni che hanno
portato la medicina a costituirsi nella forma di sapere che
oggi conosciamo. Una medicina che, fin dall’inizio impegnata
in un dibattito interno sulla sua natura (arte o scienza? sapere
essenzialmente connotato in senso pratico o tensione verso
l’“episteme”?), si caratterizza sin dalle sue origini occidentali
soprattutto come cultura specialistica, dotata di peculiari
strumenti di comunicazione verbale e simbolica e di suoi
strumenti di trasmissione didattica. Tipizzata, sin dalle fasi
cronologicamente più alte, da un costante processo di
mutazione e adattamento, la medicina antica ha elaborato
alcuni degli archetipi più a lungo sopravvissuti nella storia
occidentale, in modo conclamato o sotterraneo. Come accade
per la storia delle immagini warburghiana, la conoscenza di
questi archetipi, delle loro permanenze e delle modificazioni
che subiscono, agevola la comprensione della realtà attuale,
dei linguaggi, dei metalinguaggi, dei comportamenti, delle
norme e dei principi morali della medicina contemporanea.
Mnemosyne, che ha insegnato a generazioni di storici
dell’arte come il ritorno irrazionale e irregolare del passato,
anche nell’espressione di rotture e disequilibri concettuali,
possa essere utilizzato come sintomo, cioè come indicatore
che consente l’individuazione di un “ordine di cause”, diventa
uno strumento di lavoro anche per lo storico della medicina:
non necessariamente la comprensione della realtà avviene,
infatti, solo attraverso le vie del positivismo ma, come in
generale accade nella storia delle idee, il rinvenimento
dell’ordine può essere aiutato da un percorso nella sua
antitesi, dalla “migrazione” non sempre consequenziale delle
idee, dal loro conflitto e relazione, solo apparentemente
disordinata. Per questo sono stati segnalati nel volume alcuni
luoghi concettuali (il concetto di prognosi, il concetto di
miasma) che nelle loro formulazioni antiche sono stati nodali
nella storia successiva delle teorie e delle pratiche mediche.
Per questo, un’attenzione relativa è stata posta alla storia dei
personaggi, preferendo spostare la luce sulla storia delle loro
idee, nel momento del loro strutturarsi, ma anche in relazione
alle trasformazioni subite all’interno di contesti che
cambiano.

Il lettore non specialista si troverà di fronte, dunque, a una


storia della medicina antica che è insieme storia di una
disciplina di alto profilo epistemologico, tale da costituirsi
come modello cui rifarsi nella progettazione di saperi e
competenze altre: valga per tutti il celeberrimo esempio della
costruzione politica platonica, nella quale confluisce
direttamente il sapere ippocratico del corpo e della salute e
l’agire del medico è proposto come riferimento ideale per chi
si assuma il governo della città; ma, insieme, a una storia
delle pratiche e degli strumenti, in cui il contributo
fondamentale dell’archeologia, dell’antropologia fisica e della
paleopatologia contribuisce a “oggettivare” i dati testuali. In
entrambi i casi, altissimo è il fine che la medicina antica si
propone di raggiungere: la capacità di plasmare il reale in
contrapposizione all’andamento della natura e al destino del
corpo.

Già gli scritti ippocratici, riprendendo il tema di Alcmeone


della salute come equilibrato rapporto di componenti diverse,
costruiscono un’immagine concettuale della guarigione come
processo di “ricostituzione” di un insieme che la malattia ha
frammentato. Compito del medico è sanare la disarmonia,
ricreare le condizioni originarie del corretto rapporto tra gli
umori, “ricostruirne” la proporzione; compito assimilabile a
quello dell’artista, che dal nulla costruisce un corpo secondo
criteri ideali di armonia e bellezza. Equilibrio, armonia,
proporzione corretta sono gli elementi cui si appella, dunque,
la competenza del medico antico, come quella di chi, artista o
scultore, decide di plasmare oggetti gradevoli ai sensi; alle
origini del “sapere medico occidentale” produrre o riprodurre
lo stato ideale che è la bellezza significa costruire eudaimonía,
cioè felicità del singolo e, di conseguenza, benessere sociale.
Questo libro vuole, dunque, anche essere una breve guida ai
concetti che l’uomo antico ha elaborato alla ricerca di una
delle felicità possibili, quella del corpo e dei suoi sistemi.
1

Per una storia della medicina antica

A questa indagine ed a questa scoperta quale nome più giusto e


appropriato si imporrebbe se non “Medicina”, se invero è stata
scoperta in pro della salute e della salvezza e del nutrimento
dell’uomo, in luogo di quel regime dal quale venivano dolore e
malattia e morte? […] Ma non troverai misura alcuna, né numero né
peso, la quale valga come punto di riferimento per un’esatta
conoscenza, se non la sensazione del corpo. Perciò il compito è
acquisire una scienza così esatta che permetta di sbagliare poco qua e
là: e io molto loderei quel medico che poco sbagliasse; ma la certezza
raramente è data da vedere (De vetere medicina I, 3 e 9; trad. it. M.
Vegetti, 19762).
Quanto alla medicina, invece, giacché su di essa verte il discorso, su di
essa condurrò la mia analisi, e in primo luogo di fatto definirò ciò che
ritengo essere la medicina: in prima approssimazione, liberare i malati
dalle sofferenze e contenere la violenza delle malattie, e non curare
chi è ormai sopraffatto dal male, sapendo che questo non può farlo la
medicina […] mi sembra tuttavia possibile che pur non valendosi di un
medico si siano imbattuti nella medicina, non già al punto di sapere
ciò che in essa vi è di corretto o di non corretto, ma sì di curare
casualmente sé stessi proprio nel modo in cui sarebbero stati curati
anche se si fossero valsi di un medico […] se dunque il malato saprà
valutare come positivo o negativo ogni elemento del regime grazie al
quale è guarito, in questo modo scoprirà che la medicina è (De arte 4-5;
trad. it. M. Vegetti, 19762).

Questi passi sono tratti da due opere diversamente


fondamentali per la comprensione della medicina antica di
tradizione ippocratica. Nel primo caso si tratta di passi
estratti da un’opera prodotta nella cerchia di Ippocrate nella
seconda metà del V secolo a.C., il libro Sull’antica medicina; nel
secondo caso, di un luogo del trattato Sull’arte, il lavoro di un
filosofo databile alla fine dello stesso V secolo. Sono, dunque,
due scritti molto vicini tra loro nel tempo, ma che riflettono
ambienti culturali diversi; il primo è espressione
dell’insegnamento diretto di Ippocrate, organizzato in trattato
per affermare il valore della medicina contrastando il
diffondersi di quella “italica”, molto debitrice alla filosofia
della Ionia; il secondo è il prodotto proprio di quell’ambiente
filosofico da cui Sull’antica medicina intende difendersi e,
tuttavia, per la sua contemporaneità all’insegnamento
ippocratico più diretto, buona testimonianza delle modalità
con cui la società del tempo andava accogliendo
l’insegnamento del medico di Kos (Vegetti, 19762).

Entrambe le opere forniscono, con modalità diverse, una


definizione di come la medicina fosse percepita nella Grecia
classica, a cui se ne deve la fondazione: ricerca della salute,
definizione di un regime tratto dalla culinaria che serva a
prevenire e a curare i disordini del corpo, arte fondata
sull’esperienza e sulla valutazione attraverso i sensi, ricerca
della verità, tentativo di sfuggire all’incertezza attraverso la
creazione di un metodo. E ancora, consapevolezza dei propri
limiti operativi e della superiorità occasionale delle forze della
natura, su cui si fonda un impegno etico al non accanimento;
scienza naturale, che apprende i propri principi
dall’osservazione del corso della natura e dei mezzi che essa
mette a disposizione dell’uomo. Anche fermandosi a questi
scritti, dunque, ci si rende conto facilmente che definire che
cosa sia e come operi la medicina antica può non essere
facile. Consideriamo, inoltre, che la medicina ippocratica
rappresenta solo una parte, seppure molto significativa,
dell’esperienza medica dell’antichità e che, di conseguenza,
alle sue definizioni sfuggono la sfera della guarigione sacrale
o magica, l’attività dei pratici non formati in una scuola
teorica, la dimensione della narrazione letteraria della cura, e
tutta una serie di pratiche non esattamente definibili proprie
della medicina, ma ad essa contigue (per esempio,
l’imbalsamazione rituale).

Insomma, la medicina è, per ragioni diverse e sin dalle sue


origini, un “luogo di eccellenza”; ciò è dovuto anche al suo
essere disciplina legata a un oggetto particolare e variabile
(l’uomo, la salute), fatto che le attribuisce uno statuto unico
fra tutte le discipline scientifiche del mondo antico e che, sin
dai suoi esordi, apre un dibattito interno sul proprio statuto
ontologico. La medicina è un’arte o una scienza? A quali altre
discipline scientifiche può essere paragonata? In quale
rapporto è con gli altri settori della sapienza antica? Il suo
scopo è fornire certezze o non piuttosto solo elaborare un
metodo di catalogazione e interpretazione della realtà che
soccorra gli uomini nella sofferenza e nel dubbio? La
variabilità e l’incertezza del suo sapere la pongono, insomma,
in una condizione estrema e peculiare, cui difficilmente si
avvicina un altro campo del sapere antico.
Dunque, pensare di scrivere un testo “agile” sulla storia
della medicina nell’antichità è un’impresa che rivela
immediatamente i suoi limiti e pone, anche in fase di
progettazione, problemi diversi, nessuno dei quali di rapida o
indolore soluzione.

Quella che oggi definiamo unitariamente “medicina antica”,


infatti, se anche solo ci proponessimo di esaminarne le forme
in cui si esercita nel bacino del Mare Mediterraneo – confine
“artificiale” al quale limiteremo, per scelta e necessaria
brevità, la nostra riflessione –, si rivela, a un’indagine appena
più approfondita, un crogiolo complesso di idee, pratiche e
pensieri. Essi nascono da matrici comuni riconoscibili, ma
possono svilupparsi lungo direttrici molto diverse tra loro e
finire per diventare, talvolta, persino antitetici e in conflitto.
Non è possibile tracciare la storia dell’evoluzione del pensiero
occidentale sulla salute, sulla malattia e sulla cura in modo
lineare, e il filo rosso di Arianna non ci aiuterà a trovare un
rettilineo sul quale collocare fatti, date, nomi e teorie sempre
in modo logico e sequenziale. La storia della medicina
nell’antichità è lo specchio di una realtà molto variegata,
caratterizzata insieme da accelerazioni molto rapide e da
persistenze estremamente lunghe; essa presenta importanti
uniformità concettuali, soprattutto modellate sulla teoria
ippocratica umorale di malattia, che viene recepita,
tramandata e internamente trasformata, per moltissimi
secoli, da medici che si dichiarano ideali allievi di Ippocrate;
inoltre, si richiama costantemente all’autorità di grandi
maestri, ritenuti veri e propri “padri fondatori”. Tuttavia,
l’apparente fedeltà a un modello concettuale dominante, che
è proprio quello stabilito a Kos da Ippocrate e dagli allievi
della scuola da lui fondata, o il ripetuto omaggio tributato
dalle generazioni mediche successive all’autorità intellettuale
del maestro non necessariamente o non integralmente
corrispondono a completa uniformità nei contenuti: le teorie
mediche e le pratiche terapeutiche, lungi dal cristallizzarsi, si
adattano infatti ai tempi e ai luoghi in cui sono esercitate,
scendono a compromessi con gli usi e i costumi delle
popolazioni, utilizzano le sostanze che trovano a
disposizione, imparano ad adattare i loro linguaggi alle
esigenze di clientele diverse.

La medicina ippocratica, pensata nel momento del


maggiore splendore intellettuale della Grecia classica, è
sopravvissuta tanto a lungo proprio per la capacità di
adattamento e trasformazione dei suoi contenuti alle forme e
alle esigenze intellettuali dei contesti con cui si è trovata a
coesistere. La sua farmacopea, per esempio, basata sull’uso di
un numero limitato di sostanze soprattutto di origine
vegetale, ha gradatamente integrato piante e animali
sconosciuti ai Greci, e diffusi nel Mediterraneo attraverso i
contatti commerciali con il Vicino Oriente antico, arrivando a
raggiungere nel mondo romano livelli di complessità
sconosciuti ai testi del Corpus Hippocraticum; i dettami
deontologici tracciati nel testo del Giuramento di Ippocrate
hanno plasmato la loro forma fino a trasformarsi nei principi
di base dell’etica medica del cristianesimo nel tardoantico e
nel medioevo. La duttilità della medicina in antico, e in
particolare del testo ippocratico, ne ha consentito, dunque, la
sopravvivenza e la diffusione; ma, allo stesso tempo, ci deve
ricordare che non è per noi, a distanza di così tanti secoli, né
facile né sempre possibile offrire una descrizione sintetica di
teorie e pratiche in grado di modificare sé stesse, adattandosi
a contesti molto diversi gli uni dagli altri.

Vale la pena, dunque, in apertura, elencare alcuni elementi


che, nello stesso tempo, si configurano come peculiarità della
medicina nell’evo antico e “ostacoli” per lo storico che si
accinga a descriverli: 1. l’ampio spazio geografico dal quale ci
sono pervenute tracce documentarie sulla medicina e sulle
sue pratiche, che va dall’Egitto alla Grecia peninsulare e
insulare, alle colonie della Ionia e della Magna Grecia, dai
territori italici alle province dell’impero romano, sino al Nord
e all’Est Europa; 2. il lunghissimo arco di tempo sul quale si
esercita la cosiddetta “medicina antica”, di cui le fonti
occidentali testimoniano la vitalità almeno dal XIII secolo a.C.
sino al IV-V secolo d.C.; 3. il fatto che la medicina occidentale,
sin dalle sue origini, si configuri come un sapere
autoreferenziale e piuttosto diffidente nei confronti degli
apporti che potrebbero derivarle dal contatto con altre scienze
o discipline del mondo antico; 4. la molteplicità degli approcci
che la caratterizzano, delle professionalità che la esercitano,
l’elevato grado di permeabilità reciproca che i saperi della
guarigione antica dimostrano gli uni nei confronti degli altri;
5. la possibilità di definire la storia della medicina in antico, di
volta in volta, come storia delle idee, storia dei luoghi di cura,
storia materiale, storia delle malattie, storia dei ruoli e degli
“specialismi”, o in relazione alle sue dimensioni
epistemologiche ed etiche; 6. la scarsità o la parzialità delle
fonti a nostra disposizione, e la difficoltà di integrare
materiali di studio di natura molto diversa, come testi scritti,
testimonianze archeologiche, testi epigrafici, materiale
antropologico e paleopatologico.

“Geografie vaste” e conflitti di cultura


Un bel libro di Vivian Nutton (2004) ci ha ricordato che la
medicina nell’antichità, tra le sue peculiarità, ha quella di
esercitarsi su territori geograficamente molto estesi e spesso
molto lontani tra loro per lingua, cultura, abitudini e culti.

Il sapere della guarigione va, dunque, evidentemente


considerato in relazione alle variazioni delle geografie e alle
culture diverse che lo esprimono, che sono spesso
caratterizzate da importanti legami economici e sociali (il
mondo egiziano e il mondo greco; il mondo del Vicino Oriente
antico e il mondo greco; il mondo greco e quello romano), ma
altrettanto spesso, invece, destinate a scontrarsi o a
confrontarsi in modo molto vivace prima che il paradigma
culturale di una delle due ceda le armi di fronte alla
ricchezza, alla novità, alla fruibilità del paradigma culturale
dell’altra. Accade così, per esempio, che quella che nei testi di
storia veniva definita aproblematicamente, sino a qualche
decennio fa, la “medicina greco-romana”, risulti oggi da un
lato il frutto e la soluzione, anche mediativa, di uno scontro
niente affatto amichevole tra pratiche empiriche consolidate
e dolci – come quelle offerte dalla medicina di tradizione
italica a malati abituati ad affidarsi a correzioni alimentari
moderate, alla pratica delle acque termali, alla competenza
erboristica e ai consigli domestici del pater familias – e i
metodi sbrigativi e percepiti come “invasivi” della medicina di
scuola ippocratica. La medicina di Ippocrate, quando non
riesce a prevenire l’insorgere della malattia, la cura attraverso
l’apertura delle vene con il bisturi, o con farmaci evacuanti ed
emetici che costringono corpi già provati e sofferenti a
riversare all’esterno, spesso con violenza e in modo
improvviso, gli umori accumulati all’interno. La dimensione
“interiore” del corpo corrisponde, infatti, nella medicina
ippocratica e nelle sue ricezioni ed evoluzioni, all’immagine
di un contenitore cavo, assimilabile a un “vaso”, un’anfora o
una giara che non è possibile aprire, ma che ugualmente il
medico deve essere in grado di liberare da ogni tipo di
accumulo patogeno raccolto al suo interno. La violazione
dello spazio interno del corpo, o meglio l’azione del medico su
di esso, che serve – attraverso soprattutto l’uso del salasso e
del cauterio – a spingere al di fuori i contenuti nocivi o guasti
e gli elementi che sono andati incontro a processi di
corruzione, mentre è agevolmente accolta come gesto
risanatore nella cultura greca, all’interno della quale nascono
e si diffondono gli scritti del Corpus Hippocraticum e
l’insegnamento clinico di Ippocrate e dei suoi allievi, non è
altrettanto apprezzata nel mondo latino, nel momento del
primo contatto con le idee del maestro di Kos e con i suoi
suggerimenti terapeutici.
Le diffidenze istintive che il mondo latino mostra nei
confronti dell’alterità si rivelano chiaramente soprattutto nel
momento in cui i primi guaritori greci, in gran parte schiavi e
liberti, provano a esercitare a Roma: Catone si scaglia con
grande violenza contro pratiche lette come aggressive e volte
a sterminare le genti romane, e Arcagato, il primo medico che
nel III secolo a.C. avrebbe aperto un’attività commerciale al
Foro, non deve aspettare molto perché i suoi detrattori gli
attribuiscano il soprannome di carnifex e il suo nome sia
accompagnato da fama di crudeltà e imperturbabilità di
fronte al dolore.

Di contro a questo “conflitto di culture”, la medicina a Roma


è una disciplina che, sin dai suoi esordi, parla in greco e scrive
in greco; è esercitata principalmente da Greci; i suoi più
importanti rappresentanti, tra i quali Galeno, nascono e si
formano sul territorio greco e continuano a ritenersi eredi e
trasmettitori di una forma culturale originalmente sviluppata
per la prima volta in Grecia; le opere della medicina a Roma
rielaborano e ricodificano temi di discussione, nella quasi
totalità dei casi, già presenti negli scritti attribuiti a Ippocrate
e quando mostrano tratti di originalità (come nel caso di
Galeno, che integra la teoria umorale con l’anatomia
proiettiva condotta attraverso dissezioni di corpi di animali
vivi e morti), questi si collocano sulla scia di esperienze
culturali, come quella compiuta da Erofilo ed Erasistrato in
Alessandria d’Egitto, a loro volta condotte nell’ambito di una
tradizione greca per lingua e per riferimenti.
Gli elementi di continuità culturale tra il mondo greco e
quello romano, dunque, certamente esistono e sono forti; ma
sarebbe semplicistico definire i tratti della pratica e della
teoria medica a Roma come una mera filiazione del
patrimonio culturale greco. Gli elementi della tradizione
italica, un’innata tendenza allo specialismo e al tecnicismo,
l’attenzione – assente nelle fonti più antiche – per la pratica
anatomica, la tendenza al dibattito e allo schieramento
ideologico, fra gli altri caratteri, rendono la medicina a Roma
molto più complessa di quanto ci si possa aspettare se la si
consideri solo come il frutto dell’elaborazione delle teorie e
delle pratiche ippocratiche, seppure rilette attraverso
l’esperienza alessandrina.

Una medicina di “lunga durata”


L’arco cronologico su cui nascono e si sviluppano, prima in
Grecia e poi a Roma, un concetto medico di corpo e dei suoi
costituenti e le relative idee di salute e malattia, inoltre, è
estremamente lungo. Esso è, in effetti, uno dei più lunghi
periodi sui quali si possa soffermare la riflessione di uno
storico; le fonti scritte a nostra disposizione, siano esse
letterarie o prettamente mediche, ci consentono di
tratteggiare un percorso che risale almeno sino al XIII secolo
a.C. e che si spinge, tra continuità e rotture, almeno sino al V

secolo d.C. – se si vuole assumere come fine del mondo antico


il termine convenzionale della caduta dell’impero romano e
trascurare (cosa che, come vedremo, non è sempre possibile,
almeno per la medicina) la straordinaria storia che inizia con
la fondazione della città di Costantino e che sposta in avanti
alcuni termini e concezioni dell’antichità… di un migliaio di
anni.

In questo arco secolare accadono alcuni fatti centrali e


“rivoluzionari” e molti altri, apparentemente di minore
portata concettuale, che sono destinati però a scorrere in rivi
sotterranei e a riemergere in contesti inattesi, sotto forma di
riletture di teorie consolidate o di momenti di autonomia
concettuale che, a posteriori, possiamo dire abbiano segnato
la medicina al pari delle idee dei grandi padri nobili che
l’hanno fondata e rifondata, o delle scuole di pensiero più
importanti che ne hanno caratterizzato lo sviluppo.

Questo fa sì che la stessa definizione di “medicina antica”,


per esempio, possa essere utilizzata per indicare un nucleo di
idee di “lunga durata”, che per la loro straordinaria ricchezza
teorica vengono rimaneggiate dalla stessa antichità fino al
primo evo moderno. La loro “riscrittura” produce frutti
plastici, che costituiscono la base del dibattito scientifico
occidentale sui temi dell’anatomia, della fisiologia, della
clinica, della farmacologia almeno sino al XVII secolo. Talvolta,
queste idee denunciano facilmente la loro paternità, perché si
richiamano in modo diretto e inequivocabile alla teoria e
all’insegnamento di grandi maestri, quali possono essere
Ippocrate per la Grecia o Galeno per il mondo romano. In
qualche altro caso, invece, la medicina medievale e quella di
primo evo moderno affrontano temi di discussione che sono
di evidente origine antica, ma la cui ricostruzione non è
immediata né facile: infatti, le idee di base hanno subito una
serie di trasformazioni concettuali, anche profonde, che ne
hanno modificato radicalmente la struttura. I testi più recenti,
dunque, si aprono a numerose sottili interpretazioni delle
fonti, di per sé difficili da ricondurre all’unità concettuale
originaria; sono molti gli esempi che si possono fornire a
riguardo. La storia della concettualizzazione del corpo
femminile e dei suoi stati fisiologici, o delle sue malattie, per
esempio, si sviluppa in un continuum tortuoso, in cui le andate
e i ritorni ideologici si accavallano, dai testi ippocratici,
attraverso la riflessione platonica e aristotelica, sino alle fonti
di evo moderno, e talvolta (per esempio nell’evoluzione del
concetto di malattia isterica, i cui fondamenti sono nell’opera
ippocratica e le estreme conseguenze vive fino al lavoro di
Freud) anche ben oltre, arrivando alle soglie del XIX secolo.
Ancora, un ulteriore buon esempio di questa situazione può
essere offerto dalla storia della bile nera e della malinconia,
topos ippocratico-aristotelico sulle cui infinite sfumature si
fonda l’intero dibattito sulla malattia dell’anima
(invasamento, furia, depressione o mal d’amore che si voglia)
almeno sino al trattato di Robert Burton, The anatomy of
melancholy, dato alle stampe a Oxford nel 1621.

Talvolta, infine, le “lunghe durate” in medicina si rifanno a


transitori momenti di eccezionalità del pensiero medico
antico, come accade nel caso della storia dell’indagine
anatomica ad Alessandria d’Egitto, che impronta di sé tutto il
pensiero galenico e la riflessione sulle strutture del corpo
intrapresa dai medici nel medioevo, nell’umanesimo e nel
rinascimento, pur essendosi nella realtà protratta per una
cinquantina di anni al massimo ed essendo specificamente
legata a una forma di patronage politico molto limitata nel
tempo (Tolomeo I fu governatore d’Egitto dal 323 al 306 a.C. e
poi re dal 306 al 285 a.C.) e all’opera di soli due personaggi,
Erofilo ed Erasistrato (la cui attività di medici e anatomisti ad
Alessandria è collocata nella prima metà del III secolo a.C.).

Quando si parla di medicina antica, insomma, bisogna


sapere che non ci si limita ai territori concettuali della vera e
propria antichità, ma si indica la matrice di un pensiero
scientifico tra i più duraturi della storia occidentale.

Medicina, disciplina autoreferenziale


Accanto alla citata difficoltà di stabilire limiti cronologici
precisi che caratterizzino la durata della vita delle teorie e
delle pratiche mediche antiche, esistono poi altre condizioni
la cui conoscenza è fondamentale per la corretta
comprensione della medicina nell’antichità e della
straordinaria durata che la caratterizza nel mondo
occidentale.

In primo luogo, va tenuto conto che la medicina antica


nasce, con Ippocrate, come disciplina autoreferenziale e
autoritativa: la necessità da parte di Ippocrate di stabilire in
modo chiaro i confini di una disciplina nuova, che non
esisteva – prima dell’istituzione della sua nuova scuola – nelle
forme in cui il medico di Kos la organizza e la propone, fa sì
che tale disciplina, sin dai suoi esordi, si chiuda su sé stessa e
tenda a dialogare poco e con grande difficoltà con altri settori
del sapere scientifico.

Questo spiega perché, per molti secoli, la medicina continui


a ruotare attorno alla mitologia del padre – o dei padri –
fondatori: un sapere nuovo, che desideri affrancarsi dall’idea
arcaica di mondo come teatro dell’azione di divinità più o
meno primordiali, e che quindi debba liberarsi dai lacci della
narrazione mitica in cui ogni sapere della guarigione, in ogni
parte del mondo, trova la sua giustificazione fondante, ha
bisogno di ricreare per sé stesso nuovi miti di fondazione. La
figura di Ippocrate, come in seguito accadrà con quella di
Galeno e anche con alcuni autori arabi ed ebrei, tende a
perdere la sua dimensione reale e il racconto della vita del
“primo maestro” diventa esso stesso narrazione mitica, in cui
notizie plausibili, desunte forse da fonti antiche, si
confondono con elaborazioni del tutto fantastiche (Jouanna,
1992). Viene, così, scritta e riscritta una serie di sue biografie
più o meno immaginarie, a partire dalle Epistole, su Ippocrate
o a lui attribuite, databili tra il I secolo a.C. e il I d.C., sino alla
Vita di Ippocrate attribuita a Sorano di Efeso (I-II sec. d.C.) e ad
alcune voci di enciclopedia databili all’epoca bizantina (tra cui
il lessico Suda, X sec. d.C.); in esse il fondatore della medicina
razionale si trova a fronteggiare personalmente grandi
epidemie, come quella di Atene – alla cui cura non c’è alcuna
sicurezza documentaria che abbia contribuito –, a trattare
personaggi illustri che per coerenza cronologica non può
nemmeno aver conosciuto, a incontrare Democrito, alla cura
della cui malattia malinconica sarebbe stato chiamato dai
cittadini di Abdera.

La necessità di definire in modo inequivocabile i confini


della “scienza nuova” ippocratica spiega, inoltre, quelle che
chi si avvicina per la prima volta agli autori medici antichi
percepisce come inspiegabili riluttanze a vedere fatti per noi
molto ovvi: per esempio, la difficoltà di tutti i medici
dall’antichità al primo evo moderno a percepire il movimento
del sangue nel corpo come una circolazione (la cui scoperta si
deve a William Harvey e data al 1628), o l’apparentemente
inesistente percezione medica, fino a epoche molto avanzate,
della trasmissibilità di alcune malattie. Infatti, non è facile
comprendere – né spiegare agli studenti in medicina di oggi,
non educati a vedere la storia per quello che essa è (un
percorso faticoso, fatto di salite e discese, di periodi fermi e
conservatori contrapposti ad altri di accelerazioni
intensissime e di subitanei “inizi”) ma, piuttosto,
illuministicamente propensi a vedere gli accadimenti storici
come un inarrestabile processo di «magnifiche sorti e
progressive» – perché i veterinari antichi, o gli architetti, o i
filosofi, o gli storici riescano a descrivere nelle loro opere,
lucidamente, il passaggio di alcune forme patologiche da
animali a uomini o da uomini a uomini. La narrazione di
Tucidide della peste che colpisce la città di Atene nel 430 a.C.
non lascia dubbi, per esempio, circa il terrore dei cittadini
ateniesi di contrarre la malattia per contatto con gli
ammalati: la paura di ammalarsi è la causa che spinge
persino le madri a disertare l’assistenza dei loro stessi figli. La
medicina veterinaria antica conosce la trasmissibilità di
alcune patologie che colpiscono greggi e armenti: Flavio
Vegezio (fine IV-inizi V sec. d.C.), autore di un trattato in
quattro libri sulla Mulomedicina, sa bene che una pecora
ammalata, lasciata tutta la notte nello stallo con le sue
compagne sane, sarà la causa della moria e della perdita
dell’intero gregge. Marco Vitruvio Pollione, autore del celebre
trattato Sull’architettura in dieci libri, la cui stesura va collocata
tra la fine del secondo triumvirato e i primissimi anni del
principato (35-25 a.C. ca.), impone la costruzione delle città
sane in luoghi alti: in essi, infatti, è difficile o impedito
l’accesso ai minuscoli «animalia infestis aculeis armata», che
altro non possono essere se non le zanzare, in grado di
trasmettere le febbri terzane e quartane (la nostra malaria)
attraverso aculei “portatori di danno”. Lucio Anneo Seneca (5
a.C.-65 d.C.), quando, all’interno del suo discorso filosofico,
deve ammonire alla vigilanza nella costruzione dell’anima
delle più giovani generazioni, ricorda come i cattivi compagni
siano in grado di trasmettere abitudini negative e vizi allo
stesso modo in cui gli ammalati trasmettono la malattia del
corpo ai sani. Come è possibile, allora, che i medici a questi
autori coevi o posteriori descrivano le epidemie come
malattie derivate solo dalla cattiva qualità dell’aria e la
malaria come una forma di imputridimento del corpo
derivato dall’immissione di aria corrotta dai fenomeni di
disfacimento di sostanze organiche che si manifestano nelle
acque ferme delle paludi?
Questo è solamente spiegabile, come del resto hanno fatto
grandi storici della medicina francese come Mirko D. Grmek e
Danielle Gourevitch, in termini di “ostacolo epistemologico”:
superando, cioè, le obiezioni che a noi sorgono spontanee, se
ci limitiamo a valutare le cose sul mero piano dell’evidenza
empirica che, pure, specialmente a medici abituati a essere
attentissimi osservatori del corpo e dei suoi segnali, come
tutti quelli di tradizione ippocratica, doveva segnalare il
pericolo che il contatto con gli ammalati di alcuni tipi di
malattie poteva arrecare ai sani. Ippocrate, che è il primo
autore greco a proporre un’idea di malattia razionale, fondata
cioè su cause osservabili e spiegabili solo attraverso il ricorso
ai cinque sensi, sostiene infatti che unica causa di malattia,
per gli uomini, sia l’aria che viene immessa nel corpo
attraverso la respirazione (o per ingestione assieme al cibo e
alle bevande o per permeabilità della pelle, che non è una
barriera compatta). Se l’aria è troppa, o troppo poca, o viziata
da un eccesso di qualità, da elemento fondamentale per la
vita essa, una volta introdotta all’interno del corpo, diviene il
principio patogeno per eccellenza. La causalità ippocratica si
configura, dunque, nel caso di tutte le malattie, come
monocausalità, aitía ascrivibile a un solo elemento, reale,
tangibile, sottoponibile alla valutazione dei sensi e comune a
tutti gli esseri viventi. La teoria è semplice e viene accolta e
trasmessa senza dibattito. Questo è in parte spiegabile,
soprattutto per i periodi più avanzati, dall’età imperiale
romana in poi, con la citata nascita e diffusione di un “mito di
fondazione” in cui Ippocrate riveste i panni del padre
fondatore, la cui autorevolezza non può dunque suscitare
perplessità. L’auctoritas riconosciuta, anche nel contesto delle
scuole di medicina prima e delle università medievali poi, a
Ippocrate e a Galeno rimane tenacemente attaccata alla
medicina fino a epoche molto avanzate; il perdurare del mito
giustifica come mai un medico del calibro di Giovan Battista
Morgagni, il padre fondatore dell’anatomia patologica e uno
dei più importanti medici del suo secolo in Italia e in Europa,
chiamato nella seconda metà del Settecento dal doge di
Venezia a fornire spiegazioni peritali sull’epidemia di peste
che affligge la città, non esiti a ricorrere alla teoria dei “venti
d’austro”, caldi e umidi, come elementi scatenanti la malattia
(Gazzaniga, De Angelis, 2000). La medicina tende a riferirsi,
insomma, esclusivamente alle sue fonti e alla sua storia
interna. Va però ricordato che l’autoreferenzialità della
medicina è forse anche, più semplicemente, da attribuire alla
logicità intrinseca delle teorie ippocratiche: una causalità sola
e riconoscibile è funzionale, sin dalle origini, a fronteggiare la
confusione e l’angoscia che il male e la sofferenza generano
negli uomini e a confutare saldamente le teorie di chi, negli
stessi anni in cui Ippocrate fonda la sua scuola razionale,
sostiene all’interno dei templi di guarigione che le malattie
siano conseguenza di una colpa ed effetto della volontà
punitrice degli dei, trasformando la fede in una strategia
terapeutica di grande successo.

Molte medicine
Un’ultima difficoltà va denunciata a chi si accinga a leggere
un testo sulla storia della medicina antica: dalla metà
dell’Ottocento il mondo occidentale è abituato a pensare alla
medicina secondo i dettami della disciplina sperimentale,
tendente all’acquisizione della verità scientifica, così come
essi sono stati stabiliti nell’opera di Claude Bernard o nei
lavori dei grandi batteriologi francesi e tedeschi, e in genere
dei medici delle generazioni successive, impegnati ad
attribuire un senso sperimentale e scientifico a una disciplina
che per molti secoli era stata fondata essenzialmente
sull’esperienza e sull’accumulo dei dati di osservazioni
ripetute. Siamo abituati, insomma, a pensare al singolare: a
una pratica medica che risponda ai dettami di una teoria,
epistemologicamente fondata e metodologicamente
determinata, nonché impegnata nella ricerca di molteplici
causalità di malattia.

La medicina, in tutto l’arco dell’antichità, è evidentemente


qualcosa di profondamente diverso: innanzitutto, essa non è
una disciplina semplice, ma un universo composito. Si
muove, sin dalle origini, su piani estremamente stratificati e
non è possibile fornire una sua definizione univoca, né
guardarla da una prospettiva dominante, né individuare un
solo carattere che la definisca, se non in modo esclusivo,
almeno determinante. Esistono, insomma, molte medicine
dell’antichità, esattamente come – si è detto – esistono molte
antichità, che talvolta si trovano a essere anche
contemporanee tra loro. Esistono molteplici approcci e molte
teorie esplicative della salute e della malattia, pratiche
cliniche differenziate e molte terapeutiche diverse: le
dimensioni non necessariamente concordano tra loro,
nemmeno nello stesso ambito di riferimento culturale. Per
fornire un esempio, la medicina ippocratica testimoniata dai
sette libri Sulle epidemie sottolinea alcuni tratti che sono molto
marginali, e talvolta assenti, negli scritti ginecologici
contenuti nello stesso Corpus: l’elemento in genere innovativo
di Sulle epidemie, che è descrittivo e clinico, è coperto, negli
scritti sulle malattie delle donne, dalle stratificazioni di un
sapere del corpo femminile arcaico e di origine popolare.
Questi testi fanno ricorso, infatti, a una terapeutica in cui
sopravvivono numerose caratteristiche del rituale popolare e
della magia, nonché a un tentativo classificatorio delle
malattie come entità, più vicino a quanto la tradizione
attribuisce alla mitica scuola di Cnido piuttosto che al metodo
insegnato e praticato nell’ambito della scuola di Kos. Eppure,
entrambi i gruppi di opere sono databili tra la fine del V e
l’inizio del IV secolo a.C., sono certamente vicini all’arco
cronologico della vita dell’Ippocrate reale e, con buona
probabilità, almeno per alcune parti, sono direttamente
attribuibili ad autori che si muovono nella stretta cerchia
ippocratica.

Esistono, poi, figure molto difformi di curanti, e maniere


molto lontane in cui essi si formano nelle rispettive
competenze. Sappiamo che la competizione tra i «maghi e i
ciarlatani» (così li definisce l’Ippocrate Sul male sacro, un
trattatello sull’epilessia databile alla seconda metà del V sec.
a. C.), identificabili con le figure professionali che operano
all’interno dei templi delle divinità guaritrici, e i medici che si
formano nelle scuole della medicina laica non si esaurisce in
tempi brevi: i templi di Asclepio sono ancora perfettamente
funzionanti nella Grecia di Elio Aristide, un retore vissuto nel
II secolo d.C., che nell’opera Discorsi sacri fornisce numerosi
elementi che ci portano a immaginare l’esistenza di un
intreccio delle competenze della medicina di stampo
ippocratico e del sapere sacro della guarigione, più che una
loro effettiva opposizione reciproca. Formati in scuole diverse
e secondo approcci concettuali apparentemente non
conciliabili, insomma, pare che i medici e i sacerdoti di
Asclepio potessero trovarsi non raramente a esercitare in
modo congiunto le loro competenze, traendone reciproco
beneficio. La ritualità del gesto medico, così ben documentata
anche nelle opere di tarda scuola ippocratica che trattano di
“etichetta” (Sul medico, trattato ellenistico o di prima età
cristiana; Precetti, opera ellenistica; Sui doveri del medico, I-II sec.
d.C.), certamente si costituisce anche per imitazione delle
pratiche e del rituale del tempio; e così non deve stupire –
come vedremo – che le ricette che Asclepio detta in sogno ai
fedeli ammalati rappresentino spesso la copia e la
riproposizione del sapere farmacologico contenuto nei coevi
trattati della medicina razionale.

Il percorso della guarigione continua a essere condotto su


un binario doppio (o triplice) ancora nel mondo romano, in
cui la componente “dotta” di matrice greca non si sostituisce
mai interamente al sapere italico, fatto di competenze
erboristiche, di conoscenze popolari, di strategie curative
spesso ai limiti della magia; la Storia naturale di Plinio, per
esempio, ben testimonia le infinite possibilità di
combinazione cui può essere sottoposta la teoria medica di
origine greca in unione con il sapere tradizionale e “locale”
della guarigione. Inoltre, andrebbe condotto uno studio
sistematico che metta in luce la relazione tra pratiche di
guarigione popolari e rituali magici (filtri d’amore o riti di
maledizione), così come li conosciamo attestati in alcuni culti
marginali di divinità minori a Roma, come quello di Anna
Perenna, ninfa romana il cui culto copre un arco temporale
che va dal IV secolo a.C. al VI d.C.

Storia della medicina antica, storia di cosa?


Dire che cosa sia la medicina antica non è, dunque,
possibile in modo univoco: si tratta di una storia che può
essere definita, di volta in volta, anche semplicemente in
relazione al tipo di fonti che possiamo scegliere per
testimoniarne il percorso.

La storia medica antica può essere, per esempio, collocata


in modo legittimo nell’ambito della storia delle idee. L’analisi
combinata delle fonti mitologiche, letterarie e scientifiche, in
un arco di tempo che va dalla stesura del ciclo omerico (Iliade
e Odissea) fino alla tarda antichità, definisce un quadro in cui
da un lato si antagonizzano e dall’altro coesistono – si è detto
– l’idea che la malattia sia un essere autonomo, dotato di vita
propria e indipendente dalla sua interazione con il corpo
dell’uomo (concetto ontologico di malattia) e l’affermazione
che invece essa consista nella modificazione di uno stato
ideale del corpo, costituito dall’armonioso rapporto che gli
umori e le qualità che li caratterizzano intrecciano tra loro.
Tale modificazione ha una spiegazione del tutto razionale
nell’interazione errata tra il corpo dell’uomo e l’ambiente
esterno: entrambi sono composti delle stesse qualità e,
quindi, in grado di instaurare un rapporto di scambio
reciproco, che talvolta è induttore di malattia.

Tuttavia, il concetto razionale di malattia, così come


pensato da Ippocrate, non esaurisce l’ambito concettuale nel
quale si muove la medicina razionale: con Galeno esso viene
integrato attraverso l’esperienza anatomica, e l’osservazione
ripetuta (in qualche caso sottoposta a un vaglio che –
vedremo – anticipa alcuni caratteri sperimentali) del fatto che
la struttura normale delle parti del corpo corrisponde al loro
corretto funzionamento induce il medico di Pergamo a
integrare il concetto umorale ippocratico con uno funzionale di
malattia. Secondo tale concetto, la salute è conservata
quando ogni parte è mantenuta nelle condizioni di assolvere
il compito fisiologico assegnato dal progetto naturale (per
esempio, se i reni filtrano correttamente il residuato del
sangue per produrre urina da espellere; se il fegato elabora,
per mezzo dello pneuma vegetativo, il cibo assunto dal corpo
nella nutrizione, già trasformato in chilo dallo stomaco, e
produce il sangue che serve da nutrimento del corpo; se il
cuore mette in circolo nella via arteriosa l’aria assunta
attraverso la respirazione ecc.). La malattia è invece la
cessazione o la sospensione temporanea o la cattiva
esecuzione della funzionalità per cui ogni parte del corpo è
stata pensata dal Demiurgo, l’artefice creatore dell’ordinato
succedersi delle realtà fisiche.

La storia delle idee mediche, poi, si definisce anche come


storia culturale: si pensi per esempio a quanto la nascita e lo
strutturarsi in Occidente del concetto di corpo femminile
come corpo “difettoso”, più freddo e umido di quello maschile
e pertanto incapace di eliminare i residui, diventando più
aggredibile dalla malattia, abbiano influenzato non solo il
formarsi di una medicina di “genere minoritario”, ma anche
abbiano nutrito di idee il duraturo paradigma culturale
dell’inferiorità femminile e abbiano contribuito a mantenere
vive, giustificandole sul piano fisiologico, alcune idee popolari
(per esempio, quella dell’impurità del sangue mestruale o del
sangue del parto). Le relazioni costanti, anche se spesso
sotterranee, che la scienza antica ha continuato a mantenere
con la sfera della narrazione mitica hanno contribuito alla già
citata sopravvivenza secolare di un nucleo di idee la cui
vitalità è attestata dalle fonti ben oltre il confine
dell’antichità; tra questi temi, la discussione della
partenogenesi, la generazione spontanea e la giustificazione
“biologica” della deformità e della mostruosità.

A concetti diversi di salute e malattia corrispondono poi,


ovviamente, diverse modalità di trattamento; ecco dunque
che quella che ci appariva principalmente una storia delle
idee diventa anche una storia materiale, la cui ricostruzione è
possibile attraverso reperti archeologici, oggetti,
identificazione di animali e piante utilizzati nella terapia. Lo
studio dei corredi chirurgici, provenienti soprattutto da
contesti romani, ha consentito per esempio a studiosi illustri
come Lawrence J. Bliquez (1994) o Ralph Jackson (1990a, 1995,
1997, 2009) di gettare luce sulle pratiche mediche in cui gli
strumenti venivano impiegati e sulle teorie che ne
giustificavano l’utilizzo.

Lo studio combinato delle testimonianze offerte dallo


strumentario di epoca greco-romana e dei resti umani recanti
i segni sull’osso di interventi di trapanazione, per esempio, ha
consentito per epoche diverse di mettere in luce alcune
tecniche di intervento chirurgico sul cranio e la loro
corrispondenza con quanto attestato dalle fonti coeve e
successive; la tomba 990 della necropoli di Pontecagnano (SA),
risalente al IV secolo a.C., ha rivelato i resti di un individuo
adulto con esiti di una frattura importante fronto-parietale,
trattata con trapanazione per incisione con un piccolo
scalpello. Il “chirurgo” che l’ha eseguita non sembra aver
praticato una tecnica descritta nei trattati medici, ma
piuttosto essersi basato sull’esperienza, sospendendo il
programma iniziale di intervento e limitandosi a levigare
l’orlo della frattura (Fornaciari, 2004).

Diversamente si è comportato, a distanza di sei secoli, chi è


intervenuto su un bambino i cui resti sono stati ritrovati in
una necropoli presso Fidene a Roma durante scavi condotti
nel 1995 da Paola Catalano e dalla Soprintendenza speciale
per i beni archeologici di Roma. Il bambino, il cui cranio reca i
segni di un intervento di trapanazione (con scalpello o bulino)
per curare un’idrocefalia secondaria alla crescita di una
massa nell’emisfero cerebrale destro, testimonia bene il
progredire della tecnica chirurgica così come essa è attestata
nelle fonti, dai testi ippocratici (Sulle ferite della testa, V sec.
a.C.; Sulle epidemie, V-IV sec. a.C.) al trattato Sulla medicina di
Celso, fino all’opera di Galeno di Pergamo. In particolare, la
tecnica da quest’ultimo descritta presenta importanti
coincidenze con quanto rivelato dall’esame del cranio
infantile, consentendo di ipotizzare, se non l’intervento dello
stesso Galeno, almeno quello di un medico altamente
qualificato e tecnicamente molto abile, operante in un
contesto urbano e capace di garantire la sopravvivenza del
piccolo per molti giorni dopo l’intervento. L’elevata qualità
tecnica del gesto di cura permette, tra l’altro, di ipotizzare in
piena epoca imperiale uno scenario di soccorso “sociale”, in
cui un pater familias (o, comunque, un membro importante
della comunità) abbia impiegato le proprie risorse a favore
della salute del figlio di uno schiavo o di un liberto, la cui
condizione familiare umile è testimoniata da un corredo di
sepoltura molto povero (Mariani Costantini et al., 2000).

Molti altri esempi potrebbero essere forniti sull’utile


interscambio tra discipline storiche, archeologiche,
antropologiche e mediche, quando esse si impegnano da
prospettive diverse nello studio della malattia e della cura:
con una metodologia analoga, il contributo degli studi
archeologici ha descritto le strutture del tempio di guarigione
sul territorio greco e su quello romano in modo che le
pratiche che in esso avevano luogo fossero testimoniate da
una fonte aggiuntiva rispetto a quella epigrafica o testuale.

Infine, la storia della medicina può essere letta come parte


di una storia delle malattie, che è insieme storia biologica e
storia culturale. In questa prospettiva si incrociano i
contributi offerti dalla paleopatologia (disciplina che utilizza i
metodi della moderna analisi scientifica per studiare le
malattie direttamente su materiali antichi ossei, mummificati
o calcificati) e quelli forniti dalla storia concettuale. Come ha
dimostrato Mirko D. Grmek (1985), infatti, il tentativo di
comprendere la storia naturale delle principali malattie
infettive e parassitarie, dal neolitico a oggi, se passa
attraverso lo studio dell’interazione tra patrimonio genetico
individuale e condizioni ambientali, deve considerare che il
tentativo di una diagnosi retrospettiva è tenuto a fare i conti
con la diversa concettualizzazione che le società antiche
hanno della malattia, con conseguenti modi di descriverne
manifestazioni e sintomi. Essi possono differire molto dal
nostro. Se Ippocrate parla di tisi, dunque, non
necessariamente si riferirà alla malattia che dall’Ottocento a
oggi chiamiamo tubercolosi e associamo alla presenza di un
micobatterio patogeno; nemmeno, se il medico antico
descrive uno o più sintomi come caratterizzanti una data
malattia, possiamo oggi basarci sulla descrizione antica per
tentare di diagnosticare secondo criteri odierni un quadro
patologico. L’autore antico, infatti, spesso tende a sottolineare
i seméia (segni), per lui significanti, alla luce della teoria
medica a cui risponde la sua techne; questi segni possono per
noi essere inutili o addirittura fuorvianti. Molti esercizi di
interpretazione sono stati dedicati al tentativo di capire quale
malattia fosse in effetti la peste di Atene del 430 a.C., quale la
peste antonina (165-180 d.C.), quale la peste di Cipriano (251-
270 d.C.), quale quella di Giustiniano (541 d.C.); infezioni da
stafilococco, vaiolo, morbillo, peste bubbonica mescolano le
loro tracce nei testi medici e letterari e soltanto in tempi
molto recenti e in casi molto rari la paleogenetica è riuscita a
identificare alcuni dei microrganismi responsabili di alcune
delle grandi pandemie dell’antichità. La storia delle malattie
infettive può essere oggetto di indagine anche per quanto
riguarda le relazioni con le condizioni socioeconomiche delle
società nelle quali esse si manifestano; ad alcune di loro gli
storici dell’economia hanno attribuito addirittura la
responsabilità di essere state concausa della fine dell’impero
romano, o almeno di averne indebolito gravemente le
strutture interne, contribuendo alla sua distruzione.

Una storia “frammentaria” della medicina


Come spesso accade per l’antichità, le fonti a disposizione
della riflessione storica sono parziali. Poco o nulla offre
testimonianza della vita e della salute degli strati più umili
della popolazione; tracce saltuarie della salute e delle
malattie di artigiani e contadini sono offerte dagli scritti
ippocratici Sulle epidemie. I pazienti di Galeno sono in genere
nobili e altolocati e le loro storie offrono uno spaccato molto
selettivo delle condizioni di vita nella Roma imperiale.
Le altre fonti, da Celso a Sorano di Efeso, agli autori
bizantini, molto di rado presentano casi clinici e storie
individuali. Inoltre, abbiamo testimonianze scarse e
frammentarie di qualsiasi sapere antico che sia un sapere
“non dotto”, che si configuri cioè come una competenza
pratica e che pertanto non sia trasmesso attraverso un
processo di scrittura. Chi sono, per esempio, e quali interventi
effettivamente praticavano gli esperti dell’escissione del
calcolo vescicale, così come sono presentati all’interno del
Giuramento di Ippocrate? Come operavano i raccoglitori di erbe
o i preparatori di farmaci? Autori di opere botaniche, come
Teofrasto (IV sec. a.C.) o Dioscoride (I sec. d.C.), ma anche
Scribonio Largo (1-50 d.C.), Plinio il Vecchio (23-79 d.C.) e
Galeno stesso, ci informano dell’esistenza di numerose
diverse professionalità inserite nel commercio delle sostanze
medicamentose, spesso legate ad antiche competenze di
popolazioni, come quella dei Marsi, esperte nel commercio di
serpenti e veleni.

I Marsi, come i Cirenei raccontati da Erodoto (abitanti della


Grande Sirte) e altre popolazioni nel Mediterraneo, potevano
essere competenti nella conoscenza delle erbe medicinali in
genere al punto che lo stesso Galeno ammette di fare ricorso
al loro sapere empirico nei casi di avvelenamento per i quali è
necessario ricercare un antidoto efficace. Alcuni rizotomi,
cercatori di erbe e radici, come Crateua (I sec. a.C.), medico di
corte di Mitridate VI, sono autori di lavori scritti (in questo
caso andati perduti) e citati dalle fonti più tarde (Dioscoride)
come autorevoli esempi di competenza farmacologica.
Talvolta le fonti “dotte” mettono in guardia dai pericoli che
possono essere procurati dai rizotomi e dai venditori di erbe;
Galeno raccomanda, infatti, la preparazione personale delle
medicine, e anche la loro selezione, nei grandi magazzini
(apothecae) imperiali, in cui si trovano sostanze che
provengono dall’Egitto e dai territori arabi, dall’Africa e dalla
Spagna.

Tra le professionalità di margine va inclusa anche la


competenza delle donne, sia quella attestata
dall’associazione (ben documentata dal mito ma anche da
fonti storiche, come il Corpus Hippocraticum o la Storia naturale
di Plinio) tra donne e phármaka, sia quella relativa alla sfera
della nascita e della riproduzione, i cui passaggi salienti sono
gestiti in modo pressoché esclusivo da maiai e obstetrices.
L’analisi comparata di miti, iscrizioni funerarie, testi medici e
letterari sia greci sia romani consente di ricostruire l’esistenza
di un sapere femminile della medicina, i cui territori di
competenza sono molto vicini a quelli della magia e della
stregoneria: Elena conosce molto bene l’uso del nepente, il
farmaco che toglie ansia e dolore (Odyssea IV, 220-232); Procri,
Pasifae, Circe e Medea condividono la conoscenza di bacche e
fiori soporiferi o letali; anche Xante, Lais, Salpi, Sotira ed
Elefantis, donne menzionate come guaritrici da Galeno e
Plinio, trattano la rabbia o curano i disturbi mestruali con una
complessa miscela di cavolo, mirto, tamarindo e incantesimi.
D’altro canto, la consultazione delle fonti epigrafiche
testimonia l’esistenza di una qualche forma di competenza
“paramedica” gestita in un mondo interamente femminile, in
cui l’esperienza quotidiana e la pratica al letto delle
partorienti definiscono un sapere familiare e non tecnico, a
cui solo in epoche più avanzate si accompagna il supporto di
medici formati nella lettura del testo e della teoria
ippocratica.

Per definire i limiti di queste professionalità a latere della


medicina dotta non ci si può limitare alla consultazione di un
solo tipo di fonti, ognuna delle quali è da sola insufficiente a
cogliere le sfumature e complessità del paradigma antico.

Infine, va ricordato che un certo numero di lavori di


interesse medico antichi sono andati perduti, non
sopravvivendo nemmeno nelle traduzioni siriache o arabe;
l’opera degli anatomisti bizantini è ricostruibile solo
attraverso frammenti in autori posteriori e, anche se il grado
di attendibilità della nostra ricostruzione è certamente buono
(perché fondato su quanto è leggibile in fonti per diverse
ragioni attendibili), la comprensione del lavoro di Erofilo e di
Erasistrato non è completa come sarebbe stata ove avessimo
potuto leggere le loro opere. In qualche caso, poi, il discorso è
ancora più complesso: storie mediche che sono state molto
importanti per i contemporanei, come quella di Asclepiade di
Bitinia (130-40 a.C. ca.), adattatore della teoria umorale
ippocratica in ambito romano attraverso un modello solidista-
atomistico, sono a noi note attraverso le parole di un
oppositore, un nemico intellettuale che, nel caso di
Asclepiade e per sua sfortuna, fu addirittura Galeno di
Pergamo. Il desiderio galenico di distruggere una teoria
medica fortunata e di successo per fare spazio a sé stesso ha
ottenuto il risultato di cancellare, per molti secoli, il nome di
Asclepiade dal panorama della storia della medicina. Il
problema storiografico dell’oggettività e dell’attendibilità delle
fonti mediche (cui abbiamo già accennato parlando di storia
delle malattie: i sintomi che il medico antico utilizza per
leggere una data malattia sono proprio tutti i sintomi che
sarebbero annotati da un medico di oggi? o essi non
rappresentano, piuttosto, una selezione operata a monte,
fondata su una teoria cui si deve rispondere?) è
particolarmente sensibile in un settore dove è forte la
necessità di affermare profili professionali nuovi, anche a
scopo economico; possiamo lecitamente chiederci, insieme a
Diogene Laerzio, quanto più numerose sarebbero state le
cronache della medicina del tempio di Samotracia se i
sacerdoti di Asclepio avessero registrato, assieme ai miracoli,
anche tutti i loro fallimenti terapeutici, e quelli del dio
(Diogenes Laertius, De clarorum philosophorum vitis VI, 59).
2

La medicina in Grecia

L’ira degli dei e il concetto ontologico di malattia


Primo libro dell’Iliade, vv. 43-67: i Greci sono accampati
davanti alla città di Ilio, stremati da dieci anni di guerra che
sembrano non volersi concludere mai. La città è fortificata,
ben difesa da valorosi eroi, e resiste. Odisseo ancora non ha
immaginato il fantastico cavallo cavo con il quale i capi degli
Achei penetreranno, di notte, nella città addormentata per
conquistarla a tradimento e dall’interno. Improvvisamente,
una malattia violenta si abbatte sull’accampamento greco,
iniziando a decimare prima gli animali – i muli, i cavalli, i cani
–, poi gli uomini. Il termine greco utilizzato per indicarla è
loimós: parola di non facile traducibilità, essa indica
un’improvvisa mortalità collettiva, quella che oggi
chiameremmo epidemia, includendo un concetto di
trasmissibilità della malattia da animale a uomo o da uomo a
uomo che era del tutto sconosciuto alla civiltà greca. Il loimós
è solo un morbo diffuso e inarrestabile; gli scuri vapori delle
pire funeree segnalano che è in corso un’emergenza sanitaria
grave e inesplicabile alla sola ragione umana. Consultati gli
oracoli, i Greci ottengono un responso causale che connette
l’improvvisa pestilenza con una colpa di cui si sono macchiati
i capi achei e, tra questi, Agamennone in particolare. Nel
bottino di guerra è finita, come schiava, Criseide, la figlia del
sacerdote di Apollo, di cui il padre chiede la restituzione,
invocando un trattamento privilegiato in nome del dio di cui è
servitore; deriso da Agamennone, il vecchio viene scacciato
con ignominia dal campo. L’ira di Apollo si traduce in un gesto
punitivo che illustra la prima immagine che possediamo di
una malattia epidemica nella letteratura greca; il dio, dalle
cime dell’Olimpo, scaglia saette d’argento che, nel momento
in cui colpiscono i Greci, causano malattia.

La malattia ha dunque uno statuto ontologico autonomo: è


qualcosa che esiste al di fuori e indipendentemente dal corpo
dell’uomo, con una sua forma materiale che può essere
utilizzata dalla volontà divina per punire gli uomini e in
conseguenza di una colpa da loro commessa. Secondo questa
idea, nota agli antropologi culturali come una delle più diffuse
in molte società tradizionali per spiegare malattie e morte,
oggetti come frecce o pietre, animali o spiriti causano la
malattia, entrando nel corpo e stravolgendone gli andamenti.
Ciò accade, in genere, in Grecia come nelle società
sciamaniche uralo-altaiche, amerinde, africane, aborigene, in
conseguenza di una colpa commessa sia volontariamente sia
inconsapevolmente. Questo atteggiamento culturale prende il
nome di concetto ontologico di malattia; esso permea di sé la
mitologia e tutto il racconto della civiltà greca e romana,
mantenendo vive le sue tracce dall’età arcaica sino alla tarda
antichità, infiltrandosi anche nel tessuto della medicina
razionale ippocratica.

Molte sono le testimonianze che connettono l’idea del male


fisico con quella di colpa; il racconto omerico
dell’accecamento di Polifemo ne contiene traccia (Odyssea IX,
395-411). Il Ciclope, furioso per il dolore, esce sulle pendici del
monte a chiedere soccorso ai fratelli, che vivono negli antri
vicini, contro il pericoloso Nessuno che lo ha privato della
vista dell’unico occhio. I fratelli, nella notte, chiedono chi sia
stato a fargli del male. «Nessuno», risponde Polifemo; e i
fratelli: «Se dunque nessuno ti fa violenza e sei solo, non puoi
certo evitare il morbo del grande Zeus: allora tu prega tuo
padre, Poseidone signore». Se il male non è causato da un
mortale, da un’arma o da una ferita la cui causa sia materiale
e conoscibile, esso viene direttamente dal dio e a un dio – lo
stesso o un pari grado, qui un fratello – bisogna chiedere
remissione della colpa ed eliminazione della sofferenza.

Anche la tragedia greca conserva tracce evidenti dello


stesso meccanismo associativo colpa-punizione-malattia:
Edipo, il bambino segnalato come portatore di un destino
avverso da una deformità dei piedi (oidípous, in greco, “dai
piedi gonfi, deformi”, per difetto di nascita o per perforazione
degli arti da parte del padre), paga attraverso una serie di
patologie una colpa ancestrale, svelata dall’oracolo di Delfi
che narra di un avo colpevole di violenza su un bambino. Non
esiste spiegazione – come sempre nell’opera di Sofocle – del
perché il fato, attraverso gli dei, decida di punire, dopo molte
generazioni, proprio il padre di Edipo, Laio, attraverso una
maledizione che porterà lui alla morte, Tebe all’epidemia e
poi a una guerra fratricida, Giocasta al suicidio, Edipo alla
cecità, perpetuando la punizione anche sui suoi figli e figlie.
Semplicemente, ciò accade; il destino non è logico e non può
essere fermato. Dopo l’uccisione di Laio da parte di Edipo, un
loimós si abbatte sulla città, improvviso. «La città è sconvolta
da un’immane tempesta e non riesce più a sollevare il capo
dal baratro del sanguinoso turbine: distrutti i frutti della terra
ancora nei calici, distrutti i bovi delle mandrie, e i parti delle
donne, che a luce più non giungono. Il dio che porta la febbre,
la terribile peste, su Tebe incombe, e la tormenta, e dei
Cadmei vuote le case rende: e Ade nero d’ululi e pianti
opulento diviene» (Oedipus Tyrannus, vv. 20-30). Edipo, che
governa la città, chiede ragione della malattia ad Apollo
attraverso un indovino. La risposta dell’oracolo impone la
liberazione della città dal “miasma” che la colpisce; la parola
indica in greco l’atto di tingere una stoffa bianca con il colore
del sangue (da miaino = ‘sporcare’, ‘tingere’) (Jouanna, 2012). Il
miasma è dunque una tintura, un’indicazione: in una
complicata commistione del piano reale e di quello
metaforico, il segno della colpa commessa avvelena l’aria,
causa un male fisico e diffuso in una popolazione innocente,
punisce in modo collettivo un riversamento di sangue, di cui
uno solo è responsabile: la morte di Laio. Apollo è il mandante
della pestilenza; Edipo, inconsapevole, in apertura di tragedia,
ne cerca la causa. Quando essa gli sarà svelata, egli perderà la
vista. L’equivalenza tra colpa e malattia è riaffermata.
Non sempre la malattia si concretizza in un oggetto; essa
può assumere le vesti di un animale o di un dio che penetra
nel corpo contro la volontà dell’uomo. La letteratura medica
ippocratica così come le sue riletture più tarde (da Galeno agli
autori bizantini) conservano esse stesse, a dispetto della
razionalità che le impronta, tracce significative del concetto
arcaico animale di malattia. Il vocabolario medico usato nei
testi del Corpus Hippocraticum per descrivere, per esempio,
l’andamento inarrestabile di alcuni tipi di ulcera evoca
direttamente il comportamento di un animale: le ulcere
“fagedeniche” divorano la carne degli ammalati, spostandosi
progressivamente verso nuove zone della cute, come un
animale che vada camminando nel corpo (De ulceribus Li. VI,

410, 2-3). Alcune secrezioni patologiche del corpo delle donne,


che sono caratterizzate da apparente capacità corrosiva,
“mordono e divorano” la carne, come fa un cane quando
azzanna (De morbis mulierum II, 122; cfr. Jouanna, 1988). Il
karkínos, la malattia che compare sul seno delle donne
assumendo la forma di un granchio di terra, con un corpo
centrale e ramificazioni laterali che assomigliano alle chele
dell’animale, deve il suo nome a un comportamento
patologico preciso: malattia di difficile estirpazione chirurgica
(saldamente attaccata alle carni, come se le chele del
granchio stringessero il corpo femminile), essa provoca
un’immediata e grave emorragia durante l’intervento, che per
questo è da Galeno sconsigliato; ha la peculiarità di spostarsi
nel corpo, riproducendo sé stessa in zone molto lontane da
quella dove il medico l’ha osservata la prima volta (metástasis,
spostamento). Nel farlo, essa si comporta come i ruminanti,
che divorano il prato su cui si muovono (némomai, verbo greco
che indica l’azione del brucare, viene usato nei testi medici
per descrivere il corpo consumato dall’interno da una
malattia migrante).

Infine, un dio o uno spirito possono invadere il corpo;


l’epilessia è, nelle fonti antiche, nota con il nome di “morbo
sacro”, essendo da ascrivere a fenomeni di possessione
divina. L’idea di possessione diabolica, per noi di più facile
comprensione, sebbene non del tutto confacente a spiegare il
modello concettuale antico, può essere utilizzata come
riferimento interpretativo.

Nelle tre forme che lo caratterizzano (corpuscolare, animale


o parassitario, demonico), il concetto ontologico di malattia
fornisce spiegazioni accettabili, in contesti arcaici, almeno per
le morti improvvise, per le epidemie, per la follia (Grmek,
1993); le frecce del dio colpiscono il giovane atleta nel pieno
delle forze e ne causano una morte altrimenti inspiegabile; le
frecce di Apollo colpiscono gli Achei o gli abitanti di Tebe,
causando il loimós; le frecce di Artemide uccidono le madri
durante il travaglio; le stesse divinità che, prendendo
possesso di un corpo umano, lo rendono adatto al vaticinio e
alla previsione del futuro (Cassandra o i sacerdoti dei molti
culti misterici greci e romani che prevedono la divinazione
come parte fondamentale del rito), possono causare perdita di
senno, follia, comportamenti insensati e aggressivi.
Se dunque un dio può inviare malattia, è a un dio che ci si
deve rivolgere per eliminarla. La richiesta di liberazione da
una colpa di cui si è più o meno consapevoli deve passare per
la dimora di una divinità o per un santuario di guarigione.

Medicina del dio, medicina degli uomini


La storia della medicina occidentale conosce una lunga fase
di coabitazione con la storia della religione, in Grecia e a
Roma come in altri contesti culturali antichi, soprattutto del
Vicino Oriente. Molte divinità, con ruoli e funzioni diverse in
relazione ai tempi e ai luoghi del culto, ne sono protagonisti.
In qualche caso si tratta di dei connessi a culti solari, come
Apollo, venerato con il nome di Alexíkakos (che allontana i
mali), Peone o Sminteo (Ilias V 401; 899); in altri, come per sua
sorella Artemide, di divinità lunari legate alla dimensione
ctonia e al mondo dei morti; ad alcune sono attribuite abilità
più ampie (Zeus è venerato in Atene come divinità
genericamente benefica e guaritrice a partire dal IV sec. a.C.;
Apollo può causare epidemie, follia e molti diversi tipi di
malattia); altre hanno incarichi più specifici, come Era, che
protegge la genitorialità e la riproduzione, o Artemide, dea
liminare della caccia, delle acque ferme e delle zone di
confine, cui sono affidate, sotto il nome di Limnatis, le fasi di
passaggio della vita biologica e sociale delle giovani donne
greche, e, con il nome di Ilizia, la protezione del parto. Il culto
di Artemide, in particolare se professato a Brauron o in altri
templi in cui si celebrano complessi culti iniziatici femminili,
è particolarmente connesso alla sfera del parto, in cui la dea
può proteggere le donne, ma anche punirle ove non abbiano
avuto comportamenti cultuali adeguati durante la gravidanza.
La morte durante il parto, molto frequente e molto temuta in
tutte le società antiche (in cui le bambine sono spesso
sottoalimentate rispetto ai coetanei maschi, con conseguente
difettoso sviluppo dell’apparato scheletrico che può
compromettere la buona riuscita delle nascite, specie quando
l’età della madre è molto giovane), viene attribuita alla
decisione della dea di colpire con frecce mortali i
comportamenti femminili scorretti.

In Attica, nella prima metà del V secolo a.C., anche Atena


era venerata come divinità guaritrice. In tutto il territorio
della Grecia continuavano, poi, a essere diffusi culti arcaici di
eroi cui venivano attribuite capacità taumaturgiche: Anfiarao,
eroe argivo, venerato a Tebe e nel santuario di Oropo; Halon,
leggendario allievo del centauro Chirone, ad Atene; Ippolito,
venerato a Trezene; e soprattutto Eracle, generatore e
protettore delle fonti di acqua calda, molto spesso connesse
alla dimensione della guarigione sacra, ricordato da Tucidide
(V, 66, 1) come titolare di un tempio di guarigione a Mantinea
e da alcune testimonianze epigrafiche menzionato con il
titolo di Alexíkakos. Il culto di Eracle, sovrapponibile in alcuni
tratti fondamentali a quello di Asclepio, è a più riprese
ricordato nell’opera di Elio Aristide anche per la sua capacità
di liberare i terreni paludosi dal miasma che causa le febbri
ricorrenti (Orationes LX, 31-32; Sacri sermones IV, 42-43; cfr.
Rigato, 2013).
Tuttavia, è senza dubbio Asclepio il dio protagonista della
sfera della guarigione sacra. Si tratta di un dio “giovane”, il cui
culto non è documentato prima del VI secolo e i cui templi
non sono edificati se non a partire dal V secolo a.C.; ad Atene
il tempio a lui dedicato viene eretto intorno al 420 a.C., forse
in conseguenza della drammatica epidemia che un decennio
prima aveva decimato la città. Probabile erede dei culti eroici,
Asclepio è ricordato nei cicli omerici come un semplice uomo,
il re di Tricca, padre di Podalirio e Macaone, guerrieri che
sanno curare, con i “dolci farmaci” che leniscono il dolore, le
ferite di guerra (Ilias II, 716-719). Come un mortale eroe lo
ricordano anche Ovidio (Fasti VI, 743) e Diodoro Siculo (IV, 71,
1-4). I primi testi che narrano la sua storia, una delle più
semplici e meno dibattute della mitologia greca, sono l’inno
omerico a lui dedicato, l’opera di Esiodo e la III Pitica di
Pindaro (474-473 a.C.). Esiodo sembra testimoniare la versione
più antica del mito, che viene variamente ripresa da autori
più tardi; secondo Pindaro (Pythica III, 8 ss.; V, 85-86), Pausania
(II, 26, 5), Igino (Fabulae CCII) e Ovidio (Fasti VI, 743), il dio è figlio
di Apollo e di Coronide, figlia del re dei Lapiti. Colta in
adulterio con il giovane Ischi, Coronide viene uccisa per
vendetta dalle frecce di Artemide; ma Apollo, vinto dai
rimorsi, riesce a far nascere comunque il piccolo Asclepio, con
l’aiuto di Ermes, e ad affidarlo al centauro Chirone, esperto di
erbe salutari e di rimedi terapeutici. Pausania (IX, 36, 1)
riferisce anche un’ulteriore versione del mito, accreditata
presso il principale luogo di culto del dio, Epidauro; questa
versione è del tutto dimentica dell’adulterio di cui si sarebbe
macchiata la madre di Asclepio. Egli sarebbe nato
naturalmente nel tempio dedicato ad Apollo a Epidauro,
sarebbe stato allattato da una capra e protetto da un cane
(Pausanias II, 26, 7). Un pastore, accortosi della luce
straordinaria che emanava dal bambino, ne avrebbe compreso
la natura divina.

Asclepio, in realtà, non è l’unico figlio di Apollo a essere


dotato del potere di guarigione: Apollonio Rodio (II, 509) narra
che Aristeo, figlio del dio e di Cirene, sarebbe stato anch’esso
allevato da Chirone e dalle Muse nell’arte medica e nella
profezia, e avrebbe dimostrato le sue capacità di guaritore
intervenendo nel sedare un’epidemia scatenata dall’ardere
della costellazione di Sirio sulle Cicladi. L’associazione tra
medicina e profezia avrà una parte importante anche nel
culto di Asclepio e continueremo a trovarne le tracce anche
nella medicina razionale ippocratica, in cui è visibile la
sostanziale continuità tra previsione mantica del futuro e
prognosi medica.

In tutte le versioni del mito, ad Asclepio vengono


riconosciuti un’eccezionale competenza nella guarigione e un
tratto accogliente e benefico; questo lo distingue dagli altri dei
e dallo stesso padre Apollo, in grado di curare come di inviare
malattie e sofferenze. La connessione di Asclepio con molte
divinità del pantheon greco maggiore è più volte dichiarata:
Atena in persona gli avrebbe donato due fiale contenenti il
sangue di Medusa (Diodorus Siculus V, 74, 6). La fiala che
contiene il sangue tratto dalla parte sinistra della Gorgone
risuscita i morti; quello proveniente dalla parte destra
procura, invece, la morte. Asclepio, il cui epiteto è sotér, il
salvatore, preferisce usare la fiala benefica, e così facendo in
breve tempo svuota il regno di Ade, dove non arrivano più
morti. L’intervento di Zeus, che uccide Asclepio con un
fulmine per ristabilire l’ordine del tempo e della natura,
sancisce l’inizio del culto, inizialmente eroico e connesso alla
sfera ctonia, e solo in un secondo momento associato alla
sfera apollinea e solare. Esso si diffonde rapidamente in molte
città della Grecia e delle province in associazione con i templi
e i rituali solari; a Delfi, Epidauro e Delo i culti di Apollo e di
Asclepio sono a lungo associati, e i templi del figlio, che
spesso sorgono sulle vestigia di santuari apollinei, continuano
per secoli ad accogliere altari dedicati al culto del padre.

Il culto si istituzionalizza a partire dalla fine del VI secolo


a.C., dalla Tessaglia sino a Epidauro, da Trezene a Egina, a
Corinto, a Sicione, Eletria, Delo, Argo, Sparta, Gythium,
Olimpia, Cirene, Atene, Lebena, Creta, Eleusi, Pergamo, fino
all’isola di Kos, dove proprio in stretta connessione con le
attività di un magnifico e scenografico tempio digradante sul
mare si svilupperà tra V e IV secolo a.C. la medicina
ippocratica. Epidauro è città protagonista del culto per un
lunghissimo arco di tempo; se in Tessaglia, a Tricca, sembra
essere stato eretto il primo tempio dedicato ad Asclepio
(Strabo IX, 5, 17), è a Epidauro che l’Apollo di Delfi riconosce
una “priorità” secondo la testimonianza di Pausania (II, 26, 7).
Qui il culto si organizza in una struttura architettonica
complessa, con teatro, piscine e bagni termali, altari e ospizi
per i visitatori, locali di servizio per i sacerdoti del dio, fosse
impiegate per lo svolgimento dei sacrifici. La struttura del
tempio di Epidauro ha fornito il modello di costruzioni
templari successive, e da Epidauro il culto è stato importato,
per filiazione diretta, a Pergamo e a Roma nel III secolo a.C. A
Roma il culto sarebbe arrivato intorno al 293 a.C., quando
un’ambasceria viene inviata fino a Epidauro per ottenere il
responso su una violenta epidemia che flagella la città. Dalla
nave degli ambasciatori, approdata all’Isola Tiberina, sbarca
un serpente, epifania del dio, che sull’isola costruisce il suo
nido, manifestando così la volontà di Asclepio di essere
ospitato a Roma (Ovidius, Metamorphoses XV, 622 ss.; Livius X,

47, 7). Un tempio viene effettivamente costruito sull’isola,


fuori dal pomerio in modo da segnalare l’origine straniera del
dio (Plinius, Naturalis historia XXIX, 6) e abbastanza vicino al
tempio di Apollo medico, eretto intorno al 433 per arginare
una precedente ondata epidemica (Livius IV, 25, 3-5).

In tutta l’oikouméne classica il culto di Asclepio ha


caratteristiche comuni e costanti. I templi sorgono in luoghi
quieti e isolati. Gli ammalati vi entrano portando piccole
offerte in natura: cibo, focacce impastate con il miele, animali
destinati al sacrificio; talvolta, nei templi di maggiore
dimensione, potevano essere richiesti pagamenti in monete
che, depositate in contenitori spesso forgiati in forma di
serpente, andavano a costituire il thesaurós del tempio.
Potevano essere offerti al dio ex voto, manufatti spesso di
bassa qualità tecnica e di materiale umile (terracotta), che
riproducevano parti del corpo umano. Questi oggetti potevano
raffigurare la zona anatomica per la quale veniva richiesto
l’intervento del dio, ma spesso è possibile ipotizzare un loro
significato simbolico, in alcuni casi non del tutto chiarito
dall’interpretazione archeologica. I templi erano sempre
connessi a boschi lustrali e a fonti d’acqua per i riti di
purificazione; a Epidauro la necessità di essere puri era
addirittura incisa su una stele, che recava il monito «Puro
deve essere chi entra nell’odoroso tempio; essere puri vuol
dire avere pensieri sacri» (Porphyrius, De abstinentia II, 19).

Le strutture più complesse, oltre ad avere un altare e una


zona riservata ad Asclepio, disponevano di enkoiméteria
(dormitori), di locali comuni destinati alla convivialità, e
soprattutto dell’ábaton (“zona inaccessibile” del tempio), nel
quale i malati venivano accolti per la parte centrale e
fondante del rito di guarigione: il sonno sacro. Durante il
sonno, favorito da rituali e pozioni somministrate dai
sacerdoti, il dio guariva in modo immediato o, più
frequentemente, forniva indicazioni sulle terapie e gli stili di
vita da adottare una volta usciti dal tempio. Le guarigioni
erano attestate dai pínakes, lastre di marmo o di pietra sulle
quali i fedeli facevano incidere scenette sintetiche di miracoli
e guarigioni, in qualche caso corredate del loro nome e del
rendimento di grazie. Pausania (II, 27, 3), nel II secolo d.C.,
narra di aver visto nel suo viaggio a Epidauro sei steli, sulle
quali erano incisi, in dialetto dorico, i nomi dei guariti dal dio,
la malattia di cui soffrivano e le modalità della cura. Le steli,
in origine più numerose, raccoglievano il frutto dello spoglio
sistematico dei pínakes ed erano il risultato di stesure
sacerdotali collettive, una sorta di protoarchiviazione di
artefatti di minor valore, le tavolette dei fedeli in argilla o
legno, sulle quali i sacerdoti intervenivano in senso
migliorativo per esaltare le capacità di guarigione di Asclepio
e l’efficienza del tempio.

Le collezioni di casi clinici che ci sono così pervenute hanno


datazioni variabili: dalle più antiche, come quella di Epidauro
del IV secolo a.C., alle più recenti dei templi di Frigia e di Lidia,
che arrivano alle soglie del III secolo d.C., esse costituiscono
una delle fonti privilegiate a nostra disposizione per
comprendere quali fossero le reali modalità di esercizio del
culto di Asclepio, quali i rituali di cura, quali i pazienti che si
rivolgevano al dio e quali le relazioni esistenti tra medicina
dei templi e medicina razionale di Ippocrate. Infatti,
contrariamente a quanto si sarebbe portati a credere, la
storiografia medica ha abbondantemente dimostrato che non
è mai esistita una reale contrapposizione tra esercizio della
medicina razionale e pratiche templari di guarigione, ma anzi
uno scambio continuo di competenze e una mimesi continua
tra dimensione sacra e dimensione laica della guarigione
caratterizzano la cura in antico (Edelstein, Edelstein, 1945;
Longrigg, 1993). Le collezioni di Epidauro e Lebena parlano,
per esempio, molto frequentemente un linguaggio simile a
quello della medicina contemporanea e simulano interventi
del dio molto simili a quelli descritti nei testi ippocratici;
poche prescrizioni sono totalmente irrazionali, quasi tutte
sono invece concepite all’interno dello spirito “scientifico”
della medicina; il dio opera come un esperto chirurgo o un
accorto farmacopola; le sostanze vegetali e animali utilizzate
come terapie nei templi sono rimedi validi anche nei testi di
Ippocrate; la stessa forma logica degli iámata, le storie cliniche
attestate dall’epigrafia (Girone, 1998), si sovrappone spesso
con le modalità di descrizione in uso nei testi clinici e
chirurgici del Corpus Hippocraticum. Le iscrizioni dei templi,
raccolte nei cataloghi, insomma, sembrano rappresentare una
forma “letteraria” pseudomedica, spesso mimesi del
linguaggio, dei modelli e delle formule dei libri di medicina.
Questo accade, con ogni probabilità, per accaparrarsi una
fetta di “mercato sanitario” oscillante tra i due estremi di una
multistrategia della guarigione (sarà più efficace e più a buon
mercato Asclepio o l’allievo di Ippocrate?); ma anche perché la
medicina sacerdotale, al pari di quella razionale, sente la
necessità di distinguersi, in modo netto, dalle pratiche
magiche e catartiche degli incantatori, oggetto di un
violentissimo attacco da parte dei medici ippocratici nel
trattato Sul male sacro (Angeletti, Gazzaniga, 2002).

Tuttavia, malgrado questa evidente connessione tra


medicina degli dei e medicina degli uomini, il rituale di
Asclepio conserverà a lungo, fino all’estinzione dei culti di
guarigione nella tarda antichità, il suo originario legame con il
racconto del mito. Nelle pratiche di guarigione, un posto
particolare doveva rivestire l’impiego degli animali sacri al
dio, il serpente e il cane, compagni del dio nell’iconografia di
Asclepio soprattutto nella monetazione; essi sono antiche
immagini ctonie, connesse alla fase antica del mito in cui il
dio esercitava poteri estremi che gli derivavano dal mondo dei
morti. Il carattere infero consente al dio, in alcune zone
(Eleusi) e per periodi di tempo limitato, di coabitare con
Demetra e Kore negli stessi spazi sacri e fa sì che ricorrere a
lui significhi riacquisire fertilità e talvolta, come accade per
Ippolito resuscitato, anche vivere di nuovo (Igynus, Fabulae
XLIX). Il serpente, in particolare, è animale portatore della
duplice valenza simbolica di morte e vivificazione, esplicitata
dalla muta della pelle. In molte culture del Mediterraneo e del
Vicino Oriente antico, esso è sacro perché in contatto con il
mondo infero, di cui trasmette al mondo mortale la forza per
il continuo suo contatto con la terra, da cui si genera e a cui
torna in tane sotterranee. Nella tradizione mitologica
dell’Egitto antico è l’animale simbolo di Iside, la dea della
restitutio ad integrum e degli inferi; nella Tebe arcaica i serpenti
sono ritenuti incarnazione delle anime dei re; in tutta la
Grecia si spargono libagioni di latte sulle tombe per le anime
dei morti reincarnate in serpenti; Enea alla tomba di Anchise
consegna i cibi sacrificali a un serpente maculato. Il serpente
è inoltre simbolo di fecondità e di rinnovamento della vita; il
suo andamento a spirale e la flessuosità del suo corpo, che si
può richiudere su sé stesso, sono simbolo della ciclicità
dell’esistenza; è in tutto il bacino del Mediterraneo, in
particolare a Creta, un attributo delle dee madri; è animale
sacro a Demetra, il cui rito prevede di gettare un serpente
nella caverna, simbolo del fallo che penetra nella madre terra
(Warburg, 1939). L’animale è, insomma, simbolo di vita
rinnovata e di ritorno al mondo dei morti, segno di una
ciclicità che accompagna bene il culto del dio guaritore.
Alcuni miti minori narrano che Asclepio avrebbe appreso la
capacità di risanare e resuscitare proprio da un serpente che,
ucciso dal dio mentre stava per aggredirlo, sarebbe stato
resuscitato da un altro serpente che gli avrebbe infilato in
bocca una pozione miracolosa.

La lotta contro la morte è il focus attorno a cui si organizza il


tempio di Asclepio; non a caso, morenti e partorienti sono le
uniche categorie che la legge sacra esclude dall’ingresso nel
tempio. Non è consentito profanare la casa della guarigione
con il miasma mortale: solo in epoche tarde i sacerdoti di
Epidauro permetterano la creazione di porticati protetti dove
accogliere coloro che, in pericolo di vita, nonostante un lungo
viaggio non potevano proprio essere ricevuti alla presenza del
dio medico.

Caso clinico o ipocondria? Elio Aristide e la guarigione


a Pergamo
Le testimonianze archeologiche, costituite dai resti
architettonici dei templi, dalle loro decorazioni, dalle steli e
dal materiale epigrafico, dagli ex voto, dalle (poche) statue del
dio e dalle monete, gettano una luce ancora parziale sui riti di
guarigione. Soprattutto questo tipo di fonti non può essere in
grado di dare voce alle sofferenze dei pazienti che si recavano
al tempio nella speranza di un intervento miracoloso del dio.

A questo vuoto testimoniale supplisce, in modo molto


soddisfacente, una fonte tarda ma privilegiata: quella dei
Discorsi sacri, opera di un retore greco, Publio Elio Aristide,
nato in Asia Minore nel 118 d.C. e morto dopo il 180, anno cui
risalgono le ultime notizie sulla sua vita (Nicosia, 1984). I
Discorsi sacri sono la cronaca di dieci anni trascorsi dal retore,
a partire dal 143/145, all’interno del tempio di Asclepio a
Pergamo; non sappiamo in quale anno essi siano stati
esattamente scritti, ma l’ultimo evento storico che citano con
chiarezza è la peste del 165 d.C. Elio Aristide affida ai Discorsi
la narrazione della sua malattia e della cura del dio che egli
stesso sceglie da prigioniero volontario nel tempio. Non si
tratta di una malattia vera e propria, ma di una serie
imponente di sintomi e di sindromi che si accavallano e si
succedono nel corpo e nella mente di un uomo ammalato
principalmente di disagio esistenziale. Elio Aristide
sperimenta su di sé e poi racconta, per ordine del dio, tutte le
strategie terapeutiche della medicina teurgica e, così facendo,
ci offre un punto di vista privilegiato (è un uomo colto e
famoso) sia sulle tecniche utilizzate a Pergamo, sia sul vissuto
psicologico di guarigione nel tempio.

Da Elio Aristide sappiamo che Asclepio ha una


comunicazione privilegiata con i suoi pazienti attraverso i
sogni, che le sue indicazioni possono essere comunicate
direttamente agli ammalati durante il sonno, ma anche rilette
e interpretate dai sacerdoti al momento del risveglio, che i
sacerdoti in qualche caso assumono il titolo di iatrói (medici),
confermando in questo modo gli stretti legami che
connettono, ancora in epoca imperiale e spesso in modo
diretto, dimensione sacra e razionale della guarigione.
L’epigrafia, infatti, documenta sia la presenza di medici attivi
all’interno di contesti di culto, soprattutto in epoca imperiale,
sia il caso di medici insigniti del titolo di sacerdoti di Asclepio,
come Caio Stertinio Senofonte, curante di Claudio e Nerone,
servitore del dio a Kos (Rigato, 2013, p. 509).

La cronaca dei lunghi anni di dialogo con il dio ci


documenta l’esaltazione di una tecnica, quella
dell’interpretazione dei sogni, di cui sopravvive testimonianza
anche nelle fonti mediche da Ippocrate (Corpus Hippocraticum,
Regimen 4) fino a Galeno e ad Artemidoro;
contemporaneamente, l’opera di Elio Aristide testimonia una
strategia terapeutica di successo, basata sull’adozione di stili
di vita e sull’assunzione di blandi rimedi vegetali come
farmaci. In genere, le prescrizioni del dio sono ragionevoli
(gargarismi nel caso di mal di gola, dieta liquida e vegetale per
la costipazione) e non si discostano molto da quelle dei
medici ippocratici, malgrado il fatto che Asclepio in persona
sconsigli il suo paziente dal riporre fiducia nell’operato dei
medici: grande attenzione alla dieta intesa come stile di vita,
all’alimentazione e alle bevande, all’attività fisica e ai bagni
caldi e freddi. Talvolta, il dio si impunta su ordini che
appaiono poco ragionevoli: bagnarsi ripetutamente in acque
fredde in inverno e correre coperto di fango all’aria gelida, o
affrontare estenuanti fatiche fisiche che poco paiono essere
adatte alle tante denunciate sofferenze dell’ammalato. Ma il
dio non sbaglia; la cieca fiducia del retore nel suo operato
viene di solito premiata da successo terapeutico. Anche
quando le prescrizioni appaiono più simili a una vera
psicoterapia, come nel caso dell’obbligo imposto al paziente a
partecipare a cori e scene musicali, Elio Aristide non è mai
deluso.

Il suo lavoro, esempio completo di un vero e proprio “genere


letterario incubatorio”, è il frutto tardo della tradizione della
“scrittura” nel tempio, attestata da iámata e pínakes; se
l’Asclepio dei primi secoli del culto imponeva la celebrazione
non orale delle sue abilità per vincere la concorrenza dei
maghi e per attrarre fedeli verso uno o l’altro dei suoi templi,
l’Asclepio di Elio Aristide impone la scrittura come mezzo di
pubblicizzazione, atto a proteggere sé stesso da un declino
che comincia a vedere in avvicinamento.

Ma il mondo è veramente fatto di dei? Le risposte della


filosofia della natura
Quando il trattato Sull’antica medicina, di autore ippocratico
ignoto ma databile alla seconda metà del V secolo a.C.,
definisce le origini dell’arte medica e la sua filiazione,
sostiene che la medicina sarebbe nata, al pari della cucina, da
tentativi più o meno fortunati condotti, sulla base
dell’esperienza, attraverso l’impiego di alimenti, la cui forza
può essere utilizzata per mantenere la salute nei corpi sani e
per correggere la malattia in quelli difettosi. Lo sforzo del
trattato sembra essere quello di affermare che la medicina
possiede un suo peculiare metodo empirico e concreto, che si
contrappone ai postulati nello stesso tempo rigidi ed
eccessivamente semplificatori di quei filosofi e medici-filosofi
(in particolare Empedocle di Agrigento) i quali spiegano le
malattie solo attraverso l’impiego di qualità del tutto astratte,
tra cui caldo, freddo, secco e umido.

L’atteggiamento del trattato ippocratico riflette una lunga


storia polemica che sarà destinata a contrapporre medicina e
filosofia per molto tempo. Questa storia è ben documentata
all’interno del Corpus delle opere attribuite a Ippocrate che,
essendo state composte da autori diversi e in tempi diversi,
offre testimonianza di posizioni quanto mai varie nei
confronti della discussione filosofica precedente e
contemporanea. Malgrado la fiera dichiarazione di
indipendenza concettuale da religione e filosofia di alcuni
autori ippocratici, infatti, già un commentatore antico come
Celso, nel proemio del libro Sulla medicina, sostiene che filosofi
come Pitagora o Empedocle si sarebbero direttamente
interessati di medicina e che Ippocrate stesso può essere in
qualche modo ricordato come allievo di Democrito (Krug,
1990). La filosofia, in particolare quella nata nel VI secolo a.C. e
nota con il nome di filosofia della natura, ha dunque avuto un
ruolo nella genesi dell’atteggiamento razionale della medicina
ippocratica nei confronti del mondo fisico e vivente, delle sue
relazioni con una più estesa cosmologia e nella formulazione
di una “nuova” antropologia?

La filosofia della natura, nata in terra di Ionia e ben presto


migrata, in seguito ai profondi rivolgimenti politici che
interessano la costituzione delle città greche, verso le colonie
della Magna Grecia, è infatti nella sua sostanza una
cosmologia, volta a trovare risposte a una comune domanda;
questa rappresenta il vero nucleo centrale di interesse ai fini
del chiarimento delle relazioni della filosofia ionica con la
medicina di un secolo più giovane. «Deve esserci in effetti una
qualche natura […] una o più di una, da cui si originano tutte
le cose, mentre essa si preserva» (Aristoteles, Metaphysica I, 3
983 b): la riflessione dei milesiani Talete, Anassimene e
Anassimandro (VI sec. a.C.), quella di Eraclito di Efeso,
Anassagora di Clazomene, Diogene di Apollonia, Empedocle
di Agrigento ed Alcmeone di Crotone, di Ippone e Filolao (V
sec. a.C.) è incentrata sulla possibilità di reperire un principio
sensibile, comune a tutto il mondo vivente, che possa essere
cronologicamente indicato come il primo generatore degli
altri elementi di cui è composto il mondo. Non più, dunque,
una ricerca favolistica delle origini del cosmo nelle storie degli
dei, ma un’indagine su archái elementari, principi primi
conoscibili soprattutto attraverso i sensi. Le risposte di questi
autori, a cavallo tra VI e V secolo a.C., sono varie: per Talete e
Ippone l’acqua, principio vivificatore senza il quale non è
possibile la vita, per Anassimene l’aria, per Eraclito e Filolao il
fuoco, per Empedocle una mistura dei quattro elementi
essenziali: aria, acqua, terra e fuoco. In realtà, per quanto è
possibile sapere di una riflessione complessa che ci è
pervenuta solo in pochi frammenti o nell’opera di pensatori
più tardi (molto grazie ad Aristotele), il monismo che viene
tradizionalmente attribuito ai filosofi della natura deve essere
inteso fondamentalmente come indicazione di una priorità di
genesi (qual è il “primo” elemento a generarsi nella natura, da
cui poi si generano gli altri?) e il pensiero dei physiológoi –
prima della fine del V secolo, quando, sia nella riflessione
filosofica sia in quella medica, sono fissati in quattro gli
elementi (aria, acqua, terra, fuoco) e in quattro le qualità
fondamentali (caldo, freddo, secco, umido) utili a spiegare il
mondo sensibile – è meno rigido di quanto la critica
dell’autore di Sull’antica medicina tenda polemicamente a
mettere in luce. L’idea dell’indistinzione originaria degli
elementi e della possibilità della loro trasformazione l’uno
nell’altro, per esempio, sembra essere comune a più di un
filosofo della natura e tutti sembrano aver riconosciuto un
ruolo fondamentale alla coppia caldo e freddo, ritenuti i
motori della trasformazione della materia vivente (Giurovich,
2004).

La riflessione della fisiologia, pur configurandosi – si è detto


– principalmente come cosmologica, tocca in alcuni casi
territori di interesse “medico”: Empedocle, nella sua
speculazione sul fuoco come primo costituente del mondo
naturale, si concentra sul sangue come equilibrata mistura di
terra, fuoco, acqua e aria (DK 31 B 98) e sul calore come motore
dello sviluppo e della crescita dell’uomo (DK 31 A 85); Ippone
avrebbe attribuito all’umido un ruolo non solo vitale, ma
anche patogenetico; Democrito avrebbe discusso la natura e
l’origine del flegma, umore costitutivo del corpo umano;
Anassagora si sarebbe interessato delle qualità della bile (DK
59 A 105); Filolao di bile e flegma. In molti di questi autori,
dunque, sembrerebbe coesistere una spiegazione
monoelementare della realtà naturale con un abbozzo di
teoria umorale. In particolare, un rilievo importante per la
medicina sembrano aver rivestito il pensiero di Alcmeone di
Crotone (fine VI-inizi V sec. a.C.) e quello di Empedocle di
Agrigento (495-435 a.C.); per quest’ultimo sono ben
testimoniate, al di là della sopravvissuta riflessione filosofica,
una competenza e forse un’attività medica.

Di Alcmeone è discussa già nelle fonti antiche


l’appartenenza alla cerchia pitagorica; Aristotele ci dice che
«fiorì quando Pitagora era vecchio» (Metaphysica V, 986 a 22).
Forse attraverso saltuarie esperienze di dissezione animale, o
semplicemente attraverso l’osservazione del lavoro dei
macellai, egli avrebbe elaborato una teoria della sensazione,
della quale ci parla Teofrasto: gli organi di senso, a esclusione
del tatto del quale Alcmeone non si sarebbe occupato,
funzionerebbero per connessione diretta di póroi (canali) con il
cervello, primum vivens del corpo e organo centrale dei
processi fisiologici (DK 24 A 5 e A 6). Le attività del cervello
fondano la distinzione tra sensazione, tipica degli animali, e
pensiero, proprio solo all’uomo; al cervello è connessa la
produzione di sperma e di midollo e al cervello si devono, per
ricezione degli stimoli che arrivano dall’elemento igneo e
acquoso contenuto nell’occhio, i processi di visione.
Alcmeone pare essere, dunque, uno dei primi
encefalocentrici. Un ruolo importante deve aver rivestito nel
suo pensiero anche il sangue, alla cui ritrazione nelle vene
durante la notte si attribuisce la fisiologia del sonno e un
tentativo di spiegare la morte (Perilli, 2001).
Di Alcmeone sono documentati altresì un interesse
embriologico e una discussione sulla priorità di formazione
degli organi nel feto, sulle modalità con cui il feto si alimenta
in utero (assorbendo cibo da tutto il corpo, come fosse una
spugna), sul contributo anche femminile ai processi di
generazione. Un altro breve suo frammento “epistemologico”
attribuisce agli dei la conoscenza immediata e sicura della
realtà, mentre agli uomini rimane la sfera del tekmaíresthai
(congetturare), del sapere che procede faticosamente, per
gradi e nel tentativo di costruzione di un ordine nella realtà
fenomenica (DK 24 B 1).

Ma il testo che forse riveste più significato per la medicina è


quello in cui è contenuta la prima definizione di salute e
malattia in termini di equilibrio/squilibrio delle qualità
fondamentali:

Ciò che mantiene la salute è l’equilibrio delle potenze: umido secco,


freddo caldo, amaro dolce e così via, invece il predominio di una di
esse genera malattia perché esiziale è il predominio di un opposto
sull’altro. E malattia può aver luogo: quanto alla causa agente, per
eccesso di caldo o freddo; quanto al motivo occasionale, per pienezza
o scarsezza di cibo; quanto alla sede, o nel sangue o nel midollo o nel
cervello. Altre se ne aggiungono dovute a cause esterne, come a certe
qualità di acque, o ai luoghi, o a fatiche, o a violenze, o ad altre cose
simili. Invece la salute è mescolanza proporzionata delle qualità (DK 24
B 4).

Nel testo, pervenuto attraverso Aezio, si leggono sia


l’influsso dell’idea ionica che i principi della natura si
configurino come coppie dinamiche di contrari, sia la ricerca
di stampo pitagorico dell’armonia intesa come ricerca di
rapporti equilibrati tra elementi diversi e opposti, simili a
quelli da cui si genera la musica. Entrambi i temi avranno
forte risonanza nella riflessione ippocratica; ma soprattutto
significativa è l’idea di salute come isonomía, equilibrio tra le
varie dimensioni che caratterizzano il reale, di cui il corpo
dell’uomo è riflesso. Il termine, di derivazione aristocratica,
indicava in origine la divisione equa della terra, tipica delle
costituzioni che si oppongono alla tirannide; esso si ritrova
nella riflessione politica e in Erodoto (III, 80-88), che lo intende
come parità di diritti e doveri. La malattia si genera dunque
per conflitto degli elementi, come in una costituzione in cui
l’uno domini sui molti (monarchia); la dieta e la relazione con il
mondo esterno ne sono causa. Molte sono le assonanze con le
teorie espresse in alcuni dei più significativi trattati
ippocratici, da Sull’antica medicina a Sulla natura dell’uomo a
Sulle arie, acque e luoghi.

Empedocle di Agrigento sarebbe stato autore di almeno due


opere di medicina, una in prosa e una in versi; è l’autore
attaccato da Sull’antica medicina per il carattere altamente
speculativo della sua riflessione. Oggetto di critica anche
tarda della medicina (ancora Galeno lo segnala come il più
importante rivale della scuola di Kos), avrebbe curato diverse
e gravi epidemie grazie alla conoscenza del ruolo
eziopatogenetico dei venti insani e delle acque pestilenziali
che gli avrebbe consentito di tamponare, con pelli di animale,
le mura della città là dove poteva insinuarsi il miasma
(Jouanna, 2000, p. 267). Ma soprattutto a Empedocle si deve la
capacità di saldare cosmogonia e corporeità dell’uomo in un
unico armonioso sistema: mondo esterno e interno del corpo
sono composti da quattro elementi – aria, acqua, terra e fuoco
– che si associano in proporzioni diverse a generare sangue,
carne, ossa, organi. Il sangue è in questo sistema il perfetto
bilanciamento dei quattro elementi e il suo calore è alla base
dei processi fisiologici di crescita, di digestione, di
alimentazione del feto, di respirazione. Universo sensibile e
mondo dell’uomo sono dunque conoscibili attraverso le
stesse leggi; l’ostilità degli autori ippocratici non nasconde del
tutto un debito che, se non è di metodo, è di sostanza. Il
flusso scambievole tra sapere dei filosofi e sapere della
medicina, in cui vanno e tornano, anche in modo polemico,
linguaggi, concetti biologici ed embriologici e ipotesi
fisiologiche testimonia uno scambio vitale e vivace, in cui
speculazione e osservazione alternano i loro ruoli per tutta la
durata dell’antichità. Gli dei hanno cessato di influire sulla
salute degli uomini e le malattie – come Esiodo racconta nella
storia di Pandora (Opera et dies 69 ss.) che, vinta dalla curiosità,
apre il vaso che contiene i mali del mondo – hanno
tristemente iniziato a camminare sulla terra da sole
(autómatoi) senza che una volontà più alta le muova.

Svanisce così l’azione del dio: nascita del concetto


razionale di malattia
Circa il male cosiddetto sacro, questa è la realtà. Per nulla – mi sembra
– è più divino delle altre malattie o più sacro, ma ha struttura naturale
e cause razionali: gli uomini tuttavia lo ritennero opera divina per
inesperienza e stupore, giacché per nessun verso somiglia alle altre
[…]. Ma se per quanto ha di meraviglioso questo male è ritenuto
divino, molte allora saranno le malattie sacre e non una soltanto, ché
io mostrerò altre che non sono meno meravigliose né straordinarie, e
che pure nessuno ritiene essere divine. […] In verità io ritengo che i
primi a conferire carattere sacro a questa malattia siano stati uomini
quali ancor oggi ve ne sono, maghi e purificatori e ciarlatani e
impostori […] costoro presero il divino a riparo della propria
sprovvedutezza […] e affinché la loro totale ignoranza non fosse
manifesta, asserirono che questo male era sacro. […] non è più il dio la
causa, né le purificazioni la cura, ma sono i cibi che giovano o
nuocciono, e svanisce così l’azione del dio (De morbo sacro 1-2, trad. it.
M. Vegetti, 19762).

Questo passo è tratto dai primi capitoli del breve trattato


ippocratico Sul male sacro, forse opera dello stesso autore del
manuale di geografia medica Sulle arie, acque e luoghi, con cui
condivide l’idea che le malattie pertengano alla sfera umana e
non siano dovute all’azione degli dei; entrambi i testi sono
certamente ascrivibili alla scuola di Kos e datati all’ultima
metà del V secolo a.C. Le idee che vi sono espresse
costituiscono la bandiera della prima vera rivoluzione che
investe la medicina in Occidente. Essa si compie sull’isola di
Kos, tra V e IV secolo a.C., con la fondazione della prima scuola
medica e la stesura dei primi testi scientifici greci a opera di
Ippocrate, discendente di una famiglia di sacerdoti di
Asclepio.

Il trattato, forse dello stesso Ippocrate e comunque prodotto


di una cerchia intellettuale a lui molto vicina, si apre con una
polemica violenta contro coloro che spiegano gli attacchi di
epilessia come manifestazioni del volere di una divinità, sulla
quale si può intervenire con atti ritenuti sacri, con magia,
purificazioni e incantamenti. Altri trattati del Corpus
testimoniano lo stesso atteggiamento: la malattia che altri
dicono sacra deve essere spiegata facendo ricorso solo al
mondo della natura, e gli dei che di volta in volta sono
accusati di averla provocata non hanno con l’uomo relazione
causale in termini di malattia. L’autore del Male sacro non
esita a definire ciarlatani e impostori coloro che la pensano in
modo diverso; né a sostenere con forza che nessuna malattia
può essere definita sacra, nemmeno quella che si manifesta
con violente crisi convulsive, la cui natura è razionalmente
spiegabile, al pari di quella delle febbri terzane e quartane o
degli attacchi di follia. L’epilessia si spiega, infatti, solo come
patologica sovrapproduzione di uno degli umori che
costituiscono il corpo, il flegma, che si genera nel cervello in
quantità eccessive per riscaldamento o per raffreddamento
improvvisi. Lo stimolo che innesca la patologia è l’esposizione
degli ammalati a venti portatori di qualità fredde o calde
eccessive, dunque patogene. Il flegma, poi, che per natura è
elemento freddo e umido, scendendo dal capo verso le altre
parti del corpo va a occupare i canali abitualmente destinati a
raccogliere sangue (elemento caldo e umido), i quali al
contatto con la qualità fredda si contraggono violentemente,
dando origine alle crisi. Nella spiegazione ippocratica non
rimane alcun posto in cui possano abitare divinità
dall’aspetto e dai comportamenti umani; in questo senso, si
diceva, il trattato presenta molte affinità con quello Sulle arie,
acque e luoghi, in cui l’impotenza tradizionalmente attribuita a
parte della popolazione degli Sciti viene spiegata non con il
desiderio vendicativo di Afrodite di punire il saccheggio di un
suo tempio in Palestina, ma in base all’osservazione che è
costume di quella popolazione cavalcare a lungo e senza
usare sella, comportamento che lesiona i condotti in cui
circola lo sperma.

Il razionalismo, che è la cifra dominante dei trattati


attribuiti a Ippocrate di Kos, attacca qui più la medicina
magica che non quella dei templi di Asclepio; sono definiti
truffatori coloro che, con sacrifici di sangue e altri riti di
oscura natura e dubbia efficacia, pretendono di curare gli
ammalati, e così li ingannano. Essi sono doppiamente
colpevoli perché, avocando a sé una magica capacità di
guarigione, peccano di empietà e tentano di prendere il posto
degli dei; perché sono ignoranti, e la loro mancata
comprensione dei meccanismi di azione naturale per cui si
verifica la malattia impedisce, di fatto, che malati curabili
siano trattati con rimedi appropriati, che consentirebbero loro
di guarire. Il cibo e le bevande, che vengono dal mondo
naturale e che pertanto condividono con il corpo dell’uomo
essenza e modalità di azione, possono essere utilizzati come
cura, secondo il principio per cui una forza antagonizza la sua
contraria; la scelta del tempo opportuno di somministrazione
della cura aiuta il medico nella vittoria contro il male (De
morbo sacro 18). L’autore ippocratico delinea, a conclusione del
suo trattato, alcuni caratteri di fondo della medicina praticata
e insegnata a Kos: una concezione di corpo come contenitore
di liquidi/umori, ognuno portatore di determinate qualità;
l’idea che nella sovrapproduzione di un umore, causata da
interazione con il mondo esterno, stia la malattia; la terapia
dei contrari (eccesso di caldo si corregge con
somministrazione di freddo; eccesso di freddo si riduce con
riscaldamento del corpo ecc.); la ricerca dell’opportunità e del
giusto mezzo (la scelta del momento terapeutico;
l’appropriata capacità di intervento); la capacità di
riconoscere elementi divini non in vuoti simulacri ma nella
sola physis (natura), che dispone di forze non controllabili
dall’uomo, dalle quali bisogna imparare a difendersi (il clima,
i venti, la qualità delle arie e delle acque). Come fa notare
Jacques Jouanna (1993), il razionalismo di Ippocrate e della
sua scuola non è totalmente sovrapponibile a quello che
caratterizza il riduzionismo culturale della nostra era; il théion
(divino) continua a esistere e si manifesta nel mondo in cui
l’uomo si muove e nel cosmo che lo accoglie. Sono uomini
colpevoli di ciarlataneria a dipingere gli dei come feroci
vendicatori attraverso il male fisico; gli dei benevoli, come
Asclepio, non solo non costituiscono un problema per l’autore
ippocratico, ma sono chiamati, solennemente e in incipit, a
proteggere il Giuramento sacro che la nascente corporazione
deve pronunciare per diventare tale.

Chi è questo Ippocrate a cui vuoi dare un compenso?


Il ruolo svolto da Ippocrate di Kos nella storia della
medicina antica è destinato a condizionare gli sviluppi futuri
dell’arte medica per un periodo di tempo molto esteso, che
perdura almeno sino ai primi tentativi di mettere in crisi
alcuni paradigmi fondanti il suo pensiero e il suo
insegnamento, tra la fine del XV e gli inizi del XVI secolo
(Paracelso e il suo rifiuto del paradigma umorale di malattia;
Andrea Vesalio e la sostituzione del paradigma del “corpo
cavo” con quello di “corpo anatomico”; Girolamo Fracastoro e
il tentativo di spiegare alcune malattie trasmissibili al di fuori
dell’idea ippocratica dell’aria corrotta come causa di
malattia). La lunga e fortunata durata del pensiero ippocratico
giustifica il sorgere e il rimanere in vita di una biografia
leggendaria – e come tale non sempre veritiera – che, dalla
prima Vita di Ippocrate attribuita a Sorano d’Efeso (un medico
metodico vissuto a Roma tra I e II secolo d.C.) alle Epistole
attribuite o indirizzate al maestro di Kos (I sec. a.C.-I sec. d.C.),
ai molti accenni sparsi nell’opera di Galeno di Pergamo, alla
voce enciclopedica dedicata a Kos scritta da Stefano di
Bisanzio (fine V-inizi VI sec. d.C.), sino al lessico bizantino Suda
(X sec.), ha tramandato un profilo “eroico” e in parte
immaginario del fondatore della medicina razionale. Alcuni
episodi di lui narrati sono falsi o confondono i fatti storici,
come la notizia che avrebbe curato la peste di Atene
attraverso l’accensione di fuochi in grado di purificare l’aria
(avrebbe invece curato un’epidemia tra 419 e 416) o che
avrebbe guarito il re macedone Perdicca da una grave malattia
d’amore; altre notizie, cronologicamente plausibili, sono però
incerte, come quella secondo cui egli si sarebbe recato ad
Abdera, invitato dai suoi abitanti, per curare Democrito della
sua pazzia, trovando il filosofo immerso tra libri e resti di
animali dissezionati nel tentativo di comprendere il ruolo
della bile nera nella malinconia; o, ancora, la notizia secondo
cui avrebbe rifiutato di curare il re persiano Artaserse per
ragioni politiche ed etiche che gli avrebbero impedito di
mettere la sua competenza al servizio di un nemico dei Greci.
Alcuni dati certi sono pervenuti attraverso testimoni del
calibro di Platone, il quale nel Protagora e nel Fedro presenta
Ippocrate («Chi è questo Ippocrate a cui vuoi dare un
compenso?», Protagoras 311 b-c) come il fondatore di una
scuola di “nuova” medicina e l’ideatore di un metodo che basa
la conoscenza del corpo su quella della «natura del tutto»
(Protagoras 311 b-c; Phaedrus 270 c).

Tentare una biografia attendibile è quindi possibile. Nato


sull’isola di Kos nel 460 a.C., Ippocrate appartiene a una
famiglia di Asclepiadi, aristocratici discendenti in linea diretta
dal dio patrono della medicina attraverso i figli Podalirio e
Macaone, guerrieri medici che il racconto omerico colloca a
Ilio impegnati nella cura delle ferite di guerra degli eroi greci.
Erede di una dinastia di eroi con competenze mediche, cui per
merito era riservato addirittura un accesso privilegiato alla
consultazione del santuario dell’Apollo delfico, Ippocrate si è
certamente formato all’interno della sua stessa famiglia,
sebbene alcune fonti lo vogliano allievo, tra gli altri, di
Democrito di Abdera; il legame tradizionale con il culto di
Asclepio è attestato da fonti tarde (Plinio il Vecchio) che lo
vogliono colpevole di un “plagio” delle cure del dio descritte
nelle steli sacerdotali conservate all’interno del tempio di Kos,
cui Ippocrate, dopo averle copiate, avrebbe dato fuoco per
timore di essere scoperto. Avrebbe sposato una donna di
nobili natali, avendo da lei due figli maschi – Tessalo, inviato
come medico nella spedizione in Sicilia del 415-413, e
Dracone, che curò una grave epidemia in Ellesponto tra il 419
e il 416 – e una figlia femmina, divenuta celebre per essere
stata data in sposa a Polibo, uno dei primi allievi del padre,
autore del trattato Sulla natura dell’uomo, in cui è contenuta
l’esposizione sistematica della teoria fisiopatologica dei
quattro umori. Lasciata Kos alla volta della Tessaglia, spinto
da un sogno o forse solo dal bisogno di conoscere, la vita di
Ippocrate è caratterizzata da continui spostamenti, bene
attestati dalle storie cliniche narrate nei suoi trattati Sulle
epidemie, che riportano casi registrati in molte e diverse città
tessale, in Tracia, nella Grecia del Nord, fino a Cizico, in
Propontide. Sarebbe stato, insomma, un medico itinerante,
come molti altri Greci e secondo un costume attestato anche
dal trattato Sulle arie, acque e luoghi, che si prefigge di tracciare
una geografia medica utile a chi, per ragioni di lavoro, si trovi
costantemente a operare in zone diverse e sconosciute.
Sarebbe morto a Larissa, vecchio o vecchissimo, tra il 375 e il
351 a.C. La sua scuola avrebbe ottenuto precoce e duratura
fama in Grecia; Platone (Respublica V, 467 a; Protagoras 311 b-c)
e Aristotele (Politica 1326 a 14 ss.) si riferiscono a una realtà
consolidata, celebre e frequentata, organizzata con lezioni
pubbliche, cui era possibile accedere dopo versamento di una
quota di partecipazione. La stesura del Giuramento, attribuito
dall’antichità in modo pressoché concorde allo stilo di
Ippocrate, testimonia la necessità di controllare allievi di una
scuola che, non più solo composta da figli o parenti stretti
come nel momento della sua istituzione, deve fornire
certificazione di una qualità professionale e
comportamentale, in modo che non risultino danneggiati né il
buon nome dei suoi maestri, né quello dei colleghi che si sono
formati presso la stessa fonte culturale.

Le opere che vanno sotto il nome di Ippocrate sono circa


sessanta; in realtà la loro paternità è varia e la stessa loro
datazione copre un arco di tempo lungo, che dal V secolo a.C.
arriva, in qualche caso, sino al periodo ellenistico o romano.
Gli scritti sono stati raccolti in forma di collezione in epoca
alessandrina, con l’attribuzione del nome Corpus
Hippocraticum. Già i commentatori antichi hanno tentato di
ricondurre alcuni di questi testi alla mano di Ippocrate,
provando a distinguerli da quelli che potevano essere opera
dei suoi allievi più diretti, da quelli la cui datazione appariva
incerta o le idee espresse non perfettamente confacenti a
quelle del maestro. Disponiamo di un primo elenco di
attribuzione a opera di Eroziano, un glossatore del I secolo
d.C.; Baccheio di Tanagra, commentando il lavoro del suo
maestro Erofilo, avrebbe documentato quali opere venivano
ritenute del vero Ippocrate all’interno di uno degli ambiti
culturalmente più raffinati dell’antichità, quello di
Alessandria d’Egitto (Jouanna, 1992); anche Galeno, che non
esita a presentare sé stesso come vero erede della più pura
tradizione ippocratica, avanza proposte di attribuzione di
alcune opere al maestro, con motivazioni diverse, nel
tentativo di riferire a Ippocrate, come quasi tutti i
commentatori antichi, quanti più lavori possibile. La storia
della costituzione del Corpus Hippocraticum, con il tentativo di
individuare le opere che potevano essere effettivamente opera
di Ippocrate o dei suoi allievi diretti – come il genero Polibo
cui con ogni probabilità si deve uno dei trattati più
interessanti, Sulla natura dell’uomo –, ha appassionato la
filologia, che dall’Ottocento a oggi ha molto rimodellato il
nucleo dei testi ritenuti originali e ancora discute
dell’effettiva possibilità di attribuzione di alcuni dei lavori.

Considerare il Corpus Hippocraticum un’entità internamente


omogenea e coerente, dunque, non è possibile (Lloyd, 1975);
quando si parla di “medicina ippocratica” spesso si
compendia, per quanto si può, una grande varietà di
posizioni, di concetti e di idee di salute e malattia che
possono essere addirittura confliggenti. Alcuni testi sono
antichi, altri, per stile o per le nozioni anatomiche in essi
contenute (per esempio, un trattato Sul cuore), sono di certo
stati scritti dopo le esperienze anatomiche compiute nel III

secolo a.C. in Alessandria d’Egitto; alcuni trattati sono stati


impropriamente attribuiti al maestro di Kos per errori di
critica, altri sono dei voluti falsi; alcuni sono certamente
opera di un solo autore, altri sembrano composti da mani
diverse, o dalla stessa mano ma in periodi diversi; gli stili
narrativi e le caratteristiche grammaticali possono differire;
non tutti gli scritti fanno riferimento ai quattro umori ma
alcuni si limitano a considerarne due, il flegma e la bile;
alcune opere sono attribuibili a medici che effettivamente
sembrano aver praticato la loro arte, altre mostrano una
spiccata matrice filosofica e certamente non hanno
connessione con un’effettiva pratica clinica; alcuni sembrano
il prodotto culturale della scuola di Kos, altri di ambiti diversi.
La supposta esistenza di una “scuola di Cnido” (Galenus, De
methodo medendi I, 1), che sarebbe stata antagonista di quella
ippocratica e caratterizzata da una certa tendenza al
nominalismo e alla catalogazione, è giustificata per la
presenza di testi piuttosto difformi, soprattutto nel metodo e
nello stile, dall’insegnamento coano. La ricerca del vero
Ippocrate, dunque, è faticosa e non sempre ovvia, e solo in
qualche caso (Sulle epidemie I-III; probabilmente il Giuramento;
Sul male sacro e Sulle arie, acque e luoghi; Prognostico; Sul regime
nelle malattie acute) è stata ipotizzata un’attribuzione diretta.

Ciononostante, tutti gli scritti a noi pervenuti come parte


effettiva del Corpus sono stati selezionati e riunificati dai dotti
alessandrini sulla base del fatto che in essi è rinvenibile
un’idea abbastanza omogenea del corpo umano e del suo
funzionamento, dal comune rifiuto della concezione
ontologica della malattia e dal rinvio a un razionalismo che,
quando anche non espressione del vero Ippocrate, a lui
poteva essere attribuibile con facilità.

Molte opere del Corpus rimandano internamente le une alle


altre; i libri Sulle epidemie, che sono raccolte di “cartelle
cliniche” desunte dall’esperienza di medici itineranti in varie
città della Grecia in occasione di malattie che colpiscono certe
zone in relazione a certi stati climatici o a certe stagioni
dell’anno, pur non essendo tutti dello stesso autore, si
riferiscono a un milieu comune e molto vicino all’epoca storica
della vita di Ippocrate. Il trattato Sulla natura dell’uomo, cui
dobbiamo la formulazione ordinata della teoria fisiopatologica
umorale, sembra essere anch’esso molto vicino a Kos, forse,
come si è detto, del genero di Ippocrate. I trattati Sulle arie,
acque e luoghi e Sul male sacro sono connessi tra loro da
questioni di stile e dal manifesto rifiuto dell’intervento degli
dei nella genesi dell’epilessia e di altri mali; gli scritti Sulle
ferite della testa, Sulle fratture, Sulle articolazioni, Sull’officina del
medico e Sulla riduzione delle fratture sono accomunati da
un’ottica che oggi potremmo definire chirurgica. I celebri
Aforismi, brevi sentenze facili da tenere a memoria, sulle quali
generazioni di medici si sono formati (è uno dei testi di
maggiore fortuna medievale, incluso nell’Articella – il
riferimento didattico del medioevo – come specchio del
sapere dell’autentico Ippocrate), insieme al Prognostico, al
trattato Sul regime nelle malattie acute, alle Prenozioni coane
gettano le basi della clinica fondata su osservazione e
previsione del decorso di malattia e della terapia come
sistema correttivo del disequilibrio umorale che la genera. Un
gruppo di opere, che non è di paternità comune, è dedicato
alla descrizione della fisiologia femminile e delle malattie
delle donne: il trattato Sul feto di otto mesi, che contiene
l’esposizione di una peculiare patologia che affliggerebbe
alcune donne nell’ottavo mese di gravidanza, mettendo a
rischio la loro vita e quella dei figli; i libri I e II Sulle malattie
delle donne; l’opera Sulle donne sterili; i trattati Sulla natura della
donna e Sulla natura del bambino conservano tutti materiale più
antico della loro stesura, forse di origine cnidia, che
contribuisce alla creazione medica di una fisiologia della
“minorità” del corpo femminile, funzionante in base a regole
del tutto diverse da quelle che governano il corpo maschile.
Alcuni trattati tardi (Sul medico, del periodo ellenistico o della
prima era cristiana; Precetti, ellenistico o romano), poi, il cui
capostipite è il testo del Giuramento, sono accomunati dal
tentativo di definire le qualità morali e deontologiche del
medico e di una scuola cui si richiedevano compostezza e
coerenza.

Corpo, salute e malattia negli scritti ippocratici


Come non è possibile definire il Corpus Hippocraticum un
insieme coerente e organico, allo stesso modo non si può dire
che gli scritti che lo compongono presentino una visione
unica o organica della composizione e del funzionamento del
corpo umano.

Si può, tuttavia, indicare il testo Sulla natura dell’uomo come


genericamente rappresentativo della teoria umorale, per
come essa è stata recepita e tramandata ai secoli successivi;
Sulla natura dell’uomo è l’unica opera a essere stata attribuita
da Aristotele (Historia animalium III, 512 b 12, 513 a 7) e
dall’Anonymus Londinensis a un profilo certo (quello del
genero di Ippocrate, Polibo) e secondo Galeno la prima parte
del trattato sarebbe da ascrivere allo stesso Ippocrate (cfr.
Jouanna, 1992, p. 401). Dopo un’introduzione in cui vengono
criticate le posizioni filosofiche e mediche che ritengono che
la natura dell’uomo sia riconducibile a un solo elemento,
Polibo sostiene che il corpo umano sia il contenitore di
quattro elementi liquidi, gli umori (il sangue, il flegma, la bile
gialla e la bile nera), la cui corretta mescolanza genera salute
e il cui disordine è causa di malattia. Il rapporto degli umori e
delle qualità che ad essi corrispondono (caldo, freddo, secco e
umido) non è stabilito in modo fisso, ma varia in relazione
alle quattro stagioni, all’età, alle abitudini di vita e al genere.
Il mondo esterno, che condivide con il corpo dell’uomo la
costituzione qualitativa, è in grado di interagire con esso
generando la malattia; l’aria, se miasmatica, immessa nel
corpo con la respirazione e con la dieta, è fattore
patogenetico; il regime, cioè l’insieme delle abitudini di vita,
comprese alimentazione e bevande, può contribuire a
generare lo stato di disequilibrio degli umori. L’intervento del
medico consiste essenzialmente in una serie di indicazioni
atte a evitare l’insorgere di questa condizione, dissonante per
eccesso o per difetto, che porta alla malattia.

Il trattato Sulla natura dell’uomo, però, per quanto


ampiamente rappresentativo del pensiero di Ippocrate e di
certo cronologicamente molto vicino al suo insegnamento,
non esaurisce la grande ricchezza teorica degli scritti del
Corpus; l’autore del trattato Sull’antica medicina (fine V sec. a.C.)
parla, per esempio, di principi (amaro, salato, dolce e aspro)
che accompagnano le qualità fondamentali degli elementi e
integra la causalità ambientale della malattia sostenendo che
anche la struttura del corpo può contribuire a generarla; Sulle
affezioni (IV sec. a.C.) descrive il corpo come composto di due
soli umori, flegma e bile; il trattato Sul regime (fine V-inizi IV

sec. a.C.) pone l’accento su acqua e fuoco come costituenti e


motori del corpo umano, attribuendo all’acqua la funzione di
“generatore di nutrimento” e al fuoco quella di “generatore di
moto”; Sulle malattie IV (V-IV sec. a.C.) sostituisce, nella tetrade
degli umori, l’acqua al flegma, parla di crescita e decrescita
degli umori nel corpo, ritiene la salute il prodotto di un
delicato equilibrio tra gli elementi che si immettono con
l’alimentazione e quelli che vengono escreti; il libro Sui venti
(ultimo quarto V sec. a.C.) attribuisce all’aria la causa di tutte
le malattie, non solo delle febbri, ma anche delle idropisie,
emorragie, epilessia e paralisi; il più recente trattato Sui luoghi
dell’uomo (IV sec. a.C.) individua ben sette flussi che, partendo
dal capo, generano malattia nelle parti verso le quali si
dirigono (cfr. Nutton, 2004).

Questa ampia varietà di posizioni rende dunque imprecisa


l’esposizione sintetica della teoria umorale e della
fisiopatologia ippocratica. Tuttavia, si può provare a tracciare
alcune linee di indicazione generale. Gli umori del corpo,
quattro come gli elementi empedoclei e le stagioni, sono
caratterizzati da binomi delle qualità fondamentali. Il sangue
è caldo e umido e possiede, quindi, le caratteristiche positive
della vita e del nutrimento; la bile nera (mélaina cholé) è
caratterizzata dalle qualità contrarie, il freddo e il secco, che
la rendono un umore tendenzialmente molto negativo, legato
a patologie di difficile successo medico, tra le quali la
malinconia, nome con il quale la tradizione medica indicherà,
soprattutto dal medioevo al Settecento, le forme psichiatriche
a carattere depressivo o maniacale e le ossessioni d’amore; il
flegma è freddo e umido; la bile gialla calda e secca. Il
rapporto tra umori e loro qualità caratterizza le diverse fasi
della vita dell’uomo: più umidi i bambini, che, come piccole
piante, hanno bisogno di plasticità e nutrimento per crescere;
più freddi e secchi i vecchi, che si avvicinano alla morte e alla
non recuperabile secchezza e freddezza del cadavere; più
caldi gli uomini, ricchi di sangue e dunque di forza; più fredde
e umide le donne, cui un difetto fisiologico di calore vitale e la
tendenza ad accumulare liquidi in una carne di tessitura lassa
come quella della lana impediscono il raggiungimento dello
stato di equilibrio. Quest’ultimo è ovviamente modellato sulla
fisiologia dell’uomo adulto, che fornisce il riferimento
culturale sul quale, per similitudine o antagonismo,
immaginare le fisiologie del genere opposto e delle altre età
della vita. Ogni corpo ha, dunque, una sua peculiare
condizione di equilibrio verso cui tende, che è la salute; il
cambiamento della proporzione di umori e qualità, dovuto
all’immissione di qualità comuni all’uomo e al mondo
esterno, veicolate attraverso l’aria, induce un cambiamento
(metabolé) e una rottura dello stato di quiete (discrasía). In
questo consiste la malattia.

Il corpo è immaginato come un contenitore (ángos, vaso) di


liquidi, permeabile all’esterno perché dotato di orifizi e perché
la pelle, lungi dall’essere una barriera compatta, è aperta
all’azione dell’aria. Le malattie sono causate dalla variazione
delle abitudini di vita del paziente (dieta, regime) o da influssi
ambientali negativi; gli elementi che le causano appartengono
al mondo della natura e sono, pertanto, conoscibili e
prevedibili come ogni altro fenomeno fisico.
Prevedendo, infatti, e predicendo…
Il metodo ippocratico è la via che conduce
all’individuazione della causalità dei fenomeni del corpo, in
grado di spiegare il loro perché (dià ti, De vetere medicina 20).
Attraverso il metodo si offre al medico la possibilità di leggere
una storia patologica in proiezione temporale, di esprimere su
di essa una valutazione e di prevederne l’andamento futuro:
«Dall’origine e dal punto di partenza del male e da moltissime
considerazioni e dalle cose che vengono conosciute a poco a
poco, mettere insieme [i dati] e controllare se sono tra loro
uguali, e poi le cose dissimili rispetto alle precedenti, e vedere
se sono uguali tra loro, in modo che dalle dissomiglianze si
abbia una uguaglianza. E questa sarebbe il metodo [hodós], la
via)» (Epistulae VI, 3, 12). Il metodo consente la conoscenza
delle leggi che governano il mondo naturale e, in
conseguenza, di ciò che genera le malattie «visibili e invisibili»
(cioè, esterne e interne, De arte 9-11), facendo sì che cibi,
bevande e corretti stili di vita possano essere utilizzati per
prevenire la discrasia umorale o curare la malattia. Questo
accade in un agire cronologicamente determinato e
consapevole in cui è possibile, per il medico, riordinare
passato (gli eventi che hanno preceduto la malattia,
recuperati attraverso l’anamnesi, cioè l’accompagnamento
“maieutico” del paziente verso la dimensione del ricordo),
presente (la raccolta dei sintomi, la semeiotica) e futuro (la
prognosi, capacità di dire in anticipo se e quando un male
incontrerà la “crisi”, cioè cambierà il suo andamento,
guarendo, peggiorando o conducendo alla morte). La
considerazione della “storicità” della malattia la rende un
essere in costante cambiamento; capace di nascere, crescere,
aumentare o diminuire la sua violenza, smorzarsi e morire al
pari di ogni altro vivente; per questo la medicina è historía,
descrizione cronologicamente ordinata di fenomeni, al pari
della narrazione contemporanea di Tucidide (Epidemiarum I,

10) (Momigliano, 1985).

Saper disporre i fatti del corpo in un ordine significante vuol


dire poter prevedere gli sviluppi di una storia clinica:
«Prevedendo, infatti, e predicendo» (Prognosticon I), in modo
non dissimile dall’arte divinatoria dei sacerdoti di Asclepio, si
sottrae la conoscenza del corpo all’arbitrio del caso, cui la
medicina si contrappone come tentativo di fondare un ordine
e stabilire punti di riferimento: «Il caso, una volta sottoposto a
verifiche, apparirà non essere nulla: si troverebbe infatti che
tutto ciò che accade, accade per un perché e, nella misura in
cui si dà un perché, risulta manifesto che il caso non ha
alcuna realtà al di fuori del puro nome. Invece l’arte medica,
sia nel campo degli eventi che accadono per un perché, sia in
quelli che sono oggetto di previsione, mostra e sempre
mostrerà di avere una propria realtà» (De arte V, 4).

Il caso è contrastabile, per esempio, attraverso una teoria


numerologica dei giorni critici, fondata sull’osservazione delle
ciclicità di andamento della fisiologia (embriogenesi,
periodicità della gravidanza, cicli di sviluppo dei bambini,
dentizione) e della patologia, la cui evoluzione è determinata
in archi di tre, quattro o sette giorni (febbri terzane e
quartane; il feto di sette-otto mesi; quaranta giorni per
determinare l’andamento di malattia).

Il medico ippocratico è dunque colui che si applica a una


precisa sfera di competenza, cui accede attraverso un
percorso formativo che consente la conoscenza delle cause
naturali, principi che permettono l’organizzazione del sapere
e la programmazione di procedimenti terapeutici. Il possesso
della combinazione di tutti questi fattori, uno solo dei quali
non è sufficiente per bandire dalla sfera della cura sia il caso
sia l’errore, fonda una competenza peculiare, riconosciuta già
dai contemporanei come modello possibile per le altre téchnai.
Questo alto statuto epistemologico della medicina ippocratica
è ben documentato dal Fedro («Téchne, non solo pratica ed
esperienza […] per produrre salute e vigore», 269 c): Platone
sostiene che la conoscenza della globalità della natura
dell’uomo (to hólon) consente alla medicina di costruire un
sapere universale, adattabile a contesti diversi e capace di
astrazione. Questo sapere, libero dai legami imposti dalla
mera ripetizione di gesti di esperienza, che impediscono di
costruire una competenza tendente alla certezza, si organizza
all’interno della scuola ippocratica come un patrimonio
trasmissibile. L’insegnamento orale e la costruzione di un
corpus di testi scritti, combinando teoria e capacità di azione,
formano il medico alla ricostruzione dell’equilibrio originale
da cui il corpo è partito prima della malattia.

Il sapere medico si bilancia, dunque, tra epistéme, cioè


sapere assoluto e astratto, e tribé, capacità artigianale di
produrre oggetti grazie alla sola conoscenza della
sequenzialità corretta dei gesti da mettere in pratica per la
costruzione di un prodotto, come accade per chi modella vasi
dalla creta. La medicina ippocratica, più complessa di un
sapere artigianale, si fonda sulla dimensione empirica solo
per trascenderla.

La costruzione di un sistema che si bilancia tra esperienza e


tensione verso un modello di conoscenza assolutamente
valido necessita di strumenti adeguati: il medico ha a
disposizione i sensi, perché il corpo e le sue modificazioni,
rispondendo a un ordine regolato della natura, possono
essere conosciuti attraverso il vedere, il sentire, l’odorare, il
gustare, il toccare (Epidemiarum VI, 8, 17). L’uso dei sensi non
conduce, però, al semplice accumulo di dati esperienziali, ma
alla loro necessaria selezione e interpretazione che, attraverso
la ragione, consente di attribuire logica e ordine a ciò che in
natura appare slegato e non significante. Solo attraverso
questo procedimento intellettuale i dati corporei accedono
alla dimensione di seméia e diventano indicatori dello stato di
discrasía-disequilibrio che affligge il corpo.

La comprensione del segno è sempre preceduta da un atto


di selezione: quale segno rilevabile con indagine clinica indica
la strada da seguire per afferrare la natura del male? Quale
indicatore corporeo (sudore, tremore, pallore, calore, grado di
umidità, vomito, diarrea, urine, occhiaie, colorito, reazione
alla palpazione ecc.) consente la conoscenza della
dimensione umorale e “interna” del corpo, che non è
accessibile per via di indagine anatomica? L’osservazione il
più possibile fedele dell’ammalato e la registrazione
attraverso strumenti clinici che a noi paiono, talvolta, estremi
ricostruiscono per il medico il mondo invisibile interno e ne
spiegano le dinamiche: l’urina, assaggiata, se è dolce al gusto
segnala diabete, la malattia dei fluidi “che scorrono”; gli odori
sgradevoli segnalano condizioni difficili e corruzione delle
parti interne; un rumore sordo nella percussione segnala
depositi anomali di liquidi e l’idropisia; la variazione intensa
dei colori di pelle e mucose verso il giallo o il nero indica
predominanza di bile, elemento patogeno, connesso alle
necrosi, alle insufficienze della respirazione e in genere a
fenomeni degenerativi, certamente al di fuori delle possibilità
di cura della medicina antica. A questi dati si aggiunge la
valutazione delle condizioni ambientali in cui il malato è
immerso, che – come si è detto – costituiscono la vera causa
di malattia (De flatibus IV, 1; V, 1): le condizioni di salubrità
dell’aria, la lontananza o vicinanza delle case a zone paludose
in cui la stagnazione dell’aria sviluppa febbri terzane e
quartane (la malaria), il grado di durezza dell’acqua e la sua
provenienza da diversi tipi di fonti, la predominanza dei venti
che spirano in una città, tutto aiuta il medico a comprendere i
nessi che legano abitudini di vita, ambiente e malattia. La
capacità di relazionare segni del corpo e indicatori ambientali
è di tale importanza da ispirare la scrittura di un trattato
concepito come guida per il medico itinerante, nel caso in cui
si trovi ad affrontare condizioni climatiche, ambientali o
politiche in grado di modificare l’equilibrio del corpo (Sulle
arie, acque e luoghi, seconda metà V sec. a.C.).

Giuro per Apollo medico…: medico, malato e malattia


Il testo più celebre e più discusso della storia della medicina
è senza dubbio il Giuramento. Breve scritto datato tra V e IV

secolo a.C., incluso tra gli autentici nella lista di Eroziano, è


stato nel tempo variamente attribuito alla scuola medica di
Kos o a un ambito filosofico di derivazione pitagorica, che
avrebbe dettato l’obbligo alla purezza e santità di vita e, in
genere, il tono sacrale che lo permea e che costituisce
l’argomento principe ad appoggio di chi sostiene la sua non
attribuibilità all’Ippocrate storico.

Esso si apre e si chiude con un’invocazione agli dei della


salute (Apollo, Asclepio e la sua famiglia), secondo un
andamento ciclico che richiama in effetti quello dell’órkos, il
giuramento sacro che, nelle culture in cui la legge non sia
definitivamente codificata, attribuisce valore riconosciuto alle
realtà percepite come non stabili (la formazione medica è
definita simile all’iniziazione ai misteri in De lege 5). Una di
queste realtà è certamente la medicina nel momento del suo
costituirsi come disciplina razionale: la nuova scuola, non più
fatta della sola famiglia di Ippocrate, è aperta all’arrivo di
membri esterni che devono essere vincolati all’osservazione
di comportamenti protetti, in grado di garantire il buon nome
dei maestri e dei confratelli. Ciò è utile per difendersi dagli
attacchi della concorrente magia e per guadagnare la fiducia
dei pazienti, ancora molto tentati dall’idea di rivolgersi ad
Asclepio, curante più facile da reperire e più a buon mercato
dei medici ippocratici o, ipotesi peggiore, a maghi e indovini.

Sebbene non si possa parlare dello strutturarsi di una vera


deontologia prima del IV secolo a.C. (Gourevitch, 1969), il
Giuramento ne anticipa alcuni tratti fondamentali: la gratuità
dell’insegnamento medico, il legame inscindibile tra maestro
e allievi e degli allievi tra loro, il divieto a intrecciare relazioni
con i pazienti, la definizione di un onorario corretto, l’obbligo
al segreto professionale protratto, la limitazione al gesto
medico in cui si è competenti stabiliscono alcune delle
costanti del comportamento medico deontologicamente
corretto. L’impegno all’osservanza di questi dettami apre le
porte a una sorta di processo iniziatico, in cui il principio
assoluto da rispettare è l’interesse del paziente, protetto dal
vincolo alla purezza che viene richiesto al medico come al re,
al magistrato o al sacerdote all’interno della polis. Anche i tre
famosi divieti contenuti nel Giuramento («non somministrerò a
nessuno droga mortale, neppure se richiesto […] non
applicherò a una donna pessario abortivo […] non praticherò
l’incisione del mal della pietra»), tradizionalmente letti in
ottica cristiana come impegni etici alla preservazione della
vita, riacquistano così il senso filologico di avvertimenti a non
procedere con interventi potenzialmente mortali, in grado di
nuocere al buon nome della nascente classe medica e di
pregiudicare la fiducia della sua clientela.
Il Giuramento, insieme ad altri testi deontologici di datazione
varia (Sulla legge, IV sec. a.C.; Precetti, ellenistico; Sul medico,
ellenistico o di prima era cristiana; Sul decoro, Sui doveri del
medico, I-II sec. d.C.), è un ottimo strumento per la
comprensione dei complessi rapporti che regolano
nell’antichità greca la relazione tra medico e ammalato e la
loro comune lotta contro la malattia («L’arte ha tre fattori, la
malattia, il paziente e il medico. Il medico è il servo dell’arte.
Combatta il malato con il medico contro la malattia»,
Epidemiarum I, 2). L’aspetto del medico è a più riprese
segnalato come necessariamente ineccepibile e indicatore di
una buona salute, perché «quelli il cui corpo non sia così in
buona salute non saprebbero neppure curare
convenientemente gli altri»; deve comunicare purezza degli
atti, i suoi gesti devono essere improntati alla moderazione,
che è rivelatrice della capacità di scegliere la misura mediana,
l’equilibrio, il giusto mezzo che non forza l’andamento
naturale delle cose e riconosce la possibilità di fallibilità della
medicina.

Nella capacità di non eccedere sta l’autorevolezza del


medico, fondata sul rispetto della beneficialità dei suoi atti
(«giovare e non produrre danno», nella tradizione successiva
principio del primum non nocere) e su un principio etico non
formalizzato, noto con il nome di “naturalismo etico”, il quale
prevede che l’ordine morale si fondi sul rispetto degli
andamenti di natura, che possono essere forzati solo là dove
il medico ne intuisca la correggibilità: «astenendosi
dall’intervenire nei casi in cui il male è più forte, che sono al
di sopra dell’arte» (Pigeaud, 1997). La consapevolezza del
limite della medicina, secondo la quale «guarire tutti i malati
non è possibile», anche se questo sarebbe cosa migliore della
formulazione della più corretta tra le prognosi, non implica,
però, una rinuncia ad acquisire in ogni modo possibile dati
utili per provare la guarigione dell’ammalato: accanto alla
rilevazione dei segni, il medico dispone della parola, vero e
proprio strumento terapeutico se in grado di trasmettere dati
non oggettivamente rilevabili, come il racconto del vissuto di
malattia. La tradizionale definizione del rapporto medico-
paziente come improntato a un deciso paternalismo, in cui il
medico assume da solo decisioni nei confronti di chi, per
ignoranza o inesperienza, è inadatto a esprimere scelte sulla
sua salute, non rispecchia infatti in modo fedele quanto è
attestato in vari scritti del Corpus. Il paternalismo è piuttosto
un frutto “degenerato” dell’autorevolezza ippocratica, da
ascrivere a un atteggiamento tipico di Galeno e dei suoi
seguaci tardoantichi, medievali e moderni.

Nella gran parte degli scritti ippocratici, eccezion fatta per


alcune opere tarde di carattere filosofico, come Sull’arte, si
sottolinea la necessità di un rapporto scambievole, in cui il
paziente e la sua famiglia ascoltano con attenzione il medico,
ma anche gli illustrano contesti, vissuti personali e sensazioni
che nessun libro può insegnare a conoscere (Jori, 1996).
L’anamnesi, ricostruzione di una storia fisiopatologica che dal
presente si proietta fino al passato clinico dell’intera famiglia,
diventa dunque un processo maieutico, di cui lo scambio tra
due soggetti attivi è parte fondamentale. Se si vuole trovare
una posizione altrettanto illuminata nel mondo antico,
bisogna fare ricorso all’opera platonica: nelle Leggi, infatti, il
filosofo, tratteggiando le caratteristiche del medico ideale,
contrappone il medico degli uomini liberi a colui che cura solo
gli schiavi. Il primo, libero come i suoi pazienti, ha tempo per
il dialogo e il suo gesto è insieme un atto didattico in cui
all’ammalato viene spiegata la gestione possibile della sua
malattia e un momento di apprendimento, in cui ciò che si
ascolta diviene il vero strumento di arricchimento del medico.
Qualcosa di molto diverso accade nella cura degli schiavi, in
cui manca il tempo per impostare un dialogo e al paziente
rimane aperta solo la possibilità di obbedire a brevi comandi,
impartiti da chi ha urgenza di vedere molti malati in poco
tempo.

Il carattere educativo della medicina ippocratica, in


quest’ultimo caso, manca del tutto e il paziente perde la
centralità assoluta che ha nel “triangolo ippocratico”, cioè nel
rapporto che lo connette da un lato alla sua malattia,
dall’altro al medico (Gourevitch, 1984b); inoltre, la clinica
ippocratica, così come testimoniata dai trattati Sulle epidemie,
prevede un ruolo essenziale del medico nell’educazione a un
corretto stile di vita e a una dieta che preservi dalle malattie,
programmata nel rispetto delle età della vita e del genere, che
predispongono a cambiamenti fisiopatologici diversi. Solo se
questo ruolo di prevenzione ed educazione del paziente
fallisce, il medico può programmare un intervento
terapeutico, che prevede una gradualità di azione che va
dall’uso dei phármaka, rimedi di origine vegetale o animale, a
quello del bisturi o del cauterio (De internis affectionibus 28); il
bisturi è utile per eliminare attraverso l’apertura di una vena
e l’emissione di sangue gli umori corrotti del corpo (salasso),
mentre strumenti o cucchiai metallici arroventati e legnetti di
bosso immersi in olio bollente attraggono gli umori guasti
verso un punto preciso del corpo, da cui, attraverso l’ustione
della cauterizzazione, saranno espulsi (De internis affectionibus
87). Salasso e cauterizzazione hanno indicazione terapeutica
per moltissime affezioni, tra cui la cura delle fratture e delle
lussazioni, il trattamento delle febbri, la terapia delle cefalee e
dell’epilessia, di tumori, ascessi, idropisie e malattie dei
polmoni.

La farmacologia ippocratica, che fa soprattutto uso di


sostanze semplici, si fonda sull’idea che il male possa essere
contrastato attraverso la somministrazione di un principio
qualitativo opposto a quello che ha generato la malattia (De
natura hominis 9): caldo per contrastare gli effetti del freddo,
secco per eliminare umidità ecc. (contraria contrariis curantur).
Ogni elemento del mondo della natura può essere utilizzato
in funzione di farmaco, principio attivo la cui capacità di
modificare il corpo può esercitarsi in senso sia positivo sia
negativo: miele, acqua, vino, grano, orzo, farine, erbe, pesci o
carni, radici, foglie e fiori, in genere sostanze autoctone e di
facile reperibilità, possiedono una forza che va regolata in
modo che agisca secondo il kairós, l’opportunità clinica del
momento. Si causerà così espulsione di umori eccessivi o
guasti attraverso il vomito, gli escreti del corpo o lo starnuto
forzato con sostanze irritanti, come il pepe; ma si eviterà di
aggredire il paziente con sostanze troppo violente, che
possono anche provocarne la morte se mal dosate o
somministrate: la differenza tra veleno e terapia è solo nel
dosaggio. Sebbene la storiografia (Riddle, 1985; Majno, 1975)
abbia dimostrato la reale efficacia di alcune delle sostanze
utilizzate dalla farmacopea antica (per esempio,
l’associazione di alcune erbe, tra cui il prezzemolo, nella
preparazione di farmaci per l’interruzione delle gravidanze
indesiderate), la farmacologia ippocratica paga un tributo
importante alla ritualità e a usi simbolici arcaici; i testi
ginecologici, che raccolgono tradizioni popolari e “femminili”
di cura, tramandano l’utilizzo, già noto alla farmacopea
egizia, di sterco di vacca e altre sostanze organiche per
rendere fecondo un utero sterile (Andò, 1999) e prescrivono
largamente l’uso di fumigazioni ginecologiche come mezzi
per verificare la viabilità del corpo femminile e la sua
potenzialità riproduttiva, in una successione di atti che
richiamano tanto la profezia della Pizia assisa sul braciere
fumante (Pagano, 2001) quanto l’uso di fuochi purificatori
accesi per eliminare i miasmi portatori di epidemie (von
Staden, 1992).

Nel pieno della riflessione sulla razionalità come mezzo per


comprendere e dominare la natura, gli scritti che vanno sotto
il nome di Ippocrate mostrano, a un più attento esame, tenaci
legacci che continuano a connettere la medicina laica con le
sfere del mitico, dell’irrazionale e dell’inconsapevole.
3

Tra Grecia e Roma

A Erasistrato ed Erofilo fu concesso dissezionare: la


medicina in Alessandria d’Egitto
La storia precoce di Alessandria d’Egitto, la città fondata da
Alessandro il Grande nel 331 a.C., rappresenta uno snodo
fondamentale per lo sviluppo del pensiero scientifico e
medico antico. Passata sotto il protettorato dei generali
macedoni Tolomei dopo le assegnazioni che seguono alla
morte di Alessandro, la città diviene un centro politico di
primo livello, soprattutto sotto il regno di Tolomeo I (323-283
a.C.) e di suo figlio Tolomeo II Filadelfo (283-246 a.C.); è
collegata da legami attivi con molte città e colonie greche e
con i regni alessandrini di Siria, Macedonia e Mesopotamia e
caratterizzata dal fiorire di importanti attività economiche. La
costruzione nel 280 a.C. del faro, la cui luce viene riflessa sul
mare attraverso enormi specchi, incrementa il traffico
marittimo, che trasporta merci nel Mediterraneo da e verso
Alessandria (Russo, 2001). La città diventa un centro culturale
senza uguali nel mondo antico, caratterizzato
dall’insediamento di una forte comunità greca che rimane
solidamente al comando fino al 212 a.C., anno in cui
l’espansione romana nel Mediterraneo comincia a coinvolgere
l’Egitto; solo nel 145-144 a.C. l’etnia greca viene quasi
totalmente eliminata, per mano di Tolomeo VIII, che agisce per
conto di Roma in una vera e propria persecuzione delle élite
che dal IV-III secolo a.C. avevano guidato la città (Polybius
XXXIV, 1). Le attività culturali di Alessandria, però, non vanno
completamente distrutte e in epoca imperiale nella città è
ancora vivace la vita intellettuale, così come è testimoniato
dal racconto di Galeno di Pergamo, che in Egitto va a
completare la sua formazione medica, aprendosi agli studi di
anatomia che in modo tanto importante segneranno la sua
storia personale.

La ricostruzione storica delle vicende culturali di


Alessandria non è agevole: le fonti, soprattutto quelle in grado
di documentare il primo periodo alessandrino, sono solo
frammentarie: come ricordano Heinrich von Staden (1989) e
Lucio Russo (2001), la narrazione di Diodoro Siculo si
interrompe nel 301 a.C. e quella di Polibio non inizia prima del
221; anche la storia di Tito Livio manca, sfortunatamente,
della parte che coprirebbe la narrazione degli eventi compresi
tra il 292 e il 219 a.C. Inoltre, gran parte degli scritti del
periodo alessandrino è andata perduta. Molta parte delle
opere di geografia, astronomia, meccanica, ottica, matematica
e medicina è testimoniata solo in modo sparso nell’opera di
autori più tardi. Per la medicina, la fonte più ricca è costituita
dal corpus di scritti galenici, che però è caratterizzato da nette
prese di posizione critica che ne rendono la testimonianza
difficile da valutare (per esempio, Galeno contrasta
vivacemente le teorie di Erasistrato e dei suoi seguaci);
importanti notizie provengono poi, oltre che dagli storici
Plutarco, Valerio Massimo e Appiano, dal Proemio del trattato
Sulla medicina di Celso e dall’opera di Sesto Empirico (II-III sec.
d.C.), di Aviano Vindiciano (IV sec. d.C.) e di Giovanni
Alessandrino (fl. 600-642), un medico bizantino commentatore
di Ippocrate e Galeno. Attraverso queste testimonianze, tutte
tarde, è possibile seguire le vicende della costruzione
intellettuale della città in modo indiretto e comprendere il
ruolo che la medicina alessandrina ha avuto nella
strutturazione della scienza dell’antichità.

L’esperienza ateniese del Liceo fondato da Aristotele nel 335


a.C. aveva mostrato le potenzialità educative di una scuola
basata sull’utilizzo di luoghi diversi del sapere, tra cui
biblioteche e orti botanici; proprio dall’esempio istituito dal
precettore di Alessandro nasce l’idea della costruzione
alessandrina di un centro in grado di richiamare gli
intellettuali greci attorno a una Biblioteca e a un Museo. La
storiografia ha discusso se questa idea possa essere valutata
come espressione di un preciso progetto culturale di Tolomeo
Ie Tolomeo II Filadelfo, o se essa non sia piuttosto il frutto di
una serie di vicende che si incontrano in modo fortunato: da
un lato, particolare predisposizione del territorio a innestare
su una tradizione locale (egizia e mesopotamica),
tecnologicamente molto avanzata, il patrimonio culturale
dell’immigrazione greca (Russo, 2001); dall’altro, clima
culturale “di frontiera”, a cui contribuisce la locale tendenza
all’infrazione di tabù quali l’incesto (Tolomeo II sposa nel 288
a.C. sua sorella Arsinoe) o – ma la tesi è tra le più dibattute –
l’apertura del cadavere a fini di mummificazione (von Staden,
1989; Vegetti, 1993a, pp. 87-9).

Quale ne sia stata la genesi, Alessandria diventa in breve il


punto più celebre e raffinato di tutto il mondo antico nella
raccolta, conservazione e discussione del sapere scientifico e
letterario greco; alla “Casa delle Muse”, organizzata in sezioni
in cui si discutevano temi di scienza, filologia e retorica, si
accompagna la Biblioteca, ricca di un enorme numero di testi
provenienti dal territorio greco, costantemente ricopiati dagli
originali per garantirne la preservazione. Molti nomi ruotano
attorno a queste istituzioni, esponenti di pressoché ogni ramo
del sapere: Proclo, nel V secolo d.C., assegna l’attività di
Euclide al regno di Tolomeo I, sotto cui avrebbe scritto gli
Elementi (il trattato sulla matematica elementare), i Dati
(introduzione alle dimostrazioni geometriche degli Elementi),
l’Ottica (trattato sulla prospettiva in risposta ad alcune teorie
ottiche di Aristotele) e altri testi di musicologia, meccanica,
non pervenuti nemmeno nella traduzione araba. Ctesibio (III
sec. a.C.), maestro di Filone di Bisanzio (280-220 a.C. ca.,
progettista meccanico di macchine da guerra), scrive ad
Alessandria opere di pneumatica e meccanica, e lì mette a
punto macchine da guerra, orologi ad acqua, pompe e argani
idraulici per l’agricoltura; Aristarco di Samo (310-230 a.C. ca.)
scrive un trattato sulle dimensioni e le distanze del sole e
della luna, sostenendo una teoria eliocentrica che giustifica le
stagioni con l’inclinazione dell’asse terrestre; Archimede
stesso (287-212 a.C.) avrebbe per breve tempo soggiornato
nella città, venendo a contatto con Eratostene di Cirene (276-
194 a.C.), bibliotecario, matematico e astronomo, precettore di
Tolomeo IV e maestro di Conone di Samo. L’astronomia
alessandrina, che con Eratostene aveva guadagnato un
sistema di calcolo delle distanze terrestri fondato sulla
misurazione dei gradi di ombra prodotti da pali piantati a
terra in diverse città egizie durante il solstizio d’estate, con
Ipparco di Nicea (II sec. a.C.) si arricchisce del primo catalogo
stellare dell’antichità, con le coordinate delle stelle che
consentono di dimostrare la precessione degli equinozi. La
vitalità culturale di Alessandria è ancora ben attestata nel I
secolo d.C., quando probabilmente Erone scrive opere di
meccanica, pneumatica e costruisce automi, misuratori delle
distanze e straordinarie macchine a vapore.

In questo panorama così vivace, anche la medicina gioca un


ruolo importante, in connessione con le scoperte e le
dimostrazioni che altri settori del sapere alessandrino
andavano strutturando. La tradizione letteraria e storica
racconta l’Egitto come terra di tradizioni mediche e
competenze magico-farmacologiche (Herodotus II, 77, 3;
Diodorus Siculus I, 82); il lungo arco di tempo che separa il
primo mondo egizio dall’esperienza alessandrina consente
solo di registrare una certa continuità nei contenuti (per
esempio, l’interesse per la struttura e funzionalità cardiaca),
mentre invece risulta evidente il tributo alessandrino alle
opere biologiche aristoteliche, all’anatomo-fisiologia dei
viventi in esse descritta, al teleologismo fisiologico che correla
le parti del corpo e il loro funzionamento (von Staden, 1989).
La possibilità di fondare una nuova conoscenza dei viventi
sulla comparazione anatomo-fisiologica apre una prospettiva
“anatomica” nuova alla medicina e solleva tutta una serie di
questioni, soprattutto fisiologiche, che appaiono non risolte
nelle opere biologiche aristoteliche (il cardiocentrismo; la
sede e la natura dello pneuma, principio vitale che anima il
corpo). Come scrive Vegetti (1993a , p. 78), «l’edificio
aristotelico veniva così a costituire una sfida, e un termine di
riferimento imprescindibile, per la nuova medicina, che
infatti sarà soprattutto anatomica, e lavorerà per superarne i
limiti osservativi».

I nomi attorno a cui ruota la “nuova medicina” sono quello


di Erofilo di Calcedonia (330-260 a.C. ca.) ed Erasistrato di Ceo
(330-250 a.C. ca.). Entrambi medici, allievi rispettivamente di
Prassagora di Cos (fl. 300 a.C. ca., un sostenitore del
cardiocentrismo che per primo distingue le vene dalle arterie,
attribuendo a queste ultime la funzione di veicoli pneumatici)
e di Crisippo di Cnido (datazione incerta; notizie in Diogenes
Laertius, De clarorum philosophorum vitis VII, 186 e Galenus, De
venae sectione adversus Erasistratum, K. XI, p. 171), compiono in
Alessandria, superando la stessa esperienza aristotelica,
sistematici studi di anatomia su uomini. Celso, nel Proemio del
suo trattato Sulla medicina, sostiene che la loro attività di
ricerca sarebbe stata condotta, per dispensa reale, su
condannati anche viventi, sottratti alla pena di morte per
consentire lo studio delle funzioni corporee: «e benissimo
aver fatto Erofilo ed Erasistrato quando, ricevuti dai re uomini
colpevoli tolti dal carcere, li sezionarono vivi» (I, Proemium 9):
un fatto confermato qualche secolo dopo anche da
Vindiciano: «A Erasistrato ed Erofilo fu concesso dissezionare»
(Gynaecia, Praefatio 2). La testimonianza di Celso, che riferisce
in modo chiaro di uomini sezionati «mentre il respiro
rimaneva ancora nei loro corpi» per studiare «le parti che la
natura aveva fino a quel momento nascosto, la posizione, il
colore, la forma, la misura» (I, Proemium 23), pare attendibile,
anche se cronologicamente avanzata; costituirebbe la prima
documentazione di un uso metodologicamente cosciente
della dissezione, forse già saltuariamente praticata da filosofi
e medici (la teoria della sensazione di Alcmeone, per esempio,
sembra poter essere debitrice di un’occasionale apertura di
crani animali, che avrebbero consentito lo studio almeno del
nervo ottico), ma certamente mai sull’uomo e mai
attribuendole il ruolo di strumento conoscitivo consapevole.
La reale consistenza storica dello studio anatomico
alessandrino, d’altro canto, è rivelata dalla creazione di un
vocabolario medico rinnovato, ancora oggi in uso (per
esempio, il torcular Herophili, termine che descrive la concavità
dell’aspetto interno dell’osso occipitale che accoglie la
confluenza dei seni e, oggi, anche solo quest’ultima). A ciò si
accompagna la formulazione di un’idea di corpo che,
allontanandosi dall’indefinitezza con cui gli scritti ippocratici
affrontano la descrizione di ciò che non è osservabile (il
corpo-vaso, gli umori che si muovono nel suo vuoto interno),
si apre alla possibilità di connettere descrizione strutturale
delle parti/organi con studio delle loro modalità di
funzionamento e indagine sulle cause di interruzione della
funzionalità, che costituisce l’incipit della malattia (Vegetti,
1993a).

Erofilo, che fonda la conoscenza medica sui soli fenomeni


osservabili per indagine anatomica, ha descritto strutture
cerebrali, ventricoli, cervelletto, nervi cranici, nervi “solidi”
(responsabili del moto volontario) e nervi “cavi” (in cui si
muove lo pneuma causa della sensazione), connessioni tra
encefalo e midollo; valvole cardiache e differenza anatomica e
funzionale tra vene e arterie, con una descrizione compiuta
del sistema che le connette al cuore; struttura di pancreas e
fegato, utero e ovaie. Ha negato la teoria ippocratica, ripresa
dalla riflessione platonica e aristotelica, dell’utero bicamerale
(diviso in due parti, destra e sinistra) e “vagante”, cioè in
grado di muoversi all’interno del corpo femminile alla ricerca
della qualità calda, tipica del maschio, mancante per
soddisfare il precario equilibrio umorale femminile attraverso
i processi fisiologici della gravidanza; ha descritto l’apparato
genitale maschile, gli epididimi, i testicoli e i dotti deferenti.
Alla descrizione delle parti segue spesso lo studio della
funzionalità: lo pneuma immesso nel corpo con la
respirazione dal cuore è veicolato, insieme al sangue, nelle
arterie pulsanti, che causano il moto involontario e il battito
del polso; i nervi sembrerebbero deputati alla trasmissione di
stimoli attraverso lo pneuma “messaggero” che ospitano; il
cervelletto presiede al movimento e all’equilibrio.

Erasistrato, figlio, fratello e nipote di medici, forse allievo


anche di Teofrasto e forse genero di Aristotele (Garofalo,
1988), è dalle fonti antiche collocato in attività tra Alessandria
e Antiochia, la capitale del regno dei Seleucidi; ha descritto le
valvole cardiache e la loro funzione di impedimento al
reflusso del sangue, il ruolo del ventricolo destro come
distributore di sangue nelle vene, del sinistro come diffusore
di pneuma nelle arterie e da lì nei muscoli per generare il
movimento; le circonvoluzioni cerebrali, legandole a una
teoria dell’intelligenza; lo stomaco e il suo ruolo meccanico di
triturazione del cibo ai fini della digestione; la respirazione
come un fenomeno di dilatazione toracica fondato sulla
“teoria del vuoto”, in base alla quale aria e liquidi tendono a
spostarsi per riempire spazi inerti, causando così immissione
di nuova aria per attrazione. I suoi interessi, connotati da uno
spiccato sperimentalismo (avrebbe controllato la sua teoria
del vuoto fisiologico, fondata sugli studi di pneumatica di
Stratone, per immersione di un tubo in acqua e osservazione
dei movimenti di quest’ultima dopo sottrazione d’aria),
sembrano orientati allo studio meccanicistico della
funzionalità, soprattutto neurologica e vascolare: i nervi
sensoriali e motori trasmettono pneuma e moto nel corpo,
consentendo la contrazione e l’espansione del muscolo che è
alla base del movimento; la pulsazione, connessa ai moti di
contrazione (sistole) e dilatazione (diastole) del cuore, è
studiata per incisione delle arterie e immissione in esse di
una cannula, che dimostra che dopo legatura il battito
prosegue, sia in alto sia in basso, facendo ipotizzare che sia il
cuore, e non l’arteria di per sé, l’agente motore del battito del
polso.
Sia Erofilo sia Erasistrato vanno ricordati per la capacità di
utilizzare competenze provenienti da altri settori del sapere
alessandrino a fini di incremento della conoscenza medica; la
capacità della meccanica, dell’idraulica, dell’ottica
alessandrina di usare il calcolo come strumento di scoperta di
fenomeni naturali e la conseguente creazione di strumenti in
grado di esprimere una valutazione quantitativa del mondo
sensibile (trivelle e torculari, orologi ad acqua, bilance e
misuratori di distanze) aprono alla medicina di Erofilo e di
Erasistrato una dimensione del tutto sconosciuta
all’atteggiamento di valutazione qualitativa tipico
dell’approccio ippocratico. Ricercare, nei testi attribuiti a
Ippocrate, l’espressione numerica di un fenomeno biologico è
infatti impresa vana (Grimaudo, 1998; Grmek, 1962 e 1996): un
corpo è più caldo o più freddo del normale e la variazione
qualitativa è di per sé sufficiente a indicare una
predisposizione patologica o una malattia in atto; non esiste
misurazione del peso, nemmeno di quello dei neonati; nel
caso in cui una valutazione quantitativa sembra essere
espressa, come nell’indicazione della quantità di sangue
emessa dalle donne durante il ciclo mestruale, alla
conversione con il sistema ponderale attuale essa rivela
immediatamente la sua natura del tutto teorica, che intende
solo segnalare che corpi imperfetti come quello delle donne
producono grandi quantità di scorie, da eliminare perché la
loro permanenza all’interno del corpo genererebbe accumulo
e malattia. Ad Alessandria Erofilo avrebbe creato un orologio
portatile ad acqua, calibrato a seconda dell’età del paziente e
usato come misuratore della variazione di frequenza del polso
e come termometro, sulla base di una ritmologia fondata
sulla teoria metrica greca. L’uso di questo orologio, secondo la
testimonianza di Marcellino (II sec. d.C.), avrebbe consentito la
misurazione degli stati di febbre: «Erofilo ha dimostrato che
un uomo ha la febbre se il suo polso è più frequente, più largo
e più forte» (De pulsibus 11). Il trattato Sulla sinopsi del polso,
attribuito a Rufo di Efeso, assegna all’orologio di Erofilo anche
lo studio del rapporto tra fase attiva e passiva del polso.
Erasistrato, invece, avrebbe tentato, secondo l’Anonimus
Londinensis (XXXIII, 45-51), la dimostrazione della traspirazione
corporea e della conseguente perdita di peso nel vivente
attraverso un esperimento di pesatura di un uccello, con il
suo cibo e i suoi escrementi. L’uso di strumentaria
dimostrerebbe, così, la capacità della medicina alessandrina
di procedere lungo la via della misurazione quantitativa dei
fenomeni corporei, rompendo il paradigma epistemologico
ippocratico, fondato sulla considerazione delle sole variazioni
qualitative. L’effettivo uso clinico di questi procedimenti e
strumenti non è, però, documentabile attraverso le fonti.

Se un’attività clinica di Erofilo è ipotizzabile, soprattutto per


l’interesse da lui dimostrato nei confronti della farmacologia
(è nota la sua definizione dei farmaci come “mani degli dei”),
le fonti sembrano testimoniare una propensione più
sperimentale e teorica per Erasistrato, sostenitore della teoria
della possibilità medica di ipotizzare funzionalità e
addirittura l’esistenza di organi anche in assenza di
esperienza sensoriale (“osservabilità teorica” dei fenomeni).
Tuttavia, l’idea erasistratea di pletora corporea, cioè di un
sovraccarico patogenetico di umori che si accumulano in una
parte del corpo, si accompagna alla proposta di terapie
riequilibrative blande e gentili, che escludono il ricorso a
“classici” terapeutici ippocratici come il salasso. L’accusa
violenta che Galeno rivolge a Erasistrato di antagonizzare
l’autorità ippocratica, di descrivere esperimenti non ripetibili
con gli stessi risultati e di appellarsi a teorie difficilmente
verificabili documenta, a distanza di cinque secoli circa, la
perdurante fortuna delle idee del medico di Ceo.

Come e perché si sia interrotta, dopo la morte di Erasistrato,


l’esperienza innovativa condotta dai medici ad Alessandria è
tuttora oggetto di dibattito: molte cause possibili sono state
considerate. La fine della politica di patronage dei primi
Tolomei – in cui un governo accentratore, del tutto dissimile
nell’impostazione dall’esperienza politica greca, può aver
favorito (se non imposto) un attivismo scientifico in grado di
violare la sacralità del corpo del morto e l’ideologia greca
della pelle, intesa come confine sacrale invalicabile – può
senza dubbio essere stata una delle cause. A lungo andare, la
pressione romana sui territori egizi ha coinciso con un
inasprimento delle norme sacre e giuridiche di tutela dei
defunti, in accordo con i dettami di una religione che della
pietas per il cadavere fa uno dei suoi capisaldi, rendendo il
corpo morto il nume tutelare della casa. Gli entusiasmi
culturali della “città nuova”, che erano stati in grado di
allontanare anche ideologie religiose forti che, come von
Staden (1989) ricorda, fanno capo all’idea orfico-pitagorica e
platonica della possibilità di reincarnazione delle anime dopo
la morte, si spengono rapidamente. A questa fine precoce
contribuiscono certamente gli attacchi della scuola empirica,
che sostiene il valore della sola esperienza sensibile e la
crudeltà delle pratiche di incisione del corpo, inutili se
condotte sul morto (perché il corpo morto non assomiglia al
vivo e le sue strutture non possono aiutare nella cura degli
ammalati) e altrettanto vane se portate a termine sul vivo (la
funzione interrotta dalla morte non può essere paragonata a
quella che ha luogo nel vivente). Alla fine della
sperimentazione medica di spirito alessandrino contribuisce,
infine, la diafonia delle sette mediche che, come il loro nome
ricorda (hairéseis), non sono scuole organizzate, ma gruppi
intellettuali che scelgono il proprio maestro, voci diffuse su
un territorio geografico che si va facendo, via via, sempre più
vasto.

Si definiscono empirici dall’esperienza: breve storia delle


sette mediche
Filino di Cos (metà III sec. a.C.), autore secondo Plinio il
Vecchio di un trattato di farmacologia, sarebbe stato uno dei
primi allievi di Erofilo. Ateneo e Galeno, il quale dedica alle
sette mediche un intero trattato, ne parlano come autore di
opere di commento a Ippocrate e fondatore di una scuola
empirica, la cui nascita da altri è ascritta all’opera di
Serapione di Alessandria (fl. 200 a.C. ca.), autore di due opere
sulla terapia e sulla diagnosi, citate da Eraclide di Taranto (I
sec. a.C.), in cui si esaltava il valore dell’osservazione diretta,
solo aiutata dal ragionamento per analogia. Filino avrebbe
inaugurato un insegnamento medico soltanto parzialmente
allineato con i dettami del maestro Erofilo, fortemente basato
sul valore didattico dell’esperienza, che consente la
formulazione di una conoscenza che si accresce per accumulo
di osservazioni casuali e ripetute, sottoposte al vaglio della
sola percezione sensibile. Questo insegnamento, che prenderà
il nome di setta empirica, in opposizione a una supposta
scuola dogmatica, le cui radici sarebbero state individuabili
nell’opera dello stesso Ippocrate, sarà seguito dagli stessi
Prassagora, Erofilo ed Erasistrato (Ps. Galenus, Introductio sive
medicus 4; cfr. Gourevitch, 1993). Della scuola empirica
conosciamo bene i tratti principali, esposti nell’opera di Celso
(De medicina, Proemium 31 ss.) e nella polemica galenica,
soprattutto sulla discussione delle cause di malattia (Galenus,
De causis procatarcticis 13, 170). Alla tensione verso la
speculazione e la teoria gli empirici oppongono una modalità
di acquisizione della conoscenza fondata sulla registrazione
delle esperienze, sola via per accedere alla comprensione di
ciò che può giovare ai malati; come dice Celso, «si definiscono
empirici dall’esperienza» (De medicina I, Proemium 27). Ogni
esperienza parte dal caso, che offre dati su cui è necessario
riflettere per via di ripetizione; la replica, che può essere
definita peira, cioè prova sperimentale, consente la verifica
dell’attendibilità dell’osservazione e il processo verso
l’acquisizione della certezza e, dunque, rende possibile la
proposta di una terapia. La conoscenza e la trasmissione dei
dati di esperienza avvengono attraverso i sensi; la ricerca
delle cause si limita alla registrazione di quello che i sensi
consentono di conoscere, mentre grande importanza
acquisiscono i sintomi e i segni del corpo, che costituiscono la
sfera di percettibilità della malattia. L’esperienza può essere
organizzata sulla base di un modello “triplice”, fondato su
quanto il medico registra personalmente (autopsía), ma anche
sulle possibilità offerte dal ragionamento analogico e dalla
consultazione di dati registrati da altri; essi si stratificano e
costituiscono una fonte (historía) cui il medico si deve
applicare per estrarne dati significativi e loro possibilità di
interpretazione e paragone con l’attualità. Questo modello
conoscitivo, che prende il nome di tripode empirico e che
diventerà concetto essenziale nella storia della setta, è
ascritto all’opera perduta di Glauce di Taranto, un
commentatore di Ippocrate vissuto nella metà del II secolo
a.C.

Il pensiero empirico, così come accade per altre sette


mediche, può essere caratterizzato da piccole variazioni,
trasmesse da un gran numero di aderenti la cui attività è
documentata fino al III secolo d.C.: tra questi, Eraclide di
Taranto (I sec. a.C.), commentatore di Ippocrate e autore di
opere di dietetica e farmacopea, con attenzione particolare
alle sostanze velenose; Apollonio di Cizio (I sec. a.C.), molto
noto per il trattato Sulle ossa, commento a Ippocrate dedicato
al trattamento delle fratture; Sesto Empirico (II-III sec. d.C.), la
fonte più importante a nostra disposizione sullo scetticismo
pirroniano e sulla critica serrata al dogmatismo e alla
convinzione di poter giungere per via dottrinale ad
affermazioni vere, autore di commenti medici perduti. Il
primo tratto comune di questi autori, peculiare del resto di
tutte le sette mediche, è l’atteggiamento polemico nei
confronti non solo degli oppositori, ma anche dei loro stessi
maestri: Filino non esita ad attaccare Erofilo, Serapione
contrasta Filino, Apollonio Eraclide e Bacchio e così via, in una
ricca varietà di posizioni. Alcune di queste possono essere
schematizzate (Mazzini, 1997): l’idea dell’incomprensibilità
della natura, che rende impossibile alla medicina diventare
scienza, secondo un pensiero condiviso con lo scetticismo; la
rinuncia all’indagine sulle cause di malattia che non siano
evidenti, cioè indagabili con i sensi (Celsus, De medicina,
Proemium 52), e dunque la rinuncia alla procedura
congetturale e all’indagine sperimentale, che non può
arricchire il dato di esperienza; un forte accento posto sulla
terapia, soprattutto dietetica e farmacologica, che si può
avvalere a pieno della validità delle proposte di cura del
passato; l’idea dell’inesistenza di malattie “nuove” e della
costanza delle forme e dei sintomi di malattia; la
sconfessione dell’utilità della ricerca anatomo-fisiologica, che
è vana sul morto e sul vivo è inutilmente crudele (Celsus, De
medicina, Proemium 31-39; 43-44). La forte connotazione pratica
della setta la rende molto frequentata e longeva; a Roma,
dove si associa allo scetticismo, i suoi afferenti sono spesso
medici di condizione sociale bassa (Gourevitch, 1993).

Alla centralità della scuola empirica a Roma si


contrapporranno numerose altre correnti di pensiero medico,
tra cui gli asclepiadei, gli pneumatici e, più tardi e di maggior
successo, gli esponenti della scuola metodica. Gli asclepiadei
sono i seguaci di Asclepiade di Bitinia, un medico operante
con grande successo a Roma a partire dal 90 a.C.;
antippocratico e sostenitore di una teoria atomistica secondo
cui il corpo sarebbe stato composto da particelle invisibili
(atomi), che scorrono nei canali del corpo (póroi)
determinando, secondo il loro flusso, salute o malattia. La
terapia asclepiadea, che si propone di correggere i difetti del
moto degli atomi attraverso una dietetica blanda e gradevole
e l’uso intensivo delle terme, le cui acque sono capaci di
regolare in base alla temperatura il grado di apertura dei póroi
e quindi di riportare a normalità il fluire degli umori, incontra
il favore del pubblico romano. Gli pneumatici tentano invece
una conciliazione della teoria umorale di Ippocrate con una
centralità di ruolo attribuita allo pneuma, motore del corpo e
origine del calore innato. Ma certamente la scuola di maggior
fortuna romana è quella dei metodici, i più coerenti nella
formulazione di un’impostazione teorica di base, che le fonti
attribuiscono a una linea “nobile” che da Asclepiade arriva a
Temisone di Laodicea e a Tessalo di Tralles (I sec. d.C.). La
scuola metodica ci è nota attraverso Celso (De medicina,
Proemium 55-58), gli attacchi dei suoi detrattori (Galeno e
Plinio) e i lavori sopravvissuti Sulle malattie delle donne di
Sorano di Efeso, medico sotto Traiano, e Sulle malattie acute e
croniche di Celio Aureliano (V sec. d.C.), epigone della
tradizione antica dei commenti, traduttore e adattatore del
lavoro di Sorano. Anche Antonio Musa, il medico liberto di
Augusto, celebre per aver guarito l’imperatore con una cura a
base di acque che gli valse il dono del sigillo aureo imperiale,
è allievo di Asclepiade e un precoce esponente del pensiero
metodico (Plinius, Naturalis historia XIX, 128; XXV, 77).

Il vero innovatore concettuale della setta sembra essere


Tessalo, che avrebbe limitato il ruolo della mera osservazione,
sostenendo la necessità di ricercare caratteri comuni alle
malattie, detti “comunità”. Il concetto di comunità si fonda
insieme «su qualcosa di concreto, che il medico vede
nell’ammalato e qualcosa di astratto, che concepisce»
(Gourevitch, 1988, p. XIII). Le comunità si fondano sull’idea del
corpo attraversato da flussi di atomi che scorrono nei canali
formulata da Asclepiade, e creano tre stati possibili: «un
genere stretto, uno rilassato, ed uno misto. I malati infatti
evacuano talvolta poco, talvolta troppo, talvolta poco da una
parte e troppo da un’altra […] l’osservazione di queste cose
forma la scienza medica; che essi determinano e fanno essere
come una via, che chiamano metodo, che deve contemplare
quanto c’è di comune nelle malattie» (Celsus, De medicina,
Proemium 56-58). Lo stato di costrizione o rilassatezza dei
canali del corpo, indotto dall’interazione con il mondo
esterno (il caldo rilassa, il freddo costringe), determina la
malattia, che è correggibile attraverso una preparazione che
predisponga i canali a riacquistare l’originaria condizione di
apertura dei loro meati e con una terapia impostata su cicli di
tre giorni (diatritos). Il periodo di diatritos può servire anche
solo da introduzione alla vera e propria terapia; essa è
introdotta da un “ciclo analettico”, una blanda preparazione a
base di dieta, bagni e unzioni con lo scopo di rafforzare il
corpo in vista della “fase metasincritica”. In questa
l’approccio terapeutico può arrivare a essere molto duro e
avvalersi di emetici violenti, emmenagoghi, ventose e
succussioni. La caratteristica del metodismo è, però, quella di
una malleabilità di fondo che consente al medico di
aggiustare il programma terapeutico in relazione allo stato di
salute del singolo malato e alle sue abitudini.

L’idea metodica che la medicina sia un sapere non assoluto,


ma una pratica che può adattarsi ai contesti e ai pazienti, è
probabilmente uno dei motivi del violento attacco rivolto da
Galeno sia ad Asclepiade sia alla scuola. La critica di Celso,
invece, più blanda e incentrata sull’eccessivo valore attribuito
al concetto di comunità, si deve al suo maggiore interesse
clinico, più favorevole a una disamina del singolo paziente
che al tentativo di inserirlo in una data teorizzazione. Vivian
Nutton (2004) ha sottolineato come un’attenta lettura del
lavoro di Sorano, ricco di spunti di grande ragionevolezza
clinica e di tratti di commovente attenzione umana,
suggerisca che Galeno abbia manipolato in modo cosciente
alcuni tratti dell’insegnamento metodico, esasperandoli, forse
nel tentativo di cancellare dal panorama intellettuale romano
e dal mercato medico competitori in grado di attrarre
clientela proprio per la malleabilità del loro approccio. A
sostegno di questa tesi sta il fatto che Galeno dedica ben otto
libri (perduti) alla confutazione delle dottrine di Asclepiade e
un trattato alla discussione critica della teoria asclepiadea
sull’essenza dell’anima; dopo tanta vis polemica, l’opera di
Asclepiade, il medico che l’orazione 19 dei Florida di Apuleio
racconta capace di riportare con farmaci i morti alla vita
(«richiamò subito con certi medicamenti l’anima che si
nascondeva nei recessi del corpo»), è per noi quasi del tutto
perduta.

Arriverò lì e lascerò i miei templi: Roma e la medicina


greca
Il racconto delle Metamorfosi di Ovidio (XV, 723-728) narra il
viaggio e l’importazione del culto del dio Asclepio da
Epidauro, dove era il suo più attivo e frequentato centro di
culto, sino a Roma, presso l’Isola Tiberina («Arriverò lì e
lascerò i miei templi» proclama il dio in procinto di lasciare
Epidauro; Metamorphoses XV, 659). Nel 292 a.C. Roma è
attaccata da una dira lues, una malattia feroce, che rende i
corpi pallidi ed esangui, i medicamenti conosciuti inutili e
necessario richiedere l’intervento delle divinità guaritrici
greche. Nessuna divinità autoctona è infatti in grado di
arrestare la mortalità. Un’ambasceria viene allora inviata
all’Apollo delfico, che reindirizza i Romani verso suo figlio, a
Epidauro. Lì, Asclepio indica nel serpente a lui sacro l’essere
che salverà Roma dalla malattia; l’animale dorato, dagli occhi
fiammeggianti, al rumore delle cui scaglie risuona il
pavimento di marmo del tempio, sale sulla nave, piegandola
sotto il suo peso e, appoggiato il capo sulla carena, dopo aver
salutato con un nostalgico sguardo il tempio paterno e la
terra nativa, salpa per Roma. Il serpe, attraversando a nuoto il
braccio di fiume, raggiunge l’Isola Tiberina per crearsi un
nido, indicando così il luogo dove erigere il tempio di
Asclepio, che salverà la città dall’epidemia.

A questo racconto poetico fa eco la narrazione storica


dell’importazione della medicina greca di Plinio che la
attribuisce, in accordo con la sua fonte Cassio Emina,
all’arrivo (219 a.C. ca.) di un medico di tradizione ippocratica,
Arcagato di Lisania, negli anni del consolato di Lucio Emilio
Paolo e Marco Livio Salinatore (Naturalis historia XXIX, 4-6). Ad
Arcagato, per il suo essere vulnerarius egregius, sarebbero stati
concessi la cittadinanza e l’uso di una bottega nella zona
dedicata alla medicina (in compito Acilio); ma la sua crudeltà
nel praticare trattamenti troppo violenti gli avrebbe presto
meritato il titolo di carnifex. Un atteggiamento
sostanzialmente antiellenico, che si applica con particolare
facilità alla medicina, era già forte in Catone Maggiore (234-
149 a.C.), il sostenitore dei prisci mores; a lui i Romani
avrebbero eretto una statua nel tempio della Salute
(Plutarchus, Cato maior 19, 4), a testimonianza di una modalità
italica della cura, cui Roma rimane attaccata per un lungo
arco di tempo. Catone proibisce al figlio Marco di aver a che
fare con i medici greci (Naturalis historia XXIX, 7), gente iniqua e
intrattabile, che esercita la medicina a solo scopo di lucro,
mandata sul territorio romano per sterminare i barbari;
meglio è ricorrere ai blandi farmaci, alle erbe note al pater
familias e ai bagni, pratica amata dai Romani, per correggere
gli stati di sofferenza del corpo. Catone stesso avrebbe scritto,
secondo Plinio (Naturalis historia XXIX, 8), un trattato di
farmacologia domestica, fonte preferibile a quelle greche,
viziate dalla insopprimibile tendenza di quel popolo
all’avidità, alla rivalità, al contagio della pubblica morale: la
medicina sarebbe così l’unica tra le artes greche a non essere
bene accolta a Roma, dove Catone lamenta non ci sia legge
che punisca l’ignoranza dei medici o argini il loro desiderio di
sperimentazione, non ci sia regola che limiti l’importazione di
materie prime straniere, molto costose e di dubbia efficacia, e
soprattutto non ci sia divieto di pratiche in contrasto con la
mascolinità romana (come l’epilazione) o che mettono in
pericolo la pudicitia delle donne, rivelando parti del corpo che
dovrebbero essere ben celate agli estranei. Si rimprovera alla
medicina greca, dunque, l’insensatezza delle sue prescrizioni,
la violenza di alcuni trattamenti (salasso e cauterio) e
l’inesistente moralità di chi la pratica; Roma per molti secoli è
vissuta bene anche senza medici, ma non senza medicina
(Naturalis historia II, 155). Le pratiche curative del pater familias,
che si occupa con erbe e rimedi tradizionali di figli, schiavi,
liberti e animali domestici (Varro, De agri cultura II, 1, 21-22),
sono contrapposte alla rigida teoria ippocratica e alla sua
pratica, affidata per lo più a persone di rango sociale
estremamente basso. I Greci, infatti, accusati di usare la loro
lingua per rendere incomprensibili le loro pratiche, sono
spesso schiavi o liberti.

La prima correzione di questo modello di relazione (molto


longevo, come la satira contra medicos di Giovenale e Marziale
dimostra ancora tra I e inizi del II sec. d.C.) si deve ad
Asclepiade, il precursore del metodismo, cui viene
riconosciuto, anche da Celso, il merito di aver trovato una
mediazione tra sapere greco e usi igienico-sanitari romani.
Asclepiade, da buon oratore (Cicero, De oratore I, 14), sostiene
la non necessità di trattamenti violenti, sostituendo il salasso
con bagni riequilibratori, dieta blanda, vino dolce, poco
esercizio fisico; si deve procedere «tuto, celeriter et iucunde»
(Celsus, De medicina III, 4, 1) al fine di evitare che i condotti del
corpo cadano in stati di eccessivo rilassamento (status laxus) o
costrizione (status strictus), mantenendo la medietas che è
rappresentata dallo stato di salute (status mixtus).

Un atteggiamento opposto a quello che Plinio attribuisce a


Catone è testimoniato dagli otto libri dell’opera Sulla medicina
di Aulo Cornelio Celso (I sec. a.C.-I sec. d.C.), sola parte
superstite della trattazione enciclopedica Artes, scritta sotto il
principato di Tiberio: riscoperto nel 1426 e pubblicato per la
prima volta da Bartolomeo Fonzio nel 1474, Sulla medicina
esprime il tentativo di conciliare il mondo teorico greco con il
milieu socioculturale romano. La mediazione celsiana tra le
posizioni teoriche opposte di razionalisti ed empirici dà
origine a un testo di grande interesse; esso costituisce la sola
testimonianza in lingua latina sulla medicina pregalenica che
documenta la situazione sanitaria a Roma nel I secolo d.C. È
un’opera di terapeutica, suddivisa in parti di dietetica,
farmacologia e chirurgia, con trattazione di temi di igiene,
semeiotica, clinica e grande centralità di argomenti chirurgici,
cui sono dedicati interamente il VII e l’VIII libro.

Chi effettivamente fosse Celso è stato tema a lungo


discusso dalla storiografia. Medico consapevole e dotto, con
una particolare propensione per i temi chirurgici, giurista
(Wellmann, 1913) o esponente di un pensiero enciclopedico
molto fortunato a Roma (Sconocchia, 1993) – iniziato con i
Disciplinarum libri IX di Marco Terenzio Varrone, dedicati alle
arti liberali, e culminato con l’opera di Galeno (Romano, 1994)
–, Celso ha riassunto nella parte medica del suo trattato gran
parte del sapere a lui precedente e coevo. Conosce bene i testi
del Corpus Hippocraticum e altrettanto le posizioni del
metodismo; è possibile che attinga a fonti alessandrine, alle
quali è cronologicamente per noi l’autore più vicino (Sabbah,
Mudry, 1994); manifesta, soprattutto nel Proemio del suo
trattato (46-47), un chiaro apprezzamento per le “cause
evidenti”, la cui ricerca è alla base delle posizioni empiriche,
ma è in grado, nelle parti rimanenti di questo suo lavoro, di
recuperare un atteggiamento di neutralità. La posizione di
Celso, definibile in termini di un eclettismo lievemente
propendente verso la posizione degli empirici, è infatti
modellata dallo sforzo di mantenere il più possibile obiettività
di giudizio e neutralità nei confronti del pensiero delle sette
mediche. Heinrich von Staden (1989) ha ritenuto che questa
scelta di non polemica nei confronti di posizioni dottrinali
antitetiche (razionalismo, empirismo, metodismo) dimostri
l’intenzione di guadagnare credibilità e autorevolezza presso
un pubblico romano colto e di estrazione sociale alta, in grado
di apprezzare lo sforzo di ricollocare la medicina di origine
greca in un territorio “nuovo” e non sempre ben disposto.
Così, Celso condivide con gli empirici un atteggiamento
critico nei confronti della dissezione anatomica e il focus sulla
medicina come terapia; con Ippocrate l’approccio chirurgico e
una deontologia attenta a definire l’effettiva necessità
dell’intervento; con i metodici l’attenzione alla dietetica e alle
fonti farmacologiche (in particolare Sestio Nigro, 35 a.C.-40
d.C. ca.). Alcune posizioni celsiane sono invece nuove: Celso
suggerisce l’unitarietà della figura del medico e del chirurgo,
di cui tratteggia le caratteristiche fisiche e caratteriali;
dimostra attenzione particolare per tecniche operatorie
innovative; pone quesiti etici sulla necessità di intervenire per
riparare a danni estetici; riflette su una tipologia di medicus
amicus simile a quella tratteggiata nell’opera ciceroniana e
senecana. La medicina di Celso si esprime in una lingua
nuova, in cui compaiono molti grecismi in grado di indicare
con maggiore esattezza concetti, tecniche e strumenti, ma
anche molti termini creati per la prima volta o utilizzati qui in
modo del tutto rinnovato. L’opera di Celso è subito
apprezzata: da Columella, che ne loda i libri perduti
sull’agricoltura, da Plinio e da Quintiliano, il quale, pur
nell’ambito di una posizione critica, gli riconosce il merito di
essere una fonte credibile in molti campi del sapere
(Institutiones oratoriae XX, 11, 24).

Il maggior esponente del metodismo a Roma è Sorano di


Efeso, come riconosce Celio Aureliano, che lo chiama
Methodicorum princeps. Medico sotto i regni di Traiano e
Adriano, Sorano giunge a Roma dopo un periodo di
formazione ad Alessandria d’Egitto, testimoniato dai molti
autori – dal lessico bizantino Suda a Galeno, ai bizantini Aezio
di Amida e Paolo di Egina – che ne trasmettono parti di
biografia. Autore molto prolifico, cui le fonti ascrivono libri
sull’embriogenesi e sulla natura del seme, opere di
farmacologia, un libro sulle febbri e un’opera importante
dedicata a un topos classico del metodismo, le malattie acute
e croniche (di cui sopravvive l’adattamento in otto libri di
Celio Aureliano, medico nativo della Numidia e attivo a Roma
nel V sec. d.C.), Sorano è certamente un uomo colto, in grado
di discutere di temi filosofici come la natura dell’anima, cui
avrebbe dedicato uno scritto, e di raccogliere dati per biografie
di medici famosi dell’antichità, tra cui una Vita di Ippocrate a
lui ascritta. Tutte queste opere sono andate perdute, e con
esse un trattato in cui si discuteva un altro tema classico del
metodismo, quello delle comunità o stati del corpo, mentre si
è conservata la sua opera Sulle malattie delle donne, in quattro
libri. Riaffiorata solo nel 1830 in un manoscritto conservato a
Parigi, interamente preservata nei primi due libri e per buona
parte nei rimanenti (ai cui contenuti è comunque possibile
accedere attraverso il lavoro di Celio Aureliano e un
compendio per domanda e risposta di Muscione, adattatore
del VI sec. d.C.), l’opera di Sorano è un testo scritto a fini
didattici, per la formazione della maia, cui compete non solo
la cura della sfera del parto, ma anche la conoscenza dei tratti
principali della fisiopatologia femminile e il trattamento dei
primi, delicati momenti della vita del neonato. La novità
sostanziale dell’opera di Sorano è l’inclusione delle donne in
un panorama formativo tradizionalmente limitato agli
uomini; è lecito supporre che le maiai greche, così come le
obstetrices latine, su cui esiste vasta documentazione
epigrafica, siano, almeno nella maggioranza dei casi,
illetterate e detentrici di un sapere trasmesso, per via orale in
un ambito strettamente familiare, dalle madri e dalle donne
più anziane. Il termine greco maia non pare nemmeno
corrispondere a una reale definizione professionale, almeno
nella Grecia di età classica; esso indica, con ogni probabilità,
una competenza non tecnica, che occasionalmente funge da
mediatrice con il medico ippocratico, chiamato a risolvere
solo casi di estrema gravità. Il contatto con le competenze
dotte del medico, unite forse alla saltuaria possibilità di
partecipare a letture pubbliche informali di libri, sono la sola
formazione cui una donna greca di epoca classica interessata
alle arti ostetriche può avere accesso (Demand, 1995). Con
l’avanzare del tempo, questa informazione può essere almeno
parzialmente corretta; le iscrizioni che riguardano alcune
figure di curanti donne, come a Roma Restituta o le ostetriche
che hanno curato la moglie del console Flavio Boeto prima
della consulenza richiesta a Galeno, possono far ipotizzare
«una formazione simile a quella della maggior parte degli
uomini» (Nutton, 2004, p. 197).

L’opera di Sorano è invece dedicata alla formazione di una


professionalità femminile colta, in possesso di una serie di
competenze teoriche che la rendano adatta ad affrontare i
rischi del parto e del puerperio: una donna in grado di leggere
e scrivere, in possesso di una conoscenza anatomica di base e
di competenze preliminari di igiene, vivace di spirito, dotata
di buona memoria e di inclinazione a un lavoro che può
essere anche duro (Gynaecia I, 2). Un’istruzione di base «le
consentirà di acquisire la sua arte e di ricorrere anche alla
teoria»; la memoria, di conservare le conoscenze, perché
sapere è saper richiamare alla mente ciò che si possiede; la
vivacità di spirito, di cogliere rapidamente quello che viene
detto e quello che accade; il coraggio le permetterà di
fronteggiare l’imprevisto – che spesso, nell’ostetricia antica,
può significare rischio di morte –, la discrezione, di conservare
per sé, al pari del medico ippocratico, i segreti di cui verrà a
conoscenza durante l’esercizio della sua arte. A queste doti
intellettive e morali unirà buona proporzione del corpo, che
indica salute, robustezza per resistere alla fatica, dita lunghe
e sottili, che non creino disagio alla partoriente durante le
manovre necessarie a consentire l’espulsione del feto.

Doti naturali e istruzione consentiranno un esercizio


professionale attento e consapevole nel parto fisiologico e
nelle sue possibili complicanze, tema di trattazione del
secondo libro, e una competenza nella terapia farmacologica
e chirurgica cui ricorrere per trattare le principali alterazioni
del corpo femminile. La concezione anatomica femminile di
Sorano riflette, contro le posizioni dominanti nella dottrina
metodica, l’eredità del pensiero anatomico alessandrino;
l’utero descritto da Sorano è precisamente collocato tra le due
anche, al di sotto di retto e vescica, collegato tramite un collo
fibroso alla vagina, struttura semicilindrica aperta nella sua
parte inferiore. La struttura uterina è in grado di espandersi
per assecondare i ritmi cronologici della gravidanza e
modifica le sue dimensioni in rapporto al numero di parti che
una donna sia riuscita a portare a termine; ha la forma di una
ventosa, fissata alle parti adiacenti attraverso legamenti che,
infiammati, si contraggono causando gli spostamenti
dell’organo. La varietà di fenomeni patologici che i testi
ippocratici indicavano sotto il nome di isteria e giustificavano
con la teoria di un utero mobile nel corpo alla ricerca della
qualità calda (mancante alla fisiologia imperfetta delle donne
che ha bisogno del rapporto sessuale per mantenere una
condizione di equilibrio), diventa in Sorano un fenomeno ben
spiegabile su sola base anatomo-fisiologica: l’utero non si
sporge più al di fuori del corpo femminile o verso gli
ipocondri, “come un animale” alla ricerca del corretto
rapporto umorale. Anche la precocità dei rapporti sessuali
cessa di essere un’indicazione sanitaria; anzi, le nozze
andrebbero previste dopo il superamento del menarca, in
modo da far sì che l’età troppo giovane delle spose romane
(precedentemente alla legislazione giustinianea è possibile
contrarre matrimonio prima del compimento del dodicesimo
anno d’età) non sia preludio a parti molto difficoltosi, spesso
conclusi con la morte della madre e del feto. La conoscenza di
fonti alessandrine è inoltre dimostrata, pur all’interno di una
fisiologia ancora sostanzialmente “uterina” (Gourevitch, 1988),
dalla citazione delle ovaie (dídymoi), friabili e coperte di una
sottile membrana, assimilabili ai testicoli come in Erofilo,
nonché dall’illustrazione di colore e natura delle membrane
esterna e interna dell’utero.

Il metodismo di Sorano è equilibrato e mai condizionante,


come dimostrano il valore attribuito all’osservazione
anatomica e la libertà di accoglierne le indicazioni – anche
nell’errore, come per esempio quando nega l’esistenza
dell’imene sulla base di evidenze autoptiche (Gynaecia I, 17) –
o il suggerimento di adattare, di volta in volta, la terapia alle
necessità del caso clinico, senza limitarsi rigidamente alla
dottrina degli stati del corpo. L’atteggiamento metodico che
presta attenzione alla gradualità dell’intervento medico
spiega il suggerimento di correggere i malposizionamenti
fetali in modo dolce prima dell’espulsione; di evitare le
trazioni violente del cordone ombelicale; la disponibilità ad
accettare aspetti di superstizione se servono a confortare una
partoriente spaventata; il tentativo di rendere meno cruda e
dura la realtà di un intervento di embriotomia provvedendo a
una cura solerte e costante della madre; l’indicazione di
fisioterapia per correggere le paralisi; l’ammorbidimento del
corpo dei neonati con bagni e unguenti e il divieto ai bendaggi
stretti, che inibiscono lo sviluppo dei fianchi nelle femmine e
l’espansione delle spalle nei maschi, impedendo loro una
salutare vita adulta.

Una medicina “dinamica”: tra farmacologia e vita


militare
Nella lettera prefatoria al trattato Sulla materia medica,
scritto in un periodo compreso tra il 60 e il 78 d.C. e
indirizzato ad Areio di Tarso, autore di opere farmacologiche e
di una biografia di Ippocrate, nonché suo maestro nella
farmacologia, Dioscoride di Anazarbo allude alla sua
conoscenza di vegetali, animali e minerali utilizzati per la
composizione dei farmaci collegandola all’esperienza
acquisita durante una vita condotta in ambito militare. La
difficile traducibilità dell’espressione usata da Dioscoride
(«come tu ben sai, ho viaggiato in molte terre perché ho
vissuto una vita da soldato») è servita spesso da spunto
storiografico per discutere la sua reale appartenenza ai ranghi
dell’esercito romano, sotto il quale si sarebbero compiuti i
lunghi viaggi di conoscenza attestati dalla sua competenza
farmacologica.

L’espansione e il consolidamento dei confini dell’impero


sotto il principato di Augusto hanno imposto una
riorganizzazione globale dell’esercito e il suo collocamento in
fortezze attrezzate e stabili, particolarmente munite in
territori dove gli equilibri ai confini sono delicati; in Cantabria,
Equitania, Britannia, sul fronte alpino occidentale e orientale,
in Pannonia e nell’instabile provincia germanica, nei Balcani e
in Macedonia, nelle zone di confine come l’Armenia, nelle
province d’Africa e in particolare in Egitto, la presenza di un
esercito professionale diventa garanzia di pax duratura e
occasione di integrazione sociale; ai volontari che prestano
servizio in cavalleria o nelle ali di fanteria è garantita la
cittadinanza romana, seppure al termine di un periodo di
servizio molto lungo, circa un ventennio. Le necessità
sanitarie di un esercito stanziale, spesso costretto a vivere per
lunghissimi periodi in zone dai climi ostili, freddi o molto
caldi, giustificano la progressiva professionalizzazione della
figura del medico militare e la presenza al seguito delle coorti
di professionisti anche privati (dunque non militari di
professione), chiamati come specialisti al seguito di generali e
imperatori. Ad alcuni la vita militare offre occasione di viaggi
e conoscenze altrimenti non facili; Galeno stesso ricorda che
la possibilità di osservare l’anatomia dei Germani morti in
battaglia avrebbe offerto ai medici un’occasione importante di
crescita culturale.

Dioscoride può essere uno di questi professionisti “in


viaggio”, sebbene siano stati individuati alcuni punti che
rendono difficilmente credibile l’idea che la sua vita sia stata
interamente spesa nei ranghi dell’esercito: Vivian Nutton e
John Scarborough (Scarborough, Nutton, 1982; Scarborough,
1968) e poi John Riddle (1985), in un bel libro sull’opera di
Dioscoride, sono infatti giunti alla conclusione che la scarsità
di testimonianze dioscoridee sulla terapia delle ferite (che un
medico militare avrebbe dovuto trattare con evidente grande
competenza), la gran quantità di rimedi ginecologici (la cui
utilità è assai discutibile se si presuppone un esercizio
professionale a fianco delle legioni) e la conoscenza di parti
del mondo, come la città di Petra, all’epoca non raggiunte
dagli eserciti romani, farebbero pensare solo a un periodo di
breve durata condotto sotto le armi e non a un’intera vita
dedicata all’attività di medico militare. Forse Dioscoride ha
effettivamente raggiunto, con l’esercito romano, l’Egitto e
l’Armenia, tra il 55 e il 63 d.C.; dal momento però che la sua
opera dimostra una formazione compiuta in ambito medico e
la convinzione che la farmacia non sia scindibile dalla techne
medica, ma che le due parti insieme rappresentino l’unica
forma possibile di competenza sulla salute, in grado di
avvicinare l’aspetto teorico a quello clinico («la farmacologia è
una necessità, strettamente legata all’interezza dell’arte della
medicina e con essa stretta in un’alleanza invincibile»,
Praefatio 5), si può ipotizzare che Dioscoride sia stato
soprattutto un medico viaggiatore, esperto di porti e di erbe.
La figura del medico itinerante, molto ben attestata già nel
mondo greco di età classica (si pensi al pubblico di
destinazione del trattato ippocratico Sulle arie, acque e luoghi),
è particolarmente caratterizzante la storia dell’impero dei
primi secoli: l’allargamento del limes romano, oltre a imporre
la necessità di portare cure mediche in zone nuove del
mondo, offre la possibilità, almeno ad alcuni esponenti di ceti
sociali privilegiati, di vedere nuovi paesi ed estendere i confini
della conoscenza scientifica a contesti, usi, costumi e –
appunto – sostanze difficilmente accessibili a un medico negli
anni precedenti.

Sulla materia medica di Dioscoride è, da questo punto di


vista, un’opera particolarmente significativa; i suoi cinque
libri raccolgono la descrizione di circa seicento sostanze, la
base di una conoscenza farmacologica tra le più vaste
dell’antichità, talmente ampia da meritare il giudizio positivo
di un critico del pari di Galeno (De simplicium medicamentorum
temperamentis et facultatibus VI, 11). Un’eccezionale
competenza teorico-pratica doveva essere attestata anche in
altri lavori a lui attribuiti e oggi perduti, tra i quali un
giovanile trattato Sui rimedi di facile reperibilità, una
composizione sulle erbe curative delle malattie delle donne,
un trattato sui purganti, un libro sulle proprietà magiche di
piante e oggetti utilizzati come amuleti medici. Le fonti di
Dioscoride non si limitano ai classici scritti della tradizione
(«molti che mi hanno preceduto si sono basati solo su fonti
scritte») che, pur considerati e citati, possono presentare
limiti: Crateva (fl. 100 a.C.), su cui il giudizio di Dioscoride è tra
i più positivi, è descritto come un esperto rizotomo
(raccoglitore di erbe) più che come un farmacopola o un
medico; gli asclepiadei e i metodici, criticati perché hanno
spiegato i meccanismi di azione delle sostanze naturali
fondandosi su una conoscenza superficiale dei materiali e
sulla sola teoria “atomistica” delle modalità di interazione tra
sostanze naturali e condotti del corpo umano; Sestio Nigro,
l’autore di opere farmacologiche citato da Plinio (Naturalis
historia XII, 63; XX, 15, 31-32) e ricordato da Galeno come un
seguace di Asclepiade e uno dei massimi esponenti del
pensiero farmacologico romano del I secolo d.C., perché
avrebbe avvicinato sostanze tra loro incompatibili; molti altri,
che hanno scelto un criterio alfabetico di esposizione delle
sostanze terapeutiche, tralasciando in questo modo le loro
vere peculiarità, cioè le proprietà che ne caratterizzano
l’azione. Il range di classificazione delle qualità pensato da
Dioscoride si estende, infatti, ben al di là delle quattro qualità
fondamentali della materia del pensiero ippocratico.

L’interesse di Dioscoride per piante e animali, le cui origini


egli stesso riporta al periodo di formazione nella città di Taso,
in cui esisteva una forte tradizione farmacologica, è
supportato dall’osservazione diretta di sostanze conosciute in
geografie lontane, dall’Asia Minore all’Armenia, dalla Siria
alla Cappadocia, dalla Gallia al Mar Rosso, da Creta a Cipro,
alla Sardegna, a Rodi, molte delle isole greche, la Spagna, la
Britannia, alcune zone dell’Africa («Io ho esercitato la
massima precisione nel cercare di sapere il più possibile
sull’argomento attraverso l’osservazione diretta, e nel
controllare quello che era universalmente accettato nelle
fonti scritte e nel far ricerche in ogni regione geografica»,
Praefatio 5). L’intento dichiarato del testo (solo parzialmente
riuscito) è di classificare i materiali di osservazione in base a
tre grandi categorie (animali, piante e minerali), da cui
discendono varie sottocategorie e l’elencazione degli effetti
che ognuna ha sul corpo, sulla base di un criterio di affinità di
azione («proverò a usare un sistema diverso e descriverò le
classi in accordo con le proprietà di ciascuna droga», Praefatio
5). Questo sistema, ove compiutamente applicato, avrebbe
dato origine a un innovativo ordine di esposizione fondato
solo sulla logica; incompiuto, genera invece
un’organizzazione interna del testo piuttosto complessa, tale
da imporre ai copisti delle generazioni successive la necessità
di riorganizzare le sostanze dioscoridee facendo ricorso a un
più antico sistema espositivo per ordine alfabetico (Nutton,
2004).

Una conoscenza acquisita attraverso ripetute esperienze di


viaggio e lo sforzo di collocare la farmacologia al di là dei
confini “tecnici” dei raccoglitori di erbe, per la fondazione di
una competenza teorica utile immediatamente nella pratica
clinica accomunano l’opera di Dioscoride a quella dell’altro
grande autore di farmacologia romana, Scribonio Largo.
Medico dell’imperatore Claudio, che seguì, in una posizione
da definire – il medico personale dell’imperatore era in quegli
anni Senofonte, come ci dice Tacito (Annales XX) – nella
spedizione in Britannia del 43, Scribonio è autore di un
trattato di Compositiones, scritto probabilmente in un periodo
precedente al 48, anno della morte di Messalina, citata nel
testo come utilizzatrice di un dentifricio a base di erbe a uso
cosmetico. Le Compositiones sono dedicate a Caio Giulio
Callisto, il liberto nei favori di Caligola, «potentia notus»
all’interno della corte imperiale (Plinius, Naturalis historia
60), che avrebbe fatto da tramite tra Scribonio e Claudio,
XXXVI,
consegnando all’imperatore alcune delle sue pagine “latine”.
La citazione di opere scritte in latino autorizza a pensare che
Scribonio potrebbe essersi esercitato anche nella lingua greca,
a lui nota forse per le supposte origini siciliane, come anche
la conoscenza di erbe dell’isola e di rimedi locali contro il
morso dei serpenti sembrerebbe dimostrare (Baldwin, 1992).
Scribonio ha di certo una conoscenza approfondita della vita
e delle abitudini della corte imperiale e della Roma dei ceti
elevati, al punto che alcuni studiosi lo collocano tra le fonti
misconosciute dalla storiografia, utilissime invece per la
ricostruzione della vita “interna” nel primo impero e per la
definizione del quadro sociosanitario romano (ibid.). I suoi
rimedi, duecentosettantuno preparazioni ordinate a capite ad
calcem per il trattamento di una svariata quantità di malanni,
sono spesso associati al nome del potente per il quale sono
stati composti; rimedi per il mal di orecchie, per la litiasi
vescicale, per le coliche, anche solo per i difetti estetici della
dentatura portano i nomi di Augusto, di Livia, di Ottavia e di
Messalina. Egli li definisce, nella lettera prefatoria, come un
contributo incompleto, scritto nelle condizioni di precarietà
che il viaggio impone, senza possibilità di consultare libri e
dunque fondandosi solo su esperienza e memoria («Siamo
infatti, come sai, in viaggio; e non ci segue se non il numero di
libri necessario», Praefatio 25).

In realtà il testo di Scribonio rappresenta un punto


importante per definire l’esistenza di una “specificità” della
medicina romana rispetto ai suoi precedenti greci; Philippe
Mudry (1997) ha dimostrato come in particolare il messaggio
contenuto nella dedicatoria, che esalta il ruolo della
farmacopea, la cui sola corretta gestione può aiutare il medico
a soccorrere gli ammalati, riscriva in modo nuovo l’imperativo
deontologico del Giuramento ippocratico, arricchendolo dei
concetti stoici di misericordia e humanitas. La medicina, che è
scientia sanandi, non nocendi, deve essere consapevole del ruolo
fondamentale che i farmaci, soprattutto composti, hanno
nella terapia; Scribonio riprende la definizione di Erofilo
secondo cui «i farmaci sono un dono divino» e il loro impiego
costituisce, dunque, un imperativo morale, la cui omissione è
imputabile di negligenza o, se volontaria, di criminalità. Il
vero medico, in un richiamo diretto al Giuramento ippocratico,
è consapevole dell’utilità dei farmaci, che sono in grado di
cambiare rapidamente la condizione di un paziente, come se
attraverso di essi agisse un dio, e offre la sua competenza
terapeutica a tutti, anche a coloro che nella sua qualità di civis
romanus e buon cittadino avrebbe combattuto come nemici. Il
richiamo di Scribonio a un medico obbligato a rispondere a un
alto livello di eticità, come avesse giurato su un patto militare
(«che è vincolato al giuramento medico, come prescritto»,
Praefatio 10) fa riferimento nel contempo a un’essenza
intrinsecamente morale dell’arte medica («secondo
l’intenzione della stessa professione») e a quella che Mudry
(1997) definisce «l’ideologia nazionale del cittadino-soldato».

L’alto livello culturale di Scribonio, che come Dioscoride


poteva aver scelto la vita militare come occasione per
acquisire nuova esperienza, ci consente di ridefinire alcuni
aspetti della professionalità dei medici al seguito dell’esercito
nelle campagne di consolidamento dei confini dell’impero. Se
infatti le fonti, anche archeologiche, ci consegnano ampia
documentazione sulle strutture militari note sotto il nome di
valetudinaria (“case della salute”), siamo meno informati sulle
reali modalità della loro organizzazione, molto spesso
descritta come affidata solo a militari di professione, che
esercitavano sulla base dell’esperienza conquistata sui campi
di battaglia nella cura dei commilitoni feriti. La presenza,
anche temporanea, di uomini colti al seguito di generali e
imperatori corregge, almeno parzialmente, questa prospettiva
e permette di associare all’organizzazione militare verticistica
che regge il valetudinarium anche alcune professionalità
specifiche, di profilo culturale più alto.

I valetudinaria, strutture sanitarie la cui reale destinazione


d’uso è ancora sottoposta al vaglio della critica storica, sono
costruzioni di confine; in genere hanno alcune caratteristiche
comuni, come l’essere costruiti, secondo un modello
architettonico che replica in larga scala quello della domus
romana, intorno a una corte aperta, in cui vengono raccolte le
acque piovane, utilizzabili anche a fini igienici. Attorno a
questo nucleo si articolano le stanze di ricovero, piccoli locali
con un accesso centralizzato per mantenere le parti interne al
riparo dalla rigidità del clima e dall’invasione della polvere.
Sorgono spesso in vicinanza di fonti termali e in posizione
sopraelevata e ombreggiata per consentire il vantaggio
terapeutico dell’uso di acque calde e per evitare i rischi che
l’eccessiva vicinanza con zone di acque paludose possono
comportare: si tratta delle stesse precauzioni suggerite per
l’allestimento degli accampamenti, che non debbono essere
esposti al caldo estivo, né consentire ai militari di abbeverarsi
con “acque cattive”, che, simili al veleno, causano pestilenza
(Vegetius, Epitoma rei militaris III, 2). I valetudinaria sono, però,
in genere costruiti soprattutto tenendo conto della posizione
del nemico, quindi non esclusivamente sulla base di
caratteristiche ambientali favorevoli alla salute (Gourevitch,
2011). Essi sono anche spesso troppo lontani dai luoghi di
battaglia per poter effettivamente aver svolto sempre un ruolo
di primo soccorso; è possibile che alcune strutture
funzionassero soltanto come presidi sanitari per il
trattamento di patologie non gravi e di malattie a
trasmissione sessuale, per l’esecuzione di interventi di piccola
chirurgia (è attestato dal reperimento di strumentaria il
trattamento di patologie oculari, ernie, fistole e ulcere), forse
anche per fornire trattamenti sanitari alle popolazioni del
luogo, mentre altre potevano in effetti rivestire il ruolo di
strutture di prima emergenza. In ogni caso, le fonti paiono
testimoniare che feriti molto gravi o bisognosi di una lunga
convalescenza fossero in genere rinviati verso le zone di
provenienza. Un veterinario è addetto alla cura dei cavalli e
delle greggi (Ps. Hyginus, De munitionibus castrorum 35).
Dell’esistenza di costruzioni urbane simili, destinate alla cura
di gladiatori e servi, abbiamo testimonianza in Columella (De
re rustica XI, 1).

Quod optimus medicus sit quoque philosophus: Galeno di


Pergamo
Galeno costituisce un unicum nella storia del pensiero
medico antico: anatomista che rivoluziona l’approccio al
corpo attraverso una lunga e ricchissima esperienza
dissettoria condotta sugli animali, filosofo e retore,
grammatico e autore molto prolifico, rifondatore del sapere
ippocratico, fisiologo e sperimentatore, clinico di grande
successo sociale, teorico della farmacologia, bibliofilo,
polemista accanito, amico di imperatori e nobili, nemico di
moltissimi. Della vita di Galeno conosciamo molto, anche se
quasi solo dalla sua voce diretta; siamo di fronte, come
sottolinea Véronique Boudon-Millot (2012), all’unico caso in
cui il problema della storiografia è operare una selezione tra le
moltissime notizie che egli in prima persona ci consegna, a
dispetto di un quasi totale silenzio delle fonti coeve sulla sua
vita e sulla sua opera. Galeno giustifica questo atteggiamento
con un’ostilità motivata dalla sua straordinaria ricchezza,
dalla sua eccezionalità professionale e dal grande favore
goduto presso la corte imperiale, con Marco Aurelio prima e
Commodo poi. Resta più difficile da spiegare perché
nemmeno Marco Aurelio citi mai, neppure in modo indiretto,
il medico che narra di aver guarito, nel momento del suo
arrivo a Roma, il piccolo Commodo, affetto da una malattia
nel cui trattamento molti altri prima avevano fallito. Ampie
parti del quadro biografico che possediamo, dunque, sono il
frutto di una personalità molto acuta e molto cosciente della
propria grandezza, destinata a configurarsi come un’auctoritas
fondativa della medicina occidentale e, come tale, a passare
pressoché indiscussa nelle fonti medievali sino al primo evo
moderno.

Gran parte del racconto autobiografico di Galeno è


contenuto nei trattati Sull’ordine dei propri libri e Sui propri libri,
in cui una vita dedicata allo studio e alla pratica della
medicina si intreccia con la narrazione di un grande amore
per la letteratura e per la scrittura. Nato a Pergamo nel 129
d.C., da Nicone, un intellettuale e architetto che lo avvia in
modo precoce allo studio della matematica, della logica e
della filosofia aristotelica e platonica, Galeno prosegue i suoi
studi presso scuole mediche famose, come quella di Satiro, di
Pelope e di Numisiano, tra Smirne, Corinto e Alessandria
d’Egitto.

È ad Alessandria, colpito dal clima culturale che ancora vi


regna e dall’eredità del pensiero anatomico di Erofilo e di
Erasistrato, che nel 152 circa Galeno decide di fermarsi per un
periodo di approfondimento delle sue conoscenze sul corpo
che si rivelerà fondamentale negli anni seguenti. Tenta di
acquistare la biblioteca del suo maestro Numisiano dal figlio,
che rifiuta però di cedergliela; sono di questo periodo iniziale
di formazione un trattatello sulla costituzione dell’utero e un
libro sui movimenti del torace.

Tornato a Pergamo, vi esercita per un breve periodo come


medico dei gladiatori, esperienza che gli consente di
continuare nella conquista dell’idea di un corpo
anatomicamente descrivibile come insieme complesso di
strutture coordinate fra loro grazie a una funzionalità e a una
finalità comuni.

Grazie alla sua abilità dissettoria, dimostrata nel corso di


spettacolari esperienze pubbliche, Galeno ottiene un invito a
Roma, probabilmente nel 162, agli inizi del regno di Marco
Aurelio, all’età di trentaquattro anni. L’amicizia con il filosofo
Eudemo, presso cui soggiorna e che cura con il pronostico
esatto dell’andamento di una febbre, gli apre le porte della
migliore società romana e gli consente di avvicinare il circolo
imperiale, in cui rafforza la sua fama con la cura di Commodo
e con la guarigione di altri illustri esponenti della nobiltà, tra
cui la moglie del console Boeto, che Galeno salva da una
malattia uterina in fase molto avanzata. A Boeto Galeno
dedica i primi due libri Sui procedimenti anatomici; di questi
primi anni romani, molto fecondi, sono il primo libro
dell’opera Sull’uso delle parti, un trattato perduto sulle cause
della respirazione, e i commenti alle opere ippocratiche. In
questi anni si conquista un vasto pubblico anche non colto,
con dimostrazioni settorie e vivisettorie pubbliche di grande
impatto emotivo: recide i nervi ricorrenti di un maiale,
lasciando stupito il pubblico che improvvisamente non ode
più le urla dell’animale; comprime i distretti cerebrali di una
scimmia, causando, a seconda dei diversi gradi con cui
esercita la pressione, reazioni graduate che vanno dallo
stupor temporaneo alla paralisi.

Tra il 166 e il 169 lascia la città, motivando il suo


allontanamento con una serie di viaggi di studio,
effettivamente compiuti a Cipro, in Palestina, a Lemno e in
Licia alla ricerca di sostanze naturali da impiegare per la
preparazione di farmaci di nuova efficacia; ma la causa reale
del primo viaggio che lo riconduce a Pergamo è, con ogni
probabilità, l’arrivo a Roma della peste antonina, una violenta
epidemia, forse di vaiolo. Penetrata nell’impero dai confini
parti, è ad essa che si deve la morte di Marco Aurelio, insieme
a quella di un numero di persone stimato tra il 10 e il 30%
della popolazione dell’impero.

Tornato a Roma nel 169, Galeno si dedica allo studio


anatomico e alla stesura di opere importanti come i libri Sui
procedimenti, scritti dal 177 e in buona parte perduti, nel 192,
nell’incendio del tempio della Pace, il complesso
monumentale voluto da Vespasiano per celebrare il trionfo
sulla rivolta giudaica (76 d.C.), presso cui Galeno aveva
depositato la sua biblioteca perché fosse al sicuro durante
suoi eventuali allontanamenti da Roma. La difficoltosa ricerca
di copie superstiti dei libri bruciati, regalate agli amici o
depositate in botteghe romane, presso le quali esisteva anche
un fiorente mercato di opere false a lui attribuite, e la
riscrittura totale dei libri dal XII al XV lo impegneranno a lungo
e molto faticosamente negli ultimi anni di una vita descritta
dal lessico bizantino Suda come molto lunga. Galeno muore
presumibilmente in un periodo di tempo compreso tra il 204 e
il 210 d.C.; possiamo utilizzare come terminus post quem
alcune parti del trattato Sulla teriaca, dedicato a Pisone.

La ricchezza della produzione anatomo-fisiologica di Galeno


rappresenta uno dei motivi dell’enorme fortuna del suo
pensiero nei secoli successivi. Lo studio anatomico è
fondamento ineludibile per la comprensione dei meccanismi
di funzionamento del corpo; impossibilitato a praticarlo
direttamente sul cadavere, Galeno sceglie di organizzare il suo
studio utilizzando piccole scimmie fatte venire
appositamente dall’Africa. Le scimmie rappresentano, per la
somiglianza con l’uomo, il modello ideale cui il medico può
riferirsi nella creazione di un’anatomia proiettiva e traslata;
ma, ove esse non fossero disponibili perché troppo care, o se il
medico si ritenesse eccessivamente coinvolto sul piano
emotivo a dissezionare e vivisezionare un animale così
straordinariamente simile a un bambino, l’esperienza
anatomica può essere condotta in modo altrettanto fruttuoso
su cani, capre, pecore, maiali, e persino su animali esotici,
come l’elefante impiegato nei giochi circensi, di cui Galeno ha
occasione di dissezionare il cuore donatogli dai cuochi
dell’imperatore.
Lunghi anni di ripetute osservazioni sugli animali – e,
talvolta, si sospetta, anche su cadaveri fortunosamente
trovati, corpi di condannati lasciati a putrefarsi senza
sepoltura o piccoli feti su cui controllare l’esattezza delle
descrizioni osteo-miologiche compiute sulle scimmie –
consentono a Galeno il raggiungimento di uno straordinario
livello di descrizione anatomica, cui contribuisce un evidente
alto grado di specializzazione tecnica; la sua descrizione dello
scheletro, dei muscoli, di ampia parte del sistema nervoso
costituisce la base su cui ancora poggerà lo studio anatomico
del primo evo moderno. L’intera costruzione del corpo umano
viene organizzata da Galeno, secondo una tripartizione del
corpo di matrice platonica, attorno a tre sistemi e a tre
principi motori, ognuno dei quali ha sede in una parte
specifica e possiede una funzione che gli è propria: il cuore è
la sede di elaborazione dello pneuma vitale, che circola nel
corpo attraverso le arterie e garantisce sensazione e
movimento; nel cervello si raccoglie lo pneuma psichico,
causa dei processi intellettivi e della vita morale; dal fegato,
attraverso le vene, si muove lo pneuma vegetativo, alla base
del mantenimento in vita dell’organismo e della sua
possibilità di riprodursi. Ogni parte del corpo coopera, in un
progetto perfetto, al mantenimento della funzionalità che la
natura e il Demiurgo (un dio ordinatore) le attribuisce: i reni
funzionano, secondo il modello anatomo-fisiologico del
filtraggio, come un colino che lascia passare ed espelle
all’esterno la parte sottile e acquosa del sangue, non utile alla
nutrizione del corpo; il cuore è la pompa che attraverso il
movimento di sistole e diastole fa circolare nelle arterie lo
pneuma che mantiene stabile la temperatura e consente il
movimento e la sensazione; i polmoni fungono da cuscino
che attutisce il battito cardiaco contro la cassa toracica; il
fegato elabora il cibo digerito dallo stomaco, trasformandolo
in sangue e inviandolo, attraverso il sistema venoso, verso le
periferie del corpo per consentirne l’accrescimento e il
nutrimento. La salute deriva pertanto non più solo dal
mantenimento della crasi umorale di origine ippocratica, ma
anche dal mantenimento della funzione; la malattia
consegue, analogamente, dalla sua interruzione.

A questo modello contribuisce, in modo evidente, uno


spiccato carattere teleologico di matrice aristotelica; esso,
unito all’idea che il corpo sano è quello che risponde
perfettamente all’esecuzione delle funzioni progettate dalla
natura, giustifica la fortuna che Galeno incontrerà da un lato
nella medicina araba e dall’altro nella tradizione bizantina e
orientale, prima, e occidentale, poi. A ciò si aggiungano la
valutazione molto positiva espressa da Galeno sul pensiero
cristiano, la cui filosofia viene indicata come di altissimo
livello morale; l’attendibilità e, anzi, l’alto livello complessivo
della sua costruzione anatomica, alla quale l’insegnamento
medico farà riferimento per secoli senza il rischio di verifiche
che inducano il sorgere di complesse controversie teologiche;
la costruzione del primo vero sistema organico di una filosofia
medica basata sulla combinazione del triplice livello di
osservazione empirica – prova sperimentale, ragionamento
teorico e riflessione etica; l’adozione di una teoria della
causalità, organizzata in base alla capacità del logos di
distinguere tra cause esterne di malattia (procatartiche),
predisposizioni individuali (cause precedenti) e cause
funzionali (cause immediate, cioè alterazioni delle parti che
non consentono il mantenimento della corretta funzione),
che garantisce al medico certezza nella prognosi e quindi
successo professionale; la capacità di Galeno di distruggere
teorie mediche rivali di grande successo a Roma (per esempio,
la figura di Asclepiade, indicato come il capostipite della
teoria metodica, molto gradita per la dolcezza delle sue
pratiche terapeutiche a un popolo abituato alle blande cure
del pater familias piuttosto che alla durezza della terapia di
stampo ippocratico); e, di contro, la sua abilità
nell’autopromuoversi come interprete ed erede
dell’autenticità del pensiero ippocratico. Ecco pronta la ricetta
dell’optimus medicus, che è insieme descrittore preciso, clinico
insigne e filosofo della medicina; l’uso privilegiato che i
medici bizantini e arabi fanno di Galeno come fonte
attraverso la quale selezionare gli autori di medicina e
rileggere persino il fondatore Ippocrate consegna alla
trasmissione medievale circa quattrocento lavori, parte dei
quali sopravvissuti solo nelle versioni siriaca e araba.

Quante cose … sotto il nome di Galeno: le “lunghe


durate” del pensiero galenico
È possibile valutare il ruolo che Galeno ha avuto come
maestro del pensiero medico occidentale sia a partire dagli
straordinari livelli osservativi che caratterizzano gran parte
della sua produzione anatomica, sia considerando alcuni tópoi
della sua opera anatomica e fisiologica, i cui errori teorici
sono stati in grado di formare e condizionare il pensiero
medico dei secoli successivi, arrestandolo in una “lunga
durata” che caratterizza il pensiero occidentale almeno fino
alla metà del XVII secolo.

Si tratta, in questo caso, delle celebri parti che riguardano la


costruzione di un’idea di setto interventricolare forato, che
giustifica l’osservazione della presenza di sangue nel
ventricolo sinistro del cuore, parte anatomica che secondo la
teoria galenica dovrebbe essere deputata al solo accoglimento
dell’aria immessa nel corpo attraverso la respirazione,
destinata a essere trasformata nello pneuma vitale (De
facultatibus naturalibus III, 208); della costruzione di una
fisiologia per la struttura della rete mirabile, stretta
connessione di vasi sotto il cervelletto che Galeno osserva
nell’animale e che descrive come struttura peculiare anche
del cervello umano (De usu partium III, 4, 9); dei passi che
descrivono l’anatomia dell’apparato riproduttore femminile
come versione invertita e introiettata degli organi sessuali
maschili, in cui trova posto una fisiologia dell’incompiutezza
del corpo delle donne di stretta osservanza aristotelica (De usu
partium III, 6-7).

L’immagine fisiologica che consegue dalla descrizione


anatomica galenica, alterata dalla necessità di far combaciare
i dati di osservazione con una teoria pregressa o dal mero
ossequio a concettualizzazioni che si riconoscono insieme
come autorevoli e funzionali, condiziona l’approccio dei
medici ad alcuni problemi sostanziali, come la discussione
delle modalità di movimento del sangue nel corpo o lo
strutturarsi di teorie embriologiche e della differenziazione
sessuale. Alcuni luoghi dell’opera galenica rimarranno non
sconfessati sino alla pubblicazione del De humani corporis
fabrica di Andrea Vesalio nel 1543 e dell’Exercitatio de motu
cordis di William Harvey nel 1628.

Tra questi, è molto noto il passo del trattato galenico Sulle


facoltà naturali che descrive la struttura cardiaca del setto
interventricolare come una guaina sottile, attraversata da una
miriade di piccoli fori, non del tutto visibili a occhio nudo ma
tali da consentire il passaggio di una minima quantità di
sangue dal ventricolo destro, in cui il sangue arriva
direttamente dal fegato per la nutrizione del cuore, sino al
ventricolo sinistro. Qui, secondo la teoria dello pneuma vitale,
dovrebbe essere accolta e trasformata l’aria immessa dal naso
nella respirazione; l’osservazione anatomica rivela, però, la
presenza di una certa quantità di sangue:

Parimenti anche nel cuore la parte più sottile del sangue è attirata dal
ventricolo destro verso il sinistro, dal momento che il setto che si trova
nel mezzo delle due cavità possiede alcuni orifizi, visibili per la
maggior parte, i quali assomigliano a delle fossette che da una bocca
assai larga si restringono sempre più; non è possibile tuttavia
osservarli fin nelle loro parti estreme sia per la loro piccolezza sia
perché, essendo l’animale oramai morto, tutte le parti si sono
raffreddate e sono divenute compatte. Ma anche a questo proposito la
ragione, muovendo dalla costatazione che nulla è compiuto invano
dalla natura, scopre queste anastomosi dei ventricoli del cuore;
certamente, del resto, non senza un disegno né casualmente le
fossette finiscono per diventare così strette (III, 208).
Il logos è invocato come sostituto del dato di osservazione, e
il progetto divino della natura giustifica la correttezza del
ragionamento; la ragione è chiamata a dar conto dell’evidente
mancanza di riscontro in sede autoptica, che si deve al
raffreddamento delle parti, sottoposte a un processo di
consolidamento per effetto della morte. A queste righe viene
tradizionalmente imputata la responsabilità di aver, se non
bloccato, almeno ostacolato la riflessione medica sulla
circolazione del sangue, sino a quando William Harvey,
applicando il metodo quantitativo-sperimentale di stampo
galileiano alla misurazione della quantità di sangue emessa
dal ventricolo sinistro in una data unità di tempo, osserva che
essa è di gran lunga superiore alla quantità di sangue
contenuto all’interno del corpo. L’idea di una circulatio
perfetta, secondo cui il sangue riflette nel microcosmo
corporeo l’ordinato moto circolare degli astri, diventa l’unico
criterio esplicativo possibile di alcune incongruenze già
annotate nella tradizione anatomica della metà del secolo
precedente. Già Vesalio, infatti, aveva invocato la fede nella
grande sapienza di Dio come sola giustificazione della
mancata osservazione dei foramina del setto descritti da
Galeno. La storiografia più recente che si è occupata della
riflessione comparata tra la fisiologia cardiaca galenica e
quella degli anatomisti dei secoli XVI e XVII ha però dimostrato
come la complessità del testo galenico celi una grande
ricchezza di suggerimenti, a pieno sfruttati dalla tradizione
successiva.
Di altrettanto impatto è la descrizione galenica della rete
mirabile: il termine, che oggi designa una struttura patologica,
indica in Galeno una supposta complessa rete di arterie molto
sottili, poste alla base del cranio, in corrispondenza della
struttura anatomica del cervelletto. A questa struttura di
intreccio complesso come quello di una rete da pesca, che
probabilmente Galeno osserva effettivamente nelle capre o in
animali ruminanti, è attribuito un significato funzionale
preciso; la tortuosità dei suoi canali servirebbe a far decantare
l’aria immessa durante la respirazione che, per essere
trasformata nella sostanza immateriale complessa che
prende il nome di pneuma psichico, si deve liberare della sua
componente materiale. La rete mirabile funzionerebbe,
pertanto, come una vasca di decantazione, in grado di
produrre la sostanza lieve e pura che garantisce la vita
psichica dell’individuo (De usu partium III, 4, 9); il suo ruolo è
dunque quello di un vero organo vitale.

Che cosa effettivamente abbia visto Galeno, se abbia


confuso una rete extradurale di origine vascolare con una
arteriosa, perché abbia trasposto in modo così netto
l’osservazione compiuta su alcuni animali, che non poteva
aver trovato un riscontro nemmeno nel cervello dei piccoli
macachi, oggetto prediletto delle sezioni galeniche, sono
domande con le quali gli storici del pensiero medico si sono a
lungo confrontati nel tentativo di comprendere l’origine di un
concetto che è stato, in termini di conseguenze, tra i più
produttivi della medicina antica. Lo stesso Vesalio, pur
all’interno di una formale adesione al metodo anatomico del
maestro di Pergamo, non è il primo autore a esprimere
perplessità sulla reale documentabilità della struttura
nell’uomo. I suoi dubbi,
tutti i medici ne parlano continuamente. Essi non lo hanno mai visto,
ma continuano a descriverlo sulla scorta dell’insegnamento di Galeno.
Io stesso […] a causa della mia devozione a Galeno, non intrapresi mai
una pubblica dissezione di una testa umana senza
contemporaneamente servirmi di un agnello o di un bue per
dimostrare quello che non riuscivo a riscontrare in alcun modo
nell’uomo […] e per evitare che gli astanti mi rimproverassero di
essere incapace di trovare quel plesso a tutti loro così ben noto per
nome. Ma le arterie carotidi non formano affatto il plesso reticolare
descritto da Galeno (De humani corporis fabrica, pp. 310, 524, 642),

come ci ha ricordato Sebastian Pranghofer (2009), erano già


in Berengario da Carpi, che si era chiesto come mai non fosse
mai riuscito a isolare la struttura anatomica.

Nonostante l’evidente criticismo di Vesalio, tuttavia, la


tradizione iconografica anatomica continua a lungo a inserire
in immagini didattiche la rete mirabile: pur nella difficoltà di
adattare la tradizione iconografica precedente (per esempio, le
tavole di Giulio Casserio, 1552-1616) al dato di osservazione
autoptica e di localizzare in modo esatto la rete all’interno
della struttura cerebrale, autori del calibro di Adriaan van den
Spiegel (1627) o Johann Vesling (1641) continuano a sostenere
l’esistenza del meraviglioso intreccio nell’uomo e, ancora alla
fine del secolo, Johann Jacob Wepfer (1620-1695) e Thomas
Willis (1621-1675) ritengono la discussione sulla sua esistenza
un topos ineludibile della ricerca neurostrutturale.
Un ultimo accenno va dedicato alla descrizione
dell’apparato genitale femminile di Galeno, e in particolare al
passo del trattato Sull’uso delle parti in cui utero, ovaie, vagina
e organi genitali esterni nella donna sono descritti come il
corrispondente invertito degli organi sessuali maschili. L’idea
di una “corrispondenza al negativo” del corpo femminile
rispetto al modello maschile caratterizza, come è noto, larga
parte del pensiero aristotelico; si imputa alle donne
un’imperfezione “di natura” che le caratterizza nel senso di
un eccesso di umidità e freddezza. L’eccesso è a sua volta
responsabile del mancato compimento dei processi
embriologici che nel maschio si realizzano totalmente e
ordinatamente, spingendo verso l’esterno le stesse parti che,
nel corpo femminile, rimangono incompiute; come accade
nelle talpe, animali abituati a vivere nel freddo della terra, i
cui occhi non si sviluppano a causa della mancanza di calore
che caratterizza le prime fasi della loro formazione (cfr. CAP.

4). Anche in questo caso le immagini testimoniano in modo


privilegiato il perdurare di una tradizione concettuale: Andrea
Vesalio, nella Fabrica, utilizza come tavola anatomica una
celebre incisione che riproduce esattamente il mondo
ginecologico invertito di Galeno e la stessa tavola ricomparirà
come documento esplicativo nella tradizione di manualistica
teorico-pratica per la formazione dell’ostetrica, come nel
trattato La commare o raccoglitrice di Scipione Mercuri, dato alle
stampe in Venezia nel 1596 e ristampato a più riprese nel
secolo successivo, senza alcun tentativo di modificare
l’immagine.
Le persistenze del pensiero anatomico galenico – «Quante
cose sono state attribuite al nome di Galeno al di là della
ragione», commenta Vesalio (De humani corporis fabrica, p. 310
– si accompagnano alla permanenza di altre parti del suo
pensiero; tra queste è il ripensamento della tradizione
farmacologica, che ha i suoi illustri antecedenti in Diocle di
Caristo (fl. 340 a.C.), Prassagora di Kos, Teofrasto (297 a.C. ca.),
Crateva (I sec. a.C.), Erasistrato, Filino di Kos (metà III sec. a.C.),
Mantia (165-90 a.C. ca.), Scribonio e Dioscoride. L’attenzione
crescente della medicina occidentale all’uso di sostanze
medicamentose è stato attribuito da Innocenzo Mazzini (1997)
al miglioramento delle condizioni sanitarie imposto
dall’aumentata urbanizzazione, dall’incremento di situazioni
di conflitto, dall’espansione delle crisi epidemiche che
attraversano l’impero.

La teoria farmacologica galenica è espressa in quattro


trattati sopravvissuti, uno dedicato ai farmaci semplici, uno ai
composti ordinati per tipologia, uno ai composti ordinati in
relazione alle parti del corpo su cui agiscono e un libro sugli
antidoti. A questi va aggiunto un trattatello sugli Euporista, le
sostanze di facile reperibilità, perduto nell’originale greco ma
giunto a noi in frammenti della tradizione siriaca e araba.

Per Galeno, come per tutti i suoi predecessori, il farmaco è


qualsiasi sostanza naturale che sia in grado di modificare, per
una sua innata qualità, il corpo dell’uomo, in senso sia
positivo (guarigione) sia negativo (avvelenamento o morte).
Ciò che guarisce conserva in sé lo statuto ambiguo e
potenzialmente pericoloso della dýnamis di cui è portatore;
ove applicato al corpo sbagliato, o nel momento sbagliato, o in
dose eccessiva, il farmaco può arrivare a compromettere
definitivamente le condizioni del corpo. L’azione delle
sostanze naturali, utilizzate in preparazioni semplici (un solo
principio attivo) o composte, è definibile dunque in termini di
un’interazione, la cui conoscenza è possibile solo al medico
che riesca ad abbinare le due dimensioni complementari della
peira (esperienza-sperimentazione) e del logos (conoscenza
della teoria di azione dei farmaci) (Commentarius I in Hippocratis
Librum de humoribus XVI, 80-81 K.). La stessa parola dýnamis
indica, in Galeno, più che uno stato della sostanza, la sua
potenzialità di azione, in accordo con il significato che la
parola assume nella tradizione aristotelica (De simplicium
medicamentorum temperamentis et facultatibus I, 1-2). I farmaci
causano un’alterazione di stato nel corpo in virtù del loro
essere parti di un mondo naturale in grado di agire per via
simpatetica sul corpo dell’uomo, che ne è costituente; per
Galeno queste qualità corrispondono al binomio attivo del
caldo e del freddo e a quello passivo del secco e dell’umido,
cui a loro volta corrispondono la natura degli umori, la
stagionalità, le differenze di condizione determinate dall’età o
dall’appartenenza a un genere (Harig, 1976). Alle quattro
qualità tradizionali, di matrice ippocratica, Galeno aggiunge
anche un criterio materico, quello della tenuità o spessore
delle sostanze, che le rendono più o meno trasportabili
all’interno del corpo, nonché alterabili durante le fasi di
preparazione (Debru, 1997). La teoria che ne deriva è dunque
tra le più “elastiche” del mondo antico: il farmaco va valutato
in relazione alla dýnamis o alle dynámeis di cui è dotato, ma
anche in relazione allo stato del corpo cui va applicato, alla
stagione, al sesso e all’età del paziente; il problema della
definizione delle modalità di azione delle sostanze
medicamentose in Galeno è uno dei più complessi della
medicina antica. La farmacologia, infatti, lungi dal poter
essere ritenuta solo competenza di rizotomi o preparatori
empirici, non solo non può essere considerata una parte
marginale della medicina, ma rappresenta il vero momento
centrale di competenza del medico, ciò che gli consente di
agire, al pari di un dio, ripristinando lo stato perduto di
benessere: «Si è nel giusto a dire che i farmaci sono le mani
degli dei – dice Galeno, citando Erofilo – perché è efficace per
chi li usa essere esperto nel metodo logico e avere per natura
una buona capacità di comprensione» (De compositione
medicamentorum secundum locos VI, 8).

Lo sforzo di Galeno è dunque quello di offrire una


sistematizzazione il più possibile esaustiva del materiale della
tradizione e delle proprie scoperte, ordinato secondo un
metodo che renda ragione di una materia in cui il
raggiungimento dell’oggettività scientifica è molto difficile da
cogliere. Se, infatti, non tutte le sostanze agiscono nello
stesso modo applicate nelle stesse circostanze; se variano la
loro azione a seconda della parte della pianta da cui
provengono o del luogo e del momento della raccolta; se non
sempre gli stessi corpi reagiscono allo stesso phármakon nella
stessa maniera; se una sostanza benefica può diventare
cattiva, mescolata ad altre; scrivere di farmacologia vuol dire
individuare “leggi di riferimento” in una materia fluida e
incerta (von Staden, 1997).

I testi di Galeno si collocano, così, a mezza strada fra i


trattati teorici e i libri clinici e offrono un complesso sistema
di schedatura delle qualità dei farmaci, in cui alle dynámeis
primarie è affiancata una teoria della gradazione di intensità:
una dýnamis riscaldante può esserlo al grado debole, medio,
forte e fortissimo, e ognuna di queste classi può prevedere
una sottostrutturazione in piccolo, moderato e forte. Ogni
farmaco, dunque, opera in duplice modo: sulla base della
teoria delle qualità e delle attrazioni, dirigendosi verso la
parte che avverte simile, per compensare lo squilibrio indotto
dalla malattia; ma anche come fosse posto su una scala
graduata, ai cui estremi sono collocate le sostanze con
potenzialità molto attive (per esempio, i caustici) e dall’altro
quelle talmente leggere da apparire a un occhio inesperto
inutili per la terapia. I sensi del medico forniscono il primo
strumento alla peira: si può non conoscere la causa di azione
(perché l’ematite arresta l’emorragia?), ma conoscere il suo
effetto. La conoscenza di fonti ed esperienze pregresse, il
continuo arricchimento delle proprie conoscenze attraverso
viaggi di scoperta, la disponibilità a provare su di sé la bontà o
la nocività di un rimedio consentono di progredire in una
competenza che non si può dare per scontata. La dinamicità
della disciplina farmacologica si accresce nel caso in cui si
debba preparare un medicamento composto, che può essere
molto complesso, come nel celebre caso della theriaká, il
farmaco destinato al trattamento di una miriade di malattie;
la compresenza di più dynámeis può comportarne l’alterazione
reciproca e, se alcuni farmaci composti funzionano come un
sistema unitario, altri agiscono sulla base del bilanciamento
dei loro singoli componenti. Ogni sostanza, inoltre, è dotata,
oltre che di una qualità attiva, anche di una passiva, che può
causare effetti collaterali che vanno riequilibrati attraverso
l’aggiunta di altre sostanze. Per questo la farmacologia
richiede misura ed esattezza: il medico deve procedere ad
accurata pesatura degli ingredienti per stabilire l’effettivo loro
rapporto di simmetria nel farmaco. La farmacologia richiede,
altresì, ragionamento e intelligenza: per sostituire sostanze
non reperibili, per curare con pochi ingredienti a disposizione,
per adattare il rimedio al paziente.

Pur esprimendo un giudizio molto positivo sul lavoro di


Dioscoride («il più perfetto dei trattati di materia medica», De
simplicium medicamentorum temperamentis et facultatibus VI),

Galeno scardina il suo sistema di classificazione, spostando il


piano del discorso verso la correlazione tra farmaco e
malattia, tra dimensione anatomo-fisiologica e pratica clinica.
È certamente in questo sforzo di presentare la riflessione sui
farmaci come parte costitutiva del sapere medico e nella
volontà di fornire spiegazione sulla modalità con cui le
sostanze alterano il corpo che va individuata la ragione della
grande fortuna della medicina farmacologica galenica, che
acquista luce particolare se proiettata nella dimensione
pratica che caratterizzerà la medicina dei secoli successivi.
Nessuno degli uomini della nostra epoca cerca la verità: la
medicina e la fine del mondo antico
In un articolo dedicato al tentativo di Galeno di rifondare
una medicina che potesse funzionare anche come guida
morale e sociale, Mario Vegetti (1995a) ha messo in luce la
serrata critica galenica nei confronti della medicina del suo
tempo, in cui si vedono annunciati i prodromi di una
corruzione interna, sia metodologica sia etica, destinata a
condannare la techne medica a un drammatico ritorno al
passato («Nessuno degli uomini della nostra epoca cerca la
verità», De methodo medendi I). Lo smarrimento del livello
qualitativo della medicina, spinta verso l’avidità, il desiderio
di guadagno, la perdita della consapevolezza dell’importanza
del metodo dimostrativo, lo svilimento della formazione
teorica e la frammentazione nella diafonia che caratterizza le
sempre più numerose sette, comporta, per Galeno, il rischio di
un livellamento verso il basso, in cui il sapere medico torna a
essere equiparato a quello di schiavi, liberti, fabbri e calzolai.

Non è un caso se Tessalo di Tralles (I sec. d.C.), il fondatore


della scuola metodica che Galeno critica aspramente, può
arrivare a proporre che il periodo di formazione necessario a
diventare un medico sia drasticamente ridotto a sei mesi. Il
degrado scientifico è in Galeno il riflesso di quello, più esteso,
di una società in cui le spinte alla frammentazione e il
disordine crescente cominciano ad apparire ansiogeni e non
più controllabili.
Che in Galeno fosse presente una buona dose di
preveggenza, non è in dubbio: il processo che porterà alla
caduta dell’impero romano di Occidente ha inizio molto
tempo prima del suo reale accadere. Molti autori collocano la
fine dell’antichità e l’inizio del tardoantico proprio in
relazione con la morte di Galeno, verso i primi anni del III

secolo d.C., nell’epoca di Commodo e dei Severi, ancor prima


dell’età costantiniana. In effetti, l’accrescersi lento ma
progressivo di situazioni di tensione sociale e militare, il
graduale impoverirsi del ceto medio nelle città, lo
spopolamento delle campagne, il verificarsi di crisi
epidemiche di vaiolo ricorrenti, associate a prolungati periodi
di carestia, caratterizzano il mondo occidentale già dal III

secolo, se pure con un andamento altalenante, cui


contribuiscono i tentativi di correzione e di riconduzione
all’unità perduta intrapresi, a partire da Aureliano (270-275)
fino al regno di Numeriano (283-284).

Il mondo tardoantico è stato a lungo descritto come epoca


di blocco delle conoscenze e di devastante crisi intellettuale;
solo a partire dagli anni Settanta del secolo scorso, due
importanti opere di Owsei Temkin (1973, 1991) sono state
dedicate al sorgere e al diffondersi del galenismo e alla
reputazione di Ippocrate nella tarda antichità e nei primi
secoli del mondo bizantino e alla trasformazione del pensiero
ippocratico sotto l’influsso del cristianesimo. Questi lavori
hanno il merito indiscusso di aver portato alla luce aspetti
poco conosciuti del pensiero e della pratica medica, e autori –
come Oribasio, Alessandro di Tralles o Aezio di Amida – solo
tardivamente riconosciuti come parte della cultura letteraria e
intellettuale del loro tempo, nonché di averne illustrato alcuni
aspetti del pensiero in relazione con pensatori non medici.
Così facendo, Temkin ha permesso di far riaffiorare una
vastissima letteratura che ha consentito solo di iniziare a
tracciare i percorsi e gli intrecci della medicina e delle sue
pratiche con la filosofia e con la religione dei primi secoli
dell’era cristiana. Inoltre, i lavori di Darrel W. Amundsen
(1982, 1996) sulle relazioni tra medicina e fede cristiana nei
primi secoli hanno evidenziato alcuni aspetti fondamentali
del ruolo che il cristianesimo ha giocato nel trasferimento alla
pratica medica delle nuove idee sul trattamento dei malati e
dei sofferenti, e in particolare le relazioni tra l’insegnamento
della dottrina stoica sulla capacità e necessità di resistere ai
mali del corpo e l’idea cristiana della dignità e della nobiltà
della sofferenza come mezzo di testimonianza e modello che
avvicina al Cristo.

Questi lavori sottolineano uno statuto particolare della


medicina del tardoantico, assai meno “conforme” e piatta di
quanto la storiografia precedente abbia lasciato intendere; un
mondo vivace, in cui ribolle la discussione teorica assieme
all’approccio filologico e conservativo, in cui i medici
acquisiscono un ruolo sociale rinnovato e di crescente
importanza, che mescola la loro competenza tecnica con la
sfera politica e con quella rappresentativa; testi che solo
apparentemente ripropongono immutato il modello antico,
arricchendolo nei fatti di sotterranee vene di competenza e,
talvolta, di polemica; aperture non ovvie verso la magia e il
rituale, intesi spesso non come un ritorno a una definizione
prenaturalistica della cura, ma solo come apertura verso la
dimensione psicologica della guarigione, che accoglie al suo
interno anche trattamenti non ortodossi se essi possono
procurare sollievo; riletture della farmacopea e della
terapeutica dei semplici e dei composti, in cui confluisce
l’esperienza dell’Oriente e in particolare del mondo arabo.
Insomma, le fonti mediche tardoantiche rivelano, almeno in
alcuni casi, un certo grado di autonomia (per esempio, in
Alessandro di Tralles, un autore bizantino vissuto nel VI
secolo, cui si deve una raccolta di rimedi terapeutici con
spunti di originalità e distacco dai classici) e soprattutto la
capacità di operare una selezione critica tra l’immenso
patrimonio ereditato, in gran parte dalla cultura e dalla lingua
greca; questa selezione ha consegnato al mondo medievale
occidentale il sapere antico compendiato, in maniera
strutturata, in testi sinottici e in manuali destinati alla pratica
medica (Nutton, 1984; Cavarra, 2012). La rottura con il mondo
culturale greco e romano non avviene, infatti, prima del VI

secolo d.C., quando Alessandria d’Egitto, ultima roccaforte del


patrimonio culturale antico, cade sotto la pressione degli
Arabi.

Riassumiamo, allora, alcuni tratti caratterizzanti la


letteratura medica del tardoantico: l’incontro tra il pensiero
medico ippocratico e galenico e la nuova dimensione morale
imposta dal cristianesimo, particolarmente forte in ambito
bizantino; la nascita di un concetto di assistenzialismo,
fondato sul principio della caritas cristiana, che impone la
cura come servizio al fratello bisognoso; la tendenza alla
riduzione e messa in disponibilità del patrimonio precedente,
esposto in forma enciclopedica o sintetica; la produzione di
una vasta letteratura di commento alle autorità; la tendenza a
privilegiare, nella traduzione e nella copiatura, le parti dei
testi antichi più marcatamente caratterizzate dalla possibilità
di essere impiegate nella pratica; il galenismo, che impone
una lettura di tutta la medicina dei secoli precedenti
attraverso gli occhi del maestro di Pergamo, indicato come il
vero interprete dell’insegnamento ippocratico; la produzione
di una manualistica a spiccato carattere prognostico, in cui si
distinguono opere sinottiche di compendio della dottrina dei
polsi, dell’osservazione dell’urina e in genere
dell’interpretazione semeiologica, i cui assunti erano sparsi in
modo non ordinato nel Corpus Hippocraticum, in quello
galenico e nelle fonti intermedie; l’inclusione di aspetti
terapeutici non razionali, legati alla dimensione della cura
religiosa, magica o popolare. La produzione medica del
tardoantico tende, inoltre, ad accogliere anche testimonianze
provenienti da testi spuri, tradizionalmente assegnati ai
grandi maestri, ma da attribuire a mani diverse.

Citiamo qui solo alcuni dei nomi più illustri di autori di


medicina di lingua greca, parte dei quali formatisi nell’antica
scuola di Alessandria e operanti nella prima fase del pensiero
bizantino, dal IV al VII secolo (632, caduta di Alessandria):
Oribasio di Pergamo, il medico dell’imperatore Giuliano (IV
sec. d.C.), per il quale scrive un compendio a Galeno, oggi
perduto, autore di 70 libri di Collezioni mediche (parzialmente
conservate), di una Sinossi in 9 libri indirizzata a Eustazio e di
un trattato sui farmaci di facile reperibilità, in 4 libri,
destinato a un uso domestico quotidiano. I trattati di Oribasio
rappresentano bene l’indirizzo enciclopedico che caratterizza
buona parte della tarda antichità. Aezio di Amida (VI sec. d.C.),
il medico di Giustiniano, compone 16 libri di medicina, in cui
si raccoglie gran parte del sapere anatomico, fisiologico e
clinico non solo tratto da Ippocrate e da Galeno, ma anche da
altri autori, tra i quali Dioscoride per la farmacologia, Rufo
d’Efeso e Areteo di Cappadocia, con un tratto di autonomia
dalle fonti che gli consente di offrire sintesi molto chiare di
teorie complesse, come quella galenica su farmaci e dynámeis.
L’opera farmacologica di Alessandro di Tralles (527-ca. 565), in
12 libri (Sulla terapeutica) dimostra più di altri testi un
atteggiamento mentalmente libero nei confronti
dell’auctoritas galenica, che consente all’autore sia di
muoversi tra il piano della cura razionale e quello della
terapia popolare e magica, sia di offrire originali osservazioni
sul trattamento di malattie oculari e di infestazioni
parassitarie. Ai margini estremi di questa storia medica del
primo periodo bizantino sta Paolo d’Egina, nel VII secolo,
autore di un’Epitome in 7 libri che rappresenta una sorta di
antologia dei principali maestri che lo precedono. In Paolo si
manifesta piuttosto chiaramente quello che sarà
l’atteggiamento dominante della medicina nei secoli
successivi, cioè la focalizzazione dell’attenzione su aspetti
pratici della professione (molta semeiotica clinica, molta
terapia, poca anatomia, poca fisiologia).
A questi nomi se ne possono aggiungere altri, di autori che
scrivono in latino, come Gargilio Marziale (III sec. d.C.), autore
di un’opera enciclopedica perduta, della cui parte di
agronomia rimane una sezione in cui si tratta anche di
sostanze utilizzabili come rimedi terapeutici, secondo le
indicazioni di Plinio e Galeno; Aviano Vindiciano (IV sec. d.C.),
il maestro di Teodoro Prisciano (IV-V sec. d.C., autore di un
trattato sui rimedi), apprezzato da Agostino, di cui
sopravvivono epistole di argomento medico, brevi scritti sulle
malattie delle donne, excerpta farmacologici, un frammento
embriologico e la fama di grande traduttore di Ippocrate;
Quinto Sereno Sammonico (IV sec. d.C.), autore di una
composizione in poesia in cui si incontra l’eredità della Storia
naturale di Plinio insieme a parti ispirate dalla conoscenza di
autorità classiche; Celio Aureliano, il traduttore di Sorano,
grazie al quale sono pervenute a noi ampie notizie sulla
scuola metodica, di cui sopravvivono libri Sulle malattie acute e
croniche.

Attraverso la lettura di queste fonti è possibile ricostruire il


percorso non lineare della medicina nella tarda antichità: i
significati positivi e negativi impliciti nella definizione di
galenismo; i rapporti spesso complessi degli enciclopedisti e
degli epitomatori con le loro fonti, in particolare con il
maestro di Pergamo, che implicano – come ha dimostrato
Nutton (2004) – una rilettura dell’insegnamento autoritativo
non esente dalle contaminazioni con autori “minori” (si pensi,
per esempio, a Rufo di Efeso), che vengono ritenuti importanti
per completare il pensiero galenico là dove esso non appare
esaustivo o facilmente sintetizzabile.

Così, la medicina della tarda antichità inizia a definirsi in


un profilo che possiamo definire “nuovo”, ma nello stesso
tempo assai complesso e aperto a necessari approfondimenti.
Esso, infatti, non si esaurisce nella capacità – pure non ovvia –
di ridurre a epitome o a manuale la vastissima congerie del
pensiero medico greco, ma richiede la capacità di organizzarlo
e selezionarlo, mantenendo intatta la sua qualità retorica e
linguistica. Inoltre, la medicina del tardoantico appare
caratterizzata da un non indifferente sforzo di conciliare i due
principali caratteri di quella antica: l’aspetto clinico
ippocratico e la tendenza teorico-filosofica galenica; per dirla
in altri termini, essa appare concentrata nel riconoscimento
della sua logica interna, che è sostanzialmente finalistica e
orientata dall’essere la medicina “arte della cura”, tecnica
beneficiale che deve produrre salute e benessere.
4

La medicina delle donne

Alle origini di un concetto medico di corpo


Non esiste un solo concetto di corpo che sia attestabile, in
modo univoco, negli scritti che la tradizione alessandrina ci
ha consegnato sotto il nome di Ippocrate. I circa sessanta
lavori che compongono il Corpus Hippocraticum contengono, si
è detto, una varietà di posizioni teoriche difficilmente
assimilabili l’una all’altra, espressioni di autori diversi,
talvolta di epoche lontane tra loro, ma in genere accomunate
dall’idea che il corpo sia un contenitore cavo, un vaso simile a
quelli impiegati per la conservazione dell’olio o del vino.

L’immagine dell’ángos (vaso) (Epidemiarum VI, 5, 11), che


richiama l’idea di un indefinito vuoto interno in cui si
spostano gli umori (quattro, secondo la tradizione del trattato
Sulla natura dell’uomo, opera probabilmente di Polibo, il genero
di Ippocrate, che offre la prima sistematizzazione in un
quadro coerente di idee diverse espresse in altre fonti
ippocratiche; ma, in altri trattati, tre o sette), è
inscindibilmente legata all’assenza di indagine anatomica
sistematizzata nelle fonti mediche di epoca antecedente
all’era alessandrina. Solo a partire dal contributo di Erofilo e
di Erasistrato, infatti, l’indagine sul cadavere contribuisce a
una collocazione dello schema tetradico degli umori e delle
qualità all’interno di una fisicità “materiale”, in cui acquista
senso la nozione di parti diverse che cooperano tra loro per il
mantenimento in salute del corpo inteso come unità finale.
Un ostacolo all’osservazione metodica del cadavere nei testi
di scuola ippocratica può senza dubbio essere stato costituito
dal tabù religioso, comune a tutte le culture del Mediterraneo
antico, che impone la non violazione del corpo per consentire
ai morti l’accesso ai regni ultraterreni; sebbene
cronologicamente appartenente a una datazione molto più
alta, ne costituisce un buon esempio l’oltraggio a Ettore,
straziato dal carro di Achille nel trascinamento che ne
stravolge le fattezze attorno alle mura di Ilio (Ilias XXII, 312-
411). Esso ne impedisce, di fatto, la rinascita nei Campi Elisi; il
viaggio ultraterreno di Enea alla ricerca di Anchise non fa
menzione alcuna di Ettore tra gli eroi troiani morti (Aeneis VI,
477-723), come se il suo corpo violato non avesse mai passato
i cancelli di Ade.

Il carattere di sacralità che contraddistingue il corpo del


morto in tutto il mondo greco si accentua, se possibile, in
quello romano, in cui il culto dei Lari e degli dei Mani diventa
parte imprescindibile della pietas latina. Non è un caso se
l’eccezionalità della citata esperienza medica e anatomica in
Alessandria d’Egitto nel III secolo a.C. sia stata a più riprese
spiegata con una supposta maggiore elasticità culturale,
tipica di un contesto meno vincolato di altri all’osservanza di
proibizioni rituali, vuoi per il diffuso e protratto uso religioso
sul territorio egiziano delle pratiche di mummificazione, che
potevano aver messo in contatto almeno alcuni strati sociali
con il cadavere e con i suoi processi, vuoi per particolari
condizioni contingenti. Tra queste rientrerebbe l’antico uso
egizio del matrimonio tra consanguinei diretti, replicato in era
alessandrina anche all’interno del gruppo regnante dei
Tolomei.

A questo si deve aggiungere che la pratica anatomica è in


parte resa inutile, nella riflessione ippocratica, dalla stessa
teoria umorale, che offre un esempio di perfetta coerenza
interna e un modello teorico di facile comprensibilità; su di
esso è possibile costruire un ingranaggio concettuale che
connette in modo diretto mondo della natura e fisicità umana
e in base ad esso il medico può proporre una terapia
fortemente focalizzata sugli aspetti igienici e preventivi.
Questi sono gli unici che possono tutelare l’ammalato e
prevenire sviluppi patologici per i quali i farmaci e gli
interventi del medico si rivelerebbero, nella gran parte dei
casi, inefficaci.

La fisiologia umorale non ha bisogno, insomma, di una


localizzazione anatomica, a dispetto del fatto che certamente
la pratica medica, per come essa è attestata già nei cicli
omerici, consenta di attribuire un nome anatomico a singole
parti interne, che vengono esposte alla vista durante il
trattamento di ferite devastanti. Il movimento degli umori
all’interno del corpo è dettato da un andamento fluido, in cui
l’olos, il corpo visto come un insieme, risente
complessivamente di ogni alterazione qualitativa e di ogni
squilibrio che colpisca una delle sue parti. «A me sembra che
non ci sia alcun principio del corpo – sostiene l’autore del
trattato Sui luoghi dell’uomo, opera del IV secolo – ma tutto
ugualmente sia principio e fine; infatti, se si volesse
descriverlo come un cerchio, non se ne troverebbe l’inizio;
nello stesso modo, le malattie si originano da tutto il corpo;
nulla dunque in medicina è al secondo posto, nulla in mezzo,
nulla alla fine» (De locis in homine 6, 277). L’immagine del corpo
come un cerchio perfetto, in cui gli elementi interni si
muovono in accordo tra loro, ricomprende anche il richiamo
all’equilibrio necessario tra l’uomo e l’ambiente in cui vive;
ogni elemento del mondo esterno, che è dotato di qualità
calde, fredde, secche e umide in modo simile a quanto accade
nella physis corporea, se viene immesso sotto forma di cibo,
bevanda o farmaco, dopo averne influenzato gli assetti
interni, viene di nuovo restituito all’esterno sotto forma di
escreto.

Il corpo è dunque un sistema aperto e le regole che ne


reggono l’andamento rispondono al principio che Mario
Vegetti (1983) ha definito “teoria dell’input/output”: tutto vi
può entrare, tutto può contribuire a mantenerlo in stato di
equilibrio, tutto può causare squilibrio, tutto deve tornare
all’esterno. La terapia ippocratica si fonda su questa
consapevolezza: il corpo va inteso e trattato come un sistema
globale, in cui «il tutto diviene parte e le parti, ricomposte,
divengono un tutto» (Regimen 6, 489-497). Se si ammala per
eccesso di bile o di flegma, non ne risentirà solo la parte in cui
l’umore eccedente si accumula, ma l’intero sistema corporeo
soffrirà fino a quando non sarà stato ricondotto verso la
condizione di equilibrio originario. La crescita e la decrescita
degli umori sono determinate dalla permeabilità del sistema,
aperto agli influssi del tempo meteorologico, delle
temperature, delle stagioni, delle qualità veicolate dagli
alimenti:

l’uomo […] partecipa di tutti gli elementi, caldi, freddi, secchi e umidi
– giacché nessuno di essi sussisterebbe un solo momento senza tutti
gli altri elementi sussistenti in questo universo, bensì se solo uno di
essi venisse meno, tutti sparirebbero […] così anche se uno dei
componenti di cui è fatto l’uomo venisse meno, non sarebbe possibile
la sua vita. Prevale nell’anno l’autunno, poi l’inverno, poi la primavera,
poi l’estate, poi di nuovo l’autunno; così anche nell’uomo prevale
prima il sangue, poi la bile gialla, poi la bile nera (De natura hominis 7).

La fisiologia ippocratica si presenta, dunque, come un


sistema dinamico in costante aggiustamento durante la vita
dell’individuo, in accordo con i mutamenti che avvengono
nella natura e di cui l’uomo finisce per essere un riflesso.
Esiste, poi, un’ulteriore condizione di fluidità, che è quella che
distingue ogni età della vita dalle precedenti e dalle
successive e caratterizza la fisiopatologia in accordo con il
genere di appartenenza. I trattati ippocratici e coani Sulla
natura dell’uomo (fine V sec. a.C.) e Sul regime (IV sec. a.C.)
possono essere utilizzati come testi “riassuntivi” delle
posizioni ippocratiche sulla crescita e sull’invecchiamento,
sebbene esse siano diverse e spesso le loro variazioni
concettuali scartino notevolmente le une dalle altre. In una
scala ideale in cui il corpo del maschio adulto rappresenta la
salute e il benessere a cui la medicina deve tendere, i bambini
sono collocati in basso, all’inizio di un processo di crescita che
rende i loro corpi ricchi di umidità e di calore (Epidemiarum V,

296; De natura hominis 6, 62; Regimen 6, 510); queste qualità


possono alimentare un essere in divenire, possono
rafforzarne la carne (teoria che troverà compimento nel
pensiero della scuola metodica, che ritiene che il calore
“coaguli” e renda sode le parti) e rendere elastici nervi e ossa,
che devono allungarsi per crescere (Regimen 6, 512).

Anche nella tradizione successiva, in particolare in Galeno,


la nascita è il momento in cui nell’individuo si concentrano
massimo grado di calore e massima umidità, elementi
entrambi che rendono il bambino appena nato
particolarmente fermo e sonnolento. Nello stesso eccesso di
umidità infantile che garantisce potenzialità di crescita è
insito il fattore che espone il corpo dei piccoli a rischi per la
salute: le loro ossa, flessibili ed elastiche, vanno incontro più
facilmente di quelle degli adulti a processi di putrefazione e
corruzione interna (De vulneribus capitis 18); l’iperproduzione
di flegma, umore umido e freddo che si genera nel cervello
per esposizione a eccesso di caldo o di freddo, può scendere
nel corpo, finendo per occupare i condotti normalmente
deputati all’accoglimento del sangue e causandone la
contrazione, che origina le convulsioni epilettiche (Sul male
sacro 2-7); i bambini sono più esposti degli adulti alle malattie
che si generano negli inverni e nelle primavere molto piovose
(8). Da questo stato di precarietà il bambino inizia a
distaccarsi con la crescita, che da alcuni autori è indicata
come una graduale perdita del calore innato e dell’umidità del
corpo; per altri, essa rappresenta la perdita delle sole qualità
umide del corpo, il cui bilanciamento è raggiunto nell’età
adulta del maschio, per poi avviarsi verso il processo di
disseccamento che conduce tutti gli esseri viventi verso la
morte. In tutti i casi, è evidente il riferimento, diretto o
indiretto, a un’età “centrale” e ideale della vita, in cui il
sangue, elemento positivo caratterizzato dalle qualità
benefiche del calore e dell’umidità, è prodotto con le modalità
ottimali per garantire il buon funzionamento del corpo: ben
irrorato, esso sarà caldo e forte, sopporterà la fatica e il lavoro,
avrà scarsa tendenza a cedere di fronte alle malattie e buona
resistenza al freddo delle stagioni ostili. Al di là di questa
condizione di bilanciamento perfetto, che si realizza
compiutamente nei maschi a partire dal diciassettesimo,
diciottesimo anno di età (Finley, 1981), prende avvio la
vecchiaia, che corrisponde, negli autori ippocratici, al lento
scemare del calore vitale, tipico dell’inverno (De humoribus 5,
496-498).
Bisogna infatti sapere che l’uomo è al massimo del proprio calore il
primo giorno della sua vita, e nel massimo giorno della sua freddezza
nell’ultimo; necessariamente infatti il corpo che cresce e sviluppa le
sue forze è caldo, ma quando il corpo inizia la sua decadenza,
scivolandovi senza sforzo, diventa via via sempre più freddo. Secondo
questo schema, dal momento che nel primo giorno massimamente
l’uomo cresce, altrettanto in quel giorno sarà caldo, mentre l’ultimo
giorno, il massimo della sua decadenza, altrettanto è il massimo della
sua freddezza (De natura hominis 12).

Galeno correggerà parzialmente questa visione, assumendo


anche nella vecchiaia la permanenza del calore vitale, che
sarebbe innato, di contro alla graduale perdita dei soli
elementi umidi, causa dell’irrigidimento e della secchezza del
corpo. La correzione medica degli ingravescenti processi di
disseccamento attraverso bagni ripetuti, uso delle terme o cibi
e farmaci umidificanti può essere, dunque, efficace solo per
limitati periodi della vita, oltre i quali non è lecito aspettarsi
una regressione dei sintomi. Tuttavia, il trattamento
terapeutico della vecchiaia è ancora largamente inteso come
“umettante” nel primo impero romano: Seneca si bagna
quotidianamente, a un’età decisamente avanzata, anche se
solo in una tinozza scaldata dal sole che ha sostituito la
sorgente Vergine o le amate e fredde acque del Tevere, in cui
era solito tuffarsi, in gioventù, anche a inizio di anno
(Epistulae ad Lucilium X, 83, 1-7). Infanzia e vecchiaia
rappresentano, insomma, i momenti estremi e incerti di un
ciclo che raggiunge equilibrio fisiologico e piena salute solo
nella medietas dell’età maschile adulta.

I generi, infatti, non partecipano ugualmente di questo


procedere verso la fase, seppure transitoria, di fisiologico
bilanciamento umorale; nella discussione medica e filosofica
sul corpo delle donne si concretizza, dagli autori ippocratici
attraverso Platone e Aristotele, sino a Galeno e a Sorano, una
peculiare ideologia del femminile. Le sue fondamenta più
antiche sono saldamente ancorate al racconto del mito, a
dispetto del razionalismo invocato come tratto distintivo di
larga parte della medicina di matrice ippocratica. Il riflesso
delle concettualizzazioni medico-biologiche del femminile è,
del resto, ampiamente leggibile nei numerosi documenti che
testimoniano un’organizzazione sociale in cui il contributo
delle donne è relegato all’interno degli spazi ristretti dell’oikos
greca e della domus romana.

Che cosa è una donna?


Il Corpus Hippocraticum contiene un piccolo gruppo di scritti
dedicati alla trattazione della fisiopatologia delle donne che,
per ragioni stilistiche, grammaticali e teoriche, sono databili
verso la metà del V secolo a.C. e possono essere ritenuti il
prodotto della stratificazione graduale di un sapere in larga
parte empirico, che raccoglie e rielabora idee del femminile
che appartengono a datazioni più alte e, talvolta, a contesti
culturali diversi, come il mondo egizio e alcune culture del
Vicino Oriente antico (Demand, 1994; Campese, Sissa, Manuli,
1983).

Gli scritti ginecologici ippocratici sono rappresentati da due


libri Sulle malattie delle donne, citati come originali nella lista di
Eroziano, che contengono materiale antico, variamente
assemblato, tra cui una parte sulle donne sterili; un trattato
Sulla natura della donna, non citato come autentico né da
Eroziano né da Galeno, ma antico e sovrapponibile
contenutisticamente ai libri sulle malattie, di cui riassume
ampie parti; un trattato embriologico sulla generazione e
sulla natura del bambino, della fine del V secolo; un’opera
breve sulla gravidanza di otto mesi, attribuito dalle fonti
antiche a Polibo, ma di autore ignoto della fine del V secolo;
un libro sulla superfetazione, cioè sulla possibilità femminile
di dare avvio a più gravidanze contemporaneamente, anche
da padri diversi, che a dispetto del titolo tratta principalmente
di sterilità e parti difficili; un libro sull’estrazione del feto
morto dall’utero materno (Hanson, 1975). Convivono, in
questi scritti, la teoria di un funzionamento del tutto
peculiare del corpo femminile; una serie di competenze
tecniche sul parto, sull’allattamento e sulla cura del neonato;
teorie embriologiche non sempre concordanti tra loro;
conoscenze farmacologiche in cui si alternano approccio
razionale e ricorsi al sapere arcaico, talvolta magico, delle
maiai e delle prostitute, da sempre avvezze al trattamento
delle malattie e dei disturbi dell’apparato riproduttore
femminile.

Si tratta, dunque, di raccolte di materiali non omogenei né


per data né per contenuti, che possono avere origine culturale
“bassa” e che non disdegnano il ricorso a saperi non scientifici
(Andò, 1999). È molto importante, però, non valutare come
passiva accettazione di credenze popolari, per esempio, la
disinvoltura con cui si accoglie all’interno del pensiero
medico l’idea che la fertilità della donna sia accertabile per
via orale attraverso la verifica che una fumigazione vaginale a
base di sostanze odorose possa alterare l’odore dell’alito, o
che una gravidanza possa essere diagnosticata in base alla
valutazione femminile della quantità di seme maschile
trattenuta dall’utero. Un sapere epistemologicamente “basso”,
a trasmissione tradizionale, fortemente connotato in senso
empirico e talvolta contaminato dalla dimensione della cura
magica, viene semmai recepito da un contesto medico e
filosofico formalizzato, che lo ingloba e lo reimpiega per la
costruzione di una solida teoria del funzionamento dei “corpi
diversi”.

Secondo questo sistema, una donna è, innanzitutto, una


diversità anatomica (King, 1998). Già Esiodo (Theogonia 572;
Opera et dies 67-71), nel raccontare la storia di Pandora, ne
aveva sancito l’estraneità irriducibile, definendola «un male
indispensabile», anatomicamente organizzato attorno a un
gastér (stomaco), il vuoto interno in cui prendono avvio i
processi della generazione. Il corpo delle donne si costruisce
culturalmente attorno all’intuizione dei luoghi anatomici cui
è affidata la riproduzione della specie; l’utero, vaso o bisaccia,
si chiude per trattenere il feto, si apre per espellerlo e si
deforma elasticamente per accoglierne lo sviluppo,
occupando una posizione centrale nel corpo (De locis in homine
47). Esso è aperto verso il basso in una bocca che consente
l’espulsione del feto e verso l’alto comunica direttamente con
la cavità orale. La struttura tubolare attorno a cui è costruito il
corpo femminile ne giustifica l’andamento fisiologico
particolare: nelle donne sane i fluidi corporei hanno
possibilità di movimento in tutte le direzioni, in modo che il
fumo immesso nell’utero da un braciere in cui ardono erbe
medicamentose esce dalla bocca, mentre le mammelle sono
connesse direttamente, per mezzo di vene, con le zone
inferiori del corpo (Aphorismi V, 50). La buona salute del corpo
femminile è data proprio dallo stato di “pervietà” della sua
cavità interna, definita anche “camino”, il luogo della casa
dove si effettua la cottura del pane (De natura pueri V, 92;
Aristoteles, De generatione animalium 764 a 12-20). In alcuni
trattati (Sulla superfetazione) si parla di “corna” dell’utero,
tasche che sarebbero destinate ad accogliere più feti, concetto
che verrà ripreso tanto da Aristotele quanto da Galeno,
confortati dalla dissezione animale nella convinzione che
l’organo possa essere bipartito per consentire le gravidanze
gemellari.

A questa diversità anatomica corrisponde una diversità


strutturale: la carne delle femmine è più lassa e più porosa di
quella dei maschi; essa è simile alla lana grezza, che trattiene
bene i liquidi. Questa costituzione spugnosa facilita
l’attrazione dei liquidi dallo stomaco e dall’intestino: «è in
questo modo, dunque, che una donna, dal momento che è più
porosa, attrae maggiore umidità più velocemente
dall’intestino al corpo di quanto non accada nell’uomo» (De
morbis mulierum I, 1). La tendenza ad accumulare umidità
ammorbidisce i corpi femminili, allontanandoli dalla norma
maschile, in cui la ricchezza di sangue e calore rafforza la
tessitura muscolare (Regimen 1, 27); l’eccesso di umidità
impedisce di bruciare i residui dei processi nutritivi, che
tendono a rimanere nel corpo sotto forma di eccesso di
sangue che si riversa nell’utero. Ecco trovata la spiegazione
fisiologica del ciclo mestruale, che è il risultato del
trasferimento in utero della materia residuale derivata dalla
digestione che, non potendo essere totalmente consumata,
deve essere espulsa. Ciò evita il surriscaldamento patogeno
del corpo.
L’idea medica che spiega il ciclo mestruale come prodotto di
una fisiologia tendente al surriscaldamento non è univoca nei
testi ippocratici, alcuni dei quali sostengono che il corpo delle
donne tenda, piuttosto, alla freddezza; tesi definitivamente
accolta nei trattati biologici aristotelici nel senso della
ridefinizione del femminile come stato di debolezza e
incapacità, caratterizzato da freddezza innata che rende
impossibile la cozione umorale, con conseguente produzione
di scorie (De generatione animalium 727 b 31-33). Pur da
prospettive diverse, però, il ciclo mestruale ha analoga
leggibilità nelle fonti mediche e filosofiche: è un sistema di
purgazione (come uno dei termini greci che le designa,
kátharsis, lascia ben intendere), l’emissione forzata di liquidi
in eccesso la cui permanenza nel corpo genererebbe
corruzione, putrefazione e blocchi. Le mestruazioni sono
pertanto un fenomeno necessario al mantenimento dello
stato di salute, quando il corpo, al termine dell’infanzia, non
necessita più di tutto il cibo che ingerisce perché la sua
crescita è arrivata a compimento; il menarca segna, dunque,
non l’inizio della pubertà, ma quello dell’età adulta e segnala
la disponibilità delle donne ad acquisire un ruolo sociale nella
generazione. Uno dei nomi delle mestruazioni, physis o katà
physin (ciò che è natura o accade secondo natura), indica
chiaramente il ruolo preventivo loro attribuito nei confronti
degli stati patologici (De natura pueri 15; Epidemiarum VI, 8, 32;
Epidemiarum VII, 123). La loro abbondanza è garanzia di
corretto funzionamento del corpo; mestruazioni scarse o
saltuarie indicano una non corretta purgazione (Dean-Jones,
1994).

Se la salute delle donne è strettamente connessa alla


viabilità dei loro corpi cavi, l’igiene sessuale è il mezzo per
garantirla; le donne con figli hanno uno stato
tendenzialmente più sano perché il parto ne ha allargato i
canali, rendendo più facile l’eliminazione delle scorie (De
morbis mulierum I, 1). La minor violenza dei dolori mestruali
nelle donne che abbiano partorito è legata allo stato più lasso
dei loro condotti. Nella fisiologia mestruale la diversità
acquisisce una nuova connotazione. Se il corpo degli uomini
segue la partizione imposta dai cicli numerici della vita (il
ricorso a una numerologia di matrice pitagorica, in cui le età
dell’uomo e gli stessi andamenti critici della malattia sono
ripartiti in periodi di tre, quattro, sette e quaranta giorni, è
variamente documentabile in tutta la tradizione medica
antica), le donne obbediscono a un ritmo più stretto, che è
l’andamento mensile del “tempo della luna” (Gourevitch,
1996): tempo naturale, posto sotto la protezione di Artemide
trivia, dea lunare, dettato da una ciclicità per alcuni variabile
(Aristotele la pone verso la fine della lunazione, il periodo più
freddo del mese; De generatione animalium 737 b), per altri fissa
(Galenus, De diebus decretoriis III, 2).

Solo il metodico Sorano svincolerà la ciclicità del flusso


mestruale dai ritmi della luna, sostenendo la peculiarità del
periodo della loro comparsa, variabile da donna a donna
(Gynaecia I, 21). Nel momento in cui i corpi delle bambine
cessano di crescere e i residui si accumulano nell’utero,
causandone il sovraccarico, Artemide, la dea greca che
protegge le fasi di passaggio dei fanciulli e delle fanciulle,
consegna le sue protette nelle mani di Era, la dea cui compete
ordine del matrimonio e della generatività. Il menarca
acquista il senso sociale di segnalatore di ingresso nella vita
adulta e nella fase riproduttiva, in cui l’utero si apre e chiude
ritmicamente. Il “vaso” si serra subito dopo il concepimento,
nella gravidanza e nei periodi di forzata inattività sessuale (De
natura pueri 5); si apre, invece, per l’emissione del flusso
mestruale e nei giorni immediatamente successivi, che sono
indicati come il periodo migliore per il concepimento.

L’idea di una fisiologia dell’apertura-chiusura della bocca


dell’utero è attestata anche da una ricca produzione, sia greca
sia romana, di simulacri uterini, in cui la chiusura artificiale
dell’organo, accompagnata da invocazioni perché la “matrice”
rimanga serrata, indica la necessità che il seme maschile sia
conservato all’interno del corpo femminile, dando avvio a una
gravidanza normale (Hanson, 1975).

La posizione aristotelica, pur accogliendo ampie parti della


teoria “residuale” ippocratica (Sulla natura della donna, Sulla
generazione), la arricchisce di nuovi elementi: dallo stomaco, in
cui il cibo viene cotto per effetto del calore corporeo, il sangue
è trascinato verso il diaframma, dove si mescola con lo
pneuma vitale che proviene dal cuore. Il residuo dei processi
nutritivi che, una volta cotto nel corpo del maschio, diventa
sperma, rimane nel corpo delle donne elemento residuale,
perché in esse difetta la possibilità di operare l’ultimo grado
di trasformazione della materia; sperma e mestruo
condividono, dunque, una natura residuale. Essi sono simili,
tanto che fanciulli e fanciulle iniziano a produrli nella stessa
fase della vita, con cambiamenti sovrapponibili, come
l’alterazione del timbro della voce nei maschi e la crescita del
seno nelle ragazze (De generatione animalium 726; 727 a 2 ss.);
tuttavia, mentre lo sperma è un prodotto residuale cotto e
completo, il residuo delle donne, a causa della deficienza di
calore, non si può trasformare in nulla e rimane simile al
sangue. La donna, dunque, è portatrice di un vizio simile a
quello del bambino non pubere o del maschio sterile, in cui «il
difetto di concuocere il seme al di là delle fasi finali della
nutrizione» si giustifica per la freddezza delle nature
imperfette (De generatione animalium 727 a 30) (King, 1998).

La natura residuale e corrotta del ciclo mestruale giustifica


l’idea antica, trasversale e duratura, di una “patogenicità” del
flusso femminile, ancora oggi attestata in molte culture
popolari italiane: un celebre passo del trattato Sui sogni di
Aristotele sostiene che lo sguardo di una donna mestruata
abbia il potere di offuscare gli specchi, come per azione di una
“nuvola sanguigna” (cfr. Frontisi-Ducroux, Vernant, 1998, pp.
119-24). Se l’idea aristotelica della capacità del sangue
femminile di intaccare il metallo sembra trovare la sua
spiegazione in una teoria della visione come processo di
impressione (lo specchio funziona, al pari dell’utero
femminile, come una materia in grado di essere “informata”
dall’esterno, qui dai corpuscoli sanguigni prodotti dal ribollire
del sangue mestruale e trasportati dall’aria), la credenza in un
potere miasmatico e putrefattivo del flusso femminile avrà
ricadute di più basso livello concettuale e di più duraturo
avvenire: Plinio, nella Storia naturale, a più riprese segnala lo
straordinario potere del mestruo, che può rovinare la fattura
del mosto, rendere sterili le coltivazioni di cereali e gli uomini,
bruciare le piante e i frutti sugli alberi, uccidere le api,
smussare il ferro, opacizzare l’avorio e arrugginire il bronzo
fino a fargli assumere un odore rivoltante (Naturalis historia VII,

15, 64). Esso può essere impiegato come veleno o insetticida


(Naturalis historia VII, 15, 79; Columella, De re rustica XI, 3, 64) e
persino come abortivo, se le cavalle, colpite anche solo da uno
sguardo femminile, perdono i loro puledri (Naturalis historia
XVIII, 23, 79).

Uno statuto ambiguo, dunque; il sangue femminile è, nello


stesso tempo, un escreto salutare e velenoso; salutare per le
donne, che attraverso la sua emissione mantengono stabile
un corpo tendenzialmente incerto e precario; velenoso per
l’ambiente esterno, perché per suo tramite si comunicano al
mondo i principi contaminanti e distruttivi di un femminile
patogeno.

Solo nella fisiologia della gravidanza e del parto sarà


possibile ipotizzare un utilizzo, almeno parziale, delle scorie
che il corpo delle donne è costretto a produrre
continuamente.

Il maschio mancato
La diversità anatomica e funzionale femminile, tratteggiata
nel gruppo dei trattati ginecologici del Corpus, va incontro alla
sua definitiva codificazione all’interno del corpus degli scritti
aristotelici. Nel trattato Sulla generazione degli animali ne è
enunciata l’estrema conseguenza: la femmina è una creatura
incompleta e difettuale. Nell’embriogenesi, infatti, il seme
maschile, destinato a informare della sua virtù attiva la
materia prodotta dal corpo materno, tende in condizioni di
normalità a generare un figlio a sé simile, dunque maschio.
Tuttavia, la natura contempla la nascita delle femmine,
fenomeno degenerativo ma previsto dalle necessità
riproduttive della specie («dobbiamo guardare alla femmina
come a una deformità, sebbene una deformità che capita nel
corso ordinario della natura», 775 a 15); esso è ascrivibile a
indebolimento del seme maschile per eccessiva diluizione, a
esposizione a fattori climatici raffreddanti o anche al
semplice e moderato – comunque innaturale – prevalere delle
qualità femminili. Il difetto di cozione della materia residuale
che costituisce entrambi i semi generativi produce individui
in vario grado «incapaci di raggiungere la loro propria forma»;
quando il difetto di calore è lieve, figlie femmine; negli stadi
successivi, figli deformi e térata, le conclamate mostruosità.
La donna è dunque il primo stadio dell’imperfezione di
natura, quello in cui il principio attivo maschile «è incapace di
effettuare la cozione, e non plasma la materia nella forma che
le è propria, ma si degrada nel tentativo, e dunque
necessariamente muta nel suo opposto. Ora, l’opposto del
maschio è la femmina» (De generatione animalium 766 a 20-22).
La femmina, dunque, come un primo livello di deformità,
riproduce in modo incompleto l’eidos perfetto, la compiutezza
delle forme, la bellezza e l’equilibrio che caratterizzano il
corpo del maschio; è un «maschio sterile», cui manca il potere
di cuocere il seme che proviene dal nutrimento a causa della
freddezza e dell’umidità della sua natura (728 a 17); un
«maschio deforme», cui difetta il costituente principale che
rende i corpi in grado di generare figli sani e vitali, cioè
l’anima senziente (737 a 20 ss.). La natura femminile è, in
ultimo, una menomazione (728 a 17; 775 a 16), uno stadio di
sviluppo incompleto, che non consente la formazione perfetta
e funzionale di tutte le parti organiche.

L’idea del corpo femminile come prodotto intermedio della


generazione, in cui sia stato impedito il completamento
embrionale che in potenza è destinato a generare sempre il
maschile, è raccolta da Galeno e trasformata in una vera e
propria “anatomia dell’inversione”:

Tutte le parti che hanno gli uomini le hanno anche le donne […] con la
sola differenza che le parti delle donne sono all’interno del corpo,
mentre nell’uomo sono esterne […] lo scroto prenderebbe
necessariamente il posto dell’utero, con i testicoli a lato, accanto ad
esso da ciascuna parte […] il pene diventerebbe il collo della cavità che
si è formata […] la pelle detta prepuzio diventerebbe la stessa vagina
[…] puoi vedere qualcosa del genere negli occhi della talpa […]
rimangono lì imperfetti come gli occhi degli altri animali quando sono
ancora nell’utero […] così la donna è meno perfetta dell’uomo per
quanto riguarda le parti destinate alla generazione, perché le parti
sono formate in esse nella vita fetale, ma non possono essere
proiettate all’esterno a causa della mancanza di calore (De usu partium
corporis humani XIV, 6-7).
Nella teorizzazione galenica, anatomia del maschile e
anatomia del femminile finiscono per coincidere. La struttura
sessuale è composta di parti simili, riversatesi all’esterno nel
maschio, durante le fasi finali della gestazione, per effetto del
corretto apporto di calore paterno; introflesse, invece, nel
vuoto interno delle donne a causa di un difetto termico e lì
ricostruite in un’immagine speculare che mima gli organi
sessuali maschili.

L’idea di una sostanziale identità degli apparati sessuali


maschili e femminili, la cui differenza formale è data solo da
una diversa collocazione sulla scala dello sviluppo
embrionale, si conserva pienamente vitale sino all’avanzato
evo moderno: Vesalio utilizza nel De humani corporis fabrica
una tavola anatomica in cui l’utero è raffigurato, in piena
fedeltà con il dettato galenico, come un pene interiorizzato; la
stessa tavola compare nel trattato ostetrico di Scipione
Mercuri dedicato alle competenze dell’ostetrica (La commare o
raccoglitrice, 1596); Tommaso Campanella descrive
trasmutazioni sessuali in cui, per improvvisi eccessi di calore
esterno, le donne possono trasformarsi in uomini fertili e
persino le suore in soldati (cfr. Carella, 2012). Il cambiamento
di sesso, lungi dall’essere un fatto miracoloso, rappresenta la
concretizzazione della perfettibilità insita nella natura, in cui
la correzione del “male di essere donna” (Gourevitch, 1984a) è
sempre possibile, mentre non è consentito l’analogo percorso
dal maschile al femminile. Là dove tutto è perfetto e
correttamente espulso, un ritorno verso il regno della
mancanza non è consentito.
Il forno
La gravidanza è, nei testi ippocratici, l’unico periodo di
qualità positiva, l’unico stato di normalità e di corretto
funzionamento nell’intero arco della vita della donna. Questo
non meraviglia, se si considera il ruolo centrale che nella
cultura greca e latina la gravidanza assume nella vita
femminile. Il parto di un figlio maschio e vitale, attraverso cui
conquistare come madri una visibilità pubblica altrimenti
negata, è l’unico momento in cui alle donne si schiude la
possibilità di un accesso sociale, l’attribuzione di un ruolo
preciso nella famiglia e nel gruppo sociale e la possibilità di
essere menzionate come individui nei rituali di sepoltura
(Aristophanes, Lysistrata 589-590; cfr. Loraux, 1991). La
medicina contribuisce molto a supportare l’idea che la fase
gravidica sia il momento della sospensione della condizione
di incertezza che caratterizza la vita fisica delle donne
(Gourevitch, 1984a): il contatto garantito dal coito con il
principio vitale maschile, caldo, consente la correzione degli
eccessi di umidità che pongono il corpo delle donne nel
perenne rischio di scivolare verso la patologia. Il sangue
residuale del corpo, che di norma deve essere espulso come
una scoria patogena, viene infatti rinviato verso l’utero e
utilizzato per i processi di nutrizione del feto e di produzione
del latte. Utero e mammelle sono collegati direttamente da
una serie di canali che veicolano la parte grassa del sangue,
riscaldata come in un forno e trasformata, per effetto
dell’azione del calore, in latte. L’esistenza di vie di
comunicazione utero-mammelle è dimostrata negli Aforismi
ippocratici dalla valutazione dello stato di turgore del seno,
che si gonfia e si sgonfia, segnalando la buona crescita del
feto, il suo difetto o un incipiente o avvenuto aborto
(Aphorismi V, 37).

Gli autori ippocratici, pur all’interno di un dibattito


embriologico che ha le sue radici in Empedocle, sostengono
per lo più la capacità del corpo femminile di produrre un
seme, in qualche modo analogo a quello maschile, sia
generandolo dal cervello (teoria encefalomiogenica) sia, in
accordo con un modello democriteo, da tutto il corpo (teoria
pangenica), per effetto della digestione del cibo e dello
scuotimento del sangue durante il coito. Lo sperma femminile
sarebbe emesso durante l’orgasmo nell’utero, rimanendo per
questo invisibile e difficile da percepire sensorialmente.
L’utero, che come una bocca è in grado di «suggere e
aspirare», trattiene come una ventosa al suo interno il
contributo femminile, consentendogli di unirsi a quello
maschile (De semine 6, 478). La fecondazione è più facile e più
rapida nelle donne di buona costituzione fisica, giovani e non
troppo magre, e nei pressi del periodo mestruale, che allarga i
condotti del corpo consentendo il facile movimento di
entrambi i semi generativi (De mulierum affectibus I, 24).
L’alimentazione del padre con cibi riscaldanti, come il vino o
la carne rossa, aumenta le possibilità di avere un maschio (cfr.
Andò, 1995, 2000); un regime ricco di acqua e di cibi
umidificanti, al contrario, facilita la nascita della femmina,
nella misura in cui la determinazione del sesso dipende dalla
qualità – calda o umida – preponderante al momento della
fecondazione (De semine 6, 478; Regimen 27) (Dean-Jones, 1994).

L’idea ippocratica di un contributo paritario alla


generazione è definitivamente corretta in Aristotele: il trattato
Sulla generazione postula, infatti, che il corrispettivo dello
sperma sia da individuarsi nel sangue mestruale, materia
caratterizzata da freddezza insanabile e inerzia innata e
destinata a essere espulsa dal corpo durante il ciclo (De
generatione animalium 727 a 2 ss.; b 33-36, 728 a 1-4). Per
Aristotele le donne, producendo flusso mestruale, annullano
la possibilità di secernere seme generativo (il che le
esporrebbe all’inammissibile rischio di generare figli
partenogeneticamente). Il contributo femminile alla
gravidanza è solo la fornitura di materia imperfetta e non
cotta, che deve essere riscaldata dal seme maschile in modo
che alla sua passività sia impressa una forma. La parte spessa
del sangue delle donne serve, dunque, da mero materiale per
la costruzione del feto, mentre la parte più sottile e acquosa è
impiegata come nutrimento del bambino (De generatione
animalium 728 a 28-31); lo sperma maschile, pneumatico,
caldo e vitale, anima il sangue mestruale e gli attribuisce
ordine e funzionalità, sensibilità e movimento, permettendo
la nascita di un figlio sano, completo, mobile e senziente.

Sia nel Corpus Hippocraticum sia in Aristotele il feto inizia


una fase di formazione, che si compie in tempi differenti, più
brevi per il maschio, più lunghi per le femmine, la cui umidità
rallenta tutti i processi di sviluppo. Durante questo periodo
iniziale, per gli ippocratici il bambino non si nutre; il sangue
mestruale non impiegato per il suo accrescimento diventerà il
residuo del quale il corpo materno si libera dopo il parto, con
la lochiazione. Galeno distingue, invece, quattro diversi
momenti nella fase embrionale: dalla “coagulazione” del
seme, che si trasforma come il caglio del latte acquistando
progressivamente solidità, fino alla formazione del sangue e
dei tre organi vitali (cuore, cervello, fegato) destinati ad
accogliere lo pneuma e alla modellazione degli arti (De semine
1, 9). Quasi in tutte le fonti antiche, il feto può posizionarsi
nella zona destra o sinistra dell’utero, a seconda che il suo
sesso sia maschile o femminile; come definitivamente sarà
codificato da Aristotele, la parte sinistra del corpo, percepita
come generalmente più fredda e debole (Aristotele sosterrà
che il cuore è collocato a sinistra proprio al fine di correggere
la difettualità ingenita della parte anatomica), è destinata a
ospitare esseri femminili. Questo schema fisiologico si fonda
sul paradigma greco della superiorità e positività della destra
rispetto alla sinistra, evidente anche nell’interpretazione dei
segni divinatori (Lloyd, 1993). Le stesse mammelle, nella loro
duplicità, rispecchiano quanto accade nelle parti dell’utero: se
una sola si dissecca, la gravidanza è gemellare e andrà a buon
fine solo per uno dei feti; se soffre il seno destro, morirà un
maschio, se il sinistro, una femmina (Aphorismi V, 38).

La gravidanza è, dunque, generalmente concepita come un


periodo di salute transitoria, in cui il corpo si giova di una
trasformazione qualitativa che, da spugna e tessuto
assorbente, lo rende forno destinato alla cottura del bambino.
Ciò è possibile grazie all’apporto del calore maschile, cui
veramente appartiene, in una genealogia che connette padre
e polis, il prodotto della gravidanza; le madri sono solo le
passive custodi (Aeschylus, Eumenides 658-661) di un prodotto
in formazione da cui dipende lo stato del loro temporaneo
benessere. Il parto è un momento di rischio pari alla battaglia:
tre volte Medea preferirebbe la guerra ai dolori della nascita
(250-252). D’altronde, l’alto rischio connesso al parto è
riconosciuto anche legislativamente in Sparta, in cui
l’ordinamento di Licurgo concede l’onore della menzione del
nome sulla stele funebre alle madri morte di parto come agli
eroi sul campo di combattimento (Plutarchus, Lycurgus 27, 2).
Ciononostante, senza gravidanza e parto le donne non
possono sapere che cos’è la salute.

Solo con il metodico Sorano la medicina antica correggerà


questa visione insieme positiva e alienante della gravidanza;
pur essendo un passaggio necessario nella vita femminile,
essa è infatti dipinta nel trattato Sulle malattie delle donne non
come una fase di “salute possibile”, ma come un protratto
periodo di sofferenze e fastidi, che va trattato dal medico
come una vera malattia, in grado di causare nausea,
oppressione, deperimento, atonia, dolori e persino
invecchiamento precoce (Gynaecia I, 62).

“Cose di donne”
La patologia delle donne, in ampia parte del pensiero
medico antico, è uterocentrica. Attorno alla “matrice” si
organizzano, si è visto, un modello concettuale di corpo
femminile e una teoria fisiopatologica precisa – i cui caratteri
fondamentali, a partire dai testi ippocratici, sono rinvenibili
nell’anatomia “cava”, in cui ogni parte comunica con le altre
rendendo del tutto permeabile l’interiorità femminile – e
l’idea di una precarietà fisica perenne che caratterizza il
genere. Alle donne, infatti, non pare essere concessa la
diversità delle singole nature che caratterizza il corpo degli
uomini, al punto che a una supposta “norma” femminile gli
autori ippocratici – si è visto – dedicano un insieme di testi
coerenti e coevi. Tutte le donne, infatti, tendono ad
accumulare umidità nelle loro carni lasse; l’umidità raffredda
i corpi e li rende incapaci di cuocere i residui nutrizionali;
questi si trasformano in scorie e sangue residuale, che si
raccolgono nell’utero, in un deposito continuo. La salute
femminile è garantita solo dal regolare accadere
dell’espulsione mestruale; quando il ciclo è sospeso, i
condotti si occludono, i corpi si ammalano o vanno incontro a
processi di mascolinizzazione che rendono le pazienti sterili
(De morbis mulierum I, 1-2; 6). Se il sangue che deve fluire
all’esterno del corpo viene trattenuto all’interno, esso può
essere indirizzato verso parti non deputate ad accoglierlo, con
la conseguente produzione di ascessi che, se localizzati nel
cuore o nei polmoni, causano visioni angoscianti, crisi di
delirio, febbri violente e, in casi estremi, anche pazzia. Il
rapporto sessuale è l’unica via che garantisce alle donne,
attraverso la dilatazione dei condotti e l’apertura della bocca
dell’utero, la corretta purgazione e nel contempo, per mezzo
del contatto con lo sperma, l’opportunità di raggiungere lo
stato di bilanciamento umorale che è loro fisiologicamente
precluso. La sospensione del flusso mestruale è, dunque, di
per sé stessa elemento patogeno, così come lo è l’astinenza
sessuale: ai margini estremi della sfera riproduttiva (nelle
donne molto giovani o nelle anziane), la mancanza di
contatto con il calore maschile non riesce a garantire uno
stato di corretta crasi umorale.

Anche il solo appartenere a categorie di età per ragioni


diverse non riproduttive rappresenta, dunque, un rischio
concreto di malattia. Di una malattia strana, peculiare,
animata, che assume il nome della parte che affligge:
comincia qui la storia medica dell’isteria. L’utero, già nei
papiri medici egizi, è indicato come parte anatomicamente
non stabile (come acutamente fa osservare Ann E. Hanson,
1991, se l’utero non esiste nel maschio, perché mai esso
dovrebbe avere una sede anatomicamente stabilita nelle
donne?); si può muovere verso altri distretti del corpo e
spingersi verso il fegato, il diaframma, gli ipocondri, talvolta
persino la testa; a volte l’organo tenta, attraverso il prolasso,
di “evadere” dal corpo, in una dimensione esterna in cui è
ipotizzabile l’incontro con il maschile (De natura muliebri 3-8,
30-38, 47-49, 54-62). Il linguaggio ippocratico è animato:
l’utero, come un vivente, si “volge”, si “slancia” o “cade”. Le
pazienti accusano pesantezza di testa, dolori al naso,
sonnolenze improvvise, respirazione affannosa e senso di
oppressione al petto, eccesso di salivazione, difficoltà di
movimento, impossibilità di parola, crisi di follia (King, 1993).
Il medico può tentare di riportare l’organo nella sua sede
originaria attraverso processi di attrazione e repulsione
indotti dall’uso di sostanze aromatiche o dall’odore
sgradevole; riacquisita la posizione originaria, l’utero deve
essere fermato, attraverso una gravidanza e il peso del feto
che funziona come un’ancora. Platone, nel Timeo, si spinge
ancora oltre: la mobilità uterina suggerisce l’assimilazione
esplicita di matrice e animale in movimento; come una bestia
selvaggia, l’utero si sposta irrazionalmente alla ricerca della
possibilità di fare figli; è l’attribuzione di una dignità
concettuale all’idea che solo attraverso la gravidanza sia
possibile il mantenimento della salute del singolo, della
comunità sociale e della specie (Dean-Jones, 1994). La
malattia dura

fintanto che il desiderio e l’amore dei due sessi, congiungendosi


insieme, portino a cogliere un frutto simile a quello degli alberi e a
seminare dentro la matrice, come in un campo che sia stato arato,
esseri viventi […] invisibili per la loro minima natura e non ancora
formati e poi separandoli li faccia crescere nutrendoli e poi li metta
alla luce e produca la generazione dei viventi (Timaeus 91 c-d).

Parzialmente corretta da Aristotele, che tenta la


razionalizzazione dell’immagine mitica dell’utero animale,
supponendone la stabilità anatomica garantita da strutture
tendinee che ne limitano il movimento, l’isteria avrà storia
fortunata nei testi medici fino alla piena epoca imperiale; in
Celso e Areteo di Cappadocia è ancora ben documentabile
l’idea di un utero errabondo, che si muove «come un animale
all’interno di un altro animale» (Aretaeus, Acutae passiones XI,

22). Solo Sorano e Galeno respingeranno l’idea che i sintomi


isterici siano imputabili alla mobilità uterina, ascrivendoli a
stati infiammatori; essi sono curabili, nella medicina
soraniana, con metodi dolci e rilassanti, abbandonando le
fumigazioni e preferendo bevande a base di miele,
riscaldamento e umidificazione graduale dei corpi,
applicazione di ventose per risolvere stati di afonia (Gynaecia
III, 28). Il rapporto sessuale, che in tutta la medicina metodica
cessa di rivestire un ruolo terapeutico, è diventato uno dei
molti eventi stressanti che colpisce il corpo delle donne; solo
la conservazione della verginità può garantire a lungo il
benessere femminile.

I figli dell’imperfezione: partenogenesi, mole e mostri


Malgrado il fatto che nei testi medici antichi (fatta la citata
eccezione per il metodismo) la gravidanza sia generalmente
vista come l’unico periodo di stabilità fisica della vita
femminile, ad essa è correlata una serie di stati apertamente
patologici che vanno da aborti naturali, morti dei feti in utero,
fino alla generazione di figli imperfetti o del tutto deformi. Si
tratta di difetti del normale corso gravidico in parte ascrivibili
a fattori esterni, come malattie o incidenti di natura non
ginecologica, che nel loro avvenire compromettono però la
gravidanza; molti dei casi descritti come patologici, nei testi
ippocratici come in quelli galenici, hanno invece una
connessione strettissima con la sfera riproduttiva. Essi
possono riguardare le alterazioni del tempo “normale” che la
natura assegna alla formazione e allo sviluppo del feto o
difetti di embriogenesi, per cui il prevalere di una specifica
qualità, trasmessa attraverso i semi materni o paterni,
connota il prodotto della fecondazione nel senso di un
eccesso o di un difetto, da cui origina uno stato patologico. I
difetti nella scansione cronologica della gravidanza ne
rappresentano una delle occorrenze più frequenti; essi sono
attestati anche nelle fonti epigrafiche relative alla medicina
templare che narrano, per esempio, della gravidanza
pretermessa di Kleo, cui solo Asclepio può porre fine con un
parto felice dopo cinque anni (!) di attesa.

Le variazioni dei normali tempi gravidici sembrano, in


genere, fare riferimento a una teoria numerologica, di
probabile ascendenza pitagorica, variamente attestata nella
medicina ippocratica. L’alternarsi della ricorrenza dei numeri
tre e quattro è, per esempio, evidente nella scansione del
tempo gravidico in cicli di trenta giorni, a loro volta
riorganizzati in andamenti trimestrali; ancora, è individuabile
nel trimestre necessario al feto femmina per iniziare i suoi
movimenti nell’utero. La segnalazione del quarantesimo
giorno come momento “critico” è, del resto, ancora ben
attestata negli scritti biologici aristotelici: quaranta giorni
dalla fecondazione sono il momento in cui il feto acquista
senso e movimento e costituiscono, pertanto, il termine ante
quem è possibile indurre un aborto. Una gravidanza di sette
mesi (risultato della somma del quattro e tre) può terminare
con un parto vitale, mentre il feto di otto mesi rischia di
andare incontro a uno stato di grave sofferenza, che può
coinvolgere anche il corpo della madre (Hanson, 1987;
Angeletti, 1990 e 1994).
Tra le molte patologie, un caso particolare è rappresentato
dalla nascita di mole, che sono i frutti di strane gravidanze
molto protratte al di là del termine, in cui l’utero si ingrossa
come contenesse un feto e tutto il corpo delle madri va
incontro alle modificazioni che caratterizzano una gravidanza
normale. Al momento del parto, però, non accade nulla e la
madre, che non ha mai sentito muoversi dentro di sé il figlio,
dopo molta attesa partorisce una massa informe, composta
da concrezioni carnose, spesso accompagnata da emorragie
letali. Il termine “mola” che designa questa escrezione fa
riferimento alla pietra con cui si macina il grano, con cui la
massa condivide durezza e inerzia. La mola è un buon
esempio di una malattia che sia insieme legata all’alterazione
del tempo della gravidanza e della qualità del seme
genitoriale (De mulierum affectibus II 178). Infatti, la causa
ippocratica è indicata in mestruazioni abbondanti che
incontrano un seme paterno fiacco (indebolito, per esempio,
da eccessi nel bere che ne diluiscono il calore vitale e la
forza), cioè in un difetto che comporta una responsabilità
tanto materna quanto paterna.

La descrizione della stessa malattia nei testi di Aristotele


(De generatione animalium 775 b 25-776 b 14), se è simile a
quella presente negli scritti ippocratici per sintomi e
descrizione clinica, è molto diversa per quanto riguarda
l’eziologia: la mola si genera perché la qualità materna,
trasmessa dal sangue mestruale con cui si costruisce il feto, è
troppo fredda e sovrasta il principio formale caldo e vitale
che, attraverso lo sperma, attribuisce forma compiuta e
movimento al prodotto del concepimento (De genitura 6).
Questo genera un figlio mostruoso, il solo “peggiore di un
figlio femmina” (Manuli, in Campese, Sissa, Manuli, 1983, pp.
147-92), caratterizzato da eccesso di qualità fredda materna
che lo rende simile alla pietra o al metallo, coagulando la sua
forma imperfetta in una massa senza sembianze umane. La
mola è qui un parallelo del concetto di teras (mostro)
aristotelico; come il mostro, «non accade regolarmente», si
discosta dalla regola generale della natura (De generatione
animalium 775 a 15) ed è il prodotto della dominanza scorretta
del principio materiale su quello formale, della passività sulla
potenzialità e attività, della morte sulla vita, della dominanza,
cioè, della qualità femminile su quella maschile. In questo
modo, la mola replica su scala dilatata quello che accade nella
generazione delle figlie femmine, che nascono quando il
calore del padre è lievemente inferiore a quello che serve per
dare alla luce il figlio perfetto, che è maschio; la stessa
dominanza del freddo e dell’umido che impedisce agli organi
sessuali femminili di “cuocersi” e protrudersi all’esterno del
corpo, quando supera i limiti concessi dalla natura per
consentire la riproduzione della specie, dà origine ai figli
gravemente imperfetti del solo principio materno. Le mole,
come ogni altro difetto di sviluppo infantile, sono i figli del
femminile, la cui originaria natura imperfetta non è corretta
da un misurato apporto paterno (Gazzaniga, 2013).

L’attribuzione di una responsabilità patologica alla


dominanza del materno è chiara:
la ragione […] per cui ciò che si compie si allontana dal tipo e non
viene dominato [dal principio maschile] è nella potenza che manca nel
fattore che muove o cuoce o nell’accumulo e nella freddezza di quello
che si deve cuocere o articolare, di modo che [il principio agente]
riesce a prendere il sopravvento su una parte e non su un’altra e causa
l’embrione che prende forma in modo diverso dalla norma. È la stessa
cosa che accade agli atleti che mangiano in quantità eccessiva […] per
cui per la gran mole del nutrimento la natura non può avere il
sopravvento e portare a una crescita proporzionata […] il risultato è
che le parti vengono fuori […] talvolta diverse del tutto da quello che
erano (De generatione animalium 769 b 10).

Un femminile dominante produce livelli diversi di


disabilità: in primo luogo figlie femmine, poi bambini mutilati
o incompiuti, infine mole. Il principio non ha un corrispettivo
negli scritti di Ippocrate (in cui i bambini “difettuali” sono
eventualmente frutto di alterazioni meccaniche della loro
struttura, compressa in uteri troppo piccoli o mal nutrita a
causa di una non perfetta chiusura della bocca della matrice
dopo il concepimento, De genitura 9-10) e costituisce
l’elemento fondante della negazione aristotelica della
possibilità del concepimento partenogenetico; se in natura
alcune specie, come pesci e crostacei, sembrano in grado di
riprodursi senza l’apporto del seme paterno, ciò è dovuto
all’elementarità della loro specie, in cui principi maschili e
femminili non sono giunti, separandosi, a differenziarsi,
agendo così, almeno nelle modalità riproduttive, come il
mondo vegetale. La riproduzione umana, per essere sana,
deve sfuggire alle norme che regolano la generazione di fiori e
frutti; la fecondità della terra, che evoca quella delle
primigenie dee madri, se trasposta nel corpo delle donne dà
alla luce prodotti imperfetti e bambini che, non replicando
l’eidos del padre, sono deformati. L’eco della narrazione mitica
sembra sopravvivere nelle pieghe del discorso scientifico: Era,
la madre di Tifone e di Efesto, figli “dissimili” generati senza il
contributo di Zeus, assurge a modello di una potenzialità
generativa che va controllata e soffocata, anche attraverso la
costruzione di una rigida griglia scientifica che dipinge il
corpo delle donne come il mondo del difetto (Gazzaniga, 2005,
2010).
5

Miasmi, impurità e pesti

Riti di nascita e di morte: l’impurità dei confini


Sebbene – come si è visto – le mestruazioni ricoprano, tanto
nella cultura greca quanto in quella romana, il carattere di un
flusso destinato a “purgare” il corpo liberandolo dalle scorie
residue dei processi nutritivi che le donne non sono in grado
di portare a completa cozione, esse non comportano nelle
fonti più antiche attribuzione di impurità nel periodo del
ciclo; né è attestata nelle fonti l’esclusione o la seclusione
femminile per evitare la contaminazione di ambienti, esseri
umani o animali. Anche il passo prima citato del trattato
aristotelico Sui sogni (De insomniis 459 b 24-460 a 23), sia esso
autentico o attribuibile alle interpolazioni di un tardo allievo o
di un copista, quando accenna al potere di una donna
mestruante di offuscare uno specchio, pare alludere, più che a
un reale potere contaminante, a una capacità di
modificazione “materiale” attribuita al sangue mestruale, in
cui le particelle aeree, scontrandosi con una superficie
metallica liscia, lasciano su di essa una sorta di impronta.

La negazione di un carattere contaminante al sangue


mestruale sembra essere in netto contrasto con quanto
accade in numerosi altri contesti, come quello ebraico, che
prevede prescrizione di comportamenti catartici per le donne
al termine del ciclo come atto preliminare alla riammissione
nel tempio; le interpretazioni integraliste della norma
coranica vietano addirittura la possibilità per la donna
mestruante di toccare e leggere il testo sacro; molte culture
dell’Africa subsahariana, aborigene australiane, ma anche
siberiane e artiche, prevedono l’isolamento della donna, in
strutture appositamente costruite ai margini del contesto
sociale, per tutto il periodo del ciclo (Eliade, 1974). In ambito
romano, il trattato di Plinio, in cui trovano ampio spazio
aspetti di cultura popolare e magica, attribuisce al flusso
mestruale un esplicito carattere contaminante, proibendo il
rapporto sessuale nei giorni della perdita di sangue, ma anche
il contatto con donne incinte e animali gravidi, che la sola
vista di una donna mestruante potrebbe esporre a rischio di
interruzione della gravidanza (Naturalis historia XXVIII, 77; 80-
81).

Al sangue dei lochi, emesso dalle donne in un periodo di


durata variabile immediatamente seguente il parto, è invece
attribuito in quasi tutte le fonti antiche il carattere di
emissione impura. Questo comporta la limitazione delle
persone autorizzate ad assistere all’evento della nascita, in
genere la loro selezione all’interno del nucleo familiare e del
sesso femminile, un periodo di allontanamento sociale di
durata variabile per la madre e per chi le sia stato accanto
durante la fase finale della gravidanza e cerimonie rituali di
riaccoglimento sociale. La civiltà greca prevede cerimonie di
lavaggio sacro del neonato nell’immediatezza della nascita; in
Atene, esse sono seguite da un rituale pubblico, le
Amphidromie, in cui, in più fasi, avviene la presentazione del
nuovo nato al nucleo familiare e alla comunità. Rituali
similari possono essere stati praticati su tutto il territorio
greco in un arco cronologico ampio; la storiografia ha discusso
e discute sul significato loro attribuibile, che va da cerimonie
di catarsi collettiva a riti di iniziazione (Hamilton, 1984).

In Platone (Theaetetus 160) e in Erodoto (Historiae V, 92)


sembrerebbe altresì potersi leggere l’allusione a una
procedura di valutazione pubblica dell’integrità e della salute
del nuovo nato; a ciò alluderebbe in particolare il racconto
erodoteo della nascita di Cipselo, sospettato di deformità e
passato, come un fagotto, di mano in mano da quattro
uomini, arrivati in casa con lo scopo di deporre al suolo e,
quindi, uccidere un bambino non “regolare”. Le fonti
lessicografiche e quelle di epoca classica suggeriscono diversi
e vari scenari possibili; tra questi un rito domestico,
variamente collocato nel quinto, settimo o decimo giorno
dopo la nascita, che in epoche recenti sarebbe arrivato a
rivestire il carattere di una vera e propria festività pubblica,
articolata in fasi diverse, con invio di doni alimentari ed
esposizione di corone (di ulivo per il maschio; di lana, allusive
alla sua complessione fisica “assorbente” e umida, per la
femmina). Il rito si concluderebbe con una cerimonia
notturna, allestita dopo una preparazione di molti giorni. La
sua collocazione nel decimo giorno di vita coincide con
l’indicazione biologica aristotelica che vede nei primi dieci
giorni di vita del neonato la fase più delicata e
potenzialmente esposta a rischi di morte dell’intera vita del
bambino; per questo le Amphidromie coinciderebbero anche
con l’attribuzione del nome al nuovo membro della famiglia
(Aristoteles, Historia animalium 588 a 8-10).

La complessità della preparazione rituale può essere, senza


dubbio, connessa anche all’idea che il parto sia uno dei
momenti in cui il miasma, principale forma di
contaminazione fisica e morale per la civiltà greca, si
concretizza e colpisce la madre e tutti i presenti alla nascita;
in tal senso sembra di poter interpretare la prescrizione
catartica della legge sacra di Cirene, che indica in tre giorni il
periodo di impurità che il parto trasmette all’esterno (LSCG 115
A 16-20, B 26-27; cfr. Parker, 1983).

La teorizzazione medica indubbiamente contribuisce alla


giustificazione teorica dell’idea, più arcaica e trasversale, di
un’impurità trasmissibile attraverso il sangue delle madri. La
debolezza della fase gravidica, che espone le donne a rischi
molto elevati, le rende facili prede della contaminazione
prodotta da qualsiasi tipo di miasma. L’avvertimento di
Ifigenia alle donne gravide della città di proteggersi anche
solo dalla vista del matricida Oreste richiama lo stato critico
in cui corpi in fase di “cottura” di un prodotto estraneo
tentano di correggere, con sforzo, la loro stessa discrasia
interna. Il sangue prodotto dopo il parto è indicato, negli
autori ippocratici e poi in Aristotele, come l’estremo prodotto
di un ciclo di costruzione del bambino, in cui ogni “utilità”
possibile è già stata sfruttata nei nove mesi precedenti; il
sangue mestruale serve a nutrire il feto e a produrre latte, o
materialmente a costruire l’embrione nei trattati aristotelici.
Quello che si espelle è, dunque, un escreto totalmente
sfruttato, il residuo del residuo, l’impurità rimanente, in una
parola un prodotto sporco e contaminante. Forse attraverso le
fonti mediche e biologiche si riesce ad attribuire un senso
all’indicazione di periodi diversi in cui accadrebbe il rito di
purificazione: l’indicazione del quinto, settimo o decimo
giorno dalla nascita come momento dedicato alla ritualità
potrebbe essere legato al genere del neonato, che, se
femmina, necessiterebbe di un periodo maggiore di
seclusione a causa della sua maggiore tendenza a trattenere
scorie. Ciò si accorderebbe con l’indicazione ippocratica che
prevede un periodo di lochiazione più breve per le donne che
abbiano generato un maschio, in grado per il suo stesso calore
interno, di bruciare residui e impurità già durante la sua vita
nell’utero.

Anche la legge catartica – si è detto – contribuisce ad


attribuire un carattere contaminante alle donne in procinto di
partorire attraverso il divieto di ingresso nel tempio di
guarigione per le gravide. Tale divieto assimila le donne alla
categoria degli ammalati gravi e dei moribondi; il tempo di
purificazione è più breve per la nascita e il contesto in cui la
trasmissione miasmatica è possibile più limitato, perché
possono esserne colpiti solo coloro che fisicamente sono a
contatto con la partoriente; tuttavia, esiste un’associazione
diretta tra la “contagiosità” della dimensione della nascita e
quella della morte. Teofrasto, per esempio, afferma
esplicitamente che l’impurità associata al nascere è uguale a
quella legata ai cadaveri che si decompongono (cfr. Bettini,
1998). Le donne, insomma, trasmettono miasma come i
cadaveri in putrefazione. Ma qual è il significato che il
termine greco veicola e in che modo esso è correlabile – se lo
è – con l’idea che alcune malattie possano derivare dal
contatto, casuale o ripetuto, con corpi malati o con quelle che,
variamente, oggi indichiamo come fonti di contagio?

Il miasma, macchia e malattia


La discussione del concetto di miasma e di contagio nelle
culture greca e latina ha assunto dimensione centrale nella
storiografia più accreditata e recente; proviamo qui a
riassumere i tratti principali di questa discussione (Nutton,
1983; Parker, 1983; Grmek, 1984; Dodds, 1997; Jouanna, 2000;
Demaitre, 2004).

Come ha sottolineato Robert Parker (1983) nel suo testo sul


miasma nella cultura greca, ormai diventato storico, chiunque
abbia avuto esperienza diretta di testi letterari o scientifici
antichi ha avuto modo di confrontarsi con il concetto di
purezza rituale e con le conseguenze morali e fisiche della sua
violazione. La parola greca míasma, con cui si indica la
conseguenza di un atto ritualmente ritenuto impuro, è
connessa al verbo miaino, che indica l’atto di tingere una
stoffa, di macchiarla con un colore (come avviene con la
porpora, che tinge i tessuti di rosso), di mutarne, insomma,
l’aspetto cromatico. In questo senso, come segnala Grmek
(1984), essa è sovrapponibile al latino infectio, che ha
all’origine lo stesso significato. Il concetto che i due termini
sottendono è arcaico e legato a un’idea magica e sacrale del
mondo, organizzata attorno al concetto di simpatia, cioè di
comunicazione possibile ed esistente tra sfere diverse: divino
e umano, inconoscibile e sensibile, sacro e profano. Il miasma
è ciò che, attraverso una mutazione di stato, segnala
un’impurità preesistente: dal contatto con una sporcizia, con
un contaminante fisico (il sangue, il cadavere), deriva la
contrazione di un’impurità morale, la quale è a sua volta
traducibile in una malattia, individuale o estesa al gruppo
sociale, che funziona da sintomo, cioè da segnalatore della
condizione di anormalità morale esistente a monte.
Paradigma del permanere in epoca classica di questa
concezione arcaica è la pestilenza che, nell’Edipo re, si scatena
sulla città di Tebe per indicare i delitti compiuti, seppure in
modo inconsapevole, da Edipo: parricidio e incesto. Il loimós è
indicato come conseguenza fisica di una colpa da Apollo, dio
solare connesso alla dimensione della guarigione, al cui
oracolo si chiede spiegazione del perché un’improvvisa
mortalità di animali e uomini funesti la città; del carattere
sacro che lo contraddistingue è, in qualche modo,
consapevole lo stesso re, che si interroga su “quale sacrificio
di purificazione” sia necessario per allontanare la malattia.

Il miasma sacro ha carattere contagioso, si trasmette da un


individuo a un altro o da un individuo all’intera comunità con
caratteri differenti a seconda dell’elemento che lo scatena. Il
sangue del parto ha una contagiosità limitata e necessita del
contatto fisico per essere trasmesso: al di là della soglia di
casa, non colpisce. Il corpo del morto trasmette, invece,
impurità anche a grandi distanze e così accade per il sangue
dei delitti, versato ingiustamente. Dodds (1997) spiega in base
a questo assunto il fatto che i condannati a morte fossero
destinati, in Atene, a bere la cicuta con le proprie mani,
liberando il boia dal rischio di contaminare sé stesso e la polis.
La malattia che consegue dal miasma religioso può essere
curata con musica e canti, con cerimoniali sacri, con doni di
uova o panni di lana che assorbano la “macchia”; in epoca
classica, con una correzione igienica a base di acqua e fuoco.
Anche un farmaco può correggere il miasma: un essere
animato, animale o umano, che, allontanato dal contesto
civile, porta con sé la colpa e il male. Il termine greco con cui
si designa questo essere è, per l’appunto, phármakon (ciò che,
alterando una condizione, trasporta altrove una negatività). Il
processo di guarigione è indicato con il termine rituale di
“catarsi”, che non a caso segnala, anche in ambito medico,
alcune condizioni fisiologiche attraverso cui si ritiene che il
corpo riguadagni una condizione di equilibrio, grazie
all’espulsione di materia residuale impura: catarsi è uno dei
nomi greci delle mestruazioni; il salasso è una catarsi; il
vomito è spesso indicato come “purificatore” del corpo. Solo
in casi eccezionali, la catarsi del miasma coincide con un vero
e proprio sacrificio; ancora le Leggi di Platone ritengono
sufficienti il processo e l’esilio per chi sia colpevole di un
delitto, anche per gli animali! (873e); la morte è richiesta solo
per chi, in condizioni di colpa consapevole, abbia sacrificato
agli dei (910c-e).

L’associazione tra colpa, miasma e pestilenza è attestata da


passi celebri, tra cui si può ricordare il primo libro dell’Iliade,
in cui Apollo punisce con invio di malattia epidemica i Greci
responsabili dell’offesa al sacerdote Crise (Ilias I, 61), o i versi
di Esiodo in cui il loimós è associato, come punizione divina,
anche alla carestia/limos inviata da Zeus (Opera et dies 242-
245). L’associazione tra colpa umana ed epidemia da miasma
non è però automatica, nemmeno nel pensiero greco arcaico.
Agli dei è concesso di inviare malattie non giustificate da una
colpa effettivamente commessa, sulla base di una casualità di
cui non si riesce a rendere spiegazione: se una guerra
ingiusta, l’uccisione di un protetto degli dei, la violazione dei
recinti sacri di Eleusi o l’infrazione di un tabù costituiscono
giustificazione teorica della contaminazione miasmatica,
alcune forme patologiche, come la follia o la stessa peste,
possono non richiamarsi direttamente alla violazione di un
ordine morale. Per dirla con Dodds (1997) e Parker (1983), le
attitudini “non scientifiche” del pensiero greco sono troppo
numerose e troppo ricche di implicazioni per accettare di
essere semplificate sotto un’unica e generale etichetta.

Miasma e catarsi: razionalizzazione di due concetti


Il miasma e la catarsi hanno una vita duratura nella storia
del pensiero medico occidentale o, meglio, a fronte di una
relativa rarità di attestazione dei due termini nelle fonti
mediche greche e latine, sono i concetti ad essi sottesi che si
trasformano e riacquistano una vita nuova nel pensiero
scientifico a partire dal V secolo a.C. La medicina ippocratica,
costretta a convivere negli stessi territori con pratiche di
guarigione teurgica ancora molto vitali nei primi secoli dopo
la nascita di Cristo, pare adottare in questo caso (come in
altri) una strategia che non contrasta direttamente un nucleo
arcaico di idee sulla malattia, molto ancorato nello spirito
greco e, pertanto, difficile da debellare, ma piuttosto tende, fin
dove è possibile, ad assimilarle e reimpiegarle all’interno del
razionalismo che sceglie come chiave di spiegazione della
realtà. Persino uno degli scritti fondativi della medicina
ippocratica, il trattato Sul male sacro, che respinge in modo
netto l’attribuzione della responsabilità patologica al mondo
degli dei, riutilizza i concetti di contaminazione e
purificazione per indicare che l’epilessia deriva ai bambini da
uno stato di non corretta eliminazione/purgazione delle
scorie nel cervello durante le prime fasi della gestazione. Si è
visto anche come nei testi ginecologici del Corpus, che
conservano nuclei teorici antichi e tradizionali, è possibile
l’idea dell’impurità “ontologica” di un escreto corporeo, il
sangue mestruale, via di espulsione all’esterno di prodotti
residuali e corrotti. Il corpo ippocratico richiede costanti atti
di purificazione attraverso salasso, farmaci emetici,
sternutatori e clisteri, bagno caldo e freddo. L’utero errante
nel corpo delle donne guarisce se tenuto in sede da fumi e
vapori simili a quelli che fanno vaticinare la Pizia (Pagano,
2001). Le tardive Vite di Ippocrate dipingono il medico in atto
di vincere la peste di Atene attraverso accensione di fuochi
destinati a purificare l’aria, non dissimili da quelli che
bruciano nella Tebe di Edipo, nel tentativo di contrastare
l’epidemia mortale.

L’idea, dunque, che la malattia derivi da processi di


corruzione e disfacimento degli umori nel corpo, contrastabili
per “via di purificazione” medica, è in qualche modo debitrice
del concetto arcaico di miasma come causa prima
contaminante; quello che è, invece, totalmente assente nella
medicina greca e in quella dei secoli successivi è l’idea – tipica
del miasma sacro – della sua potenziale comunicabilità da un
individuo a un altro o da un individuo alla comunità. Il
concetto di trasmissibilità del miasma è interamente rigettato
dagli autori ippocratici, in quanto immediatamente in grado
di richiamare l’idea sacra di malattia che la scuola ippocratica
intende distruggere: il contagio, che presuppone l’idea di una
misteriosa corrispondenza tra fenomeni fisici e mondo
sovrannaturale, non ha un posto in un universo medico in cui
tutto deve essere spiegabile sulla base della possibilità della
sua verifica sensoriale (Grmek, 1984). Una malattia che
colpisce più persone nello stesso tempo e nello stesso luogo,
dunque, è solo un’epidemia: un epì démou, un elemento fisico
che “è sopra il popolo”, una modificazione qualitativa
immessa dal minimo comune denominatore di tutti i viventi,
l’aria che si respira:
l’aria è per i mortali causa della vita, per i malati causa delle malattie
[…] i problemi della salute non possono venire da un’altra causa, che
l’aria sia troppa, o troppo poca, o troppo densa, o che sia già portatrice
di miasmi nel momento in cui entra nel corpo […] l’aria è il principio
che propaga la malattia (De flatibus 4-6).

Jouanna (2000) ha sottolineato come il cambiamento


concettuale espresso dal trattato ippocratico sui venti,
parallelo all’indicazione concettuale contenuta nello scritto
Sulla natura dell’uomo, opera di Polibo, genero di Ippocrate
(l’aria introduce nel corpo un principio corruttivo ma non
trasmissibile), si esprima proprio nella scelta di utilizzare il
termine “miasma” nella sua forma plurale, non – quindi – un
principio astratto, ma i mutamenti concreti e percepibili di un
elemento della physis: le arie di cui tutti gli uomini fanno
esperienza con i sensi e attraverso il respiro. Se derivano da
corpi in putrefazione, o da acque palustri in cui macerano
vegetali e animali, veicolano miasma; se esse, viceversa, sono
sane, portatrici di qualità equilibrate, il corpo in cui si
immettono non varierà il suo stato e conserverà la
proporzione dei suoi componenti. Questa è la posizione
“ambientalista” e pienamente qualitativa propugnata dal
trattato di geografia medica Sulle arie, acque e luoghi, che
fornirà il paradigma dominante di interpretazione delle
malattie epidemiche per tutto l’arco della medicina antica.

A questo paradigma nessun autore medico si sottrae, né fa


eccezione Galeno, che in alcuni passi della sua opera allude a
“semi di contagio” che si conserverebbero nei corpi in attesa
di una riattivazione della malattia causata da difetti nella
dieta e nel regime (cfr. Nutton, 1983). Attraverso la metafora
dei semi egli allude solo alla predisposizione a contrarre
malattia da parte dei corpi affetti da pletora umorale e
rimane, nella complessità della sua opera, un autore
saldamente fedele all’insegnamento ippocratico e, dunque,
non interessato all’idea di una trasmissibilità interspecie o
interumana delle malattie e totalmente alieno, come ogni
altro medico fino a Girolamo Fracastoro (ca. 1476-1553), dal
pensare che possano esistere “semi viventi” di malattia in
grado di riprodursi e di trasmettersi tra viventi. La velocità di
propagazione di alcune malattie epidemiche, come il vaiolo,
non può avere altra spiegazione se non la comune
disponibilità di aria viziata; e la stessa “tisi”, che sembra
trasmettere consunzione da un corpo all’altro, è veicolata solo
dal respiro fetido degli ammalati, che reimmette all’esterno la
corruzione interna prodotta dalla malattia.

Spiegazione analoga è offerta da Galeno per l’ergotismo o


per malattie a rapida diffusione causate dall’ingestione di
acqua corrotta (In Hippocratis De natura hominis Commentarii II,
3-4). La soluzione medica agli attacchi delle epidemie è, di
conseguenza, quella suggerita come sistema di preservazione
della salute già da Celso, cioè il cambiamento frequente di
«luogo e cielo»; spostarsi dove l’aria sia sana, non viziata da
difetti qualitativi, soprattutto veicolati dalle arie calde che
vengono da sud e da est, è infatti garanzia di mantenimento
di un buon livello di salute. È probabilmente nel tentativo di
“cambiare aria” e preservare sé stesso dagli effetti della peste
antonina, introdotta nei confini dell’impero intorno al 160 d.C.
dai reduci di una campagna militare contro i Parti e
protrattasi con furia su tutti i territori almeno sino al 180, che
Galeno si allontana da Roma nel 166.
La peste di Atene
La più celebre descrizione non medica di una malattia
pestilenziale nell’antichità è quella offerta da Tucidide nel
secondo libro della sua opera, che racconta le vicende relative
alla guerra del Peloponneso e dell’assedio della città di Atene
del 430 a.C. Il sovraffollamento della città, politicamente
voluto da Pericle, diventa esasperato nella zona ricompresa
all’interno delle mura, in cui si fa strada, rapida e inesorabile,
una malattia straordinaria (Thucydides II, 47-52).

La narrazione di Tucidide è incalzante e drammatica: le


truppe di Archidamo, devastata l’Attica, sono accampate nel
momento in cui in Atene esplode un morbo mai attestato
prima con tanta violenza. Tucidide riferisce una sua origine
dall’Etiopia, una diffusione attraverso l’Egitto, l’ingresso in
Atene dal basso, dal porto del Pireo, le voci circolanti sul
possibile avvelenamento dei pozzi e delle cisterne, la
straordinaria rapidità della diffusione del contagio. I medici
non solo sono impotenti, ma tra le vittime più frequenti per la
loro vicinanza ai malati; ogni cura, umana o divina, appare
inutile. I sintomi della malattia sono elencati in una
successione drammatica, a tratti confusa, che ha consentito
lo strutturarsi di un duraturo dibattito storico-medico sulla
possibilità di formulazione di una diagnosi retrospettiva:
arsura, emissioni di sangue da laringe e lingua, respiro fetido,
tosse e raucedine, nausea ed evacuazioni improvvise, pustole
e ulcerazioni, smisurato desiderio di bere e di rinfrescare il
bruciore interno immergendosi in acqua fredda, ulcerazione
dell’intestino, necrosi degli arti e delle appendici del corpo
hanno fatto pensare generazioni di medici appassionati di
storia, alternativamente, a vaiolo, morbillo, tularemia,
ergotismo, influenza e a molte altre malattie a eziologia
batterica o virale, addirittura a una forma patologica
scomparsa nei secoli successivi.

Malgrado i rischi della diagnosi retrospettiva, sempre in


agguato – particolarmente in un testo, come quello di
Tucidide, che dichiara apertamente di non essere interessato
alla discussione delle cause –, oggi morbillo e vaiolo paiono
essere le ipotesi interpretative più accreditate. Qualunque
interpretazione eziopatologica si voglia accogliere, la
narrazione di Tucidide contiene alcuni tratti che vanno
sottolineati.

Da un lato, essi richiamano per la precisione del linguaggio


e l’esattezza della descrizione sintomatologica la medicina
ippocratica coeva, delle cui tesi Tucidide pare possedere una
conoscenza approfondita: lo storico menziona la
“costituzione” dell’anno, un concetto pienamente ippocratico
in cui si registrano le malattie che con maggior frequenza o
violenza hanno infierito in un certo momento storico,
sottolineando l’apparente salubrità del momento di
insorgenza della pestilenza; registra il picco di mortalità tra il
settimo e il nono giorno di malattia, fasi coincidenti con il
concetto di crisi ippocratico, cioè di trasformazione della
malattia (tanto verso la guarigione quanto verso la morte);
evidenzia la mortalità animale come una stranezza, in cui
l’ingerire parti di cadaveri pare essere uno dei comportamenti
che causano l’insorgenza di un male che, invece, come tutti
quelli epidemici, dovrebbe essere connesso solo alla natura
comune dell’aria miasmatica (Demont, 1983).

Dall’altro lato, la narrazione tucididea si distacca


profondamente dall’idea eziologica ippocratica che spiega la
malattia epidemica come prodotto dell’aria ispirata e non
dell’alterazione del regime, che è responsabile delle malattie
individuali (De natura hominis 9, 3-5): nel riconoscimento,
esplicito, della contagiosità del morbo, che colpisce i medici in
quanto «con maggiore facilità si trovavano a contatto con gli
ammalati» e che si trasmette con particolare vigore nel caso
di chi, per mostrarsi nobile d’animo, «si reca in visita dagli
amici, disprezzando il pericolo, quando perfino i familiari
trascuravano la pratica del lamento funebre sui loro
congiunti, abbattuti e vinti sotto l’infuriare della calamità»;
nell’ammissione della straordinarietà dell’azione pestilenziale
(«il carattere della malattia trascende ogni possibilità
descrittiva […] una malattia diversa dalle altre consuete […]
tutti gli uccelli e i quadrupedi che si cibano di cadaveri umani
questa volta non si accostavano, oppure morivano dopo
averne mangiato»); nell’individuazione dell’acquisizione
dell’immunità dopo aver contratto la malattia ed esserne
usciti, perché «il male non aggrediva mai due volte; o almeno
la ricaduta non era letale» (Historiae II, 47-53).

L’insistenza rigida dello storico sulla registrazione di fatti


che attestano la diffusione per contagio del morbo,
apparentemente in contrasto con teorie mediche accreditate
e certamente note a Tucidide, in realtà serve a sottolineare,
come ha dimostrato Demont (1983), proprio l’eccezionalità
dell’evento morboso: una malattia che, pur essendo
inquadrabile secondo alcune categorie interpretative proprie
della medicina razionale (per esempio, viene da paesi caldi, in
cui impera la secchezza che è tra le cause dell’alterazione
dello stato dei corpi), sfugge del tutto alla classificazione
ippocratica di malattia “comune”, cioè imputabile all’aria che
tutti gli esseri viventi condividono. Proprio l’eccezionalità del
paradigma nosologico consente una descrizione sintomatica
tanto incalzante e ricca di pathos: la malattia è in Tucidide uno
strumento privilegiato che, illustrando la distruzione dei corpi
fisici a cui nessun farmaco può porre rimedio, consente di
mettere in luce i rischi indotti dalla distruzione del corpo
sociale e dalla perdita di coesione politica e di evidenziare la
contagiosità del male morale in cui si spezzano tutti i legami
di solidarietà civile.

La medicina, come accade del resto in Platone che la elegge


a modello paradigmatico del sapere su cui è possibile
immaginare la costruzione dello Stato ideale ed equilibrato,
offre nella descrizione degli effetti devastanti della peste di
Atene un doppio modello di riflessione. Da un lato, un
precedente nosologico e sintomatologico unico: la peste
antonina, forse un’epidemia di vaiolo che colpisce con grande
violenza popolazioni già defedate dalla carestia e
contribuisce, con ogni probabilità, a determinare l’enorme
crisi sociale del III secolo d.C., è paragonabile solo alla
narrazione tucididea (Gourevitch, 2013). Dall’altro, Tucidide
offre un modello impareggiabile di riflessione analogico, in
cui i mali del corpo simboleggiano la crisi delle istituzioni e
dell’anima greca. A entrambi gli aspetti la letteratura antica,
scientifica e non, continuerà a lungo a fare riferimento.

Il concetto di contagio nelle fonti non mediche antiche


Tucidide non è il solo autore antico ad avere ben chiaro, su
base osservativa, il concetto della possibilità da parte di
alcune malattie di trasmettersi con modalità differenti dalla
propagazione e inalazione di aria guasta e corrotta. Grmek
(1984) ha sottolineato come una vasta serie di fonti – da
testimonianze storiche a enciclopediche, dalla filosofia alla
retorica, dalla veterinaria all’agronomia – ricorra per tutta la
durata dell’antichità all’idea della trasmissibilità patologica
sia dalle specie animali all’uomo, sia da uomo a uomo; e
come, tanto più nella consultazione delle fonti ci si allontani
da autori con una salda formazione sui testi classici e
autoritativi della medicina, tanto maggiormente sia libera
l’espressione della percezione del concetto di trasmissibilità
delle malattie. In questa prospettiva, l’indicazione dei
Problemata pseudoaristotelici della trasmissibilità di alcune
malattie dermatologiche e oftalmiche, della contagiosità
dell’indebolimento generalizzato del corpo che le fonti
antiche indicano sotto il nome di “tisi” e della comunicabilità
delle malattie pestilenziali è da leggersi come espressione di
una cultura non dotta e, dunque, libera dai vincoli imposti
dall’adesione medica all’ippocratismo.
Allo stesso modo vanno lette le parole di Marco Aurelio,
l’imperatore che chiama Galeno a Roma e che, nel momento
della sua morte, allontana il figlio dal capezzale temendo di
trasmettergli per contagio il suo stesso male (Historia Augusta
IV, 28); o Seneca, che a più riprese utilizza l’immagine del
morbo che, nella stalla, passa dal bestiame ammalato al sano,
per ammonire dei rischi che derivano dalla frequentazione
eccessivamente stretta di persone con una connotazione
morale negativa (De tranquillitate animi 7, 2). Anche la
letteratura patristica ricorre a più riprese alle metafore della
trasmissibilità del peccato e della corruzione dell’anima, che
agiscono in base agli stessi meccanismi di trasmissione
interumana che determinano le malattie del corpo.

Alla medesima libertà concettuale, che non deve pagare un


ossequio alle teorie mediche ippocratiche come espresse
nell’opera Sui venti, nel libro Sulle arie, acque e luoghi e in quello
Sulla natura dell’uomo, va ascritta la posizione latina comune a
Marco Terenzio Varrone (116-27 a.C.), poligrafo autore di un
trattato di agronomia; a Lucio Giunio Moderato Columella (I
sec. d.C.), autore di un trattato di tecnica e di economia
agricola; a Flavio Vegezio Renato (IV-V sec. d.C.), a cui è
attribuito un trattato di veterinaria in quattro libri,
rimaneggiamento della più antica Mulomedicina Chironis; e a
Marco Vitruvio Pollione (80-15 a.C.), autore di un trattato di
architettura in dieci libri. Tutti questi autori, se pure con
sfumature diverse, accolgono l’idea che alcune malattie
possano essere imputabili a piccoli esseri, invisibili a occhio
nudo, in grado di penetrare nei corpi per tramite dell’aria
inalata e di causarne l’alterazione (Varro, De re rustica I, 12, 2);
che alcuni di questi esseri siano legati alle zone palustri e alle
acque ferme (Vitruvius, De architectura I, 4, 1); che alcune
malattie siano trasmissibili per vicinanza di bestie infette alle
sane (Columella, De re rustica I, 12, 2 e 3; Vegetius,
Mulomedicina Chironis I, 1-3); che gli aculei delle zanzare siano
portatori di malattia (Vitruvius, De architectura I, 5, 6). Certo, la
maggior parte di queste fonti si riferisce in modo
immediatamente percepibile alla malaria – che non conosce
una trasmissione epidemica vera e propria, ma il cui agente
eziologico, il plasmodio, ha bisogno di un vettore – e solo
parzialmente esse sembrano far riferimento a vere malattie
infettive, cioè causate da microrganismi patogeni in grado di
interagire direttamente con il corpo degli uomini o degli
animali. Tuttavia, il ricorso a un modello di spiegazione
patogena assolutamente lontano da quello aereo sostenuto
dagli scritti ippocratici è, in tutti questi passi, molto evidente.

Sono solo i medici – e lo saranno a lungo, come ancora la


storia medievale delle malattie epidemiche dimostra – a
ricorrere al paradigma ippocratico contro ogni evidenza
osservativa: ammettere che le malattie si trasmettano
equivarrebbe a riaccogliere nel nucleo teorico della medicina
il concetto ontologico di malattia e, con esso, l’idea che una
realtà esterna al corpo (spirito, demone, freccia di Apollo,
animale che sia) possa penetrarvi su comando di entità
superiori di cui la mente dell’uomo non riesce a rendere
conto.
6

Essere medico

Medici nell’antichità greca e romana


Definire in breve gli aspetti salienti della professione
medica tra Grecia e Roma è impresa assai difficile, sia per il
lungo arco di tempo coinvolto, sia per le differenze
significative che caratterizzano la pratica della medicina e il
suo mercato in contesti sociali molto diversi, sia infine per la
grandissima varietà che distingue le pratiche della medicina
antica capace di assumere, anche contemporaneamente, gli
aspetti della cura religiosa, magica e razionale. In quello che
Nutton (1992) ha definito medical market place antico si
muovono medici formati in contesti scolastici riconosciuti
(come le scuole di Kos e di Cnido), itineranti per ragioni di
lavoro o di studio e curiosità intellettuale, medici pubblici e
medici di corte, archiatri e medici militari, ma anche mágoi,
preparatori e venditori di farmaci, donne esperte nella cura
dei disagi femminili e dell’assistenza al parto; nell’impero
romano, accanto ai medici di condizione sociale libera, come
nella tradizione greca, un’ampia fetta del mercato della salute
è nelle mani di schiavi e liberti esperti del trattamento delle
ferite. Insieme a questi, convivono medici di alto livello
sociale, formati alla filosofia, spesso molto vicini ai circoli di
potere o alla famiglia imperiale, come accade nel caso di
Galeno di Pergamo.

A questa estrema variabilità di status sociale e culturale, che


si accentua se vogliamo confrontare la realtà greca e quella
romana (e, all’interno dei territori dell’impero, se vogliamo
operare un paragone fra territori occidentali e province
orientali, in cui la medicina è esercitata a lungo perlopiù da
uomini di condizione sociale libera), si deve aggiungere anche
il fatto che le fonti a nostra disposizione sono assai
disomogenee tra loro per tipologia e datazione; talvolta, come
accade per i testi epigrafici, si presenta la necessità di
collocare le indicazioni che provengono da materiali tanto
sintetici in un contesto sociale più ampio e che può non
essere sufficientemente documentato. Insomma, la sintesi di
tanta variabilità apparirà, necessariamente, parziale.

I testi omerici presentano la prima documentazione di


un’attività medica nell’opera di Podalirio, Macaone e altri
semidei o eroi, in qualche modo esperti nella cura delle ferite
di guerra. Queste figure condividono la conoscenza di erbe
medicamentose trasmessa direttamente da Apollo o da
Chirone – il figlio di Centauro –, mitico maestro di Asclepio e,
tra gli eroi, di Achille e Patroclo.

Le professionalità “mediche” cui accennano i testi omerici


hanno caratteristiche diverse: molti guerrieri sono capaci di
cura nell’Iliade e sembrano più qualificati, nel trattamento
delle ferite, di altri; tuttavia, essi non sono detentori di un
sapere tecnico, né viene a loro riconosciuto socialmente un
ruolo o attribuito un compenso. Essi sembrano appartenere a
un’élite in possesso di un sapere destinato a essere condiviso
da pochi (Ilias XI, 514-515). Nell’Odissea, invece, i medici,
assimilati ai carpentieri e ai musici, appartengono a un ceto
sociale medio che pratica la sua arte su chiamata: è andata,
cioè, persa l’appartenenza a un gruppo di elezione, che
esercita la cura come manifestazione dell’appartenenza a una
genealogia divina o eroica, in favore di una riduzione di status
che rende la medicina una techne paragonabile ad altre
competenze pratiche.

La prima testimonianza storica estesa sulla vita e sul lavoro


di un medico del VI secolo a.C. arriva da Erodoto, che descrive
la vita di Democede (Historiae III, 129, 1; 131, 1-3). Figlio di un
sacerdote di Asclepio, nato a Crotone, Democede se ne
allontana presto, chiamato dall’assemblea degli Egineti nel
ruolo di medico pubblico per il compenso di un talento, e poi
ad Atene, per cento mine. Policrate, tiranno di Samo, lo
avrebbe convocato al suo servizio offrendo un compenso più
alto, motivato dalla fama che avevano i medici crotoniati e da
quella, crescente, che il medico si era personalmente
guadagnato negli anni di servizio pubblico. Democede sarebbe
stato, dunque, tanto medico pubblico quanto di corte; avrebbe
seguito Policrate in guerra e sarebbe stato fatto con lui
prigioniero dal satrapo Oroite (Historiae III, 125, 2-3); avrebbe
curato la regina Atossa, moglie di Dario, per un’escrescenza al
seno (III, 133) ottenendo, al termine della carriera, di poter
rientrare in patria e contrarre matrimonio con la figlia del
celebre atleta Milone. Nel più antico medico pubblico di cui
sopravviva testimonianza si assommano, dunque, molte delle
caratteristiche che è possibile attribuire alla figura del medico
greco: in viaggio da una città all’altra, secondo quanto
previsto già nel trattato ippocratico Sulle arie, acque e luoghi,
opera di geografia medica destinata a professionisti itineranti
che debbono giudicare in anticipo le condizioni ambientali,
climatiche e sociopolitiche nelle quali si trovano a esercitare;
stabile, poi, per lunghi periodi in città che lo assumono
versando un onorario pubblico; medico di corte, con i rischi e i
benefici sociali ed economici che conseguono al servizio dei
potenti.

Egli fornisce, insomma, un buon esempio di come risulti


difficile categorizzare l’esercizio della professione medica
anche nella prima antichità greca. Non esistono luoghi
istituzionali in cui apprendere i segreti della professione, né
un controllo sociale, interno alla categoria medica o esterno,
sul suo corretto esercizio; non esistono limiti di ruolo, né un
onorario fissato, e nemmeno siamo in grado di dire con
esattezza quali compiti siano attribuiti al medico invitato a
esercitare dalle città. Di certo sappiamo solo che i chiamati in
quel ruolo avevano obbligo di residenza nelle città e che tra i
molti significati che è possibile attribuire al Giuramento di
Ippocrate, uno è certamente quello di un codice steso al fine
di organizzare internamente un gruppo che non disponeva di
regole esterne e leggi che ne regolamentassero l’agire (Nutton,
1992).
Nella Grecia di V e IV secolo, i medici sono dunque figure i
cui contorni è possibile tracciare piuttosto genericamente:
certamente viaggiatori più che stanziali, probabilmente
maggiori in numero nelle città che non nelle campagne, dove
l’esercizio della medicina convive molto a lungo con pratiche
magiche e di guarigione popolare, competenze erboristiche,
pratiche di “automedicazione” che dovevano essere piuttosto
diffuse per tutto l’arco dell’antichità, soprattutto in contesti
marginali. La figura del medico di corte, o archiatra, attestata
con maggiore frequenza dall’epoca ellenistica e poi
nell’impero, non è documentabile se non attraverso rapide
citazioni e testi frammentari, che non consentono di
attribuire in modo definitivo compiti peculiari a quel ruolo.

Il contatto tra la civiltà greca e quella romana, che si compie


a partire dal III secolo a.C., modifica solo parzialmente questo
quadro, in cui i medici continuano a lungo a essere di origine
greca, a parlare in greco e a scrivere in greco. La percentuale
molto alta di stranieri tra coloro che esercitano la medicina a
Roma e nei territori italiani è attestata sia dai feroci attacchi
che il conservatorismo romano (personificato da Catone)
conduce contro la scienza di importazione – accusata di
essere violenta e di voler sterminare attraverso pratiche
cruente l’intero popolo romano –, sia dalla concessione della
cittadinanza romana agli stranieri che esercitano la medicina
da parte di Giulio Cesare nel 45 a.C., rinnovata da Augusto.

La crescita dell’impero, legata a crescenti fasi di


ellenizzazione, porta con sé il miglioramento dell’immagine
del medico, spesso legato, a Roma, direttamente alle vicende
biografiche di uno o più imperatori, come accade per Antonio
Musa, al servizio di Augusto, per Caio Stertinio Senofonte, al
servizio di Claudio e Nerone, e poi per lo stesso Galeno. Il
favore imperiale – attestato dai ripetuti doni offerti da
Augusto a Musa (ivi compreso un anello aureo a
testimonianza della condizione di uomo libero), dalle
ricchezze enormi con cui Stertinio rientra nella nativa Kos e
dall’immunità professionale concessagli o dalle agevolazioni
anche scientifiche di cui gode Galeno sotto i regni di Marco
Aurelio e di Commodo – consente a questi medici privilegiati
una vita piuttosto stanziale, condizione non certamente
condivisa dai curanti che vivono in zone periferiche e nelle
province, soprattutto orientali, dove è documentata a lungo la
sopravvivenza dell’esercizio professionale itinerante.

Il medico itinerante tra arie, acque e luoghi


Il libro ippocratico Sulle arie, acque e luoghi è un lavoro
databile alla seconda metà del V secolo a.C. Oggi si tende ad
attribuirlo allo stesso autore cui si ascrive il trattato Sulla
malattia sacra, l’opera nella quale si rigetta l’origine divina
dell’epilessia, ponendo di fatto le basi per la nascita della
medicina razionale, che esclude gli dei dalla responsabilità di
causare la malattia. Entrambi i trattati sembrano essere stati
scritti a Kos, in un ambito molto vicino a quello dell’Ippocrate
reale, del cui pensiero fisiologico risentono fortemente. Il
trattato, che è il primo testo di geografia medica conosciuto,
ha come obiettivo quello della formazione del medico che,
spostandosi di territorio in territorio per motivi professionali,
si trovi a fronteggiare condizioni climatiche, culturali e sociali
diverse; tutti questi elementi sono, infatti, in grado di
condizionare lo stato di equilibrio che caratterizza il corpo in
salute, inducendone la rottura che è la malattia.

La grandissima fortuna che il testo ha incontrato in varie


epoche della medicina, fino al tardo evo moderno, è
attribuibile a molti elementi insieme: innanzitutto, è un
manuale medico, etnografico e ambientale nello stesso
tempo, di un elevato livello di complessità intellettuale che lo
rende non testo per principianti, ma strumento destinato a
raffinare nella competenza chi, già professionista formato, si
avvii alla vita di “clinico” e al contatto ripetuto con molti
pazienti diversi. Il modello di riferimento è, evidentemente,
Ippocrate o il suo vicinissimo seguace, autore delle Epidemie,
medico itinerante occupato a descrivere le “costituzioni” (cioè
le condizioni climatiche e ambientali di un dato anno in un
certo contesto geografico) tipiche delle città di Taso, Eno e
Perinto, dove arriva non da solo, ma accompagnato da un
gruppo di colleghi. Per allievi destinati a muoversi
rapidamente sul territorio greco, l’autore ippocratico pensa a
un manuale di approfondimento che fornisca dati tecnici su
clima, qualità e calore dell’aria, grado di durezza e purezza
delle acque, orientamento delle città rispetto al mare, ai
monti, ai venti prevalenti, omogeneità delle condizioni
ambientali, escursioni termiche. Questi dati costituiscono il
corredo preliminare che consente a un medico non stanziale
di rapportarsi con ambienti diversi, valutando le variabili
esterne che possono indurre malattia; esse includono, in una
complessità crescente, anche le istituzioni sociali e politiche,
in grado di plasmare gli uomini al pari degli elementi naturali.
La medicina è, insomma, necessariamente anche una
competenza etnografica e politica (Bottin, 1986).

Il trattato Sulle arie è, dunque, un testo a più livelli di lettura,


che si muove sul piano dell’individuazione causale complessa
di malattia: qualcosa accade per modificate condizioni
ambientali, qualcosa per disposizione dei corpi, che
reagiscono differentemente in base alla costituzione che è
peculiare a ognuno. Ambiente e corpo dell’uomo sono in un
rapporto di costante e fluida reciprocità: questo si fa
particolarmente importante perché il medico ippocratico si
muove costantemente su un territorio che, per quanto
geograficamente limitato, presenta condizioni ambientali
molto diverse tra loro. La dimostrazione pubblica di
competenza, che passa attraverso la capacità di formulare
prognosi corrette, ha molto bisogno del corretto
inquadramento delle condizioni generali che favoriscono
l’insorgere della condizione patologica. Per il medico
viaggiatore la previsione esatta e spesso spettacolarizzata
dell’andamento di malattia significa successo professionale e
incremento di pazienti che si rivolgeranno a lui, pur senza
avere conoscenza pregressa delle sue capacità perché egli può
arrivare da molto lontano.

L’insegnamento ippocratico, pensato per il territorio greco –


dove coesistono, su brevi distanze, montagne aspre e isole
assolate – continua a costituire un riferimento significativo
nel mondo romano, dove l’ampliamento dei confini geografici
del mondo e il contatto con popolazioni molto diverse
giustificano il persistente riferimento al determinismo
imposto dal ricorso alla geografia medica ippocratica. I decreti
onorifici attribuiti dalle città a medici benefattori
testimoniano, al pari degli epitaffi, l’estrema e perdurante
mobilità della classe medica ancora in pieno impero: Évelyne
Samama (2003) ricorda come paradigmatico il caso di uno
sconosciuto medico di Nicea che, nel II secolo d.C., avendo
percorso molte terre e molti mari, trova definitivo riposo in
terra di Tessaglia.

Essere chiamato dalle città


Le città greche, dal mondo classico fino all’epoca ellenistica,
una volta raggiunto un livello di complessità sociale tale da
necessitare dell’assistenza continuativa di un medico di
esperienza, possono chiedere per il tramite dell’assemblea a
un professionista di rendere pubblico servizio. Così, a Sparta,
Damiade viene invitato dalla popolazione a rimanere nella
città per un biennio; in altri contesti, spazialmente più vicini
a grandi scuole mediche come quella di Kos, si può scegliere
con maggior libertà un medico che rivesta le caratteristiche
necessarie, come accade a Gortina, in cui il prescelto Ermia
otterrà anche una stele pubblica per ringraziamento del
servizio fornito (Inscriptiones Creticae IV, 168). Nel ruolo di
medico pubblico potrebbe essere annoverato anche uno dei
figli di Ippocrate, Tessalo, che, a far fede al tardo Discorso
d’ambasciata, sarebbe stato arruolato per seguire
professionalmente la spedizione militare in Sicilia. In assenza
di candidature, le città in particolari condizioni di necessità
possono inviare ambascerie a richiedere la disponibilità di un
dato professionista, come accade per Damiade di Sparta,
sollecitato per iscritto dall’assemblea di Gytheion a
presentare la propria candidatura.

Alcune caratteristiche sembrano necessarie per essere


chiamato di fronte all’assemblea cittadina a dimostrare le
proprie qualità: in primo luogo una buona fama, acquisita in
anni di esperienza, o la garanzia di provenienza che può
offrire una scuola di appartenenza di nobili natali, come
quella di Kos; uno stato di salute solido e un buon aspetto
fisico, che sono testimoni indiretti dell’abilità professionale di
chi, prima di tutto, deve sapere prendersi cura di sé stesso;
una spiccata capacità oratoria, con cui convincere l’assemblea
dei propri meriti e, una volta assunto, i pazienti riottosi ad
adattarsi alle richieste, spesso faticose da tollerare, della
medicina ippocratica e i colleghi riuniti a consulto della
correttezza della propria prognosi. Jacques Jouanna (1992) ha
sottolineato come molti dei trattati raccolti in epoca
alessandrina sotto il nome di Ippocrate siano redatti con il
ricorso a precise tecniche di comunicazione oratoria e
sembrino, nel lessico e nei toni, essere destinati a una
recitazione o a una lettura pubblica.

I contratti pubblici, di solito di breve durata (da uno a due


anni), possono essere prolungati per fasi di tempo anche
molto lunghe, in modo da garantire una sorta di stanzialità
protratta a chi venga ritenuto particolarmente meritevole di
riconoscimento dalle istituzioni cittadine. Non disponiamo di
dati certi sulle modalità di pagamento disposte dalle città, né
possiamo quantificarle in modo uniforme; esse sembrano
dipendere in parte dalla qualifica e dalla fama del medico, in
parte dalle condizioni che ne hanno resa necessaria la
chiamata, in parte infine dai contesti specifici nei quali egli è
chiamato a operare. Spesso, infatti, l’assunzione di un medico
pubblico sembra essere legata a particolari condizioni di
criticità sociale o sanitaria, come accade nel caso di epidemie.
Il medico sembra dover utilizzare parte del suo compenso per
l’acquisto di farmaci e strumentaria e per l’affitto e la
manutenzione dello iatreion, la bottega, di solito in una zona
centrale della città, che funge da studio medico e da
dispensario. L’accettazione del misthós (onorario) non pare
essere obbligatoria, né escludere viceversa anche di poter
chiedere una quota ai singoli pazienti privati che richiedano
l’intervento del medico. I testi epigrafici e medici non ci
forniscono molte indicazioni al riguardo (a parte una blanda
raccomandazione alla parsimonia nel caso di pazienti poveri,
espressa nei Precetti ippocratici), mentre ricordano spesso, per
epoche successive, onorari e ricchezze straordinarie
(soprattutto nell’impero), come nel caso citato di Caio
Stertinio Senofonte (Plinius, Naturalis historia XXIX, 7), corredati
di munera pubblici e benefici, tra i quali l’immunità fiscale e il
titolo di benefattore della patria. Alle remunerazioni
economiche e alle cariche pubbliche i medici in Grecia
possono talvolta aggiungere il godimento di particolari diritti
civili, come la precedenza nell’assistere alle cerimonie
pubbliche e nel diritto alla consultazione di un oracolo o la
garanzia di sicurezza dei propri beni.

Alla figura del medico pubblico si aggiunge un altro profilo


professionale, quello dell’archiatra. Poco documentato nelle
fonti epigrafiche, esso sembra essere legato, per epoche più
alte, al servizio presso corti reali, come quella seleucide o
quella di Mitridate IV re del Ponto. Il titolo, in epoche più
basse, sembra indicare sia un ruolo onorifico correlato al
palazzo imperiale, anche in ambito bizantino, sia un ruolo
municipale, che l’imperatore Antonino Pio istituzionalizza
organizzandone il numero in relazione agli abitanti di
ciascuna città. Gli archiatri, secondo indicazioni
demografiche, possono variare allora da cinque a dieci
(Samama, 2003).

Il medico dei liberi, il medico degli schiavi


Le condizioni sociali dei medici antichi sono, dunque,
quanto mai variabili. Generalmente uomini liberi nel mondo
greco, in cui gli schiavi esercitano solo nel ruolo di assistenti
del medico e non sembrano poter raggiungere autonomia
professionale, i medici sul territorio dell’impero sono invece
molto spesso liberti. L’affrancamento da padroni di alto livello
sociale (spesso nella stretta cerchia imperiale o imperatori)
consente al liberto che eserciti l’arte della medicina una
crescita sociale progressiva e, talvolta, il raggiungimento di
uno status riconosciuto e significativo.

La contrapposizione tra medici che esercitano in condizioni


di schiavitù e medici di condizione libera è, in realtà, attestata
già in Platone, che utilizza la medicina come modello di
riferimento per la costruzione del suo Stato ideale (Vegetti,
1995b). Il passo del trattato sulle Leggi (IV, 720b) in cui si
contrappongono i modelli comportamentali dei due diversi
tipi di professionista, al fine di offrire una riflessione
analogica tra l’agire del medico e quello del legislatore, offre
un quadro preciso di come la cultura greca pensi l’agire del
medico dotto, di formazione ippocratica, e di come le sue
conoscenze teoriche, fondate in primis sulla possibilità di
comprendere il dia tì (perché) della malattia, siano alla base di
un sapere che è, innanzitutto, una competenza relazionale. I
medici “veri e propri” sono contrapposti qui agli inservienti,
che meritano per abitudine lo stesso titolo dei primi, ma che
sono da essi profondamente dissimili perché apprendono la
medicina solo per imitazione, avendone visto la pratica ma
non condividendo una formazione teorica tale da poter essere
insegnata e trasmessa ad altri. I medici schiavi sono destinati
a una clientela con cui condividono il basso rango sociale;
escludono dal loro agire sia il fornire informazioni sia il
riceverne da parte dei pazienti; hanno «un’esperienza
approssimativa» e, «con la saccenza di un tiranno,
prescrivono quello che passa loro per la mente, neanche
avessero una precisa competenza in materia. Così saltano da
uno schiavo a un altro, e in tal modo alleviano al loro padrone
la pratica di curare gli infermi». A questi empirici è
contrapposto il sapere del vero medico, che si configura in
termini, insieme, di didattica e “didascalia”: il medico libero
costruisce, insieme al suo paziente, una storia che gli
consente di collegare i fili cronologici dell’accadere morboso,
dal passato (anamnesi) al presente (semeiotica) fino alla
proiezione futura, che nella prognosi costituisce la reale
capacità del vero professionista. Le armi di cui dispone sono
«il corretto metodo», unito alla capacità di comunicare al
malato e ai suoi familiari impressioni e diagnosi sulla
malattia: questo gli consente di acquisire la forma impagabile
di conoscenza del male che viene direttamente dal malato –
dai sintomi che narra e dalle sue impressioni – e, nello stesso
tempo, di farsi maestro, insegnando a chi soffre qualcosa
sulla prevenzione e gestione del male. Nulla sarà prescritto
senza aver ottenuto prima un’adesione terapeutica: questo
consente di ottenere risultati migliori.

La contrapposizione utilizzata da Platone è, insomma, non


solo una testimonianza importante sull’esistenza di una
stratificazione di livello culturale e sociale all’interno
dell’esercizio della medicina già in epoca classica, ma un
modello relazionale interessante che riflette l’atteggiamento
documentato dalla maggior parte dei libri clinici e chirurgici
ippocratici. A questo modello relazionale, così fortemente
incentrato sulla bontà intrinseca della comunicazione
costante tra medico e ammalato, che fornisce informazioni
sul vissuto psicologico di malattia insieme a dati tecnici
necessari per l’interpretazione del quadro patologico, si
contrappone il modello testimoniato, in modo minoritario, da
alcuni trattati tardi e di matrice filosofica, inclusi nella
collezione ippocratica (Sull’arte; cfr. Jori, 1996). Secondo questo
modello, il divario che esiste tra la competenza tecnica del
medico e l’ignoranza del malato non è colmabile, nemmeno
attraverso uno scambio relazionale costante; è pertanto da
escludere, non solo in quanto inutile, ma anche perché
nocivo, trasmettitore di dati falsati e interpretazioni scorrette
dei sintomi. Curiosamente, la medicina occidentale dei secoli
successivi sceglierà questo modello negativo per la
costruzione di un paternalismo a carattere autoritario, in cui
il medico assume su di sé totalmente la decisionalità che
riguarda il paziente. La responsabilità di un cambiamento di
rotta tanto importante è, con ogni probabilità, da ascrivere a
una precisa scelta ideologica di Galeno di Pergamo, nelle cui
opere l’eccezionalità del sapere del medico è costantemente
contrapposta alla negatività, riottosità e insopprimibile
tendenza a mentire dei pazienti, spaventati dalla durezza
delle terapie e dal timore della sofferenza.

Maiai o medicae?
Miti, iscrizioni funerarie, testi medici e passi letterari greci e
latini testimoniano dell’esistenza di donne che assistono al
parto e sono in grado di risolvere alcune patologie femminili.
L’analisi e la comparazione di fonti tanto diverse per
datazione e caratteristiche consentono di tratteggiare un
quadro quanto mai variegato di una competenza femminile,
trasmessa all’interno di ristretti circuiti familiari, che rimane
oscillante, tanto nel mondo greco quanto in quello romano,
tra le contraddittorie dimensioni della guarigione magica e
rituale, del sapere popolare e della conoscenza empirica di
piante e rimedi naturali cui si attribuisce un potere
terapeutico.

I testi omerici narrano di Agamede, figlia di Augias, mitica


corrispondente della dea lunare Elea, il cui secondo nome,
Molio, richiama un’erba magica, dotata di una radice nera e di
fiori color latte, utilizzata per antagonizzare l’influenza
negativa delle fasi lunari e per difendersi dagli incantesimi; o
di Elena, che ha appreso in Egitto il modo di preparare il
nepente, la droga che elimina i dolori del corpo e le pene
dell’anima (Ilias XI, 739-745; Odyssea IV, 220-232). Apollodoro e
Ovidio richiamano la storia di Procri, che usa i decotti di Circe
contro le magiche arti di sua sorella Pasifae (Apollodorus II, 4,
7; Ovidius, Metamorphoses VII, 771); la conoscenza di Medea,
che attraverso un distillato di croco caucasico e gocce di
soporifero ginepro consente a Giasone il furto del vello d’oro,
cura insieme i dolori del corpo e dell’anima degli Argonauti e
uccide la giovane moglie di Giasone offrendole in dono una
tunica imbevuta di una sostanza in grado di corrodere, come
il fuoco, la carne e le ossa – riassumendo così la duplicità
semantica che è interna alla vox media “phármakon”.

Accanto a queste testimonianze letterarie, la possibile


identificazione di fonti storiche ed epigrafiche che
documentino l’esistenza di una qualche forma di “educazione
medica” femminile ci sposta verso problematiche più
complesse. Un testo che può introdurre alla discussione della
poca evidenza esistente nel mondo greco e romano è la storia
di Agnodice, nelle Favole di Igino, mitografo spagnolo del I

secolo d.C. (Fabulae CCLCCIV). Sebbene il testo di Igino si


proponga come una finzione letteraria, esso è stato infatti
indicato, al di là della sua datazione tarda e di alcune
importanti inaccuratezze, come il tentativo di individuare
l’origine di una supposta ufficializzazione ateniese
dell’esercizio medico femminile. Igino non esita a definire
Agnodice una obstetrix, termine che in latino si riferisce in
genere a donne che assumono la cura durante la gravidanza e
il parto, con compiti simili a quelli stabiliti nel Teeteto
platonico (148 e-151): diagnosticare la gravidanza, provocare
un aborto, assistere al parto con il taglio del cordone
ombelicale, curare i dolori «con incantamenti».

Questa competenza non comporta apprendimento sui testi


o per mezzo di maestri, ma è solo un sapere non tecnico,
acquisito in contesti di trasmissione familiare, favorito dal
pudore che impedisce alle donne il ricorso a un medico
ippocratico (De morbis mulierum I, 62). Ciononostante, è
possibile che il ripetuto contatto delle ostetriche con i medici
abbia portato a un processo di lenta riqualificazione
professionale, favorito da letture pubbliche informali
(Demand, 1995); alcuni autori non escludono nemmeno che
tra gli allievi di medicina potessero essere incluse le figlie del
maestro. Una crescita di status sociale sembra, in effetti,
essere testimoniata da parte dell’epigrafia, in cui il titolo
greco di iatrós o quello latino di medica si accompagnano a
quello di maia e di obstetrix, quasi a segnalare due diversi
gradi di competenza. Questo, tuttavia, non comporta l’accesso
a scuole mediche (peraltro, come si è detto, prive in genere di
qualsiasi riconoscimento formale nel mondo antico). Il primo
testo che documenta un tentativo organizzato di istruire una
formazione “al femminile” è il trattato Sulle malattie delle donne
di Sorano di Efeso, la cui prefazione dichiara espressamente
l’intenzione di scrivere un’opera che sia destinata
principalmente alla formazione di un’audience femminile. È
possibile, insomma, immaginare per il mondo antico quello
che Monica Green (2000 e 2008) ha dimostrato per il medioevo
occidentale, cioè un esercizio “paramedico” femminile,
protetto dal nome di un padre o di un marito medico, non
dissimilmente da quanto accade, fino in evo moderno, per
competenze artigianali, come l’oreficeria o la lavorazione di
stoffe e pelli.

Questo sapere empirico aveva certamente forti commistioni


con la dimensione del magico e del sapere popolare. Galeno e
Plinio citano i nomi di donne esperte nella miscela di erbe
medicamentose e nella preparazione di efficaci rimedi per
trattare la rabbia, le febbri ricorrenti, alcune affezioni
ginecologiche, le bruciature e le piccole lesioni. Queste figure
evanescenti appartengono a un territorio liminare, in cui si
mescoleranno per tanto tempo, in una storia di lunghissima
durata, la tradizione della preparazione di rimedi di
automedicazione, le competenze culinarie, gli esiti degradati
del sapere dei culti misterici femminili e la gestione dei
piccoli eventi traumatici o patologici all’interno del nucleo
protetto e chiuso dell’oikos greca e della domus romana.

Il chirurgo di Rimini
Nella primavera del 1989, durante lavori di ordinaria
manutenzione urbana in piazza Ferrari a Rimini, il
rinvenimento di alcuni frammenti dipinti ha indotto alla
conduzione di scavi archeologici sistematici che, protrattisi
fino al 1997, hanno portato alla luce la dimora e il cubiculum di
un medico operante ad Ariminum nella prima metà del III
secolo d.C. La scoperta, di straordinaria ricchezza
archeologica, è resa più significativa per la storia della
medicina e della professione nell’antichità dal ritrovamento
di un ricchissimo corredo di strumentaria: circa
centocinquanta strumenti, di datazione compresa tra I e III

secolo d.C., il cui ritrovamento ha rappresentato l’opportunità


di colmare alcune lacune lasciate dallo studio dei materiali
medici di Pompei, Napoli, Ostia e Roma, spesso incompleti di
correlazione con i loro luoghi di utilizzo, vuoi per fatti storici
precisi (alcuni materiali di Ercolano e Pompei, evidentemente,
sono stati trasportati dai fuggitivi dell’eruzione vesuviana in
luoghi diversi da quelli in cui erano quotidianamente usati),
vuoi per carenze metodologiche dell’archeologia ottocentesca.

Il corredo di Rimini, conservato nelle parti metalliche che


hanno resistito all’incendio che ha distrutto la casa durante
l’incursione degli Alamanni, sotto il regno di Gallieno, intorno
al 260 d.C., testimonia in maniera esaustiva ogni aspetto della
pratica specialistica (esclusa l’ostetricia) di un chirurgo
romano, con una particolare dedizione all’ortopedia e al
trattamento delle ferite. Ciò ha fatto supporre che la
competenza di Eutichio (il nome è attestato da un graffito
inciso da un paziente sul muro dell’ambulatorio in segno di
gratitudine per le cure ricevute) fosse stata acquisita durante
un periodo di studio e lavoro presso una struttura militare,
forse collocata lungo la frontiera siro-mesopotamica
dell’impero.

Eutichio, probabilmente un liberto, non aveva origini


romane; era forse un galato, proveniente dai territori
dell’Armenia centrale, formatosi in lunghi periodi di viaggi
nelle province orientali dell’impero, come la ricca dotazione
di farmaci e materiali di non facile reperibilità e origine
esotica sembra documentare. La sua competenza
professionale doveva essere di livello molto elevato perché la
sua dimora e la sua bottega sorgono in un luogo semicentrale
della città, in un’ottima posizione, affacciate sul mare. Inoltre,
il suo strumentario pare essere stato raccolto con il fine di
rispondere al maggior numero possibile di esigenze mediche
più che a un criterio estetico (Jackson, in De Carolis, 2009); i
molti strumenti sono spesso semplici, poco decorati,
malgrado il fatto che, in quell’epoca, fosse divenuto consueto
il ricorso a bisturi, pinze e tenaglie raffinati anche dal punto
di vista dell’estetica (De Carolis, 2009). Uno strumentario
vario, destinato a essere usato frequentemente: contenitori
per farmaci di varia forma e misura; una tavola marmorea per
sostenere gli arti durante gli interventi e le amputazioni;
alcuni attrezzi descritti dalle fonti, in particolare da Celso, ma
mai prima documentati, come una sgorbia e uno scalpello
con ogni probabilità dedicati all’esecuzione di interventi di
trapanazione cranica, simili nella destinazione tecnica a
quelli utilizzati da Galeno.

Tanta ricchezza archeologica si accompagna a un dato


umano che ci trasmette, immutato attraverso i secoli, il senso
del legame saldo esistente tra il medico competente e i suoi
pazienti: sul muro del cubiculum, in accordo con un uso
tipicamente romano della tecnica del graffito murario per
esprimere stati d’animo o notizie di varia natura, una mano
anonima di ammalato ha lasciato inciso il miglior testamento
indiretto di un medico dell’antichità: Eutychius homo bono hic
habitat. Hic sunt miseri. La miseria della condizione umana,
fatta di sofferenza e malattia, è consolata, a memoria delle
generazioni a venire, da un’arte medica che è riconosciuta
come intrinsecamente buona e giusta.
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Indice dei nomi e delle opere

Aezio di Amida, 84, 105, 107


Aforismi, 57, 121
Agamede, 154
Agamennone, 35
Agnodice, 154
Alcmeone di Crotone, 14, 47-9, 72
Alessandro di Tralles, 105-7
Anassagora di Clazomene, 47-8
Anassimandro, 47
Anassimene, 47-8
Anchise, 44
Anna Perenna, 28
Anonymus Londinensis, 58
Apollo, 35, 37-42, 54, 63, 81, 135, 143, 146
Apollodoro, 154
Apollonio di Cizio, 77
Apollonio Rodio, 40
Arcagato di Lisania, 20, 81
Archimede, 71
Areteo di Cappadocia, 107, 126
Aristarco di Samo, 71
Aristotele, 47-9, 55, 58, 70-1, 73, 113, 115, 117-8, 122-3, 126-7,
132-3
Artemide, 38-40, 117
Asclepiade di Bitinia, 33-4, 78-80, 82, 89, 96
Asclepio, 27, 34, 39-46, 51-4, 61, 63-4, 80-1, 127, 146
Atena, 39
Atossa, 146
Augusto, 79, 87, 90, 147-8
Baccheio di Tanagra, 55
Berengario da Carpi, 100
Bernard, Claude, 26
Burton, Thomas, 22
Casserio, Giulio, 100
Catone maggiore, 20, 81-2, 147
Celio Aureliano, 79, 84, 107
Celso, Aulo Cornelio, 12, 30, 32, 47, 70, 72, 77, 79-80, 82-3, 126,
138, 157
Chirone, 39
Cicerone, Marco Tullio, 82
Circe, 33, 154
Collezione ippocratica (Corpus Hippocraticum), 12, 18-9, 33, 37,
43, 46, 55-6, 58, 83, 106, 109, 114, 123, 153
Columella, Lucio Giunio Moderato, 83, 92, 119, 142
Commodo, 93-4, 104, 148
Composizioni mediche (Compositiones medicamentorum), 90
Conone di Samo, 71
Coronide, 40
Crateua, 32
Criseide, 35
Ctesibio, 71
Damiade, 150
Demetra, 44
Democede, 146
Democrito di Abdera, 23, 47-8, 54
Diocle di Caristo, 101
Diodoro Siculo, 40-1, 70-1
Diogene di Apollonia, 47
Diogene Laerzio, 34, 72
Dioscoride, Pedanio di Anazarbo, 32, 87-90, 101, 103, 107
Discorsi sacri (Ieroi Logoi), 27, 45
Dracone, 54
Edipo re (Oedipus tyrannus), 36-7, 134, 137
Efesto, 129
Elementi (Elementa), 71
Elena di Troia, 154
Elephantis, 33
Elio Aristide, Publio, 27, 39, 45-6
Empedocle di Agrigento, 47-8, 50, 59, 122
Enea, 44
Epidemie (Epidemiarum libri), 26, 30, 32, 55-7, 66, 149
Epistole (Epistulae Hippocratis), 23, 53
Era, 39, 129
Eracle, 57, 121
Eraclide di Taranto, 76-8
Eraclito di Efeso, 47-8
Erasistrato di Ceo, 20, 22, 33, 69-70, 72-5, 77, 93, 101, 109
Eratostene di Cirene, 71
Ermia, 150
Erodoto, 32, 50, 132, 146
Erofilo di Calcedonia, 20, 22, 33, 55, 69, 72-8, 86, 91, 93, 102, 109
Erone, 71
Esiodo, 40, 51, 115, 135
Euclide, 71
Eutichio, 156
Fedro (Phaedrus), 54, 61
Filino di Kos, 76, 78, 101
Filolao, 47-8
Filone di Bisanzio, 71
Fonzio, Bartolomeo, 82
Fracastoro, Girolamo, 53, 138
Galeno, Claudio di Pergamo, 11, 20-1, 23, 25, 28, 30, 32-4, 38,
46, 50, 54, 56, 58, 65, 69-70, 75-6, 79-80, 83-5, 87-9, 92-107,
112-5, 120, 123, 126, 138, 142, 145, 148, 153, 155, 157
Gargilio Marziale, 107
Giasone, 154
Giuramento (Iusiurandum), 18, 32, 53, 55-6, 58, 63-4, 91, 147
Glauce di Taranto, 77
Halon, 39
Harvey, William, 23, 98
Igino, 40, 154
Iliade (Ilias), 28, 35, 135, 146
Ipparco di Nicea, 71
Ippocrate di Kos, 11-2, 15, 17-21, 23, 25, 27-8, 31-2, 43, 46-7, 51-
3, 58, 67, 70, 74, 76-8, 83-4, 87, 97, 105, 107, 109, 128, 137,
147-51
Ippone, 47-8
Iscrizioni di Creta (Inscriptiones Craeticae), 150
Iside, 44
Kore, 44
Lais, 33
Leggi (Leges), 65, 135, 152
Lessico Suda, 23, 54, 84, 95
Malattie delle donne (Gynaekia), 26, 57, 79, 84, 88, 107, 114, 124,
155
Mantia, 101
Marco Aurelio, 93-4, 142, 148
Medea, 33, 123, 154
Metafisica (Metaphysica), 47, 49
Metamorfosi (Metamorphoses), 80
Metodismo, 79, 82-4, 86, 126
Mitridate IV, 32, 151
Molio, 154
Morgagni, Giovan Battista, 25
Mulomedicina, 24
Musa, Antonio, 79, 148
Muscione, 84
Nigro, Sestio, 83, 89
Odissea (Odyssea), 28, 36, 146
Odisseo, 35
Opere e giorni (Opera et dies), 51
Oribasio, 105-7
Ottica (Optica), 71
Ovidio, Publio Nasone, 40-1, 80, 154
Paolo di Egina, 84
Paracelso, 53
Pasifae, 33, 154
Pausania, 40-2
Perdicca, 54
Pitagora, 47, 49
Platone, 54-5, 61, 113, 125, 132, 135, 141, 152-3
Plinio il Vecchio, 27, 32-3, 54, 76, 79, 81-3, 89, 107, 118, 131, 155
Podalirio e Macaone, 40, 54, 146
Polibo, 52, 56, 58, 109, 114, 137
Polifemo, 36
Politica (Politeia), 55
Prassagora di Kos, 72, 77, 101
Precetti (Praeceptiones), 27, 58, 64, 151
Prenozioni coane (Coanae Praenotiones), 57
Procedimenti anatomici (Galeni De Anatomicis
administrationibus), 94
Procri, 33
Prognostico (Prognosticon), 56-7, 61, 106
Protagora (Protagoras), 54-5
Regime (Regimen), 46, 56-7, 59, 111-2, 116, 122
Repubblica (Respublica), 55
Scribonio Largo, 12, 32, 90-1, 101
Seneca, Lucio Anneo, 24, 113, 142
Serapione di Alessandria, 76, 78
Sestio Nigro, 83, 89
Sesto Empirico, 70, 78
Sorano di Efeso, 23, 32, 53, 79-80, 84-6, 107, 113, 117, 124, 126,
155
Sotira, 33
Spiegel van den, Adriaan, 100
Stefano di Bisanzio, 54
Storia degli animali (Historia animalium), 58, 132
Storia naturale (Naturalis historia), 41, 79, 81-2, 89-90, 118-9,
132, 151
Sui luoghi dell’uomo (De locis in homine), 59, 110, 111, 115
Sui propri libri (Galeni De libris propriis liber), 93
Sui sogni (De insomniis), 118, 131
Sui temperamenti e sulle facoltà dei medicamenti semplici
(Galeni De simplicium medicamentorum temperamentis et
facultatibus), 88, 101, 103
Sul cuore (De corde), 56
Sul feto di otto mesi (De octimestri partu), 57
Sul male sacro (De morbo sacro), 27, 43, 51, 56-7, 112, 136
Sul medico (De medico), 27, 57, 64
Sul metodo di cura (Galeni De methodo medendi), 56, 104
Sul regime (De victus ratione-Regimen), 56-7
Sull’antica medicina (De vetere medicina), 15-6, 46, 48, 50, 59-60
Sull’arte (De arte), 15, 65, 153
Sull’officina del medico (De medici officina), 57
Sull’ordine dei propri libri (Galeni De ordine librorum suorum ad
Eugenianum), 93
Sull’uso delle parti (Galeni De usu partium corporis humani libri),
94, 97, 99-100, 120
Sulla fabbrica del corpo umano (Vesalii De humani corporis
fabrica), 98, 100-1, 120
Sulla generazione degli animali (De generatione animalium),
115-9, 122, 127-8
Sulla medicina (De medicina), 30, 47, 70, 72, 77-9, 82
Sulla natura del bambino (De natura pueri), 57, 114-7
Sulla natura dell’uomo (De natura hominis), 50, 55-8, 66, 109,
111-3, 137-8, 140, 142
Sulla natura della donna (De natura mulierum), 57, 114, 118
Sulla riduzione delle fratture (De fracturis), 57
Sulla teriaca (Galeni De theriaca ad Pisonem), 95
Sulle affezioni (De morbis), 59
Sulle arie, acque e luoghi (De aere aquis et locis), 50-2, 55-7, 63,
88, 138, 142, 146, 148
Sulle articolazioni (De articulis), 57
Sulle donne sterili (De sterilibus), 57, 114
Sulle facoltà naturali (Galeni De naturalis facultatibus), 98
Sulle ferite (De ulceribus), 37
Sulle ferite della testa (De capitis vulneribus), 30, 57
Sulle malattie acute e croniche (Celeres vel acutae passiones
libri), 79, 84, 107
Sulle malattie delle donne (De morbis mulierum), 26, 37, 57, 79,
84, 114, 116-7, 124, 155
Talete, 47-8
Teofrasto, 32, 49, 73, 101, 134
Tessalo di Tralles, 79, 104
Tessalo, 54, 150
Tifone, 129
Timeo (Timaeus), 125
Tolomeo I, 22, 69-1
Tolomeo II, Filadelfo, 69-70
Tolomeo IV, 71
Tolomeo VIII, 69
Tucidide, 24, 39, 61, 139-41
Varrone, Marco Terenzio, 83, 142
Vegezio, Flavio, 24
Vesalio, Andrea, 53, 98-101, 120
Vesling, Johann, 100
Vita di Ippocrate (Hippocratis vita), 23, 53, 84
Vitruvio, Marco Pollione, 24, 142
Wepfer, Johan Jacob, 100
Willis, Thomas, 100
Xante, 33
Zeus, 36, 39, 41, 129, 136

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