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“Musicoterapia veicolo delle emozioni e recupero

del benessere”

Pubblicato nel libro : ”Il diritto al gioco intelligente” a cura di Giovanna Annunziata

Questo nostro convegno potrebbe essere definito anche come una rassegna delle nuove frontiere
dell’educazione da consegnare ai politici come modello concreto e non virtuale di una riforma
dell’istruzione finalmente di livello europeo . E non parlo certo degli aspetti curricolari, che non
sono di mia competenza, ma di quelli sociopsicopedagogici ai quali da decenni cerco di dare il mio
contributo di studio e di ricerca.
In tale contesto ho partecipato di recente ad una visita di studio in Inghilterra nel quadro delle
iniziative del programma Socrates. E devo dirvi, come già accennava ieri la relazione di James
Connelly, che gli inglesi sono certamente all’avanguardia nell’applicare al mondo della formazione
tutti gli strumenti della comunicazione interattiva, ma che anche in Italia ci sono tutte le premesse,
di preparazione e di fantasia operativa, per porci anche noi all’avanguardia di questo processo.
Cominciamo subito dal ruolo delle artiterapie, alle quali la musicoterapia va naturalmente
assimilata. Esse, come bene visualizza Loredano Matteo Lorenzetti, sono una sorta di agorà
interdisciplinare per l’integrazione del corpo e della mente, del pensiero e dell’emozione, del reale
e dell’immaginario, insomma un luogo e insieme una forma di conoscenza e di pratica che integra
razionalità e sentimenti.
La musicoterapia, dunque, da un punto di vista pedagogico, si pone come lo spazio potenziale di
cui parla Winnicott e che non è solo attribuibile al gioco, ma anche al sentire, al pensare e al fare
dell’arte attraverso la dimensione estetica.
La conoscenza è attraversata e attraversa la dimensione estetica. La musicoterapia intende
coglierne il senso e il valore di ricerca lavorando su circuiti complessi e aprendo la mente dei
ragazzi, ma anche degli adulti, alla potenzialità delle potenzialità, all’uso e allo sviluppo di tutte le
loro possibilità. Essa induce all’autoeducazione all’espressività, alla comunicazione, alla relazione
modificatrice dell’esistenza. Essa è più di un percorso terapeutico, come generalmente viene
intesa, e mette in discussione ogni tipo di intervento eccessivamente unidirezionale, quelli che
operano per tratti di circuiti, inducendo invece a un circuito completo e autoriflessivo. E in ciò non
fa che agganciarsi ai primordi, alle radici dell’esistenza.
Nelle antiche civiltà le dottrine esoteriche consideravano infatti la musica come un veicolo
privilegiato per ridare armonia e senso finalistico all’esistenza. Col trascorrere dei secoli quel dato
filosofico è diventato essoterico e nella civiltà moderna il rapporto tra musica e salute (fisica,
mentale e spirituale) fa parte, si può dire, della coscienza collettiva. Dalla pervasività di tale
rapporto trae la sua forza applicativa la musicoterapia, una tecnica che si basa sull’uso controllato
della musica e che viene usata come supporto nel trattamento, nella riabilitazione, nell’educazione
e nell’addestramento di soggetti (adulti o bambini) che soffrano di disturbi fisici, mentali o emotivi.
Ad accomunare musica e medicina, agli inizi dell’umanità, fu “l’incantesimo magico, che è insieme
prototipo dell’arte musicale e primo gesto dell’arte del guarire”(1). Questo stato d’animo
traduceva l’angoscia esistenziale di fronte all’ostilità della natura, ma anche il convincimento che
la musica è trasmessa all’uomo da esseri soprannaturali.
Allo stesso modo è verosimile, oggi, che “dei suoni dalle caratteristiche ben determinate possano
provocare il risveglio della dimensione metafisica che è in ciascuno di noi. Grazie all’intensità del
loro effetto di stimolazione questi suoni provocano un innegabile aumento del tono cerebrale e
della dinamica del sistema nervoso” (2).
Nei rituali antichi con fini esclusivamente terapeutici il suono e la musica erano considerati veicoli
di comunicazione con lo spirito maligno che si riteneva possedesse il malato e fosse causa della
malattia. L’unico in grado di esorcizzare lo spirito maligno e quindi di guarire il malato era
giudicato lo stregone - sciamano, attraverso il ricorso a formule magiche accompagnate da canti,
danze e musica.
Nella lingua dei tungusi, la popolazione mongolica dell’Asia settentrionale ora in via d’estinzione,
la parola sciamano indicava appunto colui che salta e danza in preda a turbamento e agitazione. E
agli strumenti musicali, nelle pratiche dello sciamano, veniva riconosciuto un ruolo fondamentale:
“Il tamburo ha una parte di primo piano. Esso è indispensabile per lo svolgimento della seduta, sia
che conduca lo sciamano al centro del mondo, sia che gli permetta di volare, sia che chiami e
imprigioni gli spiriti, sia, infine, che il suono da esso prodotto aiuti lo sciamano a concentrarsi e a
riprendere contatto col mondo spirituale che egli si prepara ad attraversare”(3).
Se il rapporto tra medicina e musica attraversa tutta la storia dell’uomo, per comodità e brevità di
analisi è possibile, come fanno Bence e Méreaux (4), individuare tre periodi: quello dello stregone
- medico, a cui si è appena accennato, quello del sacerdote - medico e l’epoca che va da Ippocrate
ai nostri giorni.
Quanto al primo periodo i due autori rivelano che l’incantesimo, innescato dallo stregone-
sciamano, obbediva alla mimesi, ossia alla legge dell’azione magica operata dal simile sul simile,
ricavandone arditamente l’origine antropologica dell’omeopatia. In un secondo momento al
rituale coreutico-musicale si associò l’uso di particolari erbe o piante - le droghe - che facilitava per
lo sciamano il raggiungimento dello stato di “trance”. E qui si possono collocare i primordi della
fitoterapia. Del resto, incantesimo e droga sono elementi costitutivi anche della prima medicina
egizia: il famoso papiro di Ebers contempla sia il formulario degli incantesimi che le ricette di
droghe.
Il passaggio alla fase del sacerdote - medico fu segnato dall’ingresso in tutte le religioni antiche
della nozione che musica e medicina sono donate all’uomo dallo stesso dio. Si passa così dal rito
sciamanico al canto di lode per un dio protettore individualizzato. Mentre i cinesi introdussero un
altro elemento fondamentale, la magia dei numeri, che influenzò contemporaneamente medicina
a musica. Fu lo stesso Huang Ti (2697a.c.) a scrivere il “Nei Ching”, il libro della medicina
energetica cinese fondata sulla dottrina dei cinque elementi (terra, fuoco, acqua, legno e metallo)
e a indicare la struttura precisa della prima scala pentatonica (fa-do-sol-re-la).
In seguito , i medici indiani introdussero tre nuove nozioni: la quadripartizione organica (corpo
fisico, corpo eterico, corpo astrale e corpo mentale); il realismo funzionale, ossia la funzione crea
l’organo; l’unione assoluta tra uomo e universo, in base alla quale una musica “ordinata”
restituisce all’individuo l’equilibrio delle oscillazioni psico-fisiche disturbato dalla malattia. E qui si
può già parlare, forse, di musicoterapia propriamente detta .
La musica comincia così ad assumere la fisionomia di igiene mentale, concetto basilare della
successiva medicina ippocratica , che segue di pari passo l’evolversi del pensiero speculativo greco.
Si passa così dal mito di Orfeo , che con il canto e la musica della sua lira ammansiva belve e mostri
infernali per riavere l’amata Euridice, alla logica pitagorica e a quella platonica.
Pitagora pone la musica in posizione centrale nel sistema cosmogonico e metafisico, Platone fa
coincidere l’identità di musica, medicina e cosmologia e afferma, nella “Repubblica”, che “il vero
musico si mostra capace di curare l’armonia del corpo per accordarla alla musica dell’anima”. E
così Apollo, che è già dio della musica, diventa anche dio della medicina. Ed il celebre Esculapio
associa, nella sua terapeutica, musica e parola, diventando, forse, l’antesignano di Freud. Infine
Aristotele, il padre dell’anatomia comparata. A suo giudizio, le arti del ritmo migliorano
l’atteggiamento morale, inducono alla serenità e fanno scomparire l’ansia. Insomma, l’effetto
antistress della musicoterapia.
Con l’avvento del cristianesimo, l’arte medica dei greci e dei romani scomparve e si radicò un
nuovo modo di considerare la malattia, ma la musica conservò la sua originaria connotazione nel
rapporto con la divinità. Del resto, sin dal quinto secolo sono i monaci i veri depositari sia della
scienza medica che della musica, una condizione che si perpetuò in tutto il Medioevo.
Ma è solo a partire dal Rinascimento che si ritrova un più significativo approccio all’impiego della
musica a fini terapeutici. “In questo periodo molti medici che coltivavano l’hobby della musica e
del canto si interessarono ai loro effetti sull’essere umano in termini di fisiologia e psicologia, e in
essi ritrovarono tutte le virtù terapeutiche che già l’antichità aveva riconosciuto loro”(5).
Il più noto dei medici del Rinascimento fu Paracelso, secondo il quale la malattia è la
rappresentazione di uno squilibrio la cui origine è nello stesso tempo fisica, emozionale e mentale.
Egli riteneva che l’anima, tramite uno sforzo di volontà, potesse avviare nel corpo il processo di
guarigione.
Nel Settecento Mesmer sostenne la tesi dell’influsso dei pianeti sui fenomeni fisiologici e
patologici. Egli, tramite la musica, induceva scene d’ipnotismo e di suggestione. Era amico di
Mozart , di Haydn, di Gluk e di molti altri musicisti, fu lui a dimostrare l’importanza della
psicoterapia e a indicare la strada a Bernheim e a Freud.
Si può dire che nacque nel Settecento quello che oggi si definisce “effetto Mozart”, cioè
l’importanza di ricorrere al potere della musica “per guarire il corpo, rinforzare la mente e liberare
lo spirito creativo”(6).
E risale allo stesso secolo il celeberrimo aneddoto di Farinelli , il nome d’arte del sopranista
italiano Carlo Broschi, che con la suggestione del suo canto riuscì a guarire il re di Spagna Filippo V
dal profondo stato di prostrazione e di apatia nel quale era precipitato.
Ai giorni nostri l’approccio è naturalmente diverso. Il rapporto tra musica e salute non è più
ammantato della suggestione del mito e del soprannaturale , ma è studiato e approfondito con le
categorie della scienza e i canali della tecnologia . E si fa sempre più ampio il ventaglio
dell’applicazione razionale dei suoni per la cura di molte patologie o per migliorare la fisiologia
della nostra esistenza.
Ognuno di noi percepisce le stimolazioni acustiche in modo soggettivo. La stessa realtà sonora
acquista connotazioni diverse a seconda dei vari individui e delle loro peculiarità culturali. I popoli
primitivi, ad esempio, percepiscono come rumore ciò che per noi è musica. Un occidentale coglie
prevalentemente l’armonia di un brano musicale, perché l’armonia è un carattere tipico della
nostra civiltà. Altre popolazioni hanno sviluppato invece il senso del ritmo, come quelle di razza
negra, perché si richiamano maggiormente alle scansioni primordiali e prive di sovrastrutture
dell’esistenza. Il ritmo è l’elemento musicale che più di ogni altro agisce sull’uomo possedendo
una capacità di trascinamento immediato e tale da riuscire a condizionare anche la sua stessa
volontà . E questo è uno dei principali motivi che hanno indotto sempre a ritenere legata la musica
al senso del magico o del mistico.
Negli elementi mitologici di molte culture l’origine del mondo è individuata in un evento sonoro.
Secondo queste cosmogonie in principio troviamo una parola, un suono, un grido. Il vangelo di San
Giovanni comincia con queste parole: ” In principio era il verbo e il verbo era presso Dio e il verbo
era Dio”. Verbo significa parola e la parola è suono. E gli egiziani credevano che il dio Thot avesse
creato il mondo non con il pensiero o l’azione , ma con la voce, per mezzo della quale aveva creato
anche quattro divinità le quali, dotate dei suoi stessi poteri, avevano provveduto a popolare e ad
organizzare il creato.
Sonora è, insomma, l’essenza delle cose, al punto che Schneider non esita ad affermare che “il
mondo attuale ha acquistato la sua forma concreta mediante la materializzazione di dati acustici
primordiali”(7) , mentre Aristide Quintiliano, scrivendo nel primo secolo dopo Cristo il suo trattato
“De Musica”, identifica il ritmo musicale con il battito cardiaco, intendendo che entrambi
attengono al pulsare della vita.
Del resto, il suono si impone al bambino già prima della sua nascita. “Il feto si trova immerso in un
bagno sonoro. Tali sonorità costituiscono per lui una sorta di imprinting uditivo di cui si trova
traccia nelle filastrocche infantili. Queste, benché prive di significato, sono ricche di senso musicale
attraverso cui il bambino cerca di recuperare il paradiso perduto per mezzo di suoni e ritmi che
evocano il periodo prenatale”(8).
Il mondo sonoro intrauterino è quindi una sorta di cassa armonica in cui confluiscono rumori
enterici e respiratori, voci esterne e rumori ambientali, percepiti e filtrati dal liquido amniotico e
scanditi dal battito del cuore. Qui si crea la struttura ritmico-fonica primaria , che è il contenitore
ideale per la crescita mentale e fisica.
Con la nascita c’è il primo impatto con il mondo sonoro esterno, che il bambino inconsciamente
commisura con quello “musicale” intrauterino e che gli provoca la prima grande crisi, la prima
sensazione di pericolo. Compare a questo punto il cosiddetto “ riflesso di Moro”. Il neonato
reagisce ad ogni suono improvviso allungando le braccia, abbassando la testa e facendo una
smorfia; dopo qualche secondo unisce lentamente le braccia in una specie di abbraccio, emette un
grido e poi si distende. Il fenomeno si verifica sino a sei settimane ed è gradatamente sostituito da
un sussulto, lo stesso che compare poi negli adulti quando avvertono un forte rumore.
Il suono, dunque, viene percepito dal bambino come una minaccia diretta, sia pure in maniera
confusa e perturbata. Ma a fargli superare il trauma provvede gradualmente la voce materna,
dapprima indistintamente, rievocando in lui i suoni intrauterini, e poi sempre più precisamente,
con una sicura valenza psichica.
Così la voce materna viene associata alla gratificazione orale del pasto ed al piacere della
sonnolenza che subentra dopo di esso. In tal modo, a partire dalla sesta settimana di vita, il
neonato instaura una sorte di “proto-conversazione “con la madre, entro la quale sono trasmesse
emozioni utili a stabilire uno stretto contatto mentale(9). La “lingua” di queste conversazioni
deriva da una specifica competenza della madre, la quale, intuitivamente, è capace di rispondere
al neonato in modo empatico. Questo linguaggio è stato definito anche “maderese intuitivo” ed è
caratterizzato da toni alti, da un timbro dolce e da emissioni vocali brevi e frequenti, mentre le
risposte del bambino prendono lo stesso ritmo e si strutturano in forme motorie e vocali.
“Nei primi giorni di vita il bambino accorda il ritmo dei propri movimenti a quello della voce
materna, privilegia l’ascolto di sonorità con frequenze tipiche della conversazione, riconosce la
voce intonata ed a lui diretta dalla madre. Il neonato sembra, quindi, apprendere prima la gestalt
della lingua, ossia la sua totalità, per poi riempirla di significati e contenuti. La madre, dal canto
suo, nel relazionarsi al bambino presuppone sempre che egli le stia dicendo qualcosa, per cui
interpreta la sua produzione vocale, la sviluppa e le risponde. La madre così struttura con lui un
dialogo caratterizzato non da un contenuto linguistico, ma da uno spazio in cui è possibile sia
parlare che ascoltare”(10).
Questo spazio ha innegabili caratteri musicali ed ha suggestive analogie con l’improvvisazione
musicale, dove si realizza il fenomeno della “sintonizzazione” tra un esecutore esperto ed uno non
esperto di un brano, con l’armonizzazione degli elementi musicali pieni ed armonici del primo con
quelli immaturi e rigidi del secondo.
Sin dai primi momenti di vita il “sonoro” e il “musicale” hanno dunque un ruolo fondamentale
nello strutturarsi della nostra vita psichica. Col trascorrere del tempo, dall’infanzia sino alla
maturità e alla vecchiaia, la musica scandisce ogni processo di crescita o di arricchimento mentale
e spirituale, diventa linguaggio e modo di organizzare i suoni del tempo.
Il problema è ora di stabilire quando tale organizzazione dei suoni diventa arte, quando si
percepisce la sequenza dei suoni come musica e non come rumore, quale è lo specifico della
musica e che cosa ce lo fa escludere.
La risposta a tali domande può essere data partendo da varie prospettive scientifiche. Il fisico
definisce la musica secondo le caratteristiche strutturali dei suoni e degli altri eventi, l’antropologo
ne analizza le origini per stabilire criteri universali di individuazione, il filosofo va alla ricerca della
unicità della musica come forma ed espressione artistica.
A noi interessa una risposta in termini psicologici, per cui: ”La musica può essere delineata come
l’arte dell’organizzazione temporale dei suoni e delle sue varie componenti fisiche ed esperenziali,
allo scopo di creare forme espressive che diano significato all’esperienza dell’uomo”(11).
La musica si conferma così linguaggio universale per eccellenza, dalle sue forme più semplici a
quelle più complesse, riflettendo appunto le varie fasi dello sviluppo individuale, o
determinandolo.
Ma se la musica è soprattutto linguaggio e mezzo di comunicazione tra gli uomini, scambio di
emozioni e sensazioni, e se dà la misura, seguendolo di pari passo, dello sviluppo psichico
individuale, è di tutta evidenza che i parametri di valutazione della musica devono essere gli stessi
del linguaggio, e cioè sintassi, semantica e pragmatica.
Come si sa, la sintassi si occupa delle relazioni tra i segni linguistici, la semantica delle relazioni che
tali segni hanno con gli oggetti o le azioni a cui sono riferiti, la pragmatica delle relazioni esistenti
tra i segni e i soggetti che ne fanno uso(12).
Trasferiamo questi parametri in ambito musicale.
La sintassi . Si occupa delle norme che consentono di legare in progetto i diversi segni musicali.
Ogni cultura ha la propria sintassi musicale :”La storia della musica è anche storia di continue
trasformazioni degli orientamenti sintattici”(13). Ne deriva che il rapporto tra i segni musicali è il
suo esplicitarsi nel tempo, per cui l’esperienza musicale è la messa in ordine del “temporale
sonoro” e la rappresentazione delle esperienze esistenziali.
Questa sintassi musicale si esprime in termini di velocità e successione (ritmo) e di durata tonale
(intervallo). Il ritmo presuppone prospettive temporali , permettendo all’ascoltatore di prevedere
il futuro in base al passato . Senza ritmo, la musica segnerebbe il passo. E di ritmo si parla in due
sensi : a) come spinta interiore a fare o sentire musica; b) come esigenza normativa del linguaggio
musicale. Nel primo caso, il ritmo stimola o scaturisce dalla produzione musicale. Nel secondo, è
assunto a norma della stessa produzione.
L’intervallo indica invece il continuum sonoro all’interno del quale è possibile scegliere gli elementi
del progetto musicale. La differenza di registro tra le voci comprende tale continuum ed è, in
media, di un’ottava. Alla distanza tra i suoni si da il nome di “scala tonale”.
Si può quindi dire che, mentre il ritmo organizza il tempo sonoro, la scala tonale organizza lo
spazio sonoro. Entrambi sono gli elementi fondanti della sintassi musicale, come pure del modo di
esprimersi di un individuo.
La semantica. Ribadendo che essa studia il rapporto tra i segni e le cose a cui si riferiscono, bisogna
dire che in campo musicale viene considerata in due modi. Alcuni autori ritengono che il linguaggio
musicale sia privo di denotazioni, per cui esso sarebbe come chiuso in se stesso e non riconducibile
alla relazione suono-realtà extrasonora.
Altri sostengono che una semantica musicale è rintracciabile solo in alcuni patti di particolari
contesti culturali. Le due posizioni non appaiono condivisibili, perché la denotazione è un
elemento imprescindibile in qualsiasi forma di linguaggio o di messaggio, per cui la musica, che è
in grado di trasmettere svariate forme di messaggi, contiene sempre tanto elementi di significato,
che elementi significanti. Scopo della semantica musicale è dunque quello di cogliere e analizzare
tali elementi. E anche qui soccorrono categorie di studio della linguistica: icona, indice e simbolo
(14).
Nel linguaggio musicale l’icona è l’immagine sonora di qualcosa o di qualcuno. Tra suono e oggetto
vi può essere una somiglianza acustica (ad esempio l’onomatopea della musica che imita il rumore
di un fenomeno naturale). Il raccordo dei vari elementi musicali può inoltre imitare la relazione
che esiste tra gli eventi a cui il progetto musicale si ispira (ad esempio la musica del minuetto
sembra mimare il movimento dei danzatori ). Infine lo scambio, quando oggetto e segno musicale
appartengono alla stessa classe di fenomeni ( le scale musicali ascendenti, ad esempio,
rappresentano il cielo). In tal modo il prodotto musicale è sempre l’icona di qualcosa che imita ,
attraverso la metafora, il rapporto che l’uomo ha con il mondo (15).
L’indice è un segno che focalizza l’attenzione di un soggetto. Nel linguaggio musicale è qualunque
segno che, interrompendo uno schema, preannuncia un mutamento che provocherà
nell’ascoltatore un “riflesso di orientamento “ , cioè una concentrazione verso ciò che è stato
preannunciato. Insomma, si introduce nel progetto musicale un elemento fuori luogo , capace
anche di provocare un rifiuto del messaggio. Allo stesso modo avviene talvolta nei nostri discorsi di
tutti i giorni , quando intendiamo stornare l’attenzione del nostro interlocutore e predisporlo,
semmai, in maniera del tutto opposta al filo logico iniziale.
Il simbolo è una regola che codifica le modalità esecutive all’interno di un sistema musicale. I
simboli sono naturalmente suscettibili di sviluppi e di modifiche, ma restano elementi costitutivi
della musica , che “ha una natura radicalmente simbolica a si presta ad infiniti riempimenti, senza
mai esaurirsi, superando ogni determinazione”(16).
La pragmatica. Lo studio del rapporto che passa tra i segni e le persone che li utilizzano introduce
due nuovi elementi: l’interpretante e il contesto.
Il primo, come insegna Morris, va inteso come “ una struttura di decodificazione dei segni” che
consente all’organismo di “rispondere, per via del veicolo segnico, all’oggetto assente, che gioca in
una situazione problematica presente, come se fosse presente esso stesso”(17).
L’interpretante va inteso, insomma, come una sorta di habitus mentale che ci aiuta a decodificare
il prodotto musicale. Ciò avviene, ad esempio, quando un gruppo di persone si riunisce per
ascoltare e discutere di musica. Non si intenderebbero se non avessero un codice comune di
interpretazione.
Il concetto è affine a quello informatore dell’altro elemento, il contesto. Ogni epoca, ogni popolo,
ha un suo modo per fare musica, un modo condiviso che ha la doppia funzione di rafforzamento
sociale e rassicurazione soggettiva. Anche la musica serve a rinsaldare i valori sociali, anche la
musica ha dunque un’altissima valenza comunicativa.
Ma, a differenza di altre arti , come la scultura o la pittura , la musica non si oggettualizza, vive solo
nella percezione che noi ne abbiamo. “La materia della musica è prodotta dalle oscillazioni
vibratorie di corpi sonori che tendono a ritornare allo stato di riposo. Il nostro orecchio avverte
queste vibrazioni che noi percepiamo con la nostra sensibilità, cioè col nostro Io profondo. Dunque
noi non troviamo nella musica che l’eco della nostra interiorità soggettiva”(18). E George Gershwin,
il grande musicista americano, introduce l’altro elemento, quello fisico, che tante applicazioni ha
in musicoterapia: ”La musica crea una certa vibrazione che indiscutibilmente produce una
reazione fisica. Alla fine troveranno la vibrazione giusta per ogni persona e la useranno”(19).
Esistono però anche i soggetti “amusicali”, quelli considerati costituzionalmente tali, che
avvertono la musica come un frastuono o sono nevrotici per cause legate alla loro storia personale
e quindi provano fastidio all’ascolto della musica.
In ogni caso, la musica si configura come una forma espressiva capace di creare un rapporto tra il
mondo interno individuale e il mondo esterno. Vygotskij definisce il linguaggio musicale come
“atto strumentale psichico, che nasce dalle rappresentazioni mentali che l’uomo si fa delle proprie
esperienze senso-motorie”(20).
Le stimolazioni esterne vengono dunque registrate dalla mente in forme astratte e tradotte in
linguaggio psichico musicale, che ha la stessa valenza espressiva di altre forme di linguaggio, come
quello verbale, grafico o mimico. E così la prospettiva psicologica applicata alla musica ha la stessa
importanza dell’analisi psicologica delle altre forme di linguaggio, contrariamente a quanto
sostenuto da alcuni autori, come Vicario, secondo i quali non esiste un “oggetto” musica che si
presti ad un esame psicologico.
Per inquadrare il discorso, si può partire da una considerazione di Freud sulla musica come
creazione artistica. Essa “ non si esaurisce nel compimento di un opera ma si rinnova,
indefinitamente, nella fruizione di essa attraverso i secoli. Acquista un senso compiuto nella
ricreazione di un altro che trovi in se stesso la spinta generativa dell’opera, quella costellazione
psichica che ne ha consentito la nascita”(21).
Dal concetto freudiano possono scaturire due altre considerazioni: la prima è che come ogni altra
creazione artistica, e forse più di ogni altra per la sua forza evocativa , la musica ha un valore
espressivo più pregnante delle altre forme di linguaggio. La seconda è che essa, perpetuandosi nel
tempo e nelle latitudini, raggiunge il massimo significato di comunicazione umana.
Se questa è la base di partenza, il ventaglio delle implicazioni di studio del rapporto tra musica e
psicologia è estremamente vasto e vario.
Nella storia di questo rapporto si possono individuare tre periodi fondamentali: un primo periodo
databile dalla metà dell’800 sino al primo ventennio del ‘900; un secondo periodo segnato dalla
comparsa del comportamentismo con ricerche di orientamento in prevalenza pragmatico; un terzo
periodo, di sapore cognitivistico, che giunge fino ai nostri giorni, entro il quale si manifesta uno
spiccato interesse per la musicoterapia e lo studio della pubblicità.
Di psicologia della musica in senso proprio si comincia a parlare nella seconda metà dell’800 con i
contributi di Von Helmotz allo studio dell’armonia ( suoni complessi e suoni armonici) e delle basi
fisiologiche della percezione dei toni. Ma è solo con Friederich Karl Stumpf che la psicologia della
musica divenne una disciplina.
Egli era stato allievo di Franz Brentano e del celebre filosofo e psicologo condivideva la concezione
secondo cui la vera realtà è costituita dagli atti psichici, mentre il resto è unicamente fenomeno.
La realtà psicologica è fatta di atti o funzioni. La psicologia indaga sul sentire, sul percepire, sul
concepire e non sul sentito, percepito, concepito.
Sviluppando questa impostazione, Stumpf approdò alla “teoria della forma” (gestalttheorie) da cui
Ehrenfels, uno dei precursori della “gestaltpsycologie”, ricavò il concetto della “qualità della forma
“, secondo cui la forma non inerisce agli elementi sensoriali di cui è costituita la percezione, ma al
significato che essi assumono nella loro totalità.
Applicato in ambito musicale, il concetto significa che il carattere di una melodia non deriva dai
singoli elementi sonori, ma nasce dall’attività dello spirito che li combina in unità temporali. In
altre parole, la “gestaltqualitat” di un motivo musicale si palesa nella sua trasponibilità tonale con
la quale, pur modificando le note, non si altera il suo carattere melodico.
Un notevole contributo alla definizione dell’ambito d’indagine della psicologia della musica nel
primo periodo della sua storia derivò infine dall’opera di Ernst Kurth, secondo il quale i principi
fondanti della nuova disciplina erano rappresentati dalle esperienze psichiche sottostanti alle
manifestazioni musicali e le impressioni sonore non erano altro se non forme di comunicazione dei
processi psicologici di base. Dunque, il suono in sé non è nulla di musicale, è la sua assunzione a
livello psichico che lo rende tale. Le leggi e i significati del comportamento musicale vanno ricercati
in una dimensione extrafenomenica.
Il secondo periodo della storia della teoria musicale si colloca nell’arco di tempo che corre tra le
due guerre mondiali ed ha come punto di riferimento le dottrine comportamentistiche. Il
maggiore autore in questo periodo è Géza Révész, che distingue tra atteggiamento
fenomenologico e psicologico e introduce la teoria delle due componenti.
Scrive Révész : “ Come il linguaggio scaturisce dall’intenzione di esprimere pensieri, desideri e
comunicarli agli altri, parimenti a base della musica c’è l’intenzione di esprimere idee e disposizioni
d’animo e di produrre, negli altri, gli specifici effetti musicali corrispondenti”(22).
Tra gli “altri” bisogna dividere gli “amusicali”, che si aspettano dalla musica solo “eccitazioni
piacevoli e gradite”, dai “musicali”, che attivano la propria attenzione analitica. Se questa è diretta
verso gli effetti psicologici del prodotto musicale, l’atteggiamento sarà psicologico, se l’attenzione
è indirizzata invece alla struttura e all’equilibrio del brano, l’atteggiamento sarà fenomenologico.
La prima componente, che induce alla semantica sentimentale della musica, non porta a grandi
risultati sul piano interpretativo, giacché le strutture musicali non sono “esperienze emotive, ma
forme autonome dell’espressione musicale“. A risultati oltremodo significativi porta invece la
componente fenomenologica, perché la sua analisi consente una immedesimazione estetica
attraverso la comprensione dei rapporti musicali e della struttura del brano.
Con la sua teoria Révész tentò di risolvere il cosiddetto problema dell’ottava, individuato nella
difficoltà di spiegare cosa renda simili i suoni intervallati da un’ottava. Con lui si passò da una
spiegazione in chiave fisico-matematica o acustica ad una di tipo psicologico: i suoni, cioè, sono
riconoscibili dalla loro altezza e dalla loro qualità tonale, che il nostro orecchio percepisce e coglie
in modo innato, al di là di qualsiasi esercizio di educazione musicale, che ha solo il potere di
affinare la nostra capacità percettiva.
Il terzo periodo, che dura tuttora e che comincia nella seconda metà del Novecento, si è finora
sviluppato in due direzioni: la psicologia si occupa della musica o per studiarne e applicarne gli
effetti in un contesto terapeutico o per studiare le conseguenze che il quotidiano “ habitat”
musicale produce sull’uomo.
Questo secondo indirizzo, che analizza la musica come “tappezzeria” sonora, si dedica allo studio
del “pensiero musicale”, inteso come attività di “pensare con i suoni”, e a quello dei meccanismi
psichici che consentono la conversazione delle esperienze musicali. E in entrambi i casi si utilizzano,
naturalmente, alcune delle categorie fondamentali della scienza psicologica.
Nel definire il pensiero musicale si oscilla dalla percezione, ossia dal puro atto di ricevere entità
fisiche come i suoni, al processo di pensiero organizzativo di tali eventi. Compito del pensiero
musicale non è quello di seguire gli eventi, ma di costruirli, poiché l’organizzazione temporale
risiede nella mente e non nel brano musicale.
L’interesse si è così rivolto alla puntualizzazione dei modelli percettivi musicali, per incanalare sia
la percezione che la rappresentazione delle note musicali, soprattutto per quel che concerne la
loro altezza e la loro qualità. Molto nota in proposito è la metafora di Shepard, secondo il quale il
modo più adeguato per rappresentare la successione spaziale delle note, rispettando tanto
l’altezza che la qualità, è una doppia elica che giri attorno ad un cilindro elicoidale. Tale struttura
geometrica raffigurerebbe un mappa mentale dei rapporti tra le note e presiederebbe, inoltre, ai
meccanismi della percezione musicale.
Volendo, in definitiva, tentare una definizione, si potrebbe dire che il pensiero musicale, sia dal
punto di vista del creatore che dell’ascoltatore, è quell’attività umana che struttura o rielabora
un’opera d’arte mettendo insieme e organizzando eventi temporali sotto forma di suoni.
Quanto ai meccanismi di conservazione dell’esperienza musicale, molti autori fanno riferimento ad
una sorta di gerarchia del materiale sonoro. Verrebbe conservato in memoria in primo luogo
l’andamento generale della melodia ( primo livello della gerarchia ), che si poggia su alcune note
fondamentali; si passerebbe poi ad una struttura più complessa ( secondo livello ), che include
anche le note non fondamentali; infine ( terzo livello ), la struttura definitiva contenente le
variazioni e i diversi elementi armonici.
Su questo tessuto dottrinario si innestano gli apporti fondamentali di Imberty, che considera la
struttura temporale della musica organizzata su due livelli: il primo, superficiale, che si realizza
nell’esecuzione; il secondo, più profondo, che si esprime nello stile personale.
Imberty rileva che nell’esecuzione di un brano emerge immancabilmente una “ variabile
personale”, costituita dalle variazioni che ogni esecutore apporta alle norme temporali originarie
del brano stesso. Si tratta di rallentamenti, esitazioni o addirittura alterazioni dei tempi, che
configurano appunto l’originalità e la irripetibilità di uno stile musicale. Questo deriva dal vissuto
personale di ogni autore od esecutore ed è “ la rappresentazione del fantasma del tempo che
cristallizza le angosce legate all’invecchiamento e alla morte”(23). Lo stile, insomma, organizza il
tempo musicale, che diviene un tempo mitico, perché in esso circolano i sogni di eternità
dell’uomo che allontanano il peso della morte.
Concentrandosi sullo studio dello stile, la psicologia in genere e la psicanalisi in particolare,
esaminando, ad esempio, per gli autori delpassato, tutte le fonti relative alla vita e alle opere,
possono penetrare nel profondo del prodotto musicale, ricavandone il senso inconscio, individuale
e collettivo, perché ogni artista è anche depositario del senso storico dell’umanità.
Solo quando l’introspezione psicologica avrà chiarito i vari aspetti della personalità del creatore o
del fruitore di musica, sarà possibile comprendere appieno i comportamenti musicali, che
risultano da una particolare combinazione degli elementi fondamentali della psiche, anzitutto
quelli emozionali.
E’ un dato pacifico che la musica, come ogni opera dello spirito, nasce dalle emozioni e produce
emozioni. Ma non è un dato pacifico, in dottrina, la definizione di emozione.
Anzitutto, le emozioni sono apprese o innate? “ Recenti ricerche hanno superato l’antica
controversia se le emozioni sono innate o apprese ed hanno confermato che nel campo delle
emozioni sono ugualmente coinvolti fattori innati e fattori appresi: possono esistere determinanti
genetiche delle emozioni di base universalmente riscontrate, ma le loro differenti espressioni
possono essere dovute all’esperienza, all’ambiente sociale e alla cultura”(24).
Come la gran parte dei processi psichici, le emozioni possono essere sia transitorie che durature.
Possiamo sentire qualcosa in un momento contingente, ma subito dopo l’emozione diminuisce o
scompare.
All’opposto, si può parlare di atmosfera dominante, che caratterizza durevolmente un individuo.
“ Le inclinazioni emotive sono una mediazione tra le due forme, per cui si può parlare di persone
allegre o tristi”(25).
Altri autori parlano di emozioni situazionali e di emozioni caratteristiche. Le prime sono quelle che
durano un momento, come le esplosioni di gioia o gli scoppi d’ira, o parecchio tempo in rapporto
ad una situazione contingente o durevole per un certo tempo, come il dolore per la perdita di una
persona cara. Le seconde si individuano nei sentimenti tendenziali, che possono essere il frutto di
predisposizioni ereditarie ma sono soprattutto in rapporto a condizionamenti culturali o sociali.
Volendo semplificare e riferendoci agli stati emotivi di base, quelli che più frequentemente
ricorrono nella vita quotidiana, si possono elencare sei emozioni fondamentali: gioia, depressione,
ira, paura, sorpresa e vergogna. E sono quelle che più chiaramente traspaiono dai brani musicali
dei maggiori compositori o che essi trasmettono alla sensibilità degli ascoltatori.
“ La gioia può essere definita un’emozione situazionale, nel senso che indica uno stato d’animo
determinato da una circostanza o da un insieme di circostanze favorevoli, che provocano
soddisfazione o appagamento. La gioia ci rende interiormente liberi e felici”(26).
Depressione è un termine di moda, quello con cui la scienza psicologica definisce ciò che
comunemente si chiama tristezza, malinconia, languore dell’animo e che un tempo il
romanticismo chiamava “spleen”.
L’ira insorge quando viene contestato il nostro potere di controllo degli altri o degli eventi. Un
capoufficio si inalbera se un suo sottoposto ha deviato dalle norme che lui gli ha prescritto, un
uomo o una donna fanno scenate di gelosia se pensano che un terzo possa esercitare un potere di
direzione del proprio partner.
La soglia di comparsa della collera e il tempo che ci vuole per sbollirla dipendono dai dati
caratteriali di un individuo e dalla sua formazione sociale e culturale.
La paura è “ un’emozione spiacevole, che può assurgere a grande violenza, suscitata da una
situazione di pericolo, che può essere attuale e anche anticipata, ovvero fantastica; si accompagna
ad uno stato organico che va considerato come una reazione preparatoria, caratteristica, per
quanto non specifica, dovuta al sistema autonomo e collegata originariamente a comportamenti di
lotta o di fuga”(27).
La sorpresa interviene quando accade qualcosa che non ci aspettiamo o ci viene comunicato
qualcosa di inatteso. E’ l’emozione che dimostra che nutriamo sempre in noi stessi l’aspettativa
del futuro. Le sorprese spiacevoli provocano naturalmente turbamento ed ansia, quelle piacevoli
gioia e soddisfazione, talora in modo durevole. Sono emozioni per così dire propedeutiche di altre
emozioni.
La vergogna è la tipica emozione di onestà. Lo svergognato è colui che non ha ritegno, sia dal
punto di vista fisico che intellettuale e morale.
Izard definisce la vergogna “ custode del rispetto di se stesso”(28). La nudità fisica ha lo stesso
effetto di quella psichica: è una lesione dell’immagine di sé. Gli effetti si subiscono anche a
distanza. Nel ricordo della vergogna il viso si trasforma e si torna ad arrossire, l’effetto
immediatamente visibile di questa emozione.
Le emozioni, in definitiva, sono dei processi psicologici soggettivi molto complessi che possono
essere indotti da stimoli ambientali e mediati da variabili fisiologiche. In tal senso, sono processi
strettamente connessi con le motivazioni. Molti autori, anzi, identificano i due concetti tra loro. In
effetti, la motivazione interviene sempre prima, durante e dopo l’emozione, le tre sequenze da cui
nasce il sentimento, che è una delle componenti fondamentali dell’attività umana e che è la molla
da cui scatta ogni comportamento musicale. E così torniamo al tema.
La definizione che meglio traduce l’ambito di studio e l’ambito applicativo della musicoterapia è
quella di Benenzon: “ Dal punto divista scientifico, ritengo la musicoterapia una disciplina che si
occupa dello studio e della ricerca del complesso suono-essere umano (suono musicale e non ) con
l’obiettivo di ricercare elementi di diagnosi e metodi terapeutici. Dal punto di vista terapeutico,
invece, la musicoterapia è una disciplina paramedica che utilizza il suono, la musica e il movimento
per provocare effetti regressivi e aprire canali di comunicazione, con l'obiettivo di attivare, per
loro tramite, il processo di socializzazione e di inserimento sociale"(29).
Più problematica la posizione di Léon Bence e Max Méreaux: “ Adottare questo termine è stata
una vera presa di potere medico su un sistema che sino ad ora si iscriveva, come uno straordinario
contenitore, tra il poetico ed il leggendario, tra lo scientifico e l’intuitivo……La musicoterapia può
qualificarsi come moderna quando viene a non dipendere più da nozioni empiriche, o rituali,
ovvero quando queste vengono sostituite da un protocollo scientifico che impone ricerche chiare,
che stabiliscano in modo indubbio gli effetti della musica, del suono e del ritmo su di un organismo
vivente e più precisamente sull’uomo”(30). Di qui l’esigenza di utilizzare esperienze cliniche e
biologiche, test paraclinici, osservazioni mediche rigorose, dati anatomo-fisiologici, ricerche
tecnologiche e metodologiche sul piano medico e musicale, di possedere un approccio all’impatto
fisiologico della musica e di stendere un protocollo terapeutico che precisi le indicazioni, le
controindicazioni, i limiti del metodo, le eventuali associazioni con terapie complementari.
Riferita principalmente al ventaglio delle situazioni teoriche e pratiche della materia è la
definizione di Pier Luigi Postacchini, uno dei più noti studiosi italiani di essa:” La musicoterapia è
una tecnica mediante la quale varie figure professionali, attive nel campo della educazione, della
riabilitazione e della psicoterapia, facilitano l’attuazione di progetti d’integrazione spaziale,
temporale e sociale dell’individuo, attraverso strategie di armonizzazione della struttura
funzionale dell’handicap, per mezzo dell’impiego del parametro musicale; tale armonizzazione
viene perseguita con un lavoro di sintonizzazioni affettive, le quali sono possibili e facilitate grazie
a strategie specifiche della comunicazione non verbale”(31).
Negli Stati Uniti la formulazione più comune è quella pragmatica e sintetica della NAMT
( Associazione Nazionale per la Musicoterapia) : “La musicoterapia è l’uso della musica per la
realizzazione di fini terapeutici: il ristabilimento, il mantenimento ed il miglioramento della salute
fisica e mentale”. E ancora: “La musicoterapia è un processo sistematico di intervento ove il
terapeuta aiuta il cliente a migliorare il proprio stato di salute, utilizzando le esperienze musicali
ed i rapporti che si sviluppano attraverso di esse come forze dinamiche del cambiamento”(32).
Dalle citazioni appare evidente la ricchezza di implicazioni che ha la materia quale corpo di
conoscenze fondato sull’arte, sulla scienza e sul processo interpersonale, quale terapia di
trattamento e quale disciplina professionale.
Riprendiamo l’impostazione di Benenzon, che rimane fondamentale. La musicoterapia studia e
ricerca il complesso suono-essere umano, che è fatto di vari elementi:
a) quelli capaci di produrre suoni (la natura, il corpo umano, gli strumenti musicali od elettronici);
b) gli stimoli quali il silenzio o i suoni interni del corpo, i suoni musicali, i ritmi, le melodie, i
movimenti, i rumori, gli ultrasuoni, gli infrasuoni, le parole;
c) le vie di propagazione delle vibrazioni con le loro leggi fisiche (le onde sonore);
d) gli organi ricettori di questi stimoli, quali l’udito ma anche la percezione interna, il tatto, la vista;
e) l’impressione e la ricezione degli stimoli da parte del sistema nervoso, ma anche degli altri
sistemi;
f) la reazione psicobiologica e l’elaborazione della risposta;
g) la risposta che può essere comportamentale, motoria, sensoriale, organica, comunicativa (grido,
lacrime, canto, danza, musica).
Nel processo terapeutico non è utilizzata solo la musica, ma anche il suono nella sua più vasta
accezione ed il movimento. Musica, suono e movimento sono una stessa entità, si identificano
l’uno con l’altro fino a diventare una stessa cosa.
Gli elementi diagnostici derivano dal fatto che gli stimoli sonori o musicali possono suscitare
manifestazioni organiche o psicologiche più significative, sul piano dell’approfondimento delle
dinamiche personali, di stimoli visivi o tattili.
Trovati gli elementi di diagnosi e commisurandoli con gli aspetti del quadro clinico individuale, si
passa poi alla scelta e all’adozione del metodo terapeutico, la cui attenzione è affidata a specialisti
paramedici, perché la musicoterapia è una sorta di ancella della medicina. Insieme con altre
tecniche terapeutiche, come la fono-audiologia, l’ergoterapia o la psicomotricità, essa collabora
con la medicina allo scopo dell’inserimento del paziente nella società e della prevenzione di
malattie fisiche o mentali. Struttura e sviluppo della psicoterapia devono perciò essere sottoposti
al controllo e alla supervisione della scienza medica, da un lato, e dalla scienza psicologica,
dall’altro. Lo stesso Benenzon, che nel suo manuale più famoso sembra pendere in favore della
scienza medica, nei suoi scritti più recenti rivaluta l’aspetto psicologico e parla di una supervisione
affidata sostanzialmente ad un esperto di psicologia(33).
Nell’uso del suono e del movimento, considerando il piano terapeutico come un processo bipolare
paziente-terapeuta, si evidenzia che la presenza del movimento si realizza, è vissuta o
sperimentata in entrambi i componenti del processo stesso. E suono e movimento hanno come
scopo di produrre nel paziente effetti regressivi, o effetti totalmente contrari.
Nella generalità dei casi, però, musica e suoni provocano effetti regressivi e aprono vie di
comunicazione che hanno l’obiettivo di facilitare il processo di apertura o di reinserimento del
paziente nel sociale.
Esistono due tipi di regressione, quella da fasi adulte a fasi infantili della sessualità e la regressione
al narcisismo primario, cioè alla fase di sviluppo che precede la differenziazione dell’IO e dell’ES.
Questo secondo tipo di regressione blocca l’IO. Nascono processi tipici come le schizofrenie, le
psicosi infantili, l’autismo, la simbiosi. I soggetti che ne soffrono regrediscono ad uno stadio
anteriore all’esistenza dell’ambiente esterno e si rifiutano di stabilire qualsiasi contatto con esso.
Il suono, la musica, il movimento sono elementi tipici di comunicazione in questo stadio primitivo
di sviluppo. Essi permettono di comunicare con oggetti indifferenziati e sono
contemporaneamente percepiti come fenomeni gestaltici, cioè d’insieme. Usati opportunamente
dal terapeuta, questi strumenti sono dunque in grado di staccare il paziente dal suo blocco
originario, di comporre la frattura tra IO ed ES, di stabilire o di ristabilire gradualmente il contatto
con gli oggetti esterni, di favorire l’inizio o la ripresa dei processi di comunicazione.
Il principio che meglio di ogni altro chiarisce i termini della soggettività dell’ascolto è il concetto di
ISO, concepito da Benenzon sulla scorta dei rilievi “omeopatici” di Altshuler e fatto proprio dalla
quasi totalità degli indirizzi musicoterapici.
Numerose osservazioni cliniche hanno indotto Altshuler a postulare che i depressi sono stimolati
più rapidamente da musiche tristi che da musiche allegre e, viceversa, che i maniaci e gli eccitati si
calmano più presto con un “allegro” che con un “andante”(34). In altri termini, il principio
fondamentale dell’omeopatia: similia similibus curentur.
Scrive Benenzon: “ISO vuol dire uguale e sintetizza la nozione di esistenza di un suono o di un
insieme di suoni o di fenomeni sonori interni che ci caratterizzano e ci individualizzano”(35) . ISO
uguale identità sonora, non rigida ma in perpetuo farsi. È un fenomeno che riassume il nostro
vissuto sonoro dalla gestazione, dalla nascita, dall’infanzia sino alla nostra età attuale. L’ISO non è
un insieme di elementi, ma è, gestaltianamente, un tutto. Non è un insieme di sensazioni
elementari, ma una sensazione globale. È il “tempo” mentale dell’uomo, l’immagine sonora che lo
identifica.
In musicoterapia il tempo mentale del paziente deve coincidere con il tempo musicale scelto dal
musicoterapeuta, che opera per aprire o riaprire i canali di comunicazione. L’ISO è un concetto
dinamico, in costante cambiamento, che si nutre dei processi di comunicazione dell’individuo. In
questo - chiarisce Benenzon - si distingue dagli archetipi di Jung e dall’imprintig di Lorenz. E l’unico
modo per aprireun efficace canale di comunicazione con un altro essere è appunto quello di
iniziare il contatto imitando l’altro o facendo qualcosa di uguale all’altro. Ecco il concetto mutuato
dall’omeopatia.
Benenzon distingue cinque tipi di ISO: universale, gestaltico, complementare, culturale, gruppale.
L’ISO universale rappresenta l’identità sonora che caratterizza tutta la specie umana, ereditata
geneticamente per millenni, indipendentemente dalle variabili prodotte dal contesto sociale,
storico, culturale, psicologico e fisiologico.
L’ISO gestaltico è la globalità delle caratteristiche sonore e in perpetuo divenire che connota
musicalmente ogni individuo.
L’ISO complementare rappresenta la fluttuazione momentanea dell’ISO gestaltico per effetto di
circostanze ambientali specifiche.
L’ISO culturale è costituito dai movimenti energetici sonoro-musicali che si formano a partire dalla
nascita, quando l’individuo riceve gli stimoli sonori dell’ambiente che lo circonda.
L’ISO gruppale è strettamente connesso all’identità sonora di un determinato gruppo di persone.
Esso porta direttamente al concetto di identità sonora etnica e culturale e discende dai processi di
apprendimento della propria cultura musicale.
Si ricava subito che le due accezioni fondamentali della teoria sono l’ISO gestaltico e l’ISO gruppale.
Dice Benenzon: “ L’ISO gestaltico è il mosaico dinamico che ho descritto per primo e che
caratterizza l'individuo; è l'ISO che ci consente di scoprire quello che è il canale di comunicazione
per eccellenza del soggetto, col quale cerchiamo di instaurare una relazione terapeutica”, mentre
“l’ISO gruppale è intimamente connesso allo schema sociale all’interno del quale l’individuo evolve.
Occorre un certo lasso di tempo perché l’ISO gruppale si instauri e si strutturi: dipenderà spesso
dalla buona composizione del gruppo e dalla conoscenza dell’ISO individuale di ciascun paziente
da parte del musicoterapeuta. L’ISO di gruppo è fondamentale allo scopo di raggiungere una unità
di integrazione in un gruppo terapeutico in un contesto non verbale. L’ISO gruppale è una
dinamica che pervade il gruppo come sintesi stessa di tutte le identità sonore”(36).
C’è, insomma, una stretta relazione tra musicoterapia, antropologia e etnomusicologia. Grebe
afferma: “ L’ISO gruppale è l’identità sonora di un gruppo umano, in quanto prodotto dalle affinità
musicali latenti sviluppate in ciascuno dei suoi membri”(37).
L’ISO gruppale raccoglie quindi fattori di identità culturale etnica che non possono essere disgiunti
dall’identità sonora e le due identità dipendono sia dai processi culturali che dalla stabilità o
velocità di cambiamento di essi. Mentre i fattori psicofisiologici, di suono e di movimento dell’ISO
gruppale dipendono, in ultima istanza, dall’ISO gestaltico di ciascun individuo.
Attraverso questo intreccio di rappresentazioni e rimandi percettivi il suono assume la funzione di
oggetto intermediario di comunicazione nelle terapie sia singole che di gruppo.
La nozione di oggetto intermediario è ricavata da ciò che la psicologia dello sviluppo definisce
oggetto transizionale, la cui necessità si profila quando il bambino deve affrontare le prime prove
della realtà. E’ un qualcosa che lo rassicura nella fase di passaggio dalla prima alla seconda infanzia.
Può essere una bambola, un cordino, un “ciucciotto” o proprio un motivo musicale ( molti bambini
canticchiano prima di imparare a parlare e lo fanno spesso prima di addormentarsi per sentirsi più
tranquilli).
Nella fase adulta si ha sempre il bisogno, più o meno inconsciamente, di un oggetto transizionale,
quando l’equilibrio psichico vacilla ( una penna con cui giocherellare, un foglio di carta da ripiegare,
un mazzo di chiavi da stringere in mano, un motivetto da fischiettare).
L’oggetto transizionale, o intermediario, attiva una manipolazione magica che ci difende
dall’angoscia.
Dice Benenzon: “ Un oggetto intermediario è uno strumento di comunicazione in grado di agire
terapeuticamente sul paziente in seno alla relazione, senza dar vita a stati di allarme intensi”(38). E
richiama l’uso che dello stesso termine fa nello psicogramma Rojas Bermudez.
Questo studioso confrontò i risultati che otteneva nello psicodramma con tutti pazienti-attori con
quelli che registrava utilizzando anche delle marionette ricavandone che nel secondo caso la cura
risultava più efficace. I messaggi delle marionette, in altri termini, ottenevano risposte che il
terapeuta non era in grado di ottenere quando l’emittente era solo un essere umano.
Bermudez evidenziò lo stesso fenomeno in tutte le situazioni di intenso allarme per il paziente,
nelle quali si verificano turbe dello schema corporeo. In tutti i casi, a determinare la risposta, era il
timore del paziente di essere penetrato dalla fonte emittente. Questo timore esisteva quando la
fonte aveva sembianze umane, non esisteva con le marionette. Queste, cioè, costituivano per il
paziente un oggetto inoffensivo e quindi risultavano terapeuticamente utilizzabili ed efficaci(39).
Da qui la definizione di oggetto intermediario. La marionetta, che ha qualità di oggetto-cosa e
funzione di agente intermediario di comunicazione, permette di operare terapeuticamente sul
paziente senza provocare stati di intenso allarme.
L’oggetto intermediario deve avere, secondo Rojas Bermudez, le seguenti caratteristiche:
- esistenza reale e concreta;
- innocuità: non deve creare allarme;
- malleabilità: può essere utilizzabile per qualsiasi ruolo;
- adattabilità : si conforma ai bisogni del soggetto;
- è un trasmettitore che comunica sostituendosi al legame umano e
mantenendo la distanza;
- è assimilabile a se stessi, perché consente una relazione molto
intima;
- è strumentale: può essere usato come prolungamento del soggetto;
- è identificabile: può essere riconosciuto immediatamente.
Secondo Benenzon, sono oggetti intermediari gli strumenti musicali e i suoni che essi emettono,
giacché posseggono quasi tutte le caratteristiche enunciate da Bermudez, ma con alcune
fondamentali differenze rispetto alle marionette.
Nella marionetta, l’emissione sonora parte direttamente dallo psicodrammista. Lo strumento
musicale ha in sé la fonte di emissione sonora, che lo caratterizza e gli è propria,
indipendentemente dal terapeuta.
La marionetta è un oggetto senza vita, che può essere solo oggetto delle proiezioni del paziente.
Lo strumento, suonato da uno dei membri della relazione terapeutica, esprime immediatamente
la propria identità sonora, ma è in vibrazione anche se non è toccato e può facilmente entrare in
vibrazione alla prima emissione sonora.
La distanza che esiste tra lo strumento musicale e il musicoterapeuta consente di accostarsi molto
intimamente all’ISO del paziente e dello stesso terapeuta. Dipenderà dall’abilità del terapeuta
nell’identificare l’identità sonora o ISO gestaltico del paziente la scelta più corretta dell’oggetto
intermediario (strumento musicale) da usare.
“ L’oggetto integratore è lo strumento musicale che in un gruppo di musicoterapia prevale sugli
altri strumenti e assorbe in sé la dinamica del legame tra i pazienti del gruppo e il terapeuta” (40).
Sono due, quindi, le caratteristiche che fanno di un normale oggetto intermediario un oggetto
integratore. La prima caratteristica è che il suo suono sia più forte, chiaro e percepibile rispetto al
suono di altri strumenti. Benenzon indica gli strumenti a percussione, in particolare i tamburi, e i
membrafoni, il cui suono è prodotto da una membrana tesa sopra un’apertura.
La seconda caratteristica è la capacità dello strumento di concentrare attorno al suono
l’attenzione degli ascoltatori. Deve esercitare, cioè, un effetto di trascinamento. E non a caso gli
strumenti integratori sono quelli preferiti dai leaders dei gruppi di musicoterapia.
L’oggetto integratore è connesso anzitutto all’ISO gruppale e poi a quello culturale. Scrive Grebe:
“ L’identità sonora profonda del paziente (ISO), il processo di apprendimento culturale
(endocultura) e la valorizzazione della propria cultura (etnocentrismo) occupano un posto diverso
nella determinazione delle diverse variabili culturali relative alla pratica della musicoterapia. Si
deve tener conto della qualità complessa dell’ISO, comprendente attributi individuali e collettivi di
ordine psicofisiologico, culturale e musicale, poiché la musica fa parte della cultura e quest’ultima
è prodotto del lavoro creativo dell’essere umano, la cui ricettività dipende dalla maturazione
psicofisiologica e da altri fattori quali lo sviluppo musicale. Il principio dell’ISO viene dunque a
collocarsi in un vasto contesto culturale, nel quale rivestono un ruolo decisivo la qualità
dell’endocultura e l’etnocentrismo musicale”(41).
Aggiunga Benenzon: “La doppia dimensione individuale e culturale della musicoterapia produce
una catena di relazioni verticale, diagonale e orizzontale, nella quale la cultura e l’individuo
rappresentano i punti chiave dell’espansione e i punti di convergenza dell’ISO culturale, dell’ISO
gruppale e dell’ISO gestaltico”(42).
In questo processo s’inserisce l’uso dell’oggetto intermediario e dell’oggetto integratore. La scelta
del primo dipende soprattutto dall’ISO gestaltico, la scelta del secondo dall’ISO gruppale e
culturale.
La seduta rappresenta il culmine e la parte attiva della musicoterapia e può essere guidata da un
musicoterapeuta o da un musicoterapista sotto la direzione del primo.
In ogni fase o momento di essa l’operatore deve dimostrare un atteggiamento sia fisico che
psicologico estremamente positivo e aperto nei confronti del paziente o dei pazienti del gruppo.
Deve ascoltare e capire senza mai esprimere giudizi morali o di valore, ma cercando anzi di dare
valenza positiva a ciò che emerge sia nel contesto verbale che in quello non verbale.
La comunicazione in un contesto non verbale, come quello in cui prevalentemente si applica la
musicoterapia, risulta particolarmente forte perché di tipo analogico. Posizione, gesti, espressione
facciale, inflessione della voce, sequenze, ritmi e cadenze sono gli indicatori fondamentali di essa,
ai quali l’operatore deve prestare la massima attenzione per indirizzare il trattamento nella
direzione voluta, per la scelta degli strumenti e dei brani da seguire.
Altro concetto da tenere a mente è la regolarità. Il trattamento comprende un inizio, uno
svolgimento e una fine, attuati attraverso un determinato numero di sedute, variabile a seconda
dei casi. Regolari dovranno essere gli incontri, a cadenza fissa e ad orari prestabiliti. Le assenze
eventuali dell’operatore dovranno essere pianificate con largo anticipo, preparando i pazienti
affinchè non le vivano in modo traumatico o con un senso di abbandono.
Tutte le informazioni verbali, le circostanze e le tematiche che emergono nel corso delle sedute
devono essere coperte da estrema riservatezza. Anche ai genitori, ai quali l’operatore riferisce
periodicamente il lavoro che va compiendo con i pazienti di minore età, dovranno essere taciuti
episodi o fatti che per i loro figli potrebbero risultare imbarazzanti. Il clima di fiducia ed anche di
complicità che si crea tra terapeuta/ista e i pazienti è un presupposto indispensabile del buon
esito della terapia. Le tappe più consuete di ogni seduta sono le seguenti. - Le consegne. Sono
l’insieme dei meccanismi dinamici, ovvero lo spazio, il tempo, gli strumenti, la preparazione
dell’ambiente e tutte le possibilità espressive del suo corpo, che l’operatore mette in essere prima
e durante la seduta al fine di produrre, stimolare e avviare la relazione col paziente. Ogni consegna
può essere:
a) verbale direttiva ( sedetevi per terra attorno agli strumenti, sceglietene alcuni e suonate);
b) verbale semidirettiva ( scegliete uno strumento ed esprimetevi);
c) verbale non direttiva ( potete scegliere gli strumenti ed improvvisare liberamente);
a) non verbale direttiva (il terapeuta/ista sceglie uno strumento e si mette a suonare, il paziente lo
ascolta e lo imita);
b) non verbale semidirettiva (l’operatore fa un gesto con la mano per indicare tutti gli strumenti);
c) non verbale non direttiva (l’operatore non si muove e non parla, limitandosi a mantenere un
atteggiamento di osservazione, contenimento e attenzione).
- Imitazione. Il musicoterapeuta/ista prova l’eco ritmica, cioè risponde in modo esattamente
uguale a ciò che esprime il paziente, suonando lo stesso strumento o un altro simile; il significato
di tale comportamento è che egli ha ascoltato e compreso il paziente.
- Imitazione parziale. Il musicoterapeuta/ista accompagna la manifestazione espressiva del
paziente e risponde imitandolo, ma in un’altra tonalità o modificando alcuni aspetti o parametri
della produzione sonora.
- Domande e risposte. Il paziente si esprime e il terapeuta/ista risponde con altre sequenze o altre
produzioni sonore con altri strumenti.
- Associazioni corporeo-sonoro- musicali.
Il terapeuta/ista è sollecitato a espressioni o produzioni sonore dall’impatto con il fenomeno
comunicativo.
Finita la fase attiva, cioè musicale, della seduta, si chiede al paziente o ai pazienti, se la terapia è
stata di gruppo, di esprimere i propri vissuti relativi all’esperienza appena compiuta. Ai soggetti
che non sono in grado di verbalizzare l’operatore fornisce particolari codici sonoro – musicali sia
per segnalare loro la fine della seduta sia perché esprimano anch’essi il loro parere. Ed è proprio
con questi soggetti, ad esempio gli autistici, che è possibile verificare e costantemente arricchire il
paradigma dei complessi meccanismi psichici della comunicazione non verbale.
Nel nostro inconscio esiste un moto continuo di energie che tendono a scaricarsi e che sono
assoggettate ai principi di quello che Freud ha definito processo primario .
Questo processo è atemporale, non ha né passato né futuro ma è solo presente. Non basandosi
sul principio di contraddizione, in esso non ci sono affermazioni né negazioni, ma tutto è. Non è
governato da criteri logici, ma prelogici.
Appartiene al processo primario la prima fase delle sedute di musicoterapia. Gli eventi sono privi
di ambiguità, sono presenti e basta, anche quelli negativi, non compare il vincolo del principio di
contraddizione. Dunque, il contesto non verbale riesce ad ottenere un forte impatto sull’inconscio
del paziente, tale da scaricare le energie sonore che formano l’ISO universale e quello gestaltico.
Queste energie passano poi al livello del preconscio, dove Freud colloca il processo secondario, nel
quale compare l’elemento tempo. Tutto si ricompone cronologicamente, le energie si strutturano
logicamente e diventano tali da poter passare al livello della coscienza e di essere trasmesse.
Interviene qui il filtro dei meccanismi di difesa dovuti all’ISO complementare, che dovranno essere
percepiti ed attentamente vagliati dal musicoterapeuta/ista per poter tentare un’integrazione con
l’ISO del paziente. Aiutato dalla propria formazione ed esperienza, egli elaborerà intuitivamente il
miglior progetto per aprire un canale di comunicazione, che scaturirà dall’impatto con i messaggi
non verbali del paziente. Toccato nel proprio ISO da questi messaggi, egli rielaborerà a livello
cosciente una risposta obiettiva in funzione della discriminazione del proprio ISO riconosciuto e di
quello del paziente.
La discriminazione è possibile perché nel contesto non verbale la ripetitività dei messaggi ne
consente il riconoscimento. La risposta rielaborata dall’operatore ha per obiettivo quello di
incrociare l’ISO complementare e quello gestaltico del paziente e quindi di aprire un dialogo
terapeutico.
Stabilito il canale di comunicazione, si entra nel pieno del progetto terapeutico, nel corso del quale
si lavora per restituire al paziente la rielaborazione di modelli dinamici del suo psichismo, delle sue
interrelazioni, e per offrirgli anche sensazioni gratificanti facendogli rivivere situazioni inconsce
ricche di preziose informazioni. Si innescano, cioè i processi regressivi.
Trova qui applicazione il principio in base al quale, di fronte a una situazione di fallimento,
l’individuo produce una sorta di congelamento della situazione, sblocca e rafforza il proprio IO e gli
consente una nuova sperimentazione che lo porterà finalmente ad adeguarsi ad essa.
Il fenomeno della regressione, che in psicanalisi aiuta i nevrotici a superare difficili conflitti
ambientali, in musicoterapia, di fronte a psicotici gravi, autistici ed anche malati in stato comatoso,
dà all’operatore la possibilità di porsi al loro stesso livello. In questo modo, si produce una sorte di
maternalizzazione attiva, che permetterà ai pazienti di modificare le strutture dell’IO e di
progredire.
Con la regressione si produce il cosiddetto “processo terziario”. Il musicoterapeuta/ista ascolta,
osserva e percepisce lo svilupparsi, mediante gli strumenti, di fenomeni di transfert del paziente: ci
sono soggetti per i quali il pianoforte può rappresentare la madre, o le vibrazioni gravi del
violoncello la voce del padre.
Il rapporto di odio-amore che il transfert induce nelle sedute psicoanalitiche tra paziente e analista,
in musicoterapia può manifestarsi attraverso l’imitazione, da parte del paziente, dell’espressione
sonoro-misicale dell’operatore o una diversa espressione musicale, oppure un certo gesto, un
cambio di posizione o di movimento, un cambio di odore, un movimento degli occhi o altro ancora.
Tutte queste manifestazioni provocheranno al musicoterapeuta/ista fenomeni di controtransfert,
dovuti alla percezione dell’impatto che il transfert ha avuto nel suo inconscio. Questa sensazione
controtransferenziale può essere percepita e resa cosciente solo se il musicoterapeuta/ista ha
permesso a se stesso di regredire, insieme col paziente, a quel passato che torna in quel momento
della seduta. E allora l’operatore avvertirà il bisogno di esprimersi con una produzione ritmica e
melodica in funzione del contesto non verbale che in quel momento intercorre col paziente. Il
professionista non può non cogliere queste occasioni in cui il paziente si libera delle proprie
angosce tramite la relazione non verbale che gli è più familiare per guidarlo e orientarlo nella
ricerca di forme non distorte di comunicazione.
Il lavoro in un contesto non verbale diventa più faticoso nelle sedute di gruppo. Benenzon ritiene
che un gruppo non possa comportare più di sei pazienti. Altri autori si spingono a prevedere sino a
otto pazienti. In questi casi è necessaria la figura di un coterapeuta. Aumentando il numero dei
pazienti in una seduta, aumenta nella stessa proporzione, oltre al dispendio di energia, la ricerca di
oggetti intermediari e la molteplicità di oggetti integratori. Di solito, i due operatori si dividono i
compiti: uno si dedica alla dimensione gruppale della seduta, l’altro interviene a livello dei singoli.
L’opzione tra terapia individuale e terapia di gruppo dipende dalla personalità e dalla patologia del
paziente ed è legata soprattutto al livello evolutivo del soggetto che deve essere sottoposto a
trattamento.
Quanto alla composizione dei gruppi si propende ora a costituirli con pazienti affetti da patologie
diversificate, per i quali il confronto e l'interazione con gli altri può rappresentare un’arma in più
dello strumento terapeutico. Per certi tipi di patologie, come ad esempio tossicomania e alcolismo,
è preferibile invece un raggruppamento di tipo omogeneo.
Al termine di ogni seduta, sia individuale che di gruppo, come al termine di ogni trattamento, è
utile redigere un resoconto degli eventi per riflettere sui molteplici aspetti dell’azione diagnostica
e terapeutica, ai fini di migliorarla.
Obiettivo di fondo di ogni trattamento musicoterapico è quello di produrre nel paziente un
cambiamento che gli consenta di “rielaborare ex novo la propria vita, aumentandone l’autonomia,
l’autostima, la forza dell’IO”(43). Questo fine accomuna la musicoterapia e tutte le altre forme di
impiego della musica a scopo non strettamente terapeutico, come la musica per rilassarsi, la
musica antistress ascoltata nel chiuso della propria stanza, la musica pedagogica usata a scuola per
veicolare le emozioni, la fantasia e la creatività degli alunni.
Il rilievo consente anche di intendersi ulteriormente sulla distinzione che ancora permane tra
musicoterapia passiva e musicoterapia attiva.
La prima, che utilizza soprattutto l’ascolto, viene usata nell’ambito della cura dei disturbi nevrotici
e per avviare, come abbiamo visto, i procedimenti psicoterapeutici a uso clinico. La seconda, che
consiste nell’indurre l’uso degli strumenti musicali, della voce e del canto, viene applicata per
ottenere miglioramenti nei soggetti con gravi disturbi psicofisici ed ha uno scopo principalmente
riabilitativo-socializzante.
“ Questa differenza concettuale esiste però più nella teoria che nella pratica: predomina sempre
infatti il forte strumento comunicativo che la musica rappresenta all’interno della relazione che
intercorre tra terapeuta e paziente”(44).
E’ questa lettura delle applicazioni musicoterapiche e, in genere, della fruizione musicale, che mi
sembra più utile a proposito dei risultati a cui mira l’impiego musicoterapico.
Quello complessivo è il ripristino, nei pazienti, della consapevolezza mentale di sé e dei propri
affetti, che è caratteristica di ogni personalità armonica ed integrata. Ed è il risultato finale di un
processo che trae la sua origine nell’esperienza delle emozioni e degli affetti a partire dai vissuti
corporei e che poi “si sviluppa in una capacità di discriminazione cognitiva e affettiva che sempre
meno esperisce in modo globale (corpo-mente) i vissuti emotivi e sempre più trasferisce a livello
mentale (simbolico) i significati delle varie esperienze, nelle quali, tuttavia, la dimensione corporea
rimane profondamente, anche se per lo più inconsapevolmente, coinvolta”(45).
A questo risultato finale la musicoterapia tende attraverso la combinazione di tre obiettivi specifici,
che sono l’integrazione, l’armonizzazione e la sintonizzazione della personalità del paziente.
a) Integrazione – Una personalità integrata presuppone che all’interno dell’individuo ci sia una
chiarificazione tra mondo interno e mondo esterno, che si costituisce nello spazio, nel tempo e
nelle relazioni sociali, seguendo il modello indicato da Leon e Rebeca Grinberg (46).
L’organizzazione sul piano spaziale realizza la prima chiara distinzione tra sé e non sé, ossia la
capacità di confrontarsi con gli oggetti esterni e di stabilire differenze. E’ un processo che,
superando la frammentazione dei primi mesi, si evidenzia nei primi anni di vita, quando il bambino
acquista la consapevolezza di occupare una propria posizione nello spazio. E’ il processo che, in
musicoterapia, viene indotto dal fenomeno della regressione.
Successivamente avviene l’integrazione temporale, un processo più lungo del precedente. Con
esso si passa dalla dimensione dell’essere, simboleggiata dal legame materno, a quella del divenire,
simboleggiata dal legame paterno e dal superamento del complesso edipico.
L’individuo rappresenta se stesso in maniera stabile nonostante i cambiamenti che segnano la sua
esistenza. Nei pazienti sottoposti a terapia la musica, sbloccando l’IO, attiva questa fase.
La terza fase è quella dell’integrazione sociale. Stabilito il canale di comunicazione con il terapeuta,
il paziente comincia ad attuare correttamente il processo relazionale “io/altri”, comincia ad avere
la consapevolezza di essere un individuo capace di confrontarsi con gli altri individui senza sentirsi
minacciato.
b) Armonizzazione – La terapia tende ad armonizzare anzitutto gli analizzatori sensoriali e motori.
Non si privilegia una singola funzione sensoriale o un singolo movimento, ma si mira piuttosto ad
integrare ogni singola funzione nell’organizzazione mentale complessiva del paziente, in modo che
acquisti una fluidità accettabile nel rimando dal sensoriale al motorio e, nell’ambito del primo, dal
visivo al tattile, dal tattile all’olfattivo; e così di seguito.
La seconda fase riguarda il passaggio dalla percezione senso-motoria a quella della elaborazione
mentale. La musica, udita o agita, aiuta il soggetto a conseguire un’adeguata rappresentazione
della vita affettiva, che integri sensazioni corporee, cenestetiche, stati emotivi e sentimenti. Il
dualismo mente/corpo lascia gradualmente il posto alla possibilità di inserire le sensazioni
corporee negli schemi mentali.
Spuntano gradualmente i simboli, si uniscono i sentimenti alle percezioni sensoriali e alle
esperienze di movimento. Si rafforza e si armonizza il proprio mondo interno, si impara e si
comincia ad armonizzarsi con quello esterno.
c) Sintonizzazione – E’ la tecnica attraverso cui si persegue l’obiettivo tattico dell’armonizzazione e
quello strategico dell’integrazione della personalità. Secondo Stern, le sensazioni sono il
fondamento di qualsiasi modalità di comunicazione non verbale(47). La musica può essere
considerata quindi il volano di queste modalità. Ci possono essere sintonizzazioni esatte, da
intendersi come imitazioni identiche del comportamento; sintonizzazioni inesatte, intese come
variazioni temporali e formali rispetto allo stimolo presentato dal paziente; sintonizzazioni di tipo
sinestetico, cioè traduzioni transmodali, nel senso che trascendono le tipiche modalità sensoriali,
che colgono la sostanza affettiva del comportamento. E’ a quest’ultimo tipo di sintonizzazioni che
punta prevalentemente l’attività terapeutica, perché sono proprio le sintonie gestaltiche che esse
producono a chiudere il cerchio della costruzione o della ricostruzione della personalità del
paziente.
Per concludere, e per tornare al gioco e ai media, cioè al tema centrale del convegno: la terapia
musicale finisce per essere una sorta di teatro della mente, come recita anche il titolo di una delle
relazioni iniziali dei nostri lavori. Nel rapporto terapeuta-paziente si innesta un gioco, ossia una
rappresentazione della mente e dello spirito. Rappresentare è forse la forma più alta del
comunicare. Attraverso il gioco musicoterapico si impara o si riprende a comunicare, si comincia o
si ricomincia, in definitiva, a muoversi nel mondo.

NOTE:

1 Bence L. e Méreaux M., Musique pour guerir, Van de Velde, Fondettes, 1988; trad.it.di A.
Conciato,
Musicoterapia, Xenia, Milano, 1990.

2 Tomatis A., Ecouter L’univers, Robert Laffon, Paris, 1995; trad. it. di L. Merletti, Ascoltare
L’universo, Baldini e
Castoldi, Milano, 1998.

3 Eliade M.,Le Chamanisme et les techniques arcaiques de l’extase , Payot, Paris, 1951; trad. it. di J.
Evola, Lo sciamano e le tecniche dell’estasi, Mediterranée, Roma, 1974.

4 Bence L. e Méreaux M. Op. cit

5 Cabutto M. ,La musicoterapia, Xenia, Milano,2000.

6 Campbell D., The Mozart effect, Don Campbell, 1997, trad. it. di L. Merletti, L’effetto Mozart ,
Baldini e Castoldi, Milano, 1999.

7 Schneider M., Il significato della musica, Rusconi, Milano, 1979.

8 Fornari F. , Psicoanalisi della musica, Longanesi, Milano, 1984.

9 Jervis G. , Fondamenti di psicologia dinamica, Feltrinelli, Milano, 1993.

10 Vizziello, I prerequisiti affettivi del linguaggio, Icaro, 1985.

11 Bruscia K., Defining music therapy, Barcelona Publisher, Phoenixville, 1989; trad. it. Definire la
musicoterapia, Ismez, Roma, 1993.

12 Watzlawick J. P., Beavin J., Jackson D., Pragmatics of human communication, Norton & Co.,
New York, 1967; trad. it. Pragmatica della comunicazione umana , Astrlabio, Roma, 1971.

13 Della Casa, La ricerca in semiologia, La scuola, Brescia, 1980.


15 Lostia , Musica e psicologia, Franco Angeli , Milano, 1989.
a Casa, Op. cit..

16 Dell14 Chomsky N. , Strutture della sintassi, Laterza , Bari, 1974.

17 Morris C. H., Segni, linguaggio e comportamento, Longanesi, Milano, 1963.

18 Bence L. ,Méreaux M. ,Op. cit..

19 Campbell D., Op. cit..

20 Vygotskiy L. S., Pensiero e linguaggio (1934), Giunti Barbera, Firenze, 1966.

21 Freud S., Introduzione alla psicanalisi, Bollati-Boringheri, Torino, 1978.

22 Révész G., Psicologia della musica, Giunti-Barbera, Firenze, 1954.

23 Imbery M. , Entendre la musique. Semantique psychologique de la musique , Dunod Bordas,


Paris, 1981.

24 Zimbardo P.G.,Elementi di psicologia e vita, Idelson, Napoli, 1984.

25 Benesch H., Atlante di psicologia, trad. it. di Marina Ferraresi, Sperling & Kupfer, Milano, 1995.

26 Petrosino R. S.., Psicologia degli atteggiamenti e delle opinioni, Loffredo, Napoli, 1998.

27 Della Volta A., Dizionario di psicologia, Giunti-Barbera, Firenze, 1974.

28 Izard C.E., Human Emotions, Plenum Press, New York, 1979.

29 Benenzon R., Op. cit.

30 Bénce l., Méreaux M., Op. cit.

31 Postacchini P.L.., Ricciotti A., Borghesi M., Lineamenti di musicoterapia, La Nuova Italia
Scientifica, Roma,
1997.

32 Bruscia K., Defining music therapy, Barcelona Publishers, Phoenixville, 1989; trad. it. Definire la
musicoterapia, Ismez, Roma, 1993.

34 Altshuler I., Four year’s experience with music as therapeutic agent at Eloise hospital, Michigan,
Detroit, The
american psyichiatric associaton, 1943.

35 Benenzon R., Op. cit. (1992).


36 Benenzon R.,ibidem.

37 Grebe M. E., Aspetti culturali della musicoterapia: relazioni tra antropologia, etnomusicologia e
musicoterapia, Rivista Musicale Cilena. 1997, n.139-140.

38 Benenzon R., 0p. cit.

39 Rojas Bermudez J. G., Titeres y psicodrama, Genitor, Buenos Aires, 1970.

40 Benenzon R., Op. cit.

41 Grebe M. E., Op. cit.

42 Benenzon R., Op. cit.

43 Carrozzini R. L., Manuale di musicoterapia immaginativa, E.U.R:, 1991.

44 Castrovilli D., De Lucia F., L’ascolto terapeutico, Xenia, Milano, 1997.

45 Damasio A., The Descarte’s error, trad. it. L’errore di Cartesio, Adelphi, Milano, 1996.

46 Grinberg L., Grinberg R., Identidad y cambio, trad. it. Identità e cambiamento, Armando, Roma,
1976.

47 Stern D. N., La nascita del sé, in Ammaniti, La nasacita del sé, Laterza, Bari, 1989

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