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MiCROSCOPi
Collana diretta da Massimo Temporelli
Che cosa fa la scienza? Che limiti ha la tecnologia? Come stanno
cambiando la società e il nostro mondo?... La collana Microscopi prova a
rispondere a queste e altre domande in modo brillante e non accademico.
Stampa 3D
Stazione futuro
www.hoepli.it
CAPITOLO 1
La rivoluzione degli oggetti
CAPITOLO 2
Tecnologie
CAPITOLO 3
Com’è fatta una stampante 3D
CAPITOLO 4
Come funziona una stampante 3D
CAPITOLO 5
Progettare in 3D
CAPITOLO 6
Le stampanti 3D
CAPITOLO 7
Hacker, maker e open source
CAPITOLO 8
Oggetti
CAPITOLO 9
Lo stato della stampa 3D in Italia
APPENDICE A
Il Manifesto del Culto del Fare
APPENDICE B
Il Manifesto della Riparazione Fai-da-te
APPENDICE C
Le stampanti Sharebot
RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
REFERENZE ICONOGRAFICHE
RINGRAZIAMENTI
CIRCA L’AUTORE
A Eleonora e alla mia numerosa e felice famiglia:
Emma, Samuele e Giona.
Capitolo 1
LA RIVOLUZIONE DEGLI OGGETTI
FAB
Ho incontrato per la prima volta la stampa 3D leggendo un libretto
acquistato assieme a una rivista. Il libretto si intitolava FAB. Dal personal
computer al personal fabricator (Codice edizioni, Torino 2005), ed era
scritto da Neil Gershenfeld. Lo lessi in spiaggia, nell’estate 2007, tra un
giro in surf e l’altro. Lo divorai in pochi giorni, riempiendo il mio taccuino
di appunti. Il libro mi aveva rapito. Raccontava di un laboratorio del MIT di
Boston, chiamato FabLab, dove il professore Neil Gershenfeld, insegnava
come imparare a costruire (quasi) qualsiasi cosa. Il libro descriveva le
macchine e le tecnologie disponibili presso il laboratorio. Esistono
fondamentalmente due metodi per realizzare oggetti: aggiungere materiale o
rimuoverlo. Nel primo caso parliamo di tecnologie additive, nel secondo di
tecnologie sottrattive. Per ognuna di queste due classi di tecnologia esistono
vari tipi di macchine, tra cui anche le stampanti 3D. A quei tempi facevo un
po’ di fatica a comprendere cosa fossero e a immaginarmi che utilità
potessero avere, anche perché erano descritte come macchine dall’aria
molto costosa e quindi inavvicinabili. Il libro però mi aveva colpito perché
invogliava a usare queste macchine per realizzare qualche cosa. Tornato
dalle vacanze, lo misi da parte, ma le idee contenute nel libro continuavano
a tornarmi in mente.
Alcuni anni dopo, assieme a due amici, provai a dare vita a un’azienda,
una startup: si chiamava “Frankenstein Garage”, e voleva essere uno dei
primi laboratori in Italia sull’esempio di quello del MIT, ispirandoci a
quanto raccontava Neil Gershenfeld nel suo libretto. A Milano non esisteva
nulla di simile ma l’idea piaceva a tutte le persone cui ne parlavamo; non
era però facile trovare un posto e i finanziamenti necessari per fare partire il
laboratorio, soprattutto per tre ragazzi squattrinati.
FabLab
Neil Gershenfeld un giorno si accorse che i suoi studenti erano abilissimi
con le formule matematiche e i computer, ma vivevano in un mondo
virtuale. Erano stati spinti in questa direzione dal sistema scolastico che, nel
tempo, si era modificato in modo da selezionare due tipi di studenti: quelli
destinati ai lavori manuali, e quelli più portati per i lavori intellettuali. Alle
università arrivavano i secondi, e non importava se sapessero o no tenere in
mano un cacciavite.
Al MIT però si fa ricerca, anche pratica, e capita spesso che non sia
sufficiente simulare tutto con un computer: a volte è necessario realizzare
macchinari o oggetti reali. Come fare per insegnare ai ragazzi a costruire le
cose, e a riappropriarsi della manualità che era stata loro sottratta?
Gershefeld s’inventò un corso che battezzò “Come costruire (quasi)
qualsiasi cosa”. Era l’anno 1998, e il corso aveva solo dieci posti: andarono
tutti esauriti. Era costituito da una quindicina di lezioni in cui si imparava a
conoscere le tecnologie fondamentali per creare qualsiasi tipo di manufatto.
C’erano lezioni sull’impiego di macchine utensili controllate da computer,
in grado di tagliare materiali con getti d’acqua, laser, lame, frese; altre
insegnavano le basi dell’elettronica e della programmazione dei
microcontrollori, piccoli computer in grado di contenere interi programmi,
leggere sensori e far muovere gli oggetti con motori e altri dispositivi. Una
lezione era dedicata alle tecnologie additive in cui le macchine depositano
materia, anziché rimuoverla. E quelle in grado di fare queste cose sono le
stampanti 3D. Ai quei tempi costavano parecchie migliaia di dollari, ma
non era un problema perché l’università aveva stanziato qualche milione di
dollari per allestire un laboratorio a supporto di quel corso che fu battezzato
“FabLab”, cioè “Fabulous Laboratory” o “Fabrication Lab”. L’anno dopo
c’era la fila per iscriversi al corso, mentre il FabLab divenne presto famoso
nel campus. Poco dopo si decise di aprirlo al pubblico e di permettere a
chiunque di accedervi. A quel punto la miccia era stata accesa. Questo tipo
di laboratori si moltiplicò in tutto il mondo.
Figura 1.1 − Postazione presso il FabLab di Milano.
La mia generazione è stata quella dei mattoncini LEGO. Negli anni Settanta
erano un gioco molto famoso e diffuso. Grazie ai miei genitori, avevo una
marea di mattoncini di tutti i tipi. Li tenevo raccolti e catalogati in grandi
scatole di legno divise in scomparti, e passavo i pomeriggi scegliendo pezzi
e assemblando astronavi e meccanismi. I LEGO sono ancora uno dei miei
giochi preferiti, e cerco di utilizzarli appena possibile perché si prestano
molto bene come sistema rapido di prototipazione meccanica. Il professor
Isogawa Yoshihito di Tokio, grazie a quarant’anni di esperienza nei famosi
mattoncini, ha scritto ben tre libri sui LEGO Technics e la meccanica (vedi
Bibliografia, pag. 113). In questi libri meravigliosi è possibile trovare ogni
possibile soluzione ai più svariati problemi meccanici. Isogawa ha anche un
canale YouTube dove pubblica dei bellissimi tutorial didattici.
Fino a poco tempo fa, uno dei metodi più rapidi che conoscevo per
costruire qualche tipo di meccanismo era di realizzarlo con i mattoncini
LEGO. Questo perché sono un sistema modulare molto raffinato, con
centinaia di parti differenti già pronte all’uso. Alcuni anni fa è uscita la
linea MindStorm: una versione ipertecnologica per creare dei robot
funzionanti, e dotati di un piccolo computer che si può collegare a motori e
sensori. Molti appassionati hanno intuito la potenzialità dei MindStorm, e
sono andati oltre al gioco: grazie ai motori passo passo, e i sensori inclusi
nel kit, hanno costruito delle macchine vere e proprie. E qualcuno ha
costruito anche una vera stampante 3D.
La plastica viene fusa da una resistenza che raggiunge temperature tra i 180
e i 230 gradi centigradi. L’estrusore è collegato a un motore passo passo o
“stepper”: questo è un particolare tipo di motore elettrico che non ruota, ma
avanza uno scatto alla volta. Per farlo ruotare è necessario fornirgli una
sequenza di scatti da compiere, una caratteristica che gli permette di
compiere movimenti molto precisi.
La plastica
Le plastiche utilizzate nelle stampanti sono chiamate
“termoplastiche” perché si possono fondere con il calore. La
termoplastica è una materia formata da lunghe catene di
atomi di carbonio: riscaldandola alla giusta temperatura è
possibile ammorbidire le catene che si possono piegare senza
spezzarsi; poi, una volta raffreddata, torna a essere rigida.
Questo processo può essere ripetuto molte volte. Dovremmo
essere grati di questa scoperta a uno scienziato italiano,
Giulio Natta, che svolse un ruolo fondamentale nello studio e
lo sviluppo di questi materiali. Per i suoi lavori, Natta vinse
il premio Nobel per la Chimica nel 1963. A lui è dedicata
un’aula al Politecnico di Milano.
Se non avete mai visto una stampante 3D open source, la prima volta che ne
incontrerete una dal vivo resterete probabilmente delusi. Queste macchine
hanno infatti un’aria molto artigianale: addirittura la prima stampante 3D
open source, quella del progetto RepRap descritta nel Capitolo 6,
assomiglia a una specie di impalcatura per tenda canadese, dato che è
costituita da barre filettate che le danno un’aria spoglia e un po’ grezza.
Non appena la stampante inizierà a lavorare, resterete invece rapiti dal suo
funzionamento. E quando l’oggetto prenderà forma, non baderete più al suo
aspetto.
La prima stampante 3D è stata inventata dalla ZCorp nel 1984 (vedi
Capitolo 6): era una macchina coperta da brevetto e molto costosa. La
prima 3D open source è stata creata dal progetto RepRap nel 2005. La
MakerBot è invece la più famosa tra le startup che producono stampanti 3D,
e ha introdotto le prime macchine con la scocca in legno compensato
tagliata al laser. In questo modo la stampante assomiglia a una specie di
scatola aperta su tre lati: ha ancora un aspetto naif, ma è abbastanza
piacevole da guardare. Recentemente sono comparse sul mercato delle
stampanti dall’aspetto più curato e rifinito. In fondo “l’abito fa il monaco”,
e anche le MakerBot hanno abbandonato la loro scocca in legno per telai in
plastica nera e opaca che danno loro un’aria suggestiva e misteriosa.
Figura 3.1 − La stampante RepRap Huxley di RepRapPro Ltd.
Dal 2007 a oggi c’è stata una proliferazione di progetti di stampanti tutti
originati dalla stessa matrice, il progetto RepRap, che ha fatto scuola nel
mondo. Queste macchine utilizzano lo stesso sistema di controllo su tre
assi: hanno cioè una scheda che comanda tre motori in grado di far muovere
nelle tre dimensioni dello spazio la “testa” della stampante, chiamata
estrusore, che fonde la plastica e la deposita sul piano di lavoro riscaldato
da una resistenza elettrica. La scheda di controllo utilizzata dalla maggior
parte delle stampanti è una scheda Arduino, un piccolo computer open
source in grado di eseguire programmi, leggere sensori e azionare motori e
attuatori. Partendo dai progetti di Arduino, la comunità dei maker ha poi
sviluppato altre schede elettroniche capaci di controllare
contemporaneamente da quattro a sei motori passo passo.
Figura 3.2 − Gli elementi fondamentali di una stampante 3D.
Arduino
Arduino è una scheda a microcontrollore, cioè un piccolo
computer completo contenuto in un chip, a cui mancano solo
tastiera e monitor: è dotato di memoria fissa e volatile, porte
di ingresso e uscita, convertitori per segnali analogici e
digitali. Lo possiamo programmare in modo che esegua delle
sequenze di istruzioni a nostro piacimento. I computer che
utilizziamo tutti i giorni, a casa e in ufficio, funzionano,
invece, grazie a un microprocessore, ossia dei chip a cui è
necessario collegare una serie di altri componenti e schede
perché possano essere utilizzati: necessitano infatti di
memorie, dischi, schede di interfaccia, mouse, tastiera,
monitor.
La scheda Arduino utilizza un microcontrollore della
ATMEL chiamato ATMega328, e ha una presa USB per
connetterla a un computer e programmarla. Il team di
Arduino, diretto da Massimo Banzi, ha sviluppato un
programma, gratuito e open source, per programmare la
scheda dal computer da tavolo e controllarla tramite cavo
USB.
Il linguaggio di programmazione utilizzato per i
microcontrollori è, di solito, un linguaggio complesso per
programmatori chiamato “C”. Anche Arduino si programma
in C, ma le sue istruzioni sono state semplificate così da farla
gestirla anche da chi non è un informatico. Questa scheda ha
avuto un grande successo, ed è diventata quasi uno standard
nella comunità mondiale dei maker e per chi voglia gestire le
parti elettroniche all’interno delle proprie creazioni.
Enriamo adesso nel dettaglio di una stampante 3D. Abbiamo visto che i
motori utilizzati sono di tipo passo passo. In generale un motore elettrico è
un dispositivo che trasforma l’energia elettrica in energia meccanica, la
quale a sua volta fa ruotare un asse (vedi Figura 3.3). I più comuni sono
quelli che troviamo nelle macchinine radiocomandate e nei trenini. Questo
tipo di motore è dotato di due fili elettrici, di solito di colore rosso e nero.
Se lo colleghiamo a una batteria, il motore inizierà a far ruotare il suo asse
alla massima velocità.
I motori passo passo funzionano con lo stesso principio, ma sono più
complessi da costruire. Possono avere quattro, sei oppure otto fili in cui
passa la corrente che alimenta le elettrocalamite al loro interno e che si
chiamano avvolgimenti. Queste elettrocalamite attraggono o respingono le
parti metalliche del motore, provocando così la rotazione dell'asse centrale.
Questa rotazione non è però libera ma avviene solo uno scatto (un passo)
per volta.
Figura 3.3 − Disegno di un motore passo passo.
Per far fare una rotazione completa all’asse contrale, bisogna attivare un
avvolgimento alla volta, fornendo una precisa serie di segnali elettrici in
modo da attivare le elettrocalamite nella sequenza corretta. Di solito queste
operazioni richiedono dei circuiti elettronici complessi, oppure un piccolo
computer. Meglio ancora, un microcontrollore tipo Arduino. Ma quando si
hanno più motori passo passo da controllare, l’impresa diventa difficile
anche per un Arduino. Per questo motivo si utilizzano dei circuiti
specializzati, chiamati driver, che si collegano direttamente ai motori e,
tramite un semplice segnale elettrico, si preoccupano loro di accendere le
elettrocalamite nell’ordine corretto per generare la rotazione richiesta. Un
driver costa circa 5 euro, ed è fondamentale averlo.
Nelle stampanti 3D si utilizzano i motori passo passo perché possono
compiere movimenti molto precisi. Ogni passo corrisponde a una piccola
rotazione dell’asse: è sempre dello stesso valore e corrisponde a un angolo
di un certo numero di gradi.
Nelle prime stampanti RepRap, il piano di stampa poteva scorrere in
orizzontale. In alcuni modelli successivi sono state modificate la meccanica
e la struttura perché i problemi maggiori erano dati proprio dal movimento
del piano di stampa. Infatti, mentre nei movimenti orizzontali si ottenevano
ottime risoluzioni, in quelli verticali se ne avevano di molto inferiori. Per
questo alcuni costruttori di stampanti hanno preferito mantenere fermo il
piano di stampa e far muovere, invece, l’estrusore: in questo modo la
stampante è diventata così più stabile, perché l’estrusore è più leggero e
meno difficile da spostare rispetto all’intero piano di stampa. Da quel
momento si sono ottenuti risoluzioni migliori nella stampa finale.
Nelle RepRap, la struttura è molto scarna, e i motori sono collegati a
barre filettate con blocchetti in plastica stampata. Alcune di queste barre
filettate sono utilizzate come viti senza fine grazie a un dado che scorre
avanti e indietro in modo molto preciso. Altre stampanti hanno invece
adottato differenti meccanismi di movimento, come per esempio cinghie e
puleggie.
Abbiamo visto che le stampanti open source hanno potuto diffondersi
grazie a un brevetto scaduto per la stampa di oggetti per deposizione di
sottili strati di plastica fusa. Passiamo quindi a descrivere la parte più
importante della macchina: l’estrusore, ossia il meccanismo che fonde la
plastica e la deposita sul piano di lavoro. Funziona come una pistola per la
colla a caldo: in queste pistole, un bastoncino di colla viene spinto verso la
punta calda dove prima si scioglie, e poi fuoriesce. L’estrusore compie la
stessa azione ma con la plastica, che viene fusa utilizzando una resistenza
speciale. Una resistenza è un componente elettrico che serve per frenare il
flusso della corrente in un circuito. L’effetto di questo rallentamento è di
produrre calore perché la corrente, “rallentando”, rilascia energia sotto
questa forma.
Alcune resistenze sono costruite in modo da accentuare questo effetto
termico e potersi scaldare più facilmente senza danneggiarsi: quella
presente nell’estrusore può infatti raggiungere temperature fino a 250 gradi
centigradi.
La resistenza è infilata in un blocchetto di metallo su cui è avvitato
l’ugello di uscita, ossia un minuscolo imbuto bucato di metallo. La
resistenza riscalda il blocchetto, e quindi l’ugello, fondendo la plastica e
facendola colare dal piccolo foro che ha una sezione di circa quattro decimi
di millimetro. La plastica utilizzata è fornita sotto forma di uno spesso filo
che assomiglia molto a quello utilizzato nei decespugliatori. Un motore
passo passo spinge questo filamento in modo regolare e costante verso
l’ugello. È importante che tutte le temperature siano stabili durante la
stampa. Per questo motivo, alla scheda di controllo sono collegate alcune
sonde di temperatura, dette termistori, che funzionano proprio come i
termostati per il riscaldamento delle nostre case: quando la resistenza è
troppo calda, bloccano il passaggio della corrente; quando la temperatura è
scesa sotto una certa soglia, il termistore allora consente il passaggio. In
questo modo la temperatura di lavorazione viene mantenuta costante.
Nel suo libro Makers. Il ritorno dei produttori. Per una nuova rivoluzione
industriale (Rizzoli Etas, Milano 2013), Chris Anderson ipotizza che, tra
qualche anno, i programmi CAD avranno una funzione “Make” che servirà
per stampare direttamente il disegno con una stampante 3D. Sarà semplice
così come oggi stampiamo una pagina di testo con la nostra stampante in
ufficio o a casa. Oggi stampare un oggetto è ancora un lavoro da maker:
non esiste nessun tasto “Make” e, per passare dal disegno alla materia, è
necessario compiere diversi passaggi utilizzando vari programmi. Il mondo
delle stampanti open source è ancora sperimentale e, per avere buoni
risultati, è necessario farsi un po’ di esperienza e riempire almeno un
cestino di stampe mal riuscite.
Con una stampante 3D possiamo realizzare rapidamente una grande
varietà di oggetti, piccole cose che possono aiutarci a risolvere vari
problemi quotidiani, come un fermaporta o un rocchetto avvolgi cavo,
oppure prototipi che ci servono per valutare la fattibilità di un progetto. Per
farlo, è sufficiente avviare il nostro programma CAD (Computer Aided
Design) preferito, fare un disegno e inviarlo alla stampante. Personalmente
credo di essere un po’ all’antica: porto sempre con me un taccuino per
scrivere o disegnare e, quando arriva un’idea, la fisso subito nelle sue
pagine. Credo sia importante tracciare le forme con una matita, e magari
cancellare e ripetere più volte il disegno. È quasi come toccare l’oggetto che
esiste solo nei nostri pensieri. A volte è una procedura indispensabile
quando si vogliono realizzare manufatti che si devono combinare con altri
già esistenti. Se volessimo disegnare parti di ricambio o pezzi meccanici, è
necessario realizzare prima un disegno quotato, ossia in cui le misure di lati,
angoli e distanze sono effettuate con un calibro o un goniometro.
C’è un senso e un valore in tutto ciò. Gli strumenti digitali e il CAD ci
tolgono il contatto con la materia. Quando si disegna al computer, il disegno
non lo stiamo facendo noi ma il computer. Ci perdiamo la manualità del
disegno, con la conoscenza che comporta. Tracciando una riga al computer
possiamo cambiare idea senza sforzo fino a che non raggiungiamo il
risultato desiderato. Sulla carta dobbiamo prima farci un’idea precisa e
puntuale e, una volta che le forme ci convincono, li possiamo sempre
trasformare in formato elettronico con un programma CAD 3D. Esistono
molti programmi che si possono utilizzare: alcuni più semplici di altri,
alcuni molto professionali, altri a pagamento, altri ancora gratuiti e open
source.
In questi anni sono anche comparsi alcuni programmi adatti ai
disegnatori non professionisti: 123D Design, Tinkercad, SketchUp (vedi
anche il Capitolo 5). Sono stati creati proprio per chi vuole disegnare
oggetti per una stampante 3D.
I programmi CAD professionali – come AutoCAD di Autodesk,
Rhinoceros, Blender o FreeCAD – potrebbero infatti facilmente intimorire
l’utente inesperto con le loro finestre complesse e colme di pulsanti e
funzioni.
Ogni CAD richiede un certo sforzo per comprenderne il funzionamento:
non esiste un vero e proprio standard, e ogni programma utilizza le sue
convenzioni. Per esempio i pulsanti del mouse assumono funzioni differenti
in ogni programma, e quindi non è immediato capire come utilizzarlo. Per
esempio, per ruotare la scena in 123D Design, si utilizza il tasto destro del
mouse, mentre in Blender si deve premere il tasto centrale o la rotellina per
lo scroll. Uno dei problemi maggiori per i principianti è la manipolazione
degli oggetti tridimensionali, dato che la terza dimensione complica non
poco le cose.
Paradossalmente, gli esseri umani sono naturalmente predisposti a
muoversi e manipolare il mondo tridimensionale; la vista binoculare
permette di valutare le distanze in modo esatto, e il cervello è dotato di
particolari strutture per l’elaborazione dello spazio. I programmi per
computer possono simulare uno spazio in tre dimensioni, ma purtroppo gli
strumenti che utilizziamo per interagire con questo mondo virtuale lavorano
su due dimensioni: il monitor è piatto, e il mouse si muove scorrendo su un
piano. Per questo è necessario maturare una certa esperienza per manipolare
le forme generate da un CAD in 3D, e abituarsi a queste interazioni
“limitate”.
In questi anni ho trovato utile e abbastanza semplice un CAD di nome
OpenSCAD, che ritroveremo nel Capitolo 5, dove gli oggetti si
compongono con dei listati (o script), come si vede nella Figura 4.1 della
pagina seguente. Non si utilizza il mouse se non per modificare la vista
dell’oggetto che stiamo componendo.
Utilizzare OpenSCAD è come programmare software, ed è per questo
che all’inizio mi sono trovato bene, dato che ho svolto quel lavoro per
parecchi anni (e lo faccio ancora), e mi trovo a mio agio con strutture dati,
cicli e variabili. OpenSCAD è un CAD di tipo “parametrico”. Per
semplificarci la vita, possiamo dire che questo CAD vede i disegni come
ricette in cui elenchiamo gli ingredienti, le loro quantità, e i passi necessari
per prepararla. Quando prendiamo una ricetta di una certa pietanza,
dobbiamo adattarla al numero d’invitati che avremo. Se cuciniamo per
quattro, utilizzeremo quattrocento grammi di spaghetti; se abbiamo dieci
invitati, useremo un chilo di pasta: il numero d’invitati è quindi un
parametro. Un CAD parametrico può adattare e modificare un disegno
semplicemente variando i valori assegnati ai parametri legati ad esso.
Figura 4.1 − Il programma CAD OpenSCAD.
G-code
I G-code nascono attorno agli anni Cinquanta al MIT per
creare un linguaggio di comando unificato adatto a tutte le
macchine utensili a controllo numerico. Ogni G-code inviato
a una macchina corrisponde a una precisa operazione o
lavorazione che la macchina può compiere. La lavorazione
di un pezzo meccanico richiede lunghe sequenze di comandi
che si raccolgono in un listato. Un tempo i listati erano
riportati su schede perforate, oggi le istruzioni G-code si
scrivono all’interno di file testuali e si possono modificare
con un semplice editor di testo. I file di testo possono
occupare anche parecchio spazio, e per questo motivo è stata
creata anche una versione “binaria” dei G-code (s3g), dove il
testo è convertito in numeri e non è più leggibile dalle
persone. Alcune stampanti possono leggere i G-code anche
in questa forma che permette di risparmiare spazio in
memoria.
Il contenuto del listato per una stampante contiene
istruzioni del tipo: avanza di dieci millimetri, accendi il
motore dell’estrusore, abbassa di dieci decimi di millimetro
l’asse z e così via. Ecco un esempio di alcuni comandi,
seguiti da commenti racchiusi da parentesi:
Passiamo ora alla fase di stampa. Abbiamo già visto che, prima di avviare
un lavoro, può essere utile aumentare l’aderenza del piano di lavoro
spruzzandovi sopra della lacca per capelli, o applicandovi delle strisce di
scotch di carta. Questa operazione è fondamentale se si utilizzerà come
materiale di stampa l’ABS, una plastica che ha il difetto di ritirarsi e di
deformarsi durante la fase di raffreddamento. Queste deformazioni saranno
poi tanto evidenti quanto maggiori saranno gli sbalzi di temperatura a cui è
sottoposto il pezzo stampato. Per questo motivo si usa un piano riscaldato.
Ma non solo. I programmi di stampa possono anche generare una base di
supporto chiamata “raft” che serve non solo per aumentare la presa sul
piano, ma anche a fornire una base di appoggio all’oggetto quando questo
non ne ha una propria, come accade, per esempio, quando si stampa una
sfera.
Inseriamo adesso il filamento nell’estrusore. La sequenza di
caricamento è molto semplice: una procedura residente nel controller della
stampante riscalda l’estrusore e, quando questo ha raggiunto la temperatura
corretta, avvia il motore che spinge il filo di plastica verso l’ugello. Il filo
va preparato spuntandone l’estremità con una forbice o un tronchesino; poi,
di solito viene infilato in un piccolo foro sulla sommità dell'estrusore stesso.
Nella stampante è già prevista anche la procedura per rimuovere il filo di
plastica dall’estrusore semplicemente spingendolo fuori. Quest’operazione
è importante se si stampa in PLA, perché è una plastica più rigida dell’ABS
e tende a otturare l’estrusore.
Quando l’estrusore è in funzione può raggiungere temperature tra i 200
e i 250 gradi centigradi. La stampa può partire solo quando è raggiunta la
temperatura di lavoro. Anche il piano di stampa deve avere una temperatura
tra i 60 e i 90 gradi centigradi. Appena la plastica inizia a uscire dall’ugello,
la stampante inizia a muoversi e a tracciare il disegno del primo strato (o
layer) e, di seguito, tutti i successivi, uno sopra all’altro, fino a che
l’operazione di stampa non sarà completa. A quel punto potremo prelevare
l’oggetto, che sarà ancora caldo e attaccato al piano di lavoro. Se abbiamo
la pazienza di attendere qualche minuto sarà più semplice rimuoverlo
utilizzando una piccola spatola da infilare tra l’oggetto stesso e il piano.
Per facilitare la stampa di manufatti “problematici”, ossia molto grandi
oppure con molte sporgenze e parecchie cavità, è possibile aggiungere delle
strutture di sostegno, di appoggio o di riempimento. Per evitare che si
incurvi su se stesso, un oggetto molto grande è sempre meglio costruirlo
sopra a una struttura di appoggio, ossia un raft. Sporgenze o parti sospese
richiedono invece delle strutture di supporto che possono essere stampate
con l'oggetto stesso in automatico, grazie a programmi come Slic3r. Queste
strutture si rimuovono facilmente al termine della stampa. Per la rifinitura
finale si possono adottare varie tecniche: ci si può aiutare con della carta
vetrata, un dremel (un elettro-utensile per levigare), o dei solventi. Per
ottenere oggetti perfettamente lisci è poi possibile utilizzare resine, stucchi
o vernici.
Capitolo 5
PROGETTARE IN 3D
cube([1,1,1]);
Scansioni tridimensionali
A volte ci possono servire repliche esatte di oggetti esistenti. Disegnarli
sarebbe troppo complesso e, comunque, i risultati sarebbero alquanto scarsi.
Per ottenere una copia digitale di un oggetto reale si può utilizzare uno
scanner 3D. La scansione è un mezzo non intrusivo per rilevare le forme di
un oggetto illuminandole con raggi laser, o inquadrandole con più
telecamere da più punti di vista, per creare una nuvola di coordinate nello
spazio. Questa nuvola può essere convertita in un file stereolitografico
(STL), e quindi stampato. Di solito le scansioni producono file pieni di
buchi, ed è necessario ripararli con appositi programmi. Il file STL ottenuto
è poi modificabile a piacimento.
Figura 5.1 − Uno scanner DIY realizzato con un puntatore laser e una webcam.
Oggetti stampabili
Un disegno può essere stampato se è composto in una forma unica, cioè
deve essere perfettamente chiuso e senza fori (si dice che deve essere
“watertight”, cioè “senza perdite d’acqua”). Un altro requisito è che le
normali alle sue superfici siano tutte rivolte verso l’esterno.
Vediamo cosa vuol dire. Una moneta ha due facce che chiamiamo
“testa” e “croce”. Possiamo dire che testa corrisponde “al sopra” della
moneta, mentre croce “al sotto”. Le superfici che racchiudono un solido
sono un po’ come le monete: hanno un “sopra” e un “sotto”, oppure un
“interno” e un “esterno”. Per individuare su quale superficie siamo,
possiamo disegnare la freccia perpendicolare al piano chiamata “normale”.
Come abbiamo già visto nel Capitolo 4, possiamo poi scomporre una
qualsiasi superficie, per quanto sia complessa, in un insieme di triangoli
chiamato mesh, che è una versione approssimata della superficie originale. I
triangoli che compongono questa superficie hanno tutti un “sopra” e un
“sotto”, e quindi la loro normale. La stampante distingue l’esterno della
figura, ossia la sua superficie, dal suo interno, quando tutte le normali del
mesh puntano verso l’esterno.
Per creare una figura impossibile da stampare, possiamo disegnare la
sagoma di un 8 e poi provare a estruderlo, cioè trascinare il profilo verso
l’alto in modo da formare un solido. Tutti i CAD 3D hanno la funzione di
estrusione dei profili in due dimensioni. La figura che abbiamo così
ottenuto ha delle superfici che sono per metà interne e per metà esterne,
quindi impossibile da stampare.
Figura 5.2 − Un solido impossibile da stampare.
La ZCorp
La prima stampante 3D è stata costruita nel 1984 da Chuck Hull che, due
anni dopo, fondò la ZCorp. In quegli anni in cui Internet non esisteva
ancora, i personal computer erano un lusso, e una macchina in grado di
stampare oggetti era qualcosa di fantascientifico, alieno, inconcepibile. Le
macchine prodotte dalla ZCorp erano molto costose e paragonabili ai primi
computer a valvole. Solo pochi potevano permettersele, e l’accesso a una
macchina del genere era molto esclusivo.
Le stampanti della ZCorp potevano stampare parti in più colori, anche
in plastica: anche per questo motivo è stata un’azienda all’avanguardia. Le
prime macchine erano prodotte utilizzando parti prelevate da stampanti
tradizionali, e modificate per depositare materiale in strati sovrapposti. Le
prime tecnologie impiegate erano molto costose e poco efficaci: soluzioni
liquide di resina, colle e gesso o polveri di varia natura. Nel 2012, in seguito
alla diffusione della stampa 3D open source, ZCorp è stata acquisita dalla
3D System per posizionarsi come produttrice di stampanti nel mondo
consumer, quindi per la stampa personale oltre che a quella professionale.
Una ZCorp a Milano
Poco distante dal centro di Milano, tra il parco Sempione e il Cimitero
Monumentale, sorge la Fabbrica del Vapore: un progetto del Comune di
Milano per creare un polo culturale per la città, una piccola cittadella in cui
ospitare imprese creative in grado di dare vita a iniziative innovative e
culturali rivolte ai giovani e alla città.
Il progetto partì nel 2002 e, attualmente, è ancora in fase di
completamento: i lavori sono tanti e i soldi non bastano mai. Il complesso
sorge su un’antica fabbrica di tram dismessa da anni: la Ditta Carminati,
Toselli & C. fondata nel 1899. Al centro, si apre un ampio piazzale
realizzato nel dopoguerra da un’azienda di trasporti su gomma, quando
ormai la fabbrica dei tram era fallita da anni. Attorno alla piazza ci sono
edifici in mattoni a vista alti e luminosi: le tipiche officine milanesi con i
lucernari in vetro.
Tra il cimitero e un alto muro di mattoni corre via Nono. Dopo un
centinaio di metri, nel muro, si apre un portoncino sovrastato da una grande
insegna tagliata al laser. L’insegna è formata da una serie di parole oggi
molto attuali: FabLab, Digital Fabrication, Laser Cutter e tante altre. È
l’insegna di OneOff, un laboratorio di prototipazione rapida per modelli
architettonici nato all’inizio di questo millennio. OneOff ha puntato subito
sulle tecnologie di fabbricazione digitale, investendo nel taglio laser, nella
fresatura e nella stampa 3D. È uno dei laboratori milanesi di prototipazione
più all’avanguardia. I fondatori, Costanza Calvetti e Maurizio Meroni,
hanno fatto centro su tutto, tranne che sulla stampa: ci hanno pensato troppo
presto. All’ingresso mi accoglie una laser cutter di dimensioni
ragguardevoli che aggredisce una lastra di MDF, cioè un pannello di fibra di
legno a media densità. Un guizzo di luce corre rapido e lascia piccoli solchi
dietro di se.
Dietro alla macchina, in un box trasparente, una fresa scava un blocco di
resina e libera una costa frastagliata per un modello paesaggistico. La
macchina è al lavoro dal giorno precedente. La fresatura richiede parecchio
tempo: una punta simile a un trapano si muove consumando il materiale
millimetro dopo millimetro, su blocchi di resina dal lato di un metro e
mezzo. Costanza, un’imprenditrice decisa e brillante con una laurea in
ingegneria, fa capolino da dietro la laser cutter. Maurizio Meroni, architetto,
in maglione da marinaio, jeans e barba incolta, siede a un tavolo di legno in
fondo al laboratorio. Lavora con il CAD a un modello in 3D. Mi fa un
cenno con la mano. Il laboratorio è organizzato con ordine e precisione, e
rispecchia in tutto e per tutto il carattere di chi lo ha creato. Guizzi di sole
entrano dagli ampi portoni di ferro e vetro a quadrotti illuminando una serie
di modellini architettonici appoggiati su larghi tavoloni. File di strumenti se
ne stanno ordinati per forma, colore e dimensione nelle rastrelliere. Un
cartello avvisa di rimettere le cose al proprio posto dopo all’uso.
Alcuni ragazzi lavorano a ritmo di musica. L’atmosfera è laboriosa ma
molto rilassata. Riviste di architettura e libri sul design tappezzano i muri in
mattoni arancioni. I locali del laboratorio erano un’officina per
l’assemblaggio dei tram. Percorro il laboratorio seguendo una coppia di
antichi binari immersi nel cemento del pavimento. Costanza apre una
piccola porticina bianca, quasi nascosta nella parete ed entriamo nel loro
ripostiglio. Nella stanzina, in penombra, c’è la ZCorp in disuso. È stata la
loro scommessa perduta. Con troppa lungimiranza acquistarono questa
stampante che ora giace smontata in un angolo: una piccola credenza con le
ante semiaperte da cui fuoriescono cavi e tubi come fossero organi interni.
Non funziona più, da molto tempo.
Costanza mi racconta che è stata utilizzata per un certo periodo, poi le
frequenti manutenzioni, i costi di funzionamento e l’uso limitato hanno
fatto sì che fosse accantonata. L’hanno usata per realizzare degli oggetti, ma
erano campioni, prototipi molto fragili. Erano composti di un materiale
simile al gesso solidificato. Se li toccavi, potevi romperli facilmente.
Proprio la tecnologia di stampa è il punto debole della macchina: il gesso
era sciolto in una specie di liquido denso e, se non si pulivano per bene tubi,
canali e ugelli, la stampante s’intasava e non funzionava più. Questo è
quanto offriva la tecnologia quindici anni fa. Costanza mi offre di aiutarli a
rimetterla in sesto, magari convertendola alle nuove tecnologie. In effetti, la
struttura meccanica potrebbe essere ancora valida, ma il lavoro da fare per
sistemarla è davvero troppo.
Il progetto RepRap
Negli anni Ottanta del secolo scorso, i maker non esistevano. Erano ancora
bambini affascinati dalla fantascienza e con le mani su piccoli computer da
collegare alla televisione di casa. Attualmente stiamo vivendo il decennio
dei maker e della stampa 3D. Molti ventenni e trentenni, allontanati
progressivamente dalla possibilità di fare esperienze pratiche e di costruire
oggetti, stanno ritornando a imparare come costruire e progettare oggetti
manualmente. Il sistema scolastico e culturale, il boom di Internet e dei
computer ci ha fatto perdere il contatto con la realtà. In questi anni, sono in
molti a tornare a “fare le cose”, inclusa la costruzione di macchine utensili
che possano aiutare e agevolare la creazione di altri oggetti. In questi anni
l’argomento stampa 3D ha riposato indisturbato finché, il 23 marzo del
2005, il professore di meccanica Adrian Bowyer dell’università di Bath aprì
un blog in cui annunciava il suo progetto: creare una stampante 3D open
source. Il nome che diede al progetto fu “RepRap”, cioè “Replicating Rapid
Prototyper” (“replicatore rapido di prototipi”).
Adrian Bowyer è un insegnante dell’università di Bath, in Inghilterra.
Non è un giovane maker, ma un signore distinto con radi capelli bianchi.
Eppure è stato questo tranquillo professore che ha dato il via alla nuova
rivoluzione degli atomi.
L’idea di creare una macchina in grado di stampare oggetti e replicare se
stessa gli venne nel 2004. Descrisse l’idea in un post su Internet, sperando
che qualcuno la raccogliesse e potesse svilupparla. Ma chi, se non il padre
di quell’idea, poteva portarla avanti con la forza e la motivazione
necessaria? Adrian ebbe questa determinazione, e fu così che iniziò a
lavorare concretamente alla realizzazione del suo replicatore. Aveva una
visione: trasformare il modo in cui gli oggetti sono prodotti. Così come
Internet e la posta elettronica hanno stravolto le comunicazioni, eliminando
buste, lettere e francobolli, così le stampanti 3D possono trasferire oggetti
da una parte all’altra del pianeta, semplicemente inviando un file
elettronico. Possiamo disegnare un braccialetto e poi trasmettere il file a una
nostra amica che abita a NewYork, che potrà stamparlo a casa sua. Quasi
come farebbe il teletrasporto in Star Trek.
Il mondo di cui Adrian ha spalancato le porte è fatto di condivisione e
scambio libero di informazioni. È un mondo di libertà e parità. Non ci sono
segreti, e tutti possono accedere a macchine e conoscenze. I progetti delle
stampanti RepRap sono rilasciati con licenza open source: chiunque può
scaricare i file da Internet e costruirsene una. Per Bowyer, la macchina
doveva avere costi molto bassi ed essere facilmente riproducibile. Doveva
essere anche open source e a disposizione di chiunque avesse avuto la
volontà di scaricare il progetto originale e di costruirsela: un kit costava
infatti circa 350 euro. Quando il primo modello di Rep Rap vide la luce, la
più economica stampante 3D costava venti volte tanto. L’attenzione ai costi
ha interessato anche il materiale e le tecnologie di stampa. La plastica costa
pochissimo ed è facilmente reperibile. Per la parte meccanica impiega barre
filettate, reperibili in un qualsiasi negozio di ferramenta, oltre che alcuni
pezzi realizzati proprio con una stampante 3D. Per la parte elettronica
impiega una scheda Arduino a microcontrollore, anch’essa open source e
molto semplice da programmare.
In questo modo chiunque può costruirsi una macchina in grado di
produrre gli oggetti che gli sono necessari: è una piccola unità produttiva
per soddisfare le esigenze personali. Questo è il nobile scopo, o la filosofia,
della RepRap. Ogni macchina è in grado di stampare se stessa e di auto
replicarsi: escluse alcune parti meccaniche ed elettroniche, può stampare
tutte le sue parti, dagli ingranaggi, ai giunti e fino a meccanismi come
l’estrusore. La prima stampante è stata chiamata Darwin. In seguito sono
state rilasciate delle nuove versioni chiamate Mendel e Huxley: il team
della RepRap ha scelto infatti di usare i nomi di biologi famosi (Gregor
Mendel e Thomas Henry Huxley) che avevano lavorato al concetto di
evoluzione della specie. In effetti, dal 2005 in poi, abbiamo assistito a una
moltiplicazione esponenziale dei progetti derivati dalle RepRap: molti
maker hanno modificato e migliorato i progetti, alcuni per scopi personali,
altri con l’idea di produrre e commerciare stampanti 3D.
L’idea della RepRap è esplosiva. La macchina è essenziale, semplice e
funzionante. È in grado di realizzare quasi ogni tipo di oggetto e di risolvere
un’infinità di problemi. La stampa 3D personale stravolge i processi di
creazione e progettazione degli oggetti. Così come è accaduto per il
software open source, ora accade la stessa cosa agli oggetti che possono
essere sviluppati e perfezionati da una comunità di persone, con tanti piccoli
contributi individuali. Il risultato finale sarà migliore e più rispondente alle
aspettative di chi l’ha creato, oltre che essere disponibile per tutta la
comunità.
Perché le stampanti 3D si stanno diffondendo così tanto? Perché rispetto
ad altri tipi di macchine, come per esempio le macchine a controllo
numerico o le frese, sono molto più semplici e immediate da usare. La
tecnologia di stampa per estrusione di plastica fusa è molto facile rispetto ad
altre tecniche, e richiede poca manutenzione.
MakerBot
Nel 2007, Bre Pettis e Zach Smith, due hacker (o maker) di New York
immaginarono una macchina in grado di stampare oggetti attorno a un
tavolo di NYC Resistor, l’hackerspace1 che avevano aiutato ad aprire. Zach
Smith aveva partecipato al progetto RepRap, e aveva una certa esperienza
con le stampanti. La nuova stampante doveva essere più semplice,
economica e veloce da assemblare rispetto alla RepRap. Volevano produrle
e venderle in kit di montaggio. Iniziarono quindi a progettare, disegnare e
tagliare scocche di legno con la laser cutter di NYC Resistor. Anche la loro
stampante sarebbe stata open source, e avrebbe utilizzato Arduino come
scheda di controllo. Costruirono numerosi prototipi: alcuni funzionavano
solo per pochi minuti, altri furono subito accatastati. Passarono notti
insonni, perseverando nel loro progetto, barcamenandosi tra il lavoro diurno
da impiegati e quello notturno speso all’hackerspace di Brooklyn, attorno
alla loro stampante, sostentandosi con ramen e tazze di caffè. Ci furono
momenti di sconforto e di grande difficoltà. Si erano anche iscritti al
festival SXSW2 di Austin, dove volevano presentare in anteprima la loro
macchina.
Nel gennaio del 2009 il team si ampliò con Adam Mayer, altro
frequentatore di NYC Resistor. I prototipi miglioravano, ma non erano
affidabili. Il giorno della fiera era sempre più vicino. Alle 8 del mattino del
9 marzo 2009, la stampante, finalmente, funzionò. Volarono in taxi
all’aeroporto, e alle 10 presero l’aereo. Alla SXSW ebbero un grande
successo: regalarono a tutti gadget stampati in plastica e fioccarono le
prenotazioni; nacque così la società MakerBot.
Il 15 marzo, sul blog del sito makerbot.com comparve un post dal titolo:
“Hello World!”. C’è una foto della loro prima stampante: “Sono una
MakerBot. Creo oggetti. Cosa posso fare per te? Portami a casa”.
Il primo modello, la CupCake CNC, costava poco più di mille dollari e
andò a ruba. Tra marzo e aprile furono venduti tremilacinquecento kit. Nel
giro di un anno, il mercato delle stampanti 3D registrò un incremento del 30
per cento solo negli Stati Uniti. La MakerBot attirò l’attenzione degli
investitori. La piccola startup con tre soci crebbe sempre di più per stare
dietro agli ordini. Ricevettero un finanziamento da 75 mila dollari, di cui
una parte direttamente da Adrian Bowyer. Nel 2011 ricevettero un secondo
finanziamento da ben 10 milioni di dollari, cui ne seguirono altri. Zach
Smith venne invitato a lasciare la compagnia nel 2012 a causa di visioni
discordanti. Zach è un paladino dell’open source e non poteva accettare che
in futuro la MakerBot abbandonasse questa filosofia. Nel 2013 la Stratasys
ha acquistato MakerBot per 403 milioni di dollari.
Figura 6.1 − La CupCake CNC: la prima stampante prodotta da MakerBot.
Stampanti in Italia
Nel 2011 in occasione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia, a Torino è
stata allestita un’esposizione, sponsorizzata dalla rivista Wired, che ospitava
stand e laboratori sul futuro e l’innovazione. Tra questi laboratori era
presente anche un piccolo FabLab: il primo in Italia, voluto da Massimo
Banzi, creatore di Arduino. Nel FabLab erano presenti una laser cutter,
alcune macchine utensili della Roland e una stampante 3D. Credo che
queste siano state le prime apparizioni e i primi sintomi del fenomeno dei
maker in Italia. Nello stesso periodo a Milano iniziava la sua attività anche
Frankenstein Garage, con lo scopo di aprire un FabLab anche nella capitale
della moda e del design.
KentStrapper
Tra i maker nostrani erano note una serie di iniziative che stavano partendo
anche in Italia, come la KentStrapper, la prima azienda italiana a produrre e
vendere stampanti 3D. Nata per iniziativa della famiglia Cantini di Firenze,
ha avuto l’intuizione giusta di produrre e vendere stampanti sul modello
delle RepRap. Nel 2011 un servizio del TG3 l’ha resa famosa a livello
nazionale.
Ho incontrato la famiglia Cantini nel febbraio del 2012 al CNR di
Bologna, in occasione di un hackathon3 organizzato da WhyMca
(www.whymca.org). Le loro stampanti erano al centro di una piccola saletta
ricoperta di moquette verde, e sfornavano piccoli gadget di plastica colorati.
A lato della loro postazione, faceva bella mostra l’ultimo modello con
un’area di stampa maggiorata. Gli estrusori si muovevano ritmicamente, ed
era difficile non restare ipnotizzati dai movimenti. I Cantini mi
raccontarono che, dopo il servizio in TV, si presentarono a una banca di
Firenze per chiedere un prestito e ingrandire la loro attività; il direttore
aveva visto la trasmissione la sera prima, li riconobbe subito, non li lasciò
neppure terminare, non volle vendere neppure un business plan, e gli
concesse il prestito.
Sharebot
Del caso e della storia di questa azienda e stampante italiana tratteremo
diffusamente nel Capitolo 9, in tre interviste ai protagonisti di questa realtà
– Andrea Radaelli, Arturo Donghi e Matteo Abbiati – per mostrare un
esempio di come il mondo della stampa 3D sia molto attivo anche in Italia.
In queste pagine daremo un sommario resoconto di questa importante
azienda di stampanti 3D italiana.
Andrea Radaelli lo abbiamo già citato nel Capitolo 1: è un ragazzo nato
in Brianza, una delle tante Silicon Valley italiane, terra di imprenditori e
artigiani. Vive in piccolo paese incorniciato dalle cime di Grigna e
Resegone, le montagne di Lecco. Nel suo paese quasi ogni villetta ha di
fianco un piccolo capannone.
Da decenni la Brianza sforna prodotti di prestigio del made in Italy, ma
la crisi è arrivata anche qui. Andrea ha studiato da erborista, ma si è trovato
ben presto a lavorare per un suo parente che commerciava macchine
utensili: frese, CNC e laser cutter. Andrea ha maturato la sua esperienza in
mezzo alle classiche macchine impiegate nei FabLab... e da tutti gli
artigiani brianzoli. Le sa riparare e mettere a punto, partecipa alle fiere e si
tiene aggiornato sulle novità del settore. Anche per lui la stampa 3D non è
una novità.
Nel 2011 decide di “provare” a costruirsi una stampante tutta sua. Si
procura una MakerBot e i progetti delle RepRap, e assembla una nuova
stampante che decide di chiamare Sharebot. Si fa tagliare le prime scocche
da un capannone vicino casa, e non ha difficoltà a progettare e sperimentare
nuove meccaniche più stabili e precise. In un angolo del suo laboratorio,
dietro a un telo di plastica c’è una montagna di telai con diverse forme e
materiali. Monta le prime stampanti in un angolo del capannone di famiglia,
poi piano piano la sua piccola idea incontra un “business angel”, ossia un
finanziatore privato o un manager che vuole investire in una società o un
determinato progetto. Da allora, Sharebot è diventata un’azienda in grande
espansione.
Figura 6.2 − Una stampante 3D modello Sharebot NG.
Wasp
Alla fiera dei maker organizzata a Milano nel 2012, uno stand ospitava una
strana e voluminosa struttura a treppiede. Incuriosito dall’oggetto, mi
avvicinai per chiedere informazioni e conobbi Massimo Moretti della
WASP. La storia della WASP inizia con il Centro Sviluppo Progetti (CSP),
un’azienda creata dallo stesso Massimo una ventina di anni fa per lo
sviluppo di progetti innovativi. CSP inizia a utilizzare la stampa 3D per
alcuni progetti e, a un certo punto, decide di creare una propria macchina.
Massimo ha grandi idee: vorrebbe costruire una stampante in grado di
realizzare case in fango o argilla. La sua macchina è in grado di creare una
piccola capanna con qualche decina di ore di lavoro, e potrebbe aiutare i
paesi in via di sviluppo. Per raggiungere il suo scopo fonda la WASP,
un’azienda per creare e vendere stampanti 3D con una forma molto
particolare. WASP è l’acronimo di “World Advanced Saving Project,” ma
in inglese significa anche “vespa”: infatti, sul logo appare una piccola vespa
vasaia che si costruisce il nido impastando il fango. Le stampanti di
Massimo lavorano con la plastica ma possono estrudere anche la creta, un
po’ come la vespa che appare sul logo. L’estrusore può essere sostituito da
una piccola fresa con cui si possono fare anche dei piccoli lavori di
incisione.
FabTotum
Nell’agosto del 2013 compaiono su Twitter dei messaggi che annunciano un
nuovo progetto per una stampante 3D di nome FabTotum. È milanese e
nasce da un’iniziativa di Marco Rizzuto e Giovanni Grieco, entrambi
studenti del Politecnico e vincitori del premio Switch2Product 2013. Il
progetto finisce su Indiegogo, una piattaforma per il crowdfunding, che
mette a disposizione una pagina in cui descrivere il proprio progetto, si
dichiara la cifra necessaria per realizzarlo, e i contributi, i beni e i vantaggi
sul nuovo prodotto che il proponente offre ai finanziatori che
contribuiscono con una cifra, come la possibilità di averlo in anteprima o di
poter godere di sconti sull’acquisto. I ragazzi di FabTotum hanno bisogno di
50 mila dollari, ma in poco tempo raggiungono la strabiliante cifra di
589.564 dollari. La stampante non è ancora in produzione, ma appena sarà
commerciata, oltre a stampare e a fresare, sarà in grado di eseguire anche
scansioni in 3D. Il tutto per un prezzo inferiore a 1000 euro a macchina.
1. Gli hackerspace sono spazi condivisi in cui le persone possono incontrarsi, discutere, sperimentare
e lavorare ai loro progetti. A volte vengono anche chiamati hackspace, hacklab, makerpace o creative
space. Le persone che vi si ritrovano hanno interessi vari e diversi. Inizialmente sono nati come posti
in cui sviluppare software libero, ma il concetto è stato ampliato anche ad altre arti, scienze e attività.
2. SXSW, South by Southwest, è un festival musicale e cinematografico che si tiene ogni anno ad
Austin, in Texas. Sito web: http://sxsw.com/
3. Gli hackathon sono dei ritrovi di hacker, organizzati di solito lungo i weekend, in cui le persone si
organizzano in team e realizzano un programma funzionante seguendo un tema a sorpresa. I team
lavorano senza sosta tutta la notte. Alla fine della maratona una giuria premia i progetti migliori.
Capitolo 7
HACKER, MAKER E OPEN SOURCE
Tutto iniziò con una stampante. Questa volta si trattò della nuova stampante
laser del laboratorio di intelligenza artificiale del MIT di Boston. Era il
1971, Richard Stallman era uno studente ventisettenne, un ottimo
programmatore e un hacker che non sopportava che il software della nuova
stampante non fosse modificabile. Era la prima volta che gli accadeva una
cosa del genere.
La nuova stampante era una Xerox veloce e precisa ma, come tutte le
stampanti di allora, aveva la tendenza a incepparsi spesso. Richard mandò
in stampa il suo documento e, una volta raggiunta la stampante, si accorse
che si era inceppato. Era già capitato un problema simile con la vecchia
stampante, allora Stallman aveva modificato la procedura di stampa così
che il software controllasse periodicamente il funzionamento della
macchina e, nel caso avesse rilevato un inceppamento, avrebbe spedito un
avviso all’utente per andare a sbloccarla. A quei tempi ogni computer e
ogni periferica erano sempre forniti con i codici del software, chiamati
sorgenti, e i relativi manuali di programmazione. Stallman decise di
risolvere il problema come aveva già fatto con la precedente stampante:
avrebbe modificato il software di controllo. Purtroppo ebbe una brutta
sorpresa: la stampante non aveva nessun manuale di programmazione, e
nessuno era in possesso dei codici sorgenti; era una scatola chiusa in cui
nessuno poteva mettere le mani. Inammissibile.
Hacker
Un hacker non è una persona che si diverte a creare virus informatici, o
rubare password e dati delle carte di credito. Il termine “hack” compare
negli anni Cinquanta al MIT, e si usava per indicare le bravate innocue e
creative degli studenti. A volte con questo termine si indicavano anche le
esplorazioni che molti studenti compivano nei cunicoli sotterranei e negli
scantinati dell’università: aree di solito interdette agli studenti. Negli anni
Settanta l’hacker era anche chi lavorava al computer e programmava in
modo creativo: apparteneva insomma all’elite dei programmatori più
esperti, in grado di creare software semplici ed eleganti. Nel decennio
successivo i computer si sono diffusi sempre di più, e il termine ha iniziato
a prendere accezioni negative, legate allo sviluppo e diffusione di virus e
all’infiltrazione nei sistemi informatici. Per colpa di pochi individui che,
spacciandosi per hacker, sperimentavano e diffondevano pratiche poco
etiche, il termine è stato sovrapposto a quello di “pirata informatico”.
Gli hacker non sono pirati informatici. Non amano distruggere sistemi,
danneggiare siti internet e rubare informazioni, anche se in questo modo li
hanno presentati giornali e televisione in questi anni. Gli hacker sono
persone che vogliono contestare in modo critico ma positivo sistemi e
istituzioni. All’inizio, quando gli hacker organizzavano solo degli scherzi
ingegnosi per deridere le istituzioni universitarie, al termine dello scherzo si
preoccupavano di rimettere tutto com’era. Quando iniziarono a
programmare, cercarono di scrivere programmi per risolvere problemi
comuni a tutti, o migliorare quelli che già esistevano.
Figura 7.1 − Richard Stallman.
Per queste ragioni l’episodio della Xerox accese la miccia della bomba
“software libero”. Da quel giorno, Richard iniziò a preoccuparsi del
software e della proprietà dei codici.
GNU/Linux
Nel 1991, un altro programmatore diede vita a un progetto che avrebbe
radicalmente trasformato il mondo informatico degli anni a venire. Linus
Torvalds, all’epoca studente d’informatica all’università di Helsinki,
sviluppò un sistema operativo compatibile con UNIX ma in grado di girare
su un PC. Linus distribuì il suo lavoro in Rete e ottenne consigli e contributi
da tutto il mondo. Decise di chiamare il suo sistema operativo “Linux”,
anche se il nome corretto da usare è “GNU/Linux”, perché Torvalds creò
solo il cuore del sistema, mentre la maggior parte dei software necessari per
il funzionamento provengono dal progetto GNU. GNU/Linux fu il primo
sistema operativo open source composto da una parte centrale, chiamata
kernel, che ne garantisce il funzionamento, e da un mix dei migliori
software creati dal mondo hacker. Chiunque può creare una raccolta di
software composta dal kernel e dai programmi che preferisce, impacchettare
il tutto in una distribuzione e diffonderlo. Alcune tra le più famose
distribuzioni sono Ubuntu, Fedora, Gentoo, Slackware.
Attorno a GNU/Linux si è creata un’intera comunità di sviluppatori che
contribuiscono allo sviluppo del sistema operativo e dei programmi. Ogni
programmatore può sviluppare un frammento di codice, intervenire nelle
discussioni, segnalare errori e contribuire allo sviluppo del software.
All’inizio molte grandi aziende criticavano il software open source e lo
guardavano con diffidenza perché non credevano che in questo modo si
potesse sviluppare un prodotto di qualità. Invece il software open source ha
raggiunto alti livelli di qualità: è vero che è stato (ed è) sviluppato dai
programmatori nel tempo libero, ma il lavoro è sempre stato svolto con
passione e attenzione, più con criteri e misure da artigiano che da catena di
montaggio industriale. Inoltre, dato che i sorgenti sono visionabili da
chiunque, gli errori hanno vita breve. Nel tempo, anche alcune grandi
aziende come Oracle o IBM si sono accorte della qualità dei programmi
sviluppati dalla comunità, e hanno adottato o finanziato dei progetti.
Maker
Mi piace pensare alla parola “maker” come a un mix tra “make” e “hacker”.
Il termine indica la volontà di costruire, di realizzare e liberare macchine e
congegni. I maker sono hacker che non si sono limitati al software.
Appartengono a un movimento culturale fondato su principi di condivisione
e collaborazione; sono appassionati di computer e tecnologia, amano
esplorare e comprendere il funzionamento delle cose, passano notti intere a
costruire stampanti 3D, monopattini elettrici o caffettiere che quando il
caffè è pronto inviano un tweet. Potrebbero essere confusi con degli
appassionati del fai-da-te, anche perché spesso sono dediti ad attività più
artigianali che tecnologiche; il bricolage ha però una matrice
individualistica e personale.
Non esiste un fondatore del movimento perché il fenomeno è nato dal
basso, partendo dagli hackerspace e dai fablab. Negli hackerspace, luoghi in
cui gli hacker s’incontravano per condividere le loro conoscenze e per
lavorare a progetti software comuni, a un certo punto si è iniziato a
occuparsi anche di tecnologie diverse dal software. Nel 2006, negli Stati
Uniti è stata organizzata la prima Maker Faire, che è stata visitata da quasi
settantamila visitatori. La rivista Wired iniziò a parlare di stampanti 3D,
droni e Arduino. O’Reilly pubblicò MAKE, la prima rivista per i maker,
dove, in ogni numero, si presentava una rassegna di progetti con le
istruzioni dettagliate per realizzarli anche a casa propria. C’erano numeri
epici dedicati ai droni, alla missilistica fai-da-te, alla realizzazione di case
sugli alberi a forma di astronave. Si trovavano anche articoli su come
realizzare un pollaio, o un sistema d’irrigazione.
Anche su Internet si trovavano molte risorse legate al mondo dei maker:
in siti come Instructables, le persone spiegano passo passo come realizzare
qualsiasi cosa, dal pannello solare ai dolci per Natale. Un altro sito molto
popolare è Thingiverse: un vero archivio di file, pronti per essere stampati,
uno dei siti preferiti da chi possiede una stampante 3D perché, quando serve
qualcosa, prima si verifica se esiste su Thingiverse e se fa al caso nostro, si
scaricano i file, si apportano le modifiche necessarie e poi si stampa. Se la
modifica è degna di nota, la si pubblica di nuovo sul sito per metterla a
disposizione di tutti.
È una nuova rivoluzione. Così come si può considerare una rivoluzione
la diffusione dell’open source e del free software avvenuta qualche
decennio prima. Probabilmente la rivoluzione degli oggetti avrà potenzialità
maggiori, perché gli atomi hanno occupato il posto dei bit e si parla di
fabbricazione personale, cioè della possibilità per le persone di produrre in
modo autonomo gli oggetti di cui hanno bisogno. Questa possibilità
potrebbe stravolgere completamente il mondo della produzione di massa.
C’è chi pensa che la fabbricazione personale potrebbe mandare in crisi
molte aziende, ma comunque aprirà nuove possibilità: vecchie aziende
spariranno, e ne nasceranno di nuove.
Le stampanti e la fabbricazione personale sono ancora argomenti di
nicchia, e ormai anche Wired ne parla sempre meno, mentre sono sempre
più frequenti gli articoli sui quotidiani e i servizi alla TV; non c’è però da
preoccuparsi perché i maker, in fondo, vogliono solo cambiare il mondo.
Open hardware
I maker, come gli hacker prima di loro, amano condividere i loro progetti.
Per questo motivo, a un certo punto si è iniziato a parlare di open hardware:
lavori non più solo fatti di software, per i quali sono disponibili i progetti
completi. Chiunque può studiarli, modificarli, distribuirli o usarli per
costruire e vendere oggetti derivati dai disegni originali. Le persone hanno
il potere e la libertà di controllare la tecnologia e gli oggetti che le
circondano.
Gli esempi più famosi di open hardware sono quelli di Arduino,
RepRap, MakerBot, SparkFun. Il progetto RepRap, di cui abbiamo parlato
nel Capitolo 6, è un progetto no profit che nasce con lo scopo di essere
replicato, mentre Arduino è un progetto commerciale e ormai uno degli
esempi più famosi di hardware open source: basta andare sul sito
www.arduino.cc per reperire gli schemi elettronici e il progetto della
scheda.
Non c’è nulla di segreto anche se questa è una condizione che per
un’azienda può sembrare inammissibile. Le aziende conservano infatti
gelosamente i piani e i progetti dei loro prodotti, e quindi è un palese
controsenso diffondere volutamente le informazioni dei propri prodotti,
perché il timore maggiore è quello di essere copiati. A una conferenza di
Arscentia1, uno dei relatori mi raccontava di aver partecipato a una fiera di
produttori di calzature dove molti degli stand erano chiusi, l’accesso era
controllato ed era vietato scattare foto e filmati. Perché si dovrebbe affittare
uno stand in una fiera se poi si ha paura di mostrare il proprio lavoro?
Anche qui a Milano ho sentito dire che molti stilisti evitano di avere finestre
affacciate verso l’esterno per il timore che sguardi indiscreti carpiscano le
loro ultime creazioni.
Non credo che l’azienda che produce il microcontrollore Arduino stia
subendo delle perdite per aver scelto di essere open hardware, anzi, questa
caratteristica è anche la sua forza, il suo marchio distintivo. Al punto che
chi li copia, non riesce a farlo così bene.
Molte startup legate al mondo del software hanno dimostrato che è
possibile fare profitti anche con prodotti open source o gratuiti. Drop-box, il
popolare programma per la condivisione dei file su più dispositivi, è
gratuito. Diventa a pagamento nel momento in cui lo spazio offerto si
esaurisce, o si hanno maggiori esigenze. Questo modello di business si
chiama freemium, e se ben calibrato è economicamente sostenibile.
1. Arscentia è un ciclo di conferenze organizzate dallo IED (Istituto Europeo di Design) di Venezia. Il
sito è http://www.arscientia.eu/
Capitolo 8
OGGETTI
Creative Commons
Da alcuni anni, è possibile notare su siti internet o su
materiale scaricato dalla Rete un piccolo logo formato da
due “C” racchiuse in un cerchio. È il logo delle licenze
Creative Commons, che permettono al proprietario di
un’opera d’ingegno di condividere la propria creazione
restando comunque tutelato. Le licenze permettono di
indicare quali diritti sono tutelati, e cosa è possibile fare con
l’opera cui sono applicate. In questo modo è semplice e
immediato capire che tipo di utilizzo si può fare di un’opera;
è anche possibile scegliere una via di mezzo tra Pubblico
Dominio e Copyright.
Creative Commons è un’organizzazione americana senza
scopi di lucro. Nel 2004 sono state pubblicate anche in
versione italiana, sul sito http://www.creativecommons.it.
Sulla homepage del sito c’è una spiegazione delle licenze:
“Le licenze Creative Commons offrono sei diverse
articolazioni dei diritti d’autore per artisti, giornalisti,
docenti, istituzioni e, in genere, creatori che desiderino
condividere in maniera ampia le proprie opere secondo il
modello ‘alcuni diritti riservati’. Il detentore dei diritti può
non autorizzare a priori usi prevalentemente commerciali
dell’opera (opzione ‘Non commerciale’, acronimo inglese:
‘NC’), o la creazione di opere derivate (‘Non opere
derivate’, acronimo: ‘ND’), e se sono possibili opere
derivate, può imporre l’obbligo di rilasciarle con la stessa
licenza dell’opera originaria (‘Condividi allo stesso modo’,
acronimo: ‘SA’, da ‘Share-Alike’).
Le combinazioni di queste scelte generano le sei licenze
CC, disponibili anche in versione italiana. Creative
Commons è un’organizzazione no profit. Le licenze Creative
Commons, come tutti i nostri strumenti, sono utilizzabili
liberamente e gratuitamente, senza alcuna necessità di
contattare CC per permessi o registrazioni”.
La stampa 3D
Dal 2009, Andrea aveva iniziato a interessarsi di un altro progetto: la
stampa 3D. Come abbiamo visto nella prima parte di questo libro, anche
questa tecnologia, esattamente come le macchine fresatrici o i suoi mobili in
cartone, si basa sul concetto di automatizzare i movimenti di una macchina.
In questo caso la macchina non taglia o fresa, ma deposita materiale
plastico fuso strato dopo strato. Andrea è affascinato da questa tecnologia, e
per parecchi mesi passa moltissimo tempo a leggere e a frequentare tutti i
forum presenti sul Web dedicati a questo argomento. Naturalmente il tema,
specie in Italia, è ancora un tema di nicchia; non esistono ancora i maker
space o i FabLab e la stampa 3D non trova spazio sui quotidiani o sui
media, nemmeno quelli dedicati alla tecnologia. Oltre ai forum, Andrea
frequenta e legge www.reprap.org e www.thingiverse.com. La prima è una
pagina wiki nata nel 2006 dove sono presentati tutti i progetti di stampanti
3D FDM open source, mentre il secondo è un repository di file stereografici
liberi e pronti per essere scaricati e stampanti, attivo dalla fine del 2008.
Dopo tante letture, e dopo aver sognato di stamparsi molti dei file che,
giorno dopo giorno, venivano caricati su Thingiverse, Andrea nel 2010
decide di comprarsi una stampante 3D FDM, probabilmente una delle prime
ad arrivare sul suolo italiano. Andrea compra negli Stati Uniti una
stampante Thing-0-Matic MakerBot in kit: “L’ho pagata circa 1000 dollari,
e l’ho ricevuta 4 mesi dopo l’ordine. Se non sbaglio era il maggio del
2010”.
Dopo averla assemblata, per tutto il resto del 2010 Andrea “gioca” e
sperimenta con la sua stampante. L’emozione è grandissima, ma Andrea
non poteva confrontarsi con nessuno in Italia: nel 2010 la stampa 3D era
davvero argomento per pochissimi, e anche sul Web praticamente tutto il
materiale disponibile era in inglese.
La prima Sharebot
Nonostante questa specie di isolamento, Andrea nel gennaio del 2011
decide di progettare e costruire una sua stampante. Come molte stampanti
FDM nate in questi anni, anche il progetto di Andrea parte da una base open
source. Tre mesi dopo, a marzo 2011 Andrea ha finito, tra le mani ha la sua
prima stampante 3D: la Share-Station costruita nell’officina dove lavorava e
pronta per stampare tutti i suoi progetti.
Nel frattempo, per fortuna, inizia a muoversi qualcosa anche in Italia:
nascono i primi blog sul tema, e a Torino e Milano anche i primi FabLab e
MakerSpace, luoghi dove la stampa 3D è assoluta protagonista. In
particolare, nell’aprile del 2011, alle Officine Grandi Riparazioni (OGR) di
Torino, durante le celebrazioni per il 150° dell’Unità di Italia, la rivista
Wired, all’epoca diretta da Riccardo Luna, con la collaborazione di
Massimo Banzi di Arduino, installa il primo FabLab in Italia. È solo un
laboratorio temporaneo, anche se da questa esperienza nascerà poi il
FabLab Torino, ma, quando Andrea viene a saperlo, va a conoscere chi ci
lavora per confrontarsi e per vedere quali macchine usano. Parallelamente,
anche nella più vicina Milano, si muove qualcosa, e naturalmente Andrea
ne viene subito a conoscenza: Andrea Maietta, Alessandro Graps e Paolo
Aliverti (l’autore di questo volume) iniziano le attività di Frankestein
Garage (vedi Capitolo 1), un laboratorio itinerante nato per la diffusione
della cultura maker nella città lombarda. Questa iniziativa è focalizzata
soprattutto sull’elettronica, e per questo Andrea scrive subito una mail ai
suoi fondatori richiedendo un incontro e alcuni suggerimenti per migliorare
la parte elettronica della sua “Share-Station”: questa si basa su una scheda
Arduino, e Andrea sente la necessità di progettarne e costruirne una
proprietaria, più aderente alle sue necessità. Tra lui e i fondatori di
Frankestein Garage (in particolare Paolo), parte una fitta corrispondenza di
mail in cui finalmente Andrea può confrontarsi direttamente con altre
persone che, proprio come lui, sono appassionati di open hardware.
Il progetto Share-Station però ormai ha fatto il suo tempo, e nel giugno
del 2011 parte il secondo progetto Sharebot: la stampante 3D Kiwi, una
macchina più strutturata con una scocca in d-bond, ottenuta con una tecnica
originale di taglio e piega, molto simile a quella utilizzata da Andrea nei
mobili in cartone. Anche nel caso di questa stampante Andrea continua a
lavorare e a confrontarsi via mail con Paolo.
Il progetto imprenditoriale
Per tutto il 2010, e praticamente tutto il 2011, la stampa 3D resta per
Andrea un progetto amatoriale, da portare avanti quasi come un hobby,
senza una vera e propria velleità imprenditoriale o di mercato. A cavallo tra
la fine del 2011 e l’inizio del 2012, le cose cambiano: lascia il lavoro
all’interno dell’azienda di frese, anche se continuerà a restarne
collaboratore, e inizia la sua avventura nel mondo della progettazione,
produzione e vendita di stampanti 3D.
Andrea mi racconta che, all’inizio del 2012, partecipa a un bando
regionale nato per aiutare i giovani imprenditori: lo vince, e inizia la sua
attività di prototipazione e costruzione di stampanti 3D in un angolo del
capannone di suo padre.
Nel frattempo, anche se solo timidamente, l’Italia inizia a interessarsi al
fenomeno stampa 3D: nascono i primi eventi, le prime conferenze e i primi
articoli sulle riviste dedicate a scienza e tecnologia. Inoltre la comunità di
maker e appassionati che inizia a emergere e aggregarsi; come conferma
Andrea: “Nel febbraio del 2012 ho avuto l’occasione di parlare alla
Fabbrica del Vapore a Milano, in zona Cimitero Monumentale. La sala era
piena, ma quello che mi colpì fu che nei giorni successivi all’evento, le
slide che avevo caricato sul SlideShare vennero visualizzate da quasi 3000
persone”.
Secondo Andrea questo era il segno che qualcosa stava cambiando. Non
si sbagliava.
Nell’aprile 2012, in occasione del Salone del Mobile di Milano, viene
invitato a parlare all’evento organizzato da Kaloob in un teatro milanese.
Per dovere di cronaca riporto qui l’intero articolo di Silvio Gulizia,
“Sharebot, una stampante 3D italiana. Presentata durante il Fuori Salone, è
stata creata un giovane comasco con l’aiuto del FabLab di Milano. Il costo?
Intorno ai 900 euro”, apparso prima sul sito web della nota rivista di
tecnologia Wired, poi sulla sua versione cartacea.
Tutti in fiera!
Oltre ad analizzare e capire meglio la tecnologia della stampa 3D e a curare
il sito e le relazioni con i clienti, Matteo imposta quella che sarebbe stata la
filosofia principe della Sharebot: presenziare a tutte le fiere e agli eventi
dedicati ai maker e all’innovazione. “Ad aprile 2013 siamo stati al Fuori
Salone di Milano”, racconta Matteo, “e tra la fine di maggio e i primi di
giugno dello stesso anno sono riuscito a ‘infilare’ una stampante Sharebot e
le nostre attività di comunicazione al Wired Next Festival, nel padiglione
presidiato dal FabLab Torino”.
Oltre agli eventi culturali e di divulgazione della cultura maker,
Sharebot inizia a presidiare anche le fiere di settore: “Nello stesso mese di
aprile 2013 siamo stati anche a Piacenza, a una fiera di tecnologia, dove io e
Arturo siamo venuti a conoscenza di 3D Italy, il printing store in Italia, e la
settimana dopo io e Andrea abbiamo contattato i responsabili che stavano
per partire con un’iniziativa di service e vendita di stampanti 3D a Roma.
Con loro ho iniziato subito un lavoro per strutturare una collaborazione e a
breve, 3D Italy è diventato il nostro primo rivenditore nella capitale”.
Oggi, Sharebot, grazie al lavoro di Matteo e alla tecnologia 3D che
propone, conta più di trenta rivenditori, sparsi praticamente in ogni regione
d’Italia, ed è anche presente in Russia, Belgio, Francia e Liechtenstein
(mercato svizzero, austriaco e tedesco). Oltre alle fiere e ai contatti sul
territorio nazionale, Matteo inizia a restituire ad Andrea e Arturo le analisi
che sta svolgendo sul mercato e sul target per le stampanti 3D: “Anche
parlando con gli altri colleghi in azienda, mi ero fatto l’idea che le
stampanti dovessero un po’ uscire dal mondo dei soli maker, quindi ho
proposto ad Andrea e Arturo che la nuova stampante abbandonasse un po’
del sapore grezzo e ruvido della Pro e della Kiwi per diventare un po’ più
patinata e friendly”. Mercato di esperti vs mercato consumer: la storia si
ripete sempre con le stesse dinamiche; anche se può sembrare un paragone
azzardato, questa operazione è molto simile a quello che successe a metà
degli anni Settanta alla neonata Apple Computer, quando Steve Jobs chiese
a Steve Wozniak di abbandonare il progetto Apple I, considerato da Jobs
troppo per hacker e smanettoni, a favore di un nuovo computer, l’Apple II,
più semplice da usare e più friendly. Come Wozniak, anche Andrea, su
indicazione di Matteo, sceglie di allargare il suo bacino di utenza e oggi la
nuova stampante Sharebot sembra già di largo consumo e non più il
prodotto tecnico per pochi esperti. “Naturalmente il settore dei maker per
noi è strategico”, aggiunge Matteo, “non solo perché è da lì che arriviamo,
ma anche perché siamo convinti che i maker sono i veri evangelizzatori,
capaci di sostenere e portare avanti tutta la rivoluzione della digital
fabrication”. Per questo motivo Sharebot propone anche stampanti
acquistabili in kit nei FabLab o nei Maker Space a prezzi più popolari e in
piena logica “Do It YourSelf”. Matteo conclude la nostra chiacchierata
raccontandomi gli obiettivi per il futuro: “La Sharebot mira a diventare
leader in Italia e anche in Europa, cercando di rappresentare al meglio il
made in Italy anche in questo nuovo campo innovativo. Nei prossimi anni
lavoreremo a questo, con passione e tenacia”.
Appendice A
IL MANIFESTO DEL CULTO DEL
FARE
Questo manifesto è stato scritto da Bre Pettis e Kio Stark in venti minuti
perché quello era il tempo a disposizione. È appeso nel garage di molti
maker, nelle stanze e negli uffici di molti startupper e imprenditori.
Sharebot Pro
Con l’entrata in commercio della stampante Sharebot NG, la produzione del
modello Pro è stata sospesa e le scorte di magazzino sono state esaurite,
quindi non è più possibile ordinarla.
Questa scheda tecnica serve sia come riferimento per chi possiede il
modello Pro, sia per testimoniare il cammino della società Sharebot e della
stampa 3D.
Altre informazioni, download alla pagina web:
www.sharebot.it/index.php/stampanti-3d/sharebotpro/
Caratteristiche principali
• Doppio estrusore
• Ugelli da 0,4 mm
• Stampa diretta da SD card
Figura C.1 − Stampante Sharebot Pro.
Elettronica e Movimentazione
• ShareBot Pro scheda madre: Mightyboard Rev. E
• Driver stepper con Vref automatico
• 5 stepper Nema 17
• 3 microswitch per la rilevazione del fine corsa
• Piano riscaldato con alimentazione indipendente (opzionale)
• Alimentazione universale separata per scheda madre e piano riscaldato
• Controllo integrato LED RGB per illuminazione interna del case a
seconda delle fasi di lavoro (opzionale)
Estrusori
• Temperatura massima 280 °C
• Filamento da 1,75 mm
• Ugelli da 0,4 mm
Software consigliato
• ReplicatorG con profilo Sharebot Pro già installato
• Slic3r (profilo)
Materiali utilizzabili
• Filamenti di ABS e PLA di diametro 1,75 mm
Meccanica
• Cuscinetti a ricircolo di sfere
• Guide di scorrimento di precisione diametro 8 mm
• Manicotti di scorrimento a ricircolo di sfere
• Struttura in compensato di qualità superiore tagliato a laser
• Particolari in acrilico tagliati a laser
Sharebot Kiwi-3D
È una macchina per hobbisti, maker o chiunque voglia esplorare e
conoscere fino in fondo i segreti della stampa 3D e voglia cimentarsi nella
costruzione e personalizzazione della propria stampante 3D.
Per le sue dimensioni, è pensata per essere una stampante da “scrivania”
i cui componenti possono essere montati con la stessa facilità e rapidità che
si avrebbe assemblando una scatola di cartone. La progettazione è stata
concepita e ingegnerizzata sia per la funzionalità della stampante, sia per
consentire un completo assemblaggio della macchina in poche ore.
Altre informazioni alla pagina web:
www.sharebot.it/index.php/stampanti-3d/sharebot-kiwi-3d/
Caratteristiche principali
• Scatola con kit di montaggio
• Scocca in acciaio inox
• Blocco estrusore con regolazione pressione su filamento
• Cuscinetti a riciclo di sfere su tutti gli assi
• Movimentazione asse Z con viti trapezoidali
• Piano di stampa regolabile
• Micro USB per aggiornamento firmware
• Possibilità di stampa diretta da SD card
• Pannello LCD di controllo integrato
• Area di stampa 100x140x100 mm
• Spessore minimo dello strato 0,1 mm
• Filamento utilizzabile da 1,75 mm
• Carter in plexiglass
• Ingombro 310x330x350 mm
Sharebot NG
È la terza generazione di stampanti 3D: ha un telaio d’acciaio e un estrusore
da 0,35 mm; la sigla “NG” significa “Next Generation”.
Altre informazioni alla pagina web:
www.sharebot.it/index.php/stampanti-3d/sharebot-next-generation/
Caratteristiche principali
• Scocca in acciaio inox
• Pannellatura in plexiglass
• Singolo estrusore
• Ugello da 0,35 mm
• Stampa diretta da SD card
• LCD con pannellino di controllo integrato
• Area di stampa 250x200x200 mm o 230x200x200 mm con doppio
estrusore
• Piano riscaldato con alimentazione indipendente
• Secondo estrusore (opzionale)
• Certificazione CE
Opzioni
• Secondo estrusore
Estrusore
• Massima temperatura 280 °C
• Filamento da 1,75 mm
• Ugello da 0,35 mm
Riferimenti bibliografici
Gli indirizzi di Rete indicati sono stati verificati al 15 maggio 2014.
Libri
Paolo Aliverti, 123D Design per la stampa 3D, Ed. Lulu.com 2014.
http://www.lulu.com/spotlight/zeppelinmaker
Maurice Philip Gould, Frank Hornby: the boy who made $1,000,000 with a
toy, Meccano Company, New York 1915.
Frank Horby è l’inventore del gioco Meccano.
Isogawa Yoshihito, LEGO Technic Tora no maki.
http://www.isogawastudio.co.jp/legostudio/toranomaki/en/
https://www.youtube.com/user/ISOGAWAYoshihito
Bre Pettis, Anna Kaziunas France, Jay Shergill, Getting Started with
MakerBot, Maker Media (O’Reilly Media Inc.), Sebastopol (USA) 2012.
Link
Chitarra acustica stampata in 3D.
http://cubify.com/blog/a-3d-printed-acoustic-guitar/
Filopat shoes.
http://www.thingiverse.com/thing:106979
Progetto OpenReflex.
http://www.instructables.com/id/3D-Printed-Camera-OpenReflex/
http://leomarius.com/blog
Progetto RepRap.
www.reprap.org
Thingiverse.
www.thingiverse.com
Wikipedia: RepRap.
http://it.wikipedia.org/wiki/Progetto_RepRap
Referenze iconografiche