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EPICO CAOTICO

VIDEOGIOCHI E ALTRE MITOLOGIE TECNOLOGICHE

1. Premessa

La tecnologia non è un mezzo che ci appartiene, ma un mezzo a cui apparteniamo. Trent’anni fa apparve lo
ZX Spectrum, uno dei primi computer a buon mercato. La sua creazione fu pensata in un momento storico
in cui si riteneva che l’alfabetizzazione informatica avrebbe trasformato le moltitudini in moltitudini di
programmatori. Purtroppo, rispetto al digitale quasi tutti siamo nella condizione di chi sa leggere senza
saper scrivere.

Il mondo che poi si è andato a crearsi è molto diverso da quello che si pensava. I nuovi media infatti hanno
modificato drasticamente gli spettatori, trasformandoli in prosumer, cioè persone che oltre ad usufruire dei
media preesistenti, tendono pure a modificarli a proprio piacimento.

Benjamin spiega il concetto di aura risalendo alle origini dell'opera d'arte, che prima di essere oggetto
estetico (valore espositivo) appare come oggetto di culto e di devozione (valore cultuale). Non solo opere di
culture primitive e antiche, ma anche oggetti come una pala d'altare rispondono a questa destinazione
originale. L'aura dell'arte espositiva conserva in qualche modo quella cultuale della manifestazione divina.
Senza l’aura un oggetto non ha valore estetico e culturale, ma diventa estranea.

Per biopolitica si intende quel potere che permette di controllare la vita dei singoli sotto ogni aspetto,
quindi determina la modalità di esistenza delle persone, poiché ha la capacità di mobilitazione e stimolare
la vita quotidiana dei singoli individui e conseguentemente del collettivo, invece prima il potere consisteva
nel poter dare la morte invece che la vita.

La coda lunga è un modo di dire per indicare la possibilità che hanno adesso i media digitali nel poter
diffondere un prodotto definito di nicchia e poter guadagnare per tanti prodotti di nicchia gli stessi soldi che
si potrebbero guadagnare con un solo prodotto importante di massa. Analogamente, Wikipedia, pubblicata
dagli utenti della rete, conta un grande numero di voci di bassa popolarità, che collettivamente generano
più traffico rispetto al numero limitato di voci molto popolari presenti in un'enciclopedia convenzionale.

La Coolness è un atteggiamento dei singoli o di gruppi sociali che determina un distacco delle situazioni. Da
un sovraccarico di stimoli emerge uno stimolo che non è una sorpresa ma qualcosa di stravagante e
piacevole. La coolness può essere vista come un surrogato dell'aura. Mentre l'aura si basa sul rapporto
lontananza/vicinanza da una cosa di esterno (un’opera d'arte ad es.); invece, mediante la coolness
l'individuo sperimenta una lontananza da sé stesso.

Cybertex è una nuova forma narrativa dove l’utente non solo deve leggere ma anche decifrare e
comprendere la logica che sta dietro all’informazione.

Ergotic è un richiamo alla complessità del reale replicata da una narrativa che propone alternative, scelte,
ragionamenti del lettore il quale diventa un giocatore.

Doublebind vuol dire che devi essere speciale, ma non puoi esserlo, e questo provoca un conflitto.

E-mmaginale è un termine che si distingue da immaginale. Immaginale infatti è un termine che preesiste
nell’immaginario collettivo. Infatti se pensiamo a un maghetto lo immagineremo con la cicatrice in testa e
se pensiamo a un vulcaniano lo immaginiamo con le orecchie a punta. Invece E-mmaginale si sovrappone
al mondo reale in quando le cose immaginate hanno una valenza reale nel mondo virtuale. Se prendiamo
un’armatura su WOW, di per sé è solo un disegno che non esiste nella realtà, ma che nel gioco ha una
valenza reale.

La forma simbolica è una struttura formale che per il fatto stesso di essere esibito esibisce uno standard, un
modo d'essere, una visione del mondo. Un esempio può essere la croce cristiana o il marchio dell'Apple che
non sono dei simboli vuoti, ma dietro c'è tutto un modo di vivere che influenza la persona nel suo essere.

La gamification è l'applicazione di dinamiche ludiche a prassi come quelle lavorative, della vita quotidiana,
del cibarsi e così via.

Mac Guffin è un concetto vuoto e quindi nullo su cui si possono costruire intere narrazioni ed eventi ma
sostanzialmente non significa niente.

Negli ultimi anni i nuovi media sono identificati come i media digitali e per Lev Manovic ne indica 5
caratteristiche:

· Rappresentazione numerica: cioè i tutti i media digitali sono composti da un codice


· Modularità:
· Automazione:
· Variabilità:
· Transcodifica:

Transmediale è un concetto che descrive l’esistenza di un determinato mondo (appartenente ai libri, film o
ai videogiochi) che viene trasposto in un altro media e che vive indipendentemente dal medium di
origine, vivendo storie parallele non interconnesse con quelle originali, come gli X-man che vivono storie
diverse e originali in ogni tipo di media in cui vengono rappresentati. C’è da differenziale con
l’adattamento, che invece vede un’opera passare da un medium all’altro raccontando la stessa storia,
esattamente come è accaduto con Harry Potter, nato originariamente come serie di romanzi, e poi
diventato una saga di film e in seguito di videogiochi, che raccontavano la stessa e identica storia.

2. Decostruzione di Babele

Confrontando due immagini eterogenee come una scacchiera e una biblioteca possiamo subito percepire il
legame che c’è tra di loro. Infatti entrambi sono delle discipline mentali, anche se la biblioteca si concentra
solo sul pensare e invece la scacchiera sul fare.

Gli scacchi sono una prassi al servizio d’una disciplina di concentrazione, e viceversa. La ricerca d’un simile
legame fra un fare e un pensare è un tratto tipico della tarda contemporaneità. Nel nostro caso, la
scacchiera appare come una struttura razionale che schematizza qualcosa d’estremamente ampio e
complesso. Una differenziazione semplice come bianco/nero fa poi da supporto alle proprietà specifiche dei
pezzi degli scacchi, quindi a numerosissime partite differenti.

Il legame è possibile trovarlo nel videogioco, che è il perfetto esempio tra fare e pensare, in quando premia
sia le azioni che i pensieri, permettendogli di progredire assieme.

La scacchiera è l’ambito d’un gioco, vale a dire di una sequenza di azioni; la Biblioteca è un repertorio di
interpretazioni. Il nostro compito è sia agire che interpretare.

In ogni caso i Libri e la Biblioteca sono un insieme di descrizioni. Tuttavia i nuovi media appaiono in grado di
superare i limiti del descrivere, in quanto forniti d’un potere creativo. I nuovi media producono.
Infatti laddove all’inizio Internet si presentava come un grande repertorio di materiali multimediali da
consultare, la nozione di Web 2.0 indica una rete di usi e di produzioni, in cui finisce col prevalere la
presenza di contenuti elaborati dagli stessi utenti.

Occorre notare la differenza fra prosumer qualunque, che esercitano questa possibilità solo con intenzioni
espressive e comunicative, e prosumer motivati, consapevoli di svolgere un’attività produttiva (ed esempio,
i produttori di fan fiction).

Non poche narrazioni rinviano a quest’ambito metaforico. Basti pensare a The Matrix (1999) o ai Borg di
Star Trek con la loro minaccia “La resistenza è inutile”. Inutile, perché saremo tutti assimilati nel grande
network.

L’esempio più lampante però è quello di Solaris, che racconta di un pianeta caratterizzato da un oceano in
grado di materializzare sogni e desideri inconsci. La metafora di Solaris è esplicita: l’oceano è creativo, non
propone soltanto l’esistente, bensì costruisce il possibile e quello che potrebbe definirsi il virtuale,
l’irrazionale.

3. Playing Class Hero

Un esempio di mondi virtuali esistenti oggi giorno è quello di World of Warcraft.

World of Warcraft (2004) è un gioco di ruolo online.

Playformer è colui che gioca, mentre toon è un modo corrente di indicare ciò che il playformer guida in
esplorazioni e in combattimenti; se è un personaggio spesso è indicato anche con altri termini, come avatar
o character. Nell’ambito della “cultura di World of Warcraft” ci sono alcuni toon famosi, tra cui Kungen.

Kungen conta numerosi fan, fra i playformer del gioco. Ma risulta evidente che in questo caso il rapporto
divo/fan si struttura in modi molto diversi rispetto a quanto accade nel campo dello spettacolo o dello
sport.

Il fan è legato al divo in primo luogo da una distanza. Il fan non potrà mai essere come il divo.

Nel caso delle star dei videogiochi bisognerebbe chiedersi che analogia sia possibile instaurare fra un
playformer e un prosumer, dato che il playformer non è il progettista del software, e dato che giocando non
si producono opere o testi, ma eventi. Il videogioco è un’attività fine a sé stessa, ma è anche l’esempio forse
più chiaro di sovrapposizione del tempo e del tempo della vita.

Un playformer gioca o sta lavorando per la ditta produttrice del videogioco? L’errore è chiamare “lavoro”
ogni forma di generazione di contenuto da parte degli utenti. L’operaio della conoscenza, traducendo
poesie o pubblicando foto, si troverebbe sullo stesso piano dell’operaio vero e proprio, come quello che gli
ha assemblato il computer.

Ci si identifica emotivamente nei supereroi oppure nei personaggi delle soap opera. Invece, ci si può
identificare operativamente nei tizi che popolano i reality, modelli di comportamenti effettivi. Chi guarda un
programma di cucina, potrà poi cucinare. Non diventerà chef, ma sarà sicuramente prosumer in cucina.

Il videogioco richiede l’accumulo di un’enorme mole di competenze. Conoscenze e abilità del tutto inutili al
di fuori dell’ambito dello stesso videogioco.

L’utilizzo diciamo così fine a sé stesso del capitale culturale può apparire una mera perdita di tempo, a
meno che quel sapere non abbia un prestigio sociale indiscusso.
Il neologismo prosumer usualmente indica un utente-produttore di materiali culturali creativi e
formalizzati. Il prosumer fotografo realizza fotografie, il prosumer scrittore scrive romanzi. Applicato
all’ambito dei videogiochi, tale modello chiamerebbe in causa gli appassionati capaci di produrre
videogiochi. Basti pensare al fenomeno delle patch e degli add-on, o alla moltitudine di mod più o meno
elaborate. Per non parlare dei machinima, video realizzati usando il cosiddetto motore grafico dei
videogiochi.

Ma una caratteristica essenziale del videogioco è il coinvolgimento performativo. Il videogioco non è solo
narrazione, spettacolo, configurazione multimediale, bensì è una narrazione che semmai diventa spettacolo
mediante l’intervento attivo del playformer. Il prosumer non è un artista, uno scrittore, un fotografo, ecc.
Essere professionisti in quei campi indica un modo di essere e di produrre che il prosumer nonostante tutto
non condivide.

Il playformer che si vanta sta tentando di costruirsi un’identità individuale, mentre il tifoso tende a
proiettarsi su di un’entità collettiva – una squadra, una città, una nazione, ecc.

La funzione simbolica d’un Kungen non è paragonabile a quella di calciatori o piloti famosi. Non è separato
da un’invalicabile distanza rispetto al fan. Il tifoso non scende in campo nella Champions League, mentre
qualunque playformer è nelle stesse condizioni di Kungen. Ogni playformer potenzialmente è una star.

4. Altri pianeti, altre vite

Come già detto prima, i Playformer utilizzano un Toon, cioè un avatar, esattamente come il film del 2009

Avatar (2009) narra l’incontro con un mondo alieno abitato da nativi d’una cultura differente da quella
moderna. In altri termini il film appartiene al genere Going native. Costretto a convivere con una
popolazione selvaggia, un occidentale si rende conto che i suoi valori sono relativi e perfino falsi, e di
conseguenza destruttura la propria appartenenza convertendosi alle abitudini di quella popolazione che
finisce con l’apparirgli come portatrice della vera civiltà. L’avatar di cui fa uso l’ex marine invalido Sully ha
una strana caratteristica: se l’umano stacca il collegamento, l’avatar si accascia. Non c’è fusione, c’è
controllo. L’avatar è davvero un avatar, ovvero è l’analogo del personaggio d’un videogioco, un toon.
L’avatar ibrido non vive se non quando siamo collegati a lui.

Una macchina materializza l’inconscio. In fin dei conti, siamo ancora noi umani i protagonisti della lotta fra
Io e Id. Ma al contrario, siamo forse anche noi umani a materializzare l’inconscio delle macchine?
Nonostante l’apparente somiglianza fra immagine artistica e tecnica, queste materializzano il loro
programma. Noi non siamo più i produttori, bensì gli esecutori, al più.

Gli apparecchi sono black box che meccanizzano questo pensiero a tal punto che in futuro gli uomini
saranno sempre meno competenti e dovranno affidarlo sempre più spesso agli apparecchi.

Non possiamo più dare il nome di progresso a questo sviluppo. Esso sembra andare avanti da solo, con una
motricità autonoma, indipendente da noi.

La razionalità inserita in una semplice macchina da cucire prende il posto dell’abilità, della capacità,
dell’attenzione della donna, che con l’ago e con il filo eseguiva in precedenza le medesime operazioni. Ora
questi movimenti risultano inglobati nella razionalità interna della macchina, in cui appaiono, letteralmente,
come spirito dentro la macchina.

L’inconscio delle macchine si manifesta senza manifestarsi nel dappertutto della modernità. È l’ambito
sterminato della tecnologia di cui sappiamo ben poco e che tuttavia sappiamo far funzionare. Non la
usiamo, conosciamo. Il toon non è solo un servitore, ma non è nemmeno un nostro alter ego. Infatti
possiamo immedesimarci in esso in maniera piuttosto limitata perché quando esso muore noi non
moriamo, quando esso fa azioni contro la legge noi non ne risentiamo, al massimo riusciamo ad
empatizzare con lui senza però mai sentirci veramente coinvolti con esso al 100 %.

Spesso le narrazioni di fantascienza giocano molto con il confine tra fantasia e realtà. Esempio tipico è
Donnie Darko (2001), in cui il protagonista vive due vite differenti, non si comprende se in diverse
sequenze, in sogno o in allucinazione. Analoga è la situazione con The Matrix e Il tredicesimo piano (1999),
orientati al racconto di ipotesi di vite “aumentate”.

La nozione d’una vita alternativa mediante il digitale per molti si associa a Second Life, che da un lato
impone, per accedervi, di mascherarsi assumendo un alter ego per poi entrare in uno spazio scenico.

Vivere un’altra vita può significare anche un tentativo di fuga, ricerca d’una compensazione nel sogno a
occhi aperti. Situazione rievocata ne L’età barbarica (2007) di Denys Arcand, in cui Leblanc è un Signor
Chiunque che afflitto da ogni stereotipo usualmente esibito di disastro dei tempi, reagisce fantasticando di
belle donne e di premi letterari, fino a prendere parte ad un gioco di ruolo medievale dal vivo. E qui il
protagonista scopre l’ambivalenza dei propri sogni: l’illusione di vivere altre vite surrogate, uscendo così da
un mondo squallido, non è che l’ennesima polpetta avvelenata che lo porterà ad una vita in campagna,
impegnata in lavoretti quotidiani, votandolo alla rinuncia.

Perché il medioevo? Le ambientazioni fantasy di tanti giochi di ruolo rievocano un Altrove pseudo-
medioevale, in cui la tecnologia è rimpiazzata dalla magia. Quel Medioevo sognato è un luogo in cui il
valore individuale di guerrieri e maghi trova il suo riconoscimento. L’antimodernismo va preso sul serio.
Una sua manifestazione privilegiata è la polemica contro l’arte contemporanea. Spesso viene sottolineato il
carattere antiumanistico della modernità: l’uomo appare obsoleto. Questo tema si trasforma spesso
nell’appello di una vita più semplice e naturale.

5. Gioco e mobilitazione della vita

Un metaverso è uno spazio tridimensionale all’interno del quale persone fisiche possono muoversi,
condividere e interagire attraverso avatar personalizzati.

Un metaverso sembra reclamare tutto il tempo a disposizione dell’utente. Tempo considerato secondo i
concetti di ripetizione, dinamica essenziale di un videogioco, e novità.

World of Warcraft è un gioco che nel 2005 in Europa, raggiunse un picco di 12 milioni di abbonati.
Evidentemente, fra ovvi alti e bassi, moltissimi playformer vi hanno cercato e vi cercano tuttora qualcosa
che giudicano importante. La vita all’interno del gioco fa della ripetitività la sua struttura portante. In primo
luogo si parla ovviamente della ripetizione dei combattimenti.

Quasi tutti i playformer di WoW vorrebbero essere accettati da una gilda di altissimo livello. La motivazione
pratica dell’appartenenza a una gilda è il poter accedere a dungeon, in cui si incontrano mostri molto
potenti (boss), impossibili da distruggere anche per un gruppo numeroso privo di coordinazione e che non
abbia l’adeguata miscela dei vari ruoli.

Fra le gilde c’è una dura competizione, sia sui singoli server che a livello mondiale, con classifiche, ecc. La
posta in gioco è un primato puramente simbolico basato sulle cosiddette first kill dei boss. In altri termini,
sull’aver imparato prima di altri come combattere in gruppo.

I boss sono mostri con un comportamento che è il risultato della scrittura del software e di conseguenza è
immutabile. Alla lunga, la reiterazione del loro modo d’attaccare e di difendersi li rende meno pericolosi.
Ma quante ore al giorno bisogna giocare? Di solito una gilda non particolarmente hardcore o pro effettua
raid da 3 a 5 volte per settimana, che durano dalle 4 alle 6 ore. Inoltre, per partecipare ai raid bisogna usare
dispendiosi potenziamenti effimeri, il cui costo costringe a trascorrere un certo numero di ore in farming: a
lavorare procurandosi minerali o erbe da vendere all’asta, o svolgendo missioni per guadagnare gold. Se
non si lavora non si mangia: se non si farma non si può raidare.

Insomma, la logica di WoW tende a colonizzare il tempo “24/7”; il tempo tende a manifestarsi come una
ripetizione di quando in quando interrotta dalla pubblicazione di qualche patch o d’una nuova espansione.

Un gioco come WoW diventa per molti playformer qualcosa di molto poco ludico. Si potrebbe sostenere
che esso sia un esempio di degamification, la trasformazione in attività seria di qualcosa che sembrerebbe
appartenere all’ambito di gioco. WoW appare caratterizzato da peculiarità proprie del modo in cui ogni
singolo deve strutturare la propria vita in relazione alle esperienze tardo moderne.

Di solito con “gioco” si indica un’attività separata da quella quotidiana, senza conseguenze irreversibili, fine
a sé stessa. Quanto ci interessa sottolineare è però il fatto che si tratta appunto di un’attività. Non è uno
spettacolo, bensì qualcosa che si fa. Il rapporto fra gioco e biopolitica non riguarda i contenuti delle vicende
eventualmente raccontate dai videogiochi. I videogiochi sono il caso più eclatante della nuova centralità del
gioco. La vita diventa una sorta d’attività ludica – con un gioco di parole, la vita sta diventando una forma di
intrattenimento della vita.

6. Invasori del tempo

I videogiochi potrebbero essere definiti “centauri digitali”, entità ibride tra uomo e macchina.

Tutti hanno giocato almeno una volta a Space Invaders, facendo fuoco contro quantità inesauribili di
astronavi ondeggianti. Il sistema di controllo del gioco è così semplice da diventare un automatismo, e gli
obiettivi sono così chiari che Space Invaders non poteva essere che un classico.

Va citato anche il primo esempio di console commercializzata, la Magnavox Odyssey di Raph Bear (1972).

Space Invaders non fu il primo videogioco, ma uno tra i primi ad attirare attenzione e monetine, con
macchinette ingurgitanti soldi con velocità direttamente proporzionale all’insufficiente abilità del giocatore.

I videogiochi implicano una prestazione. Occorre resistere, fare fuoco, ripararsi dietro scudi protettivi. Il
sistema di controllo diventa un automatismo – da molti punti di vista, il videogioco è più simile a uno sport
che a un film. Si determina un’analogia fra un’azione possibile nella realtà, cioè premere un grilletto
attivando un’azione; tuttavia l’analogia si infrange contro una barriera, quella che separa appunto il gioco
della realtà.

Non pochi ritengono probabile che il comportamento dei playformer possa poi imitare il videogioco.
Sarebbe allora da valutare se tale ipotetico feedback imitativo riguardi i contenuti proposti dai videogiochi
o le modalità di esecuzione. Sarebbe pericoloso un videogioco basato su vicende criminali come GTA, dato
il suo riferimento all’illegalità, oppure avrebbe una componente rischiosa anche l’esecuzione di giochi in
apparenza innocenti? Nel secondo caso, l’accento sarebbe posto non sui contenuti, bensì sulla ripetitività
coercitiva e alienante delle azioni.

D’altra parte, ci si può chiedere se debba considerarsi più pericoloso eseguire GTA o guardare un telefilm
come The Sopranos. I videogiochi sarebbero un rischio sociale proprio in quanto sono una pratica e non
soltanto uno spettacolo. Una risposta che ha come presupposto una nozione discutibile, ovvero quella
dell’identificazione del playformer nel personaggio che interpreta. Il videogioco sarebbe palestra di
comportamento coatto e sociopatico, di bullismo, di delinquenza diffusa. Capovolgendo i termini della
questione, si potrebbe però supporre che il videogioco sia potenzialmente un veicolo per contenuti
educativi orientati alla crescita della consapevolezza sociale e alla proposta di modelli di comportamenti
ritenuti approvabili se non virtuosi.

Il rapporto con la realtà può essere visto in modo del tutto diverso, il videogioco sarebbe un’attività
catartica, un modo per rilassarsi, scaricando le tensioni, e/o una compensazione, ovvero la sostituzione
d’una vita grama con uno scenario soddisfacente.

Ma esiste un altro modo di interpretare il rapporto del videogioco con la realtà: si può supporre che tale
rapporto in effetti non ci sia. I videogiochi sarebbero strumenti di un’attività fine a sé stessa.

La struttura di gioco di Space Invaders e il luogo in cui si poteva incontrarlo lo facevano apparire la
metamorfosi elettronica del flipper, con la differenza che in questi gli elementi potenzialmente narrativi
non erano finalizzati a veri sviluppi, ovvero a una conclusione. Non si vinceva, a flipper. Anzi, le partite non
potevano che concludersi con la sconfitta del giocatore. Lo scopo era resistere quanto più possibile. L’atleta
deve ottenere la sua prestazione migliore, che forse sarà per un po’ anche la migliore ottenuta da tutti gli
atleti in una data manifestazione o in un certo periodo. Cosa molto diversa è ovviamente il successo in una
situazione che preveda il raggiungimento d’uno scopo oppure la sconfitta d’un avversario. Insomma, un
centometrista nel suo tentativo di record in effetti non gareggia contro gli avversari bensì contro il tempo.

7. Racconti dei playformer

I giochi di ruolo alla giapponese (J-RPG) hanno distinzioni peculiari: distinzione tra ambienti da esplorare e
visualizzazione del combattimento e grande enfasi sul racconto. Proprio in un J-RPG, Final Fantasy VII
(1997), si trova una delle cutscene più celebri della storia dei videogame: il villain Sephiroth uccide Aerith. È
una scena cinematica che ha fatto versare lacrime a milioni di playformer. Durante una cutscene viene
tralasciata la prassi più usuale, e per un po’ il playformer si trasforma in spettatore: è il software a
raccontare, non è il playformer a far accadere qualcosa. Quando la componente spettacolare prende il
sopravvento, a volte si usa la definizione “film interattivo”.

Con la pubblicazione di Heavy Rain (2010) e Beyond: Two Souls (2013) il riferimento cinematografico tende
a prevalere, non solo per l’utilizzo di attori su cui si modellano i personaggi principali, ma soprattutto per
l’inusuale trattamento delle cutscene.

A differenza di Final Fantasy VII, però, non vi è un finale, bensì diversi. Le decisioni del playformer faranno
imboccare il percorso verso un finale o l’altro. Una successione di eventi incontrollabile sembra
inaccettabile a molti appassionati del videogioco. Qui si manifesta ancora una volta la centralità del
playformer: vuole essere “libero”, “sovrano”, vuole decidere.

La somiglianza fra narrazione e videogioco sembra particolarmente accentuata nel caso delle avventure
testuali (come Enigma (2001)), in cui la descrizione degli ambienti e delle situazioni è affidata alle sole
parole.

Si può supporre che il narratore sia il team di sviluppo. Nei videogiochi il racconto ha però come peculiarità
il fatto di restare inespresso, a meno che il playformer non compia specifiche azioni che fanno andare
avanti la storia. In un film l’eroe salverà la Terra anche se lo spettatore si addormenta.

Un’analisi della situazione effettiva mostra che spesso la vicenda raccontata dal videogioco interessa molto
poco ai playformer.

Alcuni studiosi sostengono che la peculiarità del videogioco escluda la narrazione. McLuhan sosteneva che
“Il medium è messaggio”; può sembrare quindi opportuno precisare cosa ogni dato medium sia.
Ma la specificità del videogioco probabilmente consiste proprio nella sua mancanza di specificità, in quanto
è una concretizzazione del metamedium, il computer.

Il videogioco è ibrido. Un’ipotesi è che la concreta composizione dei vari elementi sia relativa alla
prevalenza del playformer o dell’IDHE (Interactive Digital Hybrid Entertainment, di solito indicato con
l'insoddisfacente termine videogioco). Supponendo che il toon sia una mediazione tra i due, diremo che
talvolta i videogiochi sono progettati per mettere in risalto l’attività del playformer. Ci sarà allora una sua
mitizzazione. L’enfasi sull’IDHE determinerà invece un carattere narrativo più accentuato.

Apparentemente, il toon è protagonista. Ma in effetti durante la narrazione che si compie nel videogioco, i
barlumi di approfondimento psicologico presentati riguardano soprattutto le azioni del playformer. Non è il
toon ad avere un carattere, è semmai il playformer a fornirgliene uno, in certe occasioni simile al proprio, in
altre del tutto differente. Invece gli NPC (Not Playable Character) sono più frequentemente delineati come
personaggi in senso tradizionale. Per esempio possono essere dotati d’un passato e d’una personalità.

In altri termini, ci saranno molte Lara Croft impacciate e molte altre velocissime; tutte con stesso aspetto e
abilità (saltare, arrampicarsi, ecc.), ma ogni concretizzazione del personaggio sarà in effetti una replica
differente del toon, personalizzata dalle capacità e dalle intenzioni del playformer.

Il toon si pone come il punto di partenza d’un dispositivo narrativo, ovvero come matrice di determinate
possibilità di sviluppo.

8. Romanzi di informazione

È interessante notare due peculiarità tipiche dei giochi di ruolo alla Dungeons & Dragons. Una è la presenza
d’un allineamento etico, definito dalle combinazioni Legale, Neutrale e Caotico con Buono/Malvagio, l’altra
è l’esistenza di ambientazioni. Il playformer può scegliere l’allineamento di alcuni toon parlando con vari
NPC, formulando domande e dando risposte, di solito scelte fra 3-4 opzioni, di cui non sempre è possibile
comprendere subito l’implicazione morale. Planscape: Torment è senza dubbio uno dei videogiochi più
orientati allo status di simulatore di interpretazioni. Senza renderlo esplicito, il software assegna una sorta
di punteggio alle azioni del toon e alle scelte di dialogo. Quei punteggi a un certo momento collassano in
una modifica dell’allineamento, giudicando, per così dire, il modo in cui il toon si sta comportando e
conducendolo eventualmente a finali differenti.

Un simulatore di interpretazioni non produce necessariamente analoghi della personalità del playformer.
L’interprete non è chiamato ad aderire in modo spontaneo ed emozionale al suo personaggio. Non si
immedesima. Piuttosto è in azione una strutturazione complessa, mescolata di razionalità ed emozione, del
rapporto fantastico con una situazione ipotetica.

La stravagante “auto-epica” che si viene a creare è un inevitabile effetto collaterale dell’enfasi sul Singolo
come protagonista, anzi “eroe”. La tonalità consueta di questa “auto-epica” è la coolness.

Capolavoro annunciato d’uno dei più stimati progettisti degli anni Novanta, Jhon Romero, Daikatana (2000)
era atteso come il gioco che avrebbe rifondato il genere FPS, andando oltre i risultati raggiunti dallo stesso
Romero in Doom (1993), promettendo di aggiungere a Quake (1996) elementi da RPG, facendo sperare in
un’esperienza nuova e stimolante.

Una delle più diffuse tattiche di marketing riguarda infatti il cosiddetto hype, l’attesa spasmodica della
messa in vendita d’un prodotto. A tal proposito si consideri la differenza fra un trailer e una demo. Un
trailer anticipa alcune sequenze del film giudicate cool, una demo permette di eseguire un frammento di
videogioco, sperimentandone le peculiarità. Ma, grandi attese corrispondono spesso a grandi delusioni.
Nell’ambito del videogioco esiste un tipo di coolness che riguarda il videogioco, e un altro riguardante i
playformer. Il playformer può sentirsi cool se dimostra, con le proprie azioni, d’essere all’altezza della
provocazione lanciata dal gioco. Forse qui si manifesta il motivo d’un fenomeno altrimenti poco
comprensibile, vale a dire il legame fra gli sparatutto, gli effetti sempre più mirabolanti, e le richieste di
prestazioni hardware sempre più esose. Il playformer dello sparatutto domina una sorta di cavallo
imbizzarrito, hardware e software esagerato, e cool in quanto esagerato, quindi il playformer aspira a una
condizione cool – a costo, talvolta, di dover effettuare l’upgrade del PC o almeno della scheda video per
poter giocare. Il questa “provocazione”, il playformer sperimenta una relativa estraneità da sé stesso.

9. Di macchine e animali

Con quali materiali dovrebbe lavorare un mitografo odierno? Wolverine, forse il più popolare dei cosiddetti
X-Men, è un mutante caratterizzato da una componente ibrida. Forse il successo del personaggio dipende
dal sostanziale occultamento del suo essere composito. Wolverine ha artigli, forza e percezioni non umane,
oltre a uno scheletro d’adamantio che gli conferisce uno statuto macchinico, da cyborg. La componente
tecnologica integra e modifica i caratteri del personaggio del Lupo Mannaro.

I miti hanno pur sempre a che fare con disagi e aspettative. Qualcuno potrebbe perfino supporre che un
leitmotiv dei miti sia la felicità. I supereroi sono individui fuori posto, per definizione rosi da dubbi e
angosce, elementi primari della loro componente pseudo-mitica. Anche Wolverine è inquieto, in quanto la
sua infelicità è incrementata dai ricordi d’una lunga vita, determinata da una straordinaria capacità di
guarigione.

È una questione di durata. Ovvero la distinzione fra mortali, uomini e animali, e non mortali – in quanto non
viventi, essendo macchine. Wolverine appartiene per un verso all’ambito pseudo-mitico dei “paladini”, vero
mitologema dei nostri tempi, in quanto emblema del resistere.

Nelle mille pseudo-mitologie quotidiane, l’animale spesso fa segno all’illusione pacificata del rapporto
amichevole fra creature diverse, o all’altrettanto rassicurante certezza della distinzione fra Noi e Loro, le
bestie. L’animale come metafora post-felliniana o allegorica irrompe a spezzare il senso d’una normalità più
o meno opprimente. È il caso programmatico della Tigre in Vita di Pi (2012) o delle apparizioni e sparizioni
di animali in La grande bellezza (2013), o dell’opera video I Do Not Knot What It Is I Am Like (1986) di Bill
Volta, dedicata alla ricerca di barlumi della “coscienza animale” nell’umano.

Dagli uccelli di Hitchcock agli ibridi di The Hunger Games al Gatto con gli stivali, l’animale è una minaccia o
un aiutante, spesso magico. L’animale siamo o non siamo noi? Forse per questo l’insetto di La metamorfosi
di Franz Kafka risulta così perturbante, come materializzazione del sospetto che in effetti “Io è un altro”.

Tuttavia l’animale di solito sembra rinviare a un’idea di unità organica. Al contrario la macchina è pur
sempre una costruzione. E cos’è più ibrido e ambivalente dell’Entità messa insieme dal dottor
Frankenstein? L’Entità incarna appunto la condizione del montaggio, tipica della nostra arte
contemporanea e della nostra vita. Il mondo s’è trasformato in un’accozzaglia di frantumi, e scegliamo fra
quelli che ci sono disponibili per comporre un montaggio soddisfacente o almeno sopportabile.

10. Selfie e altri punti di vista

Nell’estate del 2013 si diffuse per qualche giorno la mania di pubblicare sui social fotografie di wurstel che a
una prima occhiata apparivano gambe abbronzate. Una cretinata. Quanto ci interessa è l’emergere d’una
specie di ossessione e la preoccupazione relativa alla sottolineatura del proprio punto di vista.
Qualche tempo dopo si diffuse la mania dei cosiddetti selfie, autoritratti con dispositivo portatile. Il proprio
punto di vista, delegato alla macchina, efficace materializzazione della vertigine quotidiana prodotta
dall’essere costantemente in rapporto con le macchine.

All’inizio dell’estate aveva suscitato una certa curiosità un trailer porno realizzato con Google Glass. Quel
filmato era uno sviluppo d’una modalità propria del porno odierno: l’operatore partecipa all’azione che va
filmando. Dato che in questo modo il punto di vista proposto dalla cinepresa è parzialmente sovrapponibile
a quello dell’operatore si finisce con l’ottenere qualcosa di diverso da uno spettacolo usuale.

Si determinava qualcosa di simile nel film Stange days (1995), in cui una droga elettronica registra e
riproduce ciò che è percepito da tutti i sensi, permettendo così di vivere sostanzialmente esperienze altrui.
È ormai diffusa la tendenza allo spostamento dal punto di vista da oggettivo a soggettivo, ovvero, la
prevalenza del punto di vista qualsiasi del Singolo qualunque.

Durante l’agosto del 2015 ha suscitato orrore la vicenda dell’assassinio in diretta di due giornalisti.
L’omicida ha organizzato il suo folle misfatto riprendendo il crimine in soggettiva, esibendo in modo
intuitivo e inquietante la prevalenza oggi diffusa d’un punto di vista individuale, disintermediato e perciò
immediato sebbene affidato a un medium.

La crisi della delega per così dire umanistica si determina in concomitanza con l’incremento d’una delega
tecnologica. Non ci fidiamo dell’occhio clinico del medico, ma delle sue macchine sì. Nella sua futilità, il
selfie è una testimonianza inequivocabile di questa connessione odierna: il mio punto di vista ripreso dal
mio macchinario.

Il videogioco può essere considerato la forma simbolica dell’enfasi sul punto di vista dei Singoli. Fatta
eccezione per le cutscene, le visualizzazioni dei videogiochi sono quasi sempre connesse al punto di vista
del toon, e quindi del playformer. La discontinuità nei videogiochi è semmai legata al passaggio da un
ambiente a un altro, cioè ripropone discontinuità non dissimili da quelle dell’esperienza comune.

11. Scatole blu

Una “scatola blu” è la rappresentazione di un’eterotopia. Una scatola blu può essere immaginata come
qualcosa in cui trova bizzarra sintesi il monolito nero di 2001: Odissea nello spazio – cioè lo spazio neutro
che per molto tempo è stato ritenuto l’unico adatto a ospitare oggetti significativi come le opere d’arte. È
qualcosa di totalmente pieno e allo stesso tempo un vuoto su cui può accadere qualcosa.

Dal punto di vista dell’aneddoto, la scatola blu è l’oggetto di snodo narrativo d’un film di David Lynch,
Mulholland Drive (2001). Il film è diviso in due: uno spensierato sogno hollywoodiano si contrappone a una
tragedia indicata come la realtà. Il film mostra che “le macchine ne sanno più di noi”. In questo caso, la
macchina è il film stesso. Sarebbe lecito chiedersi se si tratti della realtà degli umani o della realtà delle
macchine. Negli Esercizi di stile, Queneau si arroga il diritto di raccontare in novantanove stili differenti lo
stesso fattarello insignificante, adombrando così la superiore libertà d’un Soggetto che reinterpreta il reale
(e sé stesso) a piacimento. Lynch sembra invece rassegnarsi a una sorta di estraneità fatale dei due destini,
e ingaggia un combattimento con le due versioni del reale, industriandosi a metterle in simmetria,
nell’evidente consapevolezza che quanto più tenta di controllare e razionalizzare, tanto più le due macchine
narrative prendono il sopravvento.

Si sarebbe tentati di immaginare che Mulholland Drive sia la risposta all’eXistenZ (1999) di David
Cronenberg, che propone la storia d’una totale indistinguibilità fra il reale e un’allucinazione da videogioco.
L’interfaccia è innestata direttamente sul midollo spinale, l’illusione sensoriale è completa.
Ma Mulholland Drive, al contrario, discute del presente, della lotta in corso fra noi e la realtà delle
macchine – macchine che non sanno che farsene della nostra, di realtà, nemmeno per metterla in
discussione o confutarla. Le scelte di Lynch ricondizionavano il legame fra narrazione alta e trivialità da
pubblico del tutto inconsapevole. La strada percorsa era quella della superficie. C’è qualcosa di più
profondo di ciò che è superficiale? La superficie non occulta una scatola nera (come il monolito),
ricoprendola. I punti di passaggio, le scatole blu, sono soltanto i luoghi in cui tale identità appare più
evidente. Tutto è una scatola blu, in effetti.

Tony Scott è uno degli ultimi registi moderni. Si ha l’impressione che un segnale esplicito d’una delle
intenzioni di Scott sia avvertibile non in una sua regia, ma in un’impresa produttiva, Numb3rs. La premessa
della serie televisiva è tanto chiara da risultare persino meccanica: il mondo è caotico, ma il caos non è
assenza d’ordine, appare tale solo quando non si possiede la regola matematica che lo riconduce a
regolarità.

Il matematico Charlie fa diventare forza la debolezza, limitandosi a registrare che il mondo è così, che la
folla si comporta così, che in definitiva il così è così. La previsione retrospettiva tipica degli intrecci
polizieschi in Numb3rs diventa assolutamente razionale, ma razionale nel senso di riconducibile ad un
algoritmo.

Il mondo ha uno specifico caos, un caos che è tale solo per noi, in quanto non sappiamo ricondurlo a
ragione.

12. Miti-Wikipedia

The Artist (2001) mette in scena il conflitto fra un medium (il cinema sonoro) e un altro (il cinema muto).
Non stiamo guardando un film muto, bensì un film sonoro che rimedia un film muto. L’illusione che si tratti
d’un film muto deriva dall’assenza di dialogo (o meglio, dal fatto che questo non ci viene fatto sentire).
Tuttavia il film è caratterizzato da una pervasiva presenza della musica.

La questione della rimediazione è decisiva. Abbiamo consapevolezza del medium attraverso cui si
determinano gli eventi di cui facciamo esperienza? Prendendo ad esempio la pittura prospettica, notiamo
che questa propone apparentemente una visione analoga a quella naturale. Risulterà evidente che tale
illusionismo si basi su un complesso equilibrio fra sapere e non sapere. Un osservatore stupito dalla
prospettiva la metterà in risalto, mentre un osservatore consapevole la terrà in considerazione come caso
specifico d’un procedimento che conosce bene.

Nel cinema, nella sua forma più diffusa, viene usualmente abbandonato il presupposto d’un punto di vista
unico e immobile. Eppure tale procedimento appare ovvio al pubblico odierno.

La trasparenza propone pur sempre un’interpretazione; ma un’interpretazione che dissimula d’esserlo,


presentandosi come espressione diretta, cioè immediata (non-mediata), qualcosa di oggettivo.

Lyotard parla di idee “impresentabili”, nel senso che non è possibile illustrarle con un oggetto sensibile che
ne presenti un caso. L’estetica moderna permette che l’impresentabile sia messo avanti solo come un
contenuto assente, ma la forma continua a offrire al lettore o allo spettatore, grazie alla sua consistenza
riconoscibile, motivo di consolazione e di piacere.

In Ralph Spaccatutto, il buon cattivo Ralph si trova alle prese con la crisi con cui ogni Singolo è chiamato a
misurarsi. Nel suo universo narrativo qualcosa non funziona – perché funziona troppo bene.
In primo luogo bisogna comprendere che nel film essere buoni e cattivi non è affatto una questione di etica
ma è il risultato della divisione sociale del lavoro. Ralph è un working class hero, un proletario. È un buon
cattivo, solidale da Singolo coi Singoli.

A un certo punto, Ralph si ribella. Non desidera smuovere l’immobilismo dell’ascensore sociale, vuole
magicamente capovolgere la propria collocazione in esso. Vuole la “medaglia”.

La metafora è ancora una volta esplicita. Qual è la differenza essenziale fra questi personaggi e i loro fratelli
maggiori, cioè i giocattoli di Toy Story? Che i primi non hanno scopo. Mentre Woody, Buzz e compagni
agiscono per divertire i bambini, l’universo narrativo di Ralph è una landa desolata, wasteland, in cui ogni
specialista agisce solo per la funzione a cui è stato programmato.

Ogni Singolo è soltanto singolo, scagliato contro la piattezza della propria specializzazione che, se da un lato
lo mantiene in vita, dall’altro non lo soddisfa minimamente.

Cloud Atlas suscita reazioni complesse, legate all’intento di sostenere alcune tesi. L’uso di pochi attori,
truccati e distorti, vuole forse convincerci dell’esistenza d’un ciclo di rinascite e di reincarnazioni? Il film
vuole farci scoprire l’esistenza d’una connessione fra tutti gli esseri umani e tutte le loro vicende? L’uomo è
sempre lo stesso. Prevarica e talvolta si sacrifica, include in un “noi” crudelmente esclusivista e altre volte
accoglie il diverso, china il capo oppure si ribella. Questo sapere così alla buona e così ideologicamente
fragile si applica a sei storie estremamente differenti.

“Il Vecchio Marinaio, che aveva ucciso l’Albatro, comincia così il suo cammino di espiazione: rinunciando
all’odio e alla disperazione pur nel momento della massima disperazione.”

È questo il primo riferimento che riaffiora alla memoria, guardando Vita di Pi di Ang Lee. Il film ha qualche
tratto sconvolgente. Questa strampalata storia d’una storia ci mette di fronte a qualcosa che nessuno
potrebbe sperimentare, eppure parla di te, di noi. Dell’impotenza del Singolo che pure non si dà per vinto e
alla fine a suo modo trionfa sulla vastità e sulla potenza delle cose.

Il mito sarebbe la distanziazione, lo slittamento da qualcosa di insopportabile o di letteralmente non


raccontabile. Mitica sarebbe la giunzione fra quel non raccontabile e il racconto sopportabile che se ne fa.
Di conseguenza, il mito racconta qualcosa che non è mai avvenuto eppure non finisce d’accadere.

Il tema di Inception (2010) è il sogno della libertà. Come può, un Singolo, essere sicuro che quanto desidera
sia davvero il suo desiderio, e non il desiderio d’un altro o del Collettivo? In fondo, l’argomento esplicito del
film è l’innesto in un Singolo di un sogno che non ha sognato.

Nolan costruisce un opposto de La vita è meravigliosa di Capra. Il protagonista di quel film non può vivere il
suo sogno e scopre che l’unica realtà che ha vissuto è anche l’unica che avrebbe potuto vivere, si discute
dell’assenza del libero arbitrio. Mentre in Inception si squaderna una moltiplicazione degli orizzonti
d’eventi. Ma sognare tante vite significa essere liberi?

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